Note per un manualetto moderno di assemblaggio architettonico (istruzioni per il riuso), in:...

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ISBN 978-88-6242-139-3

Prima edizione Settembre 2014

© 2014 LetteraVentidue Edizioni© 2014 per i testi e immagini: rispettivi autori

È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno e didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Progetto grafico: Francesco Trovato

Finito di stampare nel mese di Settembre 2014 per conto di LetteraVentidue Edizioni S.r.l.presso lo Stabilimento Tipolitografico Priulla S.r.l. (Palermo)

LetteraVentidue Edizioni S.r.l.www.letteraventidue.comvia Luigi Spagna 50 L96100 Siracusa

@letteraventidue

LetteraVentidue Edizioni

Questa pubblicazione è stata realizzata su carta ecologica certificata FSC

Con il contributo di

Comune di Corte Franca

Ringraziamenti

si ringraziano tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito materialmente e moralmente alla realizzazione di questo libro:

• il Sindaco Giuseppe Foresti e l’intera amministrazione comunale di Corte Franca per la gentilezza, disponibilità ed il concreto sostegno a questa iniziativa;

• le Organizzazioni Sindacali per averci offerto sulla vicenda il punto di vista speciale del mondo del lavoro;• l'Assessore alle Attività Produttive della Regione Lombardia, Mario Melazzini per l’immediata attenzione e sensibilità

dimostrata verso il tema trattato;• l’Editore Francesco Trovato per la fiducia nel progetto editoriale e la pazienza di averlo costruito insieme a noi.

Un ringraziamento particolare a:• Marina Montuori per la generosa freschezza dell’intatta passione intellettuale;• Barbara Angi per la costante volontà e fermezza nel credere in questo percorso;• Massimiliano Botti per lo sguardo razionale guidato dalla giusta distanza;• Giulia per i rumorosi silenzi.

Infine grazie a tutti gli autori dei testi che, ciascuno con il loro specifico portato di competenze ed esperienze, hanno costruito il primo passo di questo cammino tutt’ora in fieri.

L’utopia è là, all’orizzonte.Mi avvicino di due passi,lei si allontana di due passi.Faccio dieci passi e l’orizzontesi sposta di dieci passi.Per quanto cammini,mai la raggiungerò.A cosa serve l’utopia?Serve a questo: a camminare.

Eduardo Galeano

Indice

Parte primaSinergie disciplinari.

PresentazioneGiovanni Plizzari

Un’area industriale in dismissione Giuseppe Foresti, Piera Pizzocaro

L’ossimoro del gruppo VelaFENEAL-UIL, FILCA-CISL, FILLEA-CGIL

Sinergie e intelligenze collettive al lavoroFENEAL-UIL, FILCA-CISL, FILLEA-CGIL

Dalla crisi d’impresa alle strategie di territorioMarco Marcatili, Giuseppe Torluccio

Nuove progettualità Mario Melazzini

Parte secondaIbridazioni architettoniche. Nuovi scenari rigenerativi.

Vigore ibrido Marina Montuori

Esercizi di rigenerazione urbana e paesaggistica a Corte Franca10 progetti didattici del Corso di Laurea in Ingegneria Edile-Architettura dell’Università degli Studi di Brescia

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Parte terzaApprofondimenti tematici

Passaggio di paesaggi (riciclati)Barbara Angi

Visioni interscalari. Mara Flandina

Note per un manualetto modernodi assemblaggio architettonicoMassimiliano Botti

Il recupero strutturale di edifici industriali prefabbricatiAlessandra Peroni

Il senso dei paesaggi produttivi di(s)messiFilippo Orsini

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«Are you saying that I put an abnormal brain into a seven and a half foot long, fifty-four inch wide gorilla? Is that what you’re telling me?»

Gene Wilder in Young Frankenstein, Mel Brooks, 1974.

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Note per un manualetto moderno di

assemblaggio architettonico

(istruzioni per il riuso)

Vela Laterizi a Corte Franca, in provincia di Brescia, cessata la produzione offre alla vista e al progetto grandi edifici si-lenziosi e vuoti, potenziali ospiti per programmi, e manufatti, diversi. Lo scritto che segue si propone di rintracciare dei rife-rimenti utili, a partire da architetture perlopiù note, in parte storicizzate, per impostare un processo di innesto di partiti

funzionali (e conseguenti oggetti costruiti) nuovi in corpi cavi in attesa1. Immaginando che, al variare di una consonante, l’innesto si faccia innesco per una storia imprevista.

È possibile individuare sistemi di relazione e metodi di assemblaggio tra le diverse parti di un edificio in base ai quali descriverlo? E, à re-bours, progettarlo?

Che un edificio sia fatto di parti è cosa ovvia. Che le parti possano caso per caso venire clas-sificate come “classi di unità tecnologiche” o come “elementi costitutivi della forma”, e a loro volta possano essere distinte in base ai mate-riali prevalenti che le compongono, anche. Una quota consistente della pubblicistica di settore

ha operato da qualche anno una sistematica scomposizione degli edifici. Gli Atlanti che raggruppano manufatti diversi per programma funzionale e risultati formali in ragione di al-cuni riconoscibili elementi costitutivi (tetti, facciate, ecc.) o in funzione di materiali caratterizzanti (legno, vetro, acciaio, ce-mento armato, ecc.) sono prodotti editoriali di ampia diffusio-ne. Questo, le librerie CAD e altro ancora, hanno contribuito a generare una koiné, in cui il rapporto prevalente è tra tecnica e linguaggio, più che tra tipo e morfologia2.

Consapevoli di questo, non parleremo qui di composizione di figure semplici sul piano o di volumi, ma ragioneremo sui modi con i quali è possibile assemblare, o lavorare, gli “ele-menti costitutivi”. Non daremo quindi forma a un elenco di manufatti che hanno in comune un materiale, o un elemento specifico ridondante, ma i modi con i quali alcuni di quegli elementi vengono fatti stare insieme, e i sistemi di relazione che ne scaturiscono.

Occorrerebbe costruire una tassonomia complessa, cosa che va evidentemente ben al di là delle ambizioni di questo testo. A titolo di esempio, per ciò che riguarda gli elementi del progetto sottoposti ad azioni topologiche, si potrebbero identificare: il (grande) muro, il (grande) tetto e la supercoper-tura, l’involucro, ecc., a loro volta generatori di strategie mi-ste (archiscape, organico vs cartesiano, ecc.) non in grado di descrivere, per forza di cose, l’intera complessità dei risultati progettuali e per le quali sarebbe quindi possibile verificare promettenti ibridazioni3.

Il caso della Vela Laterizi induce tuttavia a serrare le ma-

Massimiliano BottiArchitetto PhD e professore

a contratto di Caratteri morfologici, tipologici e

distributivi dell’architettura Università degli Studi

di Brescia

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glie del setaccio per individuare due elementi soltanto, che hanno a che fare in prima istanza con l’insieme di manufatti del com-parto produttivo dismesso della Franciacorta e con le loro carat-teristiche tipologiche, in secondo luogo con le potenzialità che gli edifici, abbandonati a se stessi, hanno nel momento in cui avvie-ne il contatto tra ciò che esiste e ciò che nell’esistente può essere immesso.

Sceglieremo quindi solo il tetto e l’involucro citando, con la sintesi necessaria data la brevità di queste note, progetti utili per produrre reazioni a catena nel momento in cui questo tipo di approccio investe la pratica architettonica, fin dalle sue prime fasi.

Parleremo di tetto e porremo in sequenza alcuni edifici che hanno in comune non il “tetto” (ché, tranne in casi limite, una chiusura in sommità occorre a prescindere perché un edificio si possa definire tale) ma il ruolo che il sistema di copertura ha nella costruzione del processo progettuale, e il genere di relazioni che instaura con gli altri elementi.

Parleremo di recinto tridimensionale intendendo con que-sto le caratteristiche dell’involucro (verticale, orizzontale, in-clinato, ecc.) che separa un interno abitato – ma non necessa-riamente chiuso – da un esterno non climatizzato e che inglo-ba una variabile quantità di spazio per lo più indiviso.

È evidente che si bordeggia prossimi alla “composizione”, ma non di composizione strictu sensu – prassi che appare pe-raltro da molti disattesa – si tratterà. Gli strumenti culturali propri di generazioni di progettisti sono stati, da tempo, so-stituiti – nella pratica del progetto – da processi, protocolli, ecc. Il duplice passaggio da sintassi (il tracciato regolatore di casa La Roche di Le Corbusier) a paratassi (la natura morta alla scala edilizia del Chiat-Day-Mojo Office Headquarters di Frank O. Gehry) a diagramma generatore (la Seattle Public Library di OMA/Rem Koolhaas) non esaurisce quindi la questione. Non l’Omaggio al quadrato, ma nemmeno l’elenco “tavolo autop-tico + ombrello + macchina da scrivere” o lo schema relazio-nale alla base de La Vie mode d’emploi sono in discussione qui. Nell’analisi a posteriori di un progetto abbiamo a che fare spesso con operazioni codificabili che non nascono con la sola disciplina architettonica, ma che hanno origini molteplici, tra loro distanti e con quarti di nobiltà discontinui.

Tre rapidi esempi: la “colonna cava che ampliandosi diven-ta stanza” della nota affermazione kahniana è frutto di un espediente topologico e, pur contenendo il quanto di carat-

Frank O. Gehry, Chiat-Day-Mojo Office Headquarters,

Venice (Los Angeles) 1985-91, © Bobak Ha’Eri

OMA/Rem Koolhaas, LMN, Seattle Public Library,

Seattle 1999-2004, © OMA/Rem Koolhaas

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tere evocativo proprio del Nostro, è un utensile sufficiente-mente maneggevole per ragionare su ciò che il progetto di architettura è diventato. Termini come “scavo”, “piegatura”, “sovrapposizione”, “taglio”, “densificazione”, ecc.4 sono utiliz-zati in relazione all’irruzione della topologia in ambito archi-tettonico – pare infatti che l’architettura non basti a se stessa – ma si sono rapidamente trasformati in azioni attraverso cui si di-spiega il processo che produce l’edificio.

L’utilizzo dei layer, antitetico alla pratica della composizio-ne, è prassi nota, formalizzata dalla proposta di concorso per il Parc de La Villette di OMA/Rem Koolhaas, e non riguarda solo i progetti per gli spazi aperti. Discende (anche) dal meto-do di lavoro che lega la gestione del disegno del manufatto al computer. Quasi tutti i programmi CAD impongono la scom-posizione del progetto in layer; il salto dall’elaborato dotato di fisicità e omnicomprensivo a quello immateriale frutto di una giustapposizione di informazioni sempre mutevole a se-conda delle necessità, porta a utilizzare lo stesso metodo di lavoro che isola gli elementi tecnici, o strutturali, o impian-tistici (distinzione utile per gestire le diverse competenze all’interno del processo progettuale finalizzato all’esecuzio-ne) come metodo per separare gli elementi caratterizzanti il progetto stesso. Non più il layer “corpi scaldanti”, ma il layer “vuoti”. La s-composizione, che diventa rappresentazione per parti, ha come risultato la possibilità di individuare strategie complesse che possono descrivere sia l’edificio che il suo pro-cesso progettuale. Che questo avvenga a valle o a monte del processo stesso è tutto da verificare.

Non pare inutile infine soffermarsi su quanta influenza ab-bia il modificare, l’editare il volume nella gestione delle ope-razioni di progetto. Il comando CAD e i relativi sottocomandi organizzano in menù a tendina operazioni ancora squisita-mente topologiche ( “taglia”, “estrudi”, “rastrema”, “separa”, “svuota”, “unisci”, “sottrai”, ecc.). Il sistema per la gestione informatizzata del progetto costituisce lo strumento per af-frontarne i diversi aspetti a partire da presupposti analoghi a quelli con cui venivano condotte le ricerche che dal Supre-matismo passano attraverso i Tektonik didattici koolhaasiani degli anni Settanta, per approdare alle manipolazioni di solidi secondo curve complesse5.

A fronte di questo si propone qui una serie di relazioni – de-finite in prima approssimazione “strategie operative” per sot-tolinearne il carattere di strumenti pronti all’uso – che hanno come attori elementi e concetti costitutivi il manufatto archi-tettonico (involucro e tetto, massa e volume, ecc.), relazioni spesso posizionali (sopra, sotto, in contiguità, dentro, ecc.), che per forza di cose chiamano in causa le azioni cui si è fatto cen-no (scavare, giustapporre, scalare, ecc.) ma non si esaurisco-no con esse. Queste relazioni prescindono dalle dimensioni e

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dalla complessità dei programmi che i manufatti si trovano a dover svolgere. E, in parte, prescindono dalle funzioni cui assolvono. Producono risultati non più ben composti, ma ben condotti, come esito dell’intersecarsi di elemen-ti costitutivi, azioni prese a prestito – concettualmente – da discipline altre, sequenze definite di operazioni (proto-colli) ed esperimenti.

Non si tratta di un tetto grande. In alcuni casi alla copertura, alle sue di-mensioni e geometria viene affidato un ruolo di elemento morfologica-mente caratterizzante, ma quello che qui interessa è il rapporto tra le parti: copertura ed edificio come elementi autonomi, da più punti di vista.

Tetto + oggetto

La strategia operativa accomuna architetture costituite da un manufatto e da un tetto, indipendenti. Non è il rapporto dimensionale o la prevalenza figurativa degli elementi a im-portare qui (cfr. la Neugebauer House di Richard Meier, la Ma-gney House di Glenn Murcutt o l’Arizona Life Science Building di Marlene Imirzian & Associates), ma la relazione logica tra le parti. L’indipendenza si traduce in:• differenziazione dei metodi costruttivi e dei partiti strut-

turali, in relazione anche a tecniche e tempi di esecuzione: la Maison de l’homme richiede due sistemi differenti: sal-dature e lamiere piegate per il grande tetto da posare per primo, brévet a secco – potenzialmente proliferante – per l’involucro abitativo;

• soluzione di continuità che rende lo spazio interstiziale praticabile (ancora la Maison de l’homme di Le Corbu-sier) o semplice camera d’aria (la Casa sahariana di Jean Prouvé, il Future Shack di Sean Godsell)6;

• differenziazione funzionale “sovraesposta”, per cui al dato tecnico – il tetto come protezione dagli agenti atmosferici – si sommano volontà simboliche (l’Haute Cour a Chandi-garh di Le Corbusier, il Consolato U.S.A. a Luanda di Louis I. Kahn, la Modern Wing del Chicago Art Institute di RPBW).

Il (grande) tetto

1. Richard Meier, Neugebauer House, Naples (Florida) 1995-98, © Youssef Mezeraani

2. Glenn Murcutt, Magney House, Moruya (Australia) 1994, © Andrew Metcalf

3. Marlene Imirzian & Associates, Arizona Life Science Building, Phoenix 2011,© Bill Timmerman

4. Le Corbusier, Maison de l’homme, Zurigo 1963-67, © Marina Montuori

5. Jean Prouvé, Maison Saharienne, 1956

6. Bower Studio, Melbourne University, 0-5 Early Learning Centre, Wakathuni (Australia) 2011, © Jim Stewart, Alex Smith

7. Sean Godsell, Future Shack, 1995-2001, © Katalog NRW-Forum Düsseldorf

8. Le Corbusier, Haute Cour, Chandigarh 1952-56, © Marina Montuori

9. RPBW, Chicago Art Institute - The Modern Wing, Chicago 2009, © Marina Montuori

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Tetto + oggetti

Si tratta di più manufatti – che possono accogliere funzioni eterogenee – collocati sotto un unico elemento di copertura grande a sufficienza, fisicamente (spesso anche struttural-mente) indipendenti dallo stesso. Il più delle volte lo spazio tra l’ultimo solaio degli oggetti e l’intradosso del grande tetto è praticabile, per ragioni di manutenzione o, nei casi più riu-sciti, funzionali.

La strategia viene utilizzata per ridurre a unità formale un programma complesso, che a sua volta può essere affronta-

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1. Jean Nouvel, Music and Conference Center, Lucerna 1993-2000, © Creative Commons/Wolf-Dieter

2. Jean Nouvel, Ampliamento del Museo Reina Sofia, Madrid 1999-2005, © Marina Montuori

3. Morphosis, San Francisco Federal Building, San Francisco 2003-2007, © Iwan Baan

4. Olavi Koponen, Långbo house, Kemiö 1994-2000, © Jussi Tiainen/Olavi Koponen

5. Nemesi & Partners, Centro parrocchiale S. Maria della Presentazione, Roma 1996-2003

6. Jean Nouvel, Museo dell’evoluzione umana (concorso), Burgos 2000, © Jean Nouvel Ateliers

7. Jean Nouvel, Guggenheim Museum (concorso), Tokyo 2001, © Jean Nouvel Ateliers

8. Christian de Portzamparc, Cidade das Artes, Rio de Janeiro 2009, © Nelson Kon

9. Herman Hertzberger, Housing complex, Duren 1993-97, © Aero Carto Aviodrome/Architectuurstudio HH

10. OMA/Rem Koolhaas, Ampliamento del LACMA (concorso), Los Angeles 2001, © OMA/Rem Koolhaas

11. Mario Cucinella Architects, Eco Centre n. 8, Ispra 1993-96, © Mario Cucinella Architects

12. RPBW, California Academy of Science, San Francisco 2000-2008, © Marina Montuori

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to un elemento alla volta come accade per il Music and Con-ference Center a Lucerna e l’Ampliamento del Museo Reina Sofia a Madrid (entrambi di Jean Nouvel, rispettivamente 1993-2000 e 1999-2005), nel San Francisco Federal Building (Morphosis, 2000-2007), nella Långbo house a Kemiö (Olavi Koponen, 1994-2000), nel Centro parrocchiale S. Maria della Presentazione a Roma (Nemesi & Partners, 1996-2003): una serie di elementi eterogenei, ognuno risolto autonomamente in merito a questioni tipo-morfologiche, viene collocata in un ambito geometrico anche irregolare, e il grande tetto li rende “edificio” generando una sorta di volume virtuale, nel quale gli elementi si inseriscono.

Si noti che questi sono parti staccate di un programma che d’abitudine viene risolto unitariamente: i box di Långbo house sono le stanze di una casa comunemente intesa, i volumi del Music and Conference Center a Lucerna incarnano i dati fun-zionali propri di un articolato complesso a vocazione culturale.

In molti casi si tratta di un risultato dimostrativo: la forma del grande tetto è accidentale (nel caso di Långbo house è de-finita anche dalla posizione degli alberi esistenti, in quello del Reina Sofia è l’impronta del lotto a disposizione).

Quello che conta è il processo, che coinvolge – come av-veniva nella strategia prima descritta – sistemi costruttivi e fasi realizzative: Långbo house vede l’esecuzione preventiva del grande tetto anche come stratagemma per prolungare il cantiere a prescindere dal variare delle condizioni climatiche, dato il carattere episodico dei lavori, enfatizzato dalle varie tecniche di carpenteria adottate per i box, una sorta di cata-logo ragionato dello stato dell’arte della lavorazione del legno per l’edilizia.

Il carattere di urgenza con cui il progetto può nascere con-tribuisce a rendere efficace l’adozione di questa strategia ope-rativa. In molti casi gli edifici o i progetti sono risultato di un concorso (il Music and Conference Center, l’Ampliamento del Museo Reina Sofia, il Museo dell’evoluzione umana a Burgos e il Guggenheim Museum a Tokyo di Jean Nouvel, la Cidade

Jože Plecnik, Case sotto uno stesso tetto, Lubjana 1944

© Jože Plecnik

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das Artes a Rio de Janeiro di Christian de Portzamparc, ecc.). Affrontare separatamente le questioni distributive, strutturali, impiantistiche dei vari oggetti, pensati come mono-funzionali, permette uno sviluppo rapido e affidato a più gruppi di lavoro che procedono in parallelo. L’unità arriva da una messa a pun-to dei caratteri morfologici (una sorta di “aria di famiglia” tra i diversi manufatti) e dalla giustapposizione del grande tetto, in questi casi anche viatico per ottenere un simbolo che renda il progetto riconoscibile.

La strategia viene utilizzata anche per costruire un segno distintivo sul territorio, urbano o meno che sia, utile per ridur-re a unità episodi costruiti analoghi per funzione (residenzia-le, ad esempio) ma formalmente diversi tra loro; si pensi alle Case sotto uno stesso tetto a Lubjana (Jože Plecnik, 1944) o alle Residenze a Duren (Herman Hertzberger, 1993-97). Nel quar-tiere di Duren la grande copertura in forma chiusa genera un segno alla macroscala che contrasta con la parcellizzazione del costruito circostante, benché assolva alle stesse funzioni abitative. Il caso si trova ai limiti della strategia proposta: la copertura del quartiere coincide a tutti gli effetti con quella delle case, disposte secondo sei schiere distinte che racchiu-dono un grande spazio verde trapezoidale e che presentano soluzioni di continuità in corrispondenza dei varchi di acces-so alla corte interna, ma è sostanziale la scelta di interrom-pere dove necessario la cortina edilizia e proseguirne il tetto affidando a esso un carattere identitario.

Progetti come la proposta di concorso per l’ampliamento del LACMA a Los Angeles (OMA/Rem Koolhaas, 2001), l’Eco Centre n. 8 a Ispra (Mario Cucinella, 1994), la California Aca-demy of Sciences a San Francisco (RPBW, 2000-2008) testi-moniano la possibilità di applicare il “grande tetto” come elemento di connessione, anche formale, di una molteplicità di edifici esistenti. Paradossalmente, nel caso del progetto di Renzo Piano, ricostruiti.

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Tetto con oggetti (supercopertura)

La supercopertura ha punti di contatto con la strategia de-gli “oggetti sotto uno stesso tetto”, anche se in questo caso l’involucro che cinge i differenti manufatti è reale, ancorché trasparente, e non virtuale: nel Palais de Justice a Nantes (Jean Nouvel, 1993-2000) gli oggetti sono le aule dibattimentali, l’involucro vetrato delimita l’edificio.

La supercopertura, oltrepassando le mere necessità funzio-nali del manufatto che protegge, tende a caricarsi di signifi-cati altri e diventa strumento per invenzioni legate al tipo. Pur non perdendo il suo carattere sostanziale di elemento di chiu-sura, diventa un ibrido tipologico ospitando nel suo spessore funzioni dispiegate secondo tipi prestabiliti. È possibile rico-noscere, ad esempio, la giustapposizione di un frammento sui generis di tessuto urbano di epoca romana o di carpet-houses in sommità a edifici che assolvono programmi radicalmente differenti (camere di hotel in forma di case a patio nel Con-vention Center-Hotel ad Agadir, uffici nel Palais de Justice a Nantes).

Jean Nouvel, Palais de Justice, Nantes 1993-2000

© Philippe Patingre/Phare Ouest

OMA/Rem Koolhaas, Convention Center/Hotel

(concorso), Agadir 1990© OMA/Rem Koolhaas

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Anche in questo caso, il discrimine è il rapporto tra le parti: involucro ed edificio come elementi indipendenti. L’involucro o già c’è (come nel caso della Vela Laterizi7) o può essere esso stesso parte del processo di progettazione. È evidente che molto cambia, da un punto di vista figurativo, di reciproco posizionamento dell’involucro – che cinge una determinata quantità di vuoto – e degli oggetti che esso contiene (ade-guarsi o no al passo strutturale dell’esistente? Realizzare ex novo strutture indipendenti anche nei partiti geometrici e fisici oppure no?)8.

Involucro esistente + oggetti

La prima è una strategia che, a ben vedere, attraversa mol-ta parte della storia degli edifici. L’altare maggiore della chie-sa fiorentina di Orsanmichele, le celle monastiche al primo piano del convento di San Marco ancora a Firenze (1436), la paradigmatica “Haus-im-Haus” del Museo Tedesco dell’Archi-tettura a Francoforte di Oswald Mathias Ungers (1979-84), ri-sultato del restauro di una villa neoclassica realizzata nel 1912 da Fritz Geldmacher, rappresentano casi compiuti di costru-zione di una “scatola dentro la scatola”.

Possiamo assistere a una riqualificazione puntuale dell’in-volucro storico come nel progetto per il Centro ricerche Thetis a Venezia (Cappai & Mainardis, 1995-97) e per la casa EMV a Vittoria (Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, 1991-99) o a una sua più scabra messa in sicurezza e chiusura superiore con tecnologie tipologicamente compatibili con l’esistente, come avviene nell’Hedmarksmuseet di Hamar (Sverre Fehn, 1975).

Nel caso del SESC (Serviço Social do Comèrcio) Pompeia di San Paolo (Lina Bo Bardi, 1977-82) il manufatto presente in situ, di dignitosa fabbricazione, si trova a ospitare oggetti ed elementi di percorso, “gadget” di diversa natura e scala che solo in parte alludono a edifici contenuti, ma che svolgono magistralmente la funzione di articolazione funzionale e spaziale di ambiti in origine unitari. Questo per tacere della celebre torre delle palestre, la cui invenzione tipologica come risultato di un esercizio di jujitsu architettonico9 (molte su-perfici da destinare allo sport, poco spazio per disporle, la pre-senza di un collettore fognario baricentrico al lotto su cui non poter fondare nulla) ha contribuito a farne il simbolo di tutto il complesso.10

L’involucro

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Involucro di progetto + oggetti

La seconda strategia prevede che la costruzione dell’involucro, che procede significativamente spesso con intenzioni riduzioniste (passi controllati, una certa esattezza d’insieme, la prevalenza dell’an-golo a 90° anche in autori ad altro abitua-ti), avvenga contestualmente alla realizza-zione di ciò che l’involucro contiene, istau-rando con esso un rapporto di reciproca interferenza. L’uno è chiave di lettura dell’altro; l’involucro funziona come siste-ma di riferimento per misurare il contenu-to, alle cui valenze plastiche spesso si affi-da la riuscita dell’operazione. Pensiamo ai casi del Centro congressi all’EUR di Roma (Massimiliano Fuksas, 2000-in corso) dove la cosiddetta “nuvola” acquista significato proprio perché costretta all’interno di un sistema di riferimento tridimensionale esemplificato dalla scatola di vetro e accia-io destinata a contenerla, o al progetto per il DZ Bank Headquarters a Berlino (Frank O. Gehry, 2000) in cui la sala riunioni11 rap-

presenta il monstrum, invisibile dall’esterno, prigioniero di una corte coperta di controllata banalità figurativa.

Tuttavia la strada seguita non è sempre quella di chiudere l’abominio nel labirinto: l’Emscher Park Academy a Herne-Sodingen (Françoise Jourda e Gilles Perraudin, 1991) rappre-senta un paradigma della dicotomia involucro-contenuto com’è qui intesa, destinando al primo una sofisticata teca di legno, vetro e acciaio (che isola in un a-parte deciso il centro dal resto del paesaggio dell’ex bacino carbonifero della Ruhr), e inverando il secondo grazie alla costruzione di una sequen-za di padiglioni autonomi gli uni dagli altri – uno dei quali in forma di tronco di cono – che costituiscono una sorta di citta-della percorsa da vialetti, punteggiata da alberature, specchi d’acqua e pedane di legno.12

Peraltro, volendo verificare l’indifferenza agli aspetti fun-zionali e dimensionali della questione, potremmo interrogar-ci su quale ruolo svolgono gli inner box della Farnsworth Hou-se di Mies Van der Rohe del 1951 o della Dutch House di OMA/Rem Koolhaas del 1990-93.

1. Oswald Mathias Ungers, Museo Tedesco dell’Architettura, Francoforte 1979-84, © Uwe Dettmar

2. Cappai & Mainardis, Centro ricerche Thetis, Venezia 1995-97, © Cappai & Mainardis

3. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Casa EMV, Vittoria 1991-99, © Maria Giuseppina Grasso Cannizzo

4. Lina Bo Bardi, SESC Pompeia, San Paolo 1977-82, © Victortsu

5. Sverre Fehn, Hedmarksmuseet, Hamar 1975, © Cody Pratt

6. Massimiliano Fuksas, Centro congressi all’EUR, Roma 2000-in corso), © Elisa Fuksas

7. Frank O. Gehry, DZ Bank Headquarters, Berlino 2000, © Thomas Mayer

8. Françoise Jourda-Gilles Perraudin, Emscher Park Academy, Herne-Sodingen 1991, © Engelbert Wührl

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Involucro di progetto modellato + oggetti

Che l’ibridazione sia una chiave di lettura allettante per la definizione delle strategie operative, che ci impedisce di ca-talogare ma ci permette di trovare i punti di contatto tra ri-ferimenti distanti13, è in parte testimoniato da progetti come le già citate proposte di concorso di Jean Nouvel per il Museo dell’evoluzione umana di Burgos (2000) e per il Guggenheim Museum di Tokyo (2001). In questi casi si assiste alla defini-zione di un involucro non più come contenitore indifferente (si pensi al Sainsbury Centre for Visual Arts a Norwich, 1974-78, di Norman Foster) ma come mantello piegato in forma di topografia fantastica (archiscape) a generare una porzione di paesaggio adeguatamente surrealista (la collina boscosa nel-la baia di Tokyo, o l’evocazione dell’orografia della Sierra de Atapuerca che custodisce le pitture rupestri nelle sue viscere da mezzo milione di anni, ricollocata nel centro di Burgos). Sotto questi mantelli sottili come la carta-roccia dell’arte presepiale, si dispiega un panorama rassicurante e moder-no, ineccepibile in quanto costruzione tridimensionale di un programma funzionale, costituito da edifici in cui vivere, per dirla à la Buckminster Fuller via Stephen King, come ospiti «under the Dome»14.

Se si ritorna all’inizio di questo scritto, risulterà forse chia-ro come infine molto si riduca a questo: la reciprocità del pat-to di ospitalità è all’origine del doppio significato della parola italiana “ospite”; le leggi che governano quel patto, e delle quali qui si è tentata una messa in pagina, rappresentano per chi scrive la giusta misura che pone in relazione i diversi og-getti architettonici – ospitanti, ospitati – e che li rende distinti e inscindibili.

Norman Foster, Sainsbury Centre for Visual Arts,

Norwich 1974-78© Foster and Partners

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1. A Corte Franca e altrove.2. Cfr. Elements of Architecture, l’esposizione curata da Rem Koolhaas, AMO, Federico Martelli, James Westcott, Stephan

Petermann e Janna Bystrykh all’interno della Biennale di Architettura 2014 (Fundamentals) e il saggio Material Fetish in AMO/OMA/R. Koolhaas, Contents, Taschen, Köln 2004, pp. 52-57.

3. Le strategie per descrivere il Convention Center-Hotel di OMA/Rem Koolhaas ad Agadir risulterebbero essere: “superco-pertura” + “archiscape” + “organico vs cartesiano”.

4. Si pensi alla capacità analitica e all’abilità sintetica di MVRDV nel descrivere i processi di costruzione delle parti di città in divenire o di Lot-Ek nel narrare per fasi consequenziali le modificazioni cui vengono sottoposti i volumi puri costitutivi il progetto.

5. Si parla correntemente di programmi, spesso nati in altri ambiti disciplinari, per la “modellazione” dei solidi, utilizzando un termine che appartiene più alle arti plastiche che all’architettura. Il che porta a generare cortocircuiti interessanti (a puro titolo di esempio: Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni del 1913 e il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry del 1997).

6. Cfr. anche il workshop didattico compiuto nel 2011 a Wakathuni, nella regione australiana del Pilbara, dagli studenti del Master in Architettura dell’Università di Melbourne sotto la direzione di David O’Brien (Bower Studio), che ha avuto come risultato la costruzione del 0-5 Early Learning Centre.

7. Ma anche il “grande tetto”, in parte, già c’è.8. Che questa classificazione sia suscettibile di ulteriori affinamenti lo testimoniano progetti come quello per il Pirelli RE

Headquarters, di Milano-Bicocca (Gregotti Associati International , 2001-2004), dove il manufatto esistente diventa l’o-spite di un involucro nuovo, che a sua volta assume forma di edificio funzionalmente compiuto.

9. Pratica progettuale il cui nome deriva da ju (o jiu secondo una traslitterazione più antica: “flessibile”, “cedevole”, “morbi-do”) e jutsu (“arte”, “tecnica”, “pratica”) che consiste nel fare leva sui vincoli al contorno, dai quali ottenere la forza di cui il progetto necessita.

10. Le Corderie dell’Arsenale di Venezia, nel corso delle varie edizioni delle Biennali di Arti figurative e di Architettura, hanno accolto ospiti di differenti nature e ambizioni. Nella Strada Novissima (Biennale di Architettura, Venezia 1980) la parata di fronti edificati affidati ad autori diversi, rappresenta altrettante variazioni sul tema della coesistenza tra ciò che pre-esiste e ciò che irrompe (Hans Hollein), o entra in punta di piedi (OMA/Rem Koolhaas), a ricostruire il significato degli spazi storici.

11. Si tratta della nota “testa di cavallo”, proveniente in qualità di objet trouvé autoreferenziale dal progetto per il Lewis Resi-dence a Lyndhurst, Ohio, del 1995, che l’architetto canadese ha elaborato in sodalizio con Philip Johnson.

12. Ai confini di questa strategia si pone l’intervento di Herzog & De Meuron del 1995-2000 per la Tate Modern, nella quale la Turbine Hall, svuotata degli elementi tecnici dai quali traeva senso e misura e trasfigurata in un invaso “contempora-neo” e disponibile, ospita oggetti come il Marsyas di Anish Kapoor del 2002 (grande quanto lo permette lo spazio che lo contiene), progettato e costruito come un manufatto indipendente al pari di un dirigibile Zeppelin in un hangar.

13. «Mentre il fine della classificazione è descrivere i lineamenti differenziali e stabilire una catalogazione del diverso, la conoscenza tipologica tende a stabilire nessi all’interno di quanto apparentemente è dissimile, creando concatenamenti e provocando risonanze tra oggetti di specie diverse. Per questo suo aspetto, conviene assimilare l’analisi tipologica più all’etimologia che alla classificazione». C. Martí Arís, Le variazioni dell’identità, CittàStudi Edizioni, Milano 1994, pp. 48-49.

14. Ma cfr. il progetto non realizzato di MVRDV per il Serpentine Gallery Pavilion di Londra del 2004, che propone una radi-cale variazione sul tema.

Note