Palmira gli anni del Mandato

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1 Indice 1. Introduzione pag.2 2. Palmira: storia degli studi e delle ricerche 2.1 I viaggi e le prime ricerche pag.4 2.2 Il Novecento pag.7 2. 3 Il nuovo millennio: nuovi scavi e nuove ricerche pag.28 3.Palmira e i Francesi 3.1 Il mandato francese in Siria pag.38 3.2 La politica culturale francese in Siria pag.45 3.2.1 Archeologia e Colonialismo pag.45 3.3 La nascita dell’IFPO pag.46 3.4 La rivista Syria pag.49 3.5 Les “Anciens”: i protagonisti della ricerca a Palmira nel Novecento pag.50 4.Palmira e Syria 4.1 La rivista e gli Autori pag.58 4.2 Palmira: il commercio e le vie carovaniere pag.62 4.3 Palmira e l’Egitto: commercio e politica pag.70 4.4 L’epigrafia pag.73 4.5 La Tariffa pag.77 4.6 Il santuario di Bel pag.79 5. Gli scavi dell’Agorà: dallo scavo alla pubblicazione 5.1La storia pag.84 5.2 Il lavoro di Seyrig e Duru pag.85 5.3 Le nuove ipotesi pag.97 Abbreviazioni Bibliografiche pag.108 Appendice I: Syria: gli articoli dedicati a Palmira negli anni del Mandato (traduzione italiana) pag.122 Appendice II: Dizionario dei termini architettonici pag.347

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Indice

1. Introduzione pag.2

2. Palmira: storia degli studi e delle ricerche

2.1 I viaggi e le prime ricerche pag.4 2.2 Il Novecento pag.7 2. 3 Il nuovo millennio: nuovi scavi e nuove ricerche pag.28

3.Palmira e i Francesi

3.1 Il mandato francese in Siria pag.38 3.2 La politica culturale francese in Siria pag.45 3.2.1 Archeologia e Colonialismo pag.45 3.3 La nascita dell’IFPO pag.46 3.4 La rivista Syria pag.49 3.5 Les “Anciens”: i protagonisti della ricerca a Palmira nel Novecento pag.50 4.Palmira e Syria

4.1 La rivista e gli Autori pag.58 4.2 Palmira: il commercio e le vie carovaniere pag.62 4.3 Palmira e l’Egitto: commercio e politica pag.70 4.4 L’epigrafia pag.73

4.5 La Tariffa pag.77 4.6 Il santuario di Bel pag.79 5. Gli scavi dell’Agorà: dallo scavo alla pubblicazione

5.1La storia pag.84 5.2 Il lavoro di Seyrig e Duru pag.85 5.3 Le nuove ipotesi pag.97 Abbreviazioni Bibliografiche pag.108

Appendice I: Syria: gli articoli dedicati a Palmira negli anni del Mandato (traduzione italiana) pag.122 Appendice II: Dizionario dei termini architettonici pag.347

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1. Introduzione.

Questa ricerca si propone di studiare l’attività di scavo e ricerca svoltasi a Palmira negli anni del Mandato francese (1920-1942). Si tratta di anni importantissimi per questo sito, già parzialmente “riscoperto” e scavato dalla Missione archeologica tedesca negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale: l’archeologia era vista dalla Francia (così come dalle altre potenze coloniali dell’epoca) come un mezzo per aumentare il proprio prestigio agli occhi della comunità internazionale e della stessa Siria, funzionale dunque al proprio ruolo di potenza mandataria. Grazie a figure come Seyrig, il sito fu aperto al contributo di numerosi studiosi, non solo francesi, e le molte ricerche portarono, nel corso degli anni, a migliorare non solo la conoscenza della città, ma anche a inquadrarla nel più ampio contesto della Siria romana e dell’Impero partico (figg.1-2).

Fig. 1. Palmira nella geografia antica (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pagg 10-11).

Un ruolo importantissimo, per la divulgazione e la conoscenza delle scoperte e degli studi, non solo a Palmira, ebbe in quegli anni la rivista Syria, dove molto del materiale emerso era immediatamente reso noto, in attesa di pubblicazioni più complete. La rivista ha mantenuto negli anni questa funzione di punto di riferimento per gli studi sulla Siria, e da alcuni anni è consultabile anche on line. La traduzione degli articoli riguardanti Palmira nel periodo 1923-1942, in ordine cronologico, è posta in appendice (Appendice I); essi sono stati tradotti integralmente, ma

si è deciso, per alcuni di essi, di presentarli in forma riassunta, per le difficoltà di rendere in italiano termini tecnici specialistici: si tratta soprattutto di studi sull’epigrafia semitica o sui restauri architettonici. Per i termini architettonici si è invece creato un piccolo dizionario con la traduzione italiana e una breve definizione (Appendice II); alcuni termini francesi, che non era possibile tradurre efficacemente nel testo, sono stati lasciati invariati e spiegati in una nota. Si è cercato di inquadrare i vari articoli non solo dal punto di vista archeologico, ma di inserirli nel contesto storico, politico e culturale in cui furono scritti. Per questo, nel secondo capitolo si è presa in esame la storia degli studi e delle ricerche a Palmira, dai primi viaggiatori del XVII sec. alle ricerche attuali, indicando di ogni Missione, in ordine cronologico, le scoperte più importanti.

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Nel terzo capitolo è stata analizzata la storia della Siria negli anni del Mandato francese, dalla caduta dell’Impero Ottomano sino al raggiungimento dell’indipendenza effettiva del Paese nel 1946, oltre ad un’analisi della politica culturale e coloniale francese in Siria, che si riflette in diversi degli articoli presi in esame. Si è inoltre ricordato il percorso che ha condotto alla nascita dell’IFPO e si sono aggiunte delle brevi biografie dei principali studiosi attivi a Palmira negli anni del Mandato. Il quarto capitolo è dedicato al commento degli aspetti più significativi degli studi pubblicati su Syria: benché il periodo preso in esame copra solo un ventennio, moltissimi temi e argomenti che saranno in seguito ripresi e sviluppati, emersero proprio in quegli anni: basti pensare, ad esempio, al ruolo di Palmira per la storia dell’arte partica e

gandharica, e, in generale, dei cosiddetti “discendenti non mediterranei dell’arte greca”, secondo la celebre espressione di Schlumberger. Dopo un breve esame degli articoli sulla base dell’argomento trattato, dell’autore e della “rubrica” di pubblicazione, si sono approfondite alcune tematiche particolarmente rilevanti: il ruolo di Palmira come snodo commerciale carovaniero, il legame fra l’Egitto e Palmira, l’analisi delle più importanti testimonianze epigrafiche. In particolare, per la sua importanza, un paragrafo è stato dedicato alla Tariffa di Palmira; del santuario di Bel, scavato durante gli anni del Mandato, si sono ripercorse le fasi dello scavo e ricordata sinteticamente la struttura. Il quinto capitolo approfondisce la storia dello scavo e della pubblicazione dell’agorà di Palmira, la cui fasi principali furono rese note proprio sulla rivista Syria, ma la cui pubblicazione è avvenuta solo recentemente. Oltre a ripercorrere le varie fasi della scoperta, i dati acquisiti sono stati riletti alla luce delle ultime scoperte e delle nuove ipotesi formulate dall’équipe coordinata da Ch. Delplace e J. Dentzer –Feydy.

Fig. 2. Pianta di Palmira (da Agora de Palmyre 2005, pag.12).

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2. Palmira: storia degli studi e delle ricerche.

2.1 I viaggi e le prime ricerche

Per molti secoli, dopo l’età antica, Palmira cadde nell’oblio: nel Medioevo, il rabbino spagnolo Benjamin de Tudela visitò Tadmor nel 1192, ma la sua descrizione del luogo non suscitò la curiosità di altri viaggiatori. In quegli anni, sotto la dinastia Selgiuchide, la città di Tadmor si era sviluppata intorno alle rovine del santuario di Bel. Sin dal 1581 esisteva ad Aleppo un emporio (factory in inglese o khan in turco) di mercanti

inglesi della Levant Company: furono essi i primi a cercare nel deserto le rovine di cui avevano spesso sentito parlare dai locali. Nel 1678, il dottor Huntington e altri decisero di compiere una spedizione nel deserto, giungendo fino a Tadmor, dove però furono assaliti da un gruppo di predoni. Solo nel 1691 un nuovo gruppo di viaggiatori, guidati dal pastore del khan di Aleppo William Halifax, decise di ritentare l’impresa, accompagnati da soldati e da un salvacondotto del capo tribale del territorio di Tadmor1. Grazie alla loro guida locale, furono ben accolti dalle poche famiglie di pastori che allora abitavano Tadmor, ridottasi ormai a un piccolo villaggio, e poterono visitare le rovine del tempio di Bel, dove le capanne di quegli stessi pastori erano state edificate. Solo cinquantotto colonne del temenos erano ancora in piedi, lo stesso numero visibile anche oggi, mentre ne rimanevano solo sedici di quelle che circondavano il tempio (oggi sono solamente otto). Fu proprio questa visita alle rovine di Palmira che permise di formare la prima raccolta d’iscrizioni greche; furono inoltre copiati, pur senza conoscerne ancora il significato, alcuni esempi di epigrafi in aramaico palmireno, che fu così reso noto agli studiosi occidentali. Una di queste iscrizioni, riusata nelle fortificazioni ottomane costruite sui propilei del tempio di Bel nel 1132, menzionava fortunatamente proprio Odenato, lo sposo di Zenobia, la quale era già conosciuta in Occidente grazie alla storiografia romana, oltre che da numerose leggende. Uno dei compagni di viaggio di Halifax era l’artista olandese G. Hofstede von Essen, che realizzò un dipinto delle rovine allora visibili: come nei disegni eseguiti da Borra un secolo dopo, all’epoca del viaggio di Wood e Dawkins, erano visibili tre pilastri con trabeazione completa nell’angolo nord-occidentale del santuario, due pilastri a sud, mentre il lato orientale era pressoché intatto, così come i pilastri che fiancheggiavano l’entrata (fig.3). Quest’opera, realizzata presso il console olandese di Aleppo e oggi all’Università di Amsterdam, è la più antica raffigurazione delle rovine di Palmira. Il dottor Halifax descrisse con entusiasmo ciò che vide, in particolare le sculture del santuario di Bel, fra cui il famoso soffitto con lo zodiaco. I viaggiatori, dove aver copiato iscrizioni e misurato tempio e temenos, visitarono il resto della città, rimanendo colpiti dalle numerose colonne della Via Colonnata, così come dal Tetrapilo, e Halifax notò la presenza di mensole con iscrizioni in greco e in una lingua sconosciuta2.

1 BROWNING 1979, pagg. 53-54.

2 BROWNING 1979, pagg. 56-58.

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Fig. 3 Incisione tratta dal dipinto di Hofstede (da BROWNING 1979, pagg. 54-55)

Visitarono anche l’area del Campo di Diocleziano, dove presero altre misure e copiarono altre epigrafi, fra cui alcune in latino, proseguendo lungo la Via Colonnata fino all’agorà; si spinsero fino alla fonte Efqa, e rimasero molto stupiti dalla monumentalità della Valle delle Tombe. E’ possibile, dalle descrizioni di Halifax, che essi abbiano visitato la Tomba di Kitot; dopo quattro giorni, i viaggiatori tornarono ad Aleppo, e Halifax pubblicò le proprie impressioni con il titolo di Relation of a Voyage to Tadmor nel 1695 in The Phlisophical Transactions of the Royal Society. Altre informazioni, anche se non accurate da un punto di vista architettonico, sulle rovine di Palmira si devono all’architetto Cornelius Loos, che accompagnava il re Carlo XII di Svezia nella sua campagna contro i Turchi; il re lo inviò in Siria, Egitto e Palestina, per disegnare e descrivere i più importanti monumenti di quei Paesi. Nonostante questi limiti, e la perdita di parte della documentazione durante la battaglia di Bender del 1711, i disegni di Loos sono una preziosa fonte su molte strutture palmirene oggi scomparse, anche se non tutti i monumenti rappresentati sono identificabili con chiarezza3. Nel 1751, Robert Wood e James Dawkins visitarono Palmira, accompagnati dall’architetto italiano Giovanni Battista Borra, che avevano incontrato a Roma nel 1749/1750. Egli fu l’autore delle accurate rappresentazioni dei resti di Palmira che accompagnarono la relazione di Wood e Dawkins The Ruins of Palmyra, edito nel 1753. Wood e Dawkins,

nonostante numerose difficoltà e con l’aiuto di Borra, realizzarono numerose misurazioni e disegni dei resti della città. The Ruins of Palmyra ebbe un enorme successo, non solo in Inghilterra, ma anche in tutti gli altri Paesi in cui fu tradotto e pubblicato, fra cui Russia e Francia (fig.4)4.

3 BROWNING 1979, pagg. 61-63.

4 BROWNING 1979, pagg. 65-66.

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Fig.4. Incisione tratta da The ruins of Palmyra (da BROWNING 1979 pag. 57).

L’attenzione suscitata dai due viaggiatori inglesi su Palmira fece sì che molti altri decidessero di visitare l’antica città carovaniera: nel 1787 vi si recò il francese Volney, seguito, negli anni Novanta del XVIII sec., da L.F. Cassas, cui si devono molti disegni e dipinti ancora di grande utilità per la conoscenza del sito (fig.5)5.

Fig.5. Dipinto di Cassas delle rovine di Palmira (dal sito del Musée des Beaux Arts de Tours,

www.webmuseo.com).

Spinta forse proprio dall’immagine di Zenobia, lady Hester Stanhope, giunta a Damasco, decise di visitare Palmira nel marzo 1813, dove, quasi come in trionfo, visitò la Valle delle Tombe, la Grande Via Colonnata, il Tetrapilo e il Santuario di Bel, all’interno del quale pernottò. Sfortunatamente, le guide o i resoconti di viaggio della prima metà dell’Ottocento, come quelli pubblicati da due ufficiali della Marina Britannica, C. L. Irby e J. Mangles, non ci offrono molte indicazioni sullo stato di Palmira in quegli anni6.

5 BROWNING 1979, pag.73.

6 BROWNING 1979, pagg. 69-72.

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Nel 1853 il marchese de Vogué raccolse moltissime iscrizioni palmirene, seguito da Waddington, che nel 1861 scoprì e pubblicò più di centro epigrafi prima sconosciute; il lavoro di entrambi è stato fondamentale anche per le ricerche successive.

2.2 Il Novecento

Solo agli inizi del XX sec., tuttavia, iniziarono campagne di scavo e di studio a carattere effettivamente scientifico; molto purtroppo era andato perso perché Palmira, come moltissimi altri siti, era stato non solo visitata, ma anche spogliata da o su commissione dei ricchi collezionisti europei. L’Istituto Archeologico Russo di Costantinopoli si attivò, dall’inizio del Novecento, per studiare Palmira e salvare ciò che ne era rimasto: la loro attenzione era già stata catturata dalla scoperta della celebre Tariffa, per opera dal principe A. Lazarev, che la fece trasportare a San Pietroburgo e che pubblicò un libro su Palmira nel 1884. La Relazione degli scavi dell’Istituto Russo è forse la prima pubblicazione scientifica su Palmira, ma molte delle ricerche degli anni successivi si basano sul lavoro della Missione Archeologica tedesca, che operò fra il 1902 e il 1917, sotto la direzione di Theodor Wiegand. Gli studiosi tedeschi mapparono tutto il sito, misurando e fotografando ogni elemento con grande attenzione, oltre a numerare tutte le sepolture. Il frutto del loro lavoro fu la fondamentale pubblicazione Palmyra, Ergebnisse der Expeditionen von 1902 und 1917, pubblicato a Berlino nel 19337. Il lavoro della Missione Tedesca fu interrotto dalla

Prima Guerra Mondiale e al termine del conflitto lo scenario politico era ormai cambiato: l’Impero Ottomano non esisteva più, e il cammino della Siria verso l’indipendenza era stato affidato alle cure del Mandato Francese. Come molte potenze europee, la Francia utilizzò l’esplorazione archeologica per facilitare il proprio controllo dei Paesi a essa affidati, oltre a ottenere prestigio. Nonostante queste premesse, Palmira conobbe un periodo di fecondissima attività di ricerca e di scavo, grazie soprattutto alla figura di Henri Seyrig, che, nonostante la maggioranza degli studiosi e degli archeologi fosse naturalmente francese, aprì il sito alla collaborazione di numerosi colleghi, europei e americani. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale interruppe nuovamente l’attività di scavo; alla Siria era stata riconosciuta la piena indipendenza. Grazie a personalità quali Seyrig, il passaggio di consegne fra il Services des Antiquités de Syrie e du Liban e quello gestito autonomamente dalla Repubblica Araba di Siria avvenne senza strappi: la missione francese continuò la propria attività, anche se a essa si affiancarono studiosi di altre nazionalità; l’Institut d’Archéologie de Beyrouth, e poi l’IFPO

(vedi capitolo 3) si adoperò spesso quale intermediario per ottenere i permessi di scavo necessari a Missioni non francesi.

7 BROWNING 1979, pagg. 3-74.

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La Missione Danese Fra il 1924 e il 1925, giunse la missione danese, finanziata dalla Fondazione Rask -Oerstesd, guidata da Ingholt, che, con la collaborazione dell’architetto K. Christensen indagò la necropoli sud/sud-est. Seguirono una seconda e una terza spedizione nel 1928 e nel 1935, per terminare i lavori iniziati in precedenza, oltre a indagare le tombe che sorgevano in prossimità della Torre di Elahbel. Nella tomba di Hairan emerse un dipinto che lo raffigurava insieme alla moglie, sul soffitto un’aquila ad ali spiegate, mentre in un’altra fu trovata un’immagine di Dioniso recumbente (fig.6)8. Fu scoperta l’iscrizione funeraria di Julius Aurelius Malé e scavata la tomba chiamata dagli Arabi Qasr el abiad, il “castello bianco”. Emersero diverse iscrizioni, fra cui quella in greco, rinvenuta dietro il santuario di Bel, in onore di Thomalechis, che costruì dei bagni nel tempio di Aglibol e Malakbel, e l’epigrafe bilingue che ricorda l’erezione di una statua ad Aelius Bora nel 197. Durante i lavori di scavo nell’agorà emerse un’altra iscrizione bilingue risalente al 297 in onore di Ogeilu, figlio di Maqqai, oltre diverse sculture, fra cui una figura femminile acefala e un fregio con cammelli. Ingholt scoprì presso il Qasr el abiad un busto femminile con tracce di colore, e decorazioni pittoriche all’interno di una tomba presso il Qasr e in quella di Maqqai, oltre a numerose tessere raccolte dagli abitanti locali. Fu inoltre redatta una nuova planimetria della necropoli, le piante delle tombe verificate, gli elementi architettonici fotografati e disegnati, come le facciate delle tombe; furono poi realizzati acquerelli delle pitture9.

Fig. 6. Dioniso recumbente, dalla Necropoli sud-ovest (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 88).

8 INGHOLT 1930 A, pagg. 302-303.

9 DUSSAUD – SCHMIDT-INGHOLT-UPHAM POPE 1929 (Appendice nr.5), pagg. 179-180.

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La Missione Francese Nel 1925, l’architetto Gabriel stabilì un piano per lo sgombero del villaggio moderno e programmò una serie d’interventi da compiere negli anni seguenti, fra cui lo scavo del santuario di Baalshamin; disegnò inoltre la pianta delle abitazioni che ancora oggi sono note come “Case Gabriel”, a nord-est della Tomba Tempio, e che costituivano allora i primi esempi di architettura domestica a Palmira. Gabriel realizzò inoltre una planimetria della città di III sec. 10. Nel 1929 Seyrig, con il sostegno dello Stato Siriano, dell’Alto Commissario Ponsot e con la collaborazione tecnica del capitano Pouille, iniziò i lavori di consolidamento dei monumenti di Palmira11. Nello stesso anno, Cantineau esplorò la necropoli occidentale, scavando in particolare la tomba di Allami e Zebida, risalente al 146

d.C.12 Fra il 1929 e il 1932, Seyrig, Schlumberger e Cantineau, su incarico dello stato siriano, cominciarono lo scavo dell’area del santuario di Bel, sgomberando il villaggio di Tadmor, che si era insediato sulle strutture antiche; i lavori furono condotti con la collaborazione dell’architetto Amy, che si occupò anche del restauro dell’arco posto lungo la Grande Via Colonnata (vedi capitolo 4)13. Nel biennio 1929-1930 Seyrig, Schlumberger e Cantineau, su incarico dello stato siriano, liberarono completamente l’area del santuario. Nel 1932 emerse l’importante iscrizione con la data di consacrazione del tempio di Bel, oltre al nome delle divinità venerate nel santuario14. Fra il 1935 e il 1936 l’architetto del Service, M. Tchalenko, scavò la sala dei banchetti del santuario di Bel (all’epoca chiamata“edificio L”, contrassegnato in seguito con la lettera C), compiendo tre sondaggi agli angoli sud-ovest, sud-est e nord-est. Egli indagò anche l’angolo sud-est dell’edificio T, dove scoprì quello che chiamò “muro T”: smontatolo, emersero numerosi elementi architettonici e iscrizioni di I sec. a.C.15. Nelle fondazioni dell’edificio L emerse anche una figura di uomo accovacciato, probabilmente risalente al II millennio a.C. e testimonianza della continuità di culto (fig.7)16.

Fig. 7. La cella, l’edificio L e la fondazione T del tempio di Bel (da DU MESNIL DU BUISSON 1966, pag. 180).

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BOUNNI – AL AS’AD 1995, pagg. 89-90; GABRIEL 1925, pag. 277. 11

DUSSAUD 1929, pag. 153. 12

CANTINEAU 1929, pag.194. 13 SEYRIG 1930, pag. 335; DUSSAUD-CUMONT 1931 (Appendice nr.9), pagg. 191-192. 14 DUSSAUD-CUMONT 1931 (Appendice nr.9), CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16). 15

Vd. CANTINEAU 1936 B (Appendice nr. 24), pag. 349 ss, nn. 24-26; SEYRIG 1940 A (Appendice nr. 36). 16 DU MESNIL DU BUISSON 1966, pag. 179; 181.

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Un’altra iniziativa di Seyrig, in collaborazione con Amy e Duru, fu lo scavo dell’agorà, fra il 1939 e il 1940. Tale progetto fu voluto e finanziato dall’Académie des Inscriptions et Belles

Lettres, l’Institut Français de Damas e il Services des Antiquités (vedi capitolo 5). L’agorà

presenta una pianta rettangolare, con portici sui quattro lati, con undici porte d’accesso; nell’angolo nord-occidentale emerse un piccolo tempio, con due colonne in antis. In seguito l’entrata fu dotata di una porta, mentre gli intercolumni laterali furono chiusi a metà e fu costruita una banchina lungo i muri: il tempio era divenuto una sala per banchetti sacri e inoltre fu rinvenuto in situ un piccolo pyrée di pietra. Molti frammenti pertinenti all’agorà furono ritrovati nelle vicine mura, dove erano stati reimpiegati; non

lontano dal piccolo tempio fu trovato uno strano di ceneri che contenevano sfere di argilla cotta, su cui era impresso il nome greco di Palmira, per cui gli scavatori ipotizzarono si trattasse dell’archivio cittadino. Emersero inoltre numerosissime iscrizioni, risalenti soprattutto al II sec., e in misura minore, al III 17.

Fig. 8. La facciata meridionale della curia, in un disegno di Duru (da Agora de Palmyre 2005, pag. 107).

Nel 1940, Duru scoprì una grande abitazione decorata con stucchi e mosaici, fra cui quello che illustra il mito di Cassiopea (da cui il nome dato all’abitazione); poco lontano emerse anche la casa chiamata, sempre per via dei mosaici a soggetto mitologico, di Achille18. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, Robert Amy trascorse diversi mesi a Palmira per realizzare rilievi e planimetrie del sito, necessari per renderne possibile la pubblicazione, in particolare il complesso del santuario di Bel, che fu studiato da Ernest Will con Wolfgang Forrer. In quegli stessi anni Starcky collaborò con due membri siriani del Services des Antiquités, Taha e Nazmi, allo studio e al restauro della tomba chiamata Qasr el Hayyé, situata a nord delle rovine. Emerse anche l’epigrafe di fondazione della tomba, edificata nel 236 da Julius

Aurelius Marona; fu trovato inoltre un altare in una grotta presso l’origine della fonte Efqa, con un’iscrizione in greco e palmireno in onore di “Zeus Altissimo” (il”Signore del Mondo” in palmireno), offerta dal custode della sorgente, “scelto da Yarhibol”, Bolanos, figlio di Zenobios (Bolai figlio di Zebida in palmireno), nel 162. Inoltre, a 7 km da Palmira, fu trovato

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SEYRIG 1940 B, pagg. 237-247. 18 BOUNNI – AL’ASAD 1995, pag. 79; pag. 90.

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un acquedotto sotterraneo, nel luogo detto Biyar el-amye (“i pozzi del cieco” in arabo) risalente al II-III sec., con alcuni nomi palmireni incisi sulle pareti19. Pierre Coupel e Edmond Frézouls, nel 1955, completarono le misurazioni dell’agorà, del senato e delle abitazioni poste dietro il tempio di Bel. Come si vedrà, tuttavia, la pubblicazione dell’agorà è stata possibile solo molti anni dopo20. Jean Starcky e André Caquot proseguirono gli studi compiuti prima della guerra in campo epigrafico: Starcky, fra il 1946 e il 1949, si è occupato prevalentemente delle iscrizioni dell’agorà, oltre a completare la parte palmirena del CIS; Caquot studiò, fra il 1949 e il 1955, l’onomastica palmirena, e collaborò alla pubblicazione delle tessere, insieme a Seyrig, Ingholt e Starcky. Nel 1965 Du Mesnil du Buisson guidò la prima missione di scavi

dopo la fine del mandato, che si proponeva di indagare l’area della fonte Efqa, la ricerca dell’agorà arcaica e dei santuari più antichi come quello di Rab Esiré, e sondaggi nel podio del tempio di Bel. Presso la fonte Efqa furono individuate le nicchie, a nord-ovest dello sbocco della sorgente, dove erano probabilmente venerati i betili associati agli dei della sorgente (uno era ancora in situ), mentre a sud-est una scala scavata nella roccia conduceva

probabilmente in un altro luogo di culto. Un grande zoccolo, ricavato nella grotta principale, ospitava forse l’immagine di Yarhibol; a circa un km dalla sorgente, presso Tell

es zor, sono stati trovati frammenti di selci risalenti al Neolitico: si tratta delle più antiche testimonianze di occupazione umana trovate a Palmira. A circa 3 m dalla sorgente, sono stati trovati tre frammenti di un altare monumentale, oltre ad un frammento modanato di base d’altare. Circa dodici anni prima Starcky aveva ritrovato a poca distanza alcune basi simili: la Missione ne ha messe in luce altre due, oltre alla cella di un piccolo tempio, a sud del quale si trovava forse una sala per banchetti. Du Mesnil du Buisson ha ipotizzato che si trattasse di un luogo di culto dedicato al “dio anonimo”, probabilmente identificato con Baalshamin, poiché la disposizione delle basi è simile a quella del santuario cittadino. E’ emerso anche un frammento di statua di offerente in costume partico, con un’iscrizione sfortunatamente molto mutila21. Nello stesso anno Javier Teixidor, già collaboratore di Starcky, si dedicò allo studio delle numerose iscrizioni che restavano ancora inedite. Egli collaborò con Robert du Mesnil du Buisson allo scavo di una piccola cappella costruita su di una torre delle mura che coronano il Gebel Muntar (fig.9), non lontano dalla necropoli sud-ovest e vicino all’origine della sorgente, dedicata al dio Belhammon, e riutilizzato come luogo di culto islamico nel 116222. Il tempio era raffigurato come una torre con terrazza su di una tessera, già nota agli scavatori, e la sua dedica a Belhammon fu confermata dal ritrovamento di un’iscrizione incisa su di un architrave, che ricordava la dedica del tempio nell’89 d.C., e che nomina anche il santuario di Manawat. S’ipotizzò anche che il tempio della dea, raffigurato in modo abbastanza simile a quello di Belhammon su di un’altra tessera palmirena, in cui la dea è chiamata gad (fortuna) dei Bene Agroud, che erano fedeli anche di Belhammon, si trovasse poco lontano, lungo la strada che procede a occidente, su di

un’altra altura. Oltre all’epigrafe che indica la data di consacrazione, sono emersi altri due testi palmireni di dedica al dio e un’iscrizione araba in caratteri cufici. 19 STARCKY 1946, pagg. 334-336. 20 GELIN 2005, pag. 279. 21

DU MESNIL DU BUISSON 1966, pagg. 158-165. 22 BOUNNI – AL AS’AD 1995, pag. 67.

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Fig.9. Scavi a Gebel Muntar (da DU MESNIL DU BUISSON 1966, pag. 167).

Grazie al racconto di uno degli operai che aveva lavorato nel 1901 al trasporto della Tariffa, fu possibile trovare il punto esatto dove essa era stata rinvenuta, sul fondo dello wadi, nell’angolo sud dell’agorà, dove era originariamente collocata. Tale posizione è confermata anche dal ritrovamento di due altri frammenti della Tariffa stessa, rinvenuti da Starcky davanti all’edificio che fiancheggia l’agorà a sud-est. Qui vi era anche una porta monumentale, che Du Mesnil Du Buisson interpretò come l’ingresso del tempio di Rab Esiré, che secondo la Tariffa si trovava di fronte alla stele medesima. A nord-est dell’agorà, fra quest’ultima, il Tetrapilo e il teatro, è stata trovata un’iscrizione con dedica a “Bol, Iside e Afrodite, dei nazionali” da parte di Bounni, membro della Missione Siriana (vedi infra): Du Mesnil ipotizzò che lì si trovasse il santuario di Bol, e ne affidò lo scavo allo stesso Bounni. Furono studiati e approfonditi i sondaggi realizzati da Tchalenko nel 1935-1936, e si verificò come il “muro T” si arrestasse bruscamente davanti alle colonne del peristilio, giacché non fu mai terminato e quindi coperto dalla pavimentazione del nuovo tempio nel II sec., ma non fu possibile stabilire quale fosse lo scopo di tale costruzione23. I sondaggi praticati dalla Missione permisero di confermare l’ipotesi formulata in passato dell’esistenza di un tell, su cui poggerebbe la struttura del santuario: sono emersi numerosi materiali databili alle varie fasi del Bronzo (Antico, Medio, Recente); si è ipotizzata una frequentazione del luogo sacro almeno dal 2300-2200 a.C. Un sondaggio praticato sul lato sud della cella ha restituito, sopra il tell, frammenti di ceramica ellenistica: probabilmente

nel IV sec. la collinetta è stata livellata in vista della realizzazione di nuove strutture. Un ultimo sondaggio, realizzato presso il grande bacino del tempio, è stato interrotto dalla presenza di edifici arabi e bizantini ancora sconosciuti24. Negli anni Sessanta Ernest Will si dedicò allo studio delle necropoli, ma soprattutto lavorò con Seyrig e Amy in vista della pubblicazione del tempio di Bel (Le Temple de Bel a Palmyre, 1968), mentre Edmond Frézouls studiò il teatro, l’agorà e le abitazioni dette di Achille e

Cassiopea, già scavate da Duru negli anni Quaranta25.

23 DU MESNIL DU BUISSON 1966, pagg. 166-181. 24

DU MESNIL DU BUISSON 1966, pagg. 181-185. 25 GELIN 2005, pag. 290.

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Negli anni Settanta l’attenzione verso Palmira diminuì, a vantaggio del sito di Tell Arqa, ma gli studi naturalmente non cessarono: fra il 1973 e il 1976 Frézouls coinvolse Christiane Delplace nell’analisi delle epigrafi palmirene, specie quelle dell’agorà (vedi infra). Fra il

Dal 1978 il CNRS ha condotto studi etnoarcheologici e archeologici nella Palmirene, a El Kown e nella sua regione26. Nel 1993, Jean Marie Dentzer, in collaborazione con l’Università di Parigi I e l’IFAPO, ha condotto una prospezione dello spazio urbano, partendo dalle fotografie realizzate negli anni Trenta; i nuovi rilievi fotografici hanno consentito di controllare le planimetrie redatte all’epoca27.

La Missione Svizzera

Nel 1954 giunse a Palmira una missione svizzera, coordinata da Paul Collart, e composta da Jacques Vicari, Christiane Dunant e Rudolph Fellmann. La Missione intraprese tre campagne, che ebbero luogo fra l’1 settembre e il 27 ottobre 1954, dal 1 settembre al 25 ottobre 1955 e dal 30 agosto al 15 ottobre 1956; gli obiettivi furono stabiliti in collaborazione con la Direzione Generale dei Musei e delle Antichità di Siria e con la consulenza di Seyrig e Schlumberger, e verterono sul tempio di Baalshamin. Dal 18 marzo all’11 aprile 1966 la Missione soggiornò nuovamente in Siria, al fine di verificare le ipotesi che erano state formulate negli anni precedenti (fig.10)28.

Fig. 10. Il thalamos del tempio di Baalshamin (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag.98).

La Missione tedesca aveva studiato per la prima volta scientificamente il tempio, compiendo misurazioni e alcuni sondaggi, ma l’edificio sacro non era mai stato scavato in estensione; solo nel 1935 Ecochard aveva compiuto un veloce scavo in occasione delle attività di consolidamento, portando alla luce un altare bilingue del 115 d.C. dedicato a Baalshamin, una mensola con iscrizione di II sec. e tre bassorilievi con soggetti decorativi e religiosi. Si era inoltre scoperto il colonnato esterno del tempio, ed evidenziate le trasformazioni operate in età bizantina, quando il tempio divenne una chiesa. La campagna del 1954 mise in luce due portici: uno più vicino al tempio e parallelo al

muro settentrionale della cella, l’altro più distante, grosso modo perpendicolare al primo, datato da un’epigrafe al 67 d.C. I due portici sembravano indipendenti, ma emerse un terzo colonnato di collegamento, cui apparteneva un’altra iscrizione databile al 67 d.C. Fu 26 CAUVIN 1983, pagg. 269-274; AURENCHE 1983, pagg. 300-301. 27

AL MAQDISSI 1995, pag. 277. 28 COLLART–VICARI 1969, pagg. 5-7.

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indagata la parte posteriore del tempio, mettendo in luce le colonne di un altro porticato realizzato con materiali di reimpiego, e poco lontano, un altro colonnato disposto su due livelli differenti. Lo scavo dei lati del tempio giunse sino al piano di calpestio antico, evidenziando altre colonne sul lato sud-occidentale; i muri bizantini furono ripuliti29. La campagna del 1955 si proponeva di continuare l’esplorazione del lato meridionale del tempio, definendone con precisione i limiti, e di scavare a nord il grande cortile che la presenza dei colonnati faceva presupporre. Emersero il cortile meridionale e il colonnato occidentale, che un’iscrizione del 149 d.C. ha permesso di datare con precisione; dietro il tempio furono sommariamente scavati diversi edifici dalle funzioni poco chiare e di epoche differenti, mentre fu possibile precisare la topografia della spianata a nord del

tempio. Il cortile nord era occupato da muri tardi di bassa qualità, realizzati con terra e materiali di reimpiego. Fu inoltre smontata la tripla abside bizantina, restituendo alla facciata del tempio le sue proporzioni originarie. Alla fine della campagna, erano stati definiti i limiti del tempio, ad eccezione del lato nord, e appurata la presenza di differenti entrate e nuovi colonnati, mentre la grande corte era stata sgomberata; sono state inoltre studiate le strutture di reimpiego30. La terza campagna proseguì lo scavo del grande cortile, ma non fu possibile trovare un nuovo portico nel suo angolo settentrionale, come si era inizialmente supposto; la presenza di abitazioni moderne ha radicalmente disturbato tutta quest’area. Verso l’Hotel Zenobia fu possibile individuare alcune strutture pertinenti al santuario; anche se la struttura dell’Hotel ha intralciato le indagini archeologiche, si è potuto verificare che il complesso si articolava intorno ad un cortile trapezoidale. E’ possibile che quest’area segnasse il confine nord del santuario, anche se neppure in questo caso fu possibile effettuare una verifica. All’esterno del muro del peribolo fu messa in luce una tomba con deposizioni multiple, risalente all’11 a.C.31 In vista della pubblicazione dei risultati delle tre campagne, la Missione soggiornò ancora alcuni mesi a Palmira nel 1966, riesaminando le strutture messe in luce e realizzando misurazioni con un teodolite, oltre ad una raccolta di tutto il materiale epigrafico32.

La Missione Polacca La Missione Polacca giunse a Palmira nel 1959, guidata da Michalowski, e operò soprattutto nell’area del campo di Diocleziano (in particolare, nel cosiddetto “Tempio delle Insegne” o principia e nel santuario di Allat); dal 1974 la direzione della Missione è passata a Michel Gawlikowski33. Il Campo è un’area estremamente complessa: gli scavi hanno evidenziato una stratificazione che va dal I sec. al XII sec.; l’occupazione in età bizantina è stata piuttosto limitata, mentre la frequentazione islamica è consistente (fig.11). Oltre alla rimozione della sabbia che copriva la maggior parte delle strutture, nelle prime tre campagne furono scavate tre trincee, dalla “Porta Pretoriana” al “Tempio delle

Insegne”. Fu liberata tale porta, e fu messa in luce una complessa struttura a doppio

29

COLLART-VICARI 1969, pagg. 12-14. 30 COLLART-VICARI 1969, pagg. 15-16. 31 COLLART–VICARI 1969, pagg. 16-18. 32

COLLART - VICARI 1969, pagg. 18-19. 33 BROWNING 1979, pag.76; GAWLIKOWSKI 1990, pag. 37.

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vestibolo, con una delle facciate decorate da colonne, da cui partivano i portici che giungevano sino al Tetrapilo. Tali propilei erano probabilmente la cerniera fra l’orientamento principale del Campo e quello della Via Colonnata Trasversale; è possibile che risalgano al II sec., considerata la loro ortogonalità con i portici del santuario di Allath.

Fig.11. Pianta del Campo di Diocleziano (da GAWLIKOWSKI 1976, pag.154).

Fu scavata con grande attenzione l’area del Tetrapilo, dove s’incontravano le quattro vie porticate: si è scoperto che il Tetrapilo era stato aggiunto in seguito, e perciò le vie nord-est e sud-ovest non sembrano in relazione con esso. Una delle strade viene dal santuario di Allath, mentre le altre due, che provengono dal “Tempio delle Insegne” e dalla “Porta Pretoriana”, sono maggiormente legate al Tetrapilo, benché i capitelli ritrovati nelle vicinanze da Michalowski sembrino indicare anteriorità rispetto a quest’ultimo34. Nel 1964 fu raggiunto il cosiddetto “Tempio delle Insegne”, dove emersero numerose iscrizioni35. Gli scavi compiuti fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta appurarono che la strada principale fu usata fino al VII sec., e in epoca bizantina e ommayyade l’area fu occupata da modeste abitazioni, abbandonate forse dopo che Marwan II distrusse le mura cittadine nel 745 d.C. Solo nel XII sec. abitazioni più ricche, con cortile porticato, furono costruite a sud. Fu messa in luce la via praetoria, che conduceva al forum, o piazza d’armi, che precedeva a ovest un edificio chiamato “Tempio delle Insegne”, costruito in età tetrarchica, fra il 293 e il 303, che, secondo Gawlikowski, doveva essere in realtà i principia del campo36. Gli scavi nel santuario di Allath misero in luce una corte a peristilio, con un portico a colonne scanalate; la cella, con pronao di sei colonne, poggia su di un basamento a gradini. Un’iscrizione ha permesso di datare la costruzione del santuario fra il 103 e il 164, anche se un architrave su cui è incisa un’epigrafe che menziona Allath si pone fra il 148 e il 188. E’ molto probabile che la cella attuale sia un rifacimento di una struttura più antica, come sembra indicare un altare del 6 a.C., in onore di “Allath che è anche Artemide”. Alcune

34 WILL 1963, pagg. 385-388. 35Vedi M. GAWLIKOWSKI, Nouvelles inscriptions du Camp de Dioclétien, in Syria, tomo 47, fascicolo 3-4,1970, pagg. 313-325, http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1970_num_47_3_6191 36 GAWLIKOWSKI 1976, pagg. 153-156.

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iscrizioni risalenti al I e al II sec. ricordano la generosità dei membri della tribù dei Bene Ma’ziyan, ricordati anche nel santuario di Baalshamin: sia ad Allath sia a Baalshamin si associano anche due divinità tipicamente arabe, Rahim e Shams37. Un’iscrizione ricorda un restauro del tempio di Helios, vale a dire Shams, nel 272; altre iscrizioni (alcune su lucerne)

citano anche Malkbel e Aglibol, cosicché è possibile che nel Campo vi fosse, se non il bosco sacro noto da alcune epigrafi, almeno un santuario secondario dei due dei. Vi sono inoltre circa ventidue dediche al dio ignoto, due volte identificato con Baalshamin; sembra, dunque, che nel I sec. quest’area fosse dedicata prevalentemente ad attività religiose. A ovest vi erano diversi edifici anteriori alla creazione del Campo, che si affacciavano su di una prima corte dotata di forni, e un altro cortile dove si trovava la maggior parte degli

altari dedicati al dio anonimo. La cosiddetta “Porta Pretoriana”, ritenuta di età tetrarchica, sarebbe invece più antica, e avrebbe permesso di collegare l’area alla Via Colonnata trasversale: quello che Michalowski aveva ritenuto un portico si rivelò un primo cortile con due colonne in antis, che permettevano l’accesso a un secondo cortile. I sondaggi nel primo cortile hanno evidenziato la presenza di un forno di mattoni sotterraneo, obliterato dalle botteghe della Via Colonnata Trasversale, dopo che la fossa fu riempita nella metà del II sec., giacché vi sono molti elementi di reimpiego (probabilmente da un monumento funebre) d’inizio II sec.; quattro botteghe furono demolite per consentire il collegamento con la Via Colonnata Trasversale nella seconda metà del secolo e parte dei materiali edilizi fu riusato per costruire la Porta Pretoria. Il Tetrapilo risale probabilmente all’età tetrarchica, poiché interrompe bruscamente la via principale e nelle sue fondazioni vi sono materiali della prima metà del III38. Fra il 1971 e il 1972, Gawlikowski, in collaborazione con l’Institut Français de Beyrouth e la Direction Génerale des Antiquités de Syrie, compì una serie di ricerche e sondaggi sulle mura

di Palmira, che permise di cominciare a precisare maggiormente l’estensione della città prima della costruzione delle mura di Diocleziano, edificate senza tener conto dell’urbanistica cittadina, e che racchiudevano solo la parte ritenuta più importante a scopi difensivi39. Negli Anni Ottanta, Gawlikowski e Pietrzykowski studiarono le sculture del santuario di Baalshamin, ma si intrapresero anche le campagne di scavo del settembre – ottobre 1981 e di marzo – aprile 198340 nel Campo di Diocleziano. Queste indagini si concentrarono sul cosiddetto “edificio a pilastri”, che si appoggia all’angolo sud-est del campo di Diocleziano, e fu così possibile appurare che si trattava dell’horreum legionis (fig.12), vale a

dire il granaio militare; la funzione dell’edificio è stata confermata dalla pavimentazione irregolare nel settore nord, dove c’erano le tracce dell’inserzione di supporti in pietra per fissarvi le macine per i cereali. Alcuni di tali sostegni in pietra sono anche stati rinvenuti in situ, oltre a frammenti di macine rotonde in basalto e di segni di usura della pavimentazione, dove le macine erano fatte girare da uomini o animali. Le macine sono state probabilmente utilizzate fino alla fine del VII sec., quando poi la struttura fu

abbandonata; vi sono alcuni rifacimenti nel settore meridionale41.

37

BOUNNI-AL AS’AD 1995, pagg. 64-67. 38 GAWLIKOWSKI 1976, pagg. 158-163. 39 GAWLIKOWSKI 1974, pagg. 231-242. 40

GAWLIKOWSKI – PIETRZYKOWSKI 1980, pagg. 421-452. 41 GAWLIKOWSKI 1983, pag. 297.

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Gli scavi nell’horreum sono ripresi fra il 1984 e il 1985: in queste due campagne la struttura dell’edificio è stata precisata, e quest’ultimo è stato interamente scavato. Non si è indagato tuttavia il cortile su cui si affaccia l’ingresso principale a nord, ma è stato possibile verificare la presenza di sei macine su due file in una prima fase e poi il solo uso di quattro macine allineate. Dopo una fase di abbandono, l’edificio è stato restaurato, riutilizzando, nell’ala meridionale, anche alcune colonne del santuario di Allat; è emersa anche una cisterna per acqua: il restauro risale probabilmente al regno di Giustiniano. E’ possibile, ma non verificabile, che l’edificio, dopo la fine del suo impiego come granaio, sia stato trasformato in moschea, come sembra indicare una banchina nell’area sud e la sua suddivisione in piccoli ambienti42.

Fig. 12. Pianta dell’horreum (da GAWLIKOWSKI 1986, pag. 398).

La Missione Polacca ha intrapreso principalmente, nel 1986, studi sulle condotte idriche nel Campo di Diocleziano: alcuni dati erano già noti da studi precedenti (specie quello di Michalowski del 1965, Dawzevski nel 1968 e Meyza nel 1976) e nel 1979 era stato individuato il percorso di numerose condotte idriche, mentre nel 1980 emerse una fontana sul lato nord dei principia, usata fino all’età ayyubbide. Nel 1986, smontando un edificio della stessa epoca, è stato ritrovato un acquedotto, contemporaneo a quello dei principia; esso si dirigeva verso la città, passando nei pressi della fontana. Non è stato però possibile liberare il punto di passaggio dell’acquedotto dal Campo alla Grande Via Colonnata, anche se Bounni e Saliby hanno trovato un condotto in ceramica e uno in pietra su questa via all’altezza del teatro43. Su richiesta della Direzione delle Antichità di Palmira, fra il 1985 e il 1986, sono stati effettuati sondaggi nell’area indagata dalla Missione Siriana diretta da Khaled al-As’ad, che aveva posto in luce, nella carreggiata della Grande Via Colonnata, alcune botteghe di un suq islamico (vd. infra). L’intervento della Missione Polacca era mirato a precisarne la datazione, ed ha individuato le botteghe più antiche in quelle n° 10-17; l’area si data all’età ommayyade, e fu realizzata a più riprese nel corso dell’VIII sec. Un ulteriore sondaggio in una bottega sul lato nord della Grande Via Colonnata ha permesso di conoscerne i livelli abbasside, ommayyade e bizantino; è stata ritrovata anche una moneta di Aureliano, a

42

GAWLIKOWSKI 1986, pagg. 397-399. 43 GAWLIKOWSKI 1987, pag. 282.

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livello delle fondazioni, ma l’esiguità del sondaggio non ha consentito di stabilire se l’impianto delle botteghe risalga ancora più indietro nel tempo44. Terminato l’intervento del 1986, l’indagine nell’area del Campo è stata ritenuta conclusa (benché i restauri siano proseguiti anche negli anni successivi): il 1988 ha segnato l’inizio di nuove indagini nella parte settentrionale della città, in tre isolati compresi fra la Grande Via Colonnata, il Tetrapilo e il Tempio Funerario (E, F, G nella planimetria di Gabriel). Nell’isolato centrale è emerso un portico ottastilo, che si affaccia sulla Grande Via Colonnata, dietro il quale è stato scoperto un edificio, forse una basilica, costruito probabilmente sotto gli Antonini e riusato come chiesa (Basilica I) in epoca bizantina. Non lontano dalla chiesa è stata inoltre scavata un’abitazione, probabilmente risalente al 150

d.C., ma utilizzata sino all’età ommayyade45. La Missione ha inoltre collaborato con il Museo di Palmira nella Valle delle Tombe: è stata ripulita e documentata la Tomba di Kitot, oltre ad iniziare i restauri nel Castello Arabo di Palmira, posto a nord-ovest della città antica46. Fra il 1989 e il 1990 la Missione ha continuato l’indagine dei tre isolati, oltre ad approfondire le indagini del Castello. Nel corso del 1989 gli archeologi hanno proseguito lo scavo della casa emersa l’anno precedente; le date di costruzione e utilizzo ipotizzate sono state confermate47. Nel 1991 gli archeologi hanno proseguito l’indagine dell’abitazione scoperta nel 1988, che si è rivelata di dimensioni maggiori di quanto in precedenza ipotizzato e dotata di un secondo piano. Sono inoltre stati realizzati due saggi nell’abside della Basilica, che hanno confermato la trasformazione in chiesa nel IV sec. dell’edificio civile48. L’anno successivo è stato dedicato interamente allo studio e alla conservazione delle tombe torre della Valle, a causa della possibile costruzione di una diga, che avrebbe messo in pericolo questi edifici. Il lavoro ha riguardato particolarmente la tomba torre di Atenatan

(fig.13) e una postazione militare non lontana da quest’ultima, databile al III sec.49

44 STEPNIOWSKI 1987, pag. 284. 45

GAWLIKOWSKI-SCHMIDT COLINET 1990, pagg. 440-441. 46 GAWLIKOWSKI 1990, pagg. 37-44. 47 GAWLIKOWSKI 1991, pagg. 85-90. 48

GAWLIKOWSKI 1992, pagg. 68-76. 49 GAWLIKOWSKI 1993, pagg. 111-118.

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Fig.13. Sezione della Torre di Atenatan (da GAWLIKOWSKI 1993, pag. 111).

Nel 1993 si è tornati a indagare i tre quartieri, il cui scavo è iniziato nel 1988: si è terminato lo scavo della grande abitazione, cui è stato dato il nome di Casa N. Nell’area della Basilica sono stati compiuti alcuni saggi di scavo, al fine di conoscere meglio le prime fasi dell’edificio50. Dal 5 settembre al 12 ottobre 1995 è stato finalmente possibile raggiungere il limite meridionale del complesso residenziale, oggetto d’indagini per tre campagne (1988, 1990 e 1993); gli archeologi si sono particolarmente dedicati alla Casa F, posta nell’isolato centrale, che ha conosciuto una lunga fase di occupazione (anche in questo caso, sino all’età islamica). In collaborazione con il Museo di Palmira, è stato completato lo studio del Castello Arabo, coordinato da J. Bilinski51. Nel 1996 (31 agosto-8 ottobre) l’indagine dei tre isolati è proseguita: è stato possibile ripulire parzialmente l’ingresso della Basilica nell’insula III e compiere saggi di scavo nell’angolo nord-ovest della Casa F. Sono ripresi gli scavi nell’area del portico ottastilo, ed è emerso un cortile porticato all’interno dell’isolato G; alcuni saggi di scavo sono stati praticati nella Casa F. Una nuova chiesa (Basilica II) è emersa nei pressi del cortile, di cui ha incorporato il colonnato nord, il cui scavo è continuato anche nel 1997 (fig.14)52. Fra il 7 settembre e l’ottobre 1998 la Missione ha continuato l’indagine della Basilica II, in particolare gli ambienti annessi; è stato ritrovato anche il cimitero connesso alla chiesa, e tracce di un battistero, di cui però restano scarsissime strutture53.

50 GAWLIKOWSKI 1994 A, pagg. 133-143. 51 GAWLIKOWSKI 1996, pagg. 139-146. 52

GAWLIKOWSKI 1997, pagg. 191-197. 53 GAWLIKOWSKI 1999, pagg. 189-196.

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Fig. 14. Pianta della Basilica II (da GAWLIKOWSKI 1999, pag.190).

La Missione del 1999 si è dedicata prevalentemente allo scavo della Basilica III, che sorge a brevissima distanza dalla chiesa indagata l’anno precedente: l’edificio si presenta meglio conservato; è stata inoltre indagata l’area fra le due basiliche e il cimitero che sorge accanto alla Basilica II. Fra quest’ultimo edificio e il battistero è stato scavato un edificio residenziale abbandonato nel III-IV sec., poi occupato da una bottega di vasaio. Sono anche state messe in luce alcune cisterne, vicino al pavimento delle basiliche II-III; è proseguita la pulizia del portico ottastilo lungo la Via Colonnata54.

La Missione Siriana

La Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Siria ha svolto, dal raggiungimento dell’indipendenza del Paese, diverse missioni a Palmira, sia indipendentemente, sia in collaborazione con altre Missioni internazionali. Nel 1952 una Missione Siriana ha scavato il teatro, di cui rimane circa un terzo della cavea, la scenae frons, l’orchestra, i parodoi e l’ingresso principale, che sbocca sulla via circolare, e da cui si diparte, in direzione sud e parallelamente all’agorà, una via porticata, che termina con un arco a un fornice, fiancheggiato da due nicchie, risalente al II sec. Alcuni lavori di restauro nel teatro sono stati intrapresi nel 198955. Nel 1957 A. Bounni e O. Taha hanno liberato la sezione della Grande Via Colonnata che parte dall’arco monumentale, realizzando l’anastilosi di più di ottanta colonne. Inoltre, le terme di età severiana sono state scavate da questi due archeologi insieme a K. Al As’ad e N. Saliby 56.

Al termine di questa seconda sezione della Grande Via, Bounni, in collaborazione con Taha e Saliby, ha messo in luce il santuario di Nabu, a sud-ovest dell’arco monumentale,

54 GAWLIKOWSKI 2000, pagg. 249-260. 55

BOUNNI – AL AS’AD 1995, pag. 78. 56 BOUNNI – AL AS’AD 1995, pag. 76.

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che era completamente ricoperto dalla sabbia, nel 1963-1964 e il 1970; il tempio era già stato identificato da Wiegand nel 1917, che però, a causa della presenza di un rilievo con coda di pesce su uno dei blocchi, lo identificò con un tempio della dea Atargatis57. Scopo delle prime due campagne era di liberare dalla sabbia e scavare completamente il santuario; inizialmente non comparvero elementi che potevano indicare chiaramente chi fosse il dio titolare, anche se nella primavera del 1963 fu trovato nella cella un piccolo bassorilievo raffigurante Eracle/Nergal. Solo nell’autunno di quell’anno comparve un’iscrizione che menzionava chiaramente il dio Nabu, seguita poi da altre testimonianze epigrafiche. L’edificio sorge al centro di un cortile porticato trapezoidale e risale al I-II sec.; ne sono stati messi in luce il podio con colonnato, la cella e il suo thalamos. E’ inoltre

emerso un piccolo edificio quadrato con colonne, all’interno del quale vi era un bassorilievo con cinque divinità (fig.15)58. Il 1963 è stato un anno di grande attività: lo stesso Bounni, con la collaborazione di Saliby, ha liberato il primo tratto della Grande Via Colonnata, quello che congiunge il santuario di Bel all’arco monumentale59. Nello stesso anno, Saliby, Bounni e Al As’ad hanno scavato un piccolo ninfeo semicircolare, vicino al Tetrapilo, nel portico nord della Grande Via Colonnata; due delle sue quattro colonne erano ancora in piedi, mentre una terza è stata rialzata nel 1977. Si è anche scavata la via a sinistra del ninfeo, che conduceva al santuario di Baalshamin; su iniziativa del Direttore Generale delle Antichità S. Abdulhak, A. Moufti, R. Dahman, K. Al As’ad e O.Taha hanno diretto la ricostruzione del Tetrapilo, di cui rimanevano in piedi solo quattro piedistalli, in collaborazione con l’architetto A. Ostratz60.

Fig. 15. Edicola di fronte al santuario di Nabu (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 114)

Nel 1970 sono stati compiuti scavi complementari nell’area del santuario di Nabu e nel decennio 1970-1980, è stato messo in luce il settore settentrionale delle mura, dal Museo fino al Campo di Diocleziano per una lunghezza di circa 1,500 m, consolidandolo e restaurandolo; nel 1973 è stata scavata un’abitazione che si affaccia sul portico est del

57 BOUNNI 2004, pagg. 1-2. 58 STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 121. 59

BOUNNI – AL AS’AD 1995, pag. 72. 60 BOUNNI – AL AS’AD 1995, pagg. 82-84.

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teatro. Fra il 1973 e il 1976 furono restaurati i tetti e le scale delle tombe di Giamblico, Elahbel e Kitot. Dal 1977 al 1983, la Missione ha scavato, nel corso di sei campagne consecutive, lungo la Grande Via Colonnata, nel settore a ovest del Tetrapilo61, sgombrando circa 300 m, comprendendo anche i portici nord e sud e le porte delle botteghe che si affacciavano sulla strada; sono state individuate numerose strutture, fra cui quarantasei botteghe, in un primo tempo datate all’età ayyubbide, ma in seguito attribuite, dopo il sondaggio effettuato in collaborazione con la Missione Polacca, al suq di età ommayyade (fig.15, vd. supra)62.

Fig. 15.Il suq ommayyade da nord-ovest (da STEPNIOWSKI 1987, pag.283).

E’ emersa anche una canalizzazione in terracotta, che si dirigeva verso sud. Fra le rovine sono emersi numerosi frammenti di statue (fra cui un leone intero), monete e lucerne; tutti gli elementi architettonici sono stati disposti regolarmente, disegnati e fotografati. Nel 1982, partendo dal Campo di Diocleziano e procedendo verso est, la Missione ha messo in luce circa 200 m del settore meridionale delle mura tardo-antiche del sito, procedendo a restauri e ricostruzioni. Anche in questo caso, gli elementi architettonici emersi durante lo scavo, sono stati trasportati davanti al settore meridionale delle mura, allineati, fotografati e disegnati63. Fra il 1978 e il 1981 Bounni, sia con i colleghi siriani, sia in collaborazione con E. Will e l’architetto J. Seigne, ha realizzato numerosi sondaggi per definire con precisione i confini del santuario di Nabu, rivedendo i rilievi sino ad allora realizzati e curando la rappresentazione grafica di tutti gli elementi architettonici. Tra il 1978 e il 1985 sono inoltre stati restaurati i portici e l’altare monumentale del santuario di Nabu, sotto la direzione di S. Taha; nel 1978 e 1980 sono stati scoperti due importanti testi, mentre sotto la pavimentazione tarda sono stati ritrovati molti elementi architettonici reimpiegati: è stato così possibile collocarli nella loro posizione originaria64.

61 AL AS’AD 1985, pagg. 135-136. 62 STEPNIOWSKI 1987, pagg. 282-287; AL AS’AD-STEPNIOWSKI 1989. 63

AL AS’AD 1985, pag. 136. 64 BOUNNI 2004, pagg. 2-4.

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Nel 1984 è stata liberata la via meridionale, che conduceva dalla piazza del teatro alla porta sud delle mura meridionali, a est dell’entrata dell’agorà, per una lunghezza totale di circa 80 m; sono stati inoltre liberati circa 25 m dei portici est e ovest dell’estremità settentrionale, così come le entrate di alcune botteghe che si affacciavano sul portico est. Anche in questo caso gli elementi architettonici sono stati allineati e fotografati, in vista di un restauro65. Nel 1993, sotto la direzione di Al As’ad, è stata scavata un’abitazione di tipo palmireno, situata a est del teatro, con fondazioni in pietra e muri in mattoni crudi e stucco; un’altra casa simile è stata scavata nell’area a sud del Tetrapilo ed è stata parzialmente liberata una torre funeraria a pianta esagonale, in collaborazione con Bounni e J. M. Dentzer66.

La Missione congiunta siriano - tedesca Fra il 1981 e il 1985 è stata studiata la tomba 36 (tomba-casa della famiglia di Iulius Septimius Aurelius Worod), risalente alla fine del II sec. o agli inizi del III sec., grazie ad una missione congiunta siriano-tedesca, voluta dall’Istituto Archeologico Tedesco di Damasco e dalla Direction Générale des Antiquités et des Musées della Repubblica Siriana, sotto la direzione di K. Al As’ad. Si è effettuato un rilievo dei crolli, il disegno, lo studio, la fotografia e la numerazione di tutti gli elementi architettonici, che sono stati portati all’esterno e disposti regolarmente in vista della ricostruzione, mentre la camera sotterranea è stata sgomberata. Fra i detriti sono emersi numerosi frammenti architettonici, oltre a lucerne e monete di bronzo.67 Gli elementi architettonici sono stati disegnati e misurati, procedendo al restauro e alla ricostruzione della tomba: i lavori si sono concentrati principalmente nell’ala nord della camera sotterranea. Alcune chiusure di loculi mancanti sono state rifatte in cemento, mentre la scena di banchetto e i pilastri, con i loro capitelli, sono stati ricostruiti in pietra. La decorazione scultorea è stata tutta fotografata, e sono state fatte ricerche nelle altre tombe palmirene per fare confronti; molti elementi architettonici sono stati ripuliti, e numerose facciate sono state misurate e disegnate, al fine di offrirne una ricostruzione teorica. Si è provveduto inoltre a compiere analisi chimico-fisiche sui blocchi e a trattarli con sostanze contro la proliferazione di alghe e licheni68. I lavori sono stati ripresi fra 1986 e 1988, concludendo l’opera di restauro: gli architravi dell’ala nord della tomba sono stati ricostruiti con materiale litico moderno, riposizionando i frammenti del soffitto settentrionale, l’angolo nord-ovest dello stilobate e le basi delle colonne del peristilio del primo piano. Anche la soglia dell’ingresso principale è stata sostituita, e quest’ultimo è stato rimaneggiato e rinforzato per consentire un facile accesso ai visitatori; alcuni blocchi danneggiati dei muri nord ed est sono stati sostituiti con blocchi moderni. Alcuni materiali trovati nella tomba, che non è stato possibile riposizionare, sono stati esposti al Museo di Palmira. Sono continuati lo studio e l’analisi delle decorazioni architettoniche, ed è stata realizzata una nuova pianta della Valle delle Tombe, oltre a realizzarne una mappatura

fotografica. La tomba n°186 o dell’Aviazione è stata ripulita, nell’ambito del progetto di studio sulle tombe palmirene, sostituendo quattro colonne del peristilio; all’interno sono 65 AL AS’AD 1985, pag. 136. 66 AL MAQDISSI 1995, pag. 211. 67

AL AS’AD 1985, pagg. 136-137. 68 SCHMIDT COLINET 1986, pag. 397.

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stati trovati cinque nuovi loculi, frammenti di decorazione e resti di cinque scheletri. Si è provveduto a chiudere l’ingresso con una porta moderna e a effettuare sondaggi davanti alla facciata (fig.16)69.

Fig. 16. La tomba n°186 dopo i restauri (da SCHMIDT COLINET 1990, pag. 453).

Nel 1990, nell’ambito della decima missione siriano - tedesca, con il sostegno dell’Istituto Germanico di Damasco, iniziò una collaborazione fra l’Università di Berna (A. Schmidt -

Colinet e A. Stauffer) e la Direzione delle Antichità e del Museo di Palmira (K. Al As’ad). L’équipe si è occupata del trasporto presso il Museo di Palmira, dell’allestimento e del restauro di parte della decorazione della Tomba 36. Sono inoltre stati presentati i risultati di uno studio dei tessuti palmireni, frutto del confronto fra i campioni raccolti nella tomba di Kitot, di Giamblico ed Elahbel con le decorazioni architettoniche domestiche, realizzando inoltre una mostra all’interno del Museo palmireno. Sono poi stati restaurati i frammenti di tessuti e di resti umani mummificati trovati dalla Missione Siriana nella Tomba di Atenatan, evidenziando importazioni di porpora fenicia e seta cinese della dinastia Han; si è anche pianificata, per la stagione successiva, l’indagine delle cave a nord-est della città. Fra il 16 settembre e il 23 ottobre 1991 la stessa Missione, cui si sono associati anche studiosi e archeologi dell’Università di Leuven, ha continuato lo studio dei tessuti palmireni, riprendendo e completando lo studio compiuto da Pfister negli anni Quaranta, analizzando anche i materiali conservati presso il Museo di Damasco. Anche in questo caso, gli studi hanno permesso il restauro e l’esposizione dei tessuti analizzati, sia di produzione locale sia importati. Poiché lo studio dei tessuti ha evidenziato come molti di essi risalissero al I sec. d.C., ci si è posti il problema di individuare i quartieri di Palmira abitati fra I sec. a.C. e I sec. d.C. La scoperta del tempio di Arsu, databile agli inizi del I sec., da parte di una Missione Siriana, ha spinto gli archeologi a compiere una ricognizione a sud del tempio: sono stati trovati numerosi frammenti ceramici di I sec., e un piccolo sondaggio nella collina posta a sud-est ha evidenziato un grande edificio in pietra e frammenti ceramici (soprattutto terra sigillata di I sec. e ceramica partica). Ciò ha consentito di individuare in quest’area il

69 SCHMIDT COLINET 1990, pag. 451.

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quartiere ellenistico e di prima età romana di Palmira. Si è inoltre realizzato il progetto di mappare le cave situate 7 km a nord-est di Palmira, studiando i procedimenti di estrazione e lavorazione dei blocchi, e la loro cronologia70.

La Missione congiunta siro-tedesca-austriaca Nel 1997 la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Siria ha iniziato una collaborazione con l’Istituto Germanico di Damasco e l’Università di Vienna, al fine di indagare l’area a sud dello wadi, dove s’ipotizzava la presenza del quartiere ellenistico

cittadino. Fra il 1997 e il 1998 è stata compiuta una prospezione geofisica, realizzando un magnetogramma che ha reso “visibili” le strutture, anche in assenza di scavo71.

Fig. 17. Planimetria del quartiere ellenistico di Palmira (da AL AS’AD – SCHMIDT COLINET 2002, pag. 159).

70

AL’ASAD-SCHMIDT COLINET 1993, pagg. 567.-576. 71 AL AS’AD – SCHMIDT COLINET 2002, pag. 156.

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La Missione Giapponese Nel 1988, in occasione della mostra sulla Via della Seta organizzata in Giappone, alcuni tessuti palmireni furono concessi in prestito dal Governo Siriano al Museo di Nara ed esposti nella città giapponese: in seguito a questo primo scambio, la Prefettura di Nara decise di finanziare nel 1990 una Missione archeologica, cui presero parte diversi studiosi provenienti dalle Università di Kyoto, Nara e Kyushu, dal Museo dell’Oriente Antico di Tokyo e da altre istituzioni. La Missione si è posta come obiettivi principali lo studio delle pratiche funerarie palmirene, dei corredi, dei processi di costruzione delle tombe e dello studio dei resti scheletrici72. La Missione è giunta a Palmira nel 1990, operando nella necropoli sud-orientale, posta a

1,5 km a sud del tempio di Bel; circa 20 tombe, della tipologia a casa o a torre, erano già noti ma numerosi ipogei (circa venti, ma solo dieci scavati) erano emersi solamente alla fine degli anni Cinquanta, in seguito alla costruzione di un oleodotto. La prima campagna ha comportato una serie di prospezioni geofisiche su di un’area di circa 30.000 m2. Nel 1991, la seconda campagna ha riguardato lo scavo della tomba casa A, ritenuta in origine, sulla base delle prospezioni geofisiche, un ipogeo. La tomba aveva sedici loculi nel piano terreno, mentre del probabile piano superiore non rimaneva alcuna traccia; essa era già stata visitata dai ladri, e non vi erano oggetti di corredo. La tomba C fu scavata fra il 1991 e il 1992: a essa si accede tramite una scalinata, che da accesso a un cortile e a un portale d’ingresso, mentre all’interno vi sono due camere principali e una camera laterale; anche in questo caso la tomba era stata saccheggiata. Un’iscrizione in palmireno ricorda che la tomba fu costruita da Yarhai, figlio di Lishams e nipote di Maliku, nell’aprile del 109 d.C.; nonostante la violazione, nella prima camera vi erano ancora un ritratto funebre maschile anepigrafe e le immagini di un bambino (non in situ), con una colomba e un grappolo d’uva in mano, di nome Yarhai, figlio di Lishams, e di

una bambina, figlia del fondatore della tomba, rappresentata in piedi con un ramo d’olivo in una mano. La seconda camera principale aveva le pareti coperte da file da loculi, decorate da quattro colonne e dotata di una nicchia semicircolare. In essa vi era un’imago clipeata (fig.18) di un uomo barbato, sorretta da due Vittorie in volo (unico esempio di una scultura del genere a Palmira), mentre sotto la nicchia vi erano le immagini di Yarhai e di suo figlio Shalma, con due figure di fanciulli: la prima è però designata come quella della figlia di MLA, mentre il secondo fanciullo è MLA, figlio di Yarhai. Nella camera laterale vi erano solo un sarcofago e una tomba a pozzo: il sarcofago era a due piani e ospitava uno scheletro in ciascuno, senza alcun oggetto di corredo.

72 KIYOHIDE 1995, pag.19.

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Fig. 18. Imago clipeata dalla Tomba C (da KIYOHIDE 1995, pag. 24).

All’interno della tomba vi erano circa trenta loculi, ma all’interno vi erano inumati cinquantun individui: spesso si tratta di sepolture multiple, con fino a sei adulti in un medesimo loculo. L’antropologo della Missione, dr. Nakahashi, ha individuato trenta scheletri di uomini, tredici di donne e diciotto di sub adulti; i bambini sepolti sotto la pavimentazione o nel pozzo avevano spesso meno di un anno d’età, mentre sopra i quattro anni potevano essere inumati insieme agli adulti. Interessante la presenza di un adulto di circa sessant’anni cremato; la maggior parte degli adulti aveva fra 40 e 59 anni, con un’altezza media di 1,70 m. Fra gli oggetti di corredo vi erano uno specchio bronzeo, vetri, un contenitore di pelle, spille di bronzo, che accompagnano più frequentemente le sepolture infantili73. Nel 1992 fu trovata un’altra tomba ipogea (F), con un’iscrizione palmirena su cinque righe, riguardante la cessione di parte della sepoltura nel 220 e 223 d.C. Nel 1994 lo scavo è proseguito, mettendo in luce cinque sarcofagi, un rilievo con un satiro e l’iscrizione di fondazione: la tomba fu edificata nel 128 dai due fratelli BWLH e BWRP. Oltre alla camera principale vi erano altre due camere laterali, separate dalla prima da un arco la cui chiave è decorata da una testa di Medusa. Nel 1995 sono state scavate le camere laterali: la maggior parte dei loculi non è, però, mai stata terminata o utilizzata74. La tomba è inoltre stata restaurata e ricostruita, basandosi sul principio dell’anastilosi e utilizzando materiali chiaramente distinguibili da quelli originali; le tecniche e le metodologie impiegate sono state utilizzate anche dall’équipe siriana per la ricostruzione della Tomba dei Tre Fratelli nel Museo di Palmira75.

73 KIYOHIDE 1995, pagg.20-26. 74

KIYOHIDE 1995 , pagg. 26-28. 75 KIYOHIDE 2012, pagg. 10-11.

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2. 3 Il nuovo millennio: nuovi scavi e nuove ricerche

Il “progetto Palmira”: la Missione congiunta italo - siriana

Nel 2007 è nata una missione congiunta italo - siriana, per iniziativa dell’Università degli Studi di Milano e della Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Damasco (PAL.M.A.I.S. = Palmira Missione Archeologica Italo-Siriana). La prima campagna si è svolta nel novembre 2007 ed ha avuto come obiettivo l’indagine del quartiere sud-occidentale della città, che non era prima mai stato indagato in maniera estensiva. Si tratta di un’area definita dal muro perimetrale dell’agorà a sud-est, a sud-ovest e a sud dal tratto delle mura di Diocleziano comprese fra l’agorà e la Porta di Damasco, a nord-ovest e nord-est dalla Via Colonnata Trasversale e dalla Grande Via Colonnata. E’ un quartiere a destinazione prevalentemente residenziale, probabilmente il primo allargamento di quella parte della città che si svilupperà in età romana e continuerà a vivere sino all’epoca tardo-antica (fig.19).

Fig. 19. Pianta di Palmira con il quartiere sud-ovest in evidenza (da GRASSI 2010, pag. 2).

La prima campagna (4 novembre- 2 dicembre 2007) ha comportato un’attenta ricognizione, volta a comprendere la struttura urbanistica del quartiere e a individuare un settore da scavare in estensione, per verificarne la cronologia e la destinazione d’uso.

E’ stata eseguita una prima planimetria, oltre alla revisione di alcuni sondaggi praticati dalla Direzione Generale delle Antichità76. L’identificazione delle strutture in situ (sono state prese in considerazione solo quelle infisse al suolo, mentre i materiali semplicemente appoggiati sono stati scartati, perché probabilmente frutto di riporto) è avvenuta non solo tramite fotografie, ma anche grazie a tecniche automatiche di rilevamento, il che ha permesso l’elaborazione informatica dei dati raccolti e la loro georeferenziazione, al fine di creare un GIS del quartiere; è stato inoltre creato un sito web dedicato al progetto (www.users/unimi.it/progettopalmira/). Ogni struttura è stata definita “unità di rilievo” (UR, in totale 338), cui è stato assegnato un numero progressivo, e compilata la relativa scheda. E’ stato poi creato un database, 76 GRASSI 2009, pagg. 194-196.

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palmais, collegato al sistema GIS; sono anche stati identificati gli elementi architettonici (EA, 125 in totale), talvolta in situ, ma più spesso reimpiegati e perciò esclusi dalla precedente ricognizione. Anche questi elementi sono stati inseriti nel database e nel GIS. L’area è caratterizzata da diversi cumuli artificiali di terreno lungo il lato nord, e da una depressione lungo il margine est; una serie di grandi buche in diagonale segnala il percorso di un canale o acquedotto, di epoca preromana. Il massiccio uso di materiali di reimpiego ha inoltre consentito, fin dall’inizio, di ipotizzare una lunga vita abitativa del quartiere; si sono inoltre potuti identificare alcuni allineamenti, in blocchi lapidei, che in molti casi indicano i margini delle vie che attraversavano il quartiere da nord a sud, o, in misura minore, da est a ovest.

Gli isolati non hanno misure uniformi, perché le vie non sono parallele fra loro; le cinque strade con orientamento nord-est/sud-ovest non sembrano essere collegate alla Grande Via Colonnata e nell’unico punto in cui la sequenza di colonne s’interrompe, un grande arco segnala l‘ingresso a un edificio quadrangolare. A est, il quartiere è definito da un’altra via colonnata, che parte dal Tetrapilo, e ha ugualmente un allineamento differente rispetto alle vie del quartiere; gli orientamenti delle vie sembrano differire anche da quelli rilevati nel quartiere ellenistico a sud dello wadi. Un’altra strada, molto irregolare, sembra aver attraversato il quartiere da nord-ovest a sud-est77. In seguito, fra il 2008 e il 2010 si sono svolte tre campagne di scavo in corrispondenza della struttura più imponente del quartiere SW, denominata “Edificio a Peristilio”78. L’Edificio si trova nel settore meridionale del quartiere, vicino alle mura tarde, e la sua presenza era segnalata da dodici colonne ancora in situ. Lo scavo stratigrafico mirava ad approfondire un aspetto sinora scarsamente indagato a Palmira, vale a dire quello dell’edilizia privata. Sono stati parzialmente esplorati i lati nord e ovest dell’Edificio, e l’avvio degli studi preliminari dei materiali e delle tecniche edilizie79 ha consentito di evidenziare, per il momento, due macrofasi di frequentazione, la prima databile all’età severiana (fine II – inizio III sec. d. C.) e la seconda ai secc. VI-VIII d. C.

La Missione Polacca Dopo un’assenza di un anno, dal 28 aprile al 31 maggio 2001 la Missione Polacca ha continuato lo scavo dell’isolato indicato con la lettera G sulla planimetria di Gabriel, posto sul lato orientale della strada chiamata “Via della Chiesa”, proveniente dalla Grande Via Colonnata. Si è deciso di indagare una delle due chiese emerse durante gli scavi degli anni passati, la Basilica III. Sono stati scavati circa i due terzi dell’edificio sacro, evidenziando anche elementi di riuso (fornace per calce) dopo l’abbandono nell’VIII-IX sec. E’ stato inoltre indagato l’atrium basilicale; durante lo scavo del martiryum è stato ritrovato un tesoretto di monete d’argento coniate da re sasanidi o loro imitazioni di prima età islamica

(fig.20). Si è inoltre effettuata una sezione trasversale nel settore della Grande Via

77 GRASSI 2010, pagg. 4-10. 78

GRASSI – AL ASAD c.s. 79 PALMIERI 2010, pagg. 175-176; GRASSI-ZENONI-ROSSI 2012, pagg. 53-82.

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Colonnata di fronte dell’insula E, dove sorge un portico ottastilo, evidenziando una frequentazione dall’età romana a quella islamica80.

Fig. 20. Pianta della Basilica III (GAWLIKOWSKI 2003, pag. 280).

Dal 29 aprile al 14 giugno 2002 la Missione ha continuato lo scavo della Basilica III, iniziato l’anno precedente, mettendo in luce la maggior parte delle strutture dell’edificio; l’atrium è

stato liberato dalle strutture successive e si è proceduto all’anastilosi delle colonne ancora in situ. E’ stato possibile scavare anche la cappella laterale nord-occidentale, che si affacciava sull’atrium medesimo; è probabile tuttavia che si tratti di una struttura non usata per il culto cristiano, ma riusata come qibla di una piccola moschea. L’edificio si data probabilmente al VI sec., e fu abbandonato nel IX d.C. Nel settore nord della Grande Via Colonnata, dietro le botteghe lungo il portico ottastilo, è emerso un pavimento a mosaico, parzialmente messo in luce: tale pavimento era obliterato dalle strutture della Basilica I, e benché gli archeologi ne ipotizzassero la presenza, lo scavo era stato rimandato per ragioni pratiche. La parte messa in luce del mosaico presenta tre emblemata circondati da motivi geometrici e vegetali: il primo rappresenta un caprone di fronte ad un albero, il secondo due grifoni femmina ai lati di una testa di toro, il terzo due pantere a fianco di un kantharos81. Nel 2003 (27 aprile – 25 giugno), la Missione ha lavorato principalmente alla messa in luce totale del mosaico scoperto l’anno precedente, pulendolo e restaurandolo. Sono emersi nuovi pannelli figurati: Bellerofonte che affronta la chimera e un cavaliere che scocca una freccia contro una tigre; in pannelli più piccoli vi sono pesci, pavoni, anatre, maschere dionisiache con animali in corsa. Sopra la figura del cavaliere vi è un’iscrizione palmirena, che ricorda l’artista, Diodoto, che lo realizzò con i suoi figli. Secondo Gawlikowski, l’immagine del cavaliere potrebbe celebrare la vittoria di Odenato su Shapur82. Esso è databile al III sec., ma una parte fu aggiunta probabilmente dopo la fine del regno di

80 GAWLIKOWSKI 2002, pagg. 257-269. 81

GAWLIKOWSKI 2003, pagg. 279-290. 82 GAWLIKOWSKI 2005 A, pagg. 1293-1303.

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Zenobia: la decorazione a mosaico, più rozza, raffigura motivi geometrici e mani aperte; é probabile che la struttura sia stata reimpiegata per scopi religiosi.

Fig. 21. Il mosaico “di Odenato” (da GAWLIKOWSKI 2005 A, pag. 1295).

Sono inoltre state scavate due vie che fiancheggiavano l’isolato E della planimetria di Gabriel, che sono state chiamate Via di Diogene, da un’iscrizione posta su di una vicina colonna, e Via del Frantoio. In quest’area sono emerse soprattutto botteghe, che testimoniano un’occupazione fra I e III sec. d.C., e sono stati compiuti dei saggi davanti alla Basilica I83. Fra il 2002 e il 2003 era stata inoltre parzialmente indagata un’area compresa fra la Grande Via Colonnata a sud, la facciata della Basilica I a nord, la “Via di Diogene” a est e la “Via del Frantoio” a ovest. Nel 2005 l’indagine è proseguita, per studiare tre zone dell’insula

individuata negli anni precedenti, mettendo in luce diversi ambienti, databili, sulla base dei materiali, al II-III sec. d.C.; in un ambiente si è verificato un riuso in età bizantina, mentre un sondaggio ha appurato una frequentazione dal I sec. d.C. E’ inoltre messo in luce il muro di fondazione della Basilica I, lungo il lato nord84. Nel 2004 non sono stati compiuti scavi: la maggior parte del lavoro si è svolto all’interno del Museo di Palmira, studiando e sistemando i reperti emersi durante i quarant’anni di scavo della Missione. E’ stato inoltre progettato un riparo per proteggere il mosaico emerso fra 2002 e 2003, in collaborazione con la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Damasco85. Fra il 2005 e il 2006 la Missione è ritornata a indagare l’area del Campo di Diocleziano, presso il santuario di Allath, in vista della prossima pubblicazione del monumento; le indagini sono state continuate fra il 16 ottobre e il 16 novembre 2007, nell’angolo nord-occidentale del temenos. Lì è stata scavata una cisterna, riempita con frammenti architettonici e materiali ceramici databili al I e al III sec., oltre ad una colonna del portico settentrionale. La cisterna è stata probabilmente realizzata prima del sacco di Aureliano, e

83 GAWLIKOWSKI 2004, pagg. 313-324. 84

ZUCHOWSKA 2007, pagg. 439-442. 85 GAWLIKOWSKI 2005 B, pagg. 461-465.

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al suo interno sono emerse anche alcune pietre di una fondazione, già evidenziata nel 1977, sotto la superficie del temenos; la parte nord-occidentale della medesima deve essere crollata nella cisterna. Probabilmente è pertinente a una cappella arcaica del santuario, simile a quella che sorge non lontano, ma che fu demolita quando fu costruita la nuova cella. Altri scavi sono stati iniziati presso la Basilica IV, in vista d’interventi futuri. L’équipe ha inoltre continuato il lavoro all’interno del Museo86.

La Missione congiunta siro-tedesca-austriaca La Missione congiunta voluta dalla Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di

Damasco, dall’Istituto Germanico di Damasco e dall’Università di Vienna ha continuato il progetto nell’area a sud dello wadi. Fra il 1999 e il 2001 sono state aperte due trincee, la prima con lo scopo di chiarire la sequenza stratigrafica degli edifici vicini alla “via principale”, la seconda, posta nel centro dell’insediamento, volta a fornire le prime indicazioni archeologiche su di un grande edificio quadrangolare, evidenziato dal magnetogramma. Si sono inoltre studiati e catalogati i reperti emersi durante lo scavo; i rilievi sono stati realizzati sia manualmente sia con un teodolite connesso al software LISCAD. La prima trincea ha messo in luce un incrocio e due ambienti domestici, e due condotte idriche e un pozzo sono emerse nel centro della “via principale”, evidenziando un complesso sistema idraulico nella zona; piccoli reperti scoperti sul fondo del pozzo ne attestano l’uso fino al II a.C. All’interno della stanza n°2 sono emersi pesi da telaio (fig.22), due forni e grandi pythoi.

Fig. 22. Pesi da telaio (da AL AS’AD – SCHMIDT COLINET 2002, pag.164).

Si è potuta determinare una prima sequenza edilizia del quartiere: le più antiche fasi costruttive risalgono al III sec. a.C., mentre la maggior parte delle strutture sembra risalire fra la fine del II sec. a.C. e la prima metà del I sec. a.C., mentre non vi sono evidenze di II sec., forse perché il centro della città si spostò a nord dello wadi. Solo in età severiana si tornò a costruire nel quartiere meridionale, che fu frequentato sino alla fine del III sec. o gli inizi del IV sec., e abbandonato forse in seguito alla conquista della città compiuta da Aureliano o con l’insediamento militare voluto da Diocleziano. La seconda trincea ha suggerito per il grande edificio una frequentazione fra I e II sec. d.C.; entrambi gli scavi hanno portato alla luce numerosi reperti: parti di stucchi e di decorazioni parietali,

86 GAWLIKOWSKI 2010, pagg. 517-526.

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lucerne, pesi da telaio, monete, frammenti di bronzo, osso e vetro. Particolarmente importante è stata la scoperta di una tessera raffigurante la divinità cittadina di Palmira seduta con la fonte Efqa ai suoi piedi su di un lato, e il nome di un sacerdote (Moqimo)

sull’altro. I reperti ceramici mostrano una grandissima quantità di ceramica ellenistica, sia importata (Cipro e Mediterraneo Orientale) sia prodotta localmente, fra cui imitazioni di ceramica greca e sigillata (III a.C. - I sec. d.C.), che consentono di precisare non solo la cronologia del quartiere ma anche la sua vita economica. Sono emerse anche anfore vinarie provenienti da Rodi, Gaza e l’Egitto; alcune anfore nord-africane contenevano olio e garum, mentre un vaso egiziano sembra aver contenuto datteri87.

La Missione francese

Christiane Delplace, nel 1999, conducendo alcune prospezioni con P. Clauss per la redazione della carta archeologica di Palmira, incontrò un edificio che non compariva su alcuna carta esistente della città: si decise quindi di realizzare un rilievo topografico di tutto il settore, denominato quartiere M, che fu affidato all’architetto dell’IFAPO Th. Fournet. La Direction Générale des Antiquités e des Musées de Syrie accordò un permesso di scavo per cinque anni (2001-2005), più tre anni per l’attività di studio (2006-2008). L’edificio principale, l’obiettivo più rilevante dell’indagine, di forma rettangolare, si trova a nord del sito, ma all’interno della cinta, vicino alla porta urbica detta di Dura Europos. Una prima analisi della struttura (M103), in base alla planimetria, suggeriva che si trattasse di un caravanserraglio, con il cortile interno occupato da botteghe (fig.23)88.

Fig. 23. Pianta del Mercato Suburbano M103 (da DELPLACE 2006-2007, pag.93).

Lo scavo e lo studio delle evidenze (fig.24) e dei materiali hanno invece condotto Ch. Delplace a formulare l’ipotesi che si tratti di un macellum, databile al III sec. d. C., con ulteriori trasformazioni nelle età successive (in parte, ad esempio, in area a destinazione

funeraria). A favore della funzione originale di macellum vi è il confronto con analoghe strutture a Gerasa, Apamea e forse Bosra. La presenza di un portico sembra piuttosto generalizzato

87

AL AS’AD – SCHMIDT COLINET 2002, pagg. 157-166. 88 DELPLACE 2006-2007.

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nei macella ma a Palmira tuttavia non ve ne è traccia. E’ inoltre possibile che si trattasse del mercato di un nuovo quartiere residenziale, quale, in effetti, sembra essere quello M, dove sono stati trovati diversi peristili, e dove una nuova via porticata (M201) inglobò una colonna onoraria più antica, risalente al 139 d.C. Anche se spesso il macellum sorge vicino al foro o al centro cittadino, non mancano esempi di macella suburbani, come a Leptis Magna, Ostia, Corinto, e tale sembra essere anche il caso di Palmira89.

Fig. 24. La pavimentazione dell’ambiente 22 (da DELPLACE 2006-2007, pag. 100).

Oltre ai nuovi scavi del Mercato Suburbano, l’attività della Missione Francese si è concentrata nell’avvio dell’importante opera di pubblicazione degli archivi francesi relativi a Palmira, conservati a Damasco e in altre sedi europee, intraprendendo “avant tout le sauvetage d’une documentation ancienne, qui dormait depuis la fin du mandat français”90. Il primo volume è stato pubblicato, nel 2005, nella collana Bibliothèque Archéologique et Historique (nr. 175) dell’IFPO: curato da Christiane Delplace e Jacqueline Dentzer-Feydy, il volume riguarda l’Agorà di Palmira e ha ripreso in esame i lavori di Henri Seyrig, Raymond Duru e Edmond Frézouls (vd. infra, cap. 5), con aggiornamenti e approfondimenti. Nel 2012 è uscito, nella stessa collana dell’IFPO (Bibliothèque Archéologique et Historique, nr. 195) il volume di J.-B. Yon dedicato alle iscrizioni greche e latine di Palmira: Inscriptions grecques et latines de la Syrie. Tome XVII – fascicule 1, Palmyre. Tra i lavori di sintesi di maggiore importanza dell’ultimo decennio, si deve almeno

ricordare anche un altro volume dello stesso autore, membro della Missione Francese di Palmira, J.-B. Yon (Bibliothèque Archéologique et Historique, nr. 163), pubblicato nel 2002: Les notables de Palmyre.

89

DELPLACE 2006-2007, pagg. 109-110. 90 CH. DELPLACE - J. DENTZER FEYDY, Introduction, in Agora de Palmyre 2005, pag. 9.

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La Missione Giapponese La Missione dell’Istituto Archeologico di Kashihara (Università di Nara), diretta da Saito Kiyohide, si è proposta di continuare e approfondire l’indagine e la comprensione delle pratiche funerarie a Palmira, non solo scavando, ma raccogliendo anche tutta la documentazione esistente91. La Missione, in collaborazione con la Direction Générale des Antiquités et des Musées de Palmyre, presieduta da Aumar As’sad, ha intrapreso dal 2006 lo scavo della Tomba Casa n°129 b (fig.25). Quest’ultima era stata scoperta e numerata da Wiegand e Krencher nel 1932, e sorge nella necropoli settentrionale, non lontano dalla zona detta “dell’Acropoli”, poi inglobata nella

cinta difensiva di età dioclezianea. Nel 2006, la Missione iniziò il proprio lavoro rilevando le strutture murarie, compresi i blocchi crollati, grazie ad un laser scanner tridimensionale: ciò permise di ricostruire la sequenza di crollo dei muri della tomba; il muro nord fu il primo a cedere, seguito da quelli est, sud e ovest, probabilmente a seguito di disastri naturali. La tomba ha una planimetria rettangolare, con una porta monumentale sul lato occidentale e una scalinata di dodici gradini; ogni muro è decorato da quattro colonne (di cui due angolari), con capitelli corinzi, e tre pseudo - finestre poste nello spazio fra i capitelli. La copertura della tomba era probabilmente a timpano, forse dotato di un acroterio. All’interno, fu ipotizzata la presenza di un piano inferiore, con il soffitto sorretto da pilastri e occupato da loculi, mentre quello superiore doveva presentare una sorta di corte quadrata e pavimentata, che partiva dall’ultimo gradino della scala, e che si trova a circa 1,70 m dalle fondamenta della tomba. Lo stipite della porta recava un’iscrizione in greco, sfortunatamente mutila, mentre la pavimentazione è costituita da argilla, stucco e frammenti di pietra. Durante la costruzione delle pareti furono lasciati dei fori, in cui furono inserite sepolture infantili all’interno di vasi92. Nel 2006 le indagini geoarcheologiche hanno permesso di individuare con buona certezza nei terremoti le cause del crollo della tomba. Nel corso del 2007 e del 2008 emersero ventitré sepolture infantili, di cui quattro furono subito scavate, mentre altre quindici lo furono negli anni successivi; le tombe erano state costruite durante i lavori per la realizzazione del muro di età tetrarchica, vicino alla scalinata della tomba. Si possono osservare tre tipi di sepoltura: all’interno di grossi vasi, in pozzi funerari o in sepolcri; questi ultimi avevano di solito una forma a L, con un pozzo di accesso e una fossa per l’inumazione del cadavere, molto simili alla successiva tipologia islamica. La ceramica permette di datare queste sepolture al tardo III sec. d.C.; nel 2010 si è proceduto all’analisi tramite laser scanner 3D della parte interna della tomba.

91

KIYOHIDE 2012, pag.11. 92 KIYOHIDE 2011, pagg. 1-2.

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Fig. 25. Immagine 3D della Tomba n°129 b.

Le prime ipotesi riguardanti la struttura interna, che secondo gli scavatori doveva essere abbastanza simile a quella della Tempio Funerario, si è rivelata errata alla luce delle nuove indagini: è emerso invece un largo corridoio, poggiante sulle fondazioni e pavimentato con lastre di pietra, in cui si aprivano numerosi loculi (buona parte delle lastre di chiusura era però stata asportata). Il corridoio raggiungeva l’ingresso tramite due gradini; lo studio dell’iscrizione di fondazione ha permesso di identificare il nome di Gaius Julius Bassus e sono inoltre stati ritrovati frammenti di ossa animali, di ceramica e di busti funerari93. Sempre nel 2010 furono scavate altre tre tombe infantili, una all’interno di un vaso e le

altre due in sepolcri; nel primo di questi il corpo era stato adagiato all’interno di una conduttura in terracotta, mentre nel secondo, dotato di una copertura in mattoni, vi era un feto. Nessuna di queste inumazioni comprendeva un corredo (fig.26)94.

93

KIYOHIDE 2011, pagg. 3-4. 94 KIYOHIDE 2011, pag. 5.

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Fig. 26. Pianta della Tomba 129 b, con indicazione delle tombe infantili (da KIYOHIDE 2011, pag.13).

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3. Palmira e i Francesi.

3.1 Il mandato francese in Siria Il territorio dell’attuale Siria fece parte dell’Impero Ottomano fra il 1517 e il 1918, quando la fine della Prima Guerra Mondiale ne segnò il crollo. La Francia basò la propria richiesta di mandato su motivazioni morali, politiche ed economiche, sebbene, pur essendo la presenza francese nell’area siro– libanese gradatamente aumentata nel corso del XIX sec., fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, gli interessi di questo Paese in area mediorientale fossero inferiori a quelli britannici, che si basavano su strutture militari ed economiche molto più solide. Tuttavia, vi erano forti legami con la popolazione cristiana, specie con la comunità maronita. I Gesuiti, inoltre, fin dal 1830, avevano intensificato la loro attività missionaria e educativa, fondando molte scuole e, nel 1875, un’Università a Beirut, ed anche le stesse autorità laiche francesi avevano aperto numerosi istituti d’istruzione. Inoltre, prima della caduta dell’Impero Ottomano, la Francia intervenne spesso ad apparente difesa delle richieste di maggiore autonomia dei leader politici libanesi e siriani (ad esempio durante il Congresso Arabo di Parigi, nel 1913): questi ultimi sembrarono non sospettare le reali mire francesi, sino a quando, nell’aprile 1914, Parigi ottenne da Istanbul garanzie sulla tutela delle proprie istituzioni religiose e concessioni ferroviarie in Siria, ma negli accordi finali non fu fatta menzione delle progettate riforme da attuare nel Paese. Su base economica, la Francia iniziò, nel Novecento, una serie di grandi investimenti che riguardavano non solo la Siria ma tutto l’Impero Ottomano (il cui debito pubblico era per il 63% in mano francese): furono impiantate numerose attività industriali (soprattutto lavorazione del tabacco ed estrazione di materie prime, produzione di seta), e capitali francesi affluirono nelle casse di società commerciali e industriali siriane già esistenti95. Già durante il conflitto, i Britannici entrarono in contatto con uno dei maggiori leader siriani, Sharif Hussein, con lo scopo di creare un futuro stato arabo, che avrebbe dovuto includere anche la Siria, benché i confini di tale Paese fossero stati lasciati volutamente indeterminati: gli accordi segreti Sykes - Picot del 1916 fra Russia, Gran Bretagna e Francia ritagliavano, infatti, all’interno del territorio siriano un’area d’influenza francese, mentre le coste sarebbero state amministrate direttamente dalla Francia. Il sostegno britannico ai nazionalisti siriani causò le proteste francesi, che accusavano la Gran Bretagna di mettere in pericolo gli interessi francesi in quell’area. I nazionalisti siriani, pur essendo in contatto con Hussein, non parteciparono alla rivolta da lui organizzata nel 1916, ma ciò non impedì al governo ottomano di condannare alcuni di essi a morte, ritenendoli comunque implicati nei disordini. Due anni dopo, il figlio di Hussein, Feysal, entrò a Damasco con le sue truppe, forte del sostegno britannico, istituendo un governo locale96. Il timore della Gran Bretagna di danneggiare i propri interessi e l’atteggiamento poco incline ai compromessi dei nazionalisti arabi causarono in breve il fallimento del governo di Feysal; i Francesi reagirono mandando truppe sulle aree costiere, scontrandosi con i nazionalisti arabi, ma nel 1918, Feysal, con il sostegno britannico, organizzò un nuovo governo a Damasco. Nel 1919, un Congresso Generale Siriano proclamò l’indipendenza del Paese, suscitando le proteste dei Francesi: il Congresso proclamò re Feysal l’anno seguente, ma ancora una

95

KHOURY 1987, pagg. 26-32. 96 SHAMBROOK 1998, pag. 2.

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volta i confini del Paese furono lasciati in sospeso, anche in riferimento al problema della “Grande Siria”, che avrebbe incluso anche Palestina e Libano. Gran Bretagna e Francia rifiutarono di accogliere la dichiarazione d’indipendenza, e durante la Conferenza di San Remo (aprile 1920) affidarono il mandato su Siria e Libano alla Francia. Il mandato, a differenza della colonia o del protettorato, era una forma di amministrazione ritenuta maggiormente liberale: un Paese ritenuto più “avanzato” doveva guidarne un altro più “arretrato” verso un governo autonomo e democratico. Rispetto a una colonia, si trattava di una soluzione temporanea, benché non ne fosse stabilita la durata con esattezza; inoltre, era per sua stessa natura una soluzione ambigua, perché presupponeva un certo “disinteresse” da parte del Paese mandatario97. Proprio

questa indeterminatezza fece sì che il mandato francese non fosse ufficialmente ratificato dalla Società delle Nazioni sino al 1922. Lo stesso governo francese si trovò in difficoltà, e si decise a replicare in Siria l’esperienza che la Francia aveva fatto in Marocco, che si basava, almeno teoricamente, su un principio di associazione al governo delle élites locali, piuttosto che sull’assimilazione, e che si proponeva di rispettare leggi, usanze e forme di governo locali; si fece ampio ricorso, in ambito militare, a ufficiali di origine indigena. Sfruttando questi principi, la Francia aveva consolidato la propria posizione in Marocco ed evitato ribellioni, specie nel delicato periodo della guerra mondiale, e sperava di ottenere lo stesso in Siria, collaborando con gli elementi meno estremisti della politica locale, ma anche servendosi delle divisioni interne per indebolire il nazionalismo arabo98. L’amministrazione del territorio levantino, che includeva Siria e Libano e aveva sede a Beirut, era affidato ad un Alto Commissario; fra il 1919 e il 1925 furono nominati a questa carica Henri Gouraud (9 ottobre 1919 – 19 aprile 1923), Maxime Weygand (19 aprile 1923 – 29 novembre 1924) e Maurice Sarrail (29 novembre 1924 – 23 dicembre 1925)99. L’esercito francese, guidato da Gouraud, dopo aver affrontato i nazionalisti a Meisalun, entrò a Damasco il 25 luglio 1920, ma i conflitti non mancarono: la maggioranza musulmana, esasperata dal governo autoritario e repressivo di Gouraud, si ribellò più volte, mentre la Francia tentò di diminuire la loro influenza, sostenendo le minoranze etniche, specie quelle cristiane del Monte Libano, la cui area fu proclamata indipendente e inclusa nel “Grande Libano” nel 1920, insieme ai distretti settentrionali (Akar e Tripoli), meridionali e orientali (Beqa’), oltre a quello della capitale Beirut. Ciò causò lo scontento non solo della Francia, ma anche dei nazionalisti siriani, che si opponevano all’inclusione delle aree a maggioranza musulmana nel nuovo stato. La Francia organizzò la Siria in unità amministrative molto frammentarie, fomentando gli impulsi indipendentisti delle minoranze: la regione di Latakia, abitata prevalentemente da Alawiti, il Gebel Druze e il distretto di Alessandretta (area abitata da una consistente minoranza turca) divennero quindi regioni amministrative autonome. Il resto del territorio siriano fu suddiviso in due stati federati, con capitali Aleppo e Damasco, sul modello delle vecchie province ottomane; questi due stati, tuttavia, furono riuniti nel 1924-1925 nello Stato di Siria, mentre i tre distretti precedenti rimasero indipendenti (fig.27).

97 KHOURY 1987, pagg. 34-47. 98

KHOURY 1987, pagg. 45-57. 99 KHOURY 1987, pagg. 72-77.

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Fig. 27. Le unità amministrative della Siria mandataria (dal sito dell’Università di Laval http://www2.ulaval.ca).

Nonostante i vari distretti amministrativi avessero, verso la fine degli anni Venti, proprie costituzioni e consigli, il potere effettivo era nelle mani dell’Alto Commissario francese a Beirut e ai suoi ufficiali. I Francesi governavano, di fatto, il Paese, pur usando personaggi politici locali, privati nella realtà di ogni potere decisionale; ciò scatenò numerose rivolte nel corso degli anni Venti: al Arrash guidò ad esempio, nel 1925, una rivolta nel Gebel Druze, con il sostegno dei nazionalisti di Damasco, movimento cui apparteneva anche Abdel Rahman Shahbandar, che divenne in seguito capo del governo locale. I nazionalisti siriani erano allora privi di appoggi internazionali e la ribellione fu, nonostante i tentativi di Sarrail, repressa definitivamente solo nel 1926: vi furono moltissimi morti, sia fra i ribelli sia fra le truppe francesi e i civili, oltre ad un gran numero di sfollati e profughi100. La Francia, soprattutto grazie all’atteggiamento più conciliante dell’Alto Commissario Henri de Jouvenel (3 dicembre 1925 – 23 giugno 1926), acconsentì a riconoscere l’indipendenza siriana sul modello del trattato anglo -irakeno del 1922, che permetteva agli ex mandatari di mantenere basi e truppe nel paese, in cambio della possibilità, per i Siriani, di formare un proprio governo. Dopo de Jouvenel fu inviato a Beirut un nuovo Commissario, Henri Ponsot, deciso a restaurare il prestigio di potenza coloniale della Francia, che avvertiva come danneggiato dalla rivolta. Il suo fu, in ogni caso, un atteggiamento prudente: visitò i territori sottoposti alla sua giurisdizione in compagnia del colonnello Catroux, ascoltando le richieste rivoltegli dagli amministratori locali. Nel maggio di quello stesso anno, il Libano divenne una repubblica autonoma, con una propria assemblea legislativa, mentre lo stesso processo in Siria fu molto più difficile, perché le richieste dei nazionalisti andavano ben oltre quanto i Francesi intendevano concedere: solo nel 1928 l’Alto Commissario permise che s’indicessero le elezioni per l’Assemblea Costituente. Queste ultime furono vinte dal Blocco Nazionale (al – Kutla al – Wataniyya), che univa diversi gruppi nazionalisti, che avevano in comune solamente l’opposizione al mandato francese. Hashem al Atassi fu eletto presidente dell’Assemblea Nazionale e fu stilata una costituzione che richiedeva l’annessione del Libano, ma ciò comportò il rifiuto della ratifica da parte dell’Alto Commissario, preoccupato anche dal sostegno offerto da Germania e Italia ai gruppi di nazionalisti più intransigenti esiliati in Egitto, Svizzera e Irak.

100 SELA 2002, pagg. 800-801.

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L’Alto Commissario sciolse l’assemblea nel 1930 e promulgò unilateralmente una costituzione: benché la Siria, trasformata in repubblica, fosse dotata di una camera incaricata di eleggere il presidente e di un parlamento, il governo locale doveva sottoporre a ratifica francese le decisioni più significative, e gli impegni della Siria verso la Francia avrebbero dovuto avere la precedenza. Nonostante le prevedibili proteste dei nazionalisti, le elezioni ebbero luogo nel 1932, e il Blocco Nazionale, pur vincitore, perse molti consensi; fu proposto un nuovo trattato che consentisse l’indipendenza nominale della Siria, salvaguardando tuttavia gli interessi francesi, ma la proposta fallì, a causa dell’opposizione dei nazionalisti alla camera. Nel 1933, intanto, giunse a Beirut un nuovo Alto Commissario, Damien de Martel (16

luglio 1933 – gennaio 1939), ex diplomatico, il quale, già il giorno successivo al suo arrivo, si recò a Damasco per incontrare il presidente Abid e i membri del governo. Dopo aver visitato diverse città siriane e libanesi, de Martel si sforzò soprattutto di ottenere la firma del trattato, ma invano: nonostante le rassicurazioni del capo del governo Haqqi al Azm, scoppiarono nuovamente violente proteste, poiché i nazionalisti diffusero fra la popolazione alcune false informazioni riguardo il trattato (coscrizione obbligatoria, invio di soldati siriani in Sudan e sul Reno, pagamento alla Francia di 15 milioni di franchi). Il capo del governo si dimise, e fu sostituito da Latif al Ghanima, con cui de Martel riprese le trattative, ma ancora una volta il Blocco Nazionale fece ostruzionismo in parlamento. Il 16 novembre 1933 il ministro degli Esteri siriano firmò il trattato, benché riluttante, ma il prevedibile malcontento popolare indusse de Martel a sciogliere la camera nel 1934, e nuovi conflitti scoppiarono fra il 1935 e il 1936, fra cui il grande sciopero generale del gennaio 1936, cui seguì, il mese successivo, la richiesta di de Martel di utilizzare l’Armée du Levant per ristabilire l’ordine a Damasco, oltre all’imposizione della legge marziale in diverse altre città101. In Francia, intanto, le elezioni avevano portato al potere la coalizione socialista di Léon Blum, che era stata molto critica rispetto alla politica estera del precedente governo: il 9 settembre 1936 fu firmato un trattato di amicizia e alleanza fra i due Paesi, che prevedeva l’indipendenza della Siria e la sua ammissione nella Lega delle Nazioni entro tre anni; i distretti di Latakia e Gebel Druze furono inclusi nel territorio siriano, ma avrebbero comunque continuato a godere di una certa indipendenza. Gli interessi della Francia sarebbero stati inoltre tutelati: solo i Francesi avrebbero potuto armare e addestrare il futuro esercito siriano, e in caso di guerra la Siria doveva sostenere la Francia e fornire basi, supporti e aiuti. Il parlamento siriano ratificò il trattato, e le nuove elezioni, indette nel 1936, furono vinte ancora dal Blocco Nazionale. Rimaneva tuttavia il problema dei territori annessi al Libano nel 1920, la cui restituzione era chiesta con insistenza dai nazionalisti siriani, specie dopo la firma del trattato franco - libanese del novembre 1936. Hashem al Atassi, capo della delegazione siriana che si era recata in Francia, scrisse in proposito all’Alto Commissario di Siria e Libano, il 6 luglio 1936, ma le proteste dei cristiani maroniti libanesi spinsero il Sottosegretario agli Esteri

Pierre Viénot a rivolgersi a sua volta al presidente siriano Emile Eddé, minacciando di non mantenere gli impegni presi riguardo all’indipendenza e all’integrità territoriale del Paese102.

101

SHAMBROOK 1998, pagg. 143-152. 102 ZAMIR 1999, pagg. 191-192.

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Tuttavia, il crescente pericolo nazi-fascista e le pressioni della destra francese sul governo, indussero la Francia a sospendere il trattato e a rifiutare di ratificarlo. I partiti coloniali e di destra scatenarono, infatti, nel 1933, una violenta campagna sui giornali, sostenendo che gli accordi presi con la Siria minavano gli interessi francesi nel Levante e mettevano in pericolo le minoranze etniche e religiose. Tali partiti furono naturalmente soddisfatti del risultato delle elezioni del 1937 in Francia, che portarono al potere i radical – socialisti, guidati da Edouard Daladier: essi intendevano difendere il prestigio e l’integrità dell’impero coloniale francese, in modo da tutelare la sicurezza della Francia e i suoi interessi nel Mediterraneo. I nazionalisti siriani, pur esigendo tale ratifica del trattato, si divisero in fazioni e

Shahbandar si ritirò dal Blocco, formando un’Organizzazione Popolare all’opposizione (sarà assassinato nel 1940, anche se apparentemente non per ragioni politiche)103. Nel 1939, de Martel fu sostituito nel suo ruolo di Alto Commissario da Gabriel Puaux (gennaio 1939 – novembre 1940): sembrò allora che la politica francese nel Levante dovesse cambiare, ma, poco dopo la sua nomina, Puaux e il Ministro degli Esteri francese confermarono i privilegi della Francia, in particolare quelli finanziari garantiti della Banque de Syrie, oltre a rassicurare il clero cristiano siriano della loro protezione: il cardinal Tappouni di Aleppo si era infatti recato presso il Vaticano per esprimere la propria preoccupazione sulla sorte delle minoranze cristiane, se il controllo esercitato dalla Francia fosse cessato. Il Blocco Nazionale, poco soddisfatto del nuovo Commissario, tentò allora di cooperare con le più eminenti personalità politiche libanesi, cristiane e musulmane, per sfruttare il comune malcontento contro la politica francese, nonostante la Francia cercasse di persuadere i cristiani libanesi che la tattica del Blocco era semplicemente quella di servirsi di loro, non avendo in realtà alcuna intenzione di rispettare l’integrità territoriale e l’indipendenza libanesi104. Fallito il tentativo di conciliazione con il governo siriano, la Francia fomentò allora i movimenti indipendentisti nel Gebel Druze e nella Jezira, e cedette alla Turchia Alessandretta, nel luglio 1939, causando le proteste dei nazionalisti, che chiedevano in cambio l’annessione di Tripoli, e le dimissioni del governo guidato da al Atassi105. L’Alto Commissario sciolse la camera, e, con il consenso del presidente francese, formò un governo militare e annunciò che i trattati franco-siriani sarebbero stati ratificati senza l’approvazione del parlamento; l’amministrazione di Latakia e Gebel Druze fu di nuovo separata da quella del resto del Paese. I nazionalisti si dissero disposti ad accettare l’indipendenza del Libano, ma ancora una volta la Francia si oppose a ratificare il nuovo trattato106. Dopo l’occupazione tedesca in Francia, gli ufficiali francesi di stanza nel Levante rimasero fedeli al governo di Vichy, consentendo a Tedeschi e Italiani di stanziare truppe in Siria e Libano; Jean Chiappe, nominato Alto Commissario, non si insediò mai (24-27 novembre 1940) e l’incarico fu assunto, dal 6 dicembre 1940 al 14 giugno 1941, dal generale Henri

Dentzer.

103 SHAMBROOK 1998, pagg. 247-256. 104 SELA 2002, pag. 802. 105

ZAMIR 1999, pag. 199. 106 ZAMIR 1999, pagg. 192-193.

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Henri Seyrig, uno dei più importanti studiosi di Palmira, direttore del Service des Antiquités de Syrie et Liban dal 21 ottobre 1929 fino al 7 giugno 1941, rifiutò la nomina a direttore dell’Institut Français di Istanbul, e si unì alle forze della Francia Libera.

Una delle basi aeree tedesche ebbe sede proprio a Palmira, nel cui territorio passava anche la cosiddetta “linea T”che seguiva il corso dell’oleodotto di Tripoli107. Preoccupati, i Britannici invasero il Libano, col supporto delle Forze della Francia Libera, nel giugno 1941. Proprio nei pressi di Palmira, dove erano acquartierate le Royal Horse Guards guidate da A.V. Wellesley, vi furono, il 22 e 23 giugno, pesanti bombardamenti francesi; Wellesley si rifugiò inoltre con alcuni uomini fra le rovine, al fine di trovare una via di fuga e rendere contemporaneamente più difficili le comunicazioni ai Francesi108.

Il generale Georges Catroux, Delegato Generale (e non più Alto Commissario, in carica dal 24 giugno 1941 al 7 giugno 1943) della Francia Libera, proclamò la fine del Mandato e l’indipendenza della Siria, ma questa doveva essere subordinata alla sottoscrizione di un nuovo trattato: egli fece chiaramente intendere ai capi del Blocco che la Francia non avrebbe concesso una reale indipendenza senza di essa; De Gaulle, pur agendo di comune accordo con il generale, riteneva che Catroux dovesse continuare a controllare direttamente la vita politica e amministrativa della Siria. Egli stesso compì nell’agosto di quell’anno un viaggio nel Levante, assicurando che l’indipendenza della Siria era scontata, ma che ciò non doveva minare gli impegni assunti da questo Paese nei confronti della Francia Libera109. Nuovamente i nazionalisti si opposero e i Francesi reagirono posponendo il trasferimento dei poteri ai Siriani e il ristabilimento delle istituzioni democratiche. Sotto la crescente pressione di Stati Uniti e Gran Bretagna, nel gennaio 1943 Catroux permise l’indizione di nuove elezioni, che si sarebbero svolte nel mese di luglio: si diffusero però voci secondo le quali la Gran Bretagna avrebbe sostenuto il Blocco Nazionale, causando l’infuriata reazione dei Francesi, nonostante la smentita inglese. Catroux, tuttavia, tentò di convincere il Blocco a evitare le elezioni, proponendo di rieleggere presidente al Atasi, che avrebbe guidato un governo moderato cui avrebbero partecipato anche membri del Blocco, e in cambio di firmare segretamente un trattato con la Francia. Tali tentativi non ebbero successo e le elezioni portarono ancora una volta alla vittoria del Blocco Nazionale e all’elezione del suo leader Shukri al – Quwwatli alla carica di capo del governo110. Nello stesso anno, quando il Libano decise di troncare definitivamente i legami con la Francia in vista di una completa indipendenza e divenne uno degli stati fondatori della Lega Araba, il Blocco cessò di opporsi all’integrità territoriale e all’indipendenza del vicino Stato; i Francesi tuttavia tentarono di obiettare con i governi di Siria e Libano che il trattato era, se non de facto, almeno giuridicamente ancora in vigore, e che la piena indipendenza sarebbe stata conferita solo in seguito alla firma di un nuovo trattato. Jean Halleul, nuovo Delegato Generale (7 giugno 1943 – 23 novembre 1943), lasciò ai capi di entrambi i governi alcune settimane per riflettere, ma nessuno di loro era disposto a fare concessioni: Halleul propose allora di ratificare il trattato del 1936. Di fronte a un nuovo

rifiuto congiunto, Halleul e Catroux imposero la legge marziale e il coprifuoco in Libano. In Siria, intanto, il Parlamento ribadì il proprio rifiuto a riconoscere il mandato francese. 107 GELIN 2005, pag. 306. 108 BROWNING 1979, pag. 75. 109

SHAMBROOK 1998, pag. 265. 110 SHAMBROOK 1998, pagg. 267-260.

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Catroux, ritornando da una missione ad Algeri, anche in seguito alle pressioni della Gran Bretagna sul governo francese, decise di accettare definitivamente l’indipendenza di Siria e Libano: entrambi i Paesi avrebbero potuto cominciare a dotarsi di proprie leggi e ad autogovernarsi dal 1 gennaio 1944111. Yves Chataigneau sostituì Halleul dal 23 novembre 1943 al 23 gennaio 1944 e sul fronte interno, in Siria i poteri furono nuovamente trasferiti ai locali, le clausole che limitavano la sovranità nazionale e i privilegi francesi furono aboliti nel corso del 1944, nonostante i tentativi del nuovo Delegato Generale, generale Etienne Beynet (in carica dal 23 gennaio 1944 al 1 settembre 1946), di mantenere salda la posizione francese nel Levante. I Francesi rifiutarono di far passare sotto la giurisdizione siriana le Troupes Spéciales (soldati siriani inquadrati nell’esercito francese) e di ritirare i loro militari

se non fosse stato sottoscritto un trattato preferenziale, ma il governo siriano, forte del crescente sostegno internazionale, non acconsentì. Il nuovo stato fu riconosciuto ufficialmente da Usa, Cina e Urss nel 1944, seguiti dalla Gran Bretagna nel 1945, oltre ad avere sin da subito il sostegno della Lega Araba. Nel 1945 la Siria cominciò ad agire come uno stato sovrano, dichiarando guerra alle potenze dell’Asse e divenendo uno dei Paesi fondatori delle Nazioni Unite. Il nuovo rifiuto dei Francesi di ritirare le proprie truppe causò violente rivolte e il bombardamento di Damasco, ma l’intervento britannico costrinse i Francesi a cessare le ostilità. Francia e Gran Bretagna firmarono un accordo per il ritiro delle truppe dal Paese, ma i privilegi francesi restavano intatti, provocando una protesta formale della Siria dinanzi al consiglio delle Nazioni Unite nel febbraio 1946. Nonostante il veto sovietico, le varie parti si accordarono per una soluzione e nel 1946 la Francia ritirò le proprie truppe il 17 aprile: questo giorno, chiamato in arabo id al – jala (“il giorno del ritiro”) divenne la festa nazionale (fig. 28)112.

Fig. 28. Carta della Siria attuale (da www.wikipedia.org)

111

SHAMBROOK 1998, pagg. 270-274. 112 SELA 2002, pag. 803.

45

3.2 La politica culturale francese in Siria 3.2.1 Archeologia e Colonialismo

Molto spesso le potenze europee destinarono cospicue risorse ad attività di scavo e ricerca nei Paesi sottoposti alla loro giurisdizione, e ciò avvenne anche per la Siria e per Palmira in particolare: proprio durante gli anni del Mandato Francese, s’intraprese in questa città lo sgombero del moderno villaggio che si era impiantato sulle rovine del tempio di Bel. Negli articoli presi in esame, pubblicati su Syria nel periodo del Mandato Francese, emerge una sostanziale armonia fra popolazione locale e gli archeologi e gli studiosi coinvolti, così come si evince un rapporto di collaborazione con le autorità locali, quali ad esempio il direttore del Museo di Damasco, Djafar Abd el- Kader. Spesso gli autori affermano che i

reperti sono stati trovati e consegnati spontaneamente dai locali, che naturalmente lavoravano anche quali operai. In alcuni casi, tuttavia, sono presenti osservazioni che riflettono una certa mentalità imperialista, che, spesso non troppo velatamente, istituisce paragoni fra l’impero coloniale francese e quello romano, specie per quanto riguarda l’impiego delle truppe formate da indigeni. Ad esempio, Carcopino, in un articolo del 1925, riflette sul fatto che “anche oggi la Francia impiega di preferenza, per compiere il proprio mandato in Siria, gli ufficiali, le truppe, i funzionari la cui esperienza è maturata nelle sue colonie e nei suoi protettorati del Maghreb. Per una ragione analoga, nonostante le diverse circostanze e la distanza nel tempo, ma con un procedimento inverso, Commodo aveva portato a El Kantara, inquadrandoli nei Chalcideni, degli arcieri di Palmira113”. Nello stesso articolo, si aggiunge

“con i soldati siriani, di cui avevano sperimentato la lealtà, i Severi, in tempo di pace, hanno agito come l’abbiamo visto fare, durante la guerra, dai nostri governanti con i Senegalesi che, con l’approssimarsi dell’inverno, erano richiamati dal fronte occidentale e inviati a mantenere l’ordine in Tunisia e in Marocco114”. L’Autore non manca tuttavia di concludere l’articolo con una riflessione più poetica, ricordando di aver visto “la piccola bianca cupola sotto la quale, a cinque leghe da Biskra, riposano le spoglie mortali del conquistatore Sidi Okba”, la quale “ si erge umilmente in un luogo simbolico, non solamente nel punto d’incontro fra l’Algeria e il Sahara, ma in quello fra due mondi, dove i discendenti degli arcieri palmireni arruolati dall’impero romano, durante tre secoli d’invisibile attività, hanno atteso in silenzio e preparato, senza pensarvi, la rivincita della loro razza, e come teso la mano ai loro fratelli d’Asia, i cavalieri arabi che, nel 683, resero l’Africa musulmana115”. Un’importante attività fu svolta anche dai numerosi sacerdoti presenti a Palmira, primo fra tutti il parroco di Palmira, monsignor Starcky, studioso di epigrafia e autore dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre, oltre a gesuiti, quali i padri Mouterde e Poidebard, legati all’Université Saint Joseph di Beirut. L’aviazione francese offrì ugualmente un contributo logistico importante: la ricognizione aerea compiuta proprio da Poidebard e Mouterde, che consentì di conoscere meglio e di

individuare nuovi tratti della via carovaniera fra Palmira e Hit fu compiuta proprio grazie ai suoi velivoli116. 113 CARCOPINO 1925 (Appendice nr. 2), pag. 126. 114 Ibidem, pag. 134. 115

Ibidem, pag. 149. 116MOUTERDE – POIDEBARD 1931 (Appendice nr. 7), pagg. 101-115.

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In alcuni casi, tuttavia, alcuni militari furono probabilmente responsabili del trafugamento di reperti, come suggerisce ad esempio Dupont Sommer riguardo a un busto palmireno trovato presso un antiquario di Parigi117. In altri casi, alcune usanze locali suggerivano analogie con il passato: ad esempio, Seyrig affermava che, secondo la testimonianza di padre Vincent, le donne, così come in un antico bassorilievo con scena di processione, usavano velarsi per il medesimo rito celebrato a Nebi Moussa118. Nel 1941, all’alba dell’indipendenza, almeno nominale, della Siria, lo stesso Seyrig, ricordando le importanti funzioni amministrative svolte dai Palmireni in Caracene, afferma che anche in epoca moderna i Siriani spesso ricoprono ruoli importanti

nell’amministrazione dei Paesi islamici119.

3.3 La nascita dell’IFPO L’interesse politico ed economico della Francia nei confronti del Levante e della Siria in particolare portò con sé anche l’attenzione all’archeologia e alla storia di quei luoghi: già nel 1882 e nel 1899 Charles Clermont Ganneau espresse la necessità di creare una “stazione di archeologia orientale a Beirut, dipendente dall’École Française del Cairo”. Tale progetto tuttavia rimase a lungo solo tale, forse anche perché Clermont Ganneau intendeva soprattutto servirsi di un simile organismo per arricchire le collezioni della neonata Sezione di Antichità Orientali del Musée du Louvre. Fu solo alla fine della Seconda Guerra Mondiale che l’idea di un Istituto per lo studio del Vicino Oriente prese forma, grazie a personalità quali Maurice Dunand, a capo del Service des Antiquités della Siria, mentre in Libano (dove la Francia giocava ormai un ruolo di secondo piano) a capo del Service vi era l’emiro Maurice Chehab. Alla fine del 1944 cominciò a nascere il progetto di un Institut Français d’Archéologie a

Beirut, e si concretizzò nel gennaio 1945, quando numerosi studiosi (fra cui Seyrig e Dussaud) si riunirono al Ministero degli Esteri, sotto la presidenza di H. Laugier, direttore del Servizio delle Opere Francesi all’Estero, con il proposito di fondare proprio tale Istituto. Le sue competenze sarebbero state definite tenendo conto dell’Istituto di Damasco, e si sarebbe occupato delle epoche pre - e postclassiche (vi era compresa, fra i suoi obiettivi d’indagine, anche la Siria bizantina). In realtà, le fasi più antiche non furono oggetto di studio, e ci si limitò al periodo classico e bizantino, poiché le età preclassiche dipendevano dalla Commission de Fouilles, benché effettivamente alcuni membri

dell’Istituto si occupassero anche del Vicino Oriente Antico. L’Istituto avrebbe dovuto controllare anche gli scavi francesi in Irak, non essendo possibile fondare un’istituzione simile a Baghdad; Seyrig fu designato direttore dell’Istituto di Beirut all’unanimità120. Nel 1945 la Delegazione Francese di Siria e Libano diede il proprio assenso a questo progetto, e Seyrig, che era consigliere culturale a New York, negoziò le condizioni per la creazione dell’Istituto, sostenendo energicamente la necessità di dotarlo di una biblioteca, recuperando non solo i materiali editi durante il mandato francese, ma proponendo anche

scambi con le biblioteche e le istituzioni siriane e libanesi. Tuttavia, solo il Libano accettò,

117

DUPONT SOMMER 1941 (Appendice nr. 41), pagg. 78-85. 118 SEYRIG 1934 (Appendice nr.21), pag. 164. 119

SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), pag. 254. 120 GELIN 2005, pag. 281.

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mentre la Siria decise di trattenere tutti i volumi del Service des Antiquités comprati con fondi siriani. L’Istituto libanese nacque ufficialmente il 5 giugno 1946, sotto forma di una missiva del Ministro degli Esteri al Delegato Generale della Francia nel Levante, che poneva l’Istituto sotto il controllo e il patrocinio dell’Università di Parigi e dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres; si chiedeva anche di consolidare i rapporti con i governi di Siria e Libano. Il presidente della Repubblica francese e quello del Libano diedero il formale assenso alla nascita dell’Istituto il 19 agosto dello stesso anno121. L’Institut dipendeva direttamente dal Ministero degli Esteri francese, ma era indipendente dalla Mission Culturelle Français au Levant, creata nel 1946 sotto la direzione di Gabriel

Bounoure, e attiva in Siria, Libano, Palestina, Transgiordania e Irak; in questo modo si voleva evitare di collegare l’Istituto alla passata esperienza coloniale della Francia in Siria e Libano, agendo con le autorità locali su di un piano di parità. L’Institut fungeva inoltre da intermediario fra i Services des Antiquités di Siria e Libano e le missioni archeologiche francesi nel Levante, aiutando a risolvere i problemi materiali che si presentavano. Tale rapporto di collaborazione fu particolarmente fattivo in Siria, dove i direttori delle varie missioni non francesi, e in particolare Gawlikowski, domandarono spesso, tramite l’Istituto, i permessi per eseguire scavi, come ad esempio per la cinta muraria di Palmira. Fra gli altri compiti dell’Istituto, vi era l’edizione della rivista Syria e della collana Bibliothèque Archéologique et Historique; particolare attenzione fu rivolta agli scavi iniziati prima della guerra, soprattutto Palmira e Baalbek, mentre in seguito nacquero le missioni di Cyrrhus in Siria nel 1952 e Tell Arqa (Libano) nel 1972122. Un’altra importante missione fu quella della Siria Settentrionale, prevista già nel 1935 e creata nel 1937 dal Service des Antiquités, sotto la direzione dell’architetto G. Tchalenko, chiamato a tale incarico da Seyrig nel 1938; anche dopo l’indipendenza della Siria, la missione fu riaffidata all’Institut e Tchalenko pubblicò i risultati degli scavi in tre volumi fra il 1953 e il 1958.

La pubblicazione del sito di Palmira fu sempre considerata una delle priorità dell’Istituto. In realtà, come sottolinea M. Gelin, non si trattò di una vera e propria campagna di scavi in estensione, ma di una serie d’interventi e studi mirati per completare la documentazione già nota, al fine di pubblicare i diversi monumenti, fra cui il tempio di Bel. Fu anche svolto contemporaneamente un grande lavoro di studio del materiale epigrafico, soprattutto ad opera di Seyrig, Cantineau e Starcky. L’architetto Robert Amy diresse il restauro di diversi monumenti, oltre a coordinare le operazioni di rilievo e disegno. Interrotti dalla guerra, i lavori ripresero dalla fine degli anni Quaranta, ancora una volta soprattutto grazie a membri dell’Istituto. A Cyrrhus - Nebi Huri, a nord di Aleppo, la missione fu affidata a E. Frézouls fino al 1955, con la collaborazione di P. Coupel e W. Forrer. In tre anni fu possibile mettere in luce il teatro, realizzare una planimetria del sito e l’individuazione e lo studio delle mura e degli edifici ancora visibili. Frézouls continuò gli scavi negli anni Sessanta indipendentemente dall’Istituto, mentre le campagne previste per il decennio successivo non ebbero luogo123.

121 GELIN 2005, pag. 282. 122

GELIN 2005, pag. 286. 123 GELIN 2005, pag. 289.

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Per quanto riguarda le fasi preclassiche, si possono ricordare gli studi di J. Deshayes e di J. Cl. Margueron, che si dedicò, fra il 1965 e il 1969, all’analisi dei palazzi del Bronzo Medio, mentre J. L. Huot partecipò agli scavi di Tureng Tepe (Iran), oltre a studiare la ceramica del Bronzo Antico in Anatolia. Il lavoro dell’Institut non si limitò tuttavia al solo Vicino Oriente: già nel 1947 Stchoukine ricevette l’incarico di studiare i manoscritti miniati turchi, iraniani e indiani. J.J. Revaille, oltre a compiere studi in Siria e Palestina, partecipò agli scavi di Schlumberger in Afghanistan settentrionale124. Fra il 1952 e il 1954 J.Cl. Gardin, già membro della Delegazione Archeologica Francese in Afghanistan, iniziò la creazione di uno schedario meccanografico, che egli propose a

Seyrig di applicare per la prima volta all’archeologia. Il progetto riguardò inizialmente il catalogo degli strumenti dell’Età del Bronzo, dai Balcani all’Indo, che erano oggetto degli studi di Gardin, ma in seguito fu applicato a molte altre tematiche archeologiche. Seyrig abbandonò la direzione dell’Istituto il 31 dicembre del 1966, e dopo la direzione ad interim di Starcky, quest’ultima fu assunta da Daniel Schlumberger (1 gennaio 1967 – 20 ottobre 1972). Egli diede un grande impulso alla divulgazione, organizzando seminari e conferenze, oltre a realizzare, in collaborazione con il Service des Antiquités siriano, filmati sui siti di Ras Shamra e Mari; a Damasco, nell’ottobre 1969, organizzò il IX Convegno di Archeologia Classica, mettendo in evidenza il ruolo delle culture periferiche per lo sviluppo generale del mondo classico125. Nel 1968, Schlumberger, Starcky, Huot e Margueron proposero di creare un Institut National d’Archéologie, ma senza successo.

Fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, diversi membri dell’Istituto si occuparono di vari ambiti di ricerca: ad esempio, M. Yon studiò la scultura cipriota e partecipò allo scavo di Salamina, Gawlikowski si occupò della parte palmirena del Corpus

Iscriptionum Semiticarum, M. Sartre pubblicò le iscrizioni di Bosra e Tell Hauran. Gli anni 1975-1977 furono particolarmente difficili, a causa del conflitto libanese. Nel 1977, con l’intenzione di rafforzare i rapporti con la Siria e la Giordania, l’Istituto cambiò nome in Institut Français d’Archéologie du Proche-Orient (IFAPO)126. Nel 2003 l’IFAPO ha cambiato nuovamente il proprio nome in Institut Français du Proche Orient (IFPO), assorbendo l’Institut français d’études arabes de Damas (IFEAD, nato nel 1922) e il Centre d’études et de recherche sur le Moyen-Orient contemporain (CERMOC, fondato nel 1977), con la tradizionale competenza per la Siria, il Libano, la Giordania, e, dal gennaio 2002, anche l’Irak e la Palestina (fig.29)127.

124 GELIN 2005, pag. 291. 125 GELIN 2005, pagg. 292-294. 126

GELIN 2005, pagg. 301-302. 127 GELIN 2005, pag. 279.

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Fig. 29. Le sedi attuali dell’IFPO (dal sito www.ifporient.org).

3.4 La rivista Syria

Nell’“Avertissement au Lecteur” del primo numero, comparso nel 1920, la Direzione della rivista ricorda come la Siria sia la “terra del Vicino Oriente con cui la Francia ha stretto i rapporti più intimi e continui”, e cita i numerosi viaggiatori e studiosi che vi si sono recati, da Volney, Cassas, Vogué a Waddington e Clermont Ganneau. Non manca il riferimento all’aiuto che la Francia stava dando alla Siria nel proprio cammino verso l’indipendenza, e la volontà di contribuire a questo progresso civile e

spirituale. La rivista si proponeva di pubblicare tutti i monumenti inediti presenti nelle collezioni pubbliche e private, oltre alle relazioni degli scavi intrapresi e la descrizione di monumenti poco noti al grande pubblico; si volevano inoltre trattare argomenti di carattere etnografico, legati all’arte araba, e di indagare le origini dell’arte siriana, anche al di fuori dai suoi stretti confini geografici. Lo scopo di Syria, secondo gli Autori, era quello di sviluppare nel Paese che dava il nome

alla rivista il gusto per l’arte e le antichità nazionali, e di far conoscere meglio all’estero le arti siriane, facendo da tramite fra gli intellettuali francesi e le élite locali128. Oggi Syria è pubblicata a cura dell’IFPO, con un unico numero l’anno, e si focalizza sulla storia e l’archeologia del Vicino Oriente semitico (Cipro compresa), dalla preistoria alla conquista islamica. Gli articoli riguardano tutte le discipline riferibili a quest’ambito di ricerca: non solo archeologia, storia e storia dell’arte, ma anche filologia ed epigrafia. Compaiono talora volumi monografici, dedicati a tematiche specifiche, ma in generale la rivista cerca di offrire, attraverso gli articoli pubblicati (da 12 a 18), un panorama delle diverse ricerche in corso in Medio Oriente. In alcuni casi sono state inserite anche brevi note d’attualità, mentre in ogni numero compare un corposo dossier di recensioni sulle pubblicazioni riguardanti il Medio Oriente antico. Le lingue utilizzate sono il francese, l’inglese, l’italiano, il tedesco e lo spagnolo; ogni articolo ha un riassunto in francese e arabo. E’ importante ricordare che, oltre all’edizione cartacea tradizionale, la rivista è stata completamente digitalizzata ed è consultabile gratuitamente on line, attraverso il portale Persée http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/revue/syria.

128 SYRIA 1920, tomo 1, pagg.1-2.

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L’ultimo numero pubblicato on line è del 2005 (nr. 82). Rispetto ai volumi cartacei, mancano, nella rivista on line, alcune figure e immagini, per cui non è stata concessa l’autorizzazione.

3.5 Les “Anciens”129: i protagonisti della ricerca a Palmira nel Novecento Si sono voluti ricordare qui alcuni dei maggiori studiosi di lingua francese che si sono dedicati a ricerche e studi su Palmira, i cui risultati sono stati in parte pubblicati sulla rivista Syria. Robert Amy (1904-1986): nato a Parigi nel 1904, vi studiò architettura; nel 1931 si recò a

Palmira, dove Seyrig lo associò ai lavori di sgombero e restauro del santuario di Bel, fra il 1935 e il 1945. Le tavole realizzate in quest’occasione furono edite nel 1968, mentre il testo da lui curato fu pubblicato nel 1975. Curò inoltre il restauro dell’Arco Severiano e lo studio dell’ipogeo di Iarhai e della torre di Elahbel, in collaborazione con Seyrig; in qualità di architetto al servizio dell’Alto Commissariato, partecipò al restauro di molti monumenti di ogni epoca in Siria e Libano, dedicandosi però di preferenza ai templi romani, quali Dmeir, Sanamein, Atil, Slem. Dopo la Seconda Guerra Mondiale tornò in Francia, a Orange, come architecte des Bâtiments, ma nel 1958 entrò a far parte dell’ufficio di

architettura antica del CNRS: ciò gli permise di dedicarsi allo studio di molti monumenti della Gallia romana, quali l’arco di Orange, il mausoleo dei Giulii a Saint- Remy de Provence e l’arco di Glanum, la Porta Nera di Besançon, la Torre Vésone di Perigueux, ma soprattutto la Maison Carrée di Nîmes, in collaborazione con Pierre Gros130.

Jean Cantineau (1899-1956): nacque nel 1899 a Epinal e morì nel 1956. Dopo aver insegnato per alcuni anni alla Scuola Secondaria, studiò Lettere e Lingue Semitiche ad Aix en Provence, studi che continuò a Parigi presso l’École des Hautes Études. Nel 1928 si recò in Siria e fu tra i fondatori dell’Institut Français de Damas; in Siria condusse scavi a Palmira, e pubblicò iscrizioni di questa città e della Nabatene. Di particolare importanza la pubblicazione delle numerose epigrafi emerse durante lo sgombero del villaggio arabo all’interno del Santuario di Bel, tra cui quella contenente la data della dedica del tempio, il 6 aprile del 32 d. C. Si dedicò inoltre allo studio del cananeo e dell’ugaritico; nel 1933 fu chiamato a insegnare lingue semitiche all’Università di Algeri, dove s’interessò ai dialetti arabi maghrebini, oltre a quelli siriani. Dal 1948 insegnò lingue arabe orientali all ‘École

Nationale des Langues Orientales vivantes131.

Jérôme Carcopino (1881-1970): nacque nel 1881 a Verneuil sur Avre e morì a Parigi nel 1970. Dopo aver terminato gli studi presso l’École Normale Supérieure nel 1901, divenne professore di storia e geografia nel 1904. Membro dell’École Française de Rome, insegnò per alcuni anni storia al Lycée di Le Havre, e nel 1911 fu chiamato a insegnare presso l’Università di Algeri, dove fu nominato ispettore aggiunto e poi direttore del Musée

National des Antiquités Algeriennes. Durante la Prima Guerra Mondiale militò nell’Armée d’Oriente e al termine del conflitto fu chiamato a insegnare alla Sorbona storia romana. Nel

129 L’espressione è ripresa da Agora de Palmyre 2005, pag. I. 130

WILL 1987 A, pagg. 149-150. 131 GAUDEFROY DEMOMBYNES 1957, pagg.220-221.

51

1937 divenne direttore dell’École Française de Rome, e durante il Governo di Vichy diresse l’École Normale Supérieure (1940-1942); nel 1941 fu approvata la legge sugli scavi archeologici che porta il suo nome e fu nominato segretario di Stato all’Educazione Nazionale e alla Gioventù, posto che lasciò nel 1942 per tornare a dirigere l’École Normale.

Arrestato dopo la Liberazione per la partecipazione al Governo di Vichy, fu imprigionato a Fresnes dall’agosto 1944 al febbraio 1945; nel 1951 fu reintegrato nelle sue funzioni per l’aiuto fornito nel 1942 ad alcuni membri della Resistenza. Nel 1955 divenne membro dell’Académie Française e nel 1969 il suo nome fu conferito al Museo di Aleria, di cui aveva promosso gli scavi (fig.30)132.

Fig. 30. J. Carcopino (da www.wikipedia.org).

Franz Cumont (1868-1947) : archeologo, si occupò soprattutto di storia delle religioni, dedicandosi in particolare ai culti mitraici (Textes et Monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra,1894-1899). All’archeologia unì lo studio dell’epigrafia e della filologia, mettendo

in luce le influenze dei culti orientali su quelli romani. Nel 1900 visitò i territori dell’antico regno del Ponto, raccogliendo numerosi testi (fig.31). Il suo interesse per la Siria si sviluppò negli anni successivi, con la pubblicazione di Études Syriennes, nel 1907, dove

ricostruiva il viaggio dell’imperatore Giuliano da Antiochia all’Eufrate. Lo studio dei mausolei di Cyrrhus e della Commagene lo indusse a ipotizzare che le tombe a base quadrangolare e copertura piramidale fossero nate proprio in Siria, ugualmente di origine siriana riteneva le immagini di aquile con corone nel becco usate molto di frequente nelle stele funerarie romane quale simbolo di apoteosi. Nel 1921 conobbe all’Oriental Institute di Chicago Breasted, che gli fece conoscere il sito di Salihiyé sull’Eufrate, della cui importanza Cumont convinse l’egittologo americano. Messisi in contatto con l’Alto Commissario di Siria e Libano Gouraud, procedettero allo scavo del santuario di Salihiyé, che fu ben presto identificato con Dura Europos; la direzione scientifica e la pubblicazione del sito furono affidate a Cumont. La scoperta degli affreschi con gli dei palmireni gli permise di formulare le prime ipotesi sui rapporti fra le due città carovaniere. Cumont collaborò con Rostovzeff nello scavo del sito, affidato all’Università di Yale e all’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Non smise però mai di studiare la diffusione dei culti orientali in Occidente, e i rapporti fra cultura religioso-filosofica greca e persiana, oltre a pubblicare numerosi testi astrologici greci (Catalogus codicum astrologorum graecorum nel 1894 e Astrology and Religion among the Greeks and Romans nel 1912)133.

132

Scheda biografica sul sito dell’Académie Française, http://www.aibl.fr. 133 DUSSAUD 1949, pagg 168-172.

52

Fig. 31. F. Cumont (da www.wikipedia.org).

Maurice Dunand (1898-1987) : nacque nel 1898 a Loisin e vi morì nel 1987. Combatte in Siria durante la Prima Guerra Mondiale, e nel 1924 giunse in Libano per scavare il sito di Biblo, divenendo direttore dello scavo due anni dopo, per conto del Museo del Louvre; nel 1929 il governo libanese lo riconfermò in quest’incarico, e collaborò per circa vent’anni con il Services des Antiquités libanese (ad esempio, scavò il tempio di Eshmoun a Sidone). Nel 1925 Dunand partecipò con Ingholt agli scavi di Palmira, prese parte alla missione epigrafica che esplorò il Djebel Druze (dove riorganizzò il Museo di Soueida), l’Hauran e il Safa. Fra il 1931 e il 1936 esplorò la regione di Ledjà e la Jezira con Poidebard, alla ricerca delle tracce del limes siriano, e partecipò alle spedizioni di Thureau Dangin ad Arslan Tash, Tell Barsip e nel Luristan. Fra il 1940 e il 1945 svolse l’incarico di Direttore delle Antichità dell’Alto Commissariato, e fra il 1943 e il 1945 scavò con Duru il sito ellenistico di Oumm el Amed. Rimase nel Levante anche dopo la fine del mandato, organizzando una Missione archeologica permanente: il direttore delle Antichità Maurice Chehab lo riconfermò negli scavi di Biblo

e con Saliby e Bounni riprese gli scavi di Amrith, fra il 1954 e il 1974134. Raymond Duru (1905- 1984): nacque a Sedan nel 1905, e studiò architettura, prima in Svizzera, a Bienne, e poi a Parigi, presso l’École Nationale des Beaux Arts. Nel 1936, collaborò con Parrot nelle quattro campagne di scavo da lui dirette a Mari. Dal 1939 al 1942, dopo aver realizzato i rilievi del monastero di San Simeone Stilita, raggiunse Palmira, dove collaborò con Seyrig, allora direttore del Services des Antiquités dell’Alto

Commissariato Francese nel Levante. A lui si devono i rilievi e le planimetrie dell’agorà, nonché quelli delle due case poste dietro il santuario di Bel. Fra il 1942 e il 1945 egli svolse la sua attività fra Siria e Libano: riallestimento del museo di Damasco, restauro della facciata del palazzo ommayyade di Qasr el-Heir el Gharbi, sgombero del palazzo di Racca sull’Eufrate, scavi della città ellenistica a Oum el Amed in Libano, poi pubblicati con Dunand nel 1962. Nel 1945 Duru fu nominato Ispettore Regionale Urbanistico in Marocco, a Marrakech, con competenza per tutta la parte sud-orientale del Paese nordafricano. Nel 1958 tornò in Francia, a Bordeaux, come architecte des Bâtiments de France, dove partecipò alla salvaguardia e al restauro di numerosi monumenti: a Bordeaux, Bazas, Saint Emilion, i castelli di Malle, Cadillac, Bouilh, le abbazie di Blasinon e Saint- Ferme, oltre a collaborare con gli scavi di Saint- Seurin e Bourg-sur-Gironde e a far parte del gruppo di lavoro che lavorò al restauro di Sarlat (fig. 32)135.

134

GAULMIER-CHEHAB-DE CONTENSON 1987, pagg.337-340. 135 CH. DELPLACE, in Agora de Palmyre 2005, pag. II.

53

Fig. 32. E. Duru (da Agora de Palmyre 2005, II).

Edmond Frézouls (1925- 1995): nacque nel 1925 a Condé- sur- Escaut; studiò all’École Normale Supérieure, fu nominato professore ordinario di Lettere Classiche, divenne membro dell’École Française de Rome fra il 1949 e il 1951. Fra il 1951 e 1954 fu accolto come pensionnaire all’Institut d’Archéologie de Beyrouth, per poi recarsi in Tunisia (1954-1958),

dove fu conservatore del Museo del Bardo di Tunisi, direttore delle Antichità e professore incaricato presso l’ENS tunisino. Ritornò in Francia nel 1958, dove insegnò all’Università di Strasburgo, oltre a svolgere l’incarico di direttore des Antiquités Historiques della Champagne. Egli collaborò con Seyrig a Palmira, e quest’ultimo gli affidò due importanti compiti: la pubblicazione degli scavi dell’agorà (1939-1940) e quelle delle abitazioni dietro il santuario di Bel (1940-1941); in entrambi i casi egli aveva anche diretto le operazioni di scavo. Frézouls si dedicò inoltre allo studio dei teatri romani, in Italia, in Siria e a Filippopoli (quest’ultimo pubblicato con l’architetto P. Coupel nel 1956); da queste ricerche nacque anche quella sul teatro di Cyrrhus, che lo impegnò per molti anni e proseguì con lo studio della città e della regione circostante, editi nel 1978 in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (fig.33)136.

Fig. 33. E. Frézouls(da Agora de Palmyre 2005, II).

136 CH. DELPLACE, in Agora de Palmyre 2005, pag. III.

54

Harald Ingholt (1896-1986): nacque a Copenhagen nel 1896 e lì studio filosofia e teologia. Fu nominato conservatore aggiunto della Glittoteca Ny Carlsberg nel 1925 e due anni dopo segretario dell’omonima Fondazione (fig.34). Fra il 1931 e il 1938 insegnò archeologia all’Università americana di Beirut, per diventare poi professore ordinario di Antico Testamento ed Ebraico all’Università di Aarhus; terminò la sua vita e la sua carriera a Yale, dove insegnava antichità classiche ed esegesi biblica, nel 1986. Nel 1928 pubblicò l’importantissimo volume sulla scultura palmirena Studier over Palmyrensk Skulptur, scavò e pubblicò la necropoli sud-occidentale di Palmira, soprattutto con articoli sulla rivista Berytus, da lui stesso fondata, e nel 1940 collaborò con la missione archeologica danese di Hama. A Beirut conobbe Seyrig, con cui collaborò alla redazione di Recueil des tessères de

Palmyre, pubblicato nel 1955, ma si occupò anche di arte partica e del Gandhara (Parhian Sculpture from Hatra, 1954, e Gandharan Art in Pakistan, 1955)137.

Fig.34. H. Ingholt, seduto fra i colleghi della Missione Danese a Palmira (dal sito del National Museet,

Copenaghen, http://natmus.dk).

Robert du Mesnil du Buisson (1895-1986): partecipò come volontario alla Prima Guerra Mondiale e intraprese la carriera militare, ma ben presto cominciò a interessarsi di archeologia, scavando a Dura Europos, con l’incarico di direttore della missione franco-americana promossa dall’Università di Yale e dall’Académie des Inscriptions et Belles Lettres.

Scoprì la sinagoga di Dura nel 1932-1933, pubblicandone i celebri affreschi nel 1939 e collaborò con il Services des Antiquités siriano in diversi siti: Palmira, Qatna, Homs. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, cui partecipò, tornò in Francia e fece parte della Société d'histoire et d'archéologie de l'Orne, fu presidente della Société Ethnographique e socio corrispondente dell'Institut de France138. Daniel Schlumberger (1904-1972): nacque a Mulhouse nel 1904 e studiò Lettere all’Università di Strasburgo, per poi recarsi in Siria nel 1929 in qualità d’ispettore del Services des Antiquités. Qui conobbe Seyrig e si dedicò, fino allo scoppio della Seconda

Guerra Mondiale, agli scavi di Palmira e nella Palmirene (specie quella nord-occidentale). Nel 1947 fece parte della delegazione francese in Afghanistan, Paese che lasciò solo dopo vent’anni, anche se nel 1955 fu nominato professore all’Università di Strasburgo. In

137

WILL 1987 B, pagg. 150-151. 138 HOPKINS 1979, pag. 119.

55

Afghanistan condusse scavi in numerosi siti, quali l’antica Bactra, Lashkari Bazar e Surkh Kotal; nel 1964 scoprì l’importante sito di Ai Khanoum sull’Oxus. Questi scavi gli permisero di formulare importanti ipotesi sui rapporti fra mondo romano e partico, e fra il pensiero greco e il buddhismo, oltre a studiare per primo l’arte koushana e irano - buddhista; nel 1970 pubblicò l’importante volume “L’Orient Hellénisé”. Nel 1970 fu nominato direttore dell’Institut Français d’Archéologie de Beyrouth, e morì nel 1972 a Princeton, presso l’Institute for Advanced Studies, dove si era recato per continuare le sue ricerche (fig.35)139.

Fig. 35. D. Schlumberger in Indukush (dal sito dell’Ifpo http://ifpo.revues.org/1392).

Henri Seyrig (1895-1973): nacque in Alsazia, a Héricourt, nel 1895. Durante la Prima Guerra Mondiale, combatté a Salonicco: questa drammatica occasione accese però in lui l’interesse verso l’archeologia greca, cui si dedicherà dai venticinque anni in poi. Nel 1922 fu ammesso all’École Française di Atene, di cui divenne poi segretario nel 1928, ma fu grazie al suo maestro Perdrizet che cominciò a interessarsi all’archeologia del Levante; con lui partecipò inoltre agli scavi di Seleucia di Pieria. Nel Levante conobbe Dussaud, che lo chiamò a dirigere il Service des Antiquités di Siria e Libano: egli svolse quest’incarico dal 1929 al 1939, dando grande impulso alla ricerca archeologica in questi territori, soggetti al mandato della Francia, occupandosi soprattutto dei siti di Baalbeck e Palmira; collaborò

anche con numerosi archeologi, non solo francesi, ma anche americani (che lavoravano a Doura Europos ed Antiochia), inglesi, belgi, danesi. A Palmira fece sgomberare, nel 1932, il villaggio moderno di Tadmor, che si sovrapponeva alle rovine del tempio di Bel, che poté così essere studiato con maggior cura. Dopo lo scoppio del secondo conflitto mondiale, Seyrig, che aderì alla Francia Libera, emigrò a Londra, ma visse anche in America meridionale e a New York. Alla fine della guerra, si adoperò per la creazione dell’Institut Français d’Archéologie di Beirut, di cui fu il primo direttore, fra il 1946 e il 1967. Seyrig morì il 21 gennaio 1973 a Neuchâtel, lasciando ancora moltissimi lavori inediti (fig.36)140.

139

WILL 1973, pagg. 267-270. 140 J.-L. HUOT, in Agora de Palmyre 2005, pag. I.

56

Fig.36. H. Seyrig (dal sito dell’Ifpo http://ifpo.hypotheses.org/).

Jean Starcky (1909-1988): nacque a Mulhouse nel 1909. Si formò all’Institut Catholique di Parigi e a quello des Hautes Études, all’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme e al Pontificio Istituto di Roma; nel 1938 insegnò lingue semitiche all’Università Saint Joseph di Beirut e dal 1949 al 1952 nello stesso Institut Catholique.

Ordinato sacerdote, fu nominato parroco di Palmira, e nel 1941 divenne cappellano delle forze armate dalle Francia Libera. Nel 1946 conobbe Seyrig, ed entrò a far parte dell’Institut Français d’Archéologie di Beirut, di cui sarà direttore aggiunto fra il 1968 e il 1971. Dal 1949 curò la sezione di Palmira del Corpus Iscriptionum Semiticarum, e, in collaborazione con J.T. Milik, quella della Nabatene;

nel 1951 entrò nel CNRS, di cui fu anche direttore titolare sino al 1978. Oltre agli studi su Palmira, si distinse per anche per quelli su Petra; morì nel 1988 (fig.37)141.

Fig. 37. J. Starcky (da https://www.biblicalarchaeology.org).

Ernest Will (1913-1997): nacque nel 1913 a Urhwiller, Alsazia, e morì nel 1997. Studiò Lettere all’Università di Strasburgo, per poi completare la propria formazione all'École normale supérieure di Parigi e all'École française di Atene; nel 1946 Seyrig lo scelse come membro dell’Institut Français d’Archéologie a Beirut. Si occupò prevalentemente dell’archeologia classica del Vicino Oriente, dedicandosi a siti come Qasr el-Abd d’Iraq al-

141 WILL 1989, pagg.353-354.

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Amir, o a monumenti quali il santuario di Bel a Palmira o quello di Zeus a Jerash. Si dedicò anche all’insegnamento nelle università di Strasburgo, Digione, Lille e Parigi; fu membro del CNRS e dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Si dedicò soprattutto allo

studio dell’ellenizzazione e della romanizzazione del Vicino Oriente, individuando le reciproche influenze fra questi mondi, oltre che ai problemi legati allo sviluppo urbano nel Vicino Oriente. Diresse Syria per diciannove anni, dal 1978, succedendo ad André Parrot142.

142 DENTZER 1997, pagg. 1-2.

58

4. Palmira e Syria.

4.1 La rivista e gli Autori. Questa ricerca si è proposta di analizzare gli studi e gli scavi realizzati a Palmira negli anni del Mandato francese, attraverso gli articoli comparsi sulla rivista Syria143, pubblicati fra il 1923 e il 1942. Sono stati presi in esame quarantuno articoli, che possono essere divisi per argomento o sezione di pubblicazione all’interno di Syria:

14 sono stati pubblicati nella serie Antiquités Syriennes, curata da Seyrig (Appendice nr. 10,11,14,17,18,21,25,26,29,34,35,36,37,39).

9 trattano argomenti epigrafici; 5 sono comparsi in Tadmorea, a cura di Jean Cantineau (Appendice nr.16,23,24,30,32), 2 invece fanno parte della serie Glanes palmyréniennes (Appendice nr. 31,33), all’interno della sezione Nouvelles Archéologiques. Cantineau (Appendice nr.8) ha pubblicato in un articolo a parte le iscrizioni provenienti dallo scavo del tempio di Bel, mentre Ingholt pubbliche due iscrizioni greche di Palmira (Appendice nr.12).

5 articoli (Appendice nr.4,9,13,38,40), che comunicano sinteticamente notizie relative a scavi, restauri, scoperte o particolari tematiche, sono stati pubblicati nella sezione Nouvelles Archéologiques.

2 articoli (Appendice nr.1,3) riguardano opere o collezioni di provenienza palmirena presenti in musei europei.

4 articoli (Appendice nr. 4,5,19,27) riguardano problematiche artistiche e archeologiche.

4 (Appendice nr.2,7,15,22) affrontano problemi storiografici (non comprendendo quelli comparsi nella sezione Nouvelles Archéologiques).

2 (Appendice nr.20,28) riguardano il restauro di monumenti.

Si tratta d’indicazioni di massima, perché ovviamente uno stesso articolo può toccare diversi temi.

Per quanto riguarda gli autori:

Seyrig: 14 articoli (Appendice nr. 10,11,14,17,18,21,25,26,29,34,35,36,37,39).

Cantineau: 6 (Appendice nr. 8,16,23,24,30,32)

Cumont: 2 (Appendice nr. 3,4)

Carcopino: 2 (Appendice nr.2,15).

Ingholt: 2 (Appendice nr. 6,12).

Schlumberger: 2 (Appendice nr.19,27).

Amy: 1 (Appendice nr.20).

Amy, Seyrig: 1 (Appendice nr.22).

Dupont – Sommer:1 (Appendice nr.41).

Dussaud, Du Mesnil, Herdner: 1(Appendice nr.40).

Dussaud, Gaster, Juon, Gaudefroy-Demombynes: 1(Appendice nr.31).

143 La rivista è consultabile gratuitamente on line, attraverso il portale Persée http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/revue/syria

59

Dussaud, Perdrizet, Parrot, Juon: 1 (Appendice nr.33).

Dussaud,Schaeffer:1(Appendice nr.38)

Dussaud, Schmidt, Ingholt, Pope: 1 (Appendice nr.5).

Dussaud, Seyrig, Gabriel: 1 (Appendice nr.13).

Deonna:1 (Appendice nr.1).

Ecochard: 1 (Appendice nr.28).

Mouterde, Poidebard: 1 (Appendice nr.7).

Antiquités Syriennes In questa sezione di Syria, curata da Henri Seyrig, si affrontano argomenti a carattere

epigrafico e archeologico, relativi soprattutto a nuovi studi e scoperte in Siria. In ogni articolo, un singolo tema può essere analizzato, oppure possono esservi più paragrafi attinenti argomenti differenti. Più dettagliatamente, sono trattati i seguenti temi:

1) Le testimonianze del culto di Nemesi in Siria: Seyrig 1932 A, Appendice nr.10. 2) La gerarchia delle divinità di Palmira: Seyrig 1932 B, Appendice nr.11. 3) La pubblicazione di tre bassorilievi di provenienza palmirena, con soggetto

religioso, ma conservati presso il Musée du Louvre e il Museo Nazionale di Damasco: Seyrig 1932 C, Appendice nr.14.

4) La pubblicazione di testi provenienti dallo sgombero del villaggio di Tadmor, relativi alla guarnigione romana di stanza a Palmira: Seyrig 1933 A, Appendice nr.17.

5) L’analisi dei monumenti riguardanti i culti di Baalshamin e Bel emersi negli scavi condotti negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta: Seyrig 1933 B, Appendice nr.18.

6) La pubblicazione dei rilievi provenienti dalla copertura e dal peristilio del tempio di Bel: Seyrig 1934, Appendice nr.21.

7) Il riesame dell’epigrafe dell’arco di Palmira, che menziona Erodiano, “re dei re”, e le nuove ipotesi che da essa scaturiscono per l’identificazione del personaggio: Seyrig 1937 A, Appendice nr.25.

8) L’iconografia di Malakbel: Seyrig 1937 B, Appendice nr.26. 9) La pubblicazione di due iscrizioni greche, la prima proveniente dal santuario di Bel,

la seconda reimpiegata nelle mura cittadine, a est del santuario: Seyrig 1937 C, Appendice nr.29.

10) Il confronto fra le sculture palmirene e la grande statua di Shami: Seyrig 1939 A, Appendice nr.34.

11) La pubblicazione di nuove iscrizioni provenienti dal santuario di Bel: Seyrig 1939 B, Appendice nr.35.

12) Lo studio degli elementi architettonici e delle strutture rinvenute nell’area del santuario di Bel, e che sono anteriori alla costruzione del tempio (regno di Tiberio), e che sono fra i più antichi a Palmira: Seyrig 1940 A, Appendice nr.36.

13) La pubblicazione delle sculture emerse nello scavo della fondazione T nel tempio di Bel, anch’esse fra le più antiche trovate a Palmira: Seyrig 1941 A, Appendice nr.37.

14) La pubblicazione delle iscrizioni greche dell’agorà di Palmira, emerse durante lo scavo di quest’ultima (1939-1940; Seyrig 1941 B, Appendice nr.39).

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Le epigrafi sono corredate dalla trascrizione del testo, e spesso da una fotografia o un apografo; sono accompagnate, quando possibile, dalla traduzione e commentate sia da un punto di vista epigrafico sia storico archeologico.

Tadmorea Si tratta di una sezione della rivista dedicata alla lingua palmirena e alle epigrafi in essa redatte, a cura di Jean Cantineau. Lo studioso, nei cinque articoli presi in esame, vi ha pubblicato le più importanti iscrizioni ritrovate nel 1931-1932, durante lo sgombero del villaggio di Tadmor144, e quelle emerse fra il 1933 e il 1935 al termine dei lavori di sgombero e durante i primi scavi intrapresi nel santuario145. Il terzo articolo146 riguarda diverse altre iscrizioni emerse a Palmira, mentre il quarto147 concerne le epigrafi scoperte fra il 1935 e il 1936 nell’agorà, nell’ipogeo di Yarhai e nell’area del santuario di Bel; i testi ritrovati all’interno dell’ipogeo sono oggetto di un ulteriore articolo del 1938148. Anche in questo caso, di ciascun’epigrafe sono forniti la trascrizione del testo, con l’apografo o la fotografia dell’originale, la traduzione, una sintetica descrizione dell’epigrafe stessa, il

luogo di ritrovamento e il commento linguistico e storico-archeologico. In alcuni casi, alla pubblicazione delle epigrafi si accompagna la recensione di opere riguardanti la lingua palmirena. Le iscrizioni emerse durante lo scavo del tempio di Bel, nel corso del 1930, sono state pubblicate sempre da Cantineau, ma in un articolo a parte, non incluso nella serie Tadmorea (Vd. Cantineau 1931, Appendice nr.8) . Ingholt ha inoltre pubblicato due iscrizioni bilingui, in greco e palmireno, emerse durante la campagna di scavo danese del 1928149.

Glanes Palmyreniennes E’ una sottosezione di Nouvelles Archéologiques, curata, per gli anni qui presi in esame, da P. Joun, in cui si analizzano particolari parole o espressioni palmirene, di cui però è fornita

solo la trascrizione in caratteri semitici. L’Autore commenta da un punto di vista etimologico e linguistico tali termini o espressioni, fornendo esempi tratti dell’epigrafia palmirena e fornendo confronti fra la lingua palmirena e gli altri dialetti e lingue semitici150.

Nouvelles archéologiques

Questa sezione della rivista contiene brevi relazioni delle campagne di scavo o restauro

intraprese nel Levante, comunicazione di scoperte particolari, pubblicazioni di testi; più precisamente:

144 CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16). 145 CANTINEAU 1936 A (Appendice nr.23). 146CANTINEAU 1936 B (Appendice nr. 24). 147 CANTINEAU 1938 A (Appendice nr. 30). 148 CANTINEAU 1938 B (Appendice nr.32). 149 INGHOLT 1932 (Appendice nr. 12). 150 DUSSAUD – GASTER- JOUON - GAUDEFROY DEMOMBYNES 1938; DUSSAUD – PERDRIZET – PARROT-JOUON 1938

(Appendice nri 31, 33).

61

1) La relazione della campagna di scavo danese condotta da Ingholt, nel 1925: Dussaud – Schmidt – Ingholt - Upham Pope 1929 (Appendice nr. 5)

2) L’inizio dei lavori di sgombero del tempio di Bel nel 1930, e la pubblicazione delle sezione V e VI dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre, e delle Fouilles de Palmyre, a

cura di J. Cantineau: Dussaud –Cumont 1931 (Appendice nr.9). 3) La scoperta, nel 1932, dell’epigrafe che indica la data di consacrazione del santuario

di Bel (32 d.C.): Dussaud – Seyrig - Gabriel 1931 (Appendice nr.13). 4) La sintetica descrizione dello scavo dell’agorà e delle epigrafi emerse durante i

lavori: Seyrig 1941 B (Appendice nr.39). 5) La nuova interpretazione di Du Mesnil du Buisson di un’epigrafe di un palmireno a

Cos, già edita dallo scopritore, Levi della Vida: Dussaud - Du Mesnil Du Buisson -

Herdner 1942(Appendice nr.40).

Opere di provenienza palmirena in musei europei L’articolo di W. Deonna esamina alcuni busti palmireni conservati presso il Musée de

Genève (Deonna 1923, Appendice nr.1), mentre Cumont riesamina l’altare dei Musei

Capitolini, dedicato a Malakhbel e agli dei di Palmira, alla luce delle nuove scoperte e conoscenze sulla religione palmirena (Cumont 1928, Appendice nr.3).

Tematiche storico- artistiche archeologiche Si tratta di un’“etichetta”piuttosto vaga, giacché in uno stesso articolo possono essere anche sfiorati argomenti di natura storica o epigrafica.

1) L’analisi di un bassorilievo posseduto da un collezionista di Aleppo, raffigurante una divinità siriana a dorso di cammello (Cumont 1929, Appendice nr.4).

2) La pubblicazione di quattro busti inediti, analizzati da Ingholt (Ingholt 1930 B, Appendice nr.6).

3) Lo studio comparato del capitello arcaico in Siria, Arabia e Palestina(Schlumberger 1933, Appendice nr.19).

4) La relazione dell’esplorazione della necropoli di Palmira, in particolare dell’ipogeo di Yarhai, compiuta da Amy e Seyrig nel 1936 (Amy – Seyrig 1932, Appendice nr. 22).

5) Un busto palmireno inedito, acquistato da Dupont Sommer nel 1937 a Parigi, e da lui pubblicato nel 1942 (Dupont Sommer 1942, Appendice nr.41).

Problemi storiografici Anche in questo caso, si tratta del tema principale degli articoli, poiché questi argomenti sono trattati facendo riferimento a epigrafi, reperti e monumenti.

1) Lo studio del limes numidico, la cui difesa era però affidata a militari di origine

siriana e palmirena, grazie alle numerose epigrafi trovate sia in Siria sia in Numidia: Carcopino 1925, Appendice nr.2.

2) La ricostruzione del percorso della via carovaniera fra Palmira e Hit, grazie a nuove epigrafi e monumenti ritrovati nel 1930, compiuta da Mouterde e Poidebard: Mouterde – Poidebard 1931, Appendice nr.7.

3) La prosecuzione dello studio dei numeri siriani che presidiavano il limes numidico: Carcopino 1933, Appendice nr.15.

62

4) L’analisi della Tariffa di Palmira, alla luce delle nuove scoperte, ad opera di Schlumberger : Schlumberger 1937, Appendice nr.27.

Restauri

Si tratta delle relazioni del restauro dell’arco monumentale di Palmira, diretto da Amy nel 1930151, e dei lavori di consolidamento e restauro del portale del santuario di Bel, condotto da Ecochard, dal 1932152. Gli articoli che sono stati presi in esame, nel loro complesso, riflettono le numerose attività di scavo e di studio, compiute in quegli anni dal Service des Antiquités. In quel periodo, lo sgombero del villaggio moderno di Tadmor, che si era

insediato sulle rovine del santuario di Bel e lo scavo di quel complesso, oltre ai lavori compiuti nell’area dell’agorà, permisero di aumentare notevolmente le conoscenze che si avevano sulla città, i suoi abitanti e i loro rapporti con il mondo esterno, soprattutto grazie al grande numero di epigrafi rinvenute e pubblicate. La rivista Syria permetteva di rendere

note tempestivamente tali scoperte, in attesa di più ampie e complete pubblicazioni (come avverrà per esempio per il santuario di Bel e l’agorà, o le iscrizioni, poi inserite nel CIS),

oltre a, come si proponevano i curatori nel primo numero della rivista, di rendere note le antichità siriane nel Paese e all’estero.

4.2.Palmira: il commercio e le vie carovaniere. Uno degli aspetti più significativi emerso dalla lettura degli articoli, è la profonda attenzione rivolta dai vari studiosi all’individuazione dei rapporti fra Palmira e il resto del mondo antico, orientale e occidentale: da un lato, studiosi come Cumont o Carcopino mettevano in luce i rapporti fra la città carovaniera e Roma, che risultavano sempre più stretti e importanti rispetto a quanto ritenuto in passato, dall’altro, grazie anche ai contatti con altri archeologi e studiosi, si evidenziavano i legami e le influenze con il mondo partico e orientale, fino all’India e alla Cina (figg.38-39).

Fig. 38. Le principali rotte commerciali palmirene (da GAWLIKOWSKI 1994 B, pag. 30).

151

AMY 1933 (Appendice nr.20). 152 ECOCHARD 1937 (Appendice nr. 28).

63

Fig. 39. La Cina sotto la dinastia Han (da http://www.nationsonline.org)

L’arte palmirena, come ha osservato Schlumberger, benché nota in Europa dal XVIII sec., era sempre stata considerata come un unicum, non solo nel panorama del Mediterraneo ellenizzato, ma anche nell’ambito della stessa Siria romana, sino alle scoperte di Dura Europos (1921) e dei regni greco- buddisti del Gandhara. Come afferma lo stesso studioso, si è potuto così inquadrare Palmira in un contesto molto più ampio e osservare come non si trattasse di un fenomeno isolato, “prodotto singolare di una società urbana essa stessa singolare”. Già Rostovzeff si rese conto di come sia Palmira sia Dura non fossero “anomalie”, ma s’inserissero in un contesto molto più ampio, che coinvolgeva il vasto territorio siro - mesopotamico, la Babilonia e l’Iran occidentale. A queste manifestazioni artistiche egli diede il nome di arte partica, e Schlumberger condivide tale definizione, poiché non si tratta solo di un’arte “prodotta” dai Parti, ma delle manifestazioni artistiche che nacquero nei territori facenti parte del loro impero o con esso confinanti153. Per i primi visitatori di Palmira, i nomi di sovrani partici o di città come Vologesia e Spasinou Charax non significavano nulla, ma in quegli anni la ricerca archeologica stava

riscoprendo non solo Palmira, ma anche Dura Europos, Hatra e le città del mondo partico. Molti studiosi che lavoravano a Palmira avevano scavato in quei contesti, come ad esempio Du Mesnil du Buisson e Cumont, che avevano collaborato con Rostovzeff a Dura; quest’ultimo, anche se celebre soprattutto per i suoi scavi in questa città, trattò di Palmira nel suo libro Caravan Cities. Seyrig, molto spesso, nell’analizzare le caratteristiche dell’abito palmireno o di taluni elementi architettonici, fa confronti e suggerisce possibili derivazioni dal mondo partico, iranico o indiano154. Prima che si scavassero sistematicamente i maggiori centri

dell’impero partico, Palmira, pur non avendo mai politicamente fatto parte di quest’impero, è stata considerata un punto di riferimento e confronto per lo studio dell’arte e dell’architettura partica. Dell’impero partico, similmente a Palmira, si era quasi persa traccia, e della sua storia non rimanevano che scarsi resoconti, perlopiù ostili, nella storiografia romana (fig.40). Gli scavi permisero di mettere in luce l’importante ruolo che i Parti svolsero nei contatti fra Oriente e Occidente, relazioni in cui s’inserivano naturalmente le città carovaniere quali Palmira e Dura Europos: già dalla fine del II sec. a.C. le fonti cinesi ricordano i tentativi dei Parti di

153 SCHLUMBERGER 1960 A, pagg. 133-134. 154

Si vedano ad esempio, a questo proposito, SEYRIG 1937 A (Appendice nr.25), pagg. 4-31; SEYRIG 1940 A (Appendice nr.36), pagg. 277-328.

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intavolare relazioni commerciali, mentre per l’India i primi contatti, che avvenivano soprattutto tramite Spasinou Charax, risalgono probabilmente al I sec. a.C. Palmira, dal I sec. d.C. diventerà una tappa fondamentale per le carovane che giungevano da Oriente, e i commercianti palmireni, come indicano numerosissime iscrizioni, visitavano regolarmente le città dell’impero partico occidentale (Babilonia e Mesene), come Hatra, Vologesia, Babilonia, Spasinou Charax, Forat, Susa, fino ai contatti diretti con l’India nord- occidentale (chiamata Scizia secondo l’uso greco, come nell’iscrizione in onore di Iarhibolé trovata ai piedi della colonna 68 nell’agorà)155. Per la sua stessa posizione geografica, Palmira era un naturale punto d’incontro fra Oriente e Occidente: i sovrani partici tolleravano addirittura che un commerciante palmireno, Soados, costruisse un Augusteion a Vologesia, come

ricorda l’iscrizione in suo onore ritrovata a Oum el’Amad, e sempre dalle iscrizioni palmirene sappiamo che spesso i commercianti palmireni erano scelti da Roma quali ambasciatori presso i sovrani orientali156.

Fig. 40. L’impero partico (da COLLEDGE 1979, pagg. 10-11).

Oltre alle informazioni offerte dalle fonti scritte (ad esempio il Periplo del Mare Eritreo) sui beni preziosi che giungevano a Palmira dalla Cina e dall’India, vi sono anche le testimonianze archeologiche: frammenti di seta cinese e stoffe indiane, vetri e pietre preziose sono stati ritrovati in numerose tombe a Palmira e Dura Europos, mentre statuette, oggetti in vetro, metallo e ceramiche di fabbricazione romana raggiungevano le più lontane regioni orientali (fig. 41)157.

155 COLLEDGE 1979, pag. 69-70. 156 Secondo Gawlikowski, tuttavia, la città avrebbe fatto parte del regno di Meheredate o Mitridate IV, alleato di Roma e che quindi avrebbe accettato di buon grado un Augusteion nei suoi territori; vedi GAWLIKOWSKI 1994 B, pag. 29 ss. 157 COLLEDGE 1979, pag.75.

65

Fig. 41. L’impero Kushana e la regione del Gandhara (da www.wikipedia.org).

Le analisi effettuate, anche recentemente, sui frammenti di stoffe trovate nelle tombe, hanno confermato le importazioni citate nelle fonti, così come le influenze nelle fogge dell’abbigliamento erano state messe in luce da Seyrig nel suo studio sugli abiti e le armi palmireni, basandosi soprattutto sulle figure scolpite nelle tombe. A Palmira, così come nell’impero partico, l’abito composto di tunica, pantaloni, e mantello, accompagnato da alti gambali e dalle armi appese alla cintura, secondo l’uso iraniano, convivevano con la tunica e il mantello di origine greca. Ad esempio, il rilievo che raffigura Aglibol e Malakbel con Baalshamin, conservato al Louvre, mostra queste divinità con indosso una corazza di derivazione ellenistica, ma con anassiridi di tradizione partica. Anche gli elementi architettonici usati a Palmira rivelano, come evidenziato da Seyrig e Schlumberger, non solo le naturali influenze ellenistiche e romane, ma anche motivi giunti dall’India e dall’Iran. Gli ornamenta palmyrena antiquiora, sepolti in una trincea del tempio di Bel nel 32 d.C., pubblicati da Seyrig, sono stati ritenuti importantissimi anche per la storia dell’arte partica: in due scene di processione, ad esempio, coesistono figure frontali, rappresentate secondo lo stile ellenistico, con la tradizionale rappresentazione di profilo, tipica dell’Asia occidentale; in pochi decenni, la rappresentazione frontale soppianterà quella di profilo, come testimoniano ad esempio i dipinti dei templi di Dura Europos, dove compaiono, non a caso, anche degli dei palmireni (fig.42)158.

158 COLLEDGE 1979, pagg. 138-140.

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Fig. 42. Affresco con la triade degli dei palmireni a Dura Europos (dal sito dell’Institute for the Study of the Ancient World, Yale University, http://isaw.nyu.edu/).

Il ruolo di Palmira quale luogo d’incontro fra arte ellenistico - romana e arte partica, specie con la serie di articoli di Antiquités Syriennes pubblicati fra il 1931 e il 1937, è stato sottolineato e condiviso anche da R. Ghirshman nel suo ampio studio sull’arte partica: egli ritiene, ad esempio, che se l’architettura palmirena sembra derivare direttamente da quella romana, pur con la sua reinterpretazione in chiave locale, nella scultura, nel mosaico e nella pittura le influenze greco - iraniche sono preponderanti. Lo studioso, infatti, considera alcuni mosaici e pitture chiare imitazioni di cartoni ellenistici, mentre altri, quali ad esempio i ritratti e le Vittorie, frontali e con drappeggio simmetrico, della tomba di Hairan e dei Tre Fratelli, di derivazione orientale, per cui “l’azione dell’arte greco- romana, sull’arte partica a Palmira, non si risolve dunque che in un successo a metà”. Lo stesso Schlumberger ha evidenziato come, se in ambito architettonico le influenze greco-romane sembrano essersi imposte a Palmira a scapito di altri influssi, nella scultura esse sono molto meno evidenti. Un esempio molto chiaro, in questo senso, è il tempio di Bel, in cui coesistono e si fondono ispirazioni differenti159. Come indicato già da Seyrig, la scultura di un personaggio in abito partico rinvenuta a Palmira presenta molti punti in comune con la scultura bronzea di Shami, di produzione partica, oltre che con esempi scoperti più a oriente, a Surkh Kotal in Afghanistan (scultura di principe kushana) e con l’effige del re Kanichka a Mathura160.

Al di là forse della nettezza di questo giudizio, le parole di Ghirshman mostrano comunque il fondamentale ruolo giocato da Palmira quale tramite fra i due grandi imperi d’Oriente e Occidente. Sempre secondo Ghirshman, sarebbero di derivazione palmirena, forse grazie alla presenza di un emporio commerciale, i rilievi con scena di banchetto ritrovati in due tombe monumentali a più loculi, scoperte nell’isola di Kharg, nel Golfo Persico, lungo la rotta commerciale per l’India161. Schlumberger ebbe la possibilità di scavare sia a Palmira sia in Afghanistan, a Surkh Kotal, ed entrambe le esperienze gli permisero di formulare negli anni Sessanta una teoria che,

159 GHIRSHMAN 1962, pag.11; SCHLUMBERGER 1962 B, pagg. 281-282. 160

SEYRIG 1939 A (Appendice nr.34), pagg. 177-183; GHIRSHMAN 1962, pag. 269. 161 GHIRSHMAN 1962, pag. 278.

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pur con alcune critiche, ha avuto una grandissima importanza anche per tutti gli studi successivi: l’esistenza di “discendenti non mediterranei” dell’arte greco-romana, vale a dire l’arte palmirena e quella greco - buddista. Egli ricorda gli studi di Seyrig sul costume, i gioielli e l’architettura palmireni, in cui quest’ultimo aveva già messo in luce i punti in comune fra l’esperienza della città siriana e il mondo partico - iraniano e indiano (figg.43-45); secondo Schlumberger, tuttavia, è necessario superare la tendenza a considerare soprattutto il dualismo fra elementi partici e greco-romani, anche se lo stesso Seyrig, confrontando la statua di Shami con il torso di Qasr el abiad, aveva ipotizzato che esistesse un comune clima artistico, che andava dal deserto siriano alla Susiana e oltre162.

Fig. 43. L’abito iraniano a Palmira (da SCHLUMBERGER 1960 A, pag. 293).

Fig. 44. Statua maschile da Hatra. Fig. 45. L’abito iranico nel Gandhara.

(entrambe da SCHLUMBERGER 1960 A, pag. 293).

Schlumberger sottolinea come in questo panorama non solo si contrappongano, ma si fondano elementi di origine molto diversa: ad esempio, in un bassorilievo scoperto dalla 162 SCHLUMBERGER 1960 B, pag. 301; SEYRIG 1939 A(Appendice nr. 34), pag. 183.

68

Missione Svizzera nel tempio di Baalshamin, a motivi di lontana ma diretta origine mesopotamica, come l’aquila ieratica ad ali spiegate, erede dell’imdugud sumera, con rosette o astri sotto le ali, si affiancano le aquile naturalistiche con palma nel becco, di tradizione ellenistica, così come i busti degli dei. Ugualmente, elementi architettonici di tradizione greco – romana come i capitelli corinzi, e i fregi con ovoli e acanti, si mescolano all’uso architettonico del gallone perlato, dei fregi con animali passanti e rosette, le rappresentazioni frontali delle divinità, di derivazione partica163. Anche i tre modi di rendere le acconciature testimoniano altrettante diverse origini: la resa naturalistica in piccole ciocche di origine greca, la massa di riccioli di trazione partica e i riccioli chioccioliformi disposti in file regolari, che riprende una vecchia convenzione stilistica orientale. Come già aveva osservato Seyrig negli Ornamenta Palmyrena antiquiora,

coesistevano modi differenti di rendere il tralcio di vite: quello con protomi del tempio di Bel, di probabile derivazione antiochena, i doppi tralci intrecciati, simili a quelli della Siria mediterranea e infine proprio i frammenti arcaici del tempio di Bel: i tralci poco sinuosi con grappoli e viticci alternati in maniera geometrica. Secondo Seyrig, questi ultimi non avevano alcun legame con il mondo mediterraneo, e Schlumberger suggerisce un paragone con la resa dei tralci di vite nei rilievi assiri. L’arte partica, dunque, non andrebbe vista come contrapposta all’arte greca, poiché essa stessa sarebbe “tricipite”: l’elemento greco si mescola sia con l’elemento iranico sia con quello semitico - mesopotamico, così come l’arte koushana unisce la tradizione ellenistica con la corrente achemenide e quella dei nomadi iraniani. Anche se Palmira, a differenza di Hatra o Dura non ha mai fatto parte dell’impero partico, in essa si ritrovano quegli stessi elementi, provenienti dalla Mesopotamia partica, l’Iran e le regioni ellenizzate ma con governanti iraniani164. Sia a Palmira sia nell’arte koushana, gandharica e di Mathura, si ritrova la rappresentazione frontale di un volto, all’interno di una cornice, come se fosse affacciato a una finestra, ma tale elemento è estraneo al mondo mediterraneo (fig.46).

163

SCHLUMBERGER 1960 B, pagg. 266-267. 164 SCHLUMBERGER 1960 B, pagg. 268-269.

69

Fig. 46. La frontalità nel Gandhara e a Palmira: Harîti, da Skârah Dheri, Gandhara, e stele palmirena arcaica

(da SCHLUMBERGER 1960 A, pag. 293).

Altro elemento in comune a queste tre regioni è l’utilizzo di modanature ed elementi architettonici che, considerati in se stessi, potrebbero essere considerati greci, ma che non lo sono per il modo in cui sono associati: tralci, tori cesellati, nastri perlati ecc …165. Ad esempio, una nicchia presente sulla facciata della tomba a torre di Atenatan (9 a.C.), presenta uno stipite dritto sporgente sui montanti della porta, e ciò è stato considerato come una reminiscenza ellenistica. Tuttavia, nell’impero romano, tale elemento architettonico è sostituito dallo stipite ionico con mensole all’inizio del I sec. d.C., mentre è molto comune nell’arte dell’India ellenizzata. Alcune persistenze andrebbero viste non come “attardamenti” tipici di una regione periferica dell’Impero romano, perché si tratterebbe di elementi derivati non direttamente da Roma, bensì dalla comune esperienza che accomuna l’arte partica a quella dell’arte gandharica: la mescolanza di elementi tratti dal mondo ellenistico e di tratti tipici dell’Oriente Antico; secondo Schlumberger, ciò differenzia entrambe queste esperienze artistiche dall’arte greco-romana166.

Quest’arte ellenistica siriana ma ancora fortemente influenzata da quella orientale fu, secondo alcuni studiosi, “esportata” nelle province occidentali da artisti siriani. E. Will suggerì che la presenza di motivi decorativi in pilastri, basi o altari, trovati in Germania, Francia e Belgio, così come nell’oreficeria, che non offrono risconti con reperti coevi dell’Europa romana centro-occidentale, presentino invece numerosi punti di contatto con decorazioni o gioielli ritrovati in Siria (molto spesso nella stessa Palmira) o addirittura con il mondo partico; egli suppose che anche i pilastri funerari comuni dalla Mosella al Reno fossero “adattamenti locali” del tradizionale nefesh siriano. Lo studioso ipotizzò che artisti

provenienti da questa provincia dell’impero, ancora “imbevuti” dell’arte ellenistica (ma

165

SCHLUMBERGER 1960 B, pagg. 297-298. 166 SCHLUMBERGER 1960 B, pag. 302.

70

con influenze orientali) tipica della Siria, fossero giunti in Occidente per via marittima, attraverso Aquileia, e vi avrebbero inoltre diffuso il mitraismo e l’arte a esso collegata (fig.47)167.

Fig. 47. Particolare delle decorazioni di balteo e gladius di un centurione (da una stele renana) a confronto

con motivi floreali da gioielli palmireni (da WILL 1954, pag. 281).

4.3.Palmira e l’Egitto: commercio e politica. Benché non sia stato approfondito quanto il rapporto fra Palmira, il mondo partico e l’India, l’analisi di questi articoli suggerisce anche interessanti confronti con l’Egitto. In questo Paese furono impiegati, come d’altronde anche in Numidia, unità militari di origine siriana, molto spesso palmirena. Inoltre, l’Egitto, e in particolare Alessandria, faceva parte di quel circuito commerciale che collegava il Mar Rosso all’India e alla Cina, e di cui Palmira era uno degli snodi fondamentali. Molti studiosi ritengono che l’origine dell’uso dello stucco nella scultura gandharica sia proprio di tradizione alessandrina e palmirena168. Un primo punto di contratto fra l’Egitto e Palmira era sicuramente l’importanza rivestita dai culti solari: Cumont, nel suo studio sull’altare dei Musei Capitolini con dedica a

Malakbel e agli dei di Palmira, ricordò come il dio solare di Palmira e la dea celeste egizia Nut nascessero entrambi da un albero; inoltre, in Siria il mese di dicembre è sacro al sole, e in Egitto si celebrava la nascita del sole fanciullo il 25 dicembre. Le stesse raffigurazioni del Sole sull’altare come fanciullo, giovane, uomo maturo e poi anziano deriverebbero, secondo lo studioso, dalla liturgia praticata nei templi egizi, che soleva così indicare il cammino dell’astro. Resheph è una divinità semitica nota in Egitto durante il Nuovo Regno e citata anche in un’iscrizione palmirena, apposta su di una base di statua offerta dai sacerdoti di Herta169. Per quanto riguarda l’abbigliamento, l’Egitto ha restituito esemplari in stoffa, anche se di età copta, di gambali simili a quelli usati a Palmira e raffigurati nella scultura. Seyrig, nella sua riflessione sulla frontalità nell’arte palmirena, ricorda la rappresentazione, in Egitto, del dio Heron in veste di cavaliere (età tolemaica), dove il busto e il viso di quest’ultimo, così come la testa del cavallo, sono raffigurati frontalmente, così come avveniva per le figure equestri a Palmira (fig.48).

167 WILL 1954, pagg. 271-285. 168

FRESCHI 2000, pag. 15. 169

CUMONT 1928 (Appendice nr.3), pagg. 101-109;CUMONT 1929 (Appendice nr.4), pag. 268.

71

Fig.48. Il dio Heron, disegno da un rilievo egiziano (da SEYRIG 1937 A, Appendice nr.25, pag. 40).

Secondo lo studioso, il diffondersi della rappresentazione frontale andrebbe imputata allo scemare delle influenze greche, e, pur essendo di solito ritenuta una caratteristica dell’arte partica, Seyrig considera le testimonianze pervenuteci troppo esigue per affermarlo con precisione. Schlumberger, nell’affrontare lo stesso problema, ha sottolineato come la rappresentazione di profilo, in Oriente, conosca già delle eccezioni, in Egitto con figure apotropaiche quali Bes e Hator e in Mesopotamia con talune figure eroiche o divine170. Da un punto di vista storico ed economico, i Palmireni erano i diretti concorrenti dei commercianti alessandrini, i quali, attraverso il Nilo, raggiungevano il Mar Rosso e l’India; il Periplo del Mare Eritreo, redatto probabilmente sotto Vespasiano, indica che la maggior parte del commercio con le coste occidentali dell’India era in mano agli Alessandrini. I Palmireni, tuttavia, erano presenti nel Paese africano dal II sec. quali arcieri di un numerus a Copto, e diversi veterani avevano deciso di stabilirsi nella città alla fine del

servizio, dedicandosi al commercio. Seyrig ha espresso dubbi sulla presenza di commercianti palmireni in questa località, ma già nel 1897 Hogarth e Petrie pubblicarono una dedica a una divinità non identificabile, offerta da un certo Belakobos, arciere palmireno di stanza a Copto all’epoca di Caracalla171. Nel 1912 A. Reinach scoprì a Copto, a sud delle mura cittadine, i resti di un edificio nel cui cortile vi erano due altari, decorati da una dozzina di rilievi che giacevano ancora nelle vicinanze. In tali rilievi compaiono una serie di busti, raffiguranti personaggi maschili con il cranio rasato, che apparvero a

Reinach molto simili ai ritratti palmireni dei sacerdoti (fig.49)172.

Fig. 49. Busti da Copto (da SEYRIG 1972, pag. 122).

170 SCHLUMBERGER 1960 B, pag. 258. 171

CLERMONT – GANNEAU 1897, pag. 124. 172 SEYRIG 1972, pagg. 120-125.

72

Nel primo quarto del III sec., tuttavia, i re sasanidi resero la via carovaniera che conduceva a Spasinou Charax impraticabile: i Palmireni dovettero così trovare un’altra strada, vale a dire proprio quella che attraversava la valle del Nilo. Il malcontento dei commercianti di Alessandria, causato probabilmente dalla diminuzione delle esportazioni di grano verso Roma, dopo la creazione della classis Commodiana, fu ulteriormente esasperato dalla concorrenza dei Palmireni, che, oltre che carovanieri, erano anche diventati armatori nel Golfo Persico. Le merci potevano, infatti, transitare sia dai porti occidentali del Mar Rosso sia dalla Nabatene, ed entrambe le vie erano in mano palmirena173. Quando Lucius Mussius Aemilianus, prefetto d’Egitto, dopo l’assassinio di Macrino e Quietus si proclamò imperatore, non tutta la popolazione egiziana lo seguì: secondo lo

storico Rufino, vi erano almeno tre diversi partiti, di cui solo uno favorevole a Roma. E’ probabile che ad Alessandria, vi fosse anche un partito pro - palmireno, dopo che Odenato si era mostrato un fedele alleato del legittimo imperatore Gallieno174. Schwartz ipotizza che Odenato abbia usato propri agenti al fine di suscitare simpatie verso Palmira e di favorire l’attività dei propri compatrioti in Egitto, indebolendo contemporaneamente i loro più prossimi concorrenti175. Dopo la morte di Odenato, tuttavia, Zenobia tentò l’invasione dell’Egitto nel 268, e nonostante il suo esercito fosse respinto, riuscì, anche se per breve tempo, nell’impresa l’anno successivo. La regina poté contare sul sostegno di un gran sacerdote di Alessandria, Aurelio Timagene, che probabilmente era un esponente di quel partito favorevole ai Palmireni che doveva ancora esistere in Egitto. Alcuni storici romani sostengono che Zenobia avesse invaso l’Egitto ritenendosi discendente di Cleopatra, ma molto più probabilmente, anche in questo caso, si trattò di un’operazione economica, dovuta alla situazione d’insicurezza che aveva causato la tribù dei Blemmi, che aveva occupato parte della Tebaide, rendendo così impraticabili alcune vie carovaniere che portavano al Mar Rosso. I Palmireni, costatando la debolezza di Roma, decisero di stabilire rapporti amichevoli con i Blemmi, pagando un tributo. E’ possibile che per i commercianti di Alessandria i Palmireni costituissero l’unica possibilità a breve termine di salvaguardare le vie carovaniere verso Copto. L’Historia Augusta ha addirittura inventato la figura di un usurpatore del potere imperiale chiamato Firmus, alleato di Zenobia, che avrebbe intavolato trattative con i Blemmi e commerciato con l’India: ciò non stupisce, pensando che i Palmireni avevano saputo abilmente sfruttare lo scontento interno dei loro concorrenti176. Dai busti palmireni sappiamo poi che diverse dame di Palmira, oltre che greche e forse indiane, erano di origini egiziane: ad esempio, l’immagine di una certa Shegel, oggi nella collezione dell’Università di Yale, è accompagnata dal soprannome MSRYT, “l’egiziana”. Inoltre, nella tomba di Maliku, vi è l’immagine di una donna chiamata Barbarah Bet Hairan, il cui nome è ritenuto da Ingholt non semitico, perché si tratterebbe di un etnonimo derivato dal nome delle tribù berbere che si erano stanziate nel territorio egiziano, nell’area prospiciente i confini con il Sudan e la Somalia, dove ancora oggi vivono membri

di tali tribù177.

173

SCHWARTZ 1976, pagg. 144-145. 174 RUFINUS, VII, 32, 8. 175 SCHWARTZ 1976, pag. 147. 176

SCHWARTZ 1976, pagg. 148-149. 177 INGHOLT 1976, pagg. 106-109.

73

4.4.L’epigrafia Gli anni del Mandato francese furono molto fecondi per l’epigrafia: emersero numerosi testi importanti non solo per la conoscenza di Palmira, ma anche per i suoi rapporti politici e commerciali con i suoi vicini orientali e romani. Numerose iscrizioni riguardano, infatti, i capi carovana, che condussero a buon fine i loro affari e che spesso aiutarono i concittadini che vivevano in altre città dove Palmira aveva basi commerciali, e tale situazione fu sfruttata anche da Roma a proprio vantaggio. Ad esempio, Germanico, nel 17 o 18 d.C., affidò una missione diplomatica al palmireno Alexandros presso il re di Mesene Orabzes e quello di Emesa Sampsigeram II, oppure si può citare la statua eretta dai commercianti di Babilonia nel 24 in onore di Malikhô, figlio di Neshé, nipote di Bohla, detto Hasas, dei Bene

Komara, che finanziò anche la costruzione del tempio di Bel178. Nonostante più di trenta iscrizioni siano riferibili a imprese carovaniere condotte felicemente a termine, come ha sottolineato Gawlikowski, la maggior parte degli autori antichi sembra non aver mai considerato Palmira una “caravan city”, per usare la celebre espressione di Rostovzeff. L’archeologo sottolinea inoltre come la prima epigrafe che si riferisca esplicitamente a una carovana, è quella pubblicata da lui e K. As’ad: si tratta di un testo risalente al 10/11 d.C., ritrovato nelle mura meridionali della città dove la lastra era stata reimpiegata. In essa si dice che presso un certo muro le tasse applicate ai carichi dei cammelli dovevano essere pagate ad Atenatan, cui probabilmente l’Assemblea dei Palmireni (anch’essa citata nell’iscrizione) aveva appaltato la riscossione delle tasse, così come farà in seguito a publicani ricordati in diverse iscrizioni, come Kilix, menzionato nella Tariffa, o L. Spedius Chrysantus, C. Virius Alcimus e T. Statilius Hermes179. Il noto personaggio palmireno Marcus Ulpius Yarhai fu onorato dalla carovana che aveva guidata all’emporio di Spasinou Charax, con tre statue, di cui rimangono le iscrizioni trovate nell’agorà: una fu redatta nel 156 e le altre due nel 159; altre due iscrizioni gli furono invece offerte dai commercianti provenienti dalla Caldea e da una carovana che era giunta sino in Scizia (India nord-occidentale). Sono note circa dodici iscrizioni che accompagnavano statue erette in suo onore, di cui almeno dieci collocate nell’agorà180 . Un notabile di Forat, nella Caracene, fu onorato dai mercanti palmireni che aveva soccorso, come recita un’iscrizione incisa su di una mensola e reimpiegata nelle mura; un palmireno di nome Yarhai, figlio di Nebûzabad, fu addirittura incaricato di amministrare Thilouana (forse l’isola di Bahrein?) dal re Mehardate della Caracene nel 131 d.C. e un membro della famiglia degli Aabei, Iarhibolé, si rese utile ai concittadini che si trovavano in

Susiana, di cui si cita il re Worod, mentre un’iscrizione incisa su di una colonna del tempio di Bel ricorda l’erezione della statua in onore del capo carovana Nese, figlio di Hale e nipote di Nese, per iniziativa dei commercianti che avevano viaggiato con lui da Forat e da Vologesia, nel 142181. Sotto Antonino Pio, il palmireno Soados poté, in pieno territorio partico, erigere un Augusteion a Vologesia, dove fu onorato con una statua, così come a Spasinou Charax e nel caravanserraglio di Gennaes (forse Oumm el amad, 22 km a sud-est di

178 Vedi CANTINEAU 1931 (Appendice nr.8), n°18, n°4;SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), n°23. 179 GAWLIKOWSKI 1994 B, pag. 28. 180 Vedi CANTINEAU 1938 A (Appendice nr.30), n°28; MOUTERDE-POIDEBARD 1931 (Appendice nr. 7), pagg. 101-115; CANTINEAU 1933 Appendice nr. 16), n°9; SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), n°23. 181

SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), § 4.

74

Palmira); gli furono erette almeno quattro statue, come si è visto non solo a Palmira, fra il 132 e il 145-146 d.C. Nel 198 fu eretta una statua di Aelius Bora, figlio di Titus Aelius Ogeilu, che assicurò la pace alle frontiere, mentre nel 199 Ogeilu fu onorato con una statua nell’agorà per aver combattuto i nomadi che assaltavano le carovane182. Un commerciante palmireno, Rabbel figlio di Hairan, dedicò a Bel, Yarhibol e Aglibol un altare con iscrizione bilingue in greco e palmireno nell’isola di Cos183. Seleucia (ma non sappiamo se si tratti della città sul Tigri o una delle numerose altre località che avevano questo nome) e Babilonia sono citate solo una volta ciascuna nell’intero corpus epigrafico palmireno: sono i mercanti di Seleucia, greci e palmireni, che

offrono una statua a Yedibel figlio di Azizu, che aveva contribuito alla costruzione del tempio di Bel, nel 19 d.C., e una statua di Maliku, detto Hasas, fu eretta nel medesimo santuario nel 24 da “tutti i mercanti della città di Babilonia” 184. Per alcuni commercianti come Soados o Yarhai, si può tentare di ricostruire la carriera. Quella di Yarhai, almeno dalle iscrizioni superstiti, sembra essersi svolta in un arco cronologico piuttosto ristretto (157-159), e almeno cinque o sei iscrizioni appartengono al 157, forse il periodo di massima attività. In due di esse non si citano carovane, ed egli è semplicemente onorato in qualità di “benefattore e amico”, le altre tre epigrafi successive riguardano tipologie di commercio differenti: la prima si riferisce ai commercianti provenienti da Chouman (città della Babilonia a sud di Vologesia) e sembra che si tratti non di una carovana, ma di mercanti indipendenti. La seconda e la terza riguardano invece due carovane, una proveniente da Spasinou Charax, guidata da Iaddaios figlia di Zabdilah,

l’altra dalla Scizia. La cessazione delle dediche dopo il 159 (anno in cui è ricordato anche suo figlio), se non è dovuta al caso, è forse collegata alla guerra fra i Parti e i Romani, che avrebbe interrotto le comunicazioni con Spasinou Charax. La presenza di più iscrizioni nel

157 potrebbe far pensare a diverse spedizioni, anche di differente tipo, nel corso dell’anno: si parla infatti di una sola carovana, mentre nelle altre due iscrizioni si citano mercanti o navi. Una delle iscrizioni del 159 in onore di Yarhai gli è stata offerta da una carovana guidata da suo figlio Abgar, mentre un’altra menziona suo fratello M. Ulpius Abgar. Sembra, dunque, che tutta la famiglia si dedicasse al commercio carovaniero, anche se M. Ulpius Yarhai sembra aver occupato una posizione di preminenza e, a differenza di Soados, guidò lui stesso una carovana185. Soados, secondo l’iscrizione di Umm el Amad, sembrerebbe aver risieduto a Vologesia,

dove sarebbe stato il “presidente” dell’emporio commerciale palmireno: era sembrato quindi che in un primo tempo egli avesse svolto la sua attività commerciale fuori da Palmira, ma un’iscrizione in suo onore trovata durante gli scavi del tempio di Baalshamin sembra suggerire il contrario. La sua attività sembra dunque molto simile a quella di Marcus Ulpius Yarhai, anche se pare che sia rimasto in attività per un maggior numero di anni (stando alle testimonianze epigrafiche, almeno dal 132 al 147)186.

182

Vedi DUSSAUD - SCHMIDT- INGHOLT- UPHAM POPE 1929 (Appendice nr.5), pagg. 176-184; INGHOLT 1932 (Appendice nr.12), pagg. 278-292. 183

Vedi DUSSAUD- DU MESNIL DU BUISSON- HERDNER 1942 (Appendice nr.40), pagg. 133-134. 184 GAWLIKOWSKI 1994 B, pag. 28. 185

YON 1998, pagg. 154-156. 186 WILL 1957, pag. 270; GAWLIKOWSKI 1994 B, pag.29

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Gawlikowski ha inoltre suggerito che non tutto il percorso verso Vologesia e Spasinou Charax si svolgesse via terra, ma che i Palmireni sfruttassero il corso dei fiumi grazie a zattere sostenute da otri di pelle di capra gonfiate (askonautoi), come avveniva ancora

nell’Ottocento. I cammelli sarebbero stati lasciati in custodia presso appositi “caravanserragli”legati a Palmira, come potrebbe indicare l’iscrizione del cavaliere di Ana, e avrebbero potuto compiere il viaggio di ritorno attraverso la pista di Hit187. Le iscrizioni non ci dicono molto riguardo all’organizzazione interna delle carovane, ma i vocaboli utilizzati ci suggeriscono alcune indicazioni preziose: secondo l’analisi di E. Will, si possono quantomeno identificare i presidenti degli empori commerciali palmireni in altre città, i capi carovana (i sinodiarchi), gli strateghi e finanziatori delle carovane.

I sinodiarchi si sarebbero occupati dell’organizzazione materiale delle carovane, radunando uomini e animali: il capo carovana non era dunque una persona scelta a caso, ma un vero professionista, il cui ruolo tuttavia, doveva rimanere piuttosto in secondo piano188. Il termine strategos sembra suggerire all’Autore che la funzione esercitata fosse eminentemente quella di proteggere le carovane dagli attacchi dei nomadi, come pare indicare anche la carica, benché attestata in una sola iscrizione, di strategos epi tes eirenes di Aelius Bora, e l’attività di Ogeilu figlio di Maqqai. E’ possibile che questa “milizia” fosse impiegata nei territori di confine fra impero romano e partico, “terra di nessuno” dove le truppe romane non giungevano. E’ tuttavia probabile che ci fossero alcune postazioni frontaliere di controllo, sia romane sia partiche, come sembra suggerire l’iscrizione del fratello di M. Ulpius Yarhai, Abgar, che onora il centurione Julius Maximus, così come lo stesso Yarhai fece con Tiberius Claudius, praefectus dell’ala Augusta Thracum equitata, tribuno della legione XVI Flavia Firma, prefetto dell’ala Ulpia dromedariorum Palmyrenorum. La maggior parte di coloro che proteggevano le carovane, tuttavia, dovevano essere cittadini palmireni, e la loro funzione, per quanto “ufficiosa”, doveva essere tollerata da entrambi gli imperi189. I finanziatori delle carovane erano i grandi personaggi come Soados o Marcus Ulpius Yarhai: non sappiamo se essi fossero in grado di aiutare le carovane grazie alle cariche civili e/o militari rivestite in città, ma sembra piuttosto probabile che ciò dipenda dal fatto che essi erano grandi banchieri e commercianti. E’ possibile inoltre che essi svolgessero anche alcune mansioni dei sinodiarchi ma rispetto a un sinodiarca ordinario, disponessero dei mezzi finanziari per organizzare e proteggere la spedizione190. Molte iscrizioni riguardavano inoltre la presenza di militari palmireni in altre località dell’impero, considerata la loro fama di arcieri. Giuseppe Flavio ricorda che Vespasiano, durante la guerra giudaica (III, V, 2), poté contare sull’aiuto di cavalieri e arcieri inviati “dall’arabo Malchos”, molto probabilmente, considerato il suo nome, di origine palmirena; secondo il Talmud tali truppe erano sicuramente provenienti da Palmira191. Le testimonianze epigrafiche sembrano però indicare che le prime truppe palmirene regolarmente reclutate nell’esercito romano risalgano all’epoca di Traiano, anche se sono particolarmente numerose solo sotto i Severi192. Un certo Tiberius Claudius, grazie a Marcus

187 GAWLIKOWSKI 1994 B, pagg. 30-31. 188

WILL 1957, pag. 268. 189 WILL 1957, pagg. 265-267. 190 WILL 1957, pag. 270. 191

STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag.40. 192 STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 46.

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Ulpius Yarhai, fu onorato con una statua nell’agorà: è possibile che l’ala Ulpia dromedariorum Palmyrenorum comandata da questo personaggio sia stata creata da Traiano verso il 100 d.C. (o nel 156-157 secondo Seyrig)193. In Africa, il maggior numero d’iscrizioni proviene dall’area di Costantine, nell’antica Numidia: un epitaffio di un centurione di nome Agrippa, figlio di Taimé, che militò sia nella cohors III Trachum Syriaca e nella Cohors I Chalcidenorum (all’interno della quale comandava gli arcieri palmireni) e che Carcopino data al regno di Commodo (180-184). L’iscrizione è stata ritrovata a El Kantara, dove erano stati distaccati alcuni militari di stanza a Lambesi; un altro epitaffio, risalente al 149-150, sotto Antonino Pio, molto probabilmente di un militare, Moqimu, figlio di Simone, proviene da quest’ultima città194. Sotto Gordiano III, il numerus Palmyrenorum era di stanza a Gemellae – El Kasbat, ma dopo il 253 non vi sono più sue testimonianze epigrafiche, benché spesso, dal II sec., molti ex militari siriani e palmireni rimanessero come coloni in Numidia; a Messad – Castellum Dimmidi il numerus Palmyrenorum Severianus fece dediche a Malakbel per la prosperità di Alessandro Severo195. In Dacia, nell’attuale Romania, sono ugualmente state trovate diverse iscrizioni che attestano la presenza di soldati palmireni o più in generale siriani, specie dal regno di Adriano: un’epigrafe di Sarmizegetusa nomina ancora un palmireno, di nome Aelius, come prefetto della cohors I Augusta Ituraeorum sagittariorum (gli Ituraei erano gli abitanti dei monti dell’Antilibano e del Libano); nel 141, M. Ulpius Abgar fu onorato come praefectus degli arcieri palmireni, e uno dei suoi figli era centurione. Sotto Antonino Pio, un T. Aelius esercitava una funzione simile a Porolissum; un diploma datato al giugno 120, trovato sempre in questa città, ha per beneficiario un palmireno, Hamasaeus Alapatha filius. In Siria, M. Acilius Athenodorus, figlio di Moqimo, era tribuno della cohors I Ulpia Petraeorum, reclutata in Nabatene; era probabilmente un parente di Atenodoro il palmireno M. Acilius

Alexander che comandava, nel 134 d. C., la cohors I Claudia Sugambrorum nella Mesia inferiore (attuale Dobroudja) 196. Un cavaliere, probabilmente della Nabatene, fu stratega delle postazioni militari palmirene di Ana e Gamla sull’Eufrate, e lasciò una dedica nel 132;

testimonianze lasciate nel 169-170 da arcieri palmireni sono state ritrovate anche nel mitreo e nel tempio degli dei di Palmira di Dura Europos 197. Julius Julianus, praefectus dell’Ala Thracum Herculiana, era forse palmireno, a causa del titolo di philopatris che gli attribuisce un testo ritrovato nel santuario di Bel nel 167, e potrebbe esserlo effettivamente, benché la sua onomastica non sia tipica della città198. La documentazione sembra quindi attestare che nella stessa Palmira vi fossero comandanti o soldati che della città erano nativi, ma tuttavia,vi militavano anche soldati provenienti da altre regioni dell’impero: l’ala Trachum Herculiana,originariamente composta d elementi traci, fu di guarnigione a Palmira, probabilmente dal 167 al 185, data dopo la quale è attestata a Copto in Tebaide; il Museo del Louvre conserva il busto funebre di uno di questi cavalieri, di nome Vibius Apollinaris, risalente fra il 150 e 180, scolpito a Palmira, mentre sotto Settimio Severo fu dedicata una statua al comandante di tale ala, Gaius Vibius Celer. Il 193

Vedi SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), pagg. 218-270 n °5. 194 Vedi CARCOPINO 1925 (Appendice nr.2); CARCOPINO 1933 (Appendice nr.15), pag. 21. 195 Vedi CARCOPINO 1925 (Appendice nr.2), pagg. 118-149. 196 Vedi SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), ni 2-4 197

STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 48; vedi SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), n°3.

198 Vedi SEYRIG 1941 B (Appendice nr.39), n

i 2-4.

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numerus Vocontiorum (formata da soldati appartenenti alla tribù dei Vocontii, che abitavano l’area di Vaison e Die, nell’attuale Francia) giunse nel 183, rimpiazzando l’ala Trachum; vi è una dedica di tale numerus, che ricorda la creazione di un campo marzio e forse di un tribunale. Nel III sec. la Cohors I Flavia Chalcidenorum di stanza in città dedicò un altare alla

moglie di Filippo l’Arabo Otacilia199. Per quanto riguarda le istituzioni cittadine, un’interessante iscrizione, ritrovata nel santuario di Bel detta appunto “dei Tesorieri”, ricorda come questi ultimi e il popolo di Palmira eressero una statua in onore di “Malikhô, figlio di Neshé, nipote di Bohla, (detto) Hasas, dei Bene Komara”, nel 25 d.C.200 Il Senato di Palmira è citato invece soprattutto dall’età flavia in poi, anche se non si esclude che possa risalire al regno di Nerone, ed è

ricordato spesso nelle iscrizioni onorifiche: la più antica menzione di tale organo è in una dedica trilingue in onore di Hairân, figlio di Bonne, detto anche Rabb'el, risalente al 74, mentre nella Tariffa, risalente all’età adrianea, vi era un praepositus cittadino, cui probabilmente spettavano le decisioni più importanti201. Le dediche in onore di senatori provengono di solito dal portico sud-est nell’angolo orientale dell’agorà, e la Tariffa ricorda che all’interno del senato vi erano un presidente, un segretario, gli arconti e i decaproti, oltre ai semplici senatori. Un’iscrizione dell’agorà ricorda, ad esempio, che Malkho, figlio di Barea, aveva presieduto il senato con integrità e

distinzione, fra la fine del II e gli inizi del III sec., ottenendo attestati di stima anche dal governatore Aetrius Severus; tale funzione fu ricoperta anche da un certo Zenobius, ricordato in un’epigrafe molto mutila trovata non lontano dalla precedente. Sempre nell’agorà è stata ritrovata un’iscrizione in onore di un curator reipublicae, Flavius Titianus,

giunto, probabilmente nella prima metà del II sec. d.C., per curare l’amministrazione cittadina, specie in ambito finanziario202.

4.5. La Tariffa Schlumberger ha dedicato un importante articolo allo studio della Tariffa di Palmira, definendone le varie fasi di composizione e il loro significato 203. Sin dalla sua scoperta, questo documento ha rivestito una grandissima importanza per lo studio del commercio palmireno. La stele, scoperta nel 1881 dal principe Lazarev e trasportata a San Pietroburgo, fu trovata nello wadi, dove era probabilmente caduta dall’area sud dell’agorà, in cui sono stati ritrovati altri frammenti del testo. La Tariffa presenta circa 400 righe suddivise in quattro pannelli; sopra il testo vi sono due righe in greco, incise in grandi dimensioni, che recano la data secondo l’uso romano, con l’indicazione della potestas tribunicia

dell’imperatore Adriano e i consoli del 137 d.C. Questo testo fu inciso per ovviare alle dispute che erano sorte fra i mercanti palmireni e i publicani incaricati di riscuotere le imposte applicate ai beni in entrata e uscita dalla città; oltre alle nuove tariffe e disposizioni, furono incise ed esposte al pubblico (nell’agorà,vedi cap.5) anche le precedenti disposizioni. L’esazione avveniva non secondo il valore delle merci, ma

199 Vedi SEYRIG 1933 A (Appendice nr. 17), pagg. 152-168. 200 Vedi CANTINEAU 1931 (Appendice nr.8), n°5. 201 Vedi CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16), n°1 B; SEYRIG 1933 A (Appendice nr.17), pagg. 152-168. 202

STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985; vedi anche Appendice nr.39, § 3. 203 Vedi SCHLUMBERGER 1937 (Appendice nr.27), pagg. 271-297.

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secondo il loro volume: il carico di un cammello pagava ad esempio un denario, un carro quattro (fig.50)204.

Fig. 50. Tassazioni riscosse su alcuni beni e derrate (da SCHLUMBERGER 1937, Appendice nr.27, pag. 274).

Come ha sottolineato J. F. Matthews, si tratta di un documento fondamentale per la comprensione dei rapporti fra Palmira e Roma, e la sua inclusione nell’Impero, poiché nella fase più antica la regolamentazione si basava su accordi presi in un lungo lasso di tempo205. La Tariffa menziona infatti alcuni rescritti di Germanico (18 a.C.) e di governatori della Siria di età neroniana, Domitius Corbulo (60-63 d.C.) e Licinius Mucianus (67-69); nel 137, dopo la visita di Adriano nel 130, Palmira era diventata una civitas libera dell’impero, per

diventare poi colonia sotto Settimio Severo o Caracalla. Il primo pannello della Tariffa riporta, in greco e palmireno, il decreto del senato, che indica anche dove dovrà essere posta la stele (“davanti al tempio di Rab Esiré”), mentre il secondo indica, in palmireno, le tassazioni da riscuotere per le singole merci o servizi, oltre alla tassa di 800 denarii per lo sfruttamento delle acque (“le fonti di Elio Cesare”). La traduzione di tali disposizioni in greco si trova nelle colonne 1 e 2 del terzo pannello, mentre la precedente legge, ancora valida, e un editto del governatore di Siria L. Mucianus, occupano la colonna 3 del pannello III e le colonne 1-2 del pannello IV per la redazione greca e la seconda metà del pannello II per la parte in palmireno. Vi è tuttavia una differenza fra la parte greca e quella palmirena, perché nella prima vi è un altro frammento di editto emanato da un predecessore di Mucianus, il cui nome non si è conservato. Il titolo è simile a quello del 137, ma qui si afferma che si tratta della legge fiscale “secondo il contratto stabilito in presenza di Marinus”. Tale governatore di Siria è altrimenti sconosciuto, ma deve verosimilmente aver governato prima di Mucianus e del suo per noi anonimo predecessore. L’editto di Mucianus, che occupa 88 righe nella parte greca e quasi altrettante in quella palmirena, indica inoltre la presenza di un praepositus a Palmira, cui un cittadino o il pubblicano addetto alla riscossione possono presentarsi per dirimere eventuali contrasti206. E’ importante sottolineare, tuttavia, che la Tariffa non riguarda il commercio carovaniero per cui Palmira è generalmente nota, ma il funzionamento dell’economia per così dire

204 STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pagg. 83-84. 205

MATTHEWS 1984, pag. 157. 206 STARCKY-SEYRIG 1985,pagg. 86-87.

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“interna” della città, poiché si parla di prodotti che giungevano dal territorio palmireno: ad esempio, pelli di cammello, pigne, grasso animale, olio, zoccoli di bestiame macellato, pecore per la tosatura, l’uso dell’acqua ecc …, tutti prodotti di un’economia locale. Non si menzionano, infatti, merci di lusso: gli oli e gli unguenti sono contenuti in semplici pelli di capra e non in unguentari di alabastro (probabilmente erano prodotti non considerati come beni esotici e costosi) e gli unici oggetti veramente di lusso sono le statue di bronzo che i ricchi palmireni dedicavano nei luoghi pubblici della città; anche l’importazione di schiavi citata nel testo sembra, per usare le parole di Matthews, contingente, e non legata a un commercio vero e proprio. Vi sono anche i riferimenti a quelli che erano servizi offerti da varie categorie, dalle prostitute a chi lavorava il cuoio; interessante è la distinzione fra i

commercianti ambulanti di vesti e chi invece svolge la propria attività all’interno di botteghe. La Tariffa distingue fra le merci importate o esportate dai villaggi della Palmirene, per cui non sono esatte imposte, e quelle che provengono dai centri posti fuori dai confini; la scoperta di numerosi villaggi nell’area a nord-ovest di Palmira ha confermato che l’economia cittadina non si basava solo sulle carovane. Tuttavia, il fatto che i Palmireni rimanessero legati anche al mondo dei nomadi e del deserto potrebbe avere un riflesso nel testo della Tariffa relativo ai diritti di pascolo: coloro che vivono all’interno del territorio palmireno non devono pagare alcuna tassa, che invece è richiesta a chi porta i propri animali dall’esterno; l’esattore delle tasse può anche costringere il proprietario a marchiare il bestiame. E’ forse possibile che tali disposizioni si riferiscano a transumanze stagionali di pastori nomadi, che entravano temporaneamente nei pascoli della Palmirene. Un’altra atipicità di Palmira è l’orgoglio della sua classe mercantile: nelle altre città dell’impero, solitamente, le ricchezze guadagnate attraverso il commercio sono convertite in terre, giacché si tratta di un tipo di ricchezza più “rispettabile”, e l’aristocrazia di una città di solito non si occupa di commercio. A Palmira, invece, i maggiorenti mantenevano stretti rapporti con il proprio territorio agricolo, oltre che con il mondo dei nomadi207.

4.6. Il santuario di Bel

Il santuario di Bel fu scavato negli anni del mandato francese, e di conseguenza diversi articoli riguardano questo santuario, fra cui: Textes palmyréniens provenant de la fouille du Temple de Bel di J. Cantineau (Cantineau 1931, Appendice nr.8), Nouvelles archéologiques, di R. Dussaud e F. Cumont (Dussaud - Cumont 1931, Appendice nr.9), Antiquités syriennes - Bas-reliefs monumentaux du temple de Bel à Palmyre, di H. Seyrig (Seyrig 1931, Appendice nr.21), Consolidation et restauration du portail du temple de Bel à Palmyre, di M. Ecochard (Ecochard 1937, Appendice nr.28). Cantineau pubblicò in Tadmorea l’epigrafe trovata da R. Amy nel 1932 all’interno del santuario, in cui si ricordava la dedica del santuario nell’aprile del 32 d.C.; in quest’area sono state ritrovate inoltre molte delle epigrafi, purtroppo non molto numerose, risalenti

al I sec., oltre ai frammenti scultorei così importanti per lo studio dell’evoluzione dell’arte palmirena e di quella partica in generale (vedi infra).

207 MATTHEWS 1984, pagg. 172-173.

80

Il procedere dei lavori è documentato da due epigrafi, che ricorda come Yedibel, figlio di Azizu, donò una grossa somma per la costruzione del tempio nel 19, così come fece nel 24 Maliku Hasas: ciò suggerisce che i lavori siano durati circa quindici anni208.

Un primo tempio fu edificato in età ellenistica su una piccola altura che si affaccia sullo wadi, cui forse si può attribuire il segmento di colonnato circolare ritrovato a nord-est della cella, sotto il piano di calpestio, che in epoca romana era di circa 11 m più alto rispetto all’età ellenistica. E’ probabilmente dal regno di Tiberio che fu costruito il nuovo tempio, seguendo i “canoni tradizionali “dell’arte romana, come nel resto della provincia di Siria. Buona parte del santuario è ancora conservata: la cella con i due thalamoi, parte del colonnato orientale e il

portale monumentale sul lato ovest, e nonostante l’occupazione dell’area del santuario dalle case del villaggio arabo abbia provocato alcuni danni, ciò ha permesso anche la conservazione della struttura (fig.51).

Fig. 51. Pianta schematica del tempio di Bel (da AMY 1976, pag. 54).

Il tempio fu trasformato in chiesa, come dimostrano alcune pitture sui muri della cella, benché non sia possibile stabilire esattamente quando ciò avvenne (per il tempio di Baalshamin si è ipotizzato il V sec.): è plausibile che tale trasformazione sia avvenuta all’epoca dei restauri promossi in città da Giustiniano. Sotto Marwan II, nel 745, l’edificio fu probabilmente abbandonato e solo in seguito trasformato in moschea; la città fu colpita da un terremoto nel X sec., mentre nel XII l’area del santuario fu trasformata in fortezza. E’ possibile che proprio nel 1132-1133 il tempio sia stato trasformato in moschea, come indicano le iscrizioni cufiche e due mirab di stucco nel thalamos sud; essa fu poi restaurata una prima volta nel 1237-1238 e ancora nel 1884. La moschea rimase in uso fino al 1932, quando si concluse lo sgombero del villaggio209. Il tempio presenta un temenos quadrangolare, al centro del quale, su di uno zoccolo a gradini, si trova la cella; durante la costruzione, si decise di ampliare la zoccolatura oltre i limiti della collinetta, utilizzando la terra di riporto in loco: ciò fece emergere le fondazioni del basamento del crepidoma, e si decise allora di trasformarlo in un podium privo di gradini. La corte è circondata da doppi portici sui quattro lati, tranne che su quello occidentale, dove vi è una sola fila di colonne; l’entrata avveniva attraverso le tre porte del propileo,

208

SEYRIG-AMY-WILL 1975, pag. 149. 209SEYRIG-AMY-WILL 1975, pagg. 157-159.

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che presentava esternamente una scalinata che conduceva a un portico di otto colonne e due torri laterali. Nel XII sec. un bastione arabo distrusse il portico, ma la facciata interna del propileo fu rispettata. Nel cortile, fra questo porticato e la cella si trovavano diversi edifici e strutture, quali il grande altare dei sacrifici, un bacino lustrale, mentre una doppia rampa permetteva di condurre non lontano dall’altare gli animali da sacrificare. Vicino all’altare c’era inoltre la sala dei banchetti sacri, imbanditi dai sacerdoti del tiaso di Bel (come ricorda ad esempio l’iscrizione del 140/141 trovata proprio nel colonnato meridionale del santuario)210. L’entrata della cella occupa insolitamente uno dei lati lunghi (quello ovest) del tempio e non la parte centrale: in questo punto il peristilio è interrotto da un portale riccamente decorato e restaurato da Ecochard211; all’interno della cella, il thalamos settentrionale ospitava le immagini cultuali ed è possibile che entrambi i thalamoi abbiano rimpiazzato delle cappelle più antiche. Le loro facciate sono state decorate con semicolonne e una falsa trabeazione, che inquadra nel thalamos sud una porta, mentre in quella nord, a entrambi i lati della porta centrale, vi è un’edicoletta frontonata, che probabilmente ospitava un’immagine divina. L’analisi delle fondazioni ha evidenziato che in origine era previsto solo il thalamos settentrionale: queste, infatti, hanno la stessa profondità e sono dello stesso tipo delle fondazioni del muro della cella, mentre quelle del thalamos meridionale

appaiono di qualità inferiore. Sebbene non sia possibile affermarlo con certezza, è molto probabile che si siano succeduti due progetti: il primo contemplava un tempio periptero con entrata sul lato lungo occidentale, ma con portale semplice, thalamos nord grande all’incirca come quello attuale ma thalamos meridionale di minore importanza (figg.52-53). Il secondo progetto prevedeva invece un thalamos sud di dimensioni e importanza uguali a quello nord, l’inserzione del portale monumentale attuale e della rampa d’accesso212.

. Fig. 52. Disegno della facciata del thalamos sud (da BROWNING 1979, pag. 123).

Delle scale a chiocciola conducevano probabilmente a una terrazza posta sopra la cella cui forse apparteneva una serie di merli gradinati, che coronavano anche la cornice del peristilio. E’ possibile che i thalamoi abbiano sostituito il baldacchino o qobbah del mondo

arabo, dove erano trasportati i betili o altre immagini di culto, come mostra anche un

210

Vedi SEYRIG 1939 B (Appendice nr.35), pagg. 296-373, n°24. 211 Vedi ECOCHARD 1937 (Appendice nr.28), pagg. 298-307. 212 SEYRIG-AMY-WILL 1975, pagg. 151-153.

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bassorilievo con scena di processione trovato nel tempio stesso (vedi Seyrig 1934, Appendice nr.21) e numerose tessere213.

Fig. 53. Il soffitto dello Zodiaco in un’incisione da un disegno di Wood e Dawkins (da BROWNING 1979, pag. 123).

Seyrig ipotizzò che Palmira fossa stata inglobata nell’Impero durante il regno di Tiberio: la consacrazione del tempio proprio nel 32 d.C. non sarebbe dunque casuale, considerato il momento di grandissima prosperità economica per la città: basti pensare che il tempio aveva quarantuno capitelli in bronzo, mentre il tempio di Baalbek, costruito con il contributo della cassa imperiale, non ebbe che capitelli di pietra. Nel 19, data cui risale una delle più antiche iscrizioni del santuario, il legatus romano Minucius Rufus dedicò a Palmira le statue di Tiberio, Druso e Germanico, cui si aggiunse un rilievo con la lupa

romana, che Seyrig ha datato proprio a età tiberiana. Colledge, estremizzando l’ipotesi di Seyrig, ritiene che la velocità con cui il santuario di Bel fu realizzato, rispetto ai progressi molto più lenti del santuario di Baalshamin, sia dovuta ai contributi dello stato romano, allo scopo di accattivarsi la benevolenza della popolazione locale e celebrare l’annessione di Palmira all’impero214. Il legame con il mondo mesopotamico, oltre che nelle sculture arcaiche emerse nella “fondazione T”, appare evidente anche nel fatto che il tempio sorse su una necropoli, e che fu sempre rispettata una torre funeraria risalente al II sec. a.C. Inoltre, il passaggio dal vecchio al nuovo tempio, similmente a quello del santuario di Baalshamin, è segnalato dall’uso del calcare duro al posto di quello tenero, più duraturo e più simile al marmo; è possibile che chi progettò il tempio abbia volutamente cercato questo nuovo materiale. La tradizione ellenistica, diffusa nel resto della provincia di Siria, convive però anche con elementi di tradizione orientale; secondo Seyrig e Will tali elementi sarebbero penetrati a Palmira soprattutto grazie alla presenza di scalpellini e artigiani provenienti dalla Siria occidentale, che lavoravano a contatto con le maestranze locali. Il peristilio, la muratura isodoma dei colonnati sono ugualmente di tradizione ellenistica, ma i merli a gradoni sono di tradizione orientale, così come la terrazza e l’opera muraria irregolare che caratterizza il portale del lato ovest, la porta, i thalamoi, le travature215.

Gli stessi rilievi della fondazione T mostrano la convivenza di elementi di origine partico -orientale ed ellenistica: ciò è ben visibile in scene come il combattimento contro

213 STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pagg. 116-119. 214

COLLEDGE 1976, pagg. 50-52. 215 SEYRIG-AMY-WILL 1975, pagg. 215-217.

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l’anguipede, la processione sul cammello e il soffitto del thalamos nord con le sette divinità planetarie e i simboli dello zodiaco. I soggetti sono comuni all’arte partica, ma i busti delle divinità, i tralci figurati, il motivo dell’anguipede, il tempio raffigurato lateralmente alla scena di combattimento, la spada con elsa a testa di cavallo sono di derivazione ellenistica. Due servitori sono raffigurati di profilo secondo la consuetudine orientale, che ricorda i rilievi della Commagene, così come le palme sono quasi identiche a quelle dei rilievi assiri; come si è ricordato in precedenza, i motivi figurativi delle donne velate e della processione a dorso di cammello rimandano ad aspetti della religiosità araba. Colledge, come già Seyrig e Will, ha notato come i nomi di artisti che le epigrafi ci hanno tramandato, sono di origine greca o macedone (Antiochos, Miltiades, Alexandros), ma diffusi anche in Siria

settentrionale, e in particolare ad Antiochia. E’possibile che la scelta dei motivi decorativi non sia stata diretta dai sacerdoti, ma affidata unicamente agli artisti, giacché i rilievi delle travi non sono logicamente connessi fra di loro, e soprattutto la divinità lunare è stata rappresentata come la Selene greca nel soffitto dello zodiaco, ma negli altri rilievi è, come di consueto, il dio lunare di Palmira Aglibol216. Interessante è anche la menzione dell’architetto del santuario di Bel, Alexandros, e di un “decoratore degli edifici del dio”, Hairan figlio di Bonne, che Cantineau interpretò come un artista, benché più recentemente Ch. Delplace e J. Dentzer Feydy ritengano più prudente ritenerlo non l’esecutore materiale delle opere ma solo il finanziatore217. Gli articoli che sono stati qui esaminati forniscono un’importante testimonianza non solo di quella che fu l’attività del Service des Antiquités durante gli anni del mandato, ma

mostrano anche uno sforzo, non sempre perseguito altrove, di inquadrare la città in un più ampio contesto storico, artistico e culturale, facendo confronti, come si è visto, non solo con il vicino mondo greco – romano, ma anche con l’Asia centrale e l’India, benché in molti casi gli scavi in tale regioni fossero appena cominciati. Moltissimi degli studi successivi avranno come punto di partenza, anche in anni recenti, gli studi compiuti in quegli anni218.

216 COLLEDGE 1976, pagg. 46-48. 217

Vedi CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16), 1 B; DELPLACE-DENTZER FEYDY 2005 C, pag. 350. 218 Si possono ricordare, a titolo di esempio, la pubblicazione del tempio di Bel di Ch. Delplace e J. Dentzer Feydy a partire dai lavori di Seyrig, Duru, Amy o lo studio sulle vie carovaniere Khan ou casernes à Palmyre? Di J.M. Dentzer (in Syria, tomo 71, fascicolo 1-2, 1994, pagg. 45-112 , www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-

7946_1994_num_71_1_7410), che parte delle fotografie realizzate da Mouterde e Poidebard nel 1930 (Appendice nr.7).

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5. Gli scavi nell’agorà: dallo scavo alla pubblicazione.

5.1. La storia. Una delle prime raffigurazioni dell’agorà fu realizzata da Gerard Hofstede Van Essen, membro di una spedizione che si proponeva di esplorare Palmira nel 1691: egli utilizzò i disegni realizzati in situ per dipingere, una volta tornato ad Aleppo, una veduta della città, raffigurata da nord-est verso sud-ovest, con al centro l’area dell’agorà. E’ possibile distinguere il muro nord-occidentale dell’agorà e i suoi colonnati di nord-ovest e sud-est (confrontandola con quest’immagine, essa appare oggi la meglio conservata). La stessa tela fu utilizzata per trarne un’incisione, pubblicata nelle Philosophical Transactions, edite dal

capo della spedizione, il pastore inglese W. Halifax. Un’altra veduta di Palmira fu realizzata da Giraud e Sautet nel 1706, mentre C. Loos disegnò i principali edifici, ma la rappresentazione che egli fece dell’agorà sembra meno accurata rispetto a quella di Hofstede. Nel 1751, il disegnatore Giovanni Battista Borra, che accompagnava Dawkins e Wood nel loro viaggio, rappresentò, nella vista generale (tavola I), una parte dell’elevato dell’agorà (muro di separazione fra quest’ultima e la basilica - mercato), anche se parzialmente nascosto dal Tetrapilo; il muro della sala secondaria compare in secondo piano nella tavola XXVI, che presenta una vista dell’arco monumentale da ovest.219. Per lo studio dell’agorà, tuttavia, la fonte iconografica più importante è costituita dalle opere di L. F. Cassas, da cui si evince che all’epoca le sue strutture erano ancora ben conservate: in seguito, il lato sud-est e la basilica – mercato crollarono a causa di un terremoto. Vi sono però alcune

imprecisioni, anche se forse imputabili a errori dell’incisore. Nel corso dell’Ottocento, numerosi viaggiatori e studiosi si recarono a Palmira; nel 1902 e nel 1917 Th. Wiegand compì due importanti missioni di studio, che porteranno alla pubblicazione, nel 1932, della prima grande monografia su Palmira: l’agorà vi è descritta, anche se brevemente; gli scavi recenti hanno però smentito l’ipotesi che l’asse dell’entrata principale si trovasse sul lato sud-est.220 La missione di Gabriel nel 1925 non riguardò l’area dell’agorà, pur auspicandone lo scavo, mentre Rostovzeff, nell’edizione italiana di Caravan Cities, interpretò l’agorà come un

caravanserraglio, anche se A. Di Vita, curatore del testo, affermò che si trattava di un’agorà di tipo ionico, mentre la definizione di caravanserraglio si adattava meglio all’edificio posto più a est, e l’emiciclo era interpretato come la curia cittadina. Poco dopo, cominciarono i lavori condotti da Seyrig in collaborazione con gli architetti Amy e Duru: dal 1929 fu sgomberato il villaggio arabo che occupava l’area del tempio di Bel. Dopo la fine del mandato, gli scavi ripresero solo nel 1965, sotto la direzione di Du Mesnil du Buisson, in diversi settori del sito: nel suo rendiconto, egli ricorda di aver scoperto il luogo dove fu trovata la Tariffa grazie all’aiuto di un operaio che aveva partecipato al trasporto della stele: essa fu rinvenuta nel fondo dello wadi, di fronte all’angolo sud dell’agorà, da dove probabilmente era caduta o rotolata nel letto del torrente. Egli ritenne inoltre possibile che il tempio di Rab Esiré, citato nel testo della Tariffa, fosse identificabile con la “sala ipostila”; la scoperta di una dedica greca a “Bol, Iside e Afrodite, dei nazionali”, nel lato nord-orientale dell’agorà indusse Du Mesnil a

219

DELPLACE- DENTZER FEYDY 2005 A, pag. 15. 220 DELPLACE- DENTZER FEYDY 2005 A, pag. 16.

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ritenere che lì si trovasse un altro tempio arcaico, ma gli scavi successivi non hanno sfortunatamente confermato questa ipotesi. Nel biennio 1966-1968, il direttore del Service des Fouilles Archéologiques siriano, Adnan Bounni, con la collaborazione di Nassib Saliby,

procedé allo sgombero e al rilievo architettonico della basilica- mercato221. Le pubblicazioni sull’agorà, comparse su Syria nel periodo del Mandato Francese, riguardano: -la menzione della scoperta di un’iscrizione in onore di Ogeilu, figlio di Maqqai, di una statua femminile acefala e di un rilievo con cammelli emerse nell’Agorà, durante la campagna condotta da Ingholt: Dussaud – Schmidt – Ingholt - Upham Pope 1929(Appendice,

nr. 5). - la discussione sul significato di tetradeion e le ipotesi sulla sua identificazione, inquadrato nell’analisi dell’iscrizione di Soados: Mouterde – Poidebard 1931(Appendice nr. 7). - la scoperta di un’iscrizione bilingue, rinvenuta nel 1928 nei pressi del muro nord del complesso: Ingholt 1932 (Appendice nr. 12). - l’inizio dello scavo dell’agorà sotto la direzione di Amy, e la scoperta, in quest’area, di diverse iscrizioni: Cantineau 1938 A (Appendice nr.30). - la scoperta di alcuni frammenti e sculture, che si confrontano con quelli emersi nella fondazione T del tempio di Bel. Tale fondazione risale alla prima fase costruttiva del tempio, e riveste una grandissima importanza per la storia del santuario, in quanto vi furono sepolti blocchi con iscrizioni risalenti alla seconda metà del I sec. a.C. e gli inizi del I sec. d.C.: Seyrig 1941 A (Appendice nr 37). - una breve sintesi dei risultati dello scavo, con particolare attenzione alle drammatiche fasi della guerra tra i Romani e Zenobia: Dussaud – Schaeffer 1941 (Appendice nr. 38). - l’analisi approfondita di alcune iscrizioni greche provenienti dagli scavi del 1939-1940: Seyrig 1941 B(Appendice nr. 39).

5.2. Il lavoro di Seyrig e Duru.

Seyrig, nell’ultimo articolo citato (Seyrig 1941, Appendice nr. 39), segnala la prossima pubblicazione dei risultati dello scavo. L’agorà fu scavata fra il 1939 e il 1940, da Seyrig e dall’architetto Duru, ma la preannunciata pubblicazione sfortunatamente non avvenne, benché il primo studioso avesse già redatto un articolo (rimasto a lungo solo dattiloscritto) con una sintetica descrizione dei monumenti di cui l’architetto aveva tracciato la planimetria generale. La guerra e la fine del mandato francese impedirono la pubblicazione ma non la continuazione degli studi, cui Seyrig associò, negli anni Cinquanta, Edmond Frézouls; Duru lavorava come urbanista a Marrakech, ma continuò a tenersi in contatto con Seyrig per via epistolare, sino al 1984. Sfortunatamente, quando entrambi gli studiosi erano in vita, fu possibile pubblicare solo un articolo di Frézouls sulle case di Palmira, nel 1976. La pubblicazione dell’agorà si è compiuta solo nel 2005, per opera di Christiane Delplace e

Jacqueline Dentzer – Feydy, con la collaborazione di Kh. Al As’ad, J.C. Balty, Th. Fournet, Th. M. Weber e J.B. Yon, partendo dai lavori di Seyrig, Frézouls e Duru.

221 DELPLACE- DENTZER FEYDY 2005 A, pag. 17.

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Christiane Delplace fu coinvolta nel progetto della pubblicazione dell’agorà nel 1973: nel 1976 svolse un’attività di verifica delle epigrafi note, in particolare quelle trovate nell’agorà, facendo realizzare fotografie e calchi da R. Neiss. I lavori tuttavia furono ancora sospesi, e quando l’attività riprese negli anni Novanta, Delplace e Dentzer – Feydy raccolsero moltissima della passata documentazione, anche se la maggior parte di essa era dispersa: parte si trovava a Bordeaux, negli uffici del Service Régional d’Archéologie, cui i figli di Duru avevano lasciato l’archivio paterno, e parte a Strasburgo, presso la vedova di Frézouls, mentre la documentazione fotografica era conservata alla fototeca dell’IFAPO di Damasco, e l’inventario delle scoperte dell’agorà si trovava nella stessa città, ma presso l’Institut Français d’Études Arabes.

Mancano tuttavia i diari di scavo e le fotografie di elementi in situ o isolati scattate all’epoca dei lavori: per questa ragione, fra il 1999 e il 2002 fu realizzata una nuova campagna fotografica222. Nel volume sull’agorà, Ch. Delplace ha curato la pubblicazione di un testo dattiloscritto inedito, non firmato ma attribuibile con certezza quasi assoluta a Seyrig, grazie al confronto con un altro articolo da lui pubblicato nei Comptes Rendus dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Il dattiloscritto era accompagnato da note ai margini di Duru, e insieme a copie a stampa di planimetrie, erano stata donate dai figli di Duru all’archivio del Service Régional d’Archéologie di Bordeaux, nel 1997. Il testo è completato anche dalle note della Delplace, che ha inserito alcune integrazioni dove necessario; le fotografie e i disegni sono di Duru, cui si aggiungono quelli realizzati dell’architetto Th. Fournet, fra il 1999 e il 2002, per la pubblicazione del volume, e che riguardano soprattutto blocchi isolati ed elementi architettonici. Oltre al dattiloscritto, sono pubblicate anche tre lettere di Duru, tutte indirizzate a Seyrig (anche se nelle prime due egli non è citato esplicitamente come destinatario). Il dattiloscritto di Seyrig, rimasto inedito e pubblicato da Ch. Delplace si proponeva di rendere noti al pubblico, grazie a una breve descrizione, l’architettura dell’agorà e i ritrovamenti che vi erano emersi. Ch. Delplace non ha solamente curato la pubblicazione di tale dattiloscritto, ma ha riletto i dati noti alla luce delle nuove scoperte, in collaborazione con l’architetto Th. Fournet. Il testo di Seyrig può essere così riassunto223: L’agorà di Palmira L’agorà di Palmira è situata fra il teatro a nord-est e il wadi el Kabur a sud, il cui corso si snoda, pressappoco, dalla Valle delle Tombe al santuario di Bel (benché, come nota Delplace, il percorso antico del fiume fosse molto probabilmente diverso). Quest’insieme monumentale isolato, ancora in gran parte conservato in elevato, e che nel corso del tempo i viaggiatori hanno considerato la piazza principale della città, è orientato a nord-est e sud-ovest, e si compone di tre monumenti, costruiti insieme e indissolubilmente legati: una vasta piazza rettangolare, cioè l’agorà propriamente detta, che i Palmireni probabilmente chiamavano tetradeion; un edificio rettangolare, con numerose finestre, contiguo alla

piazza sul lato sud-orientale, che non è stato possibile scavare e di cui non si è dedotto l’utilizzo; infine, nell’angolo occidentale del tetradeion, un piccolo edificio, che gli scavi hanno dimostrato essere un tempio, dedicato a qualche culto pubblico cittadino (fig. 54).

222

Agora de Palmyre 2005, pag. 9. 223 Agora de Palmyre 2005, pagg. 23-34.

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Fig. 54. L’agorà di Palmira, in un disegno di Th. Fournet (da Agora de Palmyre 2005, pag. 149).

Nonostante quest’insieme abbia attirato l’attenzione da tempo, e vi siano stati scoperti numerosi testi importanti, le circostanze ne avevano impedito lo scavo. Alcune ricerche,

iniziate da Amy nel 1935, non avevano potuto essere continuate; nel 1939, grazie all’interesse dimostrato da Dussaud per un’esplorazione esaustiva, l’Académie des Inscriptions mise a disposizione del Services des Antiquités dei fondi importanti a questo scopo. Il Museo di Damasco, su impulso del suo conservatore, l’emiro Djafar Abd el Kader, aggiunse una somma notevole, che permise di iniziare i lavori nel corso dell’estate; essi proseguirono nonostante la guerra, e furono terminati nel 1940. Il generale Weygand offrì anche l’aiuto dei meharisti presenti in città, che cooperarono alle operazioni di scavo224. Lo scavo mise in luce numerose iscrizioni, che furono aggiunte a quelle note, con l’intenzione di formare il fascicolo 10 dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre di Cantineau (tale fascicolo sarà in realtà curato e pubblicato da Starcky nel 1940); ventotto di queste furono pubblicate anche in Syria, nel 1941, da Seyrig225

224

Agora de Palmyre 2005, pagg. 23-24. 225SEYRIG 1941 B (Appendice nr. 39).

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Struttura (fig.55)

Fig. 55. L’agorà di Palmira: ipotesi ricostruttiva per il II sec. (da Agora de Palmyre 2005, pag. 150)

L’agorà è una piazza rettangolare, orientata all’incirca da nord-est a sud-ovest, con un piccolo tempio nell’angolo occidentale. Un vasto edificio con finestre, contiguo all’agorà sulla facciata sud-est, è a essa indissolubilmente legato ed è stato costruito nello stesso periodo; questo edificio, che non si poté esplorare nel 1939-1940, fu interpretato da Seyrig come mercato. Tutto quest’insieme, chiaramente distinto dal tessuto cittadino circostante, è costruito lungo un torrente che proviene dalla Valle delle Tombe e scorre verso il santuario di Bel.

E’ situato a ovest del teatro, fra le due vie colonnate che conducevano l’una dal teatro al torrente, l’altra dal Tetrapilo allo wadi. Il rettangolo dell’agorà misura internamente 71,20 m a nord-est (lato A), 83,45 m a sud-est (lato B), 71 m a sud-ovest (lato C), e 84,30 m a nord-ovest (lato D). Un portico corinzio, alto 12,40 m, segue i quattro lati di questa corte, e circonda una vasta spianata centrale di 53,20 m su 64. Le ottanta colonne sono 19 sul lato A, 23 su quello B, e 18 e 24 sui lati C e D, contando le colonne d’angolo. Intercolumni più larghi sono presenti davanti a alcune porte; presentano variazioni secondo i lati e la presenza di porte d’ingresso all’agorà. L’accesso a quest’ultima era consentito da undici porte: tre di queste (2,1,11), ricavate nel muro sud-est, la facevano comunicare direttamente con il grande edificio con finestre, mentre nel muro sud-ovest (C) si aprono simmetricamente altre tre porte (10,9,8), che, nell’ipotesi di Seyrig dovevano affacciarsi su di un portico esterno, ma la cui esistenza, come afferma Delplace, non è affatto certa: la presenza di blocchi architettonici nello wadi potrebbe far pensare ad un vestibolo di accesso alla porta centrale. L’unica porta nell’angolo nord-ovest è la 7, che fiancheggia il piccolo tempio, mentre in quello nord-occidentale sono irregolarmente disposte le porte 6,5,4 e 3. Queste porte producono intercolumni più larghi, ad eccezione di quelle poste agli angoli della struttura, che si aprono nell’asse di un portico, vale a dire le porte 10,8,3 e 2. L’intercolumnio maggiore è quello situato nell’asse dei montanti della porta 1, le colonne semplici sono sostituite da semicolonne appoggiate ai pilastri, che conferiscono a questa entrata un aspetto monumentale. Questa disposizione delle colonne si ripete in quella dei muri ornati da pilastri, la cui distanza l’uno dall’altro corrisponde all’incirca a due intercolumni, salvo per il lato nord-occidentale, che ha un numero pari di colonne. Il lato sud-est, che comunica con l’edificio

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vicino, è il solo a presentare un’alternanza di finestre e pilastri, salvo nella parte più meridionale, dove vi è la sola alternanza di pilastri; il lato sud-ovest è stato disturbato dalla presenza delle mura tarde. La larghezza dei portici non è uniforme: 6,75 m sui lati lunghi, 7,55 a sud-ovest e 7,75 a sud-est226. L’analisi della porta 1 ha rivelato, nella superficie superiore della cornice, sul lato verso l’agorà, delle mortase per porvi delle statue, di Settimio Severo, Giulia Domna e Caracalla, come indica l’iscrizione incisa sull’architrave. Fondazioni Le fondazioni dei muri dell’agorà sono note solo da un sondaggio praticato ai piedi del

muro nord-ovest, all’altezza delle colonne 22 e 23: si compone di uno zoccolo di ciottoli legati da argilla e ghiaietto, la cui assisa è di 3,90 m sotto quella d’imposta, e si posa sulle fondazioni tramite un’altra assisa, di calcare bianco tenero. La presenza di quest’ultima è stata osservata anche in un sondaggio praticato sui due lati del muro sud-ovest all’altezza della colonna 70. L’insieme dell’agorà sembra essere stato costruito su terra riportata, perché un sondaggio scavato nell’angolo sud della corte centrale ha rivelato la presenza di un edificio più antico, che era posto a un livello più basso di 1,30 m rispetto al cortile attuale. L’assisa d’imposta dei muri è fatta con lo stesso calcare duro, i suoi blocchi sono di lunghezza variabile, e la loro larghezza è calcolata in modo da sporgere leggermente dai plinti dei pilastri sulla facciata interna dell’agorà; all’esterno, essa sporge ugualmente dai plinti dei pilastri nelle facciate sud-ovest e sud-est, come i muri delle altre facciate che non hanno pilastri. Le basi delle colonne del portico non poggiano su uno stilobate, ma su cubi la cui parte superiore emerge di una ventina di centimetri sopra il livello del terreno e la cui parte inferiore scende fino all’assisa di calcare tenero della fondazione. Fra i plinti, l’intercolumnio è pavimentato con pietre piatte, di dimensioni variabili e spesso mal allineate: un riempimento di ciottoli legati da malta occupa lo spazio fra queste lastre e l’assisa di calcare tenero. L’assisa d’imposta dei muri presenta sensibili irregolarità nel suo livellamento, con una leggera pendenza agli angoli227. Pavimentazione La pavimentazione originaria dell’agorà emerse a livello del lastricato del colonnato, e consisteva, sotto i portici, in uno strato di argilla grigia, poggiante su di un letto di ghiaietto. Il cortile sembra essere stato fatto con terra battuta, ma il livello del suolo ha continuato a innalzarsi e si contano almeno sei strati diversi sotto il portico sud-ovest, tutti costituiti da un sottile strato d’argilla poggiante su sabbia fine. Queste stratificazioni successive hanno sommerso i plinti del colonnato228. Muri

I muri dell’agorà hanno uno spessore di 0,84 m, salvo la facciata sud/sud-est, dove lo spessore è di 0,94 m, e non hanno scarpa. L’altezza delle assisi varia da 0,50 a 0,90 m, e non

226 Agora de Palmyre 2005, pagg. 23-24. 227

Agora de Palmyre 2005, pagg. 25-26. 228 Agora de Palmyre 2005, pag.26.

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è costante per ogni singola assisa: si osservano infatti degli scalini nei letti di posa, mentre solo le assisi dove sono scolpiti i capitelli hanno un’altezza costante. I pilastri poggiano su di una base attica, alta 0,42 m, mentre l’architrave, alto 0,96 m, presenta tre fasce ed è terminato da un contro architrave dallo stesso profilo. Il fregio è piano, realizzato con blocchi di lunghezza variabile, allineati con cura sulla facciata esterna, mentre non lo sono sotto il portico, dov’erano meno visibili. La cornice si compone di un alto listello, di un astragalo e di una cimasa con listello. L’acqua piovana era scaricata all’esterno tramite gocciolatoi a protome leonina, scolpiti sulla cimasa, ma alcuni avevano solo una funzione decorativa229.

Colonnati Le colonne dei portici poggiano su basi attiche, con anatirosi circolare ma quest’accorgimento sembra non essere stato sufficiente a garantire la perpendicolarità della base, perché è frequentemente completato da piccole zeppe di ferro, fissate al plinto e che sollevano leggermente la base in un punto o l’altro dell’anatirosi. Il fusto, provvisto degli stessi listelli e astragali dei pilastri, è cilindrico fino a un terzo della sua altezza, poi si assottiglia leggermente ed è composto di un numero variabile di rocchi, il primo spesso scolpito insieme alla base. A un terzo dell’altezza del fusto, una mensola si proietta perpendicolarmente al portico in direzione del cortile, salvo alle colonne d’angolo, dove è posta sulla diagonale; queste mensole sono di tipo uniforme e recano generalmente sulla loro superficie una mortasa, dove erano poste delle statue, mentre un’iscrizione, incisa su uno o più lati, ricorda i meriti del personaggio onorato. Il capitello è dello stesso tipo di quello dei pilastri, così come l’architrave e il contro architrave somigliano esattamente a quelli dei muri. Il fregio ha le due facce piane e, come quello dei muri, presenta un allineamento difettoso sotto i portici; la pietra è scolpita con giunti obliqui e a L, in maniera da scaricare il peso dell’architrave fra le colonne. La cornice è formata da due fasce e la sua parte posteriore presenta la stessa scanalatura di quella del muro, mentre la faccia superiore ha la stessa grondaia con i medesimi gocciolatoi a protomi leonine. Su uno dei blocchi della cornice, reimpiegato nelle mura, si legge, in caratteri monumentali, il nome Moukianou, che è probabilmente quello di un donatore: esso ricorre anche in forma abbreviata, su di un blocco di architrave trovato nello stesso luogo, ed è probabile che facessero parte dello stesso insieme architettonico: probabilmente, secondo l’uso palmireno, questo Muciano aveva sostenuto le spese per far erigere un settore del colonnato. Poiché la cornice presenta un’assisa non lavorata nella parte superiore, è possibile che si volesse aggiungere una merlatura, com’è stato fatto nei portici minori del santuario di Bel e in alcuni settori della Grande Via Colonnata, a ovest del Tetrapilo. Come è stato detto in precedenza, la porta 1 spicca particolarmente nel colonnato, giacché

è inquadrata da due pilastri a base quadrata con semicolonne, che sostenevano un architrave e un contro architrave, che sono anch’essi stati ritrovati.

229 Agora de Palmyre 2005, pag. 26.

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Da notare la presenza delle lettere HC, che si leggono nella parte bassa del fusto di numerose colonne del portico sud-est, così come le lettere AI incise sul primo rocchio della colonna 64230. Coperture dei portici I portici, secondo Seyrig, avevano una copertura a terrazza, giacché l’assenza di frammenti di tegole esclude l’ipotesi di un tetto a doppio spiovente231. Protezione contro il sole Le colonne dei portici presentano sui loro fusti delle mortase rettangolari, tutte praticate

nell’allineamento del colonnato e poste una di fronte all’altra; sono molto probabilmente servite a sorreggere una bacchetta per un tendaggio, al fine di proteggere dal sole chi sostava nei portici. E’ interessante notare che i due portici dove il sistema è incompleto (quelli sud-occidentale e sud-orientale) sono proprio quelli meno esposti al sole, poiché i muri di fondo dei portici offrivano già una protezione sufficiente. Anche la pavimentazione di alcuni intercolumni presenta un sistema di mortase, probabilmente per accogliere un paletto di una porta; oggi purtroppo molte di queste osservazioni non sono più verificabili232. Mensole Le colonne del portico presentavano, sul lato rivolto al cortile, una mensola scolpita nello stesso blocco da cui è ricavato il rocchio di colonna; ve ne erano 78, giacché i due pilastri che fiancheggiavano la porta 1 non ne possedevano. Con il passare del tempo, questo numero si rivelò insufficiente, e ne furono aggiunte altre, sia ai lati sia dietro le colonne, sui muri e sui pilastri; le mensole erano dotate di un grosso tenone nella parte superiore e fissate in una mortasa. Nel 1940, quando Seyrig scriveva, erano visibili le mortase di 29 mensole sulle colonne, e di 39 mensole nei muri e pilastri, cioè 68 mortase in tutto, che aggiunte alle 78 mensole scolpite con il rocchio, davano un totale di 146 mensole. Molte colonne tuttavia sono mutile e solo il muro sud-est è conservato in modo da dare un’idea del numero di mensole che vi erano fissate: si può quindi pensare a duecento mensole e statue che ornavano l’agorà ed è probabile che alcune statue fossero poste sullo stipite delle porte. Calcolando tutte le iscrizioni sino ad oggi note, provenienti dall’agorà, si arriva a circa 160. Le mensole scolpite nello stesso blocco del rocchio sono di tipo uniforme, affine a quella delle mensole dei portici minori del santuario di Bel, della strada di Damasco (cioè della Via Colonnata trasversale), della piazza ovale che si trova al suo termine, del tempio di Baalshamin e di due colonne isolate della Grande Via Colonnata a ovest del Tetrapilo. Alcune mensole con tenone presentano altre modanature (ad esempio gola rovesciata o cimasa) e questi profili testimoniano mode differenti; sono inoltre importanti per datare le iscrizioni che le accompagnano: sembra che le mensole con la cimasa siano relativamente

tarde, poiché nessuna reca un testo anteriore al 161233.

230 Agora de Palmyre 2005, pagg. 26-27. 231 Agora de Palmyre 2005, pagg. 27-28. 232

Agora de Palmyre 2005, pag. 28. 233 Agora de Palmyre 2005, pag. 29.

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Ch. Delplace e J. Dentzer Feydy hanno inoltre elaborato, partendo da uno studio iniziato da Seyrig, un sistema di classificazione delle mensole palmirene, analizzando il profilo modanato e mettendolo in relazione con le epigrafi che vi sono incise. Applicato inizialmente alle mensole dell’agorà, tale sistema di classificazione si è rivelato di grande utilità anche per lo studio degli altri monumenti cittadini (fig. 56)234.

Fig. 56. Tipologie di mensole (da Agora de Palmyre 2005, pagg. 268-269).

Fontane Gli angoli nord ed est dello spiazzo dell’agorà presentano ciascuno una fontana decorativa. Queste due fontane, che sono pressoché identiche, sono formate da un bacino monolitico triangolare modanato, poggiante su di uno zoccolo diritto, e completato in precedenza da una pavimentazione triangolare dai bordi rilevati. L’acqua giungeva, tramite un condotto sotterraneo, a un angolo del bacino, dove era ricevuto da una tubatura metallica, che passava in una scanalatura di una base di colonna, e saliva sino al bacino della fontana, dove l’acqua sgorgava tramite un rubinetto di bronzo. L’acqua che fuoriusciva dal bacino era raccolta in una bocca di scolo posta davanti alla vasca; la fontana possedeva anche un foro di svuotamento sul fondo, e uno sfiatatore a setaccio sul bordo superiore. L’acqua che alimentava queste fontane arrivava tramite una doppia canalizzazione in terracotta, rabboccata con malta, che entrava nell’agorà a lato del pilastro che corrisponde alla colonna 26. I due tubi passavano insieme sotto il colonnato, poi si separavano per raggiungere ciascuno la fontana che riforniva. E’ interessante notare che il livello della fontana è superiore di 2,50 m rispetto a quello della tubatura che proveniva dal Campo di Diocleziano; l’acqua della fontana non proveniva probabilmente da questa conduttura, ma da quella che giungeva a Palmira tramite l’acquedotto della Valle delle Tombe235. Pozzi Oltre a queste fontane, l’agorà disponeva dell’acqua di un pozzo, scavato nel muro sud-occidentale, allineato alla colonna 80. Questo pozzo riceve l’acqua tramite tre piccoli canali

234

DELPLACE-DENTZER FEYDY 2005 B, pag. 255. 235 Agora de Palmyre 2005, pag.29

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che attraversano la fondazione del muro dell’agorà: la loro origine è sconosciuta; la falda acquifera si trovava, nel 1940, a 6,30 m sotto il livello del suolo del portico236. Tribuna Un monumento relativamente tardo è posto, sporgente verso il colonnato, di cui occupa un intercolumnio, di fronte alla porta 4. Si tratta di un massiccio rettangolare, la cui assisa di base è pressappoco tutto ciò che ne resta: quest’ultima poggia sulla pavimentazione originaria del cortile, formata da blocchi di calcare mal assortiti e congiunti; verso est rimangono alcuni blocchi di un’altra assisa, leggermente arretrati. Da questi scarsi resti si può pensare che vi fosse una sorta di tribuna, dove si arrivava per

qualche cerimonia ufficiale attraverso la porta 4. Quest’ultima era una delle principali per l’accesso dal senato all’agorà: lo stipite porta l’iscrizione del presidente (proedro) di quest’assemblea ed è ugualmente in questo settore che furono raccolte le iscrizioni che onoravano i senatori cittadini. Secondo Seyrig, si potrebbe riconoscere in questo monumento una tribuna oratoria, da cui si potevano fare, all’uscita del senato, alcuni proclami pubblici237. Tempio All’angolo ovest della piazza, nel prolungamento del portico sud-ovest, si trova il tempio dell’agorà. Questo piccolo edificio è composto da una cella rettangolare, di 10,12 x 14,30 m, che si apre sul portico tramite un’apertura fiancheggiata da due pilastri e divisa da due colonne. Il tempio aveva dunque solo tre muri, e quelli laterali terminano nei pilastri dell’apertura, che disegnano verso l’interno una specie d’anta, sporgente di un metro. Il pavimento del tempio, fatto d‘argilla e paglia sminuzzata, poggiante su ghiaietto e materiale di scarico, è sopraelevato di 0,32 m rispetto a quello del portico. Il tempio è stato costruito in contemporanea con l’agorà: i muri dei due edifici sono legati, e la loro assisa d’imposta è allo stesso livello. I muri sono accuratamente realizzati nella parte inferiore, ma si nota un uso frequente di scalini sui letti di assisa sopra l’assisa sporgente, e questo ricorda la costruzione dell’agorà, così come la lavorazione dei blocchi è la medesima in entrambi. La copertura del tempio era forse a doppio spiovente: infatti, il blocco d’angolo ovest della cornice, che è stato ritrovato, non presenta grondaie che sul lato sud-occidentale. Tuttavia, nel tempio è stata ritrovata una moltitudine di frammenti di tegole, e non possono che provenire dal tetto. Al fondo della cella, e sull’asse di questa, uno zoccolo modanato è sostenuto da un piedistallo simile a quello dei pilastri e delle colonne della facciata, e presenta, a destra e sinistra, due avancorpi. Sopra questo zoccolo, una depressione a fondo piatto era praticata nel muro e poteva contenere un pannello scolpito o dipinto. Qualunque fosse la destinazione originaria del tempio, una trasformazione, avvenuta in epoca non determinata, ne cambiò la funzione in sala dei banchetti rituali; l’apertura che dava sul portico fu chiusa parzialmente. Nell’intercolumnio mediano, vi era una scala di

cinque scalini posta sopra il gradino d’accesso; lo scalino superiore fungeva da soglia per una porta, i cui due piedritti furono inseriti fra le colonne. Due altri gradini scendevano verso l’interno fino alla pavimentazione del tempio; lo stipite presenta sulla faccia

236

Agora de Palmyre 2005, pag.30. 237 Agora de Palmyre 2005, pag.30. Come osserva Delplace, l’identificazione con il senato è molto incerta, vedi infra.

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anteriore un pannello scolpito. Le mortase ricavate nella soglia permettono di ipotizzare una porta a tre battenti, che si aprivano verso l’interno, dove poteva essere chiusa a chiave e una grande cerniera bronzea, trovata davanti alla soglia, proviene forse da questa porta. La sistemazione interna della cella consisté in un innalzamento del pavimento e nell’installazione, lungo le pareti, di una banchina che non s’interrompeva che davanti alla porta e allo zoccolo; il basamento è costituito da fondamenta formate da ciottoli e malta, su cui poggia un’assisa di calcare tenero. Di essa rimane la maggior parte, ma la sovrastruttura non si è conservata; a destra e a sinistra della porta, due piccole scale, attualmente in cattivo stato di conservazione, permettevano di salire sulla banchina. Inoltre, una serie di blocchi isolati e irregolari è allineata ai piedi del muro di nord-est, e

un’assisa di calcare tenero segue la base dei due altri muri. Questo dispositivo deve essere in relazione con la sovrastruttura della banchina e bisogna metterlo in relazione con le mortase praticate nei muri, al livello del letto superiore dell’assisa sporgente: può darsi che vi si fissassero gli elementi di un baldacchino che proteggeva i convitati contro la sabbia che poteva infiltrarsi. Nel corso dello scavo, un piccolo pyrée di calcare fu trovato in situ, davanti allo zoccolo: si tratta probabilmente di un arredo necessario ai banchetti

sacri238. Le mura della città Il muro sud-ovest dell’agorà e del tempio è affiancato, sul lato interno, dalle mura cittadine, costruite in epoca tarda. Queste mura erano costruite interamente con materiali di edifici che sorgevano lungo il loro percorso, e la demolizione dell’agorà deve aver avuto come scopo quello di fornire i materiali da costruzione. Si cominciò distruggendo il muro sud-ovest, generalmente al livello dell’assisa di base, in modo da presentare verso l’interno, al posto di una superficie liscia, una serie di grappe, per creare un paramento esterno alle mura. Una nuova fondazione fu ricavata contro quella del muro di sud-ovest, mentre il nuovo paramento fu costruito con l’aiuto di blocchi ed elementi architettonici riutilizzati, generalmente provenienti dal portico sud-ovest, come architravi, fregi, rocchi di colonne ecc …, legati da malta. L’assisa di base del muro è poggiato a 0,11 m più in basso di quello del muro precedente; durante gli scavi degli anni 1939-1940, la sua fondazione fu accertata fino a una profondità di 1,80 m, ma molto probabilmente scendeva più in basso. Lo spazio fra i due paramenti è riempito da ciottoli e malta; il muro è spesso 1,85 m, si è conservato in elevato per circa 4-5 m, quando è stato demolito per recuperarvi le numerose iscrizioni che vi erano state reimpiegate; l’aspetto delle parti alte è sconosciuto. Il pozzo dell’agorà si trova nel tracciato delle mura: fu protetto da una nicchia, in modo da restare accessibile. Un bastione rettangolare fu costruito insieme con la parte esterna delle mura, cui era legato, fra le porte 9 e 10, a 10,10 m di quest’ultima. A differenza del muro, è costituito da blocchi di calcare grigio e duro, scolpito senza precisione, la cui origine è sconosciuta. L’angolo formato da questo bastione con la cortina, nella direzione dell’antica porta 9, è

riempito da un muro obliquo, non molto alto, che serviva probabilmente a proteggere il bastione contro le esondazioni del torrente239.

238

Agora de Palmyre 2005, pagg. 30-32. 239 Agora de Palmyre 2005, pag. 32.

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Nota sulle costruzioni precedenti l’agorà Un sondaggio, praticato nell’angolo sud dell’area dell’agorà, ha fatto scoprire i resti di un colonnato posto 1,30 m più in basso rispetto a quello della piazza: si tratta della basi di quattro colonne, il cui allineamento è all’incirca parallelo a quello del porticato sud-orientale. Tali colonne, realizzate in calcare bianco molto tenero, poggiano su di un plinto, che a sua volta poggia sulle fondazioni, e funge così da assisa di base. Questo plinto è spezzato, il lato misura 1,07 m ed è alto 20,5 cm, ma non emergeva che di 15 cm dal pavimento, costituito da terra battuta. Il sondaggio fu continuato lungo l’allineamento del colonnato, oltre che a destra e a sinistra della colonna più meridionale, ma non diede risultati.

Nota sulla sala ipostila L’edificio contiguo al lato sud-est dell’agorà non fu scavato nel 1939-1940, e Seyrig si limitò a formulare ipotesi sulla sua funzione: da un lato, un edificio con sedici finestre, sembrerebbe, a priori, essere stato coperto o destinato a esserlo. I pilastri dei muri indicherebbero l’allineamento del suo colonnato, i cui capitelli e la trabeazione sarebbero stati al livello di quelli dell’agorà. Un sondaggio praticato lungo il suo muro sud-orientale ha messo in luce due basi di colonne, solamente sbozzate, che potrebbero essere state preparate per un simile edificio240. Nota sui costi dello scavo dell’edificio a est dell’agorà Il lembo del muro nord dell’edificio a est dell’agorà deve essere stato distrutto da un terremoto, ed è caduto, come i muri ovest e nord dell’agorà, in un blocco solo, ma le assisi sono rimaste allineate. Il lembo nord del muro è caduto allo stesso modo, ma in seguito, e copre una parte del materiale caduto dalla facciata nord. Le assisi rovesciate del muro nord erano ricoperte da uno strato di terra d’insabbiamento di circa 0,60 m. In più, si prevedeva di ritrovare i muri, crollati verso sud, di una costruzione importante, probabilmente tarda, che si trova nella parte nord di questo edificio. Secondo Seyrig ciò spiegava gli alti costi dello scavo, di cui calcolò il costo totale in 12.000 franchi, indicando analiticamente le spese e il numero di giorni e di uomini necessari all’esecuzione dei lavori. Seyrig calcolò inoltre che sarebbe stato necessario rimuovere 9600 m3 di terra. Secondo lo studioso, era necessario pianificare con attenzione lo spostamento della terra, in modo da evitare spese superflue: egli riteneva inoltre che, liberando tutta la parte a sud del muro zenobiano, vi fosse la possibilità di chiarire il problema della fondazione della legge fiscale, e forse di trovare la posizione del tempio di Rab Esiré. Monsignor Starcky pensava fosse possibile che il tempio si trovasse all’interno del cortile, e la cella fosse la costruzione a nord; l’Autore sperava inoltre nel ritrovamento di iscrizioni nel cortile e nel muro zenobiano. Seyrig ipotizzava una durata dei lavori di circa quattro o forse cinque mesi, per un totale di 50.728 franchi241.

240

Agora de Palmyre 2005, pag. 34. 241 Agora de Palmyre 2005, pagg. 34-35.

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Le lettere di Raymond Duru Christiane Delplace, in calce al dattiloscritto, ha pubblicato anche tre lettere di Duru242: la prima è datata da Palmira, il 28 dicembre 1940; in essa Duru comunica al destinatario, molto verosimilmente Seyrig, di aver cominciato i lavori di consolidamento della porta presso l’agorà, di cui aveva notato la leggera inclinazione degli stipiti verso l’esterno. La stessa caratteristica fu rilevata anche nelle altre porte dell’agorà e in quella della cella del tempio di Baalshamin: Duru riteneva che, contrariamente a quanto egli e Seyrig avevano ipotizzato in precedenza, anche le finestre dovessero avere questa caratteristica, presente nelle finestre del tempio di Baalshamin e in quelle del muro settentrionale del recinto del tempio di Bel, anche se lo studioso ammetteva che non vi fossero, nell’agorà, finestre

sufficientemente ben conservate per confermare tale ipotesi ricostruttiva. Egli fece inoltre praticare una trincea nel vestibolo della sala ipostila, verificando la presenza di una fondazione lungo tutto il vestibolo; Duru ipotizzò la presenza di un portico in questo punto, nonostante da quest’area non provenissero rocchi di colonne con diametri paragonabili a quelli delle semicolonne del vestibolo. La parte successiva della lettera non è stata riprodotta dalla curatrice, perché contiene solamente notizie a carattere personale. Nella seconda lettera, datata 24 maggio 1941, sempre da Palmira, Duru ringrazia Seyrig (anche qui non è indicato direttamente come destinatario della missiva) per avergli affidato il restauro del tempio di Is-Sanamein. Duru include poi una lista di disegni da inserire nella pubblicazione dell’agorà, dell’edificio del senato e delle case dette di Achille e Cassiopea; i disegni delle prime due serie sono stati riprodotti da Delplace e Dentzer –Feydy nella pubblicazione sull’agorà. Mentre l’Autore non ritiene necessario, per completare i disegni dell’agorà e del senato, procedere a nuovi scavi, auspica invece, per le case, di liberare il muro trasversale nord-sud. Duru chiede a Seyrig anche un contributo economico per terminare i rilievi di queste strutture, oltre alla collaborazione di Naomi, assistente di Amy. La terza lettera, scritta a Marrakech l’8 gennaio 1950 (dove Duru svolgeva l’attività di urbanista dopo la fine del mandato francese in Siria), è l’unica a citare esplicitamente come destinatario Seyrig. Duru riteneva che la pubblicazione dell’agorà necessitasse più di un semplice articolo su Syria, e allegò l’elenco di disegni terminati (che aveva già mostrato a Seyrig a Damasco) e suggerì di integrare il testo che avevano preparato insieme a Palmira con una descrizione del portico addossato esteriormente al muro sud-ovest, di cui Amy aveva scavato in parte le fondazioni. Sfortunatamente gli schizzi, le fotografie e le annotazioni relative a quest’ultimo sembrano essere scomparse. Duru suggerisce anche di descrivere il “piccolo monumento votivo addossato al muro che separava l’agorà dal mercato” (in precedenza chiamato sala ipostila), e di menzionare la scoperta della Tariffa nel 1901. La sua posizione originale, secondo le indicazioni di Starcky, doveva trovarsi di fronte al tempio di Rab Esiré, che Duru ritiene possibile identificare o con le basi arcaiche emerse nel pavimento dell’agorà, o con un monumento votivo inserito in una nicchia con rilievo votivo, forse ancora in situ all’epoca.

Duru auspicava di poter incontrare a Parigi Seyrig nel periodo estivo, al fine di poter predisporre il necessario per la pubblicazione; egli pregò anche il suo corrispondente di radunare le copie a stampa dei disegni, delle note e delle fotografie necessarie (secondo la

242 Agora de Palmyre 2005, pagg. 35-37.

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Delplace si tratta di una prova che già nel 1950 parte della documentazione era andata persa)243.

5.3. Le nuove ipotesi

Agorà e curia (“tempio”) Nel volume sull’agorà, Ch. Delplace e Th. Fournet hanno non solo provveduto a pubblicare i materiali (compresi disegni e fotografie) di Seyrig e Duru, ma hanno anche messo a confronto le nuove ipotesi con quelle formulate da questi studiosi, analizzando in particolare l’angolo nord-orientale dell’agorà, che risulta estremamente problematico, la curia (il “tempio”, fig. 57), la basilica – mercato (o “sala annessa”), l’edificio a banchina

semicircolare (“senato”) 244.

Fig.57. La curia e l’angolo ovest dell’agorà in un disegno di Duru (da Agora de Palmyre 2005, pag.106).

L’agorà di Palmira appartiene al tipo delle agorà ioniche porticate, che si sviluppano nelle città commerciali del mondo greco, in particolare in Asia Minore, dal III sec. a.C. Il portico, che secondo Seyrig doveva avere una copertura a terrazza, si avvicina alla tipologia della stoà con tetto a un solo spiovente, sul modello del mercato nord di Mileto. Non è facile

però precisare l’esatta tipologia di copertura del portico, perché, ad eccezione di una fotografia di scavo, in cui si vedono i resti di una struttura di legno bruciato, non vi sono altri elementi utili a definirla. Procurarsi del legno doveva essere difficile: la copertura poteva però essere realizzata in materiali leggeri, come frasche e sterpi coperti da argilla cruda, a somiglianza di alcune costruzioni locali moderne. Il portico fungeva inoltre da “galleria”, con la presenza di statue onorarie, che a Palmira erano poste sulle mensole delle colonne e dei muri, mentre a Mileto, nell’agorà sud, vi erano piedistalli posti alla base del colonnato interno. Lo stesso principio si trova anche a Magnesia sul Meandro e Side, dove questi complessi, secondo studiosi quali Martin e De Ruyt, potevano avere anche funzioni di macella o horrea. Alcune caratteristiche dei macella, tuttavia, mancano nell’agorà palmirena, cioè le botteghe interne e la tholos nel cortile interno, tuttavia essa conserva un elemento delle agorà arcaiche: la prima fase del tempio

nell’angolo occidentale, a condizione che si tratti di un edificio religioso.

243

Agora de Palmyre 2005, pag. 37. 244 DELPLACE- FOURNET 2005.

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A Palmira l’agorà era probabilmente chiamata tetradeion, termine che compare in una delle iscrizioni in onore di Soados, quella proveniente da Umm el Amad245, in cui sono ricordate ben 4 statue erette in suo onore nel tetradeion.

Altre interpretazioni sono possibili: ad esempio, Seyrig riteneva che la parola potesse riferirsi tanto al Tetrapilo quanto all’agorà. Tuttavia, se si esamina l’etimologia della parola e il suo uso riferito agli spazi pubblici delle città ellenistiche, quest’ipotesi appare poco verosimile: tetrapulon corrisponde al latino quadrifrons, quando si parla di una struttura costituita da quattro archi, che corrispondono all’intersezione di quattro vie perpendicolari, ma se s’intende invece una struttura formata da 4x4 colonne, è più corretto usare il termine tetrakionion, come avviene a Bosra. Le quattro edicole che così si formano

potevano ospitare statue, ma poggianti su uno zoccolo e non su di una mensola di colonna: è difficile pensare a quattro statue di uno stesso personaggio (Soados) all’interno di un tetrakionion (mentre ne appare più verosimile la loro presenza nell’agorà). Nelle città ellenistiche dell’Asia Minore, l’agorà era spesso chiamata tetragonos o stoai megalai tetragonoi e la descrizione dell’epigrafe di Umm el Amad (“le quattro statue erette su colonne”) potrebbe in effetti adattarsi alle colonne dell’agorà, ma vi è un problema etimologico, perché to deios è forma epica di to deos= paura, timore. La nuova ipotesi proposta dalla Delplace si basa invece sulla similitudine esistente fra la prima parte dell’iscrizione di Umm el Amad e un’epigrafe dal tempio di Baalshamin risalente al 132, benché la prima sia leggermente posteriore (ma è comunque anteriore a quella del santuario di Allat, risalente al 144): l’epigrafe del santuario di Baalshamin fa riferimento all’offerta di quattro statue nei santuari delle quattro tribù palmirene. Il tetradeion sarebbe dunque una forma sintetica per indicare questi quattro santuari; secondo la Delplace, giacché l’etimologia della parola rimane oscura, potrebbe trattarsi di un errore del lapicida, che avrebbe inciso un delta invece di theta: si dovrebbe quindi leggere tetratheion, che è più comprensibile e costruito secondo gli stessi principi di tetrakionion, tetrapulon, tetragonos. In tal modo, il termine non si applica più all’agorà, ma ai santuari delle quattro tribù. Il piccolo edificio posto nell’angolo occidentale dell’agorà (“curia”, “tempio”) si apriva, nella sua prima fase, sulla piazza: in seguito fu chiuso e divenne una sala per banchetti e riunioni, con banchine in muratura lungo i lati; non si può tuttavia escludere che anche in origine vi si tenessero dei banchetti. E. Will, studiando le sale da banchetto, ha osservato come la loro tipologia fosse estremamente varia: il santuario di Bel, ad esempio, aveva una grande sala per banchetti, mentre quelli di Nabu, Baalshamin, Allat e Arsu (?) sembrano privi di tale ambiente; le riunioni del santuario di Bel avevano un carattere religioso, mentre quelle dell’agorà avevano valenza civica. Secondo Balty, la struttura poteva avere la funzione di curia

245

L’iscrizione fu ritrovata nel 1930 in questa località, che si trova 22 km a sud-est di Palmira; l’epigrafe era incisa su due rocchi di colonna in calcare. Sono leggibili 24 righe in greco su di un rocchio, altre 4 righe molto frammentarie in greco e alcune in palmireno sull’altro; l’epigrafe si data fra il 140 e il 161:MOUTERDE – POIDEBARD 1931 (Appendice nr.7). Si tratta di un’iscrizione in onore di Soados, figlio di Boliades, voluta dal senato e dal popolo per ringraziarlo dei numerosi e grandi servigi resi ai commercianti residenti a Vologesia: per questo egli è stato onorato dagli imperatori Adriano e Antonino Pio, e dal governatore Publicio Marcello e dai suoi successori. In suo onore s’innalzarono a spese pubbliche, oltre alle quattro statue nel tetradeion cittadino, altre tre a Spasinou Charax, a Vologesia (dove Soados eresse un Augusteion) e nel caravanserraglio di Gennaes.

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cittadina, riferendosi in particolare al ritrovamento sul pavimento dell’antica agorà, non lontano dal “tempio”, di sfere d’argilla cotte dal fuoco, recanti il nome di Palmira in greco. Secondo lo studioso, si tratterebbe degli archivi cittadini, conservatisi in una delle sale della curia, che avrebbe avuto quindi anche funzioni di tabularium. Nella curia si riunivano i senatori cittadini, e l’edificio era il templum ordinis, vale a dire l’equivalente civile della sala dei banchetti cultuali; sappiamo che un senato esisteva in città dall’età flavia, forse dagli anni Sessanta del I sec. d.C., secondo quanto ipotizzato da Gawlikowski. Contro quest’ipotesi, si può tuttavia osservare che le dediche ai magistrati locali si trovano lontano da quest’edificio, nel settore orientale dell’agorà246.

La basilica-mercato (“sala annessa”) Un altro importante edificio presente nell’agorà è la cosiddetta basilica – mercato, o sala annessa. Lo scavo previsto da Seyrig e Duru non ebbe luogo a causa degli avvenimenti bellici successivi e alla fine del mandato francese in Siria, ma fu realizzato nel biennio 1966-1968 dal Servizio degli scavi archeologici della Repubblica Araba Siriana, sotto la direzione di A. Bounni, con la collaborazione di Saliby e al As’ad. Oggi due muri dell’edificio, quello nord-est e quello sud-est, sono crollati e sembra, almeno per quest’ultimo, che il crollo sia avvenuto per un terremoto successivo al 1785, perché il muro appare invece conservato in elevato nei disegni di Cassas. Questa sala, di forma rettangolare, misura esternamente 75,38 x 37,48 m, ed è realizzata con blocchi di calcare duro, di dimensioni variabili. Il lato sud-ovest è preceduto da un vestibolo, i cui muri prolungano quelli della sala rettangolare. Al centro del vestibolo doveva esserci un portico colonnato, le cui estremità sono formate da due semicolonne poste nel muro sud-orientale e nord-occidentale. Non sono emerse fondazioni di colonnati, e i resti di un frantoio e di un’officina vetraria di epoca islamica non consentono un’analisi più precisa. Il muro nord-est sembra essere stato rifatto, così come l’angolo orientale dell’agorà, nonostante non sia cambiata la tecnica costruttiva; al muro nord-est si appoggia anche l’edificio detto “senato”. La comprensione di questo settore è resa difficile dalla presenza di un crollo di un muro, e ciò che è comunque visibile è occupato da strutture tarde. Alla sala si accedeva tramite nove porte, divise in gruppi di tre, e solo il lato nord-est sembra esserne privo; fra la porta principale e ciascuna delle porte laterali vi è all’interno una grande mensola murale doppia, anepigrafe e simile a quella posta fra le porte 4 e 5 dell’agorà (che però recava un’iscrizione). Vi sono inoltre sedici finestre, coronate interiormente ed esteriormente con frontone triangolare. Questa grande sala non aveva portici: non sono emerse fondazioni di colonnati o rocchi di colonna; sono però anche state trovate cinque basi di colonne sbozzate, che però non erano in situ, ma che potevano appartenere a un progetto di portico, poi abbandonato. Come nell’agorà non vi era pavimentazione, ma solo un battuto regolare in terra

biancastra, più alto di circa 50 cm rispetto al piano di calpestio dell’agorà247. Secondo Delplace e Fournet, la sala era compresa nel progetto dell’agorà: inizialmente, i due complessi dovevano presentare lo stesso allineamento delle facciate verso sud-ovest,

246

DELPLACE- FOURNET 2005, pagg. 117-118. 247 DELPLACE-FOURNET 2005, pagg. 119-120.

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comprendendo la curia (“tempio”), passando per le entrate monumentali dell’agorà e proseguendo con la facciata del portico della sala rettangolare. Il complesso monumentale si apriva a sud-est con tre porte e otto finestre, mentre a nord-ovest c’era solo una piccola porta di servizio che consentiva l’uscita. Il lato nord-est è maggiormente complesso, in seguito alle modifiche apportati nei secoli successivi. La sala appare più simmetrica rispetto alla vicina agorà, ma tutto il settore, compreso fra quest’ultima e il santuario di Bel, attraverso quello di Nabu, nonostante non vi sia il medesimo orientamento, era organizzato in funzione dell’asse che corrisponde approssimativamente al percorso dello wadi. Nonostante la presenza di diversi orientamenti (che alcuni studiosi hanno ritenuto, nel passato, imputabile a fasi

urbanistiche diverse), l’insieme dell’agorà e della sala rettangolare appartengono a una progettazione coerente, risalente all’ultimo quarto del I sec. d.C.; le aree a est e a ovest corrispondono invece a fasi urbanistiche più tarde248. La grande sala rettangolare è stata comunemente chiamata sala annessa, o anche “serraglio”, prima che l’area fosse esplorata; secondo Ballance e Ward – Perkins, si tratterebbe di una basilica. A Palmira uno dei lati brevi si apre sullo wadi e con un vestibolo che comunicava con la sala attraverso tre porte monumentali. Questo vestibolo, o chalcidicum, rendeva più

solenne l’ingresso della basilica, e nel caso di Palmira, incorniciava degnamente anche la legge fiscale che vi era posta all’interno. La basilica palmirena aveva tre porte sui lati lunghi, che davano sia sull’agorà sia su una zona ancora inesplorata, occupata dal muro crollato. L’entrata principale era a sud-ovest, mentre sul lato opposto, a nord-est, è possibile che fosse previsto un tribunal. Il progetto della basilica rimase però incompiuto: si fermò alle cornici sui lati lunghi, all’architrave per il lato breve d’ingresso; è possibile che la costruzione non sia stata terminata perché percepita come “estranea” e “troppo romana” rispetto agli usi locali, o a causa di problemi a reperire manodopera qualificata o materie prime come il legno, o anche per lo scarso interesse della classe politica locale. Nonostante la sua incompiutezza, l’edificio fu utilizzato per attività commerciali, mentre non sappiamo se il tribunal sia mai stato realizzato, e, in caso affermativo, se sia poi stato distrutto e i materiali reimpiegati nel vicino edificio a banchina semi circolare, o obliterato dal bacino di età bizantina. Seyrig riteneva che la grande sala incompiuta fosse utilizzata come mercato, e ciò spiegherebbe anche la collocazione della Tariffa nel luogo dove le merci elencate erano vendute. Quest’ultima doveva, infatti, essere affissa nel vestibolo, dove sono stati trovati due suoi frammenti nel corso degli scavi del 1939-1940, oppure fra l’angolo esterno sud dell’agorà e la semicolonna del muro divisorio. La stele, secondo quanto è indicato nel testo stesso, era posta davanti al tempio di Rab Esiré: potrebbe trattarsi di un edificio posto oltre lo wadi. Secondo Delplace e Fournet, la stele, che era di grandi dimensioni, avrebbe potuto essere

posta anche fra le porte laterale e centrale della sala, rivolta verso l’esterno e chi stava per entrare. Nonostante la basilica non sia stata finita e non abbia mai avuto una copertura, essa era comunque utilizzata come mercato complementare, con botteghe realizzate probabilmente

248 DELPLACE-FOURNET 2005, pagg. 120-121.

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con materiali deperibili o tende, secondo gli usi nomadi ancora ben radicati a Palmira, simile a quanto si può osservare ancora nei suq moderni249. E’ possibile che il complesso avesse anche una valenza politico-religiosa, come sembra indicare un’iscrizione molto frammentaria, risalente al 171, che ricorda l’erezione, nel Caesareum, di una statua equestre in onore di un personaggio sconosciuto, così come un’altra epigrafe, trovata a Qasr el Heir el Sharqi, ricorda un augustale. A Palmira sembra però difficile individuare nel settore centrale un tempio dedicato al culto imperiale, salvo che non si ammettano forme architettoniche diverse, come si osserva d’altra parte in città come Alessandria e Antiochia, o Cirene e Cremna. Tutti questi esempi sono però accomunati da un elemento: l’insieme agorà/foro-basilica fungeva anche da

luogo dedicato al culto imperiale, che non si svolgeva in un tempio canonico, per cui la basilica assumeva di conseguenza un ruolo fondamentale a questo scopo. A Palmira si trova un’organizzazione simile dello spazio, nonostante le testimonianze epigrafiche siano posteriori, e giungano solo alla seconda metà del II sec.; è possibile che il culto imperiale si svolgesse nell’agorà, a somiglianza della colonia traianea di Cuicul – Djemila in Algeria. Infatti, poco lontano è emerso un gruppo statuario di III sec., comunemente attribuito a Settimio Severo e alla sua famiglia, ma che rappresenterebbe invece, secondo Balty, la famiglia di Odenato. L’epigrafia indica tuttavia che iscrizioni in onore della famiglia imperiale erano state apposte sopra e ai lati della porta che metteva in comunicazione l’agorà e la basilica. E’ possibile perciò che il culto imperiale sia stato praticato nell’agorà in un’epoca in cui essa perse la sua valenza commerciale a favore della Grande Via Colonnata, mentre non vi sono testimonianze riguardanti il culto imperiale in epoca precedente; si potrebbe forse ipotizzare la presenza di un aedes Augusti nel tribunal

annesso alla basilica, ma non vi sono prove per affermarlo con certezza250. L’edificio con banchina semicircolare (“il senato”, fig.58) Contro il muro nord-est della grande sala rettangolare fu addossata, in epoca posteriore, una piccola costruzione circondata da botteghe, e adiacente all’emiciclo della piazza del teatro, chiamata edificio a banchina semicircolare, o più comunemente, senato. L’edificio è composto, partendo da nord-ovest, da un vestibolo fiancheggiato da una bottega a sud-ovest e da quattro a nord-est, da una sala con peristilio e su cui si affacciano un ambiente quadrangolare a nord-est e a sud-est una sala a emiciclo; negli angoli fra questa struttura e la piazza del teatro sono state ricavate tre botteghe. L’emiciclo, corrispondente a una banchina inserita in uno spazio, è chiuso, sul retro, da un muro con orientamento differente rispetto a quello del muro sud-orientale della basilica- mercato.

249

DELPLACE-FOURNET 2005, pag.121-122. 250 DELPLACE-FOURNET 2005, pagg. 121-123.

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Fig. 58. L’edificio a banchina semi-circolare in due di disegni di Duru (da Agora de Palmyre 2005, pagg. 138-

146).

La tecnica costruttiva differisce da quella impiegata nell’agorà e nella basilica-mercato: il muro è formato da un doppio paramento di blocchi di calcare, le cui fondazioni sono realizzate in calcare duro, e la medesima tecnica è impiegata per le botteghe che la circondano e la banchina dell’emiciclo. Il passaggio fra la sala a emiciclo e quella con peristilio è segnato da quattro blocchi leggermente sollevati rispetto all’emiciclo, e da un gradino formato da quattro blocchi, posto leggermente più in basso. Questi blocchi presentano un dispositivo particolare: quelli centrali sono infissi nel suolo e conservano le tracce del sistema di fissaggio di porte che si aprivano verso l’emiciclo, e che potevano essere chiuse dall’interno, mentre quelli laterali portano i segni dell’ancoraggio dei piedritti che sostenevano l’arco trovato poco lontano. La sala rettangolare, leggermente spostata verso nord-est, rispetto all’asse dell’emiciclo, presenta al centro un piccolo peristilio lastricato circondato da otto lastre sollevate, mentre su tre lati si conservano i dadi che sostenevano le basi modanate di tre colonne, e in alcuni casi parte del loro fusto scanalato251. La sala con peristilio comunica verso nord-est con un altro ambiente quadrangolare, tramite tre intercolumni, di cui rimangono tre dadi che sostenevano le basi modanate delle colonne, poggianti su larghe lastre, che continuano anche fra il peristilio e la bottega 7. Il

vestibolo d’entrata, posto a nord-est, occupa lo spazio di una bottega, circondato da pilastri sul lato del peristilio, mentre a nord-ovest vi è una pavimentazione con un gradino che scende verso il portico. La mancanza del giornale di scavo o di un inventario dei materiali trovati impedisce di farne un’analisi completa, tuttavia lo studio di fotografie e schizzi ha permesso di identificare la posizione di alcune statue all’interno dell’edificio, che è a volte chiamato “edificio delle statue” nella documentazione di archivio. Uno schizzo di Duru (pubblicato a corredo del testo, così come le foto citate infra) indica i luoghi di ritrovamento di tre statue, mentre un quarto punto porta la didascalia “statua trovata da Chéruau”. La lastra fotografica 3991 mostra la statua ritrovata a nord della

251 DELPLACE-FOURNET 2005, pag. 123.

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banchina dell’edificio, vicino all’angolo occidentale della bottega 8, conservata oggi presso il Museo di Damasco, con il n° d’inventario C 4025; la statua compare anche nelle fotografie 3973 e 3975. La fotografia 3993 rappresenta le statue trovate nell’angolo sud del peristilio, una già emersa dal terreno e giacente sul dorso (conservata sempre a Damasco, con n° Inv. C 4021 e ritratta anche in altre due foto, con i ni 3973 e 3975), mentre l’altra è vista frontalmente e ancora in corso di scavo (è ugualmente conservata a Damasco, con il n° Inv. C 4024, e riprodotta nelle foto da 3978 a 3980). La foto n°3992 mostra un’altra statua, che, dalla posizione della base di colonna con parte del fusto visibile in secondo piano, doveva provenire dall’angolo nord del peristilio, area che risultava non ancora scavata nello schizzo di Duru prima citato. Sembra che la

fotografia rappresenti la scoperta della statua (cliché dal 3970 al 3972) conservata nel giardino del Museo di Damasco, con n° Inv C 4023, e una quinta statua, conservata sempre nello stesso Museo, con n° Inv C 4022. E’ molto probabile che le statue non fossero in situ, ma provenissero da altre strutture, forse l’agorà, mentre le loro dimensioni escludono che fossero collocate sulle mensole dei colonnati; un altro schizzo indica la scoperta di altre sculture presso il prolungamento del muro di separazione delle botteghe 2 e 3252. Balty ha suggerito che l’edificio con banchina fosse una casa, ma lo spazio è troppo esiguo, nonostante la sua pianta possa ricordare lo stibadium di alcune case romane dell’età di Elagabalo. Elementi come il peristilio, le basi di colonna con i fusti scolpiti nel medesimo blocco e un capitello corinzio fanno pensare a una fase più antica, fra I e II sec., corrispondente ai resti di peristilio di un’abitazione, o a elementi recuperati dalla prima fase della basilica, dove sarebbe sorto il presunto tribunal. La planimetria ricorda alcune caratteristiche delle case del III sec., ma lo stato generale dell’edificio suggerisce di comprenderlo nell’insieme formato dall’agorà e dalla basilica– mercato: potrebbe trattarsi di una schola, o sala di riunione dei più importanti commercianti palmireni; spesso, infatti, questi edifici, sorti alla fine del I sec. e diffusisi nel II-III, presentano un letto a sigma o stibadium semicircolare. Esempi simili in Occidente si trovano a Pompei (edificio di Eumachia), a Ostia (schola Augustalium) o a Mactar (schola Juventutis), e si datano dal I sec. all’età severiana253. Il lato nord-est Il lato nord-est dell’agorà è quello maggiormente problematico: le porte di questo lato presentano una disposizione poco organica rispetto a quelle degli altri lati, chiudendo pressoché tutta la zona circostante l’angolo nord: è possibile che la posizione delle porte fosse dovuta alla presenza di strutture oggi scomparse, poste a nord-est. Vi è, infatti, un doppio colonnato che incornicia la porta 4, ma esso potrebbe ugualmente far parte di un insieme di portici che conducevano alle porte 4 e 5. I colonnati sono parzialmente conservati e cambiano direzione a nord-est, formando una specie di peristilio davanti alla porta 4, ma non sono perpendicolari al muro dell’agorà. Purtroppo l’area è oggi occupata

da un mucchio di detriti, che ne impedisce la comprensione. E’stato possibile liberare solo la via con un porticato, che passa davanti alle botteghe che circondano l’entrata dell’edificio con banchina semicircolare; la strada fra la piazza del teatro e l’edificio detto

252

DELPLACE-FOURNET 2005, pagg. 123-124. 253 DELPLACE-FOURNET 2005, pagg. 124-125.

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Caesareum ha un orientamento differente rispetto all’insieme agorà/basilica-mercato/edificio a banchina semicircolare. La strada con colonne si trova a livello delle botteghe e della piazza del teatro, così come fra la via medesima e il peristilio davanti alla porta 4; tutto ciò fu fatto verosimilmente per monumentalizzare quest’accesso all’agorà, che forse in una prima fase era secondario: tale cambiamento però fu fatto in maniera poco organica, tenendo conto degli spazi disponibili. Questa trasformazione urbanistica deve essere stato realizzata durante la costruzione dell’edificio con banchina, la cui stessa tecnica costruttiva si ritrova nelle botteghe che occupano lo spazio fra il portico e la piazza del teatro, affacciate sulla strada porticata o sulla piazza; le botteghe che circondano l’emiciclo del teatro presentano ugualmente la stessa modalità costruttiva254.

Conclusioni (fig.59) Per quanto riguarda la cronologia dell’agorà, della curia e della basilica-mercato, generalmente si ritiene che queste strutture risalgano al periodo adrianeo o ai decenni successivi, anche se non mancano pareri contrari (ad esempio, Bowersock li attribuisce all’età di Vespasiano). Se ci si basa sull’epigrafia, la stragrande maggioranza delle iscrizioni incise durante o dopo la costruzione dell’agorà risale al II sec. d.C., benché dieci fra le epigrafi trovate nella piazza si collochino fra il 75 e il 123 d.C. Queste iscrizioni più antiche sono incise su mensole scolpite nel medesimo blocco del rocchio, appartenenti al sottotipo 1.8 della classificazione elaborata da Ch. Delplace e J. Dentzer – Feydy, ma ve ne sono anche alcune risalenti al II sec. (157-158 per quelle datate con precisione). Le mensole che invece presentano un tenone sono state quasi tutte aggiunte in seguito e si datano dal 157 in poi, anche se la più antica risale al 112 e appartiene al sottotipo 3.6.2255. E’ però importante notare che non vi sono differenze fra la scrittura di II sec. e quella di epoca antecedente: benché Starcky avesse notato alcune affinità fra certe epigrafi trovate nell’area dell’agorà e altre contemporanee alla Tariffa, sembra più probabile che si tratti di semplici abitudini tramandatesi all’interno delle botteghe. Uno dei blocchi della cornice del portico reca il nome di un Ulpius Moukianos, figlio di un cavaliere romano chiamato M. Ulpius Moukianos, che è citato da un’iscrizione del tempio di Bel risalente alla prima metà del II sec.: potrebbe trattarsi di uno degli evergeti dell’agorà, ma l’iscrizione non fornisce indicazioni probanti in questo senso. Anche lo studio dei nomi delle famiglie citate in iscrizioni di I sec. non apporta dati decisivi: tre sono altrimenti sconosciute, e la cronologia di una quarta si basa su di una sola iscrizione256. Altre indicazioni cronologiche provengono dal metodo usato per estrarre i blocchi di pietra da cui si ricavavano i rocchi delle colonne: quelli delle dieci epigrafi più antiche sono tutti stati estratti verticalmente dalla cava, a somiglianza di quanto si vede nei più antichi monumenti palmireni, quali i portici meridionali, settentrionali e orientali del santuario di Bel, quelli dei santuari di Baalshamin e Nabu, della piazza ovale, della Via Colonnata Trasversale e di alcuni settori della Grande Via Colonnata, mentre nei colonnati

del Tetrapilo, del teatro e del settore della Grande Via prospiciente quest’ultimo, le

254 DELPLACE-FOURNET 2005, pag. 125. 255

DELPLACE - DENTZER FEYDY 2005 C, pagg.349-350. 256 DELPLACE – DENTZER FEYDY 2005 C, pag. 350.

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colonne sono state estratte orizzontalmente e supportano un diverso tipo di mensole, più recente. Seyrig aveva ipotizzato che la costruzione dell’agorà fosse iniziata sotto Vespasiano, con il completamento della decorazione scultorea di cornici e capitelli circa cinquant’anni più tardi, oppure realizzata sotto Adriano, con la riproduzione di iscrizioni più antiche, che non ci sarebbero pervenute nella loro redazione originale ma in copie, come si osserva anche in due iscrizioni del santuario di Bel, per le quali lo studio della modanatura e dei capitelli corinzi impedisce di fissare una data anteriore alla prima metà del I sec. d.C. I portici est, sud e nord risalgono alla seconda metà del I sec., giacché le mensole più antiche si datano al 51 nel portico est e al 56-60 in quello meridionale. Quest’ultima riporta la dedica a Hairan figlio di Bonne, e ricorda che la statua fu eretta dai sacerdoti di Bel. Il personaggio è noto anche dall’iscrizione di fondazione della sua tomba (52 d.C.), trovata presso l’agorà, e da quella della colonna onorifica del 74, vicino alle mura tarde e alla basilica. Hairan è definito in quest’ultima epigrafe, “decoratore”: Delplace e Dentzer –Feydy, a differenza di quanto ipotizzato da Cantineau257, ritengono però che, più di un artigiano, egli fosse un evergete che aveva pagato la decorazione di monumenti cittadini, fra cui il tempio di Bel, ma forse anche del complesso dell’agorà. E’ difficile però pensare che la decorazione di un edificio si sia svolta in cinquant’anni, particolarmente per le colonne con mensole immorsate, realizzate durante la costruzione dei portici, a differenza delle mensole a tenone, che possono essere aggiunte in seguito. La datazione della Tariffa potrebbe fornire un dato importante: essa risale al 137, e potrebbe essere stata posta nell’agorà una volta che il complesso monumentale era stato terminato, ma vi sono mensole a tenone che sono anteriori. La Tariffa integra una legge più antica, che ricorda l’editto di C. Licinius Mucianus, governatore di Siria fra il 67 e il 69 d.C., e ciò potrebbe fornire un terminus post quem.

Si potrebbe così datare l’agorà all’inizio dell’epoca flavia, e le iscrizioni risalenti al 75/76 e 81 (benché non sia possibile escludere una loro realizzazione a posteriori), sembrano comunque fornire una data per l’inizio della costruzione dell’agorà258. Delplace e Dentzer Feydy ritengono che l’area dell’agorà sia stata realizzata in diverse fasi cronologiche:

- Quella più antica fu già messa in luce dai sondaggi realizzati fra 1939 e 1940, quattro basi di colonne parallele al colonnato del settore meridionale, ma la prosecuzione del sondaggio non fece emergere altri elementi; è perciò difficile

interpretare quest’allineamento: potrebbe trattarsi di un portico di una precedente agorà, di un santuario o di una via.

- L’inizio della costruzione del complesso risale molto probabilmente all’epoca flavia, intorno al 75, per terminare intorno al 110/120.

- Nel corso del II sec., furono intrapresi diversi interventi, anche se non è possibile stabilire con precisione la loro sequenza: chiusura degli intercolumni laterali della curia; costruzione di una piccola edicola votiva, in asse con la curia, di cui rimangono le mortase che consentivano di fissarla al muro; realizzazione di una

257

CANTINEAU 1933 (Appendice nr. 16). 258 DELPLACE – DENTZER FEYDY 2005 C, pagg. 350-351.

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tribuna fra le colonne 40 e 41, in asse con la porta 4, probabilmente in relazione con le strutture poste a nord-est.

- Intervento sul muro nord-est della basilica – mercato, spostato verso nord, e, probabilmente in relazione con il rifacimento dell’angolo est dell’agorà, visibile sopra la porta 3 e nelle tracce di immorsatura presenti in questo stesso angolo. E’ in questo punto che fu ricavato un passaggio nell’asse della via fiancheggiata da un solo porticato, che permetteva di collegare la basilica-mercato alla Grande Via Colonnata, il cui settore mediano risale all’età severiana. Non è possibile conoscere le ragioni per cui questo settore fu ampliato, giacché vi sono rifacimenti tardi ed è occupato dal crollo del muro nord-occidentale; non si può però escludere che

quest’ampliamento abbia costituito la prima fase dei lavori destinati a collegare il settore dell’agorà con quello della Grande Via Colonnata.

- Contro questo muro è stato costruito l’edificio a banchina semicircolare, la cui tecnica costruttiva sembra risalire a un’epoca successiva, e che si ritrova anche nelle botteghe che circondano la piazza del teatro. L’insieme della costruzione forma un tutto unico, poiché i muri delle botteghe erano legati fra di loro e in questo punto costituivano il limite della piazza del teatro. Le mensole di questo settore appartengono alla tipologia 3.3 e le colonne sono state estratte orizzontalmente, così come avviene nei colonnati del Tetrapilo e del teatro, e nel portico sud del settore della Grande Via Colonnata compresa fra il Tetrapilo e la Via Colonnata. Le uniche mensole a essere incise sono proprio queste ultime, e ricordano importanti personaggi palmireni di III sec. d.C.; tutte le epigrafi risalgono al 225-271.

- Le colonne del Tetrapilo e del teatro potrebbero datarsi quindi al periodo in cui la costruzione fu terminata, nel 225, così come le colonne di fronte alle botteghe 1,2,3,4,5, in relazione al tipo di estrazione della pietra, anche se in questo colonnato non si sono conservate epigrafi risalenti a quest’epoca. Si potrebbe tuttavia datare anche l’edificio a banchina semicircolare e le botteghe all’età severiana, ma la mancanza di scavi non permette di precisare meglio la cronologia.

- La realizzazione dell’edificio a banchina semicircolare e dell’area del peristilio che incornicia la porta 4 dell’agorà appartengono probabilmente alla stessa fase cronologica, che mise in relazione il portico delle botteghe da 1 a 5 alla via che conduceva al mercato.

- Tutti questi interventi, per quanto non coordinati e spesso maldestri, riflettono comunque una volontà di collegare le strutture più antiche dell’agorà/basilica – mercato al nuovo asse commerciale costituito dalla Grande Via Colonnata.

- Costruzione delle mura di Diocleziano, che integrava il lato sud-occidentale dell’agorà e che chiudeva in un bastione la porta d’accesso al colonnato del teatro all’inizio del IV sec.

- In età bizantina, si costruì la parte nord-orientale della basilica-mercato. - Dopo un periodo di abbandono, si costruirono delle abitazioni nella sala, così come

gli impianti artigianali addossati alle mura, risalenti all’età islamica (X-XII sec.).

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- Crollo del muro nord-est, che ha ricoperto le costruzioni tarde in seguito ad un terremoto in epoca sconosciuta, così come il muro sud-ovest, dopo il 1785, anno della visita di Cassas a Palmira259.

Le date fornite dalle iscrizioni più antiche potrebbero indicare il primo progetto urbanistico e la costruzione dei muri: questa fase si sarebbe conclusa con l’aggiunta delle mensole con tenone, fra cui quella più antica risale al 112 d.C. Il confronto stilistico fra i capitelli dei pilastri dell’agorà e quelli dei muri e dei portici del santuario di Bel, corrobora l’ipotesi di una realizzazione fra il 75 e il 112; anche i capitelli delle colonne con mensole immorsate appartengono a questa fase cronologica. I lavori furono probabilmente completati all’epoca della visita di Adriano nel 130, di cui si vede un riflesso nella legge fiscale del 137, quando la città fu chiamata Hadriana Tadmor. L’agorà e la basilica- mercato sorsero comunque in una zona che era già stata frequentata, per quanto sia difficile indicarne la destinazione. La prima fase urbanistica sembra essersi orientata verso sud- ovest e la via che doveva occupare lo spazio dello wadi. In epoca severiana, vi fu un cambiamento di 180° nell’orientamento, mentre si costruiva la parte centrale della Grande Via Colonnata, che causarono una serie di interventi in quest’area, per metterla in comunicazione con il nuovo centro economico cittadino; questa trasformazione può anche essere messa in relazione con il cambiamento di statuto di Palmira, che divenne colonia romana in età severiana. A questa fase si ricollega anche l’edificio con banchina semicircolare, di poco posteriore alla costruzione del settore centrale della Grande Via Colonnata, dei colonnati del Tetrapilo, del teatro e della piazza del teatro260.

Fig. 59. Ricostruzione dell’agorà, vista dall’angolo nord-ovest (da Agora de Palmyre 2005, pag. 118).

259

DELPLACE – DENTZER FEYDY 2005 C, pagg. 351-352. 260 DELPLACE- DENTZER FEYDY 2005 B, pagg. 353-354.

108

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Per le abbreviazioni delle riviste si rimanda a L’ANNÉE PHILOLOGIQUE ONLINE http://www.annee-philologique.com/

Per l’elenco degli articoli analizzati nell’Appendice, vd. anche pag.

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WILL 1963 E. Will, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 40, fascicolo 3-4, 1963, pagg. 385-393. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1963_num_40_3_8477

WILL 1973 E. Will, Daniel Schlumberger (19 décembre 1904 - 21 octobre 1972), in Syria, tomo 50, fascicolo 3-4, 1973, pagg. 266-276. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1973_num_50_3_6402

WILL 1987 A E. Will, Nécrologie. Robert Amy (1904-1986), in Syria, tomo 64, fascicolo 1-2, 1987, pagg. 149-150. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1987_num_64_1_8577

WILL 1987 B E. Will, Nécrologie. Harald Ingholt (1896-1986), in Syria, tomo 64, fascicolo 1-2, 1987, pagg. 150-151. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1987_num_64_1_8577

WILL 1989 E. Will, Nécrologie. Jean Starcky (1909-1988), in Syria, tomo 66, fascicolo 1-4, 1989, pagg. 353-354. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1989_num_66_1_7119

YON 1998 J.B. Yon, Remarques sur une famille caravanière à Palmyre, in Syria, tomo 75, 1998, pagg. 153-160. http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1998_num_75_1_7547

ZAMIR 1999 M. Zamir, The Franco-Syrian Treaty negotiations and the question of Lebanon, in Modern Syria: from Ottoman rule to pivotal role in the Middle East, a cura di M. Ma’oz, J. Ginot, O. Winckler, Portland – Brighton 1999, pagg. 191-200. ZUCHOWSKA 2007 M. Zuchowska, Palmyra, excavations 2002-2005 (insula E by the Great Colonnade), in P.A.M.

XVII, 2007, pagg. 440-450. http://www.pcma.uw.edu.pl/

122

APPENDICE I Syria: gli articoli dedicati a Palmira negli anni del Mandato Francese

(traduzione italiana) Le traduzioni degli articoli della rivista Syria dedicati a Palmira all’epoca del Mandato Francese sono posti in ordine cronologico. Ogni articolo è preceduto da un numero d’ordine progressivo e dall’abbreviazione (vd. infra l’elenco

completo). Si è proceduto a una scelta di immagini significative, tratte dagli articoli stessi (salvo diversa indicazione); le immagini non presenti nell’edizione on line di Syria sono tratte dall’edizione cartacea della medesima.

1. DEONNA 1923 pag.123 2. CARCOPINO 1925 pag.125 3. CUMONT 1928 pag.133 4. CUMONT 1929 pag.136 5. DUSSAUD, SCHMIDT, INGHOLT, UPHAM POPE 1929 pag.138 6. INGHOLT 1930 B pag.139 7. MOUTERDE, POIDEBARD 1931 pag.141 8. CANTINEAU 1931 pag.145 9. DUSSAUD, CUMONT 1931 pag.155 10. SEYRIG 1932 A pag.156 11. SEYRIG 1932 B pag.161 12. INGHOLT 1932 pag.163 13. DUSSAUD, SEYRIG, GABRIEL 1932 pag.167 14. SEYRIG 1932 C pag.168 15. CARCOPINO 1933 pag.174 16. CANTINEAU 1933 pag.184 17. SEYRIG 1933 A pag.195 18. SEYRIG 1933 B pag.199 19. SCHLUMBERGER 1933 pag.204 20. AMY 1933 pag.216 21. SEYRIG 1934 pag.221 22. AMY, SEYRIG 1936 pag.228 23. CANTINEAU 1936 A pag.241 24. CANTINEAU 1936 B pag.247 25. SEYRIG 1937 A pag.251 26. SEYRIG 1937 B pag.264 27. SCHLUMBERGER 1937 pag.268 28. ECOCHARD 1937 pag.274 29. SEYRIG 1937 C pag.279 30. CANTINEAU 1938 A pag.282 31. DUSSAUD, GASTER, JOUON, GAUDEFROY DEMOMBYNES 1938 pag.287 32. CANTINEAU 1938 B pag.288 33. DUSSAUD, PERDRIZET, PARROT, JOUON 1938 pag.292 34. SEYRIG 1939 A pag.293 35. SEYRIG 1939 B pag.296 36. SEYRIG 1940 A pag.299 37. SEYRIG 1941 A pag.318 38. DUSSAUD, SCHAEFFER 1941 pag.322 39. SEYRIG 1941 B pag.323 40. DUSSAUD, DU MESNIL DU BUISSON, HERDNER 1942 pag.343 41. DU PONT SOMMER 1942 pag.344

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1. DEONNA 1923 W. DEONNA, Monuments orientaux du musée de Genève, in Syria, tomo 4, fascicolo 3, 1923, pagg. 224-233.

IV. Bustes palmyréniens.

Nell’articolo sono analizzati alcuni reperti di provenienza orientale posseduti dal museo di Ginevra, donati da A. Besserer; egli acquistò una collezione di reperti orientali da un console a Jaffa e fra essi vi sono dieci rilievi funerari palmireni, maschili e femminili, scoperti prevalentemente fra il 1901 e il 1902. Sono inoltre pubblicate tutte le foto dei rilievi, fino ad allora inedite. La trascrizione e la traduzione delle epigrafi che accompagnano i rilievi si devono a Lidsbarski e Boissiers; si tratta di opere menzionate anche da Chabot e dal Bulletin du Musée de Genève261.

Busti femminili (Fig. 1)

1) N°8193 Donna con turbante e diadema, che trattiene il velo nella mano destra. Fibula discoidale sulla spalla sinistra, fuso e conocchia nella mano sinistra. Iscrizione: “Bat'atî, figlia di Yarhai, figlio di Hairan, ahimè!”.

2) N°8191 Donna con turbante e diadema; mano sinistra sul petto che stringe l’abito e nessun attributo. Iscrizione: “Mazabbata, figlia di Taima, ahimè!”

3) N°8192 Donna con turbante e diadema, con il velo trattenuto dalla mano destra. Fibula sulla spalla sinistra, regge fuso e conocchia nella mano sinistra. Iscrizione: “Nana, figlia di Nourbel, ahimè!”.

4) N°8189 Donna con diadema simile alle precedenti, ma con in più orecchini, collana e fibula sulla spalla sinistra. Iscrizione: “Ahata, figlia di Sale, ahimè! E’ ciò che Barnay ha fatto per onorarla”. L’epigrafe

è incisa in basso, sulla base del rilievo, mentre negli altri casi si colloca a destra del volto della defunta.

Busti maschili 5)N°8194 Uomo barbato, con capelli ricci chioccioliformi. La mano destra fuoriesce dalla toga, la sinistra regge un lembo della veste. Iscrizione a destra: “Habibi figlio di Habibi Nesha, oimè!”; i primi due nomi sono

ripetuti anche a sinistra. 6)N°8188 Giovane imberbe, con capelli stilizzati in linguette. Stesso atteggiamento, nella sinistra tiene il volumen. Iscrizione: ” Taima, figlio di Halafta, figlio di Taimarsu, figlio di Halafta, figlio di Simon, soprannominato Qôqah il grande “.

7)N°8195 Stessa tipologia del precedente, dietro il personaggio è steso un tendaggio fra due palme. Iscrizione: “Taima, figlio di Halafta, figlio di Taima, ahimè!”.

8) N°8196 Uomo con baffi e sottile barba a collana, nello stesso atteggiamento dei precedenti, ma che tiene un lembo dell’abito con la sinistra. Tendaggio steso sullo sfondo. Iscrizione: “Ogeilû, figlio di Yarhai, ahimè!”. 9) N°8190 Stessa tipologia, ma con barba più folta e riccioli chioccioliformi. Iscrizione: “Yarhai, figlio di Sabana, ahimè!”. 10)N°8197 Stesso tipo, con frangia trapezoidale, secondo l’uso romano del III sec. d.C.; iscrizione illeggibile. Nella nota 1 a pagina 231 sono ricordati altri materiali provenienti da Palmira e conservati al Museo di Ginevra: 8199: Doccione, testa di leone, grossolana opera romana. 8198: Mortaio di marmo; il pestello a forma di dito piegato è stato perso dal suo proprietario. 7278: Piccolo frammento insignificante in marmo scolpito, con rosetta. C158: Statuetta di bronzo, tipo dell’Afrodite pudica.

261 CHABOT, Choix d’inscriptions de Palmyre, 1922, pag. 127; Bulletin du Musée d’Art e d’Histoire, I, 1923, pag. 49 ss.

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Fig. 1. I quattro busti femminili palmireni.

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2. CARCOPINO 1925 J. CARCOPINO, Le limes de la Numidie et sa garde Syrienne d’après des inscriptions récemment découvertes, in Syria, tomo 6, fascicolo 2, 1925, pagg. 118-149.

III. L’arrivée des Syriens sous le Sévères. Verso la metà del II secolo, la postazione chiave per la difesa del limes della Numidia era El-Kantara, dove,

dal 158, era di stanza una guarnigione di soldati, oltre ad un piccolo numero di civili, il quale, cinquanta anni più tardi, si ridurrà a un ristretto gruppo di vivandieri e addetti al trasporto delle salmerie, che vivevano alle porte dell’accampamento militare (fig.2). Questa legione, tuttavia, era formata prelevando elementi da quella di Lambesi. Solo vent’anni dopo, Commodo, avvertito dei problemi sorti nella regione a sud di Orano, di cui temeva le ripercussioni più a oriente, aggiunse ai due distaccamenti della legio III Augusta dei gruppi di ausiliari addestrati alla vita nel deserto. Sappiamo che l’imperatore spostò nella regione a sud di Costantine la cohors VI Commagenorum, che aveva compiuto un raid nel 174 contro le tribù ribelli della Mauretania settentrionale; questa cohors, nel 180, fu

impegnata nella costruzione di un anfiteatro a El Outaya, 50 Km a sud di El Kantara, l’utilità del quale non si spiega se con la durata del soggiorno di tali soldati in questa zona. E’ probabile che anche l’osservatorio sul monte Selloum, inaugurato nel 188 dal legato Ti. Claudius Gordianus (di cui il ponte a El Kantara conserva una dedica a Silvano), sia stato costruito dai soldati della cohors di Commagene; in ogni caso, la cohors che è citata nello stesso periodo senza altra definizione a Thouda e Mlili non può che essere o quella dei Commageni o quella dei Chalcideni, la cui venuta a El Kantara è forse anteriore rispetto a quella dei primi. La cohors Chalcidenorum era composta di soldati a cavallo reclutati fra gli Arabi siriani, impiegati nella custodia dei confini meridionali dell’Africa dal 78 d.C.262; la loro presenza è attestata ancora nel 163-164 in Africa Proconsularis, a Bir-oum-Ali, sulla strada che conduceva da Theveste - Tebessa a Capsa – Gafsa, dove essi apposero due dediche a Marco Aurelio e Lucio Vero. Solo in seguito i Calcideni furono inviati in Africa Nova, e l’epigrafe funeraria di El Kantara, che, secondo Carcopino, attesta la loro presenza, non può dunque

che essere posteriore al loro arrivo. Questa epigrafe, che è stata oggetto di numerosi studi, ricorda che a El-Kantara morì Agrippa, figlio di Themus (forma latinizzata di Taimé), comandante per dieci anni gli arcieri di Palmira, per diretto ordine imperiale, con il grado di centurione della cohors I Chalcidenorum. Non si tratta probabilmente di un praepositus numeri Palmyrenorum, ma del comandante di un piccolo gruppo di arcieri palmireni uniti alla cohors Chalcidenorum, prima della costituzione di un vero numerus, giacché tutte le iscrizioni di tali praepositi si riferiscono solamente all’età severiana. Inoltre è poco verosimile ritenere che un semplice peregrinus, che aveva servito solo nei corpi ausiliari, abbia rivestito un ruolo così importante, che era di norma assegnato a cittadini romani. L’iscrizione trova invece una giustificazione ammettendo che un piccolo gruppo di arcieri palmireni sia stato assegnato alla coorte dei Chalcideni stanziati in Africa, per equipararla in modo più completo alla cohors con lo stesso nome e lo stesso numero che militava in Siria. La coorte in Africa, già definita equitata, divenne così anche sagittata, a somiglianza della sua omonima in Siria. Gli arcieri di Palmira che a essa furono uniti (come lo fu, dal 156, un plotone di dromedarii alla cohors I Augusta Praetoria Lusitanorum), furono posti sotto il comando di un compatriota. Dunque la carriera, per diversi aspetti eccezionale di Agrippa è anteriore alla formazione di un numerus autonomo di Palmireni.

Benché l’iscrizione affermi che Agrippa ricoprì quel ruolo per diretto ordine imperiale, la datazione della stessa è complessa: Cagnat afferma che un’iscrizione risalente al 150 d.C. assicura che il numerus era già stanziato in Africa e Chabot, nella sua Choix d’inscriptions de Palmyre, menziona, fra le iscrizioni palmirene

trovate fuori Palmira, l’epigrafe funeraria bilingue (latino - palmireno) di un arciere di stanza a El Kantara nella metà del II sec. d.C., e l’epitaffio, redatto ugualmente in latino e palmireno, trovato a Lambesi, di un uomo chiamato Moqimo, figlio di Simeone. Tuttavia, costui non era un militare e l’iscrizione risale al 150 d.C.; l’epitaffio di El Kantara s riferisce sì a un arciere della centuria di Maximus, ma non è datata, per cui bisogna

262 Non è certo se si tratti degli abitanti di Calcide di Belo, nella Siria settentrionale, fra Antiochia e Aleppo, oppure di Calcide in Coele Syria (l’attuale Anjar, fra Baalbek e Damasco); Carcopino ritiene tuttavia più probabile che si tratti della seconda città.

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ancora una volta fare riferimento all’iscrizione funeraria di Agrippa e prendere atto che tutte le iscrizioni di El Kantara che menzionano il numerus Palmyrenorum non sono anteriori ai Severi. Carcopino ritiene che la cohors Chalcidenorum equitata sia stata trasferita in tutto o in parte fra il 164 (data in

cui risulta ancora stanziata a Bir-oum-Ali) e il 194, anno in cui a El Kantara è attestato per la prima volta un numerus di Palmireni indipendente. Fra il 164 e il 174 si collocano i regni congiunti di Marco Aurelio e Lucio

Vero sino al 169, e quello di Marco Aurelio e Commodo fra il 176 e il 180. Agrippa, tuttavia, ricevette l’incarico iusso imp (eratoris) e quindi questo può essere avvenuto dopo la morte di Lucio Vero o quando Commodo succede al padre come unico princeps. Secondo Carcopino, l’imperatore in questione potrebbe più probabilmente essere Commodo, giacché regnò per un periodo più lungo rispetto a quello del solo Marco Aurelio, e si distanzia temporalmente in maniera maggiore dai documenti di Bir-oum-Ali che indicano la presenza dei Chalcideni. Inoltre, l’attività di questo imperatore nella regione a sud

dei monti Aurès testimonia ugualmente a suo favore. Inoltre, poiché questo corpo misto fu sostituito, dal 194, dal numerus Palmyrenorum, e che Agrippa, figlio di Taimé, fu a capo degli arcieri di Palmira per dieci anni consecutivi, quest’unità di Calcideni deve essersi formata fra la salita al trono di Commodo e il 184. Può darsi che nel 183 d.C. sia stato sviluppato un nuovo piano di difesa per le province africane, data la similitudine del formulario impiegato nell’epigrafe di Agrippa e quella di un altro documento (ancora inedito), che menziona un centurione, il quale nel 194 assunse il comando di un numerus Palmyrenorum autonomo. Questa iscrizione, proveniente da una casa in pisé di El Kantara, era incisa su di un blocco di arenaria

riutilizzato come pietra angolare, lungo 46 cm e largo 28, rotto sia a destra sia a sinistra. A prima vista, sembra trattarsi di una dedica a Settimio Severo; le lettere mancanti per completare l’onomastica dell’imperatore riducono lo spazio da completare nella lacuna a sinistra delle linee 1 e 2 a una ventina di lettere, e la mancanza del cognomen Pius, assunto da Settimio nel 195, limitano la datazione dell’epigrafe al

193-194. Si deve pertanto optare per il primo semestre del 194, quando Settimio Severo, assunti per la seconda volta la tribunicia potestas e il consolato, non aveva ancora ricevuto la terza salutatio imperialis, che gli fu conferita solo nell’estate del 194. Nel giugno del 193 Settimio aveva associato al potere come Caesar il governatore della Bretagna Decimo Clodio Albino, originario di Hadrumetum, che sarà condannato come hostis publicus nel luglio del 196; tuttavia nelle iscrizioni i loro nomi compaiono insieme solo nel 194. Questi esempi confermano le restituzioni adottate da Carcopino e, poiché Caracalla e Geta diverranno Caesar rispettivamente nel 196 e nel 198, si deve integrare lo spazio martellato nella riga 2 con il nome di Clodius Albinus Caesar. In Africa, il suo nome ricorre a Cuicul – Djemila (CIL VIII, 20135) e nei dintorni di Mascula – Kenchela (CIL VIII, 17726). Quest’ultima dedica, studiata da Pallu de Lessert e Gsell, fu apposta per ordine di Lepidus Tertullus, legatus Augusti propraetor, clarissimus virus, da un centurione della Legio III Augusta Pia Vindex, i cui

nomi sono stati cancellati sia in questo documento sia a El Kantara. A Kenchela il centurione M. Oppius Antiochianus non svolgeva incarichi al di fuori del corpo che comandava, mentre l’epigrafe di El Kantara ricorda che un centurione della III Legio Augusta, di cui possediamo solo la fine del cognomen, [Saturn]ius (?), cura (m) a[gens] del n (umerus) Palm (yrenorum). Purtroppo non è possibile comprendere la natura esatta del monumento offerto dal numerus a Settimio Severo e Clodio Albino, né

identificare meglio il nome del suo comandante; tuttavia questo documento è di grande importanza, perché è la prima volta in cui il numerus compare come unità distinta, e che si ricollega al corpo che ha sostituito tramite il titolo di colui che la comandava. Nelle altre dediche, i centurioni a capo del numerus Palmyrenorum, possiedono un proprio grado e sono chiamati almeno praepositi numeri, mentre in questo caso il centurione non è neppure curator, ma ne fa le veci, poiché curam agens, come Agrippa per sei anni curam egit.

Settimio Severo sembra dunque continuare la linea d’azione di Commodo, rinforzando la parte meridionale del limes numidico; facendo coincidere il confine politico con quello militare fu necessario aumentare le truppe presenti, e, considerate le particolarità ambientali del Sahara, furono scelti soldati abituati alla vita nel deserto. Per tali ragioni, Commodo trasferì a El Kantara gli arcieri palmireni, inquadrandoli nel numerus Chalcidenorum.

Settimio era legato alla Siria sia dai trascorsi della sua carriera sia dal suo matrimonio con la figlia di uno dei gran sacerdoti di Emesa. L’iscrizione si daterebbe dunque al 194 e Palmira, che gravitava nell’orbita dell’impero dall’età di Adriano, secondo Carcopino divenne colonia nello stesso periodo. Cagnat attribuisce invece all’età di Caracalla il passaggio di Palmira allo status di colonia e Chabot ritiene che

la città abbia acquisito i suoi privilegi solo dopo l’associazione al potere di tale principe nel 198. Ma se il

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testo citato da Cagnat a conferma della sua ipotesi, deriva da Ulpiano, che redasse i suoi scritti fra il 212 e il 217, esso non può certo riferirsi ai casi successivi a quegli anni ma nulla impedisce di riferirlo al periodo precedente: ciò accadde ad esempio ad Aelia Capitolina – Gerusalemme, divenuta colonia sotto Adriano, o a Berytus – Beirut, i cui privilegi risalgono ad Augusto e Adriano. Tiro divenne colonia sotto il regno congiunto di Settimio Severo e Caracalla ma molte città ottennero questo privilegio dal solo Settimio, agli inizi del suo regno: è questo il caso di Heliopolis – Baalbeck, Laodicea – Latakieh e Sebaste – Samaria. Marquardt, che ha notato la frequenza del nome Septimius nell’onomastica

palmirena, ritiene che anche Palmira sia diventata colonia sotto il regno di questo imperatore; infatti, anche la città siriana, come Eliopoli e Laodicea, si era schierata con Settimio nella lotta per la successione contro Pescennio Nigro, che era invece stato sostenuto dagli abitanti della capitale Antiochia. E’ pertanto molto probabile che sia trascorso poco tempo fra il passaggio di Palmira al rango di colonia e la creazione di un numerus Palmyrenorum autonomo a El Kantara. I soldati siriani furono particolarmente numerosi durante tutto il regno della dinastia Severiana, sino alla morte di Alessandro Severo. La legione III Augusta aveva distaccamenti da Gemellae – El Kasbat a El Gahra e Messad. Non si trattava più di Commageni o Calcideni: essi furono rimpiazzati da altri corpi. A Messad, fra il 198 e il 201, comparve un numerus equ (itum) …ensium, e, sotto Settimio Severo, l’Ala Flavia, che aveva partecipato, nel 174, alla campagna di Aflou. A El Gahra era di stanza l’ala Pannoniorum, che il 3 maggio 198 si trovava anche all’altra estremità della linea di ripiegamento precedentemente definita. La parte centrale dell’ala Flavia che si trovava a Messad doveva

esserle vicina, come indica un epitaffio inedito, riportato da Carcopino. Si tratta di una stele in arenaria centinata, a forma di cupola (0,80 x 0,50 x 0,40 cm); essa ricorda un eques alae Flaviae, Quintus Flavius Unus (oppure Unicus o Union). Il numerus Palmyrenorum fu affiancato da un numerus Hemesenorum, di cui ignoriamo la data di formazione, ma di cui conosciamo la presenza a El Kantara grazie a una dedica in onore di Caracalla e Giulia Domna, conservata nel locale museo di de Vulpillières. E’ incisa su di una pietra calcarea rotta in alto a destra e a sinistra (0,55 x 0,35 x 0,30 cm). Il nome di Caracalla al genitivo, alla linea 2, richiede alla prima riga una locuzione del tipo pro salute o pro incolumitate imperatoris. Non rimane che la parte inferiore di un’O, seguita probabilmente da una R. Il gruppo OR richiederebbe una lettura pro vict]o[ria, il che impone la scelta fra tre formule: Deo... pro vict[or[ia et salute, Deo... pro vict[or[ia et reditu, Pro salute et vict[or[ia et reditu. Carcopino scarta la prima, che assegna a salute una posizione insolita; nel secondo caso, il nome della divinità, per occupare lo spazio vuoto, dovrebbe essere molto breve o abbreviato: si può ipotizzare Sol, Sol Elagabalus o

Malakbel, che compare in un’iscrizione di El Kantara inedita con la sola iniziale. Lo studioso ritiene più probabile la terza formula, dove gli ablativi seguono l’ordine consueto. In ogni caso l’iscrizione è successiva alla conclusione della guerra germanica nel 213 d. C.; non è casuale che una nuova unità sia stata inviata a El Kantara nello stesso anno in cui fu tracciata una nuova strada verso ovest. Le linee 2-3 sono molto incomplete, ma si può comunque leggere chiaramente la dedica a Caracalla e Giulia Domna e quindi l’iscrizione si data agli anni successivi la morte di Geta, fra il 211 e il 217. L’abbreviazione castr (orum) alla linea 4 si ritrova a Messad nello stesso periodo; non è sicuro che il nome proprio di Ulpius Optatus fosse M (arcus) ma Carcopino lo integra così sulla base di un epitaffio ritrovato a Lambesi, in cui si nomina un Marcus Ulpius Optatus. Alla riga 6, lo spazio fra la R di iunior e la F di Filosimi, non è riempito da un’E, ma due segni obliqui simili ai due tratti di una V. La forma iunioru per iuniorum è comune in Africa, ma questo genitivo plurale, se è preceduto da almeno due cognomina, entrambi al genitivo, e se dipende dalla formula sub cura, comune in questi casi, fa tuttavia sorgere l’interrogativo che riguarda l’esistenza di iuniores agli inizi del III sec. Questa distinzione fra anziani e coscritti è comune in epoca tardo romana, ma esisteva già sotto Caracalla: dal 227, ad esempio, a Cherchell, esisteva un praepositus peditum iuniorum Maurorum.

A Emesa nacquero Giulia Domna, sua sorella Moesa, le sue nipoti Soemia e Mamea, nonché i pronipoti e futuri Augusti Elagabalo e Alessandro Severo e la città entrò a far parte dell’impero sotto i Flavi. Alcuni abitanti di Emesa acquisirono individualmente la cittadinanza romana, come attestano i casi di Cherchell in Mauritania e di soldati della III legione Augusta a Lambesi. Dal II sec. Emesa aveva fornito tribuni militum, e reclutato una cohors miliaria sagittariorum equitata, i cui

soldati, almeno dal 199, avevano tutti la cittadinanza romana, e che, per più di un secolo e mezzo, non avevano mai lasciato Intercisa – Duna Pentele, in Pannonia Inferiore. Sino ad allora, tuttavia, non vi era un numerus definito dall’etnonimo di Emesa; quello di El Kantara è il primo noto, ed esso compare negli stessi

anni in cui, secondo Ulpiano, Emesa assurse al rango di colonia. Ciò è simile a quanto accadde a Palmira, che

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ottenne la cittadinanza poco dopo la costituzione di un numerus formato da suoi cittadini. Il numerus in

origine aveva un carattere eccezionale e rappresentava, in rapporto alle altre corti ausiliarie, una forma privilegiata, più semplice e più liberale, d’incorporazione delle province più lontane, cui l’imperatore voleva legarsi particolarmente o ricompensare. Ciò permette anche di passare dalla cronologia relativa a quella assoluta: secondo Ulpiano, fu Caracalla a rendere Emesa una colonia di diritto italico e questo può essere avvenuto solo dopo il febbraio 212, in ogni caso dopo il febbraio 211. Se l’interpretazione della prima riga della dedica di El Kantara è corretta, essa deve essere stata redatta negli ultimi mesi del 213 al più tardi e deve essere di poco successiva alla creazione del numerus Hemesenorum e al suo arrivo in Numidia. Questo fa ipotizzare che i motivi della creazione del numerus siano da ricollegarsi agli sconvolgimenti dovuti alla guerra germanica del 213. Tre anni più tardi,

Caracalla invase e annetté l’Osroene e poco dopo, durante gli ultimi mesi del suo regno o i primi dei suoi cugini, a Duna Pentele fu istituito un numerus Osroenorum, vicino alla cohors Hemesenorum, e che ugualmente

ebbe distaccamenti in Africa. Il numerus Osdroenorum è menzionato da un’epigrafe funeraria mal trascritta a Chanzy, a metà strada fra Lucus (Timziouine, dove fra il 198 e il 201 Settimio Severo e Caracalla posero dei miliari) e Lalla Marnia (qui, dall’età severiana, era di stanza un numerus Syrorum, da cui prese il nome l’ultimo avamposto della regione di Caesarea – Cherchell). L’errata trascrizione dell’epigrafe in CIL VIII (9829) ha indotto Cagnat a ritenere poco probabile la presenza degli Osroeni in Africa, giacché mancano altri documenti a confermarla. Tuttavia, secondo Carcopino, la dedica di El Kantara permette di comprendere meglio anche l’epitaffio di Chanzy. A prima vista, la stele fu eretta da Aurelius Siona e Aelius Donatus, in memoria di un anonimo filius meus mortus; l’Emesiano di Lambesi si chiamava Filadelfus e uno dei due juniores incaricati della realizzazione della stele di El Kantara dal loro praepositus aveva nome Filosimus. La riga 7 dell’epitaffio di Chanzy va dunque corretto con un cognomen del genere al dativo, Filosimoni Or (rhoeno) o, meglio, Filomeoni Or (rhoeno). Egli morì a ventisette anni, dopo aver militato per 7 anni nell’esercito, e ciò conferma che si tratta di uno degli iuniores.

Con queste correzioni il testo diviene comprensibile e contribuisce a sua volta, insieme con la dedica di El Kantara, a comprendere la continuità d’azione del governo romano in Africa nel corso del III sec. A Duna Pentele gli Emeseni e gli Osroeni si trovavano in un paese molto diverso dal loro: le giovani reclute erano perciò inviate in Africa ad acclimatarsi, presso unità militari composte da loro vicini o concittadini: a Chanzy l’ala prima Augusta Parthorum e il numerus Palmyrenorum a El Kantara.

Fig. 2. L’Africa romana (dall’Atlante storico, tav. 13).

IV. La crise des effectifs et le renforcement du limes.

La menzione degli Osroeni a Chanzy è isolata come quella degli Emeseni a El Kantara. Le ragioni della loro scomparsa sono probabilmente legate alla loro stessa origine: si tratta di unità militari nate per l’addestramento dei coscritti, al termine del quale essi tornavano sul fronte danubiano, come per gli Osroeni attestati a Intercisa sotto il regno di Alessandro Severo, e almeno sino a Gordiano III. Alcuni Osroeni confluirono probabilmente nel numerus Syrorum di Lalla Marnia; gli Emeseni di El Kantara si fusero in un numerus citato nelle iscrizioni solo da Caracalla in poi, in particolare durante la legazione di M. Valerius Senecius: il numerus Herculis Antoninianus. Vi erano dunque due numeri al confine meridionale della Numidia: quello Herculis, derivato dal vecchio numerus Hemesenorum, con una probabile aggiunta di Palmireni, e il numerus Palmyrenorum. Il primo era stanziato o a Calcea Herculis, da cui prendeva il nome, o nelle sue immediate vicinanze, mentre il secondo fu frazionato in vexillationes, distribuite da Gemellae-El

Kasbat, a Messad, dove furono apposte le dediche a Severo Alessandro che gli valsero l’appellativo di numerus Palmyrenorum Severianus. La fiducia degli imperatori in questi soldati crebbe sino a trasferire una

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parte della legio III Augusta in Oriente per partecipare alla guerra partica del 216. Due anni dopo, essa era di

ritorno, ma a causa della sua defezione, Gordiano III punì la legione con lo scioglimento e il trasferimento in Rezia di alcuni dei suoi membri. Fra il 238, anno della ribellione di Capelliano, e il 253, in cui mille uomini della ricostituita legione ritornarono a El Kasbat, non vi sono, in tutta la Numidia meridionale, iscrizioni militari che non siano state apposte da militari palmireni; a El Gahra, dove sotto i Severi la legione formata da militari di diversa origine era molto numerosa, l’unico ex voto pro salute Gordiani noto fu eretto dai soli Palmireni, e non vi sono più tracce né dei soldati Pannoni né dell’ala Flavia. Certo le responsabilità delle truppe siriane crebbero; a tal proposito Cagnat ha preso in considerazione una stele di Sbeitla, che fu eretta in onore di un certo Marcus Valgius Aemilianus, che è definito tribunus numeri Palmyrenorum, mentre, come osserva questo studioso, in generale a capo del numerus vi era un curator o praepositus, scelto fra i centurioni. Marcus Valgius Aemilianus invece appartiene al rango equestre ed è

tribuno, come i comandanti delle coorti ausiliarie: è probabile che, per l’accresciuta importanza strategica, il numerus Palmyrenorum di cui egli assunse il comando sia stato assimilato proprio a queste ultime. La

datazione dell’epigrafe è purtroppo incerta: Cagnat ha osservato come la menzione della tribù la collochi durante o poco dopo il regno di Caracalla, ma l’elaborata formula finale impedisce di ascriverla agli inizi del III sec. Tuttavia Carcopino ritiene poco probabile una datazione all’epoca di Caracalla, poiché tutte le iscrizioni redatte in quegli anni menzionano dei praepositi; lo studioso non concorda neppure con

l’affermazione di Cagnat secondo cui Palmira divenne colonia durante il principato di Caracalla, richiamandosi al Digesto 50, 15, 1,5. La trasformazione del numerus è forse da collegarsi con i cambiamenti avvenuti a Palmira: questa città divenne colonia, secondo Carcopino, sotto Settimio Severo, e a quest’epoca risale l’arrivo del numerus in Numidia, ma non il suo cambiamento di status; per queste ragioni egli non condivide la datazione proposta

da Cagnat, pur non negando le premesse su cui essa si basa. E’ vero che l’aumento di grado del comandante del numerus doveva ricollegarsi a un rafforzamento di tale unità, così come si devono cercare nella storia del numerus stesso le ragioni di tale incremento; l’Autore, tuttavia, sottolinea come sia importante ricordare la scomparsa, sotto Gordiano III, di tutte le altre unità con cui aveva sino ad allora collaborato. L’accresciuta importanza del numerus Palmyrenorum comportò sia un

incremento dei suoi effettivi sia un aumento di grado nei suoi comandanti. La pomposa formula finale dell’epigrafe sembra ricondurci verso il 240 d.C., e la menzione della tribù in un testo posteriore alla Constitutio Antonini, non solo non è per nulla insolita sino all’età tardo imperiale, ma compare anche in una lista, apposta a Roma il 23 luglio del 244, dei legionari che avevano militato sotto Gordiano III. Anche se forse quest’ultimo imperatore fu costretto a ridurre l’estensione del limes, cercò tuttavia di dotarlo della

migliore difesa possibile. Carcopino ritiene che proprio sotto Gordiano le truppe lasciassero Messad, considerando che la ricca epigrafia cittadina scompare quasi totalmente dopo Alessandro Severo; inoltre, dopo il 238, il nome della III legione Augusta, cancellato a El Gahra ed El Kantara, è stato rispettato in alcuni casi a Messad, dove ad esempio è rimasto sulla cima del Bou Kahil. Verso il 240 la zona di Sitifis – Setif assiste al moltiplicarsi dei fortini, e Gordiano III dà impulso a numerose opere difensive sul confine: la fortezza di Gemellae- El Kasbat è difesa da una fossa che va da Drah – Remel a Saada e si appoggiava alle altre fortezze di Doucen e Sadouri. Le iscrizioni di Doucen sono sfortunatamente troppo mutile per individuare il nome delle formazioni militari che vi erano di stanza, ma a Sadouri, anche non accettando la restituzione della penultima riga della dedica a Gordiano III scoperta da Carcopino, vi è un’altra iscrizione, pubblicata da tempo, ma di cui Gsell ha fornito per la prima volta una lettura completa, che dimostra come la guarnigione fosse dotata di un numerus, che, allo stato attuale delle nostre conoscenze,

non può che essere quello dei Palmireni. L’iscrizione è incisa su di un capitello molto frusto, sormontato da una cornice, costituita da un dado con bordi leggermente concavi; le prime due righe, scolpite sul lato anteriore, erano già state pubblicate, mentre le ultime tre sono state decifrate da Carcopino con la collaborazione di Gsell. La decifrazione del testo è difficoltosa: frequentemente cs sostituisce x in vexillationes, così come cun compare al posto di cum; commilitonibus è comune nell’epigrafia locale, e Carcopino ha verificato la stessa lezione su di

un frammento da El Kantara, facente parte delle collezioni di de Vulpillières. I soli punti oscuri di questo testo vertono sul senso del termine Ausum e la natura delle funzioni militari rivestite dai dedicanti.

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Si tratta di una dedica fatta da due ufficiali di una vexillatio, Valerius Crescens e Manilius Felix, al genius Ausum; quest’ultimo termine segue il dativo genio e potrebbe essere un etnonimo al genitivo (Aus, Ausis). Le radici Aus, Auz, Aud, sono di origine berbera, e si ritrovano nei toponimi Ausa, Ausia, Ausea e nell’etnico Ausurenses. Gli Auses non sarebbero d’altronde fuori luogo a Sadouri, poiché Erodoto li cita con i Machyles, presso il lago Tritonis: se quest’ultimo non è forse che la piccola Sirte, Tolomeo tuttavia enumera tre laghi adiacenti (Lybia, Pallas, Tritonis), che potrebbero essere i chott Melrir, Gharsa e Djerid, il che ci avvicina a

Ouadi Djedi e alla regione meridionale di Costantine. Questo nome libico compare nei toponimi di diversi uadi, come a Sadouri, a Ouadi el Ouzen, Ouadi Doucen e Doucen stessa. Tuttavia potrebbe trattarsi di una semplice congettura e gli scritti di Erodoto sono di molto antecedenti a questa epigrafe; è preferibile dunque considerare Ausum non come un genitivo plurale, bensì come un

toponimo indeclinabile, analogo a quelli che ricorrono in altre dediche: secondo Gsell potrebbe trattarsi del nome di Sadouri nell’antichità263. Le ricerche di Carcopino a Lambesi e Messad non hanno portato a identificare né Valerius Crescens né Manilius Felix; chiamati senza il nome proprio, potrebbero essere vissuti più verosimilmente nel III che non nel II sec. d.C., e militarono nella fortezza di Ausum sotto Gordiano III, che la istituì, o i suoi successori. Tutte

le iscrizioni provenienti dal medesimo luogo risalgono al decennio 240-250 e quindi molto probabilmente anche quella in esame. Il problema maggiore consiste nell’individuare il loro grado e la truppa di appartenenza. Mancano due lettere a sinistra di una, dove dovrebbe esserci l’indicazione della carica rivestita da Manilius: egli doveva essere il secondo di Valerius. L’abbreviazione op per optio è normale e questo titolo era portato non solo nelle coorti ausiliarie e nelle legioni, ma anche nei numeri; bisogna anche tener conto che Valerius Crescens faceva le funzioni di centurione all’interno del numerus. Il termine vexillatio, inoltre, è spesso usato per indicare un’unità militare ottenuta dalla concentrazione di più armate, o nel caso di una sola armata, di più corpi; esistono tuttavia casi un cui le vexillationes si formano da un prelievo limitato di uomini da un solo corpo di dimensioni ridotte, quali una coorte quingenaria o un numerus, come, secondo l’Autore, è avvenuto ad Ausum. Valerius Crescens era ordinarius, ma manca il segno che indica la carica di centurione, il che ci segnalerebbe che egli era un primus ordo, vale a dire uno dei primi sei centurioni della prima coorte, fra cui si sceglieva il

prefetto di campo, divenuto vero capo di stato maggiore del legato senatorio, che poi rimpiazzerà. In realtà Valerius non era né primus ordo né centurione, ma un semplice graduato che era assimilato al centurione in

quelle unità dove la sua figura non era prevista, vale a dire, seguendo gli esempi raccolti da von Domaszewski e la regola comune, in un numerus. La vexillatio che egli comandava non era che una frazione del numerus cui egli apparteneva. Al di sotto del centurione che comandava un intero numerus vi erano dei graduati che non potevano essere

centurioni, ma che occupavano il posto dei centurioni della legione, o dei soldati ausiliari, comandando le unità subordinate al numerus cui appartenevano, assimilate così alle centurie delle coorti. E’ possibile che la vexillatio di Ausum comprendesse diverse di queste unità, perché Valerius è definito anche princeps vexillationis: in questo caso egli sarebbe il primo fra i due o tre militari con lo stesso grado, le cui unità erano concentrate ad Ausum, e come tale egli avrebbe comandato tutta la vexillatio. Tuttavia, se questo fosse il caso, egli dovrebbe portare il titolo, com’è piuttosto comune, di praepositus vexillationis. Valerius non associò nella dedica gli altri ordinarii; la lacuna è troppo breve per accogliere questo termine, ed egli, forse per ingrandire il prestigio della propria posizione, si limitò ad aggiungere il proprio optio. Questa frazione del numerus, sino a quando era da esso distaccata e assimilata a una centuria, è diventata una vexillatio, e il suo comandante assume il titolo di princeps vexillationis264. Sotto i Filippi, così come durante il regno di Gordiano III e gli imperatori successivi, non è noto il nome delle truppe di Ausum; la legione III Augusta non era in Africa, né vi erano truppe ausiliarie a El Gahra. Il numerus Hemesenorum non era più a El Kantara, le cui iscrizioni arrivano solo al regno di Caracalla; gli unici soldati di cui abbiamo testimonianze sono quelli del numerus Palmyrenorum. A questi soldati erano affidate molte fortezze, da Melaga a Doucen, dalla fossa di Saada alla strada che da El Kantara arrivava a El Gahra: al numerus Palmyrenorum era dunque affidata la difesa di un territorio lungo circa 100 km e largo una

263

Ad esempio, Genio Sesase a Tuburnica – Tuburnic, Vazaivi a Vazaivi – Ain Zoui, Genio Subtabarti a Subtabarti (10 km a nord di Saint- Arnaud), Genio Celtianis, a Celtianis – Beni Ouelbane. 264 Carcopino fa un paragone con l’uso concesso ai luogotenenti a capo di un piccolo distaccamento del loro plotone, in una postazione isolata, di poter aggiungere il titolo di capo di distaccamento o di comandante d’armata a quello di luogotenente.

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sessantina; il numerus e i suoi rinforzi costituivano la sola armata permanente posta ai confini della Numidia:

con i chott costituiva l’ultimo baluardo a difesa dell’impero prima del deserto. Si capisce dunque perché Valerius Crescens decise di non specificare l’unità cui apparteneva, visto che non esisteva, in un raggio di 20 leghe, altra formazione militare oltre il numerus Palmyrenorum. Tuttavia, questa dedica fa già presentire la decadenza che si nasconde dietro l’apparente progresso del limes

numidico. Nonostante il confine del deserto raggiunga la sua massima estensione, si scavi un fossato di 50 km e nuove fortezze siano costruite, in quegli stessi anni il numero dei soldati presenti si riduce drasticamente. Quest’apparente contraddizione si spiega considerando il progetto di Gordiano III di rimediare alla crisi degli effettivi con la concentrazione delle difese; pochi anni dopo le popolazioni contadine a sud dell’Atlante, grazie al fossato e alle fortezze del limes, potevano provvedere autonomamente

alla propria difese. Dopo Gordiano, cessano le notizie sul numerus Palmyrenorum; nel 253, tuttavia, a Gemellae s’installò una vexillatio della III legione Augusta, che aveva abbandonato quella postazione nel 238. Non sappiamo se questo evento abbia condizionato la sparizione delle truppe palmirene, ma i soldati che sostituirono il numerus Palmyrenorum non restarono a lungo. Il nome della legio III Augusta, in precedenza cancellato fra

Messad ed El Kantara, non è stato neppure restaurato (salvo casi isolati, ad esempio a El Kantara, CIL VIII, 2501) dopo il suo ritorno, forse anche in conseguenza delle rivolte che scoppiarono in tutta l’Africa romana. Sino al 262, si assiste alle successive rivolte delle tribù di Ouarsenis, Djurjra, Babor, e a una serie di combattimenti per la salvaguardia delle maggiori città provinciali. Dopo il 253, non vi sono più soldati nelle fortezze che gli imperatori, da Commodo a Gordiano, avevano eretto a El Kasbat, El Gahra, Doucen e Sadouri, ma paradossalmente, partiti i soldati, queste fortezze abbandonate assistettero a un notevole sviluppo economico. Mancano testimonianze epigrafiche militari successive al 253, ma i rinvenimenti di monete, prima quasi del tutto assenti, divengono improvvisamente numerosi; Albertini ha redatto una lista delle monete raccolte dal capitano Mansuy a sud di Doucen e conservate dal 1920 al Musée des Antiquités algériennes: esse sono state

coniate sotto Valeriano (253-260), Salonina, moglie di Gallieno (253-268), Quieto (260), Galerio (292-311), Giuliano (361-363). Carcopino ha esaminato inoltre le monete di bronzo raccolte da Bech intorno a El Gahra, e la sola moneta risalente al II sec. è un grande bronzo di Adriano, rimasto evidentemente in circolazione. Le altre monete erano bronzi piccoli o medi di IV sec., coniati sotto Massenzio, oltre una dozzina di emissioni di Costantino e due di Costanzo II. Tutti questi ritrovamenti fanno pensare a una continuità di vita e di floridezza commerciale del limes sahariano anche dopo le rivolte degli anni 253-262 d.C.: si trattava dunque ancora di un luogo sicuro. Dal II sec. d.C., il numero di coloni aumentò progressivamente, nel corso di tutto il III sec. Una dedica scoperta a Menea, nell’Aurès sud-occidentale, attesta la presenza di coloni dal 166 d.C.; un’altra, da Aine Soultane, 25 km a sud-est di Bou Saada, fu eretta in onore di Settimio Severo dai coloni Tha… . 2km a sud-ovest di El Gahra, a 15 m dal punto in cui la strada carrozzabile, che porta da Bordj de l’Agha a Bou Saada, attraversa un affluente prosciugato della sponda sinistra dell’Ouadi Chair, Carcopino ha copiato un testo probabilmente contemporaneo dell’iscrizione precedente, inciso su di un ponticello antico. L’iscrizione ci informa che il ponte fu costruito dai conductores Arruntius Martialis e Seianus a loro spese; si

tratta di una zona fertile (quando l’Autore la visitò nell’aprile del 1928, ad esempio, vi si coltivava orzo), che anche in età romana era coltivata da coloni265, che pagavano i canoni d’affitto ai conductores, i quali si

occupavano anche di organizzare i lavori agricoli. Costoro dovevano anche contribuire alla manutenzione delle fortificazioni e alla loro difesa.

265 Il testo francese usa i termini colons partiaires, cioè contadini retribuiti con una parte del prodotto.

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Fig. 3. Il ponte romano di El Kantara (dal sito www.algerie.voyage.com) Un’iscrizione trovata a Siaoun, nel sud della Tunisia, menziona, agli inizi del regno di Settimio Severo, un numerus colonorum; Alessandro Severo concedeva terre gratuite lungo il limes con la sola condizione, per i

beneficiari, di difenderlo dalle incursioni dei Berberi. Questa politica, i cui sviluppi nella piana di Sétif sotto Gordiano III sono stati studiati da Carcopino, non avrebbe potuto essere applicata senza un’efficiente sistema difensivo, che, secondo lo studioso, ha consentito di allungare di un secolo e mezzo la dominazione romana nell’Algeria meridionale. I coloni di Aine – Soultane e di Ouadi – Chair hanno contribuito, con i soldati dell’impero, a organizzare la frontiera sahariana e nei momenti di crisi hanno aiutato nella sua difesa. Partiti i soldati, essi erano perfettamente in grado di provvedere alla propria difesa, e anticipavano quei limitanei cui Onorio, nel 409, affidò la difesa del limes e del fossatum africani.

Molti di questi coloni erano ex militari o discendenti di militari che in quelle aree avevano servito; anche i conductores uscivano spesso dai ranghi militari e significativamente il gentilizio Arruntius compare nelle liste di soldati di Messad. Fra questi coloni, vi erano anche moltissimi palmireni per nascita o origine; essi furono gli ultimi a perdere la loro individualità come unità militare e, almeno fra il 194 e il 244, erano ampiamente distribuiti nelle postazioni difensive del Sahara e vi rimasero spesso in gran numero anche dopo la fine del servizio nell’esercito. L’attaccamento di questi uomini alla loro città di origine si evince da numerose iscrizioni funerarie, come quella dell’ordinarius Maximus Zabdibol, morto a Calceus – El Kantara, dove aveva prestato servizio, ma che ricorda con orgoglio la propria condizione di Palmyrenus Hadrianus.

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3. CUMONT 1928 F. CUMONT, L'autel palmyrénien du musée du Capitole, in Syria, tomo 9, fascicolo 2, 1928, pagg. 101-109. Cumont riesamina l’altare palmireno conservato ai Musei Capitolini di Roma, noto dal XVI sec., quando era collocato presso i giardini Mattei in Trastevere. L’altare è stato oggetto di numerosissimi studi, ma nessuno è riuscito a chiarire definitivamente il significato delle quattro figure che ne ornano i lati. Nella sua analisi, Cumont parte dalle considerazioni proposte da Dussaud nelle sue Notes de Mythologie Syrienne; sono altresì pubblicate le fotografie realizzate dallo stesso autore presso i Musei Capitolini (fig.4).

La faccia laterale sinistra rappresenta un giovane uomo dai lunghi capelli ricci in abito orientale, formato da tunica stretta da cintura, ampie anassiridi aderenti alle caviglie e mantello fermato su di una spalla; egli monta su di un carro trainato da grifoni con ali spiegate e nella sinistra tiene le redini, mentre nella destra regge uno scettro o piuttosto una frusta. Alle sue spalle, una vittoria alata in piedi regge un ramo di palma nella sinistra e posa sul capo del dio una corona. Sotto l’immagine vi è un’iscrizione in palmireno, che afferma che l’altare è dedicato a Malakhbel e agli dei di Palmira. Malakbel, come ha già sottolineato Vogué, è il Sole nascente, vincitore delle tenebre; è l’Oriens venerato in

Italia ed è per questo che sono i grifoni a tirare il suo carro, poiché tali esseri mostruosi sono spesso messi in relazione con il Sole. Un mito greco raccolto nel Physiologus, ma di probabile origine asiatica, afferma che il

grifone vive presso un porto del fiume Oceano e che ogni mattina spiega le ali per ricevere i raggi del Sole nascente, e ogni giorno uno di questi animali accompagna l’astro nel suo corso. Il lato anteriore (ritenuto dall’Autore il migliore da un punto di vista artistico) raffigura un busto del Sole, sostenuto da un’aquila con ali spiegate. Il Sole è ritratto come un giovane la cui capigliatura è resa con ciocche divergenti, che suggeriscono l’irradiazione della luce, mentre intorno al capo del dio vi è un nimbo con sette raggi, che ricorda l’epiteto eptaktis conferito a Helios negli Oracoli Caldaici. L’aquila, come indicato da Cumont a proposito di un altare di Tiro, è nella scultura religiosa siriana simbolo del cielo; le ali spiegate ricordano le volte celesti, così come il velo rigonfio che è spesso posto dietro le immagini di Caelus266.

L’aquila con questo significato spesso sostiene le immagini di divinità celesti come Giove, Saturno, il Sole o gli imperatori divinizzati. Questo lato dell’altare rappresenta dunque il Sole fiammeggiante, giunto all’apice nel cielo di mezzogiorno. L’iscrizione conferisce al dio l’appellativo di “Sol sanctissimus”: tale epiclesi non

sembra adattarsi a Malakbel, quanto piuttosto a Shamas o Yarhibol, entrambe divinità solari palmirene; sappiamo, infatti, che si usavano appellativi diversi per il Sole nelle varie fasi del suo corso. La faccia laterale destra reca scolpita una figura anziana e barbuta velato capite, che regge un oggetto ricurvo, forse un falcetto, che il dio dovrebbe reggere nella mano destra, non rappresentata: proprio il falcetto fa supporre che si tratti di Saturno. La presenza di questo dio su di un altare dedicato a divinità solari è spiegata da Cumont con la credenza diffusa nell’astrologia babilonese, secondo cui Saturno era il “sole della notte”; anche se era per gli antichi il pianeta più lontano dalla terra, si riteneva che fosse il più grande e che la sua influenza fosse la più potente. Nel IV sec. a.C. i Greci sapevano che i Caldei ritenevano che Saturno fosse l’astro del Sole e Servio afferma che i Siriani assimilavano a Bel sia Saturno sia il Sole267. L’altare del Campidoglio mostra quindi su tre lati il Sole nascente, a mezzogiorno e il Sole notturno. La faccia posteriore è quella che ha suscitato il maggior numero di interpretazioni discordanti: si è proposta la nascita di Eros, Adone, Attis, Azizu o più probabilmente Malakhbel; poiché gli altri tre lati dell’altare si riferiscono al Sole, è verosimile che anche questa faccia si riferisca a tale divinità. Nella scena compare un cipresso carico di frutti, con le cime legate da un nastro, di cui si scorgono le estremità fluttuanti, come era tipico per gli alberi sacri; dalle chiome del cipresso fuoriesce il busto di un bambino nudo, che porta sulle spalle non un ariete, come è stato spesso asserito, ma un capretto o caprone. Il cipresso è un albero sacro in Siria e a Palmira, e divide ad esempio le due figure di Aglibol e Malakhbel in un rilievo conservato negli stessi Musei Capitolini, oltre a comparire in diverse monete fenice e siriane.

266 CUMONT, Deux autels de Phénicie, in Syria, tomo 8, fascicolo2, 1927, pagg. 164-165, http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/syria_0039-7946_1927_num_8_2_3210. 267 Ad esempio nell’Epynomis di Platone : Bidez, Revue de philologie, XIX, 1905, p. 319 ; cfr. Diodoro, III. 30, 3; Boll., Sphaera, pag. 313, .n. 3; SERVIUS, Aen. I, 729 [= ISIDORUS, Etym., VIII, 11,23].

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Il cipresso è ritenuto da molti studiosi, a partire da F. Lajard, un simbolo legato al culto della Venere orientale, intesa come dea della fecondità.

Tuttavia, secondo Cumont, l’unico argomento a sostegno di questa tesi proviene dalla Teogonia di Filone di Biblo, il quale afferma che la dea Berouth era stata moglie di Elioun o Hypsistos, e che Berouth era il nome

aramaico del cipresso; non si può tuttavia escludere che questa dea sia stata un’invenzione di Filone268.

Fig. 4. I quattro lati dell’altare.

268 PHIL. BYBL, fr. 2 § 12 (F. H. G. III, p. 567).

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In realtà, il cipresso era consacrato alle divinità solari, come era già stato proposto da Eckhel e Rochette. Abbiamo attestazioni precise di ciò soprattutto per la regione di Antiochia: secondo un mito Ciparisso, amato da Apollo, era fuggito da Creta, raggiungendo l’Oronte e il monte Casio, dove era stato trasformato in cipresso; sulla cima di questo monte gli antichi offrivano sacrifici al sole nascente. Un mito simile, secondo Filostrato, era diffuso anche a Dafne, e altri autori testimoniano che in quella città numerosi cipressi crescevano intorno al tempio di Apollo269. Qui nessuno poteva abbattere i cipressi sacri e solo l’alitarca di Antiochia poteva tagliarli, a condizione di piantarne degli altri: tale privilegio gli era conferito ancora nel 379 d.C., e cessò di esistere solo sotto Teodosio II e Valentiniano III, nel 425270. J. Godefroid, nel suo commento al Codex Theodosianum, ha per primo individuato l’importanza di questo

testo per la storia dei culti semitici. L’alitarca non era semplicemente il magistrato incaricato ad Antiochia di organizzare i giochi olimpici, ma era anche il più importante sacerdote locale, che era soggetto a particolari interdizioni, simili a quelle cui era sottoposto il flamen Dialis a Roma. Il cipresso, che solo l’alitarca poteva tagliare, aveva ad Antiochia la stessa funzione che rivestiva il pino in Frigia; in questa regione, infatti, si ornavano i pini con bende, e vi si collocavano le immagini di Attis. A Biblo si compiva un rituale simile in onore di Osiride-Adone: si scavava il tronco dell’albero e vi si posizionava un simulacro del dio morto, che era poi coperto da un lenzuolo funebre e cosparso di aromi. Si tratta di cerimonie che mescolano l’antico culto degli alberi con quello delle divinità antropomorfe, che preludevano alla resurrezione annuale di Attis e Osiride – Adone. E’ possibile che il taglio del cipresso ad Antiochia celebrasse ugualmente la nascita del sole. Se è così, l’altare dei Musei Capitolini riflette i rituali praticati a Biblo e Antiochia: il dio solare palmireno, chiamato Malakhbel o con altri nomi, nasceva da un cipresso, così come in Siria Adone era nato dal tronco della madre Mirra trasformata nell’omonimo albero, e la dea egiziana Nut, che nasceva da un sicomoro. Inoltre in Oriente (ma anche in Occidente) il 25 dicembre, si celebrava la nascita del Sole, e in Egitto, secondo Macrobio, una statua del Sole fanciullo era condotta fuori dal santuario271. Vi sono similitudini evidenti con i rituali praticati in Siria, poiché gli alberi erano tagliati e piantati in inverno e non durante la stagione secca. Inoltre si riteneva che alberi quali il cipresso e l’alloro fruttificassero d’inverno perché riscaldati da un calore interno e ciò può aver suggerito il legame con le divinità solari. Il cipresso è un albero sempreverde, usato per ornare le sepolture sia in Oriente sia in Occidente, considerato un simbolo di rinascita e vittoria sulla morte, ulteriore elemento di contatto con la rinascita annuale del Sole. Queste considerazioni permettono di spiegare anche la presenza del caprone: esso potrebbe in questo caso essere un simbolo del segno zodiacale del capricorno, in cui il Sole entra in dicembre: per questo in Siria era il mese consacrato a questo astro. Secondo il calendario di Gemino, gli astronomi greci Euctemon e Kallippos

ritenevano che proprio il 24 dicembre il Sole entrasse nel capricorno; tuttavia è difficile spiegare perché la coda di pesce sia stata omessa, dato che è comune nelle raffigurazioni del segno. Secondo Cumont, nonostante il quarto lato dell’altare non offra certezze interpretative, quest’ultimo raffigurerebbe il sole nascente, che sale nell’orizzonte, raggiunge il culmine a mezzogiorno e il “sole notturno”. Il pensiero che ha ispirato tale raffigurazione è probabilmente anche l’idea che stava all’origine della liturgia dei templi egizi, in cui il sole era raffigurato come un bambino al momento del solstizio d’inverno, un giovane all’equinozio di primavera, un uomo adulto al solstizio d’estate e infine un anziano all’equinozio d’autunno.

269 PHILOSTRATUS, Vit. Ap., I, 16, 1; LIBANIUS, XI, 236 (1, p.520Fôrster, cf. 238) ; IOANNES CHRYS., Or., VIII, 2(Migne, P.G., XLIX, 2, p.l79), SOZOM., H. Eccl., Y, 19 ; MALALAS, VIII, p. 204, Bonn; PROCOP., Bel. Pers., II, 14 ; CLAUDIANUS, De raptu Proserp., III, 370 s. 270

Cod. Theod., X, 1, 7,10; Cod. Inst. XI, 78, 2. 271 MACROBIUS, Sat., I, 18, 9.

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4. CUMONT 1929 F. CUMONT, Un dieu syrien à dos de chameau, in Syria, tomo 10 fascicolo 1, 1929, pagg. 30-35. Cumont analizza un bassorilievo conservato presso un collezionista di Aleppo, Negib-Assal, e rinvenuto, secondo le indicazioni del proprietario, a Tell Halaf, presso Ras el Hain, l’antica Resaina; nonostante non vi

sia l’assoluta certezza del luogo di ritrovamento, la città era sede di una guarnigione romana, cui ben si adatta l’immagine di una divinità guerriera a dorso di cammello. E’ inoltre pubblicata una fotografia del rilievo realizzata da Brossé. La scultura, lunga 57 cm e larga 41, è piuttosto rozza e parzialmente mutila: entro un riquadro con bordo centinato, che in origine formava una sorta di nicchia, ma che attualmente è scomparso sul lato destro, è scolpito un animale di piccole dimensioni, con la testa mutila ma identificabile come un dromedario dalla gobba; la cavalcatura è molto più piccola del cavaliere. Sul dorso del dromedario doveva esserci una sella, ma si distinguono solo le cinghie che la fissavano e che passano intorno al collo e sotto la coda dell’animale. Sulla sella è collocata la figura di un guerriero, vestito di una tunica ornata di motivi quadrangolari, che regge orizzontalmente nella mano destra una spada o una lancia e tiene sul braccio sinistro uno scudo. Benché il volto sia stato pressoché cancellato, è chiaramente visibile l’acconciatura del guerriero, caratterizzata da una tripla serie di riccioli, che formano una specie di corona radiata, il che fa supporre si tratti di un essere divino, probabilmente una divinità solare, piuttosto che un semplice dromedarius. Spesso le

divinità siriane sono rappresentate a dorso di cammello: in alcuni casi, tuttavia, si tratta semplicemente della raffigurazione di processioni, dove la statua divina è trasportata sulla groppa dell’animale272. Questo rilievo è invece molto simile a un frammento scultoreo scoperto a Palmira, murato a fianco di un rilievo raffigurante una scena di banchetto, con cui si era pensato formasse un tutt’uno; ciò ha reso ardua l’interpretazione di un simile insieme, cosicché si è pensato alla rappresentazione dei Dioscuri o di un’Adorazione dei Magi. Ingholt per primo si è accorto che le due scene erano indipendenti e al Museo di Damasco sono stati esposti separatamente. Questo frammento recava una dedica in palmireno ad Arsou e Azizou, e rappresentava l’uno a cavallo, l’altro su di un dromedario. Un testo dell’imperatore Giuliano afferma che gli abitanti di Edessa veneravano come paredri del Sole Azizos e Monimos, e che Giamblico li identificava rispettivamente con Ares e Mercurio273. Sembra, dunque, che Azizou fosse un dio militare della Mesopotamia, un Marte semitico, e il bassorilievo in esame conferma in pieno questa identificazione. Questo dio compare nel bassorilievo di Palmira pressappoco come su quello di Resaina, dove il dio monta un cammello dalla sella riccamente decorata e sorregge una lancia o una lunga spada nella destra, mentre lo scudo rotondo è appeso alla groppa dell’animale; è possibile che nella mano sinistra tenesse un arco. Si tratta dell’armamento tipico delle truppe cammellate che, dopo aver militato nell’esercito seleucide, furono utilizzate dai Romani per presidiare il deserto. Tito Livio, parlando dell’esercito di Antioco a Magnesia, descrive proprio la lancia lunga 4 cubiti (circa 1,75 m) che gli scultori dei rilievi di Resaina e Palmira hanno scolpito in mano ad Azizou, così come il piccolo scudo rotondo era tipico dei reparti di cavalleria274. In Siria e in Asia Minore gli dei, specie quelli solari, sono spessissimo rappresentati a cavallo e quindi non vi è nulla di strano nella rappresentazione di un dio a dorso di cammello fatta dagli abitanti dei vicini deserti. Proprio a queste truppe cammellate era affidata la sicurezza delle carovane, ed anche i commercianti, i cui profitti dipendevano proprio dalla sicurezza delle piste carovaniere, si mostravano devoti a queste divinità. L’immagine del cammello ricorre anche in diversi vasi in terracotta, come in un esemplare pubblicato da Cumont, molto simile a un vaso proveniente da Afrodisia e conservato al Museo del Louvre, reso noto da

Rostovtzeff: è possibile che addirittura i due reperti siano il prodotto di una stessa bottega, data la loro grandissima somiglianza. Tale vaso proviene da Homs ed è conservato al Museo di Beirut (manca l’immagine nell’edizione on line):

l’animale è rappresentato accucciato, con il basto attraversato da un foro e un’apertura per l’uscita del

272 Ad esempio, una terracotta proveniente dalla regione di Damasco, pubblicata dall’Autore, raffigura la processione delle statue di due dee. 273

JULIANUS, Or. IV, pag. 150 D. 274 LIVIUS, XXXVII, 40, 12.

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liquido posto sotto il collo, sul petto dell’animale, e che poteva essere chiuso tramite una sporgenza cilindrica della parete del vaso (fig 5). Nel vaso di Afrodisia vi sono da un lato un’anfora e dall’altro un montone, mentre compaiono due anfore sul basto nell’esemplare di Homs; in entrambi i vasi sulla sella siede una scimmia. Si tratta di due esempi di coroplastica grottesca, simile alle rappresentazioni egiziane del dio Arpocrate come un pigmeo dal fallo enorme a dorso di cammello, o anche a cavallo di un ariete, una cagna o un rospo. Si tratta di testimonianze della grande importanza del dromedario per il commercio carovaniero, che in epoca romana si diffuse dall’Asia al Nord Africa.

Fig. 5. Vaso a forma di cammello (immagine mancante nell’edizione on-line).

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5. DUSSAUD, SCHMIDT, INGHOLT, UPHAM POPE 1929 R. DUSSAUD, A. SCHMIDT, H. INGHOLT, A. UPHAM POPE, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 10, fascicolo 2, 1929, pagg. 176-184.

Nouvelle mission de M. Harald Ingholt à Palmyre, pagg. 179-180

L’articolo è composto da una serie di relazioni degli scavi effettuati nel Levante da varie missioni archeologiche; vi è anche il resoconto della spedizione archeologica danese a Palmira (12 novembre- 2 dicembre 1928), guidata da Ingholt nella necropoli sud/sud-ovest, a continuazione dei lavori intrapresi nel 1924 e 1925. Ingholt ebbe modo di esaminare molti monumenti funerari situati nelle vicinanze della tomba - torre di Elahbel, oltre a diversi reperti emersi durante i lavori di sgombero eseguiti dal Service des Antiquités, secondo

il programma stabilito da Gabriel nel 1925. Furono scoperte molte iscrizioni provenienti da una camera del sepolcro di Giulio Aurelio Malé e dalla tomba-tempio chiamata dagli Arabi Qasr el abiad ,il “castello bianco” (fig.6). Un’iscrizione greca fu rinvenuta casualmente dietro il tempio di Bel; essa ricorda gli onori resi a un certo Thomalechis, figlio di Haddudanes, che elargì denaro per costruire edifici termali presso il tempio di Aglibol e Malakbel, divinità che avevano un tempio sia a Palmira sia a Roma, come dimostra l’altare dei Musei Capitolini studiato da Cumont. Su di una colonna ritrovata vicino all’iscrizione precedente e collocata in origine probabilmente nel medesimo edificio, è incisa in greco e palmireno una dedica ad Aelius Bôrâ, figlio di Titus Aelius ’Ogeilû,

datata al 197 d.C. e voluta dal senato e dal popolo palmireni; sfortunatamente il testo greco è incompleto. Sotto la porta dell’Agorà, durante i lavori di sgombero fu scoperta un’iscrizione bilingue ben conservata, in onore di Ogeilû, figlio di Makkai, che combatté contro i nomadi e difese le carovane, e che per questo fu

onorato con l’erezione di una statua da parte del senato e del popolo di Palmira risalente al 239 d.C. Emersero inoltre diverse sculture, fra cui una statua femminile acefala in marmo, un fregio con tre cammelli da guerra accosciati con il loro carico e parte dell’immagine di un cavallo, simile al rilievo di Arsu e Azizou. In una tomba situata presso il Qasr el abiad Ingholt scoprì tracce di un affresco raffigurante una corona di fiori, e, nella tomba di Maqqai, dietro il sarcofago di quest’ultimo, tracce di una grande decorazione, che

sembra simile a quella del sarcofago stesso; egli raccolse anche presso gli abitanti 30 tessere, di cui una dozzina inedite: si tratta di documenti importanti per la conoscenza della storia dei culti palmireni. Si realizzò inoltre una mappa dettagliata della necropoli e si verificarono le planimetrie delle tombe, le pitture furono riprodotte ad acquerello e si scattarono fotografie di tutti i reperti ritenuti di rilevanza archeologica e si misurarono e disegnarono le porte e le facciate decorate delle tombe.

Fig. 6. Qasr el abiad (da GAWLIKOWSKI 1970, pag. 130)

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6. INGHOLT 1930 B H. INGHOLT, Quatre bustes palmyréniens, in Syria, tomo 11, fascicolo 3, 1930, pagg. 242-244. Ingholt analizza quattro busti palmireni ben conservati ma inediti, uno femminile e tre maschili, le cui foto gli furono inviate dal dottor G. Ginestet. Lo studioso attribuisce al I gruppo della classificazione da egli stesso elaborata (100-150 d.C.) il busto femminile, sulla base dei capelli che cadono sulle spalle, degli occhi resi con due cerchi incisi, degli orecchini a crotalo e della resa delle pieghe del velo; la presenza di una fibula esagonale e di numerose collane indicano un esemplare abbastanza tardo, probabilmente risalente al 134-150 d.C. A sinistra è incisa un’iscrizione in cinque righe, che riporta il nome e la genealogia della defunta sino al bisnonno: “ Ahimè!Segel, figlia de Vahballat (figlio di)'A'ailamî (figlio di) Belhazî” (fig.7).

Dei tre busti maschili, uno è imberbe, con i capelli organizzati in due file orizzontali di ciocche, e gli occhi resi con due cerchi incisi; le pieghe del mantello sono simili a quelle del busto di Atenatan, databile al 133-134 d.C. e appartenente sempre al I gruppo. Come nel busto di Rame, che risale al 138-139 d.C., anche qui vi è una cornice incisa e il personaggio tiene fra le mani una schedula. A sinistra del capo compare l’iscrizione “Vahballat, figlio di Belnûrî, che è detto Bûlî, figlio di Bôsâ, ahimè”.

Fig. 7 Busti palmireni.

Gli altri due ritratti maschili sono attribuiti da Ingholt al II gruppo, che si data al 150-200 d.C. (fig.8)

Fig. 8. Busti maschili palmireni Il primo ritratto raffigura un uomo con barba e capelli ricci, con gli occhi resi da due cerchi, incisi come nel I gruppo; sulla testa porta una corona di foglie ornata da una rosetta centrale, simile a quella di un altro busto datato al 154-155 d.C., e in cui ugualmente la barba è resa a piccoli riccioli crespi. L’uomo con la mano sinistra tiene contro il petto un lembo del mantello che ricade sulla spalla sinistra, con il gesto tipico di una serie di sculture all’interno del II gruppo, in cui il mantello è sempre drappeggiato in questo modo

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particolare sulla spalla sinistra. Dietro il busto vi è un dorsalium e l’iscrizione, incisa a destra della testa su tre linee, ricorda il nome del defunto, Vahballat, e quello del padre suo omonimo.

Gli occhi, la forma della barba e la resa delle pieghe del mantello nella parte destra dimostrano che si tratta di uno degli esemplari più recenti del II gruppo. La stessa disposizione dell’himation sulla spalla sinistra si ritrova nell’ultimo busto, così come la resa delle

pieghe a destra, mentre a sinistra esse sono scolpite ad angolo acuto, come nel busto di Nourbel, datato al 181 d.C. I riccioli spiraliformi sono scolpiti in tre file, l’iride è resa con un cerchio inciso e la barba è scolpita a riccioli ondulati, come in un busto datato al 186 d.C. Nella mano sinistra, l’uomo regge una schedula, con linee

orizzontali incise, e a destra della testa si trova l’epigrafe in cinque linee, che ricorda il nome del morto e la sua genealogia: “Hairan, figlio di Nadab'el (figlio di) Bôsâ ahimè!”. Interessante è il nome del padre di Hairan, che significa “El è benevolo”, si ritrova solo su di un sigillo ebraico risalente all’VIII-VII sec. a.c. ma nomi simili, come Nedabjah, con il nome divino Jah, ricorrono frequentemente nel Vecchio Testamento. Nonostante che a Palmira non sia attestato il culto di El, Nadab’el e altri nomi simili, sembrano indicare che anche in

questa città fosse diffuso il culto di tale divinità.

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7. MOUTERDE, POIDEBARD 1931 R. MOUTERDE P. POIDEBARD, La voie antique des caravanes entre Palmyre et Hît, au IIe siècle après Jésus-Christ, d'après une inscription retrouvée au sud – est de Palmyre (1930), in Syria, tomo 12, fascicolo 2,1931, pagg. 101-115. Nel marzo del 1930, 22 km a sud est di Palmira, fu ritrovata un’iscrizione, che fu pubblicata e commentata da Mouterde, al termine della campagna svoltasi fra il novembre 1929 e l’aprile 1930, che si proponeva di trovare il percorso dell’antica via carovaniera fra Palmira e l’Eufrate in territorio siriano; tale ricerca fu condotta con la collaborazione del gruppo d’aviazione di Damasco (fig.9).

Fig. 9. La via carovaniera antica fra Palmira e Hit, 100 km a sud-est di Palmira; foto aerea.

Questa iscrizione è un prezioso documento per l’esatta conoscenza della via che nel II sec. d.C. collegava Palmira, attraverso Hit, alla città partica di Vologesia e all’emporio di Spasinou Charax, affacciato sul Golfo Persico. Lo studio di questo itinerario si svolse durante le ricognizioni aeree effettuate per individuare le postazioni avanzate del limes romano nell’estremo sud del deserto siriano, fra Djebel Druze e l’Eufrate, lungo la frontiera con la Transgiordania e l’Iraq. La ricognizione aerea del 3 febbraio permise di rilevare per circa 120 km, in territorio siriano, il tracciato della via carovaniera che congiungeva Palmira a Hit; il giorno successivo fu possibile individuare le tracce sul terreno della via stessa. Il 5 febbraio, un volo fra Palmira e Salihiyé consentì di individuare la deviazione che permetteva di raggiungere Dura; essa era costeggiata sino all’Eufrate dagli antichi pozzi dell’uadi al Miyah e da quelli del corso inferiore dell’uadi Souab. Alcuni giorni dopo, queste scoperte furono registrate tramite fotografia aerea; mancava tuttavia lo sbocco della via a Palmira, giacché essa era invisibile per circa 60 km dalla città. Quest’area, infatti, è perfettamente pianeggiante e non era necessario tracciare piste per facilitare la marcia degli animali da soma, e inoltre le tempeste di sabbia avevano cancellato ogni possibile traccia rimasta. La strada poteva svolgersi secondo due percorsi differenti: uno a sud della sabkha275, lungo le colonie militari romane di Bazouriyé e Bkhara, l’altro a nord; questa palude salata impedisce in alcuni parti dell’anno i contatti fra Palmira e le vicine aree sud-orientali. La ricognizione aerea del 14 marzo consentì di individuare nella steppa, a 22 km sud-est da Palmira, un vecchio pozzo, presso il quale era stata segnalata a Poidebard la presenza di alcuni fusti di colonna caduti, recanti un’epigrafe incisa; tale pozzo si trovava, secondo quanto indicato dalla strumentazione di bordo, lungo l’itinerario della via che passava a nord della sabkha. Scendendo di quota, pur senza atterrare, Poidebard fu in grado di costatare che si trattava di una struttura in rapporto con il percorso dell’antica via carovaniera: poteva essere una pietra miliare oppure una colonna onoraria eretta presso il pozzo. Nei giorni seguenti fu eseguito un primo calco dell’iscrizione e poi una fotografia; in novembre Cantineau realizzò una nuova copia dell’iscrizione.

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Sabkha: terreno paludoso e salato, tipico dei climi aridi, che si forma sia in ambienti continentali sia marittimo – costieri.

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Quest’ultima è incisa su due fusti di colonna: uno (A), in buono stato di conservazione, riporta la maggior parte del testo greco, mente l’altro (B), molto danneggiato dagli agenti atmosferici, reca incisa la parte finale del testo greco e le prime righe di quello in palmireno (fig.10).

Fig. 10. L’iscrizione greca.

Il sito del ritrovamento sorge su di un piccolo rilievo della steppa, da cui è possibile scorgere Palmira, e si trova a 22 km dalla città in direzione di Djouffa, a sud del Tell Hillé. Questa località, secondo quanto ha appreso Cantineau, è chiamata Oumm el’amad dagli Arabi ed el myal dai Beduini (termine che significa

appunto “le colonne” o “i miliari”). Il pozzo è costruito in solidi blocchi di calcare, ben squadrati e cementati: ha un diametro di 1,15 m e una profondità di 35 m e la vera è formata da due blocchi di calcare che misurano 1,45 x 0,50 m; l’origine di tale pozzo sembra romana e tutto intorno vi erano sei fusti e una base di colonna. I fusti misurano 82 cm di diametro, a parte uno che ne misura 77 e un altro 84; tre di essi sono altri 90 cm, due 95 e uno 93 cm. Essi costituivano gli elementi di una colonna alta 5,53 m, senza la base, che giace a terra, e di cui manca il capitello. Tale colonna, più larga alla base, si rastrema verso l’alto: integra, doveva misurare da 6 a 6,50 m, e molto probabilmente sorreggeva una statua. Tracce di strutture, o meglio, di una pavimentazione, affioravano dal terreno a 2,40 m dal pozzo; a prima vista sembra trattarsi del basamento destinato a ospitare la colonna e presso il quale poteva sorgere un abbeveratoio. Non fu tuttavia possibile eseguire un saggio di scavo nell’area: sembra in ogni caso che la colonna sia rimasta in situ, lungo l’antica via carovaniera che collegava Hit a Palmira. Colonne onorarie di questo tipo si iscrivono in una lunga tradizione: alcune di esse, come quelle di Oumm el ‘amad, sorreggevano nel I sec. a.C. le immagini dei re commageni, e in epoche successive, anche le statue dei notabili palmireni. E’ possibile che questa colonna non avesse alcun coronamento, ma su due dei rocchi che la costituivano è inciso un decreto bilingue, di cui la parte greca è quasi completamente decifrabile. Il testo pubblicato sui Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions nel 1930 si basa su due calchi e una

fotografia parziale; la nuova lettura del testo è il risultato delle osservazioni e integrazioni di Seyrig comunicate a Mouterde dopo aver visto il monumento; esse sono state ulteriormente verificate sul calco realizzato da Cantineau. Questa epigrafe attesta innanzitutto la presenza, sotto Antonino Pio, di una via carovaniera più meridionale fra Palmira e Vologesia, e quindi più diretta, rispetto agli itinerari sino ad allora noti agli studiosi; la stessa via Palmira – Dura raggiungeva l’Eufrate molto più a monte. Il testo fornisce inoltre nuovi dati sulla topografia e la storia palmirene: esso fu redatto, come molte altre epigrafi note a Palmira, in onore di un capo carovana, che era di volta in volta commerciante, diplomatico e soldato, di nome Soados. Egli apparteneva

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a un’illustre famiglia, poiché suo padre era Boliades, che probabilmente era fratello dello Zebida figlio di Soados e nipote di Taimosams, cui il senato palmireno, nel 118 d.C., eresse una statua nel recinto del tempio di Bel, giacché egli ricoprì la carica di simposiarca dei sacerdoti del dio. Soados tuttavia non sembra aver

ricoperto magistrature in città, ma deve aver svolto la propria attività fuori Palmira, negli empori commerciali dell’Eufrate e del Golfo Persico. L’iscrizione afferma che egli si meritò questo riconoscimento “assistendo i mercanti, le carovane e i Palmireni stabiliti a Vologesia”; in suo onore furono erette statue a Palmira e nelle città in cui svolse la propria attività. A Palmira, ben quattro statue di Soados furono erette nel tétradeion della città: il testo afferma che si trattò di un “onore senza pari”, anche se verso la metà III sec. almeno sette statue onoravano il procurator ducenarius Septimius Vorodes lungo la Grande Via Colonnata.

Il non è facilmente identificabile: potrebbe indicare il Tetrapilo, ma probabilmente per chiamare questo edificio non si sarebbe utilizzato un termine così elaborato, e inoltre quattro statue poste nel Tetrapilo l’una vicino all’altra non avrebbero costituito un onore così straordinario. La parola

, nel suo significato più antico, evoca un “gruppo di quattro” edifici, che potrebbero essere i più

importanti della città; l’indeterminatezza del termine spiega perché sia stato specificato , giacché

nell’epigrafia siriana i termini che designano gli edifici sono privi di determinativo: ad esempio, a Damasco e a Bosra.

Cumont, in una lettera all’Autore, ipotizza che si possa trattare dello spiazzo quadrangolare chiamato comunemente agorà, indicato con il n°18 nella planimetria redatta da Gabriel, circondato da quattro costruzioni. L’ipotesi è ritenuta plausibile da Mouterde, poiché sappiamo che altri due personaggi furono onorati rispettivamente con tre e quattro statue nella cosiddetta agorà276. Altre tre statue di Soados furono erette a Vologesia, a Spasinou Charax e nel caravanserraglio di Gennaes; le prime due città sono gli empori commerciali che compaiono spesso nell’epigrafia palmirena insieme a Forat: da Spasinou, presso lo sbocco del Tigri sul Golfo Persico, partivano le navi per l’India, mentre Vologesia era

tappa e magazzino per il commercio diretto a Ctesifonte e le altre città partiche. Da questa città si potevano inoltre trasportare lungo l’Eufrate le mercanzie destinate al commercio con l’India. Il termine Gennaes compare qui per la prima volta nell’epigrafia siriana: probabilmente non è una città, ma

un punto nel deserto, dove era possibile per le carovane sostare e custodire le merci dopo aver scaricato gli animali. Si trattava verosimilmente di un recinto, circondato da portici e dotato di un luogo di culto; Gennaes

potrebbe essere il nome di una divinità (forse un dio - cavaliere protettore dei viaggi e dei commerci) o di un

uomo (sembra che derivi da un nome proprio il luogo chiamato nelle montagne di Apamea). Lidzbarski ha paragonato il termine , che ricorre a Dura, al nome regale Ibignai,

attestato nelle monete della Caracene e ciò fa supporre che anche il luogo citato nell’epigrafe palmirena si trovi nell’area del Golfo Persico. Se le tre località sono state elencate in ordine geografico, il “khan di Gennaes” deve trovarsi fra Vologesia e Palmira, forse proprio a Oumm el’amad; tuttavia è strano che non siano stati neppure segnalati gli edifici che costituivano questo caravanserraglio. Soados ricevette lettere attestanti le sue benemerenze da Adriano e Antonino Pio: queste lettere erano concesse dagli imperatori ai provinciali che si erano particolarmente distinti; Soados, come il licio Opramoas,

ottenne probabilmente questi onori in seguito ad una missione diplomatica condotta in favore dei propri concittadini presso i Romani. Soados fu inoltre citato in un editto (del governatore della Siria Publicius Marcellus: è possibile che egli abbia giocato un qualche ruolo nel mantenere l’ordine a Palmira e ai confini quando Marcellus dovette recarsi in Palestina a reprimere la rivolta di Bar Kokeba, considerando che

la presenza di una ricca comunità ebraica nella stessa Palmira poteva dar vita a tumulti in città. Soados mostrò poi la propria lealtà a Roma fondando un Augusteion a Vologesia; grazie alla sua fedeltà egli fu

investito di , potere la cui entità non emerge chiaramente dal testo. La formula impiegata ricorda

l’espressione, comune nell’epigrafia micro-asiatica,

Nel linguaggio giuridico greco il termine indica il potere esercitato da un oligarca, vicino a quello

del in seguito designò l’autorità del governatore o del . Il prestigio insito in tale termine

doveva essere ancora ben vivo a Palmira, città vicina ai regni di Commagene e Cilicia Trachea, i cui sovrani

deposti da Roma ricevevano il titolo di dagli imperatori quale compensazione del regno perduto.

276

Il primo personaggio è Marcus Ulpius Yarhai; al secondo il Senato e il popolo palmireni eressero quattro statue nel 199.

144

Il testo non indica dove si esercitava il potere di Soados, ma probabilmente non a Palmira: un potere simile a quello di Septimius Vorodes o del corrector Odenato sarebbe stato oggetto di ben altri termini encomiastici, e richiederebbe la menzione di cariche municipali o imperiali, che qui mancano. E’ probabile che Soados abbia

esercitato tale potere in uno degli empori commerciali di Palmira, forse Vologesia. Il verbo che accompagna

sembra indicare non un’usurpazione, bensì una carica regolarmente assunta grazie a meriti straordinari e forse elettiva. Forse egli fu eletto capo dei mercanti palmireni a Vologesia, con il compito di trattare con le autorità partiche

e di difendere gli interessi dei suoi concittadini; sappiamo che l’di Dura Europos, che nel 135-136 d.C. amministrava la città in nome dei re parti, aveva rapporti con la vicina guarnigione palmirena. Così era probabilmente anche in altri empori commerciali palmireni; il testo di Oum el ‘amad ci informa solamente del fatto che esisteva un “governo” civile e autonomo negli empori palmireni, senza però specificare se era un’istituzione permanente o occasionale. Si trattava di una situazione simile a quella dei fondachi medievali, dei khan del commercio francese nel Levante, o delle concessioni europee in Cina, che disponevano di una

polizia interna e un’amministrazione autonoma. Cumont ritiene che l’apparente contrasto fra la presenza di sudditi fedeli a Roma e la sovranità dei re parti nei territori a loro sottomessi fosse in realtà risolto grazie alla decisione di Adriano di abbandonare la provincia traianea di Mesopotamia. Ciò fece presumibilmente sì che i re parti tollerassero il libero commercio nel loro regno e addirittura la presenza di guarnigioni palmirene incaricate di proteggere le carovane dei loro concittadini: tali condizioni erano probabilmente comprese nei trattati fra Roma e i Parti. Così si spiega la presenza degli arcieri di Palmira a Dura nel 135-136, così come ad Anath e Hirta, lungo il corso inferiore dell’Eufrate, nel 132. L’iscrizione di Oum el’amad è di poco posteriore a queste date e risale agli anni successivi l’elezione di Publicius, governatore dal 132 d.C., probabilmente il 140 d.C.; l’imperatore è Antonino Pio e il testo è quindi

anteriore al 161, anno della sua morte e dell’inizio della guerra partica. La metà del II sec. d.C. fu, infatti, il periodo di massimo splendore del commercio palmireno, favorito dalla pace ininterrotta fra la città carovaniera e i suoi vicini. Tali condizioni di tranquillità erano necessarie al fine di stabilire una via diretta fra Palmira e Hit, che costeggiava la colonna di Oumm el’amad, zona esposta alle razzie dei nomadi, e che fu pertanto abbandonata dopo l’inizio della rivolta partica nel 162. Questo testo evidenzia non solo la floridezza del commercio palmireno, ma anche l’interesse con cui gli imperatori romani guardavano ai suoi successi commerciali. Essi vedevano in questi mercanti i pionieri della loro influenza e del culto imperiale nella Mesopotamia partica, dai confini con il Golfo Persico sino all’India. Pur rinunciando a conquistare tali regioni, questi principes riuscivano ad assicurarsi grandi profitti

commerciali a favore dell’Impero, grazie ai Palmireni.

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8. CANTINEAU 1931 J. CANTINEAU, Textes palmyréniens provenant de la fouille du Temple de Bel, in Syria, tomo 12 fascicolo 2, 1931, pagg. 116-142. Cantineau pubblica e analizza i testi più significativi emersi nel corso del 1930 durante lo sgombero del villaggio arabo, impiantatosi sulle rovine del tempio di Bel. I lavori fecero emergere da 200 a 300 iscrizioni, non tutte ovviamente della stessa importanza: alcune riportano formule e nomi ampiamente conosciuti, altre, anche se più interessanti, non richiedono, secondo l’Autore, un’immediata pubblicazione. Nell’articolo Cantineau si limita a esaminare le epigrafi più importanti, di cui ritiene necessaria la pubblicazione a breve termine e quelle che sono state rinvenute in situ (anche se non particolarmente

significative in sé). A. – Les propylées.

1° da Cantineau, Inscriptions palmyréniennes, n° 32. Nel muro arabo che chiude i propilei e li ha trasformati in una porta fortificata, è stato rinvenuto un blocco di pietra ritagliato e reimpiegato, posto sulla facciata occidentale, presso il capitello del pilastro d’anta nord. Su di esso (che misura 0,16x0,50 m, altezza dei caratteri 2,5 cm) sono incise quattro righe in palmireno mutile su entrambi i lati; si tratta di un semplice frammento di testo onorifico.

2° da Cantineau, Inscriptions palmyréniennes, n°31.

A sinistra della grande porta, sul muro di fondo di una piccola stanza che si apre sulla facciata est dei propilei, vi è un’iscrizione (0,35 m x 0,70 m, altezza delle lettere 2,8 cm) in palmireno, di 9 righe, in situ. Il

testo presenta numerose difficoltà interpretative, alla cui comprensione hanno contribuito anche altri studiosi, come E. Littman e Dussaud. Quest’ultimo studioso suggerisce che il termine “colonne” impiegato nel testo si riferisca in realtà ai “preposti alle colonne”, che hanno un titolo simile a quello conferito ai guardiani o preposti alla soglia nel tempio di Gerusalemme.

3° Iscrizione del simposiarca dei sacerdoti di Bel. Alla fine del novembre 1929, fu scoperta un’iscrizione bilingue, incisa a una certa altezza sulla facciata orientale dei propilei del tempio di Bel, a destra della porta. Il testo palmireno misura 1,45 m x 0,27 m, con altezza dei caratteri 4,5 cm. Il testo greco è stato trascritto da Schlumberger e Seyrig.

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Le prime due righe del testo greco sono quasi completamente cancellate, mentre alle linee 3 e 4 compaiono i nomi Mezabbana e Zebeida, ben noti a Palmira; alla riga 6 è indicata la data, l’agosto del 504 dell’era seleucide

(193 d.C.). La prima riga del testo palmireno trascrive letteralmente l’espressione greca

ma senza indicarne il nome. Cantineau ipotizza, considerando la datazione espressa nella parte in greco, che si possa trattare di Pescennio Nigro, rivale di Settimio Severo e proclamato princeps

dalle legioni di Siria nel maggio del 193. Alla fine della riga 4 si trova la datazione, che non concorda con quella espressa nel testo greco. Manca purtroppo la motivazione di questa iscrizione, e verosimilmente essa dovrebbe essere in relazione con il propileo; si sa che le sei porte di bronzo dorato del tempio furono poste nel 175 d.C., ma è lecito domandarsi se l’ala destra dell’edificio sacro non sia stata realizzata o restaurata circa 18 anni più tardi.

B. - La colonnade sud. Dal colonnato sud del recinto del tempio provengono invece quattro iscrizioni onorifiche, già note prima dei lavori di sgombero: sulla settima colonna, partendo dall’angolo sud-ovest, vi era quella redatta in onore di Malikhô, detto Hasas, sull’ottava, l’iscrizione di Nese, figlio di Hale, sulla nona, quella di Aqqth, figlio di Norai, e infine, sulla ventesima, l’iscrizione di Zebida figlio di Soados. I lavori di sgombero hanno fatto emergere

altre tre iscrizioni onorifiche, e degli interessanti complementi all’iscrizione dell’ottava colonna. Iscrizione di Malikhô Hasas. Due delle tre nuove iscrizioni riguarda Malikhô, detto Hasas, già noto grazie all’epigrafe incisa sulla settima

colonna. Le nuove iscrizioni sono apposte sulle mensole delle colonne 3 e 4, mentre le colonne 5 e 6 sono andate distrutte, anche se è molto probabile che anch’esse fossero iscritte, cosicché questo personaggio sarebbe stato onorato con almeno cinque statue collocate nel portico meridionale del recinto del tempio di Bel. Le tre iscrizioni possono essere così chiamate: Colonna 3: Iscrizione dei commercianti di Babilonia. Colonna 4: Iscrizione dei Tesorieri. Colonna 7: Iscrizione della Pace, già nota, benché, da quando fu trascritta da Euting, il testo greco sia scomparso e rimanga solo la parte centrale di quello palmireno. 4° Iscrizione dei commercianti di Babilonia. La colonna su cui è apposta l’iscrizione è in situ ed è inglobata nel muro della casa di Mohammad Sa’dun, che la scoperse nel gennaio 1930. La mensola è incisa con un’iscrizione in palmireno (6 righe) e in greco (3 righe); essa misura 0,33 m x 0,47 m, con le lettere greche alte 2 cm e quelle aramaiche 2,2 cm. Traduzione del palmireno: “Nel mese di Kanum 336 (novembre 24), questa statua di Malikhô, figlio di Neshé, nipote di Bohla, detto Hasas, dei Bene Komara, gli è stata eretta da tutti i commercianti che sono nella città di Babilonia, poiché li ha favoriti in ogni modo, che ha aiutato a costruire il tempio di Bel e ha pagato di tasca propria, cosa che nessuno aveva mai fatto; è per questo che gli hanno eretto questa statua per onorarlo”. L’iscrizione fu apposta in onore di Malikhô, detto Hasas, nel novembre del 24 d.C., da parte di commercianti,

molto probabilmente palmireni essi stessi ma residenti a Babilonia, che egli favorì e aiutò finanziariamente. Questa iscrizione permette di comprendere il nome completo del personaggio, chiamato nell’iscrizione della Pace Malikhô nel testo greco e Hasas in quello palmireno. Si tratta inoltre della prima menzione a Palmira

della città di Babilonia; il testo greco è un brevissimo riassunto della parte in palmireno.

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5° Iscrizione dei tesorieri. Essa è posta sulla mensola della quarta colonna, e fu scoperta nel febbraio del 1930; si dice che la statua di Malikhô fu posta nel giugno del 25 d.C. dai tesorieri e dal popolo palmireni, perché egli “li ha favoriti, loro, la loro città e la casa dei loro dei”. L’epigrafe è bilingue e si compone di otto righe: quattro redatte in palmireno (0,45 m x 0,17 m, con lettere alte 2 cm) e quattro in greco (0,40 m x 0,13 m, lettere alte 1,8 cm). Il testo greco è ancora una volta un riassunto di quello palmireno. Traduzione del testo palmireno: “Nel mesi di Siwan dell’anno 336 (giugno 25), questa statua di Malikhô, figlio di Neshé, nipote di Bohla, (detto) Hasas, dei Bene Komara, gli è stato eretto dai tesorieri e dalla collettività dei Palmireni, poiché ha favorito loro,

la loro città e la casa dei loro dei”. Qui è elencata tutta la genealogia di Malikhô, figlio di Nese e nipote di Bolha, a sua volta soprannominato

Hasas (anche se la successione dei due genitivi greci sembra suggerire che Hasas è il padre di Bolha, mentre sappiamo dagli altri testi che si tratta di un semplice soprannome), appartenente alla tribù dei Bene Komara. L’espressione che indica i tesorieri è singolare in aramaico, benché il senso sia “la

gente del Tesoro”; i termini aramaici che traducono erano già noti dall’iscrizione L2-SobB11, proveniente dal colonnato orientale del recinto del tempio. Complementi all’iscrizione dell’ottava colonna. La mensola dell’ottava colonna del portico sud reca incisa l’iscrizione pubblicata da Euting277, che ricorda l’erezione della statua in onore del capo carovana Nese, figlio di Hale e nipote di Nese, a sua volta figlio di Repha’el e nipote di ‘Abissay, dai commercianti che avevano viaggiato con lui da Forat e da Vologesia,

nell’aprile del 142. 6°Il distacco della colonna ha fatto apparire sul bordo superiore della mensola l’inizio di una riga in greco che ripete semplicemente l’incipit dell’iscrizione già nota. Il calco dell’iscrizione ha confermato la lettura di

e in luogo di e , letture già ipotizzate da Euting. 6. bis. Sul fusto della colonna sono apparse due righe in palmireno (0,30 m x 0,10 m, con lettere alte 3 cm); la particolarità di queste linee (Nese, figlio di Hale, figlio di Nese Ahmar) consiste nella loro redazione in caratteri

corsivi e in verticale, caratteristico dell’epigrafia più tarda; è possibile che la direzione verticale derivi dalla scrittura su papiro.

277 EUTING, Epigraphische Miscellen, 1885, n°193.

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7° Iscrizione di Taimo’amed. Sulla mensola della decima colonna, l’Autore scoprì nel marzo 1930 un’iscrizione mutila in palmireno, di cui si leggono ancora due righe, ma di cui mancano le estremità; non è possibile capire se si trattasse di un testo più lungo, oppure si componesse effettivamente di sole due linee, poiché esse formano una frase di senso compiuto. Traduzione: “Questa statua è quella di Taimo’amed, figlio di Neshé, figlio di …, dei Bene (o Sm’d Sm’r)”. L’epigrafe indica che si tratta della statua di Taim’amed, figlio di Nese, figlio di …, della tribù di Bene Sm’d (o Sm’r) e non vi sono tracce di datazione. Il nome Taim’amed era già noto da Vogué, il quale riteneva che si

trattasse di un teonimo (“Thaimi ha sostenuto”); Cantineau non lo ritiene improbabile, poiché nell’arabo sono presenti sia una divinità con un nome simile, sia il nome teoforo derivato. Il nome della tribù compare invece qui per la prima volta.

C. – Le mur oriental. Il muro orientale del recinto fu edificato dagli Arabi nel XII sec. con materiali di reimpiego fra cui alcune mensole, di cui tre recanti iscrizioni. Le prime due erano poste a una grande altezza sulla facciata occidentale, sopra la casa occupata dalla Missione di Palmira, mentre la terza è inglobata nell’altra facciata del muro, all’esterno del recinto, ad altezza minore. 8° Iscrizione funeraria di Tammê.

La prima delle due mensole che si trovano sulla facciata occidentale del muro arabo non era destinata a sorreggere la statua del personaggio onorato, ma si tratta invece di un’iscrizione funeraria che ricorda Tammê, figlia di Nebûzabad, figlio di Zabdibôl Sim'ôn, morta probabilmente nel 168-169 d.C.; è menzionata anche la genealogia della madre 'Ambai, figlia de Bagrân, figlio di Malikhô.

Traduzione del testo palmireno: “Statua di Tammê, figlia di Nebûzabad, figlio di Zabdibôl Sim'ôn, che gli hanno eretto suo padre e 'Ambai, sua madre, figlia de Bagrân, figlio di Malikhô per onorarla; oimè![ Nel mese di] … n, il 18° giorno, l’anno 480

(?168-169)”. Proviene naturalmente da una tomba, ed anche il suo aspetto esteriore non è uguale a quello delle mensole che ospitano iscrizioni onorifiche: mentre il campo di queste ultime è liscio, in questo caso le modanature disegnano al centro della mensola uno spazio rettangolare, dove è incisa una parte dell’iscrizione. Sul bordo superiore della mensola è incisa una riga in greco, che sembra la fine di un testo più lungo, ora scomparso (forse sul basamento della statua); la riga è lunga 0,32 m, con lettere alte 1,4 cm. Il testo palmireno, pressappoco completo, si estende in 5 righe (0,32 m x 0,17 m, lettere alte 1,4 cm nella prima e ultima riga, per le tre righe centrali essa è 1,7 cm). I nomi citati nel testo sono già noti; è indicato come data di morte il diciottesimo giorno di un mese non indicato, ed è possibile che all’anno manchino alcune cifre dell’unità.

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Iscrizioni di Bageso e di suo padre. La seconda iscrizione della facciata interna del muro orientale e l’epigrafe di quella esterna sono entrambe a carattere onorifico, e riguardano la stessa famiglia. La prima riguarda un certo Bageso, noto già da altre iscrizioni, la seconda suo padre Habbê.

9° L’iscrizione di Habbê è la meglio conservata e consente di ricostruire più agevolmente quella di Bageso.

Essa si compone di quattro righe in palmireno, che misurano 0,36 m x 0,17 m, con lettere alte 2,4 cm. Traduzione: “Questa statua è quella di Habbê, figlio di Bageso, figlio di Zabdibol che gli hanno eretto i Bene Hasas, per onorarlo; nel mese di Iyyar 449 (maggio 128)”. l’iscrizione riporta che si tratta della statua di Habbê, figlio di Bageso, figlio di Zabdibol, che fu eretta in suo onore dai Bene Hasas, per onorarlo, nel maggio 128 d.C. Il nome Bageso era conosciuto solo da un’iscrizione

del Campo di Diocleziano, da un busto del Ny Carlsberg e da un’iscrizione bilingue mutila; la tribù era già nota soprattutto da tessere e potrebbe essere in relazione con il Malikhô Hasas ricordato nelle epigrafi precedenti.

10° L’iscrizione si trova sulla facciata esterna del muro orientale e si compone di 3 linee (0,35 m x 0,14 m, con lettere alte 2,3 cm); l’epigrafe afferma che si tratta della statua di Bageso, figlio di Habbê, nipote di Bageso, eretta in suo onore dai Bene Ha[sas].

Traduzione: “Questa statua è quella di Bageso, figlio di Habbe, figlio di Bageso, che gli hanno eretto i Bene Ha[sas per

onorar]lo; nel m[ese di dell’]anno …”.

D. – Textes de provenance inconnue. Di altre iscrizioni non è nota la provenienza esatta e benché rinvenute all’interno del tempio (ad eccezione delle n°15, 16, 17), non è certo che si trattasse della loro collocazione originaria, poiché quando fu costruito il villaggio arabo all’interno del recinto del tempio, furono trasportati materiali dai luoghi più disparati. Si analizzano prima i testi religiosi, e in seguito quelli a carattere storico. 11° Iscrizione detta dell’umbraculum.

Due frammenti d’iscrizione combaciano esattamente: quello inferiore, pressoché cancellato, fu ritrovato nel marzo 1930, mentre quello superiore, meglio conservato, emerse nel luglio dello stesso anno. L’iscrizione è incisa su di una lastra rettangolare, circondata da una cornice in rilievo; l’altezza è di 0,38 m, mentre la

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lunghezza originale è sconosciuta, poiché manca la parte destra (probabilmente di 0,45 m) e l’altezza media delle lettere è di 2 cm. L’iscrizione sembra essere composta di due parti separate da uno spazio vuoto; l’una di 6 righe, l’altra di 4. Traduzione: “Nell’anno 330 (48-49), questo umbraculum, le sue colonne, la sua trabeazione e le sue colonne, sono state realizzate da Ausai, figlio di Kohailb, da Ausai, e da X, figlio di Hairân, figlio di Ausai, dei Benê Maithâ, in onore di Bôl’astar e Sdy' (?) gli dei buoni, per la loro salute”. “ … in Iyyar, il giorno …, la casa del dio e le case …[ Bôl’]astar e Sdy', … per l’ edificio degli dei”. Essa ricorda la costruzione di un umbraculum nel 48-49 d.C. da parte di Ausai, figlio di Kohailb, da Ausai, e da un personaggio di cui non si è conservato il nome, figlio di Hairân, figlio di Ausai, dei Benê Maithâ, in onore degli dei Bôl’astar e Sdy'. Alla riga 1, la data si limita alla menzione dell’anno; la natura di questo edificio è di

difficile definizione: era destinato a fare ombra, ma ignoriamo quali fossero il suo aspetto e le sue funzioni. Il termine aramaico utilizzato sembra ricordare le capanne di rami e foglie costruite durante la Festa ebraica dei Tabernacoli. Doveva essere comunque un edificio rilevante, giacché se ne menziona il colonnato, oltre alla trabeazione e al tetto. La tribù dei Benê Maithâ è attestata da tre altre iscrizioni (Vog30, Vog32 e R1072),

tutte anteriori al 60 d.C. Il nome della prima divinità sembra essere composto in realtà dai nomi di Bôl e Astar (probabilmente il dio associato al pianeta Venere). Il nome di questo dio è piuttosto diffuso in nomi composti quali Astarkamos o ‘Atar’ateh; quello della seconda divinità, agli inizi della sesta riga, si ricava dalla nona.

Il secondo testo è estremamente mutilo; la data è formulata in maniera inusuale, con l’indicazione non solo del mese, ma anche del giorno. I nomi di divinità presenti alla riga 9 sono sconosciute. Il testo è comunque importante, poiché indica la consacrazione di un edificio sacro sconosciuto a due divinità ugualmente ignote.

Iscrizioni relative alla dea Ishtar

Lo sgombero del recinto del tempio di Bel ha restituito due iscrizioni concernenti la dea babilonese Ishtar, scoperte da Cantineau fra le macerie delle case demolite; non essendo in situ, è impossibile dire se si tratti di

due epigrafi collocate in origine nel tempio di Bel. 12° Il primo testo è inciso su di un blocco di pietra rettangolare che sembra essere stato destinato a essere posto su di un muro o fungere da base a una statua. Si tratta di quattro righe in palmireno, all’interno di una tabella ansata incisa grossolanamente (0,36 m x 0,17 m, altezza dei caratteri da 2 a 2,5 cm). Le lettere appaiono come piuttosto arcaiche e consentono di ipotizzare una datazione al I sec. d.C., ma il testo potrebbe comunque essere più antico. Traduzione: “Questa statua è quella di Lishams, figlio di Holaiphi, figlio di Etpheni, che gli hanno eretto i Bene Taimarso …, sul tuo altare, oh Ishtar, per onorarlo”. L’epigrafe accompagnava la statua di Lishams, figlio di Holaiphi e nipote di Etpheni, posta in suo onore dai Bene Taimarso, “sull’altare di Ishtar”.I nomi sono noti: un Holaiphi figlio di Etpheni è menzionato in un’iscrizione della Via Colonnata Trasversale (Vog.9), mentre i Bene Taimarso erano attestati solo da tessere (ad esempio R.1675 e R.1720). Alcune lettere alla riga 3 non sono molto chiare; Cantineau ritiene la traduzione “sul tuo altare” come probabile ma non certa in maniera assoluta. L’individuazione del nome

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della divinità è stata confermata dall’iscrizione n°13; questo testo non ha paragoni nel repertorio epigrafico siriano, giacché qui un’invocazione alla dea s’inserisce stranamente nel tradizionale formulario che accompagna le statue onorifiche.

13° Il testo è inciso su di un piccolo altare votivo, con la parte superiore ornata da merli e rosette (0,23 m x 0,10 m); si tratta di quattro righe in palmireno, con caratteri alti 1,8 cm. Traduzione: “Questo altare è stato fatto da Male, figlio di Dinai, a Ashtar – Isthar, la buona, nell’anno 445 (133-134(?)”. L’epigrafe indica che si tratta di un altare realizzato da Male, figlio di Dinai, a” Ashtar – Isthar, la buona”,

nell’anno 133-134 (?). La pietra è rotta a destra, ma le lacune possono essere facilmente integrate; alla fine della quarta riga mancano alcune cifre alle unità della datazione. Un Dinai, figlio di Male, è attestato dall’iscrizione R.355, mentre un altro, figlio di Borrepha, ricorre in ChabA33 – R1645. L’iscrizione è notevole giacché sembra assimilare la dea fenicia Astarte alla siriana Ishtar, viste in maniera sincretica come un’unica entità divina, secondo un procedimento abbastanza comune nella Palmira del II sec. d.C.

14° Altare dedicato a due defunti. Un altare studiato da Cantineau nel luglio 1930, simile a quelli di solito dedicati al dio anonimo, reca una dedica fatta a due defunti (Salmat e il fratello), definiti però “geni buoni e rimuneratori”, per la salute del dedicante, Repha’el, figlio di Bolqa e nipote di Nourbel, e dei suoi figli; essa è redatta in palmireno e si sviluppa

su cinque righe (0,30 m x 0,20 m, con caratteri alti 2 cm). L’altare si data all’agosto del 159 d.C., anche se le cifre della data alla riga 5 sono poco leggibili. Traduzione: “Buon [ricordo] a Salmat, e a suo fratello, geni[ buoni] e rimuneratori; ha fatto (questo altare) da Repha’el, figlio di [Bol]qa (?), figlio di Nourbel, per la sua salute e quella dei suoi figli; nel mese di Ab dell’anno 470 (agosto 159)”. L’interesse di questo testo risiede principalmente nell’attestazione che esso offre del culto dei morti a Palmira: anche se non sono definiti “dei” ma più semplicemente “geni”, sono comunque chiamati con gli epiteti tipici delle divinità, si dedica loro un altare e li si invoca.

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15° Altare dedicato al dio senza nome e a due fratelli santi. Dal Deposito delle Antichità di Palmira proviene un altare con dedica al “dio senza nome e ai due fratelli santi” eretto nel giugno del 161 d.C. L’epigrafe è redatta in palmireno su dodici righe (0,32 m x 0,20 m, altezza dei caratteri 2,5 cm) ed è gravemente mutila nella parte centrale. Questo testo è particolarmente importante perché associa al dio anonimo, definito “colui il cui nome è benedetto per sempre, fratelli santi”, che potrebbero essere Aglibol e Malakbel. Traduzione: “Buon ricordo a colui il cui nome è benedetto per sempre, e ai due fratelli santi. Hanno fatto […] nel mese di Siwan del 472 (giugno 161), e ha realizzato tutta la sua decorazione”. La perdita della parte centrale impedisce purtroppo di comprendere il significato dell’ultima frase, in cui il dedicante afferma di aver provveduto a “tutto il suo ornamento”: non dovrebbe trattarsi semplicemente della decorazione dell’altare, ma forse di un edificio sacro, la cui fondazione poteva essere menzionata nel testo perduto.

16° Altare dedicato al dio senza nome e al Re o ai suoi angeli. Un altare, conservato nel Deposito e di provenienza incerta, reca una dedica in palmireno a “Colui il cui nome è benedetto, e al Re”. Il testo è suddiviso in cinque righe (0,28 m x 0,205 m, con altezza dei caratteri alti 1,5 cm) e la datazione è purtroppo mancante. Traduzione: “A colui il cui nome è benedetto per sempre, e al Re (?) o ai suoi angeli … rende grazie Yad'o, figlio di Ogeilû, figlio di Yad'o, per la salute sua e dei suoi figli. Nel mese di Tisri, dell’anno …”.

Alla fine della prima riga e probabilmente all’inizio della seconda il testo è stato cancellato e reinciso, anche se alcune lettere della prima redazione sono ancora visibili. Il re quivi menzionato potrebbe essere un dio (forse Bel), oppure un sovrano palmireno, ma la lettura della seconda riga, determinante per dirimere la questione, è molto complessa e non univoca. Cantineau propone una lettura alternativa del termine, che sarebbe così traducibile con “i suoi angeli”, ma afferma trattarsi semplicemente di un’ipotesi.

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17° Iscrizione di Odenato il Vecchio. Questa iscrizione fu portata a Cantineau nel febbraio 1930 dal suo aiutante, che disse di averla trovata nei giardini. Essa misura 0,36 x 13 m, è rotta a destra, a sinistra e in basso; il testo occupa quattro linee, due ben visibili, le altre parzialmente cancellate. I caratteri, alti 2 cm, sono piuttosto schiacciati. Traduzione: “… in onore di Odenato, figlio di Hairan, figlio di Wahballâth [Nasôr, principe di] Palmira, Ogeilu, figlio di … Haddudan, ha fatto una …”.

L’epigrafe fu redatta in onore di Odenato, figlio di Hairan, figlio di Wahballâth [Nasôr, principe di] Palmira: si tratterebbe, secondo l’Autore, del bisnonno di Odenato marito di Zenobia. Odenato il Vecchio è noto già dall’iscrizione Vog.31, dove la genealogia è identica, anche se è chiamato solamente senatore romano; Cantineau ritiene che la riga 2 vada integrata con il titolo di principe di Palmira, portato anche da suo figlio Hairan.

18° Iscrizione di Germanico. Un contadino portò a Cantineau, nell’ottobre 1930, un frammento d’iscrizione rinvenuto fra le macerie della sua abitazione demolita. Si tratta dell’angolo superiore sinistro di un’iscrizione onorifica in palmireno: si scorge la fine di sette righe, di cui quattro pressoché cancellate; il frammento misura 0,29 m x 0,24 m, con caratteri alti 1,5 cm. Nella riga 1 si ricorda un personaggio anonimo, soprannominato Alessandro, che fu “inviato da Germanico”, forse come ambasciatore, presso diversi principi orientali. Il Germanico qui citato è probabilmente Germanicus Iulius Caesar, figlio di Nero Claudius Drusus e Antonia Minor, che fu inviato in

missione in Oriente nel 17-18, dove poi morì nel 19. E’ interessante notare come Palmira, già nel I sec. d.C., fosse in rapporti così stretti con Roma da consentire che uno dei suoi concittadini fosse inviato quale ambasciatore. Ci si può domandare se la lettera di Germanico a Statilio, concernente il pagamento delle imposte e menzionata dalla Tariffa, non riguardasse in modo particolare Palmira. Questo Alexandros fu inviato a Maisan (nonostante i dubbi di Levy), termine che indica l’area di Chatt al

Arab o una regione mesopotamica vicina ad Apamea; la scelta di un Palmireno si spiega facilmente considerando che anche il grande emporio di Spasinou Charax era considerato appartenente a tale regione. Il nome Orabzes sembra indicare un re della Caracene, regione mesopotamica a sud di Maisan; diverse monete caracene sembrano, infatti, recare inciso il nome Orabzes. Il “re supremo”Sampsigeram dovrebbe

essere, secondo il parere di Levy, il secondo di questo nome, che regnava ancora alla fine del regno di Agrippa I di Giudea(41-44), ma che d’altra parte poteva occupare il trono da almeno trent’anni. Egli fu infatti

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suocero del principe Aristobulo, figlio di Aristobulo e nipote di Erode (giustiziato nel 7 a.C.). Fratello minore di Agrippa (nato intorno al 10 a.C.), Aristobulo nacque probabilmente fra il 9 e il 7 a.C.; suo suocero doveva avere almeno dieci o vent’anni più di lui, e quindi la nascita di Sampsigeram II si colloca verso il 25-20 a.C.

Egli successe direttamente a Giamblico II , nominato di Emesa da Augusto nel 20 a.C., e morì probabilmente dopo il 44: è probabile che egli sia salito al trono fra la fine del regno di Augusto e l’inizio di quello di Tiberio. In ogni caso, l’iscrizione ha come terminus ante quem la missione di Germanico in Oriente

nel 17-18 d.C. Questa menzione consente non solo di precisare la data d’incoronazione di Sampsigeram II, ma anche di conoscere la titolatura dei sovrani emeseni; l’iscrizione latina CIL III 14387 conferisce ai re di Emesa il titolo di rex magnus, ma l’epigrafe palmirena precisa meglio questo termine con l’espressione

aramaica che indica un sovrano “principale, supremo, primo fra i dinasti di Siria”. Nonostante manchi la data, il frammento si data agli inizi del I sec. d.C.

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9. DUSSAUD, CUMONT 1931 R. DUSSAUD, F. CUMONT, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 12, fascicolo 2, 1931, pagg. 190-192. L’articolo riporta un breve resoconto delle indagini archeologiche compiute nel Levante. Si rende nota la pubblicazione, da parte di J. Cantineau, delle sezioni V e VI dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre, che comprende i testi relativi alla Via Colonnata trasversale e al Campo di Diocleziano. Il primo gruppo d’iscrizioni include numerose dediche al dio Shams, il che ha spinto Cantineau a supporre che la Via Colonnata trasversale conducesse proprio al santuario di questa divinità. La seconda pubblicazione, Fouilles à Palmyre, sempre a cura di Cantineau, rende noti i dati ricavati dallo scavo della tomba di A’ailami e Zebida, datata al 149 d.C. e che era già stata segnalata da Vogué. Si trattava

molto probabilmente di una tomba-tempio, con un pilastro in ciascun angolo, preceduta da un portico colonnato, forse ornato da frontone triangolare; all’interno vi è un vestibolo quadrato, alla cui sinistra vi è la scala che conduce al piano superiore e un peristilio quadrato ornato da quattro colonne. All’interno sono stati ritrovati numerosi rilievi funerari.

Le déblaiement du temple de Bel à Palmyre, pag. 191-192.

Su impulso di Seyrig, si cominciarono i lavori di sgombero del recinto del tempio di Bel, che permisero, alla fine dell’agosto 1930, di rendere visibile il naos, di cui è pubblicata una fotografia. Una seconda immagine,

scattata ugualmente alla fine dell’agosto 1930 da Seyrig, mostra l’impalcatura eretta sotto l’arco trionfale della grande Via Colonnata, per consentire il rialzo della chiave di volta che stava per crollare, minacciando la stabilità e la sopravvivenza dell’arco (figg.11-12). I lavori furono diretti da Amy.

Fig. 11. Il naos del tempio di Bel nell’agosto del 1930.

Fig. 12. Lavori all’arco monumentale.

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10. SEYRIG 1932 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 13 fascicolo 1, 1932, pagg. 50-64.

4. Monuments syriens du culte de Némésis.

L’articolo esamina alcuni aspetti del culto di Nemesi in Siria. La grande popolarità di questo culto è attestata da numerosi reperti (monete, rilievi, uno schizzo, templi e edicole, statue) rinvenuti in quindici città:

1. Antedon: monete raffiguranti la dea (Alessandro Severo) 2. Antiochia: santuario della dea eretto da Diocleziano lungo la strada di Dafne. 3. Arado: dedica di una donna alla dea (epoca indeterminata, ma quasi sicuramente romana). 4. Batanea: basso rilievo raffigurante la dea (epoca romana). 5. Cesarea Paneade: dedica di una statua e di un’edicola alla dea da parte di un sacerdote di Pan (epoca

romana). 6. Dura Europos: bassorilievo raffigurante la dea, con dedica datata al 228 d.C. 7. Gerasa: dedica di un altare, una statua e diversi altri oggetti alla dea (epoca romana). 8. Heliopolis - Baalbek: schizzo raffigurante Nemesi e Tyche (epoca romana). 9. Hierapolis – Bambicea: testo di Luciano, in cui si afferma che, secondo alcune persone, Nemesi e

Atargatis avevano caratteristiche comuni. 10. Gerusalemme: monete (Giulia Domna). 11. Neapoli di Palestina: monete (Treboniano Gallo). 12. Nicopoli di Seleucia: monete (Alessandro Severo). 13. Palmira: diversi monumenti qui pubblicati (III sec. d.C.) 14. Tolemaide: monete raffiguranti la dea (Valeriano). 15. Sebaste: monete raffiguranti la dea (Aquilia Severa).

Tutti i reperti elencati risalgono all’epoca romana, e a eccezione del testo di Luciano, tutti quelli che possono essere datati con una certa precisione (dieci in tutto), risalgono al III sec.; è a quest’epoca che le monete attestano un culto ufficiale di Nemesi (fig.13). Si può inoltre notare che l’aspetto agonistico della dea è testimoniato ad Antiochia, cui si può aggiungere forse Gerasa, dove il monumento citato è stato scoperto nelle vicinanze del teatro. Seyrig esamina in maniera approfondita solo i reperti di Palmira e Dura Europos, giacché consentono di comprendere maggiormente i motivi della diffusione di tale culto in Siria.

a. Némésis sur un bas-relief de Palmyre.

Un rilievo di provenienza palmirena, conservato ai Musées Royaux di Bruxelles, è stato spesso oggetto di

studio, ma la corretta spiegazione non è ancora stata fornita. Esso raffigurava un gruppo di divinità, di cui però solo tre sono conservate. La figura centrale rappresenta una dea, sulla cui identità sono state formulate diverse ipotesi, sia in riferimento al nome “Atena” scritto a lato della sua testa, sia in merito alla dedica incisa in greco sul basamento, di cui si è proposta la lettura: “(a Bel), a Yarhibol, ad Aglibol e a Seimia”; in realtà lo studio dell’immagine permette di giungere a conclusioni differenti. La dea è interamente vestita e velata, e regge nella sinistra un corto scettro; accanto al suo capo vi è un disco ornato di raggi, che è stato comunemente interpretato come lo scudo, tipico attributo di Atena. Si tratterebbe dunque di un’immagine di Allath, la divinità guerriera degli Arabi, che le iscrizioni greche assimilano ad Atena. In realtà è stato trascurato il gesto che la dea compie con la destra: ella si scosta la parte superiore dell’abito, per sputare sul proprio petto; si tratta del gesto tipico di Nemesi, benché l’artista sia stato poco abile nel rendere in scorcio un movimento più facile da realizzare con il volto di profilo, piuttosto che frontale. Una volta riconosciuto questo gesto, i due altri attributi possono essere facilmente spiegati: lo scettro è, secondo Seyrig, un cubito, attributo di Nemesi, dea che invita a non oltrepassare il giusto mezzo, mentre lo scudo va interpretato come la ruota, simbolo della mutevolezza e dell’incertezza del destino. E’ tuttavia difficile stabilire in quali rapporti sia Nemesi con il nome di Atena o di Seimia; la restituzione del teonimo è alquanto incerta, e, se si vuole mantenerla, questo nome va attribuito a una divinità oggi scomparsa dal rilievo. Per quanto riguarda il nome di Atena, scolpito al dativo accanto alla testa della divinità, come lo è quello di Keraunos al dio suo vicino, non è certo che sia contemporaneo alla dedica incisa sul basamento, che poteva menzionare non tutti gli dei, ma rivolgersi solo alla triade composta da Bel, Yarhibol e Aglibol. Osservando le fotografie che rappresentano il rilievo, Seyrig ritiene che il nome di Keraunos sia stato inciso dopo la

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rottura dell’angolo superiore destro della pietra e che le identificazioni con Keraunos e Atena siano dovute a

un esegeta tardo. Inoltre, una dedica al dativo non è necessariamente destinata a identificare le immagini delle divinità cui essa si rivolge. L’Autore tuttavia non esclude che anche ad Allath potessero essere attribuiti tratti nemesiaci. In un ambiente con forte influenze arabe, quale Palmira, Allath e Atena potevano esse considerate come una sola divinità. Secondo la testimonianza di Luciano, a Bambicea la dea Atargatis era da alcuni considerata simile a Nemesi; si tratta di una speculazione teologica, ma probabilmente la stessa cosa poteva verificarsi anche a Palmira, nonostante manchino prove certe a sostegno di questa ipotesi.

b. La Némésis de Doura. A Dura gli scavi dell’Università di Yale hanno rinvenuto la dedica, posta nel 228, da un palmireno, Malochas,

alla dea, che compare accanto al fedele, intento a bruciare incenso; la figura di Nemesi è molto simile a quella del rilievo palmireno: ciò si spiega non solo con la nazionalità di Malochas, ma anche con gli stretti rapporti

che univano le due città. Il testo non fornisce le motivazioni per cui la dedica fu posta, ma è presente un dettaglio molto significativo: nel rilievo, fra il donatore e la dea, compare anche un busto del Sole con corazza e paludamentum, e con il capo cinto di un nimbo radiato; si tratta della tipica raffigurazione di Yarhibol che appare su molti ex voto

palmireni. Cumont ha ipotizzato che la dedica di Dura si rivolgesse a Nemesi vendicatrice, giacché a quest’ultima è associato il Sole, spesso invocato come vendicatore dei crimini. La spiegazione in sé è plausibile: in un epitaffio alessandrino, una defunta leva le mani verso il Sole e Nemesi per chiedere vendetta contro l’assassino che l’ha uccisa; Seyrig, tuttavia, propone un’altra ipotesi. Nemesi e il Sole compaiono qui probabilmente sotto un aspetto più comune, poiché il culto di Nemesi, nel III sec., si era ampiamente diffuso, ma l’aspetto originario della dea vendicatrice era diventato pressoché sporadico, e non basta da solo a spiegare l’associazione fra la dea e il Sole. Nei primi anni dell’impero, Nemesi è considerata non più come vendicatrice, ma come dea della misura e del giusto mezzo, il che portò a identificarla con le più popolari e note immagini della Vittoria (in quanto, nell’ottica del vincitore, espressione della giustizia) e della Fortuna (l’opportunità di cambiamento ed anche di rivincita che essa può offrire col mutare delle sorti). L’identificazione fra Nemesi e la Fortuna segna certamente la tappa più importante della storia di questa dea, e contribuì a una diffusione del suo culto prima mai vista. Ciò si verificò in un momento in cui la Fortuna stessa riceveva un posto eminente all’interno di un sistema teologico generalmente ammesso, che non lasciava al caso nessun movimento dell’universo, e che riconosceva nel Destino, nella Fortuna, la volontà di una divinità superiore, come essa appariva nel cammino degli astri. Testi che provengono da tutto l’impero chiamano Nemesi “regina del mondo”, “Urania”, “Arbitro dell’Universo”, “signora del globo celeste”. Nei monumenti figurati Nemesi compare spesso fiancheggiata dal Sole e dalla Luna, che di solito accompagnano le divinità supreme o le loro dirette ipostasi; Ammiano Marcellino la definisce “sovrana signora delle cause, arbitro e moderatrice degli eventi”, che “ mescola i destini nell’urna”.278 Per queste ragioni Nemesi è stata assimilata a divinità femminili supreme come Giunone, Hera o Iside; la dea è di frequente annoverata fra le divinità poliadi: nel I sec., Dione Crisostomo, che considera Nemesi come un aspetto della Fortuna, ne consiglia il culto, con altre divinità, alla città di Nicea, ed anche la numismatica delle province mostra come tale concezione fosse molto diffusa in Oriente279. Ritornando ai monumenti siriani, ci si può dunque spiegare perché Nemesi sia stata paragonata a grandi divinità universali quali Atargatis e forse Allath, nonché alle divinità poliadi come la Fortuna o a Gad, la divinità in cui ogni città siriana vedeva la personificazione del proprio destino. A Baalbek Nemesi e Fortuna sono raffigurate insieme, e il bassorilievo in esame è stato rinvenuto a poca distanza dal piccolo santuario che la guarnigione aveva dedicato alla Fortuna di Dura, nella porta principale della cinta fortificata. L’aspetto cosmico di Nemesi era generalmente molto conosciuto in Siria, e probabilmente a tale aspetto si riferisce la dedica di Malochas.

Ciò permette di spiegare anche la presenza del Sole nel rilievo di Dura; la cosmogonia in cui Nemesi Urania era pensata come un arbitro universale, considerava il Sole come corifeo degli astri, colui la cui azione fisica

278

AMMIAN. MARCEL., 14, 25. 279 DIO CHRYSOST., Orat., 64, pag. 330 R.

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determinava i loro movimenti; essendo Nemesi l’espressione del destino che regola tali movimenti, è naturale che ella fosse associata al Sole. I monumenti che vi fanno allusione sono rari, ma non mancano, e si possono citare uno o due paralleli alla stele di Dura. Si possono ricordare innanzitutto due testi: Macrobio, nel IV sec., tentava di ricondurre tutti gli dei pagani a ipostasi solari, e si domandava se Nemesi, che “ è ritenuta la nemica dell’orgoglio, fosse altro se non la potenza del Sole, la cui natura è di confondere gli oggetti brillanti e di sottrarli agli sguardi, e di illuminare ciò che è al buio e di renderlo visibile”280. Ciò dimostra che Macrobio riteneva Nemesi un’ipostasi solare, e un aspetto della sua attività. Inoltre, il papiro magico di Leyda, contemporaneo a Macrobio, contiene una preghiera indirizzata, insieme ad un sacrificio, a tre soli mistici: “tre soli […] che sorgete ogni giorno da uno stesso ventre e da una stessa cavità, maestri fatali di tutti i viventi e di tutti i morti, voi a cui gli dei e gli uomini affidano le loro numerose miserie, o voi che rendete le cose visibili invisibili, o governatori delle Nemesi, che si pongono sempre al vostro fianco, o voi che fate apparire la Moira, la cui cavalcata circonda tutte le cose, o voi che abbassate coloro che dominano, o voi che elevate coloro che sono umiliati, o voi che rendete visibili le cose invisibili, o voi, ancora una volta, governatori delle Nemesi che si trovano sempre al vostro fianco […], accorrete favorevoli281”. Qui Nemesi è nominata al plurale, probabilmente a somiglianza dei tre soli; potrebbe trattarsi di un culto simile a quello praticato a Smirne, come doveva avvenire anche ad Alessandria. Tuttavia emerge anche un legame di subordinazione fra Nemesi e il Sole: ella si trova al suo fianco come messaggera, e se agisce lo fa su mandato di quest’ultimo, di cui esprime la potenza. Benché il papiro non proponga alcuna spiegazione filosofica, come invece tenta di fare Macrobio, il rapporto fra i due testi è chiaro, e si distingue fino nella scelta di espressioni comuni. Questi due testi sono molto posteriori alla stele di Dura, ma non lo sono alcuni monumenti figurati che riflettono un’analoga concezione. Il nomos di Eracleopoli in Egitto coniò alcune monete sotto i primi Antonini, dove il dio locale compare come Eracle recante in mano un grifone con la ruota. Si è spesso ritenuto che il grifone con la ruota non rappresenti, in queste monete, necessariamente Nemesi, poiché i rapporti di Eracle con questa dea sono difficilmente spiegabili. Bisogna tuttavia ricordare che il nome della città, legato in apparenza a Eracle, in realtà originariamente derivava dal culto locale di Horus Arpocrate, una divinità solare che si presta meglio dell’eroe greco ad avere un legame con Nemesi in tale contesto. Numerose monete alessandrine coniate sotto Traiano, Adriano e Antonino Pio, così come molti rilievi in pietra e terracotta, che risalgono probabilmente allo stesso periodo, raffigurano il grifone sulla groppa di una sfinge, oppure fondono i due esseri mitologici insieme. Tale sfinge, oltre che il tradizionale corpo leonino e il volto umano, presenta una coda a forma di ureo, un grifone con ruota uscente dal dorso, un nimbo radiato e una testa di coccodrillo che fuoriesce dal petto: il nimbo e l’ureo sono un simbolo solare, mentre sin dal Medio Regno è frequente un’identificazione fra Sobek e Ra. Il serpente raffigurato sotto le zampe della sfinge può essere interpretato come simbolo del corso sinuoso del sole, secondo l’ipotesi già formulata da Delatte per spiegare la valenza simbolica astrale del rettile; il serpente sotto la sfinge è quindi una sorta di strada, di cui essa si serve per compiere il suo corso, poiché immagine del Sole medesimo. Sul dorso della sfinge eliaca o sulla mano di Arpocrate, il grifone con la ruota è attributo del Sole; tuttavia, il grifone non compare solitamente come attributo di Helios, ma si riferisce invece a Nemesi, per cui è plausibile che anche in questo caso la dea appaia sotto la stessa luce in cui la mostrano i papiri di Leyda e il testo di Macrobio: una manifestazione, un aspetto del sole, come Sobek o il serpente. Queste testimonianze, nonostante le loro origini egiziane, rispecchiano le speculazioni che erano elaborate sotto l’Impero nel bacino del Mediterraneo orientale, e mostrano come Nemesi fosse spesso associata al Sole da uno stretto legame di dipendenza, che talvolta la riduceva al rango di semplice ipostasi. Queste conclusioni si accordano con quanto sappiamo del Sole e di Nemesi Urania considerati quali grandi divinità cosmiche, e spiega perfettamente la loro associazione sulla stele di Dura. Alcune monete di Aureliano, coniate a Roma con la legenda di Concordia Aug. o Concordia Militum,

raffigurano l’alleanza fra l’imperatore e la Concordia: si tratta della Concordia militare, necessaria fra le varie

280

MACROB., Saturnal., 1.22.1. 281 Papyr. Magic. Lugdun. Batav., EITREM, Egyptus, 6, 1925, pag. 117 ss., col. VII, I, 7s.

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componenti dell’esercito per conservare l’unità del potere imperiale. Nelle monete compare l’imperatore nell’atto di stringere le mani alla Concordia, mentre un busto del Sole li sovrasta, come nella stele di Dura. Il Sol Invictus, il cui culto fu imposto da Aureliano all’esercito e all’impero, compare spesso su monete di questo imperatore insieme con le personificazioni di alcune qualità, come Fides, Virtus o anche Mars Victor, che simboleggia la forza vittoriosa dell’esercito. In ogni caso, queste monete fanno comprendere come queste qualità siano considerate come doni del Sole. E’ sempre la legenda Virtus Aug. che accompagna l’immagine di Ercole che riceve il globo dal Sole, così come Mars Invictus. Nelle monete con legenda Providentia Deorum, l’astro accompagna la personificazione di Fides, cioè la lealtà dell’esercito, che sorregge due insegne militari. Questo gruppo di reperti, dove il ruolo del Sole è manifesto, permettono di spiegare ugualmente le monete dove esso accompagna la Concordia come semplice busto. Concordia, Virtus, Fides sono tutti doni che

l’imperatore si aspetta dal nuovo culto solare; è al Sole, in ultima analisi, che egli s’indirizza. Seyrig ritiene che il rilievo di Dura si spieghi nello stesso modo delle monete di Aureliano, e che Nemesi sia la personificazione del destino astrale che determina l’azione del Sole e che sia considerata come emanazione di quest’astro. Malochas, aggiungendo un busto di Helios all’immagine di Nemesi, ha voluto probabilmente sottolineare che considerava la dea come non distinta dalla potenza del Sole, e che il suo ex voto, lungi

dall’essere rivolto a una protettrice occasionale, porta il riflesso di tutta la sua cosmogonia.

Fig. 13. Rilievi e impronte di sigilli con l’immagine di Nemesi.

c. Tessères palmyréniennes à types némésiaques.

1. Il Museo di Damasco conserva una tessera, in cui, sulla faccia a, all’interno di un’impronta ovale, vi è un busto radiato femminile su crescente, accompagnato a destra da una Vittoria con kalathos, che

corre verso sinistra e posa la mano destra su di una ruota. Sulla faccia b, vi è un busto visto frontalmente, con tiara cilindrica sul capo, fiancheggiato da due astri. Sotto vi è un’iscrizione in palmireno, pubblicata da Cantineau, con il nome di un privato (Moqimo.). La prima faccia era già

nota grazie alla pubblicazione fatta da Spoer e ripresa da Lidzbarski e Clermont – Ganneau. La descrizione del soggetto è inesatta, ma la loro precisa riproduzione consente di stabilire l’identità delle due impronte; solo il verso è differente, in cui compare un personaggio sdraiato, con tiara cilindrica, che banchetta sotto una vite. Un’iscrizione riporta il nome di un privato, di nome Baida. La Vittoria con la ruota raffigura probabilmente Nemesi- Nike, mentre il busto è probabilmente Selene.

2. Cantineau ha pubblicato un’altra tessera del museo di Damasco, che rappresenta sul lato a un grifone con una zampa su di una ruota, accompagnato da un crescente lunare, con iscrizione Malko Hagagu. Si tratta del grifone di Nemesi, associato al nome di un privato. Seyrig ipotizza l’uso della

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tessera per un banchetto funebre, poiché spesso l’animale è considerato un protettore delle tombe e scolpito su sarcofagi.

3. Una terza tessera fa parte della collezione della signora d’Andurain. Si tratta di un “petit pain de terre” (una cretula?) con una sola impronta, recante l’immagine di un grifone femmina a destra, con la zampa su di una ruota, con sopra, un astro.

Due tessere associano Nemesi alla luna e si potrebbe pensare a un rapporto fra le due divinità; Ammiano Marcellino ricorda come Nemesi fosse preposta al cerchio della luna, vale a dire governasse il più basso dei sette cerchi dei pianeti282. E’ necessario tuttavia essere prudenti: il carattere cosmico di una divinità era spesso espresso dall’aggiunta di un crescente lunare e di un astro che simboleggia il Sole, ma a volte ci si limitava a un solo simbolo astrale, di preferenza la Luna. In alcune monete di Arado, il crescente lunare e la stella si alternano, mentre le emissioni di Zeugma raffiguranti Zeus nel suo tempio pongono un crescente sull’edificio sacro; a Hierapolis - Bambicea il toro simbolo di Hadad è accompagnato dalla Luna. Le monete di

Emesa pongono un crescente sulla sommità del tempio della pietra nera, che non aveva nulla di lunare, e lo stesso simbolo compare sul rilievo di Trittolemo ritrovato a Biblo da Renan. Per questo è necessario non attribuire eccessivi significati al crescente che compare su due tessere, e che ha probabilmente la stessa valenza dell’astro che compare sulla terza; si può tuttavia affermare che la prima e la seconda tessera conferiscono a Nemesi il carattere cosmico attribuitole da altri reperti. Per quanto concerne la tessera n°1, non vi sono probabilmente ragioni particolari per spiegare l’unione delle due divinità, se non forse la devozione di un privato, che poteva associare divinità di solito senza legami apparenti.

282 AMMIAN. MARCELLIN., 14,11, 25.

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11. SEYRIG 1932 B H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 13 fascicolo 2, 1932, pagg. 189-195.

6. Hiérarchie des divinités de Palmyre, pagg. 190-195.

Seyrig esamina i rapporti gerarchici della triade palmirena composta da Bel, Aglibol e Yarhibol, partendo dalle cinque rappresentazioni figurate allora note: due rilievi di Palmira (figg.14-15), una moneta, una tessera e l’affresco del tempio degli Dei Palmireni a Dura. In tutti gli esempi citati, Bel occupa la posizione centrale, Yarhibol è alla sua destra e Aglibol alla sinistra: tale sequenza si mantiene anche nel citare i nomi degli dei nelle epigrafi; qualora Bel non compaia, Yarhibol precede comunque Aglibol e tale precedenza si evince anche dall’inventario del tempio di Dura, dove il tesoro del dio solare precede quello della divinità lunare. Seguendo questa gerarchia, in un rilievo mutilo conservato a Bruxelles (di cui manca l’immagine nel testo on line, fig. 14), la seconda figura sulla sinistra (della prima è rimasto solamente un piede), identificata con Yarhibol, raffigurerebbe invece Aglibol: tale identificazione è confermata anche dalla presenza di un piccolo crescente lunare, benché qui la testa del dio sia coronata da un nimbo radiato (come è abbastanza frequente a Palmira, del resto). Questa lettura dell’immagine pare confermata dalla dedica, che elenca le tre divinità nell’ordine consueto.

Fig. 14. Dettaglio di un bassorilievo conservato al Museo di Bruxelles: Aglibol con nimbo radiato e crescente lunare (immagine mancante nella versione on line).

Fig. 15. Bassorilievo raffigurante quattro divinità palmirene.

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Un altare presenta una dedica in lingua palmirena ad Aglibol, Malakhbel e a “Colui che è buono, misericordioso e propizio”, che Seyrig identifica con Baalshamin. Dato che Malakhbel può essere ritenuto un dio solare, è possibile che vi sia qui un’altra triade, ma nell’epigrafe Aglibol precede il dio solare. Tale ordine si presenta anche in numerose lucerne, tessere e iscrizioni, come quella incisa da un Palmireno su di un altare conservato a Roma, nel 236 d.C. Seyrig, riprendendo l’ipotesi di Dussaud, ritiene che la differente gerarchia di queste divinità possa essere legata agli usi religiosi di gruppi etnici o tribù differenti, che consideravano la posizione del sole e della luna in maniera diversa, e che avevano gli uni Bel come dio supremo, gli altri Baalshamin. In base a questa testimonianza, lo studioso ritiene possibile fornire un’altra interpretazione dell’affresco di Dura, che raffigura il sacrificio offerto a tre divinità da una coorte romana e dal suo tribuno. I tre dei sono posti su piccole basi circolari e sono stati tradizionalmente identificati come appartenenti alla triade di Bel. Un esame più attento della fotografia di questo affresco consente però di dare una lettura diversa: la presenza di un crescente lunare sulle spalle del dio a destra del personaggio centrale suggerisce una divinità lunare e non solare; inoltre il dio centrale non porta le anassiridi, come tipico di Bel. E’ vero che potrebbe trattarsi di un errore del pittore, ma la stessa triade appare raffigurata correttamente all’interno del medesimo tempio; inoltre il terzo dio è rappresentato con lo stesso abbigliamento militare, elmo e scudo, su alcuni rilievi, in compagnia di Yarhibol. Si tratterebbe dunque della raffigurazione dell’altra triade, composta da Baalshamin, Malakhbel e Aglibol, poiché non conosciamo né testi né raffigurazioni che contemplino la presenza di entrambi gli dei solari Yarhibol e Malakhbel.

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12. INGHOLT 1932 H. INGHOLT, Deux inscriptions bilingues de Palmyre, in Syria, tomo 13 fascicolo 3, 1932, pagg. 278-292. Ingholt pubblica due iscrizioni bilingui in greco e palmireno emerse durante la campagna archeologica del 1928 condotta grazie ad un finanziamento della Fondazione danese di Rask-Oersted e in collaborazione con il Service des Antiquités du Haut - Commissariat Français di Beirut. Fra le iscrizioni scoperte, le più interessanti sono due dediche in greco e palmireno. La prima fu casualmente scoperta dall’Autore mentre esaminava le pietre reimpiegate nelle fortificazioni bizantine situate dietro il tempio di Bel, alla ricerca del bassorilievo raffigurante l’argapeta Vorod nell’atto di compiere un sacrificio, scoperto nel 1925. Egli notò su di un fusto di colonna alcune righe redatte in greco e, dopo averlo fatta estrarre, emerse un testo bilingue composto di sedici righe in greco e sei in palmireno. Il frammento di colonna misura 92 cm, con un diametro di 75 cm, con i caratteri alti, in entrambi gli alfabeti, 2,5 cm. La parte iniziale del testo greco è mutila: è possibile che manchino due o tre righe, ma il resto è ben conservato e perfettamente leggibile; la parte in palmireno, benché più breve, completa le informazioni che mancano nel testo greco (fig.16).

Fig. 16. Apografo dell’iscrizione di Aelius Bora.

La dedica si data al 25 febbraio del 509 dell’era seleucide (198 d.C.) e ricorda l’erezione di una statua in onore di Aelius Bôrâ, figlio di Titus Aelius’Ogeilou (il nome compare nella parte in palmireno), dalla tribù dei Chonites; era una delle quattro statue che ciascuna delle quattro tribù cittadine aveva dedicato ad Aelius. Il nome Bôrâ ricorre qui per la prima volta nell’onomastica palmirena, così come la carica da lui ricoperta,

; tale termine si ritrova solo a Smirne in un’iscrizione greca estremamente mutila, che purtroppo non da indicazioni sulle caratteristiche di questa magistratura283.

Il semplice titolo di , a Palmira, equivale al termine greco e a quello latino duumvir, poiché il potere esecutivo era affidato a due arconti o strateghi, eletti ogni anno; la carica rivestita più volte da Aelius

era invece differente: “stratega per la pace”. Forse equivale alla carica di irenarca, diffusa in Egitto e Asia Minore in epoca romana: si trattava di una specie di capo della polizia di una città o una regione, il cui compito consisteva nell’arrestare i criminali con l’aiuto di poliziotti o soldati, interrogarli e consegnarli alla giustizia cittadina, che, tenendo conto di questo primo interrogatorio, conduceva un’inchiesta indipendente e poi giudicava gli imputati. L’irenarca non era quindi che un ufficiale di polizia, privo di poteri militari, eletto dal governatore della provincia ogni anno fra dieci candidati proposti dalla città. Tuttavia, anche se Aelius sembra essere stato eletto in questo modo, l’identificazione fra le due cariche non

appare probabile: sarebbe stato più semplice usare il termine irenarca rispetto alla perifrasi “stratega della pace”; inoltre il testo in palmireno suggerisce una funzione più militare che di polizia, perché si dice che egli

283 CIG, 3151, ora all’ Ashmolean Museum di Oxford.

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“ristabilì la pace nei confini della città”. E’ difficile pensare che egli sia stato onorato dalla cittadinanza e da quattro tribù per aver svolto un incarico cittadino subordinato nel corso di un solo anno; probabilmente Aelius era responsabile della difesa delle carovane dagli attacchi dei nomadi che vivevano sia nelle aree

desertiche vicine alla città sia ai confini del territorio di Palmira, a seconda che il termine “città” sia impiegato con un significato più o meno allargato. Ingholt ritiene più probabile che qui si voglia indicare come Aelius avesse l’incarico di vigilare sulle carovane che si muovevano ai confini dello stato di Palmira: si

tratta di un incarico estremamente importante, perché dalla sicurezza del commercio carovaniero dipendevano la prosperità e il benessere dei Palmireni. A differenza dell’irenarca, egli deve essere stato eletto per un certo numero di anni, e aver avuto ai suoi ordini numerosi arcieri palmireni, gli unici in grado di combattere efficacemente i predoni nomadi. L’iscrizione ricorda che la nomina di Aelius fu fatta dai governatori Manilius Fuscus e Venidius Rufus, che

sono designati con il termine corrispondente al latino consularis, e abbreviazione di

governatore consolare). In origine, indicava unicamente i governatori di rango consolare, per distinguerli da quelli di rango pretorio, ma in seguito fu applicato a tutti governatori, indipendentemente dal fatto che avessero rivestito la carica di console o meno. Dal 27 d.C., la Siria divenne provincia imperiale, e come tale affidata a un governatore di rango consolare, ma sotto Settimio Severo, probabilmente dal 194, essa fu divisa in Syria Coele (a nord) e Syria Phoenice (a sud): Palmira apparteneva al territorio di quest’ultima. La Syria Coele continuò a essere amministrata da un

governatore di rango consolare che aveva ai suoi ordini due legioni, mentre l’altra regione ebbe un governatore di rango pretorio, cui era affidata una sola legione. Poiché l’iscrizione in esame risale al 198, Ingholt ritenne in un primo momento che i due potessero essere uno il governatore della Syria Coele, l’altro quello della Syria Phoenice; essi sarebbero stati definiti entrambi

, nonostante le differenze di rango, e Manilio Fusco, citato per primo, avrebbe amministrato la Syria Coele, mentre la Phoenice sarebbe stata assegnata a Venidio Rufo. Tuttavia lo studioso mutò opinione in seguito alla scoperta in Siria di alcune iscrizioni latine riguardanti la carriera di Manilio. Sappiamo che egli nel 191 era in Dacia quale legatus Augusti, e che assunse tale incarico

dopo il consolato; in seguito, egli fu probabilmente inviato in Siria. Su alcune pietre miliari romane scoperte nel 1927 da Dunand nel Ledjà, lungo la via da Mismiyé ad Ahiré, si legge il nome di Manilio quale governatore della Syria Phoenice. Sulla pietra miliare VIII il nome appare completo, e così doveva essere anche sulle pietre IV, VII, XI e XIII. Egli divenne legatus nell’anno della

quarta acclamazione di Settimio, vale a dire nel novembre 194; la data è confermata dalla menzione del secondo consolato dell’imperatore, rivestito sempre nel 194, dalla presenza del titolo pater patriae e dall’assenza del cognomen Pius, che ricevette solo durante la quinta acclamazione, nel 195. Si può quindi affermare che la nomina di Manilio Fusco a governatore della Syria Phoenice risalga alla fine del 194 o al principio del 195: si tratta del primo governatore di tale provincia a noi noto. La presenza di Venidio Rufo può spiegarsi in questo modo: Aelius fu nominato in principio da Manilio

Fusco, e poi riconfermato nella carica di da Venidio, che successe al precedente governatore prima del 198. Probabilmente nel 215 Manilio fu nominato magister XVvirum sacris faciundis, e proprio poiché egli ricoprì tale carica la sua sposa poté occupare, durante i Ludi Saeculares del 204, il posto

d’onore fra le matrone romane in occasione del sacrificio a Giunone Regina. Ingholt esclude che debba essere identificato con il Manilio che fu console nel 225284. Venidio Rufo compare in due pietre miliari sulla strada fra Palmira e Hama, datate al 198, nonché da numerose altre pietre miliari trovate nei dintorni di Sidone. Nel 204 fu nominato curator alvei Tiberis, carica

rivestita dopo il consolato, che si svolse dunque probabilmente fra il 198 e il 204: nel 205 divenne governatore della Germania Inferior, provincia consolare.

Si era creduto di leggere il nome di questo personaggio su di un miliario scoperto da Ronzevalle a Kerak – Nouh, presso Zahlé, nel territorio della Syria Phoenice, e pubblicata da Jalabert e Mouterde. Questa iscrizione

risale alla fine del 194 o agli inizi del 195 come quelle delle pietre miliari scoperte da Dunaud, ma l’identificazione fra il […]nidium [.]u[fum] dell’epigrafe di Kerak – Nouh e il Venidius Rufus di Palmira non sembra possibile. Il titolo leg. Aug. pr. pr. ricorre anche nelle due pietre miliari della strada fra Palmira e Hama risalenti al 198, mentre in quella di Saida, datata allo stesso anno, porta il titolo di augg. pr. pr. praeses provinciae Syriae Phoenic(es). Questa differenza di titolature aveva indotto Jalabert e Mouterde a credere che

Venidio Rufo avesse governato la Siria non ancora divisa nel 194, mentre dopo il 198 gli sarebbe stata

284 Prosopographia Imperii Romani, II, pag. 328.

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affidata la Phoenice. Questa ipotesi fu criticata da diversi altri studiosi, tanto che in seguito lo stesso

Mouterde abbandonò l’ipotesi di una divisione fra le due Sirie nel 198, ritenendo invece Venidio prima governatore della Siria intera nel 194 (forse ad interim o eccezionalmente, giacché non era consularis), per poi sostituire Manilio Fusco nell’amministrazione della Syria Phoenice. Dunand segue Mouterde considerando le circostanze eccezionali in cui si trovava Roma in Oriente, cosicché Venidio sarebbe stato scelto come governatore della Siria ancora unita in attesa dell’arrivo del legatus incaricato di amministrare la nuova provincia di Syria Phoenice. Sembra tuttavia difficile pensare che a un

funzionario di rango pretorio siano state affidate, anche se provvisoriamente, la provincia più importante dell’impero e tre legioni, per poi governare, alcuni anni dopo, la più piccola delle due province, cui era assegnata una sola legione. Hasebroek, per risolvere questa difficoltà, ha suggerito di leggere VIII al posto di III o IIII per indicare il numero della salutatio imperiale nell’iscrizione di Kerak – Nouh; Venidio sarebbe dunque stato solamente governatore della Syria Phoenice dal 196. Tuttavia, si tratta di un’ipotesi difficile da sostenere, in quanto, sia la copia del testo sia quella del calco mostrano III e IIII come le uniche alternative possibili. Inoltre le lettere superstiti possono ugualmente adattarsi al nome di Manilio, con l’unica eccezione della D, che andrebbe letta invece come una L; gli editori dell’epigrafe hanno però sostenuto che tale lettera non compare nella copia, poiché non è leggibile nel calco. Considerando però le difficoltà che una carriera così eccezionale come quella di Venidio comporterebbe, è più opportuno leggere l al posto di d, e considerare che l’iscrizione di Kerak – Nouh riguardi Manilio Fusco e non Venidio Rufo, quale governatore della Syria Phoenice. Alle righe 5-6 vi è la più antica menzione della carica di strategos a Palmira. Si dice che Aelius ricevette testimonianza del proprio coraggio e virtù dal dio Yarhibol: una testimonianza simile è ricordata anche in un’iscrizione bilingue di Palmira datata al 242-243. Il testo afferma che Julius Aurelius Zabdilah la ricevette da Yarhibol e Julius[ Priscus], prefetto del pretorio; è molto probabile che in

entrambi i casi tale “testimonianza” sia stata ottenuta tramite un oracolo.

Nel caso di Aelius, alla testimonianza del dio si associa quello degli e della città stessa. Questo termine è di solito tradotto con “generale” o “prefetto”, ma in questo contesto è più plausibile che indichi un

“governatore”. ricorre anche nell’epigrafe di Julius Aurelius Zabdilah, che fu stratega durante il

regno dell’imperatore Alessandro, e che aiutò l’Rutilio Crispino durante il suo soggiorno a Palmira. Harrer si è chiesto se Rutilio fosse generale straordinario durante la guerra di Alessandro Severo contro i Parti (231-233), o governatore della Syria Phoenice.

A sostegno della traduzione “governatore” va anche la parte in palmireno del testo, dove il corrispondente

termine aramaico è reso dalla traslitterazione di titolo di solito conferito al governatore. La prova più decisiva arriva però da un’iscrizione latina trovata negli scavi del foro di Traiano a Roma e pubblicata da

Paribeni. Dobias vi ha riconosciuto il nome di Rutilius Crispinus, l’del testo di Julius Aurelius Zabdilah: dopo essere stato governatore in Tracia (carica ricoperta durante gli ultimi anni di regno di Elagabalo e i primi di Alessandro Severo), fu nominato [lega(tus)] Aug(usti) pr(o) pr(aetore) [provinciae] Syriae Phoenic[es]. Egli fu dunque governatore della Syria Phoenice sotto Alessandro Severo, e poiché è definito

a Palmira durante il regno dello stesso imperatore nell’iscrizione di Julius Aurelius Zabdilah, tale

termine doveva equivalere a quello di governatore. Nell’epigrafe di Aelius questa parola poteva riferirsi a Manilio Fusco e Venidio Rufo. Un’ulteriore conferma della correttezza di tale traduzione proviene da un’epigrafe scoperta da Poidebard fra Palmira e l’Eufrate, in cui un grande protettore di carovane ha ricevuto “testimonianze” degli imperatori Marco Aurelio ed

Antonino Pio, oltre a numerosi consularesil testo presenta una stretta somiglianza con l’epigrafe di Aelius. Molto interessante è anche la menzione che il testo fa delle “quattro tribù di Palmira”; è la prima volta che si cita l’associazione di tali tribù, anche se numerosi testi menzionano l’una o l’altra. Può darsi che le quattro tribù costituissero una sorta di aristocrazia cittadina e sappiamo che ciascuna disponeva di un proprio tempio. La tribù che eresse la statua che accompagnava l’iscrizione era quella dei Chonites o, come dice il testo aramaico, dei Komareni. Quest’ultimo nome ricorre in numerose iscrizioni cittadine, redatte sia in aramaico sia in greco, mentre il termine Chonites è usato qui per la prima volta, anche se ricorre in un’iscrizione greca, scoperta lo stesso giorno, in onore di un certo Thomallachis, che offrì 2520 denari per

costruire terme nel tempio di Aglibol e Malakbel e cui i membri della tribù eressero una statua. L’uso di erigere più statue al medesimo personaggio sembra essere stato piuttosto comune a Palmira, ed è attestato anche nella dedica a Thomallachis.

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La seconda epigrafe bilingue fu scoperta nell’autunno del 1928, durante i lavori di sgombero eseguiti secondo il piano stabilito dall’architetto Gabriel, direttore della Missione archeologica a Palmira. Essa è incisa sulla faccia anteriore di uno zoccolo, misurante 2,57 m x 0,45 cm, posta originariamente all’esterno del muro settentrionale della cosiddetta Agorà: la parte in palmireno è costituita da otto righe sulla parte destra, mentre a sinistra sono incise le sette righe in greco; nonostante occupi uno spazio minore, è in realtà più lunga della parte in palmireno, poiché vi è un maggior numero di parole per riga. La datazione manca nella parte greca, ma si evince da quella in palmireno: il gennaio del 199 d.C.; il testo palmireno ricalca essenzialmente le notizie riportate da quello greco (fig.17). L’iscrizione fu dedicata dalle quattro tribù a Ogélos, figlio di Makkaios e nipote di Ogélos, figlio di Agégos e nipote di Séviras, che difese le carovane dagli

attacchi dei nomadi ogni qual volta fu capo carovana, aiutò i commercianti palmireni con il proprio denaro e rese illustre e gloriosa la città. Il nome del bisnonno di Ogélos manca nel testo palmireno ed è la trascrizione di un nome semitico; poiché egli visse probabilmente intorno al 110 d.C., il suo nome non ha alcuna relazione con il latino Severus. Le frasi utilizzate alle righe 4-5 ricordano da vicino quelle impiegate in un

passo dell’epigrafe scoperta da Poidebard e ricordata in precedenza. Quest’epigrafe fu posta undici mesi dopo quella di Aelius Bora e dimostra la grande considerazione di cui godevano coloro che difendevano le carovane dall’attacco dei nomadi e contribuivano quindi ad accrescere la ricchezza di Palmira. Le due iscrizioni si aggiungono alle numerose altre che ci informano sul commercio carovaniero, importantissimo per la storia economica della Siria e di tutto l’impero romano.

Fig. 17. Apografo della parte greca dell’iscrizione di Ogeilû, figlio di Maqqai.

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13. DUSSAUD, SEYRIG, GABRIEL 1932 R. DUSSAUD, H. SEYRIG, A. GABRIEL, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 13, fascicolo 3, 1932, pagg. 313-320.

Le temple de Bel à Palmyre, pag. 313. L’articolo segnala la scoperta, all’interno del naos del tempio di Bel, nel febbraio 1932, da parte di Seyrig e

Amy, di un’iscrizione in palmireno, importante per comprendere le origini dell’edificio sacro (fig. 18). Il testo è stato presentato da Cantineau all’Académie des Inscriptions il 4 marzo 1932, e ne è fornita la traduzione, con

la lettura alternativa di una frase, proposta da Dussaud. L’epigrafe è di grande importanza, perché indica che il tempio fu consacrato nel 32 d.C.; ciò non è in contrasto con testi più antichi ritrovati nel portico, che semplicemente indicano come esso fosse già in fase di costruzione fra il 17 e 19 d.C. Si nominano anche gli dei a cui il tempio è dedicato, e chi lo ha consacrato. Secondo Dussaud, la data del 6 di Nisan sarebbe stata scelta perché a Babilonia era il giorno dell’akitou, festa in onore di Bel- Marduk. Seyrig segnala inoltre il rinvenimento di un bassorilievo con cinque sacerdoti che bruciano incenso davanti ad una palma.

Fig. 18. La cella del tempio di Bel (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985)

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14. SEYRIG 1932 C H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 13 fascicolo 3, 1932, pagg. 255-276.

8. Trois bas-reliefs religieux de type palmyrénien, pagg. 258-266.

Seyrig pubblica tre rilievi di tipo palmireno, simili per soggetto e per stile. Uno proviene da uno stanziamento militare tra Palmira e l’Eufrate, mentre gli altri due sono di provenienza ignota, benché mostrino l’influenza dell’arte palmirena, per cui si può pensare che essi siano stati scolpiti nel deserto siriano, nell’area compresa fra l’Oronte e l’Eufrate. Il primo, conservato al Museo del Louvre, rappresenta un gruppo di sei divinità; non compaiono iscrizioni. Due dee fiancheggiano un gruppo di quattro dei (fig. 19); sulla sinistra, Atena-Allath è identificabile grazie all’elmo corinzio, all’egida sul petto, alla lancia che tiene nella mano destra mentre nella sinistra sorregge lo scudo. La divinità femminile a destra non ha attributi significativi, e regge semplicemente un lembo dell’abito con la sinistra, ma potrebbe trattarsi di Atargatis, poiché è stata scolpita in una posizione di maggior prestigio rispetto a quella occupata da Atena-Allath. Seguono tre dei in abito militare e paludamentum, cui si affianca a sinistra un altro dio vestito con tunica corta, anassiridi e corto mantello, con kalathos sul capo.

La triade rappresenta probabilmente Bel (che tuttavia non porta le consuete anassiridi), Yarhibol e Aglibol (raffigurato però senza un crescente lunare), mente il quarto dio rimane sconosciuto, giacché l’attributo che sorregge è troppo consunto per permettere di comprendere di cosa si tratti. Bel, verso cui si rivolgono gli altri dei occupa la posizione centrale del rilievo ed è contraddistinto dal kalathos, mentre alla sua destra Yarhibol è raffigurato con nimbo radiato e corta spada. A sinistra di Bel,

Aglibol sorregge un globo ed ha il capo cinto da un nimbo liscio. Nell’edizione on line dell’articolo manca la fotografia del rilievo.

Fig. 19. Bassorilievo palmireno dal Museo del Louvre (immagine mancante nell’edizione on line).

Il secondo rilievo è stato acquistato dal Museo di Damasco da un antiquario di Aleppo, che ha attestato una provenienza dal deserto a est di Palmira, a Oum es Salbikh, presso Wadi Miya. L’iscrizione, parzialmente incompleta perché il plinto su cui è scolpita è mutilo nella parte destra, riporta la dedica fatta da uno stratega di Ana e Gamala nel giugno 225 d.C. (fig. 20)

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Fig. 20. Rilievo trovato a Wadi el Miyah

La prima località era già nota come sede di una guarnigione palmirena, mentre la seconda è stata identificata nel villaggio di Gmeyla, a 4 km da Ana, da Cantineau, che all’epoca stava per pubblicare l’epigrafe. Il rilievo doveva svilupparsi su due blocchi, poiché la parte sinistra non ha segni di frattura, ma vi è una superficie d’allettamento; vi compare un personaggio nell’atto di offrire incenso a cinque divinità. Il solo dio identificabile è Yarhibol, che occupa l’estremità sinistra del gruppo: egli è chiaramente riconoscibile grazie al nimbo radiato, alla corazza dotata di paludamentum e alla spada appesa a un balteo. E’

possibile che gli altri due membri della triade palmirena formata da Yarhibol con Bel e Aglibol fossero scolpiti nella parte mancante del rilievo. A destra di Yarhibol compare una dea che porta solo uno scettro ed ha il capo cinto da un nimbo, cui segue una divinità con scudo, elmo dai bordi svasati e nimbo liscio intorno alla testa: si tratta probabilmente del dio che su altri rilievi accompagna la triade palmirena, ma di cui sono ignote il nome e le funzioni, anche se il nimbo potrebbe indicare una divinità celeste. Alla sua destra sono stati scolpiti altri due dei in abito palmireno e di cui il primo sorregge uno scudo rotondo, tipico delle truppe palmirene, ma non identificabili. Il terzo rilievo, conservato presso il museo di Berlino, proviene dal mercato antiquario, ma se ne ignora l’esatto luogo di rinvenimento: il primo proprietario affermava, infatti, di averlo trovato presso il lago di Costanza (fig. 21).

Fig. 21. Rilievo dell’Antiquarium di Berlino.

Il materiale è il consueto calcare di Palmira, ma, secondo Ingholt, la tecnica di lavorazione è differente, ad esempio nel modo di modellare i capelli del personaggio maschile, raffigurati in una massa compatta suddivisa da incisioni rare e sinuose, mentre i bulbi oculari sono più sporgenti del solito e le iridi molto marcate: tutti elementi che non hanno confronti nell’arte palmirena. La figura femminile inoltre non è velata, fatto rarissimo a Palmira: Ingholt ritenne che i criteri da lui elaborati per lo sviluppo dell’arte palmirena non potessero applicarsi al bassorilievo di Berlino; si potrebbe trattare quindi di una bottega che si ispira a quelle di Palmira ma che opera in maniera indipendente e per cui egli suggerì come datazione il II-III sec. d.C. Il conservatore del Museo di Berlino Zahn, in seguito alla pulizia del rilievo, notò che la testa del personaggio maschile con la lancia che occupa la parte destra della scena era stata realizzata in stucco e applicata in seguito. In un primo tempo egli ritenne che si trattasse di un restauro moderno, ma la parte in stucco, oltre ad essere stata applicata in maniera molto abile (il che portava a escludere l’opera di un

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falsario), non aveva, a detta del restauratore del Museo, alcuna somiglianza con gli stucchi moderni, ma anzi trovava confronto con diversi esemplari antichi di tale materiale. Zahn pensò allora all’utilizzo dello stucco in scultura per realizzare alcuni dettagli, specie la testa (ad esempio ad Alessandria); potrebbe altresì trattarsi di una lacuna lasciata intenzionalmente dallo scultore per poter aggiungere il ritratto del committente. Seyrig concorda nel ritenere che non si tratti dell’opera di un falsario moderno, perché lo stile della testa differisce notevolmente da quello della figura femminile che accompagna l’uomo, ed è invece coerente con il resto del corpo; egli suppone che la testa sia stata inizialmente scolpita in pietra, ma che, rottasi, sia stata rifatta in stucco, benché non sia noto un simile uso di questo materiale in Siria. Solo la parte superiore del rilievo è ben conservata: vi compare una figura di dimensioni maggiori, in abito militare, che regge nella destra un lungo scettro e tiene la sinistra sull’impugnatura della spada, ed è fiancheggiata da due figure più piccole. Si tratta di una divinità imberbe, che indossa una tunica a maniche corte e una corazza che ne modella il torso: è piuttosto simile a quella indossata dalla fanteria romana nel II sec. d.C., formata da lamine metalliche flessibili, che garantivano una certa libertà di movimento, che compare ad esempio nei rilievi delle colonne coclidi di Traiano e Marco Aurelio o nei pannelli dell’arco di Settimio Severo. La corazza raffigurata in questo rilievo, tuttavia, presenta delle lunule che marcano orizzontalmente la superficie della lorica: sembra trattarsi di placche metalliche embricate al pari delle scaglie che formano la corazza e che consentivano una grande flessibilità a questo indumento. Fra queste zone orizzontali compaiono sottili bande unite, che raffigurano probabilmente i lacci di cuoio che univano le varie parti e ne garantivano l’elasticità in senso verticale. Sopra la corazza il dio indossa un corto mantello, fissato sulla spalla con una fibula discoidale. Ad un primo sguardo, ci si potrebbe domandare se la figura rappresentata sia quella di un dio o di una dea: Seyrig inclina per la prima ipotesi, poiché le divinità guerriere femminili non hanno corazza (con alcune eccezioni: la figura di Roma su alcune monete di Alessandria, ad esempio) ma una corta tunica che lascia scoperto il seno, come le Amazzoni. E’vero che in un bassorilievo (all’epoca ancora inedito) trovato nel tempio di Bel a Palmira vi è una figura di divinità con un mantello che le copre la parte superiore del corpo, anche se la presenza di pteryges fa supporre che al di sotto vi sia una corazza: Seyrig ritiene si possa trattare

di una dea, ma probabilmente si tratta di una soluzione dovuta alla difficoltà dell’artista di rendere le forme di un corpo femminile sotto la corazza. Il dio porta sul capo un kalathos scanalato, comune a Palmira e nel resto della Siria; si vedono poi le estremità

di un nastro (forse in stoffa inamidata o metallo prezioso) probabilmente legato sulla nuca: tale acconciatura è piuttosto frequente, sia per gli dei sia per i re, in Oriente; Zahn l’ha osservata nella statua di Atargatis a Bambicea o nelle rappresentazioni della regina Musa assimilata a Venere Urania, mentre a Nimroud Dagh un diadema circonda la tiara degli dei e del re e nei ritratti dei re battriani coniati sulle monete compare un nastro attorno alla causia. Per Palmira, tuttavia, l’unico confronto che è possibile fare è con un medaglione in terracotta, molto danneggiato, che raffigura una divinità maschile imberbe, con corazza, paludamentum e kalathos scanalato

molto simile alla figura di Berlino. Un copricapo simile si trova anche in un rilievo ritrovato a Dura e raffigurante una divinità di Ana, il che ne fa supporre un uso piuttosto diffuso nella Palmirene. Il dio è fiancheggiato da un uomo e da una donna; la figura maschile, vestita di tunica e mantello, regge una lunga lancia, mentre quella femminile (il cui corpo è stato quasi completamente cancellato) tiene uno o due rami, probabilmente di palma, nella mano destra, mentre regge un lembo dell’abito con l’altra. Ella porta orecchini di forma globulare e non ha velo sul capo. Le fisionomie dei due personaggi non sembrano affatto siriane o legate a modelli diffusi a Palmira, come si nota invece per la divinità. In particolare il volto dell’uomo, con la sua acconciatura, i baffi senza barba e le spesse sopracciglia unite fa pensare a un barbaro delle regioni settentrionali: potrebbe trattarsi di un soldato di uno dei numerosi corpi ausiliari inviati in Siria durante le campagne contro i Parti; Zahn ha ipotizzato che possa trattarsi di un Gallo o di un Germano. Per quanto concerne il ramoscello che tiene in mano la figura femminile, esso compare ad esempio negli affreschi di Dura, impiegato dai sacerdoti per aspersioni di acqua lustrale o dagli assistenti al culto come simbolo di purezza. Seyrig ritiene che, non contemplando i rituali semitici officianti donne, si tratti semplicemente di un simbolo di purezza rituale, cui probabilmente si accompagna un gesto di saluto verso il dio. A Palmira non sembra essere attestato il ramo quale attributo di un essere umano, ma si trova ad esempio fra le mani di Aglibol, in un rilievo conservato a Bruxelles, e in quelle di una divinità siriana scolpita su di un altare del Museo di Damasco. Il ramo è poi molto diffuso nella scultura funeraria, sia come

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oggetto tenuto in mano dal defunto sia come elemento che accompagna il dorsalium. Lo studioso ritiene che

nei rilievi funerari abbia valore profilattico e allontani dal morto le influenze maligne, così come in ambito religioso respinge ogni impurità dal fedele.

9. L’incorporation de Palmyre à l’empire romain, pagg. 266-276. L’articolo riflette su due iscrizioni risalenti ai primi anni del regno di Tiberio, provenienti dal tempio di Bel e che costituiscono le prime testimonianze dei contatti fra Roma e Palmira, se si esclude la razzia di Antonio del 42 a.C. Nell’appendice (pagg. 274-276) sono pubblicati il testo, con foto e rilievi, dell’iscrizione di Minucius Rufus. Il primo testo, pubblicato da Cantineau, fu redatto in aramaico da un personaggio di nome Alexandros, inviato come ambasciatore nella Mesene da Germanico; alcuni studiosi ritengono che questa regione facesse parte della Caracene, altri che fosse uno stato confinante con quest’ultima; si tratta comunque di quella zona prospiciente il Golfo Persico dove si trovavano gli empori commerciali palmireni di Forat e Spasinou Charax.

Il testo menziona anche una missione presso un dinasta locale chiamato Orabzes, mente una parte fortemente mutila del testo nomina il re di Emesa Sampsigeram II, il che può suggerire una più ampia attività diplomatica di Alexandros285. La seconda iscrizione è incisa su di un ex voto monumentale proveniente dalla cella del tempio di Bel: un gruppo di tre statue raffiguranti Tiberio, Druso e Germanico. La dedica fu fatta dal legato della Legio X Fretensis, di nome Minucius Rufus ed è databile al periodo compreso fra la salita al trono di Tiberio nel 14 d.C. e la morte di Germanico nel 19 d.C.: non può dunque essere stata posta originariamente nella cella, inaugurata nel 32 d.C., benché la pesantezza del blocco faccia pensare alla vicina grande corte del tempio come collocazione originaria. E’possibile che Germanico si sia recato a Palmira, accompagnato da Minucius,

ma poiché egli non è il dedicante, è più probabile, come nota anche Carcopino, che egli sia stato ospite del legatus durante il suo soggiorno a Chyrrae. Nulla assicura con certezza che l’iscrizione risalga agli stessi anni dell’ambasciata di Alexandros, anche se non deve esserle di molto precedente: entrambi questi documenti

sono un’interessante testimonianza dell’attività di Germanico in Oriente, dove molti piccoli stati facevano da cuscinetto fra il limes romano e l’impero dei Parti. Gaio Cesare, nell’anno 1, aveva svolto la propria azione

diplomatica in Armenia, dove il sovrano insediato dai Romani era stato scacciato dai Parti, anche se la morte pose fine ai suoi tentativi di riportare sul trono un monarca favorevole a Roma. Diciotto anni dopo, Germanico riuscì a insediare in Armenia un sovrano filo-romano, a porre sotto la tutela dell’impero Cappadocia e Commagene, e come racconta pur brevemente Tacito, a essere ricevuto dal re Areta IV di Nabatene: è possibile che le ambascerie di Alexandros rientrassero nello stesso disegno politico di Germanico, che cercava di creare legami fra Roma e gli staterelli satelliti dell’impero partico. Ciò fa capire meglio le ragioni dell’importanza di un omaggio ufficiale, quale l’offerta del gruppo statuario all’interno del tempio di Bel. Sarebbe dunque molto importante riuscire a comprendere la natura esatta dei rapporti fra Palmira e Germanico, e se la città fosse ancora libera o già annessa ai territori romani. Mommsen propendeva per la seconda ipotesi, citando la Tariffa di Palmira, ove si fanno riferimenti ai rescritti di Germanico. Seyrig ritiene invece che, risalendo al regno di Adriano, la Tariffa possa semplicemente richiamarsi a una giurisprudenza comune alla provincia e non rivolta necessariamente solo alla città. Février ipotizza invece che la città non possa essere stata annessa prima di Damasco, nel 106 d.C., ma si tratta di un errore, perché la città ha coniato monete con l’effige di Nerone nel 62, 63 e 65, e di Domiziano quale caesar nel 75. Egli notò anche che, nelle iscrizioni, il consiglio e il popolo sono citati solo dal 121 d.C., il

che può essere indice di un cambiamento nella costituzione cittadina; lo studioso non era però a conoscenza di un’altra iscrizione, emersa negli anni successivi, pubblicata da Cantineau e rivista da Seyrig durante un soggiorno in Siria, che menziona tali organi già nel 74 d.C. Mancano purtroppo dati sull’annessione di Emesa, che potrebbe fornire un utile termine di paragone con Palmira, anche se, come osserva Carcopino, l’epitaffio di un personaggio appartenente alla famiglia reale di Emesa, C. Julius Sampisgeramus Silas, redatto nel 78 d.C., può fornire qualche indicazione cronologica.

Un miliario che reca incisi i nomi Tito e Vespasiano, oltre a quello del legato Marco Ulpio Traiaino, eretto nel primo semestre del 75 d.C. e rinvenuto a 16 miglia romane da Palmira, sulla via dell’Eufrate, nei dintorni di Erek, sembra suggerire che in tale periodo la città fosse già pienamente parte dell’impero. Il testo del miliario è riportato in appendice.

285CANTINEAU 1921 (Appendice nr. 8).

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Da Erek proviene anche un cippo di confine, che attesta il percorso della via che collegava Palmira a Sura, attraverso Erek- Aracha, Soukhné, Taybé – Oriza, Khoullé- Cholle e Resapha e che doveva proseguire verso sud-ovest, con un percorso ricalcato in seguito dalla Strata Diocletiana, collegando Palmira alla Damascene.

Ciò permette di fissare il confine della media Siria, stabilito sin dal regno di Vespasiano, e spostato solamente dopo la guerra partica di Lucio Vero. Questa sistemazione del limes siriano completa il quadro della politica vespasianea in Oriente, ed è

successiva alle annessioni di Cappadocia, Commagene e Giudea. Tuttavia non è facile stabilire se realmente Vespasiano fu il primo a portare a est di Palmira il confine romano oppure si limitò a riorganizzare le truppe già presenti. Vi è un’iscrizione trilingue risalente al regno di Claudio, che ricorda Lucius Spedius Chrysantus ma Seyrig non

la ritiene particolarmente probante, spiegando l’uso del latino, non frequente a Palmira, con il fatto che costui era cittadino romano. Maggiori indicazioni sono fornite da un’altra epigrafe, ugualmente trilingue, pubblicata da Cantineau : si tratta della dedica redatta nel 74 d.C. dal consiglio e dal popolo palmireni in onore di Hairan figlio di Bonne,

artista decoratore: non vi sono motivi particolari legati al personaggio che possano giustificare l’uso del latino, oltre ai più tradizionali greco e palmireno, se non, visto che la dedica risale ad un anno prima dell’erezione del miliario di Erek, una condizione di dipendenza da Roma286. Un altro indizio sembra essere fornito dalla presenza di una tribus Claudia ricordata in un’iscrizione di epoca flavia: l’omaggio ai Claudii

deve risalire almeno al regno di Nerone, giacché difficilmente la devozione verso questa famiglia poteva essere molto viva sotto i Flavi: ciò non fornisce prove sicure della dipendenza di Palmira, ma assicura che vi fosse quantomeno una forte influenza romana. La condizione di Palmira nei confronti di Roma non è chiara: Marquardt ritiene che i principati siriani (ed anche Palmira), benché formalmente indipendenti, fossero parte dell’impero, mentre Rostovtzeff esclude che Palmira sia mai stata romana, anche quando Settimio Severo le diede la qualifica di colonia. Si sarebbe

trattato invece di una semplice situazione di vassallaggio: Palmira era protetta da guarnigione romana e pagava tributi, ma manteneva la propria indipendenza. Carcopino, che condivide questa ipotesi, ritiene che proprio grazie a questa parvenza d’indipendenza i Parti tolleravano la presenza di guarnigioni formate da palmireni a Dura e che un palmireno erigesse un Augusteion a Vologesia; Seyrig non esclude a priori questa

teoria, benché ritenga necessarie altre scoperte che permettano di chiarire maggiormente questo problema. Il testo di Erek può essere messo in relazione con la testimonianza di Plinio il Vecchio, che tuttavia Mommsen non ha ritenuto sufficientemente attendibile. Secondo lo scrittore romano, Palmira sarebbe stata indipendente sia dall’impero romano sia da quello partico, riuscendo a sfruttare anzi a proprio vantaggio i contrasti fra le due potenze287. La Naturalis Historia, dedicata a Tito, risale al 77 d.C., quindi due anni dopo che era stata stabilita una strada

militare romana a est di Palmira. Questo contrasto fra Plinio e il miliario può dar adito a tre differenti ipotesi: 1) Plinio ignorava la situazione politica di Palmira in quegli anni, ma ciò sembra difficile, poiché egli

doveva essere in contatto con militari e funzionari che erano stati in Oriente, benché, come osservi Carcopino, lo scrittore si sia affidato semplicemente a fonti letterarie non troppo recenti (risalenti a circa 60 anni prima) per l’Africa e la Gallia. In questo caso la testimonianza di Plinio non sarebbe affidabile e confermerebbe le informazioni fornite dal miliario.

2) Si può pensare che egli faccia riferimento agli anni del 74-75 d.C., quando è possibile che la città fosse ancora libera. Anche in questo caso il miliario mantiene intatta la sua autorità.

3) La testimonianza di Plinio riflette l’effettiva situazione di Palmira nel 77 d.C. In tal caso, Palmira, pur essendo inclusa nell’impero, godeva ancora di una certa indipendenza, che consentiva alla città di mantenere rapporti con i Parti: ciò è compatibile con le scarse notizie che possediamo degli anni della legazione di Traiano in Siria (75-79 d.C.). Egli sconfisse i Parti, e ciò gli permise di celebrare il trionfo; alcuni storici ritengono che si tratti della vittoria riportata su Vologese ricordata da Aurelio Vittore. E’ possibile dunque che Traiano abbia constatato l’atteggiamento ambiguo dei Palmireni nei confronti dei Parti e per evitare in futuro simili problemi abbia, dopo la sua vittoria, posto definitivamente fine alla libertà della città.

Il miliario costituisce senza dubbio un importante documento per la definizione della frontiera siriana all’epoca di Vespasiano, oltre che dell’annessione di Palmira all’impero

286

CANTINEAU, Inventaire des inscriptions de Palmyre, 7, n°6. 287 PLIN., Natur. Hist., 5,88.

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APPENDICE Si riporta il testo dell’epigrafe inscritta sul gruppo statuario raffigurante Tiberio, Druso e Germanico. Ai nomi di questi ultimi è stato aggiunto in seguito, e a caratteri più piccoli, il titolo di Ti. Aug. f. divi nepoti.

L’elenco dei tre personaggi non è quello consueto, poiché il nome di ciascuno era inciso al di sotto della relativa statua: Tiberio era al centro, con a destra Druso e a sinistra Germanico, che, essendo il figlio maggiore, occupa la sinistra del padre, secondo l’uso romano. Il nome [Min]ucius stato così ricostruito perché portato da molti dei Rufii, anche se non si hanno ulteriori testimonianze su questo personaggio.

E’possibile che le righe 2 e 3 siano state incise in seguito rispetto alla 1. Si pubblica il testo del miliario di Erek, ritrovato lungo la pista dei pozzi che si distacca dalla strada carrozzabile di Deir es Zor, a 20 km da Palmira, nei pressi di un edificio crollato realizzato in mattoni crudi. L’iscrizione fu scoperta da Padre Poidebard e in seguito pubblicata da Padre Mouterde288.

288 MOUTERDE-POIDEBARDE 1931 (Appendice nr.7).

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15. CARCOPINO 1933

J. CARCOPINO, Note complémentaire sur les numeri syriens de la Numidie romaine, in Syria, tomo 14, fascicolo 1, 1933, pagg. 20-55. Da molto tempo gli studiosi hanno tentato di fissare le fasi principali della storia dei numeri siriani in

Numidia. 1)Tali truppe sono state tradizionalmente, dal regno di Caracalla a quello di Settimio Severo, a El Kantara – Calceus Herculis, dove erano state ritrovate le prime testimonianze epigrafiche della sua esistenza. 2) Si supponeva la presenza di una sola unità militare, il numerus Palmyrenorum, il cui nome compare in numerose iscrizioni289. Due di esse (CIL VIII, 2494 e 2496) menzionavano la sigla N. H., che era sciolta come numerus Herculis; la correttezza della traduzione era creduta sicura sulla base della traduzione di un’epigrafe (CIL VIII, 2496) fatta da L. Renier, ma che non era più stata vista da altri studiosi. Si dava inoltre per certo che, all’epoca di Caracalla (al cui regno appartenevano le due iscrizioni prima ricordate ), il numerus Palmyrenorum avesse assunto il soprannome di numerus Herculis, dal nome del dio eponimo di Calceus. 3) Si riteneva inoltre che la formazione del numerus risalisse al regno di Antonino Pio, sulla base di un

epitaffio ritrovato a Lambesi e datato al 149-150. Partendo da tali presupposti, non ci si stupiva della mancanza di testimonianze epigrafiche anteriori ad Antonino e successive ad Alessandro Severo. Un numerus riuniva di solito qualche centinaio di uomini, al massimo un migliaio, e tanto la sua apparizione quanto la sua sparizione erano considerate episodi marginali all’interno della storia militare della Numidia, giacché fino a circa quindici anni prima non vi era che una decina d’iscrizioni relative a questo contingente di Palmireni. La documentazione relativa al numerus si è però accresciuta grazie alle ricerche di De Vulpillières; nel 1924, nel corso di una missione di tre settimane affidata a Carcopino dal Governo Generale d’Algeria e i cui risultati sono stati pubblicati su Syria290, egli ebbe la possibilità sia di osservare i materiali raccolti da de Vulpillières sia di compiere ricerche a Sadouri - Ausum ed El Ghara (110 km a ovest di El Kantara): ciò gli

permise di raccogliere all’incirca quindici nuovi testi. Nel 1932 Albertini, studiando i materiali custoditi nel Museo allestito da de Vulpillières, ha fatto emergere circa settanta nuovi testi, di cui due terzi inediti. Carcopino analizza le nuove epigrafi, partendo da quelle scoperti da Albertini che confermano le sue ipotesi, riservando alla fine l’esame delle iscrizioni che l’hanno portato a riformulare le sue congetture.

I. – Importance des contingents syriens.

Dal 1924, Carcopino comprese che l’importanza dei contingenti siriani in Numidia era di gran lunga maggiore rispetto a quanto era sino ad allora sospettato; la loro presenza è attestata non solo a El Kantara, ma anche in numerose postazioni, come Gemellae – El Kasbat a sud-est, ad Ausum – Sadouri, El Ghara e Messad verso occidente, lungo tutto il limes che era affidato alla loro custodia. Inoltre la loro presenza in Africa si riscontra anche nei decenni successivi alla morte di Alessandro Severo: a El Ghara vi era un distaccamento siriano almeno fino a Gordiano III. Anche se la postazione di Msad fu abbandonata dai militari, il limes da El Kantara a El Ghara continuò a essere presidiato, dopo la dissoluzione della Legio III Augusta, da soldati siriani. In seguito, dal regno di Gallieno, i militari si trasformarono in coloni: un chiaro indizio di questo cambiamento è dato dai numerosi ritrovamenti monetali nella Valle dell’Ouadi Chair, che vanno dai regni di Valeriano e Galerio a quelli di Costantino e Giuliano. Tutti questi dati hanno indotto Carcopino a riflettere che questa grande prosperità economica non sarebbe potuta nascere e svilupparsi senza sicurezza. Dalle scoperte di Albertini, emerge chiaramente che il limes difeso dai Siriani non vacillò sino al IV sec.: una prova è che la strada che seguiva il confine sulla riva destra dell’uadi el Hai da El Kantara continuò a essere usata non solo sotto Massimino, ma addirittura fino a Diocleziano, così come lo dimostrano i numerosi miliari che partivano a Calceo, vale a dire proprio da El Kantara. La prova dell’abbandono di Messad dopo la dissoluzione della III legio Augusta è contenuta nella dozzina di testi ancora inediti che provengono da questa località, e di cui Albertini ha realizzato i calchi. Essi menzionano sia Alessandro Severo e sua madre Giulia Mamea, sia la III legione Augusta; mentre i nomi

imperiali sono stati cancellati per volontà di Massimino, il nome della III legione è rimasto intatto, in

289

Ad esempio CIL VIII, 8795,18007,18008, 18026. 290 CARCOPINO 1925 (Appendice nr.2), pagg. 30-57 ; 118 -149.

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violazione dell’ordine di Gordiano III. Albertini è riuscito a restituire a Messad il suo antico nome di Castellum Dim (midense) e a confermare l’ipotesi di Carcopino riguardo alla presenza di truppe siriane in

questo luogo sino al regno di Massimino, ma non oltre. Inoltre, queste epigrafi dimostrano che molto spesso gli stessi veterani si stabilivano nei pressi della città o dei vari castella del limes, una volta terminato il servizio, come ad esempio a Castellum Dimmidense. A Calceus Herculis si formò probabilmente un vicus, in cui uno dei due magistri si chiamava significativamente Malcus, forma latinizzata di Malikou, nome palmireno; entrambi posero una dedica come ex voto al dio, ugualmente palmireno, Malakbel. A ciò si aggiungono le menzioni di veterani i cui figli si arruolarono nel corpo formato da Siriani dove essi stessi avevano militato e i moltissimi nomi di origine orientale che si ritrovano nelle epigrafi funerarie sia civili sia militari a El Kantara. Le scoperte di Albertini hanno dunque permesso di confermare l’idea che il limes numidico, dopo essere

stato difeso dai soldati siriani, è stato abitato dai loro discendenti. Non c’è più neppure motivo di dubitare che il contingente siriano, senza recare pregiudizio alle legioni con cui coesisteva, ricevesse sotto i Severi il doppio degli effettivi che aveva avuto dieci anni prima. Carcopino aveva potuto osservare e copiare, nel 1924, presso il Museo di de Vulpillières, un’epigrafe pro salute et reditu di Giulia Domna e Caracalla, dedicata da Marcus Ulpius Optatu[s praepositus] n(umeri) Hemesenorum: tale scoperta gli consentì di dimostrare che, nello stesso luogo e negli stessi anni, il numerus Palmyrenorum aveva convissuto con quello Hemesenorum. Inoltre, il numerus Herculis ricordato, sempre in

quello stesso periodo, a El Kantara, va identificato con il contingente formato dagli Emeseni, e non dai Palmireni. Renier aveva creduto di leggere distintamente, in CIL VIII 2496, il nome del numerus Herculis, e Carcopino riteneva molto probabile che in realtà non si trattasse che del numerus Hemesenorum. La scoperta, nel 1924, a 8 km a sud di El Kantara, di un’epigrafe (CIL VIII, 2494) risalente al regno di Caracalla e apposta dal centurione C. Iulius Aelurio, che apparteneva alla III legione Augusta, oltre ad essere praepositus n. h., aveva spinto l’Autore a sostenere la traduzione di numerus Hemesenorum, al posto di numerus Herculis.

Quelle che erano ipotesi nel 1924, sono divenute certezze nel 1932. Nel corpus di testi editi da Albertini, ve ne erano cinque che menzionavano il numerus Hemesenorum: tre non

sono databili con certezza, mentre una quarta è datata al 209-212 d.C.; una quinta iscrizione è datata grazie al raffronto con CIL VIII 2494, perché fu ugualmente apposta da C. Iulius Aelurio sotto il regno di Caracalla. Tutti queste epigrafi dimostrano che a El Kantara, accanto al numerus Palmyrenorum, stazionava un numerus Hemesenorum, che ebbe un ruolo altrettanto importante nella difesa del limes di Numidia, mentre la quinta epigrafe autorizza a identificare quest’ultimo con il numerus Herculis. Albertini ha avuto inoltre la possibilità di riesaminare l’iscrizione CIL VIII 2496, che era scomparsa dopo la

prima pubblicazione da parte di Renier; la copia che egli ha effettuato ha consentito di leggere con chiarezza praep. n. Hemesenorum dove il suo predecessore aveva visto praes. n. Hercul. sen. colae. Come ha osservato lo stesso Albertini, l’ipotesi di Carcopino è così interamente confermata; sotto i Severi la guarnigione degli Emeseni affiancò il numerus Palmyrenorum a El Kantara – Calceus Herculis, la più

importante piazzaforte, dopo Lambesi, della Numidia romana.

II. – Chronologie de la colonie e du « numerus » d’Hémèse. Nel 1924, Carcopino aveva ritenuto che queste truppe siriane, che rivestirono un ruolo fondamentale in Numidia sotto i Severi, fossero state create subito dopo che le loro città d’origine erano assurte al rango di colonia. Questa ipotesi tuttavia si scontra, almeno in apparenza, con tre scoperte epigrafiche: la prima è emersa a Dura Europos nel 1930 e fu presentata all’Académie des Inscriptions dal suo scopritore, Rowell, mentre le altre due, scoperte da de Vulpillières, sono state pubblicate da Albertini. Rowell riteneva che Carcopino avesse dedotto che la creazione di un numerus indigeno fosse un privilegio

concesso a una città che aveva già ottenuto il rango di colonia. In realtà, l’Autore, avendo ritenuto di poter stabilire un rapporto cronologico fra il passaggio a colonia di Palmira ed Emesa e la creazione dei rispettivi numeri, si era domandato se, invece di essere fortuito, tale passaggio non fosse stato logico e premeditato, e

se la creazione di tali unità militari indigene non fosse la prova della stessa liberalità grazie alla quale le loro città d’origine avevano ricevuto la cittadinanza romana. Per quanto concerne Emesa, il suo passaggio a colonia è testimoniato da due documenti: la monetazione e la testimonianza di Ulpiano.

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Le monete emesse da Emesa nel 216 e nel 217, in nome di Giulia Domna e Caracalla, conferiscono alla città il

titolo di ; questo dato ha indotto Rowell a ritenere che in tali anni la città fosse stata elevata al rango di colonia, in seguito al desiderio di Caracalla, durante gli anni della guerra partica (215-217 d.C.), di assicurarsi la fedeltà degli abitanti di Emesa. Ma la serie di emissioni monetali di questa città è troppo incompleta per assicurare conclusioni così nette; secondo il catalogo del British Museum, ci sono due ampie lacune, una fra il regno di Antonino Pio e il 216 e l’altra fra il 217 e il 253; poiché non è verosimile che dalla morte di Antonino nel 161 al 216 la città abbia smesso di coniare, è necessario considerare la data del 216 non come quella di conferimento della dignità di colonia, come quella prima della quale tale beneficio era stato concesso a Emesa. Tale cambiamento di status potrebbe essere stato deciso da Caracalla fra il 212 e il 216 o

addirittura in precedenza, sotto Settimio Severo o i suoi predecessori, in ogni caso dopo il 161 d.C.; le monete di Emesa colonia non ci forniscono, comunque, che un terminus ante quem. Il testo di Ulpiano è invece più preciso, pur lasciando un margine d’incertezza. Nel I libro del suo trattato De censibus, composto sotto il regno di Caracalla, Ulpiano, enumerando le città che avevano ricevuto l’immunità fondiaria in seguito all’acquisizione dello ius italicum, menziona Emesa fra le città che Caracalla aveva elevato al rango di colonia e cui era stato conferito lo ius italicum. Tuttavia, questa indicazione non va interpretata in maniera così rigida, come aveva supposto Rowell; il conferimento dello ius italicum sembra

essere, infatti, operato in due modi: poteva essere attribuito a una città che era già divenuta colonia oppure accordato a una città che con esso riceveva automaticamente questo nuovo status. Queste due modalità sono indicate entrambe nel testo di Ulpiano; ad esempio in Dacia, il vicus di Potaissa ricevette contemporaneamente il rango di colonia e lo ius italicum, così come nella provincia di Siria, secondo le testimonianze di Ulpiano e di Paolo, accadde a Tiro sotto Settimio Severo. Al contrario, Berytus, Eliopoli, Cesarea hanno ricevuto prima il titolo di colonia e in seguito lo ius italicum. Le prime due città erano colonie già dai tempi di Augusto, ma lo ius italicum fu conferito da Settimio Severo; Cesarea divenne invece colonia sotto Vespasiano e ricevette lo ius sotto Tito. La costruzione della frase

utilizzata da Ulpiano riguardo a Emesa fu supporre che essa sia divenuta prima colonia e in seguito abbia ricevuto lo ius italicum (ius coloniae dedit iurisque italici fecit); ciò appare ancora più evidente nel testo di Paolo: imperator noster Antoninus civitatem Emesenorum coloniam et iuris italici fecit291. Se i due eventi fossero stati contemporanei, Paolo non avrebbe usato la congiunzione et, mentre Ulpiano non avrebbe impiegato i due verbi dedit e fecit; i due scrittori sembrano quindi descrivere la situazione di una città che abbia conseguito lo ius italicum in aggiunta allo status di colonia, e non viceversa. Paolo e Ulpiano attribuiscono entrambi a Caracalla tale passaggio e quindi le modalità di questo conferimento potrebbero apparire come secondarie, ma in realtà non lo sono. L’arco cronologico fra i due momenti può essere attribuito, infatti, o al periodo in cui Caracalla, nel 196-198-211, era associato al trono con il padre, oppure nel 212-217, quando egli regnò da solo. Con il padre Settimio, conferì lo ius italicum a Tiro; le citazioni di Paolo e Ulpiano, insieme con la

monetazione locale, indicano che Emesa divenne colonia dopo il 196 o il 198, ma acquisì il diritto italico in seguito, prima del 217. Probabilmente il rango di colonia fu conferito da Caracalla associato a Settimio in qualità di Augustus (198-211), o di Caesar (196-198), mentre lo ius italicum fu concesso da Caracalla ormai unico princeps, dopo la morte di Settimio e l’assassinio di Geta (212-217). Se si ammette che il passaggio da semplice colonia a colonia iuris italici sia avvenuto in due tappe, sarebbe preferibile ammettere a priori diversi anni fra una fase e l’altra, piuttosto che pochi mesi, ma questa conclusione è oggi corroborata dai fatti. Fra le iscrizioni che attestano la presenza a Intercisa – Duna Pentele, in Pannonia, dal regno di Antonino Pio fino alla metà del III sec. d.C., di una cohors Hemesenorum, quelle in cui essi fanno valere la loro condizione di cittadini romani (CIL III, 3328): c(ivium) r(omanorum) s(agittariorum), risalgono agli anni 199- 212, con una sola eccezione, nel 240 (CIL III, 3331). Inoltre,nel testo più antica, dedica di un tempio di Elagabalo, quando Caracalla era solamente il secondo dei principi regnanti, la cohors degli Emeseni, cittadini romani, era chiamata non Septimia (dal cognomen di Settimio Severo) ma Antoniniana, dal cognomen di Caracalla. Gli Emeseni, che esibirono con orgoglio la loro condizione di cives romani sino al 212, anno in cui questo

titolo fu esteso a tutte le comunità dell’impero, potrebbero averlo acquisito al più tardi nel 198, mentre Caracalla, loro compatriota tramite la madre Giulia Domna, Caesar nel 196 e imperator destinatus, era stato

associato all’impero? Le iscrizioni di Duna Pentele e i testi di Paolo e Ulpiano fanno supporre che Emesa, ricevuto lo ius italicum da Caracalla, sia divenuta prima colonia, sotto il regno di Settimio Severo, per

celebrare l’associazione all’impero di Caracalla, almeno dal 198.

291 ULPIANUS, De censibus, I, 1 e 2 ; 8-7. PAULUS, Dig., L, 15, 8,6.

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Nel 1924 Carcopino aveva scoperto a El Kantara la presenza di un n (umerus) Hemesenoru[m], grazie ad una

dedica consacrata per la salute e la vittoria di Caracalla e Giulia Domna, da parte di colui che comandava quest’unità, Marcus Ulpius Optatus, centurione della III legio Augusta. L’Autore aveva fatto un parallelo fra la

data in cui compare tale corpo etnico a quella in cui, secondo l’opinione corrente e l’errore di Rowell (che anche Carcopino aveva allora condiviso), fra il 212 e il 217 (probabilmente il 213), egli collocava la promozione di Emesa al rango di colonia. Nel 1931, tuttavia, Albertini ha scoperto una testimonianza più antica: un’iscrizione commemora il restauro di un tempulum et sigillum del dio Sol, per la salute dei tre Augusti, da parte di Iulius Draco, centurione della III legione e praepositus numeri Hemesenorum. Poiché il testo è stato redatto probabilmente fra il 209 e il 211,

Albertini ha ritenuto che i tre augusti fossero Settimio Severo con i figli Caracalla e Geta, e che la guarnigione sarebbe dunque esistita da prima della morte di Settimio (febbraio 211); essa doveva stazionare a El Kantara già da tempo, giacché il simulacro e il tempio del Sole (il cui culto fu probabilmente importato in Africa proprio dagli abitanti di Emesa) doveva essere ricostruito. Considerando che tali rifacimenti riguardarono un piccolo tempio e una piccola statua di culto, una dozzina d’anni doveva essere stata sufficiente a procurarne il degrado: si può ipotizzare che il piccolo edificio di culto sia stato edificato la prima volta versa il 199, quando gli Emeseni di Duna Pentele, qualificandosi come cittadini romani, hanno inaugurato il tempio dedicato a Elagabalo. Carcopino ammette di essersi sbagliato sulle date di costituzione del numerus Hemesenorum e del passaggio a

colonia di Emesa, ma una volta corrette, esse si accordano comunque, così come il legame che egli aveva stabilito fra i due eventi: Emesa diviene prima colonia e in seguito il numerus, verso il 198 e non il 213, è

trasferito in Numidia.

III. – Chronologie de la colonie de Palmyre.

Per quanto riguarda invece il passaggio di Palmira al rango di colonia, Carcopino lo aveva in precedenza collocato all’epoca di Settimio Severo, costatando la notevole frequenza del nome Septimius nell’onomastica locale, e riferendosi allo stesso passo di Ulpiano in cui si ricorda il passaggio di Emesa a colonia: […] et Palmyrena civitas (italici iuris) in provincia Phoenice prope barbaras gentes et nationes collocata. Tale era l’opinione

comunemente accettata, da quando Waddington e Marquardt l’avevano per primi sostenuta. Rowell ha tuttavia suggerito che il cambiamento di status di Palmira sia ascrivibile a Caracalla, partendo

innanzi tutto da una reinterpretazione della testimonianza di Ulpiano. Il giurista romano, che scrive fra il 212 e il 217, definisce Palmira come una civitas che godeva dello ius italicum e secondo Rowell, se essa fosse stata già colonia dal regno di Settimio Severo, Ulpiano l’avrebbe esplicitamente chiamata così. Inoltre, Palmira e Dura Europos hanno spesso condiviso la stessa sorte, e la seconda città divenne colonia sotto Caracalla; la stessa cosa, secondo questo studioso, doveva essere avvenuta anche per Palmira. Dura Europos e Palmira sono state considerate al pari delle altre città siriane loro vicine, Emesa, Edessa, Antiochia, Carre, che furono tutte elevate al rango di colonia o di metropoli sotto Caracalla, nel corso della spedizione partica. Carcopino ritiene invece che la lettura di Rowell sia errata, perché si basa su false analogie e su di un travisamento del passo di Ulpiano. E’ possibile naturalmente che Dura sia divenuta colonia sotto Caracalla, ma nessuna delle epigrafi emerse

durante gli scavi lo accerta. Il termine che ricorre in un’epigrafe edita da Cumont, può essere tradotto in due modi: fittavoli o cittadini di una colonia romana; il primo significato sembra il più idoneo al contesto, anche se Dura fosse comunque stata colonia. Neppure l’iscrizione edita da Rowell contiene il dato che se ne vorrebbe trarre; anche se il senato di Dura è lì definito

’ciò non significa automaticamente che la città fosse colonia romana. Spesso le città orientali assumevano il nome di un imperatore che intendevano onorare particolarmente, ma senza per questo essere colonie; gli stessi Palmireni si definivano, dalla metà del II sec.,

, senza che ciò implicasse una loro annessione all’impero, così come gli Armeni di Artaxata si chiamavano “neroniani” nel I d.C. Anche se Dura divenne colonia sotto Caracalla, tale diritto può essergli stato conferito dopo che i Palmireni lo avevano ottenuto; mancano in ogni caso testimonianze certe che il passaggio a colonia sia mai avvenuto, prima, durante o dopo il regno di Caracalla. L’unica città di cui conosciamo con certezza il passaggio a colonia, fra quelle nominate da Rowell, è Antiochia; Emesa lo divenne probabilmente quindici anni dopo, Edessa sotto Elagabalo e Damasco durante il regno di Alessandro Severo o Filippo I, mentre Carre divenne metropoli sotto Caracalla, ma era già colonia dai tempi di Settimio Severo.

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I passi dei giuristi romani usati da Rowell mostrano la grande attività di Settimio Severo in Siria, e il suo sdoppiamento della provincia nel 198; egli premiò le città che lo avevano sostenuto durante lo scontro con Pescennio Nigro, conferendo lo ius italicum alle colonie già esistenti e creando nuove colonie. La sua azione

può essere così schematizzata: A. – Colonie dotate di ius italicum. Fra 193 e 198: Eliopoli (Ulpiano, Dig.,L. 15, 1,2), sotto il regno del solo Settimio. Fra 198 e 209: Tiro, sotto Settimio Severo e Caracalla (Ulpiano, Dig., L. 15, 1; Paolo, ibid., L,15, 8, 4). In una data indeterminata: Berytus (Ulpiano, ibid., L, 15,1,1; Paolo, 15.8,3).

B. – Città promosse a colonia: Fra 193 e 198: Laodicea (Ulpiano, Dig., L, 15,1,3; Paolo, ibid. 8,3).

Fra 198 e 209: Emesa. In data ignota: Sebasté in Samaria (Ulpiano, Dig., L,15,1,7), Carre. Al contrario Caracalla, che si limitò a fare di Antiochia una colonia e ad aumentare i privilegi delle colonie di Emesa e Carre, non si mostrò attivo quanto il padre, e se le affermazioni di Ulpiano su Palmira lasciassero dei dubbi fra Settimio e Caracalla, è ancora per il primo che si dovrebbe optare, pur seguendo il ragionamento di Rowell. Secondo Carcopino, la frase di Ulpiano che cita Rowell (est et Palmyra civita in provincia Phoenice), introduce

un’arbitraria distinzione fra città di diritto romano e colonie propriamente dette; la prova che esse, oggi come allora, fossero confuse, risiede nella posizione che Ulpiano attribuisce a Palmira, fra Emesa, colonia che gode dello ius italicum, e le colonie palestinesi di Caesarea e Aelia Capitolina, che non lo possedevano292. Inoltre Paolo definisce Tiro, che era colonia sin dal regno di Augusto, come semplice civitas, che però godeva dello ius italicum293.

L’unica notizia certa su Palmira che si può ricavare da Ulpiano è semplicemente che, sotto il regno di Caracalla, quando il giurista scriveva, i Palmireni godevano pienamente dei diritti conferiti alle colonie e quelli derivanti dallo ius italicum, e che il silenzio di Ulpiano sull’imperatore che conferì tali diritti impedisce

di attribuire proprio a Caracalla questa concessione; Février osserva che, se fosse stata un’iniziativa di Caracalla, Ulpiano non avrebbe certamente taciuto il recente intervento del princeps regnante, così come

invece lo sottolinea per Emesa. Ugualmente, lo studioso attribuisce al regno di Settimio il conferimento del rango di colonia di diritto italico, poiché mancano prove che tale evento sia precedente a questo imperatore, e bisogna considerare il sostegno che i Palmireni conferirono a Settimio durante la lotta con Pescennio Nigro e la frequenza del cognomen Septimius nell’onomastica palmirena; inoltre l’arrivo del numerus Palmyrenorum

in Numidia risale proprio al regno di Settimio Severo. Carcopino riconferma dunque le conclusioni tratte per la prima volta nel 1924.

IV. – Chronologie du « numerus Palmyrenorum ». Nel 1924 Carcopino scoprì a El Kantara una dedica a Settimio e Clodio Albino, che fu apposta dal numerus Palmyrenorum nel 194-195 d.C. e notò che si trattava della più antica menzione dell’esistenza di tale unità

militare; le tre più antiche iscrizioni africane che menzionano dei Palmireni non citano, infatti, mai il numerus.

A)A Lambesi, l’epitaffio palmireno di un certo Moqimo si data al 149-150 d.C., ma non sappiamo dove costui abbia militato né se, in effetti, fosse un soldato. B) A El Kantara, un altro epitaffio in palmireno risale forse al II sec. d.C., ma manca la data e dell’arciere qui ricordato, si dice semplicemente che militava nella centuria comandata da Maximus, ma non vi è alcuna

indicazione del corpo cui apparteneva. C) L’epitaffio di Agrippa figlio di Taymé, scoperto dall’Autore a El Kantara, ricorda questo centurione che militò nella cohors III Thracum, poi trasferito nella cohors I Chalcidenorum, dove curam [e]git Palmyr (enorum) [s]agitt (arium) per dieci anni, prima di morire a 55 anni dopo 28 anni di servizio. Già nel precedente articolo, Carcopino aveva dedotto che, mentre Agrippa era vivo, il numerus Palmyrenorum

non esisteva ancora; egli stimò che gli arcieri palmireni cominciarono a essere inviati in Africa in piccoli gruppi, aggregati a una cohors ausiliaria a cavallo, senza alcun rapporto con la loro città di origine. Essi

292

ULPIANUS, Dig., L, 15, 1, 4-6. 293 Cfr. ULPIANUS, Dig., L, 15,1 e PAULUS, ibid., L., 15, 8,4.

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cominciarono a essere uniti alla cohors I Chalcidenorum, accampata in Africa sin dall’epoca flavia, così come in Egitto un gruppo di meharisti palmireni fu aggiunto alla cohors I Augusta Lusitanorum.

Da quest’affermazione derivano importanti conseguenze: la storia dei Palmireni in Numidia si sviluppò in due fasi, la prima in cui essi erano fusi con altri soldati, la seconda in cui costituivano un’unità autonoma. I due epitaffi di El Kantara (B e C) ed eventualmente quello di Lambesi (A) appartengono alla prima fase, mentre la seconda cominciò solo dopo la più recente delle tre epigrafi; non vi è modo di datare l’epitaffio B, relativo all’arciere Soraiku, figlio di Rubat. L’iscrizione A risale al 150, e, supponendo che Moqimo non fosse un soldato isolato, essa non fornirebbe che un terminus a quo, che permette di verificare l’uniformità, anche in Africa e in Egitto, dei metodi di organizzazione militare adottati da Antonino Pio. Resta l’iscrizione C, l’epitaffio del centurione Agrippa: Albertini non condivide la datazione proposta da Carcopino per la redazione di tale epigrafe (183), ma ritiene che invece il trasferimento di Agrippa nella cohors dei Calcideni

risalga al regno di Antonino Pio; Carcopino tuttavia non considera convincente la proposta dello studioso. Se si esamina il testo, infatti, si apprende con sicurezza che Agrippa era già centurione nella cohors tracica, di stanza in Siria, quando fu trasferito in Africa nella cohors dei Calcideni, che vi era stanziata dalla fine del I

sec. Albertini ha ipotizzato che questo trasferimento sia avvenuto qualche anno prima della designazione di Agrippa alla cura dei Palmireni, dipendenti dalla cohors dei Calcideni. Tuttavia tale intervallo non pare

probabile, poiché un imperatore non può aver avuto alcun interesse a spostare dalla Siria in Africa un centurione palmireno, se non per porlo a capo di suoi concittadini, all’interno dell’unità ausiliaria cui erano aggregati. Considerando inoltre che Agrippa rimase in servizio per 28 anni, è difficile suddividere le fasi della sua carriera, fra il suo centurionato in Siria (che non dovette né rivestire né abbandonare di colpo) e la sua morte, tenendo conto non solo dei dieci anni di stanza in Numidia ma anche di una fase supplementare. Il cursus africano di Agrippa riguardò probabilmente un solo imperatore, poiché egli fu trasferito in Numidia iusso imp (eratoris), che lo confermò per dieci anni in tale incarico, giacché un imperatore defunto sarebbe stato indicato con il suo nome e l’epiteto di Divus. Fra il 150, data dell’epitaffio a, e 194, anno in cui il numerus Palmyrenorum è già attestato a El Kantara, non vi sono che due imperatori che abbiano regnato per almeno

dieci anni: Antonino Pio (138-161) e Commodo (180-192). Non vi sono però notizie che indichino che sotto Antonino la cohors Chalcidenorum, cui all’inizio i Palmireni

erano uniti, fosse a El Kantara, a fianco dei legionari che vi erano già di guarnigione: al contrario, l’epitaffio A costringerebbe a collocarla a Lambesi, se essa aveva già assorbito il contingente palmireno; inoltre le iscrizioni del 163 e 164 pongono i Calcideni già a Bir oum Ali. Agrippa arrivò e morì a El Kantara in seguito, e perciò si deve collocare il suo arrivo, la sua cura e la sua morte al regno del solo Commodo. Carcopino aveva proposto la data del 183, in ragione della riorganizzazione del limes numidico, eseguito in

quegli anni in diversi punti del suo tracciato, ma riconosce che naturalmente essa non è certa, benché risulti la più verosimile, comparandola alle tre precedenti, poiché dal 194 esiste un numerus autonomo, agli ordini di un centurione, una cui dedica, scoperta nel 1923, attesta la presenza del numerus Palmyrenorum a El Kantara. L’epigrafe era già stata pubblicata su Syria, anche se permangono alcuni dubbi: la riga può essere integrata

con difficoltà, manca il nome del centurione della III legione Augusta che ricorre alla linea 5 e ci sfugge il titolo con cui alla linea 3 è designato il legatus Caius Julius Lepidus Tertullus, ma alla riga 1 è indicato chiaramente che il testo fu redatto sotto il regno dell’Augustus Settimio Severo e del Caesar Decimo Clodio Albino, la cui identità è confermata dalla successiva cancellazione. Anche escludendo che si tratti effettivamente di Lepidus Tertullus (il cui nome ricorre anche in una dedica di Henchir el Hammam), che fu

governatore in Africa proprio durante il regno di Settimio in associazione con Clodio Albino, non si può negare che l’epigrafe attesti la presenza di un numerus Palmyrenorum autonomo, quando fu ufficialmente proclamata l’associazione al trono di Clodio come Caesar, nel 194-195.

Si tratta di un dato accettato da tutti gli studiosi e Albertini lo considera come una prova certa, anche se ha aggiunto al corpus epigrafico sul numerus dei Palmireni un altro testo, leggermente più antico o contemporaneo del testo precedente. Si tratta ugualmente di una dedica pro salute imperiale,voluta da un legatus designato totalmente o parzialmente con la sua titolatura. La dedica, inquadrata da una cornice, è completa in alto, a sinistra e in basso, ma mutila a destra, dove sopravvive solo l’ultima riga; nell’articolo compare anche il fac simile del testo, pubblicato da Albertini su Revue Africaine. Si tratta di una dedica a Malkbel, offerta da un centurione della III Legio Augusta, Titus Claudius; Albertini ha restituito deo Malagbel[o] alla riga 1, come se in origine il nome del dio fosse comparso in forma integrale. Solitamente, il nome di Malakbel, in Africa, è abbreviato come Malag (bel) o Malagb (el), ma, in forma completa, segue la declinazione latina, come in un ex voto indirizzato alla stessa divinità, trovato sempre a El

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Kantara, da un centurione della III legione Augusta, chiamato Titus Flavius Mansuetus294. Quest’altra epigrafe

è importante perché fornisce indicazioni su come completare le righe 2 e 3, per cui ci manca l’inquadratura dello specchio epigrafico, altrimenti chiaramente visibile. Alla riga 3 Albertini ha completato la lettera P e aggiunto la R richiesta dalla tipica formula pr (o) pr (aetore) e ciò si adatta allo spazio presente. Alla riga 2, tuttavia, la lacuna è maggiore; se la riga 1 termina un po’ prima della seguente, secondo un canone di eleganza piuttosto comune, si è costretti a porre un’O dopo la L, di cui non rimane che una piccola parte, e ne consegue che almeno tre lettere (quattro al massimo) erano state incise in origine a destra del carattere mutilo con cui termina la linea 2. Tuttavia, poiché la cornice é visibile all’altezza e a destra della linea 4, non è possibile inserire altre lettere alla destra della G cancellata, dove termina il nome della leg (io), iii aug (usta) e ciò ha indotto Carcopino a

distaccarsi dall’interpretazione di Albertini, il quale data il testo alla fine del regno di Marco Aurelio e Commodo, e la considera la prova che il numerus Palmyrenorum esisteva già in tale periodo. Il centurione T (itus) C[laudius] o C[laudius]…i…us apparteneva alla III legione Augusta, di stanza a El Kantara fra il 158 (regno di Antonino Pio) e il 225 (forse fino al 238), ma bisogna chiedersi se egli abbia comandato il numerus, affidato, sin dalla sua creazione, a un centurione: ciò è possibile ma non dimostrabile, poiché egli non si vale di questo titolo. Tutto quello che la dedica ci dice, come quella redatta da Flavius Mansuetus, è che egli era venuto a contatto con dei Palmireni e che essi gli trasmisero la devozione per la loro divinità, ma non si ha la certezza che i siriani fossero già qui costituiti come corpo autonomo. La presenza di un culto organizzato di Yarhibol a Lambesi non ha indotto Carcopino a ipotizzare in quella città la presenza di un numerus Palmyrenorum: è sufficiente che alcuni Palmireni vi abbiano soggiornato; soldati palmireni

possono essersi mescolati a diversi altri corpi, prima di formare un’unità autonoma. Provenendo da El Kantara, il testo ben si adatterebbe al periodo in cui si era formato un numerus indipendente. Ma in mancanza di altri indizi, non è fuori luogo neppure nel periodo precedente, sia che si stabilisca il punto di partenza agli inizi del regno di Commodo, sia che si ponga in precedenza la data di fondazione di tale corpo (ma non fino al 150, perché il Moqimo morto in quell’anno fu sepolto a Lambesi). Inoltre ignoriamo se egli fosse un militare e, ammesso che egli lo fosse, se egli faceva parte della cohors Chalcidenorum o di un altro gruppo ausiliario; si può invece indicare il periodo compreso fra il 164, quando i Calcideni si trovavano a Bir oum Ali, e i primi anni del regno di Commodo, in cui essa aveva raggiunto le truppe palmirene a El Kantara, dove Agrippa figlio di Taymé ne assunse il comando per dieci anni, sotto un unico imperatore. Se la data del 177-178 proposta da Albertini fosse vera, si potrebbe pensare semplicemente che alcuni centurioni si fossero convertiti alla religione di Palmira, in seguito ai contatti con Palmireni che già frequentavano, senza ancor comandarli, nella cohors dei Calcideni: ciò non mina in alcun modo le ipotesi di

Carcopino, ancora di più se, come ritiene l’Autore, la data è troppo alta di almeno quindici anni. Albertini si è fatto influenzare dalla riga 3, dove sappiamo che vi era il nome del legato imperiale, la cui funzione è indicata subito dopo, e che, avendo creduto di riconoscere nel testo il solo A(ulus) Iulius noto dai Fasti della Numidia, vale a dire Pompilius Piso T. Vibius ... tus Laevillus Berenicianus, lo ha spinto a subordinare a questo tutti gli altri dati e a collocare la data dell’iscrizione fra il 176 e il 178, quando egli fu legatus in Africa. Pompilius in effetti esercitò la propria attività anche nell’area del limes e provvide alla ricostruzione dell’anfiteatro di Mezarfelta a El Outaya, ma Carcopino ritiene che l’ipotesi vada abbandonata, in quanto i Fasti sono incompleti e future scoperte potrebbero rivelare l’esistenza di un altro Aulus Iulius (a somiglianza delle dediche di Doucen, scoperte dall’Autore, realizzate da Titus Iulius Antiochus, governatore di Numidia sotto Gordiano III e prima ignoto); inoltre il nome di Aulus Iulius Piso non riempie adeguatamente la lacuna e gli altri dati forniti dall’iscrizione non si accordano con l’epoca in cui Pompilius fu governatore. Altre iscrizioni africane sembrano indicare un nome più corto, come A. Pompilius Piso Laevillus attestato a El Outaya e A. Iulius Piso a Lambesi295. Per rendere possibile l’integrazione Pisone, Albertini trasforma in E la

parte centrale dell’asta che compare sulla pietra, e che più facilmente potrebbe essere trasformata in T o L, o ancora in I. In ogni caso, egli deve considerare come presente la lettera L che segue il gruppo AIV, e il cui tratto orizzontale inferiore non si è conservato, oltre a scrivere il gentilizio Iul(io) abbreviato, mentre scrive integralmente il cognomen Pisone. Tutte queste ipotesi non sono improbabili, ma riunite insieme sono forzate, anche se nulla, al di là del contesto, impedisce di ricostruire A(ulo) lulio Pisone, ma non è una ricostruzione né evidente né certa.

294

CIL VIII, 2497. 295 CIL VIII, 2582-18090, 2488 e 2557.

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Per ottenerla, Albertini suppone che nella riga 4 vi sia il nome del centurione dedicante al nominativo, quello del legato propretore in ablativo alla riga 3; di fatto, fra la P incompleta che, secondo la sua opinione, termina la riga 2 e che egli raddoppia, e la A con cui comincia la terza linea, non pone nessuna ulteriore integrazione. Così facendo, la menzione del legato basterebbe come indicazione cronologica, ma una simile opinione non è conforme all’uso. Nelle dediche della Numidia, s’inserisce abitualmente il legato all’ablativo assoluto solo se è preceduto o non è seguito dal dedicante o dai dedicanti al nominativo. E’ ad esempio questo il caso delle dediche di El Kantara e Bir oum Ali, apposte dalla cohors I Chalcidenorum ad Antonino Pio e Marco Aurelio, oppure della dedica che ricorda il restauro dell’anfiteatro di Mezarfelta296. Se il nome dei dedicanti al nominativo viene dopo quello dei legati all’ablativo, questo è anticipato dal participio dedicante, a volte abbreviato in dedic. Si tratta di una regola applicata sia dai successori sia dai predecessori di A. Iulio Piso (vedi ad esempio CIL VIII, 2547).

La lettura di Albertini costituirebbe un’eccezione non giustificata e alla linea precedente non vi è spazio sufficiente per inserire dedicante, anche in forma abbreviata; è necessario dunque cercare un’altra costruzione, dove il nome del legato è al genitivo e non all’ablativo. Ciò fa escludere A. Iulius Piso, perché la S di Pisonis non corrisponde al principio di tratto ancora visibile alla fine della terza riga; inoltre l’epigrafe è

posteriore al periodo in cui egli fu governatore in Africa sotto Marco Aurelio. Alla linea 2, l’abbreviazione imp. è preceduta da n.s. (dominus noster), che si diffonde dai Severi in poi; Albertini non ha tenuto in considerazione tale abbreviazione nella sua prima edizione del testo, ma successivamente, nella Revue Africaine, ha ammesso che tale formula non era ancora comune sotto Marco Aurelio. In realtà, la formula dominus noster non ricorre mai, a parte alcune eccezioni: sotto Adriano, nei marmi di Chemtou, dove dominus indica “padrone” in senso materiale, nel testamento di un liberto, che naturalmente considera il princeps come proprio padrone; in un ex voto bilingue dall’Egitto, dove traduce il

greco attributo comune in un paese che era più proprietà privata dell’imperatore che una semplice provincia297. Sotto Antonino Pio, dominus è impiegato in una lettera come titolo di cortesia, mentre sotto Marco Aurelio e

Lucio Vero, o Marco Aurelio e Commodo, ricorre in alcune iscrizioni in greco rinvenute in Oriente, con riferimento ad entrambi gli Augusti, ma non è ancora né tradotto né abbreviato298. L’equivalente latino appare in Oriente solo sotto Commodo, e si tratta ancora di un titolo eccezionale e limitato alle aree periferiche; se si esclude la lettera dei procuratori demaniali che fu allegata alla petizione dei contadini del Saltus Burunitanus (Souk el Khmis) fra il 180 e il 183, e che non costituisce una testimonianza valida perché si tratta di un documento epistolare, oltre a provenire dai servitori di Commodo, che ovviamente si rivolgono a lui con il titolo di dominus; si ritrova inoltre a Dura, città abituata

al rigido protocollo dei re parti e situata ai confini dell’impero. In Africa tale formula non è comune neppure sotto Commodo, mentre ricorre in numerose iscrizioni databili al regno di Settimio Severo e in seguito di Settimio Severo con Caracalla, prima in forma completa e poi abbreviata299. La più antica attestazione della formula completa è forse quella di Henchir el Hammam, redatta fra il 193 e il 195, pro salute et victoria di Settimio Severo (CIL VIII, 17726); gli esempi diventano numerosi negli anni di

regno congiunto di Settimio e Caracalla. L’iscrizione di El Kantara può risalire ai primi anni del regno di Settimio Severo, e non può essere anteriore. La formula d (ominus) n (oster) si diffuse ampiamente nel corso del III sec., ma ci offre solo un punto di

partenza: bisogna cercare altrove le prove che consentono di fissare al 193-194 la redazione di questa dedica a Malakbel. Le caratteristiche epigrafiche, secondo Albertini, datano il testo più al II che al III sec., e perciò la formula non si discosta molto dal terminus a quo appena indicato.

296 CIL VIII, 2488. 297 CIL VIII, 14564, 14565 ecc., CIL III, 6998 ; IGRRP, 1207= DESSAU 8908. 298

CIL VI, 2120. 299 Cfr. Ics, Indices du CIL, VIII, pagg. 1092-1093.

182

Carcopino, non avendo visto l’originale, si affida al giudizio dell’altro studioso, pur notando che il regno di Settimio Severo occupa otto anni del II sec. d.C. e che difficilmente i caratteri paleografici possano fornire una datazione così sicura di un ex voto militare redatto a El Kantara. Il testo offre però fortunatamente un indizio più certo: l’opposizione fra il singolare d(omini) n (ostri) alla riga 2 e il plurale Augg. per Augustorum

alla linea 3. Albertini, accorgendosi della contraddizione, ha cercato di correggere la linea 2, sostenendo che ci si è accontentati di geminare la P di imp., senza porre il plurale nn. dd. Questo consente di allungare il testo troppo breve alla riga 2, e a confermare l’identità del legatus, poiché Piso cominciò il proprio incarico in

Africa sotto Marco Aurelio nel 176 e terminò sotto il regno congiunto di Marco Aurelio e Commodo, nel 177 o 178. Tuttavia, la lacuna alla fine della riga 2 non è completata, poiché richiede almeno altre tre o quattro lettere, e ancora mancano indizi sufficienti a provare con sicurezza l’identità di Pisone. Inoltre sembra poco probabile che il lapicida sia stato in grado di geminare le G di leg. Augg. alla riga 3, ma non la D e la N dei due Augusti. Spesso, infatti, i lapicidi africani chiamano anche il Caesar Augustus, e quindi si riferiscono a entrambi come gli Augusti. Vi sono a tale proposito due esempi significativi: possediamo due dediche a Caracalla imperator destinatus, risalenti al 197, anteriori di qualche mese alla nomina di questo principe ad Augustus. Entrambe furono realizzate dal legatus Q. Anicius Faustus, che governò la Numidia dal 196 al 201, e poste a Timgad (CIL VIII, 17870) e Lambesi (CIL VIII, 18256). In quest’ultima città, il nome di Anicio è accompagnato dalle abbreviazioni leg. Aug. pr. pr., mentre a Timgad vi è la sigla Augg.

Una dedica di Lambesi rivolta a Settimio Severo, Caracalla e Geta, redatta sempre per volere di Anicio Fausto nel 198, presenta la formula leg. Auggg. pr. pr, quando a rigore Geta dovrebbe essere chiamato Caesar, giacché il fratello maggiore aveva appena ricevuto il titolo di Augustus. Non è quindi necessario correggere l’ex voto di Malakbel a El Kantara; esso è stato inciso non sotto il regno congiunto di due Augusti, ma durante quello di un Augustus e di un Caesar, cui è stato attribuito il titolo che avrebbe ricevuto in seguito. Queste considerazioni escludono ancora una volta Giulio Pisone e ci riportano alla fine del II- inizi del III sec. d.C., quando i militari palmireni operano in Africa e si diffonde l’uso di associare al governo il futuro imperatore con il titolo di Caesar. La nuova dedica di El Kantara offerta ad un solo imperatore all’epoca di un legatus dei due Augusti si data

forzatamente ai periodi in cui tale forma di gestione del potere fu adottata: nel 193-196, quando Settimio Severo, in qualità di Augustus è fiancheggiato dal Caesar Clodio Albino, oppure nel 196-198, anni in cui a Settimio si affianca come Caesar il figlio Caracalla, o ancora nel 221-222, durante il biennio che vede associati Elagabalo e Severo Alessandro come Augustus e Caesar. I Fasti non contengono indicazioni sul periodo 221-222: nulla impedirebbe di collocarvi un legatus A. Iulius non ancora noto, oppure, dalle poche lettere rimaste, si potrebbe pensare a un clarissimus come Atul (enus) Rufinus, quindecenviro e senatore indicato nel resoconto dei Ludi Saeculares del 203; il genitivo Atuleni Rufuni

riempirebbe esattamente la lacuna. Tuttavia, si tratta di un’ipotesi che non è corroborata da nessuna prova. I Fasti del 193-196 sono giunti al completo: nel 193, durante il breve regno di Pertinace, il governatore di Numidia si chiamava L. Naevius Quadratarius, seguito nel 193-195 da C. Iulius Lepidus Tertullus, cui successe Q. Anicius Faustus, fra il 196 e il 198 d.C.; non vi è stata soluzione di continuità fra Tertullo e Anicio. Pallu de

Lessert non ha esteso oltre il 195 l’incarico di Tertullo, poiché nella dedica che egli pose in onore di Settimio, manca il cognomen Pius, ricevuto dall’imperatore durante la quinta salutatio, che risale al primo semestre del

195. Tuttavia si tratta, secondo Carcopino, di uno scrupolo eccessivo, poiché ci sono iscrizioni sicuramente datate al 196 dove il cognomen Pius non compare, e si può quindi legittimamente pensare che Anicio Fausto,

console designato nel 197, sia successo senza interruzioni, nel 196, a Tertullo come governatore della Numidia; anche quest’ultimo era stato nominato consul designatus quell’anno o quello precedente: si deduce quindi che entrambi potrebbero essere il legatus ricordato nella dedica a Malakbel.

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Escludendo che il nome del governatore comparisse all’ablativo e dato che non vi è spazio sufficiente per inserire il participio dedicante o dedic (ante), si deve per forza ammettere che tale nome fosse al genitivo. In una dedica a Malakbel offerta da soldati pro salute imperiale, il governatore può essere citato poiché, in

considerazione suo rango, è associato alla preghiera o può essere colui che ne ha ordinato la realizzazione; l’epigrafia numidica offre alcuni esempi a tale proposito, con espressioni quali pro salute d(omini) n(ostri) imperat(oris)[et]….le(ati) Aug(ustorum) pr(o) [pr(aetore)] nel primo caso; pro salute d(omini) n(ostri) imp(eratoris) iussu o iusso o cura o mandatu …leg(ati)… nel secondo300.

La seconda formula escluderebbe Anicio Fausto, che ovunque, nei casi noti, ricorre con due nomi, a favore del predecessore C. Iulius Lepidus Tertullus, la cui onomastica può essere indifferentemente completa o

abbreviata. La seconda dedica di El Kantara può essere ricondotta a una datazione vicina alla prima, verso il 195 o l’inizio del 196, sotto l’Augustus Settimio Severo solo imperatore, e il Caesar Decimo Clodio Albino, pur non

essendo ancora entrato in aperto contrasto con Settimio, aveva avanzato le proprie pretese a essere chiamato Augustus, e di conseguenza non era più associato nelle preghiere dei soldati. La prima formula, che non pone problemi nella sua semplicità, può dar luogo a d (omini) n (ostri) imperat (oris)[et]….le (ati) Aug (ustorum) pr (o) [pr (aetore), oppure a d (omini) n (ostri) imperat (oris)[et]A (uli) Iu[l (i) [Lepid] l[e]g (ati) Aug (ustorum) pr (o) [pr (aetore)].

Alla seconda ricostruzione si può obiettare, oltre all’argomento derivato dalla grafia imper, che, se è legittimo scegliere fra i cognomina di Iulius Lepidus Tertullus, un’iscrizione di Djemila conservata al Louvre, di lettura certa, ci impedisce di attribuirgli un altro praenomen che non sia il Caius indicato dalla lettera C., alta 7cm. Tuttavia, per quanto rara, la grafia imper. al posto di imp. è attestata, e Tertullo non sarebbe il primo ad avere più praenomina, né il primo A(ulus), indicato sia come Aulus sia come O(lus), divenuto Caius a causa di un

lapida che ha confuso la C e la O maiuscole. Queste obiezioni mantengono la loro forza contro una lettura che l’Autore non ritiene possibile mantenere. Rimane la prima ricostruzione, anche se resta il problema dello scarto fra i caratteri e la fusione in una sola lettera N dell’asta e della V del gruppo AIV. Marrou, in missione a El Kantara a settembre, ha assicurato a Carcopino che lo stato di conservazione della pietra autorizza tale lettura, pur senza imporla; si tratta della lezione preferita dall’Autore, giacché, oltre ad adattarsi senza sforzo alla lacuna, ella permette di fissare la data dell’iscrizione al 196-201, anni in cui Anicio Fausto fu governatore, e in cui la formula dominus noster, già diffusa in precedenza, può essere espressa dalla formula d. n. L’iscrizione copiata da Carcopino a El Kantara nel 1924 e pubblicata su Syria l’anno seguente, rimane, in ogni caso, la più antica testimonianza pervenutaci della presenza in questo luogo di un numerus Palmyrenorum. La

sua data di fondazione rimane dunque agli anni di Settimio Severo, e non vi sono dati a sfavore di un possibile collegamento fra la formazione di tale unità militare e la romanizzazione di Palmira. Anche i testi raccolti da Albertini rafforzano questa ipotesi: su 70 testi pubblicati, solo 3 sono sicuramente anteriori a Settimio Severo; inoltre lo studio da egli condotto sulla viabilità di El Kantara ha assicurato che è dopo Pertinace, sotto Caracalla, il cui nome si legge sulle più antiche pietre di confine giunte fino a noi, o forse già sotto Settimio Severo, che le miglia della strada che conduceva a Sadouri ed El Gahra cominciarono a essere contate, non più, come in precedenza, da Lambesi, ma a Cal(ceo), vale a dire da El Kantara, la cui importanza

era appena stata accresciuta dalla costituzione della unità siriane lì acquartierate.

300 Ad esempio: CIL VIII, 2466(pro salute imperatoris et legati) o 2637 (pro salute imperatoris et victoria legati).

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16. CANTINEAU 1933 J. CANTINEAU, Tadmorea, in Syria, tomo 14, fascicolo 2, 1933, pagg. 169-200.

Cantineau espone in quest’articolo le più importanti scoperte epigrafiche avvenute a Palmira nel 1931-1932, soprattutto in seguito allo scavo del tempio di Bel, mentre altre iscrizioni provengono da aree differenti o sono state acquistate dagli abitanti del villaggio arabo che le avevano ritrovate. Inoltre, l’abate J. B. Chabot, nella seduta del 4 marzo 1932 dell’Académie des Inscriptions et Belles – Lettres, ha presentato il primo fascicolo del tomo del Corpus Iscriptionum Semiticarum dedicato alle iscrizioni palmirene.

In esso sono pubblicate tutte le iscrizioni onorifiche e religiose conosciute sino al 1914, e l’inizio dei testi funerari. Un secondo testo conterrà invece le rimanenti epigrafi funerarie. Chabot ha espresso inoltre la propria convinzione che ormai Palmira non offra più molte epigrafi, e che quelle che emergeranno non possano essere molto lunghe. L’Autore, al contrario, rileva come il suolo di Palmira conserva ancora molte iscrizioni che attendono di essere portate alla luce. Al Deposito delle Antichità di Palmira, inoltre, vi sono duecento iscrizioni o frammenti di epigrafi inedite; i testi scoperti da Ingholt e non ancora pubblicati superano la cinquantina e alcuni sono piuttosto lunghi. Fino al 1925 si sono raccolte solamente le iscrizioni affioranti dal terreno, e negli anni successivi, l’unico grande scavo è stato quello del tempio Bel, che ha riguardato quindi una porzione molto limitata della città. La sabbia ricopre la cosiddetta Agorà per 2,50 m e il teatro è completamente insabbiato, e nel resto del sito la copertura varia da 50 cm a 2 m. Vi sono inoltre le zone di necropoli: quella sud-occidentale, pur scavata da Ingholt, presenta ancora aree inesplorate, mentre quella di sud-est, a parte alcuni sondaggi compiuti da Cantineau nel 1930, non è mai stata scavata. Le necropoli ovest e nord-ovest sono meglio conosciute, ma non sono ancora state completamente studiate. Nel 1922, Chabot stimava che i testi conosciuti all’epoca fossero all’incirca 700: l’Autore ritiene che ne esistano almeno altrettanti inediti, scoperti o da scoprire.

1.La dedica del tempio di Bel R. Amy scoprì nel gennaio 1932, all’interno della cella del tempio di Bel, una base di statua riutilizzata in muro di epoca tarda; essa è conservata al Deposito delle Antichità di Palmira. La base misura 88 cm d’altezza, ed ha una larghezza massima di 53 cm e minima di 46 cm; essa reca un’iscrizione in palmireno di 7 righe(altezza media delle lettere 18 mm); l’Autore ne ha dato comunicazione, tramite Dussaud, all’Académie des Inscriptions et Belles – Lettres, nella seduta del 4 marzo 1932 (fig. 22).

Traduzione: “Nel mese di Tisri, l’anno 357 (ottobre 45); questa statua è quella di Lishams, figlio di Taibbôl, figlio di Sokhaibêl, della [tribù] dei Benê Komarâ, che ha dedicato il tempio a Bel, Aglibol e Yaribol, con i suoi santuari (o: grazie alle sue offerte sacre), il sesto giorno di Nisan, l’anno 343 (6 aprile del 32); i suoi figli (l’)hanno

eretta per onorarlo”. L’iscrizione è datata al mese di ottobre del 45 d.C.; la base sorreggeva l’immagine di Lishams, figlio di Taibbôl, figlio di Sokhaibêl, della tribù dei Benê Komarâ, , che consacrò il tempio a Bel, Aglibol e Yaribol il 6 aprile del 32 d.C. I nomi propri citati nel testo sono tutti noti; Cantineau condivide l’ipotesi proposta da Ingholt che i Benê Komarâ fossero la casta sacerdotale di Palmira301.Lishams doveva essere un personaggio importante, ma

la sua identità precisa sfugge: potrebbe trattarsi del gran sacerdote di Bel oppure di un importante magistrato cittadino. Il verbo aramaico impiegato per “dedicare” è lo stesso usato sia nella Bibbia ebraica sia nei Targumim (versione aramaica della precedente) per indicare la dedica del tempio di Gerusalemme a Yahweh ad opera di Salomone. Da tempo si sapeva che il tempio era chiamato dai Palmireni tanto “tempio di Bel” quanto “casa dei (loro)dei”(ad esempio nell’iscrizione 3923 e CaC5), e sembra che più divinità vi fossero adorate, ma sino alla scoperta di questa iscrizione si ignorava quali fossero gli dei associati a Bel nel suo santuario, vale a dire Yarhibol e Aglibol, rispettivamente dio del sole e dio della luna. La presenza di questa triade era già attestata dallo studio di alcuni monumenti figurati e ne era emersa la grande importanza, confermata d’altronde dal fatto che i tre dei erano adorati nel principale santuario della città. Cantineau ha tradotto la fine della quinta riga, poco chiara, con “i suoi santuari”con riferimento al tempio, poiché la cella del tempio di Bel racchiude due santuari, uno all’estremità nord (probabilmente il principale), l’altro a quella meridionale. Dussaud, al contrario, ritiene che il termine vada tradotto con “le sue offerte

301 INGHOLT 1932 (Appendice nr.12), pag. 289 n°1.

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sacre”, ma l’Autore ritiene tale traduzione meno probabile, poiché è impiegata una parola che in aramaico può solamente indicare la santità o un luogo sacro. La data, indicata chiaramente alla riga 6, deve essere considerata sicura. Dalla dedica si può evincere che la cella del tempio era quasi terminata nel 32 d.C., ma sappiamo che il recinto con il suo portico, così come i propilei, furono completati in seguito. La data del 6 di Nisan è molto significativa: moltissime dediche palmirene risalgono a tale mese e ci si è spesso domandati se la festa più importante, o quantomeno una delle maggiori, cadesse proprio in tale mese. Février, ne La Religion des Palmyréniens, ha esaminato approfonditamente la questione, riunendo tutta la documentazione disponibile, fornendo dati statistici precisi: egli rifiuta di pronunciarsi nettamente sulla questione, ma afferma con certezza che le dediche al dio anonimo si raggruppano in due periodi: marzo-aprile e agosto-ottobre. Le date delle iscrizioni rinvenute in situ all’interno del tempio di Bel confermano in qualche misura queste

osservazioni; si tratta di 10 iscrizioni, di cui una, CaC 5, data al mese di Siwan (giugno), e CaC 3 a quello di Ab (agosto), mentre tre (3915,3917, CaC 4) si riferiscono al mese di Kanum (novembre). Due risalgono a Nisan (3916, 3919) e tre (3914,3923, CaC 31) al mese di Adar (marzo). Su dieci dediche, 3 risalgono a novembre e cinque al periodo marzo-aprile. La preponderanza di dediche risalenti a novembre si spiega con la corrispondenza fra il mese siriano di Kanum e quello di Marheshwan a Babilonia, consacrato a Bel – Marduk, perché “il più saggio fra gli dei”; è dunque naturale la scelta di dedicare delle statue nel mese di Bel. Per quanto concerne il periodo Adar - Nisan, i dati sono ancora più chiari: la scelta del 6 di Nisan per consacrare il tempio non può essere casuale, e doveva corrispondere a una delle grandi feste religiose di Palmira, così come il tempio di Gerusalemme fu consacrato durante la Festa dei Tabernacoli. A Babilonia la festa principale di Bel (akitu), o festa dell’anno nuovo, era celebrata fra l’1 e l’11 di Nisan; il testo fa ipotizzare che avvenisse lo stesso anche a Palmira. Ciò spiegherebbe anche l’abbondanza di dediche di statue in marzo-aprile: le une sono poste in aprile nel corso della festa, mentre le altre erano posizionate in marzo, in modo da essere visibili durante la festa. Non conosciamo però le motivazioni legate alla precisa scelta del giorno 6, perché i testi babilonesi che descrivono il rituale delle feste si fermano alla sera del 5. Delle cerimonie del 6, sappiamo solamente che il dio Nebo andava a cercare il padre Marduk, e lo conduceva nel proprio tempio Ezida. Potrebbe darsi che si approfittasse dell’assenza di Bel Marduk per compiere le prime cerimonie di consacrazione del suo nuovo tempio.

Fig. 22. Foto dell’iscrizione con la dedica del tempio di Bel.

1. Architetti e artisti palmireni

Sino al 1932, non si conosceva alcun nome d’architetto o d’artista a Palmira; due testi, di cui uno molto importante, hanno colmato in parte questa lacuna.

A. La prima dedica è incisa su di una base quadrata, reimpiegata in una delle abitazioni del villaggio sorto nel cortile del tempio di Bel. Traduzione: “Alessandro, architetto del dio Bel, ha fatto”. Essa reca un’iscrizione in greco, relativa a un certo Alexandros, architetto del tempio di Bel: un edificio così grande doveva richiedere costantemente riparazioni o sistemazioni, ed evidentemente un architetto vi era addetto in permanenza. La base è alta 54 cm, con larghezza massima di 56 cm e minima di 37 cm.

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B. Su di una colonna giacente a terra (punto 82 della planimetria Gabriel) è incisa un’epigrafe trilingue (latino-greco - palmireno), molto mutila e di difficile lettura. Traduzione del testo latino: “Il senato e la città dei Palmireni, ad Hairân, figlio di Bonne, [chiamato] anche Rabb'el, [uomo] pio e che ama la sua patria”. Traduzione del testo greco: “Il Senato e il Popolo ad Hairân, figlio di Bonne, [chiamato] anche Rabb'el, decoratore pio e che ama la sua patria, per onorarlo; l’anno 385, nel mese di Xandikos (aprile 74)”. Traduzione del testo palmireno: “Il senato e il popolo ad Hairân, figlio di Bonne, “[chiamato] anche Rabb'el, decoratore negli edifici del dio, e che ama la sua patria; gli hanno eretto questa statua per onorarlo, nel mese di Nisan, l’anno

385 (aprile 74)”. Essa è racchiusa in un doppio cartiglio a coda di rondine, in onore di Hairân, figlio di Bonne, “[chiamato] anche Rabb'el,uomo pio e che ama la sua patria”, per volontà del Senato e della città di

Palmira. Il testo latino è il più breve, e si sviluppa su tre righe (altezza media dei caratteri 3 cm), quello greco si sviluppa su 4 righe (caratteri alti circa 3 cm) e aggiunge che la dedica fu eretta nell’aprile del 74 d.C. e la qualifica di Hairân, kosmete. La parte in palmireno (4 righe con lettere alte mediamente 2,5 cm) ci fornisce ulteriori informazioni: Hairân compì la sua opera di artista all’interno “degli edifici degli dei”. L’uso dell’accusativo nel testo latino fa supporre che Rabb’el sia il soprannome di Hairan e non quello di suo padre; i termini greci bule e philopatrin sono stati riprodotti

direttamente nel latino. Si tratta molto probabilmente della persona incaricata di realizzare l’apparato pittorico e scultoreo del tempio, e che era distinta dall’architetto. Si tratta dell’iscrizione che reca la più antica menzione dell’espressione “il Senato e il popolo”.

2.Sacerdoti e edifici di Bel. Nel 1931, durante la demolizione di una casa sorta all’interno del recinto del tempio di Bel, un operaio ritrovò un frammento di mensola (25 x 11 cm), recante un’iscrizione in palmireno su 7 righe, molto mutila, con caratteri piuttosto minuti (1,4 cm d’altezza). Si tratta della parte sinistra di una mensola di colonna, recante un testo onorifico, relativa alla consacrazione di un qualche oggetto al dio, in cui si menzionano

anche i sacerdoti di Bel e l’importante carica cittadina del segretario (cfr. il greco

in T. I,3 e Ca A6Alla riga 3 non compare il verbo consueto per indicare una consacrazione agli dei e secondo Cantineau si tratta della prima volta in cui il verbo che qui compare esprime tale significato; è piuttosto comune nell’aramaico orientale, ma sembra sconosciuto in quello occidentale. Il nome proprio Barkayo, alla riga 5, è già attestato. Il testo doveva essere di grande interesse, ma l’esiguità di questo frammento impedisce di coglierne il senso generale.

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3. L’iscrizione di Umm es-Salâbih Nella primavera del 1930 Seyrig segnalò all’Autore il ritrovamento da lui effettuato, presso un antiquario di Aleppo, di un basso rilievo raffigurante cinque divinità, con un’iscrizione di due righe sul basamento. In seguito Ploix de Rotrou, ispettore del Service des Antiquités di Aleppo, inviò a Cantineau una fotografia dell’oggetto e diverse copie dell’iscrizione. Purtroppo era mancante la parte destra del rilievo, e ciò rendeva quasi impossibile la comprensione del testo. Nel novembre 1930 Cantineau incontrò l’antiquario, che raccontò di come il rilievo fosse stato trovato da un beduino presso Wadi l- Miyah; lo studioso si recò in tale luogo nel 1931, viaggiando da Sagri fino a Bir Humayme, esplorando l’uadi e le aree circostanti e chiedendo informazioni ai beduini. La ricerca però non diede esiti, a parte la rilevazione di alcune rovine pressoché rase al suolo. L’oggetto fu acquistato nel febbraio 1932 dall’emiro el Qader per il Museo di Damasco. Egli interrogò gli antiquari e riuscì ad apprendere che chi aveva trovato il rilievo era un abitante di Suhne; un mese dopo Cantineau si recò con el Qader a Suhne, dove l’uomo in questione li accompagnò sino al luogo del ritrovamento, chiamato Umm es-Salâbih e situato presso l’uadi l-Miya. Egli affermò di aver trovato il rilievo presso alcune tombe arabe, ma non vi erano che i pochi resti già visti da Cantineau nel 1931, e nessuno sembrava appartenere all’epoca palmirena. Lo stesso sito di Umm es-Salâbih fu oggetto, alcuni mesi dopo, delle ricerche di Padre Poidebard. Egli si occupava del rilievo della via romana che conduceva da Palmira a Hit, e delle diverse aree di sosta. Grazie alle fotografie aeree fu possibile scorgere, lungo la via fra l’uadi l-Miya e Umm es-Salâbih, la planimetria di un’area di sosta: tale scoperta suggerì l’ipotesi che il rilievo provenisse da un piccolo luogo di culto annesso a tale area, anche se solo uno scavo potrebbe confermare quest’idea. Si tratta della dedica (68 x 5 cm, con caratteri alti 2 cm) fatta nel giugno 225 d.C. da uno stratega di Ana e Gamla, e dal suo luogotenente (?) Kaphathûth, figlio di Salôm. Ana, sulla riva destra dell’Eufrate, a un

centinaio di km da Abu Kemal, era già nota come accampamento palmireno, grazie all’iscrizione 3973, datata al settembre 132. Questa iscrizione ci informa che a capo di tale accampamento vi era un ufficiale palmireno con il titolo di stratega; Gamla corrisponde all’attuale Gmeyla, a 4 km da Ana. Il termine che designa Kaphathûth non è chiaro, ma è possibile che si tratti di un luogotenente, confrontandolo con un analogo termine arabo, ma l’Autore sottolinea come una simile accezione non sia attestata nell’aramaico. Il nome Kaphathûth è già attestato, ma è stranamente seguito da un nome femminile, per cui Cantineau ipotizza si

possa trattare di un figlio illegittimo.

La seconda riga è composta di tre parti, ma è di difficile comprensione: Cantineau non ritiene possibile spiegare le prime tre parole, cui segue la datazione e due parole di significato incerto. Si distingue l’espressione “ci si ricordi di …”, cui potrebbe seguire un nome proprio, ma il termine che compare non è attestato nell’onomastica palmirena; inoltre manca il patronimico (forse contenuto nella parte mancante del testo).

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Come seconda possibile traduzione Cantineau propone di leggere un infinito causativo, che darebbe luogo a “ che ci si ricordi di rappresentare allegoricamente”, anche se la giudica ancor meno soddisfacente della prima.

4. Dedica ad Allath e a Rhm. Nel maggio 1932 un antiquario di Aleppo mostrò all’emiro el Qader, conservatore del Museo di Damasco, la fotografia di un rilievo ritrovato a Hirbet es-Sâne, a qualche km a est-sud/est di Uzeribat (=Agerbat=Agareb);

in questo luogo vi sono alcune rovine, oggetto di scavo da parte del Conservatore del Museo di Damasco, Ploix de Rotrou. Traduzione: “Per Allath e Rhm, (questo è) stato fatto in rendimento di grazie per Rabb'el figlio di 'Awîdâ, figlio di Yad'ô. Ci si ricordi di Salmê, figlio di Cassianus”.

Questo bassorilievo rappresenta Atena-Allath, con elmo, lancia ed egida, seduta fra due leoni; alla sua destra un personaggio in piedi getta dell’incenso su di un altare. Sullo zoccolo è incisa un’iscrizione in palmireno su due righe, che riporta la dedica fatta da Rabb'el figlio di 'Awîdâ, figlio di Yad'ô, ad Allath e al dio arabo Rhm.

L’unione fra Allath e Rhm ricorre anche nell’iscrizione 3955, dove è citato anche il dio Sams. I nomi propri sono tutti conosciuti; si cita anche un Salmê, figlio di Cassianus,che potrebbe essere lo scultore. Su base

epigrafica il testo è databile al III sec. d.C.

5.Dedica a Ishtar. Presso il Deposito delle Antichità di Palmira è conservata una dedica parzialmente mutila a Ishtar, offerta da Y'dî'[bêl, figlio di Na'bâ,figlio di Y'dî'[bêl. L’iscrizione (5 righe in palmireno, con caratteri alti 1,2 cm)

compare sullo zoccolo di un bassorilievo (21 x 9 cm), rotto a sinistra, sopra il quale si intravedono due piedi e l’orlo di un abito femminile. Traduzione: “Nel mese di Tisri, l’anno 330 (?), questa stele è stata innalzata da [Y’di’bel], figlio di Na’ba, figlio di Y’di’[bel

in onore di] Ishtar e l’ha consacrato …”. La data non è certa (330?), poiché potrebbero esserci uno o due segni 20 alla fine della riga 1. Il nome Na'bâ in aramaico significa “corvo”: in siriaco na'bâ, in arabo na’ab). Padre Ronzevalle ha fatto notare all’Autore che il

nome di Ishtar ricorre nei testi aramaici di Assur e Hatra come termine generico per indicare le divinità femminili; Cantineau ritiene però che ciò sia vero solo quando segue un altro nome proprio. In questo testo è tuttavia possibile che ci fosse un altro nome di divinità, non conservato, alla fine della riga 3.

6. La casa degli archivi Due testi, secondo Cantineau, attestano la presenza a Palmira di un archivio, destinato a conservare i contratti privati e molto probabilmente anche i documenti pubblici; si tratta verosimilmente del

attestato in numerose città ellenistiche. A. Il primo testo è purtroppo poco esplicito; si tratta di un frammento di 25 x 18 cm, recante 4 righe in

palmireno mutile alle due estremità. Traduzione: “... Bonne, figlio di Rahb'e[l] (o : figlio maggiore)... questa. . . dei Benê Mithâ...

La casa degli archivi ha scritto … L’anno... 380 (?) “.

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Il testo menziona Bonne, figlio di Rabb’el , appartenente alla tribù dei Bene Mitha, oltre alla “casa degli

archivi”; la data è dubbia, in quanto fra la parola “anni” e le centinaia c’è una lunga barra.

B. Il secondo è inciso sullo stipite della porta di una tomba, ritrovato nei giardini nel luglio 1930, rotto

alle due estremità; la pietra è lunga 1,30 m x 7 cm e reca due righe in palmireno (i caratteri della prima linea sono alti 2,2 cm, quelli della seconda 1,7 cm, e forse sono posteriori). Traduzione: « [Questa tomba è stata costruita da X], figlio di Yarhibôlê, figlio di Zebidâ, figlio di Taimai,per sé, i suoi figli e i figli dei suoi figli, in loro onore per sempre; nel mese di Tebeth

(gennaio) dell’anno ... »

“ … per accordo (o: in quietanza) e la casa degli archivi ha deciso che colui che farà entrare qui un corpo di un estraneo, che non sarà [uno] dei figli maschi, dovrà al fisco [x] migliaia di dracme”. Esso è la dedica di fondazione di una tomba, cui però si aggiunge l’informazione che è prevista una sanzione, stabilita in accordo con la “casa degli archivi”, per chi vi seppellisca il corpo di un estraneo. Manca la prima parte, con il nome del primo fondatore, figlio di Yarhibole, nipote di Zebida e bisnipote di Taimai, che costruì la tomba per sé, i suoi figli e i loro figli, nel mese di gennaio dell’anno 4… Questa epigrafe ci mostra come la “casa degli archivi” non solo registrasse la proprietà delle tombe, ma stabilisse anche le ammende che chi le violava era tenuto a pagare allo stato.

7.La tomba, luogo sacro.

Un’iscrizione, conservata presso il Museo di Damasco, è incisa su di una lastra di pietra, in origine fissata a una parete. Si tratta di sette righe in palmireno, all’interno di una cornice in rilievo; l’iscrizione misura 25 x 22 cm, con caratteri alti 1,5 cm.

Traduzione: “Questo luogo profano, che è all’interno dell’ipogeo, è stato ceduto da Salmat, figlia di Sohaimô, figlio di Sohaimô, ad Azîzô, figlio di 'Addê, figlio di Rabb'el, per lui, i suoi figli e i figli dei suoi figli, per sempre. Nel mese di Tisri, dell’anno 190(ottobre 178).”

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Essa documenta la cessione di una parte della tomba di famiglia, fatta da una donna, Salmat, figlia di Sohaimô, figlio di Sohaimô, ad Azîzô, figlio di 'Addê, figlio di Rabb'el, nell’ottobre del 178 d.C. Il testo presenta

espressioni e nomi nuovi, anche se due lettere si confondono in modo tale da rendere molto difficoltosa la lettura. E’ notevole l’espressione “luogo profano”, per indicare che si tratta di una parte della tomba ove non sono ancora stati tumulati dei corpi; se vi fossero già stati inumati dei defunti,infatti, si sarebbe utilizzato il termine “sacro”. Il nome Sohaimô ricorre qui per la prima volta, probabilmente si tratta della forma originale

del greco del latino Sohaemus, nome diffuso anche fra i dinasti di Emesa. Altro nome non prima attestato è 'Addê, probabile forma aramaica del nome traslitterato in greco con

gli ultimi due riconducibili al siriaco ‘Adday).

8. La tribù dei Benê Mithâ.

Lo scavo del tunnel e del piano inclinato destinati a far passare le vittime sacrificali all’interno del tempio senza passare dai propilei ha restituito il tamburo superiore (riconoscibile da un abbozzo di astragalo) di una piccola colonna in pietra tenera, recante un’iscrizione in palmireno, redatta su tre righe in caratteri piuttosto arcaici (32 x 15 cm, con caratteri alti circa 3,5 cm). La colonna sorreggeva la statua di un personaggio per noi anonimo, figlio di Zabd'athêh, della tribù dei Benê Mithâ. Traduzione: “Statua di X, figlio di Zabd'athêh, della tribù dei Benê Mithâ”.

Alla riga 2 mancano le ultime lettere dell’ultima parola, benché la pietra sia intatta: potrebbe forse trattarsi di una dimenticanza del lapicida. L’importanza di questa iscrizione risiede nell’aspetto arcaico della scrittura, che si può ascrivere alla fine del I sec. a.C. o agli inizi del I sec. d.C., oltre alla menzione dei Benê Mithâ. Questa tribù è ricordata anche in

alcune altre epigrafi, tutte antiche: tre sono funerarie (4109, del 9 a.C., 4116 del 56 d.C., 4119 del 57 d.C.), una onorifica, non datata, riguarda la costruzione di un monumento (CaC11), un’altra su di una tessera (R1696), l’ultima di senso generale sconosciuto (7 b supra), risalente al 69 d.C. Tutte queste sette menzioni sono anteriori al 100 d.C. Il nome della tribù è abbastanza singolare, ma non è necessario, come fa Clermont – Ganneau, pensare che essa fosse composta da stranieri: i nomi arabi sono molto comuni a Palmira. E’possibile, secondo Cantineau, che si tratti non tanto di un gruppo familiare, ma di una corporazione, forse degli addetti alle sepolture e alle cerimonie funebri, poiché il loro nome può essere tradotto con “i figli del cadavere”.

9.La Scizia

Un frammento di mensola reca su una delle facce un’iscrizione in greco (4 righe visibili, 19 x 10 cm, con caratteri alti 1,8 cm) e sull’altra un testo palmireno (tre righe visibili, 24 x 8,5 cm, con caratteri alti 2 cm). La parte in greco è troppo frammentaria perché se ne possa ricavare una traduzione coerente, ma menziona una nave mercantile e la Scizia, probabilmente indicando l’area del Bosforo Cimmerio. Alla linea 3 sono nominati anche dei commercianti.

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10. Altare al dio anonimo. Un piccolo altare ritrovato presso Gobb-al-Qdeym, nelle montagne a nord di Palmira, conservato presso il Deposito delle antichità di Palmira, misura 64 cm d’altezza, con larghezza minima e massima di 23 e 30 cm. Una faccia reca un’iscrizione in greco su 8 righe (altezza media dei caratteri 1,2 cm), mentre quella opposta riporta un testo palmireno (caratteri di 1,5 cm); entrambe le iscrizioni sono molto mutile. Due lati dell’altare sono decorati con l’immagine di una capra scolpita a bassorilievo. Si tratta di una dedica al “dio senza nome”, offerta da Yarhib[ôlè, figlio di Mali]kô, figlio di 'Egè [figlio di X]; nella parte in greco il dio anonimo è

assimilato a Zeus “altissimo e pietoso”. Nel testo palmireno, mancano alcune unità alla data del giorno del mese di Iyyar, e anche l’anno (46…) è molto incompleto; la formula impiegata è piuttosto goffa: l’autore del testo doveva essere pressoché illetterato. Probabilmente mancano due righe alla fine del testo.

Traduzione del testo palmireno: “Nel mese di Iyyar, il giorno 25 (?), l’anno 46 …(?)… questo altare [è stato fatto] e consacrato da Yarhib[ôlè, figlio di Mali]kou, figlio di 'Egè [figlio di X, à Colui il cui] nome [è benedetto per sempre]”. Traduzione del testo greco: “A Zeus altissimo e soccorritore, Yarhibôlê, figlio di Malikou, figlio di 'Egè, figlio di … ha fatto e consacrato questo [altare]( perché lo mantenga) in buona salute, lui e i suoi figli, l’anno 7, nel mese di Hyperberetaios

(ottobre)”. Per quanto concerne il testo greco, l’Autore nota come, anche in un articolo pubblicato sul Journal Asiatique,

egli avesse sostenuto la trascrizione del nome palmireno Ege con qui si trovano le forme al genitivo

in quanto i nomi palmireni terminanti in aleph hanno in greco una declinazione poco definita (-

, come attestano diverse iscrizioni palmirene note (ad esempio CaA, pag.39, T3). Alla riga 4,

l’incisore ha confuso con scrivendo al posto di La formula è la consueta traduzione della corrispondente espressione palmirena. Nella linea 6, l’Autore ha ricostruito il verbo

, che manca anche nel testo palmireno. L’anno compare alle righe 7-8, indicato come l’anno 7, mentre in realtà si tratta del 507, cui mancano le cifre delle centinaia; la data però non corrisponde a quella indicata nell’iscrizione palmirena, che non è posteriore al maggio 409; la differenza di datazione fra parte in greco e parte in palmireno è un fenomeno conosciuto anche da altre iscrizioni cittadine, come ad esempio nell’epigrafe 3940= Inv. III,9. Le lettere di quest’epigrafe sono pochissimo curate e tratti inutili ne complicano la lettura: essi sono dovuti a un precedente testo palmireno cancellato e sostituito dal testo greco, e di cui rimangono alcune lettere nella parte bassa della pietra.

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11. Testi arcaici A. Un frammento con tre righe in palmireno (45 x 16 cm, con lettere alte 2 cm) è datato al giugno del 4

d.C. Tra i testi arcaici, è il più antico dei testi non funerari e, in generale, viene dopo le iscrizioni 4109 (9 a.C.) e 4112 84 a.C.) del Corpus. La pietra è rotta a sinistra, ma probabilmente non manca molto. Traduzione:” Nel mese di Siwan dell’anno 315 (giugno 4) hanno innalzato … Malko, figlio di IILKS QR'QPN, e Ogeilou, figlio di … di un bell’aspetto (?)”.

Il nome proprio alla riga 2 è abbastanza misterioso: potrebbe ricordare il termine giudaico – palestinese “cranio” o essere un nome partico. La riga 3 è di non facile interpretazione, potrebbe esserci un ricordo del termine siriaco zan, “forma, aspetto”, ma l’ipotesi non soddisfa l’Autore. Il senso è oscuro, non è indicato né cosa Malko e Ogeilû hanno elevato né a chi lo dedicassero.

B. Un secondo lacerto d’iscrizione è iscritto su di un blocco di pietra (45 x 44 cm); si sviluppa su 7 righe in palmireno, con grafia molto arcaica (lettere alte circa 3,5 cm). Traduzione: “[Che] ha costruito Moqimo, figlio di Zabdibol, figlio di Arima, della tribù dei Bene [?], per lui, i suoi figli e i suoi fratelli, e per Zabdibol, suo padre, in loro onore”.

La prima riga è completamente distrutta, a parte un’asta di una lettera, mentre ciò che resta nella riga 2 potrebbe essere un nome proprio. In seguito, l’iscrizione diviene comprensibile: vi si dice che Moqimo, figlio di Zabdibol e nipote di Arima, della tribù dei Bene [?], ha costruito probabilmente una tomba per sé, i suoi figli, i suoi fratelli e il padre Zabdibol, in loro onore. Il nome alla riga 4 è già noto da Ca A 36, 1.2 e 3. La tribù (Bene GDRWDR) menzionata alla linea 5 non è altrimenti nota, e

Cantineau non propone alcuna etimologia; i segni di riempimento alla fine della riga sono attestati in altre iscrizioni arcaiche (4113, 3966, CaC 18). L’Autore data l’iscrizione, su base epigrafica, alla fine del I sec. a.C. o ai primi anni del I sec. d.C.

12.”L’Epoca Felice”. Cantineau riporta un’osservazione sull’epigrafe religiosa 3993, pubblicata nel Corpus epigrafico dell’abate J.

B. Chabot, riguardo alla correzione effettuata da quest’ultimo alla riga 2, pag. 177, nonostante, confrontando la lista degli epiteti del dio anonimo da lui stabiliti alla pagina precedente, alcuni di essi non compaiano mai con un determinato prefisso. Egli osserva come la copia di Waddington riportata a pagina 177 sia esatta, come si può dedurre osservando la fotografia dell’iscrizione. Secondo l’Autore, si deve leggere “a Colui il cui nome è per sempre benedetto e all’Epoca Felice”. Egli ritiene che si tratti della traduzione palmirena dell’espressione latina Felicitas Temporum o Saeculi, che però compare nelle legende monetali solo dal regno di Marco Aurelio e Lucio Vero, nel 161; Temporum Felicitas e Felicitas Saeculi non sono attestati prima del 148, sotto Antonino Pio, mentre l’iscrizione risale al 111 d.C., e dunque fu redatta sotto Traiano. Non vi è dunque motivo di negare l’identità fra le due formule, ma solo di osservare come la seconda sia stata in uso prima di comparire sulle monete.

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13. Osservazione su CaC, Syria, XII, 2, pagg. 116-141.

L’Autore prosegue con alcune osservazioni su di un precedente articolo. Pag. 118: nella riga 8 dell’iscrizione n°2 va ripristinato il testo stabilito da Littman.

Pag. 124: Littman vede in una grafia fonetica; il passaggio da –a- a –o- è frequente nelle iscrizioni della Siria e del nord della Mesopotamia, ed è un fatto generale nel siriaco occidentale. Brockelmann pensa a un errore, causato dal termine successivo. Pag. 126: Littman paragona il nome della tribù al nome Sim’ir, che egli ha udito dai beduini siriani; si può pensare anche al nome arabo Ismail; si possono trovare inoltre Sham’al e Sham’alat, forse con il passaggio da –

t a –r.

Pag. 128: Littman paragona la forma aramaica al greco Pag. 131: La tessera, riprodotta nell’articolo con un disegno, indica i nomi divini Bel e Bel ‘astar. Su di un lato compare un leone o grifone (la testa non è identificabile), con la zampa alzata su di un animale più piccolo. Littman ritiene che si debba leggere “shedhaiya, cioè il plurale della parola siriaca shedha, “demone”. Si tratta di un prestito all’accadico shedu; in siriaco indica dei demoni malvagi, ma in accadico si riferisce anche a

entità positive. Pag. 137: indica la lettura della riga 1, n°16.

L’Autore esamina successivamente due questioni teoriche sollevate dal Corpus dell’abate Chabot, a pagg. 1-2,

relative l’una alla scrittura, l’altra alla lingua palmirena.

14. La lingua palmirena Chabot afferma che la lingua palmirena vada classificata fra i dialetti aramaici occidentali, e che la sua affinità con quelli palestinesi sia comprovata dalle nuove iscrizioni. Cantineau ritiene invece che questa frase possa indurre in errore un lettore poco esperto e che si debba precisare cosa si intende per lingua Palmyrenorum e sermo palmyrenus.

Se si considera unicamente la lingua delle iscrizioni, si può dire che essa è affine all’aramaico occidentale, ma solo a grandi linee, poiché bisogna ricordare che essa presenta sporadicamente, e specialmente nel III sec., dei tratti orientali ben definiti: gli stati enfatici al maschile plurale in –e, la preposizione - congiunzione de, gli infiniti del tema qattole, aqtole (considerato invece da Chabot come una prova del carattere occidentale del palmireno), la caduta della vocale u, desinenza della 3° persona plurale del perfetto, oltre alle prove che derivano del vocabolario. Ciò fa supporre che la lingua parlata a Palmira, il sermo palmyrenus, non

appartenesse all’aramaico occidentale. In Oriente, non si scrive quasi mai la lingua che si parla: c’è una distinzione molto netta fra la lingua scritta, arcaica, tradizionale e quasi fittizia, e quella parlata ogni giorno; così doveva essere anche a Palmira. L’aramaico antico, di aspetto occidentale, divenne, sotto una forma leggermente arcaica, la lingua scritta dei Palmireni. Ma a Palmira si parlava un dialetto orientale vicino al siriaco: man mano che la conoscenza dell’antica lingua scritta diminuì, numerosi elementi orientali filtrarono, dalla lingua parlata, nelle iscrizioni.

15. La scrittura palmirena Chabot ritiene che le iscrizioni mostrino tre tipi di scrittura: una più elegante, usata per le iscrizioni pubbliche, con lettere incurvate, di grandezza costante, spesso con legature a imitazione dei caratteri delle epigrafi greche. Vi era poi una forma di scrittura corsiva, meno elegante e di aspetto più rozzo, con lettere a volte di forma squadrata e altre più deformate, a somiglianza della scrittura siriana; essa ricorre in diverse iscrizioni private palmirene. La terza tipologia di scrittura è quella usata per le iscrizioni parietali redatte con penna e pennello, di cui Chabot afferma essere pervenuti solo pochi esemplari.

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Cantineau non concorda con Chabot su numerosi punti: innanzitutto sulle tipologie di scrittura palmirene. Secondo l’Autore, esistono solamente una scrittura monumentale e una corsiva; il secondo tipo individuato da Chabot non è un tipo di scrittura definita, ma semplicemente il risultato del lavoro di scribi ignoranti, che non conoscevano realmente la scrittura corsiva, ma che hanno ugualmente tentato di comporre un’iscrizione a carattere monumentale: da qui gli errori e le incoerenze, cosicché alcune lettere sono di tipo monumentale, altre corsive. Cantineau non ritiene inoltre possibile che la scrittura palmirena, come sostenuto da Chabot, sia potuta rimanere inalterata per tre secoli; d’altra parte, l’abate stesso, nel corso della sua opera, data le iscrizioni sulla base dei caratteri epigrafici e probabilmente egli ha voluto, con questa indicazione, semplicemente indicare che le forme di alcune lettere non si sono molto modificate nel corso del tempo. Chabot tuttavia, secondo Cantineau, trascura di precisare i dettagli di tale evoluzione: una delle caratteristiche della scrittura palmirena arcaica è che alcune lettere oltrepassano in basso la riga, mente altre la superano nella parte superiore; solamente in seguito la grandezza delle lettere diviene regolare, a somiglianza dell’epigrafia greca. L’Autore traccia poi l’evoluzione della scrittura palmirena monumentale, basandosi su di una ventina di testi, composti a circa 10-15 anni di distanza l’uno dall’altro. La scrittura palmirena arcaica è larga, libera, senza alcuna preoccupazione di modulare orizzontalmente o verticalmente le lettere. Alcune lettere superano la riga, altre non vi si appoggiano; la larghezza dei caratteri è piuttosto irregolare. E’ una scrittura chiara, in cui solo una lettera è spesso confusa; gli scribi tendono a tracciare lettere caratterizzate da lunghe curve armoniose, evitando linee dritte e angoli (ad esempio, si veda l’iscrizione 4109 della tomba di Athenathan).

Questo tipo di scrittura si mantiene durante il I sec. d.C. ma a mano a mano che ci si avvicina alla fine del secolo, essa perde gradualmente le sue peculiarità: i caratteri si dispongono sulla riga e raramente la superano, quelle molto larghe si normalizzano, le curve sono meno rotonde. E’ allora che nasce un nuovo tipo di scrittura regolare, conclusione di una tendenza apparsa già nel secolo precedente, ma che è spinta ora sino alle estreme conseguenze, anche con alcune assurdità. Le lettere non”invadono”più neppure lo spazio superiore, il che causa tuttavia la confusione fra diverse lettere. Inoltre si assiste a una rottura delle curve, che sono rimpiazzate da linee spezzate o dalla combinazione di riga dritta, angolo e curva. L’evoluzione è stata naturalmente graduale e solo nel III sec. d.C. riguarda tutte le lettere. Nel II sec., questa trasformazione non si è ancora completata, e dona alla scrittura una certa bellezza; si veda ad esempio l’iscrizione 4194, Choix, tav. XXVI, n°7. Alla fine del III sec. d.C., quando tutte le lettere presentano tratti spezzati, la scrittura diviene meno elegante (ad esempio Cac2). L’Autore delinea poi l’evoluzione delle varie lettere aramaiche; nell’esaminare tale sviluppo, bisogna naturalmente tenere conto della mano dei vari scribi: quelli più anziani possono aver mantenuto forme senza curve spezzate, anche quando la nuova generazione aveva già adottato le lettere con tratti spezzati. Inoltre, all’inizio, le forme spezzate possono mescolarsi spesso a quelle che non lo sono; alcune lettere possono assumere, in forma isolata, la rottura delle curve. E’ necessario dunque tener conto di fattori legati all’uso, al desiderio di innovare, agli arcaismi, ai difetti della pietra; bisogna considerare l’insieme del testo, più che le singole lettere: vi sono iscrizioni di aspetto arcaico, altre che sembrano più recenti. Pur così limitata, la conoscenza dell’evoluzione della scrittura permette di trarre conclusioni interessanti: per esempio, le iscrizioni di Malikhô Hasas poste nel tempio di Bel e datate al giugno del 25 d.C., e al mese di

novembre del 21 e del 24 d.C., non sono originali, ma copie redatte nel II sec. d. C. Schlumberger era giunto alle medesime conclusioni studiando i capitelli delle colonne: prima che il portico del peribolo fosse stato costruito, le statue onorifiche erano già state poste sulle basi quadrangolari; poi, terminato il portico, si sono poste le statue sulle mensole delle colonne, incidendo nuovamente le iscrizioni sulle mensole. Così anche l’iscrizione di Nesé, datata all’aprile 142, è in realtà una copia di III sec. d.C. Grazie allo studio

dell’evoluzione della scrittura, è possibile datare un testo con una sufficiente approssimazione, e distinguere le epigrafi originali da quelli copiate o nuovamente incise per una qualsiasi ragione.

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17. SEYRIG 1933 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 14 fascicolo 2, 1933, pagg. 152-168.

12. Textes relatifs à la garnison romaine de Palmyre.

L’articolo analizza alcune epigrafi relative alla guarnigione romana di stanza a Palmira rinvenuti nell’area occupata dal moderno villaggio di Tadmor. Vi sono testi di varia natura, soprattutto funebre e religiosa, ma anche l’indicazione della costruzione di un campo marzio per gli esercizi militari. Tali documenti consentono di conoscere meglio l’organizzazione militare della Palmirene, ma sono anche un indizio importante della probabile presenza in quest’area di un accampamento militare. Dalle iscrizioni emerse durante gli scavi di Dura sappiamo che, dopo le guerre partiche di Lucio Vero, si installò a Palmira una guarnigione a cavallo, il numerus Vocontiorum, alla cui presenza si deve la dedica del 183 d.C. che ricorda la creazione di un campo marzio e forse di un tribunale. Un’altra iscrizione, risalente forse all’epoca di Commodo, poiché non sembra né anteriore alla campagna di Lucio Vero né posteriore al regno di Settimio Severo e trovata nel portico occidentale del tempio di Bel, nomina il praefectus dell’ala di cavalleria che si trovava in città. Si evince dunque che, sotto Commodo, vi era

a Palmira una guarnigione stabile, formata da cavalieri. Una terza epigrafe documenta che un siriano, alla fine del 167, eresse nel santuario di Bel, la statua di un altro cavaliere romano, praefectus dell’ala Thracum Herculiana (forse l’ala sopra citata). Un busto conservato al Museo del Louvre, inoltre, datato alla stessa epoca, reca inciso l’epitaffio di un cavaliere che apparteneva alla

stessa unità. Ulteriore testimonianza della presenza di truppe romane nella Palmirene è la statua di Giove Eliopolitano dedicata dal praefectus della cohors II Thracum Syriaca, risalente, secondo Seyrig su suggerimento di Ingholt,

alla seconda metà del II sec. d.C. ed emersa nello scavo dell’avamposto di Soukhné. Mancano sfortunatamente a Palmira documenti relativi alla guarnigione nel periodo severiano, tuttavia è stato rinvenuto un piccolo altare, dedicato da un gruppo di arcieri a cavallo, che componevano la cohors I Flavia Chalcidenorum, all’imperatrice Otacilia, moglie di Filippo l’Arabo e madre di Filippo il Giovane, che all’epoca (244-247) portava il titolo di Caesar: ciò sembra suggerire una presenza della guarnigione romana a

Palmira almeno fino al regno di Filippo, visto anche che l’altare è stato ritrovato nella zona dell’accampamento militare; è probabile dunque che la presenza romana in Palmirene sia durata sino alla metà del III sec. d.C. L’ala Thracum Herculiana stazionò a Palmira probabilmente dal 167 sino al 185 d.C., quando è attestata a Copto in Tebaide. Il numerus Vocontiorum, presente in città dal 183 d.C., presumibilmente non sostituì l’ala Thracum, poiché formazione di rango inferiore, comandata da un semplice centurione, e dipendente dal praefectus dell’ala o della cohors più vicina, che, nel caso di una città isolata come Palmira, doveva essere certo quello di stanza nella città medesima. Il numerus deve essere stato chiamato a Palmira semplicemente per

rinforzarne la guarnigione. In questo stesso periodo la sicurezza della strada fra Palmira e Sura era garantita da truppe ausiliarie romane, in particolare la cohors II Thracum Syriaca, mentre a Dura vi era un distaccamento della IV Scythica e la cohors II Ulpia Equitata Civium Romanorum.

L’iscrizione posta sulla mensola del colonnato del santuario di Bel che sorreggeva la statua del cavaliere romano dimostra come la guarnigione di Palmira non solo difendeva la città, ma che il suo praefectus

partecipava anche all’amministrazione civile della stessa. La dedica fu posta dal consiglio e dal popolo in onore di C. Vibius Celer, probabilmente lo stesso personaggio che fu procuratore della provincia d’Arabia sotto Commodo e Settimio Severo, verosimilmente dopo aver militato nella vicina Siria. Egli deve aver ottenuto il diritto di cittadinanza a Palmira a titolo onorifico, perché difficilmente poteva essere palmireno per nascita: un editto di Marco Aurelio impediva che il governatore di una provincia fosse scelto fra coloro che vi erano nati, ed è molto probabile che si seguisse la stessa prassi anche per i funzionari di grado inferiore. Vibius fu nominato anche membro del “sinedrio “cittadino, organo di cui si hanno scarse notizie (si trattava di un’assemblea o di un collegio?): sappiamo che a Palmira i membri del senato locale erano detti bouleutes e che vi era un Consiglio dei Dieci o decaprotes (che ricorda i decemprimi dell’Anatolia), forse una commissione

nominata dal senato cui erano attribuiti determinati poteri governativi; la più alta magistratura cittadina era quella dei dieci arconti o strateghi. E’ possibile che uno di questi collegi fosse chiamato anche sinedrio o che questo titolo fosse stato concesso a Vibius insieme al diritto di deliberare con i magistrati locali, per conferire

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peso e ufficialità ai suoi pareri. E’ interessante notare che Vibius fu investito delle stesse prerogative che avrà in seguito Vorod, procurator imperiale e argapeta.

Tali prerogative non sono esclusive di Palmira, poiché spesso ai comandanti militari erano offerte cariche civili, non solo in Oriente, come ad esempio attestano anche i decreti di Sala in Mauretania, studiati da Gsell e Carcopino: anche qui l’ufficiale che comandava la guarnigione di stanza in città ne aveva la cittadinanza onoraria ed era investito di poteri che riguardavano sia le finanze sia la giustizia cittadine. E’ inoltre possibile che una guarnigione romana fosse di stanza a Palmira già sotto il regno di Adriano, se il suo comandante può essere identificato, come ha suggerito Dessau, con “colui che è preposto a Palmira”, come recita la Tariffa. In conclusione, sappiamo che Palmira fu annessa a Roma, almeno nominalmente anche se non di fatto, sotto il regno di Vespasiano, quando il legatus Traiano stabilì la via che collegava

Palmira a Sura e Damasco. Inoltre le statue dedicate a Tiberio, Druso e Germanico e la missione diplomatica affidata da quest’ultimo al palmireno Alexandros, così come la presenza di un pubblicano sotto il regno di Nerone e l’istituzione di una tribus Claudia, fanno supporre una presenza militare a Palmira anche prima del II sec. d.C. e suggeriscono un

forte legame fra la città e la provincia di Siria. Non si sa con sicurezza se i Romani, fino alle campagne di Lucio Vero, si siano affidati ai Palmireni per la difesa del confine, limitandosi a un supporto “tecnico”, come ad esempio nella costruzione delle strade, poiché non si conosce con precisione l’epoca in cui furono istituite le postazioni del limes siriano.

APPENDICE In appendice sono forniti i testi, i commenti e le immagini delle epigrafi citate nel testo o che forniscono un termine di paragone:

1) Mensola di colonna proveniente dall’interno del tempio di Bel, murata in una costruzione araba. L’iscrizione menziona Vibius Celer; si tratta probabilmente dello stesso personaggio menzionato anche da un’epigrafe di Gerasa, redatta all’epoca della legazione di C. Allius Fuscianus, divenuto console sotto Settimio Severo, e non datata; è possibile che Vibius abbia comandato un’ala a Palmira, e poi sia stato nominato procurator nella provincia d’Arabia. Il portico sembra essere stato costruito

durante il regno di Antonino Pio (fig 25). 2) Mensola proveniente dal colonnato occidentale del tempio di Bel: l’iscrizione, già pubblicata, ma in

maniera incompleta, contiene la menzione dell’ala Herculiana e risale al 167 d.C. 302. Aurelius Mareas (nome di origine semitica) deve aver ricevuto la cittadinanza romana da Settimio Severo, di cui porta il gentilizio. Iulius Iulianus è identificato da Puchstein con L. Iulius Vehilius Gratus Iulianus, prefetto

del pretorio sotto Commodo. Stranamente dedicante e beneficiario sono citati entrambi al nominativo: forse si tratta della confusione fra la semplice legenda di statua e la formula dedicatoria. Si tratta della più antica menzione dell’Ala Thracum Herculiana, che è sempre stata considerata come risalente al regno di Settimio Severo, ma che sembra aver militato in Oriente dal I sec. d.C., fino al suo trasferimento a Copto nel 185. Perdrizet e Seyrig hanno copiato a Seleucia di Pieria, ma non pubblicato, una dedica non datata fatta da un prefetto dell’ala a Zeus Keraunios.

3) Busto funebre di Vibius Apollinaris, conservato al museo del Louvre, con iscrizione latina in un cartiglio a coda di rondine. Nella stele è visibile parzialmente il cavallo; il cavaliere regge con una mano una frusta, mentre non è chiaramente individuabile l’oggetto che stringe nell’altra, benché sia diffuso nei ritratti dei cavalieri e cammellieri palmireni. Risale, secondo la classificazione di Ingholt, al 150-180 d.C. Il nome Apollinaris è una traduzione del semitico Barnebo, e il personaggio ritratto

potrebbe essere dunque un palmireno o più in generale un siriano; può anche darsi che abbia ricevuto il gentilizio da Vibius Celer (fig. 23).

302 DESSAU, ILS, 8869.

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Fig. 23. Busti del cavaliere Iulius Bassus e del meharista Vibius Apollinaris.

4) Frammento mutilo di iscrizione latina proveniente dal villaggio di Tadmor, che menziona l’ala Ulpia

I singularium, che fu di stanza in Oriente dalle guerre di Lucio Vero sino ai Severi.

5) Busto maschile proveniente da Tadmor, conservato nel Deposito delle Antichità di Palmira, che raffigura Iulius Bassus, cavaliere dell’ala Ulpia singularium, accompagnato da iscrizione latina; il ritratto ricorda quello di Vibius Apollinaris. Iulius morì probabilmente all’epoca di Commodo e porta nelle mani i medesimi attributi del busto di Vibius Apollinaris (fig.23).

6) Placca di calcare proveniente dal nuovo villaggio, recante il nome di Valerius Gaianus, duplicarius dell’ala Flavia Agrippiana, che faceva parte delle truppe di Lolliano sotto Lucio Vero, e che rimase in

Siria sino ai Severi; risale probabilmente al II sec. d.C. 7) Bassorilievo parzialmente mutilo proveniente da Tadmor, raffigurante Latona assisa su di un seggio

di fibre vegetali intrecciate (fig.24). La dea, vestita come le donne palmirene, tiene un ramo nella sinistra, mentre ai suoi piedi vi è un cesto pieno di gomitoli; alla sua destra compare Apollo vestito di clamide, nell’atto di compiere una libagione su di un piccolo altare e accanto a lui vi è un corvo. Sul plinto è incisa la dedica: l’ex voto fu offerto da due militari, di cui uno semplice cavaliere di origine tracia (Brizanus, figlio di Tarsas), mentre non si è conservato il nome del primo dedicante, indicato come praefectus dell’ala, ma più probabilmente semplice beneficiarius praefecti e forse

anch’egli di origine tracia. Ingholt lo data al terzo quarto del II secolo, anche se non esclude che possa essere un po’ più antico e costituire una testimonianza, sebbene isolata, della presenza di una guarnigione anteriore alle campagne di Lucio Vero. Il nome Brizanus non è attestato, anche se legato

al termine trace che indica la segale (), mentre lo è quello del padre. Si tratta della prima attestazione del culto di Apollo e Latona a Palmira: il primo potrebbe essere stato identificato con Nebo e la seconda con Sarpanit, sposa di Marduk ma Seyrig ritiene che non vi siano sufficienti indizi a favore di questa ipotesi, giacché i dedicanti, di origine straniera, hanno posto l’altare in un santuario militare, che non doveva avere legami diretti con i culti locali.

Fig. 24. Rilievo con Apollo e Latona.

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8) Cippo in calcare mutilo nella parte superiore, che ricorda l’istituzione di un campus martius,

utilizzato dal numerus Vocontiorum, proveniente da Tadmor. Il testo indica il nome dell’imperatore e del governatore di Siria, cui seguono quello del comandante del numerus e quello del decurio, che diresse i lavori di costruzione e fu incaricato di redigere il testo. Questa unità militare, nel 183 (quarto consolato di Commodo e C. Domitus Dexter legato di Siria) era a Palmira e la loro presenza

doveva essere sufficientemente stabile da rendere necessaria la costruzione di un campo marzio per le manovre. Il numerus era comandato da un centurione legionario, distaccato dalla Legio II Traiana di stanza ad Alessandria. La sola altra menzione del numerus era stata una tegola scoperta a Londra nel 1876: i Vocontii fornirono due alae di cavalleria, che militarono una in Germania e Bretagna, l’altra in Egitto. Seyrig tuttavia ritiene poco probabile che si tratti dello stesso numerus citato sulla tegola

londinese. 9) Stele con frontone, trovata a sud di Palmira, presso le rovine delle villae fortificate di Bazouriyé,

recante il nome di C. Laberius Fronto, soldato della cohors II Hispanorum, che eresse un sepolcro per il proprio figlio Heli (nome di origine semitica). Si tratta della prima attestazione di tale cohors in

territorio siriano e della sola menzione di un soldato semplice nel territorio di Palmira (fig. 25).

Fig. 25. Stele di Laberius Fronto e iscrizione di Vibius Celer.

10) Placca di calcare, modanata nella parte superiore ed inferiore, murata contro una parete per fungere

da altare, proveniente da Tadmor. Reca la dedica fatta all’imperatrice Otacilia dalla cohors I Chalcidenorum, corpo di arcieri a cavallo stanziato a Palmira e, nel 162, nella postazione di Dmer, a

est di Damasco. La sua presenza a Palmira risale dunque almeno al regno di Filippo; il figlio Filippo il Giovane non ha qui ancora assunto il titolo di Augustus, che ricevette nell’agosto del 247 d.C.

11) Stele proveniente dal deserto orientale di Palmira, trovata da un beduino, in greco, che ricorda l’addetto alla balista Chalcidius. Questi soldati cominciarono a essere presenti nelle legioni dal II sec.,

ma ricomparvero nel IV sec. in alcuni corpi speciali. L’epitaffio, estremamente breve, deve essere tardo.

12) Busto del mearista Shokhai, figlio di Wahbai nipote di Maie. Il soldato è abbigliato con una tunica dalle maniche lunghe e un ampio mantello. Dietro l’uomo appare il suo cammello, bardato con un collare di perle e con la sella carica; la custodia dell’arco e la faretra sono scolpite a sinistra della testa di Shoknai.

Forse riferibile ai soldati di stanza a Palmira sono l’epigrafe in onore del centurione Celesticus e l’iscrizione funeraria, scoperta da Ingholt ma non pubblicata, di larhibôla, figlio di Sabînâ, veterano303.

303 CIS, II, 3962; Répertoire d’épigraphie sémitique, 1046.

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18. SEYRIG 1933 B H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 14 fascicolo 3, 1933, pagg. 253-382.

14. Nouveaux monuments palmyréniens de cultes de Bel et de Baalshamin.

L’articolo esamina alcuni reperti relativi ai culti delle due divinità palmirene emersi negli scavi di quegli anni. 1. Bassorilievi della cella del tempio di Bel. La cella del tempio di Bel a Palmira presenta alle sue estremità due thalamoi, dotato ciascuno di una nicchia, dove erano probabilmente esposti oggetti di culto o le statue delle divinità (fig.26). Le nicchie di questi ambienti sono riccamente scolpite, ma mentre la decorazione del thalamos sud era esclusivamente geometrica e floreale, quella del thalamos nord è costituita da due rilievi con importanti scene mitologiche. Tali rilievi

erano sostanzialmente inediti, a parte la fantasiosa ricostruzione fatta da Wood nel XVIII sec.; qui ne è data per la prima volta un’accurata descrizione, accompagnata dallo schizzo di Cavro.

Fig.26. La pianta della cella del tempio di Bel.

Il primo pannello, scolpito nella parte inferiore dell’architrave, rappresenta un cielo stellato sorretto dalle ali di un’aquila; fra le stelle vi è un serpente con accanto sei sfere. Nella parte destra vi è un dio con corazza e corona radiata, vicino un pianeta di forma discoidale, mentre il lato sinistro è molto danneggiato. Il dio rappresentato è probabilmente Yarhibol, con accanto il sole; presumibilmente a sinistra vi era Aglibol con la luna, mentre l’aquila è il simbolo di Zeus Belos, rappresentazione greco-romana del supremo dio celeste Bel.

L’immagine dell’aquila in Siria, infatti, ha spesso significati differenti: secondo la tradizione orientale è collegata al sole, mentre in ambito greco romano è l’uccello sacro a Zeus. Il serpente raffigura il sole con i sei pianeti conosciuti dagli antichi: Seyrig ritiene che possa trattarsi di un’influenza egiziana per rappresentare il cammino sinuoso dell’astro. Una raffigurazione simile del serpente e dell’aquila si trova ad esempio in un rilievo, anch’esso parte di un architrave, del tempio di Rahlé, dove un’aquila stringe una corona nel becco e una palma fra gli artigli. A sinistra vi è un astro, mentre sotto il volatile vi è un serpente, che doveva avere lo stesso significato che ha nel rilievo palmireno, anche se in questo caso non compaiono i sei pianeti. Un bassorilievo di Hauran, edito da Dunaud, presenta un’aquila con le ali spiegate e un serpente nel becco, fiancheggiata da Hesperos e Phosphoros, raffigurati come geni tedofori: l’aquila con un serpente nel becco è piuttosto comune nella scultura religiosa di Hauran. Un serpente striscia sotto le zampe del cavallo della divinità, forse solare, rappresentata su di un rilievo di Hama. Una scultura in basalto ritrovata a Tell Arr (circa 10 km dalla stazione di Akhterin, non lontano dal confine con la Turchia) da Ploix de Rotrou, probabilmente un acroterio, mostra due divinità poste sotto le ali di un’aquila, una dea con in mano probabilmente una torcia e un dio in tunica corta e stivali, che sorregge un serpente: secondo Seyrig si tratta quasi certamente della rappresentazione dell’aquila di Zeus Caelus con il

Sole e la Luna.

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Tali documenti indicano come il serpente fosse molto utilizzato in Siria quale simbolo del Sole e del suo corso. Sul soffitto del thalamos è rappresentato un busto entro un medaglione esagonale, circondato da altri sei

medaglioni simili: dagli attributi è possibile identificare il Sole (corona radiata), la Luna (crescente), Marte (elmo e armi), Saturno (falce), Venere (figura femminile velata, secondo l’uso siriano) e Mercurio (caduceo), mentre la figura centrale, senza attributi, è quella di Giove (fig.27). Mentre nella religione tradizionale di Palmira la Luna è raffigurata come una divinità maschile, qui è stata rappresentata sotto le sembianze femminili di Selene, secondo i canoni greco-romani; invece del Sole, astro di Bel, divinità suprema del santuario, Zeus occupa la posizione centrale. Attorno alle divinità associate ai pianeti, vi sono le figure dello zodiaco, che rappresentano le stelle fisse. Interessante è l’aggiunta della Bilancia, raffigurata sotto forma di un uomo nudo che sorregge una bilancia, circondato dalle pinze dello Scorpione: la Bilancia comparve solo nel I sec. a.C., al posto delle Pinze dello Scorpione; la rappresentazione palmirena, che risale probabilmente al regno di Tiberio, coniuga in questo modo le due tradizioni. Il rilievo è concluso da quattro aquile agli angoli, che simboleggiano il cielo, come l’aquila dell’architrave. Lo zodiaco e i pianeti, per come apparivano nei disegni di Wood, hanno fatto supporre a Bouché - Leclercq un riferimento al tema natale di un principe oppure alla data di fondazione del tempio ma ciò è impossibile, in quanto il Sole e Venere accompagnano due segni opposti, Toro e Scorpione, e ciò potrebbe verificarsi solo se la Terra passasse fra il Sole e Venere. Seyrig ritiene che i rilievi, come quelli dell’architrave, servano a sottolineare il carattere di Bel quale divinità astrale, così come Giove Eliopolitano porta un abito ornato di busti raffiguranti i pianeti e il betilo di Sidone è qualche volta raffigurato fra i segni zodiacali; anche ad Alessandria in alcuni casi Serapide è circondato dai sette pianeti e dai segni dello zodiaco.

Fig.27. Soffitto del thalamos nord del tempio di Bel.

2. Tessera commemorante il lectisternio di Bel. Un’epigrafe incisa nel 51 d.C. sulle colonne del tempio di Bel ricorda la donazione di un privato di una brocca d’oro, di quattro patere anch’esse d’oro, di un cuscino e di un couvert de table, necessari al lectisternio

di Bel304. La diffusione di tali rituali è attestata anche da una tessera, pubblicata da Mordtmann, dove è raffigurato il letto sacro, coperto da uno spesso materasso sormontato da un disco solare dotato di due probabili urei molto stilizzati, mentre sotto il letto compare il nome di Bel. Il fatto che il letto sia molto corto, escludendo la poca abilità dello scultore, sembra suggerire che esso sia proprio destinato al dio, e non a un mortale.

304

Il termine francese è (forse volutamente) ambiguo: esso, infatti, può indicare sia una tovaglia sia altre stoviglie da usare durante il rituale.

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A Palmira la pratica del lectisternium si ritrova anche nel culto di Baalshamin, oltre che nei rituali babilonesi

di Bel e Marduk (che prevedevano anche ierogamie), a Hauran e in Palestina, il che dimostra l’importanza di tale rito nei culti semitici. E’ possibile che in occasione di queste cerimonie anche i sacerdoti organizzassero dei banchetti, giacché molte tessere palmirene recano l’iscrizione “Dei sacerdoti di Bel” o di un privato che probabilmente finanziava queste cerimonie: forse il nome inciso sull’altro lato della tessera (Ogilu figlio di Borrepha) si

riferisce a colui che funse da simposiarca in una di queste occasioni. 3. Offerta di un cippo di pietra al dio anonimo. Su due pyrées, custoditi nel Deposito delle Antichità di Palmira, sono incise delle epigrafi di dedica a Zeus

“altissimo e compassionevole”, che Seyrig ritiene siano la versione greca delle dediche fatte in palmireno al dio anonimo, la divinità “il cui nome è benedetto per sempre”. Le dediche a questa divinità sono le più numerose a Palmira, e i suoi altari sono cippi modanati a base quadrata, che terminano quasi sempre con una piccola cupola dove si bruciava l’incenso e paiono peculiari al dio anonimo: Seyrig, infatti, afferma che tutti gli altari dedicati ad altri dei da lui visti hanno superficie piana e sembrano destinati a ricevere offerte diverse dall’incenso. I pyrées all’epoca noti erano 120: nessuno però proveniente da un santuario, tanto che si potrebbe pensare a un culto domestico; tuttavia la presenza del nome del donatore e la menzione del motivo che l’ha portato a erigerli fa cadere questa ipotesi. Il fatto che questi altari siano molto uniformi per aspetto e formule può indurre a pensare che ciò dipenda più dall’attività di coordinamento del clero di un qualche santuario, rispetto alla sola iniziativa privata dei fedeli, così come l’esistenza di norme volte a proibirne la profanazione non possono che riferirsi a un luogo pubblico. Essi hanno attirato però più che altro l’attenzione degli epigrafisti, tanto che spesso mancano le immagini ed è difficile stabilirne una tipologia; un esemplare, malgrado la loro grande uniformità, termina a piramide: ciò ha fatto ipotizzare a Seyrig che si trattasse di semplici ex-voto, senza un uso pratico, e che l’offerta d’incenso doveva costituire un aspetto secondario, forse limitato ai riti di inaugurazione, rispetto alla dedica dell’oggetto. Lo studioso sottolinea poi come, stando ai bassorilievi palmireni, anche nei culti delle altre divinità si facessero offerte d’ incenso, ma non ci sono giunti altari di questo tipo, probabilmente perché si trattava di oggetti metallici: il pyrée in pietra dedicato al dio anonimo, realizzato in un materiale molto più pesante e durevole, avrebbe costituito esso stesso l’offerta principale. Vi è una certa somiglianza con i riti praticati nei tophet punici, dove si ergevano cippi o piccole stele sopra le ceneri degli infanti: ad esempio, in un piccolo santuario vicino a Cartagine sono stati trovati numerosi cippi, accumulati uno sull’altro quando lo spazio veniva a mancare; è possibile che una situazione simile si rispecchiasse anche nel santuario del dio anonimo, sia che il pyrée costituisse l’offerta, sia che ricordasse un

sacrificio compiuto, come alcuni testi paiono indicare. Tuttavia, non vi sono prove certe di un legame fra questo sacrificio e le pratiche in uso presso i Cartaginesi. 4. Il pyrée di Gdem. Tre pyrées monumentali, eretti nel 114 d.C. dai Palmireni in onore del dio anonimo, sono stati trovati a

Karassi, a 20 km da Palmira, lungo la strada per Emesa. Due di essi recano scolpita su di un lato una folgore: nessuno aveva però mai notato che essa è tenuta nella mano da un dio. Una raffigurazione simile si trova anche su di un altro altare, inedito, ritrovato a Gdem, con due iscrizioni sulle facce laterali, una in greco, l’altra in aramaico, dedicate al “dio senza nome” fra il 187 e il 195 d.C. Tali epigrafi, pubblicate da Cantineau, hanno tuttavia rimpiazzato un altro testo più antico305. Anche su quest’altare, benché danneggiato e rozzamente scolpito, si può individuare una folgore tenuta da una mano, al di sopra di quattro animali, probabilmente capre, mentre nella parte superiore destra compare un disco solare che poggia su di un crescente, simbolo molto diffuso sulle tessere (dove però non sembra essere attributo peculiare di una qualche divinità) ma non sui rilievi. Seyrig ritenne in un primo tempo che si trattasse di un’offerta propiziatoria dopo la caduta di un fulmine su di un gregge, ma l’osservazione diretta degli effetti della siccità sulle greggi in Sira nel 1932 e 1933, lo indussero a considerare la folgore non come un agente distruttore, ma come la messaggera della piogge: si tratterebbe dunque di un’offerta fatta alla

305CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16), pag. 188 ss.

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divinità per propiziare le piogge apportatrici di benessere agli uomini e alle greggi. Si tratterebbe quindi di due testimonianze della religiosità degli abitanti dell’ager di Palmira, in cui si tende a vedere solo una città

carovaniera, il cui benessere è fondato esclusivamente sul commercio, mentre l’esistenza dell’oasi e della steppa permettevano agli abitanti di dedicarsi anche all’agricoltura e all’allevamento; l’osservazione delle foto aeree ha permesso di individuare un sistema di canalizzazioni e dighe nella regione, oggi sterile, a ovest di Palmira. E’ probabile che questa popolazione di contadini e allevatori, la cui vita dipendeva dalla pioggia, abbia eretto tali pyrées, mentre non vi sono legami evidenti fra il culto della folgore e il commercio

carovaniero. 5. Pyrée dedicato a un dio unico, solo e misericordioso. Dalla demolizione di una delle case arabe impiantatesi all’interno del recinto del santuario di Bel proviene un pyrée (di cui è pubblicato anche lo schizzo) dedicato da un certo Malchos al dio “unico, solo e

misericordioso”, con iscrizione redatta in greco. I termini ed impiegati nell’epigrafe potrebbero essere tradotti in senso relativo, escludendo così una professione di fede monoteista: ciò è abbastanza comune in alcune formule di acclamazione (in primo tempo rivolte a uomini e solo in un secondo momento alle divinità), dove il senso è di “senza pari”, anche se ciò è poco probabile, secondo Seyrig, in questo caso, perché non si tratta di un’invocazione ma di una dedica. Inoltre il secondo aggettivo rinforza il primo, giacché è molto raro trovarli uniti, se non in alcuni testi cristiani volti proprio a sottolineare il concetto dell’unità divina. Lo studioso esclude si tratti di un’epigrafe cristiana, poiché l’offerta d’incenso era malvista, in quanto praticata dai pagani: ben presto però l’uso dell’incenso divenne comune anche fra i cristiani stessi, anche se come semplice accompagnamento alla liturgia; Seyrig propende per una dedica pagana o ebraica. A favore di un’origine ebraica di Malchos vi sono il fatto che la divinità non sia chiamata per nome e le sia attribuito

l’epiteto di misericordioso, frequente anche nei testi biblici. Si tratterebbe comunque di un rituale “contaminato” da usi politeisti, secondo un costume comunque noto fra le comunità della Diaspora, anche se la mancanza di nomi prettamente ebraici, anche se di origine semitica, nell’onomastica del dedicante e della sua famiglia fa escludere, secondo Seyrig, l’idea che di una dedica ebraica si tratti. Egli ritiene che si tratti di dedica al dio senza nome, divinità cosmica suprema, cui gli stessi filosofi pagani attribuivano caratteristiche di unicità (di fatto, se non di aspetti), spesso identificata con “Zeus altissimo” in altre epigrafi, e invocato con questi epiteti. Malchos potrebbe essere dunque una sorta di filosofo che ha applicato il proprio sistema di credenze al culto del dio anonimo ma Seyrig ritiene molto più verosimile un’influenza del monoteismo giudaico nel culto del “dio senza nome” praticato dal Malchos. 6. Frammenti di rituali. Il terzo altare ritrovato a Karassi presenta un rilievo mutilo in cui compaiono i piedi di un probabile seggio: è possibile che anche il dio anonimo fosse onorato con le cerimonie del lectisternium, come Bel e Baal Shamin.

A ciò si aggiungono due frammenti di un’iscrizione conservata nel Deposito delle Antichità di Palmira, in onore di Zeus “altissimo e grandissimo”, che menzionano un sacrificio e un digiuno rituale, peraltro comuni in ambiente semitico, ma in questo caso osservato forse prima dei banchetti sacri. La pratica dei sacrifici è attestata anche dai frammenti di una legge sacra databile al 163 d.C., incisa sull’architrave di una stele a forma di edicola corinzia. L’iscrizione ricorda l’istituzione di un sacrificio da compiersi ogni anno, per sempre, in onore del “Buon Giorno”; esso non compare in altre iscrizioni, a parte un’epigrafe di Copto in Tebaide, dove gli arcieri di Emesa istituirono un “Buon Giorno” in onore dei loro dei. D’altra parte espressioni simili ricorrono in contesti religiosi differenti: un canone cristiano di Ancyra

definisce la Pasqua “grande giorno” e testi punici di età romana ricordano che in occasione di un giorno “felice e benedetto” (forse una festa periodica) furono erette stele e sciolti voti. La legge fu promulgata nel mese di Nisan (6 aprile), occasione di celebrazioni tanto a Babilonia (ad esempio la dedica del tempio di Anu e Antum a Uruk) quanto in Palestina (festa ebraica dei Tabernacoli) e molto probabilmente anche per i Palmireni, che sempre in tale mese dedicarono il tempio di Bel. Seyrig tuttavia non ritiene che si debba necessariamente dedurre che la celebrazione palmirena fosse di origine babilonese, poiché si trattava di una semplice festa di primavera, molto comune in Siria e in Caldea. La presenza di una folgore alata che decora una ghirlanda sospesa fra i due capitelli che ornano la stele fa tuttavia pensare che la legge sacra si riferisse ai culti del dio anonimo o di Baalshamin, piuttosto che di Bel.

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7. Pyrée dedicato al dio anonimo e a due fratelli santi. Un frammento di pyrée conservato a Palmira nel Deposito delle antichità reca due iscrizioni mutile in greco e

aramaico, dedicate a Zeus/”Colui il cui nome è per sempre benedetto” e a [due fratelli?]santi. Chabot e Cantineau hanno ipotizzato si trattasse di Aglibol e Malakhbel, tuttavia non vi sono testimonianze certe che i due dei fossero fratelli, e inoltre nei testi noti i due dei sono sempre chiamati con i loro nomi. Seyrig ritiene che le due divinità possano essere i due paredri del dio principale, come Castore e Polluce associati al culto di Zeus Dolicheno; si tratta forse di un ricordo delle divinità gemelle tipiche delle religioni indoeuropee o più probabilmente dei simboli degli emisferi celesti, come avveniva in epoca romana nel culto di Mitra, cui erano associati i Dioscuri. E’ d’altra parte probabile che i due geni rappresentati su di una tessera, l’uno con una torcia alzata e l’altro con una abbassata, siano i paredri celesti di Bel, di Baal Shamin o del dio anonimo. 8. Altare raffigurante il dio anonimo e i suoi due paredri. Un altare risalente al 240 d.C., conservato presso la Bibliothèque di Strasburgo, proveniente con altri oggetti dalla Collezione Euting, è stato studiato sinora solo per l’epigrafe e non per il rilievo; se ne pubblica qui anche la fotografia, realizzata dal conservatore del Musée National de Saint Germain. La dedica che vi è incisa, rivolta al dio anonimo, è piuttosto comune, mentre il rilievo riveste un interesse particolare. Esso rappresenta il donatore, vestito con un ampio mantello e con la tiara dei sacerdoti palmireni; le sue braccia sono aperte in attitudine di preghiera, mentre al di sopra vi sono tre busti di divinità. Il dio rappresentato al centro è barbato e vestito di un mantello che lascia scoperto parte del petto, mentre le divinità laterali sono imberbi, con il capo cinto da un nimbo radiato e vestiti di corazza e paludamentum. E’ possibile che si tratti di quello “Zeus Altissimo”, identificato spesso nelle iscrizioni greche con il dio senza nome, mentre i suoi due paredri potrebbero essere i due “fratelli santi” menzionati nell’epigrafe analizzata al n°7 . Seyrig ritiene che le due divinità possano essere Aglibol e Malakbel, simboli del sole e della luna, associati al dio anonimo in un’altra dedica, anche se la mancanza di un crescente lunare non rende sicura questa identificazione (potrebbe però trattarsi di una dimenticanza dello scultore); solo altre scoperte possono appurare se si trattasse di una triade comunemente venerata a Palmira.

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19. SCHLUMBERGER 1933

D. SCHLUMBERGER, Les formes anciennes du chapiteau corinthien en Syrie, en Palestine et en Arabie, in Syria, tomo 14, fascicolo 3, 1933, pagg. 283-317.

Introduzione: teoria che attribuisce all’influenza romana, con l’intermediazione degli architetti di Baalbek, la sostituzione del capitello libero con quello canonico nell’architettura siriana; portata delle recenti scoperte su questa teoria. I. Capitelli liberi in Siria; origine alessandrina della loro diffusione. II. Forme antiche del capitello canonico in Siria: A, i capitelli del santuario di Bel a Palmira e la loro cronologia; B, capitelli isolati di Samaria, di Antiochia, di Palmira e di Kasr el Heir; C, i capitelli del tempio di Giove a Baalbek, e come non possono aver servito da modello alle categorie A e B. III. Forme di transizione tra il capitello libero e quello canonico. Conclusione: origine probabilmente antiochena, e certamente indipendente da Baalbek, delle forme canoniche in Siria. Lo stile dei monumenti classici di Siria e delle zone che la continuano a sud ha fornito la materia per numerose osservazioni ai viaggiatori e agli archeologi. Tuttavia, solamente Weigand, ha tentato, in tre studi dedicati all’analisi della decorazione scolpita dei monumenti di epoca romana, di definire le caratteristiche generali di questo stile. In questi studi occupa un posto notevole il capitello corinzio; la storia di questa forma sembra abbastanza sicura per il II sec. d.C. Su ammissione dello stesso Weigand, lo è molto meno per il I sec.; per quanto concerne il capitello ellenistico, esso è scarsamente conosciuto: osservazioni dettagliate della forma si hanno solo per alcuni capitelli di Petra, di stile ellenistico, ma non tali per datazione, e in qualche misura per il capitello detto “nabateo”. Solo un’acuta osservazione, fatta da Weigand, rivela una particolarità, veramente fondamentale, dei capitelli di questo periodo306. Tutti gli esempi raccolti dall’archeologo tedesco mostrano, infatti, che, almeno nella Siria meridionale e in Arabia, non vi sono capitelli della tipologia definita “normale” (cioè quella che corrisponde alla descrizione fatta da Vitruvio dell’ordine corinzio). Se si esaminano invece i numerosi capitelli già pubblicati che possono essere attribuiti all’epoca romana con certezza, sia grazie ad iscrizioni sia in base allo stile, e cui si aggiungono i numerosi inediti palmireni, ci si accorge che si tratta di capitelli normali. Un certo numero di tipi di capitelli corinzi, eterodossi in rapporto alla descrizione vitruviana, che risale ai primi anni del regno di Augusto, e sino allora largamente se non esclusivamente impiegati nelle regioni oggetto del presente studio, lasciano il posto – in quegli stessi anni in Siria e nel corso del I sec. d.C. in Arabia - a un tipo unico, vale a dire al capitello normale. La teoria di Weigand per spiegare tale fenomeno non è che uno degli argomenti con i quali difende una tesi più generale. Per lo studioso, l’ornamento architettonico degli edifici siriani di epoca imperiale deriva in buona parte dalle costruzioni di Roma. In età augustea, Roma è a capo dello sviluppo delle arti nel Mediterraneo, che ormai costituiva il suo impero, per cui sono gli edifici della capitale a fare da modello, anche nell’Oriente ellenizzato; essi costituiscono la comune origine dell’architettura classica orientale e occidentale nei secoli successivi. L’eliminazione delle forme eterodosse del capitello corinzio da parte di quelle normali costituirebbe una delle prove dell’influenza preponderante di Roma: in altre parole, la Siria avrebbe preso a prestito dalla

306 L’Autore sottolinea come tale incertezza derivi dalla povertà della documentazione, poiché la maggior parte dei resti greco-romani della Siria e della Palestina, se non dell’Arabia, appartengono in larga maggioranza all’epoca che va dai Flavi a Diocleziano. Così è anche per quasi tutti gli edifici che datano delle iscrizioni; anche i monumenti non datati sono pressoché tutti posteriori al periodo giulio – claudio. Schlumberger cita tre soli esempi di capitelli ellenistici o dell’inizio dell’epoca romana, e tutti posti al di fuori della Siria del nord e della Fenicia: una serie di tombe a Medaïn-Saleh, nell’estremo sud del regno nabateo, una parte del tempio di Baalshamin a Si’, nella Nabatene settentrionale e il tempio di Bel a Palmira. A queste tre località si aggiungono il castello di Arak el Emir, il tempio di Soueida, quasi tutti gli edifici e le tombe di Petra, alcune parti del grande tempio di Baalbek, un’edicola nelle vicinanze di quest’ultima città.

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capitale dell’impero il capitello normale, e da questa forma occidentale si sarebbe sviluppata, nel corso del I sec., la forma orientale del capitello imperiale. Oggetto del presente articolo è il riesame del problema di questa sostituzione, così come l’evoluzione del capitello normale fino alla metà del II sec. d.C. I capitelli del tempio di Soueida meritano un’attenzione maggiore di quella loro comunemente riservata, così com’è necessario studiare la decorazione di numerosi monumenti palmireni (ad esempio le torri funerarie di Giamblico ed Elahbel, nonché buona parte del santuario di Bel). Inoltre, non bisogna tener conto esclusivamente dei capitelli in situ, o la cui provenienza è sicura; vi sono moltissimi capitelli che giacciono sparsi o reimpiegati in edifici posteriori. Weigand ha fatto un ampio uso di questi documenti ma altri capitelli sono emersi nel frattempo, alcuni dei quali, secondo Schlumberger, ancora inediti e risalenti all’epoca flavia o addirittura a essa antecedenti. L’Autore passa in rassegna i diversi tipi di capitello eterodosso, per poi esaminare le forme del capitello normale propriamente detto, e infine passare alle forme di transizione.

I. Le forme eterodosse

Schlumberger suddivide i capitelli eterodossi siriani in tre categorie, sulla base della decorazione che riceve, fra le elici laterali e su ciascuna delle facce del capitello, la sommità del kalathos: un primo gruppo, in cui vi possono essere elici (che non sorgono però dall’acanto come nelle forme canoniche), un secondo, caratterizzato da decoro floreale, e il terzo gruppo, con busti. La prima tipologia, esemplificata in origine dalla tholos di Epidauro, è molto diffusa in tutto l’Egitto ellenistico e romano, come dimostrano una serie di

capitelli del Museo di Alessandria e quelli di un monumento di Denderah. A questo gruppo alessandrino si ricollega un capitello di Amathonte, probabilmente ellenistico, conservato al Museo di Nicosia.Il secondo tipo è diffuso in Egitto e in Occidente, mentre il terzo si presenta come prettamente occidentale, con esempi però anche in Nabatene, benché nessuno dei capitelli occidentali sia veramente paragonabile agli esemplari offerti dall’arte nabatea Per quanto riguarda la Siria e la Penisola arabica, queste tre categorie annoverano i seguenti esempi:

1. Capitelli con volute: Castello di Arak el Emir . 2. Reimpiego nella moschea di Baalbek.

A) Capitelli con motivo vegetale: I. A fiore centrale 1. Capitello del padiglione della canalizzazione di Baalbek. II. A voluta:

1. Hasné, grande ordine del pianoterra (due corone). 2. Hasné, ordine delle porte laterali del pianoterra e ordine del primo piano (una corona). 3. Terme (una corona). 4. Porta monumentale (corona fila). 5. Tomba (una corona). 6. Kasr Firaoun(due corone). 7. Tempio periptero (due corone).

A questa famiglia si ricollega inoltre la vasta categoria dei capitelli detti “nabatei”di Petra, Medain – Saleh, Bosra, Si’.

B) Capitelli con busti: 1. Si’: capitelli dei templi detti di Baalshamin e di Dasares. 2. Salkhad: un capitello isolato. 3. Soueida: un capitello isolato, reimpiegato in una casa.

Da questo schema emerge la ripartizione geografica dei tre gruppi di capitelli: il gruppo A è attestato da due esemplari isolati, di cui il più settentrionale appartiene ancora alla Siria del sud, mentre quelli del gruppo B II, che presentino i motivi a foglie o siano solamente sbozzati, appartengono a quella regione, compresa fra Medain - Saleh a sud e Si’a nord, che corrisponde all’incirca alle dimensioni dell’antico regno nabateo nel periodo di massima espansione. I capitelli B I appartengono ancora alla Palmirene e alla regione libanese, vale a dire alla Siria meridionale. Infine, i capitelli del gruppo C sono attestati nell’area settentrionale della Nabatene, corrispondente all’attuale Djebel Druze. Il rapporto di parentela che unisce l’arte delle regioni attraversate dal Giordano e della Siria meridionale all’arte alessandrina è ben attestato dai gruppi A e B II. Per quanto riguarda il gruppo C, i capitelli che ne

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fanno parte, appartengono all’architettura “nabatea”, dove appaiono i capitelli sbozzati del gruppo B; essi sono utilizzati nello stesso arco cronologico di questi ultimi nel tempio di Si’, ma non derivano da forme alessandrine, e l’arte alessandrina non offre alcun termine di paragone con essi. E’ vero che, in realtà, essi non hanno alcun parallelo, ma è probabile, secondo Schlumberger, che essi abbiano avuto origine in Fenicia. Un dato importantissimo, già notato da Weigand, scaturisce da questa sommaria rivista delle tipologie eterodosse del capitello corinzio in Siria, vale a dire che esse si riducono alla Siria meridionale, mentre non se ne conosce alcun esempio nella parte settentrionale del Paese.

II. - Le forme arcaiche del capitello normale. Per quanto concerne invece il capitello corinzio canonico nelle sue forme più arcaiche in Siria, abbiamo i seguenti esempi:

A) Capitelli del santuario di Bel a Palmira, B) Alcuni capitelli isolati. C) Alcuni capitelli del grande tempio di Baalbek, di cui Weigand ha già sottolineato le particolarità.

A. – Capitelli del santuario di Bel a Palmira (fig.28). Essi possono essere classificati, in base al loro stile, in tre gruppi: capitelli delle semicolonne nella facciata del thalamos meridionale della cella (a);

capitelli dei portici inferiori del cortile e quelli dei pilastri all’estremità settentrionale dei portici superiori (b); i capitelli dei portici superiori del cortile (con l’eccezione di quelli appena ricordati) e quelli del propileo (c). La datazione degli elementi architettonici del tempio è facilitata dal ritrovamento di diverse epigrafi: 1° l’iscrizione che ricorda la consacrazione della cella nel 32 d.C. 307 2°La serie di iscrizioni onorifiche incise sulle colonne dei portici inferiori, risalenti al periodo compreso fra il 21 e il 142 d.C.308 3° Un’iscrizione onorifica del 167 iscritta su di una colonna dei portici superiori e alcune epigrafi del propileo, risalenti al 175, 193 e 272 d.C.

Fig. 28. Capitelli del santuario di Bel a Palmira.

Solamente il primo testo fornisce una data quasi certa riguardo questo problema: il momento in cui sono stati scolpiti i capitelli del tempio est è, verosimilmente, molto vicino a quello in cui il tempio è stato dedicato.

307

CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16), pag. 170. 308 21 : CIS., II, 3915 ; 24: CANTINEAU 1931 (Appendice nr.8), n° 4; 25: ibid., p. 123, n° 5; 28-29:CIS., II, 3U-2-2 ; 51 : CIS.,II, 3923 (potrebbe essere del 71 ; cfr. Répert. d'Ép. Sém., n° 810) ; 108 :CIS., II, 3917; 117 : CIS., II, 3919; 120-121 ; CIS., Il, 3921 ; 127 : CIS., II, 3920; 128 : CANTINEAU 1931 (Appendice nr.8), p. 128, n° 9; 142 : CIS., II, 3916. Le tre iscrizioni datate 120,127 e 128 non sono più in situ. Sono qui riportate sia perché il luogo del loro reimpiego sia la forma delle mensole non permettono di dubitare che la loro posizione originaria fosse nei portici inferiori.

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Le iscrizioni del portico e del propileo, che in maggioranza non riguardano la storia del santuario, dovrebbero almeno permettere di concludere che le colonne e i muri dove esse sono state incise sono anteriori alle date che esse riportano. Tuttavia, quest’affermazione è vera per quanto riguarda il portico superiore e il propileo, ma non per i portici inferiori. Weigand, studiando il tempio di Baalbek, ha fissato le fasi dell’evoluzione del capitello corinzio canonico in Siria, e si basano essenzialmente su quattro punti: 1° la struttura generale del capitello, e i rapporti fra le tre zone in cui è suddiviso; 2°il caulicolo del calice; 3°la forma del calice; 4°la resa del rilievo, e i procedimenti utilizzati per ottenerlo. 1° Dall’inizio dell’epoca imperiale, conformemente al canone vitruviano, la corona superiore degli acanti costituisce una zona a se stante, intermedia fra la zona delle foglie inferiori e la zona dei calici e delle elici, ma la divisione orizzontale in tre zone non è ancora rigorosa. Le foglie della corona superiore si sviluppano ancora dalla base stessa del capitello, come quelle della corona inferiore, fra cui s’insinuano i loro caulicoli, ma col passare del tempo lo spazio si ridurrà progressivamente, sino ad annullare del tutto lo spazio per le foglie superiori. Si annulla il vuoto che le separa dalle foglie inferiori e le foglie si saldano tramite le estremità delle loro digitazioni, il che porta a un restringimento degli spazi vuoti triangolari, che preannuncia l’aspetto di alcuni capitelli bizantini. Nello stesso tempo, a causa della tendenza degli elementi inferiori della decorazione a estendersi verso l’alto, gli elementi superiori, calici ed elici, sono come compressi contro la parte inferiore dell’abaco e perdono il loro vigore, stretti contro di essa. 2° Il caulicolo del calice, robusto, scanalato negli esempi più antichi, tende a non esserlo più, si assottiglia, si accorcia, si riduce a una sorta di cuscinetto informe e poi sparisce. 3° I calici, bipartiti (e che lo resteranno), sono all’inizio aperti, poi si allungano verso l’alto e si chiudono. Lungo il loro asse verticale, le due foglie che lo costituiscono si saldano attraverso le estremità delle loro digitazioni, cosicché questi assi sono caratterizzati dal sovrapporsi di due o tre vuoti triangolari. A causa del maggior spazio occupato dagli elementi inferiori, non vi è più spazio per un tale sviluppo in altezza. I calici tornano ad avere forme più sviluppate, ma stretti, atrofizzati, non hanno più l’ampiezza armoniosa di quelli di I sec. 4°Il rilievo dei diversi elementi decorativi è all’inizio piuttosto basso; gli acanti e le elici, vigorosi, sono strettamente aderenti al kalathos. In seguito una ricerca crescente di contrasti chiaroscurali lascia libere elici e foglie, spinge in avanti la parte superiore della foglia, la distacca per la metà della sua altezza dal kalathos che

la supporta, ne spezza a volte l’estremità, che pende verticalmente, come appassita; ne accentua il rilievo per l’importanza crescente che conferisce a una profonda scanalatura nell’asse di ciascuna foglietta. Le elici si distaccano, e si scorge, attraverso gli interstizi, in secondo piano, il bordo del kalathos. Una tendenza alla

ricchezza, alle forme fiorite appare nel fiorone dell’abaco, nelle ornamentazioni aggiuntive, piccole foglie, rosette, perfino aquile, che occupano gli spazi lasciati fra gli elementi abituali della decorazione, e dove prima appariva la nuda superficie del kalathos. Più tardi ancora, con la decadenza della scultura, il rilievo accentuato, l’incisione profonda, poiché si tratta di tecniche difficili, scompaiono. Gli elementi decorativi, le elici (piccole, senza elasticità e vigore), le foglie (angolose, prive di ogni flessibilità) si stringono di nuovo contro un kalathos la cui forma cilindrica va perdendosi.

Riassumendo, si passa da un capitello senza un grande rilievo, dalle forme armoniose, vigorose e discrete, a forme scavate, pittoriche, ingombranti, che portano nel III sec. a un capitello con elici e calici atrofizzati, dall’aspetto generale disarmonico, spigoloso, fisso e nuovamente senza grande rilievo. Ciò che precede conferisce un significato cronologico chiaro alla maggior parte dei tratti a causa dei quali i diversi capitelli del tempio di Bel si distinguono gli uni dagli altri. I capitelli del portico alto e del propileo (c) sono molto scavati, gli acanti e gli assi delle loro fogliette sono sottolineati da solchi profondi, mentre le foglie della corona superiore, che sorgono a livello della seconda o della terza foglietta delle foglie inferiori, le volute, gli angoli dell’abaco sono fortemente portati in avanti. L’estremità traforata del piano pressoché orizzontale che forma la sommità delle foglie pende verticalmente, come appassita, spezzata. Le elici, anche quelle mediane, sono nervature di pietra dalle volute traforate, che si distaccano come un pizzo davanti al kalathos, la cui bella forma, cilindrica in basso, svasata in alto, resta tuttavia ancora apprezzabile dietro questa decorazione. Il caulicolo del calice è molto corto, spesso mascherato da elementi secondari, come piccole foglie o rosette, o dalle fogliette inferiori delle foglie superiori, che, addossate le une alle altre, determinano sopra l’asse delle foglie inferiori un dispiegarsi di vuoti. I calici sono molto allungati in altezza e chiusi: nel loro asse si sovrappongono tre o quattro spazi vuoti triangolari e il fiorone dell’abaco è spesso molto ricco.

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Queste caratteristiche ci riportano alla fase mediana del processo evolutivo del capitello corinzio; le particolarità dei capitelli del portico alto riproducono fedelmente quelle descritte da Weigand a proposito del tempio rotondo di Baalbek, che egli data al 120-150 d.C. Tuttavia, secondo Schlumberger, si tratta piuttosto del 150, non perché l’iscrizione del 166-167 conservata nel portico inferiore non sia considerata come una prova a favore di una datazione bassa, in quanto ella non offre che un terminus ante quem, ma

poiché i capitelli di Palmira che si possono datare con certezza a partire dai primi anni del II sec. presentano ancora forme meno evolute. Non prima del 139 si trova un capitello strettamente imparentato con quelli appena esaminati. D’altronde, il paragone con i capitelli datati alla metà del II sec. d.C. mostra che non è possibile attribuire una data così tarda, se non a quelli del propileo, almeno a quelli del portico superiore. Paragonati a quelli del gruppo c, quelli del portico inferiore (gruppo b) appaiono invece differenti: il rilievo è più basso, le elici e le foglie, non traforate e vigorose, aderiscono al kalathos e l’estremità curva delle foglie è

più massiccia, mentre la loro parte inferiore è simile a una conchiglia scanalata. I caulicoli scanalati dei calici, sempre visibili, sono più lunghi; tuttavia, all’interno di questo gruppo, esistono alcune suddivisioni. Possiamo individuare due sottogruppi: il primo (b1) comprende i capitelli dei pilastri del muro nord del recinto, un capitello ritrovato nel portico nord e il primo capitello della facciata del portico sud; il secondo (b2) i capitelli di pilastri e colonne del portico sud, quelli del portico est, quelli dell’estremità nord del muro ovest, nonché il capitello del pilastro che termina a ovest il muro nord. Nel primo caso, le foglie hanno un calice arrotondato, fogliette d’aspetto morbido con il solco assiale che non appare ancora. Nel primo tipo, il vuoto fra le fogliette ha la forma di un piccolo occhio, a volte sottolineato da una piega alla base; i calici non sono ancora chiusi, mentre nel secondo gruppo le foglie sono più rigide, dal profilo angoloso, con solchi pronunciati sul caulicolo della foglia e l’asse di ciascuna delle fogliette, mentre gli spazi vuoti aumentano, si allungano e diventano a volte triangolari, la piccola piega scompare, i calici cominciano a chiudersi e già lungo il loro asse due vuoti si sovrappongono. La datazione di b1 è suggerita dalla similitudine fra questi capitelli e quelli presenti nelle torri funerarie di Giamblico ed Elahbel; uno stadio leggermente più avanzato è rappresentato da un capitello del muro orientale del santuario. I capitelli del gruppo b2 sono posteriori, e a una fase successiva appartengono i capitelli della via colonnata lungo la strada detta di Damasco, che a ovest della città costeggia il Campo di Diocleziano, e quelli del pronao del tempio di Baalshamin. Le tombe-torri di Giamblico ed Elahbel sono databili rispettivamente all’83 e al 103, la via colonnata risale al più tardi al 129 e il tempio di Baalshamin al 133 d. C. Se si giudica secondo lo stile, i capitelli dei portici inferiori del tempio di Bel possono essere ascritti agli anni compresi fra l’80 e il 120 d.C. Tale datazione non è in contrasto con l’epigrafia, sulla cui base i portici inferiori sarebbero stati costruiti nel primo quarto del I sec. d.C., poiché in realtà le epigrafi giunte sino a noi non sono quelle originali, bensì copie redatte fra la fine del I e gli inizi del II sec. d.C., secondo quanto osservato da Cantineau nel suo studio dell’evoluzione dell’alfabeto palmireno309. I capitelli del gruppo a, che appartengono alla facciata del thalamos del tempio di Bel, sono simili ai capitelli

del sottogruppo b1: i loro acanti presentano la stessa piccola piega, lo stesso “occhio”, il punto di partenza dei caulicoli delle fogliette superiori è alla base del capitello. Tuttavia vi è un’esecuzione meno accurata e in alcuni particolari: delle piccole foglie sono poste al livello e nell’intervallo del calice, così come sulle facce del capitello (ossia sull’asse delle rosette), le elici mediane, piccole e poco sviluppate, non sostengono l’abaco e non sono tangenti fra di loro, l’astragalo è composto da una fila di perle, gli acanti hanno la base dei caulicoli allargate, il solco dei caulicoli è poco marcato e da essi partono le fogliette; i caulicoli si discostano per lasciare alle fogliette una superficie piana di forma allungata, grossomodo triangolare, la cui base poggia sull’astragalo. Si tratta di elementi arcaizzanti e i primi tre, in particolare, sono i testimoni di un periodo in cui il capitello normale non si era ancora completamente evoluto, né aveva subito quelle modifiche che condurranno al capitello vitruviano. Resta da esaminare il problema sollevato dal primo capitello del portico meridionale: esso appartiene sottogruppo b1, mentre tutti gli altri capitelli del colonnato appartengono a quello b2, e precisamente nel punto dove quest’ultimo si raccorda con il portico superiore (capitelli c). Le differenze esistenti all’interno del gruppo b permettono di fornire una spiegazione: la decorazione del portico inferiore, cominciata nel portico nord-ovest del recinto, si è sviluppata, nel portico nord, verso est. Nel portico orientale, i cui capitelli sono più avanzati, l’attività di decorazione è avanzata verso sud, dove si trovano i capitelli più evoluti. Un dato permette di appurare che il percorso seguito nella decorazione ha riprodotto quello della costruzione

309 CANTINEAU 1933 (Appendice nr.16), pag. 195.

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stessa: il raccordo maldestro, nell’angolo sud-ovest, fra le colonne superiori e inferiori. In questo punto, il pilastro angolare che termina a sud il colonnato inferiore, proveniente da est, si trova, a causa di un errore di misura, a non essere allineato con quest’ultimo. Per compensare questo errore, la trabeazione, fra la semicolonna addossata al pilastro e l’ultima colonna del portico inferiore, è stata deviata. Il ricorso a una soluzione così imperfetta non si spiega se non ammettendo che il colonnato superiore sia stato cominciato dall’estremità opposta, partendo dall’angolo nord-ovest del santuario: è con questo raccordo mancato dell’angolo sud-ovest che terminarono i lavori. E’ singolare che si trovi in questo punto, che dovrebbe essere il più recente del recinto, un capitello della tipologia più antica. E’ molto probabile che esso sia servito da modello per tutti gli altri, e che sia stato messo in opera solo quando il suo compito era terminato, alla fine dei lavori di costruzione del recinto. Per precisare quest’ipotesi, è interessante paragonare questo modello con i più antichi capitelli che avrebbe ispirato, quelli dei pilastri del portico settentrionale. Le differenze che li separano sono quelle che distinguono l’originale dalle copie: nel modello, le elici mediane sono disposte su piani obliqui in rapporto alla faccia che decorano, vale a dire che esse formano le une con le altre un angolo molto pronunciato, sporgente verso l’esterno, e sotto le volute delle elici, le foglie interiori dei calici inclinano sullo stesso piano le loro estremità, armoniosamente curvate. Nei capitelli del muro settentrionale, le elici mediane formano anch’esse un angolo, ma molto meno pronunciato, e sono come incollate al kalathos, come le foglie dei calici, le cui estremità non si curvano. Queste differenze non possono essere considerati indizi cronologici, perché le elici mediane, i calici aderenti al kalathos come nei capitelli del muro nord, sono presenti nella maggior parte dei capitelli di tutte le epoche.

Le differenze in questione sono piuttosto il segno di differenti tradizioni regionali. Le particolarità qui elencate del capitello-modello non esistono nella Siria meridionale o centrale, ma si trovano in due località della Siria del nord, malgrado vi siano pochi edifici classici: ad Apamea e a Laodicea ad mare. E’ possibile che il capitello-modello sia stato opera di qualche artista della Siria del nord,

reinterpretata e adattata, dagli scultori palmireni, nei capitelli del portico nord (b1), e negli anni successivi, seguendo l’evoluzione del capitello corinzio, nei portici sud ed est; essendo quasi terminati i lavori, si sarebbe realizzato l’ultimo capitello secondo il modello consueto . In ogni caso, l’ultimo capitello del colonnato sud è, con quelli del muro nord, il più antico tipo presente nel portico inferiore, risalente probabilmente ai primi anni dell’epoca flavia. La cronologia delle tre parti del portico di Bel, almeno per quanto concerne la decorazione, è la seguente: 1° decorazione della cella del tempio (capitelli del gruppo a, normali ma ancora irregolari riguardo al canone vitruviano in alcuni dettagli) durante il regno di Tiberio. 2° Decorazione dei portici inferiori del recinto nell’ultimo terzo del I sec., e nei primi anni del II (capitelli del gruppo b, vitruviani). 3° Decorazione del portico superiore del recinto sotto Adriano e Antonino Pio (capitelli del gruppo c, vitruviani) e del propileo durante i regni di Marco Aurelio e Commodo.

B. - Capitelli isolati di tipo normale antichi. Alcuni capitelli canonici isolati presentano arcaismi analoghi a quelli del gruppo a, o almeno, le particolarità del loro stile obbligano a datarli o all’epoca ellenistica o agli inizi dell’epoca imperiale. Questi quattro capitelli provengono dalla Samaria, da Antiochia da Palmira e Kasr el Heir. Ognuno differisce dagli altri e l’Autore non si sofferma a descrivere differenze così manifeste; tuttavia, essi sono confrontati giacché tutti anteriori al periodo flavio o al più tardi appartenente a quest’epoca.

1° Capitello di Samaria a) La disposizione degli elementi del capitello è lungi dall’essere vitruviana. L’estremità delle foglie

superiori supera di poco l’estremità di quelle inferiori, la zona degli acanti occupa a stento la metà del capitello, che per questo è ancora vicino ai modelli ellenistici.

b) I caulicoli dei calici sono molto diversi da tutti gli esempi offerti dall’epoca imperiale. Vigorosi, larghi alla base quanto nel punto dove sorge il calice, sono scanalati; possono essere descritti come un fascio, stretto da un doppio anello, di nervature di foglie, che si trasformano in calice sopra l’anello.

c) Le elici mediane poco sviluppate, che non arrivano all’abaco e che non sono tangenti fra loro, sono abbastanza simili a quelli del capitello a del santuario di Bel.

d) L’acanto ha un caulicolo dalla base larga, simile a quella del capitello a. L’estremità curva della foglia è larga e massiccia, i vuoti a forma di occhio, visibili anche su questa estremità, sono piccoli,

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rotondi, ben marcati e come sottolineati da due tratti paralleli, forme rozze delle piccole pieghe dei capitelli a e b1 del santuario di Bel. Le suddivisioni delle foglie sono molto numerose, le fogliette dell’acanto romano che, almeno in Siria, non sono mai più di sette (tre da una parte e dall’altra, più l’estremità curva della foglia), sono qui una dozzina, di cui tre o quattro all’estremità; ne consegue che sono molto più unite l’una all’altra e costituita ciascuna da un’unica linguetta, ben diversa dalla foglietta con digitazioni di epoca romana.

e) Piccole foglie poste fra i calici, nel mezzo delle facce del capitello sormontano la foglia mediana della corona superiore, come nei capitelli a del santuario di Bel.

2° Capitello di Antiochia Questo capitello, di fattura mediocre, presenta alcune analogie con il capitello a del santuario di Bel: 1) la posizione già chiusa delle foglie della corona inferiore, che non lasciano ai caulicoli delle foglie superiori che uno spazio molto ristretto per raggiungere la base del capitello. 2)La foglietta che sormonta la foglia mediana della corona superiore si contrappone allo sviluppo delle foglie inferiori dei calici. 3)Le elici mediane, forse un po’ più vigorose, sono tangenti all’abaco, ma non fra loro, e sproporzionate in rapporto alle elici mediane Tuttavia, numerose particolarità indicano una datazione più alta: la più evidente è il voluminoso fascio di caulicoli che sostiene il calice, all’incirca come nel capitello samaritano, ma senza l’anello che sottolinea la base del calice. A causa della mancanza di quest’anello, il calice appare ancor di più come uno sviluppo dell’elemento, ancora elemento vegetale e non architettonico, che lo sostiene. I caulicoli scanalati dei fioroni, l’aspetto misero delle fogliette degli acanti, strette contro il rigonfiamento che forma il tessuto della foglia negli interstizi delle fogliette, la forma del “vuoto”, al quale porta questo rigonfiamento, l’astragalo e l’estremità del fusto scanalato che formano un tutt’uno con il capitello, sono tutti arcaismi, anche in rapporto allo stadio rappresentato dal capitello a. La datazione più probabile sembra la fine del I sec. a.C.

3°Capitello di Palmira Questo capitello palmireno presenta ancora un tratto arcaizzante: una foglietta che sormonta la foglia del registro superiore; per il resto, esso mostra strette analogie con il capitello b1 del santuario di Bel: stessa posizione dei due ranghi di foglie, stesso disegno dell’acanto, delle sue fogliette e degli “occhi” sottolineati da una doppia piega, stesso caulicolo scanalato, stesso sviluppo armonioso dei calici, dove non appare alcuna tendenza alle forme chiuse del II sec. d.C. (fig. 29). Il capitello è stato scoperto nel punto in cui era caduta una colonna, che un’iscrizione trilingue incisa su di un rocchio ancora in situ data al 74 d.C.; la colonna potrebbe comunque essere stata eretta in precedenza, anche

se Schlumberger non ritiene sia questo il caso: il capitello è molto più simile a quelli della tomba – torre di Giamblico, risalente all’82, rispetto a quelli del santuario di Bel di tipo a, datati al 32. Esso deve essere contemporaneo dell’iscrizione e l’Autore ritiene che le somiglianze di questo capitello con quelli di tipo b1 siano una conferma della datazione proposta per questi ultimi.

Fig. 29. Capitelli palmireni.

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4° Capitello di Kasr el-Heir (presso Soukhné)

Questo frammento presenta somiglianze sia con i capitelli di tipo a sia con quelli di tipo b1 del santuario di Bel. In tutti questi casi, il caulicolo scanalato ha la forma svasata verso l’alto e il caulicolo della foglia superiore parte dalla base del capitello. Per la forma del suo caulicolo, triangolare alla base, di modo che le prime fogliette sono respinte a destra e sinistra, l’acanto di questo capitello è simile a quello del capitello a; per la bellezza dell’esecuzione, il disegno regolare delle fogliette, ricorda invece i capitelli di tipo b1. I vuoti quasi circolari, sottolineati da piccoli solchi, lo accomunano a entrambe le tipologie. Esso si data alla metà del I sec. La cronologia più probabile per questi esempi antichi della forma corinzia normale è la seguente:

Capitello samaritano: epoca ellenistica.

Capitello di Antiochia: ultimi decenni del I sec. a.C.

Capitello a del santuario di Bel: 32 d.C.

Capitello di Kasr el- Heir: anteriore all’inizio dell’epoca flavia. All’inizio di tale periodo, il capitello della colonna con iscrizione trilingue e i capitelli b1 del santuario di Bel.

Capitelli delle tombe di Giamblico ed Elahbel, capitelli b2 del santuario di Bel: regni di Domiziano e Traiano.

Capitelli della via di Damasco: 129. Verso questa data, e non oltre il 131, quelli del pronaos del tempio di Baalshamin.

Il confronto di questi capitelli permette le seguenti conclusioni, riguardanti l’evoluzione della forma normale: 1°Per quanto riguarda la struttura del capitello, tutti, salvo i primi due, presentano già quella divisione in tre aree d’importanza pressappoco uguale, che è una caratteristica del capitello vitruviano. Il capitello di Antiochia, dove le foglie della corona superiore superano di poco verso l’alto la metà del capitello, ma dove una divisione degli elementi vegetali in due corone di foglie sovrapposte è già netta, può essere considerata come l’ultima tappa dell’evoluzione che porta alla divisione vitruviana in tre zone. Questa disposizione è di regola prima della metà del I sec. Nel corso del I sec. la nettezza della suddivisione in tre zone si accentua in seguito alla sparizione progressiva del caulicolo che le foglie superiori spingevano nella zona inferiore. 2° Una foglietta compare nei più antichi capitelli sopra la corona superiore degli acanti e all’altezza dei calici, su ciascuna delle facce, a volte anche nelle volute. La sparizione di questo elemento deve essere messa in rapporto con le modifiche sopra descritte della struttura del capitello, che hanno reso meno necessaria questa decorazione secondaria riducendo l’estensione della zona delle elici. Ciò si verifica nella seconda metà del I sec. d.C.: la foglietta appare ancora nel capitello con iscrizione trilingue, ma non esiste più, se non in un’eccezione, né nei capitelli di tipo b né in quelli della tomba di Giamblico. 3° Il calice, i cui esempi più antichi presentano una grande sproporzione fra le foglie d’angolo e la foglia più interna, assume nel corso del I sec., un nuovo equilibrio nello sviluppo di quest’ultima. La sparizione della foglietta che si poneva fra i calici ha permesso da sola questo sviluppo. Il capitello della colonna con iscrizione trilingue, dove le foglie mediane del calice sono già pienamente sviluppate sopra la foglia secondaria di dimensioni ridotte, rappresenta uno stadio di transizione. 4° La sproporzione, simmetrica a quella delle foglie del calice, che compare nei capitelli più antichi fra le elici mediane poco sviluppate e le vigorose volute, scompare verso la metà del I sec. Molto netta nel capitello a, scompare nel capitello b, e nel capitello con iscrizione trilingue. 5°Il caulicolo del calice, vigoroso e ancora vegetale negli esempi più antichi, assume un aspetto architettonico nel I sec., si assottiglia verso il basso e si accorcia; il caulicolo scomparirà nel corso del II sec. 6°Il disegno dell’acanto subisce profonde trasformazioni. Il caulicolo si appoggia su di una larga base triangolare, che andrà scomparendo gradualmente. I capitelli b1 e quello della tomba di Giamblico la presentano ancora in forma attenuata, ma essa è sparita dagli acanti del capitello b2, in cui i solchi assiali delle fogliette tendono già a convergere verso la metà della base della foglia, invece di allontanarsene. Esse disegneranno ben presto una V, mentre all’inizio del I sec. avevano la forma di una V rovesciata; questa tendenza si accentua nel corso del II sec. Le fogliette con una o due digitazioni dei capitelli di Antiochia e Samaria si sviluppano per giungere ad un pieno sviluppo e alla forma più armoniosa del capitello di Kasr el – Heir, del capitello b1 e del capitello con l’iscrizione trilingue nella seconda metà del I sec. d.C. A questo stadio le fogliette sono accompagnate da “occhi”ovali, accuratamente disegnati, e sottolineati da piccoli solchi; questi ultimi tuttavia presto

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scompaiono : l’ultimo esempio ricorre in alcuni capitelli della tomba di Giamblico. In seguito, nei primi decenni del II sec., compaiono i solchi profondi nei quali si concentra gradualmente tutto l’effetto del rilievo. Contemporaneamente, la foglia s’irrigidisce: i contorni si fanno angolosi, la divisione in fogliette si fa meno evidente; essa lo sarà sempre meno, poiché gli “occhi”, che all’interno della foglia scandivano questa divisione, perdono la loro forma, diventano anch’essi angolosi , si allungano e tendono a confondersi con i solchi.

C. – Capitello di Baalbek. Per quanto riguarda invece i capitelli di Baalbek, Schlumberger confronta i dati emersi in questo studio con le ricerche di Weigand. Non hanno paralleli nell’architettura romana in Siria, ma sono invece molto vicini ai modelli di Roma e dell’Occidente, benché non manchino esempi di tipo orientale o intermedio, per cui Weigand ha sottolineato, nel I sec. d.C., il prevalere di modelli occidentali, mentre nel II sec. il capitello canonico di Baalbeck vi si distacca nettamente. Emergono tre punti essenziali: 1°alcuni dei capitelli del grande tempio di Baalbek non hanno paralleli nell’architettura romana di Siria; questi confronti non mancano tuttavia altrove: ad esempio, una serie di capitelli augustei a Roma o in altre città dell’Occidente romano. Il capitello del padiglione della canalizzazione di Baalbek è anch’esso imparentato con le tipologie occidentali, sia per l’ordine dei suoi elementi si per le particolarità del suo acanto. 2°Altri capitelli del grande tempio sono invece differenti: il loro acanto è del tipo orientale che mostrano tutti i capitelli siriani dal I al III sec. d.C. 3° I capitelli del piccolo tempio e quelli dei cortili presentano forme intermedie: da un capitello all’altro tutte le sfumature, tutte le combinazioni possibili dei due tipi sono presenti. Le ricerche di Weigand portano dunque a riconoscere in Siria, da una parte, nel II sec., un tipo di capitello canonico nettamente distinto dalla tipologia occidentale dello stesso periodo. Questa osservazione ha indotto Weigand a concludere che questo capitello, elaborato a Roma ed esportato dai Romani in Siria, abbia subito una differente evoluzione in Oriente e in Occidente, che spiegherebbe le differenze fra i capitelli orientali e occidentali nel corso del II sec. Schlumberger ritiene invece che attraverso lo studio dei capitelli di Samaria, Antiochia, Palmira e Kasr el – Heir, l’origine del capitello siriano è nato, nel corso del I sec. d.C. e grazie ad una progressiva evoluzione, dai capitelli più antichi, orientali anch’essi, ornati da otto coppie di elici emergenti dai calici di acanto che definiscono la forma canonica e semplicemente arcaici riguardo al canone vitruviano. In questa evoluzione, il capitello di Baalbek non occupa alcun posto. Quelli fra i capitelli studiati che gli sono all’incirca contemporanei, come i capitelli a e b1 del santuario di Bel, il capitello della colonna con l’iscrizione trilingue e quello di Kasr el Heir, differiscono da esso quanto quelli di II sec. e non vi si individuano in alcun modo i tratti specificatamente occidentali dell’acanto di Baalbek, il caulicolo dai bordi ondulati che sottolinea l’asse verticale della foglia, quelle piccole foglie così notevoli costituite ciascuna da una sola superficie concava. E’ vero che esistono a Baalbek forme intermedie fra i tipi orientali e occidentali, ma la loro presenza non è sufficiente a provare che la seconda tipologia derivi dalla prima. Si tratta semplicemente di contaminazioni, che mostrano la degenerazione della forma occidentale trapiantata in Siria e la sua ricezione in ambito orientale. E’ vero d’altra parte che il primo capitello normale datato che si conosca in Siria (il capitello a di Palmira) risale alla fine del regno di Tiberio, e che il periodo che verosimilmente separa questa data dal periodo cui appartengono i capitelli ellenistici di Samaria e Antiochia, coincide con la datazione proposta da Weigand per il capitello di Baalbek. Essendo noto il capitello ancora arcaico del regno di Tiberio da un solo monumento, si potrebbe pensare a una forma sorpassata, conservatasi in un luogo isolato quale Palmira. Scomparsi gli arcaismi dai capitelli successivi, la loro sparizione e il carattere ormai vitruviano del capitello normale potrebbero essere considerati come i segni di un’influenza occidentale. C’è però un’obiezione forte a tale visione: la foglia del capitello a del santuario di Bel presenta già le caratteristiche dell’acanto imperiale orientale. Se essa derivasse da forme occidentali, l’evoluzione grazie alla quale la foglia si sarebbe distaccata da quest’origine, si collocherebbe singolarmente presto; tuttavia è possibile risalire più indietro, fino al periodo in cui le forme ellenistiche non canoniche sopravvivevano ancora nella Siria meridionale. Una serie di capitelli permette di comprendere queste forme, grazie ad esempi risalenti all’epoca in cui esse stanno per scomparire, e di precisare come sono state eliminate: vi è

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in alcuni casi una vera invasione dei capitelli eterodossi da parte delle forme normali. Questi capitelli di transizione, tuttavia, non presentano alcuna vicina o lontana parentela con le forme occidentali.

III. - Le forme di transizione I capitelli con forme di “transizione” appaiono nei seguenti casi: A)a Soueida: 1° i capitelli del tempio, 2° due capitelli recentemente pubblicati da Kondakoff e provenienti da un vicino edificio, 3° un capitello reimpiegato in una chiesa, 4° un capitello conservato in museo e di provenienza ignota. B) A Djerach, un capitello ritrovato fra le rovine di una chiesa, in cui era stato riutilizzato. C) A Palmira, i capitelli di un edificio compreso nella zona del castrum di Diocleziano. Notevoli differenze li separano: 1° Il capitello di Djerach e la maggior parte di quelli di Soueida sono ornati da busti, mentre ciò non si rileva a Palmira e in alcuni esemplari di Soueida. 2° A Soueida in alcuni casi vi sono elici mediane (capitello Kondakoff) o sopra i busti (capitello del museo, alcuni capitelli del tempio, una faccia di uno dei capitelli Kondakoff). A Palmira le elici hanno la forma di un nastro posto di piatto sul kalathos, a Djerach sono piccolissime, tuttavia sono presenti. A Soueida però

mancano nei capitelli della chiesa e in alcuni di quelli del tempio. 3° L’acanto allungato, strettamente aderente al kalathos del capitello di Djerach e quello della chiesa di

Soueida, ricorda ancora alcune forme ellenistiche. Il capitello palmireno si avvicina agli esemplari canonici presenti in città; non vi sono paralleli per l’acanto dei capitelli del tempio e il capitello Kondakoff. 4° Gli elementi di questi capitelli sono disposti in maniera diversificata: per esempio, le estremità delle foglie superiori e inferiori sono molto ravvicinate nei capitelli della chiesa e del tempio di Soueida; si tratta di una disposizione che li avvicina ai tipi eterodossi prima studiati, o alle forme antiche del capitello normale. Al contrario, le estremità delle foglie sono a livelli molto differenti nei capitelli di Djerach, Palmira e nel capitello Kondakoff di Soueida, dove la divisione in zone appare già chiaramente. Malgrado queste differenze, questi capitelli presentano tuttavia alcune caratteristiche comuni: 1°Tutti hanno tratti arcaizzanti che impediscono una datazione più bassa dell’inizio del I sec. d.C. 2°Soprattutto, per quanto differenti dai consueti capitelli normali, tutti, ad eccezione del capitello di Damasco, offrono l’elemento caratteristico del capitello normale, il calice dell’acanto. In altri termini questi capitelli sono a metà strada fra i tipi eterodossi qui esaminati e il capitello normale. Si potrebbe vedere in essi delle semplici forme di contaminazione; le forme eterodosse, almeno quelle della famiglia di Epidauro, e la forma normale coesistono nel mondo greco dal IV sec. Non vi sarebbe nulla di sorprendente nello scoprire delle forme intermedie, testimoni dell’influenza che avrebbero avuto l’una sull’altra due serie, destinate, d’altra parte, a seguire un’evoluzione separata. Secondo l’Autore, tuttavia, questi capitelli sono qualcosa di più: documenti di come è avvenuto il passaggio dai capitelli eterodossi, poi scomparsi, al tipo normale, divenuto l’unico, sul modo in cui i secondi hanno eliminato i primi. Isoliamo ciò che è estraneo al modello vitruviano dai nostri capitelli: sono innanzitutto le decorazioni delle facce, i busti e la foglietta che sormonta la foglia mediana della corona superiore degli acanti, così come in certi esempi antichi del capitello normale. Ad eccezione del capitello Kondakoff e degli esempi che includono elici mediane (capitelli di Djerach e Palmira), tutti i nostri capitelli hanno l’abaco supportato da quattro volute angolari, e non da otto paia di elici. Esaminando i tratti “normali” di questi capitelli, sia il calice e la sua foglia, sia le elici, in pressoché tutti i casi questi tratti sono elementi secondari rispetto a quelli appena studiati. Spesso si ha l’impressione che non si sappia dove collocarli: così come le piccole elici mediane che compaiono sotto il busto del capitello di Djerach, le foglie dei calici nei capitelli della chiesa e del tempio di Soueida, la decorazione appena visibile del kalathos dietro una potente foglia mediana; infine, le elici mediane sovrapposte ai busti nel capitello del museo di Soueida, in alcuni capitelli del tempio e sulla quarta faccia del capitello Kondakoff. Se è così, è che questi elementi, che nel capitello vitruviano formano la decorazione della parte superiore delle facce del capitello, trovano qui un ostacolo al loro sviluppo, vale a dire gli elementi non vitruviani. I nostri capitelli appartengono a un’epoca in cui le elici mediane, uscite da un calice dal caulicolo scanalato, appaiono come elementi indispensabili del capitello corinzio, e dove tuttavia si conserva ancora l’abitudine di far sostenere l’abaco da quattro paia di elici e non da otto, o di decorare le facce del capitello con foglie supplementari o con busti. Le bizzarrie dei nostri capitelli derivano dalla giustapposizione di elementi che non sono fatti per essere giustapposti; nei capitelli di Soueida, bisogna naturalmente tener conto della goffaggine con cui questi accostamenti sono stati fatti. Tuttavia, è questo che costituisce l’interesse del

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capitello: in un ambiente maggiormente ellenizzato, lo scultore avrebbe trovato il modo di conciliare le sue abitudini, che lo portavano a disegnare un capitello con figure, con il desiderio di essere moderno, che lo spingeva ad aggiungere elici mediane, in modo diverso dall’apporle sui petti delle figure scolpite. Avrebbe compreso che le elici mediane non dovevano sorgere dietro il busto centrale, ma dal calice. Questi capitelli di transizione presentano la traccia manifesta di un’evoluzione: i più antichi devono essere i capitelli della basilica di Soueida e di Djerach; non solamente la decorazione della faccia è ancora costituita da elementi eterodossi, dai busti, ma i cespi di acanto, sia per la loro disposizione sia per le loro foglie, sono ancora lontani dal presentare l’aspetto di epoca romana. Nel capitello di Palmira, come nei precedenti, l’elemento non vitruviano, in questo caso la foglia mediana supplementare, sulla quale poggia il forte caulicolo del fiorone, forma l’ornamento principale della faccia, dietro la quale le elici sono relegate in secondo piano. Ma il calice con le grandi foglie d’angolo è molto più sviluppato, e la disposizione dei cespi d’acanto e il disegno della foglia fanno già pensare ai capitelli imperiali. Infine, sette delle facce dei due capitelli Kondakoff mostrano uno stadio ancora più avanzato: sono decorati da calici bipartiti, con una tendenza simile a quella dei calici palmireni, risalenti alla metà o alla fine del I sec., e da vigorose elici mediane, che sostengono l’abaco come le volute d’angolo. L’elemento secondario è la foglia mediana supplementare, che è talmente atrofizzata da non intralciare lo sviluppo dei calici. L’evoluzione particolare di questi elementi è paragonabile, sotto ogni punto di vista, a quella osservata a Palmira nel capitello normale antico, a quella che per esempio separa il capitello a del santuario di Bel dal capitello con l’iscrizione trilingue. Un monumento, il tempio di Soueida, ci offre un compendio di questa evoluzione: si è già fatto riferimento ai ritardi che in alcuni casi riguardavano la decorazione degli edifici religiosi. Se si ammette che l’edificio di Soueida risale alla fine del I sec. a.C., si daterà a quest’epoca il capitello pubblicato da Weigand, dove gli elementi normali, appena riconoscibili tanto sono modificati, consistono nel solo calice e il suo fusto, e non occupano più posto che nel capitello di Djerach o in quello della chiesa di Soueida. Un secondo stadio mostra dei capitelli poco differenti, a prima vista, ma in cui si è aggiunto un elemento: le elici mediane che figurano sui busti. Nel terzo stadio, non vi sono più busti: le elici mediane ne hanno occupato il posto. Un esame attento, in realtà, mostra che esse si trovano su di una specie di gobba; questa particolarità non può che essere interpretata in un modo: le elici hanno occupato lo spazio destinato a un busto. Fra la realizzazione del capitello, contemporaneo all’edificazione del tempio, e il termine dei lavori di decorazione, la moda sarà cambiata, la forma corinzia normale si sarà imposta, e così dalla sporgenza di un capitello destinato a essere decorato come quelli del primo stadio, ci si sarà sforzati di ricavare un capitello normale. La data particolarmente tarda del capitello si riconosce particolarmente dagli acanti, i cui contorni spigolosi, il rilievo sottolineato unicamente da solchi, formano un totale contrasto con gli acanti dei capitelli di prima fase. Se, d’altra parte, il nostro capitello presenta dei tratti che mal si accordano con una datazione bassa, alcune foglie superiori che nascono dalla base stessa del capitello e le cui estremità superano appena quelle delle fogliette inferiori, ciò si deve alla realizzazione del capitello, che risale a una data alta.

CONCLUSIONI Negli ultimi decenni del I a.C., ha luogo una profonda trasformazione nell’architettura classica. Al gusto delle combinazioni inedite, alla fantasia, all’estrema libertà che avevano caratterizzato la creazione artistica in questo “secolo delle rivoluzioni in Occidente e della completa disgregazione degli stati greci in Oriente310”, succede sotto Augusto un ritorno all’ordine, alle regole. Questa tendenza, di cui il De architectura

di Vitruvio è l’espressione letteraria, si traduce nei monumenti con l’impiego di rigide proporzioni, con un’epurazione che è anche un impoverimento del repertorio delle forme. Nello stesso periodo Augusto rende, in ambito politico, l’ordine e la pace al mondo romano. E’allettante attribuire a Roma anche il ritorno all’ordine nell’arte, ed è la soluzione adottata da Weigand: il neo-classicismo di Augusto è per lo studioso qualcosa di romano; le due grandi restaurazioni, politica e artistica, hanno gli stessi autori, i signori di Roma. Roma afferma la sua potenza con la creazione di colonie, come Berytus e Heliopolis in Siria, ed esse saranno le intermediarie grazie alle quali stabilirà la supremazia della sua

arte. Tuttavia su di un punto, di cui Weigand in verità ha fatto un caposaldo, questa tesi deve essere messa

310WEINEGARD, Baalbek, Datierung n. kunstgeschichtliche Stellung seiner Bauten, in Jahrbuch für Kunstwissenschaft, 1924.

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in discussione: si può dubitare che il capitello corinzio imperiale della Siria, della Palestina e dell’Arabia, abbia un’origine occidentale. Tutti gli studi della semplificazione attraverso la quale il capitello vitruviano è sorto dalle forme più arcaiche del capitello normale, tutti gli stadi dell’evoluzione nel corso della quale esso ha soppiantato le forme eterodosse, le abbiamo riconosciute nei monumenti di questa regione. Le forme di Baalbek si comportano in questo insieme come un corpo estraneo, così come la colonia di Eliopoli in ambiente siriano. Senza dubbio, questa tendenza è parallela ai progressi della dominazione romana; è sorprendente osservare come il capitello normale in Siria regni incontrastato dalla metà del I sec. d.C., mentre in Arabia perdura sino ai Flavi l’uso di quello eterodosso, che ricompare sporadicamente anche in seguito. Tuttavia, Schlumberger non ritiene che questo parallelismo obblighi a vedere nel capitello vitruviano una forma occidentale. Egli osserva come, studiando i capitelli eterodossi, ci si accorga che questi appartengono alla Siria del nord; d’altra parte, almeno un capitello, quello di Antiochia, attesta la relativa antichità della forma normale in quella regione. Infine, il capitello – modello di Palmira, che è senza dubbio il più antico capitello veramente vitruviano che si trovi in questa città, presenta alcune particolarità estranee alla tradizione palmirena e a quella della Siria meridionale, ma verosimilmente comuni nella parte settentrionale del paese. Un’ipotesi plausibile è la seguente: in epoca ellenistica, il rapporto che lega le forme alessandrine a quelle della Siria del sud non si è estesa alle tipologie della Siria settentrionale; gli architetti di questa regione hanno dovuto utilizzare il capitello normale. E’ ad Antiochia che è comparso in Siria in prima battuta, che vi sia nato, o sia stato importato dall’Anatolia; è là che ha assunto, o ripreso, ai tempi di Augusto, la sua forma classica, da cui in seguito sono derivati tutti i capitelli della Siria romana, tipologia che ricorda quella vitruviana di Roma per la disposizione e la natura dei suoi elementi, ma che ne differisce innanzitutto per il disegno dell’acanto. E’ da questa regione, la più ellenizzata della Siria, che si sarà propagato insieme alla dominazione dei romani, salvatori dell’ellenismo, verso la Siria meridionale e l’Arabia.

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20. AMY 1933 R. AMY, Premières restaurations à l’arc monumental de Palmyre, in Syria, tomo 14, fascicolo 4, 1933, pagg, 396-411.

Si tratta della relazione dell’opera di restauro compiuta da Amy e dalla sua équipe nel 1930, sulla struttura nota come arco monumentale, solo resto di un edificio che sorgeva a un angolo della Via Colonnata (fig.30)311. La posizione di questa costruzione spiega la soluzione adottata: l’arco ha una planimetria a forma di V, le aste della quale sono ciascuna perpendicolare alle parti del colonnato che le raggiungono. In elevato, ciascuna di queste “aste” era composta da un grande arco, corrispondente al passaggio centrale scoperto della via, fiancheggiata da due archi più piccoli, in corrispondenza dei passaggi coperti situati su entrambi i lati del fornice centrale fra l’allineamento delle colonne e le case o i suk che fiancheggiavano questa grande arteria. All’interno, fra le aste della V, due muri a gomito collegavano i due grandi archi centrali, sostenendo probabilmente una volta che copriva il passaggio. Amy fu chiamato a Palmira nell’aprile 1930 dal Service des Antiquités, per restaurare le rovine di questo edificio. Allora non ne restava che il nucleo primitivo: sulla facciata N-O, il grande arco AB e il piccolo BD (planimetria Amy, fig. 1), sulla facciata S-E, i piccoli archi DE e FG, all’interno della V, i muri AF e BE, livellati all’incirca al momento della costruzione della volta centrale. Il grande arco AB necessitava un intervento urgente; verosimilmente in seguito ad una scossa sismica, il piccolo arco AC era crollato, e il pilone A si era inclinato nella direzione indicata dalla freccia nella planimetria (fig. 2). Si tratta di uno scarico a ribaltamento generale senza punti di rottura, dalla base alla sommità, e provocata dalla spinta del grande arco. Il pilone non presenta alcuna frattura; un movimento del terreno e il cattivo stato delle fondazioni possono spiegare questo fenomeno: ne è risultata una rotazione che, di lieve entità alla base, ha provocato 12 m più in alto, una dislocazione della struttura muraria molto più significativa. L’arco si è rotto nel giunto m’n’, creando un vuoto di 0,20 m.

La chiave di volta centrale, composta di due conci accostati e legati dalla malta, è scivolata verso il basso e, anche se è rimasta in posizione orizzontale, ha colmato questo vuoto, pur mantenendo i due lati pm e p’n’

dell’arco, che si appoggiavano a essa con superfici pochissimo estese, i cui contatti erano d’altra parte molto danneggiati. Le pressioni esercitate su queste superfici potevano far cadere la chiave di volta e causare il crollo dell’intero edificio. In più, il pilone A aveva la base interamente corrosa, e Amy scoprì all’interno, mascherato da terra e pietre,

un buco di circa 2 m2. Prima dell’arrivo dell’Autore, il capitano del genio Pouille aveva consolidato tutte le basi dell’edificio con uno strato di calcestruzzo di cemento; egli aveva anche allestito un pilastro per sostenere i primi tre conci superstiti del piccolo arco crollato AC, assicurando così una maggiore stabilità al pilone A.

Era necessario: 1) costruire un’impalcatura intorno all’arco, 2) puntellarlo sul lato sinistro, 3) riposizionare la chiave di volta. Per puntellare il grande arco era necessario ricostruire il piccolo arco AC, poiché ogni altra

soluzione costringeva a un’aggiunta senza alcun rapporto con l’antica facciata, necessariamente fastidiosa alla visione d’insieme. Amy si servì inoltre della relazione relativa a questo intervento di restauro, realizzata da Gabriel nel maggio 1925 e depositata al Service des Antiquités.

311

La grande Via Colonnata di Palmira è divisa in tre tratti rettilinei, che formano una linea spezzata con questo percorso: Tempio funerario, Tetrapilo, Arco Monumentale, Propilei del Tempio di Bel.

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Fig. 30 L’arco prima del restauro, disegno di R. Amy.

Puntellamento dell’arco. Lo scopo di questa operazione consisteva nel sostenere un arco con una centina nel punto in cui la chiave di volta doveva essere riposizionata. La centina era composta da tre parti: due fisse che sostenevano i fianchi pm e p’n’ dell’arco, e una mobile in

grado di seguire il movimento della chiave e sostenerla durante la manovra (pali 3 e 4, fig. 3). Era importante determinare sin dall’inizio come tale chiave di volta doveva essere rimessa in opera, perché da questo doveva derivare il sistema d’impalcatura da adottare per sollevarlo. Gabriel proponeva nel suo rapporto di sollevarla verticalmente e di riempire i giunti fra conci e contro-conci con lastre di piombo, che sarebbero state schiacciate dal peso del concio stesso, assicurando un perfetto contatto; sarebbe stato allora sufficiente porre sopra la parte mobile della centina una serie di binde. Questa soluzione era semplice ma Amy si accorse, dopo un rilievo esatto dei ruderi, che i giunti da riempire sarebbero stati troppo spessi (0,09 m), il che rendeva difficile l’impiego delle lamine di piombo. Inoltre, l’arco avrebbe presentato due fratture, essendo formato da tre archi con lo stesso raggio ma con centro differente. Amy preferiva riposizionare la chiave di volta nella sua vera posizione antica, e non avere che una frattura, facendo combaciare esattamente le facce; l’ideale sarebbe stato rialzare tutto il pilone A, per ritrovare il

centro perfetto, ma non vi erano i mezzi necessari a Palmira. Una delle due pietre che formavano la chiave di volta non era più posta sul suo piano e sporgeva leggermente verso l’esterno: era dunque necessario ottenere un movimento nelle tre dimensioni, verticalmente, verso destra, e spingere questa pietra nel suo piano. Si costruì dunque una gru a cavallo dei puntelli e fortemente collegata a essi. Un paranco sospeso in alto ha permesso questa manovra con il minimo di rischio. Restauro del piccolo arco. Bisognava innanzitutto stabilire il piano e l’elevato di questo monumento. La presenza dei primi tre conci a destra, ancora incastrati nel pilone A, provava la sua esistenza.

L’immorsatura del rudere sopra questi conci indicava esattamente la stessa disposizione di quella che sormontava l’arco BD. La decorazione dell’archivolto dei tre conci era assolutamente identica a quella dell’arco BD: vi era dunque simmetria con la parte destra dell’insieme di questa facciata. Del pilone A non mancava che il pilastro che

sosteneva l’arco; le sue tre dimensioni in piano furono ottenute dall’esame del letto di posa del primo concio

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dell’imposta dell’arco. Si osserva infatti fra gli archi ancora esistenti, che il pilone e l’inizio dell’arco combaciano, nonostante il capitello che li separa. Il pilone di cemento posizionato in questo punto fu distrutto e rimpiazzato da un sistema di puntelli di supporto, che permise la sua ricostruzione in pietra solo fino al capitello. Questa demolizione ha liberato la base modanata (pietra b, fig. 5). Del pilone C non restava che una porzione della base (pietra b’), estremamente danneggiata. Nel corso dello sgombero, apparve il basamento del pilone, così come la prima assisa del muro M: ciò ha permesso di acquisire dati sulla facciata N-E dell’edificio, e sul collegamento del pilone C a quest’ultima. Era però necessario compiere uno scavo preliminare ai piedi del pilone C: l’indagine, condotta a una profondità di 4 m, ha messo in luce i blocchi P1 e P2, i tre conci mancanti della porta sinistra dell’arco, una pietra proveniente dalla seconda assisa sopra la chiave di volta e una pietra dell’architrave. Queste scoperte hanno permesso di precisare la planimetria: la pietra P1 ne assicurava più della metà e verificava le tre dimensioni del pilastro che sosteneva l’arco, e forniva l’ingombro e la larghezza del pilastro adiacente che inquadrava l’arco, la cui misura si deduce dall’asse xy. Il blocco P2 si alloggiava perfettamente al di sopra e i tre conci ritrovati permettevano di misurare l’apertura dell’arco con una maggiore precisione rispetto a quelli ancora in situ. La prima assisa del muro MN era ancora in posizione, e ha permesso di determinare la larghezza del pilastro d’angolo: era logico ipotizzare la sua sporgenza in 9 cm, uguale a quella del pilastro simmetrico nel pilone A. Doveva ancora essere determinata la parte posteriore: a lati del blocco di base b (figg. 6-7), si trovavano dei

blocchi in pietra gessosa tenuti insieme da stucco, e blocchi di fondazione al di sotto erano dello stesso tipo. Questo calcare tenero (eocenico), molto differente dal calcare duro (dolomitico del Cenomaniano) utilizzato a Palmira per tutti gli edifici importanti, è di facile estrazione. L’importanza della cava da cui è estratto lascia supporre che il suo uso fosse frequente ed è probabile, benché non resti alcun muro in piedi, che tutte le case del quartiere centrale fossero costruite con questo materiale, ad eccezione tuttavia delle fondazioni, dei piedritti e delle architravi (oltre che delle colonne, quando erano presenti), tutti ricavati dalla pietra dura312. La presenza di questi blocchi fa supporre che in origine l’arco fosse addossato a un’altra costruzione. Si presentavano quindi due soluzioni: o un muro in pietra tenera nell’allineamento della facciata (schizzo 1), o lo stesso muro perpendicolare a questa facciata (schizzo 2). Lo scavo ha permesso di ritrovare delle fondazioni di muri appartenenti a botteghe o case, e nessuno di questi muri, prolungato, porta al pilone C,

né può occupare una di queste due posizioni. Bisognava dunque o inventare un raccordo senza alcun rapporto con le fondazioni trovate, o vedere in quei blocchi le tracce di una costruzione posteriore alla demolizione dell’arco, o ancora pensare a una cattiva esecuzione dei lavori. Mettendo in luce con attenzione la parte bassa dell’edificio rivestita di cemento, Amy comprese che i pilastri della facciata esterna terminavano con una base ionica comune, sporgente di 0,25 m, mentre i pilastri dei piccoli archi, così come i muri interni terminavano con una modanatura più semplice, con kyma reversa sporgente di 0,15 m. Riportando queste misure sul basamento del pilone C (fig. 9), l’Autore si rese conto che se si tentava di riportare la modanatura della base dell’ultimo pilastro sulla facciata N-E, bisognava supporre che quest’ultimo fosse largo solo 0,52 m, mentre quello posto simmetricamente sul pilastro D misura 0,75 m.

Se si adottava invece quest’ultima misura, non restano che 2-3 cm fra l’estremità del pilastro e il perpendicolo dello zoccolo, cosicché risulta impossibile posizionare la modanatura. In ogni caso, non vi era una soluzione al problema, e si poteva scegliere l’ipotesi più conveniente. Il pilastro mancante fu costruito con 0,75 m di larghezza e 0,80 m di sporgenza, in modo da conferire una completa simmetria alla facciata e da puntellare l’arco con un pilone più largo. I blocchi che si trovavano a questa estremità furono solo picchettati e i blocchi sgrossati in maniera tale da indicare che si trattava solo di un’ipotesi, ma non di un restauro certo. Benché fossero in pessimo stato, il profilo delle basi esistenti poteva essere ricavato: a sottolineare la sovrapposizione poco classica, in piano e in elevato, di due modanature differenti, il profilo ionico fu scolpito senza sgrossatura, il che evitò le forme troppo pesanti dei tori scolpiti per piani. Amy ritenne che la presenza, in uno stesso blocco, di una sgrossatura (quello della base con kyma reversa) e di una modanatura finita non potesse lasciare alcun dubbio, in futuro, sulla data recente di quest’ultima.

312 Palmira aveva due cave : una posta 10 km a nord per la pietra dura, in uno strato di affioramento del Cenomaniano, l’altra a 5 km a ovest dal castello arabo per la pietra tenera, nelle falesie che dominano la Valle delle Tombe. Quest’ultima si estende per 600 m circa e in alcuni punti la roccia è stata tagliata fino a 15 m d’altezza. Probabilmente fu sfruttata solo dai Palmireni, se si considera che il sistema di estrazione sia lo stesso lungo tutta la falesia, e che un’iscrizione in palmireno è stata ritrovata su di una delle pareti tagliate.

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I blocchi P1 e P2 potevano essere rimessi in opera, tuttavia P1 presentava un letto d’alloggiamento in cattivo stato di conservazione, fu necessario svuotarlo internamente fino a che il martello diede un suono argentino, e riempirlo di malta. L’altezza cui disporre i blocchi fu determinata grazie ai resti della decorazione scolpita, su due delle loro facciate, paragonandole ai motivi analoghi dell’arco BD. Sui capitelli che sostengono l’arco, le foglie d’acanto erano lisce, come lo sono in alcuni capitelli (forse non terminati) dell’edificio di Diocleziano a Palmira. I conci non potevano essere ripristinati senza tamponature, a causa delle numerose crepe. Per quanto concerne il sistema statico, le linee d’azione delle forze F1,F 2, F3, che sostengono il peso dei conci, cadono tutte all’interno del piedritto; la costruzione può realizzarsi senza l’aiuto di una centina. Il concio 1 sconfina sul pilastro adiacente di 0,24 m, il che gli conferisce un maggior equilibrio e riporta il suo centro di gravità sulla sinistra, poiché la linea d’azione di F1 taglia ap all’incirca a metà. Il piano di allettamento superiore è formato dai due differenti piani kl e mn, essendo l’aggetto lm 0,05 m. Il concio 2 si arresta alla destra del pilastro adiacente ed era inutile appesantirlo all’estremità, essendo l’aggetto lm sufficiente per

impedirgli di scivolare. Il concio 3, al contrario, possiede un grande codolo che riporta la linea d’azione di F3 sul piedritto; si può osservare che questa linea d’azione passa per la verticale uv del gomito del blocco, il che facilita singolarmente la posa in opera. Il blocco, sospeso da una grappa fissata in una mortasa in v, occupa nello spazio la posizione esattamente voluta per la posa in opera, e, nel farlo discendere, i letti di posa tu e us

coincidono: dei piccolissimi sforzi da entrambi i lati hanno permesso di terminare la posa in opera. Nonostante non fosse possibile reperire localmente manodopera in grado di utilizzare questo sistema, la figura 11 mostra la semplicità della centina. Simmetricamente, a destra, l’arco è sagomato allo stesso modo. Una volta posti in opera i conci, bisognava porre la chiave di volta, la quale è composta di due blocchi giustapposti: ciò costituisce un valido principio di costruzione e offre una grande facilità di sollevamento. Non fu possibile ottenere un arco a tutto sesto perfetto, poiché i tre conci di sinistra hanno il centro ribassato. La curva della chiave fu calcolata per ottenere il miglior effetto e rendere praticamente invisibile il raccordo obbligatorio. Il blocco proveniente dall’assisa M e quello d’architrave potevano essere rimessi in opera, ma la loro permanenza nel terreno gli aveva conferito una patina poco colorata, e furono collocati fra i blocchi antichi e quelli nuovi bianchi, poiché in questo punto il contrasto è meno forte. Facciata interna. Lo scavo aveva messo in luce due frammenti molto mutili, che furono riconosciuti come provenienti da un capitello del pilastro dell’ordine interno del passaggio ACGF; si può in effetti scorgere

l’abbozzo di una semi-ghirlanda d’alloro, che non lascia alcun dubbio a questo proposito. La modanatura si profila su di una superficie piatta di circa 0,20 m, che può appartenere solo a un muro. E’ normale posizionare questi frammenti come indicato nella fig. 13, e di ricostruire così il capitello. Questo fornisce la certezza che il muro MN arrivava a questo livello e si può supporre fosse coronato, come quello situato di fronte ad A in F, dall’architrave che gira nell’angolo interno del pilone A. E’ probabilmente sopra

quest’ultima (che faceva tutto il giro del passaggio) e della sua sporgenza che si appoggiavano le travi orizzontali che sostenevano il soffitto, poiché i blocchi superiori non sono più ornati, ma solo sgrossati con il piccone. Le ultime quattro file, M, N, O, P, ricostruite, furono tagliate allo stesso modo. Tutta questa costruzione fu fatta senza malta; la manodopera locale non permette di ottenere la perfezione del lavoro antico, soprattutto per i giunti orizzontali, che in questa struttura sono notevoli. I blocchi di muratura furono realizzati in assise orizzontali, con blocchi in calcestruzzo al centro, poiché i giunti verticali sono stati posti con anatirosi da 10 e 15 cm. Le pietre dell’assisa L, posizionate a due a due nello spessore del muro, sono state unite con grappe in rame rosso laminato; le pietre sono state estratte dall’antica cava. Sollevamento della chiave di volta. Dopo aver puntellato l’arco, non restava che porre la chiave di volta nella sua originaria posizione e fissarvela. L’operazione è stata compiuta normalmente, dopo la rimozione dell’impalcatura. Per colmare il vuoto n’m’m1’n1’ non era possibile aggiungere un semplice concio

supplementare, perché il blocco dell’architrave posta al di sopra non rendeva possibile alcuna manovra e un semplice giunto in cemento con placchette di pietra non garantiva una sufficiente resistenza alla compressione. I due blocchi che formavano la chiave furono perciò mantenuti in posizione da una centina mobile e da zeppe di legno, ponendo nello spazio vuoto due apparecchi corrispondenti a ciascuna delle chiavi e composti ciascuno da due placche di lamiera d’acciaio spesse 0,02 m. Queste placche si appoggiavano sulle facce dei giunti, mantenute divise da viti opposte e di passo inverso, unite a due a due da manicotti filettati a forma di dado. Fra le placche di lamiera e la pietra si inserirono lastre di piombo. Agendo sui manicotti, le placche si distanziavano, schiacciando il piombo e l’insieme di ciascun apparecchio si fissava nello spazio vuoto.

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Le zeppe e la centina furono rimosse e dopo un esame minuzioso di diversi giorni, poiché nulla si era mosso, fu disposta una serie di placchette di pietra, sbozzate secondo le modanature delle chiavi, con la funzione di casseratura permanente, al cui interno fu immesso un calcestruzzo ricco di cemento, che inglobò gli apparecchi e le placchette munite verso l’interno di perni a uncino. Il sistema di costruzione del grande arco è molto simile a quello dei piccoli: i conci sono muniti di grandi codoli; per non avere angoli troppo chiusi (il che nuocerebbe alla loro solidità), i costruttori hanno decentrato i giunti (fatto che non era necessario nei piccoli archi). Si nota che il centro di gravità di tutta quella parte la cui circonferenza è tratteggiata cade all’interno del pilone e che si poteva eseguire questa costruzione senza centina; la chiave di volta avrebbe potuto essere riposizionata senza alcuna impalcatura se i blocchi fossero stati in buone condizioni (fig.31). Compiute queste operazioni per mettere in salvo la parte del monumento in pericolo, si sarebbe ancora dovuto intraprendere un secondo restauro, comprendente: 1° La rimozione del cemento che ingloba le basi e la sua sostituzione con blocchi di pietra o placchette. 2°La posa di nuovi conci per completare l’architrave e il fregio. Vi sarà modo di prevedere uno scarico, sopra la chiave di volta, nell’architrave, con l’inserimento di una trave in cemento armato. 3° La ricollocazione dei blocchi della cornice e del frontone caduti a terra e ancora in buono stato.

Fig. 31. L’arco dopo i lavori, con il recinto del tempio di Bel sullo sfondo.

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21. SEYRIG 1934 H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 15 fascicolo 2, 1934, pagg.155-186.

17. Bas-reliefs monumentaux du temple de Bel à Palmyre.

L’articolo illustra alcuni bassorilievi provenienti dal peristilio e dalla copertura del tempio di Bel, in quegli anni oggetto di scavo da parte del Service des Antiquités.La copertura di quest’ambiente era costituito da una

cassettonatura alloggiata su travi di pietra, che poggiavano a loro volta parzialmente sul muro della cella e sulla contro-architrave del colonnato: la parte visibile delle travi era ornata di rilievi, mente il soffitto era decorato con motivi a tralcio di vite. La copertura s’interrompeva in corrispondenza della porta della cella: la cassettonatura era lì interrotta da un bassorilievo visibile a coloro che attraversavano il peristilio per entrare nella cella. 1.Scena di offerta.

Il primo rilievo proviene da una trave trapezoidale, che si trovava oltre il peristilio, all’altezza della prima colonna a sud del portale d’entrata del tempio, e rappresenta una scena di offerta. Alcuni sacerdoti bruciano offerte su dei pyrée in metallo, di forma stretta e con ornamenti sferici, accompagnati da assistenti. Solo la parte centrale è conservata: vi sono due pyrées accesi cui attendono ciascuno due sacerdoti, mentre

altri due personaggi posti nel mezzo sembrano essere semplici assistenti al culto; a ciascuna estremità vi sono altri due sacerdoti, probabilmente sempre davanti ad un pyrée, ma le figure degli altari sono state cancellate. I sacerdoti hanno le mani e il volto scalpellati, ma sulla base di rilievi simili si può ipotizzare che tenessero in mano una brocca senza ansa e una scatola cilindrica per l’incenso; di solito l’officiante regge la brocca fra il medio e l’anulare della mano sinistra, mentre la scatola è poggiata sopra l’apertura del vaso e da essa il sacerdote preleva i grani d’incenso. Al momento della libagione la scatola era sorretta nella sinistra e la brocca nella destra: da un altro rilievo sembra che si trattasse di un’offerta d’olio, versata direttamente sulla fiamma dell’altare. I sacerdoti vestono una tunica di media lunghezza, priva di decorazione, stretta in vita da una lunga cintura, terminante in un ornamento cruciforme e una frangia; era annodata sul ventre e s’incrociava sulle reni, per essere poi legata sul ventre. Un abito e una cintura simili sono indossati da un sacerdote di Aphlad a Dura, in un bassorilievo risalente al 51 d.C.; una veste di questo tipo era indossata anche dai sacerdoti fenici. In alcuni casi i sacerdoti indossano anche un mantello, che ricorre in diversi altri rilievi palmireni: in un frammento ritrovato nel tempio di Bel, questo indumento è fissato da una fibula alla spalla destra e gettato sul dorso, in modo da lasciare libertà di movimento all’officiante. Nel rilievo in esame il mantello è però portato solo dai personaggi, probabilmente assistenti, che presenziano al rito senza parteciparvi attivamente: essi sono completamente avvolti nel mantello, che lascia libere solo le mani. E’ presente anche il consueto copricapo cilindrico dei sacerdoti palmireni, mentre i piedi sembrano non essere stati calzati, secondo l’uso semitico. Come ha osservato Ingholt, il copricapo e l’uso di radersi completamente il capo e la barba, oltre l’abito, sono usanze tipiche sia di Palmira sia della Fenicia, mentre in Syria Cyrresthica e lungo l’Eufrate i sacerdoti erano barbati e portavano una tiara conica. A parere di Seyrig, le similitudini nell’abito dei sacerdoti palmireni e fenici non possono essere casuali, ma sarebbe necessario conoscere meglio le usanza religiose che accomunavano Palmira e la Siria occidentale; un’iscrizione di Damasco sembra indicare che anche il gran sacerdote di Giove Damasceno si rasasse la barba entrando in carica. 2. Processione di un cavallo e di un cammello (fig.32). Sul rovescio del rilievo prima descritto sono scolpiti un cavallo e un cammello in marcia. Il cavallo, molto piccolo (ciò è dovuto probabilmente a ragioni di spazio, oltre ad un’effettiva piccolezza della razza locale), non ha bardatura a parte una cavezza, e dietro di esso è raffigurato un cammelliere che regge un bastone nella sinistra e con la destra trattiene per la cavezza il suo animale, tenendo contemporaneamente la mano alzata come in un gesto di saluto. Al collo del cammello è appeso un sonaglio o un pendente a forma di ghianda, e un baldacchino drappeggiato è issato sulla sua groppa. Un oggetto allungato sembra poggiare su di un tappeto all’interno del baldacchino stesso, decorato da un bordo con motivi a losanga e a onda continua, dipinti in verde e giallo, mentre il baldacchino reca tracce di vernice rossa. Dietro la processione compaiono due gruppi di donne vestite in modo molto singolare: esse portano una tunica lunga siano ai piedi ed hanno la parte superiore del corpo, sino al viso, avvolto in un mantello; la testa è leggermente inclinata, e appoggiata a una mano, anch’essa velata. Sia gli abiti sia il mantello erano dipinti a vivaci colori e sono stati riprodotti in un acquerello realizzato al momento della scoperta. Queste donne sembrano far parte della processione, ma il modo in cui i piedi sono scolpiti sembra indicare invece che si tratta di spettatrici, che osservano da ferme la processione; a sinistra un altro gruppo di

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donne, rappresentate in secondo piano, osservano ugualmente la scena. Accanto ad esse vi sono due altre figure cancellate: vi sono tracce di una corazza e di una figura forse femminile in ginocchio. Quattro figure maschili osservano dall’alto la processione: la prima sembra non poggiare i piedi al suolo e alza la destra in segno di benedizione e saluto; i suoi capelli sono scolpiti in ciocche sparse e disordinate, mentre di solito gli scultori palmireni pongono grande attenzione nel modellare le capigliature. Più a destra, al di sopra del cavallo vi sono altri tre uomini: il primo e il terzo compiono lo stesso gesto con la mano alzata, mentre il secondo posa una mano sulla spalla sinistra del primo. I primi due personaggi sono rappresentati frontalmente, mentre il terzo è rivolto verso la processione. Si potrebbe pensare che si tratti di divinità rappresentate a dorso di cavallo, secondo l’uso anatolico o assiro, ma in realtà sono scolpiti come il primo uomo con la mano alzata: probabilmente non sono divinità ma essi stessi degli spettatori. Inoltre i tre uomini reggono nella sinistra un oggetto, forse un corto scettro, senza alcun ornamento, che non ha paralleli nell’arte siriana. Come il cammelliere, i quattro spettatori vestono abiti comuni a Palmira, sia per rappresentare gli dei sia gli uomini. Essi indossano una tunica, un mantello che gira intorno al collo ed è gettato indietro in modo da lasciar libere le braccia, e portano un tessuto avvolto intorno ai fianchi che giunge fino a metà polpaccio, con la parte superiore arrotolata a spirale e il bordo frangiato. La scena, benché mutila della parte sinistra, che doveva essere la principale, è di difficile interpretazione. Potrebbe rappresentare una scena di processione di un culto di origine araba, dove il trasporto delle statue di divinità a dorso di cammello era frequente; sfortunatamente si sa pochissimo dei riti arabi anteriori al periodo islamico, anche se erano comuni le processioni in cui la divinità protettrice del clan era trasportata, verosimilmente in forma di betilo, a dorso di cammello in un baldacchino di cuoio, forse di colore scarlatto. Dai testi che descrivono i rituali dell’Arabia occidentale, sappiamo anche che la custodia di tale baldacchino era affidata alle donne: vi sono quindi diversi elementi che fanno pensare a una cerimonia religiosa legata a un culto di origine araba di Palmira, ma il significato di essa ci sfugge. Un’altra ipotesi meno documentabile potrebbe indicare una scena funebre, suggerita dalla capigliatura scompigliata dei quattro uomini nella parte superiore del rilievo, dall’atteggiamento delle donne, anche se in Oriente l’uso del velo durante le cerimonie funebri è raro, poiché anche fra le donne arabe è comune, durante i funerali, stracciarsi le vesti e scoprirsi il capo e il petto. Questi rituali erano diffusi anche a Palmira, come mostrano diversi funebri e una tessera che rappresenta una donna piangente che si lacera il petto accanto all’immagine di Tammuz313. L’unico elemento funebre della processione potrebbe essere l’oggetto nel baldacchino, che in questo caso sarebbe un corpo oppure l’immagine di Tammuz, il cui culto prevedeva un rito funebre e che a Palmira è associato, su di una tessera, al culto del dio arabo Manaf. Nonostante questi elementi, Seyrig ritiene poco probabile che di una processione funebre si tratti. L’uso del velo, in questo rilievo, può essere stato un artificio tramite il quale lo scultore voleva indicare una chiusura particolarmente stretta del mantello, in occasione di un rito preciso; Seyrig ricevette dal Padre Vincent la comunicazione dell’uso delle donne siriane di velarsi durante le processioni di Nebi-Moussa; forse le donne si velavano gli occhi a causa del divieto di fissare un oggetto sacro di cui avrebbero potuto macchiare la purezza o che avrebbe compromesso la loro, ma non vi sono prove sufficienti a corroborare un’ipotesi del genere. Il cavallo senza guida si presta difficilmente a una spiegazione, salvo che esso non “conduca”la processione, in ricordo di una qualche leggenda legata al culto in oggetto: in numerosi miti di fondazione è, infatti, un animale a condurre l’ecista verso il luogo dove sorgerà una nuova città, ma solo ulteriori scoperte possono chiarire definitivamente la scena.

313 La tessera, allora ancora inedita, stava per essere pubblicata dall’Autore e da Seyrig.

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Fig. 32. Scena di processione con cavallo e cammello. 3. Combattimento contro un anguipede (fig.33). Questo rilievo raffigura una lotta contro un mostro anguipede ed era posizionato di fronte ai rilievi n°1-2. In esso compaiono due scene: nella parte sinistra vi è la lotta fra un mostro anguipede e due guerrieri, uno che monta un carro e un altro a cavallo; a destra vi è un gruppo di sei divinità, che benché per convenzione siano raffigurate frontalmente, assistono al combattimento. Il mostro è formato da un busto, probabilmente femminile, coperto da una tunica, e cinque serpenti al posto delle gambe, che sta per soffocare una figura molto mutila, probabilmente un giovane uomo, con il busto completamente scalpellato, ma di cui restano le cosce e i genitali; il corpo pare essere morso da un piccolo cane, che corre da destra con la coda all’insù. A destra della testa dell’anguipede vi è un vaso sferico da cui fuoriescono dei serpenti, molto mutili. Verso il mostro corrono un arciere su di un carro e un cavaliere. Il carro, che viene da sinistra, pare trainato da un solo cavallo e l’arciere tiene l’arco fra le mani come se avesse appena scoccato la freccia o stesse per farlo: una freccia è conficcata nel petto del mostro e un’altra sta per colpirlo alla gola. Il cavaliere, raffigurato frontalmente, è vestito di corazza, anassiridi e un mantello svolazzante; sul capo porta un elmo con paranuca, mentre le armi non sono più visibili. Il cavallo che monta, con ricchi finimenti, è lanciato al galoppo, anche se volge la testa indietro, come spaventato dall’aspetto del mostro. Una simile scena di combattimento è presente su di un rilievo di Soueida, pubblicato da Clermont – Ganneau. Anche se in questo caso l’anguipede, armato di due grossi sassi, minaccia un cavaliere che gli galoppa contro, accompagnato da un simbolo astrale che ne segnala la natura divina. Come nel rilievo palmireno, il guerriero indossa mantello e anassiridi, ed ha scagliato una freccia, conficcata nel petto dell’essere mostruoso. Assiste al combattimento, al centro della scena, una figura maschile imberbe, raffigurata a mezzo busto, che regge un grande disco ornato da un astro a dodici punte: si tratta probabilmente di una divinità, senza dubbio il Sole, sotto i cui auspici si svolge lo scontro. A Soueida l’anguipede è chiaramente di sesso maschile, ma è possibile che nei due rilievi siano raffigurate due versioni differenti di uno stesso mito. Clermont - Ganneau ha visto in questo rilievo una raffigurazione di un imperatore che trionfa sui barbari, mentre secondo Koehl si tratterebbe di un rilievo dedicato da soldati germani di stanza in Arabia, data la diffusione del motivo del cavaliere che combatte un anguipede in area germanica. Seyrig tuttavia ritiene che, data la presenza di divinità siriane, non si debbano cercare al di fuori della Siria le origini di tale mito, sia a Oriente (Iran e Asia Centrale) sia a Occidente. Benché la nostra conoscenza della mitologia siriana sia incompleta, sono attestati i miti che raccontano di Zeus che uccide Tifone raffigurato come un anguipede o di Perseo in lotta con il mostro (sino alla leggenda di S. Giorgio e il drago) oppure, per spingersi nella vicina regione hittita, dei miti legati al serpente Illuyankash; tuttavia, nulla di ciò sembra essere applicabile al rilievo qui analizzato. La prima divinità che compare nel rilievo di Palmira è vestita con corazza, elmo a paranuca e spada; egli sorregge con la destra una lunga lancia attorno alla cui asta si attorciglia un serpente, mentre la sinistra è poggiata sull’elsa della spada. Si tratta probabilmente di Shadrapha, identificabile grazie al serpente: egli compare su di un rilievo e su diverse tessere palmirene, dove, oltre il serpente, è inciso anche il suo nome. Il culto di questo dio, al di fuori di Palmira, è attestato solo a Marathus, Biblo e Cartagine, anche se forse è da identificare in Shadrapha anche un dio piuttosto diffuso nei rilievi della Siria centrale, che è a lui molto simile, ma di cui non è noto il nome. Il dio è seguito da due divinità con elmo e corazza, accompagnate da due pesci che guizzano verso il basso. La prima è vestita di una corta tunica, da cui trapela però parte della corazza, e stringe nella destra una lancia, mentre nella sinistra vi è un arco e una faretra è visibile dietro la spalla destra. Si tratta di Artemide, mentre il secondo dio si appoggia con la mano sinistra a una lancia ed ha una spada appesa al fianco. La presenza di pesci, tuttavia, rimanda in Siria al culto di Atargatis e di suo figlio Ichtys o Cupido: secondo varianti leggermente diverse del mito, originatesi l’una a Hierapolis e l’altra presso il santuario di Derceto ad Ascalona, la dea si annega con il figlio in un lago, ed è divorata dai pesci o trasformata in pesce. Non sembra tuttavia che ad Ascalona e Hierapolis la dea fosse assimilata ad Artemide; a Palmira la venerazione per questa dea, raffigurata in compagnia di pesci e probabilmente identificata con Atargatis, è evidenziata anche da numerose tessere. E’ possibile che il guizzo dei pesci verso il basso voglia suggerire l’idea della metamorfosi.

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Il cavaliere, Shadrafa e Ichtys portano tutti lo stesso elmo, la cui calotta e la parte anteriore non sono più visibili, ma di cui si distingue il paranuca. Un elmo simile compare anche su altri rilievi palmireni raffiguranti un dio facente parte della triade di Bel, probabilmente Arsou, e la divinità maschile che accompagna l’Allath di Khirbet el-Sané, oltre che in affreschi di Dura. L’elmo sembra avere forma di calice rovesciato, con la calotta terminante in un bordo, senza soluzione di continuità. La parte anteriore nel rilievo è fortemente mutila, ma non sembrano esserci protezioni per le orecchie, mentre quella posteriore copre la nuca. La sommità sembra essere adorna di un cimiero oppure di un semplice umbilicus314. Non è possibile distinguere le calzature degli dei: Ichtys porta delle scarpe alte, fermate

da due nodi sul collo del piede. Segue a destra una divinità con corazza armata di un piccolo scudo rotondo: spesso Arsou è raffigurato in questo modo ma Seyrig non ritiene probabile tale identificazione, dato che il dio verrebbe qui a trovarsi fra divinità di origine straniera. Il dio successivo è Eracle, nudo e con la leontè: egli si appoggia alla clava con la

destra, ma la testa è cancellata. Se le divinità che lo accompagnano fossero identificabili con sicurezza in Shadrapha e negli dei di Ascalona, si potrebbe pensare all’Eracle - Melkart di Tiro oppure al figlio di Asteria venerato nella Decapoli. Un’indicazione in questo senso sarebbe potuta provenire dalla dea sua vicina, di cui rimane solo un lembo dell’abito. Due geni alati con coda di pesce volano sull’anguipede e le sei divinità: i loro busti sono quelli di giovanetti, alle cui anche si attaccano le code di pesce, avvolte in pesanti spire, come se si trattasse di quelle di un serpente. Il secondo genio, completamente visibile, regge un ramo di palma nelle mani, mentre l’altro probabilmente porta una tromba e una sorta di bacchetta, difficilmente spiegabile. Si potrebbe trattare di simboli di vittoria, o semplicemente di geni benevoli che assistono al combattimento . Seyrig non ritiene sia possibile dare un’interpretazione univoca della scena nel suo complesso, considerando anche gli scarsi riscontri mitologici noti dalla Siria costiera; non si può escludere, comunque, che si tratti di una serie di divinità di origine straniera, tutte facenti parte di uno stesso mito.

Fig. 33. Combattimento contro un anguipede.

4. Il santuario di Aglibol e Malakbel. Questo rilievo è scolpito sul rovescio del precedente, il cui campo è rettangolare: una parte è mutila e ciò che resta rappresenta le varie parti di un santuario. A destra si scorge un tempio corinzio, il cui zoccolo è costituito da plinto, toro e kyma recta. Si conserva solo una colonna d’angolo, scanalata sino a metà fusto, con

trabeazione costituita da fregio decorato con tralci di vite e cornice sporgente, mentre non è visibile la copertura dell’edificio. La facciata è mutila, ma sembra vi fosse un pilone d’ingresso nel peristilio simile a quello del tempio di Bel; fra di esso e la colonna d’angolo si intravedono una palma e un grappolo di datteri. Nel cortile del tempio vi sono due altari carichi di offerte (pigne, melograni, mele), e su quello di sinistra compare l’immagine di un

314 Potrebbe trattarsi di un elmo di tipo romano, anche se ci sono affinità anche con alcuni elmi di ispirazione ellenistica raffigurati negli affreschi del Turkestan cinese. Seyrig non esclude che si tratti di forme ellenistiche, modificate in Asia centrale e poi tornate a Palmira tramite i Parti.

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capretto scolpito a bassorilievo su di una faccia; vicino vi è un albero, di cui non è più possibile individuare la specie, ma che doveva essere familiare ai fedeli: ha una folta chioma e si vede anche il troncone di un vecchio ramo tagliato. Nel santuario vi sono quattro personaggi: accanto agli altari vi sono due divinità che si danno la mano; Aglibol si riconosce grazie al nimbo radiato intorno al capo e al crescente lunare sulle spalle. Il dio è raffigurato in modo consueto, con corazza, tunica, anassiridi e gambali che arrivano a coprire il collo del piede e mantello; egli si appoggia con la sinistra alla lancia, mentre sul fianco destro pende una spada. La presenza dei pantaloni si coglie meglio nell’immagine della seconda divinità, la cui gamba è rappresentata di profilo e senza le frange della corazza: si intravedono le anassiridi che porta sotto i gambali, decorate, nella parte interna della gamba, da un gallone ricamato a torciglione315. I gambali sono fortemente sciancrati sul ginocchio e non proteggono la coscia che sul davanti; essi appaiono sospesi grazie ad un largo gallone in stoffa o cuoio. L’associazione di gambali e anassiridi non è sconosciuta a Palmira (vedi il rilievo n°2), ma sono indossati anche da una statua colossale in basalto rinvenuta nell’acropoli di Calcide di Belo, benché nel rilievo in esame i galloni (e probabilmente anche le cuciture) siano sui lati. Semplici pantaloni con le estremità infilate nelle calzature sono comuni a Palmira sia durante i banchetti sia per cavalcare, ma dovevano essere molto diffusi in tutta la Siria, come attestano i rilievi di Petra, Emesa, Epifania, gli affreschi di Dura, la descrizione che Erodiano fa di Elagabalo e le immagini di Giove Dolicheno. Questo modo di vestire è probabilmente una derivazione degli abiti di corte partici, anche se potrebbe trattarsi di un’influenza più antica, che si ricollega alle vesti indossate dai satrapi achemenidi. L’uso dei doppi pantaloni non è invece attestato, se si esclude un affresco trovato da Grunwendel e Le Coq a Kyzil nel Turkestan cinese. Vi compaiono, infatti, quattro cavalieri che portano sopra un primo paio di anassiridi, un secondo paio di pantaloni o gambali di colore diverso, stretti alla caviglia e sciancrati al ginocchio, estremamente simili all’abbigliamento che compare nei rilievi palmireni e nella statua di Calcide. Seyrig non esclude che si possa trattare di una variante dell’abito del Turkestan: anche i mercanti tocari attaccavano a una cintura la parte superiore dei loro alti stivali. Un uso simile, coma ha notato Le Coq, era diffuso anche fra gli Sciti della Russia meridionale e della Crimea, sino alla Mongolia; è possibile, se i Tocari avevano origini scite, che proprio da questo popolo sia derivato tale abbigliamento, anche se la sua diffusione in Siria si deve molto probabilmente all’intermediazione dei Parti. Il dio che stringe la mano ad Aglibol non è raffigurato in posizione completamente frontale, ma di lui rimangono solo i pantaloni e i gambali: sembra che non portasse corazza o lancia e che non vi siano tracce di un nimbo intorno alla testa. Dato che in altri due rilievi in cui compaiono le due divinità le iscrizioni indicano il nome di Malakbel, possiamo anche in questo caso identificare in lui il dio del nostro rilievo; inoltre su di una tessera Malakbel compare ugualmente vestito di corta tunica, anassiridi e senza nimbo intorno alla folta capigliatura. Fra i due dei compare un’aquila che stringe fra gli artigli un ramo di palma e regge probabilmente nel becco un serpente. A sinistra, separati da Aglibol e Malkbel dall’albero sacro, due personaggi di profilo assistono all’epifania degli dei e sono abbigliati in modo inusuale per Palmira, vale a dire con una lunga tunica stretta da una cintura, dotata di un cordone che passa attraverso le gambe per sollevare le ampie pieghe dell’abito, secondo il costume testimoniato dalle sculture di Nimroud Dagh per i re della Commagene. L’abito arriva sino alla caviglia della gamba destra, e al di sotto di esso si intravede un gambale dotato di gallone piatto come quello indossato dai due dei mentre della gamba sinistra si distingue solamente il gambale. L’origine di tale abito non è chiara: Puchstein, nello studio di Nimroud Dagh, ipotizza un’origine armena, che però contrasta con la presenza della stessa veste a Palmira e si potrebbero individuare dei paralleli in Iran, che però non sono stringenti. La veste in sé non ha particolarità, se non nel modo di essere indossata, dato che la tunica lunga e dotata di maniche è comune sia a Palmira sia a Dura. I due uomini portano una spada al fianco sinistro e uno spiedo nella mano destra. Aglibol e Malakbel sono spesso associati nelle iscrizioni di Palmira, e anche su di una tessera che presenta una scena molto simile, dove si ritrovano ugualmente i due altari e l’albero sacro, con l’aggiunta di un bue (probabilmente la vittima sacrificale del banchetto per cui la tessera era stata realizzata). Essa consente inoltre di identificare l’albero del rilievo come un cipresso.

315 Il termine “gallone”, qui utilizzato per la traduzione della parola francese “galon”, è usato oggi soprattutto con il significato di decorazione militare; tuttavia esso ha anche il valore di” striscia in forma di nastro, tessuta o ricamata, che si usa per guarnizione”.

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Malakbel e Aglibol si stringono le mani anche in un rilievo di Roma e in uno proveniente da un piccolo santuario campestre situato lungo la via carovaniera che da Apamea giungeva a Palmira: la diffusione di tale iconografia suggerisce che si trattasse anche di quella delle statue di culto del santuario. Il cipresso è l’albero sacro di Aglibol e Malakbel, ma ciò era noto solo da due monumenti romani: un bassorilievo che rappresenta i due dei che si danno la mano davanti ad un cipresso e il celebre altare dei Musei Capitolini, dove l’albero sacro è cinto da bende sacre e fra i suoi rami sbuca un busto di giovinetto con un capretto. Poiché l’altare è dedicato a Malkbel, si può pensare a un più stretto rapporto fra questo dio e il cipresso: il rilievo preso in esame ci mostra che effettivamente a Palmira vi erano, nel santuario di Malakbel, un cipresso e un altare decorato dall’immagine di un capretto. La tradizione dell’altare dei Musei Capitolini si configura quindi come strettamente palmirena. 5. Yarhibol, Aglibol e una dea.

Questo rilievo, posto sul soffitto del peristilio che portava alla cella e scolpito all’interno di un campo rettangolare con cornice a ovoli, mostra tre divinità. Il dio che occupa la posizione centrale è rappresentato frontalmente e si appoggia sulla gamba destra; è abbigliato con una tunica a maniche corte lunga sino al ginocchio e con la scollatura ornata da una fila di perle, una corazza lunga quasi come la tunica, stretta da un sottile cintura, e un mantello, fissato alla spalla destra per mezzo di una fibula e gettato sulla schiena della divinità, anche se un lembo passa sotto l’ascella sinistra e ricade sull’avambraccio. Sembra che il dio indossi delle caligae, ma il rilievo in questo punto è molto rovinato. Egli tiene nella destra un lungo scettro,

mentre poggia la sinistra sull’elsa della spada, modellata a testa di cavallo, e intorno al suo capo vi è un nimbo radiato. A destra del dio vi è un’altra figura maschile molto danneggiata, vestita con abiti uguali e nella stessa posizione, ma senza nimbo radiato: sul capo vi è invece un crescente lunare, simile a un paio di corna; tutta la figura è scalpellata, tanto che si potrebbe forse pensare a una divinità con testa bovina, ma mancherebbe in questo caso un qualsiasi raffronto a Palmira. Il dio tiene nella mano destra una lunga lancia a punta esagonale, mentre il braccio sinistro non è più visibile. A sinistra della divinità centrale vi è una dea con il volto scalpellato, abbigliata di lunga tunica e mantello, che si appoggia alla gamba sinistra e tiene nella mano sinistra un lungo scettro, che termina nella parte inferiore con una forma a campana, mentre manca l’estremità superiore. Il dio con crescente lunare è identificabile con Aglibol: a Palmira è di solito rappresentato con la corazza, ma sempre con il crescente lunare sulle spalle; è possibile che la falce lunare qui sia stata posizionata sul capo su influenza delle immagini di Selene o di Zeus Ouranios, come appariva sulle monete dei Seleucidi. La seconda divinità maschile è molto probabilmente Yarhibol, in quanto Malakbel è considerato inferiore ad Aglibol e non occuperebbe il posto d’onore, mentre Shamash è raffigurato raramente e non con Aglibol. Risulta difficile identificare la dea, forse si tratta di Beltis; sono stati ritrovati anche alcuni frustuli di due pannelli laterali recanti ciascuno l’immagine di una divinità, ma che non sono identificabili. In questo rilievo, il posto d’onore non è occupato da Bel, tanto che Seyrig si domanda se effettivamente per i Palmireni questi fosse un dio solare; egli tuttavia scarta subito questa ipotesi, in quanto a Palmira Bel non sostituisce mai il Sole, poiché è sempre accompagnato da Yarhibol. Inoltre Bel porta sempre le anassiridi, che qui mancano, e mai il nimbo radiato (a parte una tessera emessa da un privato). Lo studioso ritiene dunque che nel rilievo in esame siano raffigurati tre paredri di Bel, che doveva invece comparire su di un altro rilievo, ora perduto. 6. Scena di offerta presso una palma da dattero. A nord della porta della cella, è stato rinvenuto un bassorilievo, la cui collocazione originale è incerta, ma che, considerando la posizione degli ovoli e dei dentelli, doveva decorare una superficie orizzontale, ed era visibile dal basso. Il frammento principale sembra completo nella parte destra, mentre non è possibile determinare le dimensioni di quella sinistra; due altri frammenti sembrano a esso pertinenti, ma potrebbero altresì appartenere a un altro rilievo simile o occupare una posizione differente rispetto a quella loro attribuita nella ricostruzione qui proposta. Vi compare una scena simile a quella del rilievo n°1: quattro sacerdoti offrono olio e incenso presso due pyrées; il frammento principale mostra interamente due coppie di officianti e tracce di una terza. I due

sacerdoti scolpiti in posizione centrale portano gli stessi abiti dei loro omologhi del rilievo n°1, con l’aggiunta del mantello, di cui si intravede un lembo. Gli altri sacerdoti indossano invece ampi gambali simili a quelli indossati da Aglibol e Malakbel e sono avvolti nei mantelli; nonostante il rilievo sia

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danneggiato, è ancora visibile il copricapo cilindrico tipico dei sacerdoti. E’ possibile che in origine nel rilievo comparissero alternate queste coppie di sacerdoti vestiti in modo differente; i due diversi tipi di abiti sacerdotali ci sono noti anche da numerosi busti funerari. Non è possibile spiegare il significato della palma da dattero che compare vicino alla scena di offerta: forse si tratta di un albero sacro, a somiglianza del cipresso sacro che sorgeva presso l’altare di Malakbel. 7. Nota sullo stile dei bassorilievi. Questi sei rilievi risalgono probabilmente all’inaugurazione del tempio nel 32 d.C. e sono i più antichi noti a Palmira; anche nel resto della Siria non sono stati ritrovati che pochi altri rilievi a essi contemporanei. Essi forniscono diversi dati importanti per la comprensione della scultura siriana: una certa influenza greco-romana è visibile, ma non deve essere sopravvalutata. A questa influenza si possono ascrivere la figura di Eracle nudo, le divinità femminili abbigliate alla greca, l’anguipede modellato sull’iconografia di Scilla, gli dei con corazza simile a quella indossata dai monarchi greci o degli imperatori romani, i due geni alati che ricordano le Vittorie dell’Occidente romano. Pur ispirandosi esteriormente a questa tradizione occidentale, le figure sono spesso concepite e trattate secondo i canoni dell’arte orientale: la posizione frontale, il rilievo estremamente piatto, senza prospettiva, con le figure che non si distaccano dallo sfondo. Si tratta di una concezione del modellato presente anche nelle stele fenice di epoca greco-romana, così come nei rilievi della Commagene, probabilmente derivata dai più antichi bassorilievi siriani. In Siria le influenze occidentali si manifestano chiaramente solo in epoca romana, benché declinino abbastanza velocemente: oggetti come il busto di Shadrapha datato al 55 d.C. e conservato presso il Museo Britannico mostrano chiaramente i legami con i rilievi appena esaminati. I personaggi sono semplicemente giustapposti senza legami né prospettive: gli dei che assistono al combattimento si tengono in disparte, le coppie di sacerdoti si dispongono ai lati degli altari, il tempio, gli alberi e gli altari sono scolpiti sulla stessa linea e gli spettatori della processione sono posti al di sopra del cavallo. Coloro che realizzarono i rilievi del tempio di Bel mantennero questi arcaismi, pur essendo a conoscenza della tecnica greca di scultura. Il soffitto a cassettoni sorretto dai pilastri era ornato da motivi presi a prestito dall’Occidente, e trattati alla greca: un frammento mostra una serie di girali con all’interno scene di caccia, in cui si distinguono Amorini e animali scolpiti a volte in maniera poco raffinata, ma che si distaccano vigorosamente dallo sfondo. E’ possibile che lo scultore disponesse di un modello già realizzato o, in caso contrario, egli abbia seguito la tradizione artistica locale, sia per incapacità personale sia perché vincolato dalla materia sacra che trattava. Sembra tuttavia più credibile la prima ipotesi, dato che vi sono due stili differenti giustapposti e che non si mescolano, non solo nei pilastri decorati del tempio, ma anche nella struttura e nella decorazione del santuario medesimo. La mancanza di legami fra le figure è sottolineato dalla rappresentazione sempre frontale, anche per quei personaggi che a rigore dovrebbero essere scolpiti di profilo (i sacerdoti sembrano indifferenti al rito che compiono, gli dei non osservano il combattimento e il cavaliere distoglie lo sguardo dal mostro che sta per attaccare, così come Aglibol e Malakbel si danno la mano senza guardarsi). Questa raffigurazione strettamente frontale delle figure caratterizza tutta la scultura palmirena dal I al III sec. d.C., dove non compaiono mai figure di profilo, così come negli affreschi e nei graffiti di Dura. E’ una convenzione che caratterizza anche altre regioni della Siria, benché compaia solo in monumenti piuttosto tardi: gli imperatori di origine siriana importarono tale maniera di rappresentazione nella scultura romana, ed essa si imporrà definitivamente e universalmente in epoca bizantina. Questi rilievi sono la più antica testimonianza a occidente dell’Eufrate di tale convenzione, che non si è mantenuta nelle stele fenice di età ellenistica e nei bassorilievi orientali, salvo che nelle figure apotropaiche. Nei rilievi della Commagene, i volti sono scolpiti di profilo, ma il torso è raffigurato frontalmente. E’ possibile che la rappresentazione frontale sia comparsa in Siria verso il I sec. a.C., importata dall’Oriente, forse dall’Iran del nord, visti gli esempi offerti dall’arte greco -buddista, come è avvenuto probabilmente anche per alcune fogge d’abbigliamento, con il tramite dell’impero partico, che costituiva il più immediato vicino sia dei regni greco - buddisti sia della Mesopotamia e della Siria.

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22. AMY, SEYRIG 1936 R. AMY, H. SEYRIG, Recherches dans la nécropole de Palmyre, in Syria, tomo 17, fascicolo 3, 1936, pagg. 229-266.

I. – L’ipogée de Yarhai fils de Barikhi, petit-fils de Taimarso.

L’articolo illustra lo scavo dell’ipogeo di Yarhai, figlio di Barikhi e nipote di Taimarso. Esso sorge nella Valle

delle Tombe, attraverso la quale la pista di Emesa raggiungeva Palmira, su di una collinetta presso la riva destra dello Ouadi es-Saraysîr, a circa 110 m dalla tomba che reca il numero 19 sulla pianta della necropoli redatta dalla missione tedesca (fig.34). La tomba fu scoperta poiché una parte dell’architrave emergeva dalle sabbie: lo scavo fu finanziato dal Museo Nazionale Siriano, e grazie all’interessamento del conservatore, l’emiro Abd el – Kader fu possibile liberarla dalla sabbia in tre mesi, dal novembre 1934 al febbraio 1935. L’ipogeo era stato violato: i ladri avevano sottratto i corredi funerari e alcuni elementi architettonici; tuttavia erano state risparmiate le statue, spostate o spezzate per accedere alle tombe, che non sono state distrutte intenzionalmente. Un parziale crollo delle volte, verificatosi probabilmente poco dopo il saccheggio, ha protetto la tomba dagli iconoclasti e dagli antiquari. Le epigrafi rinvenute sono tutte in palmireno, salvo un’iscrizione bilingue in greco e palmireno. La maggior parte della decorazione architettonica si trovava ancora nell’ipogeo, sia nella posizione originale sia, più frequentemente, spezzata o crollata a terra. Pur mutili, questi blocchi hanno permesso di ricostruire con certezza la decorazione dell’ipogeo in quasi tutti i dettagli. Nei disegni che accompagnano l’articolo, il colore grigio indica i blocchi ritrovati in situ, e quelli la cui posizione è stata individuata con certezza; quando un elemento non è stato ritrovato in situ né fra i crolli, e sia stato giudicato indispensabile dagli Autori proporre

una ricostruzione, l’ipotesi è menzionata espressamente nella descrizione: si tratta comunque di un piccolissimo numero di elementi. Questa pubblicazione dell’ipogeo è pressoché unicamente descrittiva, sia che si tratti di monumenti, sia che si descrivano elementi del rituale funerario. Gli Autori hanno rinunciato ai confronti, a meno che non fossero immediati, perché avrebbero richiesto la pubblicazione di altri monumenti ancora inediti o insufficientemente pubblicati. Il progetto di Amy e Seyrig era di pubblicare entro breve tempo altre tombe, all’interno di uno studio più generale dell’architettura e degli usi funerari palmireni. L’esedra ovest e la parete principale di quella sud furono trasportati e ricostruiti nel Museo Nazionale Siriano di Damasco, a cura di Ecochard, dove si trovano tuttora. Le iscrizioni dell’ipogeo di Yarhai, tutte in palmireno, ad eccezione di una bilingue (greco - palmireno), sono state pubblicate da Cantineau su Syria, poco dopo la redazione dell’articolo.

Fig. 34. Prospetto assonometrico dell’ipogeo di Yarhai.

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1.- Accès de l’hypogée.

L’ipogeo è orientato verso nord e preceduto da un vestibolo, cui si accede tramite sette gradini. Le pareti di questa scala sono rivestite di un paramento in calcare tenero, ben tagliato, che si eleva a 42 cm sopra il gradino più alto: passato questo livello, la parete è semplicemente stuccata. L’ingresso al vestibolo, al termine della scala, è monumentalizzato da due pilastri con capitello bisellato; il pavimento è in terra battuta e le pareti sono rivestite con alte assise di calcare tenero, che poggiano su di un plinto grazie a un’assisa intermedia augnata. Una cornice con lo stesso profilo dei capitelli dei pilastri doveva coronare le pareti, benché i suoi elementi non siano stati ritrovati, ed è possibile ipotizzare che essa fosse sormontata da un piccolo muro di sostegno, per evitare la caduta di terra. Il vestibolo, inoltre, non era coperto, come in molte altre tombe palmirene sotterranee. Nella parete occidentale del vestibolo una porta in calcare duro, con piedritti verticali, da accesso a un piccolo ambiente con pareti in terra battuta, che era probabilmente adibito a riporre alcuni accessori funerari; non si conoscono altri esempi simili a Palmira. Un solo battente in pietra, che imita una porta lignea a due battenti, è analogo a quello della tomba stessa. Un orifizio circolare, scavato nella parete destra, permetteva di manovrare un chiavistello posto all’interno; sopra lo stipite vi era un’apertura rettangolare, per aerare la camera. Sulla parete sud vi era la porta della tomba, in calcare duro, con piedritti leggermente inclinati e il cui coronamento è sostenuto da due mensole con volute, ornate di acanti; l’architrave è raddoppiata da una un’altra architrave e sopra il cornicione della porta si apriva una finestra di aereazione, il cui vano è ancora visibile dall’interno della tomba. Essa doveva attraversare tutta la muratura che poggiava sulle architravi e la cornice, per dare luce alla scala. Sopra la finestra, nel muro di sostegno, era inserita una placca recante la dedica dell’ipogeo. I battenti, monolitici, si aprono verso l’interno, e non sono decorati nella parte interna, ma scolpiti esternamente a imitazione di una porta di legno romana, con i pannelli quasi completamente occupati dalle modanature delle traverse. Ciascun battente è diviso in cinque campi disuguali, le cui proporzioni corrispondono a una regola che sembra abbastanza costante a Palmira: prima si divideva il battente in due parti uguali con una barra orizzontale, poi si divideva la metà superiore in tre parti di cui una, di forma pressappoco quadrata, era posta fra le altre due, rettangolari, in modo tale che queste ultime fossero di uguali dimensioni. La metà inferiore al contrario era divisa in due parti, di cui la più bassa era uguale ai campi rettangolari della metà superiore. Il pannello quadrato è decorato nel mezzo, a imitazione di una maniglia di bronzo, con una maschera leonina con le orecchie dritte, che stringe un anello fra i denti. Il battente sinistro, inoltre, ha un falso coprigiunto; ciascun battente è dotato, in alto, di un cardine cilindrico inserito in una ralla fissata all’architrave. In basso, in un dado di bronzo con una piccola cavità conica, girava un grosso punzone a guida fissato al suolo. Per chiudere la porta, si abbassava il battente sinistro e si attirava verso di sé, dall’esterno, quello di destra, munito di un anello fissato all’altezza della mano. In seguito, passando il braccio nel foro circolare posto a sinistra della porta, si spingeva un chiavistello fissato al battente sinistro, in modo da farlo passare in un anello di ferro sul battente destro. Le tracce di questo meccanismo, che è stato strappato, sono ancora visibili sulla parte interna dei battenti. E’ possibile che il chiavistello fosse munito di un dispositivo di sicurezza: le ipotesi a riguardo saranno trattate in altro articolo sulle serrature di Palmira. Da questa porta si accedeva all’ipogeo tramite dieci gradini, irregolarmente sagomati, che dovevano appoggiarsi contro la parete del passaggio. I tre gradini più bassi sono più lunghi degli altri, senza dubbio perché la loro lunghezza corrisponde a quella dell’ipogeo medesimo.

2.- Galerie principale. L’ipogeo è costituito da una galleria con volta a botte, posta in asse con la porta, e da due esedre laterali. La galleria, lunga 14,05 m, è suddivisa in tre parti da due archi poggianti su pilastri: la prima sezione forma un vestibolo, su cui si affacciano anteriormente le esedre laterali, mentre la seconda era una camera funeraria che poteva ospitare sei file di sepolture su ogni parete, (benché su quella est ve ne siano solo quattro). La terza parte costituiva una lussuosa esedra, con quattro file di sepolture sulle pareti laterali, e alcune tombe supplementari poste nel decoro architettonico del fondo. Il pavimento delle due ultime sezioni era di qualche centimetro più alto di quello della prima. Le sepolture si disponevano in una serie di loculi sovrapposti, sette per ciascuna fila nella seconda sezione e sei nell’esedra; le loro pareti laterali sono disposte a cremagliera, in modo da apporvi, come su di uno scaffale, le larghe tegole che costituiscono le pareti orizzontali delle sepolture. Queste tegole sono a volte sostituite da lastre di pietra o placche composte di un impasto di stucco e cenere; in entrambi i casi erano

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sigillate con stucco. La chiusura del loculo era assicurata, in origine, da una placca sigillata, che non è mai stata ritrovata in situ: si sa che questa era la funzione di numerose lastre ornate con il busto del defunto, che

sono caratteristiche dell’arte funeraria palmirena. Questi ritratti erano evidentemente riservati alle sepolture dei ricchi, e la tomba che descriviamo ne ha offerti solo nelle sue due parti più lussuose, le esedre sud e ovest. Nelle parti più modeste dell’ipogeo, dove non si è ritrovato nulla, le sepolture erano forse chiuse da semplici tegole o placche di stucco. Particolare è la disposizione del loculo inferiore della fila 18: era ulteriormente suddiviso in tre spazi più piccoli, per sepolture infantili, come hanno dimostrato i resti di ossa lì rinvenuti. Non rimane nulla dei pilastri che suddividevano la galleria in tre parti: la loro posizione è indicata solamente da un distaccamento del plinto che sorregge in basso le pareti della tomba, ed è anche stata rilevata sulla parete est l’impronta del capitello che sosteneva il primo arco e che fornisce indicazioni sul punto iniziale della volta. Al contrario, tutti gli elementi di uno degli archi, quello che separava la prima dalla seconda sezione, sono stati ritrovati, ad eccezione della chiave di volta. Si tratta di undici bei conci in calcare tenero, con giunti a croce, salvo che nella chiave; la volta, fra gli archi, è scavata in un’argilla naturale. E’stato ricostruito dalle dimensioni dei conci dell’arco (spessore e intradosso) il corpo dei pilastri, e sono state attribuite ai due pilastri posti all’ingresso dell’esedra sud due mensole ritrovate ai loro piedi. Nelle prime due sezioni della galleria, il decoro molto semplice della galleria si compone di pilastri scolpiti nell’argilla sabbiosa delle pareti; questi ultimi separavano i vari filari di loculi nella seconda sezione, e proseguivano, più distanziati, sulle pareti piene della prima parte. Per quanto si può giudicare dal materiale friabile in cui erano scolpiti, i loro capitelli erano costituiti dal semplice svasarsi del pilastro apposto a una cornice liscia; il profilo delle basi non è più visibile e sono stati ritrovati alcuni blocchi di un rivestimento di calcare tenero, che formava uno zoccolo simile quello dell’esedra sud, e il cui plinto è rimasto in situ.

3.- Exèdre sud.

Il decoro dell’esedra sud è invece molto più ricco: il suolo era lastricato, le pareti sono rivestite da un decoro architettonico in calcare tenero. In ciascuna delle due pareti laterali si aprivano quattro file di loculi, simili a quelle appena descritte; inoltre, la fila più meridionale è raddoppiata posteriormente, come si vede nella planimetria. La decorazione architettonica di queste due pareti si presta a una restituzione quasi certa: su di un plinto, che poggia sulla pavimentazione, si eleva uno zoccolo modanato (pluteus), i cui elementi sono stati ritrovati in situ, prevalentemente nell’angolo sud-ovest dell’esedra, dove una finestra si apriva nella

zoccolatura per consentire l’accesso a una sepoltura. Non sappiamo se queste finestre erano chiuse da lastre lisce o ornate di busti, mentre lo zoccolo sorreggeva tre semicolonne e due quarti di colonne corinzie, con fusto liscio; i capitelli hanno abachi decorati da ovoli e costituiscono un esempio di ciò che è il capitello corinzio a Palmira nella prima metà del II sec. e il loro stile fiorito si ritrova nei girali di acanto del fregio. Altri acanti, alternati questa volta con foglie d’acqua, ornano la cornice; di quest’ordine, non rimanevano in situ che le basi dei due quarti di colonna all’estremità sud delle pareti. Il resto giaceva in gran parte sul

pavimento, e la sua ricostruzione non presenta però alcun problema; solo l’altezza delle colonne è dubbia, non potendo ricostruire il fusto: gli Autori hanno ipotizzato, basandosi sull’altezza delle file di loculi (2,35 m), circa 3,67 m d’altezza per l’intero ordine, e tale congettura è stata poi confermata dagli elementi della facciata posteriore dell’esedra. Dei sei loculi presenti in ciascuna fila, due erano mascherati da uno zoccolo, dove l’accesso al più alto dei due era consentito dalla finestra prima ricordata, mentre le altre quattro si aprivano nell’intercolunnio, disposto in modo da formare quattro quadrati augnati, dove potevano essere posti altrettanti busti; molti di questi ultimi sono stati ritrovati al suolo, e le loro dimensioni ben si adattano ai quadrati delle file di loculi. Si può notare che nella maggior parte dei busti funerari palmireni la testa del defunto supera di parecchi centimetri il bordo della lastra cui sono fissati, e così per i gomiti, lateralmente; questo dettaglio contribuisce a conferire rilievo alle pareti delle tombe, dove i defunti sembravano affacciarsi a finestre. Il decoro architettonico della parete meridionale dell’esedra si ricostruisce abbastanza facilmente: reca uno zoccolo che sorregge un ordine corinzio, come nelle pareti laterali, con ciascuno dei due angoli occupato da un quarto di colonna contiguo al quarto di colonna della parete laterale. Tutta la facciata non presenta che due intercolumni, dove si aprono due grandi nicchie. Ciascuna di esse è formata da un piccolo ordine corinzio di due pilastri e di due semicolonne, disposti a emiciclo e coperti da una cupoletta a conchiglia, con la cerniera verso il basso. Tutti gli elementi di quest’ordine sono stati ritrovati, salvo i capitelli, forse asportati per essere riutilizzati altrove; nell’intercolunnio di quest’ordine si aprivano ancora tre piccole nicchie, destinate ad accogliere statuette, perché la modanatura è scolpita solo a destra e sinistra, come se la

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parte centrale dovesse essere nascosta dalle statue. Sotto la semi-colonna e i quarti di colonna della facciata dell’esedra, lo zoccolo presenta una sporgenza il cui corpo è ornato da rilievi: questi ultimi sono scomparsi e non ne rimane che la cornice. Sotto le due grandi nicchie, al contrario, lo zoccolo era ancora decorato da due altorilievi in calcare duro, raffiguranti dei defunti a banchetto. Questi rilievi, il cui bordo superiore è leggermente più alto del pavimento della nicchia, chiudevano quattro tombe sotto la nicchia est e altre due sotto quella occidentale; queste sepolture sono disposte su due file, in entrambi i casi, e accuratamente rivestite con lastre di calcare tenero. Lo scavo ha rivelato, dietro la facciata posteriore dell’esedra e a livello delle piccole nicchie, tracce di quattro tombe, disposte nello stesso piano orizzontale. La sezione della ricostruzione mostra che si possono agevolmente immaginare due altre tombe sopra ciascuna di esse, come pare indicare un’iscrizione; sembra che l’ingresso alle tombe avvenisse sopra la cornice dell’esedra . La volta era scavata nella terra ed essendo crollata, se ne ignora l’aspetto: la presenza di dodici tombe ha spinto gli scavatori a supporre che esse potessero essere ospitate sotto una volta secondaria, che prolungava la prima, e di diametro adeguato. Della facciata appena descritta, sono stati ritrovati in situ tutto lo zoccolo, buona parte delle basi che

sorreggeva, e la quasi totalità della parte inferiore delle grandi nicchie, oltre alle conchiglie delle due nicchie secondarie. Con l’eccezione dei capitelli del piccolo ordine, spariti come già ricordato, sono stati raccolti frammenti di tutti gli altri elementi delle nicchie. Quanto al grande ordine, tutta la parte superiore è scomparsa, ma è possibile ricostruirla confrontandola con le pareti laterali; l’unico dubbio riguarda l’altezza delle colonne e inoltre se si debbano ricostruire i capitelli, nel piccolo e nel grande ordine, all’altezza della sommità degli archivolti delle nicchie. Si può pensare che fossero posti a una maggior altezza, su fusti più alti, ma gli Autori hanno costatato che, facendoli coincidere con la sommità degli archivolti, vale a dire ponendoli nel punto più basso possibile, l’architrave del grande ordine coincide esattamente con la più alta delle file di loculi; la ragionevolezza di tale contatto sembra dunque giustificare la ricostruzione proposta.

1. – Reliefs funéraires placés dans l’exèdre sud. Il rilievo posto sotto la nicchia est raffigura due defunti imberbi, sdraiati su di un materasso ornato di un largo motivo floreale, con il gomito sinistro poggiato su grossi cuscini ornati da un gallone ricamato. Sono a testa nuda, e la capigliatura di uno di essi è formata da riccioli spiraliformi, mentre le ciocche dell’altro sono disposte parallelamente, allineate sulla fronte; entrambi reggono una coppa nella mano sinistra. L’abito è quello partico del tipo più antico, e si compone di pantaloni, larghi gambali cascanti, casacca con maniche e un grande mantello, fissato alla spalla destra da una fibula rotonda con decoro esagonale intorno ad un cabochon. Tutti questi capi di vestiario sono decorati da galloni decorati, posti sia sui bordi (orlo inferiore e polsini della tunica, bordo superiore dei gambali), sia in maniera da formare una larga banda verticale (sul davanti dei pantaloni). La tunica è stretta in vita da una sottile cintura a doppio giro, che termina con una frangia e una fila di tre perle. Ai piedi calzano scarpe basse dalla suola morbida, legate sul collo del piede e che lasciano libera la caviglia, mentre tutti i capi di vestiario sono adorni di galloni ricamati. Una spada è appesa alla tunica, sulla coscia destra: la sua impugnatura è cilindrica, con scanalature elicoidali, e termina con un anello, mentre il fodero, che ha la forma lobata abituale delle armi partiche, si distingue per il contorno attenuato dei lobi, ridotti a una sporgenza angolosa. Ai piedi della kline, su di un seggio dai piedi

tortili, c’è una figura femminile seduta, con fuso e conocchia in mano, vestita, come quasi tutte le Palmirene, di una lunga tunica e di un mantello che le copre i capelli. La donna indossa un ornamento da fronte ricamato, sormontato da un turbante a tortiglione, mentre due ciocche di capelli fuoriescono dal copricapo ai lati del collo; sulla spalla sinistra il mantello è trattenuto da una fibula trapezoidale, ornata da una foglia d’acanto e da una rosetta. Sotto la nicchia occidentale vi è il rilievo di un solo defunto sdraiato a banchetto, vestito come i personaggi prima descritti, benché qui l’impugnatura della spada sia ornata da scanalature sinuose; anche la donna seduta ai piedi della kline è identica alla precedente, salvo un paio di orecchini a grappolo d’uva e la

presenza di uno sgabello sotto i suoi piedi. In secondo piano, a minor rilievo, sono scolpiti anche tre bambini, un maschio e due femmine. Le bambine portano un abito simile a quello della madre, ma il loro turbante è di un tipo più complicato, anche se piuttosto comune: si poneva la parte centrale della stoffa arrotolata sulla fronte, incrociandone poi le estremità sulla nuca, per riposizionarle in seguito sulla fronte, formando così due anelli intrecciati, e fermando le cocche sulla nuca. Inoltre, queste bambine indossano una collana di perle e orecchini formati da una barretta orizzontale, alla quale sono sospese due perle o pendenti sferici; i polsini sono decorati da un largo gallone ricamato. Il bambino reca in mano il grappolo d’uva,

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tradizionale simbolo dell’infanzia, ed è vestito di una tunica ornata da due galloni uniti, che cadono dalle spalle e terminano alla cintura. La tunica è di tipo greco, senza maniche lunghe, e le braccia sono coperte solamente sino al gomito dalla stoffa squadrata della tunica, stretta alla vita da un cordone; egli ha un braccialetto a ciascun polso. I galloni ricamati che ornano queste vesti sono decorati da quattro motivi differenti: a rosette, con ramo di quercia, cespo d’acanto con rosette o con quadrati contenenti un fiore a quattro petali, separati da file di tre perle. Talvolta, questi motivi sono inquadrati da bordi decorati o da una semplice fila di perle o da una serie di quadrati, intervallati da due o tre perle, e nei quali è inserita una perla più grande; solo quest’ultimo motivo orna il bordo superiore dei gambali. L’ornamento frontale delle donne è diviso in settori, ornati da acanti separati da file di perle. Oltre a queste sculture ritrovate in situ, sono state inoltre ritrovate diverse sculture, sparse per l’esedra sud:

si tratta per lo più di busti funerari, che dovevano sigillare i loculi (fig.35). 1. Busto femminile (39 x 48 cm) con ornamento frontale ricamato, turbante a tortiglione, orecchini con

pendenti sferici, ciocche ai lati del collo, occhi marcati da due cerchi concentrici, fibula trapezoidale decorata con acanto e testa di leone, cui sono appese due chiavi. Fuso e conocchia nella mano sinistra, al cui dito mignolo vi è un anello con castone, mentre la mano destra scosta il velo.

2. Busto femminile (41 cm di larghezza), simile al primo salvo gli orecchini a grappolo d’uva. 3. Busto femminile (39 x 49 cm) con frontale ricamato, turbante a tortiglione, da cui fuoriescono due

ciocche, orecchini a grappolo d’uva, occhi marcati da due cerchi concentrici. La mano sinistra sorregge un lembo del mantello e con la destra scosta il velo.

4. Busto femminile (40 x 48 cm), con il mantello posto direttamente sui capelli, separati da una riga, da cui due piccole ciocche scendono sulla fronte, mentre altre due sono ai lati del collo. Collana di perle con pendenti a forma di foglie d’alloro, braccia completamente nascoste dal mantello, che lascia vedere solo un piccolo lembo della tunica, occhi indicati da due cerchi concentrici.

5. Testa femminile separata da busto, trovata fuori dall’esedra sud, anche se al suo ingresso. Presenta ornamento frontale, turbante a tortiglione ornato da elementi lenticolari, separati da piccole barrette con elementi circolari terminali, ciocche di capelli che fuoriescono ai lati del collo, orecchini con un solo pendente sferico, due collane di perle, occhi marcati da un solo cerchio.

6. Busto di giovane imberbe, disteso a banchetto, con una coppa nella mano, appoggiato con il gomito su di un cuscino ricamato con rosette fra due ranghi di perle. Questo busto non era legato a una lastra di chiusura, ma doveva essere applicato a una parete. Tunica greca e mantello, occhi marcati da due cerchi concentrici.

7. Busto virile imberbe (39 x 49 cm), con tunica greca e mantello, occhi come il precedente; nella mano destra, due oggetti frequenti a Palmira e di cui sono state fornite diverse spiegazioni.

8. Busto identico al precedente, probabilmente opera dello stesso scultore. 9. Busto identico al precedente (39 x 49 cm), ma con i capelli disposti in ciocche parallele. 10. Busto identico al precedente (41 x 47 cm). 11. Busto virile imberbe (31 x 38), che si distacca su di un medaglione, con tunica greca e mantello; la

tunica presenta due galloni verticali, uniti, che discendono dalle spalle, mentre il mantello copre interamente le mani. Gli occhi sono uguali a quelli dei busti precedenti.

12. Placca di calcare tenero (60 x 23 cm), con un cartiglio modanato all’interno, su cui è inciso il testo di fondazione della tomba, nell’aprile del 108 d.C. (mese di Nisan del 419 dell’era seleucide), da parte di Yarhai, figlio di Barikhi, nipote di Taimarso. Il cartiglio è decorato a ciascun’estremità con un busto

maschile imberbe, vestito di tunica greca e mantello, con i capelli disposti a ciocche parallele; gli occhi sono marcati da un piccolo cerchio, e ciò è probabilmente dovuto alle piccole dimensioni delle sculture. Questa placca non chiudeva un loculo, ma era fissata alla parete.

13. Piccola mensola scolpita (19,5 x 20,5 cm), con tenone d’incastro, di cui non è nota l’esatta ubicazione all’interno della tomba, raffigura una testa infantile coronata di fiori e grappoli d’uva; è dotata di una piccola mortasa quadrata, dove doveva essere collocata qualche statuetta.

I rilievi possono essere datati sulla base della classificazione elaborata da Ingholt: in generale, nel periodo compreso fra 100 e 150 d.C., gli occhi sono marcati da un doppio cerchio concentrico, le sopracciglia non sono scolpite, gli uomini imberbi (caratteristica che in seguito indicherà solo i sacerdoti), le donne presentano un ricciolo ricadente su ciascuna spalla e sorreggono fuso e conocchia, le loro fibule sono trapezoidali e gli orecchini a grappolo d’uva, le pieghe del mantello sul braccio sono dritte o formano una V.

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Fra il 150 e il 200, al contrario, gli occhi presentano un solo cerchio, le sopracciglia sono scolpite, gli uomini portano la barba, le donne non hanno più ciocche di capelli che fuoriescono, mentre fuso e conocchia sono spesso rimpiazzati da un lembo del mantello; le fibule trapezoidali sono sostituite da quelle esagonali, gli orecchini hanno la forma di crotalia, le pieghe dei mantelli assumono una forma a U capovolta. Le caratteristiche del primo gruppo ricorrono nella maggioranza dei ritratti, ad eccezione del busto femminile n° 5, che appartiene al secondo. A ciò bisogna aggiungere che i defunti distesi portano un abito partico di tipo antico, che scompare verso la metà del secolo. Nel suo insieme, le sculture che noi possediamo dell’esedra sud risalgono ai decenni successivi alla fondazione dell’ipogeo, avvenuta nel 108 d. C.

Fig. 35. Dettagli dei costumi dei rilievi dell’esedra sud.

2. – Exèdre Ouest. Per quanto concerne le esedre laterali, quella orientale è stata solo sbozzata, mentre quella occidentale è stata riccamente decorata e sono stati ritrovati quasi tutti gli elementi del suo decoro. Si tratta di una sala rettangolare con volte a botte, pareti rivestite di calcare tenero e che si affaccia sulla galleria principale dell’ipogeo tramite un’apertura a tutto sesto, senza pavimentazione. Il decoro di ogni parete laterale era sistemato per consentire l’accesso a una fila di loculi, mentre la parete posteriore presenta, fra due file analoghe, una grande nicchia quadrangolare, ornata da una scena di triclinium. Come il decoro dell’esedra

sud, quello dell’esedra ovest è sostenuto da una zoccolatura, che a sua volta poggia su di un plinto; alcuni elementi della zoccolatura sono stati ritrovati in situ su tre lati dell’esedra e nessuna finestra dava accesso alle tombe. All’entrata dell’esedra, una leggera sporgenza della zoccolatura sorreggeva i pilastri su cui poggiava l’arco grazie al quale la sala si apriva sulla galleria principale. I pilastri sono scomparsi, ad eccezione della base di quello settentrionale, cosicché ignoriamo la tipologia e le proporzioni dei loro capitelli: sono stati ricostruiti ispirandosi ai pilastri delle pareti dell’esedra, ma in compenso sono stati ritrovati gli undici conci dell’arco, tagliati in due sezioni su ciascuna faccia e uniti, ad eccezione della chiave di volta, da giunti a croce. La chiave reca su di un lato la parte anteriore di un toro accosciato, dall’altra una rosetta a otto petali. Sull’intradosso vi è un lungo cartiglio, con foglie d’alloro, strettamente embricate, scolpite a champlevé,

interrotte sotto la chiave di volta da una seconda rosetta a otto petali; quest’arco poggiava direttamente sui capitelli dei due pilastri. Il rapporto dell’arco, e di conseguenza di tutta l’esedra, con la galleria principale e la sua scala è piuttosto singolare: osservando la planimetria e la fotografia dell’ambiente, l’accesso dell’esedra è stranamente occupato dagli ultimi gradini della scalinata d’accesso. Probabilmente non si tratta di un elemento previsto nel progetto originario, poiché i sette gradini superiori della scalinata sono di lunghezza pressappoco uguale, e si appoggiano alle pareti dell’ingresso. Tuttavia, la galleria non raggiunge la sua vera larghezza fino alla parte bassa cui è naturale che i tre gradini inferiori si siano adattati. Se si fossero subito previste le esedre laterali, non si sarebbe permesso alla scala di impedirne a metà l’accesso, ma

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si sarebbe inserita una semplice galleria dritta per raggiungere l’esedra sud. Quando si decise di costruire le esedre laterali (probabilmente verso la fine del II sec.), la loro posizione fu determinata dalla fascia di rispetto delle due file di loculi, già esistenti e indicate nella planimetria degli scavatori con i numeri 14 e 18. Non c’era allora altra possibilità, se non aprire altre esedre, all’altezza degli ultimi gradini della scala: da qui la strana posizione del pilastro nord dell’arco. Si può osservare dietro di esso un piccolo pianerottolo e alcune lastre rimaste nella parete: potrebbero essere le tracce di una piccola loggia scolpita ai lati della scala, e che lo scavo dell’esedra ovest avrebbe fatto eliminare. Sulla parete dell’esedra, l’ordine che poggia sullo zoccolo è composto da pilastri lisci con capitello con collarino ornato da tre rosette, un architrave a due cornici, un fregio ornato da una fila di rosette e una cornice. Questa cornice finisce per scontrarsi a est contro l’arco della porta d’ingresso dell’esedra e nei tre intercolumni di ciascuna parete laterale si aprivano sei tombe sovrapposte, dove le due più basse sono mascherate dalla zoccolatura, e le quattro superiori erano senza dubbio sigillate da placche scolpite. L’intercolunnio dell’angolo nord-est non è stato mai realizzato, e gli altri due sullo stesso lato non lo sono che nella parte bassa. I riquadri su cui si aprono le quattro tombe superiori di ciascuna fila hanno altezze leggermente variabili; il solo busto trovato nell’esedra ovest corrisponde alla più piccola di queste dimensioni, mentre quelli che si trovavano negli spazi più grandi, in cui il riquadro modanato non raggiungeva l’immagine che a destra e a sinistra, era di altezza notevolmente superiore e la loro testa non superava la lastra su cui erano scolpiti. Questa decorazione architettonica si trovava in situ, ancora intatta, sulle pareti laterali dell’esedra, e solo i

busti e le traverse orizzontali dei loro riquadri mancavano. L’ordine delle pareti laterali si ritrova anche su quella posteriore, dove è stato ritrovato in situ un solo plinto,

la modanatura della base della zoccolatura con un frammento di quest’ultima e il blocco del fregio su cui, nell’angolo sud-ovest, si effettuava il raccordo Molti frammenti sono stati sottratti, ma quelli ritrovati sul pavimento dell’esedra sono sufficienti per la ricostruzione. Nel mezzo della parete si apriva, tramite un arco, una nicchia; l’arco è formato dalla trabeazione dell’ordine e, benché i due pilastri che lo sostenevano siano scomparsi (ad eccezione di un frammento di capitello), così come l’archivolto e il fregio, sono stati ritrovati tutti i conci della cornice, che permette di calcolare esattamente la larghezza dell’apertura. A destra e a sinistra della nicchia, su ciascuna parete si trovano cinque sepolture sovrapposte: benché non ne rimanga più nulla, gli Autori hanno proposto una ricostruzione simile a quella degli intercolumni delle pareti laterali. La parete verticale fra la nicchia dell’arco e la volta dell’esedra era dotata di lastre a forma di conci, di cui sono state ritrovate tre, mentre la volta era scavata nella terra e doveva avere un semplice rivestimento di stucco. Prima di ricostruire questa facciata, gli Autori hanno dovuto affrontare il problema dell’altezza cui si trovava il pavimento della nicchia: si sarebbe potuto collocarlo alla stessa altezza dello zoccolo, ma ciò non è possibile, essendo state individuate tre file di tombe dietro la parete, e inoltre il pavimento del triclinium

poteva appoggiarsi solo alle file più elevate. Queste si trovavano molto sopra lo zoccolo, a un’altezza che si è potuta determinare grazie alla presenza di un tramezzo ancora conservatosi che divideva le due file di loculi più meridionali dell’esedra. Nello spazio che separava il pavimento della nicchia dalla zoccolatura vi erano tre tombe, che gli scavatori hanno ricostruito con la consueta presenza di busti. L’interno della nicchia e la sua volta a tutto sesto erano interamente rivestiti con lastre di calcare tenero, unite con giunti a croce, in parte scomparse, ma di cui è visibile l’impronta. Nella parete posteriore vi erano due tombe sovrapposte, molto probabilmente sepolture infantili.

6.- Reliefs de l’exèdre ouest.

La nicchia appena descritta costituiva l’elemento principale dell’esedra, verso cui si volgevano gli sguardi dei visitatori; le sculture che la ornavano sono state tutte rinvenute in situ, sparse sul pavimento: si tratta di un triclinium con tutti i suoi occupanti. Il rilievo centrale della scena di banchetto è posto sul fondo della

parete, mentre quelli laterali fungevano da pareti ai loculi delle file superiori. I letti del triclinium hanno piedi tortili e baccellati, sono del tipo noto a Palmira, a sua volta una variazione del modello ellenistico; la sponda della kline è cesellata alle estremità in forma di un lungo cartiglio, ornato da un motivo a onde, fra due cartigli contenenti una rosetta. Il montante della sponda ha forma di colonnina liscia, che termina su ciascun lato con astragalo a tortiglione e un capitello corinzio. La testiera è ornata da foglie embricate di alloro e termina nella parte superiore, nei due casi dove tale dettaglio era visibile,con testa di mulo dalle orecchie basse, in quella inferiore vi è un medaglione con una rosetta nel letto di sinistra,

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un busto con i seni nudi su quello centrale e sul letto di sinistra un sacerdote con il tipico copricapo cilindrico. La testiera si trova sempre all’estremità destra del letto, in modo da sostenere il gomito sinistro dei convitati; senza dubbio vi è una ricerca di simmetria nella scelta di porla in senso inverso nella kline di

sinistra. Sopra ciascun letto sono posti due materassi: quello inferiore è rivestito di una stoffa soffice e pieghettata, ornata da tre larghi galloni ricamati, mentre quello superiore è interamente ricoperto di ricami, che formano un reticolo su cui spiccano dei grandi fiori. Voluminosi cuscini, anch’essi ornati di galloni, sostengono i gomiti dei banchettanti. Tra i piedi del letto sono scolpiti busti di sacerdoti alternati ad altri femminili, quattro sul letto centrale e tre su quelli laterali. I sacerdoti portano il copricapo cilindrico a due pieghe, sono vestiti con tunica alla greca, dalle maniche corte e fluttuanti, un mantello fissato sulla spalla destra con una fibula rotonda, ornata a volte da un motivo esagonale cesellato intorno ad un cabochon. Le donne portano il consueto abbigliamento: quella

scolpita sul letto di sinistra ha un semplice turbante a tortiglione, mentre le altre portano un ornamento frontale ricamato, nascosto ai lati dalle ciocche rialzate di capelli, mentre il turbante forma due nodi. I solo gioielli visibili sono degli orecchini con un unico pendente sferico e, sul busto del letto di destra, una collana di perle. Gli occhi di questi personaggi, così come di quelli scolpiti sdraiati a banchetto, sono indicati da un cerchio con un punto. Quattro sacerdoti sono raffigurati a banchetto: due sul letto centrale e uno su ciascun triclinium laterale; all’estremità di ciascun letto una donna è seduta su cuscini, mentre sopra la kline vi sono due giovani ritratti

a mezzobusto e con il copricapo sacerdotale. Uno solo dei sacerdoti, il terzo da sinistra, è vestito con tunica alla greca e mantello, mentre gli altri portano l’abito partico nelle sue forme più tarde (150 d.C. circa), caratterizzato da una larga banda ricamata nel mezzo della tunica e dall’assenza di gambali. Il primo e il quarto sacerdote sono in realtà avvolti nei loro mantelli sino alla vita, e non sono visibili le anassiridi, ma solo le calzature, basse, legate al collo del piede, e che lasciano libera la caviglia. Il secondo sacerdote, tuttavia, oltre ad avere un tipo di scarpe più alte, legate alla caviglia con un nastro che passa in una fibbia rotonda, porta una fibula rotonda e ornata di perle e la sua tunica è gallonata. La sua tunica, simile a quella del primo e del quarto sacerdote, è ornata di perle lungo la scollatura e di galloni sul davanti, sul bordo inferiore e sui polsini. Un mantello è fissato sulla spalla destra da una fibula rotonda decorata da perle. Tutti e quattro i sacerdoti sono rasati, senza barba, portano il copricapo sacerdotale con due pieghe, su cui poggia la corona sacerdotale ornata da un piccolo busto imberbe e drappeggiato; solo quello del quarto sacerdote porta anch’esso il copricapo cilindrico. Essi sorreggono una coppa per bere nella mano sinistra: semplice coppa quella del sacerdote vestito alla greca, ornata da un tralcio di vite per il secondo sacerdote o baccellata negli altri casi. Tutti poggiano la mano destra sul ginocchio destro, ma il quarto regge anche con essa un ramo, che spesso i Palmireni mettono fra le mani dei defunti come segno di purezza rituale; solo il secondo sacerdote porta un pugnale dal foro lobato sospeso sulla coscia. Le donne sono abbigliate con lunga tunica e mantello, pendente frontale non decorato, nascosto lateralmente dalle ciocche rialzate di capelli, turbante sia a tortiglione sia che forma due nodi, ma solo una porta orecchini a pendente sferico; due di esse si scostano il velo con la sinistra, mentre la terza, che un’iscrizione sul materasso indica come Nesa, figlia di Theophilus e moglie di Bonne, si accosta il velo sul petto. Le fibule sono rotonde, fissate sulla spalla sinistra, e quella della seconda donna pare ornata da gemme incastonate. I sei fanciulli portano tunica greca e mantello, oltre al copricapo sacerdotale, e solo uno di loro regge una coppa e pare prendere parte al banchetto. I galloni ricamati che ornano le vesti dei sacerdoti, i cuscini e i materassi del letto sono ornati da sette motivi differenti: con rosette, a ramo di quercia (come già nell’esedra sud) o alloro, a reticolo con fiori quadrangolari, ad acanto semplice o accompagnato da fiori. Sulla kline centrale, la più in vista, i galloni degli

abiti e le passamanerie della biancheria sono bordati da file di perle, comuni anche sullo scollo delle tuniche dei sacerdoti. Lo sgombero dell’esedra ovest ha inoltre restituito tre bassorilievi:

1. Altezza 42 cm. Lunghezza 56 cm. Due personaggi imberbi, con tunica greca e mantello, con il solo busto visibile, con una coppa in mano e un gomito appoggiato sui cuscini. Occhio marcato da un semplice cerchio, capelli disposti in ciocche parallele sulla fronte. A sinistra, un piccolo servitore che sorregge una brocca nella destra, una tazza e un attingitoio. Ha la stessa acconciatura dei banchettanti, ma è abbigliato con una lunga tunica, con cintura bassa e maniche attillate, di tipo orientale.

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2. Altezza 51 cm, lunghezza 82 cm. Rilievo scolpito su due pietre combacianti, raffigurante due busti femminili, con gli stessi abiti e ornamenti. Indossano tunica, mantello e sulla spalla sinistra fibula poligonale ornata da una gemma centrale circondata da perle, da cui pendono tre catenelle terminanti in una foglia d’edera. Ornamento frontale ricamato, con una catena che sembra formata da gemme unite fra loro da sbarrette perlinate. Gli orecchini hanno due o tre pendenti sferici, e le due donne portano al collo una collana di perle, con un pendente a crescente lunare rovesciato nel caso della donna di destra. Sulla tunica ricade una triplice fila di collane, formate da pietre unite da piccoli bastoncini, perle intervallate da pendenti a foglia d’alloro, una catena formata da un medaglione esagonale simile alle fibule, con gli stessi pendenti. Ciocche di capelli ricadono ai lati del viso e gli occhi sono sottolineati da un doppio cerchio; a ciascun polso le due donne portano un bracciale a tortiglione, con perle fra le scanalature. La donna a destra ha inoltre due anelli con castone al mignolo della mano sinistra; dietro il busto di destra vi è un dorsalium, sospeso tramite

due chiodi a forma di rosetta, che sostengono anche due palme. Queste particolarità permettono di identificare la donna di destra come la defunta, il cui nome, Aqma, è scritto vicino alla testa dell’altra

donna, che abbraccia la sua compagna e regge una coppa baccellata contenente forse i dolci o i pani comuni ancor oggi in Oriente.

3. Altezza 43 cm, larghezza 41 cm. Busto d’uomo, barbuto, vestito di tunica greca e mantello, che tiene in mano una specie di chiave, con capelli disposti in ciocche sinuose, tagliati a frangia sulla fronte. Le sopracciglia sono scolpite con piccole incisioni, occhi indicati da un cerchio con punto centrale, con indicazione del nome in palmireno, Vorod, a destra della testa.

Nell’area che doveva accogliere l’esedra est, solo sbozzata, è stata ritrovata una statuetta femminile in calcare duro, alta 47 cm, su di un seggio con piedi tortili, senza schienale e dotato di cuscino. La donna tiene la mano sinistra in grembo, la destra è alzata in atteggiamento di preghiera; porta tunica, mantello, turbante a tortiglione, ornamento frontale ricamato, orecchini ornati da pendenti sferici; due ciocche scendono ai lati del viso e gli occhi sono indicati da due cerchi concentrici. Il retro non lavorato e la presenza di tracce di stucco fanno pensare che essa fosse fissata alla parete, probabilmente all’interno di una scena di banchetto simile a quella del triclinium.

Le sculture dell’esedra ovest sono databili in base alla tecnica scultoria come quelle dell’esedra sud. Quelle del triclinium possono essere datate a un periodo posteriore alla metà del II sec. d.C., a causa della presenza

del costume partico di tipo tardo (mancanza di gambali, tunica a gonna con gallone ricamato sul davanti); questa datazione è confermata dagli occhi indicati da un cerchio con un punto, una sola donna ha le ciocche che ricadono ai lati del volto, gli orecchini hanno pendenti a crotalo, le pieghe degli abiti hanno la forma di una U rovesciata. Inoltre, le donne scostano il velo con la mano sinistra, e le fibule sono rotonde: queste due ultime caratteristiche sono tipiche delle sculture del III sec. d.C., per cui è probabile che il gruppo del triclinium risalga alla fine del II sec. Anche il busto di Vorod risale probabilmente alla stessa epoca, mentre le altre due sculture isolate hanno i caratteri, relativamente antichi, delle sculture dell’esedra sud, anche se trasportati in situ probabilmente diversi anni dopo la loro realizzazione.

Sono emersi anche alcuni frammenti di difficile collocazione, quali una parte di materasso, tre basi e tre capitelli corinzi (questi ultimi rinvenuti vicino all’esedra sud) e giacché la loro forma non si presta al decoro architettonico dell’esedra ovest, può darsi che vi siano state portate in seguito. Poiché l’esedra ovest è stata costruita in vista del triclinium, la datazione delle sue sculture può essere considerata come quella di

costruzione dell’esedra, salvo che una migliore conoscenza della decorazione architettonica non permetta un giudizio più preciso.

7. –Fragments architecturaux qui n’ont pu entrer dans la restitution.

Sette frammenti raccolti durante lo scavo dell’ipogeo di Yarhai non sono stati compresi nella ricostruzione. Il

primo è un frammento di materasso, che proviene da un letto funebre che non è quello dell’esedra ovest, con le stesse dimensioni. Potrebbe provenire da una qualsiasi altra parte dell’ipogeo, ma essendo rimasto un solo frammento, è possibile che provenga da un’altra tomba e sia stato portato in questo ipogeo dopo la sua violazione. Questa ipotesi è meno probabile per gli altri sei frammenti, tre basi e tre capitelli corinzi, scoperti nella galleria principale, non lontano dall’esedra sud. Le tre basi presentano gli stessi elementi delle colonne dell’esedra sud, e sono destinate a tre quarti di colonna, una a destra e una sinistra, con un raggio di circa 7 cm; ciascun quarto di base è pertinente a una porzione del riquadro augnato di un loculo. I tre capitelli, solo sbozzati, sono destinati a due quarti di colonna a destra e a una semicolonna il cui raggio corrisponde esattamente a quello delle basi. Si possono dunque attribuire a uno stesso ordine, che includeva almeno una

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semicolonna e quattro quarti di colonna, nei cui intercolunni s’inserivano le file di loculi. Le piccole dimensioni dei frammenti non consentono di inserirle nell’ordine dell’esedra sud, dove, d’altra parte, non mancano che due quarti di base, al posto delle tre qui menzionate e nessuna parte dell’ipogeo è adatta ad accoglierle. E’ quindi possibile che fossero destinate a una nuova parte della tomba, mai realizzata, e i capitelli solo sbozzati sembrano confermare questa ipotesi. Per il loro stile (caulicoli scanalati, ancora visibili, fogliette nella prima fila serrate, che non consentono di vedere la base di quelle della seconda fila), i capitelli sono simili a quelli del tempio di Baalshamin e risalgono alla metà del II sec. d.C.

8.- Remarques sur les éléments du décor architectural.

Le modanature delle basi sono di due tipi: le colonne hanno la base detta attica (plinto, toro, scozia e toro), ma sormontata da un piccolo toro supplementare, mentre i pilastri e la zoccolatura dei muri delle esedre hanno basi formate, come è usuale, da toro, kyma recta e anello. Questa modanatura è rimasta in sbalzo

augnato sulla zoccolatura dell’esedra, sud, dove le basi attiche dei pilastri poggiano piuttosto rozzamente contro la base attica delle semicolonne del grande ordine. I fusti sono lisci, pilastri e colonne dell’esedra sud terminano con un astragalo e hanno capitelli corinzi. Quelli del grande ordine, i soli conservati, appartengono allo stesso stadio di quelli della torre funeraria di Elahbel, che sono anteriori di quattro anni; i caulicoli sono più sottili e più chiusi e presentano sul proprio asse due spazi sovrapposti; gli occhielli che si formano al contatto delle fogliette fra di loro sono più evoluti. E’ probabilmente con i capitelli datati al 129 e al 131 che le analogie sono più evidenti; l’abaco dei capitelli del grande ordine è ornato da una fila di ovuli. I pilastri dell’esedra ovest terminano con una kyma recta ornata da tre rosette, sormontata da guttae e perle,

listello, cimasa baccellata e listello largo al posto dell’abaco. Le architravi hanno due cornici, semplici (esedra ovest) o separate da un astragalo (esedra sud) o seguite ciascuna da un astragalo (grandi nicchie della medesima esedra); le modanature di tutte le architravi sono composte da listello, ovolo, e listello e a volte la loro fattura è così rozza che l’ultimo listello si trasforma in un ovolo. La stessa modanatura si ritrova anche per le cornici delle porte: quella principale ha tre cornici separate da astragali, quella più piccola ha due cornici lisce; nella cornice della grande porta il primo astragalo è rimpiazzato da una modanatura a kyma reversa. Gli archivolti hanno due (arco d’accesso all’esedra ovest, piccole nicchie dell’esedra sud) o tre (arco della galleria principale,grandi nicchie dell’esedra sud) cornici, sormontate da cornice semplice: astragalo, cimasa e listello. Nelle nicchie dell’esedra sud l’astragalo di questa cornice e un altro che separa le due cornici sono cesellati con perle e guttae, mentre

la cornice inferiore dell’archivolto forma la parte incavata di una conchiglia. Nelle grandi nicchie la terza cornice è convessa, e delle piccole rose molto sporgenti sono allineate sul suo raccordo con la cornice. Nell’arco della galleria principale, e sul retro dell’arco di accesso all’esedra, la cornice è stata lasciata a sbalzo. La semplice cornice appena descritta corona anche lo zoccolo dei muri delle esedre, ma ha uno sbalzo augnato nell’esedra sud; essa si ritrova anche sopra il muro delle piccole nicchie dell’esedra sud, e ne sostiene le conchiglie e nei vestiboli sormonta la piccola porta. I fregi dell’esedra sud sono fortemente convessi, ornati di acanti molto mossi, mentre nell’esedra ovest le rosette, unite da un ramoscello senza vita, sono eseguite in maniera piatta e banale. Il profilo delle cornici, nelle due esedre e nelle due grandi nicchie, così come sopra la porta della tomba, si compone di un ovolo, dentelli, modiglioni alternati con rosette, da un altro ovolo, di cimasa e listello; gli ovoli sono disposti in ranghi. Nell’esedra ovest vi è la presenza contemporanea di ovoli di due tipologie differenti: alcuni globulari, interamente distaccati, gli altri invece più aderenti al fondo, con una forma vicina al quarto di sfera. Nell’esedra sud tutte le cimase (salvo quelle dello zoccolo, lasciate a sbalzo) sono decorate da acanti e foglie d’acqua alternate.

9.- Inhumation. L’intero ipogeo poteva ospitare almeno 219 inumati e il completamento dell’esedra est avrebbe consentito di aggiungere altre 50 tombe, anche se alcuni loculi non furono mai completati o utilizzati. Nonostante la tomba fosse stata violata, gli scavatori rinvennero due tombe intatte nell’esedra sud. Nella nicchia est vi era uno scheletro supino, con le mani poggiate sul petto e fra le gambe le ceneri di un cremato, è probabile che si tratti di una prima deposizione cui è stata semplicemente sovrapposto il corpo; non essendo comune la cremazione a Palmira, è possibile che si tratti di un militare romano. L’altra tomba conteneva due scheletri, ma le ossa sono degradate, e non è possibile trarne alcuna informazione. Nessun corredo accompagnava i tre scheletri. Nei loculi destinati alle sepolture infantili, vi era una conchiglia marina dell’esedra ovest e inviolate, contenevano, oltre ad alcune ossa degradate, tre ampolle in vetro, uno a pancia

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rotonda e le altre due a collo allungato. La tomba inferiore conteneva anche una testa di bambola in osso, con i particolari del volto sottolineati con il nero, oltre a una trentina di chiodi di ferro ritrovati nella fila n°7, che sembrano attestare l’uso poco comune di una bara lignea. La fila n°13 ha restituito sei piccole monete di Palmira di bronzo, molto consunte; del corredo delle tombe violate, sparso per l’ipogeo, restavano alcune perline di vetro, un bracciale di bronzo a tortiglione, e alcuni frammenti di un pyrée in calcare, a sezione

esagonale, ornato di nicchie con statuette. Sono state inoltre ritrovate numerose lucerne e alcuni frustuli ceramici, sparsi sia per le sale sia nelle tombe saccheggiate, ma non vi è ceramica nelle tombe inviolate.

9.- Culte des morts.

Nella seconda sezione della galleria principale sono stati rinvenuti due altari per le offerte funebri, realizzati impastando stucco e cenere, modellati a monticello, larghi da 40 a 50 cm, e con una depressione scavata sulla sommità; non erano altari mobili, uno infatti, era ancora fissato al suolo, mentre l’altro era stato violentemente strappato. La loro struttura interna è a strati sovrapposti, come se una nuova mano fosse stata periodicamente aggiunta sull’altare per rinnovarlo e aumentarne le dimensioni. Le ceneri sembrano cosparse di pagliuzze, e potrebbero provenire da erbe aromatiche combuste, ma lo scavo non ha restituito ceneri animali; la cupola sembra suggerire che si offrissero anche libagioni. Tre esempi simili, anche se inediti, sono noti a Palmira: il primo è stato ritrovato al secondo piano della torre funeraria di Elahbel, il secondo nell’ipogeo di Atenatan, figlio di Zabdateh e il terzo davanti all’esedra dipinta di Hairan, figlio di Iaddai, ancora

infisso al suolo. Tre piccole tazze d’argilla, scoperte nella tomba, sono servite per delle fumigazioni, a giudicare dalle ceneri al loro interno. E’ possibile che una parte delle lucerne (ne sono state ritrovate 259 all’interno dell’ipogeo), sia stata accesa come offerta, ma non ci sono indizi certi in proposito; quasi tutte recano tracce, molto leggere, di combustione, e il loro numero è troppo grande perché siano state impiegate per illuminare la tomba. All’infuori di questi reperti, non sono stati trovati altri oggetti che possano essere messi in relazione con il culto dei morti. Nel rilievo funerario di Aqma,la defunta è accompagnata da una viva, che la conforta

abbracciandola e le offre del cibo.

10.- Chronologie et topographie de l’hypogée de Yarhai. Il testo più antico ritrovato nell’ipogeo è quello che commemora la sua fondazione, ad opera di Yarhai, figlio di Barikhi e nipote di Taimarso nell’aprile del 108. Quest’epigrafe è stata ritrovata, insieme con l’epitaffio di Nesa, figlia non sposata del fondatore, nell’esedra sud, dove doveva essere fissata in un luogo che non è stato

determinato. La sua origine è confermata da tutte le sculture dell’esedra che, salvo una, più tarda, appartengono al gruppo datato da Ingholt alla prima metà del II sec. Un altro testo di fondazione, molto mutilo, è stato fissato sopra la porta dell’ipogeo; il vestibolo, la porta, la galleria principale e l’esedra sud devono essere stati realizzati contemporaneamente. L’esedra ovest sembra essere stata realizzata in un secondo momento, anche se è difficile stabilire esattamente quando, poiché non sono stati ritrovati testi epigrafici ed è difficile basarsi solo sulla decorazione architettonica, anche se il fregio e i capitelli sono realizzati in maniera arida e meccanica, differente dalle forme fantasiose che si riscontrano nell’esedra sud, ad esempio nel fregio. Le sculture del triclinium appartengono al gruppo datato da Ingholt alla seconda metà del II sec. d.C. e vi si riscontrano

caratteristiche tipiche delle opere realizzate nel III sec.; è vero, tuttavia, che in alcune sculture isolate si riscontrano caratteri più arcaici, come ad esempio nel busto di Aqma e della sua compagna, e nel rilievo con

due giovani, devono essere di molto posteriori alla metà del II sec. Tuttavia, nessuno dei due rilievi rientra nella cornice architettonica dell’esedra ed è possibile che vi siano giunti in seguito alla violazione della tomba, così come è stata portata via dalla sua posizione originaria la statuina ritrovata nell’esedra est. E’ possibile quindi pensare che l’esedra ovest non sia anteriore all’ultimo quarto del II sec. Sulla parete est è presente un testo, datato all’agosto del 240 d.C. (e quindi posteriore di più di 130 anni alla fondazione dell’ipogeo), redatto in palmireno (6 righe) e in greco (15 righe). La parte in greco è più esplicita e ricorda la cessione di una parte dell’ipogeo da parte di Julius Aurelius Hairan e Julius Aurelius Malochas, figli di Germanus a un’altra famiglia, quella di Julius Aurelius Theophilus, figlio di Taimarsô e nipote di Zehida. La

parte riguardante la parete orientale dell’ipogeo, la sua decorazione e l’abbozzo dell’esedra orientale è chiara, mentre quella riferita all’esedra meridionale è poco comprensibile e non sembra rispecchiare i dati emersi dallo scavo. Si menziona una statua di marmo di una Vittoria, collocata in una nicchia a conchiglia nel mezzo dell’esedra; se si intende con esedra il locale che termina l’ipogeo verso sud, non è stata ritrovata alcuna nicchia centrale. Si deve quindi trattare della parete meridionale di questa stanza, che è l’unica ad

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avere nicchie a conchiglia e a ospitare tombe come quelle che il testo menziona sopra la Vittoria. Sono state ritrovate quattro tombe sul piano orizzontale, ma avrebbero potuto esserci altre quattro file di loculi; il testo indica che l’acquirente della parete est possedeva tre tombe ed è ragionevole pensare che esse fossero contigue alla parete e che formassero la fila più orientale delle quattro di cui si parla. Questa fila di loculi si trova, nell’opinione degli Autori, lungo l’asse della nicchia est e lì si potrebbe porre l’immagine della Vittoria. Tuttavia, la nicchia non è nel mezzo della parete: vi sono tuttavia tre nicchie minori, di cui una è posta a metà della nicchia maggiore, sotto i tre loculi prima ricordati. Un dettaglio dell’architrave di queste nicchie minori sembra indicare che vi fossero poste delle statuette, il che escluderebbe la presenza di una statua nella grande nicchia e renderebbe questa ipotesi più plausibile. Inoltre il conflitto fra l’iscrizione e il monumento è forse meno forte di quanto sembri, poiché si potrebbe applicare il nome di esedra anche alla grande nicchia, che contiene quelle minori. La Vittoria sarebbe stata posta nella parte centrale della nicchia

di sinistra. E’ un’ipotesi che si scontra però con il termine che si potrebbe tradurre semplicemente con “di fronte”; gli Autori tuttavia ritengono che si debba dare a questo avverbio un valore restrittivo, e che indichi la nicchia che è “dall’altro lato” di quella parete che si considera a partire dalla porta dell’ipogeo. Una trentina d’anni dopo la cessione della parete est a Theophilus la distruzione di Palmira portò a un

abbandono dell’ipogeo, perché non vi sono sepolture posteriori a tale data. Nell’esedra ovest, la maggior parte delle tombe nella parete nord non fu mai scavata, nella galleria principale sono state ricavate solo quattro file di loculi invece delle sei previste e l’esedra est non fu affatto terminata.

11.- Lampes. L’ipogeo ha restituito ben 259 lucerne, con impasto bianco-giallastro, che raramente diventa rossastro con la cottura ed è molto simile a quello delle tessere, il che attesta una produzione locale; non vi sono tracce di rivestimento, anche se è possibile che vi fosse un ingobbio rossastro polverulento, come nelle lucerne trovate nella torre funeraria di Elahbel.

Due di esse recano i nomi di Aglibol e Malkbel: non è chiaro il senso di queste iscrizioni, abbastanza comuni a Palmira ma è possibile che tali lucerne fossero prodotte nel tempio; non sembra comunque trattarsi di una dedica e ciò porta ad escludere che sia il ricordo di un’offerta o di un’illuminazione rituale. Le lucerne sono modellate in due parti: le anse, i manici e i beccucci non sono mai applicati separatamente; disco e serbatoio sono spesso uniti in modo maldestro e le due parti dell’ansa non combaciano. Il serbatoio è piuttosto schiacciato e ciò implica, visto la piattezza del disco, una forma molto bassa; il decoro non è mai ritoccato. Si possono distinguere quattro tipologie di lucerne:

1. A beccuccio quadrato, che si ricollegano al tipo, eseguito al tornio, a corpo circolare e beccuccio applicato. In alcuni casi il beccuccio sembra indipendente dal corpo (4,5,24,25), in altri si integra nel disegno generale della lampada (6,19). In alcuni casi vi è un manico a palmetta (4,5,6), che però compare solo in tre esemplari eccezionali. Queste lucerne sono prodotte con una certa cura e sono caratterizzate da un modellato vigoroso che non comparirà più nelle categorie successive.

2. A beccuccio arrotondato. Il beccuccio è nettamente incorporato al corpo, che diventa piriforme; la modanatura fa il giro del beccuccio. Salvo un esemplare (20), le lucerne di questa categoria hanno una piccola ansa piena, a due tori, peculiare (7-18, 35-52) e possiedono un piccolo foro che permetteva di regolare la lunghezza dello stoppino tramite uno spillo. Sono decorate da motivi vegetali o geometrici (43): si tratta di esemplari particolarmente piatti.

3. A beccuccio lanceolato. Lucerne senza anse, eseguite in modo poco accurato e con canale che segue il becco (21-23).

4. Con decorazione figurata. Sono realizzate in modo trascurato, con bordo molto largo, beccuccio arrotondato, che tende a confondersi con il corpo, prive di ansa. Il disco, circondato di perle, di raggi o di petali, è ornato da un’immagine: maschera di Gorgone (26,31), capra (27), scena erotica (28), maschera al centro di un fiore (29), urna(30), cavaliere che sembra giocare a polo (34), busto di Pan con pedum, gallo che tiene nel becco un grappolo, rosetta (32-33).

Tre lucerne si distinguono dalle altre: una, che aggiunge ai caratteri del 2°gruppo un’ansa a palmetta di tipo particolare (3) è realizzata in terracotta arancione, molto diversa dalle altre ed è probabilmente d’importazione, mentre la seconda (1) è rettangolare, con sette beccucci: la decorazione è coperta da concrezioni, ma il bordo con perle e l’ansa a palmetta l’avvicinano al 1°gruppo. La terza (2) è probabilmente derivata dal tipo ellenistico a beccuccio prominente, le cui volute hanno subito uno strano adattamento: un esemplare molto simile è conservato al Museo di Bagdad.

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Non vi sono altri reperti che consentano una datazione precisa: l’ipogeo è stato utilizzato dal 108 e quindi le lucerne non devono essere anteriori a questa data, né posteriori al 273. Il primo gruppo, per l’accuratezza della fattura e il rapporto con i modelli antichi, sembra risalire agli inizi di questo periodo, mentre il terzo imita modelli diffusi in Occidente alla fine del I sec. e non deve essere posteriore ai primi anni dell’ipogeo. Il quarto gruppo ricorda alcuni prodotti comuni a Corinto sino al 200: è possibile che le lucerne palmirene siano state prodotte nel III sec. Delle lucerne ritrovate nell’ipogeo, 26 appartengono al 1° gruppo, 168 al 2°, 11 al 3° e 51 al 4°, più le tre di tipo isolato. Quasi tutte recano tracce di combustione, la cui mancanza, in alcuni casi, non esclude tuttavia che siano state accese.

12.- Reconstruction partielle de l’hypogée dans le musée de Damas. Ecochard ha ricostruito una parte dell’ipogeo nel Museo di Damasco. Il vestibolo è stato ricostruito quasi interamente con i suoi materiali originali, ma è stato aggiunto un soffitto, mentre in realtà era all’aria aperta. Il battente della porta del locale annesso è bloccato, quello della porta della tomba, montato su di un cuscinetto perfezionato, è nuovamente funzionante. La scala che conduceva all’ipogeo è stata ridotta di due gradini, cosicché ne rimangono otto: è stata ricostruita con pietre nuove e porta a una sala che corrisponde alla prima parte della galleria principale e su di essa si apre, ad angolo retto, come a Palmira, l’esedra ovest. Le pareti laterali sono nello stato in cui furono trovate, ad eccezione di alcuni blocchi che si sono dovuti sostituire; al contrario, la parete di fondo era ridotta ad alcuni elementi dello zoccolo e della cornice e sono state ricostruite in pietra le parti mancanti. Le due file di loculi poste ai lati dell’ingresso del triclinium sono

state ricostruite a somiglianza di quelle delle pareti laterali, ipotizzando che il busto superiore di ciascuna delle due file avesse una semplice funzione ornamentale: tale soluzione, più pratica rispetto a quella proposta dagli scavatori nei disegni ricostruttivi, è parsa ugualmente accettabile. Il triclinium è stato

ricostruito in modo da collocare una fila di tombe fra la sua base e la zoccolatura. I busti mancanti dell’esedra ovest sono stati sostituiti con calchi di esemplari coevi conservati presso il museo di Damasco, giacché è stato ritrovato in situ un solo busto. Non potendo ricostruire interamente la galleria principale dell’esedra sud, è stata ricostruita almeno la parete posteriore, la cui parte inferiore è molto ben conservata; questa facciata è stata quindi applicata contro il fondo della sala d’accesso all’esedra ovest e le parti basse sono state ricostruite con i blocchi originali. Nella zoccolatura, lo spazio occupato dai rilievi scomparsi è stato riempito con lastre lisce e nelle nicchie i blocchi mancanti sono stati sostituiti con copie di quelli presenti, ad eccezione dei capitelli, che non essendo stati ritrovati, sono stati sostituiti da capitelli di tipo convenzionale. La parte superiore dell’ordine sussisteva unicamente sulle facciate laterali dell’esedra: non potendo ipotizzare una ricostruzione, vista la scarsità dei frammenti, sono stati reimpiegati questi ultimi. Sono stati ricollocati i capitelli e si è ipotizzata una trabeazione. Nonostante i blocchi della cornice si connettano a volte in maniera imperfetta e il fregio, che oggi forma un motivo vegetale continuo, si fermasse probabilmente nell’originale a metà della facciata su di un motivo centrale, si è preferito comunque tentare una ricostruzione la più completa possibile del monumento. Durante la sistemazione delle grandi nicchie dell’esedra sud si è verificato che l’assemblaggio delle varie parti era differente da quanto ipotizzato in origine nei disegni ricostruttivi.

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23. CANTINEAU 1936 A J. CANTINEAU, Tadmorea, in Syria, tomo 17 fascicolo 3, 1936, pagg. 267-282. L’articolo traccia un bilancio delle scoperte avvenute fra il 1933 e l’inizio del 1935: il completamento dello sgombero del tempio di Bel e i primi scavi nelle aree limitrofe hanno messo in luce molte iscrizioni; in particolare, nella parte occidentale del cortile del santuario, leggermente a destra della linea immaginaria che congiunge la grande porta dei propilei a quella della cella, Amy scoprì la base di un edificio la cui funzione è incerta, e che è stato chiamato “edificio con nicchie”. Smontando il basamento, ci si è accorti che quest’ultimo era composto da materiali di reimpiego, fra cui molte iscrizioni dall’aspetto arcaico. Ecochard scavò le aree vicine al piccolo tempio di Baalshamin, dove ugualmente emersero testi importanti, mentre Amy, nella necropoli sud-ovest, terminò di liberare dalla sabbia la tomba detta “dei tre fratelli” e mise inoltre in luce il testo di fondazione di una parte dell’ipogeo. A nord-ovest di Palmira, sul Djebel Bil’as, Schlumberger e Ingholt scoprirono e scavarono dei piccoli santuari, che hanno ugualmente restituito iscrizioni; Schlumberger presentò la relazione dello scavo all’Académie des Inscriptions et Belles Lettres, durante la seduta dell’8 febbraio 1935. Le epigrafi emerse durante

questo scavo sono state pubblicate da Ingholt, mentre l’articolo esamina i testi scoperti negli altri tre scavi.

17° Statua eretta dai sacerdoti di Herta. Blocco rettangolare (forse base di statua), lungo 53 cm e largo 22 cm, scoperto nel marzo 1935, durante la demolizione di una casa nel quartiere Barranye, dietro la vecchia abitazione degli ufficiali meharisti (fig.36). Sul blocco, conservato al Deposito delle Antichità di Palmira, è inciso un testo in palmireno (6 righe, caratteri alti circa 2 cm), che ricorda l’erezione di una statua in onore di Ogeilu, figlio di Ayda’an e appartenente alla tribù dei Bene Komara, da parte dei sacerdoti di Herta, perché egli ha offerto, con i suoi figli, la metà di

quest’altare, la forchetta per prendere le carni, il luogo per sgozzare le vittime sacrificali e la cassetta (forse oggetto sacro), per gli dei Herta, Nanai e Reshef, nel novembre del 6 a.C. La data è mutila nella parte finale, ma l’Autore ritiene che non vi siano più di due sbarre indicanti le unità e che quindi il 307 dell’era seleucide sia la datazione esatta. Si tratta della seconda più antica iscrizione palmirena, dopo quella della tomba di Athenathan: anche l’aspetto dei caratteri si accorda con questa datazione; i nomi sono comuni nell’onomastica

palmirena. Cantineau ritiene che la parola incisa all’inizio della quinta riga sia quella traducibile con “altare”, sebbene sia difficile ipotizzare che la statua vi fosse posta sopra; è possibile che fosse appoggiata all’altare. Traduzione: “Nel mese Kanum dell’anno 307 (novembre 6 a.C.), i sacerdoti di Herta hanno eretto questa statua in onore di Ogeilu, figlio di Ayda’an dei Bene Komara, perché gli ha fatto ed offerto, con i suoi figli, la metà di quest’altare, la forchetta (per le carni), il luogo di sacrificio e la cassetta (? Sacra?), per Herta, Nanai e Resheph, gli dei”. Il termine aramaico utilizzato per indicare la forchetta con cui si prendevano le carni è simile a quello utilizzato nel libro di Samuele del Targum316.

La parola che indica il luogo ove si sgozzavano le vittime sacrificali ricorre anche nell’ebraico rabbinico, ma indica un’uccisione non rituale dell’animale, trafiggendo da parte a parte il collo, invece di recidere di netto la carotide; il corrispondente termine arabo indica al contrario uno sgozzamento rituale, in particolare per la Grande Festa e Schlumberger ritiene possibile che la parola palmirena sia un prestito dal vocabolario religioso arabo. Alla fine della riga 6 si è tradotto “cassetta”, ma altre interpretazioni sono possibili. Delle tre divinità elencate, Herta era già nota dalle tessere Vogué pag. 132, R 1065 D e R 1729 A e dallo studio di Février: non sono note molte delle sue caratteristiche, anche se doveva rivestire un ruolo importante a Palmira, giacché esisteva un collegio sacerdotale addetto al suo culto, che eresse la statua di Ogeilu

menzionata nell’iscrizione. Il nome della dea Nanai è associato a Bel ed Herta sulla tessera Vogué 132, su quelle R 1065 D e R29 A insieme a Herta, mentre sulla tessera R 1065C compare con gli dei Bel e Shamash. Si tratta di una divinità più nota della precedente, originaria probabilmente di Babilonia, dove possedeva due templi, venerata a Uruk nell’E-an-na; il suo culto conobbe una considerevole diffusione, e nel I millennio a.C. era considerata

figlia di Ea, sorella di Shamash e sposa di Nebo. Nella stele di Nimrud, Tukulti-apal-esharra III la chiama “signora di Babilonia”, e il suo culto si estese rapidamente in tutto il Vicino Oriente: in Persia, Nanai era assimilata ad Artemide e aveva un tempio in Elimaide, era venerata a Kirkuk in alta Mesopotamia, nonché

316 Con Targum (plur. Targumim) si indica la versione aramaica della Bibbia ebraica.

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in Armenia, in Battriana, in Grecia (iscrizione del Pireo CIA III, dove è assimilata ad Artemide) e forse in Frigia; presso i Nabatei, compare in un nome teoforo (iscrizione di Petra C349) e non sorprende quindi ritrovarla anche a Palmira. Resheph compare invece per la prima volta su di un’iscrizione palmirena: è una divinità maschile, legata al fuoco, al fulmine e alla guerra, attestata a Ras-Shamra e in Egitto è menzionato in testi datati dalla XIX dinastia in avanti; ricorre in testi fenici, ritrovati specialmente ad Abido, Cipro e Cartagine, nonché nell’iscrizione di Adad a Zincirli e in CIS 8 Resheph è assimilato ad Apollo. Février aveva ipotizzato che

anche Bol fosse di origini fenicie (ipotesi ritenuta verosimile dallo stesso Cantineau), ed è interessante trovare qui un nuovo elemento religioso che proviene dalle coste del Mediterraneo. L’iscrizione è importante per varie ragioni: per la sua antichità, per gli elementi del vocabolario religioso che ci fa conoscere e per le informazioni su alcuni culti palmireni poco conosciuti.

Fig. 36. Fotografia dell’iscrizione.

18° Aglibol e la Fortuna di Palmira

Angolo superiore sinistro ( 21cm x 14 m) di una piccola stele, proveniente dal “monumento a nicchie”, conservato al Deposito delle Antichità di Palmira con il n° A 314. Su di esso è inscritta la parte finale di 12 righe di un’epigrafe palmirena in piccoli caratteri, alti circa 1,2 cm. Gli elementi epigrafici suggeriscono una datazione alla fine del I sec. o agli inizi del II; si tratta probabilmente di un testo religioso, anche se troppo mutilo perché se ne possa comprendere il senso generale.

Riga 1:” sul corno occidentale”: forse s’intende uno spigolo di un altare o l’angolo di un edificio religioso? In quest’ultimo caso, l’espressione “occidentale” acquisterebbe un significato particolare, perché a Palmira alcuni edifici erano orientati in base ai loro angoli, come ad esempio il tempio cittadino di Baalshamin (mentre erano orientati secondo le loro facciate il Tabernacolo dell’Arca dell’Alleanza, il Tempio in Ezechiele, XL-XLII, ed anche il tempio di Bel a Palmira). Qui i caratteri sono più piccoli rispetto alle altre righe: è possibile che vi fosse un’indicazione di dove la stele dovesse essere, a somiglianza della Tariffa, il cui testo doveva essere inciso “sulla stele che è davanti al tempio di Rab Esiré”. Poiché il testo presenta carattere

legislativo e penale, nulla impedisce che anche qui vi sia un’indicazione dello stesso tipo. Riga 2: “… Ag]libol e la Fortuna di Palmira”: è interessante l’indicazione della Fortuna o Gad della città: era già noto il “Gad della fonte benedetta” (Corpus 3946), quello a carattere familiare o tribale (Gad Taimai, Corpus

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3927, R 514, R 1730, R 1731) ed uno che presiedeva alla coltura dell’olivo e alla preparazione dell’olio ( R 1777 e CAa 104) e un dio così soprannominato in C3991. La Fortuna di Palmira era già attestata dall’affresco di Dura Europos e da un’iscrizione trovata in questa stessa città; sembra comparire anche su una tessera (CAa 101). Riga 3: “… io (?) e in più, ho fatto punire (?)”: l’Autore indica la propria incertezza nella traduzione di questa

riga. Sembra che il pronome qui indicato sia un prestito dall’ebraico, benché si tratti di un fenomeno estremamente raro nella lingua palmirena; resta tuttavia il problema di conoscere sino a che punto alcuni culti palmireni, e in particolare il culto del dio anonimo, abbiano subito influenze ebraiche. L’ebraico rabbinico presenta numerose influenze aramaiche, non solo nel vocabolario, ma anche nelle strutture grammaticali. L’Autore ipotizza per questo testo un fenomeno inverso: la lingua di un culto carico d’influenze ebraiche doveva essere a sua volta permeata di reminescenze ebraiche. Il causativo del verbo “punire” presente nel testo non sembra attestato altrove. Riga 4: “… se io”: al principio della riga vi è la fine di una parola di difficile decifrazione. Compare probabilmente una congiunzione ebraica, che sembra un più plausibile prestito rispetto ai pronomi personali, in quanto l’aramaico dei Targumim conosce anche un’altra forma della congiunzione,

probabilmente derivata dall’ebraico. Riga 5: la traduzione è difficile, poiché la forma non è chiara. Si tratta di un verbo che muta significato a seconda dei dialetti aramaici e da uno schema verbale all’altro: spesso vi sono più varianti anche all’interno di uno stesso schema. Confrontandolo con il verbo della linea 3, si potrebbe tradurre “io accuserò, io incolperò”, secondo uno schema semplice attestato sia in siriaco che in giudeo-palestinese. La parola successiva è probabilmente una grafia difettiva di una terza persona femminile singolare e la preposizione utilizzata è quella che normalmente in siriaco segue il verbo qebal davanti al suo complemento oggetto. Si potrebbe tradurre, con riserva, “io l’accuserò”, anche se l’uso del femminile è strano. Riga 6: la parola che termina questa linea potrebbe indicare il gelso o la mora di gelso. E’ possibile che fosse preceduta da nomi d’alberi o di frutti, ma l’Autore non è riuscito a decifrare le lettere ancora presenti, forse un elenco di alberi sacri. Può darsi tuttavia che si tratti di un’unica parola matwatuta, sostantivo astratto di formazione secondaria, proveniente dalla radice da cui deriva in giudeo - aramaico e in siriaco l’espressione tewat “che è a digiuno”: forse indica il digiunare o la direzione del digiuno. Riga 7: “… qualcuno e della terra”: è difficile ricollegarla al senso generale del testo. Riga 8: “… noi nelle …”: il pronome personale indipendente è derivato dall’ebraico, in luogo della forma

aramaica comune; quest’ebraismo si spiega allo stesso modo di quelli delle righe 3 e 4. Non è facile interpretare l’ultima parola, la cui parte terminale è gravemente mutila. Riga 9: “… appiattirò (o cancellerò)”: è probabilmente un verbo in prima persona singolare o in terza persona

singolare (schema causativo). Riga 10: “per (?)NWDR “ : si tratta di un nome sconosciuto, forse di origine persiana. Riga 11: “… per una decina”: si tratta di una parola piuttosto simile al termine ebraico che indica “decina,

decade”. Riga 12: “… decina” : stessa interpretazione del precedente.

Benché si tratti di un testo troppo lacunoso per comprenderne il senso generale e la ricostruzione di molte delle parole superstiti sia ipotetica, è di grande importanza per la menzione della Fortuna di Palmira e per i prestiti dall’ebraico che sembra contenere.

19° Ancora un umbraculum. Frammento con due fasce piatte, spezzato a destra e intatto a sinistra (21 cm x 39 cm), presenta su questo lato un angolo modanato, il che fa pensare di ipotizzare un angolo d’architrave. E’stato ritrovato nell’angolo sud-est del cortile del santuario di Bel ed è conservato presso il Deposito delle Antichità con il n° A 285. Vi sono incise quattro righe in palmireno, due su ciascuna fascia, con lettere alte 1,4 cm.

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La traduzione delle parole conservate è la seguente: “ … l’umbraculum, le sue colonne, la sua trabeazione …. Bol, dio buono e rimuneratore, per la loro salvezza …… che è sulla colonna che sta sopra la grande porta …. ogni anno, per sempre, per onorarli”. Il senso è purtroppo oscuro, dato la stato di mutilazione del testo. L’Autore aveva già pubblicato su Syria un’epigrafe concernente un umbraculum, costruito nel 48-49 da due

cugini a due divinità sino ad allora sconosciute, Bol’astar e i “Buoni Demoni”; l’edificio è descritto come dotato di un colonnato, ma non è stato localizzato. Rosenthal ha studiato il termine aramaico che indica

l’umbraculum, e per lo studioso è un semplice sinonimo del greco andrebbe letto lo stesso termine nell’iscrizione C3955, dove un certo Lisams e suo fratello offrono sei colonne, con la loro trabeazione e il tetto, in onore di Shamash, Allath e Ram; inoltre alcuni scrittori arabi traducono il termine “stoici” con “ashab al mizallah (= midallat-)”. Cantineau non condivide tuttavia questi confronti, in quanto il termine arabo midallat- è poco chiaro, tanto da richiedere la glossa riwag -: inoltre, il preciso significato di midallat- è “baldacchino,

grande tenda”, oppure “parasole, cappello a larghe falde”. Può indicare il “tabernacolo” dove era custodita l’arca dell’Alleanza e idu l- mudallah indica la Festa dei Tabernacoli. Nei dialetti aramaici metalleta non indica un portico, ma nel Targum di Onkelos indica le “capanne” che Giacobbe fa costruire per i suoi armenti

(Genesi, XXXIII, 17) o le “tende di foglie” erette in occasione della festa dei Tabernacoli (Levitico, XXIII, 42-43). In siriaco, la parola indica la “capanna” che si costruisce Giona (in Giona, IV, 5), le “tende” che Pietro fa innalzare sul monte della Trasfigurazione (Marco, IX,5; Luca, IX,33), e come in giudeo-palestinese le “tende

di foglie” della Festa dei Tabernacoli. In questi esempi il significato di non compare mai e i testi siriaci

traslitterano semplicemente la parola perciò tale equivalenza risulta, se non impossibile, quantomeno dubbiosa. L’Autore ritiene che l’edificio palmireno fosse una costruzione di modeste dimensioni, a carattere religioso, destinato ad ospitare un simulacro o qualche oggetto sacro; era dotato di un colonnato, che però non costituiva la sua parte essenziale. La via colonnata trasversale non poteva essere indicata in questo modo, benché quattro iscrizioni menzionino l’offerta di colonne: si trattava, o di una via sacra, come già ipotizzato da Cantineau in Inv. V, pagg.18-19 (all’epoca egli riteneva che i limiti della “città

classica” andassero spostati più a sud, e che il prolungamento della via colonnata trasversale conducesse alla fonte Ephka), oppure di un colonnato eletto su di un terreno sacro, come suggerito da Schlumberger in Études sur Palmyre, in Berytus, II, pag. 152, n°25. L’Autore ritiene invece possibile questa traduzione al posto di “entrata, propilei” nell’epigrafe Inv. I,5 del tempio di Baalshamin; questo santuario, nel suo aspetto più antico, sarebbe stato un umbraculum, di cui avrebbe ugualmente fatto parte l’architrave su cui è incisa l’epigrafe C 3983 = Inv. I, 4. Per quanto riguarda questa iscrizione, dovrebbe essere coeva alla prima che menziona l’umbraculum, a

giudicare dall’aspetto della scrittura. Il primo tuttavia era dedicato a Bol’astar e ai Buoni Demoni, mentre qui vi è il solo dio “buono e remuneratore”, il cui nome termina in –ol, per cui si possono proporre Aglibol o Yarhibol. I nomi dei dedicanti sono scomparsi, e come il primo, anche questo umbraculum doveva rivestire

una certa importanza, poiché è menzionato un colonnato; tuttavia, il frammento che reca l’iscrizione è piuttosto piccolo, se proveniente da un architrave: si potrebbe forse pensare ad un edificio votivo in miniatura. Le due ultime righe provengono da un testo differenze, inciso sotto la dedica dell’umbraculum: si tratta degli

onori da rendere ai dedicanti. La riga 3 sembra indicare statue di bronzo e della loro collocazione: “sulla colonna (o le colonne) che è sopra la grande porta”. Probabilmente le statue erano poste sopra una mensola, anche se in alcuni casi queste potevano poggiare direttamente sulla colonna (come in Inv. II 2 e 3). Sembra

però strano che una colonna fosse posta sopra una porta: la preposizione va intesa in senso più ampio; le colonne erano semplicemente quelle dei propilei, o bisogna invece prendere il testo alla lettera e pensare a colonnette, ai lati di una nicchia posta sopra la porta? E’ impossibile stabilirlo, giacché ignoriamo di quale grande porta si tratti: si può pensare a quella del santuario di Bel (il recinto aveva una grande porta e due porte minori), ma è un’ipotesi poco dimostrabile.

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La riga 4 è mutila e non sappiamo che cosa doveva essere fatto ogni anno, per sempre, per onorare i dedicanti; potrebbe trattarsi di onori funebri, o piuttosto di decorare annualmente le statue di bronzo menzionate alla riga precedente.

20° Statua equestre. Mensola di colonna trovata da Ecochard davanti al tempio di Baalshamin durante lo scavo dell’edificio, ora al Deposito delle Antichità con il numero n° A 306. La pietra misura 35 cm x 35 cm e sulla faccia anteriore porta un’iscrizione greca, che doveva comprendere almeno 9 righe, con caratteri alti circa 1,3 cm; sull’altro lato vi è un testo palmireno su 10 righe.

Traduzione del testo greco: "Nel Caesareum una statua equestre; nel santuario di Bel una statua a nome del Senato e del Popolo; con decreti e rapporti (?) essi hanno testimoniato (in suo favore) presso l’illustrissimo legato Avidio Cassio; e le quattro tribù, ognuna nel suo proprio santuario, gli hanno elevato una statua, per onorarlo e a causa della sua eccellente amministrazione ... nel mese di novembre” Questo testo onorifico è purtroppo mutilo, e la ricostruzione delle righe 3-7 è stata molto complessa e vi ha contribuito anche H. Seyrig. Non si è conservato né il nome del personaggio onorato, né il numero di statue che gli furono innalzate. Dalle righe 3 e 4 apprendiamo che una di queste statue, equestre, fu innalzata nel santuario di Bel, ma non se conosce l’esatta posizione, in quanto tutte le mensole delle colonne superstiti sono troppo piccole per ospitare una statua equestre. Alcuni punti della facciata interna del muro del recinto presentano zoccolature (protette ad una certa altezza da piccoli frontoni) abbastanza grandi da fungere da appoggio ad una simile statua; le zoccolature rimaste sono anepigrafi e probabilmente non furono mai utilizzate, anche se la statua equestre menzionata nell’epigrafe può essere stata posta su di uno zoccolo non pervenutoci. Traduzione del testo palmireno: [Yar]ibole, … Lishams … ha lavorato lui stesso, il Senato e il Popolo gli hanno reso testimonianza per decreto

…, dopo il legato, e in quattro … e gli hanno eretto … una statua equestre, statua (?) del tempio di Bel, … di bronzo; e a proprie spese il Senato e il Popolo, le [quattro] tribù gli hanno eretto, ciascuno nella casa dei suoi dei, una statua di bronzo, poiché egli gli si è reso gradito [in ogni cosa] … nel mese di Kanum del 483

(novembre 171)”. La parte in palmireno, benché mutila al pari del testo greco, fornisce dati interessanti: le righe 2 e 3 sono molto incomplete e forniscono solo i nomi di Yarhibol e Lisams, ma non è possibile risalire al nome del

personaggio onorato; dalla riga 4 l’Autore non ha potuto distinguere parole o frasi di senso compiuto, nonostante vi siano diverse lettere superstiti. La riga 5 offre invece la prima attestazione del verbo “lavorare” in palmireno, già attestata in giudaico- palestinese e siriaco, mentre l’espressione “della sua persona”,

letteralmente “del suo corpo”, prestito dal greco era già attestato in Tadmorea n°7, dove aveva il

significato di “cadavere”. Segue un altro prestito dal greco decreto), mentre alla 6 riga il nome del legatus non è indicato, a differenza del testo greco. Alla riga 7 vi è per la prima volta l’espressione “ cavalcare

(un cavallo)”, mentre “a spese di” è confrontabile con la formula” a proprie spese” in siriaco. Il termine “tribù”, a giudicare dal suffisso nominale che lo accompagna, sembra essere femminile, a somiglianza di quanto si riscontra nell’arabo. L’uso di erigere una statua nel santuario di ciascuna delle quattro tribù principali è già attestato (vedi ad esempio Ingholt, Syria, XIII , pagg. 288/291); secondo l’Autore, questo

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gruppo di quattro santuari corrisponde al Il testo palmireno fornisce la data dell’erezione di queste statue (mese di Kanum dell’anno 483 dell’era seleucide, cioè novembre 171 d.C.), che concorda con quanto sappiamo del legato Avidius Cassius. Nonostante il suo cattivo stato di conservazione, quest’iscrizione è importante perché arricchisce la nostra conoscenza della lingua palmirena.

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24. CANTINEAU 1936 B

J. CANTINEAU, Tadmorea, in Syria, tomo 17, fascicolo 4, 1936, pagg. 346-355.

21° Al Signore del Mondo Altare votivo senza cupola, trovato da Ecochard nel tempio di Bal Shamin, nel corso dello sgombero dell’edificio, ancora in situ al momento della pubblicazione; 0,77 m x 0,30, con iscrizione bilingue (4 righe in

palmireno, cm e 4 in greco, con caratteri alti rispettivamente 2,4 e 3 cm).

Traduzione del testo palmireno: “Al Signore del mondo hanno consacrato da Awidu, Malikhu, Yarhibol e Hagegu, figli di Bolemme, figlio di Awidai, figlio di Bolemme Arab (o Adab), per la salute propria, dei loro figli e nipoti, e per onorare i Bene Sa’ra (o Sa’da), loro vicini, il mese di Sebat dell’anno 426( 6 febbraio 115).

Il testo greco è molto mutilo, ma si può osservare che i nomi propri non sono nello stesso ordine: nella parte in palmireno il primo ad essere nominato è Awidu, mentre qui la serie dei dedicanti è aperta da Malikhu.

Compare inoltre una trascrizione notevole del nome l’Autore ipotizza che, se Bol fosse una divinità femminile, esso potrebbe essere interpretato come “Bol è madre”, ma è poco probabile; il giorno compare solo nella parte in palmireno. Per quanto concerne quest’ultima, il nome del primogenito Awidu è leggermente diverso da quello del nonno, anche se spesso a Palmira il primo figlio ha lo stesso nome del nonno. Il nome del bisnonno è attestato qui per la prima volta, mentre quello del clan vicino ai dedicanti non è conosciuto. L’espressione per indicare i vicini è simile al siriaco sebaba, ma non è attestata nel giudaico-

palestinese: si tratta di un’ulteriore somiglianza fra il palmireno e i dialetti aramaici orientali, di tipo siriaco; Cantineau non esclude che il termine possa indicare anche i parenti. Il “Signore del mondo” è per l’Autore il dio Bal Shamin, a somiglianza delle epigrafi C3912, C3986, C3989,C3990,C3998 B.

22°A Colui il cui nome è benedetto per sempre. Cippo a base quadrata, rotto in basso, modanato in alto, con la superficie superiore piana ma non decorata. E’ stato ritrovato da Amy fra le rovine della vecchia moschea el – Fad°l, conservato al Deposito delle

Antichità di Palmira. Misura 0,66 m x 0,50 m; vi è incisa un’iscrizione in palmireno su 4 righe, con caratteri alti 2,4 cm.

Traduzione: “ A Colui il cui nome è benedetto per sempre, il misericordioso, il buono, il compassionevole, ha fatto Athenuri, figlio di Taima’e Hala e nipote di Athenuri, per la salute sua e dei figli, e per onorare i Bene PTRT, nel mese di Adar dell’anno 530 (marzo 219)”.

Il nome del clan non era altrimenti noto, mentre l’uso di erigere altari non solo per scopi religiosi ma anche per onorare un clan vicino o parente è attestato anche dal testo precedente. Ogni atto di munificenza, anche di tipo religioso, onorava sia il suo autore che il gruppo sociale a cui apparteneva.

23° La casa degli incantesimi. Piccolo frammento trovato nel nuovo villaggio, che costituiva l’angolo superiore sinistro di un blocco reimpiegato dopo essere stato nuovamente tagliato, conservato al Deposito delle Antichità con il numero A

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372. Misura 0,20 x 0,12 m con sei righe in palmireno rotte alle due estremità e di cui non rimangono che alcune lettere, con altezza media delle lettere di 1,5 cm. Si tratta di un frammento molto mutilo e le righe 1, 2 e 6 sono pressoché intraducibili (l’ultima riga fu aggiunta forse da un’altra mano); l’aspetto della scrittura sembra datare l’iscrizione al I sec. d.C.

Il termine che compare alla riga 3, e che ricorda il termine giudaico -palestinese “magia, incantesimo, divinazione”, ricorre anche in un’iscrizione pubblicata da Ingholt: in essa si menziona un tiaso, senza specificare tuttavia quale, ma Cantineau ipotizza che si tratti di quello presieduto dal gran sacerdote di Bel, che avrebbe svolto, oltre la funzione di simposiarca, anche quella di presiedere ai riti magici e divinatori che si tenevano nel tempio. Secondo il mito, Bel- Marduk aveva ereditato dal padre Ea grandi poteri magici; è possibile che il locale menzionato nel testo fosse quello adibito ai riti magici nel tempio di Bel. Alla linea 3 è menzionata anche una “buona dea”, forse la paredra di Bel – Marduk, Belit – Sarpanit o Isthar.

24° Ancora i Bene Ma’ziyan. Blocco rettangolare, forse base di statua, trovato nelle fondazioni del “monumento con nicchie”, ora conservato al Deposito delle Antichità con il numero A 313, alto 0,36 m e lungo 0,54 m. Vi sono incise due righe in palmireno monumentale, con caratteri alti 2,8 cm, cui si aggiunge una terza linea, redatta in una specie di scrittura corsiva dalle caratteristiche molto irregolari, con altezza che varia da 5 a 2,5 cm.

Traduzione: “Statua di Wahbai, figlio di Nurbel e nipote di Aqamat, dei Bene Ma’ziyan,; ci si ricordi di Lisams”. L’aspetto della scrittura sembra datare il testo alla prima metà del I sec. La linea corsiva potrebbe essere il nome dell’incisore o scultore. L’interesse di questo testo risiede nell’attestazione dei Bene Ma’ziyan, tribù

raramente attestata e che sembra smettere di esistere dopo il I sec.

25°Testo funerario arcaico A.

Le fondazioni del “monumento con nicchie”hanno fornito ancora due frammenti che sembrano provenire dalla stessa iscrizione, poiché la pietra è la stessa e la scrittura è estremamente simile: nonostante ciò, i due frammenti non combaciano. Il primo è conservato presso il Deposito delle Antichità con il n° A 304, misura 0,40 m x 0,30 m, con altezza media dei caratteri di 1,6 cm.

Vi sono incise 12 righe in palmireno mutile alle due estremità: il tipo di scrittura, così come quelle del testo B, data il frammento alla prima metà del I sec. d.C. Non è possibile trarre un senso dai resti dell’iscrizione: le prime due righe sono intraducibili, mentre i nomi alle righe 3, 4, 5 sono già noti, mentre alla riga 6 compare

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un nome proprio prima non attestato (Bel’aqab Hammonan Bolemme); alla riga 7 il nome Abab è probabilmente

la trascrizione del greco . Alla riga 10 compare ancora la “casa degli archivi”, già nota dall’epigrafia palmirena, che svolgeva un ruolo nella registrazione e conservazione delle tombe. Alla riga 11 il termine potrebbe essere dada (calderone) o doda (zio paterno): il secondo significato sembra il più appropriato al

contesto, rimasto anche nel siriaco; alla linea 12 i verbi sono probabilmente utilizzati in senso figurato. E’ possibile che le prime 9 righe contenessero la lista dei fondatori e possessori della tomba, mentre nelle righe finali si trattava dei diritti di proprietà della tomba e delle garanzie legali che la proteggevano. Se i testi A e B sono considerati parte di uno stesso testo funerario, molto più alto che largo, il primo è certamente la parte superiore, vi è tuttavia un margine abbastanza importante in basso al testo A, il che fa supporre che l’iscrizione fosse divisa in due parti separate da uno spazio vuoto.

26° Testo funerario arcaico B. Il secondo testo è conservato al Deposito delle Antichità con il n° 305 e misura 0,42 m x 0,31; vi sono incise undici righe in palmireno mutile alle due estremità, con altezza media dei caratteri di 1,6 cm.

L. 1 “… della carne, del pane e dell’acqua …”: si tratta probabilmente di offerte funerarie per i defunti. L. 2 “… che non si rubi e non si saccheggi …”: la frase si riferisce sia alle offerte alimentari sia al corredo

funebre. L. 3 “… nell’immutabilità tutto ciò che è scritto …”: sembra trattarsi delle disposizioni relative alla trasmissione

ereditaria della tomba e del suo mantenimento. L. 4 “… in questi scritti, egli ha fatto e istituito …”: gli scritti potrebbero essere, secondo l’Autore, i titoli di proprietà depositati presso la “Casa degli Archivi”. L. 5”… i sacerdoti, e se non vi sono sacerdoti …”: sembra che in questa riga e nella seguente si menzionino

funzionari religiosi incaricati di applicare le disposizioni contenute nei titoli di proprietà o di sorvegliarne l’attuazione. L. 6” … e principali, e se non ve ne sono …”: Cantineau ipotizza una possibile restituzione, a fine riga, del termine tahtayé, “inferiori”, intendendo sempre i funzionari religiosi menzionati alla riga precedente. L. 7 “… perché ha ordinato, ha fatto …”: non è noto il contesto della frase. L. 8 ”… ciò che è in questi scritti egli …”: si tratta probabilmente dei titoli di proprietà depositati presso la

“Casa degli archivi”. L. 9 ”… un domicilio, egli ha giurato per Yarhibol”: il dio è a volte chiamato a testimone della buona gestione dei

funzionari”. L. 10 “… i suoi granai, e il suo domicilio brucerà …”: è forse una maledizione contro il violatore del giuramento. L. 11 “… sarà multabile di … sicli”: è indicata un’ammenda da pagare in caso di violazione delle disposizioni indicate; un’indicazione analoga compare nell’iscrizione pubblicata in Tadmorea n°7 b, ma neanche in

quest’ultima indica l’ammontare della multa. Si tratta probabilmente di due frammenti di una stele funeraria arcaica, dall’aspetto della scrittura e dalle particolarità ortografiche: doveva contenere molte informazioni interessanti, ma la sua frammentarietà impedisce di cogliere il senso generale.

27° Nuova iscrizione dalla tomba “ dei Tre fratelli”. Dalla tomba della necropoli sud-ovest , studiata da Kokovzof e Farmakovskij e chiamata “tomba dei Tre Fratelli”, sono state pubblicate molte iscrizioni, ma Amy, nello scavare l’ipogeo, ne ha scoperta una nuova.

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Traduzione: “Questa sepoltura è stata fatta da Malé, figlio di Sa’dai, nipote di Malé, per sé, per il suo …, per i

suoi figli e le sue figlie, e per i figli dei figli, per sempre, nell’anno 451 ( 142-143 )”.

Contro la parete destra dell’esedra, che si trova a sinistra entrando nella tomba, era stato eretto un piccolo monumento, composto da due colonnine sormontate da una trabeazione; è rimasta solo la base dell’edicola, su di un podio, il blocco su cui è stata scolpita l’architrave e il fregio ornato da una ghirlanda di foglie di alloro. Sulla fascia più larga di questa architrave è incisa l’iscrizione, che sembra essere quella di fondazione dell’esedra. E’ ancora in situ, e misura 0,84 x 0,06 m e il testo, su due linee, è redatto in palmireno corsivo,

con lettere alte in media 1,4 cm, ripassate con vernice rossa. Malé è uno dei fratelli che hanno costruito la tomba: è possibile che quest’esedra fosse la parte a lui riservata e che il monumento su cui è stata incisa l’iscrizione dovesse accogliere il suo sarcofago. La parola mancante alla riga 2 potrebbe essere resa con “sua sorella”, ma il confronto con l’iscrizione contenuta in Inventaire VIII

180, sembra suggerire il senso di “padre” o “genitori”.

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25. SEYRIG 1937 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 18 fascicolo 1, 1937, pagg 1-53.

19. Note sur Hérodien, prince de Palmyre.

Seyrig riesamina l’iscrizione dell’arco di Palmira, che menziona un personaggio di nome Erodiano, “re dei re”, sulla base della rilettura dell’epigrafe proposta da Cantineau nell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre.

Clermont – Ganneau propose di identificare tale personaggio con il figlio minore di Zenobia, in nome del quale ella assunse il potere nel 267 o 268 d.C., dopo l’assassinio di Odenato, e che i testi letterari chiamano Erenniano. Un più attento esame dell’iscrizione da parte di Cantineau ha permesso di identificare con sicurezza l’Erodiano citato e di comprendere meglio il testo dell’epigrafe. In particolare, la nuova lettura consente di capire appieno il passaggio riguardante la vittoria sui Persiani ottenuta da Erodiano.

E’ noto che Valeriano fu sconfitto dai Persiani fra la fine del 259 e l’inizio del 260, il che permise a essi di occupare parte della Cappadocia e della Cilicia, nonché la Siria settentrionale e Antiochia; Odenato tuttavia prese l’iniziativa e affrontò e sconfisse il loro re Shapur. Richiamato in Siria per fronteggiare l’usurpatore Quietus, Odenato lo vinse nel 262 e l’imperatore Gallieno gli conferì il comando di tutte le truppe delle regioni orientali, e, due anni dopo, anche il titolo di imperator. Odenato intraprese una nuova campagna

contro i Parti, giungendo sino a Ctesifonte, nel 264, e nel 267-268 fu assassinato. Non si hanno notizie di guerre condotte dai Palmireni contro l’impero sasanide prima del 261 e dopo il 264: la vittoria menzionata non può che riferirsi al regno di Odenato, il che porta a escludere il giovane Erodiano, ancora minorenne alla morte del padre. Il personaggio in questione dovrebbe aver portato il titolo di “re dei re”, aver vinto i Persiani e non essere sopravvissuto a Odenato, come avvenne invece nel caso di Erenniano. L’unico a soddisfare queste tre condizioni è il figlio maggiore, nato dal primo matrimonio, di Odenato, che l’ Historia Augusta chiama Erode, il quale partecipò alle guerre del padre, fu da lui associato al trono e che con

il genitore fu assassinato. A questo principe Seyrig attribuisce anche un ritratto su di un gettone di piombo, con la legenda

Vi è raffigurato un giovane imberbe, con tiara conica crestata, simile a quella indossata dai re dell’Osroene, ma con un’acconciatura che ricorda quelle dei sovrani Sasanidi, e un nastro che poteva legare sia i capelli sia un diadema. Sull’altro lato sembra esservi l’immagine di una donna con acconciatura a melone e chignon, una corona di alloro (elemento di solito non associato alle principesse) e la stessa legenda. Lo studioso non ritiene possibile che si tratti di un maldestro ritratto di Erodiano, raffigurato su di un lato come re di Palmira e sull’altro come imperator.

Il gettone fu acquistato dal Museo di Damasco da un collezionista di Antiochia, insieme con altri oggetti e la presenza di una legenda greca fa supporre che il gettone sia stato realizzato in questa città, e non a Palmira; Erodiano e suo padre si impadronirono di Antiochia poco dopo la sconfitta di Quietus. Questa origine

antiochena sembra confermata anche da un altro gettone, sempre di proprietà del museo di Damasco e anch’esso proveniente da Antiochia, con l’immagine di Zenobia con corona turrita e la legenda

[su di un lato, e sull’altro una Vittoria stante su globo: si tratta probabilmente di gettoni facenti parte di una stessa serie.

20. Armes et costumes iraniens de Palmyre.

Gli unici studi sull’abito palmireno risalgono a un’epoca in cui pochi dei monumenti cittadini erano stati pubblicati. Seyrig si propone di riesaminare la questione, tenendo conto dei lavori di Chabot e Ingholt, nonché dei dati forniti dagli scavi di Dura e di alcuni frammenti ancora inediti trovati nelle necropoli, di cui si pubblicano i disegni realizzati da Amy. Un ulteriore campo di analisi e di confronto deriva dagli studi pubblicati sul

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mondo partico e sasanide, sulla Battriana, il Turkestan cinese, gli Sciti, i Sarmati e gli altri nomadi dell’Asia centrale. Lo studioso limita la propria indagine all’abito maschile, ritenendo che essa possa offrire nuovi spunti per chiarire il rapporto fra la Siria e il mondo partico, già parzialmente illustrato dagli studi di Rostovtzeff. Come nel campo dell’arte e nell’epigrafia, Palmira risente anche nella moda delle influenze che provengono sia da Oriente (evidente nell’uso dei pantaloni) sia da Occidente. Seyrig sottolinea come gli abiti con cui i Palmireni si sono fatti ritrarre siano sempre di origine straniera, e mai locale, forse perché la scultura funebre è un’arte d’apparato, o perché le mode straniere erano ritenute più prestigiose. L’abito locale palmireno non sarebbe dunque quello d’ispirazione greca (e poi romana) o partica con cui i defunti appaiono nei rilievi delle loro tombe, bensì quello indossato ugualmente da dei e uomini nei rilievi a carattere religioso e mitologico: si tratta di una semplice tunica, con un pezzo di tessuto avvolto intorno ai fianchi, già presente in alcune rappresentazioni di soldati assiri. Quest’abito è portato da tutti i personaggi maschili che assistono alla processione del cammello in uno dei rilievi del tempio di Bel, nonché dagli dei di origine araba, protettori delle carovane, come Azizou, Maan, Saad, Abgal, Ashar. Forse è di origine indigena anche il lungo abito provvisto di maniche e spesso portato ripiegato, che compare in diversi rilievi della Commagene e del tempio di Bel. Gli abitanti di Palmira sembrano aver però preferito al costume locale l’abito di derivazione greca o partica. L’abito greco, più semplice, compare in numerosissimi rilievi funerari; ci si potrebbe inoltre domandare se l’abito partico fosse tipico di un gruppo sociale o tribale, ma non sembra essere questo il caso: è possibile che l’abbigliamento partico, spesso sontuosamente ricamato e accompagnato da armi, fosse utilizzato dai ricchi in occasioni particolari, poiché compare spesso nelle scene di banchetto e di sacrificio. I pantaloni erano diffusi in Iran da lungo tempo e compaiono nei rilievi achemenidi, come caratteristico delle popolazioni settentrionali dell’impero persiano: Medi, Parti, Battriani, Sogdiani, abitanti della Corasmia presso il lago d’Aral, Armeni, Cappadoci, Traci, Saci, oltre ai popoli che abitavano le regioni meridionali dell’attuale Afghanistan e la frontiera con il Khorasan, che alle anassiridi aggiungevano dei gambali (Arii, Aracosiani e abitanti della Drangiana). Coloro che vivevano nelle regioni meridionali dell’impero portano invece abiti drappeggiati, come ad esempio Persiani e Susiani, caratterizzati da lunghe vesti; lo stesso abito era indossato dal re di Persia, in questo imitato anche dai nobili fenici. Le anassiridi si diffusero rapidamente anche in altre aree, specie per la caccia e la guerra; Erodoto afferma che erano indossate dai guerrieri della Persia, e compaiono nelle rappresentazioni monetali di re e guerrieri dell’Asia minore, che però guardavano al mondo iraniano. Nelle scene figurate del sarcofago di Alessandro le anassiridi sono indossate da tutti personaggi di origine persiana e questi rilievi riflettono molto probabilmente in maniera fedele l’abbigliamento tipico sotto gli ultimi Achemenidi; forse i pantaloni restarono un capo prettamente militare sino ai Parti. Essi non sembrano essere stati utilizzati nelle città fenice, dove la lunga veste di origine persiana resistette sino alla conquista romana. In compenso, abbiamo testimonianze dell’uso delle anassiridi a Samosata nei monumenti reali del I sec. a.C., a Palmira dal regno di Tiberio (sui rilievi del tempio di Bel), mentre dalle regioni intermedie provengono dati contrastanti. Erodiano descrive Elagabalo intento a celebrare i riti sacri intorno alla pietra nera con indosso dei pantaloni color porpora e oro: è possibile che i sacerdoti di Emesa da cui egli discendeva indossassero lo stesso abito di origine iraniana diffuso anche a Palmira317. Gli dei portano spesso, in tali regioni intermedie, le anassiridi (come a Doliche, Calcide di Belo, Epifania, Emesa, Baalbek, Dionisiade di Batanea, Petra), ma in nessun caso sono gli uomini a indossarli, anche in quelle zone, come l’Aurantide o la Batanea, che hanno fornito molte testimonianze scultoree: ciò si può spiegare ipotizzando che le anassiridi non fossero utilizzate dalla popolazione civile, ma che fossero indossate solo dai militari e dagli dei che incarnavano il tipo del guerriero. In Siria, la prima attestazione di una divinità che veste le anassiridi compare su di una moneta risalente al secondo regno di Demetrio II (129-125 a.C.), di cui non è nota la zecca, mentre in seguito gli dei indosseranno la corazza di derivazione ellenistica. L’abito tradizionale partico si diffuse probabilmente prima nella corte con l’avvento degli Arsacidi, per poi divenire comune fra i sudditi; a Palmira fu utilizzato ininterrottamente anche nei secoli successivi. La forma più semplice è quella che compare in una stele di Dura, databile alla metà I sec. d.C., in cui il dio Aphad è raffigurato con pantaloni attillati al polpaccio e le cui pieghe formano come degli anelli intorno alla gamba; a Palmira questa tipologia si riscontra in un frammento di calcare tenero, scoperto nel cortile del

317 HERODIANUS, 5, 3, 12.

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tempio di Bel, dove era stato reimpiegato in una fondazione insieme a frammenti epigrafici e architettonici che sono fra i più antichi rinvenuti in città. In seguito questo tipo di anassiridi compare solo in alcune immagini divine, specialmente le raffigurazioni di Bel. I rilievi del tempio di Bel, risalenti al I sec. d.C., rappresentano molti personaggi con le anassiridi, anche se spesso quasi nascoste da alti gambali; la stoffa delle anassiridi è visibile solo nella sciancratura dei gambali portati da Malakbel. Questi pantaloni sembrano larghi e cascanti, senza pieghe, con un gallone cucito nella parte interna della gamba. In monumenti più tardi i pantaloni sono stretti e con il gallone nella stessa posizione, che tuttavia si restringe verso il basso (la fotografia non è stata resa disponibile per l’edizione on line); tale gallone manca solo in due rilievi di III sec.

Fig. 37. Torso di coppiere palmireno, Museo di Palmira, 100- 150 d.C. (immagine mancante nell’edizione on

line). I pantaloni sono sempre infilati nelle calzature: un affresco di Dura e alcuni esemplari molto simili rinvenuti in Mongolia sembrano mostrare che essi fossero chiusi e che terminavano con una sorta di babbuccia. Tali indumenti sembrano uguali, anche nelle decorazioni, a quelli indossati in Persia sotto gli ultimi Achemenidi, come si evince dal sarcofago di Alessandro. I gambali erano dei lunghi tubi di stoffa o di cuoio, sciancrati alla coscia e dotati di un largo gallone. Nei rilievi del tempio di Bel il gallone è posizionato davanti, e la sciancratura è all’altezza della coscia, mentre nei rilievi più tardi il gallone è nella parte esterna e il gambale è sciancrato nella parte interna o sul davanti; il gallone doveva servire a sospendere il gambale alla cintura: in molti rilievi siriani, tuttavia, l’uso di corazza o mantello non permette di vedere il gallone, che però è scolpito chiaramente in numerosi rilievi persiani. E’ possibile che il gallone permettesse di regolare l’altezza del gambale, a seconda che si cavalcasse o si andasse a piedi. I gambali erano indossati non solo a Palmira, come dimostra una statua ritrovata a Calcide di Belo, che risale probabilmente all’inizio del I sec. d.C.: la loro origine è iraniana, come quella delle anassiridi. Essi non compaiono in monumenti partici, ma sono diffusi all’inizio dell’epoca sasanide. Spesso gli indumenti indossati dai sovrani sasanidi sono stati interpretati come pantaloni, tuttavia, analizzando con più attenzione i rilievi di Shapur I si possono distinguere proprio dei gambali dotati di un grosso bottone, cui si attaccava un nastro fissato a sua volta a una cintura non visibile perché coperta dalla tunica. Ciò si evince meglio dal rilievo con la scena d’investitura di Shapur I a Naks- i -Radjab e in altre immagini dello stesso re, e tali gambali compaiono ugualmente in un piatto d’argento che ritrae Shapur II. I Sasanidi e i Palmireni devono aver adottato questo indumento dai Parti; è possibile che i nobili parti che compaiono sulle stele di Assur indossassero proprio questi gambali. Un abbigliamento simile è indossato anche da cavalieri tocari in alcuni affreschi del Turkestan cinese, a Kyzil, all’interno della”Grotta dei sedici porta-spade”, risalenti al VII sec. d.C.: questi personaggi indossano gambali sciancrati sulla parte posteriore della gamba, da cui fuoriesce la stoffa di pantaloni colorati; come a Palmira, il nastro che li sorregge è nascosto dalla tunica. Alcuni affreschi di Bezeklik, risalenti all’VIII sec. d.C., raffigurano dei mercanti tocari che portano gambali o stivali alti fino al ginocchio, sospesi a una cintura posta sotto la tunica tramite un occhiello. Si potrebbe pensare che i Sasanidi abbiano preso tali indumenti proprio dai Tocari, ma lo stesso sistema di sospensione si trova, molti secoli prima, nelle stele lasciate dagli antichi iraniani fra Caucaso e Mongolia: in tal caso la sospensione dei gambali o degli stivali sarebbe un uso dei popoli delle steppe asiatiche, da cui

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discesero anche i Parti. Già in epoca achemenide i gambali accompagnavano i pantaloni degli Aracosiani e dei loro vicini. Nel II sec. d.C. i gambali paiono essere stati abbandonati a Palmira: i cavalieri probabilmente si accontentarono di usare semplici pantaloni. L’uso tuttavia non cessò nel bacino del Mediterraneo, ad esempio dall’Egitto provengono alcuni gambali che si fissavano alla cintura tramite un nastro, risalenti al V sec., anche se tale uso può essere stato diffuso dai mercanti e viaggiatori bizantini, che erano soliti portare questo indumento. Per quanto concerne la tunica orientale, a Palmira essa si distingue per le lunghe maniche attillate; nei rilievi si nota facilmente perché le pieghe della manica sono ad anello, mentre nelle persone vestite alla greca gli indumenti cadono con pieghe molli e verticali. Le prime testimonianze scolpite che possediamo delle tuniche palmirene le rappresentano prive di galloni; il rilievo di età tiberiana posto su di un pilastro del tempio di Bel, in cui i personaggi appaiono abbigliati in maniera alternata alla greca e alla partica, mostrano tuniche indossate sopra i pantaloni, ancora molto semplici e senza alcuna decorazione. Due figure di cavalieri scolpite probabilmente ancora nel I sec. d.C. mostrano tuniche pieghettate, ma ugualmente prive di decorazioni, mentre nel II sec. abbondano i ricami e gli ornamenti e la tunica stessa diventa più lunga. Nella prima metà del II sec., la tunica partica è una semplice camicia, tagliata come un abito aderente e diritto, che forma una specie di grembiule arrotondato davanti e dietro, ottenuto sia dal taglio della stoffa sia tramite un rimbocco delle cuciture laterali. Si tratta di una foggia che rispecchia esattamente quella diffusa fra i Sasanidi, come mostrano i rilievi di Taq - i-Bustan e i piatti in argento che rappresentano questi sovrani, nonché alcuni esempi dell’arte del Gandhara e gli affreschi del Turkestan cinese. E’ molto probabile che si tratti di un abito di origine partica, diffusosi poi anche fra i Sasanidi e gli abitanti di Palmira. Questa tunica è portata con una cintura, indossata piuttosto in basso e che tende a formare un rimborso nella stoffa, mentre dei galloni ne decorano la scollatura, i polsini e il bordo inferiore. A volte un gallone può scendere dalla scollatura fin sotto la cintura, anche se si tratta di un caso piuttosto raro e nato forse per influenza di mode successive. A metà del II sec., comincia a diffondersi un nuovo modello di tunica, indossato con i pantaloni ma senza i gambali. Questa tunica scende sotto la vita ed è tagliata lateralmente, in modo da formare un gonnellino, con il bordo inferiore a volte diritto a volte terminante in due punte laterali (ciò è comune a Palmira soprattutto nel III sec. d.C. e nei monumenti sasanidi più tardi). La cintura è stretta in vita e le passamanerie sono più larghe; quasi sempre un gallone scende dalla scollatura sino al lembo inferiore (come appare ad esempio in una statua scoperta ad Ain – Arous). Questo modo di vestire si ritrova sia a Dura sia all’inizio dell’epoca sasanide, e testimonia la ripresa di una moda partica diffusa durante il regno degli ultimi Achemenidi, come mostra il sarcofago di Alessandro. A volte la presenza di un piccolo nastro che pende sulla spalla sinistra suggerisce che esso permettesse di riunire i due lembi di stoffa che, aperti, consentivano di indossare la tunica. Un altro elemento, raro a Palmira ma piuttosto comune negli affreschi della sinagoga di Dura, è più difficilmente spiegabile: si tratta di uno sprone triangolare posto sopra il pettorale sinistro, nell’angolo formato dalla scollatura e dal gallone mediano. Potrebbe essere un risvolto che si formava nel tagliare la scollatura, ma curiosamente si trova solo da un lato ed è spesso accompagnato dal nastro di chiusura sopra descritto. Nel secolo successivo la ricchezza dei ricami diventa ancora maggiore, come ben si evince sia dai rilievi con scene di banchetto da Palmira sia negli affreschi di Dura. Spesso i galloni scendono dalle spalle sino ai bordi inferiori della tunica; a Dura frequentemente compaiono ricami con motivi a girale. Sembra tuttavia che gli elementi del costume orientale e di quello occidentale si mescolino, perché le maniche lunghe sono spesso rimpiazzate da corte maniche fluttuanti, che ricordano quelle della tunica drappeggiata. Le passamanerie abbondano, come tipico nel mondo partico ed evidente anche dai rilievi della Commagene e dalle monete degli Arsacidi: ad esempio, sugli abiti di Orode I e Fraate IV compaiono galloni ornati da motivi come l’aquila, la folgore alata, il grifone, la stella, la Vittoria oppure torciglioni e girali. Benché si tratti di vesti orientali, questi motivi ornamentali sono di origine greca. A Palmira, le decorazioni delle passamanerie sono di due tipi: le più numerose hanno origine occidentale (treccia, onda, rami di quercia e alloro, acanto, motivi floreali), cui si accompagna l’uso più orientale delle file di perle e di pietre. Le file di perle compaiono già sui primi monumenti palmireni, ma con l’inizio del II sec. si diffondono passamanerie che riproducono tali filze di pietre tagliate sfaccettate, a cabochon o in forma circolare (fig.38). La statua di Ain – Arous indossa pantaloni e una tunica con galloni disseminati di piccole perle (forse provenienti dal Golfo Persico) e che caratterizzavano anche gli abiti dei re persiani.

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Le file di perle e di pietre a cabochon sono molto diffuse nell’arte palmirena e trovano un diretto parallelo

anche in un affresco di Kyzil, dove ornano i bordi di un tappeto.

Fig. 38. Dettaglio di scollatura, Museo di Palmira, 150 d.C. (immagine mancante nell’edizione on line).

Alcuni frammenti di stoffe trovate nella tomba di Elahbel e pubblicate da Pfister, sembrano dimostrare che queste passamanerie erano tessute. Altri frammenti di tela attestano l’uso di motivi a banda e a pendenti terminanti a foglia d’edera, che non ricorrono mai nelle testimonianze scultoree, se si escludono due rilievi inediti con scena di banchetto trovati in una tomba della necropoli sud-orientale (c.d. Tomba dell’Aviazione) e risalenti al III sec. Si tratta di tuniche a manica lunga, senza galloni né cintura, ornate da file di triangoli che si interrompono a qualche centimetro dagli spacchi laterali, dove incontrano un motivo rettangolare da cui si dipartono tre piccole frecce terminanti a triangolo. Un simile ornamento ricade da ciascuna spalla sino all’altezza del seno. Anche i polsini sono ricamati con motivi triangolari e a due bande unite, il che suggerisce che fossero tessuti con il colore porpora. Questo tipo di tunica era indossata con pantaloni privi di galloni. Fra i tessuti raccolti all’interno della tomba di Elahbel vi sono i frammenti di una tunica con motivi tessuti ad arazzo, che formano un medaglione con due pendenti su ciascuna spalla, di cui non si hanno attestazioni nella scultura palmirena, ma che ricorrono in mosaici (ad esempio il mosaico funerario di Trebius Justus

lungo la Via Latina) e monete. Un altro esempio, anche se poco chiaro, proviene da un rilievo di Dura, e da un graffito scoperto nella stessa città, in cui un militare porta dei medaglioni simili, anche se non sulle spalle bensì all’altezza delle ginocchia. Nonostante queste due testimonianze, Seyrig è incline a ritenere l’uso della tunica a Palmira piuttosto tardo, che tuttavia testimonia il persistere di un abitato anche dopo il sacco della città, considerando anche che i motivi decorativi ricordano quelli delle tuniche egiziane diffuse nel IV sec. d.C. Alcuni rilievi attestano anche l’uso (anche se sembra più raro), di una casacca indossata sopra la tunica: essa compare ad esempio su di un piccolo bassorilievo conservato presso il Museo di Palmira (la cui fotografia non è stata resa disponibile nell’edizione on line, fig.39).

Fig. 39 Stele del figlio di Apollonio, Museo di Palmira, 100-150 d.C. (immagine mancante nell’edizione on line).

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Vi compare il figlio di Apollonios, che reca in mano degli attributi molto mutili e indossa una tunica di cui si

intravede la scollatura, una casacca incrociata a sinistra che scende sino alle ginocchia e larghi gambali. In alcuni monumenti di III sec. (rilievi della tomba di Maqqai, un rilievo della tomba di Anilai e Zebida, un

frammento di personaggio in piedi conservato al Deposito delle Antichità di Palmira, oltre ad alcune figure affrescate nella sinagoga di Dura) questa casacca sembra essere stata riservata ai personaggi più importanti; essa è lunga quanto la tunica, ornata di un gallone, dotata di spacchi laterali, e non è incrociata sul davanti ma portata aperta (figg. 40-41). Anche il rilievo romano di Aglibol e Malakbel mostra la seconda divinità che indossa questa casacca aperta. Si tratta molto probabilmente di un abito di origini iraniane, giacché sembra ricordare la candys dei Medi,

diffusa anche in Commagene. Anche i Parti e poi i Sasanidi utilizzavano una casacca incrociata e fermata da una cintura, che formava un gonnellino con spacchi laterali, decorati da motivi tessuti o ricamati che imitano le file di perle o pietre; sono vesti che ricorrono anche nel Turkestan cinese e presso alcuni nomadi dell’Asia centrale raffigurati nell’arte del Gandhara. Tuttavia, già nei rilievi funerari achemenidi ricorrono sei popoli vestiti di lunghe casacche chiuse sul davanti e strette da una cintura: i Sogdiani, i Corasmi, gli Amirgeni, i Saci dal berretto a punta, i Saci europei e gli Skudra traci, il che suggerisce che tale indumento fosse diffuso nelle steppe del nord, dalla Russia ai confini con il Tibet e attestato anche fra gli Sciti (ad esempio nel vaso di Tchertomlitsk). Si tratterebbe dunque di un abito di origine eurasiatica, passato dalle steppe settentrionali alla Persia e alla Siria.

Fig. 40. Frammento con personaggio con veste aperta, Museo di Palmira, 15—200 d.C.

Il mantello usato dai Palmireni era un semplice pezzo di stoffa rettangolare o quadrato, a volte decorato con frange, nastri o nappe, spesso fissato alle spalle tramite fibule, usate sia dagli uomini (appuntata sulla spalla destra) sia dalle donne (portata sulla spalla sinistra). Un rilievo inedito, scoperto da Amy all’interno della tomba 173 b, posta a nord del tempio funerario e risalente al 260, mostra un mantello con motivo decorativo a forma di H, che è indossato anche da Conone nell’affresco di Dura o da diversi personaggi dipinti nella sinagoga della medesima città.

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Fig. 41.Costume palmireno, Museo di Palmira, 150-200 d.C. (immagine mancante nell’edizione on line).

I Palmireni calzavano stivali morbidi, senza suola, dove si potevano infilare anche i pantaloni, chiusi tramite un nastro e una fibbia (fig.42). Sono calzati dalla statua di Ain – Arous e dai re della Commagene e sono spesso riccamente ricamati; si tratta probabilmente delle calzature ricamate d’oro che gli storici greci attribuiscono ai Persiani e che erano portate anche da alcuni dei Seleucidi, anche se probabilmente si tratta di stivali portati solo all’interno delle abitazioni.

Fig. 42. Doppio calzare, Musée du Louvre (immagine mancante nell’edizione on line).

All’esterno si aggiungeva una soprascarpa bassa, dotata di suola e legata al collo del piede, che compare anche sui rilievi della Commagene, decorata da un gallone o da lunghi nastri, e attestata anche fra i re Sasanidi (fig.43).

Fig. 43. Coppa di Cosroe I, San Pietroburgo, Hermitage (immagine non presente nell’edizione on line).

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I Palmireni sono di solito raffigurati senza alcun copricapo, salvo il berretto cilindrico dei sacerdoti, diffuso anch’esso in Persia ma anche fra i sacerdoti fenici; in alcuni casi compare anche un berretto conico, ornato di perle, derivato probabilmente dall’alta tiara utilizzata in Persia ma anche in Commagene, dai re sciti e dai Sasanidi, e che, negli affreschi di Dura, è indossata dagli archegetes del Mitreo e dai personaggi regali che

compaiono negli affreschi della sinagoga. Un’altra versione sembra essere stata diffusa a Palmira nel III sec., e compare ad esempio nel ritratto di Erodiano figlio di Odenato, dove però è corredata da una sorta di cresta; è molto simile alle tiare indossate dai re dell’Osroene nelle monete di Edessa o da alcuni degli Arsacidi. All’abito partico si associa l’uso di portare armi, giacché i Palmireni abbigliati alla greca non le indossano mai; si tratta probabilmente di un più ampio costume iraniano, che riguardava ogni ceto sociale, perché ad esempio anche negli affreschi di Kyzil i pittori sono raffigurati con una spada al fianco mentre dipingono. La spada diffusa a Palmira, portata sempre a sinistra, è lunga circa 88 cm, con lama (62 cm) a doppio taglio e nervatura centrale, dotata di guardia diritta e impugnatura cilindrica (25 cm), che a volte si allarga per formare un pomolo, in alcuni casi cesellato; si tratta di un’arma molto simile a quella diffusa in ambito partico. Il fodero era liscio, non sappiamo se con puntale; a circa un terzo della sua lunghezza vi era una doppia incisione o un passante che consentiva di inserirvi un balteo, che era portato non a tracolla secondo l’uso romano ma sospeso alla vita, secondo il costume iranico. Il balteo è portato molto allentato, e non si comprende se fosse fissato alla tunica sul lato opposto alla spada; gli unici monumenti in cui esso appare rappresentato in tutta la sua lunghezza (una statua di principe Kushana ritrovata a Mathura e quella di Shapur I a Bishapur) non permettono di avere conferme a riguardo. La spada era probabilmente fissata su di un lato, come pare di comprendere da alcuni rilievi, poiché ad esempio, nel caso dei servitori, avrebbe impedito di svolgere i loro compiti agevolmente. Si tratta di una spada, in ogni caso, dall’impugnatura piuttosto alta, tipica dei popoli iraniani e che comunemente si ritiene dovesse essere impugnata a due mani. Seyrig ritiene invece che essa fosse impugnata, sia nei combattimenti a piedi sia in quelli a cavallo, con una sola mano: poiché le spade con una lama lunga sono difficili da maneggiare, spesso i guerrieri devono impugnarle passando l’indice sopra la guardia (come si evince da alcuni piatti sasanidi e da un affresco del Turkestan cinese), poiché il centro di gravità dell’arma cade nella lama. Il pericolo di far scivolare la spada tuttavia scompare se si avvicina la mano al centro di gravità tramite queste lunghe e pesanti impugnature. Si tratta di una spada non diffusa fra gli Achemenidi, ma fra gli Sciti e i Parti, come è tipica del mondo iranico l’abitudine di appendere il balteo al fodero della spada; si tratta tuttavia di costumi che furono adottati anche durante la Tetrarchia e l’età bizantina. L’uso iraniano prevede anche un pugnale, portato di piatto sulla coscia destra, ma in alcuni casi ve ne può essere un secondo anche a sinistra; sembra che i pugnali fossero agganciati o cuciti in fondo alla tunica. Il loro fodero è smussato, con quattro lobi laterali e a volte ornati da motivi geometrici o una fila di perle. La guardia, posta fra i due lobi superiori, sembra diritta, anche se un affresco della “Tomba dei tre fratelli” mostra un pugnale con la guardia dalla forma particolare. L’impugnatura è spesso decorata da scanalature elicoidali e termina con un anello. Sono molto simili ai pugnali dei re della Commagene, anche se spesso la decorazione di questi ultimi è molto più ricca; si tratta però in entrambi i casi di varianti locali delle armi diffuse fra tutti i popoli iranici, dal Bosforo al Turkestan, caratterizzate da fodero lobato. Questi lobi derivano probabilmente dagli occhielli che a volte erano praticati nel fodero: quelli che si trovavano alla sua imboccatura consentivano il passaggio di un anello di sospensione, mentre quelli presso la punta permettevano di inserire un laccio che impediva al pugnale di muoversi o un anello supplementare, come si evince da alcuni affreschi del Turkestan. L’origine di questo pugnale è partica, come mostra una stele di Assur, mentre il pomolo ad anello appare più simile alle armi degli Unni e degli Sciti, che a loro volta sono strettamente imparentate con i pugnali cinesi di epoca Han. L’uso di portare due pugnali è sempre di origine partica e persiste nel VII sec. d.C. fra i cavalieri tocari, oltre ad essere attestato in Siria settentrionale nell’abbigliamento delle divinità dolichene, per giungere forse sino agli antichi Arabi. Questi abiti rispecchiano la descrizione che Strabone fa dei capi parti, che indossavano, secondo lo storico greco, tre pantaloni, vale a dire le anassiridi, i gambali e forse una sorta di perizoma, oltre alla tunica e alla casacca aperta; le doppie scarpe erano invece gli stivali e le soprascarpe.

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Sembra quindi che gli abiti palmireni siano una fedele testimonianza di quello che era anche l’abbigliamento diffuso nel mondo partico negli ultimi due secoli della loro monarchia.

21. Sur quelques sculptures palmyréniennes. 1. Busto arcaico di Zabdibol. Un busto di origine ignota e conservato al Museo di Damasco raffigura Zabdibol figlio di Zagoug e nipote di Zabdibùl; la genealogia del personaggio è scritta al di sopra della spalla sinistra (fig.44).

Il busto può essere datato alla fine del I- inizio II sec. d.C., secondo i criteri stabiliti da Ingholt. Si tratta di uno dei più antichi busti di Palmira e mostra diverse influenze occidentali: secondo Seyrig esse non si rivelano tanto nell’idea che si tratti di un ritratto realistico, quanto nell’abito, che è greco, e nel fatto che si tratta di un busto, forma estranea all’arte orientale. Pur ignorando l’origine precisa dell’uso dei Palmireni di porre un busto a chiusura dei loculi, sembra che una tradizione simile fosse comune in Batanea, e che in ogni caso si siano voluti imitare i busti greco-romani a tutto tondo; inoltre l’idea stessa dell’alto rilievo è sconosciuta in Oriente prima dell’influenza greca. In questo busto tuttavia vi sono anche numerosi influssi orientali: la rappresentazione è strettamente frontale e le masse sono semplicemente squadrate, senza cercare di realizzare una costruzione organica. I tratti del volto sono come applicati sulla testa, il busto è una placca arrotondata e il panneggio è realizzato in maniera maldestra e incoerente. Le orecchie, rappresentate frontalmente, sono un chiaro indizio di come l’idea dell’altorilievo fosse estranea allo scultore, che segue ancora le convenzioni tipiche invece del bassorilievo. Gli occhi sono innaturalmente grandi, anche se contribuiscono a dare vita alla scultura. Per i Palmireni, la scultura non fu mai un’arte fine a se stessa, ma un’espressione che ha la propria ragione d’essere poiché arte decorativa, legata alla necessità pratica di chiudere i loculi e quindi strettamente legata all’architettura. Questo busto è, nel complesso, ancora poco toccato dalle influenze occidentali, e mostra uno spirito ancora prettamente analitico, che vuole esprimere più l’interiorità che l’esteriorità del soggetto, e caratterizzato da una stretta frontalità.

Fig. 44. Busto di Zabdibol, Museo di Damasco, 100 d.C.

2. Le statue di Kasr el abiad. Ingholt scoprì nel 1928, nella Valle delle Tombe, due sculture mutile poste fra le rovine di un mausoleo chiamato dagli Arabi Kasr el abiad, il “castello bianco”. Non si sa a quale delle due appartenessero i piedi

ritrovati nello stesso luogo; i dorsi sono appena sbozzati e dovevano perciò essere rivolti verso la parete. Si tratta di due figure vestite con abito partico, riccamente decorato, composto da anassiridi, gambali sciancrati nella parte anteriore e alti posteriormente, tunica corta e mantello, oltre ad un pugnale con fodero lobato portato su ciascuna coscia. Sono ancora parzialmente visibili, sotto il pettorale sinistro, i resti di una brocca e una scatola d’incenso, sorretti con la mano sinistra: probabilmente vi era un altare accanto agli offerenti e a una delle statue doveva appartenere anche il copricapo trovato in frammenti nella tomba stessa. Secondo Ingholt, il tipo di abito portato da questi personaggi scomparve a Palmira verso il 150 d.C., così come la convenzione di rappresentare le pieghe a U; un parallelo è offerto da un busto conservato a Copenhagen, che raffigura Malko, figlio di Lishams e nipote di Hannabel, datato con certezza al 146 d.C.

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Questi torsi, benché a tutto tondo, seguono le stesse convenzioni che si sono viste applicate nel busto di Zabdibol; secondo Seyrig, in realtà non si tratterebbe di un vero tutto tondo, giacché si voleva

semplicemente conferire maggior plasticità al rilievo. I due sacerdoti sono raffigurati perfettamente diritti, e persino le pieghe dell’abito sono simmetricamente disposte lungo l’asse del busto o della gamba. Si tratta di sculture che appaiono più familiari e più “vive” all’occhio occidentale, anche se caratterizzate ancora da quello stile arcaico che aveva prodotto il busto di Zabdibol.

3. La rappresentazione frontale. La rappresentazione frontale precede la vista di profilo nei bambini e nei primitivi. Nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente, pittura e rilievo hanno un carattere essenzialmente narrativo, e abbandonano presto la rappresentazione unicamente frontale, che impedisce di creare scene complesse. A Palmira (e successivamente nell’arte bizantina), al contrario, la rappresentazione frontale delle figure è pressoché costante, nel tentativo di stabilire un legame fra spettatore e personaggi rappresentati. Ciò è evidente osservando ad esempio i rilievi del tempio di Bel: l’artista sembra interessato alla resa di ciascun personaggio in sé e al modo di renderlo più evidente, piuttosto che al filo narrativo; non è mai perso di vista il valore decorativo che l’opera d’arte offre. Alla rappresentazione frontale, si aggiunge la mancanza di una scultura a tutto tondo: ad esempio, nei santuari rurali della Palmirene scavati da Schlumberger, tutti gli elementi decorativi sono dei rilievi applicati sul fondo della cella; è possibile che nei templi cittadini così non fosse, ma molto probabilmente le statue di culto a tutto tondo, verosimilmente in bronzo, erano importate. Le statue in pietra, prodotte localmente, sono rarissime, e gli esemplari del Kasr el abiad, che sono più propriamente dei rilievi, confermano questa

situazione. La visione frontale è di solito considerata un’influenza partica, anche se spesso i sovrani arsacidi compaiono di profilo; tuttavia, alcune monete con l’immagine frontale di questi re, coniate fra il 100 e il 50 a.C., sembrano indicare che quello fosse il gusto in origine prevalente. E’ possibile che gli incisori abbiano ceduto a una tradizione popolare più antica e non si può escludere che l’introduzione della visione frontale nell’India del II sec. a.C. sia dovuto proprio all’influsso partico. Rostovtzeff ritiene che i Sarmati e i Parti abbiano ereditato questa preferenza per la visione frontale dai loro comuni antenati, i nomadi dell’Asia centrale, anche se Seyrig pensa che le testimonianze giunte sino a noi siano troppo esigue per confermare tale ipotesi. Oltre ai documenti parti e sarmati, vi sono ancora da studiare e classificare quelli del mondo tracio e micro-asiatico. In un rilievo raffigurante il dio Heron in veste di cavaliere, posto il 28 settembre del 67 a.C., in onore di Tolomeo XIII, si vede che tendenze analoghe si stavano diffondendo anche in Egitto: il busto e il viso sono frontali, e così pure la testa del cavallo, come avveniva anche a Palmira nella raffigurazione dei cavalieri. Rodenwaldt ha osservato che il gusto per la visione frontale si diffonde anche a Roma all’epoca di Marco Aurelio, nell’arte ufficiale, senza che vi fosse alcun influsso orientale. La diffusione della visione frontale, secondo Seyrig, è legata al declinare dello spirito greco e alla sua concezione “drammatica” dell’arte, e all’esigenza di esprimere i rapporti di causalità della narrazione. 4. Rilievi del triclinium di Maqqai. Un frammento di rilievo conservato nel Museo di Baalbek ma proveniente da Palmira e donato da Michel Alouf (che aveva acquistato a sua volta da un collezionista di Aleppo), mostra una scena di banchetto: un servitore porta una corona nella mano sinistra abbassata, mentre nella destra, spezzata, reggeva un’altra corona; il secondo paggio tiene nella sinistra un rhyton a forma di gazzella (fig.45).

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Fig .45. Rilievo dal triclinium di Maqqai, Museo di Baalbek(immagine non presente nell’edizione on line).

Secondo Seyrig esso integra quanto rimane del triclinium scolpito nell’ipogeo di Maqqai, datato al 229 d.C.,

dove appunto si scorge una corona, che doveva essere tenuta dal secondo paggio con la mano destra. Questo triclinium, pubblicato da Ingholt, è stato in seguito integrato anche da alcuni frammenti raccolti da

Amy all’interno dell’ipogeo. Sono ancora visibili il letto centrale e quello di destra, occupati da Maqqai e da uno dei suoi parenti; del letto

di sinistra rimane solamente la figura che vi era sdraiata sopra, simile al personaggio disteso su quello di destra. Il frammento di Baalbek integrava la parte destra del rilievo, poiché la gamba portante di ciascuna figura deve essere la più vicina all’asse della scena, per cui il letto centrale era a sinistra dei due paggi. E’ possibile che la figura di crioforo acquistata da Sarre ad Aleppo dallo stesso collezionista, non facesse parte della medesima scena, poiché non sembra esservi spazio sulla facciata del letto per una figura la cui gamba portante è la destra; forse ornava uno dei lati brevi del triclinium. In questi rilievi, l’influenza occidentale è notevole: rispetto alle sculture del Kasr el abiad, i paggi si distaccano

dal fondo, e in confronto alle serie di figure identiche dei rilievi del tempio di Bel, lo scultore ha cercato di conferire varietà ai vari gruppi di servitori, variandone leggermente gli atteggiamenti e i dettagli. Le pieghe appaiono più realistiche e legate ai corpi che il tessuto ricopre, i volti sono privi di arcaismi, e la rappresentazione è meno strettamente frontale. La portata di queste novità non va esagerata, giacché continua a essere impiegato il semplice allineamento di figure isolate, e nella scena di partenza per la caccia il padrone si distingue dai servi solo per alcuni dettagli dell’abito; inoltre la rappresentazione frontale è ancora prevalente, nonostante alcuni casi in cui è impiegata la visione di tre quarti. Seyrig nota come, nonostante le influenze occidentali, i principi di base, tecnici ma anche psicologici della scultura palmirena, non siano sostanzialmente cambiati, tanto che i confronti più stringenti con i rilievi di Maqqai sono offerti dalla scultura del Gandhara e dagli affreschi del Turkestan

cinese e del Seistan. 5. “L’attelage déployé” Un rilevo scoperto da Schlumberger in un piccolo tempio rustico a Kirbet Aboudouhour, a nord- ovest di Palmira, raffigura un dio vestito di corazza su di una biga trainata da ghepardi. Il carro è visto frontalmente, e le ruote, poste sullo stesso piano del loro assale, appaiono come sfere complete allo spettatore, mentre i ghepardi, messi di profilo, si danno la schiena in posizione araldica. Le loro teste non sono più visibili, ma è possibile che, come nella tradizione palmirena, fossero rappresentate frontalmente. Si tratta di un motivo ampiamente diffuso in epoca tardo-antica, come emerge dagli studi di Herzfeld: ad esempio, in un sigillo sasanide di III sec., la Luna guida un carro fiancheggiato da due buoi che si impennano; altri sigilli più tardi, la coppa di Klimova (manca l’illustrazione nell’edizione on line) e diverse

stoffe bizantine che imitano motivi persiani mostrano la grande diffusione di questo tema in ambiente iranico e più in generale in Oriente.

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Fig. 46. Coppa di Klimova, San Pietroburgo, Hermitage (immagine non presente nell’edizione on line).

Per quanto concerne l’Occidente, vi sono ugualmente diversi esempi che attestano la diffusione dell’ “attelage déployé” dell’iconografia (il che non indica necessariamente un’origine iraniana di essi, che spesso sono più antichi delle testimonianze orientali) in monete romane coniate sotto Settimio Severo (un esemplare di Madeba in Transgiordania), Probo, Gordiano III, nella monetazione di Tralles; in particolar modo, l’esemplare di Settimio Severo sembra indicare che si tratti di una tipologia di rappresentazione anteriore ai Sasanidi. Nel mondo greco, si tratta di un arcaismo, i cui primi esempi risalgono al IV sec. a.C., come ad esempio un anello da Panticapea e un cratere a figure rosse: cinque secoli li separano dalla moneta di Madeba e ciò rende pressoché impossibile un rapporto di filiazione diretta. Questo tipo di rappresentazione dell’attacco degli animali ai carri sembra essere un caso particolare di rappresentazione analitica; i vari elementi sono dissociati per essere visti nella forma più tipica, senza riferimento alla loro posizione naturalistica. Benché ciò ci possa apparire a volte oscuro, non era così per i popoli antichi che la adottavano, tanto che Platone la considera l’unica rappresentazione veritiera della realtà. Anche in un rilievo egiziano raffigurante un asino con il basto carico, l’autore ha ritenuto necessario, per la comprensione della scena, scolpire anche la parte che normalmente sarebbe nascosta alla vista, così come avviene per le teste dei ghepardi e le ruote del carro di Kirbet, ed anche nella rappresentazione delle orecchie del busto di Zabdibol. Si tratta quindi della semplice messa in pratica dei principi dell’arte indigena siriana,

che a sua volta pare averli tratti dal mondo partico. Secondo Seyrig, il carattere simbolico e la disposizione simmetrica degli animali pare avere la stessa origine, come mostrano ad esempio alcune monete sasanidi con immagini di servitori disposti simmetricamente ai lati di un altare o la rappresentazione frontale del sovrano, diffusa negli affreschi, nelle oreficerie e nei tessuti. Il soggetto è un simbolo astratto, simile alle figure geometriche dei sigilli persiani. Una moneta coniata nel 220 d.C. a Cibyra di Frigia rappresenta una divinità femminile della Pisidia seduta su di una sorta di seggio con ruote; Imhoof -Blumer ha ritenuto che i leoni che fiancheggiavano la divinità ne trainassero il seggio, così come nel tessuto bizantino di Munsterbilsen, dove è rappresentata la quadriga del Sole. Una rappresentazione delle ruote del carro eseguita in modo simile a quello di Kirbet si ritrova anche in una scatola d’avorio egiziana di epoca bizantina e in un contorniato: una delle ruote è stata rappresentata davanti al carro. I monumenti con questo particolare tipo di attacco sembrano costituire una classe a parte, con origine comune, che si differenziano però da altre rappresentazioni dove semplicemente l’artista ha omesso le ruote. Questo tema compare nell’arte greca arcaica, insieme con la rappresentazione frontale dell’attacco e con i cavalli visti di scorcio, ma scompare in epoca classica, per poi tornare, in Oriente, sotto l’impero romano. Una moneta coniata ad Alessandria sotto Domiziano, mostra un arco di trionfo sormontato da una quadriga con “attelage déployé”: non si tratta di una rappresentazione dovuta all’esiguità dello spazio disponibile, giacché in altri casi gli incisori hanno dimostrato di saper benissimo realizzare figure di cavalli di scorcio in uno spazio molto piccolo. Anche sotto gli imperatori successivi, l’ “attelage déployé”la stessa iconografia compare spesso nelle raffigurazioni monetali: Lucio Vero e Marco Aurelio compaiono in una moneta di Alessandria su di una quadriga con “attelage déployé”, e così è trasportata la pietra nera di Emesa in una moneta coniata a Gerusalemme sotto Elagabalo. Nelle monete della zecca di Roma questo tipo di rappresentazione si afferma timidamente dal regno di Filippo l’Arabo, per poi diventare molto comune sotto Aureliano e Probo.

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Un altro tipo di “attelage déployé”si trova sui monumenti dell’India e del Gandhara; il più antico esempio è costituito dalla balaustra di Bodh Gaya, che Herzfeld attribuisce al tempio di Asoka, e il cui prototipo egli ritiene essere un motivo greco, legato all’Ellenismo pre - alessandrino o all’arte greco- battriana. Tuttavia, l’”attelage déployé”è tipico dell’arte greca arcaica e una sua diffusione in India in quest’epoca è molto problematica. Il rilievo si data alla seconda metà del I sec. a.C., e la moneta di Madeba mostra che si tratta di un motivo diffuso già prima dell’epoca sasanide; se non è un’acquisizione autonoma dell’arte indiana, potrebbe essere un prestito derivato dall’arte partica. 6. Il carro a una sola ruota. Alcuni affreschi, scoperti da Pelliot a Tuen Huang, rappresentano alcune divinità su carri, che però sono raffigurati con una sola ruota, e con i cavalli che li trainano ridotti a sole protomi. Lo scorcio dei cavalli è un motivo diffuso nell’arte iranica, e sasanide in particolare; quest’unica ruota è stata vista da Le Coq come un’interpretazione cinese dell’arte occidentale, tuttavia si tratta di un motivo che richiama convenzioni note, come mostra una gemma greco - egiziana del III-IV d.C. o un frammento di stoffa bizantina ritrovata in Egitto e posseduta dal Museo di Berlino; si tratta probabilmente ancora una volta di un’influenza persiana, che esclude un’invenzione autonoma cinese. Inoltre, secondo un mito indo-europeo, il Sole viaggia su di un carro dotato di una sola ruota; esso è riportato nel Rig Veda e nell’inno a Mitra della Zend Avesta, si parla di questa divinità che viaggia su di un carro con una sola ruota. Si può quindi pensare, sia per gli esempio orientali sia per quelli occidentali, che si tratti di una influenza iranica.

Appendice Si descrivono qui i tre rilievi con immagini di cavalieri citate in precedenza da Seyrig. Il primo rilievo, largo 73 cm e alto 70, è stato trovato da Amy all’interno del santuario di Bel nel 1932, davanti al contrafforte arabo posto contro il muro nord del peristilio. Esso rappresenta un cavaliere, che indossa il consueto abito partico (gambali decorati da una fila di perle, una casacca pieghettata e senza spacchi, stretta da una cintura e un mantello), ma è raffigurato di profilo, fatto estremamente raro a Palmira. Le spesse pieghe dell’abito sembrano essere dovute a una imbottitura del tessuto, che potrebbe fungere da leggera corazza, ma il fatto che anche le pieghe del mantello siano simili suggerisce che si tratti semplicemente di una stilizzazione. Una protezione di questo tipo sarebbe stata inutile contro le frecce dei nemici da cui i cavalieri palmireni dovevano difendersi. La sella è piccola, con arcione poco pronunciato, di stoffa o cuoio imbottito, trapunto con motivi a losanga ed è assicurata all’animale tramite un pettorale e un’imbraca, mentre intorno al collo passa un largo collare. Si tratta di una bardatura che ricorda molto quella portata dal cavallo montato dal guerriero che combatte con l’anguipede in uno dei rilievi del tempio di Bel, oppure dei graffiti di Dura e delle cavalcature degli ausiliari romani, benché le decorazioni, che imitano di perle, siano tipicamente iraniane e ricordino le immagini di alcuni cavalli di Ctesifonte. Non è facile datare il rilievo, ma la stilizzazione e la visione di profilo inducono Seyrig a pensare al I sec. d.C. Un secondo rilievo (alto 45 cm e largo 37), di provenienza ignota e realizzato in calcare molto tenero, raffigura un arciere a cavallo, il cui arco, posto in un grande custodia, è fissato alla sella. Lo stile è molto simile a quello del rilievo precedente, così come la bardatura del cavallo; qui si aggiunge un elemento che discende obliquamente dalla falera fissata al pettorale. Del terzo rilievo (altezza 43 cm e larghezza 27), sempre di provenienza ignota e raffigurante un altro cavaliere, era stata pubblicata solo l’iscrizione “Taimarsu, figlio di Zabdibol, arciere”. Si tratta di una stele

funeraria, scolpita grossolanamente nel calcare; nonostante sia mutila, si intravede la custodia dell’arco dietro la gamba del cavaliere. Qui due elementi discendono dalla falera fissata al pettorale, e uno si raccorda alla cinghia, l’altra al morso.

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26. SEYRIG 1937 B

H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 18 fascicolo 2, 1937, pagg. 198-209.

22. Iconographie de Malakbel. Nonostante la documentazione più numerosa fra gli dei di Palmira si riferisca a Malakbel ed egli sia di solito considerato una divinità solare, la sua natura è meno chiara di quel che si potrebbe ritenere. Il nome di Malakbel è oggetto di controversie: alcuni lo traducono come “Bel è re”, ma questa interpretazione presenta diversi problemi intrinseci e soprattutto a Palmira non vi sono nomi divini di questo tipo. Altri vi vedono l’epiteto di “messaggero di Bel” oppure un calco del nome fenicio Milkbaal; fino a quando non sarà fatta chiarezza sul significato di questo nome, l’analisi dei monumenti figurati rimane l’unico modo per conoscere, per quanto in maniera imperfetta, la natura di questa divinità318. Il più noto monumento che lo riguarda è l’altare con dedica bilingue conservato ai Musei Capitolini dove l’iscrizione latina identifica Malakbel con il Sole, e se su tre lati sono state effettivamente scolpite divinità solari, sul quarto compare un bambino nascente da un cipresso avvolto da una benda. Queste immagini sono piuttosto ambigue, poiché su tre lati vi sono divinità solari, mentre sul quarto compare un dio della vegetazione. Questa fusione di aspetti diversi può essere spiegata solo in seguito ad un’azione sincretica e grazie ad alcuni monumenti palmireni è possibile far luce sulla natura di Malakbel. Essi sono analizzati tenendo conto dell’unione di Malakbel con il dio anonimo (accompagnato anche da Aglibol), con Gad Taimi e con il solo Aglibol.

1. A Palmira, Malakbel occupa una posizione secondaria nella triade formata con il “dio senza nome” (probabilmente un aspetto di Baalshamin) e Aglibol, divinità lunare e paredro principale del dio anonimo.

Aglibol e Malakbel, in questo caso, sono abbigliati con corazza, mantello, e nimbo radiato intorno al capo; ciò corrobora quindi l’idea di Malakbel come divinità solare, come suggeriscono i rilievi dell’altare dei Musei Capitolini e due iscrizioni, entrambe non provenienti da Palmira, in cui Malakbel è assimilato al Sole319.

2. Diverse tessere e un’iscrizione associano Malakbel a Gad Taimi, dea raffigurata con corona turrita ma poco nota. Qui Malakbel è vestito con anassiridi e tunica molto corta, senza nimbo, con spada nella mano sinistra e una sorta di falcetto nella destra: in questo caso, il dio non ha alcun attributo solare, ma su di una tessera in cui sono nominati sia Malakbel sia Gad Taimi, appare un albero, con chioma rotonda ben distinta da quella del cipresso (di solito l’albero legato a questo dio), ma che permette di stabilire un legame fra Malakbel e la vegetazione.320

3. La serie più cospicua di monumenti associa solo Aglibol e Malakbel, ma la precedenza è sempre accordata alla prima divinità. Aglibol è raffigurato, come di consueto, con corazza, mantello e nimbo radiato, mentre Malakbel porta anassiridi, una tunica di foggia variabile e non ha nessun nimbo intorno alla testa; in un caso è armato di falcetto. In tre rilievi (uno proveniente dal tempio di Bel, uno da un santuario di campagna della Palmirene e il terzo da Roma, di cui manca l’immagine on line, fig. 47) i due dei sono raffigurati nell’atto di stringersi le mani; si tratta probabilmente di un’iconografia derivata dalle statue di culto del santuario cittadino delle due divinità. In un altro rilievo del tempio di Bel, il santuario appare composto da un cortile, un tempio, due altari e un albero sacro.

318 Seyrig ipotizza che si possa trattare della fusione fra il nome del dio Malka e quello di Bel, ritenuta grammaticalmente possibile da Ingholt e Cantineau. 319

DESSAU, ILS, 4338; CIL 3, suppl. 1, 7956. 320 Si tratta di un’arma caldea, diffusasi sia in Siria sia in Egitto durante il Medio Regno. Era considerata un attributo di molte divinità fenice ancora in epoca greco-romana. E’possibile che questo falcetto abbia facilitato l’assimilazione di molte divinità siriane con Kronos, e questo deve essere avvenuto anche nella raffigurazione di Saturno sull’altare dei Musei Capitolini.

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Fig. 47. Stele del Museo del Campidoglio (immagine mancante nell’edizione on line).

Sappiamo inoltre dalle fonti letterarie che essi erano venerati da un tiaso, che possedevano un giardino, un bagno, e forse una fabbrica di ceramiche, dove erano probabilmente prodotte le numerose lucerne con iscrizioni in palmireno che ricordano i loro nomi. Sembra quindi che in realtà a Palmira vi fossero due tradizioni iconografiche distinte: nella prima, Malakbel compare come dio solare vestito con l’abito miliare greco-romano in unione con il “dio senza nome”e Aglibol; nella seconda, originatasi dal culto di Aglibol e Malakbel (e di quest’ultimo in unione con Gad Taimi), egli è vestito alla partica e armato di falcetto, senza alcun attributo solare ma messo in relazione con l’albero sacro. Le apparenti contraddizioni dell’altare romano sembrano quindi non essere presenti nella tradizione palmirena. Malakbel è associato al dio anonimo su tre monumenti, che risalgono al III sec. d.C., così come due delle tre iscrizioni dove è identificato con il Sole. L’idea di Malakbel come dio della vegetazione, invece, sembra svilupparsi dal I sec. sino al III; é possibile che egli sia nato come dio della vegetazione, e che solo in seguito, all’epoca dei sincretismi solari, sia stato identificato con il Sole, anch’egli divinità che muore e risorge. Anche la triade che egli forma con Aglibol e il “dio anonimo”è probabilmente tarda; forse i Palmireni, durante il III o già il II sec. d.C., vedevano in Malakbel un dio solare, benché privo di attributi di questo tipo, probabilmente influenzati da una tradizione più antica, dove non c’era questa sovrapposizione dei due aspetti. Un altare, già noto a Waddinton e Vogué (che però non hanno lasciato descrizioni del bassorilievo che lo orna e non hanno inserito riproduzioni) e dedicato a Helios-Shamash, potrebbe, secondo Seyrig, essere lo stesso studiato da Cantineau e conservato presso il Deposito delle antichità di Palmira. L’altare è fortemente mutilo, e così l’iscrizione in greco e palmireno: tuttavia, Cantineau è riuscito a leggere il nome di Malakbel nella parte in palmireno. Queste lettere sono scolpite nella modanatura superiore della cornice che orna il davanti dell’altare e indica il personaggio sopra la cui testa esse sono incise. Si deve trattare dunque di Malakbel, raffigurato insieme con un altro personaggio, il dedicante, intento a bruciare l’incenso dell’offerta; entrambi portano i larghi gambali, in uso a Palmira in epoca anteriore al II sec. d.C. Malakbel non ha attributi solari e quindi non è assimilato a Shamash: è la sua immagine a essere dedicata a quest’ultimo dio, ma l’unione di essa con la dedica può indicare i primi passi verso l’ assimilazione. Escludendo il più tardivo sincretismo, il culto di Malakbel appare come quello di un dio della vegetazione, che rinasceva ogni anno fra i rami di un cipresso sacro; è un mito che ha paralleli in quelli di Attis, Adone e Osiride, e Cumont, nel suo studio sull’altare dei Musei Capitolini, l’ha messo in relazione con l’abbattimento rituale di un cipresso nel bosco di Dafne321. Il cipresso sembra essere stato oggetto di venerazione in molte città siriane e compare spesso sulle monete di Damasco e di Arado (dove appare anche su di un rilievo di Betocece); tre cipressi ornano una sorta di trono di bronzo rinvenuto presso Sidone e, in un ex voto di piombo scoperto nel canale di Ain Djoudi vicino a

321CUMONT 1928 (Appendice nr.3), pag. 106 ss.

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Baalbek e conservato al Museo di Berlino, sono associati un cipresso e un cavallo (manca la fotografia nell’edizione on line, fig. 48). Benché lo studio di tali reperti non sia ancora completo, emerge l’importanza

del culto del cipresso in Siria, nonché i legami fra la religione palmirena e i culti della Siria occidentale.

Fig. 48. Piombo da Baalbek, Museo di Berlino (immagine mancante nell’edizione on line).

Malakbel in origine sarebbe stato il protettore delle coltivazioni dell’oasi di Palmira, ma non bisogna dimenticare neppure il capretto che compare con il fanciullo nell’altare dei Musei Capitolini e la cui immagine in un rilievo del tempio di Bel orna uno degli altari del santuario: tutto ciò sembra indicare che Malakbel proteggesse anche i pastori. Alcuni documenti, anche se non del tutto chiari, sembrano d’altra parte attestare l’importanza del capretto nella religione siriana: una statua di giovane dio con capretto e ramoscello, proveniente da Yamouné vicino a Baalbek, un’iscrizione di Delo che vieta di sacrificare capre a Houroun di Iamneia, e una moneta di Sidone dove una divinità sorregge un dio bambino con una mano e con l’altra tocca una capra. Tuttavia, la grande popolarità di Malakbel, attestata dalle dediche di ausiliari palmireni di stanza in Numidia, in Dacia, in Mauretania, non deriva certo da un culto di tipo agricolo. Sull’altare dei Musei Capitolini, sono raffigurati i tre aspetti del corso solare: il sole sul carro, il sole nel cielo simboleggiato dall’aquila e il sole al tramonto, incarnato da Saturno, considerato il sole notturno; il quarto lato rappresenta la nascita del dio da un cipresso. Può darsi che qui la nascita sia concepita in realtà come rinascita: la crescita, l’apogeo, il declino e la rinascita del dio, assimilata al sorgere e tramontare del sole. Questo spiegherebbe non solo il legame fra le quattro immagini, ma anche la grande devozione verso questo dio degli ausiliari palmireni, in un’epoca in cui i culti che offrivano una sorte migliore nell’aldilà erano popolarissimi fra i militari.

APPENDICE In appendice sono pubblicate alcune tessere relative a Malakbel, con foto e disegni.

1) Tessera rettangolare, sul lato A, due globuli con l’iscrizione Bel e i figli di Bonne. Sul lato B, l’iscrizione Malakbel e Gad Tami.

2) Tessera rettangolare, sul lato A, un astro a quattro punte con l’iscrizione Malakbel e Gad Tami. Sul lato

B, albero con chioma tondeggiante e quattro globi negli angoli.

2 bis) Tessera pentagonale, con in alto il busto di Malkbel e in basso l’iscrizione Malakbel e Gad Tami sul

lato A; sul lato B vi è un busto di Gad Tami fra due globi, all’interno di un’edicola con frontone. All’interno di quest’ultimo vi è un astro a otto punte fiancheggiato due globuli.

3) Tessera a forma di squadra, con Malakbel in piedi, a testa nuda e con capelli ricci sul lato A, vestito con pantaloni, tunica corta, mano sinistra sulla spada e falcetto nella sinistra; iscrizione Malakbel e Gad Tami. Sul lato B, fiore a nove petali e iscrizione Yarhai, figlio di Borrepha.

4) Tessera quadrata, con iscrizione Malakbel e Gad Tami sul lato A, sul lato B bucranio, punto dentro

cerchio e montone a sinistra. Il montone e il bucranio sono una probabile allusione al consumo delle carni durante i banchetti sacri cui le tessere davano accesso.

5) Tessera rettangolare ad angoli concavi, con iscrizione Malakbel e Gad Tami sul lato A e sul lato B i figli di Rabbel. Alla fine della riga 1, il simbolo palmireno e una stella, al termine della riga 2, segno a

forma di Z latina.

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6) Tessera rettangolare, con busto panneggiato di Malakbel fiancheggiato da due cerchi e due globuli, e iscrizione Malakbel e Gad Tami sul lato A, sul lato B immagine di Gad Taimi con corona turrita, orecchini globulari e insegne con crescenti lunari, al di sotto iscrizione Bolhazi, mentre una seconda

riga è illeggibile. Tali insegne compaiono spesso accanto alle figure di divinità, ad esempio accanto ad una dea con orecchini sferici simili a quelli di Gad Taimi, raffigurata in un rilievo di Khirbet Ramadan. 6. bis) Tessera ovale. Sul lato A, Malakbel, in basso motivi a cerchio e a chevrons. Sul lato B, iscrizione “i figli di Taimi”, con un punto a ciascuna estremità. Sembra confermare l’ipotesi di Dussaud che a Malakbel e Gad Taimi fossero particolarmente devoti i Bene Taimi.

7) Tessera pentagonale. Sul lato A, Malakbel in piedi, con il falcetto, appare come nella tessera n°3; a destra, forse, un pyrée. Sul lato B, busto di Gad Taimi, con corona turrita e due anelli ai lati. Inedita. 8) Tessera triangolare, con l’iscrizione Malakbel e Allat e i figli di Benuri sul lato A, sul lato B iscrizione Belnur, Moqimo, Hairan, Male. Inedita.

9)Tessera rettangolare; sul lato A l’altare di Malakbel e Aglibol presso un cipresso sacro, con al di sopra un bue accosciato e sormontato da un crescente lunare. Sul lato B Allath in veste di Atena, con elmo, lunga tunica, lancia nella mano destra e un lembo del mantello che ricade sul braccio sinistro. Su ciascun lato, un pyrée in metallo acceso.

10)Tessera rettangolare, sul lato A Malakbel stante, con falcetto in mano, come nella tessera n°3, con iscrizione Malakbel e Aglibol; sul lato B bovino accosciato con crescente lunare. Inedita.

11) Tessera rettangolare, con fiore entro doppio cerchio e iscrizione Malakbel e Aglibol sul lato A, sul lato B Harus Hairan entro doppia cornice rettangolare. Inedita.

12) Tessera ellittica, sul lato A Aglibol e Malakbel con una palma e sette cerchi, sul lato B Oummai e un ramo con foglie.

13) Tessera circolare, sul lato A Aglibol e Malakbel 12°giorno (probabile allusione al giorno del

banchetto o della festa), sul lato B grappolo d’uva. 14) Tessera circolare, su entrambi i lati, Malakbel, Toro (si allude probabilmente alla vittima sacrificale). 15) Tessera rettangolare, sul lato A Aglibol Malakbel, sul lato B crescente lunare, caratteri illeggibili, in

basso a destra maschera cornuta e barbuta e a sinistra oggetto non identificabile. Inedita.

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27. SCHLUMBERGER 1937 D. SCHLUMBERGER, Réflexions sur la loi fiscale de Palmyre, in Syria, tomo 18, fascicolo 3, 1937, pagg. 271-297.

La legge fiscale di Palmira è divisa in due sezioni: una breve introduzione e una parte principale. L’introduzione è un decreto datato al 18 di Nisan 137, in cui il Senato di Palmira promulga un testo destinato a completare una precedente legge fiscale ritenuta insufficiente, in cui saranno codificati quei diritti che fino ad allora non erano ancora stati messi per iscritto ma che erano ritenuti parte del costume (fig. 49).

Fig. 49. Il principe Lazarev davanti alla Tariffa (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 85).

Nella parte principale, i commentatori individuano tre grandi suddivisioni: la prima parte, A, è ritenuta, dalla maggior parte degli studiosi, la “nuova legge”, con le modifiche ordinate dai decreti dal Senato. Tuttavia, Chabot, seguendo Rostovtzeff, vi vede la legge più antica. Al contrario, la seconda parte, B, che è costituita da due parti fortemente distinte, è considerata da Février la legge più antica, mentre Chabot la considera come la nuova legge. La terza parte, C, è descritta da Chabot come un commento o spiegazione relativa ad alcuni articoli già menzionati precedentemente e ad altri che non lo sono stati. Secondo Schlumberger è necessario considerare quattro problemi:

I. La parte principale corrisponde al decreto? II. Quale delle sezioni A e B rappresenta la legge antica e quale quella nuova? III. La sezione B è unitaria? IV. Che cos’è la sezione C?

I- La relation de la partie principale au décret.

Comunque si consideri la legge antica e la sua nuova codificazione, così come il commento, si deve riconoscere che il contenuto della parte principale non corrisponde al decreto. Questo prevede l’elencazione dei diritti percepiti secondo l’uso comune e l’iscrizione di tale lista su di una stele accanto all’antica legge; non dovrebbero esserci beni menzionati due volte, ma ve ne sono: da una parte, ad alcune merci sono applicate delle tasse nella sezione A, e ricompaiono, però con tassazioni differenti nella parte B o C, mentre ve ne sono altre che compaiono con la stessa tassa nelle sezioni A e C.

a) Beni menzionati due volte con tasse diverse: 1) la lana porpora, la cui tassazione, calcolata per vello, in entrata e a in uscita, è di otto assi nella

sezione A e di quattro denari nella sezione B. 2) Le derrate secche, calcolate per carico di cammello in entrata e uscita, sono tassate con tre denari

(due denari più un denario di tassa sull’animale), in entrata e uscita, nella sezione A e con quattro nella sezione B; la tassa è in A la metà rispetto a B.

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3) Il frumento, il vino e la paglia: la differenza fra le due tassazioni non emerge a prima vista. La tassa è fissata nella sezione A ad un denario per viaggio (vale a dire per ogni entrata ed uscita), così come nella sezione C; in quest’ultima, tuttavia, si aggiunge una tassa sull’animale da trasporto, che era al contrario compresa nel denario della sezione A. Février suppone che il denario richiesto in quest’ultima sezione corrisponda alla tassazione sugli animali da trasporto, mentre quello richiesto nella parte C rappresenta la tassa per il bene trasportato, cui si aggiungeva quella sull’animale. In altre parole, la tassa di un denario prevista da C non è menzionata in A.

b) Beni menzionati due volte, con la stessa tassazione: si tratta di schiavi, prostitute, cammelli senza carico, pelli, viveri.

Non si può dunque negare l’esistenza di un disaccordo fra l’introduzione, che non fa presumere la presenza della doppia menzione di alcuni beni, e la parte principale, che al contrario la offre.

I- Loi ancienne et nouvelle codification. Il testo palmireno della parte principale occupa tutto un pannello dei quattro che compongono la stele. E’ suddiviso in tre colonne, sopra le quali vi è inciso in caratteri più grandi Lex vectigalis portus Hadrianae Palmyrae et fontium aquarum [Ae]lii Caesaris. Alla tredicesima riga della seconda colonna, ma senza alcun intervallo o grafia particolare, si legge il titolo che introduce la sezione B: [Lex vectiga]lis Palmyrae et fontium aquarum et salis qui est in civitate, secundum st[ipulationem] quae stipulata est coram Marino praeside. Ciò dimostra che non si tratta di un documento composto da due leggi fiscali successive ognuna con titolo particolare. La posizione del primo titolo sopra l’intero testo impedisce di pensare che si riferisca a una sola delle due parti. Si hanno dunque un titolo generale, le 61 righe del testo A senza un titolo particolare, una legge specifica B, esplicitamente designata come tale da un titolo particolare. Si tratta dell’unica argomentazione valida contro chi considera la sezione B la nuova legge, perché per fare ciò bisognerebbe ammettere che il titolo generale è in realtà quello della sezione A (in questo caso la vecchia legge), e che è stato inciso per errore sopra l’intero testo. E’ più semplice ammettere che B sia la legge antica e ciò si può dedurre da tre elementi: Palmira è chiamata Hadriana Tadmor nel titolo generale, Tadmor nel titolo della sezione B; ciò si spiega, in un testo ufficiale datato al 137 d.C., solo se la sezione B è anteriore al momento in cui Palmira fu chiamata Hadriana.

La sezione A si riferisce due volte al diritto consuetudinario: in un caso questo è esplicitamente menzionato, nell’altro è citato l’uso stabilito da un certo Cilix; non è impensabile che la legge antica sia stata fissata sulla

base del diritto consuetudinario. E’ più semplice ammettere che i diritti consuetudinari qui fissati siano quelli di cui il decreto prevedeva la codifica: la sezione A sembra ancora la più recente. Poiché alcune merci figurano con tasse differenti, nella sezione A e in quelle B e C, è necessario che una delle menzioni di ciascuno di questi beni non sia più valida. La soluzione meno assurda è di ammettere che i diritti decaduti siano quelli menzionati nella sezione B e C, e che la sezione A indichi un gruppo omogeneo di diritti in vigore. Se al contrario B costituisse la nuova legge, vi sarebbero nella parte A alcuni beni le cui tasse sarebbero decadute, e gli utilizzatori del testo non avrebbero trovato le tasse in vigore che cinquanta righe più in basso, rendendo, il codice inutilizzabile nella pratica. Così B dovrebbe essere la legge antica ma A non può essere definita la nuova legge. L’ espressione “legge nuova”, per quanto utilizzata da tutti i commentatori, è scorretta e infatti non compare mai nel testo, che si limita a menzionare esplicitamente la “legge antica”, che è modificata in alcuni punti, ma di cui la maggior parte degli articoli rimane in vigore, altrimenti il Senato non ne avrebbe disposto il mantenimento. Dal 137, essa divenne la vecchia legge, con un supplemento, cui si aggiunse anche un altro documento, la parte C. Il nuovo codice aveva ripreso due articoli del vecchio per abbassarne i diritti, ma non è il solo prestito che deriva dal primo documento. Alla riga successiva a questi due articoli, nella legge antica si legge in effetti item, exiget publicanus omne genus ut supra scriptum est; si può dedurre che in questo punto la vecchia legge

contenesse una serie di disposizioni che sono riprodotte nella parte A, ma senza cambiamenti. Non si può dunque, nella nuova codificazione, distinguere fra gli articoli sino ad allora consuetudinari, che avrebbero dovuto costituirla da soli, e quelli derivati dalla vecchia legge.

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III. - Les subdivisions de la section B.

La sezione B presenta due parti: Ba (palmireno e greco) e Bb (greco), di cui la seconda è monolingue e si distingue in ciò dalla prima, così come dal resto dell’iscrizione. Queste parti differiscono per la loro stessa natura: la prima ha l’aspetto di una tariffa, come la sezione A, eccezion fatta per l’ultimo articolo, che riguarda il sale; la brevità di questa tariffa non deve sorprendere, perché il rinvio di cui si è parlato si è sostituito a una parte degli articoli; invece il testo monolingue Bb non ha più il carattere di una tariffa. Si può dubitare a priori, se Chabot abbia ragione a far dipendere tutta la sezione B dal titolo che la precede; l’opinione dello studioso si basa su di una sola argomentazione: si dovrebbe riconoscere nella menzione delle fonti, alle righe 139-141 del greco, il regolamento delle sorgenti annunciato dal titolo. Quanto appena detto dimostra che non si tratta di un solido argomento. Per quanto riguarda il passo relativo alle acque, l’ipotesi secondo cui Bb e Ba formano due documenti distinti, è la più verosimile. Le menzioni dell’acqua sono, nell’iscrizione, quattro

nel titolo generale della legge (Palm. riga 1)

greco 1.88 (nuova codifica)

Palm. 1,63-1,65 (titolo della legge antica, il greco è perduto)

greco (1. 139-140) Ispirandosi al titolo generale e con l’aiuto di una fotografia, Schlumberger propone la lettura Dal Corpus, la lacuna non ammetterebbe più

di otto lettere, ma dalla fotografia, lo spazio è maggiore rispetto a quello che occupano le otto lettere conservate all’inizio della riga. Si potrebbe pensare ad almeno undici lettere e il passaggio fornirebbe la menzione, al dativo, del collettore delle imposte del distretto fiscale di Palmira e delle sorgenti di Cesare. Questa menzione introduce indubbiamente le disposizioni concernente le sorgenti, poiché, come ha ipotizzato anche Chabot, è probabilmente a esse che riferiscono, alla riga 141, le parole

Ammettendo questa ricostruzione, si può osservare la similitudine fra i passaggi 1 e 4, che menzionano il

distretto fiscale (di Palmira, e le sorgenti di Elio Cesare, così come i passaggi 2 e 3 dove sono menzionate fonti anonime. Uno di questi due passaggi, dove compaiono le fonti anonime, è antico (titolo della legge antica), mentre l’altro può esserlo poiché si trova nella sezione A, e, come già detto, non si può, il più delle volte, distinguere in questa sezione gli articoli che fissano il diritto consuetudinario da quelle che si riferiscono all’antica legge. D’altra parte, dei due paragrafi relativi alla fonte di Cesare, il primo è recente (titolo generale) e il secondo può esserlo, poiché il sottogruppo Bb, di cui fa parte, può essere distinto dalla legge antica. Da ciò si deduce che l’esistenza stessa delle fonti potrebbe essere recente; secondo Chabot le due fonti si identificherebbero con quelle di Cesare, ma questa opinione non è condivisibile. Le prime, di cui il passaggio 2 ci informa che si trovano all’interno della città, non possono essere che le due sorgenti d’acqua dolce ancor oggi utilizzate a Palmira, mentre le”acque di Cesare” potrebbero essere invece l’acquedotto cittadino, come ha suggerito Dittenberger322.

I soli passi in cui è menzionata la sono gli stessi in cui sono ricordate le sorgenti di Cesare, ed essa stessa potrebbe essere di origine recente; ciò ci fa ipotizzare che successivamente alla redazione della vecchia legge, i diversi diritti che il suo titolo enumerava separatamente, i vectigalia, i diritti sulle acque e quelli sul

sale, fossero raggruppati sotto la denominazione dei redditi derivanti della Non si può più giudicare

quale fu la portata di tale provvedimento, e se bisogna vedere nell’istituzione della una vera riforma, o solo un cambiamento di termini, l’introduzione di una denominazione semplificata. L’ipotesi dell’Autore, tuttavia, spiega perché le sorgenti e il sale, che comparivano nell’antico titolo, non sono

più citate nel titolo generale dei redditi della cui in seguito si aggiunsero i ricavi provenienti dalle acque dette di Cesare. In questa prospettiva, la sezione B sembra essere una creazione arbitraria dei commentatori, mentre Ba e Bb costituiscono due documenti distinti e probabilmente redatti in periodi differenti. Schlumberger ritiene che Ba sia la vecchia legge, o meglio ciò che di essa ci è rimasto.

322 DITTENBERGER, OGIS, II, pag. 333, nota 92.

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IV– La section C (grec l.150-fin; palm. l. 74-fin). La sezione C è molto diversa dalle parti A e Ba: queste ultime si definiscono agevolmente, giacché si tratta di tariffe; al contrario, la sezione C manca completamente di unità. Anche la sezione C contiene degli articoli, non numerosi, per cui sono fissati dei dazi:

a) Schiavi b) Viveri c) Cammelli con carico o meno d) Prostitute e) Sale f) Pelle

Questi articoli non fissano, tuttavia, solo le tassazioni applicate; per esempio l’articolo sui viveri va, nel testo greco, fino alla riga 191 e nel palmireno sino alla riga 113: dopo aver indicato l’ammontare della tassa, si precisa che i viveri provenienti o destinati ai villaggi non sono soggetti a essa. Anche per quanto riguarda il sale, si stabilisce dove esso dovrà essere venduto ed equipara il sale prodotto a Palmira con quello importato: tuttavia questi articoli hanno in comune il riferimento alla “legge” e nello stesso tempo riproducono le disposizioni delle sezioni A e Ba, a volte omettendone alcune, a volte aggiungendo indicazioni ulteriori, ma senza contraddire le precedenti. Questo è chiaro per i passaggi dei viveri e delle prostitute, che si limitano a ripetere le stipulazioni precedenti; lo stesso vale per i cammelli, perché il passaggio corrispondente nella sezione A è la fusione della tassa sull’animale e quella delle merci trasportate; l’identità del passaggio sulle pelli è molto probabile, sebbene un passo sia mutilo. Le disposizioni essenziali relative alla sezione A sul sale e tutte le disposizioni della sezione Ba sugli schiavi si ritrovano nella sezione C. Schlumberger propone di interpretare così i passi relativi al sale: 1° Sezione BA: palmireno righe 69-70: un asse sarà percepito come prezzo di vendita per staio di sedici sestarii, e il sale di cui i privati avranno bisogno per il loro utilizzo sarà fornito a questo tasso. Palmireno righe 72-73: chi possiede del sale a Palmira o nel territorio della città, lo consegnerà al pubblicano contro il pagamento di un asse per ogni staio. Palmireno riga 71: chi non consegnerà il sale pagherà per ciascuno staio non consegnato una multa di due sesterzi. L’Autore pone la riga 71 dopo la 72 in conformità alla disposizione del testo greco, in cui è evidente che le righe da 116 a 118 corrispondono alla riga 72 del testo palmireno e dalla righe 119-120 del greco alla riga 71 in palmireno. 2° Sezione C. Palmireno righe 130-132: il sale sarà venduto in un luogo pubblico. Palmireno righe 134-136: il reddito del sale che è prodotto a Palmira sarà, come in provincia, raccolto al tasso di un asse e sarà venduto al pubblicano, secondo la consuetudine. Schlumberger si discosta dall’interpretazione di Chabot per quanto riguarda le ultime due righe, anche a livello di traduzione, poiché con la resa vectigal salis come “l’imposta del sale”, quest’ultimo ha sottolineato un rapporto di dipendenza dove il secondo termine è subordinato al primo; Ingholt, analizzando la versione palmirena, mette in dubbio tale rapporto. Ciò che rende improbabile la costruzione vectigal salis è l’impossibilità di ottenere in questo modo un senso compiuto. La traduzione latina fa di vectigal salis il soggetto di entrambi i verbi, ma se è possibile vectigal salis … exigatur, vectigal salis… veneat non ha senso

compiuto. Al contrario, se s’intende la produzione delle saline, il reddito che proviene dal sale, si ha un soggetto che regge sia “ sarà raccolto”sia “sarà venduto”. Alla riga 135 l’Autore ha ricostruito tre lettere (pubblicano), dove Chabot ne aveva invece viste quattro (mercanti) o cinque (Palmireni); queste tre lettere sono quelle che occupano più spazio, ma anche Vogué aveva letto una min dove Chabot aveva invece restituito una taw. L’interpretazione di Schlumberger mostra come vi fosse un monopolio del sale a Palmira, poiché si dice che esso sarà venduto ai privati secondo il loro bisogno, vale a dire per l’uso personale e non per rivenderlo. Come gli altri redditi cittadini, questo monopolio era periodicamente messo in aggiudicazione. L’appalto era assunto da un ricevitore che s’impegnava a vendere il sale in un luogo pubblico e a un prezzo fissato. L’esistenza di saline nel territorio palmireno creava dei problemi: i produttori palmireni erano obbligati, sotto pena di una multa, a vendere il loro sale al pubblicano, che lo pagava un asse per staio, prezzo al quale poi lo rivendeva; l’ammenda avrebbe invece evitato che essi vendessero clandestinamente il sale a un prezzo inferiore. L’appaltatore non ricavava così alcun guadagno dal sale palmireno, ma gli restava quello derivante dal sale importato.

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Le sezioni Ba e C contengono quindi la clausola contrattuale sul sale: le righe 69-70 corrispondono alle righe 133-134. Le linee 72-73 alle 134-136; inoltre, la sezione Ba contiene le disposizioni che riguardano la multa, la sezione C precisa dove avverrà la vendita. Per quanto riguarda gli schiavi: 1°SEZIONE A:

a) Palmireno righe 2-3: importazione di uno schiavo, 22 denari. b) Palmireno, riga 4: vendita di uno schiavo a Palmira, non seguito da esportazione, 12 denari. c) Palmireno, riga 5: vendita di uno schiavo veterano, alle medesime condizioni: 1[0] denari. d) Palmireno riga 6: esportazione da parte dell’acquirente di uno schiavo o uno schiavo veterano, 12

denari. 2° SEZIONE C:

a) Palmireno, righe 80-81: importazione o esportazione di schiavi, 22 denari. b) Palmireno, riga 82: acquisto di uno schiavo a Palmira, non seguito da esportazione, 12 denari. c) Palmireno, riga 83: vendita di uno schiavo veterano, 1[0]denari. d) Palmireno, riga 85: esportazione (da parte dell’acquirente?), 12 denari.

Nonostante l’incompletezza del secondo passaggio, vi sono tutte le clausole del primo; alla riga 81 si aggiunge che i 22 denari erano riscossi anche in seguito all’esportazione, mentre alla riga 84 e seguenti vi sono altre precisazioni, non conservate. Il resto della sezione C non fissa le tasse, ma definisce: 1° se alcune merci sono soggette o meno all’imposta, 2°la categoria fiscale cui appartengono alcune merci, 3° le modalità di riscossione. 1° La lana italica (greco righe 174-176= palmireno righe 96-97), le carcasse di animali (greco riga 186=palmireno riga 108), i viveri provenienti dai villaggi e dall’interno delle frontiere di Palmira (greco riga 189-191=palmireno riga 112-113), le pelli di cammello (palmireno righe 122-123) non sono tassate. Le erbe (le verdure? Palmireno righe 122-123) e le greggi che vengono a pascolare a Palmira (greco righe 233-235=palmireno riga 149) pagano la tassa. 2°Le pigne sono assimilate alle merci secche (greco righe 191-193= palmireno 114-117), le statue di bronzo al bronzo. 3°Le imposte sui macellai (greco righe 181-185 = palmireno riga 102-107) saranno percepite in denari italici, sotto al denaro, in piccole monete locali. Fra gli articoli enumerati nella sezione C, ve ne sono tre che non compaiono nelle sezioni A e B, cioè le tasse ricavate dai macellai, dalle erbe e dai bronzi, anche se non è fissata alcuna tariffa. Ci si può domandare se la mancanza di questi elementi dipenda dal fatto che erano oggetto di una tassazione variabile. Dessau ritiene che all’inizio le tassazioni fossero calcolate ad valorem, ma in seguito, per i beni il cui valore era più stabile, fu fissata una stima definitiva e si sarebbe redatta la prima tariffa, quella contenuta nella sezione Ba. Le merci che non comparivano dovevano ancora ricevere una tassazione fissa, ma probabilmente questi beni furono influenzati dalla tendenza che avevano i diritti variabili a divenire fissi e la stima fu rimpiazzata nella pratica da una tariffazione verbale, vale a dire l’uso consuetudinario, che si trasformò, nell’iscrizione, in una tariffazione scritta. Con Dessau, Schlumberger ritiene questa spiegazione come la più semplice: nel 137 i commercianti di abiti (greco riga 86-87=palmireno 57) erano soggetti a una tassazione variabile, e benché non sia indicato esplicitamente che la tassa sarà stabilita ad valorem, è probabile pensare che il senso sia questo. Tale

disposizione potrebbe essere spiegata con la variabilità del valore dei vestiti, e ciò potrebbe applicarsi anche ai macellai, alla erbe e ai bronzi. In conclusione, quasi tutti gli articoli del testo si appoggiano a qualche fonte o autorità:

a) Sulla legge: otto riferimenti (palmireno riga 87, greco riga 187, greco righe 193-196= palmireno riga 120, palmireno riga 125, palmireno riga 134= greco riga 215, greco ria 178=palmireno riga 99, greco riga 180= palmireno riga 101, greco riga 232=palmireno riga 149).

b) Sul costume: due passaggi (greco riga 185= palmireno riga 107; palmireno riga 136). c) Su disposizioni in vigore nella provincia di Siria, poiché l’espressione “come è nelle altre città”

dovrebbe trattarsi delle altre città siriane; alla riga 135 si potrebbe tradurre “come nella provincia”. d) Su lettere di personaggi importanti del secolo precedente: Germanico (greco 182-183=palmireno

righe 103-104), Corbulone (greco righe 196-197= palmireno 124).

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e) Sull’accordo delle parti presenti: greco riga 174-175=palmireno riga 96, palmireno riga 144, greco riga 233=palmireno righe 148-149.

La tassazione delle erbe (palmireno righe 123-124) è giustificata dal riferimento implicito al principio che ciò che è oggetto di vendita è soggetto a tassazione. I soli oggetti per cui questi riferimenti mancano sono le carcasse di animali (greco righe 185-186= palmireno riga 108), pelli di cammello (palmireno righe 122-123), bronzi (palmireno righe 128-131). 2° In tre passaggi il redattore del testo usa la prima persona. La sezione C fa parte della legge, come indica la sua posizione sotto il titolo generale, ma i numerosi passaggi in cui si fa riferimento alla legge mostrano che cominciò a esserne distinta. Verosimilmente essa è esistita a fianco dell’antica legge sino al momento in cui è stata inclusa nella legge presente. L’Autore ritiene di vedervi il contratto grazie a cui le rendite della città di Palmira erano date in appalto, il che consente di dar conto di alcune particolarità del testo. Due menzioni del contratto d’appalto sono presenti nell’iscrizione, la prima si trova nel decreto, la seconda nel titolo dell’antica legge. Il decreto (greco, introduzione riga 9 – palmireno, introduzione riga 9) indica che la lista dei diritti consuetudinari da fissarsi per iscritto deve essere inserita nel contratto, il cui rinnovo, che sta per essere fatto, richiede il consenso dell’offerente; si aggiunge che questa lista deve essere incisa con la legge antica. Benché non si dica esplicitamente che anche il contratto sarà inciso sulla stele, si può immaginare che anch’esso sarà incluso, giacché la lista, inclusa nel contratto, dovrà essere incisa. Si può obiettare che la sezione C non contiene la lista, ma in realtà le prescrizioni del Senato non sono state seguite alla lettera. Al posto della lista dei diritti consuetudinari prevista, si è fatto un elenco dove tali diritti sono mescolati a quelli dell’antica legge, cosicché al posto di un documento che ne include un altro si hanno due documenti distinti. Il titolo dell’antica legge ci informa che uno dei precedenti contratti era stato stipulato in presenza di un personaggio di nome Marinus, la cui carica è indicata in palmireno con la trascrizione letterale del greco

di solito identificato con il governatore della provincia. Se la sezione C è il contratto, le frasi iniziali devo riferirsi non solo ai Palmireni e ai pubblicani, vale a dire alle parti che stipulano il contratto, ma anche al governatore, davanti al quale quest’ultimo era chiuso. La prima riga (greco 154- palmireno 74) contiene il

nome di un personaggio romano, di cui resta però solo il praenomen, Gaius, seguito dal calco di in

aramaiconel testo greco, questo titolo si trova alla fine della riga 150 e all’inizio della 151, dove Dittemberg

ha ricostruito cui seguono i nomi delle parti. Chabot traduce alla riga 75 del testo palmireno inter palmyrenos et…, e Ingholt traduce la congiunzione aramaica che corrisponde al latino et. Quest’ultimo studioso ritiene inoltre che la parola resa alla riga 76 con vectigalia possa essere tradotta anche con publicani, o, se si dubita della presenza di uno iod, publicanus. Lo iod è stato letto da Chabot, ma potrebbe essere la parte superiore dell’aleph di publicanus; Schlumberger legge, nella fotografia pubblicata da Vogué, come ultima consonante della parola che precede, non la taw vista da Chabot ma una samek, che potrebbe costituire la finale di un nome proprio, quello del pubblicano. Fra la qaf letta da Chabot e la samek proposta dall’Autore al posto della taw finale, Ingholt legge una min e osserva che qaf, min, samek formano la parte finale del nome di Alcimus, che si legge due righe dopo e che è appunto il nome del pubblicano, poiché è preceduto dal verbo conduxit.

Si può quindi dedurre che il governatore avesse un doppio ruolo: 1) al momento della conclusione del contratto, in una riunione in cui si incontravano, sotto la sua presidenza, l’appaltatore e i rappresentanti della città di Palmira, si discuteva delle condizioni del contratto e del modo in cui il publicanus avrebbe esercitato la sua attività. La decisione spettava al governatore, come indicano i tre

passaggi in prima persona, che riproducono le parole da lui pronunciate, mentre negli altri casi sono trascritte in forma impersonale; la decisione è quasi sempre motivata, adducendo la sua conformità alla legge, agli usi di Palmira o della provincia. Essa sanciva l’accordo fra i Palmireni e il pubblicano e si riferiva a principi da tutti riconosciuti: il governatore fissava le condizioni di applicazione della legge, dove aver mediato fra le due parti. 2) una volta entrato in vigore il contratto, ci si rivolgeva al governatore per risolvere le contestazioni che potevano sorgere dalla sua applicazione; è possibile che le lettere di Germanico e Corbulone a Statilio e Barbaro rispondessero a domande poste da questi ultimi, e relativi a liti in cui erano parti o giudici ma resta da scoprire quale fosse l’esatto ruolo di Statilio e Barbaro, che il più delle volte sono stati considerati procuratores. Schlumberger non ritiene tale opinione sufficientemente fondata: Chabot ipotizza che si possa

trattare del capo di una dogana, ma non vi è motivo di pensare a posti di dogana, poiché i beni che

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provenivano o andavano verso i villaggi della Palmirene non erano tassati, e probabilmente i diritti doganali erano esatti a Palmira. Se fossero stati riscossi alle frontiere, una simile indicazione risulterebbe superflua: difficilmente un governatore avrebbe scritto a un doganiere capo, giacché tali personaggi, se fossero esistiti, non avrebbero potuto essere che gli agenti del pubblicano. Schlumberger, sulla scorta di Cagnat, ritiene che Statilio e Barbaro fossero o dei publicani o in quanto, alle righe

127-130 del testo greco si dice che le liti fra i cittadini e gli appaltatori erano portate davanti al

Secondo la prima ipotesi, condivisa da Schlumberger, sarebbe stato questo magistrato a trasmettere le varie richieste al governatore, il quale gli avrebbe comunicato la propria decisione. Esaminando tuttavia anche l’ipotesi che fa di Statilio e Barbaro due pubblicani, si deve osservare che

l’iscrizione menziona solo una volta il nel passo Bb, che secondo l’Autore risale alla fine del regno di Adriano; non si sa quindi se tale magistratura esistesse già all’epoca di Germanico e Corbulone. Nel decreto (greco righe 12-13, palmireno righe 10-11), i magistrati appaiono come i garanti dei diritti dei cittadini contro eventuali irregolarità da parte del pubblicano, il quale, a sua volta, doveva rivolgersi al governatore romano per la propria tutela e, in tal caso, le lettere di Germanico e Corbulone andrebbero interpretate come risposte alle richieste del pubblicano. Il contratto era redatto dal governatore, la legge dal Senato di Palmira: ciò prova che i due documenti in origine erano distinti, e, prima del 137, non avevano neppure un legame molto stretto, poiché la legge legava anche il pubblicano e questo è specificato nel contratto, nell’introduzione in greco alla riga 6 e alla stessa linea in quella palmirena; si può anche dedurre da un passaggio mutilo del contratto che la legge vi era allegata, giacché i due documenti erano chiusi con il medesimo sigillo. In questo modo, si può spiegare, nel titolo della vecchia legge, il riferimento al contratto concluso davanti a Marinus; esso indica che il testo è

tratto dalla legge che era allegata al contratto. Ritornando alla sezione Bb, Schlumberger, seguendo la lezione di Vogué, si è limitato a osservare che essa non ha il carattere di una tariffa e che nulla obbliga a collegarla alla vecchia legge, mentre può essere più opportunamente riferita alla sezione C, poiché il testo, al pari di quest’ultima, precisa alcune condizioni dell’attività del pubblicano. Alla riga 136 si trovava probabilmente uno di quei rimandi alla legge che sono caratteristici della sezione C, pertanto l’Autore ritiene che la sezione Bb costituisse una parte del contratto. La datazione del testo del contratto rimane un problema insolubile: ogni frase può risalire a momenti differenti, come paiono indicare i rimandi a Corbulone e Germanico; tuttavia, i passaggi relativi all’uso consuetudinario devono essere anteriori alla codificazione della nuova legge, poiché altrimenti essi rimanderebbero a quest’ultima. Lo stesso vale per il passo sui cammelli, perché la tassa sugli animali non era ancora stata fusa con quella sul carico. In ogni caso, si può datare con precisione almeno una parte del contratto: la sezione Bb risale alla fine del 136 o al 137 d.C., grazie all’indicazione, alla riga 139 del testo greco, delle “fonti di Cesare”, identiche alle “sorgenti di Elio Cesare” del titolo generale palmireno. Si doveva trattare quindi di un’aggiunta al contratto precedente (documento C), redatto nello stesso momento del preambolo e della sezione A nella forma che c’è giunta, cioè nell’aprile del 137. Il testo del contratto deve essersi formato a poco a poco, e le menzioni a Corbulone e Germanico mostrano la maniera in cui esso poteva allungarsi a ogni nuova redazione: la sentenza del governatore formava la giurisprudenza, la legge su cui si era fondato il suo giudizio in una diatriba particolare trovava spazio nel contratto successivo. Man mano che ciascun rinnovo era compiuto, tali testi tendevano a fissarsi e la stabilità politica e commerciale dell’età adrianea deve aver favorito a Palmira un’evoluzione simile a quella che a Roma aveva portato, alcuni anni prima, alla trasformazione dell’editto dei pretori urbani in “editto perpetuo”. Nel 137 il testo del contratto aveva preso una forma che poteva essere ritenuta definitiva e per questo fu possibile unirlo alla legge, anche se resta da spiegare perché il passaggio monolingue non si trovi alla fine della sezione C; ciò potrebbe, secondo l’Autore, essere la semplice conseguenza di un errore. Se vi erano due documenti distinti, uno con il testo del contratto precedente, l’altro con il nuovo allegato, possiamo facilmente comprendere perché questo errore abbia potuto essere commesso. Rimane da spiegare anche come mai la sezione C contenga passaggi che fissano le tariffe, mentre la sezione Ba contenga delle disposizioni sul sale che non hanno per solo obiettivo quello di stabilirne la tassazione. Tutto ciò può essere attribuito a una distrazione del redattore; tutti i passaggi della sezione C che fissano delle tassazioni si riferiscono alla legge, la riproducono: ciò mostra che avrebbero potuto mancare da questa sezione, e che, anche per questi beni, era la legge che costituiva la vera tariffa. Nel passo sul sale, la fissazione del prezzo di vendita è così strettamente legata alle altre condizioni di monopolio che non sorprende come queste ultime fossero passate nella tariffa, mentre la prima era riprodotta dal contratt

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Conclusion Riassumendo, nel 137, a Palmira, la riscossione delle rendite cittadine erano così regolata:

1) Da un contratto che attribuiva la riscossione a un appaltatore 2) Da una legge 3) Da un diritto consuetudinario.

Il Senato di Palmira, durante la sessione del 18 Nisan di quell’anno, prese le seguenti decisioni:

1) Le tasse sino ad allora riscosse secondo il diritto consuetudinario sarebbero state fissate per iscritto. 2) La lista di queste tassazioni sarebbe stata inclusa nel contratto (che stava per essere rinnovato e

aumentato di nuovi paragrafi). 3) Il contratto, nella sua ultima versione, avrebbe avuto forza di legge. 4) Alcune tassazioni della vecchia legge sarebbero state abbassate.

Gli Arconti e i Dieci non seguirono esattamente le decisioni del Senato: al posto di una lista contenente solo il diritto consuetudinario, essi redassero un elenco che riproduceva, ad eccezione di uno solo, tutti gli articoli contenuti nella vecchia legge; tale lista non fu inclusa nel contratto, ma la lasciarono a parte. Ciò non va interpretato come l’effetto di divergenze di punti di vista fra gli Arconti e i Dieci da una parte, e il Senato dall’altra, sulla forma da dare al testo. Se gli Arconti e i Dieci avessero redatto il testo trascurando le disposizioni del Senato avrebbero potuto esprimere in un solo testo la sostanza della vecchia legge e del diritto consuetudinario, evitando di includere disposizioni temporanee, eliminando dal contratto le norme ripetute, creando un testo omogeneo, chiaro e completo; tuttavia, essi non si discostarono troppo dalle disposizioni del Senato. Quest’ultimo aveva stabilito che la vecchia legge continuasse a essere esposta, e ciò spiega perché gli Arconti e i Dieci stabilirono di non fonderla nel nuovo testo, ma di mantenerla con il suo titolo, come documento a parte. Secondo il Senato, il contratto avrebbe derivato la propria forza dalla legge e gli Arconti e i Dieci lo mantennero tale e quale, senza sopprimere le norme che stabilivano le tassazioni; si ottenne così il testo che possediamo, dove le tariffe, a volte con differenze nella forma e lacune nei dettagli (ad esempio il sale), ma soprattutto gli articoli abrogati della vecchia legge, dovevano spesso dar luogo a incertezze ed errori. Alla luce di questa nuova interpretazione, l’Autore rilegge i rapporti fra Palmira e l’Impero: ammettere che le righe 116-117 e 135 del testo palmireno alludono a regole in uso nella provincia di Siria fa supporre che la città fosse all’esterno della provincia stessa al momento della redazione del testo, così come la riscossione delle imposte, attestata sino al 137, è un elemento a favore del protrarsi di tale condizione fino a quella data. Tuttavia, Palmira era in continui rapporti con l’impero romano, almeno dagli inizi del regno di Tiberio. Alle testimonianze di tale rapporto si aggiunge un’iscrizione scoperta dall’Autore, che ricorda un intervento di Creticus Silanus , governatore di Siria fra il 12 e il 17 d.C., negli affari di Palmira: il rapporto fra la città siriana e l’impero (probabilmente un foedus equum), la poneva di fatto in una situazione di vassallaggio e il ruolo del

governatore di Siria nell’aggiudicazione delle rendite della città confermerebbe questo stretto legame. Secondo l’Autore, la liberalità con cui i Romani lasciavano ai Palmireni la riscossione e amministrazione delle loro rendite sarebbe solo apparente: l’appalto della riscossione era controllato da Roma; questo controllo risale all’epoca di Germanico ed è tanto antico quanto le relazioni fra Palmira e l’Impero. Tale controllo è spiegabile solo ipotizzando una partecipazione dei Romani ai profitti di Palmira: Roma avrebbe lasciato ai Palmireni una certa libertà amministrativa, l’illusione di un’indipendenza, ma avrebbe richiesto parte delle ricchezze derivate dai commerci con l’impero partico, le Indie e l’Estremo Oriente.

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28. ECOCHARD 1937 M. ECOCHARD, Consolidation et restauration du portail du temple de Bel à Palmyre, in Syria, tomo 18, fascicolo 3, 1937, pagg. 298-307.

Nel giugno del 1932 il Services des Antiquités cominciò i lavori di consolidamento e restauro del portale del

tempio di Bel a Palmira, che si trovava in precarie condizioni statiche. Il portale, inserito nel colonnato e preceduto da un piano inclinato, dava accesso al peristilio di fronte alla porta della cella; esso misura 18,28 m d’altezza per 9,60 m di larghezza totale nella parte esterna e 4,40 m su 10,14 m d’apertura. Sulla facciata ovest vi è uno stipite riccamente decorato, sormontato da una cornice molto sporgente, che sostiene due mensole, mente sul lato est vi è un altro stipite coronato da un frontone. I lati meridionale e settentrionale presentano una semicolonna simile a quelle del colonnato, la cui trabeazione tocca la parte superiore del portale (fig. 50). Il portale è realizzato in calcare molto duro, che presenta piccole venature rosse in frattura.

Fig. 50. Lato orientale e meridionale del portale, in un disegno di Ecochard.

Dopo aver puntellato la struttura e rimosso le abitazioni e il materiale di sterro che circondava i piedritti del portale, si constatò che questi ultimi erano danneggiati sino a 3 m d’altezza, e che la superficie d’appoggio di ciascuno dei piedritti era stata ridotta dall’usura da 4,5 m2 a 2,3 m2. Il portale presentava, per un’altezza di 18 m, un’inclinazione in avanti di 42 cm, e l’architrave est era crollata; quella occidentale, rotta in due punti, era scesa di 10 cm. I sondaggi effettuati nel corso dei lavori hanno rivelato che le fondazioni, realizzate in pietrisco calcareo poco resistente, avevano ceduto; un attento studio ha mostrato che il centro di gravità del portale, pur cadendo a un terzo del centro della base originale, era ben lontano dal coincidere con il terzo del centro della base attuale, la sola che permetteva la sicurezza della struttura. Sarebbe stato necessario smontare completamente il portale, per ricostruirlo nel suo equilibrio primitivo, ma mancavano i mezzi per mettere in atto una tale opera, e fu necessario limitarsi a un consolidamento, riparando la base dei piedritti e spostando il centro di gravità. Nella parte corrosa dei piedritti, le superfici verticali furono riscolpite, preparate e rinforzate con travi di cemento armato, che ricoprirono delle placchette di calcare di spessore minimo; furono fatte iniezioni di cemento pressurizzato sotto i piedritti, per compensare un eventuale sprofondamento delle fondazioni; in tal modo è stato risanato l’equilibrio del portale. Lo spostamento del centro di gravità è stato corretto scaricando il peso del portale in avanti e caricandolo verso l’interno. Fu necessario sopprimere due elementi la cui posizione era troppo pericolosa e che erano troppo danneggiati per essere riposizionati: si tratta della cornice D e il blocco del fregio E, entrambi resi irriconoscibili dalle intemperie.

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La collocazione delle travi in cemento armato, destinate a sostenere alcune parti alte del portale, ha ristabilito il peso necessario nella parte posteriore. La trave A ha sostituito lo stipite est, perso ad eccezione di un piccolo frammento, mentre B fu colata dietro alla cornice orientale del portale, e collegata a A tramite tiranti (a1 e a2), che circondano completamente la chiave di volta F, permettendo alle due travi di lavorare come una sola. Tali interventi hanno spostato di 10 cm il centro di gravità, che cade 5 cm all’interno del terzo centrale della base restaurata (deduzione fatta dalle placchette di rivestimento). Il consolidamento delle parti alte fu completato con la colatura del pilastro C, legato a B da putrelle (c1, c2, c3, c4), che permettono, nel caso si verifichi una rottura dei blocchi GHIK (in cattivo stato di conservazione) di portare il loro peso a destra dei pilastri, alla maniera di un ponte. Le travi A, B, C lavorano come tiranti grazie alla forma speciale delle loro estremità e degli ancoraggi che vi sono fissati; giacché questi tiranti si oppongono al divaricamento dei due pilastri, l’architrave ovest, rotto e che forma la chiave di volta, non rischia di cadere. Oltre ad un’analisi delle basi delle semicolonne appoggiate ai montanti del portale, vengono analizzate delle interessanti modificazioni intervenute nel corso della costruzione del tempio. Le semicolonne del portale non sono solo identiche alle colonne del peristilio e allineate con esse, ma la distanza dei loro assi all’asse del portale è uguale all’interasse del colonnato. Tale circostanza merita tanta più attenzione in quanto i piedritti del portale non sono poggiati su blocchi tagliati nelle stesse dimensioni, ma su blocchi (14-15-16-17) troppo piccoli, identici a quelli su cui poggiano le colonne del peristilio, muniti sulla loro superficie della stessa scanalatura che presentano tutti gli altri blocchi dello stilobate, come se questa faccia non fosse destinata a scomparire sotto la scalinata d’accesso al tempio. Una scanalatura simile e continua compare su tutti gli altri gradini del crepidoma, ed è stata mascherata dall’aggiunta della scalinata d’accesso. Inoltre i lavori di restauro hanno permesso di vedere che il blocco su cui poggia il piedritto sud presenta nel suo letto di preparazione la traccia, mal cancellata (dettaglio A fig. 7), della sporgenza circolare (scamillus) che preparava sui blocchi che dovevano sostenere

una colonna. Il crepidoma del tempio era stato preparato per ospitare sulla facciata occidentale un colonnato continuo, senza portale né scalinata d’accesso; solo dopo aver terminato la costruzione del crepidoma si decise di eliminare la colonna M e di rimpiazzare le colonne L e N con i piedritti del portale, e di costruire una scalinata, che sussiste ancora in gran parte. Questa decisione appare anche nella traccia lasciata sul blocco che sostiene il piedritto sud: lo scamillus fu cancellato, anche se in modo incompleto, e fu incisa sul

letto di preparazione una riga (dettaglio A, fig. 7, in 7-7’), che indica l’allineamento del piedritto. I piedritti, tuttavia, debordano ugualmente dallo stilobate sulla faccia anteriore, e la loro parte sporgente posa su questo lato sui blocchi della scala. I blocchi sfaldati dello stilobate su cui posavano i piedritti sono stati sostituiti con blocchi nuovi, e si è deciso di rendere visibili queste due fasi della costruzione del tempio, ponendo sotto il piedritto nord il crepidoma, come si presentava nel primo progetto, e sotto il piedritto sud il crepidoma mascherato dalla scala (fig.51).

Fig. 51. Il portale occidentale, prima e dopo il restauro.

L’architetto del tempio di Bel si trovava, nel momento di costruire il tempio, di fronte a tre necessità:

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1) posizionare la porta nel punto che occupa lungo il lato occidentale, come richiedevano alcune particolari esigenze.

2) conferire alla porta, in ragione della sua importanza, una larghezza superiore a un normale intercolumnio, ma tenendo conto di un crepidoma già esistente.

3) far sì che lo sguardo del fedele si fissasse immediatamente sulla porta dopo aver passato il propileo. Tutti questi elementi lo spinsero a concepire un portale monumentale, che occupa la larghezza di tre intercolumni, inserito nel colonnato come un’edicola indipendente; esempi simili si trovano in alcuni templi pseudo - prostili dell’Egitto greco-romano, e nelle facciate dei due thalamoi dello stesso tempio di Bel. Alcuni raccordi sono tuttavia maldestri, come è dimostrato, ad esempio, dai blocchi che sono interposti tra la cornice superiore del portale e l’architrave del colonnato. Nell’ultima parte dell’articolo vengono analizzate le decorazioni del portale. In particolare, della decorazione della facciata est del portale ne restava una minima parte sull’architrave, con una fascia esterna con tralcio di vite e fascia interna con ramoscello d’edera. Lo sgombero delle basi del portale ha portato alla scoperta di un frammento con lo stesso ramo d’edera, così come un tralcio di vite appartenente alla fascia contigua. I rapporti fra questi due tralci sul frammento e il carattere simmetrico della decorazione in rapporto con l’asse del portale hanno permesso di determinare esattamente la posizione originale del blocco e di riposizionarlo.

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29. SEYRIG 1937 C H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 18, fascicolo 4, 1937, pagg. 369-378.

23. – Deux inscriptions grecques de Palmyre. Cantineau pubblicò in Syria, 17, 1936, pag. 278, la dedica di una statua eretta in onore di un personaggio i cui

meriti erano stati resi noti dai Palmireni, tramite decreti, all’attenzione del governatore di Siria Avidio Cassio, il cui nome non è stato cancellato come negli altri documenti epigrafici siriani dove compare; è a un testo dello stesso tipo che appartiene un frammento trovato a sud del tempio di Bel, che misura 11 x 38 cm, spesso 20 cm, rotto su tutti i lati tranne che in basso, con caratteri alti 2 cm. Il nome del beneficiario manca come nel testo pubblicato da Cantineau, ma si tratta molto probabilmente di un palmireno. Sappiamo dall’iscrizione in onore di Soados che i governatori di Siria onoravano con lettere e rescritti i Palmireni che favorivano lo sviluppo del commercio: Soados aveva costruito a proprie spese il tempio degli imperatori nell’emporio palmireno di Vologesia e aveva ricevuto lettere imperiali; questi fatti mostrano quanto stretti fossero i rapporti fra la città e la provincia, pur ipotizzando che Palmira non ne facesse ancora parte. Non è possibile identificare i due governatori menzionati nel testo e il nome di un terzo sembra perduto; l’iscrizione fu incisa nell’aprile 138 (Xandicos 449 dell’era seleucide) e costoro devono aver occupato la loro

carica prima del 132, perché i fasti della provincia sembrano pressappoco completi fra questa data e quella della nostra dedica. Per il primo di questi governatori, Bruttius Praesens, si può pensare a due personaggi conosciuti: uno, di cui

s’ignora la carriera, era amico di Plinio il Giovane e nulla impedisce che abbia ricoperto il consolato, prima di essere legatus in Siria, agli inizi del II sec. d.C.

L’altro, probabilmente suo figlio, è poco più noto, ma si sa che fu console per la seconda volta nel 139, avendo come collega Antonino Pio, e che governò la Galazia sotto Adriano, quindi a partire dal 117; se si calcola che questa legazione dovette seguire immediatamente il primo consolato e che trascorrevano generalmente almeno sei o sette anni fra questa carica e l’elezione a governatore, si può dedurre che il secondo Brutius Praesens, se si stratta dello stesso personaggio, abbia governato la Siria fra il 124 e il 132. Il nome dell’altro governatore è molto mutilo, e ciò che ne resta è un comune Julius M.; benché non siano noti tutti i nomi dei governatori di Siria, fra quelli noti, si potrebbe pensare a Sextus Julius Major, che fu molto probabilmente legatus di Siria e il cui consolato si colloca nel 132 o 133. In quest’epoca l’intervallo fra le due cariche è di setto o otto anni ma la lista dei legati non sembra offrire spazi vuoti fra il 132 e il 138: si tratta di una soluzione poco probabile. Lucius Julius Marinus Caecilius Simplex, console nel 101 o 102, personaggio di cui non si conosce la carriera

sino al consolato, avrebbe potuto governare la Siria: la Tariffa di Palmira menziona infatti un governatore di nome Marinus; la legge è stata promulgata nel 137, ma è possibile che il testo che include questo nome sia più vecchio, anche se poi ripreso nella redazione del 137. Si può quindi ipotizzare che Marinus abbia governato la Siria nel 108, dopo Cornelius Palma. Se l’ipotesi fosse corretta, si dovrebbe identificare in Bruttius Praesens l’amico di Plinio e non il collega di Antonino Pio, poiché il testo menziona probabilmente i due governatori in ordine cronologico, e Praesens compare prima di Marinus.

Un altro legatus di Siria, Caius Julius Quadratus Bassus, è ricordato in un’epigrafe pergamena; l’editore del

testo afferma che egli governò la Siria fra il 97 e il 100, ma non giustifica in alcun modo tale affermazione: la legazione di Siria è la più alta fra quelle consolari, e Bassus sarebbe dovuto essere inserito nelle liste dei

governatori dopo circa sei anni dopo aver ricoperto il consolato e quindi verso il 111. Una seconda iscrizione è stata scoperta a Palmira nel 1935, e Schlumberger fu il primo a leggerla ed eseguirne una copia. Il blocco su cui era incisa era stato reimpiegato nelle mura della città, a est del santuario di Bel e misura 68 x 89 cm, ed è spezzato in alto e in basso.

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L. 5: la lettura è assicurata, poiché la lettera A, benché mutila, ha lasciato traccia del tratto orizzontale. L. 13 e 14: la metà delle due righe, piuttosto mutila, è stata letta e ricostruita da Robert. Tale frammento appartiene a un’iscrizione onorifica, che ricorda le donazioni effettuate dal personaggio onorato: egli fece costruire due colonne di marmo, con trabeazione e copertura, pro salute imperiale; offerte di

questo tipo sono molto comuni a Palmira e la mutilazione del testo impedisce di sapere a quale colonnato fossero destinate queste colonne: erano in relazione con un bosco sacro, che però non sembra menzionato altrove. La seconda benemerenza di questo personaggio riguarda il dio Borroanos, che possedeva una portantina, come Giove Eliopolitano aveva un ferculum; si tratta di un elemento abbastanza comune in Siria, dove le divinità erano visibili ai fedeli solo quando erano portate in processione fuori dal “sancta sanctorum” del

tempio, cui avevano accesso solo i più alti funzionari. L’importanza delle processioni in Siria è attestato dai testi e dai monumenti, specialmente le monete: gli idoli potevano essere portati in processione su carri, come Eracle a Filadelfia di Decapoli, la pietra nera di Emesa o il betilo di Sidone, oppure a dorso di cavallo o cammello; più spesso erano trasportate su portantine. A Hierapoli, erano i sacerdoti a trasportarla, mentre la portantina di Giove Eliopolitano era sorretta dai personaggi più nobili della provincia. A Seleucia di Pieria i keraunophoroi che portavano la folgore di Zeus Keraunos erano iscritti nei fasti, e ciò mostra il prestigio della

loro carica. Le iscrizioni di Palmira, tuttavia, non avevano mai menzionato in precedenza riti di questo tipo, e, fra i monumenti figurati, solo un rilievo del tempio di Bel raffigura un oggetto poco distinguibile trasportato a dorso di cammello sotto un baldacchino di cuoio rosso. Il tempio di Bel testimonia attraverso la sua stessa struttura un altro rituale: dei due thalamoi che occupavano le sue estremità, quello nord ospitava probabilmente la statua di culto e vi si accedeva tramite una scala, oggi demolita, ma di cui è possibile calcolare la pendenza. Il thalamos sud, al contrario, la cui destinazione è

incerta, era raggiungibile tramite una rampa inclinata, che presenta solo alcuni gradini molto bassi: è possibile che questo sistema fosse utilizzato per introdurre periodicamente un oggetto molto pesante nel thalamos sud, forse un’immagine processionale. Poiché una rampa simile collegava il cortile alla cella, l’Autore ritiene che l’immagine uscisse da questa parte per essere portata in processione nel santuario. Il titolare della dedica è lodato per aver ricoperto d’argento la parte della portantina chiamata

termine che generalmente indica la vista che si stende davanti ad uno spettatore, ma può anche riferirsi al punto da cui si gode di tale vista, un belvedere, come fa ad esempio Strabone descrivendo la borgata di Eleusi, sulla bocca canopica del Nilo. I mosaici nilotici, come quello di Palestrina, mostrano barche

con edicole sostenute da colonnette, che permettevano di godere del paesaggio, chiamate da Strabone; una struttura simile ricorre anche nelle portantine rappresentate in diverse monete, quale ad esempio quella che raffigura la Fortuna scolpita da Eutichide per la città d’Antiochia su di una portantina, in cui si vedono chiaramente le sei sbarre destinate ai portatori. La portantina è raffigurata con un baldacchino, con il tetto a tenda, per ospitare l’immagine: si può quindi immaginare come il benefattore abbia potuto “rivestire interamente d’argento il padiglione della portantina del dio Borroanos”. Le ultime benemerenze ricordate riguardano elargizioni in denaro fatte ai sacerdoti di Bel: sembra che il benefattore avesse già in precedenza contribuito con il suo denaro alla costruzione del santuario del dio, ma in seguito aveva effettuato ancora due donazioni.

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Aveva offerto, a nome dei suoi figli Iarhibolé e Salamallath seimila denari in vista di una distribuzione

perpetua ai sacerdoti di Bel, da svolgersi in giorni prefissati; a proprio nome, egli aveva offerto un’altra somma pari alla precedente, molto probabilmente per uno scopo simile, da distribuire il 16 agosto (16 di Loos) e aveva previsto una terza somma, 400 denari, i cui interessi garantissero una distribuzione di carne per tutti quelli invitati a banchettare in presenza del dio Mannos. Questo dio non è conosciuto se non da iscrizioni e rilievi rinvenuti nelle zone desertiche settentrionali della Palmirene e da due tessere pubblicate più avanti dallo stesso Autore: è un dio cavaliere, il cui nome compare nelle fonti come M’N o M’NU, spesso associato a un altro dio cavaliere, Saad o Saadou (S’D o S’DW), molto noto in Arabia, forse identificabile con il dio arabo Maan o Maanou. Il 16 agosto era forse il giorno della festa di Maanou, in occasione della quale si teneva un solenne banchetto cui si accedeva tramite un invito ufficiale, e solo a queste persone si doveva distribuire la carne offerta dal benefattore. Il rito del lectisternium è attestato a Palmira per gli dei Bel e Baalshamin ma Seyrig pubblica una tessera che

attesta tale uso anche in onore di Astarte, il cui nome appare sopra un letto vuoto, davanti al quale vi è un incensiere, fiancheggiato da due uccelli, molto probabilmente le colombe della dea, che si ritiene debba prendere posto sulla kline. Altre tessere sembrano indicare che sul letto era posto un simulacro della divinità;

non sono noti a Palmira locali destinati a ospitare questi rituali, ma i templi nel deserto scavati da Schlumberger ne ospitavano molti: i fedeli si sdraiavano su larghe banchine, disposte a triclinium e spesso dotate di un bordo piatto su cui si potevano poggiare i cibi, mentre il vino era mescolato in un grande cratere di pietra. Strutture simili si trovano a Delo nel santuario degli dei di Hierapoli – Bambicea e attestano quest’uso all’inizio del I sec. a.C. Le grandi donazioni del personaggio onorato sembrano essere state portate a compimento dai suoi figli, e il decreto li loda, ricordando che hanno aggiunto essi stessi una donazione, fatta al senato locale, di 4500 denari in memoria del loro padre; le circostanze di tale dono comparivano nella parte finale del testo, sfortunatamente perduto. Due tessere nominano il dio Maanou, realizzate per consentire l’accesso a un banchetto e a una distribuzione analoga a quella ricordata nel testo precedente.

1. Tessera rettangolare (21 mm x 16 mm): busto raggiato del dio lunare Aglibol, con corazza, mantello e crescente sulle spalle; nel campo quattro crescenti, e in basso ‘GLBWL, “Aglibol”. I raggi che

formano il nimbo del dio terminano con una piccola sfera. Sul verso, busto panneggiato di Maanou, con lancia nella destra e piccolo scudo rotondo sul braccio sinistro, con acconciatura a boccoli; in basso, M’NW, Maanou, un cerchio e perlinatura ai lati. E’ conservata al Museo di Damasco.

2. Tessera rettangolare (21 mm x 16 mm): M’NW|S’DW|GNY, “Maanou”, “Saadou”, “geni”. Alla fine

della riga 1, forse un crescente, in alto e in basso, perlinatura. Sul verso, cammello a sinistra; davanti simbolo palmireno sormontato da un piccolo globo; dietro astro a otto raggi sormontato da un crescente. Conservato al Museo di Oxford, fotografia di Milne.

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30. CANTINEAU 1938 A J. CANTINEAU, Tadmorea, in Syria, tomo 19 fascicolo 1, 1938, pagg. 72-82.

Durante gli anni 1935-1936, nuovi testi furono scoperti e permisero di migliorare la conoscenza della lingua palmirena. Per quanto riguarda la città di Palmira, Amy iniziò gli scavi nella struttura detta Agorà (n° 18 nella Planimetria Gabriel) nel 1935, mettendo in luce la parte a ridosso del muro di Giustiniano, ma solo nella parte interna; nonostante la superficie scavata fosse esigua, emersero numerose iscrizioni. Inoltre, anche gli scavi intrapresi nell’ipogeo di Yarhai, situato nella Necropoli Occidentale (o Valle delle Tombe) e pubblicato da Amy e Seyrig, hanno fornito alcune epigrafi; altri testi sono emersi dalla demolizione delle superstiti case del villaggio moderno, mentre ulteriori iscrizioni inedite furono scoperte da Ingholt e Schlumberger nel G. Sa’er. In questi due anni le pubblicazioni relative all’epigrafia palmirena sono state quasi più importanti delle nuove scoperte. Molte iscrizioni sono state pubblicate: Ingholt ha cominciato, sulla rivista Berytus, con le iscrizioni funerarie emerse nel 1924-1925 nella Necropoli Sud-occidentale (Five dated tombs from Palmyra), mentre Du Mesnil du Buisson ha edito sulla Revue des Etudes Sémitiques l’inizio dell’Inventaire des Inscriptions palmyréniennes de Doura Europos. L’Autore stesso ha pubblicato diversi testi su Syria (“Tadmorea”) e, nel fascicolo 8 dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre, la quasi totalità delle iscrizioni funerarie conservate presso il Dépôt des Antiquités. A ciò si aggiungono tre opere sulla lingua palmirena, scritte da Rosenthal, Goldmann e Cantineau.

28° Statue di Marcus Ulpius Yarhai. Marcus Ulpius Yarhai, figlio di Hairan e nipote di Abgar, è un personaggio noto: l’iscrizione bilingue C 3928,

apposta su di una base trovata nel cimitero arabo, ricorda l’erezione di una sua statua nell’agosto 155, per opera dei membri di una carovana che tornava da Spasinou Charax, il cui capo carovana era Zab’athè figlio di Zabdelà. L’iscrizione bilingue C 3969, scoperta da Puchstein nell’Agorà, indica che una statua fu eretta in onore di Marcus Ulpius Yarhai nel marzo 157 da Hairan, figlio di Yarhai e nipote di Taimé, e da Habibi, figlio di Yarhai, dei Bene Annubath, e dei commercianti che hanno viaggiato con lui (da Khoumana, cittadina

mesopotamica, secondo la traduzione di Clermont Ganneau dal testo greco). L’iscrizione palmirena CaA9, scoperta da Cantineau nel 1928 nell’Agorà, ricorda un’altra statua eretta in suo onore da Belsur figlio di Yarhai e nipote di Taimé, suo amico.

Tre nuove iscrizioni portano a sette il numero delle epigrafi che ricordano Marcus Ulpius Yarhai: è un dato notevole, giacché Soraikhu, figlio di Hairan, e la sua famiglia, non contavano che cinque statue nella Via Colonnata trasversale. Malikhô Hasas aveva anch’egli cinque sue statue nel portico sud del recinto del tempio di Bel; lo stesso Septimius Vorod, celebre argapet di Palmira, non sembra aver avuto che sei statue nella Grande Via Colonnata. Sette statue – un dato eccezionale - indicano come Marcus Ulpius Yarhai, con

l’incarico di capo carovana, godesse di una grandissima popolarità. a) Fra questi nuovi testi, il primo è stato scoperto nell’Agorà, nel corso degli scavi condotti da Amy

nell’autunno del 1935. E’ inciso su di una mensola di colonna, conservata al Dépôt des Antiquités con il numero A 621. Su di un lato vi è il testo greco su sei righe, con la prima cancellata; misura 0,21 m x 0,45 m, con lettere alte circa 2,2 cm. Il testo è il seguente: “[ A Marcus Ulpius Yarhai, figlio di Yarhai, figlio di Abgar], la carovana che è giunta da Spasinou Charax, e che ha guidato suo figlio Abgar, perché l’ha assistita in ogni modo; per onorarlo, l’anno 470, nel mese di Artemisios (maggio 159) ”.

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Sul lato sinistro, la mensola reca un testo palmireno di cinque righe; dimensioni 0,21 x 0,60 m, con lettere alte 2,2 cm. La traduzione è: “Statua di Marcus Ulpius Yarhai, figlio di Hairan figlio di Abgar, che gli ha eretto la carovana che è giunta da Kharakh Spasinou, con Abgar suo figlio, perché l’ha aiutata in ogni cosa; per onorarlo, nel mese di Iyyar dell’anno 470 (maggio 159) ”.

Il testo è molto semplice e non richiede nessun commento. b) Un’altra mensola di colonna è emersa durante gli scavi dell’Agorà, ed è conservata al Dépôt des

Antiquités con il numero A 603. Su di un lato vi è un’iscrizione palmirena su sei righe (0,17 x 0,37 m,

con caratteri alti 2 cm). Il testo è: “[Statua di Mar]cus Ulpius Yarhai, figlio [di Haira]n, (figlio di) Abgar, che gli ha innalzato la carovana che è andata a Kharakh, perché egli ne è stato a capo, e l’ha aiutata in ogni cosa; per onorarlo, nel mese di Ab dell’anno 467 (agosto 156) ”.

c) Una terza mensola di colonna è stata scoperta nel demolire il quartiere del villaggio arabo detto Nqère, a est del tempio di Bel, presso la casa di Mohamed el-Fard. E’ conservata al Dépôt des Antiquités con il numero A 403. Vi è un’iscrizione palmirena di cinque righe (0,14 x 0,28 m, con lettere alte 1,8 cm).

“Statua di Ulpius Marcus Yarhai, che gli è stata eretta da Haddudan, figlio di Haddudan Firmon, perché lo ha aiutato a Kharakh Maisan; per onorarlo, nel mese di Siwan dell’anno 470 (giugno 159)”. In quest’iscrizione si sono invertiti il nomen e il praenomen del personaggio: Ulpius Marcus invece di Marcus Ulpius. Secondo l’Autore, Haddudan, figlio di Haddudan Firmon, potrebbe essere lo zio e il padre di Yarhibol e Awida, che offrirono a proprie spese le sei porte di bronzo dorato del tempio di Bel, e cui il senato e il popolo eressero statue nei propilei del tempio nel 175. Awida è, infatti, figlio di Haddudan, figlio di Yarhibol, nipote di Haddudan, bisnipote di Zabdibol e pronipote di Haddudan Firmon (Corpus 3914). Il testo sembra dire che Ulpius Marcus Yarhai ha aiutato Haddudan a Kharakh Maisan, probabilmente Spasinou Charax: probabilmente all’epoca la Mesene e la Caracene erano ritenute la medesima entità.

29° Statua di Abgar, figlio di Patroclo.

Lo scavo all’interno del tempio di Bel ha liberato l’area del portico nord del recinto e messo in luce, presso la colonna la cui mensola reca l’iscrizione Inv. IX, 7, una base di statua, su cui è incisa un’iscrizione bilingue:

cinque righe in greco e altrettante in palmireno (0,29 x 0,41 m, caratteri greci alti 2 cm, palmireni 1,8 cm).

Testo greco: “Il Senato ad Abgar, figlio di Patroclo, detto anche Asturga, figlio di Leqisu, eccellente cittadino, pieno di buona volontà verso la sua patria; per onorarlo l’anno 395, in Dustros (marzo 84) ”.

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Testo palmireno: “Questa statua è di Abgar, figlio di Patroclo, detto Asturga, figlio di Leqisu, dei Bene Mitha; gli è stata innalzata

dal Senato, per onorarlo, perché si è reso benemerito nei suoi confronti; nel mese di Adar, l’anno 395 (marzo 84) ”. La statua è eretta dal solo Senato e il nome di Patroklos non è comune, mentre quello del nonno di Abgar ricorda le forme arabe laqs/laqis, “sordo”; si ha qui inoltre la più recente menzione dei Bene Mitha (84). Il testo non specifica chi fu Abgar e per quali ragioni si rese benemerito al senato cittadino.

30° Statua di Maliku figlio di Moqimu.

Lo scavo dell’Agorà ha messo in luce non solamente due delle tre nuove iscrizioni di Marcus Ulpius Yarhai, ma anche un altro testo onorifico bilingue, inciso su di una mensola di colonna, conservato presso il Dépôt des Antiquités con il numero A 633.

Si tratta di cinque linee in greco, leggermente mutilate a destra, e solo due righe in palmireno (0,25 x 0,40 m, altezza delle lettere: 2 cm greco e palmireno).

L’Autore fornisce solo la traduzione del testo greco, poiché quello palmireno, oltre ad essere mutilo, riproduce esattamente, nelle due righe superstiti, quanto riportato in greco. “…. A Malikhu, figlio di Moqimu, figlio di Hairan, figlio di Bara’ai, uomo pio, patriota e pieno di zelo; per

onorarlo, l’anno 43 [7?] (125-126)”. Il testo non include alcuna menzione del dedicante: probabilmente anche la parte greca è mutila, e la riga incisa sulla fascia superiore deve essere scomparsa; probabilmente si tratta di

giacché il dedicante è apparso tanto importante al redattore del testo da menzionarlo per primo, al posto del personaggio onorato, invertendo la prassi in uso.

31° Un Poseidone palmireno Alla fine dell’ottobre 1935, una tempesta si abbatté su Palmira, causando l’esondazione dello Wadi Sresir (il quale attraversa le rovine e costeggia la parte meridionale del vecchio villaggio), che distrusse i muri di molti giardini. Questo fenomeno ha casualmente messo in luce un altare ornato da volute ioniche, dedicato a Poseidone. E’ conservato al Dépôt des Antiquités con il numero A 622; l’iscrizione è bilingue: 5 righe in

palmireno e una in greco. Misura 0,17 x 0,35 m, con caratteri palmireni alti 1,5 cm e greci 1,8 cm.

Testo palmireno: “Nel mese di Siwan dell’anno 350 (giugno 39), Moqimo figlio di Kohailu, figlio di Zabdibel [che ] è soprannominato Bar Zebidai, della tribù dei Bene [Gaddi]bol, ha consacrato questi due altari a LQWND, dio

buono”. Testo greco: “Al dio Poseidone”. I Bene [Gaddi]bol sono noti soprattutto dall’iscrizione Inv. IX, 15= Corpus 3917, del 108 d.C.

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Il dio palmireno e Poseidone paiono essere la stessa entità divina, considerata non come legata al mare ma alle acque e ai temporali; non si conosce l’origine del nome palmireno del dio.

32° Il dio Bol’Astar Il dio Bol’Astar compariva nell’iscrizione relativa al primo umbraculum, e la tessera pubblicata su Tadmorea 14

recava un nome molto simile; un’altra attestazione di questo teonimo è fornita da un frammento di architrave, scoperto all’interno del tempio di Bel, nelle fondazioni dell’altare dei sacrifici. E’ conservato al Dépôt des Antiquités con il n° A 429; misura 0,58 x 0,13 m, con caratteri alti 2,7 cm. “Quest’altare è stato realizzato da Malikhu, figlio di Hairan, figlio di Ogeilu, a Bol’Astar, il dio, per la salute

sua, dei suoi figli e dei suoi fratelli”. Sulla natura del dio Bol’Astar non è possibile fare alcuna ipotesi.

33° Altare per Aglibol e Malakbel La demolizione delle abitazioni del vecchio villaggio, nel quartiere di Nqère ha fatto emergere la parte anteriore di un altare, conservato al Dépôt des Antiquités con il n° A 847. Vi è incisa un’iscrizione in palmireno

di cinque righe, mutilata piuttosto gravemente; misura 0,31 x 0,22 m, con caratteri alti 1,8 cm.

“[Nel mese di] Sebat 348 (febbraio 37) quest’altare … è stato offerto da Maliku e Zabd’ateh … figlio di Taimo’amed, figlio di Borrepha Zag[ug ad Aglibol e ] Malakbel, gli dei buoni, [per la loro salute, quella dei] loro figli e dei loro fratelli, e per la salute di Taimo[’amed, loro padre].” L’inizio della seconda riga è di difficile restituzione, potrebbe trattarsi di una parte dell’altare o di un arredo sacro; alcuni nomi propri sono già attestati, altri hanno confronti più labili: Aglibol e Malakbel sono frequentemente associati e la restituzione del nome del primo in relazione al secondo è molto probabile.

34° Bassorilievo votivo in onore di Aglibol. Angolo inferiore sinistro spezzato, trovato durante la demolizione dell’antico villaggio, nel quartiere di Nqère, più precisamente presso la casa di Safi ‘Amar; è conservato al Dépôt des Antiquités con il n° A 415. Si

vede ancora la parte inferiore del corpo di un personaggio maschile, con un abito drappeggiato e anassiridi persiane, che doveva bruciare un’offerta sull’altare che gli è accanto. Sulla base del frammento vi era un’iscrizione palmirena su due righe, di cui rimane solo la parte finale. Ciò che rimane dell’iscrizione misura 0,30 x 0,06 m, con caratteri alti 1,8 cm.

“…. B L… M’, i suoi figli, ad Aglibol, … l’anno 38…”. Senza dubbio il bassorilievo votivo rappresentava il dedicante nell’atto di portare la sua offerta ad Aglibol. L’Autore ritiene che non ci sia spazio per numerosi segni di unità alla fine della data: il bassorilievo risalirebbe dunque al 68-70 d.C.

35° Statua votiva di Salmat Nel Dépôt des Antiquités è conservata, con il n° 123, la base di una statuetta, di provenienza sconosciuta: si

vedono ancora due piedi e la base di un lungo abito femminile. Un’iscrizione palmirena di due righe, in

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caratteri semi-corsivi, è incisa sulla base: misura 0,22 x 0,05 m, mentre la dimensione dei caratteri è variabile (da 0,5 a 1,5 cm).

Pur nella sua brevità, il testo è interessante per la presenza del nome del dedicante, non attestato, e di etimologia incerta; la divinità secondaria Salmat è conosciuta dall’iscrizione dell’altare CaC 14, dedicato alla dea e al fratello, “geni buoni e rimuneratori”. All’epoca, l’Autore la ritenne un’iscrizione funeraria.

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31. DUSSAUD, GASTER, JOUON, GAUDEFROY – DEMOMBRYNES 1938 R. DUSSAUD, T. H. GASTER, P. JOUON, M. GAUDEFROY – DEMOMBRYNES, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 19, fascicolo 1, 1938, pagg. 98-104.

Glanes Palmyréniennes P. Jouon, pagg. 99-102

In queste “spigolature palmirene” vengono sottoposte ad analisi alcune parole. I termini in palmireno sono trascritti esclusivamente secondo la grafia semitica. Il primo termine analizzato è “sepoltura”, in palmireno “casa o dimora dell’eternità”: è una parola di origine religiosa, divenuta molto comune, e proprio per questo ha perso il suo significato originario, malgrado l’etimologia trasparente. E’ un fenomeno piuttosto comune, del resto, che alcune parole di origine religiosa, nel momento in cui passano nel linguaggio comune, perdano totalmente o in parte il significato primario o etimologico. Così, ad esempio, nelle lingue moderne la parola “cimitero” non evoca più il significato etimologico di

“luogo dove si dorme” (è per tutti un campo che racchiude un certo numero di tombe. Vengono analizzati i casi di alcune iscrizioni funerarie di Palmira. Il secondo termine preso in esame è il sostantivo palmireno con il senso astratto di “onore”, corrispondente

al greco Il termine “onore” indica, in palmireno come nelle lingue moderne, anche gli onori materiali resi a qualcuno, o ciò che è onorifico o onorevole, come ad esempio una dignità, una carica, una festa, un sacrificio (che è un onore) per la divinità. Alcuni testi, esaminati in dettaglio, sembrano decisivi all’Autore per il senso concreto di “segno, marchio, monumento d’onore” nelle iscrizioni funerarie. Appare strano che si costruisca una tomba per onorare il fondatore, benché associato ai suoi parenti; quanto a questi ultimi, non si tratta del loro onore eterno. Significa che la tomba costituisce qualcosa di onorevole, un monumento d’onore per il fondatore e i suoi, per sempre.

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32. CANTINEAU 1938 B J. CANTINEAU, Tadmorea, in Syria, tomo 19, fascicolo 2, 1938, pagg. 153-171.

36° Testi dell’ipogeo di Yarhai.

I risultati dello scavo di questo ipogeo, situato nella Valle delle Tombe o Necropoli Occidentale, sono stati pubblicati da Amy e Seyrig in Syria, 1936, pagg. 229-266 “Recherches dans la Nécropole de Palmyre”.

Nell’articolo sono pubblicati i testi rinvenuti nell’ipogeo.

a) Testo di fondazione Lastra di calcare tenero (Dépôt des Antiquités, n° A 383), al centro del quale, all’interno di un cartiglio

modanato di 0,175 x 0,14 m, è incisa un’iscrizione in palmireno di sette righe, mutila nell’angolo inferiore destro; le lettere, accuratamente incise, misurano 1,20 cm. Alle due estremità del cartiglio vi è un busto di uomo imberbe.

Traduzione: “Nel mese di Nisan, nell’anno [4]19 (aprile 108), questa casa di sepoltura è stata costruita da Yarhai, figlio di Barikhi, figlio di Tai[marsu], per [sé], i figli [e i figli dei suoi figli], per sempre, [e] per onorare Barikhi, suo padre, [e … fratelli] di sua madre”.

La ricostruzione della data è certa, la scrittura impedisce di leggere 319; i nomi propri sono conosciuti e la restituzione dell’inizio della riga 5, nonostante la sua verosimiglianza, non concorda perfettamente con le tracce di lettere che si vedono sul frammento, mentre gli elementi della riga 7 sono troppo labili per proporre una ricostruzione. L’Autore ha tradotto “fratelli della madre”, sebbene la menzione degli zii materni del fondatore di una tomba sia completamente inaspettata.

b) Testo inciso sopra la porta della tomba. Non si conosce dove fosse posta l’iscrizione precedente: secondo Amy e Seyrig, non chiudeva un loculo, ma doveva essere fissata ad una parete. La posizione insolita e le piccole dimensioni fanno pensare che non si trattasse del testo principale di fondazione, ma piuttosto una copia o un riassunto posto presso la sepoltura del fondatore dell’ipogeo. Normalmente il testo di fondazione dell’ipogeo è posto sopra lo stipite della porta principale, o dentro un cartiglio sopra tale porta. Amy e Seyrig hanno scoperto l’angolo inferiore destro di un cartiglio modanato, posto sopra la porta. Il frammento, conservato al Dépôt des Antiquités con il n° A 356, misura 0,22 x 0,27 m; i caratteri, molto belli e risalenti al II sec., misurano 3 cm.

Il testo è molto mutilo: alla riga 1 si distingue il nome di Taimarsu, fondatore della tomba, alla riga 3, il termine “metà”, fa supporre che Yarhai non avesse costruito da solo l’ipogeo, o che alcuni suoi

parenti avessero il diritto di farvisi seppellire. Alle righe 4 e 5 si legge rispettivamente “per onorarlo …” e “ … aprile, l’anno …”.

c) Testo di cessione di una parte dell’ipogeo.

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Si tratta di una grande iscrizione bilingue trovata nella galleria principale dell’ipogeo (Dépôt des Antiquités, n° A 368), che misura 0,53 x 0, 48 m. E’ costituita da quindici righe in greco (altezza delle

lettere 2 cm) e da sei in palmireno (1,8 cm).

Traduzione della parte greca: “Nel mese di Loos 552, Julius Aurelius Hairan e Julius Aurelius Malochas, (entrambi) figli di Germanus, hanno ceduto a Julius Aurelius Theophilus, figlio di Taimarsu e nipote di Zebida, per sé, i suoi figli,

nipoti e discendenti, per sempre: la parete orientale, con l’abbozzo di esedra vuota, che si trova immediatamente a destra di chi entra dalla porta dell’ipogeo, fino alla Vittoria di marmo posta in una nicchia nel mezzo dell’esedra che è dall’altra parte, compresi i tre loculi (posti) nella trabeazione sopra la vittoria; (così come) i loculi della suddetta parete con tutti i loro ornamenti e i diritti (ad essi connessi).” Traduzione del testo palmireno: “Questa parete orientale dell’ipogeo (quando si entra dalla grande porta), fino alla Vittoria che è posta di fronte a essa, così come la sua decorazione, e i suoi archi (?), è stata ceduta da Julius Aurelius Hairan e da Julius Aurelius Malokha, figli di Germanus, a Julius Aurelius Theophilus, figlio di Taimarsu, figlio di Zebida, per sé, i suoi figli, e i figli dei suoi figli, per onorarli per sempre. Nel mese di Ab, l’anno 552 (agosto 241) ”. Il testo palmireno è molto più semplice di quello greco, di cui sembra essere il riassunto. Riguardo all’espressione “ai suoi archi”, potrebbe trattarsi dei loculi o delle nicchie poste all’estremità della tomba.

d) Iscrizione incisa sotto il gruppo scultoreo. Questo gruppo scultoreo rappresenta un sacerdote, con il copricapo tipico della sua carica, sdraiato su di una kline, con una coppa nella mano; sopra di lui vi sono due giovani con lo stesso copricapo, e

ai suoi piedi una donna seduta. Sotto quest’ultima è incisa un’iscrizione in palmireno di tre righe (0,07 x 0,26 m, con caratteri alti 1,6 cm).

Traduzione: “Immagine di Nesa, figlia di Theophilus, moglie di Bonne, figlio di Taimarsu; ohimè!”.

Vi potrebbero essere dei dubbi sul nome della donna, che tuttavia è confermato dall’iscrizione g (vedi infra); potrebbe trattarsi della figlia di Julius Aurelius Theophilus, nominato nell’epigrafe precedente, perché la scrittura di questo breve testo si data al III sec. d.C.

e) Iscrizione di Aqma

Busti di due donne, di cui una passa il braccio sinistro attorno alle spalle dell’altra, dietro la quale vi è un drappo; Seyrig e Amy interpretano la scena come quella di una defunta consolata da una parente ancora in vita. I due busti sono conservati al Dépôt des Antiquités, con il n° A 450.

Un’iscrizione palmirena su quattro righe è incisa a fianco della testa della prima donna, leggermente mutila sulla destra. Misura 0,075 x 0,08 m, con caratteri alti 1,2 cm.

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Traduzione: “[A]qma e [N]inai, figlie di [Neb]owi, ohimè!”.

Le ricostruzioni dei nomi sono abbastanza probabili; forse per un errore del lapicida, vi è “figli” al posto di “figlie”.

f) Busto di Worod. Busto maschile barbato, a destra del capo due righe in palmireno, conservato al Dépôt des Antiquités,

con il n° A 384. Misura 0,055 x 0,06 m, con caratteri alti 1,5 cm.

Traduzione: “Worod, ohimè!”. Si ritrova qui il nome proprio del celebre argapet di Palmira, Septimius Worod.

g) Frammento isolato

Iscrizione palmirena di tre righe, su un frammento isolato, che potrebbe essere stata posizionata sopra la spalla destra di un busto femminile, conservata al Dépôt des Antiquités, con il n° A 385.

Misura 0,06 x 0,10 m, con caratteri alti 1,5 cm.

Traduzione: “Nesa, figlia di Yarhai, figlio di Barikhi; ohimè!”. Si tratti di una persona diversa rispetto alla Nesa, figlia di Theophilus, dell’iscrizione d; la scrittura,

più arcaica, può risalire al II sec.: si deve trattare, senza dubbio, della figlia del fondatore della tomba.

37° La posizione della Keppetha.

Piccola stele non decorata, trovata durante la demolizione delle case, a est del vecchio villaggio, conservata al Dépôt des Antiquités, n° A 389. Reca un’iscrizione palmirena su due righe,

perfettamente intatta. Misura 0,29 x 0,06 m, con caratteri alti circa 1,8 cm. La scrittura si data decisamente alla prima metà del I sec. d.C.

Traduzione: “Ci si ricordi di Ogeilu e dei suoi figli, che ha donato il luogo per porre la keppetha”.

Questo termine aramaico indica ogni edificio con una volta, arco o cupola. Potrebbe trattarsi di una struttura funeraria, civile o religiosa. Se, da un lato il fatto di “donare” un luogo sembra suggerire un edificio religioso, d’altra parte bisogna segnalare l’assenza di un qualunque riferimento a una divinità.

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38° Statua di Adona Questo nome ricorre anche nell’iscrizione di fondazione di una tomba, pubblicato dall’Autore in Inv. VIII, 67. Si tratta di una lastra in pietra, trovata a ovest del santuario di Bel, nel quartiere di Hart ec Ceser. E’ conservata presso il Dépôt des Antiquités, con il n° 847, e misura 0,32 x 0,35 m. L’iscrizione in palmireno si sviluppa su quattro righe, con caratteri arcaici alti 4,5 cm.

Traduzione: “Immagine di Adona (o Arwana), figlio di Sa’dai, figlio di … Aqqimil …70”. La lettura e la vocalizzazione del nome proprio non sono sicure; la grafia, molto arcaica, è simile a quella di Inv. VIII, 56 = Corpus 4113, datata al 9 d.C. (marzo), nonostante la data sembri quella del

370, cioè il 59 d.C.

39° Tomba di Barea e Boropha. La parte superiore dell’iscrizione Inv. VIII, 61 = Corpus 4163, mancante, è stata ritrovata nel cortile

del santuario di Bel. Viene riportata la trascrizione completa dell’epigrafe bilingue, in greco e in palmireno, senza traduzione.

La trascrizione greca impedisce di leggere Berre’a: sarà necessario cercare un’altra interpretazione.

Da pag. 160 a 171 l’Autore recensisce alcune opere sulla lingua palmirena.

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33. DUSSAUD, PERDRIZET, PARROT, JOUON 1938 R. DUSSAUD, P. PERDRIZET, A. PARROT, P. JOUON, Nouvelles Archéologiques, in Syria, tomo 19, fascicolo 2, 1938, pagg. 162-192.

Glanes palmyréniennes

P. Jouon, pagg. 186-190

In queste “spigolature palmirene” (seconda parte) vengono sottoposte ad analisi alcune parole. Anche in questo caso, come nella prima parte di questo lavoro, sul precedente fascicolo (1) dello stesso anno (1938), i termini in palmireno sono trascritti esclusivamente secondo la grafia semitica. Il primo termine analizzato è una parola molto comune nelle iscrizioni funerarie palmirene, frequentemente alla fine, talora all’inizio, a volte all’inizio e al termine della frase. Di solito è tradotta come un’interiezione “Ohimè!”. Nell’articolo viene confrontata con espressioni analoghe del siriaco antico e dell’aramaico palestinese.

Il secondo caso analizzato riguarda la grafia delle parole palmirene calcate su nelle due famose iscrizioni, sulla Grande Via Colonnata, dedicate al “ re dei re” Odenato e alla “regina” Zenobia nel mese di Ab dell’anno 582 (agosto 271). Anche se i due testi sono stati probabilmente redatti dalla stessa mano, la trascrizione palmirena per Septimioi e Septimia è differente e, nel secondo caso, il lapicida sembra aver voluto indicare più chiaramente la pronuncia.

La stessa cosa si applica al plurale , che era pronunciato kratistoe. I Palmireni, che trascrivevano i

singolari con pronuncia alla greca, pronunciavano i plurali corrispondenti in - mantenendo la vocale O, che facevano seguire dalla E lunga del plurale aramaico. L’ultimo caso analizzato riguarda un termine dell’iscrizione Cantineau, Inventaire, VII, 2. Cantineau vi aveva identificato l’avverbio siriaco rebbat, “molto, grandemente”, da cui segue la traduzione: [Io, X ho costruito?

questa to]mba in modo grandioso, e l’ho consacrata per i miei figli e i miei nipoti maschi”. Secondo la nuova ipotesi, si tratterebbe invece di una forma verbale: “Io ho … e ho consacrato”: il verbo potrebbe essere “ho ingrandito”. Il senso sarebbe quindi “ho ingrandito e consacrato”, essendo la sepoltura una “grande tomba-casa”.

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34. SEYRIG 1939 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 20, fascicolo 3, 1939, pagg. 177-194.

26. – La grande statue parthe de Shami et la sculpture palmyrénienne, pagg. 177-183.

La pubblicazione di un importante gruppo di statue, scoperta a Shami, presso Malamir, nelle montagne della Susiana, getta nuova luce sull’arte post-ellenistica di regioni che non ne avevano fornito quasi nessun esempio. La principale statua di Shami è in bronzo, alta 1,94 cm, con il corpo e la testa fusi separatamente, con leghe diverse che hanno assunto patine differenti; Godard ritiene che il corpo, troppo pesante per essere trasportato attraverso le montagne, sia stato fuso in loco, e gli sia stata adattata una testa prodotta altrove: da

qui le impurità che caratterizzano il bronzo di cui è fatto il corpo, la sproporzione fra quest’ultimo e testa, e la differenza di qualità fra i due (figg. 52-53). La statua raffigura un personaggio vestito all’iraniana, con ampi gambali sospesi alla vita da una qualche cintura non visibile, e da una veste fermata da un’altra cintura. Il torso e le cosce sono nudi sotto i gambali e la tunica, mentre le armi si limitano a due pugnali dalla guaina lobata, il cui fissaggio si distingue più chiaramente che a Palmira: il lobo superiore si attacca al lembo della veste tramite un bottone, mentre quello inferiore è attraversato da una correggia che fa il giro della coscia, come nei guerrieri di Persepoli. Al collo porta una collana simile allo streptos persiano nella forma generale, e

che è composta da un cordoncino a catena spesso e flessibile, le cui estremità si congiungono in un grande cabochon ovale, mentre la cintura è formata da placche metalliche, unite da cerniere.

Fig. 52. La statua di Palmira (a sinistra) e la statua di Shami (a destra).

La testa è caratterizzata da un viso paffuto, con baffi sottili, lunghi e spioventi, mentre la barba sembra rasata, ad eccezione di un collare e di un pizzetto, molto sottili, e resi, come le sopracciglia, con semplici

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incisioni. I capelli lisci, stretti da una fascia a sette fili, coprono la nuca e le orecchie; sono arrotolati ai lati del viso e lasciano scoperto solo il lobo dell’orecchio, privo di orecchini. Godard osserva che la fascia non ha lembi fluttuanti, come quelli di un dio o di un re, e che quindi si deve trattare della statua di un dinasta locale.

Fig.53. Testa della statua di Shami.

Sarebbe interessante poter precisare l’epoca e l’ambiente cui appartiene questa scultura, che, sebbene non ci fornisca un ritratto fisiognomico, offre tuttavia un tipo etnico che si riscontra anche, per esempio, nei busti incisi sulle monete ellenistiche di Bagadate, principe della Perside, alla fine del III sec. a.C. La statua di Shami, benché più difficile da datare, non è così antica: il suo abito è uguale a quello di un signore partico di Assur, la cui immagine risale probabilmente all’88 a.C., sebbene la fascia a più fili non ricorra sulle monete prima del regno di Mitridate III (57-54 a.C.), il che porta a credere che la statua sia posteriore a tale re. Si potrebbe tentare di datare la scultura confrontandola con gli esempi palmireni, ben datati grazie agli studi di Ingholt, e dove uno stile così severo non si ritrova più dopo la prima metà del II sec. d.C. Tuttavia, l’arte palmirena si evolve sotto il forte impulso dell’arte occidentale, che non deve essere stato altrettanto decisivo nell’impero partico. Da dove proviene dunque la testa? Si può pensare in primo luogo a Susa, poiché tale città, allora chiamata Seleucia sull’Euleo, distava solamente quattro o cinque giorni di cammino da Shami, ed era un centro importante, come testimoniato dalle epigrafi. Sono state trovate numerose basi, ma non statue, probabilmente perché in bronzo. Una dedica in greco, ad esempio, pubblicata da Cumont, recita: “Guarda, o straniero, la statua di bronzo di Zamaspe, satrapo di Susa”, ma purtroppo l’effigie corrispondente è perduta. La statua di Shami può forse fornirci un’idea della produzione di Susa. La testa che, malgrado la sua bellezza, non supera il livello di una buona produzione industriale, secondo Godard è stata modellata da un greco: è un’ipotesi verosimile, benché non verificabile. Se si osservano certi dettagli, ad esempio le pieghe del panneggio, sembra di intravedere un’influenza greca, ma la rigida simmetria assiale basterebbe da sola ad ascrivere la statua alla produzione orientale. La statua di Shami presenta diverse affinità con le sculture palmirene: ad esempio, con i torsi di Kasr el abiad, caratterizzati dalla stessa rigidità nella rappresentazione frontale, dal medesimo rilievo netto e ricco che abbellisce, per esempio, le pieghe dei gambali. Le sfumature nella resa delle pieghe, così come le varianti nell’abito, si spiegano facilmente con una differenza di datazione, di regione o più semplicemente di mano e non impediscono di pensare che, dalla Siria alla Susiana (e anche più lontano), esistesse un ambiente artistico omogeneo, con repertorio e tipi di rappresentazione comuni. Palmira, artisticamente, è più vicina alla lontana Susiana che alla Siria. Ma da dove proviene la somiglianza fra le statue palmirene e quella di Shami? Le statue in pietra sono rare a Palmira: se ne conoscono soltanto sei o sette; il che non significa che i Palmireni non avessero statue, dato che si conoscono poche città nel mondo antico che abbiano restituito tante basi e dediche quanto Palmira. Ma la maggior parte delle statue era in bronzo, che nel corso dei secoli è stato rifuso e riutilizzato; e quindi le statue di Palmira sono quasi completamente scomparse. Possiamo immaginare che le statue in pietra riflettano in qualche modo l’aspetto di quelle in bronzo, ma non sappiamo se i Palmireni producessero statue di bronzo, mentre ne conosciamo l’importanza come “articolo

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d’importazione”. La grande legge fiscale della città stabiliva i dazi da pagare e precisa che due statue costituivano il carico di un cammello. Questa massa di importazioni si spiega con la concezione del ritratto che avevano i Palmireni, per cui non era necessario che una statua raffigurasse realmente il personaggio in onore del quale era eretta, ma bastava scrivervi il suo nome, come è evidente dai numerosi rilievi che ci sono pervenuti. Non sappiamo da dove queste statue provenissero: si è a lungo ritenuto che fossero prodotte in Siria occidentale, e ciò è vero per una parte di esse, ma pare poco probabile che sui mercati di Apamea o di Antiochia vi fossero molte immagini di personaggi vestiti alla partica. Si può pensare che tali statue siano arrivate a Palmira con le carovane che provenivano dalla bassa Mesopotamia e che siano state prodotte in qualche officina di Seleucia sul Tigri o di Ctesifonte o di qualche altro grande centro commerciale di questa regione. D’altra parte, neppure Susa era lontana, ed è per questo motivo, secondo l’Autore, che si spiega la somiglianza fra la sua arte e quella palmirena. Un altro interessante confronto può essere fatto con una statua partica o sasanide, scoperta in Mesopotamia ed esportata illegalmente dall’Iraq, di cui restano solo una fotografia e il disegno che Amy ne ha tratto (materiale e dimensioni sono sconosciuti). Si tratta della parte inferiore di una statua seduta, vestita all’iraniana, con anassiridi morbide e fluttuanti, decorati sul davanti da una tripla fila di perle, e infilati dentro i larghi calzari, ugualmente decorati di perle. La tunica scende sotto le ginocchia ed è anch’essa decorata da tre file di perle che orlano la parte inferiore della veste e gli spacchi laterali e che formano altresì una larga fascia mediana. Alla vita c’è una cintura formata da placche rotonde separate da elementi intermedi la cui forma non è visibile, e sulle cosce passa una lunga bandoliera all’iraniana, che probabilmente sorreggeva una spada non visibile. A ciascun lato della statua vi è un animale, probabilmente un piccolo leone: potrebbe trattarsi di animali sacri a una divinità oppure elementi di un trono; la statua è molto simile a quella di Ain Arous, ma neppure in quel caso si sa se si tratti di un dio o di un dinasta. Tuttavia, mentre la statua di Ain Arous e quella di Shami sono caratterizzate da una certa rigidità e ieraticità, quella mesopotamica pare invece molto più morbida, grazie all’eliminazione dell’eccessiva simmetria, al rigonfiamento del tessuto e alla caduta ineguale della tunica. Vi è certamente un’influenza ellenistica, rispetto al più marcato aspetto orientale delle altre due statue, ma l’Autore non ritiene possibile datare con precisione questa scultura, dato che sono ancora pochissimo conosciuti gli sviluppi della scultura degli Arsacidi e dei Sassanidi.

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35. SEYRIG 1939 B H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 20, fascicolo 4, 1939, pagg. 296-373.

30. Inscriptions, pagg. 317-323. 20. Pyrée dedicato a Zeus Hypsistos: cippo con cupola scoperto presso le case a est del santuario di Bel, alto 66

cm. Le lettere sono tracciate maldestramente, e non si distingue l’alpha dal lambda.

Riga 1: le ultime tre lettere non appartengono al nome del dedicante, mentre le prime quattro contengono i nomi abbreviati di Julius Aurelius; il soprannome del personaggio è noto da due iscrizioni di Doura, benché

non sia chiaramente leggibile: Cumont lo trascrive in un caso e nell’altro. Secondo Dussaud, il soprannome significa “il Sole ha dato”. La lettura proposta da Wuthnow,

sembra esclusa da questa iscrizione, che risale al 235/236 d.C. 21. Il grande dio di Euaria: la demolizione delle vecchie case, a sud-ovest del santuario di Bel, ha messo in luce un pyrée, già visto da Waddington, di cui l’Autore corregge la trascrizione dell’epigrafe. Il pyrée è alto 58

cm, con cupola e dotato di un’iscrizione.

Riga 5: Waddington legge , ma l’Autore vi vede, più che una una

Riga 6: la terza lettera, ignorata da Waddington, è C o E, in ogni caso si tratta di una lettera tonda. La penultima lettera è scarsamente leggibile, forse un’A.

Riga 9: Waddington legge , Mordtmann già Honigmann si era accorto che si trattava

di letture impossibili, riconoscendo invece l’articolo , ma la sua correzione non è ugualmente

accettabile. Solo le prime due lettere (E e le ultime due (YA) sono certe. La terza sembra essere una lettera

triangolare, la quarta lo è certamente, apparentemente una la quinta una lettera semicircolare o circolare. In ogni caso, il primo elemento del nome divino sembra essere El. Riga 10: la comprensione di questa riga è dovuta a Honigmann, che vi ha riconosciuto il nome antico della

moderna Hauwarin, che i testi antichi chiamano Non vi sono tracce di un’A alla fine della parola in questa epigrafe. 22. Dedica ad Apollo: la lastra su cui è incisa l’iscrizione è stata trovata presso l’angolo sud-occidentale del santuario di Bel; l’epigrafe è incisa all’interno di una cornice modanata, ma non ne rimangono che poche lettere.

Non è impossibile che una dedica ad Apollo, che i Palmireni assimilavano a Nebo, sia stata eretta nel santuario di Bel, ma è poco verosimile che sia stata redatta in latino. Il testo proviene probabilmente dal quartiere della guarnigione, dove sono state ritrovate altre iscrizioni latine, fra cui una ad Apollo; i blocchi sono stati trasportati qui probabilmente durante la costruzione del villaggio arabo, ed è poco prudente vedervi un culto locale. 23. Fondazione pia: mensola di calcare rosa, un tempo fissata a un pilastro, mutila in basso e in alto, trovata nello wadi, presso l’agorà.

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Riga 2: dopo , si distingue il piede di un’asta verticale. Prima di , si distingue il piede di un’asta

verticale e quella di un’alpha o di una lambda; la restituzione di non sembra dubbia e lascia una lacuna di sette lettere.

Vi è un testo analogo, a Palmira, in cui il senato locale onora un personaggio che aveva offerto un’elargizione perpetua e aveva fatto offerte ad alcune divinità e questa iscrizione sembra di un tenore simile. Si nominano le offerte a un dio ancestrale di Palmira, poi un’elargizione perpetua che doveva essere distribuita annualmente al senato il 27 Audynaios. Il seguito non è chiaro: sembra che questo personaggio sia stato

autore di altri benefici nei confronti dell’assemblea. 24. Simposiarchi dei sacerdoti di Bel: i sacerdoti di Bel formavano un tiaso, a capo del quale vi era un gran sacerdote che aveva anche il titolo di simposiarca, o presidente dei banchetti; sembra che la carica avesse una durata annuale e si conoscono i nomi di alcuni personaggi che l’hanno ricoperta. Le due seguenti dediche, incise su due mensole già fissate a due colonne del santuario di Bel, furono apposte da sacerdoti di Bel e sono datate, oltre che dall’anno dell’era seleucide, dal simposiarca eponimo. La prima è stata trovata a metà del colonnato sud del cortile, e risale al 140/141 d.C. e accompagnava la statua di un soldato della IV legione Scitica, che è stata stanziata in Siria durante tutta l’età imperiale: si tratta probabilmente di qualche palmireno che militava nell’esercito romano; il simposiarca di quell’anno era Casperianus Zenobius.

La seconda iscrizione, trovata fra l’altare e la rampa d’accesso al tempio, è più mutila: la cornice, dove era inciso il nome del personaggio onorato, è scomparsa, e anche il resto è molto incompleto. Non vi è data, ma il nome del padre del simposiarca porta il gentilizio dell’imperatore Adriano e il testo appartiene quindi probabilmente al II sec.

25. Dedica ad Adriano: nel corso dello sgombero del santuario di Bel, furono scoperti i resti di una piccola edicola con nicchie, fra il tempio e il propileo. Questo monumento sembra risalire almeno alla fine del II sec., a giudicare dalle sculture. La sua fondazione, smontata, conteneva diversi frammenti architettonici, fra cui una mensola, modanata nella parte superiore, sulla cui faccia anteriore vi è un’iscrizione tracciata con un pennello a inchiostro rosso.

La riga 1 è dipinta sul listello della cornice, la 7 non contiene che il cognomen del dedicante, composto da sei o sette lettere che l’Autore non è riuscito ad interpretare. 26. Dedica ad Antonino Pio: questo frammento, trovato a occidente del santuario di Bel, doveva appartenere alla base di una statua dell’imperatore.

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27. Frammento di dedica: blocco di calcare tenero (53 x 32 x 77 cm), rotto su ogni lato, ad eccezione della parte destra, trovata sotto il lastricato della corte del tempio di Bel, 10 m a sud-ovest dell’altare. Le lettere sono alte 2,5 cm.

Il frammento merita di essere pubblicato solo per la forma dei caratteri, che risale all’età ellenistica e contrasta fortemente con tutto quanto conosciuto finora di epigrafia greca a Palmira. Si tratta della più antica iscrizione greca fra quelle pubblicate (la più antica fra queste ultime risale al 17 d.C.); è la prima volta che in un’epigrafe palmirena compaiono omega e sigma in una forma non corsiva. Il testo seguente ne offre un altro esempio. 28. Frammenti di un’iscrizione reale: si tratta di un minuscolo frammento, trovato, come la dedica ad Adriano, nelle fondazioni dell’edicola con nicchie. La forma delle lettere, dove compare un sigma a quattro tratti, fa supporre che si tratti di una delle più antiche iscrizioni palmirene, risalente al I sec. d.C., o forse al secolo precedente.

E’ difficile identificare il nome del re: molti Seleucidi hanno portato il titolo di Epifane, ma l’ultimo, Antioco XII, morì nell’ 84 a.C., che però è una data troppo alta per la forma delle lettere: si può quindi pensare a un re partico o un re della Commagene, ma, poiché i rapporti fra la Commagene e Palmira non sembrano essere stati molto intensi, è più probabile che si tratti di un Arsacide.

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36. SEYRIG 1940 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 21, fascicolo 3-4, 1940, pagg. 277-337.

32. Ornamenta Palmyrena Antiquiora. Il santuario di Bel a Palmira comprendeva, nella parte situata fra il tempio e i Propilei, un certo numero di strutture:

1) l’ altare, di cui si conservano lo zoccolo e i gradini di accesso. 2) Il bacino lustrale, il cui basamento esiste ancora, insieme con alcuni elementi idraulici. 3) Un’edicola, la cui funzione è sconosciuta, la cui facciata era ornata con nicchie; i suoi frammenti,

sparsi intorno, permettono una ricostruzione grafica piuttosto completa. 4) Una rampa d’accesso fiancheggiata da gradini, che comunicava con l’esterno grazie ad un passaggio

voltato, attraverso la quale gli animali, che non potevano salire i gradini del Propileo, erano condotti all’altare.

5) Un insieme abbastanza importante (L nella fig. 1), ma molto mal conservato, ridotto alle sole fondazioni, il cui orientamento è irregolare e la funzione sconosciuta.

6) Una lunga fondazione (T), il cui allineamento è pressoché lo stesso della struttura precedente. I lavori mostrarono che nella fondazione erano stati reimpiegati un gran numero di blocchi, di uno stile sino ad allora sconosciuto, che spinsero gli scavatori a proseguire la ricerca.

Allo scavo e alla pubblicazione di tali frammenti hanno contribuito, oltre all’Autore, gli architetti che hanno lavorato a Palmira, Tchalenko, Amy e Duru.

A. Chronologie des fragments.

Il tempio di Bel, quando fu costruito sotto il regno di Tiberio, non aveva ancora il cortile monumentale che oggi si vede; non si conoscono né la forma né l’estensione che aveva all’epoca il recinto sacro. Lo zoccolo a gradini del tempio, tuttavia, benché stabilito all’inizio della costruzione, si trova a un livello che è di tre piedi più in alto rispetto a quello della corte attuale. Il primo cortile è stato dunque livellato dopo la costruzione del tempio, e i costruttori, per adattare il tempio a questa nuova situazione, hanno coperto la zoccolatura con un’ampia terrazza, modanata come un podium, il

cui livello superiore affiorava al secondo gradino sotto lo stilobate, e il cui piede mascherava la fondazione dello zoccolo, messo in luce dallo spianamento della corte. Lo scopo del livellamento è chiaro: si trattava, per i costruttori del grande cortile, di evitare il notevole accumulo di terra di riporto che la costruzione di quest’ultimo avrebbe richiesto al livello dove i loro predecessori avevano innalzato il tempio. La superficie del nuovo cortile è di circa 40.000 m2, supponendo che la vecchia corte misurasse circa due volte meno, lo spianamento risparmiava un riporto di circa 20.000 m3 di terra, fornendo al contrario un uguale volume di riporto e diminuendo di circa tre piedi su circa 800 m di lunghezza l’altezza del muro di sostegno che bisognava innalzare su tutto il perimetro del cortile. In epoca flavia si cominciarono a costruire i portici della nuova corte e, di conseguenza, il terrapieno di quest’ultima deve essere stato terminato. Davanti all’entrata del tempio, lo spazio fu lastricato, e si costruirono l’altare e il bacino lustrale; il monumento con nicchie si aggiunse a questo insieme almeno alla fine del II sec.; s’ignora quando fu costruito il monumento L, ma le sue fondazioni contengono un capitello che non è più antico dell’inizio del II sec. Solo la fondazione T è anteriore a questa fase della corte: nascosta sotto la pavimentazione, non aveva che blocchi irregolari, non destinati a essere visti; il muro che sosteneva s’innalzava a un livello più alto, che non poteva essere quello della prima corte. Lo spianamento del primo cortile e del muro T è avvenuto al più tardi all’inizio dell’epoca flavia, quindi quest’ultimo è necessariamente anteriore di qualche anno al suo spianamento; per quanto riguarda i frammenti reimpiegati nelle fondazioni, devono essere più antichi: il tempo di costruirli, usarli e demolirli, il che ci conduce all’incirca all’inizio del I sec. d.C. Fra le iscrizioni che erano reimpiegate nella fondazione T, una sola era datata: è la più antica iscrizione palmirena conosciuta, risalente al 44 a.C. Molte altre iscrizioni presentano caratteri di arcaismo così marcati che bisogna attribuirli a un periodo altrettanto antico. Altre non offrono nulla che le distingua necessariamente dai testi del I sec. d.C., benché possano essere altrettanto antiche: l’insieme dei testi sembra coprire la seconda metà del I sec. a.C. e forse i primi anni del I sec. d.C., il che non contrasta con le deduzioni precedenti.

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Un altro indizio è fornito dalla qualità della pietra in cui sono incisi, con una sola eccezione (n° 49), tutti i frammenti e tutte le iscrizioni: un calcare molto tenero, facile da lavorare, che differisce nettamente dal calcare duro in cui sono stati costruiti i monumenti palmireni. Sembra quindi probabile che risalgano a un’epoca in cui non si usava ancora frequentemente il calcare duro, ma si preferiva una pietra più facilmente lavorabile. Quest’epoca era però passata quando fu costruito il tempio di Bel, il cui decoro all’interno della cella è realizzato in calcare duro, come quello delle torri funerarie di Giamblico ed Elahbel; il calcare tenero è impiegato anche per le prime stele funebri di Palmira, ma tale materiale fu in seguito abbandonato. I frammenti sono quindi anteriori al tempio di Bel, ma non è possibile fissare una datazione precisa. La fondazione T deve essere stata costruita più tardi del 44 a.C., poiché contiene un’iscrizione datata a quell’anno, anche se alcuni frammenti potrebbero essere più antichi. Palmira sembra aver acquisito importanza solo verso la metà del I sec. a.C., anche se questo ricco centro poteva possedere un santuario decorato. Le iscrizioni trovate nella fondazione T comprendono un’offerta di una statua da parte dei sacerdoti di Bel (il testo datato), oltre a una dedica a Bel, Belhammon e Manot; gli altri testi sono dediche di statue e di proskynemes, senza nomi di divinità. E’ quindi molto probabile che la fondazione sia stata

costruita con i resti provenienti dal santuario di Bel medesimo.

B. Descriptions des fragments i. Chambranles ou cadres sculptés.

Sono stati trovati nel muro T quattro diversi stipiti, di cui due sono ben conservati, mentre gli altri due sono ridotti a piccoli frammenti, e solo una parte della decorazione è visibile. Oltre a questi quattro elementi architettonici, di cui l’origine è certa, il deposito di Palmira possiede altri nove stipiti di provenienza ignota; sono lavorati nella stessa pietra dei primi, e la loro composizione, stile, e il loro probabile uso, sono molto simili. Nell’articolo saranno trattate entrambe le serie, ma gli elementi provenienti dalla fondazione T saranno indicati da un asterisco. La faccia anteriore di questi blocchi è scolpita, quelle laterali sono rifinite, mentre il lato posteriore non è lavorato (non è stato neppure sgrossato) con un’eccezione. I blocchi portano raramente tracce di grappe, ma sono presenti in alcuni casi, il che testimonia che essi erano fissati tramite catenatura al muro adiacente; non hanno mai tracce di malta o di altre impiombature. Il frammento n° 13 apparteneva a una nicchia a fondo piatto, profonda solo due centimetri, mentre il n°1 proietta una grappa al lato del vano, e ciò è incompatibile con una finestra, la cui apertura ne sarebbe stata ingombrata: questo stipite deve essere dunque appartenuto a una sorta di nicchia a fondo piatto, profonda 6 cm. Quanto agli altri stipiti, lo stato non lavorato del lato posteriore non poteva prestarsi ad alcuna sagomatura, cosicché non possono essere attribuiti a finestre, che sarebbero state molto piccole, giacché l’apertura della più grandi (n°2) non supera i 58 cm. Sembra più probabile che siano stati applicati ad un muro in pietra o in mattoni crudi, in cui i blocchi si inserivano nella parte posteriore, e l’ipotesi di una nicchia sembra anche per essi quella più probabile. Ma cos’erano queste nicchie? Sembra che i Palmireni amassero incorniciare i loro bassorilievi come nel vano di una finestra: ci sono pervenute una o due immagini dotate di uno stipite, i cui montanti s’impiantano su di un plinto liscio, dove era generalmente incisa la dedica. Questo è ad esempio il caso del rilievo di Shadrapha e di quello di Helios e Atena (n° 54), ma se ne conoscono esempi anche a Dura. I busti funerari, che chiudevano i loculi, erano anch’essi incorniciati da uno stipite, generalmente appartenente a blocchi indipendenti, ma in qualche caso lavorato nello stesso blocco del rilievo; l’Autore ritiene quindi probabile che questi frammenti inquadrassero immagini votive. Dovevano costituire dei piccoli insiemi architettonici, addossati a un muro in mattoni crudi, probabilmente quello del recinto del tempio, dove erano esposti come lo sono i monumenti funebri alle pareti dei moderni chiostri. Questa ipotesi è corroborata, da un lato dal frammento n° 13, dove lo stipite si appoggia a un plinto che porta i resti di un’iscrizione che non si addice a una finestra; dall’altro, dal frammento n° 7, la cui modanatura si ferma, all’interno, su raggi a cuori: ornamento che non si può trovare nel vano di una finestra, ma si addice a una cornice. I più massicci di questi stipiti devono aver contenuto dei bassorilievi, di cui la maggior parte ci è giunta senza cornici, molto probabilmente perché ne sono stati estratti, come i busti funerari. I più

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sottili, come il n° 13, la cui depressione è di circa 2 cm, hanno probabilmente incorniciato delle immagini dipinte su legno o delle tavole di bronzo. Il tempio di Bel sembra conservare un ricordo di quest’uso: il thalamos nord è fiancheggiato da due

edicole a colonnette, che inquadrano un incavo, evidentemente destinato a un’immagine. Queste edicole a colonnette sono il tipico modo per incorniciare nell’Ellenismo occidentale, il cui gusto si diffuse a Palmira all’epoca della costruzione del tempio, e dove cornici come quelle pubblicate erano eccezionali; ricordano inoltre alcuni naos egizi a forma di porta, oltre ad un tipo di edicola diffuso in

India, derivato anch’esso da influenza dell’Ellenismo orientale. Segue la descrizione dei quattro stipiti trovati nella fondazione T e dei nove conservati presso il Deposito di Palmira.

1. Tralcio di vite, finemente lavorato, scolpito su di una fascia leggermente bombata. All’esterno, toro liscio, separato dal tralcio da un listello; all’interno il tralcio è separato dallo vano strombato solo da un piccolo bisello, che forma uno spigolo vivo. Il piede del tralcio, conservato su di un piccolo frammento, forma un ceppo triangolare, con una foglia o un grappolo in ciascuna sinuosità. Il frammento con ceppo conico è munito di una grappa a destra, a lato della svasatura; quest’appendice è posta indietro circa 6 cm. T 105 è rotto in basso a sinistra, altezza 46 cm, grappa a sinistra, C 47, grappa a destra che dà alla nicchia una profondità di 6,7 cm, altezza 10 cm. Altri frammenti più piccoli: T 221, T 222.

2. Fascia leggermente bombata con un tralcio di vite fra due listelli, profonda scanalatura dal profilo quadrato; toro cesellato a intreccio semplice bordato da perle e un elemento del quale è composto da una fascia bombata fra filetti, l’altro da un gallone con perle. Toro composto da foglie embricate, piattabanda fra listelli, con ramo d’alloro composto da piccoli mazzi, legati fra loro e costituiti da tre foglie e due bacche, toro liscio. Sono conservati: un blocco del montante sinistro (C 26, altezza 53,5 cm), due blocchi del montante destro (C 27, altezza 48,5; C 45, altezza 50 cm), la maggior parte del listello (T 104, lunghezza 76,3 cm), che permette di misurare l’ampiezza del vano, 58 cm.

3. Rotto a sinistra. Tre piattebande separate da listelli e che recano: 1° tralcio composito con raggi a cuori, viticci e melograni; 2° tralcio di piccoli mazzi simile a quello del n° 2, ma con foglie dentellate; 3° tralcio di vite, C 46, rotto in alto e in basso, altezza attuale 15 cm.

4. Rotto su tutti i lati. Tralcio di vite su piattabanda bombata. 5. Provenienza sconosciuta, incompleto a sinistra. Tralcio di vite, con foglia e grappolo in

ciascuna sinuosità, nascente da un ceppo conico, scolpito su di una fascia molto bombata. C 127, rotto in alto, alto 40 cm.

6. Provenienza sconosciuta, incompleta a destra. Astragalo , listello, fascia bombata con tralcio di vite, quarto di cerchio, cavetto e listello. C 153, rotto in alto e in basso, altezza 29 cm.

7. Trovato in un muro moderno a sud del santuario di Bel. Raggi a cuori piattabanda con tralcio di vite, listello, cavetto, quarto di cerchio listello. C 111, rotto in alto e in basso, altezza 39 cm.

8. Provenienza sconosciuta. Due piattebande leggermente bombate, una con decoro di foglie embricate, l’altra un tralcio di vite fra due listelli, toro liscio. Le due piattebande hanno altezza diversa, separate da un forte stacco, che dà l’impressione di una doppia cornice.

9. Trovato in una casa a est del santuario di Bel. Piattabanda con ramo di alloro disposto come il ramo formato da mazzolini del n°3; listello, toro di foglie embricate, piattabanda con tralcio di vite, listello, toro liscio, un po’ incavato. C92, altezza 33 cm.

10. Provenienza sconosciuta. Tralcio d’acanto, da cui sorgono bacche rotonde a forma di mora, fra due fiorellini a quattro petali; la modanatura che segue la piattabanda è andata persa. C 156, spezzata in alto e in basso, altezza attuale 41 cm.

11. e 12. Due frammenti molto mutili, con tralcio di vite, provenienti probabilmente da stipiti simili ma non identici. C 147, provenienza sconosciuta, C108, trovato a ovest del santuario di Bel.

13. Trovato nell’agorà, piattabanda fra listelli, ornata da un tralcio di vite, che sorge da un largo ceppo triangolare, e toro liscio. Lo stipite è unito al plinto, di cui un frammento è conservato, su cui sono incise alcune lettere palmirene (… LDK … o LRK). Nell’angolo formato dal

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plinto e dallo stipite, è conservato un piccolo frammento di un fondo di nicchia, profondo 2 cm. A 1008, altezza attuale 22 cm.

La modanatura. La modanatura di questi stipiti è così particolare che ci si può domandare se non sia stata imitata una tecnica diversa da quella della scultura in pietra: è infatti possibile che gli scalpellini si siano ispirati a sculture lignee. I listelli sporgenti che bordano le piattebande, la scanalatura squadrata che corre lungo il tralcio di vite nello stipite n° 2 sembrano imitare il lavoro di un ebanista. I tori che accompagnano le piattebande non sono opposti, e fanno pensare ai letti palmireni riprodotti sulla pietra nelle tombe: l’intelaiatura del letto è cesellata con toro e piattabanda. Lo stipite n° 8 è particolare: composto da due piattebande, di cui una ha un incavo di circa 4 cm rispetto all’altra, è una vera doppia cornice, simile a quella che adotterebbe un falegname per l’aggiustaggio di due tavole. Forse nei santuari si dedicavano degli ex voto con cornici di legno riccamente lavorate, di cui questi

frammenti permettono di farsi un’idea; tuttavia, queste cornici hanno uno stile proprio, e la tecnica non è sufficiente a spiegarlo. Gli artigiani sembrano aver prediletto le modanature rotonde: le piattebande hanno quasi tutte un profilo bombato, che ricorda quelli dei fregi pulvinati. Cinque cornici terminano esternamente su di un toro, di cui non vi sono altri esempi, mentre addirittura nella cornice n°2 ci sono non meno di tre tori; questi tori, queste curve e le ombre che ne derivano danno vita a una superficie movimentata, piena di contrasti netti. Viceversa, le modanature cave, e quelle che alternano un vuoto alle sporgenze, sono per così dire assenti: su tredici cornici, solo due ne fanno uso (n° 6-7); le modanature cave sono quelle che addolciscono i punti di transizione. Per quanto riguarda la cornice n°8, è formata in realtà da due cornici messe una dentro l’altra, e incavate l’una rispetta all’altra, in modo da formare una forte linea d’ombra, che elimina la transizione. Le piattebande sono quasi tutte, intagliate fra due listelli molto sporgenti, la cui linea bianca e la fascia d’ombra sottolineano con una durezza voluta la composizione della cornice. Gli oggetti di legno antichi sono per lo più scomparsi: tuttavia, né i reperti della Russia meridionale né quelli dell’Egitto, non mostrano altre modanature se non quelle architettoniche. Nella stessa Palmira, gli stipiti e i battenti in pietra, che imitano certamente gli elementi lignei, non offrono che esempi molto classici, e il loro stile è opposto a quello di questi frammenti. Lo stacco intenzionale delle modanature risponde a uno spirito diverso rispetto ai passaggi armoniosi e alle transizioni vibranti delle modanature greche. Le cornici palmirene non s’ispirano a modelli occidentali, e non ne rappresentano la degenerazione; quest’ultima è ben illustrata, ad esempio, negli stipiti del tempio di Si, all’incirca contemporaneo ai nostri frammenti, formati da piattebande e cavetti, , non da piattebande e tori. Se si vogliono altri esempi di questo gusto per i tori, bisogna cercare monumenti molto più tardi: in alcuni edifici cristiani dell’Alta Mesopotamia, a Mchatta e soprattutto, benché molto più tarde rispetto ai nostri frammenti, nelle chiese della Transcaucasia. Si tratta di monumenti che hanno subito influenze iraniche, e proprio all’Iran Strzygowski ha attribuito la predilezione per i cuscinetti, il cui effetto si vedrebbe nell’adozione del fregio pulvinato per opera degli architetti siriani. Si dovrebbe quindi ricercare nei paesi sottomessi alla Persia l’influenza delle cornici di Palmira: sfortunatamente la Mesopotamia non ha ancora offerto esempi di arte decorativa risalente agli inizi della nostra era, e lo stesso si può dire per l’Iran. Bisogna quindi rivolgersi a Paesi più lontani, e l’India sembra offrire alcuni sorprendenti confronti. La città di Mathura, che sorge su di un affluente del Gange e che fu la capitale dei re Kushana, ha restituito parecchi stipiti che ricordano quelli palmireni. Il più ricco, trovato sulla collinetta di Jamalpour, che ospitava il convento buddista del re Houvichka, si compone di due piattabande a decoro scanalato) fra listelli; la piattabanda interna è decorata da scene religiose, quella esterna da un ramoscello di foglie indigene. La prima è profondamente incisa rispetto all’altra, e ne è separata da due o tre tori cesellati, e quello principale è appunto composto di foglie embricate. Altri stipiti, più modesti, presentano gli stessi elementi in un ordine più semplice, e risalgono alla stessa epoca, II sec. d.C.; l’arte del Gandhara conosce ugualmente degli stipiti simili, di solito harmika323 di stupa,

323 La fotografia riproduce un harmika (balcone quadrato con balaustra, tipico del coronamento della stupa) conservato presso il Museo di Calcutta ed è tratta da Art gréco -bouddhique di Foucher, ma non è stato concesso il permesso di riproduzione per la versione on line dell’articolo.

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dove dei bassorilievi sono incorniciati nella porta di un’edicola (fig.54). Questi stipiti presentano, con semplicità, la stessa composizione di tori e piattebande di Palmira e Mathura. L’esempio riportato, risalente alla fine del I o all’inizio del II sec., li ricorda particolarmente, in virtù del suo toro di alloro e del suo tralcio.

Fig. 54. Harmika di stupa (Museo di Calcutta), arte del Gandhara, da Foucher, Art gréco- -bouddhique (immagine mancante nell’edizione on line).

Questi confronti con l’India, di cui saranno offerti altri esempi, non sono una completa novità per Palmira, se ci si ricorda dell’“attelage déployé”, e i monumenti di Dura ne hanno ispirati altrettanti a Rostovtzeff, e la

moltiplicazione di tali indizi permette di precisare meglio il problema che pongono. Il caso delle nostre modanature è particolarmente preciso, perché non riguarda solo un motivo “viaggiante”, bensì lo stile stesso. Come si può spiegare? I mercanti palmireni non si spingevano solo fino al Golfo Persico per acquistarvi le merci venute dall’Oriente, ma giungevano sino all’India nord-occidentale, o Scizia, come si diceva in greco: queste relazioni sono ben attestate per il II sec., ma potrebbero essere antecedenti. Ma la modanatura oggetto di questo studio non appartiene all’arte indiana, giacché si ritrova solo a Gandhara e Mathura, province fortemente influenzate dall’arte greca e iraniana. Tuttavia, neppure la sola influenza greca può spiegare il nostro motivo: bisogna dunque ritornare al mondo iranico, più esattamente verso l’impero partico. Le carovane di Palmira si recavano regolarmente a Babilonia, Seleucia sul Tigri, Vologesia, Charax, Forat: in

queste città, variamente ellenizzate e iranizzate, essi avevano accesso alle merci d’Oriente, e là incontrarono, probabilmente sotto forma di oggetti lignei, i modelli che hanno ispirato le nostre cornici. Questo non deve sorprendere, perché le carovane importavano a Palmira perfino le statue di bronzo; similmente, alcuni manufatti lignei passarono probabilmente dall’impero partico all’India, dove furono copiate da artigiani che vi adattarono motivi locali. Il tralcio di vite: la Siria sembra essere stata la terra d’elezione di questo motivo decorativo, d’origine oscura, e gli edifici palmireni, con quelli dell’Hauran, sono quelli che ci hanno fornito gli esempi più vari e più notevoli. Tuttavia, questi tralci risalgono quasi tutti a epoche piuttosto tarde, almeno al III sec., e assumono spesso un aspetto ricco e movimentato, il cui esempio migliore è fornito dai pilastri del tempio funerario e dell’edificio di Diocleziano. Questo disegno complesso, in cui due tralci s’intrecciano per formare come dei grandi medaglioni, ricorda molto i decori siriani coevi, e a essi probabilmente s’ispira. Prima di questo periodo di popolarità, la vite non compariva nella grande architettura se non nel tempio di Bel, ed è notevole che essa decori il portale e alcuni correntini del peristilio, parti in cui il gusto locale ha resistito alle tendenze classiche che imponevano la loro severità al resto dell’edificio. Oltre a questo esempio notevole, vi è il tralcio che orna, nel 102, l’archivolto della nicchia sulla facciata della tomba di Elahbel e quello che sarà descritto al n° 54: in entrambi i casi, lo stile delle foglie tradisce la data tardiva della loro esecuzione. Dodici cornici su tredici fra quelle qui descritte, escludendo la n°54, sono ornate da un tralcio di vite, e si deduce da questo la preponderanza che aveva questo motivo decorativo a Palmira agli inizi del I sec. d.C. Il

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disegno del tralcio è sempre molto semplice: ogni voluta del tralcio contiene un grappolo o una foglia, e in un solo caso (n°5) li ingloba entrambi. Sulle cornici si ritrovano motivi un po’ più complessi, ma la stessa disposizione di tralci, viticci e grappoli, sempre rappresentati nel loro completo sviluppo e senza accavallamenti, resta marcatamente arcaica. I tralci del tempio di Si in Nabatene, i soli che possano rivaleggiare con quelli palmireni, se ne distaccano molto sotto quest’aspetto, e i loro steli intrecciati, nonostante il provincialismo della loro esecuzione, tradiscono un gusto pittorico che deriva probabilmente da un modello della Siria ellenizzata. Un particolare curioso si nota alla base dei nostri tralci: mentre altrove la vite sorge da un vaso, o da un calice d’acanto oppure, specialmente in Siria, s’innalza bruscamente dal suolo, gli artigiani palmireni lo fanno sorgere da un grosso ceppo conico, che occupa tutta la larghezza della piattabanda (n°1,5*, 8*, 13*, 54* e il tralcio della tomba di Elahbel). L’Autore non conosce altri esempi di tale motivo, che non sono stati presi a prestito dall’Occidente e i tralci di Si lo ignorano: a meno di supporre che i Palmireni l’abbiano inventato, si potrebbe ipotizzare che sia stato tratto, come la modanatura delle loro cornici, dall’ellenismo orientale della Mesopotamia. Potrebbe essere l’antenato della radice triangolare, molto stilizzata, da cui sorgeranno più tardi i tralci sasanidi? A metà dello stipite, i due tralci si affrontano e terminano, piuttosto maldestramente, con una foglia più simile a quella dell’acanto che a quella della vite (n°2, 54*). Il tralcio della tomba di Elahbel (102 d.C.), scolpito su di un archivolto a superficie bombata, e quello che sarà descritto con il n° 53*, seguono esattamente la stessa tradizione dei nostri frammenti: stesso disegno, stesso ceppo, stessi tralci che si affrontano. Questa tradizione, benché attestata solo da questi due esempi in età tarda, è dunque sopravvissuta: è probabile che si sia mantenuta nella scultura lignea, che per noi è persa. Anche i tralci del tempio di Bel la seguono, ma vi si sente, come in tutte le componenti di questo edificio, l’influenza dell’Occidente: i viticci si avvolgono agli steli, i grappoli e le foglie si accavallano timidamente; tuttavia, questi dettagli non tradiscono lo spirito con cui è trattato il tralcio, giacché, come per i nostri frammenti, si tratta di un linguaggio prettamente orientale. Quanto al trattamento del rilievo sui nostri frammenti, non è uniforme, e permette di distinguere due gruppi differenti: nel primo (n°1,6*, 21, e in una certa misura, 9*), la foglia è scolpita a cupola, il suo bordo scende a filo della pietra, ma è scolpito così nettamente che la foglia si distacca vivamente, e tuttavia non manca di fare tutt’uno con il fondo. Nel secondo gruppo, al contrario, la foglia è come intagliata, e i bordi scendono verticalmente verso il fondo, la superficie è sullo stesso piano dei listelli che contornano il tralcio e le punte rimangono attaccati a essi. In altri termini, seguendo una distinzione ben nota, le foglie del primo gruppo sono modellate per se stesse e producono con il loro gioco d’ombre morbide un effetto a rilievo; quelle del secondo gruppo, al contrario, sono lavorate a scanalature e si distaccano luminosamente su un fondo d’ombra che spezzano in frammenti, producendo un effetto pittorico di nero su bianco. I due gruppi si distinguono inoltre per la resa delle nervature, che formano nel primo caso un reticolo uguale e superficiale, e al contrario, nel secondo gruppo, tendono a ridursi alle nervature principali: esse formano allora delle robuste costolature, come se la foglia fosse vista da sotto. Vi erano evidentemente due tradizioni diverse, entrambe esistenti quando furono scolpiti i frammenti trovati nella fondazione T. Forse la seconda si spiega con la lavorazione del legno, ma non si può non osservare che i suoi prodotti, così come sono, sembrano anticipare i tralci di III sec., e, attraverso di essi, quelli degli edifici cristiani, trattati ugualmente su di un solo piano, che mostrano dei piccoli poligoni d’ombra ottenuti tramite intaglio. I tralci del portale del tempio di Bel derivano chiaramente da questo secondo gruppo per la forma delle foglie, ma non producono questo effetto di nero su bianco, così contrario all’estetica occidentale che si diffonde a Palmira all’epoca in cui furono scolpiti. Altri motivi: la ghirlanda di mazzolini con tre foglie e i tori d’alloro sono motivi diffusi in età ellenistica, in Oriente come in Occidente. Anche l’intreccio semplice, del tipo detto assiro, non è un motivo raro, ad eccezione delle perle che lo decorano, e di cui si parlerà più avanti: si può tuttavia notare che dall’avvento dello stile classicizzante a Palmira esso scompare, vale a dire durante la costruzione del tempio di Bel. Il piccolo tralcio di melograni è più eccezionale, ma altri se ne trovano in Siria, per lo meno all’epoca dei nostri frammenti, e ornano a Palmira il portale del tempio di Bel, di cui costituisce uno degli arcaismi: scompaiono in seguito dal repertorio palmireno, come tutto ciò che non è permesso dallo stile classico. Ritornano tuttavia nella decorazione di Mchatta, sui pilastri di Acre, nei mosaici cristiani e ommayadi. Quanto al piccolo tralcio di bacche e d’acanto si ritrova anche altrove a Palmira, e la bacca ricorre anche su due cornici d’acanto che saranno descritte in seguito (n°30, 31) e su un tralcio che decora la sommità della porta del theatron di Si.

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Per quanto riguarda i raggi a cuori che accompagnano il tralcio n°7*, Duru ne ha analizzato lo schema con precisione; l’Autore lo confronta con quelle che decorano lo stipite del thalamos nord del Tempio di Bel, con

cui hanno strette analogie; ciò conferma l’attribuzione del frammento n°7* all’inizio del I sec. d.C.

II. Cadres moulurés.

I due primi blocchi ricordano nel loro profilo un architrave, benché i loro dettagli siano molto particolari. Il n° 14 faceva certamente parte di una cornice, perciò presenta un incasso che sfiora la sua fascia inferiore; benché il n° 15 non presenti le medesime particolarità, l’Autore gli attribuisce la medesima funzione. Il terzo blocco (n°16) è ornato da una modanatura a kyma reversa molto particolare: l’obliquità di tale modanatura ricorda le ugnature dei due blocchi precedenti e fa pensare alla lavorazione del legno; l’attribuzione a una cornice rimane ipotetica, ma sembra probabile.

14. Blocco architravato: larga fascia, leggermente obliqua, sormontata da tre piccoli listelli ugnati, poi un’altra fascia di larghezza media. Il tutto è coronato da due quarti di cerchio e da un listello. T 320, lunghezza 65 cm. Altro frammento: T 208, lunghezza 32 cm.

15. Blocco architravato: trovato nel santuario di Bel, stesso tipo del precedente, ma con altre proporzioni. C 160 spezzato a sinistra, lunghezza attuale 12 cm.

16. Blocco modanato: modanatura formata essenzialmente da una kyma reversa, inclinata. T 163, lunghezza 54.

III. Pilastres ou éléments de cadres, à fond lisse.

La fondazione T ha restituito cinque serie di questi blocchi, ornati da cinque differenti decori. La faccia anteriore è decorata, quelle laterali sono lisce, mentre quella posteriore non è lavorata: si può concludere, come per gli stipiti, che questi blocchi fossero inseriti in una struttura in mattoni crudi. Due di questi blocchi (n° 18 e 20) presentano su uno solo dei loro lati, un po’ distanziato dallo spigolo anteriore, un’incisione, che doveva segnare il punto di contatto di un muro da cui i blocchi sporgevano. La decorazione non è sempre sull’asse del blocco: in due serie (n°17-18), è spostata a destra o a sinistra, e nella serie 18, marcata da un’incisione, si nota che la decorazione è sempre spostata rispetto al punto in cui quest’ultima si trova. Ciascuna delle due serie comprende quindi dei blocchi lavorati in vista di una simmetria; non vi erano grappe, né malta né impiombature. Due blocchi della serie 21 portano sul lato sinistro delle lettere in palmireno, destinate senza dubbio a facilitarne l’assemblaggio. La lavorazione delle sculture è stata compiuta, in tutte le serie, prima della posa in opera, come dimostra la direzione molto variabile dei colpi di scalpello, e il fatto che, nella serie 21, la lunghezza dei blocchi è sempre calcolata per contenere un numero intero di grappoli e fogli, e ciò evita che questi siano tagliati dai giunti: se il decoro fosse stato scolpito dopo la posa in opera, al contrario, non si sarebbe tenuto conto dei giunti. L’interpretazione di questi elementi è difficile, e l’Autore non ne offre una ricostruzione precisa. La presenza di serie simmetriche invita, benché non si tratti di un argomento decisivo, a pensare che i blocchi fossero disposti verticalmente in maniera simmetrica. L’ipotesi di pilastri scolpiti non è molto soddisfacente, perché è difficile immaginare come la loro decorazione terminasse verso l’alto, e d’altra parte, il disassamento della decorazione in alcune serie e la presenza di un’incisione su di un solo lato non vi si adattano ugualmente. L’ipotesi di una cornice è quella maggiormente plausibile: la decorazione di ciascun piedritto avrebbe cambiato direzione verso l’architrave, a metà del quale si sarebbe fermata come sull’architrave degli stipiti (n°2, 54*). Non si conoscono con certezza cornici di tale tipo, prive di modanature, e la cui decorazione spicca su di un fondo perfettamente liscio. Si potrebbe pensare che i nostri blocchi fossero associati a una cornice modanata, forse ad alcuni stipiti, all’esterno dei quali formavano una fascia riccamente decorata: almeno, la presenza dell’incisione su di un solo lato si accorda con quest’ipotesi, che l’Autore propone, anche se con molte riserve. Queste ultime sono in qualche modo giustificate anche da altre considerazioni: le rovine del primo palazzo sasanide di Kish hanno rivelato modanature di stucco, fra le quali vi son tori ornati da motivi a zig-zag o a foglie embricate. Tali ornamenti possono essere paragonati a quelli scoperti da Dieulafoy a Susa, in un palazzo le cui rovine si sovrappongono a quelle del palazzo di Artaserse Mnemon: si tratta di tori di stucco, ornati da losanghe o da

foglie embricate, e non si può più dubitare, dopo le scoperte di Kish, che anch’essi appartengano all’età sasanide (fig. 55).

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Fig. 55. Ornamento di stucco di un palazzo sasanide di Susa, da Dieulafoy (immagine mancante

nell’edizione on line).

Malgrado i secoli che separano questi frammenti dai nostri, è impossibile contestare che esista un rapporto fra di essi, soprattutto se si pensa che uno dei nostri frammenti presenta una decorazione a foglie embricate, e che i tori di Kish e di Susa emergono da una piattabanda in rilievo. Tuttavia, questi ultimi sembrano aver costituito nel palazzo sasanide una decorazione orizzontale, che potrebbe essere ammissibile anche per i nostri tre tori (n°17-19), ma che è difficile pensare per i tralci (n°20-21). L’Autore ritiene più prudente limitarsi a segnalare l’analogia sicura dei motivi, e di restare nel dubbio per quanto riguarda la funzione dei blocchi. Segue le loro descrizione.

17. Blocchi ornati da un motivo a intreccio: questo intreccio, che forma grandi riccioli, presenta una composizione complessa. E’ formata da due elementi: un gallone con perle e una fascia bombata fra filetti; alcune perle isolate si posizionano, su entrambi i lati, nelle curve del motivo. Il profilo generale è quello di un cuscinetto rotondo, molto sporgente. C28, rotto in alto, altezza 59 cm, motivo spostato a sinistra; T269, rotto ovunque a parte in basso, altezza 30,5 cm.

18. Idem: stesso motivo, più largo, con profilo più schiacciato. T101, altezza 49 cm, motivo spostato a sinistra, incisione a destra di 3,5 cm, dallo spigolo anteriore sinistro; T119, altezza 45 cm, stessa descrizione; C161, rotto in alto, altezza attuale 51 cm, motivo spostato a sinistra, motivo a destra.

19. Blocchi ornati con toro d’alloro: motivo cesellato in un cuscinetto tondo, molto sporgente. T205, rotto in basso, alto 37 cm, largo 48 cm; C133, altezza 39 cm; senza n°, rotto ovunque salvo a sinistra, altezza 37 cm; C157, altezza 63,5 cm.

20. Blocco ornato da tralcio composito: stelo sinuoso, che reca in ciascuna sinuosità un piccolo fiore a elice, un fiore a otto petali, una bacca, e un calice da cui emergono due bacche. T72, altezza 43 cm larghezza 35 cm, incisione destra a 9,7 cm dallo spigolo anteriore sinistro; T430, altezza 50 cm, stessa incisione, ma a 9,2 cm dallo spigolo anteriore destro.

21. Blocchi ornati da un tralcio di vite: stelo pressoché diritto, ai lati del quale abbiamo grappoli e foglie, scolpiti a rilievo molto alto e pieno; sulla punta di ciascuna foglia e di ciascun grappolo vi è un doppio viticcio. C24, altezza 52 cm, larghezza 35,5 cm; lettere palmirene di assemblaggio incise sulla faccia sinistra: in alto M e una lettera mutila, in basso T M. C25, altezza 54 cm, lettere palmirene di assemblaggio incise sul lato sinistro: in alto M T, in basso una lettera mutila ed una M. C44, altezza 39 cm, le lettere palmirene W H B, iniziali di un nome come Wahballâth, sono incise dall’alto in basso, secondo l’abitudine della scrittura

corsiva. T174, spezzato in alto e a destra, altezza 34 cm. T213, altezza 29 cm; senza numero, spezzato in alto e a sinistra, altezza 36 cm; C 96, trovato nel santuario di Bel, altezza 84 cm.

Tralci: i blocchi ornati da tralcio di vite (n°21), che, sovrapposti, formerebbero oggi un pilastro di più di tre metri, sono probabilmente i più originali della serie. Forse alcuni dei tralci dei monumenti di Si conservano,

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nonostante la loro esecuzione corsiva, il lontano ricordo di un modello analogo, e alcuni fregi tardivi in stucco, da Assur e da Seleucia sul Tigri mostrano, con altri tipi di foglie, una disposizione simile. Ma a Palmira si tratta di una tradizione piena di vigore e di splendore, certamente vicina alla propria fonte, che ci compare per la prima volta in questo ornamento. Su uno stelo leggermente sinuoso, i grappoli e le foglie si alternano con rigore geometrico, e formano al centro del blocco una catena alta e compatta, incorniciata dalla minore sporgenza dei viticci. Questa composizione dallo spirito arcaico, fortemente voluta e ordinata, i cui elementi si distaccano in piena luce, non ricorda per nulla l’arte del Mediterraneo; per quanto riguarda il trattamento delle foglie, si rimanda a quanto è stato detto dei tralci degli stipiti. L’altro stipite (n°20), composto da elementi diversi, è di gusto più banale. Tori cesellati: si è visto, nel corso dell’analisi degli stipiti, il gusto che gli artigiani avevano per l’utilizzo del toro, ma è sui blocchi che stanno per essere trattati che tale predilezione emerge con tutta la sua forza. Il toro di alloro e quello formato da intrecci sono qui ornamenti indipendenti, che non s’impongono solo per la potenza del loro spessore, ma anche per il loro isolamento su di una piattabanda perfettamente liscia. Il toro d’alloro è un motivo comune nell’arte ellenistica, ma non è mai utilizzato da solo. Quanto all’intreccio, il suo disegno molto particolare non è completamente ignoto all’arte occidentale, ma la potenza e l’originalità del suo trattamento non permettono di paragonarli, nonostante dodici o quindici secoli di distanza, che ai tori ornati d’intrecci delle chiese transcaucasiche e bizantine. Un tale ornamento non può che appartenere a una tradizione molto vivace, di cui bisogna ipotizzare l’esistenza, benché i monumenti che le appartengono sembrino interamente scomparsi. Se il motivo delle foglie embricate e quello dei riccioli intrecciati hanno degli agganci in Occidente, la forma a cui si sono adattati non si ritrova che sui frammenti sasanidi di Susa e Kish. Inoltre, la resa dell’intreccio, dove dei fori profondi sono scavati fra i nastri per ottenere un effetto chiaroscurale, è all’opposto degli intrecci greci e romani, anche in Siria, i cui nastri sono stretti in modo da evitare quest’effetto, e ricevono spesso un profilo concavo dove le ombre si smorzano. Queste considerazioni permettono di attribuire i frammenti 17,18,19 a una tradizione mista, dove un motivo greco è stato adattato e trattato all’orientale. E’ molto probabile, ancora una volta, che i Palmireni abbiano preso a prestito questa tradizione all’ellenismo iranizzato della Bassa Mesopotamia. Il gallone perlato: la presenza di un gallone perlato su di un elemento dei nostri intrecci aumenta gli indizi a favore di quest’origine. Questo gallone è già stato visto sull’intreccio semplice che orna uno stipite (n°2) e lo si vedrà su altri due esempi, uno sull’intreccio di una cornice (n°32) e l’altro sull’astragalo di un capitello (n°40). Quest’ornamento sparisce in seguito da Palmira fino al III sec. d.C., quando ritorna nuovamente, anche se di rado; lo si trova allora, anche se con uno stile differente, nel soffitto di un archivolto nell’esedra di Maqqai, e nella cassettonatura di una nicchia nella Valle delle Tombe; è possibile che la tradizione si sia

mantenuta sino ad allora in materiali differenti dalla pietra. Il gallone perlato non compare in ambito mediterraneo; in Siria gli architetti delle chiese cristiane sono i primi a utilizzarlo, e si conosce abbastanza il repertorio decorativo della fine dell’epoca pagana per poter affermare che quest’ultimo non gliene ha fornito il modello. Questo motivo, al contrario, ha goduto di grande favore in alcune civiltà asiatiche: l’Autore non indugia su quelle posteriori a Palmira, sull’arte sasanide o sulle chiese della Transcaucasia, né su alcune analogie piuttosto sorprendenti offerte dagli arazzi copti. L’arte dell’India nord-occidentale, ancora una volta, ne offre alcuni esempi, che precedono da lontano quelli di Palmira. Dalla metà del II sec. a.C., il gallone perlato orna la base di una stupa e l’astragalo di un capitello su due

rilievi di Barhut, e cento anni dopo circonda un tralcio floreale sulla balaustra di Bodh – Gaya. Nel I sec., un rilievo di Mathura lo utilizza sull’abaco di un capitello, e alla fine dello stesso secolo disegna un meandro ad Amaravati e compare in alcuni rosoni. Le analogie già rilevate fra gli stipiti di Palmira e quelli del Gandhara e di Mathura fanno capire che questi confronti non sono dovuti al caso, ma ce ne si convincerà ancora di più analizzando i tessuti e i gioielli. Il gallone perlato orna frequentemente gli abiti parti di Palmira, a qualunque epoca essi appartengano, e l’Autore aveva già ipotizzato che abbiano avuto origine proprio in Persia, il paese delle perle: esse ornano già gli abiti degli arcieri di Susa; all’epoca Seyrig conosceva solamente i frammenti di scultura trovati a Mathura con la statua del re Kanichka (II sec. d.C.), che raffigurano tessuti con decorazioni che ricordano sorprendentemente quelli degli abiti palmireni. I tralci, bordati e separati da galloni perlati, appartengono allo stesso ambiente, e si trovano ugualmente, a Palmira e in India, gli stessi cuscini di stoffa, ornati da larghi nastri lavorati e bordati dallo stesso gallone. Non si può dunque pensare che i Palmireni e gli abitanti di Mathura utilizzassero le stesse stoffe, poiché, se alcuni tralci sono simili, altri sono differenti: a Palmira si

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utilizzava la vite, a Mathura una foglia indigena, il che dimostra che si tratta di due officine tessili indipendenti, anche se probabilmente avevano una medesima fonte d’ispirazione. Lo studio dei gioielli palmireni, di cui i busti offrono un repertorio ricchissimo, non è mai stato intrapreso: esso fornirebbe delle testimonianze curiose. Per fare un solo esempio, le signore palmirene portavano una sorta di diadema o fascia, ornata da diversi motivi. Spesso, quest’ultimo si compone di uno o due fiori quadrati, formati da otto petali, di cui quattro sono completamente visibili, mentre gli altri mostrano solo le loro punte negli spazi fra i primi; questi fiori sono incorniciati o separati da piccole file di perle rotonde. Senza dubbio il diadema era formato da una fascia metallica, poiché si ritrova lo stesso motivo su alcuni braccialetti palmireni, e può darsi che vere perle fossero inserite negli esemplari più lussuosi. Questo motivo, abbastanza complicato per non essere casuale, si ritrova su di una trave scolpita della balaustra di Amaravati (provincia di Madras), che gli indologi datano al II sec. d.C. Si tratta ancora una volta di uno di quei “motivi viaggianti”, comuni all’India antica e a Palmira, ma estranei, a quanto sembra, al mondo mediterraneo. Il gallone perlato, la sua combinazione con il tralcio nei decori dei tessuti, la fila di fiori quadrati separati da perle, sono originari dell’India? Non sono abbastanza frequenti perché lo si possa affermare con certezza, ed è meglio pensare che siano nati nelle industrie del lusso che circondavano la corte dei Parti, e che da là si siano diffusi, come le nostre cornici modanate, sia verso l’India sia verso il deserto siriano.

IV. Corniches.

Questi blocchi, come i precedenti, non sono generalmente sgrossati nella parte posteriore, e probabilmente incorniciavano edicole votive apposte contro un muro, del tipo precedentemente descritto. Un primo gruppo (dal n°21 al 26) comprende delle cornici a kyma recta, di tipi diversi, che senza dubbio appartenevano a delle

edicole a colonnette: la fondazione T ha restituito alcuni frammenti molto rovinati di semicolonne scanalate, che devono aver avuto questa funzione. I blocchi del secondo gruppo (dal n° 27 al 32) hanno il semplice profilo di quarto di cerchio, il che non è comune e rende difficile la loro attribuzione. Può darsi che siano serviti non da cornice, ma da inquadramento, come gli stipiti prima descritti. Tuttavia, la loro decorazione – poiché tutti i blocchi di questo gruppo sono scolpiti – mal si adatta a un tale uso. Le foglie d’acanto sollevate (n° 30 e 31) sono trattate in un modo che meglio si adatta a una cornice, e i tralci di vite appartengono a dei tipi ricchi e complessi, che non si trovano negli stipiti di Palmira, neppure su quelli del tempio di Bel. Infine, il volume e il profilo dei blocchi sembrano anch’essi meglio adattarsi a una cornice, e coronerebbero bene lo stipite di una finestra o di un riquadro, benché l’architettura classica non utilizzi mai il quarto di cerchio in questa funzione. L’architettura cristiana, tuttavia, a causa del suo gusto per i profili rotondi, che condivide con i nostri frammenti, ne fa uso, e la cornice a quarto di cerchio corona regolarmente le aperture. Può darsi che si tratti della prima apparizione di questo motivo, che avrebbe la stessa origine greco – iraniana di quelli prima esaminati. Si potrebbe essere tentati di ricorrere ancora all’India per averne conferma, e le rovine di Mathura hanno, in effetti, restituito uno stipite che corona una cornice d’acanto sollevato, il cui profilo forma un quarto di cerchio. Bisogna tuttavia ammettere che sembra essere stata una forma isolata, e che un kyma recta fosse più comune nel Gandhara.

22. Base di una cornice a dentelli: su di un toro cesellato di foglie embricate vi è una fila di dentelli, poi un cavetto; la parte superiore è perduta. T113, rotto a destra, lungo 37 cm, dentelli larghi 3,5 cm, separati da uno spazio di 1,5 cm, altezza 26 cm. Altri frammenti: senza n°, lunghezza 35,5 cm, trovato nel santuario di Bel, rotto a destra e a sinistra, lungo 31 cm. T159, rotto a destra, lunghezza attuale 38 cm.

23. Altra cornice a dentelli: dentelli, cavetto, kyma recta. T315, lunghezza 45,5 cm; dentelli larghi

2,8 cm, separati da uno spazio di 1,2 cm. Diverse cornici simili, ma di dimensioni leggermente diverse, hanno lasciato dei frammenti (T73, T253, T261 ecc...).

24. Cornice semplice: gocciolatoio senza spigolo e kyma recta. T 120, lunghezza 32 cm. 25. Idem: gocciolatoio con spigolo e kyma recta. T116, larghezza 36, T117, lunghezza 41 cm; altro

frammento: T163, spezzato a destra, lunghezza 58 cm. 26. Cornice con una fila di ovoli e kyma recta cesellata con raggi a cuori: ovoli molto pesanti, a

forma di lingua, circondati da un grosso cuscinetto simile, il dardo visibile fino alla sua radice. Kyma recta ornata da raggi a cuori , trattata a decoro piatto, in cui s’inseriscono dei

calici di fiori. C 32, lunghezza 32 cm, altezza 28 cm; T41, rotto a destra, lunghezza 64 cm; T 102, rotto a sinistra, lunghezza 77 cm.

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27. Elemento di cornice ornato con tralcio di vite: il profilo è quello di un quarto di cerchio , ciascuna sinuosità del tralcio contiene un grappolo e due foglie, il grappolo, una volta su due, non è pendente. C 43, rotto a sinistra, lunghezza 60 cm; T 434, lunghezza 79. Senza n°, provenienza ignota, rotto a destra e a sinistra, lunghezza 44 cm.

28. Idem: il profilo di fondo è quello di un cavetto, ma il rilievo (specialmente le foglie, che sono

molto unite), s’inscrive in un quarto di cerchio. Ogni sinuosità del tralcio contiene un solo grappolo, o una sola foglia, che poggia sullo stelo. T 44, lunghezza 53,5 cm.

29. Blocco con tralcio di vite composito: su di un profilo simile a un cavetto, tralcio di vite grossolanamente scolpito, in cui è inserito un fiore a tre petali. T 289, lunghezza 23,5 cm, altezza 17,7 cm.

30. Elemento di cornice ornata di acanti: acanto trattato come nei capitelli, foglie del tipo a quarto di cerchio. Tra le foglie compaiono delle grosse bacche rotonde, composte da piccoli granuli, il profilo è quello di un quarto di cerchio. T 110, rotto a destra e a sinistra, lungo 60 cm.

31. Idem: le bacche sono sostenute da lunghi steli inseriti nell’occhiello dell’acanto; il profilo è

all’incirca quello di un quarto di cerchio T 188, lunghezza 43 cm. 32. Elemento di cornice con traccia a quattro nastri: profilo leggermente bombato, tendente al

quarto di cerchio . Treccia di quattro galloni perlati, tracce di malta sul letto di preparazione. C 158, trovato nel santuario di Bel, lunghezza 37,5 cm. Altri frammenti spezzati: T 130, lunghezza 19 cm.

La cornice 23 ha un toro d’alloro sotto i dentelli, dove solitamente si trova una fila di ovoli. I ni 24 e 25 presentano un profilo della kyma recta particolarmente arcuato: lo spigolo è inclinato e la kyma tende a formare un incavo. Queste forme potrebbero essere legate semplicemente alla poca abilità dell’artigiano, se non si trovassero comunemente nei monumenti cristiani. Lo stesso profilo si vede nella modanatura del tempio di Kengawar in Media (fig.56), che risale al I sec. a.C., e in quella del Taq i Girra, piccolo monumento che si trova al passo dello Zagros, e che sembra risalire alla prima fase dell’epoca sasanide: questi confronti non possono essere fortuiti, considerati quelli forniti dai frammenti precedenti.

Fig. 56. modanatura del santuario di Artemide a Kengawar in Media, da Reuther (immagine mancante

nell’edizione on line).

Doucine ornée d’un rais de coeur renversé: la cornice successiva (n°26), dal profilo banale, è al contrario particolare per la sua decorazione. Il suo kyma è cesellato con un ornamento simile a una foglia cuoriforme, staccata dalla modanatura a kyma reversa che sola può fungere da suo supporto normale, non forma qui che un arabesco piatto. Quest’ultimo, diviso in fili, si presenta capovolto e contiene calici di fiori ricchi e variegati. Per quanto questa trasformazione sia avanzata, potrebbe ancora bruciare una tappa: è ciò che è accaduto nel thalamos sud del tempio di Bel, dove una foglia a cuore, scolpita su di una piattabanda, è

trasformata in un arabesco che non forma più punte, ma dei riccioli alternati, che contengono palmette. La Siria non offre alcun ornamento paragonabile a esso, né per il decoro floreale, né per il capovolgimento o per l’adattamento a un kyma recta. Il palazzo partico di Hatra, tuttavia, possiede un kyma ornata da raggi a cuori,

capovolta. Senza dubbio questa degenerazione si era prodotta nell’ellenismo mesopotamico, dove gli architetti di Palmira e Hatra, a 150 anni di distanza, avranno preso i loro modelli. E’vero che si trova in Etruria, in epoca più antica, un’analoga trasformazione: la foglia cuoriforme orna un cavetto, è capovolta, e

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contiene una piccola palmetta nel suo arco. Quest’ornamento non è usato nell’arte romana, anche in età repubblicana, e l’Autore non ritiene possibile che vi siano legami fra i due. La presenza di una palmetta o di un fiore nell’arco non è eccezionale per l’arte greca, il capovolgimento e l’impiego su di una modanatura inadatta sembrano essere, in Etruria e lungo l’Eufrate, dei provincialismi indipendenti. Le rang d’oves: la fila di ovoli che corre sotto la kyma recta, nella nostra cornice, è ugualmente di un tipo

particolare. L’ovolo è largo, relativamente piatto, e termina a semicerchio: pende come una lingua. Al contrario dell’ovolo classico, non è circondato da una conchiglia a spigolo vivo, ma piuttosto da un grosso bastoncino, di spessore uniforme. Fra gli ovoli, il dardo è visibile sino alla radice, ma è molto compresso. Numerosi altri frammenti di questa serie (n°39, 41, 43) posseggono ovoli di questo tipo, e sul n°43 il dardo è così compresso che lo stelo è invisibile, ed emerge solo la punta. Queste caratteristiche, estranee all’arte classica, non si trovano neppure in Siria, ma ricordano l’ovolo arcaico e ornamenti analoghi che si trovano particolarmente nei monumenti persiani. Se gli architetti siriani hanno sempre imitato l’ovolo classico, anche a Palmira dalla costruzione del tempio di Bel, non è così a est di Palmira, dove vi sono alcuni paralleli. Gli ovoli della stele di Artemide Azzanathcona, trovata a Dura, sono dello stesso tipo del nostro: è così che degli

ovoli con dei grossi cuscinetti ornano i capitelli parti trovati a Uruk da Loftus. Una tomba di età achemenide, scoperta a Qizqapan in Kurdistan, presenta gli stessi ovoli pesanti, il cui cuscinetto non lascia scoperta che la punta del dardo, come nella decorazione di Persepoli: gli ovoli parti e palmireni derivano direttamente da quest’ornamento, e non da quelli della Grecia classica. La loro forma, paragonata agli ovoli del tempio di Bel, mostra chiaramente come i frammenti su cui compaiono siano anteriori a quest’edificio e alle influenza che vi si manifestano. Le cornici a ovoli presentano tralci di vite (ni 27,28,29), acanti (30,31) e intrecci (32). Quest’ultimo è il motivo più originale, che forma una treccia di quattro galloni perlati. La treccia è molle e gli interstizi sono profondamente scavati (n°17,18): per trovare un confronto con la nostra cornice bisogna arrivare sino ai capitelli cristiani a cesto.

V. Fragment d’entablement. Questo frammento, più grande degli altri, trovato sotto il pavimento del portico nord del santuario di Bel, doveva formare la trabeazione di un’edicola.

33. Fregio con tralcio di vite: cornice di cui non resta che la parte inferiore, tagliata in un quarto di cerchio, treccia di tre nastri a tre fili, con gli interstizi interni ed esterni occupati da perle. Sopra altro intreccio, di cui rimangono labili tracce. Senza n°, blocco lavorato posteriormente, completo a destra e sinistra, lungo 64,5 cm, largo 73,5 e spesso 123 cm.

I. Merlons à degrés.

La fondazione T ha restituito quattro merli a gradini, ornamento banale a Palmira e in tutta la Siria. Nel santuario di Bel, i merli del propileo recano una grande foglia d’acanto: un piccolo merlo di calcare tenero (n°34) presenta una palmetta; gli stucchi di Seleucia sul Tigri offrono esemplari simili.

34. Quattro merli a gradini: T 423, quattro gradini, rotto a sinistra, lunghezza 44 cm, alti 34. T 424, quattro gradini, come il precedente; T 46, quattro gradini, forse rotto in basso, lungo 47 cm. Senza n°, cinque gradini, lunghezza 53 cm.

35. Piccolo merlo a gradini: provenienza sconosciuta, sulla faccia anteriore palmetta. C 155, lunghezza 14, quattro gradini di 5,5 cm.

II. Chapiteux pseudo-corinthiens.

La fondazione T ha fornito tre di questi capitelli e l’angolo di un quarto. Questa serie, come quella degli stipiti, può essere completata da alcuni reperti del deposito di Palmira: benché la loro precisa origine non sia nota, non vi è dubbio che appartengano alla stessa categoria. L’Autore pubblica qui quattro di questi capitelli, mentre altri tre sono stati editi da Schlumberger, mentre l’ottavo non aggiunge nulla d’interessante alla serie. Tutti questi capitelli, che abbiano una base rotonda o quadrata, presentano la stessa particolarità dei frammenti delle categorie precedenti: non sono scolpiti posteriormente e dovevano far parte di una decorazione appoggiata a un muro di mattoni crudi. Tutti appartenevano a pilastri o semicolonne e le loro dimensioni erano piuttosto piccole: il più grande di essi (n°41) ha una base con diametro di 60 cm, ma sono molto diverse, perché il diametro di un altro (n°40) non è che di 35 cm. I più piccoli possono provenire da

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semplici nicchie, ma i più grandi componevano insiemi più ambiziosi, che non è possibile ricostruire, neppure a grandi linee.

36. Capitello di semicolonna: rotto a destra, senza abaco, trabeazione ricavata dallo stesso blocco di pietra,poggiante direttamente sulle volute, composta da una fascia fra due modanature consunte. Questa trabeazione, diritta, cambia direzione verso la faccia sinistra, e doveva fare altrettanto a destra, ma la parte è mancante. Mortasa rettangolare sul letto di preparazione, foglie striate, occhielli triangolari, rosetta a otto petali fra le volute. C 138, altezza 42,5 cm, di cui 16 per la trabeazione: larghezza fra le volute 48, diametro approssimativo alla base 42.

37. Angolo di capitello: senza abaco, foglie baccellate, occhiello rotondo. Altezza 44 cm. 38. Capitello di un piccolo pilastro: rotto in basso, abaco leggermente incurvato, formato da una

fascia fra due modanature consunte, foglie baccellate, occhiello triangolare. C 134 larghezza all’abaco 26,5, altezza 26, di cui 6,8 per l’abaco.

39. Capitello di pilastro, con angolo rientrante senza abaco, astragalo composto da una fila di ovoli e da un cavetto. Ovolo largo, quasi semicircolare, circondato da uno spesso cuscinetto, dardo visibile sino alla radice. T 111, altezza 39,5 cm, di cui 7 per l’astragalo.

40. Capitello di semicolonna: origine sconosciuta, senza abaco, mortasa rettangolare sul letto di preparazione, di forma nettamente poliedrica, foglie striate, occhiello rotondo, rosetta a otto petali fra le volute. C 129, larghezza fra le volute 45,5 cm, alto 28,5 cm, diametro approssimativo alla base 35 cm.

41. Idem: trovato a sud del santuario di Bel, senza abaco, foglie baccellate, occhielli triangolari.

Rosette a cinque petali fra le volute. Astragalo formato da un gallone perlato e da una fila d’ovoli. Ovoli molto piatti, largamente attaccati alla base, circondati da un bastoncello a spessore costante, dardo visibile sino alla radice. Lavoro molto più elegante dei precedenti. Il dado non è più poliedrico, ma ha una forma simile a un tronco di cono, le foglie lo circondano più armoniosamente, se ne distaccano, presentano una superficie più movimentata. C 112 larghezza fra le volute 65 cm, altezza 46, di cui 7 per l’astragalo, diametro approssimativo alla base 60 cm.

42. Capitello di un piccolo pilastro: provenienza sconosciuta, questo pilastro era posto in un punto in cui il muro si distaccava; anche il capitello non ha che una faccia anteriore e una a destra, mentre quella a sinistra è atrofica: solo la foglia angolare è lavorata e compiva una leggera sporgenza sul muro. Trabeazione diritta, che cambia poi direzione, formata da fascia piatta fra due modanature, che comprendono un listello e un bisello, astragalo formato da un cavetto, foglie baccellate e occhielli. C 128 altezza 32, di cui 8 per la trabeazione, larghezza fra le volte 24 cm.

43. Frammento di capitello di pilastro: provenienza sconosciuta, a sinistra inizio della voluta destra, con cuscinetto diritto. Nel punto d’origine della voluta una pigna, foglie baccellate, occhielli triangolari. Astragalo formato da fila d’ovoli, analogo a quello del n°40, ma contigui gli uni agli altri, con il dardo soppresso o che almeno non doveva mostrare che la punta. C 130, altezza 31 cm; frammento di un capitello analogo, con lo stesso astragalo: C 58, alto 24 cm.

La forma di questi capitelli non diviene chiara sino a che non si è compreso che la corolla di acanto non è che un ornamento superficiale, posto senza legame organico su di una struttura che gli è estranea. Quando lo si elimina, resta un capitello a volute, un rappresentante tardivo del vecchio tipo, le cui varianti si ritrovano in Mesopotamia, Fenicia, Cipro, Eolide, sino in Etruria. Un calice d’acanto è stato aggiunto per aggiornarlo al gusto greco, e l’influenza del capitello corinzio si riscontra anche da altri indizi, come la presenza di volute sulle facce laterali, oppure, in un solo esemplare (n°38), la curva della trabeazione che imita un abaco. L’assenza dell’abaco, così paradossale in un capitello che aspira a un aspetto greco, e così caratteristico soprattutto nei grandi capitelli, mostra che il costruttore è rimasto fedele alla tradizione orientale, che fa poggiare l’epistilio direttamente sulle volute. L’acanto dei nostri capitelli non è scolpito in foglie separate, ma forma un calice unico, che avvolge la base del capitello. Questa disposizione, che non è conosciuta in Siria, doveva essere invece diffusa in Oriente, poiché si ritrova nei capitelli corinzi del Gandhara, la cui tipologia doveva essersi già formata all’epoca dei nostri. Tuttavia, la resa dell’acanto nei capitelli palmireni è particolare: nella maggior parte dei capitelli corinzi o corinzieggianti, la punta delle foglie si piega verso l’esterno e sembra pendere a causa del proprio peso. Questa particolarità, che ricorre a Palmira anche

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all’interno del tempio di Bel, sembra sconosciuta all’epoca dei nostri frammenti, poiché le foglie sono strettamente attaccate fino alla punta. Poiché la caduta dell’acanto è un tratto di naturalismo di derivazione greca, la sua assenza sui nostri capitelli non cessa di essere un tratto orientale e risponde perfettamente alla mentalità espressa nei rilievi del tempio di Bel: la ricerca del naturalismo non interessava a questi artigiani. Si può riscontrare talvolta questa particolarità a Petra, ma solo nelle parti secondarie dei capitelli, dove gli artigiani locali lavoravano velocemente, sostituendo il proprio gusto al modello. Ciascuna foglia, modellata a palmetta, è segnata, alla base della nervatura centrale, da un vigoroso spigolo triangolare, ai lati del quale si dipartono le nervature secondarie, quasi parallele le une alle altre. La resa della lamina della foglia è variabile: può avere un contorno completo solcato delle nervature (n°40*) o essere più movimentata, con la forma dei lobi molto marcata (ni 37, 41*); o ancora, i lobi possono essere separati sino alla base della foglia, da una foglia d’acqua o elemento conico (n°38). L’unione dei lobi è sempre marcata da un occhiello reso con il trapano, a volte rotondo e minuscolo, altre triangolare; l’Autore non ha trovato dei capitelli con una simile resa dell’acanto, ma ha osservato similitudini con la resa della foglia di vite in alcuni altri frammenti. L’acanto di questi frammenti è spesso decorato con frutti diversi: bacche (ni 30,31), di una specie che si riscontra anche in alcuni tralci (n°10), pigne (n°43*) o una sorta di carciofo. I soli capitelli che presentino qualche analogia con i nostri si trovano in Etruria, da dove questo modello è passato al tempio romano di Paestum. Risalgono al III o II sec. a.C., sono capitelli a volute, composti, come quelli di Palmira, non solo dalla struttura delle loro volute, che è la stessa, ma dalla loro corolla d’acanto, formata da un calice continuo. La somiglianza è tale che si è tentati di ammettere una relazione fra i due gruppi di monumento, ma quest’ipotesi presenta difficoltà difficilmente sormontabili. Né l’Egitto né la Grecia o la Siria hanno mai restituito dei capitelli a voluta corintizzante o a corolla continua. D’altra parte, il capitello etrusco ha sempre un abaco, la cui assenza, a Palmira, è un indizio di origine indigena. Sembra dunque più probabile credere che le due serie siano distinte: per quella etrusca, ci si può attenere all’opinione di Ronczewski, secondo la quale gli Etruschi avevano preso a prestito il capitello greco a volute in età arcaica, adattandovi la corolla di acanti nel III sec. a.C., quando l’Italia meridionale ebbe fornito il modello di questo tipo di fogliame. La serie palmirena deriverebbe da qualche paese dell’oriente ellenizzato, dove la tradizione del capitello a volute, senza abaco, era ancora vivace; è possibile che si tratti della Bassa Mesopotamia, da dove provengono le file di perle e di ovoli che decorano, secondo la moda ellenistica, l’astragalo di due dei nostri capitelli.

III. Chapiteau corinthien.

Questo capitello non proviene dalla fondazione T ed è realizzato in calcare duro, a differenza di tutti gli elementi di questa serie, ma è così simile ai capitelli appena descritti, se non per la forma generale, almeno per la struttura dell’acanto, che merita di essere trattato in questa sede. 44*. Capitello di pilastro: trovato negli scavi dell’agorà. Foglie baccellate, occhielli arrotondati. E’ formato da due paia di volute vigorose, quelle esterne lisce, quelle interne come pieghettate; negli angoli formati da queste volute vi è un piccolo calice di due foglie d’acanto, da cui fuoriesce una gemma. Gli ombelichi delle volute sono occupati da piccole rosette, abaco ricavato da un cavetto. Larghezza fra le volute 83 cm, altezza 59. Questo magnifico capitello non è più pseudo corinzio, ma è corinzio per i suoi elementi costitutivi, anche se non è un capitello “normale”, come lo sono tutti i capitelli corinzi trovati a Palmira, compresi quelli del tempio di Bel, che erano inizialmente ritenuti i più antichi. L’interesse del nuovo capitello è di dimostrare che prima di adottare la forma “normale”, i Palmireni avevano provato forme libere.

IV. Chapiteau pseudo – ionique. Questo reperto, trovato nella fondazione T, è scolpito più grossolanamente, poteva sorreggere un ex voto

addossato a un muro. 45. Parte alta di una piccola semicolonna: il letto di preparazione del capitello è scavato da una depressione quadrata. T 123, altezza 52 cm, larghezza 33,5 alle volute.

V. Chapiteaux ioniques. La fondazione T ha restituito il primo di questi capitelli (n°46), ridotto a un moncone. Gli altri due (n°47*), meglio conservati, sono emersi nell’angolo nord-est del santuario di Bel, in un punto che era stato rimaneggiato; sembra che siano stati sotterrati sotto il pavimento del portico della corte come materiale di

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riporto. Il capitello n° 46 non è assolutamente identico agli altri due, ma assomiglia loro molto. Inoltre, è lavorato su tutte e quattro le facce, ed era visibile da tutti i lati, mentre negli altri due capitelli sono visibili solo le facce anteriori, mentre quella posteriore non è che sgrossata, e benché non dovesse essere appoggiata a un muro come gli altri frammenti, si può pensare che se ne distaccasse di poco. 46. Capitello ionico: le quattro facce di questo capitello sono state danneggiate dal reimpiego. Non resta che parte del fusto, il punto di partenza delle volute e la parte inferiore di una fila di ovoli. Questi ultimi sono dello stesso tipo di quelli dei capitelli seguenti, ma meno appuntiti. T 300, diametro sul letto di posa 66, 24 scanalature di 7 cm, separate da uno spazio di 1,8 cm. 47*. Due capitelli ionici: trovati all’angolo nord-est del santuario di Bel, il fusto termina con un astragalo a doppio toro, con diametro di 73 cm, con scanalature larghe 6,5 cm, con assi distanziati di 9 cm. Se la colonna era completamente scanalata, avrebbe avuto 24 scanalature; volute a tre spirali molto strette, senza canale. Fra le volute, ovoli molto lunghi e appuntiti, circondati da una conchiglia continua a spigolo vivo, dardo visibile solo all’estremità. All’origine delle volute sono scolpite delle baccellature:ricordo irriconoscibile delle baccellature del capitello ionico. Abaco ugnato spesso e pesante. I due capitelli n°47* offrono alcune particolarità: lo schizzo, meglio della fotografia, mostra che le volute, benché siano molto distanti, oltrepassano di poco il fusto, cosicché il loro occhio si trova all’interno delle linee di quest’ultimo. Le loro spirali, molto serrate, senza canale, hanno poco volume. Da qui la forma molto schiacciata del capitello, che sormonta la colonna come una capsula. Queste proporzioni si ritrovano, ancor di più, nel tempio di Gareus a Orchoe (Uruk-Warka), che risale probabilmente al I sec. d.C., in ogni caso

all’epoca partica. Gli ovoli particolari dei nostri due capitelli n°47* sono una varietà della forma orientale prima discussa (n°26). Lo spessore uniforme della conchiglia sul contorno di ciascun ovolo, il modo in cui il dardo è compresso al punto di mostrare solo la punta, sono caratteristici a questo proposito. La forma appuntita dell’ovolo e lo spigolo vivo della conchiglia sembrano tradire l’influenza di qualche modello classico. L’Autore non può citare altri esempi, anche se il capitello del tempio ionico di Taxila, in India, del II sec. d.C., merita di essere citato, nonostante lo stato di degrado in cui si trova. Gli ovoli, circondati da un cuscinetto carnoso come quello prima descritto, formano una punta acuta ed è probabile che solo l’estremità del dardo fosse visibile. Il modo in cui gli ovoli si adattano al capitello non è meno particolare: in principio dovevano formare una modanatura alla sommità del fusto e profilarsi con forte aggetto sulle volute: è così che si presentano in tutti gli edifici ionici della Siria. Sui nostri capitelli, al contrario, sono scolpiti più indietro rispetto alle volute. Mentre la tradizione ellenistica attribuisce a ciascun elemento il suo ruolo organico e gli dà appropriato rilievo, l’artigiano palmireno non vede in questi elementi che un motivo decorativo e li indica superficialmente, senza preoccuparsi della loro funzione all’interno della composizione. Questa indifferenza è caratteristica della mentalità palmirena quanto la resa dell’acanto (vedi supra), o quello della figura umana

nei rilievi del tempio di Bel, o delle decorazioni architettoniche negli affreschi di Dura. Questa piattezza del capitello sembra tipica dei monumenti dell’Iran; non si trova solamente nel tempio di Gareus a Orchoe, ma

anche nel tempio ellenistico di Khurba, fra Soultanabad e Koum, nelle tombe achemenidi di Qizqapan del Kurdistan, e di Dau Dukhtar, a nord-ovest di Shiraz. I capitelli palmireni sono probabilmente capitelli iranici ellenizzati o dei capitelli ionici trasposti nella tradizione iraniana. Il paese che ha fornito il modello a queste forme ibride deve essere, ancora una volta, la Mesopotamia partica. Al fine di mostrare il risanamento di cui furono autori gli architetti del tempio di Bel a Palmira, l’Autore fornisce una veduta del capitello ionico della cella dell’edificio, che è un ritorno alla tradizione classica.

VI. Chapiteaux doriques et dorisants.

La fondazione T contiene tre capitelli dorici di pietra tenera (n°48) e uno in pietra dura (n°49). I primi tre capitelli appartengono a colonne, il quarto coronava un pilastro a cui erano addossate due semicolonne. A questi elementi se ne aggiungono altri tre, scoperti nel santuario di Bel durante lo sgombero. Il primo (n°50*) è un frammento di capitello dorico, gli altri due (n°51) sono più doricizzanti che dorici. 48. Capitello dorico: diametro sul letto di posa 64 cm, lato dell’abaco 86 cm, altezza 32,5 cm, di cui 13,8 cm per l’abaco, 20 scanalature. T 180, T 277-281, in cinque frammenti. Altro, senza n°, ridotto a metà.

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49. Capitello di doppia semicolonna dorica in pietra dura: abaco, 76 x 43,5 cm, altezza 26,5 cm, di cui 9 per l’abaco. Sul letto di posa, mortase con due grappe che legavano il blocco al muro a destra e a sinistra, e due perni che la collegavano all’architrave sopra i due capitelli. C 139. 50*. Metà di un capitello dorico: trovato nel santuario di Bel, rotto in basso, letto di posa e scanalature perse. Lato dell’abaco 74 cm, altezza 35 cm, di cui 15,5 cm per l’abaco. Echino molto rigonfio. Senza n° rimasto nel santuario di Bel. 51. Capitello doricizzante: trovato nel santuario di Bel, fusto liscio, diametro al letto di posa, lato dell’abaco 95,5 cm. Sul letto di posa, leggera scanalatura praticata sui due lati. Senza n°, rimasto nel santuario.

VII. Fragment d’un petit arc. Quest’arco doveva essere posto contro un muro e inquadrava probabilmente un ex voto.

52. Frammento di un piccolo arco: l’arco era posto fra due semicolonne a fusto liscio, di cui rimane quella sinistra; era appoggiato contro un muro. La parte posteriore dei blocchi era picchiettata, archivolto formato da un toro con tralcio di vite, consunto, e da un’ugnatura stiacciata. L’arco è leggermente a ferro di cavallo nell’angolo, vittoria su di un globo. Tracce di rosso sull’abito della vittoria e sul tralcio, di verde sulle foglie. C 159, angolo superiore sinistro rotto, altezza 69,5, larghezza in basso 45 cm, spessore 16 cm.

VIII. Rosace de feuillage e de grappes.

L’origine precisa di quest’ornamento non è nota. La stretta analogia del suo acanto con quello dei nostri capitelli e il calcare tenero in cui è scolpito giustificano la sua pubblicazione qui. La sua destinazione è ignota come la sua origine; la sua forma quadrata fa pensare a una decorazione simile a quella dei pilastri dell’arco di Petra, ma potrebbe anche essere tutt’altro. 53. Rosone d’acanti: provenienza sconosciuta. Andando dal centro verso l’esterno: corolla di otto petali semplici, corolla di otto foglie d’acanto, rese esattamente come quelle dei capitelli pseudo corinzi, con occhielli fatti con il trapano, corolla di otto petali bilobati, alternati con foglie d’acanto, e coperti da piccoli rigonfiamenti. A ciascuno dei quattro angoli del blocco vi è, sotto il rosone, un grappolo d’uva, trilobato, oggi mutilo ma certo. Il motivo era quadrato, mentre il blocco su cui era scolpito è rettangolare, e la sua superficie presenta, da un lato, una faccia liscia. C 131, 43 x 36 cm, spessore 19 cm. Nel suo insieme, questo motivo ricorda i rosoni di Mchatta, e le differenze che si rivelano nella resa dell’acanto, nella presenza o nell’assenza di determinati elementi possono essere dovuti al tempo e al luogo, ma non cancellano né l’analogia della composizione né la somiglianza dell’ideazione. I rosoni di Mchatta hanno d’altra parte un altro parallelo nell’ambiente palmireno: Cumont ha scoperto a Dura uno dei rari frammenti di scultura decorativa di questo sito. Si tratta di un architrave riccamente decorata, dove due tralci di foglie e frutti si dipartono da un rosone posto fra di essi. Questi tralci sono del tipo che si ritrova sulla fascia esteriore del portale del tempio di Bel: formano dei medaglioni che contengono uno un melograno, gli altri probabilmente dei fiori. Lo stesso rosone ha sei petali che si alternano con pigne caratteristiche dei rosoni di Mchatta. L’architrave di Dura è l’anello di congiunzione fra questo reperto e l’ambiente da cui Palmira prendeva ispirazione prima dell’arrivo dei Romani. Il nostro rosone appartiene probabilmente allo stesso insieme.

IX. Appendice: bas relief votif avec cadre tenant. Questo frammento si trova a Parigi nella collezione Sauve ed è stato segnalato all’Autore da Amy, che ne ha realizzato il disegno. Benché non sia anteriore alla fine del II sec., è pubblicato qui perché possiede una cornice continua, che permette d’immaginarsi come si unissero ad altri rilievi votivi, che ci sono pervenuti senza cornice, gli stipiti di cui l’Autore ha cercato di spiegare la destinazione. 54*. Parte sinistra di un bassorilievo: su di un plinto liscio s’impianta una cornice a quarto di cerchio, decorata da un tralcio di vite che sorge da un tronco conico. Le foglie di questo tralcio sono largamente divise in lobi, in uno stile molto diverso da quello delle cornici più antiche prima descritte. Il tralcio termina con una voluta, che segna la metà della cornice, e permette di comprendere che ne possediamo la metà. All’interno della cornice Atena – Allath in piedi, con elmo, tunica, egida e mantello; si appoggia con una mano a un lungo scettro, e con l’altra allo scudo. A destra rimane la mano destra aperta di un altro personaggio. Altezza 36 cm, la larghezza totale, di cui conosciamo la metà, era 41 cm.

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La parte destra del rilievo si ricostruisce grazie ad un esemplare completo, ritrovato da Schlumberger nel deserto a nord di Palmira, ancora inedito. A fianco di Allath vi è Shamash, con lunga tunica e raggi intorno al capo, con la destra alzata: è la mano che si vede a destra. Allath e Shamash erano molto venerati dagli Arabi: sono ricordati insieme in una dedica a Palmira.

33. Remarques sur la civilisation de Palmyre (à propos des fragments récemment découverts).

Si è notato, discutendo i frammenti provenienti dalla fondazione T, come sia difficile trovare delle analogie nell’arte decorativa del Mediterraneo, e come invece sia più facile individuarne nel repertorio dell’ellenismo orientale. La modanatura dei nostri stipiti non si trova che nelle province grecizzate dell’India, mentre il gallone perlato appartiene a quest’area e all’Iran; le file di ovoli si riallacciano alla tradizione iraniana. E’ agli ornamenti del palazzo di Hatra che abbiamo potuto paragonare la cornice a kyma recta con raggi a cuori rovesciati, ed è alle modanature del tempio di Kengawar che assomigliano le nostre cornici a kyma reversa. La tipologia dei nostri tori d’intrecci, sconosciuti all’Occidente, sembra essere l’antenata di alcuni motivi decorativi che compariranno più tardi in Oriente, e l’uso di questi grandi tori sembra precedere gli ornamenti dei palazzi sasanidi di Susa e Kish. La cornice a quarto di cerchio, sconosciuta all’arte occidentale, sembra il modello più antico di quello che adotteranno, con molti altri elementi orientali, gli architetti delle chiese cristiane. I capitelli ionici sono trattati nello spirito caratteristico dell’artigianato orientale, che si manifesta ugualmente nell’acanto degli altri capitelli e delle cornici. Infine, il nostro capitello pseudo corinzio non è in realtà che un capitello orientale a volute, che regge la trabeazione senza abaco. Da questi frammenti Palmira appare dunque come una postazione avanzata dell’ellenismo orientale, mentre solitamente lo studio della sua decorazione architettonica sembrava indicare conclusioni opposte: i suoi monumenti, a cominciare dal più antico fra essi, il tempio di Bel, seguono la tradizione classica che si sviluppa nella Siria romana, e che, a Palmira, si evolve senza scosse fino alla distruzione della città. In questa tradizione, il capitello comune è quello corinzio detto normale o vitruviano, le modanature e i loro ornamenti sono di tipo classico; i motivi esotici, come la fila di perle o l’uso libero di intrecci, sono rigorosamente esclusi. Questo contrasto mostra la rivoluzione che è occorsa nell’arte decorativa di Palmira, nel breve arco di tempo che separa i nostri frammenti dalla costruzione del tempio di Bel. A un’arte ibrida e libera, dove le forme greche degenerano, ma dove alcuni ornamenti non greci raggiungono una grande bellezza, si sostituisce improvvisamente un’arte classica strettamente regolata. Per comprendere l’importanza e l’interesse di questo movimento è necessario considerarne le circostanze da più lontano. La civiltà di Palmira comincia a essere sufficientemente nota per tentare di definirne il suo posto nella storia. Fra i diversi aspetti, quattro si prestano particolarmente bene all’analisi: la religione, la scultura, il costume, il decoro architettonico, che riceve nuova luce dai frammenti appena commentati. I monumenti di Palmira attestano il culto di una quarantina di divinità: questo pantheon sembra essere piuttosto variegato, ma, mettendo da parte qualche dio di origine incerta, gli altri si prestano a una classificazione abbastanza semplice. Al centro vi è la triade di Bel o Bol, che rappresenta probabilmente il più antico dio nazionale. Un’importante serie di culti, portati dai numerosi Arabi che si erano mescolati alla popolazione indigena, possono ugualmente essere considerati come dei culti nazionali della città, come essa era popolata all’epoca dei nostri frammenti. D’altra parte, Baalshamin, dio fenicio e siriano della tempesta, era venerato come dio supremo nei villaggi di allevatori e agricoltori situati ai margini del deserto siriano: è da là che deve essere giunto a Palmira, forse con Atargatis, e benché non vi riceva il titolo di dio ancestrale, si tratta ancora di un dio locale, il cui culto non era in senso stretto ritenuto straniero. Potrebbe essere altrimenti per le tre divinità che si collegano al gruppo cananeo, Astarte, Shadrapha e Reschef, ma può darsi che facessero parte, come la triade di Bel, del più antico substrato palmireno, che presenta degli indubbi legami cananei. Oltre a questi dei tutti locali salvo forse gli ultimi tre, vi sono altri dei venuti dalla Mesopotamia: Beltis, Herta, Nanai, Nebo, Tammuz, Nergal, seguiti dalla dea persiana Anahit. E’ il solo gruppo notevole di divinità straniere nel pantheon palmireno, e la sua presenza testimonia una profonda influenza babilonese, ed è lo stesso per il nome di Bel. Alcuni autori vedono in questo dio Bel- Marduk stesso, che sarebbe stato importato da Babilonia, ma poiché non vi è traccia di popolazione babilonese a Palmira ed è poco probabile che una città faccia di un dio straniero la divinità principale, l’Autore aveva tentato di dimostrare come dietro il nome di Bel vi fosse Bol. Tuttavia questa forte assimilazione, che giunge sino al cambio di nome, mostra la stretta dipendenza che legava i sacerdoti palmireni alla teologia babilonese.

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Sarebbe interessante sapere quando il nome di Bel è entrato nella religione palmirena, ma non vi è modo di accertarsene. Non bisogna tuttavia dimenticare che Polibio, parlando di un capo arabo che accompagnava Antioco III alla battaglia di Raphia, ricorda che si chiamava Zabdibel. Questo nome, dalla forma singolarmente palmirena, prova che alcuni Arabi adoravano Bel dal III sec. a.C., e potrebbe essere quello di un capo (cheikh) di Palmira.

In ogni caso, la testimonianza del pantheon palmireno sembra abbastanza chiaro: la sola influenza straniera importante è quella di Babilonia. La scultura palmirena, notevole soprattutto per i suoi bassorilievi, ha mantenuto sino alla fine dei suoi tre secoli di esistenza delle caratteristiche che la oppongono fortemente all’arte greco-romana della Siria, che risponde a una mentalità completamente diversa da quella degli artigiani palmireni. Si osserva nei bassorilievi una tendenza crescente degli scultori ad appropriarsi ad alcuni tratti superficiali di quest’arte: questi sforzi, e il loro scarso successo, segnano la tenacia di un tipo di rappresentazione che ha le sue radici negli strati più profondi del loro essere. La scultura palmirena è indissolubilmente legata all’arte che fiorisce nell’impero partico. La scoperta della statua di Shami ne ha offerto una prova eclatante, mostrando uno dei modelli che, fino a poco tempo fa, si era costretti a immaginare. Ancora nel II sec. d.C., una parte almeno delle statue che ornavano le vie di Palmira erano senza dubbio importate dalla Mesopotamia. Questi scambi dovevano essere ancora più esclusivi nei primi tempi, perché lo stile dei rilievi del tempio di Bel, per esempio, non fornisce tracce d’influenze occidentali, come ci si aspetterebbe se gli scultori avessero avuto come modello Antiochia: questa influenza, per quanto superficiale, non si farà sentire che più tardi. Ancora un’altra volta, tutto sembra mostrare che Palmira ha trovato i suoi primi modelli in Mesopotamia. L’abito palmireno è già stato oggetto di un’analisi dettagliata (vedi Syria, XVIII, 1937, pag. 3 ss). Gli elementi più caratteristici, i pantaloni, gli alti gambali, le tuniche con maniche, gli stivali ricamati, hanno origine partica. Vi sono inoltre altri elementi legati all’Ellenismo: la religione palmirena conosce il culto di Nemesi; le tessere e i bassorilievi offrono alcune immagini di Hermes, Eracle e Dioniso; altre divinità compaiono con corazze a pteryges; gli abiti partici dei Palmireni sono decorati con motivi d’origine greca e l’abito greco sembra essere

stato diffuso a Palmira quanto quello partico, ma bisogna riflettere sul fatto che questi ellenismi non siano necessariamente arrivati da Occidente. Per quanto riguarda l’ornamento degli abiti, si trovano anche nell’abbigliamento dei sovrani parti, che li hanno certamente tratti dagli artigiani di Seleucia sul Tigri, mentre l’abito greco può essere stato portato ai Palmireni dai Greci con i quali commerciavano nelle città caldee. Il culto di Nemesi è uno dei culti cosmici che sono comuni al mondo ellenistico, ma elaborati in gran parte nei templi grecizzati della Mesopotamia. La tipologia iconografica delle divinità greche e l’abitudine di rivestire alcuni dei con le corazze tipiche dei re ellenistici dovevano essere conosciute a Seleucia come altrove. Nessuno di questi dettagli si spiega necessariamente a Palmira con l’influenza occidentale, e poiché nessun altro indizio prova una tale influenza in epoca antica, è più probabile attribuirgli le medesime origini dei dettagli orientali. L’analisi dei frammenti trovati nella fondazione T ha dimostrato che il loro decoro architettonico è stato elaborato in un ambiente greco orientale, con contatti con la Mesopotamia, l’Iran e l’India; essa completa la serie di dati appena enumerati. Tutte queste informazioni ci indicano come prima sorgente la Mesopotamia, allora annessa all’impero partico. I Palmireni avevano una religione fortemente influenzata da Babilonia, i loro scultori si erano formati nella tradizione imperante nelle città dell’impero arsacide, i loro abiti imitavano quelli della corte partica e probabilmente quelli della borghesia delle città greche, e la decorazione dei loro edifici era sorta in un ambiente ispirato anche dall’architettura indiana. Si cerca vanamente nelle origini di Palmira una traccia d’influenza occidentale: la nuova città, quando si forma nel I sec. a.C., pare interamente rivolta verso Oriente, e da lì proviene il suo stesso ellenismo. La testimonianza dei monumenti è abbastanza chiara per attribuire ad essa le prove su questo punto, ma è interessante osservare che completa il solo testo storico che si abbia sui tempi antichi della città, il racconto di Appiano sugli avvenimenti del 41 a.C. Questo autore, raccontando i tentativi di saccheggio compiuti da Antonio a Palmira, spiega che la diplomazia degli Arsacidi, dopo la sconfitta di Crasso, si mostrava molto attiva verso i vicini d’Occidente, dove il crollo della monarchia aveva favorito l’avvento e l’indipendenza di piccoli tiranni locali. Questi ultimi erano spalleggiati dalla corte di Ctesifonte, che li accoglieva quando i Romani li cacciavano dai loro troni; i Parti sembravano d’altra parte mostrare grande interesse verso la città nascente: essi si vedevano come i suoi

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protettori naturali quando Antonio cercò di impadronirsi delle ricchezze della città. I Palmireni si rifugiarono oltre Eufrate con i loro beni e Appiano annovera il tentativo del triumviro fra le cause che portarono, poco dopo, allo scoppio della guerra fra Parti e Romani. Questa sollecitudine degli Arsacidi si accorda molto bene con ciò che hanno mostrato i monumenti, e testimonia gli stretti legami che univano Palmira ai suoi vicini orientali. Una città, soprattutto, doveva attirare lo sguardo dei carovanieri che scendevano da Palmira al Golfo Persico, Seleucia sul Tigri, la terza città al mondo, inferiore solamente a Roma e Alessandria; secondo Strabone, essa era allora una città ancora più vasta e importante di Antiochia. E’ probabilmente Seleucia, la vicina di Ctesifonte, che diede la sua civiltà ibrida alla città che si stava formando allora nel deserto siriano, e i più antichi frammenti architettonici di Palmira, i rilievi del tempio di Bel, i primi affreschi di Dura, gli abiti sontuosi dei grandi commercianti ci forniscono senza dubbio, in attesa che gli scavi sulle rive del Tigri giungano agli strati ellenistici e partici, un riflesso affidabile ma autentico, di questa capitale perduta. Se è vero che in un certo senso Palmira è una figlia spirituale di Seleucia, essa non tarderà, però, a subire altre influenze: queste ultime, si manifestano abbastanza chiaramente nella scultura, ma rimasero necessariamente superficiali nell’arte popolare, dove la sensibilità individuale dell’artigiano e la sua incapacità di rappresentare il reale in maniera diversa da come egli stesso la concepiva rimasero determinanti. Nell’architettura, al contrario, sia che i Palmireni siano ricorsi a un architetto straniero, sia che i loro architetti si siano mostrati capaci di afferrare i procedimenti dell’Occidente, la costruzione del tempio di Bel segna un decisivo orientamento verso il classicismo. Questo cambiamento brusco e completo coincide con la prima comparsa dei Romani negli affari della città: il tempio di Bel fu finito solo nel 32, ma possedeva un ex voto più antico, che comprendeva le statue di Tiberio, Druso e Germanico. Il secondo di questi principi, morto ad Antiochia nel 19, sembra essere già ricorso a un Palmireno per regolare alcuni affari nel Golfo Persico, e la statua, così come le altre due, erano state offerte a Bel da un generale romano, la cui presenza a Palmira non può che aver avuto uno scopo politico. Questi interventi erano in relazione con lo stabilirsi di un nuovo equilibrio nel Levante: la crescente potenza di Roma, l’ordine e la prosperità che regnavano di nuovo in Siria, l’immenso sbocco che offriva l’impero al commercio orientale e infine l’interesse che le stesse autorità romane prestarono a questo commercio hanno spinto i Palmireni a volgere lo sguardo verso Occidente, verso la provincia di Siria. E’ la che cercarono i modelli per i loro edifici, e Palmira, da quel momento, prese l’aspetto di una città della Siria romana. Questo cambiamento dovette causare, all’inizio, delle reazioni locali, con le quali il gusto indigeno cercò di mantenersi; lo stesso tempio di Bel ne porta alcune curiose tracce. Il progetto di questo edificio era quello di un tempio greco normale, ma un cambiamento molto importante si produsse quando lo zoccolo era terminato e lo stilobate posato. Questa modifica sconvolgeva l’economia interna della cella ed esigeva l’adattamento delle forme esterne al nuovo stato: l’edificio cessava di essere un tempio orientale, cui le facciate greche non si adattavano più se non come strutture posticce. La decorazione delle parti così modificate, lungi dal seguire la regola severa e classica che ha diretto la decorazione del resto dell’edificio, deriva visibilmente dallo stesso gusto che contraddistingue i frammenti della fondazione T. Questa reazione costituisce probabilmente l’ultimo sussulto a Palmira della tradizione orientale in architettura. Negli edifici più tardi, la tradizione della provincia di Siria regna incontrastata e i particolari locali che vi si mescolano si fanno sempre meno evidenti. Nel III sec., nulla distingue più un capitello, una modanatura, un colonnato palmireno da ciò che sarebbero stati in una città della Siria occidentale.

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37. SEYRIG 1941 A H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 22, fascicolo 1, 1941, pagg. 31-48.

34. Sculptures palmyréniennes archaïques, pagg. 31-44. In un precedente articolo, l’Autore ha pubblicato i frammenti della decorazione architettonica ritrovati nella fondazione T, nel santuario di Bel e che risalgono a un’epoca anteriore alla costruzione del tempio del dio, nel 32 d.C. La stessa fondazione ha restituito alcuni frammenti di sculture in calcare tenero: sono le più antiche a Palmira datate con certezza. Nell’articolo sono pubblicati i reperti più significativi, oltre ad altri frammenti a essi paragonabili per stile e materiale, anche se di diversa provenienza. La représentation du profil: dei frammenti trovati nella fondazione T, uno dei più miseri è certamente un

piccolo frammento di bassorilievo, in cui si vede solo la testa di un personaggio. Questa testa si presenta di profilo, mentre la figura umana è rappresentata sempre frontalmente in tutte le sculture palmirene note. Altri due bassorilievi simili, meglio conservati, sono emersi nello stesso periodo, uno dall’agorà di Palmira, dove fu probabilmente portato durante i disordini che seguirono la distruzione della città, l’altro trovato presso un antiquario e poi passato al Museo Nazionale di Damasco. Questi due nuovi rilievi rappresentano processioni di portatori di offerte: su quello meglio conservato, il primo personaggio presenta il tipico atteggiamento del sacerdote che compie un sacrificio, lasciando cadere l’incenso su di un pyrée con la mano

destra, mentre la mano sinistra, molto mutila, regge la scatola d’incenso e la brocca per le libagioni. E’ vestito con una tunica con maniche e un mantello, e dietro compare un uomo vestito nello stesso modo, che tiene una corona. Entrambi sono sacerdoti, con capo e volto rasati, con il tipico copricapo cilindrico, ma mentre il secondo è di profilo, il primo, molto mutilo, si presenta frontalmente. Seguono due donne, con un lembo del mantello sulla testa, e che sorreggono la prima una tazza dal coperchio a punta (probabilmente un bruciaprofumi), la seconda una tazza con piede e due anse. Il blocco adiacente doveva completare questa scena, forse con l’immagine di una divinità. Il secondo rilievo, molto più mutilo, di stile più grossolano, raffigura due uomini che compiono insieme un sacrificio su di un pyrée; il meglio conservato dei due è un sacerdote, che regge gli strumenti per il sacrificio,

seguito da una donna che alza la destra in segno di adorazione, e che regge nella sinistra un oggetto poco riconoscibile. Questi rilievi, difficili da datare, ricordano, a causa del loro arcaismo monotono, i rilievi e i sigilli cilindrici della Mesopotamia, e sono evidentemente anteriori alle sculture palmirene note; altre caratteristiche, però, come i due profondi solchi che sottolineano il collo di tutti i personaggi, e la rappresentazione frontale del personaggio principale sul primo rilievo, sembrano dovuti ad un’influenza greco –mesopotamica. Si datano probabilmente all’inizio del I sec. a.C.: i rilievi risalgono quindi a un periodo anteriore allo sviluppo urbano di Palmira, epoca in cui gli artigiani del villaggio vivevano senza grandi contatti con i paesi dove si formavano nuovi stili, e seguivano ancora, in maniera maldestra, la vecchia tradizione mesopotamica. E’ nel momento in cui si sviluppano le relazioni con i centri dell’impero partico (senza dubbio, come si è sempre ammesso, verso la metà del I sec. a.C.) che questa scultura primitiva cedette gradualmente il posto a quella la cui fioritura è rappresentata dai rilievi del tempio di Bel e dai torsi di Kasr-el-Abiad. Cavaliers et chameliers: sono stati trovati nella fondazione T anche due immagini mutile di cavalieri, analoghe a quelle già pubblicate (Syria, XVIII, 1937, pag. 52 ss.), ma questi nuovi frammenti dimostrano che i primi

sono molto più antichi di quanto in origine ritenuto dall’Autore (fig. 57).

Fig. 57. Cavaliere di profilo, dalla fondazione T.

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Altri due rilievi di una serie analoga, trovati durante lo sgombero del santuario di Bel, mostrano due cammellieri sulle loro cavalcature, armati. Questi uomini portano una tunica con maniche e un pezzo di stoffa arrotolato intorno ai fianchi, che qui non copre che le cosce: si tratta probabilmente dell’abito indigeno palmireno. Il loro equipaggiamento era già noto dal rilievo pubblicato da Ingholt (Berytus, III, 1936, pag. 116): ogni cammello, nei nostri rilievi, porta due archi e due faretre, mentre il cammelliere, con la mano destra abbassata, tiene un corto bastone, con cui tocca la groppa dell’animale. Con la sinistra, sembra tirare le redini, forse per far sollevare la testa al cammello; questo gesto si vede meglio in un terzo rilievo, ritrovato nello stesso periodo, di cui Duru ha fornito lo schizzo. Sulla spalla destra del cammello è scolpito un segno: le spalle e le cosce sono le zone in cui i proprietari degli animali imprimevano i loro marchi con ferri incandescenti, e i papiri conservano numerosi dati sui marchi di proprietà dei cammelli. A volte anche le greggi dei santuari portano i segni del dio cui sono consacrati, come i buoi di Artemide Persiana descritti da Plutarco, e che pascolavano nei dintorni dell’Eufrate, con una torcia impressa a fuoco sulla pelle. L’Autore ritiene che i marchi dei cammelli non fossero che varianti di un segno frequente nelle dediche e nelle tessere di Palmira. Questo simbolo non sembra essere legato a una divinità particolare, ma aver avuto un valore religioso più generale, difficile da determinare oggi; si vedrà in seguito un altro esempio di questo segno sacro. Images cuirassées: fra i frammenti trovati nella fondazione T, ve ne sono molti che rappresentano pteryges di

corazze; una volta messi insieme, questi frammenti hanno formato tre lastre, tagliate sui lati, e che si congiungono le une con le altre. La terza riporta inoltre una parte una spada e di una faretra, che dovevano essere sospesi al fianco di uno dei personaggi. Quanto alla parte posteriore delle lastre, non portano tracce di grappe, ma è molto picchiettata. E’ evidente che queste lastre di pietra fossero destinate a rivestire un’immagine formata da un nucleo di pietra: le si applicava su di uno strato di stucco fresco applicato su questo nucleo, e di cui sono rimaste alcune tracce nei forellini della picchiettatura. Quest’effige era una statua? La faretra, posta lungo la coscia, non si addice che a una statua equestre, anche se tale tecnica mal si adatta a questo tipo di rappresentazione, e le lastre, una volta accostate, formano una circonferenza troppo grande, che si addice meglio a un rilievo. Esistevano tuttavia delle statue così fatte, e la fondazione T ne ha offerte alcune parti. Quella raffigurata nella fig. 5, che è la meno informe, rappresenta le cosce di un uomo, scolpite per essere viste, e la parte inferiore delle pteryges. La parte alta di queste ultime, tuttavia, è sostituita da una superficie picchiettata

grossolanamente, destinata ad accogliere lo stucco, e dei fori analoghi si trovano lungo la coscia sinistra, dove trattenevano senza dubbio una spada di pietra, sospesa al fianco della statua. Un altro frammento rappresenta un torso appena sgrossato, in cui profonde incisioni permettevano di inserire le braccia scolpite a parte. Questo procedimento, di cui non vi sono altri esempi, era utilizzato da artigiani estremamente inesperti nel realizzare statue di grandi dimensioni, e deve essere stata rapidamente abbandonata. Un ricordo di essa appare forse in un rilievo arcaico dell’Antiquarium di Berlino, dove la testa del personaggio è finemente

modellata in stucco e fissata sul fondo. Il deposito di Palmira contiene altri frammenti d’immagini con corazza, e la loro tecnica, così come il calcare tenero in cui sono scolpite, permette di attribuirle alla stessa epoca arcaica qui studiata. Si tratta di due busti grossolanamente scolpiti, dotati di mortasa in cui si poteva inserire la testa, la cui origine precisa non è nota, e dei torsi mutili di due piccole statue, scolpite con una certa abilità, trovate in un giardino presso la fonte Ephka, probabilmente provenienti da qualche santuario sorto nei pressi di questo luogo sacro. La corazza raffigurata in questi quattro monumenti è formata da squame disposte a gruppi e separate apparenza da listelli di cuoio o stoffa; è dotata di spallacci con scaglie, che si saldano al pettorale tramite solidi anelli, e di pteryges nella parte inferiore. Questo tipo di armatura molto particolare compare su quattro altri rilievi palmireni: quello dell’Antiquarium di Berlino, di Shadrapha,

e le due basi con gradini che saranno descritte più avanti. Il busto di Shadrapha si data al 55 d.C., il rilievo di Berlino e le basi a gradini agli inizi del I sec. d. C., ed anche le quattro sculture appena descritte apparterrebbero, secondo l’Autore, allo stesso periodo. Tutte le altre corazze scolpite a Palmira sono di tipo anatomico: questa tipologia compare la prima volta nei rilievi del tempio di Bel del 32 d.C., e benché non abbia eliminato all’improvviso l’altro modello, come dimostra il busto di Shadrapha, non ha tardato a diventare l’unico riprodotto nelle sculture. L’Autore ritiene che la comparsa della corazza anatomica sia dovuta all’influenza romana; la costruzione del tempio di Bel, nel 32 d.C., coincide con le circostanze che inducono a scegliere, a Palmira, i modelli nella provincia di Siria, e, d’altra parte, un legato legionario romano aveva dedicato a Bel, mentre era ancora vivo

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Germanico (morto nel 19) un gruppo di statue dove quest’ultimo figurava con Tiberio e Druso. E’ probabile che i due giovani principi, almeno, fossero raffigurati come generali, con una corazza romana, più o meno simile al tipo reso celebre dalla statua di Prima Porta; è probabile che questa importante offerta abbia ispirato gli scultori del nuovo edificio. La corazza con squame, al contrario, rappresenta la moda anteriore all’influenza romana: è di tipo greco, e doveva essere diffusa nell’ellenismo orientale da cui Palmira traeva i suoi modelli. Una piccola stele, infine, rappresenta un personaggio in piedi, senza dubbio una divinità, con abito indigeno, spada, lancia e un piccolo scudo rotondo, ricoperto da squame disposte esattamente come le corazze appena descritte. Bases à degrés: sotto la pavimentazione del cortile del santuario di Bel, immediatamente sopra la fondazione

T, ma non dentro di essa, è stato ritrovato un frammento di base a gradini. L’Autore e Amy furono colpiti dalla somiglianza di questo frammento con un altro, conservato nei depositi del Louvre. I due pezzi sono qui pubblicati insieme, giacché dimensioni, forma, materiale, tecnica corrispondono perfettamente. Basta un solo sguardo per capire che sono stati realizzati dalla stessa mano, e che hanno fatto parte di due insiemi identici. Ciascun rilievo presenta due gradini, quello superiore leggermente più corto rispetto a quello inferiore, spostato di 5 cm. La facciata di ciascun gradino è inquadrata da colonne, i cui capitelli sono pseudo – corinzi sul gradino inferiore e ionici su quello superiore. Queste colonne sorreggono un epistilio cesellato: file di acanti e di ovoli nel rilievo del Louvre, e file di ovoli e raggi a cuori (molto mutili) in quello di

Palmira; le file di ovoli sono d’aspetto classico se paragonati a quelli emersi nella fondazione T. Fra le colonne, ciascun gradino presenta un busto divino, che segna certamente l’asse della composizione, fiancheggiato da animali e rosette, mentre all’esterno delle colonne sono scolpite delle lunghe palme; il plinto è decorato da un gallone perlato. Sul rilievo di Palmira, compare sul registro inferiore l’immagine di un dio con tunica a maniche, corazza a scaglie e mantello. Fra la tunica e la corazza vi è un altro indumento difficile da individuare, che è maggiormente visibile nel registro superiore. La mano destra è persa, la sinistra stringe una spada dall’elsa gemmata, più chiaramente raffigurata su di un busto palmireno conservato al Museo di Baalbek. La testa del dio è nuda, con capelli ricci circondati da un piccolo nastro, uno strophion, poco comune per le divinità

palmirene. Il busto è fiancheggiato da due grifoni dalla testa d’aquila e due rosette a otto petali. Nel registro superiore vi è un busto vestito allo stesso modo, con la sinistra nascosta e lunghe ciocche ondulate, fiancheggiato da quattro capre. Sul rilievo del Louvre (di cui non è stata concessa l’immagine per la versione on line dell’articolo), il registro

inferiore è occupato da un dio vestito come i precedenti, ma la corazza poggia direttamente sulla tunica, ha capelli ricci e un nimbo radiato attorno al capo, fiancheggiato da due aquile e due rosette a sedici petali, su cui ne poggiano altre a otto petali. Nel registro superiore, un dio vestito solamente di tunica con maniche e mantello, con capigliatura riccia e senza copricapo; la mano destra tiene un tirso, coronato da un fiore da cui esce un frutto appuntito, mentre la sinistra sorregge una spada dall’elsa gemmata. A destra e a sinistra vi sono due grifoni e due rosette a otto petali. Sulla coscia del grifone vi è un simbolo a forma di croce, con le braccia curvate a destra, e il braccio sinistro porta un secondo uncino alla sua sinistra: sembra essere un marchio come quelli di cui si è parlato prima.

Fig. 58. Rilievo palmireno con aquila e grifone, Musée du Louvre (immagine non presente nell’edizione on line).

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Il rilievo è scolpito con asciutta precisione, non priva però di una certa grazia, che caratterizza l’arte palmirena degli inizi della nostra era: si può paragonare ai busti funerari emersi negli ultimi anni. Vi sono molti dettagli arcaizzanti: la capigliatura in lunghe ciocche ondulate, che sembra essere passata di moda prima della metà del I sec., i grandi occhi con palpebre profondamente incise e come taglienti, la corazza a squame, le maniche della tunica, le cui pieghe sono rese come cuscinetti anulari. Tutti questi elementi ben si accordano con i capitelli pseudo - corinzi e il gallone perlato, e permettono di assegnarla agli inizi della nostra era, e forse anche prima. Se lo stile di questi due piccoli monumenti non pone più problemi, non si può dire lo stesso né per il loro oggetto né per i soggetti che li decorano. Si trovano, negli affreschi di Dura, alcune basi a gradini che sorreggono statua o altari, e cui si è tentati di apparentare questi blocchi, benché non si sappia se tali basi siano mai state decorate a rilievo. La parte posteriore è però non lavorata, e non ha potuto ricevere, neppure alle estremità, una sbozzatura, cosicché li si immaginerebbe meglio, come gli altri elementi trovati nella fondazione T, fissati ad un muro di mattoni crudi. Del resto, anche in questa posizione, deve trattarsi di basi: può darsi che fossero poste sotto piccole edicole votive, sotto stele scolpite o che alcuni degli stipiti precedentemente descritti si poggiassero su di esse? L’Autore non ritiene possibile formulare altre ipotesi. La decorazione architettonica che circonda questi rilievi ricorda molto quella che è frequentemente utilizzata nel Gandhara per le basi delle stupa: anche se il capitello è diverso, si tratta della stessa idea di svolgere una lunga scena fra due colonne il più possibile distanziate, che sorreggono un sottile epistilio di lunghezza sproporzionata. Potrebbe essere che i nostri rilievi e quelli del Gandhara risalgano, sotto quest’aspetto, a un comune modello, formatosi nell’Ellenismo orientale. Quanto all’interpretazione delle immagini, essa sembra scontrarsi con difficoltà al momento insormontabili, e perciò l’Autore si limita alla loro analisi: sul rilievo del Louvre, nel registro inferiore, è rappresentato

probabilmente un dio solare, a fianco del quale la presenza delle aquile è naturale; si può pensare a Shamash, Yarhibol o Malakbel, mentre sul registro superiore la presenza del tirso suggerisce Bacco. Quest’ultimo non è sconosciuto a Palmira, poiché compare sulla parete di un ipogeo, pubblicato e commentato da Ingholt (Acta archaelogica, III, 1932). Quale divinità palmirena si cela dietro questo Bacco, dio

dei morti? A Palmira, il solo dio mistico è Malakbel, divinità del rinnovamento, che rinasce periodicamente dal cipresso sacro. La presenza di grifoni accanto al dio con il tirso, nel rilievo del Louvre, sarebbe un

elemento a favore di questa identificazione, perché proprio questi animali tirano il carro di Malakbel sull’altare del Campidoglio; Bacco – Malakbel avrebbe avuto a Palmira lo stesso ruolo che Mercurio – Bacco rivestiva a Baalbeck. Questa ipotesi si sarebbe rinforzata se si fosse potuta applicare al secondo rilievo: nessun ostacolo, se s’identifica ancora Malakbel, fiancheggiato da grifoni, nel registro inferiore. Ma le capre che sono raffigurate nel registro superiore sono animali legati a Malakbel: è un capretto che il giovane dio porta sulle spalle al momento della nascita, ed è una capra che è scolpita sul suo altare. Non si può trattare di due busti di Malakbel ed è quindi più prudente non trarre conclusioni troppo precise su questi due nuovi rilievi. Le ultime due immagini rappresentano un torso di sacerdote che tiene una palma e gli strumenti per il sacrificio, e un busto virile, visto frontalmente, con tunica pieghettata e il mantello sulla spalla destra. Questi frammenti provengono entrambi dalla fondazione T, e la loro datazione è quindi anteriore al tempio di Bel. Meritano di essere considerati dei punti di riferimento per la storia del panneggio, così importante per datare le sculture palmirene. L’Autore ricorda anche dei frammenti di piccole aquile in pietra, e un frammento d’ala, che sembra provenire da un soffitto a cassettoni di un architrave, ugualmente trovati nella fondazione T.

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38. DUSSAUD, SCHAEFFER 1941 R. DUSSAUD, C.F.A. SCHAEFFER, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 22, fascicolo 2, 1941, pagg. 192-196.

Un témoin archéologique de la fin dramatique de Palmyre.

Pagg. 194-195. Gli scavi metodici condotti da Seyrig e dagli architetti Amy e Duru a Palmira hanno portato, nel 1939, a sgomberare l’agorà (fig.59). Essa ha forma rettangolare, misura 70 x 82 m, circondata sui quattro lati da portici con tetto piano. Questi ultimi, alti circa 12 m e larghi 8 m, sono formati da ottanta colonne d’ordine corinzio; non vi sono propilei e l’ingresso era costituito da undici porte, aperte nei muri dei portici. Sembra che un particolare sistema consentisse di stendere dei teli fra le colonne per ripararsi dal sole. All’angolo ovest dell’agorà vi è un piccolo tempio, lungo 14 m e largo 12 m, che si affaccia sul portico nord-occidentale tramite un recinto con due colonne. In un periodo ignoto, questo piccolo tempio fu trasformato in sala per banchetti sacri: Seyrig ha sottolineato l’importanza che tali banchetti avevano per i culti siriani, specie quelli palmireni, e il santuario degli dei di Hierapoli a Delo, così come i santuari campestri scavati da Schlumberger nella Palmirene hanno già offerto esempi di queste piccole sale destinate a tale rituale. Tuttavia, siamo qui di fronte ad un ambiente molto lussuoso, evidentemente destinato a un culto pubblico. L’agorà ha fornito numerose iscrizioni, principalmente del II sec., il periodo di maggior splendore per la città. Come molte altre città dell’impero, Palmira aveva mal gestito le proprie finanze, e l’imperatore aveva mandato un curator, che svolse così bene il proprio incarico da meritare la riconoscenza dei cittadini, come

testimonia un’iscrizione. L’importanza dell’emporio commerciale di Spasinou Charax è sottolineata da numerose iscrizioni, specie per

quanto riguarda i rapporti con Susa e la bassa valle dell’Indo. Ciò chiarisce le strette analogie che si riscontrano fra Palmira e l’India nell’ambito di alcune arti minori, come la tessitura e l’oreficeria. Seyrig ha inoltre individuato una traccia degli ultimi istanti di Palmira e dei sacrifici compiuti da Zenobia per la difesa della capitale. Mentre Zenobia era costretta a fortificare in fretta la città all’approssimarsi delle legioni, le nuove mura seguirono le rive del torrente ai bordi del quale l’agorà era stata costruita, e presero il posto del muro sud-occidentale di quest’ultima. Per ricavare materiali, i portici e il piccolo tempio furono in parte demoliti: le cornici, le architravi, i rocchi delle colonne furono utilizzati per i paramenti murari, che furono riempiti con le macerie; dopo la presa della città, la sabbia cominciò a ricoprire un’agorà distrutta. La parte dell’agorà vicina al tempietto ha fornito tracce della distruzione che subirono gli archivi pubblici della città: la catastrofe è segnalata dalla presenza di uno strato di ceneri, in cui sono state raccolte moltissime bullae d’argilla, cotte dall’incendio. Queste ultime recavano l’impronta di sigilli di privati, ma soprattutto l’effige della dea con corona turrita accompagnata dall’iscrizione Palmyra o Hadriana Palmyra. Si

tratta evidentemente del sigillo municipale ufficiale, che porta in un primo momento semplicemente il nome della città, e cui si aggiunse il nuovo cognomen conferitogli dall’imperatore Adriano.

Fig. 59. L’agorà con la sala dei banchetti (da STARCKY-GAWLIKOWSKI 1985, pag. 112).

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39. SEYRIG 1941 B H. SEYRIG, Antiquités syriennes, in Syria, tomo 22, fascicolo 3-4, 1941, pagg. 218-270.

38. Inscriptions grecques de l’agora de Palmyre, pagg. 223-270.

L’agorà di Palmira è stata scavata nel 1939 e il 1940, grazie ai contributi forniti dal Museo di Damasco e dall’Académie des inscriptions et belles lettres. I risultati saranno pubblicati dall’Autore e da Duru, mentre Cantineau curerà l’edizione delle numerose iscrizioni venute alla luce in un fascicolo speciale dell’Inventaire des Inscriptions de Palmyre. Seyrig pubblica in quest’articolo alcuni testi greci che richiedevano un commento più ampio di quello permesso dall’Inventaire. I testi palmireni sono stati raccolti e tradotti da monsignor

Starcky. L’agorà forma un vasto rettangolo di 71 x 84 m, i cui lati sono circondati da portici corinzi. Le colonne e i pilastri di questi portici, e in alcuni casi la superficie stessa dei muri fra i pilastri, erano adorni di mensole che sorreggevano statue. Nel corso della costruzione dei portici, ciascuna colonna fu dotata di una mensola, scolpita nel rocchio della colonna che la sostiene: si tratta delle cosiddette mensole che sono scolpite nello stesso blocco del rocchio. Con il passare del tempo, ci fu bisogno di nuove mensole e si decise di aggiungerne alle colonne, ai muri e ai pilastri dei portici: queste mensole furono scolpite a parte e dotate posteriormente di un grosso tenone, che s’incastrava in un’apposita mortasa, alloggiata nel muro o nella colonna. Quando questo tenone è conservato, si distingue, dall’esame della parte attigua, se la mensola si adattava alla superficie piana di un muro o di un pilastro, oppure alla superficie curva di una colonna; da ciò l’Autore ha indicato, nelle iscrizioni, se si tratta di una “mensola di colonna” o una “mensola murale”. Oltre a questa differenza, le mensole si distinguono le une dalle altre per la loro modanatura: quest’ultima è uniforme per le mensole scolpite nello stesso blocco del rocchio, che hanno tutte lo stesso profilo, mentre è variabile per le altre, che sono state scolpite man mano che se ne avvertiva la necessità, seguendo mode differenti. Le varietà delle mensole saranno descritte nella pubblicazione dell’architettura dell’agorà: nelle tavole sono stati riprodotti i quattro tipi di mensole su cui sono incise le iscrizioni pubblicate. Cumont e padre Mouterde hanno già ipotizzato che l’area che chiamiamo agorà fosse quello che i Palmireni chiamavano tetradeion, e che è ricordato nelle iscrizioni come il luogo dove s’innalzavano le statue erette a

spese pubbliche nell’iscrizione di Soados. Il termine è analogo a quello di , che designava una delle agorà di Delo. Soados aveva meritato di essere onorato con l’erezione di quattro statue nel tetradeion. Benché lo scavo non

abbia restituito che un terzo delle circa duecento mensole che ornavano l’agorà, sembra che si possa riconoscere un frammento di una delle quattro dediche a Soados in due frammenti di un’iscrizione bilingue, che sono inclusi nell’articolo, per corroborare l’identificazione del tetradeion. Frammento di calcare rosa, completamente rotto, lungo 13 cm, alto 11 cm, lettere di 2,2 cm. Trovato a un metro delle colonne 44 e 45. A 1009.

Frammento dello stesso calcare, completamente rotto. Lungo 14,5 cm, alto 11 cm, lettere da 2 a 2,5 cm. In alto, inizio di cavetto; trovato con il precedente. A 1010. Il testo palmireno sembra invitare a ricostruire in quello greco un patronimico che comincia con la sillaba

, poiché - è sempre trascritto come BWL; il nome di Boliades, tuttavia, ricorre in un’altra bilingue

dell’agorà (n° 24 infra) e la forma greca lì corrisponde al palmireno B L Y D’. Sembra dunque che l’alternanza Bel/Bol, dovuta a una grafia difettiva ben nota, sia qui ugualmente ammissibile.

I testi sono stati qui classificati secondo il loro soggetto:

1. Arcieri e meharisti palmireni. 2. Ufficiali romani di stanza in Siria. 3. Magistrati, funzionari, senatori. 4. Rapporti di Palmira con la Mesene, la Susiana e l’India. 5. Pubblicani.

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6. Iscrizione imperiale. 7. Consacrazione di un sacerdote di Bel.

1) Arcieri e meharisti palmireni

1. Mensola portante, del tipo n°1, trovato a 3 m dalle colonne 71 e 72. S 11.

2. Mensola portante, del tipo n°1, trovata a 3 m dalle colonne 72 e 73. S 30. La cornice della mensola è

rotta e recava senza dubbio il nome del dedicante.

In questi due testi, la lettera phi ha una forma molto particolare, discussa dall’Autore a proposito dell’iscrizione n°13. A Palmira, il nome di Atenodoro traduce il palmireno Wahballâth, come dimostra l’esempio del figlio di Zenobia; il nome Moqimo è comune. Anche M. Acilius Athenodorus era certamente un palmireno e suo padre,

prima di lui, era stato cittadino romano e, come accadeva spesso a Palmira all’epoca in cui il diritto di cittadinanza romana era ancora raro, la nostra iscrizione non tralascia di segnalarlo. Athenodorus aveva comandato come tribuno la cohors I Ulpia Petraeorum (miliaria), per poi passare come tribunus angusticlavius alla X Legio Fretensis, di stanza in Palestina. In seguito sembra aver rinunciato alla carriera equestre ed essere

ritornato in patria, dove si guadagnò la stima dei suoi concittadini. Furono probabilmente il senato e il popolo di Palmira a dedicargli il secondo testo, perché il titolo di philopatris, la menzione dei servizi resi alla città, la posizione del suo nome all’inizio del testo, si addicono maggiormente a un atto ufficiale della città. Le nostre due iscrizioni sono posteriori alla costituzione della provincia d’Arabia nel 106, che portò alla creazione delle cohortes Ulpiae Petraerum. Un altro indizio fa supporre che siano successive ad alcune riforme di Adriano: M. Acilius Athenodorus apparteneva alla tribus Sergia; ciò potrebbe non avere significato, poiché

potrebbe trattarsi della tribù di appartenenza di colui che aveva procurato la cittadinanza al padre o all’antenato di Athenodorus. Si conoscono tuttavia le tribù delle sette famiglie palmirene che avevano la cittadinanza romana, e, salvo un’eccezione, tutte appartenevano alla tribus Sergia. Quest’uniformità è ancor più interessante, poiché queste famiglie portano gentilizi diversi, che si riferiscono a tribù differenti: M. Ulpius Malchus, M. Ulpius Yarhai, M. Acilius Athenodorus, C. Licinius Flavianus Malicus, P. Aelius (di cui manca il cognomen) e di un Antonius di cui ugualmente non si conosce il cognomen. Le prime due fra queste famiglie avevano ricevuto il loro nome da Traiano o da suo padre, legatus in Siria, e dovrebbero appartenere alla Papiria come questi ultimi. La presenza esclusiva della tribus Sergia e il suo ricorrere in famiglie così diverse

indica senza dubbio una misura generale, che dovette toccare l’insieme dei cittadini romani di Palmira. Poiché la tribù Sergia è quella di Adriano, il provvedimento deve risalire a questo principe: ipotesi che si addice alla probabile data dei testi, e che elimina le obiezioni che si potrebbero fare sulla base dello stato

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civile del settimo palmireno di cui si conosce la tribù: questo personaggio, C. Julius Hairan, appartiene alla Fabia, ma la sua iscrizione risale al 108, ed è quindi anteriore alla supposta riforma. Quale poté essere

l’obiettivo di un tale regolamento? Si eviterà di vedervi una delle riforme costituzionali che Adriano compì a Palmira, poiché si applica esclusivamente ai cittadini romani, che erano, e saranno ancora a lungo, una minoranza all’interno del corpo civico. L’unificazione della tribù di questi cittadini rispose piuttosto a esigenze di praticità amministrativa, analoga a quella che indusse altri imperatori a unificare la tribù dei cittadini romani delle province, attribuendo a una singola tribù distretti molto ampi; Palmira sarebbe stata ascritta da Adriano alla sua tribù. A Palmira, questa riforma fece sì che il diritto di cittadinanza romana, per quanto ristretta, cessasse almeno di essere il privilegio di un piccolo gruppo d’individui, come doveva essere nel I sec. Dal regno di Traiano, a giudicare dalle tre famiglie di Ulpii che ci sono note, dovette esserci più di “un’infornata” di nuovi cittadini, e le iscrizioni mostrano, sia dai praenomina e dai gentilizi presi da Adriano e Antonino Pio, sia dalla

menzione di servizi resi sotto questi principi, che essi continuarono ad attingere numerosi servitori nella borghesia cittadina. S’ignorano generalmente i motivi che portarono a conferire il diritto di cittadinanza ai Palmireni: la politica di benevolenza, inaugurata o ristabilita a Palmira da Adriano, e continuata dagli Antonini, la fece ottenere a ricchi mercanti, i cui viaggi in terre non romane sembrano aver spesso avuto fini diplomatici. Ma in tutti i casi in cui noi conosciamo l’origine di questa concessione, quest’ultima è militare; vi è certamente un riflesso dello sviluppo considerevole delle truppe ausiliarie nel II sec. Sotto quest’aspetto, la testimonianza delle iscrizioni di Athenodorus, che aveva comandato la cohors I Ulpia Petraeorum, non è isolata. E’ probabilmente un parente di Atenodoro, il palmireno M. Acilius Alexander che comandava, nel 134 d. C., la cohors I Claudia Sugambrorum nella Mesia inferiore. L’autore della prima dedica, M. Ulpius Malchus, aveva “compiuto con distinzione le sue tre milizie equestri”, secondo un’iscrizione del santuario di Bel. Un’epigrafe di Sarmizegetusa nomina ancora un palmireno come prefetto della cohors I Augusta Ituraeorum sagittariorum. Nel 141, M. Ulpius Abgar fu onorato come praefectus degli arcieri palmireni, e uno dei suoi figli era centurione. Sotto Antonino Pio, un T. Aelius esercitava una funzione simile a Porolissum in Dacia; Julius Julianus , praefectus dell’Ala Thracum Herculiana, passa per palmireno, a causa del titolo di philopatris che gli attribuisce un testo del santuario di Bel nel 167, e potrebbe esserlo effettivamente,

benché i suoi nomi non depongano in favore di questa ipotesi. Questi sette ufficiali, che non erano evidentemente i soli, tutti di rango equestre, che vissero tutti nel II sec., testimoniano lo zelo con cui i Palmireni prestarono servizio nell’esercito romano, ed è notevole che almeno quattro di loro abbiano comandato degli arcieri. La cohors I Augusta Petraeorum e la cohors I Augusta Ituraeorum sono note come tali, mentre le truppe comandate da M. Ulpius Abgar e T. Aelius sono designate

come tali nelle iscrizioni. Sembra che sino ad allora i Romani, se avevano di preferenza arruolato i loro arcieri in Oriente, avevano evitato di dare loro dei capi orientali, ma i primi Antonini non temettero di affidare a dei Palmireni i posti a cui i loro costumi ancestrali li preparavano. L’uso dell’arco non era riservato a Palmira ai ranghi subalterni, e ancora nel 229, i rilievi della tomba di Maqqai rappresentano come un arciere, con le vesti di un ricco signore persiano, questo elegante personaggio cui due paggi presentano il cavallo sellato, l’arco e la faretra. E’ in questa ricca e brillante società di grandi carovanieri, dove il tiro con l’arco era uno sport e dove la protezione dei convogli obbligava i mercanti a conoscere e praticare le tecniche degli arcieri, che i Romani trovarono naturale reclutare gli ufficiali di cui le loro nuove formazioni avevano bisogno. Seguono due iscrizioni concernenti questi praefecti degli arcieri:

3. Parte anteriore di una mensola di tipo n°1, trovata 3 m dietro la colonna 68. Due frammenti della cornice di questa mensola, che reca le righe 1 e 2, sono stati ritrovati fra i blocchi delle mura, non lontane. La riga 1 è incisa sul listello, la linea 2 sul cavetto, la riga 3, di cui non resta nulla, doveva essere incisa sul quarto di cerchio, e forse vi era ancora una riga sulla modanatura a kyma reversa. Le righe cui l’Autore attribuisce il n°4 e le successive erano incise sul corpo della mensola. Sono seguite dall’inizio di un testo palmireno, di cui non rimane quasi nulla, pubblicato nel fascicolo 10 dell’Inventaire di Cantineau. A 968.

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Riga 1. Il nome è ricostruito dal palmireno, che ha conservato il nome di Abgar figlio di Taimarso. Riga 2. Le

ultime lettere sono enigmatiche: l’Autore non ritiene possibile ricostruire benché la parola

si possa forse adattare al piccolo scudo rotondo degli arcieri palmireni. 4. Parte anteriore di una mensola, i cui numerosi frammenti sono stati raccolti fra le colonne 58 e 59. La

cornice manca, ma non dovevano esserci iscrizioni. A 987.

La prima di queste iscrizioni è datata al 141, la seconda dovrebbe risalire ai quarant’anni durante i quali, fra il 119 e il 159, la Dacia fu divisa in due, ma questa cronologia può essere ulteriormente precisata. Infatti T. Aelius porta il praenomen e il gentilizio di Antonino Pio: era senza dubbio un beneficato di questo imperatore,

e ricevette il diritto di cittadinanza per esercitare il comando di cui si parla qui, e la sua iscrizione si colloca dunque fra il 138 e il 159. Il corpo, o i corpi d’armata, che hanno comandato questi due ufficiali sono designati poco chiaramente: M. Ulpius Abgar è stato praefectus degli arcieri palmireni; quanto a T. Aelius, non si può ricostruire nella sua

iscrizione che una formula ugualmente vaga. Se si ricostruiscono, alla riga 1, un nome e un titolo, entrambi indispensabili, non resta spazio per i nomi di un’ala, una coorte o un numerus. La struttura della frase, d’altra

parte, fa supporre che il titolo dell’ufficiale fosse semplicemente seguito dall’articolo Quanto al titolo,

è troppo lungo per la lacuna, dove impedirebbe di far entrare anche una sola lettera del nome. L’Autore ritiene quindi che T. Aelius portasse lo stesso titolo di prefetto di Abgar, e fosse quindi il prefetto degli arcieri arruolati a Porolissum in Dacia Superiore. Questi arcieri erano sicuramente palmireni, anche se

l’autore della dedica non ha stimato importante dirlo. Dei semplici soldati di stanza in Dacia non avrebbero eretto la statua del loro comandante a Palmira, se loro stessi e quest’ultimo non fossero stati palmireni. Gli arcieri di Aelius erano dei cavalieri, come indica il nome della loro suddivisione, vexillum. Di stanza a Porolissum, essi ricordano il numerus Palmyrenorum Porolissensium sagittariorum, conosciuto grazie a tre iscrizioni di III sec., e il numerus Palmyrenorum che menziona un quarto testo, senza dubbio più antico degli altri due, ritrovato fra le rovine di Porolissum. Il nostro testo prova che il numerus esisteva già all’epoca di Antonino Pio? E’ lecito dubitarne: non si conosce un numerus Palmyrenorum attestato come tale prima di Settimio Severo, e gli arcieri di Aelius potrebbero essere stati semplicemente una truppa poco strutturata, da cui poi si sarebbe originato il numerus Palmyrenorum di Porolissum, costituito secondo le norme. Tuttavia, può darsi che convenga attribuire a questa guarnigione un diploma datato al giugno 120, trovato a Porolissum, e che ha per beneficiario un palmireno, Hamasaeus Alapatha filius.

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S’ignora quando i Romani abbiano cominciato a reclutare gli arcieri nella Palmirene: nulla dice che abbiano atteso il regno di Antonino per farlo, e un testo del Talmud, studiato da Cumont, rivela che forse gli Ebrei

videro usare contro di loro questi arcieri nella guerra di Vespasiano. Se questo dato si riferisce a un fatto realmente accaduto, si deve trattare di soldati reclutati per la circostanza. Igino, il cui trattato si data all’epoca di Traiano o Adriano, cita dei Palmireni fra le truppe irregolari dei symmachiarii: doveva ancora una volta trattarsi di arcieri. Il diploma del soldato palmireno di Porolissum risale al 120, seguono poi gli arcieri di Aelius e Abgar, e senza dubbio nello stesso periodo, i distaccamenti, piuttosto modesti e privi di autonomia,

che furono aggiunti ad alcuni gruppi ausiliari dell’esercito d’Africa; infine, in epoca severiana, comparvero le cohortes Palmyrenorum e i numeri Palmyrenorum.

Che il reclutamento di Palmireni sia cominciato ben prima di Antonino Pio, è provato dal testo successivo, relativo a dei meharisti, che erano anch’essi, a loro modo, arcieri.

5. Parte anteriore di una mensola, del tipo n°1, trovato davanti alle colonne 5 e 77, con il listello della cornice che manca. Sulla faccia destra, tracce di una versione palmirena, S 2342. Riga 1: i nomi del titolare sono ricostruiti dalle tracce del testo palmireno. Riga 6:

[corrisponde esattamente alla lacuna. Riga 7: la ricostruzione dell’inizio della riga,

si adatta esattamente alla lacuna, come si vede dalla misura della riga successiva, il

cui inizio è pressoché identico Può darsi che vi fosse una riga 11 contenente una data, ma la parte in basso è spezzata.

La data del testo è fornita dal nome stesso dell’autore: M. Ulpius Yarhai contava a Palmira almeno nove

statue, tutte datate e dedicate fra il 155 e il 159. Onori così rilevanti devono appartenere a un periodo relativamente avanzato della sua vita, come si vede dal fatto che suo figlio Abgar era già in grado di

comandare di persona una carovana. Non è necessario attribuire il nostro testo a questo periodo breve e tardo: si può dire che risale all’incirca all’epoca di Antonino Pio. L’ufficiale onorato da Yarhai ha comandato la coh. I Augusta Thracum equitata, che non era prima attestata, se

non da due iscrizioni senza data, trovate a Motha (Imtam), in Arabia; in seguito, era passato alla 16° legione, che era di stanza a Samosata, e fu infine messo a capo dei meharisti palmireni. Un diploma del 156/157, all’incirca contemporaneo alla nostra iscrizione, nomina un’ala Ulpia dromedariorum miliaria fra le truppe di stanza in Siria, e si è proposto di attribuire allo stesso corpo un testo piuttosto oscuro, trovato a sud di Ledja. Nella dedica di Yarhai, la ricostruzione del nome Ulpia è pressoché certa, anche al di là di questo confronto: solo l’epiteto di Flavia potrebbe adattarsi ugualmente alla lacuna, ma non è

verosimile. Si tratta probabilmente della stessa ala, la cui origine palmirena sembra qui attestata, e da cui si apprenderebbe nello stesso tempo che truppe regolari erano state arruolate a Palmira fin dal regno di Traiano. Il nostro corpo di cammellieri non era evidentemente il solo di questo genere, ma le nostre informazioni su tali formazioni sono scarsissime. Tuttavia, una piccola serie di iscrizioni attesta che un’ala di meharisti, in cui militavano anche dei cavalieri, sorvegliava, nel II sec, la strada di Medina. Dopo la menzione di queste tre milizie equestri, vi è un titolo in cui la parola principale è perduta, e che implica l’appartenenza alla città di Palmira.

Le tracce che si distinguono sulla pietra indicano probabilmente una terminazione in , benché l’eta sia piuttosto incerta. Se si considerano le altre dediche fatte a Palmira in onore di ufficiali, si osserva che C. Vibius Celer, che comandava probabilmente verso il 140 “l’ala qui di stanza”, è chiamato in una dedica del

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senato e del popolo “cittadino e membro del sinedrio”. Si potrebbe ricostruire anche qui uno dei due termini:

entrambi si addicono alla lacuna, ma la desinenza del secondo, sembra meno conforme alle vestigia della penultima lettera. Inoltre, si vedrà più avanti che chi faceva parte del sinedrio era un membro

del senato, e che si era non Al contrario, la ricostruzione di

sembra accettabile sotto ogni aspetto: come C. Vibius Celer, il nostro ufficiale era senza dubbio un

cittadino onorario. 2) Ufficiali romani di stanza in Siria.

6. Mensola immorsata, di tipo n°1, ancora in situ sulla colonna 7. Le righe da 3 a 6, come il testo

palmireno che le segue, sono conosciuti da tempo. L’Autore ha aggiunto al testo latino un frammento delle righe 1 e 2, che ne aumentano considerevolmente l’interesse. Inoltre questo testo si lascia completare in parte da quello successivo, che è nuovo, e reciprocamente lo completa.

Il testo è stato scolpito da qualcuno con scarsa conoscenza dell’alfabeto latino. Le righe 1 e 2, incise sul listello della cornice, sono molto più lunghe delle altre, incise sul corpo. Riga 1. Celestico: il nome è stato ipotizzato da Chabot dalla versione palmirena, che riporta QLSTQS. In favore di questa trascrizione si può allegare il Lessico Suidas, che conosce la forma greca del

nome, Il grado di centurione è fornito dalla versione palmirena. III Scy: il primo editore

del testo, Sobernheim, aveva creduto di vedere nella versione palmirena, nella parola che segue “legione”, un modo bizzarro di designare la IV legione (DY’RB’T), ma quest’interpretazione non può essere ammessa, e si è ipotizzata l’esistenza di una località chiamata Arbata. Questo punto dovrà essere riconsiderato, poiché la IV legione è attestata dal testo latino; è vero che, se l’ordine delle funzioni è stato strettamente osservato, Celesticus doveva essere già morto quando il testo fu

scolpito. Riga 3. Non sono stati ricostruiti titoli superiori a quelli spettanti a un centurione, perché il testo palmireno implica che Celesticus non aveva superato questo grado. La lezione tradizionale Coh. I Gebasis qui non ha alcun senso, anche se si leggono ugualmente bene una T e un’I, l’ultima S e un’E: bisogna quindi correggere, integrando con le prime lettere della riga successiva, coh. I (S)ebaste[n]ae. Riga 4. Salvo l’ultima parola, il testo è indecifrabile. Dopo (S)ebaste[n]ae, si leggono chiaramente

SVPI, benché P sembri una K. Segue una lettera simile a un’U corsiva, poi VIM. Il testo palmireno dice semplicemente: “Immagine di Celesticus, centurione della legione DY’RB’T, che ha fatto fare Elahbel ”.

7. Mensola spezzata posteriormente, del tipo n°1, trovata dietro la colonna 7, dove non poteva essere

apposta, non avendo la colonna una mortasa. Iscrizione estremamente consunta, mutila in alto e in basso. A 990.

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Riga 5. L’Autore crede di leggervi Sebast., che confermerebbe la lettura del testo precedente, poi la

menzione di un’altra coorte. La fine del testo manca, e poteva includere ancora numerose righe. Celesticus era un centurione, che aveva servito in tre legioni, stazionate tutte e tre in Siria; aveva ricevuto diversi incarichi, di cui uno consisteva nel comando della cohors I Sebastenorum, e un’altro era designato

come “curatela della riva superiore e inferiore”; poiché non può essere dell’Oronte, deve trattarsi della riva dell’Eufrate. Si conoscono i nomi di diversi personaggi, preposti, come Celesticus, alle rive dei grandi fiumi: un certo Julius Tutor, secondo Tacito, era stato ripae Rheni a Vitellio praefectus, e un vecchio praefectus di coorte era conosciuto per aver ricoperto, in epoca indeterminata, le funzioni di praefectus ripae Danuvii et civitatum duarum Boiorum et Azaliorum. Infine, un cavaliere romano, dopo aver comandato l’ala Trachum Herculiana, ben nota a Palmira, diventò praefectus ripae Euphratis: l’iscrizione di questo personaggio, predecessore o successore del nostro

centurione, risale al I sec. Tutti questi personaggi sono militari di rango intermedio, e tutti esercitarono il loro incarico lungo un fiume che serviva da frontiera all’impero; a questo si limita la nostra conoscenza delle loro funzioni. Il loro titolo ci mostra che quest’incarico non consisteva nel comandare truppe, ma dovevano avere una funzione di polizia territoriale: la protezione dei trasporti, la repressione del brigantaggio e del contrabbando, l’organizzazione dei posti di guardia. Così li si potrebbe paragonare ai praefecti orae maritimae, che si reclutavano fra gli ufficiali dello stesso rango. La ripa non va intesa in senso troppo stretto: formava probabilmente un territorio

di una certa estensione, una zona di frontiera lungo il fiume, e il cui statuto poteva differire per alcuni aspetti dal territorio interno della provincia. Un’iscrizione di Bonn sembra nominare un p(rae)p(ositus) (quinquagesimae) ripae Rheni, il che farebbe di questa ripa un distretto fiscale, come lo era, su altra scala, la ripa Thraciae. Nel caso presente, la menzione di Hierapolis potrebbe indicare che questa città svolgeva un ruolo importante nell’amministrazione della ripa.

La riva dell’Eufrate era normalmente divisa in due sezioni, una a monte e una a valle, che erano state riunite, momentaneamente senza dubbio e per ragioni che ci sfuggono, sotto il comando di Celesticus. La frontiera fluviale della provincia di Siria si estendeva, all’incirca, prima dell’annessione della Commagene nel 72, da Zeugma a Birtha; in seguito, si estese fino ai confini della Cappadocia, presso Juliopolis. Si estendeva quindi inizialmente per più di 350 km e poi per 500 km. Si tratta di un territorio piuttosto vasto, per essere affidato a un solo ufficiale, ma agli antichi non doveva sembrare così: il prefetto della costa marittima della Spagna Tarragonese, che era allo stesso tempo il comandante di una o due coorti, sorvegliava una costa di circa 400 km, mentre quello della Bitinia e del Ponto si occupava di una zona vasta almeno due volte tanto. Non deve dunque sorprendere che i prefetti delle rive dell’Eufrate, del Reno e del Danubio, se svolgevano funzioni analoghe, come sembra, estendessero la loro autorità su zone della stessa importanza. La data delle nostre iscrizioni non può essere stabilita con certezza, ma si possono formulare ipotesi verosimili. Due dei corpi dove Celesticus ha militato, la legione III Scythica e la cohors I Sebastenorum, sono

passate in Palestina, una nel 133, l’altra nel 139: l’attività del centurione lungo le rive dell’Eufrate e i suoi rapporti con i Palmireni devono essere anteriori a queste date. Bisogna anche notare che la scrittura palmirena del primo testo mostra la morbidezza tipica del I sec. e che le più antiche iscrizioni dell’agorà risalgono al 76 e all’81, e non vi sono ragioni evidenti che facciano datare i nostri testi a oltre quest’epoca. A queste ragioni si aggiunge una considerazione storica: Domaszewski ha osservato, senza sviluppare le sue motivazioni, ma con verosimiglianza, che i praefecti ripae erano anteriori alle riforme promosse dagli

imperatori flavi per la difesa delle frontiere. Sembra, infatti, inutile che tale funzione fosse svolta in una frontiera provvista di una forte organizzazione militare, come quella dell’Eufrate, alla fine del I sec. Non si menzionano più praefecti ripae nel II sec., e il dux ripae che compare a Dura nel III sec. sembra essere un

ufficiale di tutt’altro rango, dotato di un vero comando militare. Tutte queste ragioni portano a credere che l’iscrizione di Celesticus sia una delle più antiche dell’agorà, e risalga senza dubbio al regno di Domiziano.

La divisione della riva dell’Eufrate in due sezioni, una a monte e una a valle, si spiega forse con gli avvenimenti storici che modificarono lo statuto di queste regioni. La ripa inferior rappresentava la frontiera dell’Eufrate com’era all’epoca dell’indipendenza della Commagene, la superior includeva la riva della

Commagene, divenuta romana nel 72.

8. Mensola murale, del tipo n°1, estratta dalle mura, dove ella era stata reimpiegata nella gabbia del pozzo dell’agorà; rotta in basso. S 869.

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Non resta, alla fine della riga 5, che la parte alta delle lettere, con il solo epsilon visibile per intero.

9. Faccia anteriore di una mensola, la cui cornice è persa, e il cui corpo è inquadrato da una modanatura a kyma reversa. Angolo inferiore destro rotto, trovato nei crolli delle mura, 7 m a est della porta 9. A

1089.

Il nome designa una famiglia palmirena: cfr. le iscrizioni n° 10 e 11.

L’ala Thracum Herculania, secondo l’iscrizione di Vaison, potrebbe essere rimasta di stanza in Oriente dal I

sec., e nel II sec. formò a lungo la guarnigione permanente di Palmira; era verosimilmente comandata, agli inizi del regno di Antonino, da C. Vibius Celer, che un’iscrizione del santuario di Bel ricorda come “prefetto dell’ala che è qui di stanza”. Vi è poi l’epitaffio di uno dei suoi cavalieri, nel 164 la statua del suo prefetto Julius Julianus. Si pensa che l’ala abbandonò Palmira nel 170 per la Macedonia, dove combatté i Costoboqui con altri corpi ausiliari orientali. Nel 183 fu rimpiazzata dal numerus Vocontiorum, e la sua presenza è

attestata dal 185 a Copto, che non lascerà più. I nomi di Clodius e Celsus sono comuni, ma si conosce un Clodius Celsus di Antiochia, che aveva dissuaso Nimphidius Sabinus dal contendere l’impero a Galba; non è impossibile che il nostro prefetto fosse un siriano.

10. Mensola di colonna, del tipo n°1, trovato ai piedi delle mura, all’altezza della colonna 1. S 137.

Riga 1. Il grado del centurione è espresso da un rho sormontato da una piccola chi. Riga 3. Lo

scalpellino aveva inciso all’inizio C.

11. Mensola murale, del tipo n°2, trovata nelle mura, presso il piedritto sud-est della porta 8. S 1866.

La III legione Gallica non ha lasciato la Siria dopo il regno di Vespasiano. In quale misura l’esercito romano partecipava alla protezione delle carovane? Due testi del regno di Settimio Severo onorano dei personaggi di cui uno, Ogeilu figlio di Maqqai, è stato “stratega contro i nomadi” molte volte, mente un altro, Aelius Bora, aveva “ristabilito, come stratega, la pace nei confini della città”. Benché

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sfortunatamente il secondo testo sia mutilo, Aelius Bora sembra aver ricevuto l’incarico da due governatori della Siria Phoenice. Ma queste iscrizioni si riferiscono a dei Palmireni e a delle truppe locali, non romane. E’

diverso per il testo seguente, ben più modesto, datato al 135.

12. Mensola murale, del tipo n°3, trovata a 8 m dalle colonne 60 e 61. S 1903.

La cornice è andata persa, e con lei la riga 1, ricostruita dal palmireno, che non dice molto più del greco, se non la data: dicembre 135.

M. Ulpius Abgar, figlio di Hairan, deve essere il fratello del famoso Yarhai, di cui si è parlato prima. Questo

testo mostra che un ufficiale romano, subalterno del resto, è stato onorato da una carovana, a cui doveva aver reso dei servigi. Bisogna concludere che i convogli erano accompagnati da una forza militare romana? Le iscrizioni carovaniere, molto numerose, non menzionano mai ufficiali, e Julius Maximus doveva piuttosto

appartenere a qualche postazione di frontiera, o comandare la scorta di un pubblicano incaricato delle dogane: egli deve aver reso occasionalmente servizio alla carovana di Abgar.

3) Magistrati, funzionari, senatori.

13. Mensola di colonna, del tipo n°1, trovato ai piedi e a nord della colonna 24, che è anche la colonna dell’angolo nord dell’agorà; sembra tuttavia appartenere, dalle dimensioni del tenone, alla colonna 25. S 1836.

La parte destra è spezzata, ma si può giudicare, dalle righe 7 e 8, la cui lunghezza è certa, dove cadesse la metà delle righe: da ciò si può dedurre esattamente la lunghezza delle restituzioni. Riga 2. Alla fine della riga, si vede ancora la parte sinistra di una lettera rotonda dopo il lambda. Fra i titoli

che può portare un legato imperiale, l’unico che cominci con lambda è , la cui seconda lettera

corrisponde esattamente alle tracce visibili sulla pietra. Riga 5.C. Riga 7. Gli equivalenti di Heliodoros e Yarhai sono già noti, come anche di Iarhiboles, di cui Yarhai è il diminutivo. Heliodoros traduce ugualmente Lishams.

Fulvius Titianus era giunto a Palmira come curatore della città (curator reipublicae), per gestirne gli

affari, specie quelli finanziari. L’importanza di Palmira aveva fatto designare per quest’incarico un personaggio di rango senatorio, con il titolo di legato imperiale. Fulvius Titianus è ancora sconosciuto, e solo l’aspetto epigrafico può fornire qualche elemento utile per la

datazione. L’alfabeto greco di Palmira è in apparenza così poco cambiato che è difficile servirsene in assenza di uno studio sistematico. L’Autore segnala tuttavia la forma della lettera phi: la parte curva, invece di essere arrotondata, termina sull’asta con un angolo accentuato, che gli conferisce una forma a borsa. Questa caratteristica non è sconosciuta a Palmira, ma è rara, e gli esempi già noti risalgono al 113, al 122 e al 157.

332

Questi confronti sembrano suggerire per la nostra iscrizione una datazione alla prima metà o alla metà del II sec. Si conosce già un curator di Palmira, ma la sua iscrizione risale al 328, quando le circostanze erano differenti.

D’altra parte, si è proposto di riconoscere un funzionario dello stesso genere nel ricordato dalla legge fiscale. L’Autore tuttavia ritiene che si trattasse di un militare, e che il resto del passo che lo menziona si riferisca al più tardi al regno di Nerone: non vi erano curatores a quell’epoca. I curatores erano assegnati principalmente alle città libere dell’impero (civitates liberae), la cui gestione finanziaria sfuggiva agli sguardi del governatore. Anche la presenza di Fulvius Titianus a Palmira tende piuttosto a confermare l’ipotesi già formulata dall’Autore sullo statuto di questa città ( vedi Syria, XXII,

1941).

14. Mensola di colonna, del tipo n°1, trovato ai piedi del muro nord-est, un po’ più a sud del pilastro che corrisponde alla colonna 44. S 1144.

La cifra dell’anno è scomparsa e per datare quest’iscrizione bisogna limitarsi alle congetture che offre il nome di Aetrius Severus, governatore sconosciuto. Potrebbe essere lo stesso Aetrius Severus, pretore tutelare fra il 193 e il 198: in questo caso avrebbe governato la Siria Phoenice come legatus di rango pretorio, alcuni

anni dopo. La forma trascurata, o piuttosto frettolosa, dell’alfabeto, non permette di supporre una data più alta. L’assenza del gentilizio Aurelius non consente di scendere oltre la costituzione di Caracalla. Malkho, figlio di Barea, aveva presieduto il senato con integrità e distinzione, ma la sua epigrafe è notevole anche sotto un altro aspetto. Questo personaggio era già noto e l’Autore aveva già pubblicato (vedi Syria, XIV, 1933, pag, 269) un pyrée dedicato da lui al dio “unico, solo e misericordioso”. Questa dedica è

interessante per la storia del culto del dio anonimo a Palmira, oltre che per la controversa questione delle influenze ebraiche che vi si possono riconoscere. Si poteva ipotizzare che si trattasse di un “ebreo eretico”, o di un Palmireno che conosceva la religione di Yahwé. Il nome di Malkho aveva fatto decidere l’Autore per la seconda ipotesi, che è oggi confermata da questa iscrizione: non solo egli era un palmireno, ma era uno dei personaggi eminenti della città, e il pyrée da lui dedicato diviene così uno dei monumenti più interessanti della pietas delle classi agiate di Palmira. I meriti di Malkho durante la sua presidenza del senato gli avevano valso un attestato di stima del

governatore; questi attestati, che potevano essere forniti da persone differenti e che si potevano sommare, sembrano aver avuto un ruolo importante a Palmira, e sono oggi noti da un numero sufficiente di iscrizioni perché se ne possa ricostruire la gerarchia e la procedura. L’attestato più grande (almeno a giudicare dal fatto che è sempre citato per primo) era quello concesso non da un mortale, ma da Yarhibol, chiamato a volte

semplicemente il dio ancestrale. L’iscrizione seguente ne è un altro esempio.

15. Mensola di colonna, di tipo indeterminato, trovata in frammenti nelle mura, là dove si trova il grande monumento che è contiguo all’agorà verso sud-est. Mancano la cornice e la parte alta della fascia superiore. Sulla faccia destra, tracce di un testo palmireno, ridotto a qualche parola, che sarà pubblicato nell’inventario di Cantineau. A 1056.

333

Riga 1. L’ultima lettera prima della seconda lacuna deve essere un sigma o un epsilon. Riga 3. La

strategia e l’agoranomato sono sempre citati insieme, ma la prima carica doveva essere raggiunta per ultima, poiché era la più importante della città.

Yarhibol, che era il dio del sole nella triade di Bel, doveva essere una divinità oracolare: designava i titolari di alcune cariche, e si poteva senza dubbio ottenere una menzione da lui quando si terminava il proprio incarico. Lo si vede quindi congratularsi con due strateghi della città, senza contare quello di cui stiamo parlando, uno “stratega per la pace” e un simposiarca dei sacerdoti di Bel. Salvo quest’ultimo testo, dove l’intervento di Yarhibol sembra più naturale, poiché si tratta di funzioni religiose, tutti gli altri sono successivi a Settimio Severo, e la nostra iscrizione risale anch’essa al 192-193. Il luogo di ritrovamento non implica che provenisse dall’agorà. Quanto agli attestati da parte di mortali, quello della città, che era offerto dal senato o dal senato e il popolo, era più facilmente ottenibile. Secondo alcuni testi, assumeva la forma di un decreto, e lo si vede accordare a due strateghi e allo “stratega per la pace”, che avevano ricevuto tutti e tre lo stesso onore da Yarhibol. In alcuni casi, il senato non si limitava a emanare il decreto, ma ne inviava una copia al governatore di Siria. Conosciamo due casi: uno era senza dubbio un grande mercante, che aveva aiutato i suoi concittadini in lontani empori ed era stato ambasciatore presso il re della Susiana, mentre le funzioni dell’altro non sono note. Alcune volte, tuttavia, non vi era la risposta del legato, e in questi casi i personaggi onorati dal senato ci informano che il decreto, almeno, era stato trasmesso al governatore. Le testimonianze accordate dal legato, che costituivano il gradino successivo, sono attestate da quattro testi: oltre ai due personaggi appena citati, riguardano il presidente del senato di cui si analizza l’iscrizione, e un noto carovaniere, Soados, figlio di Boliades, che aveva reso i propri servigi presso l’emporio di Vologesia, dove aveva costruito un tempio in onore degli imperatori. In un’occasione, Soados era stato onorato da un

editto del legato, , negli altri casi aveva ricevuto delle lettere, che erano probabilmente la forma abituale di queste congratulazioni. L’ultimo livello consisteva nelle felicitazioni dell’imperatore, che sono attestate solo per Soados: egli aveva ricevuto lettere da Adriano e Antonino Pio; una forma in tono minore di congratulazioni imperiali erano quelle del prefetto del pretorio Julius Priscus, offerte a uno stratega, sotto Filippo l’Arabo.

L’insieme di questi documenti riguardanti le testimonianze ( non è paragonabile a quelle fornite, sotto Adriano e Antonino Pio, dalla celebre iscrizione di Opramoas, questo Licio di Enoanda, che face incidere l’archivio completo degli onori e degli attestati di merito che aveva ricevuto nel corso della sua carriera. Si evince comunque che la sete di approvazione da parte di Roma era uguale a Palmira come nel resto dell’impero e come la vita pubblica fosse strettamente legata a quella della provincia di Siria. Le più antiche testimonianze imperiali risalgono, nell’iscrizione di Soados, al regno di Adriano, morto nel 138: dovrebbero essere quindi all’incirca contemporanee alla legge fiscale del 137. I nostri testi non costituiscono, se si vuole, una prova di ciò che era allora lo statuto di Palmira, ma fanno tuttavia percepire l’atmosfera in cui fu votato il principale documento di tale statuto.

16. Iscrizione quasi completamente cancellata, incisa su di uno stipite della grande porta n°4, a lato del portico. Lettere alte da 3 a 6 cm; sopra lo stipite, si vedono nel muro quattro mortase, cui erano fissate da tenoni, secondo l’uso abituale dell’agorà, le teste di quattro statue i cui piedi poggiavano sulla cornice dello stipite.

Zenobio era certamente un presidente del senato e , come si vedrà in seguito, la posizione della sua iscrizione non è priva d’interesse.

17. Mensola murale, del n°2, trovata ai piedi del pilastro che corrisponde alla colonna 48, in cui si vede la mortasa dove la mensola era fissata.

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Il personaggio onorato in questo testo appartiene alla numerosa e importante famiglia dei discendenti di Aabei. Il suo titolo ci è fornito dall’iscrizione successiva.

18. Mensola muraria, del tipo n°2, trovato ai piedi della finestra che corrisponde alla colonna 47, sopra il cui frontone si vede ancora la mortasa da dove è caduta la mensola. S 1782.

Sul lato sinistro, tracce di un testo palmireno, pubblicato nel fascicolo 10 dell’Inventaire di Cantineau. Si legge: “Statua di …, figlio di Taimarso figlio di Malikou, che il senato ha eretto in suo onore …”.

Un membro del sinedrio è già conosciuto da un’iscrizione del santuario di Bel, risalente probabilmente alla seconda metà del II sec.; gli scavi nell’agorà hanno messo in luce un’altra dedica offerta a un componente del sinedrio, un testo bilingue datato all’agosto 113. L’elemento comune alle dediche greche fatte dal senato a dei membri del sinedrio sembra essere il titolo di

quest’ultimo epiteto sembra essere legato alle elargizioni cui erano tenuti questi personaggi. Nelle dediche offerte dal popolo e dal senato compare anche l’appellativo di philopatris. La dedica di C. Vibius Celer presenta un formulario completamente differente, e non loda né la pietas né la

magnificenza del personaggio, ma solamente la sua benevolenza: questo perché Vibio non era un ricco palmireno desideroso di onori municipali, ma un ufficiale romano, nominato cittadino onorario e membro del sinedrio della città dove era di guarnigione. Chi sono i membri del sinedrio? Il loro nome implica solamente che sono membri del consiglio, ma essi appartengono certamente al senato locale, come mostra la formula della dedica. Ci si potrebbe chiedere tuttavia se si tratti di senatori o di membri di un consiglio ristretto: nel caso di Palmira, si potrebbe pensare ai decaproti che amministravano la città con i due strateghi o arconti. Tuttavia, questa terminologia sarebbe

senza precedenti, mentre le parole indicavano in età imperiale, in numerose città, il

senato e i senatori locali. A Palmira, il termine ha sempre prevalso per il senato, e la sola iscrizione

che possediamo di un senatore palmireno gli conferisce il titolo ma il testo risale al 258. La serie di dediche dell’agorà testimonia senza dubbio che l’uso era diverso all’inizio o alla metà del II sec. Le tre iscrizioni di membri del sinedrio appena esaminate, e una delle altre due in cui il testo palmireno menziona una dignità che sembra essere la stessa, sono state trovate nella sezione orientale del portico sud-est dell’agorà. Sempre da là proviene la dedica al presidente del senato, e ancora sulla porta principale dell’angolo est sono emersi il nome e il titolo di un altro presidente della medesima assemblea. Dal ritrovamento di questi testi, il loro raggruppamento aveva colpito l’Autore, che si era domandato se ci si trovasse vicino al luogo ove l’assemblea si riuniva. Il proseguire degli scavi ha confermato quest’ipotesi, perché all’esterno dell’agorà e immediatamente a est dell’angolo orientale, è stata messa in luce una costruzione il cui ambiente principale è un piccolo emiciclo, sufficiente per 50-75 persone.

19. Mensola muraria, del tipo n°4, trovato ai piedi del pilastro che corrisponde alla colonna 20. La mortasa dove era fissata la mensola è ancora visibile nel pilastro. S 1796.

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20. Sotto la mortasa prima ricordata, iscrizione metrica di quattro righe, incisa sul pilastro.

Riga 3. Le sole tracce certe dell’inizio della riga sono le seguenti. La riga comincia con un’asta verticale, poi segue una lacuna completa di due lettere. Si distinguono poi le parti superiori di tre aste verticali equidistanti, di cui l’ultima è troppo distante da OC per appartenere a una lettera che

non fosse una K, o M. Manilio Fusco fu legato della Siria Phoenice, verso il 194; i nostri due testi onorano il figlio, morto probabilmente durante la legazione del padre. Il dedicante è un notabile palmireno ben conosciuto.

4) Rapporti di Palmira con la Mesene, la Susiana e l’India. I rapporti di Palmira con la Caracene o Mesene sono attestati da un gran numero di testi, il più antico dei quali sembra riguardare un palmireno che aveva ricoperto una missione diplomatica in quel paese per conto di Germanico. Altre iscrizioni mostrano che esisteva, nel I e nel II sec., nella città di Charax o Spasinocharax, capitale di quel regno, un emporio di mercanti palmireni; numerose iscrizioni, che vanno dall’80 al 193, ci indicano le carovane che andavano e venivano da Palmira e Charax. Gli scavi dell’agorà hanno aumentato questa serie di numerosi testi notevoli.

21. Mensola spezzata in sei frammenti, di cui cinque trovati nei crolli delle mura, poco a ovest della porta 9, mentre il sesto giaceva poco dietro le colonne 73 e 74. A 1055, 1067, 1070, 1071, 1084.

La riga 1 doveva essere incisa sulla cornice, che manca; le righe da 2 a 7 sono sulla fascia superiore, quelle da 8 a 9 sulla fascia inferiore. Sulla faccia destra, resti di una versione palmirena che comparirà nell’Inventaire di Cantineau. Riga 2.Bisogna completare, dopo il patronimico, un titolo di

magistrato della città di Forat. Riga 7. è omesso, il testo palmireno dice: “da Charax della Mesene

a Vologesia e Palmira”. La data corrisponde al mese di settembre 140. La dedica riguarda un notabile di Forat, città della Caracene dove i mercanti palmireni avevano degli

affari. Al ritorno la carovana si era fermata a Vologesia, dove si trovavano un emporio palmireno considerevole, un santuario palmireno e un tempio dedicato agli imperatori.

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21 bis. Mensola immorsata, appartenente a un rocchio della colonna 33, del tipo n°1. S 1494.

Il testo greco è seguito da quello palmireno, di cui non rimangono che il nome e il patronimico di Yarhai, che permettono di ricostruire la riga 1. I Palmireni non intrattenevano solo rapporti commerciali con la Caracene, ma addirittura le fornivano alcuni alti funzionari. Ancora oggi i siriani occupano posizioni notevoli nell’amministrazione di vari paesi islamici, dove le loro capacità li portano ad occupare posti di prestigio. Yarhai sembra essere stato preposto all’amministrazione di un distretto, perché Thilouana deve essere un nome di località, ancora sconosciuta, il cui primo elemento trascrive la parola semitica tell.

Il re Meheredate, il cui nome è una variante di Mitridate, non è sulla lista dei re caraceni. Questa lista, grazie soprattutto a una serie monetaria greca che riporta date precise, è ben stabilita fino al re Attembelos V, che si sottomise a Traiano nel 116. Da questo momento si trovano due serie di monete, che

presentano inizialmente caratteristiche simili a quelle della serie primitiva: una, che si ricollega alla precedente per la sua fattura, porta legende aramaiche pressoché indecifrabili, cosicché i re che nomina ci sono ignoti; l’altra reca legende greche, in generale ben leggibili, ma si distingue per una fattura molto differente. I numismatici si basano sulla somiglianza delle due fatture per riconoscere la serie aramaica come l’erede della prima serie e per attribuire la serie greca a qualche altra nazione, che non è stata ancora individuata. Questa serie greca, definita anche subcaracene, comprende monete coniate a nome di un re Meredat, datate al 142/143. Sembra difficile negare ogni rapporto con il re che la nostra

iscrizione cita nel 131; inoltre queste monete vengono dall’area di Bassora, da cui Charax (situata alla confluenza del Karoun e del Tigri) dista una quarantina di km. L’Autore ritiene di dover subordinare l’attribuzione delle monete alla lezione del nostro testo, che per la prima volta fornisce un aggancio certo alla cronologia dei re della Caracene del II sec. Le monete con legenda greca e quelle con legenda aramaica potrebbero essere state coniate per gli stessi re, e le differenze di fattura sarebbero dovute all’esistenza di due zecche diverse. Da Charax, seguendo il corso navigabile del Karoun (o Euleus), si raggiungeva la Susiana, dove la flotta di Nearco aveva raggiunto Alessandro, e anche i mercanti palmireni dovevano seguire a volte quella rotta. Cantineau ha pubblicato un frammento di iscrizione in cui è stato riconosciuto il nome della Susiana: questo frammento, trovato nel portico sud-ovest dell’agorà, davanti alla porta centrale, appartiene a un’iscrizione bilingue molto mutila, di cui l’Autore ha ritrovato numerosi frammenti. Al testo, riportato qui di seguito, è stato aggiunto anche un frammento trovato in precedenza da Seyrig nel vecchio villaggio.

22. Resti di una mensola immorsata, del tipo n°1. Il frammento più grande è stato trovato ai piedi della colonna 74, a est di quest’ultima; un altro frammento giaceva non lontano nel portico sud-ovest, all’altezza della colonna 73: è quello pubblicato da Cantineau. Altri frammenti sono stati raccolti nel portico sud-est, all’altezza delle colonne 63 e 64. Un grosso frammento è stato ritrovato presso il vecchio villaggio, e pubblicato da Seyrig in Syria, XVIII, 1937, pag. 369. La mensola recava sul lato

sinistro un’iscrizione palmirena di cui restano due frammenti. Uno, pubblicato da Cantineau, dice:

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“… perché … in Susiana … Worod il re …”. L’altra reca il nome del personaggio onorato e quello del padre, poi, dopo una grande lacuna: “come hanno scritto i commercianti palmireni … numerose volte hanno lodato davanti al senato …”. Sul lato anteriore, si leggono le prime dodici righe del testo greco, che comincia sulla cornice: la riga 1 sul listello, la 2 sul cavetto, la riga 3 sul quarto di cerchio, la riga 4 sulla kyma e le righe da 5 a 8 sulla fascia superiore, quelle da 9 a 11 sulla fascia inferiore, la riga 12 sul

plinto. Il testo continuava sulla faccia destra della mensola. Su questo lato, la cornice non era iscritta. Le righe da 13 a 16 erano incise sulla fascia superiore, quelle dalla 17 alla 19 sulla fascia inferiore, la riga 20 sul plinto. A 617.

Le righe da 1 a 4, incise sulla cornice, sono via via sempre più corte, e di ciò bisogna tener conto nella

valutazione delle lacune. Riga 1. Si potrebbe integrare con , giacché il nome Lishams è

comune in questa famiglia. Riga 4. All’inizio della lacuna, dopo , vi è un’asta che non può appartenere a un tau o un pi, ma dev’essere un ni; la restituzione proposta colma esattamente la lacuna. Riga 5. Prima di MENON, si vede il piede sinistro di un alpha o lambda, seguiti da un alpha e

un’asta verticale indeterminata. Riga 7. Dopo si vede bene la barra di un pi o di un tau. Riga 8.

Ricostruita dal palmireno. Riga 14. Dopo si vede la sommità di un’asta verticale, molto vicina

allo iota: si deve leggere [Riga 16. Dopo si vede molto bene l’immorsatura che segna l’angolo formato dalla superficie della mensola e quella del fusto della

colonna: impossibile ricostruire Riga 17. Da qui alla riga 19, le linee sono un po’ più corte delle

precedenti, essendo incise sulla cornice inferiore. Riga 18. Si vede la parte alta delle lettere e dopo la sommità di una lettera (asta verticale o lettera triangolare). Riga 20. Questa riga, incisa sul plinto, ha almeno tre lettere in più della precedente, il che, portando la lacuna iniziale a 13 o 14 lettere, permetterebbe di introdurre i nomi di un quarto legato, se brevi, o un titolo come

L’iscrizione comincia con la formula più comune delle dediche al senato; i meriti del beneficiario, invece di

essere inseriti, sono enumerati, contrariamente all’uso, dopo e sono forse un’aggiunta al testo del senato. Il personaggio onorato appartiene alla famiglia degli Aabei e aveva reso servizi alla sua patria, ma sfortunatamente il testo è molto mutilo. Un primo gruppo di motivazioni arriva fino all’inizio della riga 7; Iarhibolé, come molti dei suoi concittadini, aveva prestato il proprio aiuto a dei commercianti, e per essi si

dice che non aveva lesinato né il suo impegno né la sua fortuna. Manca il nome dell’emporio dove questi

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mercanti esercitavano, ma quello di Spasinou Charax riempie esattamente la lacuna: questa città è d’altra

parte il punto di partenza per le destinazioni più lontane. Dalla riga 7 si parla dei servizi resi nella Susiana, che il testo chiama Elimene, forma sconosciuta ma plausibile e probabilmente tarda del nome dell’Elimaide. Il re della Susiana era allora Vorod, il cui nome è stato individuato da Cantineau nel testo palmireno. Sembra certo che Iarhibolé abbia condotto un’ambasciata

presso questo principe, e a essa si riferiscano i regali, o la donazione, di cui si parla in seguito. Segue una lacuna di tre righe, causate dalla perdita di tutta la parte bassa della faccia anteriore della mensola. Quando il testo riprende, si ripete ancora il nome dell’Elimaide; seguono i ringraziamenti e i passi fatti davanti “all’eccellentissimo senato”. Questo titolo si addice al senato di Palmira e i ringraziamenti possono essere stati presentati a quest’assemblea. Si può paragonare questo passaggio ai frammenti che restano del testo palmireno: “come l’hanno scritto i mercanti palmireni […]molte volte l’hanno lodato davanti al senato”. Si tratta in ogni caso del senato di Palmira, che ha votato i decreti il cui ricordo forma la fine del nostro testo: essi avevano per scopo di far conoscere i meriti di Iarhibolé al governatore della Siria, come usualmente si faceva. Su tre o quattro nomi di governatori, due solamente, o meglio, uno e mezzo, ci sono arrivati. Malgrado le parti mancanti che non permettono di comprenderla nella sua interezza, l’iscrizione di Iarhibolé

mostra fino a dove i contatti di Palmira si fossero spinti all’epoca di Adriano. Si sapeva che i Palmireni avevano portato in Occidente i prodotti dell’Asia interna, ma non si sapeva che i loro rapporti diretti avessero oltrepassato gli empori del Golfo Persico. Altri testi ci mostrano che si spingevano ancora più lontano. Charax, oltre alle comunicazioni terrestre e fluviali che il suo sito, vicino alla confluenza del Tigri e dell’Euleus, gli assicurava con la Susiana, era anche il porto dove le navi scaricavano le merci dell’India. Quando Traiano giunse al Golfo Persico, fu accolto a Charax dal re Attambelos, e volle vedere quel mare dove

lo attirava il ricordo di Alessandro: una nave stava partendo per l’India e la sua vista suscitò i rimpianti del vecchio imperatore. I Palmireni erano già da tempo stabiliti a Charax, ma i testi non dicono fino a dove li spinsero le loro attività commerciali e bisogna attendere la metà del II sec. per saperne di più. L’Autore aveva dedotto, sulla base di un piccolo frammento d’iscrizione, che essi fossero giunti sino al regno “scita” dell’Indo, che il testo chiama Scizia, come fanno Tolomeo, il Periplo del Mare Eritreo e alcuni altri autori. La

brevità del frammento non permette di sapere se questo traffico si svolgeva attraverso il Golfo Persico o le coste del Mar Rosso, dove i Palmireni avevano, o almeno avranno in seguito, degli empori per il commercio con l’India e l’Arabia. Questo dubbio è cancellato grazie al ritrovamento di un testo completo.

23. Parte anteriore di una mensola, probabilmente del tipo n°2 ( la parte alta della cornice è scomparsa fino alla metà della kyma recta). La parte principale giaceva ai piedi della colonna 68. Quattro frammenti sono stati raccolti fra i blocchi del muro di Zenobia. Sulla faccia sinistra della mensola è inciso un testo palmireno e non rimangono che alcune parole, di cui una sola importante: si tratta del nome di Honaino, che permette di ricostruire il testo greco. A 964.

Riga 4. L’omissione dell’articolo nella filiazione è comune a Palmira.

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Questo testo permette di ricostruire il frammento di cui sopra, nella forma seguente: La ricostruzione del nome di Beelaios si fonda sul testo palmireno, dove monsignor Starcky l’ha

riconosciuto nella forma B’LY. Marcus Ulpius Yarhai è il più celebre mercante palmireno il cui nome ci sia stato tramandato. Il nostro testo è

il decimo di una serie di dediche, che vanno dall’agosto 155 al giugno 159, e di cui nove sono incise sulle mensole dell’agorà, mentre la decima è stata trovata non lontano dal santuario di Bel. Cinque iscrizioni furono dedicate da carovanieri che viaggiavano fra Palmira e Charax, un’altra da commercianti che erano giunti da Khoumana in Caldea, mentre la nostra fu apposta da un gruppo di indicopleustes, senza dubbio imbarcati a Charax. Inoltre un fratello, probabilmente più anziano, di Yarhai, chiamato Marcus Ulpius Abgar, si associò, nel 136, a una carovana partita da Charax; il figlio di Yarhai, Abgar come il bisnonno e lo zio,

condusse di persona una carovana da Charax nel 159, come aveva fatto suo padre nel 156 e 157. Si vede che gli affari di Yarhai non si limitavano ad arrivare a Charax per ricevere i prodotti dell’Oriente.

Dal nostro testo si evince che egli aveva aiutato e assistito con tutto lo zelo possibile una compagnia di mercanti, che si erano recati in Scizia, vale a dire nella regione dell’Indo, ed erano ritornati nella nave di Honaino, figlio di Haddudan. Molto probabilmente questi commercianti erano finanziati da Yarhai, ma il loro

viaggio non era eccezionale. Il nostro secondo testo, qualunque fosse il destinatario, raccontava in termini analoghi una spedizione verso i porti della Scizia con un altro battello, il cui capitano o proprietario si chiamava Beelaios. I nomi di Honaino e Haddudan suonano molto palmireni e sembra quindi che i Palmireni disponessero di propri armatori nel golfo Persico, e che il nord-ovest dell’India fosse una meta comune dei loro viaggi. Qui è più facile, rispetto alla Susiana, immaginare che cosa cercassero: le coste e commerci della Scizia ci sono noti in alcuni dettagli grazie al Periplo del Mare Eritreo e, benché quest’opera sia probabilmente

anteriore alle nostre iscrizioni di un centinaio d’anni, le informazioni che ne ricaviamo ci indicano chiaramente quello che il paese offriva ai mercanti. Il principale porto della Scizia era Barbaricum, posto su una delle bocche dell’Indo, a poca distanza da Minnegara, la capitale del paese, dove le mercanzie risalivano il fiume per essere presentate al re. Queste importazioni consistevano in abiti e tessuti di lusso, coralli, topazi, balsamo di storace, incenso, recipienti in vetro, vasellame d’oro e argento, vino. Può darsi che i mercanti palmireni recassero dalla Siria tessuti di porpora, vasellame prezioso, forse anche storace, che si raccoglieva in Asia Minore. Fra i tessuti, il Periplo ricorda i , stoffe damascate, per le quali Babilonia

godeva, secondo Plinio, di grande fama. Queste stoffe di lusso potevano essere caricate a Charax e la loro importazione in Scizia spiega la straordinaria analogia fra i tessuti palmireni e quelli dell’India nord-occidentale. Si potrebbero citare anche i vetri, per i quali i Fenici erano celebri, che potevano, nonostante la loro fragilità, essere trasportati per via carovaniera. Ma la preziosa serie di vetri dipinti e modellati, trovati da Hackin nel 1940 a Begram in Afghanistan (giunti, senza dubbio, da Barbaricum o Barygaza), comprende alcuni pezzi dal carattere troppo inequivocabilmente alessandrino perché si possa ipotizzarne un’origine siriana. Quanto alle merci che si potevano trovare a Barbaricum, il Periplo ricorda il turchese e i lapislazzuli, i tessuti di cotone (come quelli che Pfister ha trovato nelle tombe palmirene); l’indaco; spezie quali la radice di costus, che si raccoglieva nel Kashmir, il lycium dell’Himalaya, utilizzato per le tinture e per le sue virtù officinali, la gomma odorosa di bdellium, il nardo. A questi si aggiungevano il tussor indiano, il rosso di cocciniglia, di cui

Pfister ha riconosciuto la presenza nelle tombe palmirene; oltre a questi prodotti indigeni vi erano altre merci giunte con le carovane dalla Cina e dal Turkestan: il Periplo parla di pellicce provenienti dal paese dei Seri e

di seta. Nel momento in cui furono incise le nostre epigrafi, la via delle carovane era chiusa: dalla fine del I sec. circa, la Serinda, il Turkestan cinese, non faceva più passare i prodotti dell’Estremo Oriente. Tuttavia, il mondo romano riuscì a continuare ad approvvigionarsi di seta attraverso la via marittima dello Sri Lanka. E’

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possibile che i mercanti palmireni continuassero a trovarne nei porti della Scizia, ed è tramite una delle loro navi che furono portate le stoffe cinesi i cui frammenti sono stati trovati nelle tombe di Palmira. Questi testi corroborano le ipotesi di Février, che attribuisce a un navigante del golfo Persico l’altare dedicato al dio anonimo da un certo Lishams, che era stato esaudito da questo dio in terra e in mare. Lo scetticismo di Clermont – Ganneau, che non vedeva che una vuota formula, non sembra più giustificabile, e questo piccolo testo, datato al 256, sembra mostrare che i viaggi attestati a metà del II sec. siano continuati fino alla caduta di Palmira.

5) Pubblicani. 24. Mensola di colonna, del tipo n°4, trovato a 4 m, davanti alle colonne 20 e 21. S 1737.

Questo testo è seguito da un’iscrizione palmirena che sarà pubblicata nell’Inventaire di Cantineau, e che non contiene nulla in più rispetto al testo greco.

25. Mensola muraria, del tipo n°1, trovato fra le macerie del muro di Zenobia, a 3 m dall’agorà, all’altezza della colonna 73. S 1990.

Questo testo è seguito da un’iscrizione palmirena, che sarà pubblicata nell’Inventaire di Cantineau.

Questi due testi sono datati il primo al luglio 161 e il secondo (nella versione palmirena)al marzo 174.

Entrambi sono dedicati a personaggi che portano il titolo di Questa parola è formata

dall’aggettivo e dal verbo ; esso indica l’acquirente, anzi l’esattore dell’imposta del quattro

per cento, . Il testo latino della seconda iscrizione non lascia dubbi in proposito, poiché fornisce le denominazioni precise del pubblicano (manceps) e del suo agente (actor o . I due pubblicani sono cittadini romani di origine greca, M. Aemilius Marcianus Asclepiades e L.Antonius Callistratus. Il primo era

senatore ad Antiochia, e si può notare in quali classi della provincia si reclutavano i grandi esattori d’imposte. Il nome dell’imposta è conservato solo nel testo latino nella seconda iscrizione, sotto la forma IIII merc. Per

sciogliere quest’abbreviazione, si può scegliere fra molte parole, che indicano solamente che l’imposta colpiva un commercio (mercatura, mercatus), o qualche oggetto del commercio (merx, mercimonium); non si

conosce un’imposta con questo nome. Il primo dei nostri testi è stato inciso dai “mercanti che erano risaliti da Spasinocharax guidati da Neshé figlio di Boliades” e la riconoscenza di questi commercianti implica senza dubbio che il pubblicano riscuoteva una

tassa che li interessava. Si potrebbe pensare a una tassa sui profitti del grande commercio carovaniero, la cui percentuale, per quanto consistente, non doveva essere esorbitante considerata l’enormità dei profitti. Bisogna tuttavia considerare che le carovane erano, con tutta probabilità, delle associazioni temporanee, grazie alle quali i commercianti si associavano per tutelarsi dai rischi del viaggio, non in vista della commercializzazione delle mercanzie. Così l’esattore di un’imposta sulla vendita aveva a che fare con il singolo commerciante e non con la carovana. La sola tassa che le carovane dovevano sostenere collettivamente e non singolarmente, doveva essere la dogana dell’impero. Il tasso del quattro per cento non

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sembra eccessivo: gli uffici di Pelusio, sotto Tolomeo Filadelfo, riscuotevano il quattro per cento sul miele, sulle carni e i pesci conservati, le noci, i formaggi e le spugne; il tre per cento su certi vini e fino alla metà su altri vini e sull’olio. Vi era anche la tassa del quattro per cento che pagavano, all’epoca del Periplo, le

mercanzie importate a Leuke Kome sulla costa araba del Mar Rosso. Benché finora non si sapesse nulla, o quasi, delle dogane siriane, e nonostante le due tasse doganali appena ricordate fossero forse dovute a intenti protezionistici, l’esistenza di una tassa della medesima importanza sembra plausibile alla frontiera orientale della Siria, e sembra che si possa sciogliere l’abbreviazione IIII merc. con una formula come quarta merc(aturae), o per scegliere un’espressione vicina a quella usata dal Periplo a proposito di Leuke Kome,

quarta merc(ium adventiciarum), o

Il più antico dei nostri due testi risale al luglio 161, cioè all’incirca all’inizio della guerra partica di Lucio Vero. Supponendo che le operazioni militari fossero già iniziate in Armenia, la carovana di Charax poté raggiungere Palmira; del resto, la sua iscrizione è di parecchio anteriore alle annessioni che seguirono la campagna, e prova che, da prima di questi avvenimenti, Palmira era all’interno del circuito doganale della provincia di Siria. Questi testi sembrano formare il completamento della legge fiscale di Palmira, che ci informa dei diritti di concessione municipale che la città riscuoteva e in parte versava al fisco romano, poi per sé stessa, dopo il dono della libertà concesso da Adriano. Le due iscrizioni dell’agorà testimoniano al contrario l’assoggettamento della città alla dogana imperiale, con cui la legge fiscale non ha rapporti.

6) Iscrizione imperiale. 26. Mensola murale, del tipo n°4, trovata ai piedi del pilastro che corrisponde alla colonna 51. S 1217.

Giulia Maesa è qui onorata solo come sorella di Giulia Domna, e non porta ancora il titolo di Augusta, che gli fu conferito dal nipote Elagabalo nel 218. La sua statua, fissata al pilastro che fiancheggia la porta principale dell’agorà, apparteneva probabilmente a un gruppo di statue della famiglia severiana che ornava questa porta. La cornice della porta, la cui iscrizione è già da tempo stata pubblicata, sorreggeva le immagini di Caracalla, Settimio Severo e Giulia Domna. Geta non era ancora Augusto: può darsi che la sua statua, almeno fino al momento della damnatio memoriae, facesse coppia con quella di Giulia Maesa sul pilastro che

fiancheggiava la porta dall’altro lato. Questo gruppo deve essere stato dedicato fra l’ associazione al regno e la nomina ad Augusto di Caracalla nel 198 e quella di Geta nel 209.

27. Consacrazione di un sacerdote. Iscrizione incisa sulla mortasa di una mensola (perduta), sul pilastro che corrisponde alla colonna 18.

Righe 1 e 4. Ricostruite dal palmireno, incise sotto il testo greco:” questa statua è di Haddudan, figlio di Hagego Lishams Zarzirath, che gli hanno innalzato Alaisha suo fratello, in suo onore, perché ha

consacrato suo figlio a sue spese”. Altri personaggi, evidentemente appartenenti alla stessa famiglia,

hanno costruito un sepolcro nella Valle delle Tombe nel 253. Riga 3. L’uso transitivo di, “consacrare un sacerdote”, non può essere un errore, come supposto da Prentice.

Haddudan, figlio di Hagego, aveva consacrato a Bel, a proprie spese, il nipote Haddudan figlio di Alaisha: per ringraziarlo, il fratello gli aveva fatto erigere una statua. Senza dubbio Haddudan figlio di Alaisha, di cui si era celebrata la consacrazione, doveva essere un giovane, e perciò è il padre a compiere questo gesto di riconoscenza.

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La consacrazione, che comprendeva formalità piuttosto onerose, doveva essere quella sacerdotale. I sacerdoti di Bel erano organizzati in un tiaso, sotto la presidenza annuale di un simposiarca e l’entrata in una corporazione del genere doveva essere costosa, sia che il nuovo sacerdote dovesse versare una somma, come facevano i magistrati e i senatori alla loro entrata in carica, sia che si dovessero sostenere le spese di un sacrificio rituale, seguito da un banchetto, immancabile nelle cerimonie dei Palmireni. Dei riti di consacrazione non conosciamo nulla che non traspaia dalle immagini dei sacerdoti: dovevano essere rasati, poiché i sacerdoti di Palmira hanno sempre il volto e il capo perfettamente rasati, e doveva essere loro imposto il copricapo cilindrico senza il quale i sacerdoti non compaiono mai. Per quanto riguarda le cerimonie di Palmira, si potrebbero cercare degli indizi nelle tessere: sfortunatamente, se le spese di consacrazione comportavano un sacrificio e un banchetto, è probabile che le tessere create per queste occasioni si siano perse nella massa di quelle che recano semplicemente l’immagine di un busto di sacerdote e il suo nome. Forse formavano una classe importante all’interno di questa categoria comune, anche se secondo l’Autore potrebbe esserci un’allusione a una consacrazione sacerdotale nella tessera successiva.

1. Tessera in forma di stele centinata, 10 x 14 cm. A. Edicola formata da due colonne, che reggono un arco puntinato e con all’interno il busto di un sacerdote. B. Stessa edicola, sotto la centina copricapo sacerdotale cinto a metà da una corona. Sotto il copricapo, astro fiancheggiato da due palme. In basso, iscrizione su due righe: Rephab[o]l, figlio di Belhazai. Museo di Damasco, 425. Un secondo

esemplare di questa tessera faceva parte di uno dei due grandi ritrovamenti di tessere all’interno del santuario di Bel, che sembrano includere solo tessere datate poco prima della distruzione della città, o almeno al III sec.

Come si è visto prima, l’imposizione del copricapo costituiva certamente uno degli atti più caratteristici della consacrazione sacerdotale e può darsi che questo copricapo, posto sopra il nome di un personaggio, fosse stato scelto per commemorare il suo ingresso nel tiaso dei sacerdoti. Un’altra tessera ricorda quella appena descritta, ed è qui pubblicata, benché il suo rapporto con la cerimonia di consacrazione sia meno chiaro. Tessera quadrata 18x18 cm. A. Copricapo sacerdotale, cinto da una corona come il precedente; a destra oggetto a forma di verga, o scacciamosche, composto da un manico e un fascio di ramoscelli. In basso, ornamento a lisca di pesce. B. HYRWN DY BL: Starcky lo interpreta come “beatitudine di Bel”. Questa tessera raffigura il copricapo e un oggetto che ricorda singolarmente un attributo che regge un sacerdote di Hierapoli su di una stele. Si tratterebbe di un fascio di baresman324? E’ poco probabile che si tratti

di un’influenza iraniana così pronunciata. Quanto alla legenda, il termine palmireno potrebbe essere una

traduzione del termine greco , che designa solitamente la felicità del banchetto, ed è usato in quest’accezione dai sacerdoti di Panamara quando invitano alla gioia dei loro banchetti rituali. La presenza di una parola di questo tipo si adatterebbe bene al biglietto d’entrata di un banchetto; può darsi che il copricapo sacerdotale su questa tessera indicasse che il banchetto seguiva la consacrazione di un sacerdote.

324 Oggetto liturgico dello Zoroastrismo, formato da un fascio di rami di melograno o tamerice.

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40. DUSSAUD, DU MESNIL DU BUISSON, HERDNER 1942 R. DUSSAUD, DU MESNIL DU BUISSON, A. HERDNER, Nouvelles archéologiques, in Syria, tomo 23, fascicolo 1-2, 1942, pagg. 130-136.

L’inscription bilingue d’un Palmyrénien à Cos.

Du Mesnil du Buisson, pagg. 133-134. Levi della Vida ha pubblicato su Mélanges Syriens, pagg. 883-886, un’iscrizione bilingue greco - palmirena

scoperta da Mario Segre a Cos nel 1937; il testo è inciso su di un altare alto e stretto. La fotografia del calco ha permesso di ricavare l’apografo pubblicato nell’articolo.

Testo palmireno: “Che [Ra]bb’el, figlio di Hairan, sia benedetto dinanzi a Bel, e Yarhibol (sic) e Aglibol, poiché ha eretto

quest’altare”. Testo greco: “Rabbel, (figlio) di Airanes, al dio Bel ha offerto (quest’altare), in seguito ad un voto.

La nuova interpretazione della riga 2 del testo palmireno fa scomparire la maggior parte delle difficoltà segnalate da Levi della Vida, in particolar modo riguardo alla grafia anomala del nome di Bel. I nomi sono noti a Palmira, con le stesse trascrizioni greche; il primo nome significava in origine “Bel (è) grande”, ma all’epoca dell’iscrizione doveva essere interpretato come “Dio è grande”, perché El non era più usato. Nel 74 d.C., vi era a Palmira un “Hairan figlio di Bonne, detto anche Rabb’el”, che era decoratore degli edifici sacri. Dato che in questa città i nomi si alternano spesso nella stessa famiglia, Rabb’el, figlio di Hairan,

potrebbe essere suo figlio. La formula “ … che siano benedetti dinanzi a Bel, Yarhibol e Aglibol …”si ritrova in un’iscrizione di Dura. In generale il verbo si trova davanti al soggetto, ma questa regola non è assoluta. La grafia difettiva del nome di Yarhibol potrebbe far pensare che esso fosse talvolta pronunciato Yarhibel; si tratta tuttavia dell’unico esempio di tale ortografia e probabilmente è un errore del lapicida. Bel e Bol sono sempre accuratamente distinti, ad eccezione del nome Bol’astar su di una tessera. La datazione è difficile: Segre afferma che la forma delle lettere greche permetterebbe di datare l’iscrizione al I sec. a.C., ma che la sbarra del teta ad angolo acuto, che non si ritrova mai prima di Traiano, impedisce di datarla così indietro. Bisognerebbe dunque datare l’iscrizione poco dopo il 100 d.C. Per l’Autore, la forma delle lettere dell’iscrizione palmirena presenta caratteri arcaizzanti, poiché si tratta della scrittura palmirena corsiva e non della sua deformazione monumentale. Basta confrontarla con la più antica iscrizione palmirena nota (32 a.C.), e a prima vista si potrebbe datare questa grafia all’inizio della nostra era, sebbene la mancanza di abilità del lapicida possa essere a volte confusa con l’arcaismo. Alla riga 3, il punto sulla lettera può far dubitare dell’antichità dell’iscrizione, perché le prime lettere di questo tipo puntate compaiono solo dal 131 d.C., anche se è possibile che tale uso fosse più antico. Tenendo conto della lontananza dalla metropoli, è possibile pensare che l’iscrizione risalga all’inizio del II secolo d.C. Potrebbe quindi riferirsi al figlio di un personaggio ancora vivente nel 74 d.C., e un soggiorno a Cos è altrettanto probabile per il figlio di un artista.

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41. DU PONT SOMMER 1942

A. DUPONT SOMMER, Un buste palmyrénien inédit, in Syria, tomo 23, fascicolo 1-2, 1942, pagg. 78-85. Il busto qui pubblicato è stato acquistato dall’Autore presso un antiquario di Parigi nel dicembre 1937, e la sua provenienza è ignota325. Si tratta di uno dei tipici busti palmireni, destinati a decorare l’interno delle tombe o a chiudere i loculi; si tratta solo della parte superiore del busto, e la mutilazione sembra essere recente e intenzionale: si sono mantenute la testa e l’iscrizione, rendendo l’oggetto meno ingombrante e più facilmente nascondibile. Il blocco misura 43x25x5 cm e il taglio è stato praticato alla base del collo, e la toga è visibile all’altezza delle spalle; in origine doveva misurare circa 60-65 cm. Il blocco è in calcare, e la superficie ai lati della testa è stata accuratamente lisciata per apporvi l’iscrizione (fig. 60).

Fig. 60. Busto di Malikou, figlio di Simone.

I La sculpture

La testa, scolpita a rilievo molto alto, è quella di un giovane uomo dal volto rasato, con capelli spessi, ricci e tirati all’indietro; la figura è tondeggiante, mentre le orecchie si distaccano leggermente dal capo. La fronte è bassa, con sopracciglia allungate, occhi fissi e stilizzati, mentre il naso è stato rotto, non si sa se casualmente o di proposito, la bocca è dritta e sottile, con il labbro superiore leggermente sporgente, il mento piccolo, quadrato e prominente. Il collo è tozzo e corto, ma ai lati del viso, una ruga nettamente marcata parte dalle ali del naso sino alle labbra, evidenziando la magrezza delle guance. L’Autore paragona il busto con altri quattro ritratti maschili conservati al Ny Karlsberg: essi mostrano come, pur obbedendo ad alcune convenzioni, gli scultori abbiano saputo rendere l’individualità di ciascun personaggio ritratto, oltre ad indicare come doveva essere la parte mancante del nostro busto. Il personaggio rappresentato veste tunica e toga, nelle pieghe della quale è avvolto il braccio destro, secondo l’uso romano, mentre la mano sinistra sorregge un lembo della veste (fig. 61).

325 Secondo l’antiquario, il busto è stato portato in Francia intorno al 1925 da un aviatore, e le macchie d’olio sarebbero dovute proprio a questo viaggio in aereo; non è un’ipotesi del tutto improbabile, giacché il busto proviene da una tomba vicina al campo d’aviazione dell’esercito francese.

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Fig. 61. Busti palmireni.

II. L’inscription

L’iscrizione, incisa sul lato destro della lastra, è perfettamente conservata: le lettere incise conservano tracce di pittura rossa; si compone di tre linee, lunghe circa 11,5 cm, con caratteri alti 18 mm ed è di facile lettura: si compone del nome del defunto, della sua genealogia ed è accompagnata dalla consueta interiezione “ohimè”, posta all’inizio dell’epigrafe, come in questo caso, oppure, più spesso, alla fine, o anche ripetuta all’inizio e alla fine.

Testo: Ohimè! Malikou, figlio di Simon (figlio di) Borrepha.

2° Remarques sur l’écriture.

Le lettere di questa epigrafe sono nette e incise con cura, e offrono un bell’esempio di scrittura palmirena, abbastanza simile a quella adottata nel Corpus. Sono presenti dodici lettere sulle ventidue che compongono l’alfabeto palmireno, che l’Autore riproduce. Le legature sono piuttosto numerose (tre alla prima riga, due alla seconda e una alla terza); è una scrittura simile a quella della Tariffa, di cui possiede lo stesso aspetto elegante e decorativo, tanto che l’Autore ritiene probabile che entrambe le iscrizioni si debbano alla stessa mano, considerando che presentano lo stesso ductus e le stesse legature. La Tariffa si data al 448 dell’era seleucide, cioè al 137 d.C.: da un punto di vista

epigrafico, siamo in un periodo detto “ di transizione”; infatti, nella Tariffa, come nella nostra iscrizione, si perpetuano diverse caratteristiche della fase precedente. Le linee spezzate, al contrario, caratteristiche della fase successiva, non compaiono ancora chiaramente, anche se le linee spesso diventano sinuose. E’ solo alla fine di questa evoluzione, circa cinquant’anni più tardi, per esempio nell’iscrizione n°4194 del Corpus, datata

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al 181 d.C., che le forme spezzate si vedranno chiaramente. L’Autore ritiene possibile per quest’epigrafe una datazione intorno al 130/140, vista la somiglianza con la scrittura della Tariffa.

3° Remarques sur l’onomastique. Ciascuno dei nomi propri citati nell’epigrafe è ben attestato nell’onomastica palmirena. Malikou è uno dei nomi più diffusi a Palmira, così come in Nabatene; è reso in greco con

e in latino come Malichus o Malchus. Nel Vangelo di Giovanni è il nome del servo del

gran sacerdote cui Pietro taglia l’orecchio.

Simone ( è un nome di origine ebraica che si trova frequentemente a Palmira, ad esempio nell’iscrizione datata al 191 d.C. di un Simon, figlio di Abba (Barabbas), figlio di Hanina. La genealogia di questo personaggio è ebraica, ed è anche chiamato Simon figlio di Abba Abrama (CIS 4180), quest’ultimo altro

nome prettamente ebraico. Vi erano altre famiglie ebraiche a Palmira: nel 212 d.C., ad esempio, due fratelli, Zebida e Samuele, figli di Levi e nipoti di Giacobbe, pronipoti di Samuele, costruirono una tomba “per

onorare il loro padre Levi, per sé stessi, i loro fratelli, figli e nipoti per sempre”. Uno dei due fratelli porta un nome tipicamente palmireno: la comunità ebraica di Palmira era ben integrata nella società locale, i matrimoni misti non erano rari e ciò spiega la presenza di un Simone nella genealogia del nostro Malikou. Borrepha è, al contrario, un nome tipicamente palmireno, che significa “Bol guarisce”, come un altro nome,

ugualmente ben attestato, Rephabol (; il nome di Bol compare nell’onomastica di due dei maggiori dei di Palmira, Aglibol e Yarhibol, oltre che in nomi di persona, come Bolbarak (Bol benedice), Zabdibol (dono di Bol), Taibbol (schiavo di Bol), Danibol. Questi nomi attestano l’importanza e l’antichità del culto di Bol a Palmira. Quanto al nostro Malikou, potrebbe comparire su di un altro monumento palmireno: Cantineau ha segnalato

all’Autore, nell’antica necropoli sud-orientale, quasi inesplorata, presso il campo d’aviazione, una porta d’ipogeo, scoperta durante una vecchia ricognizione da un operaio locale, con la seguente iscrizione, in palmireno: “Questo ipogeo è stato fatto da Simone, figlio di Borrepha, figlio di Ogeilou Matan, e da Borrepha, suo figlio, e da Malikou, suo figlio, per onorarli, per sempre; nel mese di Kanum 430 (novembre 118) ”.

Il Malikou di questa iscrizione è anch’egli figlio di Simone e nipote di Borrepha, e l’epigrafe dell’ipogeo aggiunge il nome del bisnonno, Ogeilou Matan, e quello di un fratello, Borrepha, che, secondo un uso comune,

porta il nome del nonno. La data di questa iscrizione, 118 d.C., concorda con quanto si è potuto ipotizzare a proposito del busto su base epigrafica. Secondo l’Autore, è probabile che il Malikou del busto sia lo stesso che, nel 118, costruì, con il padre Simone e il fratello Borrepha, una tomba per tutti e tre, dove il busto fu apposto alla sua morte e in seguito, a una data sconosciuta, trafugato.

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APPENDICE II

Dizionario dei termini architettonici

- ASSISE DE REGLAGE: assisa d’imposta. Assisa superiore delle fondazioni, destinata a stabilire l’orizzontalità del piano dell’edificio. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 12. -BAGUETTE: tondino, bastoncino o astragalo. Modanatura il cui profilo convesso disegna un segmento di cerchio con piano di simmetria orizzontale, la cui larghezza è inferiore a un terzo della modanatura più larga fra quelle che lo circondano; l’astragalo può essere doppio o triplo. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 158.

-BAIE: apertura, luce. Apertura praticata in una struttura architettonica continua, verticale, come un muro, orizzontale, come un pavimento o soffitto, o obliquo, come in alcune coperture, con la sua cornice. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 36.

-BANDEAU: fascia, rifascia. Modanatura piena, il cui profilo è quello di un listello piatto, di un filetto, di un listello sporgente; nel primo caso, è chiamato in francese anche plate-bande. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 157.

-BISEAU: ugnatura. Collegamento angolare di due elementi posti a contatto, ciascuno dei quali è tagliato da un angolo uguale (di solito di 45°), in modo da far proseguire i profili di là dall’angolo. Da: PEVSNER -FLEMING-HONOUR 1981, pag. 677

- CALATHOS o CORBEILLE: corpo del capitello situato sotto l’abaco, e che, in parte dissimulato in basso sotto le foglie, appare sopra il registro delle volute. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 93.

-CALICE: calice. Non indica un insieme di sepali, ma un insieme di elementi vegetali inguainati, ad esempio in un tralcio o in capitello corinzio. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 170. - CAULICOLE: caulicolo. Elemento che evoca un grosso stelo vegetale, da cui escono spesso le volute interne o angolari. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 95.

-CAVET/ CONGÉ: modanature concave, il cui profilo può essere un quarto di cerchio, di ovale di ellisse, d’iperbole; sono complementari al quarto di cerchio e possono essere diritti o rovesciati. I due termini sono spesso considerati sinonimi, ma si può distinguere:

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Cavet: cavetto. La curvatura si ferma alle estremità e quest’ultima può essere molto tesa, e in alcuni casi passare oltre la verticale. In alcuni casi il cavetto può essere usato come coronamento di un edificio o di una membratura architettonica, con dimensioni maggiori rispetto a quelle di una semplice modanatura, e in questo caso può essere definita gola egiziana. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 160.

Congé: scozia. La curvatura si prolunga, almeno da un lato, nel piano, di solito verticale, di un elemento architettonico; è più una forma di transizione che una modanatura. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pagg. 160-161.

-CHAINAGE: catenatura. Indica una modalità costruttiva in cui blocchi di pietra o mattoni sono posizionati (specie agli angoli) in modo da irrobustire una struttura muraria, orizzontalmente o verticalmente, a volte anche con l’ausilio di blocchi o tiranti metallici. Può indicare anche elementi vegetali inseriti in una costruzione per migliorarne la coesione. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 85.

-CRAPAUDINE: occhio della bandella. Cavità arrotondata, praticata in un pavimento o in un piano di appoggio di finestra, in cui è inserito il cardine ruotante sul suo asse. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 55. -CROSSE: voluta. Elemento formato da uno stelo che termina in alto con una voluta; almeno due volute toccano l’angolo dell’abaco, su ciascuna faccia del capitello. Si distingue fra CROSSE ANGULARE (voluta angolare), che terminano sotto gli angoli dell’abaco, dove si congiungono a due a due; CROSSE MEDIANE (voluta interna o elice), opposte a due a due su ciascuna faccia del capitello. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pagg. 94-95.

-COURONNE DE FEUILLES: corona di foglie. Se ve ne sono due, si distinguono come corona superiore e inferiore. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine

1992, pag. 93. -DARDE: dardo, ferro di lancia, foglia. Elemento appuntito da una sola estremità, che normalmente separa una composizione lineare di ovoli. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 182. -DECROCHAGE: scalino. Soluzione di continuità in un’assisa, il cui piano inferiore segue una linea verticale o obliqua, prima di continuare orizzontalmente. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 94.

-DOUCINE: kyma recta. Modanatura curvilinea con un punto di flessione, che può essere dritta o rovesciata, ed è, nel primo caso, solitamente accompagnata da cavetto sopra un quarto di cerchio, entrambi diritti; nel secondo caso, è accompagnata da quarto di cerchio sopra un cavetto, entrambi rovesciati. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 162.

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-EMBRASURE: vano di porta o finestra. Volume vuoto creato nello spessore di una costruzione dalla presenza di un’apertura. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 43.

-FEUILLE D’EAU: foglia d’acqua. Elemento inscrivibile in un rettangolo o in un trapezio più stretto all’estremità che alla base della foglia, presenta lati rettilinei sino a un certo punto del loro sviluppo, e un’estremità che può essere piatta, arrotondata o appuntita. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 169. -FEUILLURE: incasso. Parte del blocco rientrante, in rapporto all’insieme del paramento,

a condizione che sia di forma allungata e che costeggi solamente uno spigolo. I, pag. 134. -FLEUR: fiore. Elemento decorativo che rappresenta un fiore reale, che può essere leggermente stilizzato. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag.169. -FLEURON : fiorone. Rappresentazione stilizzata di un fiore, che si differenzia dalla rosetta perché non è la riproduzione di un fiore esistente in natura, ma la combinazione di più parti vegetali differenti. Inoltre, petali, sepali e foglie che lo compongono devono essere nettamente staccati gli uni dagli altri: si tratta di solito di un elemento scolpito ad altorilievo, che si distaccata nettamente dal fondo. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 171. -FOLIOLE: foglietta. Suddivisione di una foglia composita. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 168. -GODRON : baccello. Nome dato alla foglia d’acqua con lati paralleli ed estremità arrotondata a semicerchio, senza nervatura mediana e con sezione concava perpendicolare all’asse principale. E’ accompagnata da una bordura, che la distingue dalla linguetta. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985 pag. 171. -GOUJON: perno. Unione di due blocchi che appartengono ad assise sovrapposte. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 112. -GOUSSE: baccello. Termine raramente usato in francese per indicare un elemento decorativo, ma che è utilizzato frequentemente in altre lingue. In tedesco, corrisponde ai termini hülse o Schote; in inglese, seed-pod è usato per definire una losanga con angoli ottusi arrotondati, convessi verso l’esterno, e una leggera contro-curva verso l’interno sugli angoli acuti. In italiano è usato per una forma a baccello di fava. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 171.

-LAMBOURDE: piana, correntino. Blocco spesso più alto che largo, disposto in file o griglie che accolgono le estremità delle lastre. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, 146. -LARMIER: gocciolatoio. La parte più grande e funzionale della cornice, che sporge nettamente dal resto della struttura; è la parte di scolo della pioggia.

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Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 120. -LISTEL: lista o listello. Fascia piatta, bordata dagli spigoli delle modanature che lo circondano, e la cu larghezza è inferiore a un terzo della modanatura più larga. E’ detto in francese mèplat se la sua superficie leggermente convessa. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 156. -LIT D’ATTENTE: letto di attesa. Superficie grazie alla quale l’elemento sostiene l’altro o gli altri che gli si appoggiano sopra. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 58.

LIT DE POSE: letto di posa. Indica spesso la faccia inferiore del letto di attesa. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 58. -LOUVE: olivella. Dispositivo formato da due o tre elementi metallici o lignei, montati su di un , dove passa l’uncino del cavo di sollevamento e la cui forma, più larga inferiormente, provoca un effetto di auto chiusura in rapporto alla mortasa dove è inserita. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 122.

-MODILLON: modiglione o mutulo. Sorta di mensola o beccatello, più lungo e largo dei dentelli, che sostiene un soffitto cavo, normalmente decorato. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 124.

-OEILLET: occhio, occhiello. Spazi vuoti rotondi o ovali fra le foglie. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, 168.

-OVOLO: ovolo. Modanatura piena, che può essere un mezzo ovolo, o un segmento di ellisse o d’iperbole, la cui sporgenza massima si colloca sopra il piano orizzontale mediano (il profilo si dice allora dritto), o sotto (è detto allora rovesciato). Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 161. -PERLES ET PIROUETTES : perle e fusarole. Composizione lineare di perle alternate a fusarole, cioè delle specie di dischi rigonfi, forati al centro. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 180.

-PLATEBANDE : vedi bandeau. -FRISE PULVINÉ: fregio pulvinato. Fregio a profilo convesso. Da: PEVSNER-FLEMING-HONOUR 1981, pag. 542.

-RAINURE: modanatura cava complementare al listello sporgente. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 157. -RAIS DE CŒUR: raggi a cuori. Composizione lineare di elementi cuoriformi (o di foglie cuoriformi pendule), alternati con dardi. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985 pag. 183.

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-RETOUR D’ANGLE: rigiro angolare. Cambiamento di direzione di un elemento architettonico, ad esempio dell’angolo di una facciata. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 26.

-ROSETTE: elemento che ricorda un fiore, da cui si distingue per una maggiore stilizzazione o per la sua forma composita. Si distingue dal fiorone in pittura perché è sempre vista in piano, mente in scultura si distacca solo leggermente dal fondo. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 173.

-QUART DE ROND: Quarto di cerchio. Modanatura convessa, il cui profilo è, almeno approssimativamente, di un quarto di cerchio. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pag. 160. -TALON : kyma reversa. Può essere diritta o rovesciata nel primo caso presenta un quartuccio o un ovolo sopra cavetto, ed entrambi sono diritti. Nel secondo caso comprende un cavetto sopra un quarto di cerchio, entrambi rovesciati. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1985, pagg. 162-163.

VERROU :catenaccio, paletto. Sbarra di legno o metallo fissato nella parte interna di un battente grazie ad elementi che gli consentono di . Quando è spinto per chiudere, entra in un’apposita cavità o in un analogo dispositivo. Da: Dictionnaire Méthodique de l’Architecture Grecque et Romaine 1992, pag. 57.