Polytropos. Due o tre cose che “forse” so di lui... Elementi joyciani nel cinema di Jean-Luc...

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www.turindamsreview.unito.it ___________________________________________________________________________________________________________ http://www.turindamsreview.unito.it 1 Polytropos. Due o tre cose che “forse” so di lui... Elementi joyciani nel cinema di Jean-Luc Godard. Luca Meloni Il saggio propone una lettura comparata di alcune opere dello scrittore modernista irlandese e del cineasta francese “capostipite” della Nouvelle Vague, sottolineando la complessità politropa della struttura formale dei testi in questione (sia letterari, sia cinematografici), le vicinanze poetico-ideologiche e gli intenti estetici comuni. Scrivere [di cinema] era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c'è solo una differenza quantitativa e non qualitativa 1 Jean-Luc Godard Quando, nel 1960, Jean-Luc Godard diresse il suo primo lungometraggio, À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960), la pellicola venne investita del ruolo di manifesto programmatico della “nuova” cinematografia europea, in aperta contrapposizione alla stagnante tradizione narrativa dell’industria statunitense. L'opera del regista francese godette sin dall'inizio di opinioni contrastanti, da parte della critica e del grande pubblico, e i suoi film vennero etichettati di volta in volta come innovativi, irritanti, ambigui, irrequieti, noiosi e scandalosi. In risposta all'opinione comune di oltre cinquant'anni fa, è facile oggi affermare che la lucida padronanza del mezzo cinematografico (sostenuta da un'acuta riflessione teorica sulle potenzialità della rappresentazione) legittimava l'autore a percorrere le vie dello sperimentalismo formale nel tentativo di trasformare radicalmente l'esperienza collettiva della visione, escludendo la componente più propriamente passiva che il cinema hollywoodiano classico aveva invece imposto e perfezionato per oltre quarant'anni. L'idea di base era chiaramente quella di nobilitare lo statuto della “settima arte” (e le capacità creazioniste dei suoi “artisti” e/o esecutori 2 ), lavorando sulle possibilità più avanguardiste e sperimentali dei codici espressivi del “sempre neo-nato” linguaggio delle immagini in movimento. Per raggiungere tale scopo si rivelava indispensabile sfruttare a 360° le risorse tecnico-dialettiche offerte dalla macchina da presa e stratificare i soggetti delle proprie pellicole, così da poter assicurare all'oggetto-film

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Polytropos. Due o tre cose che “forse” so di lui... Elementi joyciani nel cinema di Jean-Luc Godard. Luca Meloni

Il saggio propone una lettura comparata di alcune opere dello scrittore modernista irlandese e del cineasta francese “capostipite” della Nouvelle Vague, sottolineando la complessità politropa della struttura formale dei testi in questione (sia letterari, sia cinematografici), le vicinanze poetico-ideologiche e gli intenti estetici comuni.

Scrivere [di cinema] era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c'è solo una

differenza quantitativa e non qualitativa1 Jean-Luc Godard

Quando, nel 1960, Jean-Luc Godard diresse il suo primo

lungometraggio, À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro,

1960), la pellicola venne investita del ruolo di manifesto

programmatico della “nuova” cinematografia europea, in

aperta contrapposizione alla stagnante tradizione narrativa

dell’industria statunitense. L'opera del regista francese

godette sin dall'inizio di opinioni contrastanti, da parte della

critica e del grande pubblico, e i suoi film vennero etichettati di volta in volta come innovativi,

irritanti, ambigui, irrequieti, noiosi e scandalosi. In risposta all'opinione comune di oltre

cinquant'anni fa, è facile oggi affermare che la lucida padronanza del mezzo cinematografico

(sostenuta da un'acuta riflessione teorica sulle potenzialità della rappresentazione) legittimava

l'autore a percorrere le vie dello sperimentalismo formale nel tentativo di trasformare radicalmente

l'esperienza collettiva della visione, escludendo la componente più propriamente passiva che il

cinema hollywoodiano classico aveva invece imposto e perfezionato per oltre quarant'anni. L'idea di

base era chiaramente quella di nobilitare lo statuto della “settima arte” (e le capacità creazioniste dei

suoi “artisti” e/o esecutori2), lavorando sulle possibilità più avanguardiste e sperimentali dei codici

espressivi del “sempre neo-nato” linguaggio delle immagini in movimento. Per raggiungere tale

scopo si rivelava indispensabile sfruttare a 360° le risorse tecnico-dialettiche offerte dalla macchina

da presa e stratificare i soggetti delle proprie pellicole, così da poter assicurare all'oggetto-film

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un'esperienza pluri-livellare in sé “unica ed irripetibile”.

Come tanti altri cineasti del secolo scorso (Ejzenštejn, Hitchcock, Coppola, per citarne alcuni)

Godard lesse l’Ulysses di Joyce e ne rimase affascinato3. I fenomeni di ritorno dello scrittore

modernista sul primo cineasta della modernità si declinano, con modalità differenti, lungo tutta la

carriera del secondo: la riproduzione quasi cartografica della città di Parigi in Deux ou trois choses

que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei, 1967), il viaggio, l'impossibilità del ritorno e il canto

muto delle sirene in Le Mépris (Il disprezzo, 1963), il continuo altalenare dei toni, tra narrativo e

saggistico, in Week-end (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967) e l'eco

della tradizione, viva nel suo silenzio “urlato”, sullo sfondo di una contemporaneità sorda e alienata

in Nouvelle Vague (id., 1990) sono solo pochi, per quanto notevoli, esempi della complessa

dialettica camaleontica e multiforme che sottende l’intero cinema godardiano.

Proprio come l'Odisseo polytropos di Omero, infatti, politropo è lo “scheletro audio-visivo” dei testi

filmici in questione, spesso rimontati di paese in paese e stravolti ideologicamente per venire

incontro al pubblico destinatario4. La natura di tali operazioni affonda le proprie radici, da una

parte, nella falsa credenza dei mestieranti di «essere di fronte a dei prodotti improvvisati e

costituzionalmente non finiti»5, estremamente adattabili, quindi, alle esigenze dei differenti mercati

nazionali e al gusto degli spettatori ma, dall'altra, rivela una spiccata predisposizione alla re-

interpretazione combinatoria dei testi in questione, riconoscendo alla forma un ruolo cognitivo

prioritario per la ricostruzione dei sensi innescata dalla successione delle immagini “catturate”.

L’importanza affidata consapevolmente alla componente (registica e recitativa)

dell'improvvisazione avvalora ulteriormente questa tesi, e a lei si lega inscindibilmente durante tutto

il periodo di lavorazione (dall'idea al final cut) del film.

Cerchiamo di chiarirne i procedimenti standard servendoci di un caso esemplare: la sceneggiatura

“ufficiale” di À bout de souffle, costituita da sole 43 pagine, non conteneva al suo interno alcuna

specificazione riguardo le singole sequenze o i movimenti degli attori all'interno degli spazi scenici

ma solo dei piccoli accenni, degli schizzi generici che sarebbero poi stati modificati dalle

circostanze occasionali in sede di ripresa (per questo motivo è da considerarsi molto più vicina al

“primigenio” soggetto cinematografico, proteiforme per sua stessa natura, che allo statico e

definitivo script “classico”). Godard scelse per tutti i suoi film una direzione artistica anomala,

cercando di arricchirli continuamente con preziosismi solo in apparenza casuali, con dei taglienti

effetti di presa diretta, di “vita sorpresa in atto” («la regia è la vita e», contemporaneamente, «la

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riflessione sulla vita»6), fino al punto di trasformare l'intera produzione in un'enorme “performance

collettiva”, dove qualunque apporto esterno poteva acquistare diritto di cittadinanza all'interno del

disegno di partenza. Un abile «pittore delle lettere»7, come amava definirsi, un artista poliedrico

estraneo ai canoni dell'industria cinematografica capitalista che, notoriamente restia a comprendere

il valore di un’arte senza guadagno, ne respinse con veemenza le opere, escludendole dai circuiti

commerciali internazionali per tutto il decennio che seguì alla feroce critica al sistema di Week-end.

Durante questo periodo, approfondì i suoi studi di estetica sul cinema e si avvicinò alla letteratura,

decidendo di trasformare alcuni suoi film in libri e sovvertendo, in tal modo, uno degli assiomi su

cui si era da sempre fondato il rapporto tra le due arti8. Come sottolinea Marco Conte, il desiderio

mai nascosto di Godard,

era quello di poter pubblicare un romanzo. Questo desiderio, probabilmente, lo spinge a trasformare alcuni suoi film in libri, nei quali vengono citate le frasi dei suoi lavori cinematografici in ordine sparso e senza punteggiatura. Con tale procedimento sembra voler ribadire il fatto che di fronte alle citazioni non bisogna porsi come primo problema quello di identificarne l'origine ma comprendere che queste sono i materiali di un discorso nuovo in cui l'autore è oramai un altro9.

Esattamente come in Ulysses, ci troviamo di fronte ad una tradizione che si configura come “arte

rinnovata”10 (più un richiamo virile che una nostalgia), ad una creazione nuova che prende le sue

mosse dal passato ma che, contemporaneamente, lo dissimula e lo nasconde al suo interno

attraverso un continuo gioco di stratificazione, riciclaggio e amalgama dei materiali che,

inevitabilmente, modificano il punto di partenza e lo rendono “altro”, aprendo dei varchi, nella

sceneggiatura come nelle immagini sullo schermo, e degli spazi fisici anomali, «meravigliosi»11,

per dirla con D'Annunzio, ed estremamente metamorfici12. Le opere filmiche di Godard non sono

interpretabili se non attraverso un approccio retrospettivo, lo stesso «retrospective arrangement»13

del romanzo joyciano e dell'Odissea omerica: nella moltiplicazione delle prospettive (che, ancora

una volta similmente, incorporano l'antico ed il moderno, l'epico e il comico, in una vera e propria

«Odyssey of styles»14) è interamente compito dello spettatore ricostruire il senso di un'arte talmente

ricca da “essere sempre al tempo presente”15 e, proprio per questo, erroneamente etichettabile come

caotica o vagamente dotta (è, semmai, più vicina a quella che Vincent Pinel chiama «arte dello

schizzo, dell’allegra improvvisazione e dell’atmosfera del tempo»16). La componente più ardita e

trasgressiva del suo cinema teorico è ammortizzata stilisticamente dal rigetto per tutte (o quasi) le

pseudo-regole della regia classica: l'uso sconsiderato del jump cut, in sede di montaggio, strania

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costantemente l'occhio dello spettatore e lo confonde; il

ricorso sistematico alla pellicola fotografica sfoca i contorni,

talvolta eliminandoli completamente; l'illuminazione è spesso

ridotta al minimo o addirittura inesistente; i movimenti di

macchina tendono a limitare il più possibile il découpage

classico, preferendo, invece, lunghi piani-sequenza in

profondità di campo; la giustapposizione di obiettivi differenti e la predilezione per il grandangolo

modificano le proporzioni del reale proiettando sullo spazio le sensibilità, i dubbi e le paure dei

personaggi; ad ultimo, il “dialogo univoco e chiarificatore” del cinema narrativo americano viene

esiliato e sostituito dalla parola “oscura” (un «active element»17 spesso privo di qualsiasi

giustificazione esterna) e dal suono “allusivo”18.

Dall'unione e dal contrasto, inteso in termini ejzenšteniani, di immagini e parole/suoni nasce il

lirismo delle poetiche degli enfants de la Nouvelle Vague, la cui condizione primaria di esistenza

(per se stessa necessaria e sufficiente) è da ricercarsi in una sorta di “cortocircuito cognitivo

sonoro” (che muove i suoi passi analogamente al montaggio concettuale), dove ogni parola

pronunciata (ed ogni suono, sia esso àcusmatico o deàcusmatizzato) rinvia, sistematicamente e

quasi impercettibilmente, a qualcos'altro, travolgendolo e inglobandone il significato, o i molteplici

significati, in maniera non univoca. Godard lavora in maniera analoga sulla voce off narrante e

modifica radicalmente, e in egual misura, sia il ruolo del narratore tradizionale sia quello della

narrazione in senso lato, avvicinandosi idealmente alle sperimentazioni letterarie degli anni venti. In

un luogo non identificabile a cavallo tra il diegetico e l'extra-diegetivo, il narratore scende al livello

di una figura evanescente, a tratti secondaria19, atta a svolgere il compito di introduttore della storia

e di collegamento contrappuntistico tra le sue parti20. È una voce che diviene imprevedibile,

obbligata di volta in volta a darsi un'individualità che non le appartiene (sono i personaggi a

orchestrare la performance) e, continuamente in bilico tra l'onniscienza e la soggettività, è

riconoscibile più come un pensiero “eternamente monologante” (la cui fonte indistinta, nel film,

riflette il disordine sonoro del reale, di lui noncurante) che come un personaggio vero e proprio.

Nel campo dell'intertestualità, dunque, il discorso di Godard si articola su un doppio livello: da una

parte il dialogo reversibile tra due forme d'arte strettamente connesse e complementari, dall'altra,

invece, una sorta di opposizione, di “irreversibilità concettuale”, interna ai testi ma,

paradossalmente, indipendente da loro, irreversibilità che, con gli anni Novanta, troverà la sua più

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lucida e matura teorizzazione nell'uso della “citazione narrativa” di Nouvelle Vague. A parole,

l'opera non affascina né per l'intensità della trama né tanto meno per l'originalità dell'intreccio (il

personaggio di Alain Delon non è certo il primo, nella storia del cinema, a vivere due volte). Cosa

la rende, allora, una pellicola così drammaticamente suggestiva? Cosa si nasconde dietro l'apparente

atteggiamento intellettualistico di straniante impenetrabilità? Senza alcun dubbio, la volontà

superomistica, marchiata dall'esterno dentro ogni inquadratura e ovunque riconoscibile perché

esplicitamente dichiarata, di trasmettere un sapere enciclopedico e universale al di là di tutte le

immagini filmate e della prevedibilità del racconto. Godard dirige un film che si riassume alla

perfezione ne Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza ma, al posto dei lavoratori (coinvolti in una

dissolvenza incrociata quasi nevrotica), la folla che segue il regista non è altro che lo schieramento

militare degli artisti più illustri di tutti i tempi. L'apparato citazionista è talmente vasto da non poter

essere più riconoscibile nella sua interezza (un mitomane parigino, secondo un aneddoto piuttosto

conosciuto, giura di aver contato 361 riferimenti tra fonti letterarie, musicali, pittoriche e

cinematografiche) ma l'intento del regista, rilanciato per tutta la durata del film da un meccanismo

cannibalico e antropofago di accumulo continuo (e potenzialmente infinito), vuole essere questo sin

dall'inizio, vuole portare, cioè, il suo spettatore a non preoccuparsi dell'identificazione dell'una o

dell'altra fonte quanto, semmai, a comprendere che esse, fondendosi, sono diventate i materiali

fluidi di un discorso “sinestetico” innovativo in virtù della sua “mancata originalità”. Per questa

motivazione guardare un film come Deux ou trois choses qui je sais d'elle ricorda la prima lettura

dell'undicesimo episodio dell'Ulysses (“Sirens”) e lascia lo spettatore frastornato davanti al potere

dei suoni più disparati che attaccano senza sosta la sua immaginazione: accanto ai rumori della città

(il traffico, i lavori di ristrutturazione urbanistica, gli schiamazzi dei mercati di quartiere, gli squilli

continui dei telefoni), che la esaltano «as an open air theatre and a museum of the forms of modern

life»21, è la voce umana, con tutte le sue varianti, la vera protagonista della giornata, una voce che fa

da cornice all'opera e che anima e definisce lo spazio fisico della vicenda. In poco meno di novanta

minuti, Juliette Jeanson (allo stesso momento madre, moglie e prostituta, personaggio privilegiato

di una condizione congenita alla civiltà dei consumi) rapisce lo spettatore voyeur modulando

continuamente il tono e la cadenza della sua voce, spesso bisbigliando appena le battute, altre volte

spezzandole senza ragione (rinviando indirettamente ad un'intimità in cui non ci è concesso di

penetrare), altre volte ancora sono le stesse battute ad essere coperte integralmente dagli àcusma

invisibili che circondano il personaggio (con la stessa modalità con cui viene occultato il peto di

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Bloom in “Sirens”). Seguendo una perfetta traiettoria iperbolica, concepita nella sua complessità a

partire da un'inchiesta apparsa su Le Nouvel Observateur, l’ultima scena del film mira a raggiungere

il terreno dell’ipnosi. Non è errato affermare che il lungo viaggio del ritorno a casa (che è,

nuovamente, «un viaggio ma anche una meditazione sul viaggio»22) si configura, sullo schermo,

come una sorta di richiamo oscuro che la protagonista lancia allo spettatore, invitandolo a seguirla

in una Parigi tragica e irta di pericoli, una «cronaca di pietra»23 deformata dal tempo ma percorsa in

profondità da una misteriosa “polifonia urbana”, costante fino alla monotonia eppure, allo stesso

tempo, incessantemente mutevole. E se Joyce in “Proteus” poteva far confessare a Stephen, in

merito alla metempsicosi, «God becomes man becomes fish becomes barnacle goose becomes

featherbed mountain»24, Godard si “limita”, invece, a giocare con le didascalie sull'incertezza

semantica del termine Elle, affermando sin dal trailer:

apprenez en silence deux ou trois choses que je sais d’elle. Elle, la cruauté du néo-capitalisme. Elle, la prostitution. Elle, la région parisienne. Elle, la salle de bains que n’ont pas 70% des Français. Elle, la terrible loi des grands ensembles. Elle, la physique de l’amour. Elle, la vie d’aujourd’hui, Elle, la guerre du Vietnam. Elle, la call-girl moderne. Elle, la mort de la beauté humaine. Elle, la circulation des idées. Elle, la gestapo des structures.

Il tema del viaggio (e del mancato ritorno) non era estraneo alla filmografia dell'autore che, pochi

anni prima, con Le Mépris, aveva già sfidato gli assiomi della classicità e compiuto il tentativo più

estremo di riscrittura dell'Odissea che il cinema avesse mai conosciuto. Nato come trasposizione del

romanzo moraviano omonimo, il film si discosta dalle tematiche dell'originale per accogliere al suo

interno il senso più intimo della bellezza moderna (quella stessa «mort de la beauté humaine», qua

circoscritta a coordinate temporali molto precise) e perseguire un ragionamento di estetica sui valori

della propria alienante contemporaneità. Scriveva Joyce, nel primo capitolo del nostos

(“Eumaeus”), con una prosa tutt'altro che rilassata: «the eternal question of the life connubial […].

Can real love, supposing there happens to be another chap in the case, exist between married folk?

Poser»25. È, ancora una volta, il potere implacabile e distruttore del “terzo amante” (una sorta di

“genere neutro millenario” interno al rapporto coniugale) che mette in moto il plot del film: al

centro della vicenda troviamo Paul Javal, uno scrittore ingaggiato dal produttore cinematografico

Prokosch affinché salvi dal disastro commerciale una presunta trasposizione cinematografica

dell'Odissea, da lui finanziata e affidata al genio del celebre regista tedesco Fritz Lang. Camille, la

moglie di Paul, è una donna estremamente fragile e involontariamente seducente. Lui non si accorge

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o, preso dalle sue faccende, finge di non accorgersi, delle attenzioni che Prokosch ha per lei:

Camille è dapprima molto seccata, poi decisamente disgustata dell'atteggiamento del marito.

Quando gli rivelerà tutto il suo disprezzo sarà ormai tardi e, allontanandosi in macchina con il

produttore, morirà in un incidente stradale tra i suoni assordanti dell'autostrada italo-francese.

Girato interamente con il cinemascope per far risaltare la claustrofobia del rapporto tra i due

protagonisti, la sceneggiatura è un “gioco di specchi”26 tra due persone che si guardano e si

giudicano in continuazione, per essere poi guardate e giudicate a loro volta dall'occhio della

macchina da presa (simbolicamente rafforzata dalla presenza di Fritz Lang, che interpreta se stesso).

Il senso dell'intera operazione è esplicitato in un'intervista di poco posteriore all'uscita della

pellicola:

A ben riflettere, oltre che la storia psicologica di una donna che disprezza il marito, “Le Mépris” mi appare come una storia di naufraghi del mondo occidentale, di scampati al naufragio della modernità, che sbarcano un giorno, come gli eroi di Verne e di Stevenson, su un'isola deserta e misteriosa, il cui mistero è inesorabilmente l'assenza di mistero, cioè la verità. Mentre l'Odissea di Ulisse era un fenomeno fisico, io ho girato un'Odissea morale: lo sguardo della macchina da presa su dei personaggi alla ricerca di Omero al posto di quello degli dei su Ulisse e i suoi compagni27.

Il film è, quindi, il racconto di «un'Odissea morale», di una cronaca dell'uomo occidentale, naufrago

della modernità, e della scoperta di una nuova terra. Godard sorvola, molto probabilmente in

maniera volontaria, sull'impossibilità del ritorno in patria. L'errare di Paul sull'isola di Capri, nella

parte finale, ricorda il girovagare di Bloom per le vie di Dublino: in entrambi i casi il viaggio

rappresenta un errare per tutta la molteplicità28 del cosmo (o del chaosmos), un viaggio che è messo

in moto distrattamente da una forza centrifuga incontrollabile e che attraversa, sulle pagine del

romanzo così come sulle inquadrature del film, l’intera esperienza umana, facendola coincidere con

quella individuale dei protagonisti. In maniera molto simile, i due non rivedranno la loro “Itaca” ma

soltanto una ricostruzione mentale della propria “patria natia” e, forse, proprio per questa

motivazione non la riconosceranno o, peggio, non vorranno riconoscerla.

Al limite estremo del viaggio, il film termina con un ultimo

assordante suono che echeggia come un’invocazione

perentoria al silenzio. Anche il linguisticamente debole

(seppur trionfante) «Yes» di Molly, alla fine del romanzo

joyciano, viene negata (la stessa Camille/Penelope/Molly è

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costretta a sparire nel mutismo) e all'uomo Paul/Ulisse/Bloom non rimane che lo spazio del “non-

suono”, un grido soffocato dall'interno, un ipotetico àcusma “afono” nascosto nell'animo umano a

cui è affidato il compito di ricordare il pericolo insito nel labirinto del linguaggio. L'urlo disperato

dell'uomo moderno, costretto dal tempo a rinunciare agli alti valori eroici del passato per accettare

mestamente la propria dolorosa medianità.                                                                                                                          

1 Cit. in Farassino, Alberto, Jean-Luc Godard, Milano, Il Castoro, 1974, p. 3. 2 Scrivevano, pochi anni più tardi, Roy Huss e Norman Silverstein: «the cinéaste – as the French call the moviemaker

– is comparable to a sculptor, a painter, a composer, or a poet. He sets the terms for his material and accommodates it to his medium. The resultant film that is his work derives from his vision as an artist. In James JoycÈs “Portrait of the Artist as a Young Man”, Stephen Daedalus says that the artist, “like the god of creation, remains within or behind or beyond or above his handiwork, invisible”. The history of film offers a grand catalogue of such artists: Méliès, Porter, Ince, Griffith, Chaplin, Dreyer, Stroheim, Pabst, Murnau, Eisenstein, Lubitsch, Sternberg, Clair, Ophuls, Renoir, Hawks, Ford, Kurosawa, Bergman, Hitchcock, Fellini, Antonioni, Resnais, Rossellini, Godard, and many others» in Huss, Roy & Silverstein, Norman, The Film Experience. Elements of Motion Picture Art, New York, A Delta Book, 1968, p. 38. È «from his vision» che, almeno in astratto, il cinema prende una forma (in tutto questo esiste anche una percentuale “individualista” ed “egocentrica” non indifferente, tipica di tutti gli artisti e non solo di quelli cinematografici, che, come ci ricorda Cocteau, «fanno sempre il proprio autoritratto. Un pittore può dipingere un'acciuga con la forchetta, un paesaggio, un ritratto di donna o di zuavo, si tratta sempre del suo autoritratto. Non diciamo mai “ecco una santa vergine”, ma “ecco Raffaello”. Non diciamo mai “ecco degli anemoni”, ma “ecco Renoir”» in Cocteau, Jean, Dialoghi sul Cinematografo, Milano, Ubulibri, 1978, p. 114). Notava Villain, infatti, «che inquadrare è scegliere. Selezionare, mettere in evidenza gli elementi significanti, quelli che lo spettatore deve individuare» cit. in Rondolino, Gianni & Tomasi, Dario, Manuale del Film. Linguaggio, Racconto, Analisi, Torino, UTET, 1995, p. 51. Costruire un'inquadratura è sempre un esercizio creativo perché chiama obbligatoriamente in causa una rielaborazione individuale di tutto ciò di cui si dispone («la macchina da presa è un occhio. E un orecchio. Registra a seconda della posizione in cui viene messa», diceva a ragione Orson Welles [in Bogdanovich, Peter, Io, Orson Welles, Milano, Baldini Castoldi, 1993, p. 47], dove per occhio dobbiamo intendere, completando la citazione con le parole di Cocteau, «quello più indiscreto ed impudico di tutti» [in Cocteau, Jean, op.cit. p. 57]) ed un'organizzazione dello spazio che si rivela per forza di cose personale (banalmente, ogni inquadratura risponde, sia qualitativamente che quantitativamente, alle domande: “che cosa voglio filmare?” e “come lo voglio filmare?”) e, chiaramente, non oggettiva.

3 È lo stesso Godard a citare Joyce come suo diretto antecedente all'interno di una lettera: «ho avuto un'idea per un romanzo. Non scrivere più la vita della gente...ma soltanto la vita, la vita da sola. Quello che c'è fra la gente, lo spazio...il suono, i colori. Bisognerebbe giungere a questo. Joyce ha tentato ma si dovrebbe poter far meglio», in Farassino, Alberto, op.cit. p. 74.

4 Esemplare, a tal proposito, il caso della versione italiana di Le Mépris, a cura del produttore Carlo Ponti: la pellicola venne interamente doppiata e la colonna sonora sostituita, molte sequenze ri-montate in maniera lineare, censurate, tagliate e ridimensionate al punto da spingere Godard a rinnegarne la paternità.

5 Michel, Marie, La Nouvelle Vague, Torino, Lindau, 2006, p. 17. 6 Farassino, Alberto, op.cit. p. 27. 7 Farassino, Alberto, op.cit. p. 19. Godard ritrova, in questo senso, un illustre predecessore nella figura di Jean

Cocteau, che affermò per primo: «io sono un disegnatore. È naturale per me vedere e sentire ciò che scrivo, dargli una forma plastica. Quando giro un film, le scene che dirigo diventano ai miei occhi disegni in movimento, “mises en place” pittoriche» tese a facilitare il “fantasticare appagante” della visione cinematografica, «mostrando le cose invece di suggerirle», in Cocteau, Jean, Dialoghi sul Cinematografo, Milano, Ubulibri, 1978, p. 54.

8 Tenderà in seguito a staccare in maniera molto netta cinema e letteratura, nell'assoluta convinzione dell'autonomia del primo: «ciò che è filmato è automaticamente diverso da ciò che è scritto, dunque originale. Non è necessario cercare di renderlo differente, di adattarlo alle esigenze dello schermo, basta filmarlo, tale e quale: soltanto filmare

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ciò che è scritto, press'a poco, dato che se il cinema non fosse prima di tutto film, non esisterebbe. Méliès è il più grande ma, senza Lumière, sarebbe rimasto nella totale oscurità», cit. in Michel, Marie, op.cit. p. 63.

9 Conte, Marco, Jean-Luc Godard, il pittore in lettere, pubblicato on-line sul sito www.ondacinema.it. 10 Si tratta, in sostanza, «di una tradizione che si rinnova pur nella ripetizione dello stesso, a partire dalla

rivivificazione di racconti le cui potenzialità sembrano ormai esaurite, e che tuttavia sono continuamente risuscitati dall'intenzione di costruire “sempre un nuovo senso”», (Marengo Vaglio, Carla, "Esilio, peregrinazione, personaggio: Ulisse, Sinbad, Bloom", in F. Marenco (ed.), Il personaggio nelle arti della narrazione, Roma, Edizioni di storia e letteratura, p. 144) o, in ugual misura, di un tentativo estremo di «prefigurare la scelta di una propria continua erranza tra le tradizioni, che sono destinate a giustapporsi, e ad autoannullarsi come singole identità, nel disegno di un'opera capace di contenerle tutte» (Cianci, Giovanni, Modernismo/Modernismi. Dall'Avanguardia Storica agli Anni 30 e Oltre, Milano, Principato, 1992, p. 287).

11 «Il meraviglioso del cinema è l'elemento essenziale dell'arte piacevole» scriveva Gabriele D'annunzio (“Del Cinematografo Considerato come Strumento di Liberazione e come Arte di Trasfigurazione”, pubblicato sul Corriere della sera del 28 novembre 1914) a inizio secolo, poiché «cinema shows the fantastic truth of a time that has never existed, that does not exist and that will never exist and that, nevertheless, is the most authentic of all» (Wladimir Jankelevitch, cit. in Marengo Vaglio, Carla, Cinematic Joyce: Mediterranean Joyce, University of Florida Press, 2006, p. 72). L'autenticità del proprio essere fittizio è la caratteristica più pericolosa del mezzo cinematografico ed è il punto di partenza del Godard più maturo, teso sempre di più verso una sorta di «ipnosi collettiva», per dirla con Cocteau, «dove il pubblico dorme in piedi e sogna con gli occhi aperti» (in Cocteau, Jean, op.cit. p. 95)

12 Le parole di Samuel Beckett su Finnegans Wake si rivelano più utili di qualsiasi commento: «la scrittura di Joyce non è un componimento su qualcosa: è quel qualcosa...Quando il senso è sonno la parola dorme...Quando il senso è danza, la parola danza...Il linguaggio è ubriaco, le parole stesse risultano barcollanti e effervescenti...sono parole vive che si fanno largo a gomitate sulla pagina, che ardono e balenano,e sbiadiscono e spariscono», cit. in Marengo Vaglio, Carla, “I Monologhi di Joyce”, in Quaderno 8 Istituto Di Lingue e Letterature Straniere di Palermo, 1995, p. 60.

13 Joyce, James, Ulysses, Harmondsworth, Penguin Books, 1986, p. 532. Tutta l'opera di entrambi gli autori è simile ad un processo di “gestazione artistica” che, partendo da uno stadio embrionale iniziale, muta vertiginosamente la sua forma sino a scardinare i limiti ed i confini del proprio contenuto (il tanto citato “chaos” della loro arte è, in realtà, il risultato finale di una costruzione incredibilmente calcolata e geometrica, nonostante la fiera sprezzatura degli assiomi della geometria euclidea): «the works are not only separate, though related [...] They proliferated into something never imagined at the instant of conception [...] Chaos resolves itself into the painstakingly structured order of layered symmetry, of catalogues and charts, schemas, correspondences, and parallels», in Senn, Fritz, Joyce's Dislocutions: Essays on Reading as Translation, The John Hopkins University Press, 1984, p. 122.

14 Marengo  Vaglio, Carla, "From the Odyssey to Ulysses: Exile, Peregrination, Beyondness", in G. Revelli (ed.), Da Ulisse a Ulisse. (Il Viaggio come mito letterario), Vol. 1, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, p. 290.

15 Attraverso un eterno movimento circolare, la fine sembra sempre coincidere (sebbene imperfettamente) con un nuovo inizio. Risuonano qui le parole della Maria Stuarda eliotiana, «in my end is my beginning», (sono le parole finali di “East Cocker”, il secondo dei Four Quartets), che Godard citò esplicitamente nella parte centrale di Nouvelle Vague, combinandole con i versi iniziali della Divina Commedia di Dante.

16 Pinel, Vincent, Il Montaggio. Lo Spazio e il Tempo del Film, Torino, Lindau, 2001, p. 54. 17 È Joyce a scrivere in una lettera che le parole sono degli «active elements», aggiungendo che esse sono

«autonomamente capaci di fondersi dopo una prolungata permanenza insieme», cit. in Marengo Vaglio, Carla, "Joyce e il Futurismo: il corpo, la voce, l'improvvisazione", in G. Ferreccio, D. Racca (eds.), L'improvvisazione in musica e in letteratura, Torino, L'Harmattan Italia, p. 63.

18 «Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi e questo la gente lo trovava meraviglioso. Ascoltava il suono. Adesso invece la gente chiede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea del cinema. Al cinema c'è il suono e c'è l'immagine. [...] Bisogna usare suoni ed immagini come unghie e denti con cui graffiare», cit. in Farassino, Alberto, op.cit, p. 64.

19 Niente esclude, però, una reversibilità del suo ruolo: in Deux ou trois choses qui je sais d'elle è il narratore stesso a mettere l'ultima parola alla vicenda/saggio, reclamando il ruolo di protagonista che la pellicola gli ha negato sin dalla prima sequenza. Rielaborando esteticamente l'intuizione di Orson Welles nel finale di The Magnificent Amberson (L'orgoglio degli Amberson, 1942), Godard applica alla voce narrante i codici della figurazione

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scenografica: nell'ultima, e perentoria, citazione baudeleriana risuonano tutti i frammenti, apparentemente slegati, dell'opera e la stessa Parigi sembra incarnare l'essenza di una storia immortale che riunisce tutti gli esseri umani e tutte le città del mondo.

20 Tale tecnica di raccordo sonoro è legata inscindibilmente al montaggio e si basa essenzialmente su due principi: il primo è che il soggetto rimanga fermo nello spazio mentre la propria coscienza scorre nel tempo (il flashback riassuntivo di Corinne in Week-end subito prima di mangiare le carni del suo defunto marito); il secondo, invece, è che il tempo rimanga fermo mentre gli elementi spaziali e i personaggi variano la direzione dei propri pensieri (la tazzina di caffè come punto d'osservazione privilegiato di Parigi in Deux ou trois choses qui je sais d'elle).

21 Marengo Vaglio, Carla, "‘All the World's a Fair’": Word as World in Ulysses", in R. M. Bollettieri Bosinelli & F. Ruggieri (eds.), The Benstock Library as a Mirror of Joyce. Joyce Studies in Italy 7, Roma, Bulzoni, p. 55.

22 Marengo, Carla Vaglio, op.cit, p. 291 (la traduzione è mia). 23 Sotto la ricostruzione godardiana riecheggiano, a distanza di più di un secolo, le parole di Victor Hugo sulla capitale

francese: «la grande città è andata deformandosi di giorno in giorno. La Parigi gotica, sotto la quale si era cancellata la Parigi romanica, si è cancellata a sua volta. Ma possiamo dire quale Parigi l'ha sostituita? La Parigi di oggi non ha una sua fisionomia generale. È una collezione di elementi disparati. La capitale si estende solo per il numero delle case», cit. in Choay, Françoise, La Città. Utopie e Realtà, Torino, Einaudi, 2000, pp. 415-416.

24 Joyce, James, op.cit. pp. 41-42. 25 Joyce, James, op.cit. p. 532. 26 Nel 1966, scriveva, a proposito del cinema: «io gioco / tu giochi / noi giochiamo / al cinema / tu credi che ci sia /

una regola del gioco / perché sei un bambino / che ancora non sa / che si tratta di un gioco e che è / riservato ai grandi / perché hai dimenticato / che si tratta di un gioco per bambini / in che cosa consiste? / ci sono diverse definizioni / eccone due o tre / guardarsi / nello specchio degli altri / dimenticare e sapere / presto e lentamente / il mondo / in sé stessi / pensare e parlare / che strano gioco / è la vita», cit. in Farassino, Alberto, op.cit. pp. 2-3.

27 Godard, Jean-Luc, Due o Tre Cose che So di Me. Scritti e Conversazioni sul Cinema, a cura di Orazio Leogrande, Roma, Minimum Fax, 2007, p. 62.

28 La “molteplicità” è alla base della narrativa moderna e si coniuga facilmente con la tendenza enciclopedica dei testi joyciani (egli stesso scriveva a Carlo Linati nel Settembre del 1920 che «Ulysses was a kind of encyclopaedia»). Notava Calvino nel 1985: «Joyce che ha tutte le intenzioni di costruire un'opera sistematica e enciclopedica e interpretabile su vari livelli secondo l'ermeneutica medievale (e redige tavole di corrispondenza dei capitoli di “Ulysses” con le parti del corpo umano, le arti, i colori, i simboli) è soprattutto l'enciclopedia degli stili che realizza, capitolo per capitolo in “Ulysses” o convogliando la molteplicità polifonica del tessuto verbale di “Finnegans Wake”», in Calvino, Italo, Lezioni Americane. Sei Proposte per il Prossimo Millennio, Milano, Mondadori, 2002, pp. 127-128.