ORCIOLAI E MAGISTRI DE PIETRA: PRATO (PO) NEL XIV SECOLO

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CENTRO LIGURE PER LA STORIA DELLA CERAMICA ATTI XLVI CONVEGNO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA CERAMICA E ARCHITETTURA SAVONA, 24 - 25 MAGGIO 2013

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CENTRO LIGURE PER LA STORIA DELLA CERAMICA

ATTIXLVI

CONVEGNO INTERNAZIONALEDELLA CERAMICA

CERAMICA E ARCHITETTURA

SAVONA, 24 - 25 MAGGIO 2013

1. INTRODUZIONE

Le ricerche archeologiche condottenella chiesa di San Domenico a Prato nel-l’estate 2006 da un’équipe afferente allaCattedra di Archeologia Medievale del-l’Università di Firenze1, che hanno fattoseguito ad una prima fase svoltasi neglianni Novanta del Novecento (VANNINI

2001), si proponevano, in vista della re-dazione del progetto per un’esposizionepermanente presso il Museo di PitturaMurale di San Domenico, di apportare uncontributo archeologico di carattere com-plessivo sull’intero monumento, in parti-colare sulla struttura dell’estradosso dellevolte del coro trecentesco, che aveva ri-velato la presenza di un notevole com-plesso di ceramiche medievali (fig. 1).

Si intendeva, inoltre, ottenere una do-cumentazione scientifica soddisfacente diquesta specifica tecnica edilizia che, notaed utilizzata dalla tarda antichità sino al-l’epoca moderna, fin qui non era ancorastato possibile studiare accuratamente2.Dal punto di vista archeologico, e ancheda quello più prettamente ceramologico,è necessario ricordare che i casi di similirinvenimenti sono assai interessanti per-ché rappresentano contesti sigillati «… isingoli impieghi, infatti, rimontano ad un

momento preciso e circoscritto, imme-diatamente posteriore alla costruzionedelle specifiche volte, ma anteriore allacostruzione della chiusura del deposito»3.

1 Lo staff era composto da specialisti e laureandie diretto sul campo da Chiara Marcotulli, con Ange-lica Degasperi e Elisa Pruno (reperti), Silvia Leporattie Nadia Montevecchi (responsabili di settore), con ladirezione scientifica del professor Guido Vannini(VANNINI, MARCOTULLI 2006, pp. 55-58).

2 È interessante notare che, nel 1974, il XIIConvegno Internazionale della Ceramica, cheaveva come tema le funzioni della ceramicanell’architettura (si vedano gli Atti del XII Convegno(1979), Funzioni della ceramica nell’architettura,Albisola) non aveva ricevuto alcun intervento

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Elisa Pruno - Chiara Marcotulli

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Fig. 1 - Panoramica della parete settentrionale dellachiesa di San Domenico, in evidenza l’area del rin-venimento. In basso una panoramica del primo li-vello di deposizione della “vela gamma” scattata altempo delle indagini degli anni Novanta.

Senza proporsi di trattare in questa sede lediverse caratteristiche tecnologiche4 adot-tate dai costruttori dei ritrovamenti noti, nédi stendere una lista completa dei ritrova-menti editi5, si ricorda come esempi di si-mili tecniche edilizie siano presenti apartire dall’Antichità6, durante il periodomedievale − con particolare riferimento,per contesto e cronologie, ai casi di San-t’Antimo a Piombino e del Carmine a Siena− per proseguire fino all’epoca moderna7.

1.1 IL SAN DOMENICO DI PRATO: UNA RI-CERCA DI ARCHEOLOGIA URBANA

La Cattedra di Archeologia Medievaledell’Università di Firenze dagli anni Set-tanta ha svolto ricerche sulla genesi della

città medievale di Prato attraverso inda-gini sia di scavo sia di analisi delle strut-ture murarie, impostando così unprogetto che prosegue sino ad oggi. Sisono, infatti, conclusi da poco i lavoripresso piazza delle Carceri, in un’area cherappresenta uno dei due nuclei poleoge-netici della città tra X e XI secolo8 e che,al momento, sembra essere in grado direstituire uno spaccato del tutto ineditosulla storia di Prato fra XI e XV secolo9.Queste indagini, che si sono in partesvolte e si svolgeranno ancora nel cuoredel nucleo urbano vanno, inoltre, ad in-trecciarsi a doppio filo con quelle già por-tate a termine in altre aree storicamentedeterminanti della città come Palazzo

riguardo l’argomento del riempimento delle voltecon materiale ceramico, di fatto utilizzato, quindi,come materiale da costruzione per l’edilizia. Adistanza di molti anni, per citare solo un altro casotra molti, nella sezione dedicata alle Ceramicheper architetture degli Atti del IX CongressoInternazionale sulla ceramica medievale nelMediterraneo (GELICHI 2012), tenuto a Venezia nel2009, non vi sono interventi relativi all’argomentoqui discusso. In effetti, a fronte di una messe nonindifferente di citazioni di ritrovamenti similari,pochi di essi, ancora all’altezza cronologica del2006, erano stati analizzati (e i loro dati residisponibili) in maniera compiutamente stratigrafica.Solo di qualche anno prima, infatti, è lapubblicazione sull’importante ritrovamento senesedella volta del convento del Carmine (FRANCOVICH,VALENTI 2002). A distamza di un anno, poi, dallaseconda fase dei lavori condotti a San Domenico, èstato pubblicato, in un volume ampio ed esaustivo,il ritrovamento e lo studio della chiesa diSant’Antimo sopra i Canali, a Piombino (BERTI,BIANCHI 2007).

3 BERTI 2007, p. 369. Questo contributo diGraziella Berti si è rivelato essenziale per uninquadramento critico delle problematichearcheologiche connesse all’utilizzazione delleceramiche come materiale edilizio nella chiusura divolte. Inoltre, come si vedrà poco più avanti, hamesso a punto una revisione di tutti i dati noti suquesto argomento all’altezza cronologica del 2007.

4 Una presentazione delle differenti tecniche

messe in opera, con un preliminare tentativo ditipologizzazione, è proposta nel sottoparagrafo Gliaspetti connessi con le tecniche edilizie, in BERTI

2007, pp. 377-383.5 Attualmente è in corso di svolgimento, da

parte della dott.ssa Nadia Barone, presso l’UniversitàSapienza di Roma, una tesi di dottorato che siprefigge di indagare gli aspetti di quest’uso delleceramiche in architettura, da cui risulterà l’elencoesaustivo dei ritrovamenti editi. Inoltre unapanoramica efficace, come furono sempre i suoilavori, è quella di Graziella Berti, citata nella notaprecedente.

6 In linea generale si può sottolineare che lestrutture antiche si sono potute giovare di prodotticeramici seriali, industriali, che certamentefavorirono un loro uso strutturato, tanto che sitrattasse di forme primariamente utilizzate per altriscopi, come le anfore, quanto si utilizzassero invece“tubuli”, cioè manufatti tubolari, appunto, chepotevano formare lunghi condotti, che, immersinella malta, formavano volte leggere e resistenti(per la differenziazione delle diverse tecniche inepoca antica si veda POISSON 2005, pp. 55-64).

7 Si rimanda agli esempi in POISSON 2005 eBERTI 2007 e bibliografia ivi riportata.

8 Il primo nucleo era quello dell’attualeDuomo: il Borgo al Cornio (FANTAPPIÈ 1980,FANTAPPIÈ 1991, POGGESI, WENTKOWSKA 2008).

9 Qui, infatti, erano ubicati alcuni degli edificipiù importanti del primo insediamento urbano me-dievale, come la curtis ed il palatium dei conti

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Banci-Buonamici (VANNINI 2006, pp. 59-62) e Palazzo Pretorio (VANNINI, FRANCO-VICH, GELICHI, MELLONI 1978).

In questa temperie di ricerche hasvolto un ruolo di primo piano, per i ca-ratteri del deposito archeologico e per laconsistenza e la conservazione del rela-tivo corpus ceramico, il progetto inerentela chiesa di San Domenico. Una serie distringenti confronti documentari, infatti,ben integrabili con le letture stratigrafi-che eseguite nell’area absidale del com-plesso, hanno permesso di datare ilriempimento dell’estradosso della voltadel coro ante la ricostruzione del cam-panile (1337) abbattuto a seguito delleingerenze di Castruccio Castracani sullacittà (VANNINI 2001, pp. 201-203 e relativirimandi bibliografici). Questi dati,quindi, grazie allo scavo, condotto conmetodologie in parte mutuate dalle let-ture stratigrafiche murarie, ed allo studioarcheometrico dei reperti, consentono diarricchire le conoscenze sul panoramasocio-economico e tecnico-produttivodella città, in un momento cronologicoben preciso e strettamente confrontabilecon gli altri contesti di scavo indagati.

E.P., C.M.

2. LA CERAMICA NEL MODUS OPERANDI DIUN CANTIERE TRA DUECENTO E TRECENTO

2.1 METODOLOGIE DI APPROCCIO ALLOSCAVO E ALLA DOCUMENTAZIONE

Le metodologie utilizzate negli anniNovanta del secolo scorso erano a queltempo sperimentali (VANNINI 2001). Con

la ripresa degli scavi, nell’estate del 2006,il cui obiettivo era quello di svuotare l’ul-tima “vela” rimasta in situ (la “velagamma”), si è ugualmente voluto elabo-rare un approccio che tenesse conto delleultime evoluzioni metodologiche e che,quindi, ha preso le forme di un apparatodi schedatura dedicato e di una nuova ti-pologia di rilievo tridimensionale.

L’eccezionalità e le caratteristiche delrinvenimento avevano già ‘ispirato’ unastrategia di scavo focalizzata sulla sceltadi documentare il riempimento della velacome una vera e propria struttura edilizia(VANNINI 2001, p. 201). Lo studio dellemurature, infatti, presenta, com’è noto,un limite connaturato alla disciplinastessa: è impossibile leggere e documen-tare una stratificazione edilizia in tutte lesue volumetrie e dall’interno. Ne conse-gue che il metodo di analisi sarà sempree comunque limitato al visibile, non po-tendo avvalersi dello smontaggio del de-posito, come avviene per lo scavo(BROGIOLO, CAGNANA 2012, pp.7-8). Nelle“vele” di San Domenico, invece, l’occa-sione straordinaria è stata quella di poterverificare dall’interno le procedure co-struttive di una specifica e del tutto parti-colare tecnica edilizia. Interpretando ilriempimento come il risultato di una seriedi azioni antropiche di costruzione, in-fatti, è stato possibile concentrasi sul ri-conoscimento delle singole azioni dideposizione (interfacce, nucleo, leganti),consentendo, quindi, di riconoscere veree proprie micro-fasi di cantiere nelle lorotre dimensioni (con i rispettivi giunti eletti di attesa: DOGLIONI 1997, p. 199) e, di

Alberti (FANTAPPIÈ 1980 e FANTAPPIÈ 1991), ed il mo-numento più significativo e simbolico del periodosuccessivo, il castrum/castellum dell’Imperatore(GURRIERI 1975 e VANNINI 1975). Le ultime campagnedi scavo in Piazza delle Carceri sono state condotte

dallo spin-off accademico Laboratori ArcheologiciSan Gallo, afferente alla Cattedra di Archeologia Me-dievale di Firenze, di cui le due scriventi fannoparte. Per alcune preliminari notizie si veda VANNINI

et al. 2013, pp. 242-245.

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conseguenza, di individuare nel dettagliole principali soluzioni tecnico-costruttiveadottate dalle maestranze.

In questo senso, dunque, i livelli dideposizione dei vasi sono stati interpretaticome unità di Attività (A), al cui interno èstato possibile sia registrare i rapporti fi-sici e stratigrafici dei singoli vasi fra loro(con un’apposita Scheda di ArchiviazioneVeloce = SAV)10 sia le azioni legate allacostruzione dei livelli (vale a dire lemicro-fasi di cantiere), identificabili nellaposa in opera di specifici gruppi di vasi(le US)11.

Come nello scavo precedente, la stra-ordinarietà del deposito e l’obiettivo dianalizzare nel dettaglio la tecnica costrut-tiva − ed ottenere, quindi, rilievi ad altaprecisione delle forme ceramiche orien-tate nello spazio della “vela” − hanno sti-molato la sperimentazione di nuovetipologie di rilievo 3D, diretto ed indi-retto, messe a disposizione dai nuovi pro-gressi tecnologici12.

2.2 LA TECNICA COSTRUTTIVA DEL RIEMPI-MENTO DELLA “VELA GAMMA”

Lo svuotamento della “vela” così con-dotto ha consentito, US dopo US, livellodopo livello, procedendo letteralmente aritroso nel tempo e ripercorrendo al con-trario le azioni di riempimento e colloca-zione, di ricostruire le modalità costruttivedella “vela gamma” messe in opera dallemaestranze13.

Come è noto, le ceramiche sonostate utilizzate per riempire i quattrospazi di risulta (chiamati, per sempli-cità, “vele”) tra l’estradosso della voltaa crociera, impostata su archi sestia-cuti, e le quattro pareti del coro del-l’area absidale della chiesa di SanDomenico. Anche la “vela gamma”(quella a S/E), come le altre tre og-getto delle indagini precedenti, era si-gillata da uno strato di laterizi(mattoni) e malta a sua volta copertoda un piano di calpestio in acciotto-lato, che serviva a rendere fruibile il

10 Questo metodo ha reso necessarial’attribuzione del numero di inventario aciascuna forma nel momento stesso del suorinvenimento. Numero che doveva esserevisibile anche nelle numerose riprese fotografiche,al fine di documentare correttamente e senzapossibilità di errori (dovuti eventualmente allaripetitività di alcune forme) il posizionamento deivasi nello spazio.

11 Le schede utilizzate sul campo sono stateimplementate ad hoc con alcune specifiche vocimutuate dalle schede di documentazione dellemurature (USM). Il sistema generale di registrazione edarchiviazione dei dati fa riferimento al databasePETRAdata, elaborato nell’ambito dei progetti di ricercadella Cattedra di Archeologia Medievale (VANNINI et al.2001) ed attualmente in fase di evoluzione.

12 Grazie alla collaborazione con il CNR-ITABCdi Montelibretti, le interfaccia dei quattro livelli sonostate scansionate con un laser-scanner mentre,grazie alla collaborazione con il ‘vecchio’Laboratoire MAP e attualmente LSIS del CNRS diMarsiglia, sia i livelli sia ogni singola US sono stati

ripresi con levate fotografiche appositamente settateal fine di ottenere, in fase di laboratorio, rilievifotogrammetrici 3D (VANNINI, MARCOTULLI 2006, p.75). Questa ultima metodologia si è rivelata piùfunzionale, perché più adattabile all’ambiente di la-voro e praticabile dagli stessi archeologi senzabisogno di attrezzatura specifica. In una fasesuccessiva del progetto sono stati elaborati modelli3D per ogni singola forma ceramica della “velagamma” con l’obiettivo di associare ad essi, tramiteun database ancora in fase di sviluppo, tutte leinformazioni disponibili.

13 La Berti, nel suo già citato contributo, pro-pone una prima «classificazione aperta» di tale tec-nica costruttiva. Per l’epoca medievale più matura(B), inserisce nella stessa categoria (B.2) il San Do-menico e le volte del Convento del Carmine a Siena,assieme ad altri noti ma meno studiati, dal punto divista archeologico, rinvenimenti (es. Assisi, Montal-cino, Pistoia). Mantiene separata, invece, la tecnicacostruttiva della chiesa di Sant’Antimo a Piombino(B.3), trattandosi di un caso costruttivo leggermentediverso (BERTI 2007, pp. 378-380).

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sottotetto (VANNINI 2001)14. Sotto que-sta pavimentazione di servizio sono statiportati alla luce quattro livelli principalidi deposizione − in cui le forme erano le-gate da scarsissima malta15 − di cui tresono stati rimossi completamente (A 2-4)mentre l’ultimo è stato lasciato in situ (A1), sia per ragioni di sicurezza sia a testi-monianza della particolare tecnica co-struttiva16.

Il livello più superficiale (livello I, A4), immediatamente sotto l’acciottolato,presentava forme ceramiche quasi esclu-sivamente disposte per orizzontale, inmodo da distribuire più equamente inampiezza il peso del piano calpestabile(fig. 2)17. Nei livelli sottostanti, invece, leforme ceramiche erano prevalentemente,ma non esclusivamente, disposte in verti-cale e capovolte (fig. 2). Come già osser-vato in precedenza per le altre “vele”(VANNINI 2001, p. 206), e riscontrato anchenel Convento del Carmine a Siena (FRAN-COVICH, VALENTI 2002) e nella coperturadell’abside di Santa Maria Sopra i Canali aPiombino (FICHERA 2007b, p. 152), questoaccorgimento consentiva ai vasi sia dimantenersi vuoti ed asciutti sia, trattan-

dosi della vera ossatura del riempimento,di occupare maggior volume e offrire alcontempo maggiore resistenza18.

Procedendo dall’acciottolato verso il

14 Anche nel convento del Carmine il riempi-mento era funzionale ad una pavimentazione, cosìcome ad Assisi, Montalcino e Pistoia (sinteticamentein BERTI 2007, pp. 378-380). A Piombino, invece, illivellamento in laterizi, malta e lastre era costruitoper creare un piano regolare sul quale poggiarel’originario tetto a lastre (FICHERA 2007b, p. 153).

15 La malta, non molto tenace, era presente siain grumi sia in sottile velo sulla maggior parte delleforme ceramiche: una situazione diversa rispetto aquanto descritto per Sant’Antimo, dove le formeerano legate da malta abbondante assai tenace (FI-CHERA 2007b, p. 149, 152), o nel Carmine, dove ilriempimento degli spazi di risulta era affidato allaterra, come in Assisi (BERTI 2007, p. 379). Per quelche riguarda altri rinvenimenti più o meno coevi enel medesimo ambito regionale, non è chiaro capire,dalle poche notizie sul rinvenimento, come fosse uti-lizzata la malta nel riempimento delle volte del

Palazzo comunale di Pistoia (VANNI DESIDERI 1984). 16 I livelli di deposizione erano quattro, seppur

con le differenze dovute alla diversa conformazionedegli spazi, anche in Sant’Antimo (FICHERA 2007b, p.150) e nel Carmine (BERTI 2007, p. 379), mentre nellealtre “vele” del San Domenico ne sono stati rinvenutifino a cinque (VANNINI 2001, p. 203). Non si hanno in-formazioni, a questo proposito, sul rinvenimento delPalazzo comunale di Pistoia (VANNI DESIDERI 1984).

17 Anche nella chiesa di Sant’Antimo a Piom-bino i vasi dei livelli più superficiali erano dispostiper orizzontale, sebbene con minore regolarità (FI-CHERA 2007b, p. 152).

18 La disposizione capovolta è abbastanzaricorrente, per i motivi suddetti, in questa tecnicacostruttiva, come si evince anche dai numerosi esempinei già citati POISSON 2005 e BERTI 2007. Quest’ultima(ibid., p. 381) ricorda anche un passo di Leon BattistaAlberti su questo argomento (Libro III, Cap. XIV).

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Fig. 2 - Le tecniche costruttive della volta delcoro. La sovrapposizione dei livelli nella “velabeta”; particolare del I livello rinvenuto della“vela gamma”, l’ultimo ad essere posizionato (A4); panoramica del IV livello della “vela gamma”,il primo ad essere deposto (A 1).

fondo del deposito i livelli si sono dimo-strati progressivamente più piccoli ed inalcuni casi erano intervallati da ‘pianetti’di orizzontamento in malta e scaglie lapi-dee (fra i livelli I-II) e in malta e laterizi(fra i livelli II-IV). Il passaggio fra i vari li-velli non era sempre netto perché le di-mensioni a volte non omogenee di alcunigruppi di vasi determinavano letti di posafra US e US non sempre perfettamenteorizzontali e che venivano, quindi, rego-larizzati, dai ‘pianetti’.

Il livello più basso della “vela gamma”(A 1), ancora in situ, è quindi quello dalquale presero avvio i lavori di riempi-mento contestuali alla costruzione dellacopertura del coro e che presenta, pro-babilmente per la forma e la funzioneparticolari, caratteristiche leggermente dif-ferenti rispetto ai livelli soprastanti.

Lo spicchio fra estradosso e pareti èriempito da malta tenace piuttosto spessa(US 133) nella quale sono immerse leforme ceramiche, sia integre che in fram-menti, ed è ricoperto da una sorta di pa-vimentazione, anche se leggermentesconnessa (UUSS 131 e 132). Incastrati frai laterizi, che appaiono perfettamente sa-gomati ad hoc, sono state posizionate lebocche di cinque grandi vasi capovolti(ed appartenenti al livello soprastante, A2) con funzione di ‘aggancio’, o ammor-satura, fra la prima e la seconda attivitàdi deposizione (fig. 2).

Nel riempimento di malta e fra i duepianetti doveva essere alloggiata, trasver-salmente, una trave lignea che si infilavanelle due pareti laterali − dove sono pre-senti, infatti, due buche pontaie − dellaquale sono rimasti, nella sorta di canalettaresidua, alcuni consistenti frammenti etracce di malta con impresso in negativolo spessore originario della trave. Questasoluzione tecnica risulta utilizzata anchenella “vela” adiacente (“delta”) e ricorda,

come tipologia di intervento, i noti radi-ciamenti lignei il cui uso è ampiamentetestimoniato quale presidio antisismico(BOATO, LAGOMARSINO 2011, p. 49).

2.3 I MARKERS COSTRUTTIVI DELLE MAE-STRANZE DELLA “VELA GAMMA”

Nei tre livelli superiori (A 2-4), grazieal riconoscimento di giunti e letti di at-tesa, si sono potute identificare le singolefasi di cantiere che hanno portato allaclassificazione di ben sei principali ac-corgimenti tecnico-costruttivi che, utiliz-zati in più occasioni, ben distinguibili ericorrenti di livello in livello, costituisconoi veri segni distintivi (o markers) delmodus operandi del cantiere.

1 - Nei tre livelli rimossi le forme ce-ramiche sono state deposte cominciandosempre dalla zona centrale della “vela”(la cui forma, in pianta, è pressappocotriangolare) e partendo in genere dallacollocazione di quella di dimensionimaggiori, attorno alla quale venivanoposizionate le forme di misura inferiore.Del resto è logico che i vasi ingombrantinecessitassero di essere deposti perprimi. Si veda, ad esempio, il grandetubo fittile (inv. n° 90) che fungeva davero e proprio elemento ordinatore del Ilivello (A 4), posto come mediana della“vela” e con gli anforacei collocati a rag-giera intorno ad esso (fig. 3).

2 - Una volta organizzato il centrodella “vela” si procedeva al riempimentodegli spicchi laterali con forme di di-mensioni inferiori, prevalentemente anfo-racei (es. le brocche “a beccaccia”),disposte per orizzontale o per verticale aseconda dello spazio a disposizione. Èquanto si è riscontrato, ad esempio, nellaUS 124 (livello II, A 3) (fig. 3).

3 - I vasi interi di piccole dimensioni(in genere olle, boccali e paioli) venivanoutilizzati in gruppo, come US ‘di zeppa’,

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e disposti successivamente fra i vasi piùgrandi (es. brocche, orci), per non cau-sare vuoti, e quindi punti deboli, fra glispazi di risulta19. È quello che si nota nellivello I (A 4) per le UUSS 101 e 103, e

per la US 117 sul livello II (A 3) (fig. 4).Da segnalare che in US con questa fun-zione sono stati trovati tutti i boccali dimaiolica arcaica e arcaica blu.

4 - La stessa funzione ‘di zeppa‘ ve-niva svolta da singole forme ceramiche,o interi gruppi, tagliate e sagomate appo-

19 Questo particolare accorgimento è stato ri-levato sia nella volta del Carmine (BERTI 2007, p.379) sia in quella di Sant’Antimo, dove risulta

simile anche la scelta del materiale costruttivo-vaso (FICHERA 2007a, p. 97 e FICHERA 2007b, p.152).

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Fig. 3 - I markers costruttivi delle maestranze, al-cuni esempi significativi. Il tubo fittile n. 90 chefungeva da elemento ordinatore della “velagamma”; la US 124 in cui il gruppo di brocche èstato deposto per ultimo, in modo da colmare unospicchio del livello II (A 3); la US 111 in cui alcunebrocche e forme tagliate a metà vennero disposteper riempire il vuoto creatosi fra la deposizionedi altri gruppi di vasi e l’estradosso della volta.

Fig. 4 - I markers costruttivi delle maestranze. Al-cune forme e laterizi sagomati appositamentesvolgevano funzione di zeppe fra vasi più grandi;i piani di orizzontamento erano disposti fra i varilivelli per uniformare gruppi di vasi di dimen-sioni diverse (es. US 116 e US 122); i vasi piùgrandi erano utilizzati come ammorsature fra i li-velli: un particolare delle brocche del livello III(A 2, US 127) inserite nell’interfaccia del livello IV(A 1, US 132).

sitamente, con estrema perizia e preci-sione nel taglio, per incastrarsi a ridossodella muratura dell’estradosso della voltao delle pareti del coro. È il caso, ad esem-pio, della US 111 del livello I (A 4), odella US 129 del livello III (A 2) (fig. 3).Da notare che spesso queste US si trova-vano, anche se in livelli diversi, dispostesempre nelle stesse zone, tanto da risul-tare in alcuni casi sovrapposte.

5 - La quinta soluzione tecnico-costrut-tiva è rappresentata dall’approntamento dipiccoli piani orizzontali, costituiti da maltamista a scaglie o frammenti di mattoni, uti-lizzati sia nei passaggi tra i vari livelli siacome interfaccia fra i letti di posa di due USappartenenti allo stesso livello, ma con dif-ferenze di spessori e dimensioni (fig. 4).Esattamente come accade nelle murature inverticale quando si sdoppiano i corsi ed iletti di posa in prossimità di giunti di attesafra conci e corsi di dimensioni differenti.

6 - Infine, alcune forme ceramiche,sempre di grandi dimensioni, sono stateutilizzate come ‘agganci’ per ammorsarelivelli diversi: posizionate in verticale, ingenere con l’orlo inserito nel livello sot-tostante, esse rappresentavano gli ele-menti ordinatori degli spazi all’internodella “vela” e costituivano dei veri e pro-pri letti di attesa, come lo sono i giuntinelle murature in elevato. Si vedano, adesempio, la grande misura per aridi (inv.110) e l’orcio a beccaccia (inv. 128) cheemergevano già nel livello I (A 4) maerano, in realtà, stati inseriti in quello sot-tostante (A 3) (fig. 2); le brocche a bec-caccia (invv. 2128 e 2117) che, visibili nellivello III (A 2), sono rimaste ancora inposto perché collocate con il collo nel li-vello IV (A 1) (fig. 4).

Si registra, quindi, più in generale, latendenza ad utilizzare prevalentementeforme chiuse, perché più resistenti al ca-

rico dei livelli e più funzionali a produrrelo spessore necessario al riempimentodelle “vele”. Di estremo interesse è statoverificare la scelta meticolosa delle formein base a morfologia e dimensione, percostituire incastri ben proporzionati eriempire perfettamente tutto lo spazio di-sponibile, in modo da non creare vuoti, equindi fragilità, nella struttura (VANNINI

2001). Si deve quindi immaginare che ilmateriale da costruzione fosse per lamaggior parte disponibile in cantiere e,più difficilmente, arrivasse di volta involta, in considerazione della estremaprecisione nella scelta delle pezzature enel posizionamento delle forme piùgrandi in fondo a ciascun livello dellequattro “vele”. Va inoltre segnalato chesia le forme ceramiche sia i laterizi, uti-lizzati come zeppe fra i vasi, risultasserosempre perfettamente sagomati e tagliatiad hoc, con incastri assolutamente uni-voci e che dobbiamo, quindi, ipotizzareavvenissero a piè d’opera, al momentostesso del montaggio (fig. 4).

In sintesi, quindi, le informazioni rac-colte nel corso dello scavo delle “vele” diSan Domenico e, più in particolare, nella“vela gamma”, hanno portato alla luce ilsegno tangibile di un’estrema perizia eprecisione di montaggio da parte dellemaestranze che le riempirono: un modusoperandi accorto ed oculato nella sceltadel materiale, solo apparentemente in-coerente perché non omogeneo, e nellametodica ed esperta selezione degli ag-ganci e degli incastri.

C.M.

3. IL CORPUS CERAMICO: CARATTERI DEI MA-NUFATTI E DEL CONTESTO PRODUTTIVO

Le analisi condotte a San Domenico,quindi, hanno consentito di comporre unquadro per la prima volta molto detta-

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gliato, sotto una molteplicità di punti divista (dai caratteri produttivi, alle solu-zioni funzionali di una serie di forme inuso nella zona in un preciso momentocronologico), delle produzioni ceramicheda cucina, da mensa e da dispensa di unacittà toscana nei primi decenni del Tre-cento. La situazione della documenta-zione archeologica medievale prateseconsente inoltre, grazie alle ricerche eagli scavi stratigrafici condotti negli annipassati (oltre che a quelli attualmente incorso), una collocazione piuttosto pun-tuale di tale complesso entro un quadrodi stratigrafie comparate20. Il totale delcomplesso ceramico scavato si componedi 400 forme minime, di cui 215 sonoquelle della “vela gamma”, l’ultima ad es-sere stata indagata stratigraficamente.

Per tentare una breve sintesi sulleforme21, ma, soprattutto, per cercare unalettura del complesso qui individuato edei caratteri delle (o della) botteghe chelo hanno prodotto, vorrei soffermarmi an-zitutto sui manufatti che sembrano i più

specifici dell’intero contesto. È infattiestremamente interessante il corredo rap-presentato dalle forme da dispensa e, inparticolare, da alcune forme per la com-mercializzazione. Si tratta di una serie dicontenitori privi di rivestimento, utilizzatisia per il trasporto che per la conserva-zione di olio e granaglie. È un nucleoomogeneo, composto da recipienti diforme diverse, spesso modulari, di mediee grandi dimensioni. In alcuni casi, que-sti contenitori svolgevano un ruolo im-portante nelle attività di vendita esercitatenei mercati. Tra le forme più diffuse sicontano gli orci “a beccaccia” (6 forme)22

e le brocche e boccali23, anch’essi “a bec-caccia” (103 forme), gli orci di formaovoidale (11)24, le misure per aridi (3forme) con versatoio a cannone25, le con-che (20 forme)26, provviste o meno di unforo di sfiato nei pressi del fondo, e i ca-tini (13 forme)27 (fig. 5). Molti tra i conte-nitori destinati a stoccaggio e trasporto(come orci e brocche a beccaccia) hannoimpresso un marchio, nella parte supe-

20 Il complesso ceramico di San Domenico èstato inventariato all’interno del Laboratorio dellaProduzione della Cattedra di Archeologia Medievale(responsabile dott.ssa Angelica Degasperi nel 2006,attualmente dott.ssa Elisa Pruno). I materiali sonostati studiati, in diverse fasi, anche dal dott. JacopoFabbri, all’interno di una tesi di dottorato discussaall’Università Cattolica di Milano (FABBRI 2009/2010)e, esclusivamente per la parte sulle maiolichearcaiche, dal dott. Stefano Aiello, nel corso dellericerche per la sua tesi triennale (AIELLO 2006/2007).

21 Per un’analisi stringente delle forme e per iconfronti con materiali omogenei, all’interno diPrato e del Valdarno si veda FABBRI 2009/2010.

22 Se confermata la datazione proposta già nel2006 (VANNINI, MARCOTULLI 2006), la presenza degliorci a beccaccia in questo contesto testimonierebbeuna loro apparizione piuttosto antica, rispetto aquanto noto altrove.

23 La brocca è la forma più presente (189 FM su400), a causa dei caratteri della sua morfologia(apode, con corpo globulare, ansa a nastro e

versatoio a becco), assai favorevoli allo scopo di es-sere utilizzati come riempimento di volte. Si trattadi forme dimensionalmente piuttosto omogenee,con diametro massimo tra i 25-30 cm e altezza tra i30-35 cm. I boccali, di minori dimensioni (h 17-24cm, 15-20 cm diametro massimo, 8-12 cm lunghezzadel becco), sono tendenzialmente apodi a fondopiano, corpo globulare, larga ansa a nastro, impo-stata sull’orlo.

24 Gli 11 orci del San Domenico hanno formadel corpo globulare allungata, il bordo estroflessoo dritto; altezza da 29-30 cm ai 45 cm, diametrodella bocca 30-32 cm.

25 Sono forme tronco-coniche con fondo piano,con versatoio a cannone. Altezza tra 28 e 30 cm,diametro dell’orlo tra 38-40.

26 Sono grandi recipienti a corpo tronco-conicoe fondo concavo. Con altezza tra i 32 e i 40 cm e ildiametro dell’orlo tra i 35 e i 60 cm.

27 Si tratta di forme apode, con corpo tronco-conico ed orlo variamente sagomato. Altezza tra 10e 15 cm, diametro dell’orlo tra 20 e 40 cm.

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riore dell’ansa, per lo più tondo negli orcie nelle brocche a forma di scudo28 (fig. 5,n. inv. 2037).

L’insieme ceramico comprende ancheforme da cucina, sia olle (31 forme)29 chepaioli (27 forme)30. Inoltre va sottolineatala presenza di un frammento di tegameinvetriato31, con tracce di fuoco d’uso.Degne di nota sono anche alcune formeabbastanza peculiari come un fornello32 euno scaldino forato33. In opposta ten-denza rispetto a quanto riscontrato al Car-mine a Siena, la presenza di maiolicaarcaica al San Domenico di Prato è vera-mente minoritaria come quantità. In to-tale si tratta di 13 forme di maiolicaarcaica34 e 1 di maiolica arcaica blu35 (fig.6). Per restare nel campo delle rivestite,va notata anche l’interessante presenza diuna brocca invetriata verde36 (fig. 6). Evi-dentemente i costruttori hanno privile-giato le forme chiuse rispetto a quelleaperte, a causa dello scopo al quale do-

28 La questione della presenza di marchi su alcuneproduzioni ceramiche, già osservata e dibattuta adesempio in BERTI, GELICHI 1995, pp. 191-241 o in DANI,VANNI DESIDERI 1981, pp. 475-482, si ripresenta anche aSan Domenico, dove sono stati individuati ed analizzati30 diversi tipi di segni, impressi a crudo su differentiforme (brocche, boccali, orci a beccaccia, paioli e anchesul fornello), dei quali possono, più probabilmente,essere definibili come marchi 22 (escludendo le fasce elinee impresse a crudo, che difficilmente possono essereindicati come marchi, almeno per il carattere chedovrebbero avere secondo il nostro attuale modo divedere, sono stati individuati segni composti da unacornice pressappoco triangolare che contiene simbolireligiosi, quali il tau o la croce, e segni composti inveceda una cornice circolare con decorazione interna divario tipo). Per sintetizare, il problema legato allapresenza di possibili marchi su forme ceramicheriguarda la nostra incomprensione riguardo al lorosignificato. Si tratta, evidentemente, di segnisemanticamente vivi per le persone che producevano,acquistavano e utilizzavano questi strumenti, che noi,al contrario, non riusciamo più a decriptare. Le opinionipiù diffuse parlano dell’uso probabile dei marchiapposti alle ceramiche per indicare la capacità dei

manufatti, come marchi di fabbrica o di proprietà, comegaranzia della qualità dell’oggetto (quindi in qualchemodo sempre connesso al significato di marchio diproduzione) e, infine, spesso si parla di questi segnicome di possibili decorazioni. Analizzando i manufattidi San Domenico si ritiene di poter escludere che si trattidi marchi indicanti la capacità dei recipienti: sonopresenti infatti marchi diversi su contenitori dellamedesima capacità e marchi uguali su contenitori didifferente capacità. Un’ipotesi spesso ripetuta è che sitratti di marchi di produzione, cioè marchi di bottega:anche questa ipotesi entra in rotta di collisione conl’idea (che discuteremo più avanti) della presenza a SanDomenico di materiali di scarto di una o due botteghedella città, dal momento che, appunto, i possibilimarchi sono invece molteplici. Al contrario, poi, non sispiegherebbe perché in un contesto omogeneo,come, ad esempio, la produzione ceramica pratesedi XIV secolo, solo alcune botteghe usasseromarchiare i propri prodotti, mentre la maggioranzali metteva sul mercato privi di segni distintivi. Ilmarchio inteso come indicatore di proprietà o comeriferimento alla committenza (oltre ad essere molte voltestato suggerito ad esempio per la presenza di marchicon la forma del giglio fiorentino, da riferirsi appunto al

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Fig. 5 - Principali forme di ceramica acroma pre-senti nelle volte del San Domenico.

controllo della città dominante sulle produzioni uscitedalle botteghe che ad essa facevano riferimento)presenta degli elementi di riflessione molto peculiari nelcaso dei due orci a beccaccia di San Domenico, perchéessi hanno apposto uno scudo bipartito con lineairregolare centrale, in un caso, mentre nell’altro èpresente un elemento confrontabile con la croce e ilmotto dell’ordine monastico dei domenicani. Questopotrebbe far ipotizzare che si tratti di orci appositamentefabbricati per il convento (proposta discussa in FABBRI

2009/2010, pp. 112-113). Non ci sono elementisufficienti né per sostenere né per confutare questaipotesi che, comunque, se anche fosse verificata,lascerebbe irrisolti i significati degli altri marchi. Restaovviamente sempre proponibile il significato decorativo,seppur abbastanza aleatorio, visto la presenza di questisegni in tipologie diverse e, soprattutto, vista lamancanza degli stessi in molte altre forme dellamedesima tipologia, all’interno dello stesso contesto. Edunque? La sensazione più forte è che si cerchi dileggere un “libro” scritto in una lingua di cui ignoriamol’alfabeto. Cioè credo che ci manchino ancora moltielementi per capire il reale significato semantico deisegni che cerchiamo di analizzare (come già visto anchenel caso di un’altra forma molto utilizzata nel medioevo,i testelli, PRUNO 2004). Un problema analogo,nonostante, almeno fuori Italia, la tradizione di studi suquesto soggetto sia abbastanza ampia, si trovanell’interpretazione dei segni lapidari sulle architetture.In un lavoro che presentava un’indagine su questoargomento nell’edilizia medievale toscana Bianchi hasuddiviso i segni lapidari in due grandi gruppi: quellosimbolico e quello legato alle attività di cantiere (BIANCHI

1997). Se nella definizione simbolica si potrebbe farrientrare quello che in campo ceramologico è statodefinito come decorativo, all’interno del gruppo deisegni legati alle attività di cantiere si ritrovanointerpretazioni come segni d’identità del magister,collegabili talvolta a diverse fasi di lavorazione. Infatti ilproblema che si pone è il medesimo: non sappiamoancora leggere con esattezza questi segni cheappartengono ad una sfera semantica che ci sfugge. Seabbiamo ormai acquisito molti strumenti per l’analisiprocessuale dei vasi (ad esempio per lo studio delletracce di fuoco, per la comprensione delle funzioni chesvolgevano etc. etc.), ancora piuttosto inattingibilirimangono le questioni che per comodità diclassificazione potremmo definire post-processuali. Ciòche a noi sembra contraddittorio ad esempio per l’ideadi associare simboli molteplici ad una sola produzione,potrebbe non esserlo stato in periodi diversi, quando,ad esempio, rarissima era la firma di un artista,figuriamoci quella di un artigiano. Alcuni segnipotrebbero avere una valenza di garanzia di buonafabbricazione, senza arrivare all’idea che si volesseindicare un marchio di fabbrica vero e proprio (VANNINI

1995, pp. 106-107). Resta l’obiettivo di comprendere,

comparando produzioni tra loro anche diverse, inepoche e territori culturalmente omogenei, l’uso disegni quali quelli di cui abbiamo discusso, attraversoricerche più sistematiche ed attente soprattutto alla lorostruttura semantica.

29 Le olle di San Domenico hanno corpo globu-lare, bordo più o meno estroflesso e con tesa. Un esem-plare (cosa piuttosto rara nei contesti pratesi) èrappresentato da un’olla fatta a mano (GRASSI 2010). Idiametri oscillano tra 10 e 20 cm, l’altezza da 9 a 20,con una media ricorrente tra 16-17 cm.

30 I paioli, dal corpo globulare o cilindrico, con ma-nico di sospensione a sezione circolare o ovale, dispostoad arco sopra la bocca, fondo apodo e spesso sabbiato,hanno dimensioni per il diametro dell’orlo tra i 20 e i 25cm, per quanto riguarda invece l’altezza tra 22 e 25 cm.

31 Il tegame invetriato, rinvenuto frammentato, hala parete svasata e il bordo piano, leggermente arro-tondato ed ingrossato all’interno. La vetrina, di colorerosso, è presente solo all’interno.

32 Il fornello o braciere è apodo a fondo piano,corpo tronco-conico e apertura centrale (per inseri-mento di combustibile). Ha al di sotto del bordo una de-corazione a fascia cordonata, orlo estroflesso con bordoa tesa e spazio nella parte superiore presumibilmenteper l’appoggio di altri contenitori.

33 Questa sorta di scaldino forato è apodo a fondopiano, ha la parete bassa e svasata con bordo arroton-dato. È dotato di manico sopraelevato a sezione ovoi-dale schiacciata impostato sul bordo. Il fondo ècaratterizzato da numerosi fori eseguiti a crudo.

34 I boccali di maiolica arcaica sono tutti scarti diproduzione o, comunque, materiali di seconda scelta.Hanno tutti difetti di cottura non tali da renderli inuti-lizzabili, ma da renderli qualitativamente inferiori aquelli immessi sul mercato. Sono caratterizzati da unpiede fortemente svasato, corpo globulare, orlo arro-tondato ed ansa a bastoncello impostata sul diametromassimo e subito sotto il bordo, con misure abbastanzadifferenziate, attestate su due gruppi principali: uno conmisure intorno a 15-16 cm per l’altezza e 8 come dia-metro dell’orlo; un secondo gruppo invece ha h di circa26 cm e il diametro dell’orlo di 9-10 cm. Le decorazioniprincipali sono tendenzialmente geometriche, elementicampiti da embricazioni e da graticci sia in verde ra-mina che in bruno manganese. Iniziando un lavoro sulpeso delle forme intere ritrovate a San Domenico, dapoter utilizzare come ulteriore metodo di quantifica-zione nelle stratigrafie urbane in corso di studio da partedi chi scrive, si oscilla da un minimo di 0,8 kg a 1; adun secondo gruppo che oscilla intorno a 1,8 kg.

35 La maiolica arcaica blu presente, con un soloesemplare di boccale, dal corpo globulare ribassato,smalto bianco coprente e decorazione fitomorfa.

36 Questa forma chiusa è invetriata in verde siaall’interno che all’esterno ed ha un’ansa a nastro, èapodo e leggermente svasato.

111

vevano servire, tuttavia il panorama cera-mico, per l’inizio del XIV secolo, risultapiuttosto ampio ed articolato, con carat-teri anche piuttosto avanzati37.

Al di là delle caratteristiche tipologi-che, è significativo definire lo stato dei re-cipienti al momento in cui essi sono statiacquisiti dal cantiere edilizio del San Do-menico per diventare materiale da co-struzione. Un nucleo rilevante è quellodegli scarti di produzione, manufatti,cioè, che, per difetti di vario genere, nonhanno mai potuto svolgere la funzioneper la quale erano stati prodotti. Si pre-

sentano infatti deformati, anche vistosa-mente, nel corso del processo di cottura,oppure hanno squarci generalmente lo-calizzati nella parte inferiore del corpo oin corrispondenza del diametro massimodel vaso, forse frutto di esplosioni di in-clusi all’interno del corpo ceramico, av-venuti in fornace (si tratta principalmentedi brocche e boccali, ma anche di unaconca da aridi: fig. 5). Altri ancora pre-sentano lesioni di vario genere che ne mi-nano l’integrità. Tutti questi esemplarisono pertanto scarti di produzione, deltutto inutilizzabili. Vi sono, però, anchedei recipienti che hanno difetti di produ-zione tali da non incidere in maniera so-stanziale sulla loro funzionalità, maabbastanza evidenti da poter essere con-siderati di seconda scelta, quindi, menoadatti ad essere messi su di un mercato,soprattutto se un mercato di buona qua-lità. Si tratta per lo più di difetti di cottura,troppo ossidante o riducente, con evi-denti annerimenti superficiali (in brocche,boccali e orci “a beccaccia”). L’ultimogruppo è formato da ceramiche utilizzatee poi scartate. Si tratta cioè di forme che,a ripetute analisi autoptiche, ma senza in-dagini archeometriche sulla presenza esulla qualità di elementi che diano indi-cazioni sui contenuti, presentano non du-bitabili tracce di annerimento d’uso.Nessuna di queste, poi, presenta evi-denze di difetti tali da indurre a non im-metterle nel mercato.

A questo punto è necessaria una ri-flessione sulla provenienza del materialeceramico, trattandosi sia di scarti di bot-tega, manufatti quindi mai entrati in uso,sia di manufatti con difetti evidenti, manon tali da impedirne lo svolgimento

37 In particolare si fa riferimento alla maiolicaarcaica blu, al materiale invetriato (brocca e tegame)e agli orci “a beccaccia”. In tutti e tre i casi si

tratterebbe di apparizioni piuttosto precoci nelcontesto toscano e, più in particolare, nell’areavaldarnese.

112

Fig. 6 - Boccali di maiolica arcaica, boccale inmaiolica arcaica blu e invetriata verde.

della funzione. Inoltre sono presentiforme da fuoco con evidenti tracce d’uso,quindi di scarti d’uso. La presenza discarti (assieme alle considerazioni relativeall’analisi degli impasti che è stata portataa termine, seppure non in forma archeo-metrica) ci permette di ipotizzare che imanufatti provenissero da una o più bot-teghe pratesi38. Ma il problema della pro-venienza del materiale si pone ancoracon maggiore problematicità nel mo-mento in cui si cerchi una spiegazionesulla presenza nel medesimo contesto discarti d’uso. Nonostante le necessariecautele, si tende ad escludere che si trattidi strumenti utilizzati dal cantiere per cu-cinare e poi come materiale edilizio. An-zitutto perché non si tratta di una o dueforme, ma di un quantitativo pari al 5-7 %del totale39. Inoltre appare poco plausi-bile che, all’interno di una tecnica ediliziapiuttosto ragionata, come quella qui di-scussa, che ha avuto necessità di approv-vigionarsi da una o più botteghe, si possapensare poi ad un utilizzo di forme checasualmente si trovavano sul cantiere40. Il

punto cruciale è quello di stabilire le mo-dalità di approvvigionamento del cantiereedilizio rispetto alla ceramica, aspetto peril quale si è sovente ipotizzato un rap-porto di acquisto dei materiali provenientida una o più botteghe dei dintorni dellafabbrica in opera41. Se questo dato nonpare messo in dubbio né dai caratteridegli scarti di produzione né da quellidelle seconde scelte, la presenza di scartid’uso introduce un elemento che com-plica il quadro fino a qui delineato. Èpossibile che all’interno delle bottegheesistesse anche una parte di materialeusato e poi scartato? Si potrebbe ipotiz-zare che venisse tenuto in depositi peroccasioni come queste o anche per es-sere via, via usato in bottega, ad esempioper la preparazione della chamotte? Ilproblema deve naturalmente essere postosu di un piano più generale: esisteva, ese si quale era, un sistema di smaltimentodei rifiuti ceramici ?42 Al momento questesono domande aperte, linee di ricercache devono essere seguite.

E.P.

38 Un’analisi autoptica dei corpi ceramici ha per-messo di individuare alcuni impasti ricorrenti (FABBRI

2009/2010): un tipo, AG, con alcune varianti, piutto-sto grezzo, con presenza di vari inclusi (miche, cal-cite, talvolta chamotte), usato principalmente performe da fuoco; un altro, AS, abbastanza depurato,con inclusi bianchi e rari neri. Le uniformità tecnolo-giche oltre che morfologiche riscontrate nei manu-fatti e la prevalenza di pochi impasti sembranoconfermare la provenienza del contesto da un’unicaofficina pratese o delle vicinanze di Prato. Stessa cosapuò essere affermata nel caso degli impasti delle ma-ioliche arcaiche, tra loro assolutamente omogenei.

39 Dubbi potrebbero esserci su un unicumcome quello del tegame invetriato, di cui è statorinvenuto un frammento solo. Certo, a contrastarel’idea che potesse far parte dello strumentario dacucina del cantiere potrebbe essere tenuto a mente,come si vedrà meglio più avanti, la peculiarità diforme invetriate all’altezza cronologicadell’edificazione di questa volta, che renderebbe

meno plausibile una sua diffusione all’internoappunto della cucina di una maestranza edilizia nelcorso della sua attività.

40 Inoltre parrebbe poco verosimile immaginarel’utilizzo di manufatti, non rotti, in piena attività delcantiere, dal momento che non si può certo pensareche posta in opera l’ultima ceramica la maestranzase ne sia andata immediatamente, potendo pertantoutilizzare come riempimento anche la propriadotazione ceramica da cucina! D’altro canto lasporadica presenza di un cucchiaio in legno nonpuò non essere citata, a parziale correzione, se nonsmentita, di quanto appena detto.

41 Anche per il Carmine di Siena si è ipotizzatol’approvvigionamento di materiale di scarto in piùbotteghe senesi (FRANCOVICH, VALENTI 2002).

42 Sappiamo bene che il medioevo (e più ingenerale tutto il mondo pre-industriale) eracaratterizzato da una forte tendenza a riusare imanufatti sino all’estrema possibilità, comecertamente anche questi sistemi di riempimento

113

4. PROSPETTIVE DI INDAGINE

Lo studio nel dettaglio di questa stra-ordinaria e ben nota tecnica costruttivanel San Domenico di Prato consente, aquesto punto, di delineare alcune nuoveprospettive di indagine particolarmentenell’ambito dello studio dell’ambiente tec-nico, e quindi anche socio-economico,nel quale queste soluzioni architettonichesi sono sviluppate, tramandate e diffuse.

La registrazione dell’estrema periziaed accortezza di messa in opera ed il ri-conoscimento di particolari e specifici ac-corgimenti costruttivi hanno, inoltre,permesso di identificare markers ben di-stintivi del modus operandi del cantiereall’interno della “vela gamma” e dellealtre “vele” del San Domenico. È interes-sante notare che alcune delle soluzioniadottate trovino qualche similitudine neirinvenimenti di Sant’Antimo a Piombinoe del Carmine a Siena (supra § II), forseper ovvi motivi pratici: l’incastro dei vasipiù piccoli fra quelli di grandi dimensioni,l’utilizzo prevalente di forme chiuse, il ta-glio ad hoc delle forme, la disposizionein orizzontale nei livelli più superficiali.

Data l’assenza di materiale da costru-zione non più modulare come in epocaantica (o moderna), negli esempi più notidi XIII-XIV secolo sembrerebbe di potercogliere una indubbia importanza del fat-tore umano, rappresentato da maestranzemolto esperte chiamate a lavorare airiempimenti delle volte. Anzi, la loro spe-cializzazione appare determinante, in unimpegno che, per perizia, accortezza equantità di lavoro da svolgersi a pièd’opera non doveva comunque essere

molto rapido e, si immagina, costoso, so-prattutto in termini di tempo.

La apparente zonizzazione dell’uti-lizzo di tale tecnica negli esempi cono-sciuti nella penisola (area Toscana,Roma, Palermo e Sicilia: BERTI 2007, pp.378-382), seppur parziale data la casua-lità dei rinvenimenti e lo studio archeo-logico non sistematico della maggiorparte dei contesti, è riconducibile a pos-sibili circolazioni dei saperi tecnici ne-cessari fino ad ipotizzare l’esistenza dimaestranze specializzate itineranti? E an-cora, la ricomparsa di tale tecnica inepoca medievale e la concentrazionedelle attestazioni toscane fra secondo oterzo quarto del XIII secolo e la primametà del XIV (BERTI 2007, pp. 378-380)e oltre, consente di ipotizzare processidi acculturazione, orali (almeno finoalla ‘codificazione’ dell’Alberti), fra lemaestranze? Cosa spingeva infine, adutilizzare questo particolare tipo di tec-nica costruttiva così più elaborata e,forse, non troppo economica in terminidi mano d’opera? Certamente la cera-mica era straordinariamente funzionalealla costruzione di riempimenti solidi eleggeri e, senza dubbio, è lecito imma-ginare un considerevole risparmio nel-l’approvvigionamento del materiale,grazie all’utilizzo degli scarti ed alla di-sponibilità di botteghe e fornaci nelle vi-cinanze. Un elemento che potrebbeessere indagato, per cercare di metterein luce la complessità dei rapporti eco-nomici di un cantiere medievale, è rela-tivo ai legami che potevano essereinstaurati tra maestranze di diversi settoriproduttivi, quale quello ceramico e

delle volte sono testimonianza. Il caso illustrato daBerti per Piombino è davvero emblematico,trattandosi di ceramiche prodotte a Pisa ed arrivatecome importazioni a Piombino sia sotto forma di

scarti di produzione che di scarti d’uso. Per questomotivo, l’ipotesi dell’esistenza di depositi misti, checontenessero varie tipologie di scarti, pronti ad esserericiclati in qualche modo (BERTI 2007, pp. 374-375).

114

quello edilizio43, che in questi casi speci-fici sembrano lavorare in sinergia.

Esistono quindi forse motivazioni ul-teriori che meritano di essere approfon-dite anche e soprattutto alla luce dellenuove informazioni disponibili sulle spe-

cificità di simili cantieri e che, probabil-mente, investono l’ambito non solo dellaacculturazione tecnica ma anche degliscambi commerciali e dei rapporti socio-economici attivantisi, di volta in volta, al-l’interno delle costruzioni urbane.

E.P., C.M.

43 Se l’esperienza pratese porta a presupporre con-tatti del cantiere di costruzione con botteghe urbane, sen-z’altro più complessi appaiono, almeno sulla base

dell’edito, i rapporti tra le maestranze che lavorarono alSant’Antimo di Piombino e i ceramisti pisani, produttoridegli scarti di riempimento della volta (BERTI 2007).

115

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