Le cose della fenomenologia. L’albero di Husserl, la rosa di Reinach.

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Director: Tonino Griffero – Coordinator: Michele Di Monte – Executive Secretary: Manrica Rotili Advisory Board: Alessandro Aleri, Brunella Antomarini, Emanuele Antonelli, Richard Bösel, Luca Bortolotti, Alessandra Campo, Lazzaro Rino Caputo, Lucia Casellato, Dario Cecchi, Alessia Cervini, Gianluca Consoli, Barbara Continenza, Gianni Dessì, Maria Giuseppina Di Monte, Nicoletta Domma, Francesca Dragotto, Alessandro Ferrara, Alessandro Fiengo, Saverio Forestiero, Elio Franzini, Elena Gagliasso, Gloria Galloni, Claudia Hassan, Alessandro Ialenti, Giovanni Iorio Giannoli, Micaela Latini, Giovanni Matteucci, Carmela Morabito, Giuseppe Novelli, Silvia Pedone, Isabella Pezzini, Giovanna Pinna, Giuseppe Pucci, Christoph Riedweg, Massimo Rosati, Franciscu Sedda, Antonio Somaini, Francesco Sorce, Marco Tedeschini, Claudia Terribile, Massimo Venturi Ferriolo, Pietro Vereni. Per informazioni: www.sensibilia.it – [email protected]

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Director: Tonino Griffero – Coordinator: Michele Di Monte – Executive Secretary: Manrica Rotili

Advisory Board: Alessandro Alfi eri, Brunella Antomarini, Emanuele Antonelli, Richard Bösel, Luca Bortolotti, Alessandra Campo, Lazzaro Rino Caputo, Lucia Casellato, Dario Cecchi, Alessia Cervini, Gianluca Consoli, Barbara Continenza, Gianni Dessì, Maria Giuseppina Di Monte, Nicoletta Domma, Francesca Dragotto, Alessandro Ferrara, Alessandro Fiengo, Saverio Forestiero, Elio Franzini, Elena Gagliasso, Gloria Galloni, Claudia Hassan, Alessandro Ialenti, Giovanni Iorio Giannoli, Micaela Latini, Giovanni Matteucci, Carmela Morabito, Giuseppe Novelli, Silvia Pedone, Isabella Pezzini, Giovanna Pinna, Giuseppe Pucci, Christoph Riedweg, Massimo Rosati, Franciscu Sedda, Antonio Somaini, Francesco Sorce, Marco Tedeschini, Claudia Terribile, Massimo Venturi Ferriolo, Pietro Vereni.

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MIMESIS

COSE

A cura di Manrica Rotili e Marco Tedeschini

© 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Isbn: 9788857519890 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

Traduzioni di:Tonino Griffero e Manrica Rotili (C. Menke)

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19.LE COSE DELLA FENOMENOLOGIA.

L’ALBERO DI HUSSERL, LA ROSA DI REINACH

di Marco Tedeschini

1. Introduzione

Il tema in oggetto in questo saggio è una cosa affatto peculiare: si tratta infatti della cosa che ci permette di conoscere le cose. Affrontare in termi-ni cosali la «conoscenza» significa più che farne un ente renderla un pro-blema, metterla in questione. Per farlo assumeremo un punto di vista feno-menologico, anzi due: osserveremo infatti due possibili direzioni di sviluppo della questione «conoscenza» all’interno della prima fenomeno-logia, quella intrapresa da Husserl (trascendentale) e quella percorsa da Reinach (realista). I due pensieri sono sotto più rispetti alternativi, benché Reinach sia partito da quanto stabilito da Husserl nelle Ricerche logiche. Entrambi (ma, certo, in primo luogo e con ben altro respiro, Husserl) han-

Piet Mondrian, Alberi in fi ore, 1912, L’Aia.

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no poi riconosciuto nel problema della conoscenza una cosa con la quale confrontarsi nel modo più radicale e urgente. Privilegiando in modo parti-colare la questione della conoscenza dell’oggetto, ripercorreremo breve-mente i punti che di Husserl e di Reinach ci paiono più interessanti rispet-to a ciò e chiuderemo con alcune considerazioni di massima.

Domandiamo dunque: che cosa ci permette di conoscere qualcosa? Con, attraverso che cosa conosciamo qualcosa? Come conosciamo? Osservia-mo anzitutto la risposta di Husserl, per poi passare a Reinach.

2. L’albero di Edmund Husserl

Stando a Husserl, «il titolo del problema, che abbraccia l’intera fenome-nologia, è l’intenzionalità. Esso esprime in effetti la proprietà fondamenta-le della coscienza; tutti i problemi fenomenologici […] trovano posto in esso» (Husserl 1913: 361). L’affermazione apre l’ultimo capitolo di Idee I, Gradi di generalità della problematica della teoria della ragione, con il quale Husserl intende schiudere «il senso pieno dell’eidetica fenomenolo-gica della ragione e tutta la ricchezza dei suoi problemi». Il problema di una fenomenologia della ragione ci sembra essere sostanzialmente quello del passaggio da una filosofia (trascendentale) del senso, quale è stata quel-la di Husserl dal momento inaugurale dell’epoché fenomenologica, a una filosofia (trascendentale) della verità, che sia cioè in grado di stabilire ciò che, all’interno di una più ampia dimensione di senso (di ciò che appare), è fenomenologicamente valido e ciò che non lo è.

Una filosofia del senso, in termini husserliani, è una filosofia del riferi-mento intenzionale. Per tale ragione a conclusione della sua meditazione Husserl si deve domandare «che cosa significa propriamente la “pretesa” della coscienza di “riferirsi” realmente a qualcosa di oggettuale» (ivi: 320). Necessità derivante dal fatto che l’intenzionalità è la struttura con cui il soggetto prende necessariamente di mira un oggetto in generale – e dunque si pone il problema di capire «come può essere chiarita fenomenologica-mente […] la relazione oggettuale “valida” e “non valida”» (ibidem). Il problema è strutturale poiché l’intenzionalità non può non mirare a un og-getto (ivi: 334) e tuttavia non sempre questo rapporto è verace. Esattamen-te a quest’altezza si pone il problema della soluzione fenomenologica (hus-serliana e, come vedremo, reinachiana) alla conoscenza.

Cerchiamo di comprendere perché. Tenendo conto del fatto che l’anali-si di Husserl si svolge in regime di epoché fenomenologica, osserviamo come la coscienza trascendentale si riferisca a oggetti. A tal proposito

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Husserl propone un’analisi che egli definisce notoriamente analisi inten-zionale:

Alla molteplicità di dati che compongono il contenuto effettivo, noetico [le operazioni di coscienza], corrisponde sempre una molteplicità di dati che pos-sono essere esibiti, nel quadro dell’intuizione veramente pura, in un «contenu-to noematico» correlativo, o più brevemente «noema» […]. La percezione, per esempio, ha il suo noema, più radicalmente il suo senso percettivo, ossia il per-cepito come tale. Allo stesso modo ogni ricordo ha il suo ricordato come tale appunto come il suo ricordato, precisamente come è «inteso», «come è dato alla coscienza» nel ricordo […]. Il correlato noematico, che è detto qui […] «senso», è sempre da assumere esattamente quale si trova «immanentemente» nel vissuto della percezione, del giudizio, del godimento, ecc., ossia quale ci viene offerto dallo stesso vissuto, se noi lo interroghiamo nella sua purezza. (ivi: 225)

Si tratta di un’analisi dunque che privilegia ciò che nella coscienza si mostra e questo ha il nome di «senso». Il senso costituisce un limite a par-te objecti per la validità della descrizione fenomenologica. Ora, considera-to che all’ambito descrittivo della fenomenologia, la coscienza pura, si ac-cede mediante l’epoché fenomenologica, nel senso noematico è racchiuso uno degli esiti di questa operazione, nella quale la trascendenza messa fuo-ri circuito muta segno «ed è con questo segno mutato che l’elemento tran-svalutato si inserisce nuovamente nella sfera fenomenologica» (ivi: 181). Il rapporto con l’oggetto si struttura dunque noematicamente. Esso non è propriamente un medium, non almeno nel senso di una reduplicazione dell’oggetto, esso è in un certo senso l’oggetto stesso rivelato nella sua tra-ma intenzionale. Per comprendere meglio è infatti importante considerare l’intera prestazione offerta dalla riduzione e portare brevemente all’atten-zione la problematica trascendentale:

alla base della caratterizzazione della riduzione fenomenologica e allo stesso modo della pura sfera del vissuto come «trascendentali» sta il fatto che nella ri-duzione noi scopriamo una sfera assoluta di materie e di forme noetiche, il cui intrecciarsi di forma determinata secondo una immanente necessità essenziale implica questo mirabile aver coscienza di qualcosa di determinato o di determi-nabile, dato così e così, che è qualcosa che sta di fronte alla coscienza stessa, di altro di irreale, di trascendente. (ivi: 250)

Il «dato», il noema, è dunque l’esito del processo trascendentale che ha luogo nella coscienza e che la riduzione svela. Come mai le operazioni tra-scendentali della coscienza danno luogo al noema? Perché queste opera-zioni sono proprio definite trascendentali? A queste domande Husserl po-

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trebbe rispondere arricchendo il suo discorso come segue: «alla base della caratterizzazione del vissuto come “trascendentale” sta inoltre il fatto che qui è la sorgente originaria [Urquelle] per l’unica soluzione pensabile dei più profondi problemi della conoscenza relativi all’essenza e alla possibili-tà di una conoscenza oggettivamente valida del trascendente» (ibidem). Nel vissuto ne va dunque del problema dell’«essenza» e della «possibilità di una conoscenza oggettivamente valida del trascendente». Quello tra-scendentale è dunque un problema di conoscenza oggettiva della trascen-denza: ora, se il vissuto costituisce la Urquelle per la soluzione a questo problema, è difficile non pensare che il noema non sia in fondo questa stes-sa soluzione. Questa affermazione tuttavia necessita di essere articolata. Osserviamo la descrizione husserliana riservata al noema:

Supponiamo di guardare con soddisfazione un melo fiorito in un giardino, il fresco verde dell’erbetta del prato, ecc. Manifestamente, la percezione e la con-comitante soddisfazione non sono ciò che è nello stesso tempo percepito e che piace. Nell’atteggiamento naturale, il melo è per noi qualcosa di esistente nella realtà spaziale trascendente, e la percezione, come la soddisfazione, è uno sta-to psichico che appartiene a noi, uomini reali. Tra l’una e l’altra realtà, tra l’uo-mo reale, e quindi la percezione reale, e il melo reale sussistono dei rapporti re-ali. In certi casi si dice, in tale situazione, che la percezione è una «mera allucinazione», che il percepito, questo melo davanti a noi, non esiste nella «vera» realtà. Il rapporto reale, che era prima inteso come realmente sussisten-te, ora è interrotto. È rimasta soltanto la percezione, non c’è più nulla di reale a cui essa si riferisca. (ivi: 225s., trad. modificata)

Questa descrizione precede l’epoché e Husserl non sembra avere nulla in contrario rispetto alle tesi metafisica che schiettamente esprime. Il problema infatti non è se sia vera o no la percezione (se sia un’allucinazione o meno), il problema è se sia per principio possibile giungere a sostenere in modo va-lido questa tesi e come; pertanto la questione è interamente conoscitiva. Per questo bisogna passare alla sfera trascendentale e in essa ricavare lo spazio per una fenomenologia della ragione. Adesso, proseguendo la trascrizione del passo husserliano, sosteremo sul primo momento del metodo di Husserl e vedremo cosa accada all’albero in regime di riduzione:

Passiamo ora all’atteggiamento fenomenologico. Il mondo trascendente ri-ceve le sue «parentesi», noi esercitiamo l’epoché nei riguardi del suo essere re-ale. Domandiamoci ora che cosa si possa eideticamente reperire nel complesso dei vissuti noetici della percezione e della valutazione di piacere. […] È rima-sto manifestamente un rapporto tra la percezione e il percepito (come tra il go-dere e il goduto), un rapporto che giunge a datità eidetica nella «pura immanen-

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za», ossia sulla sola base del vissuto percettivo e di godimento fenomenologicamente ridotto, così come si inserisce nella corrente trascenden-tale dei vissuti. Appunto questa situazione puramente fenomenologica ci deve ora occupare. […] Qui non dobbiamo chiederci se alla percezione o anche a un nesso progressivo di percezioni qualsiasi (come quando noi consideriamo, pas-seggiando, l’albero fiorito) corrisponda qualcosa «nella» realtà. Rispetto al giudizio infatti questa realtà tetica non esiste per noi. E nondimeno tutto rima-ne per così dire come prima. Anche il vissuto percettivo fenomenologicamente ridotto è percezione di «questo melo fiorito, in questo giardino, ecc.», e allo stesso modo la soddisfazione ridotta è soddisfazione per lo stesso oggetto. L’al-bero non ha perduto la più lieve sfumatura di tutti i momenti, qualità, caratteri, con cui si manifestava in quella percezione […]. Nel quadro del nostro atteg-giamento fenomenologico possiamo e dobbiamo invece porre la questione ei-detica: che cosa è il «percepito come tale», quali momenti essenziali implica in sé in quanto noema percettivo? Noi troviamo la risposta dirigendo il nostro sguardo puro verso ciò che è dato nella sua essenza, e possiamo descrivere fe-delmente, in perfetta evidenza, «ciò che si manifesta» come tale. In altri termi-ni: noi possiamo «descrivere la percezione sotto l’aspetto noematico». (ivi: 226s., trad. it. modificata)

Ma qual è lo statuto di ciò che si manifesta, dunque di ciò che è valido descrittivamente?

«Nella» percezione ridotta (nel vissuto fenomenologicamente puro) noi tro-viamo, come qualcosa che appartiene ineliminabilmente alla sua essenza, il percepito come tale, che richiede di essere espresso come «cosa materiale», «pianta», «albero», «fiorito», ecc. Le virgolette hanno un significato manifesto: esse esprimono quel mutamento di segno e la corrispondente radicale modifi-cazione di significato. L’albero simpliciter, la cosa della natura, è qualcosa di completamente diverso da questo albero-percepito come tale, che come senso percettivo appartiene inscindibilmente alla percezione. L’albero simpliciter può bruciare, dissolversi nei suoi elementi chimici, ecc. Ma il senso – il senso di questa percezione, cioè di qualcosa che appartiene necessariamente alla sua essenza – non può bruciare, non ha elementi chimici, forze, proprietà reali. (ivi: 227s.)

Husserl descrive il noema come ciò che appartiene necessariamente all’essenza della percezione dell’albero e che è irriducibile ad esso. Per questa ragione va segnalato adeguatamente con le virgolette e ricavato so-spendendo il giudizio. Con questa mossa, insomma, Husserl limita alla sola datità intuitiva qualunque portata conoscitiva e ontologica dell’analisi filo-sofica (fenomenologica). Il passo citato chiarisce altresì che nel noema si confondono due questioni: quella del riferimento all’oggetto e quella del suo modo di datità. In entrambi i casi quella noematica non è immediata-

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mente la soluzione del problema conoscitivo (trascendentale), ma del rap-porto cosciente (costituito trascendentalmente) con l’oggetto che apre a sua volta la strada alla conoscenza oggettiva della trascendenza. Ne è però il presupposto imprescindibile: infatti è solo all’interno dell’analisi noemati-ca che può aver senso il parlare di conoscenza. Abbiamo adesso tutti gli elementi per osservare che significa, per Husserl, parlare di conoscenza e, in particolare, di conoscenza di oggetti.

Molto più avanti, nelle Ideen I, Husserl tematizza esplicitamente il pro-blema descrittivo del rapporto del noema con il suo oggetto, ovvero il pro-blema del senso o contenuto noematico: «ogni noema ha un “contenuto”, cioè il suo “senso”, e per mezzo di esso si riferisce al “suo” oggetto» (ivi: 321). Quest’ultimo si rivela essere a sua volta «un momento internissimo [innerstes] del noema. Esso […] costituisce per così dire il necessario pun-to centrale del [… noema] e funge da “supporto” delle proprietà noemati-che a esso specificamente inerenti, e precisamente delle proprietà noemati-camente modificate di “ciò che è preso di mira come tale”» (ivi: 299, trad. it. modificata). Ciò significa che, per Husserl, l’io mira a un oggetto (l’al-bero) che va tenuto distinto dal contenuto noematico (l’albero che si mani-festa, l’«albero»); quest’ultimo è infatti il mezzo referenziale con il quale il primo è afferrato. Inoltre Husserl afferma che tale oggetto è il “supporto” di alcune proprietà noematiche riguardanti «ciò che è preso di mira come tale»; in tal modo egli intende quella parte del noema, la cui descrizione è «tale da descrivere l’“elemento oggettuale preso di mira come è preso di mira”, evitando tutte le espressioni “soggettive”» (ibidem). Questa consta-tazione permette a Husserl di distinguere ulteriormente il noema in un nu-cleo noematico (il fatto che una X sia data percettivamente, rimemorativa-mente, ecc.), le cui descrizioni appartengono «non all’elemento oggettuale che è dato alla coscienza, ma alla maniera in cui esso è dato alla coscien-za» (ivi: 324); e in un «“contenuto” del nucleo oggettuale del noema» (ivi: 325), ovvero, dal punto di vista descrittivo, il «complesso chiuso di “predi-cati” formali o materiali, contenutisticamente determinati o anche “inde-terminati”» (ivi: 324). Tuttavia l’oggetto è interno, anzi internissimo. Que-sto fatto significa forse che l’oggetto intenzionale (l’albero) sottostà alla stessa dipendenza coscienziale del noema (l’«albero»), con la conseguenza che questo non darebbe in senso proprio un essere? La conseguenza che ne deriverebbe sarebbe esiziale per il tentativo husserliano di guadagnare at-traverso la critica della ragione la trascendenza, dunque l’essere. Ma que-sta conseguenza sarebbe semplicemente sbagliata, per il fatto che non con-sidera lo statuto referenziale del contenuto noematico: esso implica che il noema abbia un bersaglio semantico dal quale è distinto (e non che sia un

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operatore produttivo di oggetti, con il che si darebbe luogo a una sorta di monismo). Occorre allora comprendere come Husserl descriva l’oggetto intenzionale:

esso è il punto centrale d’unità di cui abbiamo parlato sopra. È il punto in cui i predicati si annodano o il loro «supporto» […]. Sebbene non ne sia separabile né sia collocabile accanto a essi, esso va tenuto necessariamente distinto dai predicati; così come questi stessi sono i suoi predicati: impensabili senza di esso e tuttavia distinguibili da esso. Noi diciamo che l’objectum intenzionale è costantemente dato alla coscienza nel processo continuo o sintetico della co-scienza, ma che le «si dà sempre diversamente». (ivi: 325)

Fenomenologicamente l’oggetto intenzionale è dunque l’unità che tra-scorre nei molteplici nuclei noematici, che lo danno alla coscienza; né i predicati descrittivi del contenuto noematico sembrano assorbire in sé l’og-getto intenzionale. Per Husserl l’oggetto come «puro punto di unità […] [è] l’“oggetto simpliciter” di ordine noematico», da distinguere dal senso (o contenuto) che vi si riferisce, cioè «l’“oggetto nel come delle sue determi-nazioni”» (ivi: 326). Ma si badi che è la stessa struttura referenziale del senso a prescrivere un oggetto. In tal modo esso diviene un presupposto ne-cessario dell’intenzionalità, che va da un punto di vista logico-formale svuotato di ogni contenuto, una X1, e preso per quello che invece fenome-nologicamente non può non essere, cioè una determinabile X (ivi: 325 e 327).

Pertanto il rapporto coscienziale con l’oggetto (l’albero), o meglio con l’essere, si struttura per Husserl referenzialmente e nei limiti intuitivi che fissano questo riferimento semantico. In tal modo Husserl definisce critica-mente i presupposti per affrontare il problema conoscitivo posto dalla feno-menologia della ragione, che come dicevamo è successivo, ma non certo secondario. In tal caso la questione diventerà quella di passare dall’ogget-to intenzionale simpliciter a quello wirklich:

«Oggetto» è per noi dovunque un titolo relativo a connessioni eidetiche del-la coscienza; esso si presenta dapprima come X noematica, come soggetto di senso relativo a diversi tipi essenziali di sensi e di proposizioni. Si presenta inoltre come titolo l’espressione «oggetto reale»: e allora è un titolo relativo a certe connessioni razionali considerate dal punto di vista eidetico, nelle quali la X che in queste connessioni rappresenta un’unità di senso, riceve la sua posi-zione razionale. (ivi: 359)

1 Sulla X come formalizzazione (nel senso tecnico di Husserl) dell’oggetto intenzionale, cfr. Bernet 1994: 89.

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Il senso di questo passo è che l’oggetto, per essere conosciuto, deve es-sere dato in una connessione concordante tale per cui è razionale affermar-ne l’esistenza (per altro sul piano eidetico). Questo significa che la posizio-ne d’esistenza e, più in generale, la posizione della verità del riferimento a oggetto è vincolata a ciò che nell’intenzionalità si dà e vieta di assumere qualsivoglia presupposto metafisico. Questo significa che tutta l’alternati-va tra il vero e il falso (e della coppia correlativa di reale e irreale) dovrà ri-solversi nell’osservazione del noema: non vi è margine conoscitivo sensa-tamente valido al di fuori della dimensione coscienziale noematica. La fenomenologia, come teoria della conoscenza, stabilisce così che i limiti della validità della conoscenza della trascendenza sono fissati dal noema. Ne viene però una domanda (peraltro classica): come discernere all’inter-no del noema l’essere dalla parvenza (il vero dal falso)? Mancando un pun-to d’ancoraggio esterno alla coscienza e alle sue manifestazioni, le cono-scenze non posseggono un vero e proprio banco di verifica che non sia il decorso esperienziale. Poiché quest’ultimo, data la sua struttura referenzia-le, pone necessariamente e in maniera presuntiva un oggetto, la sua quali-fica come «essere» – cui corrisponde la “decisione” sul suo statuto verita-tivo – finisce per essere rinviata, procrastinata, sospesa fino a “nuovo ordine”, cioè fin quando lo scorrere esperienziale non avrà offerto altre, migliori prove della Wirklichkeit di tale oggetto. Questo è un problema che si ripropone in modo del tutto analogo nel pensiero di Adolf Reinach e che, a nostro avviso, è un limite strutturale della fenomenologia nella misura in cui trova il suo nucleo teorico fondamentale nella teoria dell’intenzionali-tà. Vediamo.

3. La rosa di Reinach

Nel parlare di Reinach occorre premettere il fatto che egli ha rifiutato l’operatore della dimensione trascendentale, l’epoché, e che è rimasto mol-to più legato al concetto di fenomenologia messo a punto da Husserl nelle Ricerche logiche. Tuttavia questo non significa che la riflessione sulla co-noscenza sia stata più ingenua di quella husserliana. Per illustrare il modo in cui Reinach sviluppa la questione, considereremo il saggio Zur Theorie des negativen Urteils (Reianch 1911). Il fine complessivo del saggio è of-frire una teoria adeguata del giudizio negativo. Più che su questo ci soffer-meremo però sul modo in cui Reinach tratta la questione che qui stiamo in-dagando. Essa trova il suo perno teorico nel concetto di Sachverhalt (stato di cose). Va subito detto che non si tratta di un oggetto in senso proprio,

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inoltre esso non può essere identificato solo con il concetto di relazione, perché, semmai, è quest’ultimo a essere incluso (e comunque parzialmen-te) in quello più vasto di stato di cose. Per questo Reinach si pone la que-stione di «come si può determinare con più precisione il correlato oggettua-le di questo giudizio, l’“esser-rosso della rosa”, che è possibile impiegare come esempio della forma “esser-b di A”» (Reinach 1911: 78) e propone la seguente soluzione:

È senz’altro evidente che l’esser-rosso della rosa dev’essere nettamente di-stinto dalla rosa rossa stessa. Gli enunciati che valgono per l’uno non valgono per l’altro. La rosa rossa è nel giardino e può appassire; l’essere-rosso della rosa non è nel giardino, né ha senso parlare del suo appassimento. […] Il primo giudizio è vero, il secondo è falso e persino privo di senso. L’esser-rosso della rosa non può in quanto tale stare nel giardino, così come, ad esempio, formule matematiche in quanto tali non possono essere profumate. Con ciò si dice che l’essere-rosso della rosa, tanto quanto una formula matematica, è qualcosa che pone le sue richieste e i suoi divieti, di cui valgono o non valgono giudizi. (Ibi-dem)

Si noterà senz’altro la grande somiglianza di questa descrizione con quelle riservate da Husserl al noema dell’albero. Per adesso basta però chiarire che lo stato di cose non ha affatto una statuto referenziale, bensì uno statuto ontologico sui generis, che lo rende irriducibile a un oggetto e agli enunciati che per esso valgono. Reinach descrive lo stato di cose in questo modo:

Poiché le cose non possono mai essere asserite o credute, e poiché nel giu-dizio «la rosa è rossa» l’esser-rosso della rosa funge da correlato oggettuale, tale correlato dev’essere allora qualcosa di diverso dalla rosa rossa stessa, da questa cosa del mondo esterno. Lo designeremo d’ora in poi come uno stato di cose. Questo termine […] è effettivamente il termine meglio adatto ad essere usato per formazioni oggettuali della forma «essere-b di A». In tal modo si de-vono dunque distinguere gli stati di cose, in quanto oggettualità di tutt’altra na-tura, dagli oggetti in senso stretto, siano essi di natura reale, come le cose, i suo-ni, i vissuti, o di natura ideale, come i numeri, le proposizioni o i concetti. Finora conosciamo solo una peculiarità degli stati di cose: al contrario degli og-getti, essi sono ciò che viene asserito o creduto nel giudizio. Vogliamo aggiun-gere a ciò alcune ulteriori determinazioni. (ivi: 79s.)

Ciò che viene giudicato (creduto o asserito) è dunque uno stato di cose. Da ciò due considerazioni: anzitutto, queste affermazioni di Reinach sem-brano sottrarre all’oggetto e agli atti, in cui esso si dà, qualsivoglia statuto epistemico; questo stesso statuto sembrerebbe invece, ed è la seconda con-

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siderazione, assorbito dallo stato di cose come categoria ontologica tra-sversale alla regione degli oggetti, o quantomeno dall’atto, il giudizio, che vi si riferisce. Sicché parlare di qualcosa è sempre parlare di stati di cose; in questo modo, volendo costruire un’analogia tra noema e Sachverhalt, quest’ultimo assume la funzione critica di limite descrittivo della fenome-nologia che il primo aveva per Husserl, senza dover circoscrivere la validi-tà della descrizione alla coscienza e dunque evitando ogni equivoco episte-mologicamente e ontologicamente idealistico. Ma c’è un secondo elemento di convergenza: lo stato di cose è un oggetto che non condivide lo stesso piano degli oggetti, non appartiene (ad esempio) al mondo naturale. Radi-calizzando la convergenza, si può dire che il Sachverhalt ha un ruolo simi-le all’oggetto transvalutato in Husserl (l’«oggetto», il noema) e così può essere accostato (concettualmente) a una sorta di noema senza epoché, cioè senza che vi sia la necessità di un dispositivo che sveli la dimensione tra-scendentale. A questo quadro vanno aggiunti altri elementi descrittivi che fanno dello stato di cose un tassello fondamentale per la conoscenza del mondo: oltre a essere «ciò che è creduto […] in un giudizio, [esso] […] sta nella connessione di ragione e conseguenza, […] possiede modalità e […] è nel rapporto di positività e negatività contraddittoria» (ivi: 83). Questo si-gnifica che tutte le funzioni svolte, nella descrizione husserliana della sfe-ra di coscienza, dalla X determinabile, quale punto di unità sintetica o og-getto reale, possibile, necessario (Husserl 1913: 359s), sono prese in carico dallo stato di cose e in più quest’ultimo sopporta la negazione.

L’ultimo elemento che dobbiamo qui aggiungere è che, per Reinach, co-noscere qualcosa è ancora una volta conoscere uno stato di cose:

ciò ci conduce alla questione su come gli stati di cose giungano per noi a dati-tà. […] Prendiamo il nostro esempio dell’esser-rosso della rosa. Io dico, e ognuno lo dice allo stesso modo, che «vedo» l’esser-rosso della rosa e con ciò non voglio dire che vedo la rosa o il rosso, ma intendo ciò che è evidentemen-te diverso dalla rosa rossa e che noi designiamo come stato di cose. […] A noi si oppongono dei dubbi non appena tentiamo di convincerci della legittimità di questo modo di dire. Io vedo davanti a me la rosa, vedo anche davanti a me il momento rosso che si trova in essa. Ma con ciò sembra esaurito ciò che vedo. Per quanto possa sforzare la vista, non potrò mai scoprire in questo modo un es-ser-rosso della rosa. Ancor meno posso vedere uno stato di cose negativo, il non-esser-bianco della rosa ecc. E tuttavia intendo qualcosa d’interamente de-terminato quando dico: «io vedo che la rosa è rossa» oppure «io vedo che la rosa non è bianca». Questo non è un vuoto modo di dire, ma si fonda sui vissu-ti in cui tali stati di cose sono dati realmente. […] Tuttavia, essi devono essere dati in modo diverso rispetto alla rosa e al suo rosso. E così è effettivamente. Nel guardare la rosa rossa, io «vedo pienamente» il suo esser-rosso, esso viene

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da me «conosciuto». Oggetti sono visti o osservati, stati di cose al contrario sono visti pienamente o conosciuti. (Reinach 1911: 83s.)

Il problema dell’apparire dell’oggetto conoscitivo si risolve in questo modo, ad avviso di Reinach. Se così stanno le cose, allora gli oggetti non hanno alcuna incidenza epistemica nell’indagine fenomenologica e ciò che davvero ha valore sono esclusivamente gli stati di cose. Per quanto dunque l’intenzionalità abbia un valore fenomenologico, cioè di accesso non arbi-trario all’oggetto, ma secondo il vissuto corrispettivo e l’intuizione che lo dona, essa pure è privata di un concreto valore epistemico in quanto è as-sunto dallo stato di cose.

Giungiamo così a un altro punto di convergenza tra Husserl e Reinach: le connessioni noematiche e le connessioni di stati di cose sono sostanzial-mente sovrapponibili quanto alla loro “funzione di donazione”. Tuttavia l’analogia vale fino a un certo punto: infatti ci sembra di dover registrare proprio a quest’altezza il punto di vera divergenza tra noema e stato di cose. Esso consiste nella non-referenzialità di quest’ultimo, il quale si con-figura già come un oggetto sintetico a tutti gli effetti (ovvero come bersa-glio del raggio intenzionale) che sovrintende alla “costituzione” dell’og-getto, senza che questa sia una costituzione trascendentale2 – senza cioè che dietro vi sia un problema di rintracciamento “criticato” della trascen-denza, messa fuori circuito.

La completa assenza della problematica trascendentale in Reinach emer-ge pertanto nel diverso modo di concepire gli elementi fenomenologici di snodo per quel che concerne la conoscenza e i suoi limiti: da un lato, per Husserl, il vissuto con il noema; lo stato di cose, dall’altro. Il primo infatti non oltrepassa mai il ruolo di condizione soggettiva e psicologica della ma-nifestazione di un oggetto (un diventa vissuto in senso trascendentale). Lo stato di cose, invece, non è referenziale e tuttavia è ciò che in una certa mi-sura dà l’oggetto a conoscere in un suo modo ed è la sintesi (oggettiva e og-gettuale) dell’oggetto con un suo elemento. Ma questa diversa via al pro-blema della conoscenza non è risolutoria rispetto a quello della discrimina-zione tra parvenza ed essere: il problema incontrato nella lettura di Husserl, si ripropone a causa del fatto che lo stato di cose è e resta una sorta di og-

2 È chiaro infatti che, se lo stato di cose è ciò che si trova in Begründungszusammenhänge, allora è l’oggettualità sovrintendente i nessi moti-vazionali. Ragione per cui l’oggetto che si dà nella coscienza, husserlianamente costituito per essa, altro non sarà che l’insieme degli stati di cose non conosciuti, che si danno assieme a un certo oggetto (singolarità che è alla loro base e che essi presuppongono a loro volta).

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getto intenzionale, che dunque pone nuovamente il problema della sua ve-rità. Lo si capisce bene allorché Reinach introduce in modo esplicito l’atto conoscitivo e lo salda allo stato di cose. L’uso della parola Erkenntnis in Reinach non deve infatti ingannare, poiché essa non implica essenzialmen-te l’essere di ciò che dà a conoscere e dunque il suo reale valore epistemi-co è sempre a rischio. Ciò che una conoscenza dà non è né più né meno che la norma (naturalmente non sensibile3) che regola l’oggetto visto sotto un certo profilo, la quale è senz’altro indipendente dalle operazioni conosciti-ve, pur senza necessariamente assumere un modo d’esistenza. Reinach stesso lo scrive nel saggio sul giudizio negativo:

va notato che nel concetto di stato di cose non è per nulla inclusa la sussistenza come momento essenziale. Così come separiamo gli oggetti (reali o ideali) dalla loro esistenza (reale o ideale) e riconosciamo senz’altro che certi oggetti, come la montagna d’oro o il cerchio quadrato, non esistono o persino non possono af-fatto esistere, così separiamo anche gli stati di cose dalla loro sussistenza e par-liamo di stati di cose, come l’esser-d’oro della montagna o l’esser-rotondo del quadrato, che non sussistono e non possono sussistere. (Reinach 1911: 81)

3 Se pertanto, in una certa misura, questo implica che lo stato di cose sia un’entità ideale, ciò non significa che esso abbia sempre un carattere a priori né, men che meno, che esso conduca volens nolens Reinach a una raddoppiamento di tipo pla-tonico. Quest’ultima è invece l’idea di Barry Smith (1987), il quale accusa Reinach di platonismo sulla base del fatto che, a suo avviso, lo stato di cose sareb-be un’entità atemporale: «ritenere i Sachverhalte entità contingenti sarebbe in contrasto con il platonismo di Reinach» o, ancora, «se i Sachverhalte avessero parti reali, erediterebbero da queste parti i caratteri di esistenza nel tempo […] e ciò è incompatibile con il platonismo di Reinach» (ivi: 487 e 499). Ma il punto è che gli stati di cose ci “parlano” dell’oggetto e dunque, stando all’interpretazione di Smith, finirebbero per replicarlo platonicamente. Entrambi i capi d’accusa ci paiono tuttavia mancare a dir poco il bersaglio. È Reinach stesso a smentire il se-condo dei due (dell’atemporalità degli stati di cose): «lo stato di cose: “l’albero è in fiore” è temporale; 2x2=4 è extra-temporale. La temporalità si riferisce alla ma-teria determinata. Uno stato di cose sussiste o non sussiste» (Reinach 1910: 351). Il primo – il platonismo – è escluso invece dal fatto che lo stato di cose può esse-re o meno temporale e dunque si costituisce (e sottostà alle leggi) degli elementi che articola e struttura, ragion per cui non è un altro oggetto (a se stante), né l’ori-gine di cui l’oggetto sarebbe la grossolana immagine; piuttosto è la saldatura on-tica tra un oggetto e un suo elemento. Bizzarro che il curatore delle opere di Reinach non si sia accorto (o non abbia considerato) una così lapalissiana smenti-ta della sua tesi, l’unica ragione che si può addurre è che, essendo il saggio di al-meno due anni precedente alla pubblicazione dei Werke di Reinach, Smith non fosse ancora a conoscenza del passo.

309M. Tedeschini - Le cose della fenomenologia

Solo quando lo stato di cose sussiste, allora si dà vera e propria cono-scenza, si dà cioè essere. Questo significa esattamente che una volta otte-nuta una conoscenza essa dovrà essere nuovamente vagliata per compren-dere se lo stato di cose conosciuto sussista o meno. In tal modo, nuovamente, si spalanca la vertigine dell’indecidibilità – e questa, è evi-dente, non è affatto la nostra esperienza. Ora, nostra opinione è che questo rinvio sia causato, anche in questo caso, benché in maniera molto più vela-ta, dall’intenzionalità. Nuovamente, infatti, ci troviamo di fronte al fatto che l’oggetto (lo stato di cose) è presupposto prima ancora di essere accer-tato, si dà conoscenza se e solo se si dà stato di cose e la conoscenza si ri-ferisce esclusivamente a quest’ultimo. Lo stato di cose – si potrebbe dire – innanzitutto si dà, se poi sussista è un problema ulteriore.

4. Conclusioni

Il problema fenomenologico – la cosa – della conoscenza può dunque essere dispiegato o in direzione di un idealismo fenomenologico-trascen-dentale, nel qual caso il suo problema diverrà quello della legittimazione della possibilità di conoscere e della definizione di criteri che stabiliscano l’ambito di validità della conoscenza fenomenologica; oppure in direzione di un realismo fenomenologico non meno critico e tuttavia estraneo alla problematica trascendentale. Accade però che in entrambi i casi il proble-ma (fenomenologico) della conoscenza (distinguere l’essere dalla parven-za, o dal non-essere) dia luogo, nel corso della sua risoluzione, a un altro problema, non tanto legato all’idea di fenomenologia che si coltiva quanto principalmente al dispositivo che le sta alla base: l’intenzionalità.

Che la struttura referenziale dell’intenzionalità sia potenziata (Husserl) o che ne sia potenziato l’aspetto oggettuale (Reinach) è all’interno di que-sta correlazione stringente che soltanto si può conoscere – si tratta di capi-re come e che cosa. Husserl e Reinach, nella loro opposizione quanto allo statuto della fenomenologia, meditano su questo fatto imprescindibile per la conoscenza, scontrandosi entrambi con la difficoltà posta, a parte objec-ti, dall’oggetto intenzionale e più in generale dall’oggetto, che sembra strutturalmente celare in sé la possibilità di non essere; reciprocamente, a parte subjecti, dalla possibilità dell’errore, che non è più una mera possibi-lità soggettiva risolvibile con il giudizio, ma una continua pendenza che per principio sembra non poter passare in giudicato. Esso non è più solo uno spettro, ma un vero e proprio pungolo contro le certezze dalla cono-scenza. Questo è un problema nella misura in cui innalza a possibilità strut-

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turale qualcosa che in tutta evidenza non lo è, altrimenti sarebbe impossi-bile soltanto pensare il concetto di errore. Non sarà così facile allora rimanere fenomenologi e far professione di disgiuntivismo, proprio perché in tal modo si sorpasserebbe senz’altro il problema contingente dell’errore ma non quello di principio.

Bibliografia

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REINACH A.1910 Notwendigkeit und Allgemeinheit des Sachverhaltes (SS 1910), in

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SMITH B.1987 Adolf Reinach e la fondazione della fenomenologia realistica. II par-

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