"Storia militante": per una nuova Teoria della Conservazione e del Restauro architettonico e...

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ARCHITETTURA E ARTE DEL PRINCIPATO MEDICEO € 75,00 Architettura e Arte del Principato mediceo a cura di Ferruccio Canali Vasari, gli Uffizi e Michelangelo: dall’ ‘invenzione’ del Rinascimento al mito di Firenze La Società di Studi Fiorentini ha inteso ricordare con questi due “Bollettini SSF” – il n.22 e il n.23, riuniti sotto un unico titolo “Architettura e Arte del Principato mediceo [1512- 1737]. Vasari, gli Uffizi e Michelangelo: dall’’invenzione’ del Rinascimento al mito di Firenze– la ricorrenza dei 500 anni dalla nascita di Giorgio Vasari (1511-2011) e i 450 anni dalla morte di Michelangelo Buonarroti (1564-2014), due Artisti e Architetti sommi che hanno contribuito, attraverso il Genio (Michelangelo) e la Norma (la sistematizzazione vasariana), alla Cultura dell’Umanità, con lasciti che sono poi rimasti fermenti vitali per le epoche successive e nei contesti più vari. Da una parte il ‘racconto’ delle “Vite” vasariane, quale fonte primaria per la nascita della moderna Storia dell’Arte e l’impianto della Galleria degli Uffizi, quale concretizzazione somma, nei secoli successivi, di quel racconto; dall’altra la Bellezza e l’Armonia raggiunte dalle forme michelangiolesche, sono divenute acquisizioni che hanno interessato generazioni di Uomini, che si sono avvicinati all’Arte e alla Cultura del Principato mediceo, specie nella sua ‘stagione dell’Oro’ cinquecentesca, cercandone modelli e suggestioni ritenute sempre spendibili nella Contemporaneità. Una stagione che ha dunque raggiunto vertici sommi, sia di produzione teorica sia artistica, e che ha costituito un vero e proprio “Indimenticabile Antico” per tutta l’Umanità. Timed to coincide with the 500th anniversary of the birth of Giorgio Vasari (1511-2011) and the 450th anniversary of the death of Michelangelo Buonarroti (1564-2014), issues n.22 and n.23 of the SSF Bulletins have been united under the singular title of “Architecture and Art of the Medici Principality (1512-1737): Vasari, the Uffizi and Michelangelo From the invention of the Renaissance to the myth of Florence”. Within these issues the Society of Florentine Studies wishes to remember these two master artist-cum-architects who, through the genius of Michelangelo and the systemisation of Vasari contributed to the heritage of Humanity, leaving a legacy which proved vital to the fermentation of future generations in numerous different contexts. Through the “Lives of the Artists”, a primary source of the birth of modern Art History, and the systemisation of the Uffizi Gallery, Vasari left a legacy, both written and systematic, which was to be cemented over the following centuries. Michelangelo, on the other hand, gifted the world with the beauty and harmony achieved through his forms. These legacies affected generations of men who, in a quest to find models or examples for the contemporary world, looked to the art and culture of the Medici principality, especially in its “Golden Age”. It was an age that reached the highest apex both in theoretical and artistic terms, and that created a truly “Unforgettable Ancientness” for all mankind. 2013 22 2014 23 2013 22 2014 23 BOLLETTINO DELLA SOC Bulgarini BOLLETTINO SSF SOCIETÀ DI STUDI FIORENTINI IETÀ DI STUDI FIORENTINI

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a cura di Ferruccio canali

Vasari, gli Uffizi e Michelangelo: dall’ ‘invenzione’ del Rinascimento

al mito di Firenze

La Società di Studi Fiorentini ha inteso ricordare con questi due “Bollettini SSF” – il n.22 e il n.23, riuniti sotto un unico titolo “Architettura e Arte del Principato mediceo [1512-1737]. Vasari, gli Uffizi e Michelangelo: dall’’invenzione’ del Rinascimento al mito di Firenze” – la ricorrenza dei 500 anni dalla nascita di Giorgio Vasari (1511-2011) e i 450 anni dalla morte di Michelangelo Buonarroti (1564-2014), due Artisti e Architetti sommi che hanno contribuito, attraverso il Genio (Michelangelo) e la Norma (la sistematizzazione vasariana), alla Cultura dell’Umanità, con lasciti che sono poi rimasti fermenti vitali per le epoche successive e nei contesti più vari. Da una parte il ‘racconto’ delle “Vite” vasariane, quale fonte primaria per la nascita della moderna Storia dell’Arte e l’impianto della Galleria degli Uffizi, quale concretizzazione somma, nei secoli successivi, di quel racconto; dall’altra la Bellezza e l’Armonia raggiunte dalle forme michelangiolesche, sono divenute acquisizioni che hanno interessato generazioni di Uomini, che si sono avvicinati all’Arte e alla Cultura del Principato mediceo, specie nella sua ‘stagione dell’Oro’ cinquecentesca, cercandone modelli e suggestioni ritenute sempre spendibili nella Contemporaneità. Una stagione che ha dunque raggiunto vertici sommi, sia di produzione teorica sia artistica, e che ha costituito un vero e proprio “Indimenticabile Antico” per tutta l’Umanità.

Timed to coincide with the 500th anniversary of the birth of Giorgio Vasari (1511-2011) and the 450th anniversary of the death of Michelangelo Buonarroti (1564-2014), issues n.22 and n.23 of the SSF Bulletins have been united under the singular title of “Architecture and Art of the Medici Principality (1512-1737): Vasari, the Uffizi and Michelangelo From the invention of the Renaissance to the myth of Florence”. Within these issues the Society of Florentine Studies wishes to remember these two master artist-cum-architects who, through the genius of Michelangelo and the systemisation of Vasari contributed to the heritage of Humanity, leaving a legacy which proved vital to the fermentation of future generations in numerous different contexts. Through the “Lives of the Artists”, a primary source of the birth of modern Art History, and the systemisation of the Uffizi Gallery, Vasari left a legacy, both written and systematic, which was to be cemented over the following centuries. Michelangelo, on the other hand, gifted the world with the beauty and harmony achieved through his forms. These legacies affected generations of men who, in a quest to find models or examples for the contemporary world, looked to the art and culture of the Medici principality, especially in its “Golden Age”. It was an age that reached the highest apex both in theoretical and artistic terms, and that created a truly “Unforgettable Ancientness” for all mankind.

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SocietÀ Di StuDi Fiorentinianno 2013-2014

La Società di Studi Fiorentini è una Associazione culturale, che si prefigge la promozione, con spirito scientifico, di studi di argomento fiorentino, favorendo la conoscenza della illu-stre civiltà fiorentina presente anche in altre realtà geografiche. L’Associazione promuove cicli di conferenze, dibattiti, convegni i cui esiti confluiscono nella pubblicazione di scritti e saggi raccolti in collane di studi («BSSF - Bollettino della Società di Studi Fiorentini» e «Letture»). La Società si rivolge pertanto a tutti coloro che, avendo a cuore i molteplici aspetti della ‘Fiorentinità’, siano interessati, associandosi ad essa, a seguire il progresso degli studi o a inviare i loro personali contributi scientifici.

The Società di Studi Fiorentini (Florentine Studies Society)) is a cultural Association that promotes scholarly studies concerning Florentine topics, which aim at giving greater insight to the illustrious Florentine civilisation and of its presence in other geographical areas. The Association promotes conferente cycles, debates, meetings and publishes all papers and essays delivered in a studies series («BSSF - Bollettino della Società di Studi Fiorentini» and «Let-ture»). The Society, therefore, addresses to all those who, taking to heart the multiple aspects of ‘Florentinism’ (Fiorentinità), are interested in becoming a member in order to follow the studies progress; or to those who wish to submit and share their own personal scientific con-tributions.

Società di Studi Fiorentinie.mai: [email protected] <http://www.societastudifiorentini.it> Facebook: societastudifiorentini ovvero societastudifiorentini

Per associarsiAssociazione Studi FiorentiniVia del Pino, 3 - 50137 FirenzeConto Corrente Postale: 14048508IBAN: IT25 D076 0102 8000 0001 4048 508

L’adesione dà diritto al Socio: di ricevere il numero dell’anno relativo del «Bollettino della Società di Studi Fiorentini»; di partecipare alle iniziative societarie; di collaborare alle pubblicazioni, previa accettazione dei saggi da parte della Redazione del «Bollettino» sulla base della programmazione editoriale. L’ammontare dell’associazione è stabilito di anno in anno. Per Enti, Biblioteche, Musei, etc., tale quota è sempre assimilata a quella prevista per i Soci Sostenitori.

Quote per gli anni 2013 e 2014Socio Sostenitore (e per Soci eletti nelle diverse cariche sociali): € 80.00Socio Ordinario € 40.00

Presidente

Virgilio Carmine Galati

economo

Ferruccio Canali

consiglio direttivo

Soci fondatoriFerruccio CanaliGiorgio CaselliCarlo FranciniVirgilio Carmine GalatiFrancesco Quinterio ( )

Soci designatiValerio Cantafio CasamaggiGiovanna De LorenziOlimpia NiglioCarlo PicchiettiAlessandro Uras

anno 2013 vicePresidente

Valerio Cantafio Casamaggi

direttore scientifico

Ferruccio Canali

collegio dei Probiviri

Giorgio Zuliani (Presidente)Enrica MaggianiGabriele Morolli

collegio dei revisori dei conti

Paola Pesci (Presidente)Bombina Anna GodinoAntonella Valentini

Presidente

Virgilio Carmine Galati

economo

Ferruccio Canali

consiglio direttivo

Soci fondatoriFerruccio CanaliGiorgio CaselliCarlo FranciniVirgilio Carmine GalatiFrancesco Quinterio ( )

Soci elettiGiuseppe ContiGiovanna De LorenziCarlo PicchiettiStefano PaganoAlessandro Uras

vicePresidente

Alessandro Uras

direttore scientifico

Ferruccio Canali

collegio dei Probiviri

Giorgio Zuliani (Presidente)Enrica MaggianiOlimpia Niglio

collegio dei revisori dei conti

Paola Pesci (Presidente)Bombina Anna GodinoAssunta Mingrone

anno 2014

ARCHITETTURA E ARTE DEL PRINCIPATO MEDICEO (1512-1737)

FIRENZE E LA TOSCANA, VASARI E GLI UFFIZI

a cura di Ferruccio Canali

ANNO 2013 NUMERO 22

BOLLETTINO SSFDELLA SOCIETÀ DI STUDI FIORENTINI

Collana di studi storici

per i 500 anni dalla nascita di Giorgio Vasari (1511-2011)

e del “Principato mediceo” (1512-2012)

studi in memoria di Gabriele morolli

«BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DI STUDI FIORENTINI»

comitato di lettura e di redazioneferruccio canali, valerio cantafio casamaggi, virgilio carmine galati, stefano pagano, francesco quinterio ( ), alessandro uras direttore scientifico: ferruccio canali soci corrispondentimaria beatrice bettazzi (emilia), vittoria capresi (il cairo-egitto), tommaso carrafiello (napoli-campania), bombina anna godino (calabria), enrica maggiani (liguria), olimpia niglio (kyoto-giappone), valentina orioli (romagna), massimiliano savorra (molise), leonardo scoma (sicilia), simona talenti (salerno-campania), karin templin (inghilterra), maria antonietta uras (sardegna), vincenzo vandelli (emilia), giorgio zuliani (trieste e istria)

comitato scientifico italianoferruccio canali (università di firenze), giuseppe conti (università di firenze), giovanna de lorenzi (università di firenze), virgilio carmine galati (università di firenze), valentina orioli (università di bologna), massimiliano savorra (università del molise), simona talenti (università di salerno), ulisse tramonti (università di firenze), stefano zagnoni (università di ferrara)

comitato scientifico internazionalevittoria capresi (università germanica al cairo – egitto), romeo carabelli (università di tours – francia), roberto goycoolea prado (università alcalà di madrid - spagna), adriano marinazzo (muscarellle museum of art - va,usa) olimpia niglio (università di kyoto-giappone), david rifkind (università di miami-usa), karin templin (school of architecture and landscape, kingston university, londra) Proprietà letteraria e artistica: divieto di riproduzione e di traduzioni. La Direzione della Collana Editoriale, i Membri dei Comitati Scientifici e l’Editore non si assumono responsabilità per le opinioni espresse dagli Autori, né per la corresponsione di eventuali Diritti di Riproduzione gravanti sulle singole immagini pubblicate (i costi di tali eventuali Diritti d’Autore ricadranno infatti unicamente sull’Autore/i del saggio/i liberando sia la Direzione editoriale sia l’Editore di ogni eventuale obbligo al proposito); tale liberatoria resta comunque valida unicamente per l’edizione del contributo scientifico cui tali immagini sono connesse. È la Redazione che si prende cura della correzione delle bozze, per cui i testi consegnati dagli Autori vengono considerati definitivi. L’invio di contributi per la pubblicazione non implica né l’edizione degli stessi (per ogni contributo una “Valutazione di accettazione” verrà espresso dalla Direzione o dal Curatore/i che possono consigliare o ritenere indispensabili integrazioni o puntualizzazioni sia scientifiche sia bibliografiche sia redazionali da parte degli Autori, tanto da poter eventualmente esprimere anche parere negativo alla pubblicazione del materiale inviato); né una loro edizione immediata (i tempi verranno infatti stabiliti di volta in volta sulla base delle priorità o delle esigenze editoriali indicate dalla Direzione o dal Curatore/i, in relazione alla preparazione di numeri monografici). I materiali grafici e fotografici inviati, oltre che i testi, verranno comunque soggetti, sia come dimensione di pubblicazione sia come numero, al progetto editoriale approntato. Non si restituiscono i dattiloscritti, né le immagini, né i disegni pubblicati o non; il materiale inviato viaggia a rischio del mittente. La pubblicazione di foto, disegni e scritti da parte degli Autori implica la loro totale rinuncia alla corresponsione di ogni compenso di Diritto d’Autore o di rimborso spese sia da parte della Direzione sia da parte dell’Editore, trattandosi di pubblicazione scientifica e senza fini di lucro. Al momento dell’edizione le presenti condizioni si considerano accettate, anche tacitamente, da parte degli Autori a partire dalla consegna dei testi per la stampa (che da parte degli Autori è quella di inoltro alla Direzione al Curatore/i).

referee - peer reviewI contributi scientifici inviati vengono valutati, per conto della Direzione e del Curatore, ai fini della procedura di peer review, da un Lettore interno, membro della Redazione, e da un secondo Lettore, individuato come Esperto (adottando la procedura di clear peer review, con indicazione, in ogni saggio, dei due Lettori). Segue poi un la valutazione finale da parte di un Lettore anonimo (blind peer review).

ARCHITETTURA E ARTE DEL PRINCIPATO MEDICEO (1512-1737)FIRENZE E LA TOSCANA, VASARI E GLI UFFIZI«Bollettino SSF» », 22, 2013ideazione e cura scientifica di Ferruccio Canaliprogetto e cura grafica: sbaf – firenze (Ferruccio Canali e Virgilio Carmine Galati)revisione editoriale: Maria Natalina Brigliadorirevisioni e traduzioni in inglese: Karin Templin

copertina, logo e fascetta grafica: Virgilio Carmine GalatiI disegni presenti in questo volume sono di Ferruccio Canali (pp. 10, 446); Virgilio C. Galati (pp.8, 226, 364, 412, 464)

Il «Bollettino» è stato registrato presso il Tribunale di Firenze al n.4777 del 2 marzo 1998 fino all’anno 2002. Poi è stato trasformato in “Collana editoriale” non potendo garantire regolari uscite periodiche. Il «Bollettino» è registrato nel sistema U-GOV (sistema per la governance degli Atenei universitari italiani del “Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica”) con codice: ISSN 1129-2800. Il “Bollettino” è compreso nella “Lista delle Riviste Scientifiche” dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca della Repubblica Italiana) aggiornata al 10 febbraio 2014. Finito di stampare nel Novembre 2014 da Litografia I.P., Via Giovanni Boccaccio 26 rosso, 50133 Firenze

ISSN 1129-8200 - ISBN 978-88-89999-84-4

Copyright 2014 by emmebi edizioni firenze-Proprietà letteraria riservata

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Le categorie storiografico-critiche della “Leggibilità” di un Monumento e del “Completamento/Costruzione ‘in differita’ di una fabbrica storica o di un edificio contemporaneo hanno inaspettatamente riacquisito, negli ultimissimi tempi, una importanza che si riteneva invece ormai superata, poiché quelle categorie stesse risultavano, nella Cultura attuale, in gran parte eliminate o comunque destituite di validità e di utilità (anche se, in alcuni casi, si invocava la “Leggibilità” a motivazione di alcune scelte restaurative dirompenti e in genere assai discusse). Gli ultimissimi tempi hanno invece ripresentato la possibile vitalità di quelle categorie, dimostrando, se non altro, non solo come il variare della situazione politica e culturale richieda un continuo rinnovamento anche degli approcci, ma anche come la Scienza debba saper attingere ‘laicamente’ al proprio ‘repertorio’ di ‘strumenti concettuali’, reimpiegandone, semmai, gli aspetti più ‘utili’ e ‘controllabili’ e, sulla base degli errori fatti in passato, evitandone piuttosto le derive.

COMPLETARE E COSTRUIRE ‘IN DIFFERITA’. LA TERMINAZIONE PIÙ O MENO VIRTUALE DELLA FACCIATA DELLA BASILICA DI SAN LORENZO (DIVULGAZIONE MEDIATICA E/O NUOVE ASPETTATIVE PER IL RESTAURO DEI MONUMENTI?) E LA COSTRUZIONE DEL NUOVO PALAZZO DI GIUSTIZIA

La stagione culturale e architettonica della seconda metà dell’Ottocento viene in gran parte ricordata dalla Storiografia fiorentina ma anche dalla Pubblica Opinione, oltre che per il brevissimo episodio di “Firenze capitale”, soprattutto per l’intensa attività che ha visto realizzarsi nel corso di pochi decenni, la chiusura delle annose questioni, aperte da oltre cinque secoli e mezzo, della costruzione delle facciate delle due principali basiliche cittadine, progettate alla fine del Duecento da Arnolfo di Cambio: il duomo di Santa Maria del Fiore e Santa Croce (mentre Santa Maria Novella aveva avuto una propria fronte monumentale nel Quattrocento su disegno di Leon Battista Alberti). La vicenda di quei completamenti, consumatasi tra aspre polemiche, accelerazioni, rinvii e decisioni finali – sulla base di ‘antichi’ disegni ritrovati poi perduti o di una sensibilità comunque ‘continuista’ con l’antico linguaggio medievale – ha lasciato un profondo strascico non solo nella Cultura cittadina, ma anche in quella nazionale, poiché dopo l’Unità (anche se i dibattiti erano già iniziati in Toscana in Età lorenese), l’idea di una Firenze fulcro dell’Identità italiana aveva bisogno di ‘luoghi’ tangibili e di forti monumenti visivi (prima perché Roma non era ancora Capitale, poi perché la

Lingua italiana era comunque quella fiorentina e così la prima Letteratura). Insieme alla ‘sistemazione’ dell’antico centro con il ‘ritracciamento’ dell’originaria scacchiera’ romana, si era venuto a creare, così, quell’ambiente finito, chiuso, completo che, ancora oggi in piazza del Duomo e in piazza Santa Croce, non solo riempie di suggestione i milioni di turisti che annualmente transitano in città, ma che impressiona per la sua bellezza anche chi vi abita da tempo o che vi è nato. Un idea di Bellezza che si era quindi diffuso per la Toscana e che aveva visto numerose iniziative analoghe: come nel caso del concorso per il completamento della facciata del Duomo (1895-1896) e della realizzazione della fronte del santuario di Santa Margherita (1896) ad Arezzo; la terminazione del prospetto della Cattedrale di Pescia (1895 su progetto di Giuseppe Castellucci; nel 1899 l’opera era giunta quasi a metà, ma fu poi completata, con l’esecuzione del portale, solo nel 1933); ancora, la terminazione della Concattedrale di Pontremoli (in stile neorinascimentale, del 1926). Per non parlare dell’annoso e assai controverso precedente completamento del Duomo di Milano, che si era protratto per tutto l’Ottocento fino agli anni Novanta.Per lunghi decenni quegli interventi sono stati criticamente bilicati tra la categoria del ‘Falso storico’ e quella del ‘Completamento’, in una sorta di imbarazzo che se da una parte lasciava perplessi, dall’altro però metteva in tutta evidenza l’efficacia del risultato. A devoti, visitatori, turisti, in definitiva, importava poco della ‘Filologia’ e dei dibattiti sul “falso storico” ...

La Cultura novecentesca del Restauro. Ovvero della complessa categoria del «Completamento (in stile)»/«Rinnovamento» e del «Restauro turistico»

Sulla natura di quegli interventi e la categoria del «Completamento» la confusione non manca ancora oggi sia a livello lessicale, sia concettuale (del resto, «nomina sunt consequentia rerum»). Anche se si rianalizza la posizione di Gustavo Giovannoni, sicuramente il più lucido sistematizzatore della Teoria del Restauro scientifico della prima metà del XX secolo, le differenze non erano troppo chiare (neppure per lui!) e i distinguo spesso complessi. Nel 1903 (G. Giovannoni, I Restauri dei Monumenti ed il recente Congresso Storico, «Bollettino della Società degli Ingegneri e degli Architetti Italiani», 1903), dopo aver partecipato ai lavori e ascoltate le deliberazioni dell’ordine del giorno della IV Sezione (Archeologia e Belle Arti) del “Congresso Storico” tenutosi a Roma (in Atti, Roma, aprile 1903) il Teorico annotava come «i ‘Restauri di completamento’ sono quelli in cui niun elemento nuovo si aggiunge all’opera d’arte (es. arco di Tito del Valadier; Santo Stefano e San

RIFLESSIONI SULLE CATEGORIE STORIOGRAFICO-CRITICHE DI “LEGGIBILITà” E COMPLETAMENTO/COSTRUZIONE ‘IN DIFFERITA’

di Ferruccio Canali

RIFLESSIONI E DIBATTITI 433

Francesco di Bologna; Palazzo Ducale di Venezia)» mentre «Restauri di rinnovamento si presentano quando si debba terminare un’opera di cui manchi interamente una parte essenziale o si debba adattare la costruzione a mutate condizioni di viabilità e di ambiente artistico (es. Santa Maria del Fiore e Santa Croce in Firenze; palazzo della Farnesina in Roma)» (p. 281, n.32). Dunque, quelli fiorentini, sarebbero stati non restauri di «Completamento», ma «Restauri di rinnovamento», motivati dal fatto che quei Monumenti meritavano un «rispetto che si debba e si possa intervenire con rinnovamenti tali che li aiutino a non ‘rimanere monchi’, illuminato della Storia dell’Arte; rispetto che mal si converte in un semplice feticismo cieco per tutte le vicende del passato». Una posizione estremamente articolata quella di Giovannoni – e, del resto, così non poteva non essere vista la difficoltà del problema – che peraltro riprendeva anche la posizione di Camillo Boito per la facciata del Duomo di Milano: («l’unità e l’armonia dell’opera d’arte è stata una costante del suo pensiero»), poiché per difendere «i grandi periodi dell’arte e della cultura» in quei casi «dove si ha un organismo vivo e completo, il restauro che ne restituisca l’armonia è non pure opportuno, ma doveroso» per considerazioni di natura urbanistica e ambientale, anche se «il concetto di restauro come ricostruzione, riproposta o altro, resta assolutamente da abolire» (p. 282). Passati pochi anni dopo, però, nel 1913 – nel frattempo c’era stato il naufragio del concorso per la facciata della basilica di San Lorenzo a Firenze, analogo intervento di «completamento»/«rinnovamento» - il clima culturale sembrava cambiato; e con esso anche la riflessione teorica. Il caso dell ricostruzione ‘com’era/dov’era’ del campanile di San Marco a Venezia aveva ‘fatto scuola’, ma si trattava di un unicum che non aveva nulla a che fare con i completamenti. Giovannoni prontamente registrava gli effetti del nuovo clima nei confronti del ‘Completamento’, questa volta da un pulpito assai autorevole, il ministeriale «Bollettino d’Arte», diretto da Corrado Ricci (G.Giovannoni, Restauri dei monumenti, «Bollettino d’Arte» del M.P.I., 1913, 2, pp.1- 42). Emergeva ora con chiarezza, un più limitato, anche se sentito, senso della necessità del ripristino, ma con doverose attenzioni al completamento: « 4) il completamento e ripristino ... sono molto pericolosi e da valutare ‘caso per caso’». Una pericolosità dovuta, secondo Giovannoni, in primo luogo, all’assoluta impreparazione degli Architetti e, poi, perché si poteva rischiare di avere come risultato una contraffazione dell’Autenticità e della natura stessa del Monumento. Nonostante ciò i «completamenti» restavano necessari secondo l’Autore che, a sostegno della propria affermazione, ricordava i restauri ‘di Leggibilità’ che sull’Acropoli di Atene andava compiendo Nikolas Balanos (appunto per ottenere una Leggibilità più chiara delle linee architettoniche e delle proporzioni). Però il «completamento» non deve mai avvenire, né come «ricostruzione in stile, né con gli eccessi del nuovo», perché con quei «restauri d’innovazione» in cui vengono ricostruite pulite, colorate e rinnovate intere parti «essenziali ed organiche», si ottengono ‘nuovi monumenti’ «imbiancati e dall’aspetto rigido

e regolare»; mentre «gli Studiosi di Storia dell’Arte invitavano i restauratori a non togliere né aggiungere niente ai Monumenti stessi». Impossibile, sull’altro versante, un dialogo tra Antico e Nuovo – aspetto verso il quale, negli anni, Giovannoni si mostrava inizialmente possibilista, per poi giungere, alla fine degli anni Trenta, ad una ‘totale chiusura’, viste le esperienze compiute – fino a che, tra distinguo, attenzioni, rifiuti e/o timide aperture, sui concetti di «Completamento» e «Rinnovamento» veniva definitivamente posta una pietra tombale con le “Istruzioni del Ministero della Pubblica” del 1938 («3. Nel restauro del Monumenti ... è tassativamente da escludersi ogni opera di completamento o ripristino» e «per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza delle coscienze artistica attuale è assolutamente proibita ... la costruzione di edifici in stili ‘antichi’, rappresentando essi una doppia falsificazione nei riguardi dell’antica e della recente Storia dell’Arte»; e ciò, ancora di più, si estendeva a singole parti di quegli edifici stessi). Vi erano stati nuovi casi e tentativi in quegli anni di completamenti di facciate (Arezzo, Massa, Pontremoli, San Petronio a Bologna), ma nessuna Soprintendenza dava ormai più il proprio assenso al ‘completamento’ di un’antica facciata o di un antico edificio. Del resto, negli anni Trenta c’era stato il caso emblematico della ennesima, mancata esecuzione del Concorso per il completamento della facciata di San Petronio a Bologna: dopo coinvolgimenti importanti, come quello a suo tempo di Andrea Palladio, una nuova iniziativa aveva preso avvio già nel 1887 – dopo che il problema era stato imposto, con un Concorso Artistico Internazionale, dalla Commissione Permanente di Belle Arti del Ministero della Pubblica istruzione – e si era costituito un “Comitato Esecutivo dell’Opera della facciata di San Petronio”, ma fortissime si erano poste in quell’occasione le resistenze della cittadina Deputazione di Storia Patria, che attraverso le parole del suo Presidente, Giosuè Carducci, rendeva noto come fosse «opportuno e lecito lasciare l’insigne monumento nello stato suo presente che risulta dalle vicende della storia, del pensiero e dell’arte italiana». Al contrario di quanto era avvenuto nei notissimi casi di Firenze e del Duomo di Milano, la Cultura cittadina si era fortemente divisa tra “antimassonici” cattolici (la Gilda di Alfonso Rubbini favorevole al completamento) e gli “anticlericali” laici capeggiati da Carducci, che trovavano in Corrado Ricci la propria principale ‘sponda’ scientifica (e potevano contare anche sull’appoggio ‘esterno’ di Giuseppe Sacconi). Al momento, dunque, di quel completamento non se ne faceva nulla – con grande disappunto di Rubbiani - ma nel febbraio del 1933 usciva il Bando di Concorso “per il disegno della facciata della chiesa di San Petronio”, cui partecipavano, tra gli altri, Guido Cirilli, Duilio Torres, Domenico Sandri (cfr. anche: Il concorso per San Petronio di Bologna e le tre ipotesi dell’architetto Piacentini, «Il Giornale d’Italia», 2 febbraio 1933. E quindi: La questione del San Petronio. Né compiere né rifare l’antica facciata della chiesa, ivi, 8 febbraio 1933, p.3): le proposte venivano rese note nel gennaio del 1935, ma poi l’iniziativa si arenava definitivamente (come ha

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ricordato Mario Fanti nel 1976).Con un inaspettato ‘colpo di coda’, il «Restauro di necessità» dovuto alle distruzioni belliche della Seconda Guerra Mondiale veniva a rinverdire la categoria del «Ripristino» delle situazioni originarie (pur con qualche caso di completamento protrattosi anche nei decenni successivi); ma, dopo la necessità post-bellica (la ricostruzione del fiorentino ponte a Santa Trinita non aveva nulla a che fare con il Completamento), con la ripresa della ‘normalizzazione’, la (ri)-costruzione di facciate monumentali incompiute risultava ormai un tema sul quale non tornare, visto che anche la “Carta del Restauro di Venezia” del 1964 ribadiva che «qualsiasi lavoro di completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e teoriche, deve distinguersi dalla progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca ... l’unità stilistica non è lo scopo di un restauro». Un categoria d’intervento restaurativo – quella del «Completamento» di edifici incompiuti - ormai allusa solo per brevi e sporadici cenni, come quelli di Cesare Brandi che in riferimento all’antico completamento del duomo di Orvieto, da mettere in parallelo a certe proposte attuali per quello di Siena, esprimeva il principio generale che «certamente fu un’iniziativa pia, quella di completare la facciata rimasta incompleta, ma, per essere pia, non fu meno sbagliata; e se tutte le volte che si vuol fare un’opera pia, la si facesse con le opere verso chi umanamente ne ha bisogno, invece che verso le Opere del Duomo, l’intenzione frutterebbe lo stesso il Paradiso e non guasterebbe monumenti venerandi che, così come il tempo ce l’ha trasmessi, abbiamo il dovere di conservare e di trasmettere intatti al futuro» (Cesare Brandi, Il Duomo di Siena non ha bisogno di aggiunte, «Corriere della Sera», 18 maggio 1964). Nulla a che vedere con il Restauro, invece, in quelle prassi ottocentesche, anche fiorentine, non poi del tutto negative, che per Brandi figuravano come «ibridazioni e non dei falsi veri e propri ... o riproduzioni a freddo, che intendono attecchire su un vecchio ceppo e riattivarlo e svilupparlo in modi assolutamente analoghi, seppur inediti e peregrini» (p.238) ma mai da adottare sui Monumenti, come egli aveva sottolineato nel 1945 nel suo dialogo “Eliante o dell’Architettura” (ora riedito con Prefazione di Paolo d’Angelo, Roma, 1992, p.238). Nel 1957 toccava a Carlo Ceschi puntualizzare come nell’Ottocento fosse stata «Firenze a dare il via ai completamenti in stile con l’esecuzione di nuove facciate a due delle più celebri chiese d’Italia, Santa Croce e Santa Maria del Fiore ... seppur a Santa Croce il disegno nitido e tagliente rivela l’accademica invenzione e la meccanica lavorazione ... mentre a Santa Maria del Fiore, dove la facciata intonacata del Seicento, agli uomini dell’Ottocento doveva risultare in stridente contrasto con la magnifica architettura arnolfiana, col vicino campanile di Giotto e l’antistante Battistero, il ripristino dell’unità stilistica si imponeva anche attraverso l’arbitrio e il falso architettonico; e così ora è proprio la facciata la parte più ammirata dalle sprovvedute comitive dei turisti» (Carlo Ceschi, Teoria e Storia del Restauro, 1957 ma Roma, 1970, p.93), Ceschi metteva in evidenza, in verità, due condizioni di partenza diverse: l’inconsistenza

originaria della facciata Santa Croce (salvo una piccolissima porzione basamentale) e invece «lo stridente contrasto» soprattutto di ordine urbano di una facciata seicentesca esistente in Santa Maria del Fiore, facendo con ciò decadere, in verità, la categoria del «Completamento» per il secondo intervento (e mettendo in luce solo il «Restauro in stile» compiuto). Poi, dopo i due casi fiorentini, alla fine dell’Ottocento era stato un tutt’uno da Napoli ad Amalfi, da Trento a Bologna, da Milano a Genova, ma «tutto ciò sembrava più che logico e non aveva bisogno di giustificazioni nel clima ‘artistico’ del tempo, che sentiva l’esigenza dell’unità stilistica come espressione d’arte genuina, piuttosto che di quella storica e documentaria, anche dopo i primi avvertimenti di Camillo Boito» (p.102). Ma soprattutto, amara era la constatazione di Ceschi che nelle facciate di Firenze si fosse dato avvio ad una nuova categoria di Restauro, il «Restauro turistico», sul quale l’Autore si interrogava anche in reazione a quanto accaduto alle rovine di Selinunte: «il verificarsi di condizioni umane diverse e la crescente mobilità delle masse, l’accentuarsi dell’interesse culturale come promotore del cosiddetto turismo e l’esigenza di una più facile comprensione per il maggior numero possibile di uomini, ha mutato ancora una volta il rapporto tra l’opera d’arte e gli uomini stessi. All’intima genuità di un intatto ammasso di rovine tipo Selinunte, incomprensibile per i più, si può sostituire una possibilità di lettura e una immediatezza di comprensione ... anche se in qualche modo artificiosamente voluta e ricercata? Abbiamo forse inventato un nuovo tipo di restauro: il Restauro turistico?» (p.132) .Ormai le posizioni erano chiare e i «Completamenti» di antichi edifici da considerasi inopportuni anche per le Autorità ministeriali che facevano proprie le conclusioni della “Carta del Restauro” del 1972 (promossa da Brandi). Nell’art 6.1. infatti si specificava che per i Monumenti erano tassativamente proibiti «i completamenti in stile o analogici, anche in forme semplificate e pur se vi siano documenti grafici o plastici che possono indicare quale fosse o dovesse apparire l’aspetto dell’opera finita». Una chiusura definitiva che si sarebbe protratta fino alle iniziative fiorentine dei primi anni Duemila per la facciata di San Lorenzo.

1900-2010: proposte ‘in differita’ per la terminazione della facciata di San Lorenzo a Firenze

Le basiliche di Santa Croce e di San Lorenzo a Firenze – escludendo dunque Santa Maria del Fiore che una facciata alla fine dell’Ottocento comunque l’aveva – erano due casi, tra i pochi a cominciare dal Duomo di Milano, che potevano effettivamente ricadere nella categoria del possibile «Completamento» ‘in differita’; ma mentre per Milano il cantiere, pur con molte trasformazioni, ‘parlava da sè’ indirizzando verso il suo completamento neogotico (nonostante gli inserimenti cinquecenteschi e oltre), per la fiorentina San Lorenzo il caso era molto più complesso e ci si trovava di fronte alla tabula rasa. La basilica brunelleschiana non aveva mai avuto una facciata e presentava, com’era stata Santa Croce prima

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dell’intervento di Nicola Matas, bozze in Pietra forte faccia a vista strutturate per accogliere il paramento di una fronte vera e propria. Varie proposte si erano succedute nei secoli (si ricordano quelle di Giuliano da Sangallo e anche un ‘interessamento’ di Leonardo, fino all’idea di Pasquale Poccianti), ma tra tutte si stagliava il progetto avanzato da Michelangelo, che, dopo il 1515 in un celebre ‘Concorso’ ricordato da Vasari, per conto di papa Leone X, aveva elaborato un’idea – peraltro testimoniata da molti disegni della casa Buonarroti e da un bellissimo modello ligneo del 1517 – completamente indipendente dall’edificio brunelleschiano retrostante e strutturata come un avancorpo, una grande Loggia Papale. Se già Anna Maria Luisa de’ Medici, l’Elettrice Palatina nel suo “Lascito” e poi nel suo “Testamento” aveva destinato fondi destinati allo scopo (1737 poi 1743), era però alla fine del XIX secolo che, venendo incontro alle attese di una Comunità uscita dalla grave crisi economica (dovuta allo spostamento della Capitale a Roma) e decisa a riaffermare la propria identità fiorentina e nazionale con la riproposizione di una «Magnificenza delle origini», la vicenda si apriva nel 1899 con un Mostra storiografica, organizzata da Arturo Faldi, che aveva lo scopo di far conoscere le varie proposte per una nuova facciata (ancora una volta le acque erano state mosse da un lascito testamentario, quello di Francesco Mattei da Seravezza, dove erano stati cavati a suo tempo i marmi per la facciata progettata da Michelangelo). Su iniziativa delle Autorità e dei Maggiorenti del quartiere di San Lorenzo, il 5 aprile del 1900, veniva bandito un Concorso vero e proprio per la nuova facciata basilicale su indicazione della Commissione Giudicatrice (ne erano parte Tommaso Corsini, con vicepresidenti Arturo Faldi e Niccolò Martelli). La competizione si svolgeva in due Gradi, con successivo restringimento della rosa dei Concorrenti, ma le indicazioni sui caratteri che avrebbe dovuto avere la nuova proposta erano molto chiari fin da subito, respingendo «ogni idea di partiti architettonici ispirati ad altri sentimenti che non siano quelli dei tempi del Brunelleschi», e dunque all’insegna dello stile e del mito del solo Brunelleschi, rifondatore quattrocentesco dell’antica basilica (che si riteneva voluta secoli prima da Sant’Ambrogio per essere stata consacrata nel 393). Con l’indicazione di riproporre «quale decorazione avrebbe mai ideato Filippo Brunelleschi per la facciata di San Lorenzo» si inducevano i partecipanti a non considerare «l’autonomo carattere dei progetti cinquecenteschi e soprattutto la strepitosa ipotesi di Michelangelo indipendente dal connotato dell’edificio religioso retrostante» (C. Cresti, Firenze, capitale mancata. Architettura e città dal piano Poggi a oggi, Milano, 1995, pp. 138-139),.Così, buona parte dei progetti puntava alla riproposizione di un gusto ‘primitivo’ ritenuto brunelleschiano avanzando una relazione interno/facciata che venne però stigmatizzata da Igino Benvenuto Supino, poiché troppi concorrenti si erano «eccessivamente preoccupati di quella teoria tutta moderna [era il “predeterminismo organico” di Camillo Boito], applicata qualche volta a proposito ma troppo spesso a sproposito, secondo la quale la facciata deve dare un’idea della struttura interna

dell’edifizio; e così hanno dato coi loro progetti né più né meno che una sezione trasversale della chiesa. V’ha persino chi è giunto a ripetere all’esterno la struttura e la decorazione della parete interna della facciata, producendo l’effetto di una fotografia coi raggi Roentegen» (I. B. Supino, La facciata della basilica di San Lorenzo in Firenze, «L’Arte», V, 4, 1901, p. 260). Anche se, in verità, numerose erano state le libertà per adattarsi alle ovvie «difficoltà di dettaglio». Dopo due fasi del Concorso, il nuovo Presidente della Commissione, Alfredo d’Andrade, sodale di Camillo Boito (ecco perchè l’adozione da parte di molti di quel «predeterminismo» progettuale ...) riconosceva la vittoria definitiva a Cesare Bazzani nel 1905 (si veda il mio F. Canali, Camillo Boito, Firenze e gli amici “fiorentini” ... in Firenze, Primitivismo e Italianità. Problemi dello “Stile nazionale” tra Italia e Oltremare (1861-1961) ..., «Bollettino della Società di Studi Fiorentini, 20, 2011 ma 2012, pp.40-88). Le parole che l‘Architetto presentava ad accompagnamento della sua proposta vincitrice per l’edificio della fiorentina Biblioteca Nazionale Centrale nel 1906 ben si adattavano anche al caso di San Lorenzo: «il progetto deve manifestare l’epoca in cui l’opera viene fatta, traendo però tale manifestazione dagli elementi d’ambiente e ispirazione ai ricordi e alle tradizioni della Storia ... cercai cioè d’essere ‘d’ambiente’» (Relazione di Cesare Bazzani per la Biblioteca Nazionale Centrale, 1906). Non a caso nella soluzione finale della nuova fronte della Basilica, Bazzani aveva abbandonato ‘il partito dell’intonaco’ per indirizzarsi verso una facciata in pietra ben più ‘d’ambiente’ (F. Canali, Veduta prospettica della facciata. Concorso in San Lorenzo [393-1993], Catalogo della Mostra, Firenze, 1993, p.173). Nel silenzio delle Autorità, nelle resistenze della Critica, dopo quel 1905 l’iniziativa però sarebbe stata affossata e anche le idee di Bazzani sarebbero finite nel novero delle tante “Città immaginate”; il clima era cambiato non solo per il Giovannoni teorico, ma anche per il Bazzani progettista e così l’idea del completamento della facciata non sarebbe stata rispolverata, con il dovuto afflato, neppure negli anni Trenta.Però, un po’ come un fiume carsico che a volte, improvvisamente, riemerge svelando la propria insospettabile esistenza; un po’ come le idee – buone o cattive che siano – che hanno una vita sotterranea che comunque garantisce loro di sopravvivere nel tempo sulla base di quello spesso inafferrabile carattere che la Storiografia non ha potuto che definire «di lunga durata», anche la possibilità di una concreta realizzazione della facciata di San Lorenzo si è improvvisamente ripresentata agli onori della Cronaca, prima in sordina, poi come ludico intrattenimento visivo, quindi come intenzione ben circostanziata ... Nel 1993 nell’ambito della Mostra dedicata a “San Lorenzo (393-1993). L’Architettura”, nel cui team di Collaboratori figuravo anche io, Gabriele Morolli (p.198) ripercorreva le vicende del progetto michelangiolesco della facciata, ricordando come Vasari menzionasse in almeno due casi (ediz, Milanesi, vol.II, p.119; vol.VII, p.190) la presenza

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sul sagrato della Basilica di una grande colonna michelangiolesca monumentale fatta cavare a Serravezza. Gaetano Milanesi alla fine dell’Ottocento a commento dell’edizione vasariana, aveva affermato che quel fusto, insieme ad altri pezzi era stato interrato «in una fossa sulla piazza lungo il fianco sinistro della chiesa» (vol.I, p.119, n.2). Per i venti anni successivi, fino al 2013 Morolli, che già nel 1993 auspicava una «campagna di ricerca di queste tracce di un Michelangelo ‘perduto’ e ‘sotterraneo’» (p.198) ha continuato a lavorare sul tema della facciata: prima promuovendo un “Assegno di ricerca” (condotto da Serena Fait) presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove Morolli era Professore, per l’analisi e lo studio di tutti i disegni michelangioleschi, conservati alla Casa Buonarroti di Firenze, relativi alla facciata di San Lorenzo (una cinquantina di elaborati grafici con indicazione di circa 300 pezzami di pietra, non dimensionati ma precisamente proporzionati. Dunque, davvero un buon numero!). Poi Morolli ha coordinato una ulteriore serie di ricerche fatte di analisi, di letture incrociate dei dati e tentativi di rimontaggio virtuale dei disegni presenti negli elaborati di Casa Buonarroti in relazione al modello ligneo lasciato da Michelangelo, con la finalità di comprendere la strutturazione del progetto michelangiolesco e fino a che punto quelle previsioni si fossero spinte verso una realtà effettuale. Quegli studi – peraltro non editi in tutte le loro acquisizioni, se non per stralci, fino al 2013 con l’ultimo modello interpretativo computerizzato, realizzato da Vincenzo Capalbo, pubblicato nel Catalogo della Mostra “Nello splendore mediceo. Leone X e Firenze” – hanno comunque individuato le difficoltà, ma anche le possibilità dei materiali michelangioleschi, giungendo alla conclusione che tutta quella previsione avrebbe raggiunto, già da parte dei Michelangelo, un notevole grado di dettaglio. Così, nel 2007, dopo la messa a punto di una prima restituzione informatica, ottenuta dalla modellizzazione dei dati con appositi programmi di grafica computeriale da parte di Paolo Bertoncini Sabatini, si è proceduto alla proiezione notturna, sulla facciata reale, della restituzione di quella che sarebbe potuta essere la proposta di Michelangelo, oltre al trasporto in loco di due fusti di colonne monumentali, rinvenuti in Versilia, e da Morolli riferiti a quelli a suo tempo fatti giungere da Michelangelo «sulla marina» ma mai condotti a Firenze (proiezione 18 febbraio 2007: Michelangelo e la facciata di San Lorenzo: dai progetti alla realtà virtuale. Le colonne ritrovate, a cura di G.Morolli e P. Bertoncini Sabatini, Firenze, 2007). Quella proiezione è stata una non rara operazione di “Media Facade” (si veda per la realizzazione di analoghi eventi spettacolari il numero della rivista «Modulo», 376, 2012, pp.239-247) anche se in questo caso ‘piegata’ alla Storia; ovvero si è trattato di un esempio eccellente di come la Storia dell’Architettura possa dialogare con la Contemporaneità, tra aspetti ludici e alta divulgazione. O, ancora, si è trattato della trasposizione, agli occhi di un’Opinione pubblica in genere distratta, di qual possa essere la rilevanza della Ricerca universitaria? Oppure un prodromo a ben altri intenti ... Certo è che le proiezioni

notturne su architetture non sono ormai una novità e mantengono una forte carica di suggestione anche ‘turistica’ (il Restauro turistico, divenuto ora virtuale, di Ceschi?), ma qui si trattava di riproporre un progetto mai realizzato e per giunta di Michelangelo. Nonostante «il successone dell’iniziativa notturna» replicata in più occasioni, le resistenze critiche non sono comunque mancate (alcuni l’hanno definita «una pecionata perchè i disegni di Casa Buonarroti non sono in scala e dunque i contorni non tornavano»: «Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.46). Ma l’evento ha comunque creato rumore e subito mosso le reazioni di molti, che tra sorrisi e preoccupazione, evidentemente paventavano un possibile ‘fase esecutiva’, dopo che in una ‘fase politica’ si fosse messa in campo la fattibilità del completamento. Ed effettivamente, l’avvio della ‘fase politica’ dell’evento c’è stata, senza l’appoggio scientifico di Morolli, peraltro defilatosi dalla nuova iniziativa («non ne vale la pena: tanto non si farà mai»), dopo che anche l’idea di realizzare una facciata effimera, una istallazione, «una scenografia d’apparato» in materiali di vetroresina, retta da apposite impalcature, era a sua volta naufragata nei meandri delle diverse competenze (un’idea verso la quale Pietro Ruschi aveva peraltro già avanzato resistenze: «pensano di tenerla in piedi ancorandola alla facciata?»: «Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.46). Del resto come ha efficacemente sottolineato Wanda Lattes «la facciata [originaria] sarebbe ben più di una sfoglia di marmo, ma una specie di palazzotto profondo 6 metri, con tanto di balconata, ostensorio, colonne e statue» («Corriere fiorentino» del «Corriere della Sera», 25 luglio 2011); e dunque anche per quel ‘modello’ i problemi non sarebbero mancati in una eventuale realizzazione. In verità, sarebbe bastato distaccarsi un po’ dalla facciate originale ... (che è poi così monumentale? O siamo arrivati alla conservazione parossistica addirittura di ammorsature che saranno state scalpellate e sostituite cento volte nei secoli, visto il degrado della Pietra fiorentina? Ma tant’è!)Dal punto di vista politico, rilevante è stato l’impegno dell’Amministrazione comunale: «Rivestire di marmo la facciata secondo il progetto firmato da Michelangelo nel 1515 e mai realizzata. È la proposta del sindaco Renzi, che vuole chiedere il parere dei cittadini con un referendum» («La Repubblica», 26 luglio 2011, p.36). Ma anche l’idea del referendum non è piaciuta affatto (il Priore della Basilica ha stigmatizzato: «il voto di un esperto non può contare quanto quello del trippaio»: «Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.44) per cui anche questa iniziativa si è ben presto arenata. Come anche il coinvolgimento economico dei Privati, nonostante le intenzioni del Sindaco e di alcune forze economiche: «Il progetto ai privati: una iniziativa così trova sicuramente degli sponsor» («Il nuovo Corriere di Firenze», 27 luglio 2011, p.2). E, non a caso, era la Sezione Alberghiera della Confindustria fiorentina, che si era detta molto interessata all’idea («Libero», 28 luglio 2011) oltre ad alcune Associazione edili.Nel frattempo, la polemica è montata senza, però, organiche prese di posizione scientifica e approfondimenti culturali: un necessario e doveroso

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dibattito sul possibile “Completamento in differita”, insomma, non è neppure stato impostato. Le reazioni degli Studiosi, non ai risultati ottenuti come la proiezione effimera ma alle paventate ‘prospettive’, ci sono invece state e si sono allineate, compattamente, all’insegna del rifiuto di ogni possibilità di «completamento» («non si tratta esattamente di Restauro integrativo, bensì di un completamento architettonico»). Per Paolo Portoghesi è solo «un’idea eroica col sapore della provocazione ... La Storia non si fa tornando indietro»; per Antonio Paolucci è «un controsenso intervenire dopo secoli» («La Repubblica», 26 luglio 2011, p.36. Ma lo stesso Paolucci anche su «L’Osservatore Romano» del 7 agosto 2011: «la rustica severità della facciata incompiuta è mille volte preferibile a qualunque presuntuoso e fatalmente inadeguato intervento postumo ... L’idea di ricostruire la facciata di San Lorenzo utilizzando Michelangelo è indubbiamente suggestiva. In media ogni dieci anni c’è qualcuno a Firenze che la tira fuori ... l’idea di ricostruire sulle indicazioni di Michelangelo la facciata di San Lorenzo è e resta radicalmente e profondamente sbagliata. È sbagliata dal punto di vista culturale perché non si può mandare indietro l’orologio della storia. Perché la facciata incompiuta è il documento prezioso di un fallimento che tocca, con le vicende di quegli anni, la storia di Firenze e dell’Italia insieme alla storia professionale e umana di Michelangelo»). Per la Soprintendente ai Monumenti, Alessandra Marino «è una provocazione birbantella del Sindaco. Ma neanche a parlarne ... Culturalmente è superato il concetto di andare a terminare un edificio incompiuto» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.2). E la stessa Soprintendente ha rincarato la dose, «sarebbe una Disneyland» («Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.44). Cristina Acidini, Soprintendente al Polo Museale fiorentino ha affermato di «ritenerlo un progetto non auspicabile ... ma detto ciò possiamo riflettere sulle opere che erano andate perdute e sono state ricostruite, come il ponte a Santa Trinita a Firenze o il campanile di San Marco a Venezia ... o molti edifici in Germania o in Polonia ... [Lì però] era la straziante mancanza di un’opera distrutta da qualche evento tragico ... Ma costruire qualcosa che non è mai esistito, che senso ha?» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.2). Per Mina Gregori «perché si dovrebbero spendere soldi per fare una facciata?» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.2); per Vittorio Sgarbi «è una pessima idea»; per Philippe Daverio «è una grande rozzezza pensare che la Storia si possa cancellare completando una facciata che i secoli ci hanno consegnato incompiuta». Per Antonio Natali, Direttore della Galleria degli Uffizi, «se guardo San Lorenzo ho la sensazione che i problemi siano altri»; e anche per Francesco Gurrieri «i nostri monumenti sono testimonianze di Civiltà così come sono, da non alterare e da riconsegnare alle generazioni successive ... va scoraggiata l’ipotesi di una realizzazione trionfalistica di ‘completamento’ dopo cinque secoli ... Argan e Brandi ... nella “Carta del Restauro” del 1972 ci dicono che sono proibiti indistintamente i completamenti in stile o analogici» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.2). Appunto, la “Carta del Restauro” del 1972 (quanto il sindaco Renzi – classe 1975 –non

era neppure nato!). Interessante, poi, la ‘spaccatura culturale’ che si è verificata all’interno dell’Ente “Casa Buonarroti” che gestisce, scientificamente e ‘politicamente’, i lasciti michelangioleschi: Pina Ragionieri, Direttrice del Museo, ha liquidato l’idea poiché «qui si sogna su un progetto che non può diventare realtà ... È una specie di falso storico»; Pietro Folena, «passato dalla Politica all’Arte ... e che con l’associazione “Metomorfosi” detiene ora i diritti dei materiali di Casa Buonarroti ... si scaglia contro l’iniziativa» e anche Pietro Ruschi, Presidente del “Comitato Scientifico di Casa Buonarroti” ... ha definito il progetto un’aberrazione, un tradimento dei principi fondamentali del Restauro sanciti da Cesare Brandi e altri». E ciò mentre Eugenio Giani - Presidente del Consiglio Comunale di Firenze oltre che Presidente del Consiglio d’Amministrazione dell’Ente, e organizzatore con Gabriele Morolli della prima proiezione sulla facciata nonché dell’idea, poi naufragata, della «scenografia d’apparato in vetroresina da appoggiare temporaneamente sulle pietre di San Lorenzo e poi da collocare in un punto strategico della città» («Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.44) - afferma «adesso che è partita l’idea della realizzazione definitiva è giusto sostenere il sindaco Renzi, affinché anche la nostra generazione lasci un segno nella Storia» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.3) visto che «mi stupiscono certi esperti che nei Cataloghi pagati profumatamente lodano l’opera di Michelangelo, ma la definiscono irrealizzabile quando il Sindaco, che hanno in antipatia, vuole realizzarla» («Il Venerdì di Repubblica», 12 agosto 2011, p.45). L’iniziativa si è colorata – come non poteva non essere - di prese di posizione innanzi tutto politiche e, così, il dibattito scientifico, si è decisamente arenato nelle secche delle boutades.Anche senza voler considerare le posizioni di Docenti universitari di “Restauro architettonico” come Francesco Gurrieri e Pietro Ruschi – il cui richiamo a Brandi e alla “Carta del Restauro” del 1972 evidenzia come il dibattito disciplinare sia sostanzialmente ‘congelato’ almeno a quaran’anni fa - si mostrano senza dubbio interessanti le notazioni, dal punto di vista della Filologia scientifica, sia di Alessandra Marino, sia di Cristina Acidini, che, in qualità di Soprintendenti ‘militanti’, hanno sottolineato anche le difficoltà filologiche dell’eventuale realizzazione, visto che per la Marino «abbiamo disegni sommari, poiché Michelangelo andava a scegliersi i pezzi uno a uno nelle cave e disegnava fino all’ultimo dettaglio»; e così per l’Acidini perché «il progetto comporterebbe un notevole grado di arbitrarietà, considerando che non abbiamo il disegno esecutivo» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.2). E quindi, secondo Mina Gregori «prima ancora di parlarne servirebbe una ricerca storica per mettere insieme tutta la documentazione del progetto» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.3), evidentemente senza conoscere le ricerche di Morolli. Così anche Francesco Gurrieri ha notato come «il disegno michelangiolesco è sommario e non corrisponde alla realtà del ‘grezzo’» («La Nazione», 27 luglio 2011, p.3). E anche per Antonio Paolucci, «l’idea è sbagliata e irrealizzabile anche dal punto di vista pratico. Perché nessuno sarebbe in

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grado di allestire e di governare un cantiere edilizio cinquecentesco sulla base di un modellino ligneo e di un certo numero di disegni, parziali, generici e non dimensionati; non progetto esecutivo quindi, ma semplicemente “idea” di una facciata monumentale suscettibile di infiniti ripensamenti e rettifiche in corso d’opera. Perché non si può, in ogni caso, entrare nella testa di un progettista, chiunque esso sia, cinque secoli dopo. La proposta per fortuna, è destinata a non avere seguito. Le Soprintendenze hanno già fatto conoscere il loro parere negativo. Nessuno fra gli Accademici e i Maestri del “Restauro architettonico”, è disposto ad avvallare una simile impresa» («L’Osservatore Romano», 7 agosto 2011).Insomma tirando un breve bilancio, non si può negare che, pur tra polemiche e resistenze, quella categoria del ‘Completamento’, che sembrava morta e sepolta è comunque, in maniera carsica, improvvisamente risolta e tornata in auge (almeno per la Politica); anche se non per la Disciplina. Così, al di là dell’andamento della vicenda fiorentina – una iniziativa che dopo l’improvviso bagliore, si è in verità ‘spenta’ su se stessa – resta alla memoria collettiva la mancanza di un dibattito scientifico che non solo fornisca lo ‘stato dell’Arte’, ma che attraverso le ‘teorizzazioni’ del Novecento, derivanti dalla Scuola dei Grandi Maestri del Restauro italiani, faccia intravedere possibili scenari per il Futuro (continuisti o innovatori che siano). Discipline scientifiche (Storia, Critica, Conservazione, Restauro, progettazione architettonica ...), Politica e Opinione pubblica in che rapporto si pongono? Su questo vale forse la pena di interrogarsi, al di là dei dictat della Scienza o dei desiderata della Politica.Altro tema scottante a Firenze, e sempre riconducibile al problema dei ‘completamenti’ o delle realizzazione in assenza del Progettista originario, quello della costruzione ex novo del Palagiustizia. Il ‘nuovo’ palazzo di Giustizia, progettato tra il 1984 e il 1988 da Leonardo Ricci (ma sulla base di una iniziativa pensata alla metà degli anni Settanta e circostanziatasi nel 1978) e realizzato, scomparso l’Architetto nel 1994, tra il 2000 e il 2012, avrebbe potuto rimettere in campo, anch’esso, un dibattito a lungo invece arenatosi nelle secche disciplinari; ma l’occasione è andata perduta anche in questo caso. Nel 1988 era stato consegnato da Ricci e dall’ingegner Giorgio Santucci il “Progetto di massima” per l’edificio al Comune di Firenze (costituito da 4 prospetti, 2 sezioni e 26 piante dei piani), dopo la rinuncia di Giovanni Michelucci; solo il 15 ottobre 1992 il nuovo “Progetto di massima”, in cui erano state introdotte alcune modifiche, veniva spedito al Ministero di Grazia e Giustizia che ne avviava l’iter approvativo. Morto Ricci nel 1994, l’architetto Michele Valentini metteva mano al Progetto (accogliendo le varianti richieste dai vari Enti) e quindi al “Progetto definitivo”. Quindi seguiva, questa volta, la realizzazione. Ricci, però, non era sceso nei dettagli; così molti Critici – come Corinna Vasic Vatovec e Pino Brugellis (Postumo

e spaesato. Finita dopo oltre 30 anni [18 anni dopo la sua morte] l’opera di Leonardo Ricci [o quel che ne è rimasto], «Il Giornale dell’Architettura», 105, maggio, 2012, pp.1-2) – hanno sottolineato come «l’opera realizzata è l’esito di gravi monomissioni al progetto originario ... snaturando anche [lo spazio detto la] “basilica” ... che fendeva trasversalmente l’impianto a ventaglio dell’intero organismo ... spazio pubblico simbolo di una giustizia trasparente ... ora una piazza coperta senz’anima con le fronti interne rimaneggiate» (Vasic Vatovec), «con i volumi interni quasi raddoppiati rispetto a quello che aveva previsto Ricci e «con una diagonale sulla “basilica/cattedrale” che non c’è più per cui, perdendo quell’elemento contestuale originario, il Palagiustizia è diventato un oggetto astruso» (Brugellis). Poi «la semplificazione della facciata» e il problema dei materiali (per il rivestimento esterno sono state scelte lastre in Pietra di Santa Fiora, grès e profilature metalliche tinteggiate che molto probabilmente Ricci - «più brutalista» - non avrebbe indicato), tanto che anche Francesco dal Co si è chiesto se ci saremmo trovati a dover giudicare solo la «maschera» del Palagiustizia, invece che il progetto ricciano. Purtroppo, anche in questo caso, la Cultura nazionale è rimasta sostanzialmente sorda al problema del progetto, modificato in via del tutto ‘amministrativa’ senza porsi il problema dell’’Autorialità’ e soprattutto sulla sua realizzazione ‘in differita’ (tanto che secondo Giacomo Pirazzoli «ci tocca un’opera postuma, sorta di non-archeologico resto d’improbabile volontà di committenza ... e peraltro poco sustanable»). Le polemiche non sono dunque mancate (specie dopo che molti hanno attaccato anche l’aspetto complessivo del nuovo edificio, ‘eletto’, come una delle opere contemporanee più brutte degli ultimi tempi; ma questo è dipeso da Ricci, non dalla realizzazione probabilmente. Il che richiederebbe una ‘revisione critica’ delle nostre categorie storiografiche e non un attacco alla prassi in differita). Del resto, diversi Autori, anche i più critici, non hanno potuto fare a meno di notare come «il Palagiustizia resta, dal punto di vista estetico, il pezzo migliore dell’intera area Fiat ... anche se in effetti il progetto è di quasi 30 anni fa e si vede tutto ... ma quasi identifica l’inizio stesso della Piana fiorentina» (Brugellis); un’opera «che fortunatamente riesce ancora a parlarci della fortissima creatività di Ricci» (Vasic Vatovec).Ancora una volta, per ambiti, tempi e soprattutto cronologie diverse, la categoria della ‘Costruzione in differita’, pur non coscientemente affrontata, ha comunque trovato un proprio, ulteriore, imprescindibile caso (dopo quello della Sagrada Familia di Barcellona, iniziata però da Gaudì e per cui solo parzialmente ‘in differita’ se non per le ultime – e più consistenti - fasi), permettendo anche di comprendere opportunità e problemi della stessa categoria operativa.

Ferruccio canali

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Alcune recentissime vicende architet-toniche fiorentine – la costruzione e inaugurazione del nuovo Palazzo di Giustizia sulla base di un progetto di Leonardo Ricci risalente alla seconda metà degli anni Settanta; le propo-ste dell’Amministrazione comunale per il completamento della facciata della basilica di San Lorenzo ispirandosi al progetto approntato da Michelangelo nel 1515 – hanno portato alla ribalta il problema delle costruzioni e dei completamenti ‘in differita’, cioè sul-la base di progetti di massima a suo tempo neppure avviati dai Progettisti e poi ripresi (o con l’intenzione di riprenderli) dopo tempo proprio per la loro ‘carica autoriale’. Non va sot-tovalutato che grazie a progetti di completamento più o meno ‘in differita’ (come per la facciata di Santa Cro-ce) o comunque di ‘continuità storica’ (come per la fronte di Santa Maria del Fiore), Firenze ha acquistato parte della propria suggestione attuale, per cui il problema non può essere liqui-dato senza un serio dibattito scien-tifico, che riconsideri ‘laicamente’ (o cautamente) alcune categorie e parame-tri operativi istituzionalizzati più di mezzo secolo fa (ad esempio con le “Carte del Restauro”) e dei quali la Politica attuale richiede comunque una riconsiderazione.

1. È plausibile l’idea di poter completare oggi una facciata/un edificio storico, mai terminato o anche solo parzialmente impostato, sulla base del principio della ‘completezza monumentale’? Quali possono essere le coordinate culturali di tali operazioni, se ve ne sono comunque nella Contemporaneità? In ciò la Storia può essere intesa come ‘militante’?

Francesco Quinterio*Ancora su “Facciatisti e facciatosti”, variazioni su temi eclettici in modalità postmoderna. Qualcuno fra noi, più o meno ‘pra-ticante’ di architettura, e che or-mai con l’età veleggia verso il mezzo secolo di vita, ricorderà i fasti e i nefasti di un anno – precisamente il 1980 - che segnò una netta frat-tura, nell’itinerario evoluzionistico dell’architettura, imboccando un per-corso che immetteva in quello che po-teva sembrare un binario morto, ormai nascosto e avviluppato da radici di piante forse invasive, arrugginito dai decenni di una sorta di incuria essen-do fatto di una sostanza forse fragi-le, forse inconsistente che aveva come ingredienti una sensibilità ormai ri-tenuta obsoleta, quale quella dettata dal rispetto del passato, in un’arcata che comprendeva sia il passato remoto che quello più prossimo. Ebbene quel-le radici che nascondevano i binari, altro non erano che gli arti della memoria, il necessario insostituibi-le aggancio col passato della nostra formazione (più che della “storia” in sé stessa!), il dna, le cellule stami-nali: radici che chi scrive, non certo tenero con i neologismi adottati acri-ticamente e ‘supinamente’ dalla sempre più degradata lingua anglosassone, ama stavolta in questo caso definire con il chiaro termine di “roots”. Il chia-ro riferimento al 1980, con i dibat-titi apertisi qualche anno prima con il celebre “Late Modern Architectu-re” di Charles Jencks, che se poteva negli States slittare in un equivo-co, anche se comprensibile, confron-to-derivazione con certe componenti della pop-art, una volta assimilata (o se vogliamo ‘ri’assimilata) dalla scuola europea, altro non segnava che

* Quando Francesco scriveva queste note era a letto, in ospedale, da dove non sarebbe più uscito se non dopo la sua scomparsa nel dicembre 2013. Questo per il Forum è dunque è il suo ultimo testo, redatto con la solita lucidità, la solita grande passione, il solito slancio, la solita intelligenza, ma, soprattutto, scritto ‘con poesia’. Ci teneva tanto a contribuire a questo dibattito, anche se era fisicamente minato dalla terribile malattia: gli serviva di conforto, «per non pensare a certe cose» diceva. Grazie da parte di tutti e speriamo che questo ultimo impegno Ti sia servito per alleviare, almeno un po’, la sofferenza (FC).

ALCUNI QUESITI SU COMPLETAMENTI E COSTRUZIONI ‘IN DIFFERITA’: CATEGORIE ‘CHIUSE’ O DI OPERANTE ATTUALITà?

Tavola rotonda via mail, giugno - luglio 2013a cura di Ferruccio Canali

con la partecipazione di Ferruccio Canali, Tommaso Carrafiello, Giorgio Caselli, Marco Frati, Virgilio C.Galati, Enrica Maggiani, Olimpia Niglio, Stefano Pagano,

Francesco Quinterio, Francesco Vossilla

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una risposta fornita più che a certi interrogativi, a certe crisi e certe stanchezze di una lunga stagione di razionalismo-international style, fin troppo espresso e spremuto nel cor-so del tempo. Non ho nessun problema a confessare di avere accettato su-pinamente il ruolo di architetto ‘di carta’ (praticamente il mestiere dello storico), essendomi trovato nell’im-possibilità oggettiva di abbozzare, ragionare, comporre una serie di ela-borati, che inevitabilmente si espri-meva in un prodotto finale che troppo somigliava ad altri del genere ‘sca-tolette’: e mi sia permesso di pro-porre questo termine facilmente eti-chettabile come “qualunquistico”, un vocabolo agitato come uno spettro da tanti compagnucci marxisti (più o meno immaginari) di una giovinezza forzosa-mente cresciuta in una costretta con-testazione. A conclusione di questo preambolo, mi sono chiesto se i miei studi, anziché terminare a metà anni Settanta, fossero approdati cinque/sette anni dopo, così da permettermi senza ‘vergognarsi’ di essere libero (e non nascosto in un antro di cospi-ratori da Carboneria stile 1821) di esprimere la mia parte di storia, sen-za esserne uno scopiazzone (per cari-tà), ma fiducioso e deduttivo interpre-te critico di una sensibilità eccetera eccetera. In quel 1980 due erano i protagonisti di quegli scontri critici di quel 1980; ma c’era un terzo opera-tore culturale come Paolo Marconi, che desidero ora ricordare a pochi giorni dalla sua dipartita (13 agosto 2013, tre giorni prima di quella del nostro Gabriele Morolli!) e che nel recupero della storia, quale docente, teorico e al tempo stesso operatore diretto della scienza del Restauro dei Monu-menti, lui che ne era oltreché attento osservatore e paladino indefesso di ogni sua possibile interpretazione e della sua lettura espressiva, ne era

soprattutto artefice della sua rappre-sentazione nel corso del tempo. Con i suoi metodi nuovi del restauro, Mar-coni e tutta la sua scuola che anda-va ampliandosi, aggiungeva alla spe-rimentazione, il fondamentale appor-to della documentazione archivistica, che nel caso specifico, andava rive-landosi abbondante scrigno prezioso di informazioni: soprattutto per ciò che riguardava le patine, le consistenze delle calci, gli intonaci e i colori della parte più esteriore del monu-mento. Così il 1980 sarà anche l’anno in cui a Roma inizieranno a sparire i vecchi colori “piemontesi” (ocra cari-co, rosso coccio pesto, pitture delle membra a falso travertino), così da ridonare alla città antica la cromia nel corso di tanti tempi. Gli altri due personaggi di questo dibattito, che si protrarrà per mesi, con punte di scontri quotidiani nel periodo au-tunnale, erano invece Paolo Portoghe-si e Bruno Zevi. Il primo aveva fatto proprio il verbo Jencksiano del “Late modern”, traducendolo nel più latino “post modern”, accentuandone più l’a-spetto del “recupero della storia”, come fattore formativo e nello stesso tempo liberatorio, per una condizione libera, naturale ed evolutiva della sensibilità dell’architetto, che era ormai giunto al punto di potersi libe-rare dalla dittatura razionaliste che ormai da oltre trent’anni tiranneg-giavano (ovviamente è un eufemismo) i tecnigrafi della più alta percentuale degli architetti diciamo ‘dell’ Occi-dente’. Non staremo qui a ricordare, tappe, concetti, scelte di indirizzo di questa parabola post-modernista, che coinvolgeva stilemi antichi sì, ma anche i primi passi appurati e or-mai accettati del primo razionalismo italiano durante il ventennio, senza per questo temere di essere tacciati di professionismo nostalgico di de-stra. Vorrei ricordare invece la ve-

Ferruccio Canali, Santa Maria del Fiore di taglio , 2013

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emenza degli scontri con Zevi, ormai da decenni approdato alle vette della classifica della miglior critica ar-chitettonica del contemporaneo e ne-mico giurato di ogni espressione che tradisse ombre di classicismi, capaci di culminare nell’odiatissima simme-tria …. Beh cosa c’era da aspettarsi da uno che ormai da oltre trent’anni era sta l’indiscusso ideologo dell’ar-chitettutora organica, ricco della sua giovanile esperienza americana (pri-ma metà degli anni Quaranta)? E gli incontri-scontri fra il pacato Paolo Portoghesi e l’infuriato eternamente sopra le righe Bruno Zevi (ormai pros-simo a occupare un’importante posizio-ne all’interno del Partito Radicale di Marco Pannella), si ripetevano a ogni occasione a Roma e altrove, dal vivo o alla televisione, fin sulle pagine dei giornali. Ed è appunto su “L’Espres-so” che era apparso quell’articolo dal titolo “facciatisti o faccia tosti” – ovvio riferimento a quella “Strada Novissima”, costruita fra i capannoni dell’Arsenale e che era stata il ful-cro di quella stessa Biennale di Vene-zia, organizzata appunto da Portoghesi - che la dice lunga sulla capacità me-diatica che poteva suscitare presso i giovani architetti, nei momenti in cui le facoltà di architettura italiane erano collassate dal numero di iscrit-ti. E quell’anno, come per incanto, i corsi di Storia dell’architettura cominciavano a ripopolarsi, dopo anni di negletto oblio di una materia che si diceva fosse inutile e ormai finita.

2. Considerazioni di ‘ordine ambientale’ più che architettonico possono eventualmente fare da fondamento ad un ‘Completamento monumentale’, in nome dell’omogeneità di un tessuto o di una percezione’?

Virgilio c. galatiCarissimo Francesco, ho il dovere morale di ringraziarti per il Tuo scritto, estremamente interessante; uno scritto che figura come una sorta di ‘memorandum’ della tua generazione che ha in un qualche modo sentito una sorta di ‘soggezione intellettuale’ nei riguardi della Storia dell’Architettura. Ma grazie a ‘Voi’ (intendo con quel ‘Voi’ Tu e Gabriele Morolli, in particolare) la nostra generazione ha potuto accedere e accostarsi agli studi storici con grande ‘disinvoltura’ e con piglio convinto, senza preclusione alcuna. È per questo, che la polemica sulla

ricostruzione o meno di edifici o parti di essi, risulta una elucubrazione intellettuale che mi sembra superflua. Da sempre le generazioni si son poste il problema se ricostruire o lasciare una situazione di fatto: la Storia ci ha consegnato esempi illustri di monumenti e situazioni caratterizzati da un ‘melting-pot’ stilistico, eppure essi vengono ammirati e considerati unanimemente dei capolavori, per cui è inutile pensare di ricorrere alla categoria dell’Unità ‘stilistica’. Monumenti dove il tempo, attraverso i secoli, ha avuto una componente determinate, e gli uomini, attraverso i diversi pensieri filosofici e artistici che nel frattempo si sono succeduti, hanno lasciato sempre segni indelebili accrescendone la bellezza artistica e monumentale. Quindi la ricostruzione di un intero edificio o il completamento di parte di esso non fanno altro che esprimere il pensiero dell’epoca in cui ciò viene realizzato e non l’epoca a cui si fa storicamente riferimento; tutt’al più ne rappresenta vagamente una essenza simbolica a cui la generazione coinvolta successivamente intende rimandare. Quindi non un falso o un’opera decontestualizzata o decontemporaneizzata, ma un’opera «viva» e parlante. Monumento o parte di monumento che racconterà del pensiero filosofico e artistico dell’epoca che ha eventualmente realizzato quel completamento e di cui rappresenterà comunque il portato culturale e teorico. La questione come sopra viene evidenziata è dunque molto delicata e andrebbe vagliata caso per caso. Il problema del completamento di un progetto in differita andrebbe considerato alla stregua di una ricostruzione in seguito alla perdita di un monumento; ricostruzione che da sempre ha comportato accesi dibattiti che hanno coinvolto a vario titolo uomini di cultura, esponenti di rilievo della società civile e della stessa politica. A Firenze vi sono vari esempi di completamenti di edifici, visto che numerose chiese medioevali, ma anche rinascimentali, erano rimaste prive della loro facciata per problemi di carattere economico, oltre che per la nota caratteristica polemica tipica dell’animus fiorentino. La questione si è ripresentata nel Quattrocento, con la parabola della facciata di Santa Maria Novella che come sappiamo è stata progettata e realizzata da Leon Battista Alberti, il quale in qualche modo ha contribuito

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a rivitalizzare il carattere degli edifici ecclesiastici fiorentini, quello della bicromia medioevale. Lavori della facciata che termineranno, però, solo negli anni Dieci del Novecento (Ezio Zalaffi, 1918-1920), replicando a spolvero il girale mancante della voluta di destra, sulla base di quello esistente a sinistra. L’Alberti non ha fatto altro, a suo tempo, che riprendere quel carattere bicromo, ‘modernizzandone’ gli assunti e lo spirito dell’architettura medioevale fiorentina, giungendo, però alla creazione di ‘qualcosa di nuovo’. Si trattava di un intervento ‘modernamente antico’, come amavano dire gli uomini di Cultura quattro-cinquecenteschi. L’Alberti non riprendeva il progetto originale, che in questo caso era quello medioevale, ma ne realizzava appositamente uno inedito, mantenendo solo il carattere della bicromia. In differita risulterà, poi, l’operazione generale di terminazione ‘novecentesca’ della facciata. Nel caso di Santa Croce o di Santa Maria del Fiore al contrario, sulla base dello spirito albertiano di ‘ri-proporre’ il tipico carattere bicromo medievale agli edifici che ne erano privi in parte o del tutto, si realizzavano facciate ‘in stile’, ridando unitarietà al monumento. Per Santa Maria del Fiore attraverso un progetto ex-novo, mentre per Santa Croce si fece la fronte sulla base della supposta pretesa del ritrovamento del progetto ‘originale’ (in verità quattrocentesco, anche se mai mostrato da Matas, l’esecutore del XIX secolo). Quindi la realizzazione, secondo quanto sosteneva l’Autore della facciata, sarebbe stato il primo esempio a Firenze di un progetto originale realizzato ‘in differita’ (anche se, ovviamente, non corrispondeva a verità e tutti lo sapevano). Di tali esempi, dunque, ve ne sono stati nel corso dei secoli anche con casi eclatanti e diversificati.

Anzi dobbiamo dire che la questione a Firenze è stata sempre affrontata in maniera puntuale ripresentandosi nei secoli. Ci tengo a voler porre sullo stesso piano il problema della costruzione di differita, della ricostruzione e della realizzazione in stile. Non dimentichiamo l’ampliamento ‘in stile’ di vari palazzi rinascimentali a cominciare da Palazzo Medici, Palazzo Rucellai o l’ampliamento di Palazzo Pitti con interventi più volte succedutisi nel tempo, ma pur sempre mantenendo il carattere originario dell’intero complesso. Consuetudine che si perpetua soprattutto nei grandi interventi ottocenteschi a cominciare dal ‘completamento-ampliamento’ di Palazzo Gondi in piazza San Firenze etc. Interventi che vengono giustificati in parte per la questione del Decoro mantenendo ferme, sempre, le caratteristiche dei vari edifici: a volte per placare le polemiche si inventava addirittura un fantomatico ritrovamento del progetto originario, come nel caso del citato intervento della facciata di Santa Croce. Quindi da sempre, e soprattutto nell’Ottocento, la questione, oltre che di decoro cittadino, è divenuta di coerenza stilistica, ma anche sulla base di uno specifico portato politico, che, all’indomani dell’Unità d’Italia e della proclamazione di Firenze Capitale, diventava cogente per la città a seguito degli interventi poggiani. Un’operazione culturale di ampio respiro internazionale, di grande marketing, come si direbbe oggi, che contribuiva a dare ulteriore lustro alla stessa Firenze permettendo così, anche, di creare, inserendosi sulla ‘scia’ del cosiddetto ‘Piano Poggi’, un’unitarietà stilistica, accentuando i caratteri della città rinascimentale (neo-rinascimentale) celebrata come la città del Rinascimento italiano per eccellenza.

Ferruccio Canali, Santa Maria Novella on black, 2013

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E le due differenti operazioni, quella urbanistica su grande scala e quella architettonica su ‘piccola’ scala, non facevano altro che ‘ri-dare’ a Firenze quell’idea di città che da allora in poi entrerà nell’immaginario collettivo mondiale con una propria caratterizzazione (un brand si dice oggi!). L’operazione, guardata a distanza di più di un secolo, come sappiamo ha avuto una ricaduta d’immagine di grande lungimiranza, considerato il ritorno economico che, tramutato in soldoni, ha contribuito a dare a Firenze e all’Italia stessa un incremento economico difficilmente quantificabile, ma sicuramente assai importante nei vari settori produttivi legati all’Arte e alle Arti Applicate, facendo dell’Italia il paese della ‘Bellezza’ per eccellenza. Un recupero ‘primitivista’ e rinascimentale della Storia di Firenze, che si è posto di assai lunga durata: non dimentichiamo la grande operazione di marketing del conte Giorgini, ancora negli anni Cinquanta del Novecento, che nel lanciare la Moda italiana, utilizzava le gradi sale di Palazzo Pitti per dare una connotazione di prestigio antico a quella Moda stessa fondata, ancora una volta, sulla grande Arte e Architettura del Rinascimento fiorentino. Operazione culturale che ebbe subito una ricaduta non di poco conto a livello internazionale, ma anche una formula in parte già sfruttata dal grande ‘calzolaio’ Salvatore Ferragamo, quando, all’indomani del ritorno dagli Stati Uniti, si stabiliva a Firenze per dare al suo prodotto un ulteriore valore aggiunto fondato sulla grande maestria artigianale tipicamente toscana. Quindi, l’eventuale realizzazione di un edificio o parti di esso in ‘differita’, e nel caso nostro della eventuale messa in atto del progetto di Michelangelo per la facciata di San Lorenzo, sarebbe in ogni modo

auspicabile, visto il ritorno d’immagine dell’intervento a livello internazionale a cominciare dal dibattito che ne scaturisce. Quindi Firenze ne avrebbe ancora da ‘guadagnare’ con un ulteriore valore aggiunto, considerata l’entità del progetto e la levatura del grande Artista universale cinquecentesco. A livello generale tutto sembrerebbe orientare verso una potenziale positività dell’intervento proposto. Il problema, però, oltre a presentare questioni di carattere tecnico-realizzativo - in parte anche insormontabili se si dovesse rispettare filologicamente la tecnica del cantiere cinquecentesco (a parte i costi di realizzazione, ma sono l’ultima questione) – impone anche il problema non trascurabile dei risvolti etico-culturali sulla liceità o meno di tutta l’operazione. Ma mettiamo il caso che quest’ultima componente non venisse presa in considerazione: resta in ogni modo il quesito dell’impatto sul contesto ambientale storicizzato; quesito che dovrebbe in ogni caso essere considerato. Con tale operazione si annullerebbe, infatti, l’immagine ormai storicizzata dell’invaso della piazza anche se quello spazio attuale non ha nulla a che vedere con la piazza rinascimentale. Come sappiamo l’attuale piazza San Lorenzo è il frutto di più interventi edilizi ed urbanistici succedutisi nel tempo e non da ultimo la demolizioni di alcuni isolati attuata alla fine dell’Ottocento e ancora nel Novecento, per l’allargamento dello spazio e l’isolamento del monumento a Giovanni dalla Bande Nere. Forse proprio questo porterebbe a suffragare la tesi degli ‘interventisti’ a scapito dei ‘non interventisti’ in riferimento alla facciata. Infatti la realizzazione del progetto michelangiolesco, considerato che la piazza come noi la conosciamo è il frutto di successivi aggiustamenti

Ferruccio Canali, San Lorenzo e la facciata che non fu, 2013

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e modifiche (fino al XX secolo), verrebbe ad inserirsi come un ‘naturale evento’ architettonico-urbanistico, ponendo la questione del percorso naturale delle cose dell’Uomo e della Natura secondo la “Teoria del Relatività” ovvero considerando che “Tutto si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Quindi apparentemente la realizzazione della facciata sarebbe ‘cosa naturale’ e quindi non porrebbe nessun problema ‘morale’, a questo punto.

giorgio caselliI contributi proposti dal “Forum” sono di tale valore che, insieme all’interesse del tema, non permettono di sottrassi alla riflessione. Condivido le sensazioni di Francesco Quinterio su una condizione che accomuna un po’ tutti noi Architetti conservatori, di carta non solo per strumenti utilizzati, ma anche per un orizzonte metodologico oramai “musealizzato”, con un briciolo di invidia verso i grandi Maestri della nostra disciplina (alcuni ancora viventi) che, mentre stabilivano proprio quelle regole del gioco, hanno dato sapiente dimostrazione del fare in Architettura. Vorrei solo soffermarmi un attimo sulla considerazione che se dalla nostra esperienza della materia il tenore della questione possa raggiungere una tale argomentata articolazione di posizioni, tutt’altro che condizionate da esigenze di allineamento critico con il ristretto orizzonte di azione consentito dalla Norma, siamo di fronte non solo alla migliore testimonianza dell’attualità e del rilievo disciplinare degli interrogativi posti dal “Forum”, ma anche ad uno spiraglio dei territori che potremmo provare ad esplorare. Le opinioni finora espresse non sembrano contemplare, pur nella straordinaria varietà e nel rigore critico dei concetti espressi, un ambito di analisi che mi sento di avanzare, ovvero quello della “prospettiva” urbana di certe scelte ricompositive. Non mi sorprende, in tal senso, che le vicende di grandi contesti religiosi cittadini - da Santa Croce a Santa Maria del Fiore - abbiano reso possibile i noti completamenti; esiti che non relegherei sono alla sfera della Cultura del tempo o delle istanze di leggibilità ambientale, bensì anche e soprattutto all’evoluzione urbanistica che ha determinato condizioni e tempi profondamente diversi. Un siffatto

presupposto sembra ancor più evidente nel contesto in questione, quello di San Lorenzo, che dalle stesse scelte insediative, attraverso i contributi di grandi Artefici, fino alle vicende del passato più recente, ha sempre rivelato la sua natura di sito ‘difficile’. Come sarebbe potuta cambiare la vicenda della facciata se gli studi di Leonardo del 1515 ricostruiti da Carlo Pedretti in “Leonardo Architetto” (Milano, 1981 p.251) avessero effettivamente dato luogo alla superba prospettiva urbana paragonabile solo a quella riservata, per l’appunto, a Santa Croce? Quali aspettative avrebbe generato un tale invaso urbano sulla scenografia architettonica deputata a delimitarne lo spazio? E tutto ciò tenuto conto di come la vicenda urbanistica di San Lorenzo, ordita intorno alle scelte rappresentative e celebrative della famiglia medicea, si consumi indistintamente sia lungo l’asse della via Larga, che intorno al fulcro della Basilica. Di queste vicende, la prima (su via Larga) ha permesso lo sviluppo nel tempo del complesso apparato architettonico, ma che ancor oggi si legge nei fronti stradali, a partire dall’estensione riccardiana di Palazzo Medici che Virgilio Galati riconduce, correttamente, ad una precisa categoria stilistica, ma per la quale non riesco ad archiviare la suggestione del naturale approdo verso una primigenia concezione insediativa (una suggestione suscitata da Maria Teresa Bartoli che collega il risultato dell’addizione al nucleo michelozziano con il disegno del Filarete, ipotizzando che l’architettura realizzata nel Quattrocento fosse solo una parte di un progetto urbanisticamente più ambizioso, effettivamente realizzato due secoli dopo: «si ritenne che il Palazzo potesse essere uniformato al disegno completo dalle future generazioni»: M. T. Bartoli, L’architetto di Palazzo Medici, in Il disegno come conoscenza dell’ architettura, «Firenze Architettura» 1/2. a. VII , 2003). E perché non vedere in tale esito il completamento monumentale (filologico?) che consegue il perfezionarsi di una visione urbana quale quella riconoscibile nell’asse viario Duomo-San Lorenzo, cui si uniformano le scelte insediative con architetture concepite, nel tempo, secondo una tale prospettiva. Medesime considerazioni non sembrano valere per la piazza retrostante la cui vicenda urbana testimonia le

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ambiguità che ancor oggi consentono che un mercato impedisca la percezione del monumento ‘incompiuto’. Per questa piazza, allora, non sembrano valere tanto le istanze di leggibilità di una qualità ambientale, quanto quelle finalizzate a decifrare la connotazione urbana e politica del luogo, come se il progressivo disperdersi di questa identità non consentisse neppure il nostalgico apprezzamento che in taluni ancor oggi suscitano le vedute di Santa Croce prima dell’esecuzione della nuova facciata; ma il valore documentario di questa porzione di città (anche di quella rimasta sulla carta) non dovrebbe suggerirci di allargare il campo di analisi sull’unità potenziale dell’opera verso tutta quella parte di città che consenta all’intervento di restauro, l’unico permesso dalla Legge, di decifrare il valore complessivo del Bene nel suo complesso dalle sue parti residue, consentendo la sola e assoluta percezione delle medesime. In tale ipotesi e di fronte a strategie di valorizzazione del luogo, quali quelle che si propongono alla cronaca dei nostri giorni in merito alla sistemazione dell’area mercatale, abdicherei la questione etica per una riflessione decisa e consapevole sull’integrazione “materica” di una lacuna dell’opera d’arte, chiesa e città. In questo risiede con tutta probabilità il senso delle proposte avanzate dall’Amministrazione per il completamento della facciata. In questo processo di riconoscimento del valore culturale del luogo il contributo del progetto - di Michelangelo o di Renzo Piano - potrebbe ricondursi alla ‘semplice’ sfera delle scelte critiche sottese alla integrazione di Restauro (reversibile, riconoscibile, linguisticamente misurata, ma capace di restituire una contemporanea leggibilità al luogo), sdrammatizzando non di poco le implicazioni disciplinari suscitate dai quesiti del “Forum”. Allora potremmo anche immaginare, dopo la riscoperta della Storia, il setup del metodo e il fidanzamento con la scienza di esplorare una nuova fase della conservazione, quella della ricerca, fatta non più di carta o di vetrino ma di progetti “militanti”, per una nuova rigenerazione critica della città storica.

3. Sempre su edifici monumentali, po-trebbe essere una interessante ‘linea operativa’ quella di realizzare idee, anche di massima, messe a punto da noti

Progettisti scomparsi, facendo salva la proposta generale, anche se non i dettagli di cantierizzazione (Comple-tamento monumentale ‘in differita’)?

olimpia niglioCompletamenti e costruzioni “in differita” hanno da sempre riguardato la storia di molte delle architetture monumentali italiane ma il tema ha interessato ed interessa tuttora anche contesti urbani stranieri. In Europa molto attuale è il caso che riguarda il completamento della Sagrada Familia a Barcellona in Spagna, progetto di Francisco de Paula del Villar e Lozano, già restauratore della basilica di Santa Maria del Pí in stile gotico catalano del XIV secolo. La prima pietra della Sagrada Familia fu posta nel marzo del 1882 ma l’anno seguente Villar morì ed il cantiere fu affidato al giovane Antoní Gaudí che con non poche difficoltà lo diresse fino al 1926, anno della sua improvvisa morte. Purtroppo l’opera non arrivò al suo completamento e nonostante differenti tentativi di conclusione del cantiere oggi la cattedrale è tuttavia oggetto di un progetto che tarderà ancora di molto il termine dei lavori, previsti intorno al 2026. L’esempio della Sagrada Familia anche se un caso non italiano né tanto meno fiorentino ci consente però di introdurre ed analizzare una tematica molto interessante che è quella del valore ambientale e di autenticità di queste opere realizzate in “differita” a cura di tecnici che non sono i progettisti dell’opera, bensì solo “eredi culturali incaricati” di un sapere non proprio e che pertanto non sempre per questi risulta semplice trasmettere e concretizzare materialmente l’autenticità di un progetto. Il tema non investe solo aspetti formali e funzionali che ovviamente le contemporanee esigenze richiedono di modificare, ma principalmente interessano l’impatto dell’opera su un contesto urbano spesso storicizzato ed il cui ambiente culturale molte volte “grida vendetta”. In realtà una volta completata un’opera in “differita” ciò che prevale è il gradimento percettivo e non il reale buon senso connesso alla concreta e rispettosa realizzazione dell’opera secondo i canoni stabiliti dal progetto originario e quindi dal suo progettista. In realtà completare un’opera in “differita” implica il riesame del rapporto tra un’architettura storica ed un intervento

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necessariamente contemporaneo. La perfetta conoscenza di un’architettura progettata o parzialmente realizzata in epoche a noi più o meno recenti, non sempre è accompagnata da una consapevole conoscenza delle tecniche costruttive nonché delle modalità operative con cui queste opere sarebbero state realizzate se edificate completamente nella propria epoca di appartenenza. Così, ad esempio, un progetto della prima metà del secolo XX verrà oggi completato con metodi e tecniche che differiscono fortemente e necessariamente da quelle che sarebbero state messe in opera a suo tempo come per l’appunto sta accadendo nel cantiere della Sagrada Familia a Barcellona. Tutto questo si manifesta perché gli operatori del settore, nel migliore di casi, hanno una buona conoscenza teorica ma non certamente pratica delle principali metodologie operative che hanno caratterizzato i cantieri nelle differenti epoche storiche; differentemente tale conoscenza teorica però ha il pregio di stabilire, consapevolmente, un limite tra le differenti fasi costruttive di un’architettura e quindi delineare una storia della fabbrica grazie alle evoluzioni tecniche che nel corso del tempo si sono manifestate. Quindi ciò che alla fine si conserva, qualora possibile, è solo un aspetto formale ma non tecnico e né tanto meno autentico delle intenzioni del progettista e della sua epoca. Per questo motivo l’opera di completamento “in differita” anche se riferita fedelmente ad un progetto di cui sono noti tutti i disegni ed i particolari costruttivi sarà necessariamente un’opera contemporanea che tenterà di stabilire un dialogo con il progetto originario nonché con la preesistenza, nel rispetto del risultato formale finale ma non certamente tecnico e metodologico. Una concezione questa tutta occidentale che non trova riscontri invece nella cultura orientale in cui la conoscenza dei saperi costruttivi autentici costituisce la base di un buon intervento anche là dove si parla di parziale completamento o di totale ricostruzione di un’architettura monumentale in cui però è sempre dichiarata l’epoca di realizzazione. Quindi che cosa prevarrà a favore di questa opera realizzata in “differita” affinché questa possa essere accettata? Certamente sarà il risultato di “facciata”, quello percettivo proprio dell’ammirazione del volgo

e quindi il riconoscimento del suo valore ambientale all’interno di un contesto storicizzato in cui il falso filologismo è percepito solo da pochi. Questo valore di “facciata” ovviamente interverrà sul riconoscimento del valore ambientale dell’opera ed in cui è spesso la sua totale neutralità o “assenza innovativa” a garantire quel riconoscimento collettivo che le assicurerà una buona vita futura “senza lode e senza infamia”. Con particolare riferimento all’Italia, fatte piccole eccezioni, le cose si complicano notevolmente in quanto le limitazioni imposte dal quadro normativo vigente, soprattutto nei centri storici, non sono certo a favore di un operato che possa mettere in atto un progetto di completamento di un’opera del passato in chiave contemporanea. La legge n°633 del 1941 ed il più recente Codice Urbani n°42 del 2004, in nome dell’interesse culturale di un bene e del vincolo ambientale su di questo individuato, spesso ne facilitano anche irreversibilmente la sua totale perdita o nei migliori casi l’abbandono proprio per le difficoltà di intervento.

tommaso carraFielloCondivido pienamente il concetto espresso da Olimpia Niglio secondo cui il completamento monumentale ‘in differita’ costituisce sempre «un’opera contemporanea che tenterà di stabilire un dialogo con il progetto originario nonché con la preesistenza». Risulta evidente, infatti, che l’evoluzione delle tecniche costruttive e delle modalità operative, insieme al cambiamento dell’intero contesto storico, culturale ed ambientale costituiscono delle difficoltà insormontabili. Ciò che non mi convince, invece, è il fatto che questa constatazione debba costituire necessariamente un elemento così inopportuno da sconsigliare anche il ‘completamento monumentale’ finalizzato al conseguimento dell’omogeneità del tessuto o di percezione. A questo proposito mi ha colpito molto il costante e reiterato richiamo alla ‘autenticità’ del progetto, considerato quale valore ‘in sé’ non derogabile e non negoziabile. Un atteggiamento mentale che mi ha richiamato alla memoria la ben nota polemica sul concetto illusorio della fotografia concepita quale semplice rappresentazione documentaria, brillantemente risolta dalla critica

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più avvertita evidenziando tutte le decisioni soggettive che sottendono la realizzazione di una ripresa fotografica. Un tempo si faceva riferimento alla scelta della pellicola (sensibilità, bianco e nero o colore, resa cromatica, ecc.), dell’obiettivo, del formato di ripresa, fino a quella della fatale combinazione reciproca tra tempo di esposizione e apertura del diaframma; tuttavia anche dopo l’avvento della fotografia digitale la semplice decisione di ‘ritagliare’ una piccola porzione della realtà che ci si presenta alla vista, escludendo contestualmente tutto ciò che rimane ai suoi margini, e di fissarne l’aspetto in una ben determinata condizione di illuminazione, è sufficiente a disinnescare ogni possibile contestazione sulla non-oggettività del mezzo fotografico. A questo proposito piace ricordare l’appassionato richiamo di Italo Zannier al valore di una «cosciente ‘cultura fotografica’, che tenga conto del linguaggio del mezzo espressivo, il quale, come ogni altro, assegna inesorabilmente il significato alle immagini, perché queste sono portatrici di concetti e non soltanto di informazioni, che oltretutto si vorrebbero neutrali, meccaniche, ‘fotografiche’ appunto» (“Architettura e fotografia”, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 60). Seguendo questo principio egli ritiene che anche la Fotografia dell’Architettura non debba limitarsi ad un intento meramente informativo e descrittivo di un oggetto compiuto, bensì aspirare ad un possibile progetto di rivalorizzazione complessiva, orientato alla re-interpretazione dell’opera stessa. A mio parere, quindi, come la fotografia non può essere intesa quale semplice ‘disegno meccanico’ della realtà, allo stesso modo la reificazione di un progetto antico, storico o comunque non contestuale all’epoca di esecuzione non deve essere considerata come una banale “costruzione meccanica”. Vorrei richiamare l’attenzione, infatti sull’importanza del ‘processo’ che conduce alla concreta realizzazione di un ‘completamento monumentale’, il quale comporta un serio ed approfondito progetto di ricerca ed approfondimento sull’Autore, sulla sua opera, sul contesto storico ed ambientale, nonché sulle stesse tecniche e modalità operative dell’epoca. Si aggiungano, inoltre, le inevitabili polemiche ed i relativi dibattiti che arricchiscono

ulteriormente il ‘corredo culturale’ di tutti questi interventi. Pertanto anche se il risultato non sarà mai il manufatto che sarebbe stato realizzato dal Progettista originario, in un preciso momento storico, con i materiali ed i mezzi a sua disposizione, il ‘processo intellettuale’ innescato da una simile operazione può giustificare e favorire quantomeno l’ipotesi della sua concreta realizzazione. Ciò che fa veramente la differenza è la qualità dell’architettura realizzata, anche alla luce di tutti i preventivi approfondimenti di documentazione e di ricerca, che determinano inevitabilmente una complessiva crescita culturale. Non si tratterebbe, quindi, di attuare una nostalgica operazione analoga al ‘dov’era e com’era’, bensì di sviluppare un processo interpretativo contemporaneo, tutt’altro che censurabile, che potremmo prefigurare ricordando l’espressione utilizzata da Gabriele Morolli, ideale ispiratore di questo stesso Forum, benché nell’ambito di un contesto storico ed operativo assai diverso: «esprimere concetti nuovi con parole antiche» (L’ “immaginoso dettaglio”…, in Cesare Bazzani (1873-1939) e la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, a cura di F.Canali e V.C.Galati, Firenze, Bonechi, 2001, p. 135). Nel nostro caso le «parole» sarebbero costituite dal progetto originario e dalle contestuali tecniche esecutive, mentre il «concetto nuovo» è assimilabile alla sua realizzazione ‘in differita’, opportunamente supportata dal relativo ‘processo’ conoscitivo ed interpretativo. D’altronde la stessa mancata realizzazione (o ultimazione) di un’opera all’epoca della sua progettazione potrebbe essere sufficiente a far apparire tutt’altro che essenziale il richiamo alla ‘autenticità’ di un manufatto architettonico realizzato ‘in differita’. Infine se consideriamo la finalità “ambientale” di una simile operazione, vale a dire l’omogeneità di tessuto o di percezione, il semplice “gradimento percettivo” non dovrebbe costituire un limite deplorevole, tanto da impedirne l’attuazione, soprattutto se la modalità di intervento è conseguenza di una scelta “consapevole”. Non trovo nulla di scandaloso, infatti, nel «gradimento percettivo proprio dell’ammirazione del volgo» se questo consente di arricchirne il bagaglio culturale

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e di stimolarne il senso estetico poiché, anche se il «falso filologismo è percepito solo da pochi», chi potrà mai sostenere che la copia del David in piazza della Signoria a Firenze, o quella delle cariatidi dell’Eretteo ateniese non abbiamo determinato virtuose ricadute culturali e sociali sui turisti che le hanno ammirate, a prescindere dalla loro effettiva ‘autenticità’?

Virgilio carmine galatiIl ponte norvergese di Leonardo da Vinci: un’applicazione particolare della categoria della realizzazione ‘in differita’ Tra le realizzazioni in ‘differita’ non possiamo non ricordare l’esecuzione ad Aas, presso Oslo in Norvegia, a partire dal 2002, di un ponte realizzato sulla base del progetto leonardesco a suo tempo pensato per il Bosforo. Un progetto con una storia piuttosto singolare, che dovrebbe risalire agli anni 1501-1503, quando Leonardo era in Romagna al soldo di Cesare Borgia e quando a Roma erano gli ambasciatori turchi (mandati dal sultano Bajazed II) alla ricerca di Architetti e Ingegneri italiani a cui chiedere un progetto per il nuovo ponte che sostituisse quello vecchio di barche; è stato supposto, sulla base di una lettera scritta in lingua turca, che sembra la traduzione di alcuni scritti di Leonardo, che l’Ingegnere avesse dato al Sultano la propria disponibilità nel 1502. Di quella lettera, che accompagnava molto probabilmente il progetto grafico del ponte, non si aveva conoscenza fino ai primi anni Cinquanta del Novecento: il documento è stato ritrovato negli archivi del palazzo imperiale di Topkapi nel 1952 da Franz Babinger, Orientalista dell’Università di Monaco (la notizia sul ritrovamento della lettera in Italia apparve sulle pagine del “Nuovo Corriere” del 23 marzo 1952, come ha da ultimo sottolineato Carlo Pedretti il 2 novembre 2001 su “Il Corriere della Sera”). Un piccolo schizzo del ponte è presente invece nel “Taccuino” leonardiano di Parigi, ma si tratta di soli 10 per 7,5 centimetri. Quel progetto molto probabilmente, però, non piacque (forse per questioni politiche interne) e così il nuovo Sultato, Mehmeth il ‘‘conquistatore”, diede incarico di un nuovo progetto niente meno che a Michelangelo. Il progetto di Leonardo, dimenticato per secoli ha avuto, però, grande successo

tra gli storici, tra gli architetti e infrastrutturisti – sempre attenti al mito leonardiano del “Genio universale” - tanto che, nel 2002 in Norvegia, ne è stata realizzata una versione semplificata e modernizzata, sia nello stile che nei materiali, da parte dell’architetto-artista Vebjörn Sand; una seconda versione verrà realizzata, secondo le intenzioni dello stesso Architetto/artista, ispiratore della prima, proprio dove Leonardo da Vinci l’aveva prevista, nel Bosforo per collegare Galata a Costantinopoli. La prima idea, infatti, di realizzare il ponte sulla base del progetto leonardiano si deve, appunto, a Sand. L’idea gli venne in seguito alla mostra “Leonardos Broar” (I ponti di Leonardo), organizzata a Stoccolma nel 1994 (Pedretti), a ribadire l’importanza anche ‘concreta’ delle Esposizioni; poi vennero coinvolti una serie di esperti tra progettisti e ingegneri per rendere esecutivo, sulla base delle nuove tecnologie, lo schizzo. Si tratta di un ponte ad un’unica campata con una luce di 240 metri circa, ma la ridottissima dimensione del disegno originario ha imposto – come sempre succede nelle realizzazioni in differita – notevolissimi aggiustamenti. In primo luogo le non poche difficoltà tecnico-realizzative, anche a partire dal problema delle azioni degli agenti atmosferici: si è scartata fin da subito l’idea di una esecuzione in pietra, come era stato invece previsto da Leonardo, optando per legno lamellare e acciaio (quindi una struttura molto più leggera), a partire comunque da una dimensione molto più ridotta rispetto a quella prevista per il Bosforo. Riprendendo lo schema geometrico di Leonardo, nel 2002, i tecnici sono riusciti a provare che il progetto originario, comunque, poteva reggere benissimo, anche se con materiali e dimensioni differenti. Ma soprattutto è stato verificato che quella forma geometrica non era unicamente ‘formale’, ma era stata scelta, piuttosto, per motivi statici, per ottenere, diremmo oggi, una linea quasi aerodinamica tesa a superare le forti spinte del vento, che nello stretto del Bosforo hanno un picco elevato; una forma geometrica che, in più, era decisamente innovativa (ponti ad un’unica luce di tali lunghezze non se ne erano visti prima; bisogna aspettare la fine dell’Ottocento con i ponti in ferro). Tutti gli

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aggiustamenti – di dimensioni, di materiali e anche di profilo geometrico concreto, modernizzato - che sono stati ora imposti dalla realizzazione, possono creare delle perplessità filologiche: si tratta ancora del “ponte di Leonardo”? Di Leonardo resta l’idea ‘simbolica’ in Norvegia come sul Bosforo, quella cioè di porsi come asse di comunicazione fondamentale, poiché il ponte sorge sulla E18, la via che collega la Norvegia al Continente europeo (la stessa intenzione che ha mosso il premier turco Erdogan nel 2011 ad annunciare la realizzazione del “Ponte di Leonardo” sul Bosforo, un ponte pedonale e ciclabile a 25 metri d’altezza sul livello del mare, lungo 220 e largo 10 metri e quindi di dimensioni molto più vicine a quelle del progetto cinquecentesco). Ancora una curiosità: mentre la Legge norvegese prevede che i ponti debbano almeno durare 100 anni, per il pon-te di Leonardo ‘in differita’ i Pro-gettisti hanno ipotizzato una durata massima di 40 anni; considerato però che il legno lamellare in molte parti si sta già sfogliando, per via delle forti escursioni climatiche e dell’e-levato gradiente d’umidità, forse i tempi di durata si stanno già riducen-do ulteriormente. Resta interessante la ‘declinazione norvegese’ dell’idea del ‘Progetto in differita’: si trat-ta, in mancanza di materiali esecu-tivi originari, di un utilizzo della sola ‘geometria leonardiana’, adatta-ta alla tecnologia tipicamente scan-dinava del legno lamellare, mantenendo solo l’idea originaria essenziale. E tutto ciò senza alcun problema di Fi-lologia, visto che l’opera viene re-alizzata non in un ambiente storico, ma in uno spazio naturale aperto e senza alcun difficile dialogo con le preesistenze, (al contrario del ponte che sul Bosforo che avrà un impatto con il contesto non di poco conto, oltre al portato culturale che sostie-ne, considerato che il progetto era nato proprio per unire le due sponde del Bosforo; anche se ci sarebbe an-che in quest’operazione una forzatura concettuale e storica). Il progetto di Leonardo non era stato sostituito dal progetto dell’antagonista Michelange-lo. A questo punto l’interrogativo che si pone è naturale: quale dei due pro-getti sarebbe legittimo/illeggittimo riproporre? Perché privileggiare il progetto di Leonardo? Forse perché il progetto di Michelangelo non ci è per-venuto? E se la ricerca lo rinvenisse?

4. La possibilità di ‘Completamento’ degli edifici monumentali è comunque preclusa a priori, come vogliono documenti teorici ufficiali (“Carte del Restauro”) o si possono, invece, ipotizzare possibilità alternative? Un Monumento deve comunque considerarsi ‘chiuso’ o, in verità, come dimostra la pratica corrente, è ‘chiuso’ solo a certi completamenti, ma non a trasformazioni anche assai significative (si pensi agli edifici monumentali in uso per scopi diversi da quelli per i quali furono pensati)? In tutto ciò non si può vedere la politica dei ‘due pesi /due misure’?

Francesco QuinterioEsecutori dei celebri progetti affacciati sulle campate della “Strada Novissima” nelle navate della Corderia dell’Arsenale nel 1980, erano stati chiamati gli scenotecnici di Cinecittà, già celebri per i loro impeccabile professionismo fin dal tempo delle grandi co-produzioni della Hollywood sul Tevere degli anni Cinquanta, ma già avviati in quella crisi che colpiva il settore cinema. Gia, gli scenografi di Cinecittà. Dovremmo far tesoro di questa informazione che ci giungeva dal cantiere della Strada Novissima e che stabiliva se non altro una correlazione di armoniose mete, proprio là nei cantieri della Serenissima, dove da mezzo secolo, anno più anno meno, si celebrava col Festival del Cinema di Venezia (fondato nel 1932 e inutilmente – più che ‘ingiustamente’- indebolito dalla recente superflua veltronata del Festival autunnale del cinema di Roma) un altro di quei primati culturali italiani, di cui dobbiamo ricordarci. Anche perché di tale memoria dobbiamo più giustamente andare fieri, dato che ci fornisce di quel poco ossigeno utile per recuperare questa nostra “serva Italia” dalle recenti perdite di terreno dal punto di vista etico-cultural-umanistico, fiaccata dalle impasse di governi rozzi e pallonari! Di fatto proprio i laboratori di scenografia di Cinecittà, si erano distinti nel corso di un secolo esatto per l’incontrastata bravura degli scenografi e soprattutto scenotecnici italiani, forti di un primato che risaliva (per il solo teatro ovviamente!) a quasi tutto il Cinquecento. Pensiamo per un momento ai laboratori scenografici dei maggiori teatri italiani (Arena di Verona, La Scala a Milano, Comunale di Firenze,

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San Carlo di Napoli, Massimo di Palermo): da quanto tempo languono dispersi da una crisi non solo finanziaria, che nel ramo dello spettacolo penalizza questa pregiata manovalanza tramandatasi nei decenni da una preziosa messe di pratica esecutiva? Una pratica penalizzata ora da una povertà di idee di messe in scene, spesso debitrici da mode anglosassoni che nello svuotare palcoscenici o nell’attualizzare spettacoli concepiti secoli fa, troppe volte ‘toppano’ in pieno i risultati, tradendo un inesistente patrimonio musicale di base che la perfida Albione dovrebbe almeno con pudore riconoscere! Ed ecco dopo questa incursione in un campo come quello dei laboratori scenografici italiani in crisi, la proposta di fornire loro nuova vitalità offrendo l’occasione di una scenografia ‘permanente’ da esterni, soprattutto ora che da molti decenni esistono materiali in grado di resistere alla sfida con gli agenti atmosferici (non più i reperibilissimi supporti in legno, la vecchia tela dipinta, il gesso) con la fibra di vetro e le materie plastiche. Non sarebbe certo questa la prima volta di chiamare in sussidio della visualizzazione di elementi architettonici nel contesto di una cornice urbana (una facciata appunto, un monumento), quelli prodotti a minor costo e soprattutto a minor peso, per simulare elementi tipici della ‘rappresentazione architettonica’, senza così dover ricorrere alla più costosa opera muraria, i ponteggi, a uno spreco di tempo e danaro. Ricordo per Firenze, negli anni Settanta che i laboratori del Maggio Musicale realizzarono una copia lievemente ridotta di scala del monumento a Dante, che all’epoca era al centro di piazza Santa Croce; questo perché si doveva rimuovere l’originale, onde potere realizzare un ampio parcheggio di superficie (… altri tempi!). Ebbene con la copia scenografica furono provate varie posizioni alternative, fra cui una in un giardino pubblico e una al centro dell’aiuola in piazza Stazione. Infine - brillante idea - fu sistemata al fianco della facciata di Santa Croce del Matas e l’insieme non disturbava affatto: peraltro entrambi erano lavori ottocenteschi. In barba ai dibattiti, ai risultati, alle esperienze di una disciplina, possiamo intanto affermare che esistono due tipi di progetti di facciate incompiute in Italia

(soprattutto e sembra essere questo un problema italiano) e in Europa: quelle già ideate e quindi esistenti allo stato di disegno, a loro volta arricchite in alcuni casi con particolari (ma non si tratta comunque di esecutivi); oppure soltanto presentate nell’alzato, o anche con lievi sfumature e ombreggiature per accennare alla profondità degli aggetti , talvolta prive di prospettiva centrale indulgendo verso quella obliqua (soprattutto a partire dagli ultimi anni dell’800). Si tratta spesso dei risultati di concorsi monstre a cui avevano partecipato decine e decine di concorrenti. Un’idea – e qui ci fermiamo al caso fiorentino – potrebbe essere quella di proporre una facciata moderna il cui progetto potrebbe essere affidato a qualche architetto noto, evitando il più possibile il narcisismo di certe ingombranti “archistar”, o meglio chiedendo loro che nel progetto si riflettesse uno spirito che magari ’adombrasse’ il significato dell’edificio stesso. L’idea non è nuova; anzi ci avevano pensato a Firenze - in salsa artigiana - alcuni organizzatori facenti riferimento a un comitato locale (non ricordo più quale: quartiere? provincia?), sempre in quell’ anno 1980, in estate con un concorso-saga paesana, per la facciata del Santo Spirito brunelleschiano, rientrando comunque nei limiti di una ‘proposta di idee’. Chiunque era invitato a partecipare e i progetti, vincitori o vinti che fossero, venivano fotografati su diapositiva, quindi proiettati sulla bianchissima facciata della chiesa, coprendone con teloni bianchi i tre ingressi in basso. I progetti presentati – che ovviamente spaziavano fra il paludato storico-ricostruttivo e le tendenze, più sul becero che sul provocatorio, di certa pop art alla ribollita - rimasero esposti (e credo lo siano tuttora) nella saletta di un noto bar nella stessa piazza Santo Spirito. Quello che qui invece si propone vede anzitutto un progetto da realizzarsi in ‘solido’, scegliendo magari un fronte di edificio che altro non necessiti se non di un completamento che possa servire anche da elemento qualificante di un insieme. La mente va alla chiesa del Carmine, edificio già fortemente compromesso dai postumi di un incendio nel Settecento, affacciato su una piazza che è di una tristezza infinita: e qui non mi riferisco agli

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stati di allucinazione provocati dalla pavimentazione con le pietre scavate dalle intemperie e tutte sconnesse, peraltro coperte da un immenso parcheggio che non si vuol fare sotterraneo, in ossequio a una logica fiorentina dello sterile ‘criticare fine a se stesso’ e soprattutto senza intervenire. L’idea potrebbe essere quella di invitare ogni due o tre anni un noto architetto, cui appunto affidare un progetto da realizzarsi per conto di un laboratorio di scenografia, usufruendo questo della snellezza di un montaggio e smontaggio in tempi rapidi, impiegando i materiali più leggeri, ma anche più innovativi. L’architetto potrebbe in questo caso godere di una notorietà tale da potere perfino essere il protagonista di una mostra in suo onore magari da allestire a Palazzo Strozzi, ripristinando quella nobile abitudine che nel dopoguerra fino agli anni Settanta ha consacrato gli architetti più celebri (si ricordano le più famose su Wright, Le Corbusier, Aalto, tutte nobilitate dalla presenza degli stessi); un nobile costume questo, poi interrottosi alcuni decenni fa con l’eccezione della bella esposizione su Santiago Calatrava di qualche lustro fa, che con l’occasione progettò un ponte sull’Arno alle Cascine che (ovviamente) non è stato realizzato. Nel timore di un impiego eccessivo – visto l’obbligato e scontato umore negativo dei Fiorentini di fronte al nuovo (Pensilina docet) – si potrebbe montare alcune volte l’anno (festività patronali, natalizie, kermesse varie), per poi una volta smontato riporlo in un deposito ad hoc, del genere di quello in via del Prato accanto all’Hotel Villa Medici, che ospita il “Brindellone” (cioè il Carro dello Scoppio pasquale). Qualche anno dopo, potrebbe essere la volta dell’invito rivolto all’architetto B per proporre

un nuovo progetto, sempre in occasione magari di una mostra personale di cui sopra e così via. Così potremmo usufruire di più di una facciata del Carmine (scusate se insisto su questo argomento, visto che non esistono disegni di progetto nei quasi tre secoli che ci separano dal suo rifacimento) mentre per le facciate storiche mai eseguite come il San Lorenzo, la sua stessa storia dei tentativi parla da sé. Sarebbe bello vedere realizzato in fibroresina uno dei progetti del Sangallo e un paio di quelli di Michelangelo ma …. Un quesito: la parte scultorea chi la realizzerebbe? E su quali basi? Dato che quella visibile nei piccoli disegni potrebbe solo in alcuni casi essere abbozzata (i disegni sangalleschi sono chiari e mossi, quelli michelangioleschi no). Forse è meglio affidarsi al contemporaneo, visto la quasi inesistente presenza di questo in una città che dovrebbe costituire uno dei simboli dell’architettura del mondo intero.

enrica maggianiOperazioni di facciataIl tema del completamento della facciata della chiesa di San Lorenzo si presta ad essere considerato come esercitazione di “ricomposizione dell’immagine”, a partire dal concetto di immagine applicato al recupero, ovvero al completamento dell’oggetto architettonico. Concetto non strettamente tecnico, bensì legato alla rappresentazione mentale, agli aspetti culturali e persino affettivi della percezione dell’oggetto. E sono propri tali gli aspetti a cui voglio dedicare la mia nota, anticipandone fin d’ora la conclusione: questo completamento non s’ha da fare. Vi sono oggetti – d’ora in poi sempre sottintenderò che si tratta di architetture – la cui immagine, talvolta compiuta,

Ferruccio Canali, Santa Croce, 2013

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quasi sempre imperfetta o alterata, risulta appagante, non suscita disagio né domande: alla Torre di Pisa nessuno penserebbe di aggiungere un piano, e neppure di raddrizzarla con il filo a piombo. Vi sono altri oggetti la cui incompletezza, la cui disomogeneità o lo stato di abbandono o di rovina suscitano inquietudine, domande, ricerche: questi sono oggetti formidabili per chi consideri tra gli scopi dell’architettura quello di essere “una macchina per stimolare il pensiero”. Da questo punto di vista, la facciata di San Lorenzo è perfetta: da secoli se ne parla ed ancor oggi svolge egregiamente la sua funzione di stimolo. E il fatto risulta tanto più sorprendente se si considera che l’argomento “facciata di chiesa” appare lontanissimo dalla sensibilità di oggi, intendendosi la facciata come la superficie che annuncia, come una sorta di manifesto, l’organizzazione degli spazi interni dell’edificio e, più ancora, l’autorità ed il magisterio della Chiesa. Si pensi alle chiese contemporanee, formate da volumi e superfici che sfuggono alla percezione immediata, spesso senza un ingresso principale nettamente marcato, che suggeriscono l’idea della soggettività dell’esperienza spirituale, nella quale ognuno entra da dove può, che ognuno percepisce dal proprio punto di vista: chiese senza facciata, la cui immagine non può essere colta con un solo colpo d’occhio, emblematiche del relativismo che nonostante gli sforzi del papa emerito Benedetto XVI sembra ormai caratterizzare l’approccio alla religione. D’altro canto, è difficile ignorare che nel linguaggio comune il termine “facciata” ha implicazioni non positive; l”operazione di facciata” è quella compiuta per mascherare una realtà sgradita, difficilmente presentabile, per distogliere l’attenzione. Il completamento di facciata rischia di essere inteso come operazione di facciata, e non solo dal punto di vista architettonico, ma anche etico. Il rigetto del trapianto da parte dell’organismo sociale è pressoché assicurato. E Firenze ha già dimostrato, in anni recenti, di avere anticorpi tali da eliminare ciò che non vuole o non può assimilare. Però… non sia detto che si debba rinunciare a priori a qualsiasi sperimentazione. L’idea di Francesco Quinterio di sperimentare scenografie, facciate effimere (queste sì in consonanza con lo spirito dei nostri tempi),

nel massimo rispetto delle strutture esistenti, è molto convincente oltre che divertente. L’immagine della facciata potrebbe essere scomposta e ricomposta, verificata, discussa, in forme storiche e contemporanee, con gran vantaggio per il dibattito, con un ribollire della polemica fiorentina ed anche con una ricaduta mediatica sicuramente auspicata dalle autorità.

steFano paganoPremetto che, non avendo pregiudizi su qualsiasi forma di onanismo, trovo solleticante adoperarmi in tale pratica nella sua modalità concettuale. L’idea di Monumento “chiuso” mi fa orrore e mi attrae quanto quella di Monumento “aperto”. La naturale modellabilità e la reversibilità dello spazio umano sono talmente legate alle frazioni di storia in cui si muovono gli affanni culturali da rendere l’argomento simile a un fluido imbarazzante. L’affanno per la ricerca di “regole” non è mai stato ripagato con una duratura permanenza delle stesse, anzi, la velocità sempre più in crescita dei mutamenti di tendenza provoca di continuo una serie di paradossi il cui fascino non deve essere sottovalutato. Archeologia Industriale, Modernariato e simili amenità garantiscono attributi artistici e monumentali ad elementi sempre più recenti. Non è sbagliato. È semanticamente corretto ed è sempre in linea con i tempi. In quest’ottica anche installazioni provvisorie e temporali camuffamenti posticci diventano monumenti “usa e getta”. Ma quando possiamo definire “chiuso” un monumento? Quale momento della sua vita è più importante degli altri? Riusciamo a prendere decisioni in tal senso? In un impeto di correttezza, e rinunciando a qualsiasi possibilità di sintesi, diventerebbe necessario dipingere “mutande” su antichi genitali per poi rimuoverle ai cambiamenti del naturale ciclo del senso del pudore. Negli anni, nei secoli, nel tempo, le espressioni d’Arte (come d’altronde noi stessi) consolidano o modificano le proprie caratteristiche facendole diventare un vero e proprio “carattere”, a volte un “caratteraccio” ma pur sempre un elemento di unicità e di distinzione. Giovani e ribelli Palazzi di Giustizia, adulti e grigi Campanili “nervati” di modernità e vecchie Signore che custodiscono dogmi di antica sacralità forse diventeranno stratificazioni negli scavi archeologici dei prossimi

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millenni ma, al momento costituiscono l’identità del nostro habitat. Concludo. Può essere correttissimo completare un monumento in differita solo se diventa altrettanto corretto demolire la facciata di un’antica Basilica per sostituirla con un piano inclinato in zinco titanio e vetro. L’importante è e rimane scegliere la soluzione più “carina”. Ai posteri nessuna possibilità di sentenza.

tommaso carraFielloSono rimasto decisamente colpito dalle precedenti considerazioni di Enrica Maggiani e Stefano Pagano, poiché in un certo senso costituiscono l’esemplificazione di due posizioni nettamente contrapposte rispetto al tema proposto, benché entrambi non escludano in via generale la possibilità del completamento dell’oggetto architettonico, per così dire, ‘in differita’. La prima si appella agli aspetti ‘affettivi’, distinguendo i monumenti che risultano appaganti seppur imperfetti o alterati, dagli edifici che suscitano inquietudine per la relativa disomogeneità o a causa dello stato di abbandono. Il secondo, invece, manifesta una vera e propria insofferenza per ogni ipotesi di ‘regola’ assoluta, sottolineandone la frequente mutevolezza ed i paradossi che ne conseguono. Personalmente ho la sensazione che la categoria di pensiero introdotta da Enrica Maggiani sia basata su una valutazione estetica eccessivamente soggettiva e contingente. Infatti se è vero che il terminal degli autobus di Santa Maria Novella in via Valfonda (meglio noto come la “pensilina” di Cristiano Toraldo di Francia) ha avuto vita effimera per via degli “anticorpi” fiorentini, questa stessa città presenta tra i suoi maggiori monumenti numerosi esempi di architetture che sono il risultato di numerose superfetazioni e completamenti ‘in stile’, i quali passano il più delle volte inosservati e non disturbano la nostra sensibilità estetica soltanto perché assimilati visivamente nella loro configurazione attuale. Forse a fare la differenza è, ancora una volta, la ‘qualità’ degli interventi: ricordo che alcuni anni fa proprio a Santa Maria Novella comparvero degli osceni cestini per i rifiuti antichizzanti dei quali oggi non si trova, fortunatamente, più alcuna traccia; ma chi se la sentirebbe di contestare il bellissimo affresco Partenze di

Giampaolo Talani, che dall’agosto del 2012 domina la galleria di testa? A tacere della galleria commerciale, del ponte pedonale su viale Strozzi, del terminal della tramvia, nonché delle innumerevoli modifiche più o meno invasive determinate dalle esigenze dell’innovazione tecnologica ferroviaria. Si potrebbe ritenere, quindi, che anche nel caso di San Lorenzo l’attivazione di un opportuno processo operativo/interpretativo possa consentire la realizzazione di un progetto di facciata (nuovo o antico che sia) capace di suscitare un analogo appagamento estetico alle generazioni che verranno, tanto che qualcuno potrà addirittura sorprendersi che la ruvida superficie attuale sia rimasta tale per così tanto tempo. Assai più coraggiosa la posizione di Stefano Pagano che aprendo la possibilità di intervento ai risultati più estremi si traduce, di fatto, in una effettiva ‘sospensione del giudizio’, in favore di un’operatività talmente libera da assumere un’intensità quasi compulsiva. Nell’alternativa netta tra il fare ed il non fare, la proposta ‘processuale’ (ancora una volta!) di Francesco Quinterio mi sembra quella più equilibrata e foriera di risultati praticabili. Condivido con entusiasmo la sua idea di agganciare la problematica laurenziana ad una sorta di laboratorio di scenografia che sperimenti le più svariate soluzioni progettuali, anche senza l’obiettivo di pervenire ad una scelta definitiva. A questo proposito, ed abbandonando per un attimo il contesto fiorentino, mi piace accennare ad un’idea che circola nella mia testa da alcuni anni, stimolata proprio dalle piacevolissime ed appassionate chiacchierate (conversazioni? Lezioni? Cimenti?) con Gabriele Morolli a proposito della facciata di San Lorenzo. Il progetto originario di Ferdinando Fuga per il Real Albergo dei Poveri a Napoli prevedeva la realizzazione di cinque grandi cortili disposti in linea, per uno sviluppo complessivo del prospetto pari a circa 600 metri. Di questi sono stati realizzati soltanto i tre centrali, pertanto il fabbricato attuale misura circa 360 x 140 metri, ma ha recentemente riacquistato con l’antistante piazza Carlo III un rapporto molto simile a quello settecentesco, quale inatteso esito di un evento altrimenti deprecabile: la perniciosa proliferazione del distruttivo punteruolo rosso delle

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palme. Dopo i danni provocati dal terremoto del 1980, il colossale edificio è stato oggetto di alcune parziali campagne di ristrutturazione, che dovrebbero concludersi in un prossimo futuro restituendo alla città un manufatto di grande interesse sotto diversi profili, non ultimi quelli storico e sociologico. La conclusione del restauro e la successiva inaugurazione potrebbe essere un’ottima occasione per ipotizzare il completamento ‘effimero’ di questo imponente monumento, nell’ottica di un evento culturale simile a quello immaginato nella geniale proposta di Francesco Quinterio. La fattibilità dell’intervento è favorita dalla presenza dell’Orto Botanico sul lato Sud-Ovest dell’edificio, lungo via Foria, senza soluzione di continuità planimetrica; inoltre l’alto muro di contenimento dell’adiacente terrapieno, prese le opportune precauzioni, potrebbe offrire un opportuno supporto strutturale per l’installazione effimera. Più problematica la situazione sul lato opposto, in quanto gli edifici che prospettano su via Giovanni Gussone risultano leggermente avanzati rispetto al fronte del fabbricato esistente; tuttavia tale circostanza non sembra costituire un reale impedimento per la percezione della grandiosità di questo eccezionale monumento, nell’ambito della proposta ricostruzione virtuale del progetto originario. Infine la semplicità e la ripetitività delle membrature architettoniche contribuirebbe a contenere i costi dell’operazione, nonché a conseguire un risultato percettivo assai prossimo a quello immaginato dallo stesso Ferdinando Fuga.

5. Per quanto riguarda invece edifici da realizzare ex novo, potrebbe essere interessante realizzare idee progettuali di noti Progettisti scomparsi, in modo da garantire Autorialità all’opera, facendo salva l’idea generale, anche se non i dettagli di cantierizzazione (Costruzione ‘in differita’)?

olimpia niglioNon sono pochi i casi di progetti che la storia passata e recente ci ha tramandato e che sono rimasti chiusi negli archivi dei propri progettisti. L’Archivio di Stato di Roma, di Firenze o ancora l’Archivio

di Architettura Moderna presso il MART di Rovereto conservano un patrimonio indescrivibile di progetti e proposte elaborate fino alla loro definitiva approvazione e mai realizzati. Questa realtà non è solo storia recente ed i libri di architettura spesso ne mostrano alcuni peculiari aspetti. Non sono mancati in Italia come nei paesi stranieri casi di realizzazioni postume, anche dopo la scomparsa dello stesso autore-progettista. Si è trattato spesso però di realizzazioni reinterpretate e fortemente condizionate dalle differenti motivazioni che hanno condizionato l’«erede progettista» e con risultati non sempre soddisfacenti. Un progetto viene pensato, elaborato e sviluppato in una data epoca, in relazione al contesto culturale in cui il progettista si è formato, con condizionamenti sociali ed economici che con il tempo mutano rapidamente e con opportunità tecniche e metodologiche anch’esse in continua evoluzione. Tutto questo rende necessariamente diversa la realizzazione di un progetto di architettura, anche solo una idea, se non realizzata dal suo “artefice” e tanto più in epoca differente a quella nella quale è stata pensata. Questo significa che anche il tanto sperato significato di “autorialità” dell’opera necessariamente viene meno. L’architettura non è solo forma ma è una forma di contenuti che risentono della cultura del suo artefice e della epoca in cui l’opera è stata progettata. Per questo è preferibile conservare questi documenti architettonici non realizzati, farli diventare patrimonio culturale della comunità scientifica e non solo, consentirne lo studio e rintracciare in questi progetti le direttive per nuove proposte architettoniche che siano il frutto reale però dell’epoca i cui saranno realizzate. Che l’«autorialità» del progettista del passato costituisca un valido riferimento culturale per le nuove generazioni e che la creatività di queste non sia sacrificata in nome di un passato che vive grazie al futuro.

6. La cantierizzazione ‘in differita’, sia di Completamento monumentale sia di Costruzione, obbliga ad una serie di compromessi che non possono non andare a detrimento della Filologia: sarebbe comunque preferibile un’opera filologicamente imperfetta ma rispettosa dell’idea generale, oppure il mancato rispetto di certi caratteri

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dovrebbe obbligare a rinunciare ad ogni opera?

olimpia niglioSul tema proposto dal suddetto quesito risulta interessante tornare a riflettere sui concetti di opere paradigmatiche ed opere emblematiche così come proposte da Renato De Fusco. Le prime sono quelle che «per innovazione ed originalità creano una serie nel processo continuo preesistente». Le seconde sono quelle opere che invece «costituiscono un continuum preesistente alla nascita della fabbrica paradigmatica o che, riprendendola in qualche modo, replicano quel modello e costituiscono un continuum formato dal processo creatosi dopo il suddetto paradigma». La scelta di operare in una direzione seriale e quindi paradigmatica piuttosto che in una sequenziale e quindi emblematica significa che la finalità ed i giudizi su queste opere realizzate in “differita” devono adeguarsi ad una condizione di relatività. Infatti quanto analizziamo un’opera del passato o anche solo un progetto siamo sempre all’interno di una serie e mai di una sequenza che invece si addice di più all’opera contemporanea o ancor meglio realizzata in “differita”. Dobbiamo pertanto riflettere su queste differenze ed esaminare i valori relativi piuttosto che quelli assoluti di un’opera e solo grazie a questa disponibilità ed apertura culturale possiamo affrontare con maggiore determinazione e consapevolezza le scelte che nelle diverse epoche sono state e sono tuttora alla base dei completamenti delle architetture rimaste incomplete. Solo così possiamo valutare e scegliere oggettivamente tra un’opera filologicamente imperfetta o un’opera dichiaratamente contemporanea anche all’interno di un tessuto urbano fortemente storicizzato.

Francesco VossillaNon essendo un Architetto, mi permetto d’immettere nella discussione una posizione ignorante, la mia ovviamente. Il dibattito da voi aperto rappresenta uno stato erudito troppo avanzato per le dinamiche politiche del nostro mondo affluente e sterilizzato, dinamiche oscillanti tra ricerca di consenso facile e finte innovazioni. Si tratta vieppiù di marketing. Ogni proposta finalizzata a un «monumento aperto» potrebbe giustificarsi solo

in una società dove il virtuale abbandoni il suo confine immaginativo per farsi mattone e vetro, pigliandosi altresì ogni critica serenamente. Ma i materiali da costruzione costano troppo e ci verrebbero in aiuto (?) le più ignoranti sponsorizzazioni ...

marco FratiFacciata sì, facciata no, come dire... conservare sì o no, completare sì o no, ricostruire sì o no, eseguire sì o no.Domande che sembrano oziose di fronte alla estrema precisione della filologia (sensibile a ogni piccolissima variazione progettuale), all’acutezza dell’analisi archeologica (che si spinge fino a ogni singolo elemento costruttivo ricostruendo i processi in ciascuna minima operazione), alla potentissima computergrafica (in grado di simulare tridimensionalmente qualunque oggetto architettonico), agli sterminati database (capaci di ogni informazione sulla consistenza materiale degli edifici tanto da poterla sostituire). Oggi tutto si può fare, e dunque sembra doversi fare. Ma vanno fatti i conti con la realtà di Italia S.p.A. (per usare una felice espressione di Settis), sempre più impossibilitata a ottemperare al dettato costituzionale della tutela, della conservazione, della valorizzazione. La mole di oggetti da conoscere e gestire aumenta vertiginosamente mentre scemano le risorse e pochi sono i manufatti che producono ricchezza sufficiente per la propria manutenzione. Siamo a un bivio: illudersi di potere tutto (e di fatto lasciare che siano agenti esterni naturali e antropici a decretare la fine di molti monumenti) o dichiarare di potere poco. Questa seconda opzione (di sano realismo) potrebbe avere alcune (forse sgradite) conseguenze: una perdita (anche solo parziale) di sovranità sul patrimonio nazionale, una sua gerarchizzazione, una sua parziale dismissione controllata. È evidente il problema della responsabilità di tali eventuali scelte. A chi spetterebbero? Quali conseguenze irreversibili avrebbero sui singoli oggetti e (soprattutto) sull’immaginario collettivo? Questioni che fanno tremare i polsi ma che di fronte allo sfascio evidente (dai crolli negli scavi di Pompei alle centinaia di chiesette romaniche smontate) sembrano ineludibili. Dunque, tornando allo starting point

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della facciata di San Lorenzo: perché il nostro beneamato Paese trovi le risorse adeguate alla propria conservazione e valorizzazione deve esser capace di vendere la propria immagine in un tempo in cui reale e virtuale tendono a coincidere. Firenze (come altre città italiane) è percepita come un grande parco tematico. Tutta la ‘Nazione’ lo è (e, tra l’altro, noi suoi abitanti siamo i personaggi di questo grande Presepe, di questa grande veduta di Canaletto), che ci piaccia o no. Aggiungere una facciata in più - di qualità, ovviamente, storicista o no - è come aggiungere un’attrazione alla già variegata proposta turistica, segno di grande vitalità della premiata ditta. Come farla, poi, lo lascio suggerire ai ‘militanti’, ma mi piace in conclusione immaginare quali implicazioni visive e concettuali avrebbero modalità opache (in muratura?, di metallo?) piuttosto che trasparenti (di plexiglas?, con proiezioni digitali?) ...

Ferruccio canaliL’articolazione delle risposte a questo “Forum” fornisce la misura di quanto il problema dell’eventuale terminazione della fronte della chiesa di San Lorenzo (un problema apparentemente bizzarro ma in verità nato da precise richieste della Politica) continui a venire sentito. Impostare gli interrogativi; cercare di fornire loro un retroterra culturale e scientifico; sondare problematicamente le possibilità, è stato un modo per rianalizzare ‘certezze’ che la riflessione, che ci ha recentemente preceduto, ha voluto porre sotto un’apoditticità invece ‘tombale’. Non credo, al contrario, che i conseguimenti culturali possano mai dirsi definitivamente acquisiti, semplicemente perché la Cultura, come la Scienza, deve mantenere una finalità etica, e quindi rispondere, in primis, alle richieste della Società che le avanza. Possono essere richieste positive o negative: bizzarre (ritenute tali da alcuni) o plausibili ... ma si tratta sempre di richieste, che la Scienza ha il dovere di articolare e sviscerare per il miglioramento della Società stessa (e soprattutto per evitarne le derive). Dunque non esistono domande implausibili o improponibili; non esistono domande bizzarre o impertinenti. Altrimenti la Scienza non ha alcuna ragione di essere. Detto ciò, alla Politica

fiorentina va riconosciuto il merito di avere avanzato chiaramente e con forza una richiesta; non è detto che la Scienza la accolga, ma certamente la sfida non può essere rigettata a priori. Nonostante la Cultura del Restauro abbia, definitivamente dagli anni Settanta, messo al bando ogni ipotesi di ricostruzione o completamento, oggi l’interrogativo per il caso fiorentino si ripropone emblematicamente. Ovviamente una posizione ‘tradizionale’, frutto della sensibilità alla quale siamo stati finora educati, impone il rigetto di ogni completamento. Mi sembra doveroso, però, affrontare la questione da un punto di vista totalmente ‘laico’ e cercare, se possibile, di analizzare il problema da angolature diverse. Credo che ogni edificio, e gli edi-fici religiosi in particolare, debba avere una propria facciata: non solo per l’edificio in sé, ma anche in rap-porto all’intorno urbano e alla cit-tà intera. Affermare che la chiesa di San Lorenzo a Firenze ha una propria fronte consolidata, quella esisten-te, non elimina il problema: può far parte della nostra sensibilità attua-le il fatto di voler conservare lo status quo, ma opporre alle ragioni di un eventuale completamento, l’idea dell’immagine ormai consolidata’ non elimina il dato che, oggettivamente, una facciata manca. Volerla eventual-mente realizzare non può che essere un diritto della Comunità, alla quale la Scienza (storica e restaurativa, pro-gettuale e urbanistica) ha solo l’ob-bligo di rispondere. Chi si sottrae al quesito, liquidandolo (non per mancan-za di una posizione, ma per pigrizia mentale o, peggio, per convenienza) sa di eludere un interrogativo di fondo. Nella storia non vi è nulla di de-finitivamente ‘chiuso’ a meno di non voler negare l’esistenza dello stesso ‘processo storico’: semmai la risposta è quella dell’opportunità momentanea (l’hic et nunc).In cerca di una ‘soluzione’, se la Società dovesse propendere per un completamento (il che va solo verificato ...), il problema diventa dunque, nel caso, ‘come’ compiere tali operazioni. La Comunità deve decidere nella sua maggioranza (ma quale Comunità: quella fiorentina? Quella nazionale? Quella mondiale, visto che Firenze è sito UNESCO? Questi sono gli interrogativi che la Scienza deve impostare). Ed è ovvio che sia la Comunità ad avvertire il problema: pensare che dobbiamo

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trasmettere ai posteri i Monumenti per come ci sono stati consegnati (e dunque ‘chiusi) è solo una frase vuota (ma quando mai lo facciamo?). Semmai possiamo dire che la facciata ci piace così com’è; e nulla di più. E non è il caso di pensare al ‘tanto meno facciamo, tanto meglio’: se si trasferisce il concetto in Medicina, le conseguenze potrebbero essere nefaste (se non all’inizio risibili. Ma è un parallelo troppo vecchio quello tra Restauro e Medicina? Eppure lo invochiamo continuamente ... E se penso ad un vecchio adagio – «piuttosto che niente, è meglio piuttosto!» - allora sorge il dubbio che la trasformazione possa comunque porsi come un valore; almeno in una mentalità corrente, anche se molto pragmatica, ...). Cerco ancora di astrarre dalla mia personale convinzione e pormi, in ipotesi, decisamente d’accordo per un completamento della facciata di San Lorenzo e, soprattutto, per un completamento ‘in differita’: nutro una certa sfiducia – dopo la vicenda dell’uscita posteriore degli Uffizi e viste anche le soluzioni ‘mediate’ dell’Uffizi Center – per la possibilità che l’Architettura contemporanea possa instaurare un dialogo ‘di mediazione’ con i Monumenti ‘chiusi’. E nutro poi insane diffidenze (chissà perchè ...) nei confronti delle formule ‘Dialogo tra Antico e Moderno’, la ‘Storia mai conclusa dei Centri storici e la stratificazione urbana’ e concetti di sempre più raffinato ‘Architettese’ (ma mi rendo conto che è un limite tutto mio ...). Capisco solo che di Frank Gehry, in un centro storico, un edificio potrebbe bastare e avanzare (e a quell’uno, sinceramente, non vorrei mai rinunciare, se fosse possibile); ma siamo proprio sicuri che tutto il resto della città storica non richiede, piuttosto, discrete “Utopie regressive”? Per San Lorenzo, dunque, il progetto della facciata di Michelangelo (meglio di quello di Bazzani), pur con tutte le necessità di aggiustamento che comporterebbe tanto da far parlare sicuramente di “tradimento”, potrebbe forse costituire un valore aggiunto ad una città come Firenze che del Rinascimento fa la sua identità e il suo brand nel mondo. Confesso di

restare molto affascinato dall’idea di avere una facciata di un’Archistar (Renzo Piano? Ma anche la dirompenza di Gerhy); però, anche Michelangelo ... non sarebbe male e starebbe sicuramente al loro pari! Perché Piano sì o Calatrava sì e Michelangelo no? Per i problemi di autografia e filologia? Se allora durante il progetto o la cantierizzazione o la realizzazione di un progetto contemporaneo, il Progettista venisse a mancare, si dovrebbe interrompere tutto, se non avesse lasciato dei particolari in scala 1:1? Il progetto diventa ‘in differita’ – con tutti i suoi caratteri e le sue prerogative – indipendentemente dall’epoca; è solo che la Differita ha le proprie particolarità (esegetiche, filologiche, realizzative ...) e ad esse la Critica si deve attagliare ... Per la muova facciata di San Lorenzo – se mai si dovesse fare, cosa che non credo – si potrebbe usare allora anche Michelangelo (meglio ‘tradìto’ che niente, secondo il vecchio adagio «è preferibile accontentarsi del Buono che rischiare per l’Ottimo») e riserviamo al meglio della Contemporaneità quelle lande cittadini tristi e desolate (tipo Sorgane, San Donnino, Osmannoro ...) che potrebbero così diventare, a loro volta, una vera opportunità per la Città di oggi; e che attendono solo bei progetti (non certo di Michelangelo). È su questo versante, del resto, che si ritiene unanimemente che la Cultura ‘cittadina’ abbia mostrato davvero le corde, ad esempio riutilizzando un ‘vecchio’ progetto di Leonardo Ricci (per il Palagiustizia) che ha posto in evidenza la vera natura (inadeguatezza?) dell’Avanguardia fiorentina degli anni Settanta (anche se a me – e sono uno dei pochi – quelle vele ricciane e quei triangoloni svettanti, devo dire, piacciono molto! Pur più a livello urbano e paesaggistico che architettonico. Del resto, come sarebbe stato ‘Sant’Elia’ realizzato? Così ...). E allora? Apriamo laicamente le porte alla ‘differita’ e parliamone senza pregiudizi, capendone possibilità e limiti! Si tratta comunque di un Valore acquisito: se non altro di Autorialità. Che si tratti di Michelangelo o di Leonardo Ricci.

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Premessa

Analizzando le riflessioni culturali del Novecento in materia di Conservazione e Restauro dei Monumenti, nonostante vi siano dei principi ritenuti in gran parte ‘chiusi’ e acquisiti, sembra sempre più profilarsi la necessità di tornare ad interrogarsi su alcuni aspetti. Il dibattito è venuto spesso a congelarsi, o a puntualizzarsi, su alcuni ambiti specifici, ma numerosi problemi aperti dimostrano la necessità di riaprire un ‘discorso generale’, in maniera ‘laica’ senza preconcetti ‘di Scuola’ per rispondere a mutate esigenze della Società o per avviare, o agevolare, un progresso che si mostra in gran parte ingessato. Per motivi cronologici sono venuti oggi a mancare anche gli ‘Organizzatori della Disciplina scientifica del Restauro’ (dopo la ‘stagione dei Padri Fondatori’ e quella ‘dei Pionieri della Salvaguardia’) e anche le nuove tendenze del Restauro (come il «Restauro archeometrico») hanno mostrato tutti i propri limiti, specie se svincolati dalla Storia. Un rapporto, quello tra Cultura, Storia, Conservazione e Restauro che si è fatto sempre più complesso e problematico per la Società, che ha visto sottrarsi ‘spazi’ di manovra in genere non compensati da acquisizioni di Valore. Per l’Italia, in particolare, tornare a riflettere su alcuni ‘principi basilari’ può aprire una nuova ‘Stagione del Pensiero’ che faccia proprie le conquiste acquisite nell’ultimo secolo (che è stato in gran parte quello del «Restauro italiano»), ma che si orienti anche verso nuovi orizzonti disciplinari.

a. inDiviDuazione: aMbiti, ProbleMi aPerti e Dichiarazioni Di intenti

A.1. IntentiSono oggetto delle presenti riflessioni una serie di ‘concetti basilari’ nella Cultura della Conservazione e del Restauro delle Rovine e dei Monumenti (archeologici, architettonici e paesaggistici), che sono stati in gran parte condivisi da Teorici, Operatori e Tecnici almeno negli ultimi settant’anni, e che, avendo prodotto una serie di effetti ormai valutabili, meritano dunque di venir riconsiderati; e ciò per un possibile avanzamento disciplinare e anche per un miglioramento di quei risultati stessi. Non si tratta, cioè, di tentare di operare una inutile ‘rifondazione’ disciplinare; ma certo è che soprattutto il Restauro come attualmente inteso, pur nelle sue ‘differenze di Scuola’, ha mostrato di continuare in gran parte a far riferimento a sistemazioni e categorie ottocentesche. Si tratta, pertanto, di riportare la Cultura ad interrogarsi, senza pregiudizi, su quei concetti basilari stessi, per valutarne appieno la loro attualità o il loro lascito.

A.2. Ambiti e definizioni di contestoI concetti basilari che sembrano richiedere al momento una rinnovata riflessione disciplinare - aperta e spassionata, consapevole delle sistemazioni teoriche acquisite, ma anche disincantata nei confronti delle prescrizioni dei ‘Padri fondatori’ – sembrano essere in particolare quelli riferiti a:

- ricostruzioni e completamenti archeologici;- i cosiddetti “completamenti in differita”;- assunti fondativi e rapporto tra Museologia e Museografia.

Non si tratta certo delle prime riflessioni su questi temi, ma sembra che troppo spesso il dibattito si sia arenato o, comunque, sia partito da ‘presupposti già dati e ineludibili’.Si tratta infatti di ambiti tra loro estremamente connessi – solo apparentemente distanti e diversi proprio a causa della continua parcellizzazione disciplinare che il dibattito ha assunto – e che, invece, individuano nel livello della ‘Leggibilità del Monumento’ (archeologico, storico-architettonico, urbano e paesaggistico) un proprio possibile nesso connettivo.

A.3. Notorietà, Leggibilità monumentale e SocietàUna malintesa radicalizzazione del rapporto tra Società e Monumenti ha inteso una sorta di automatismo tra riconoscimento sociale e valori della conservazione monumentale. L’esperienza italiana, nonostante il suo ‘stato d’avanguardia’ in ambito conservativo, ha comunque ampiamente dimostrato (con scempi, devastazioni, abbandoni, mancate individuazioni, disattenzioni ...) come, in verità, non si sia mai colmato il distacco tra Cultura conservativa e Società. Una Società che non riconosce nei propri Monumenti delle imprescindibili ‘tracce di Memoria’ condivise e, quindi, le proprie radici identitarie, non investe economicamente e culturalmente per essi e non li mette al centro dell’’Agenda politica’. Le cause di tale scollamento verificatosi, funesto per la sopravvivenza dei Monumenti e della Memoria, vanno ricercate in concause ormai stratificate, sulle quali si può operare solo singolarmente senza speranze, in un colpo, di mutare il sistema: non essendo più i Monumenti al centro di una Politica identitaria nazionale (la costruzione o il consolidamento della Nazione), la Società non riferisce più ad essi un Valore imprescindibile; tale ‘valore nazionale’, una volta giustamente tramontato il Nazionalismo, non ha

RACCOMANDAZIONI E INDIRIZZI PER LA RIAPERTURA DEL DIBATTITO SU ALCUNE CATEGORIE CULTURALI E OPERATIVE

‘Leggibilità’, Completamento e Costruzione ‘in differita’, Museologia/Museografia

di Ferruccio Canali

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però saputo individuare ‘motivi’ altrettanto forti da veicolare alle giovani generazioni attraverso la Scuola (perdutosi nell’evidenza anche lo stimolo economico a lucrare sui Monumenti stessi), limitandosi a connettere qui valori monumentali a generali (e dunque lontani e pressoché inesistenti) a ‘Valori di Umanità’ (l’UNESCO più come fattore di traino economico che non come reale possibilità anche di agire sul campo, orientando le politiche solo urbanistiche. Come dimostrano ampiamente i cosiddetti “Piani di Gestione”). Conservazione, Restauro e Salvaguardia sono diventate discipline lontane, spesso autoreferenziate se non sentite come ostili (attraverso i vincoli imposti ex lege alla ‘libera possibilità di fare’), semmai ritenute automaticamente doverose, anche per l’estrema trascuratezza nella quale è stata tenuta la ‘Notorietà’ (cioè la pratica scientifica di comunicazione diffusa), imprescindibile invece per cementare l’affezione verso i Monumenti. Dal canto suo la Scuola ha depresso, invece che potenziare, gli insegnamenti di “Storia” (dell’Arte) e di “Geografia”, annullando quelli di “Topografia artistica” (sulle Culture e le emergenze delle città), comunque privilegiando una Storia evenemenziale invece che una Storia di ‘valorizzazione’ degli Eventi (all’interno delle Facoltà di Lettere e Filosofia o Beni Culturali; per non parlare della Scuola superiore ...). Molte Facoltà di Architettura hanno poi ‘depresso’ gli insegnamenti di “Storia dell’Architettura” (sui quali si formano non solo i Tecnici preposti alla salvaguardia, ma tutti gli operatori Architetti; un declino prevedibile, dopo la ‘sbornia’ storicista post-modern anni Ottanta) o spesso ridotto quelli di “Restauro architettonico” ad un indirizzo di ‘solo’ ‘Restauro archeometrico’ ritenuto l’unico ‘oggettivo’ e scientifico ... Tutto questo mentre, parallelamente, in troppi casi i ruoli dell’Amministrazione dello Stato preposta alla Tutela sono invecchiati anagraficamente su se stessi (con Funzionari portatori di idee risalenti a trent’anni fa, se non cinquanta), mancando in gran parte di dinamismo e di aggiornamento. La Società si è invece etnicamente e culturalmente stratificata per cui i concetti legati all’’Identità monumentale’ (e nazionale in senso culturale) hanno ulteriormente perduto di significato in molti contesti ... Il panorama sembra essere quello di un’Italia in declino anche su uno dei fronti che erano culturalmente e socialmente trainanti.Insomma, ridotta la ‘carica ideale’ attribuita ai Monumenti; mancando un coordinamento statale per una formazione aggiornata sia degli Operatori, sia dei Quadri culturali; depresso o annullato il rapporto Cultura storica e conservativa (chiusa in una torre d’avorio, sentita come pratica radical-chic connessa ad una doverosa e peraltro sempre intramontabile ‘lamentatio temporum’ ancora più snob), l’atteggiamento generale è stato in gran parte rinunciatario o attendista, se non di semplice difesa dei privilegi acquisiti. Rinunciare ha però significato interrompere il fil rouge Storia-Conservazione/Società; non comprendere i nuovi bisogni sociali; non agevolare le nuove aperture di pensiero. E ciò mentre Storia e Conservazione sono chiamate, invece, ad

essere non solo specchio, ma anche ad anticipare le mosse della Società (come diceva Julius von Schlosser «lo Storico è un Profeta rivolto al Passato»); se esse perdono questa loro funzione, tutta la Società si impoverisce. Nella ‘Società della Comunicazione’ se proprio la Storia e la Conservazione latitano per problemi disciplinari interni (oltre che per un disinteresse generale) ad esse non viene riconosciuta alcuna utilità sociale, mentre scopo della Cultura è quello di ribadire il proprio ruolo sociale. Tolto ciò, in verità, anche quelle Discipline scientifiche non hanno ragione di essere. Ad esse spetta dunque il compito non solo di approfondire, conoscere, ordinare, ma anche di essere ‘leggibili’, rendersi note alla Società, aperte, diffuse ... E la Leggibilità non può che porsi, dunque, come il cardine delle discipline stesse. La Leggibilità non può essere che il collante Storia/Conservazione e Società, sia a livello di riscrittura dei fondamenti disciplinari, sia a livello della Notorietà (con un’accurata opera di divulgazione semplice, colta o alta intesa non come corollario o come ‘divertimento’ per attirare attenzione, ma come attività formativa). E la Museologia e la Museografia, fuori e dentro i Musei, ma anche in rapporto al Monumento, alla Città e al Paesaggio («Museo a cielo aperto») non possono che diventare strumenti scientifici per quel riordinamento.

b. raccoManDazioni e inDirizzi generali

Vi sono assunti generali, sui quali vale la pena di soffermarsi dal punto di vista concettuale, che non possono che porsi a fondamento di ogni riflessione/Raccomandazione. La loro definizione può forse sembrare scontata se non banale, come succede nella gran parte delle enunciazioni generali, ma è poi a livello di declinazione concreta di quei principi stessi che la loro dirompenza può mostrarsi in tutta la propria realtà.

B.1. Sembra necessaria la riapertura di un dibattito almeno su alcuni principi ‘fondativi’ che in questi ultimi cinquant’anni hanno indirizzato e condizionato le visioni storiche e dunque le pratiche di Conservazione e di Salvaguardia. Se le Discipline scientifiche devono mantenere uno stretto rapporto con la Società – non solo per fare da ‘specchio’ alle esigenze di essa, ma soprattutto per indirizzarne al meglio le politiche – allora bisogna partire dal presupposto che anche la Cultura, esattamente come la Società, si pone in continua evoluzione: e dunque che quei principi possono essere o espunti o modificati, oppure, invece, devono essere ribaditi. Naturalmente la ‘revisione’ deve essere condotta con tutti metodi plausibili e condivisi della Scienza, ma non si può rifiutare ‘a priori’, alcuna riflessione (o riapertura del dibattito al proposito, appellandosi, ad esempio, all’autorità di vecchie “Carte del Restauro”).

B.2. È necessario mettere al centro del dibattito e della riflessione il rapporto tra Monumento e Società (tanto che, così facendo, la Storia diventa “militante”)

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B.3. La Notorietà e la Leggibilità devono essere assunti come cardini di una nuova Politica della Conservazione, fondata sulla Storia.

B.4. Risulta necessario individuare dei ‘temi cardine’ che puntino ad approfondire e ad applicare il rapporto tra Storia/ Cultura e Conservazione. Proprio la perdita del rapporto diretto tra Storia, Critica, Conservazione e Restauro ha prodotto molte delle attuali ‘secche’ disciplinari.

c. raccoManDazioni e inDirizzi Particolari

Ci sono alcuni aspetti della riflessione, vari ma accomunati tutti dalla necessità di una rinnovata Leggibilità, che appaiono oggi particolarmente bisognosi di venir riaffrontati e che, invece, sono stati ormai ritenuti ‘chiusi’ dalla sistemazione culturale e disciplinare. Su alcuni vale invece la pena di ritornare per verificare il loro valore e il loro impatto sociale.

C.1. Rovine e Restauro archeologico: la Leggibilità dei “Parchi archeologici” e delle loro «autentiche» rovineLa paura di ricostruzioni arbitrarie, di una mancata attenzione filologica, di un rifacimento che non si limiti all’anastilosi e che faccia dunque perdere i reperti originari, ha ingessato la Cultura del Restauro archeologico in primis alla sola Conservazione. Ne è derivata una situazione spesso paradossale: aree archeologiche, soggette a vincolo totale, abbandonate e ridotte a campi di pietre illeggibili, con continui crolli, abbandoni, totale mancanza di turisti (che è il segnale più evidente dello scollamento tra Monumenti archeologici e Società) a fronte di un Patrimonio ineguagliabile e di un’antica fama. Sibari, Taranto, Egnazia, Sepino, Classe, Luni ... sono solo alcuni dei numerosi campi o lacerti archeologici semi-abbandonati o sconosciuti dei quali resta lo spaesamento attuale. All’abbandono fa da contrappunto la ‘leggibilità’, ad esempio, degli ‘apparecchi di sostegno in ferro’ di Metaponto, strutture sulle quali bilicano pezzi autentici, isolati, muti testimoni di un rapporto Antico/Moderno oggi assolutamente straniante (e figlio della Cultura dell’Autenticità degli anni Settanta del Novecento). Effetto museografico più da interno di Museo –ma non per questo non meno paradossale – che da area archeologica (o Parco archeologico, dove di parco c’è solo il nome). A fronte di tutto ciò, sembra necessario che vada considerata la possibilità non tanto di ricostruzioni archeologiche totali, quanto del completamento di vaste porzioni – pur mantenendo la diversità di trattamento dei materiali, da Stern e Boito in poi – utilizzando tutti i pezzi antichi disponibili (che come pezzi erratici, pur originali ma seriali, risultano illeggibili, a rischio dispersione e perdita non potendo essere musealizzati); e ciò soprattutto qualora si tratti di edifici di linguaggio classico, le cui Leggi aggregative sono facilmente ricostruibili, come per la continuazione di cornici, l’inserimento di triglifi, il completamento di capitelli. Ampie ricostruzioni che andrebbero realizzate con materiali tradizionali, evitando sagome troppo

razionalizzate e assolutamente materiali moderni (come cemento armato, ferro, putrelle di acciaio). Tali integrazioni – estese e sistematiche – desunte da corrette Leggi proprie del linguaggio architettonico classico renderebbero leggibili i manufatti (almeno quelli principali come templi, edicole, fontane monumentali, palazzi, etc), evitando quel nefasto effetto ‘campo di rovine’ che, certamente di ruskiniana memoria, allontana però la Società dai Monumenti archeologici diffusi. I cumuli di macerie autentiche ma illeggibili, rappresentano una inutile esposizione di pezzi incomprensibili; e la corretta Filologia non potrà che salvare, utilizzando per giunta i pezzi originali, dall’’effetto Disneyland’ di costruzioni invece inventate, sgrammaticate e del tutto effimere. Tutto ciò comporterebbe un costo eccessivo? Se affidato ad un unico Ente dello Stato certamente sì; ma se nei casi minori se ne occupasse la Comunità locale, con raccolte di fondi, lavoro volontario, lavoro dei cassaintegrati, lavoro socialmente utile etc. il problema potrebbe risolversi con una benefica ricaduta sociale non indifferente. Mentre nei casi maggiori potrebbe intervenire il concorso di più Enti, Fondazioni, etc. con un circolo virtuoso che, comunque, attiverebbe le forze e rimetterebbe in moto l’interesse della Società per la propria Memoria, rimessa al centro dell’agenda politica.

C.2. Leggibilità e Completamento/Restauro in differita dei MonumentiLa Società, e la Cultura da essa scaturita, non hanno avuto remore, fino alla fine dell’Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento, nel proporre – e quando possibile anche nel passare alla fase operativa – il completamento di edifici storici fino ad allora restati incompiuti. Solo dai primi del Novecento e soprattutto nella seconda metà del XX secolo, l’’incompiuto’ è divenuto un valore estetico in sé (si pensi alla celebrazione dei Prigioni di Michelangelo con il loro famoso «incompiuto» assunto addirittura come categoria dell’Anima), sulla base di una visione romantica evocativa e in molti casi paradossale. Ma l’Incompiuto artistico, pittorico e scultoreo (peraltro dopo generazioni di ‘completatori’) non può essere confuso con quello architettonico, dove cioè il ‘carattere dell’Autografia’ è inesistente in ogni modo. Un tale interesse tardo ottocentesco per il completamento degli edifici incompiuti (si pensi al Duomo di Colonia o a quello di Milano) ha costituito anche la grande fortuna di Firenze: dopo un secolo lo si può dir senza tema di smentita. Si è infatti creato allora il grande invaso, di estrema suggestione, di Santa Maria del Fiore, con le rettifiche stradali, lo spostamento della fronte del palazzo dell’Arcivescovado e soprattutto la costruzione ex novo della grande facciata di Santa Maria del Fiore. Ma è stato anche completato in quei decenni lo spazio architettonico della piazza Santa Croce, con la quinta della facciata della Basilica (che, se anche per alcuni non ‘perfettamente riuscita’ architettonicamente parlando, certamente vale come effetto urbano). Che cosa sarebbe Firenze oggi, in alcuni suoi punti nodali, se avesse ‘vinto’ una

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Cultura come quella ‘conservativa’ e ‘intangibile’, quale quella che riteniamo assodata e ‘chiusa’ noi attualmente? La nostra Cultura ‘rinunciataria’ produce risultati soddisfacenti o, semplicemente, impedisce di completare e terminare – secondo Leggi prestabilite che è facile ricostruire nelle loro linee essenziali – un processo storico? E gli eventuali errori o adattamenti di cantiere possono far rinunciare all’idea generale? La facciata di San Lorenzo e gli ultimissimi sviluppi della vicenda del suo completamento commentano da sé lo iato ormai esistente tra Politica/Società e Cultura.Si raccomanda, invece, di avere il ‘coraggio’ di riaprire ‘il caso’ dal punto di vista della riflessione scientifica, se non altro partendo dal presupposto che ogni chiesa, storica o meno, come ogni edificio significativo, richiede una facciata che possa dirsi tale, progettata e non rinunciataria per una presupposta e snobistica ‘inadeguatezza dei tempi’. L’idea che la non-facciata attuale sia una facciata è solo un ossimoro o un calambour linguistico che non risolve né il ‘problema architettonico’ né quello ‘ambientale’. La raccomandazione ulteriore è che però non si ventili l’idea di una facciata di gusto contemporaneo (tipo ferro e vetro o cemento armato e siliconi): meglio ambientate e contestuali «utopie regressive» (che siano neo-brunelleschiane come nel 1900-1906; o neo-michelangiolesche nel 2011) rispetto ad una impossibile contestualizzazione. Su San Lorenzo il ‘completamento in differita’ – realizzando cioè progetti lasciati da Progettisti scomparsi come Michelangelo o anche Cesare Bazzani oppure mettendo a punto nuovo progetti «regressivi» allineandosi così alla ‘Realizzazione in differita’ - diventi dopo secoli una nuova categoria, all’interno della quale la Filologia potrebbe suggerire alcuni indirizzi (come ad esempio nel caso di San Lorenzo, di lasciare la nuova facciata staccata dall’antico complesso). In una tale ottica il ‘Completamento in differita dei Monumenti’ può per molti versi assimilarsi al “Restauro di necessità”, quel tipo di Restauro, cioè, che si realizza dopo eventi bellici o traumatici e produce vere e proprie ‘ricostruzioni d’immagine’, in seguito a infiniti aggiustamenti e compromessi, dello ‘stato pristino’, riottenendo un aspetto simile anche se non uguale (si ricordi al proposito la ricostruzione del ponte a Santa Trinita a Firenze dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale; o di recente la riedificazione della cupola della cattedrale di Noto).

C.3. Limiti e possibilità della ‘Realizzazione in differita’A partire da Firenze in questi ultimi anni si è riaperto il dibattito sulle possibilità o meno delle realizzazioni ‘in differita’, che non siano più ‘modelli esemplari’ di padiglioni limitati (come quello di Mies a Barcellona o di Le Corbusier al Fiera District di Bologna), ma che rappresentino veri e propri ‘Monumenti iconici’ della Contemporaneità: sempre a Firenze la realizzazione ‘in differita’ avrebbe potuto ridare vigore ad un dibattito invece arenatosi nelle secche disciplinari. Nella ‘Realizzazione in differita’ - ‘in differita’ perché realizzata da altri, visto che il Progettista è

scomparso, da più o meno tempo, e quindi non può controllare la realizzazione dell’opera che non è stata neppure cantierizzata – ci si scontra con oggettive difficoltà, maggiori rispetto al ‘Completamento in differita’; difficoltà filtrate dal fatto che esiste un Progettista, ma senza nulla togliere al problema che di solito l’Ideatore ha lasciato progetti incompleti che richiedono sonori adattamenti, tali da mettere in crisi, nei casi più complessi, lo stesso concetto di Autorialità. Se quella ‘in differita’ diventasse una ‘categoria operativa’ ‘normalizzata’ dopo un adeguato dibattito generale e ‘caso per caso’ se ne potrebbero, invece, cogliere opportunità e vantaggi. Come ha dimostrato il caso del Palagiustiza fiorentino, la Filologia andava adottata a ‘monte’ in modo da filtrare o orientare scelte sbagliate da parte dei nuovi Progettisti-realizzatori;, ma il rifiuto aprioristico delle realizzazioni ‘in differita’ avrebbe privato la città e la Cultura di questo ‘pezzo’ La raccomandazione è dunque che però vada salvata l’idea di massima, senza confondere il ‘piano autoriale’ con quello realizzativo, che può anche essere stato solo in parte previsto dal Progettista, senza che le soluzioni concrete facciano gridare al ‘tradimento’. Si consideri, piuttosto, la possibilità di ottenere, sulla base del principio ‘in differita’, ad esempio la ‘ricucitura’ di un tessuto urbano: di veder realizzata l’idea di un Progettista di indiscussa rinomanza, aumentando l’intrinseco valore di un’opera o di un contesto pur con tutte le difficoltà della Filologia (meglio nulla, piuttosto?). I limiti e i vantaggi della realizzazione , come anche del completamento, ‘in differita’, sono evidenti per tutti; deve però essere la Società, attraverso un ‘laico’ referendum a decidere se voler essere rappresentata o meno – nel caso si tratti di un’opera pubblica – da tali iniziative; nel caso di volontà private o di Enti, ovviamente il discorso è molto più libero e non sembra che vi possano essere resistenze teoriche al proposito. La Disciplina, in questi casi, deve ritagliarsi il ruolo di mettere oggettivamente sul tavolo le varie opzioni (i pro, i contro ...) e poi garantire il massimo di scientificità alla eventuale realizzazione, senza alcun «snobismo estetizzante» e senza alcun ‘errore’ nelle scelte della realizzazione (come decisioni contrarie all’Estetica del Progettista originario, etc). Che la Filologia tenda a venir indirizzata verso ambiti che non le sono propri?

C.4. Museologia e Museografia: un nuovo orizzonte per la Leggibilità sociale?

L’idea del «Museo» si è molto trasformata negli ultimi decenni, passando dal solo «Museo di eccellenze artistiche», a quello di «raccolta testimoniale» (ad esempio i “Musei della Civiltà contadina”), dal «Museo tematico» al «Museo didattico» (si pensi ai “Musei della Scienza” o “del Mare”) fino al «Museo ludico» (i “Musei per bambini” con tanto di comparse figuranti), fino a portare a richiami verso un Museo che torni nuovamente ad essere scientifico. Ma il Museo è divenuto anche luogo di incontro’ (con i suoi vari caffè), luogo di riflessione (con Mostre contestualmente decontestualizzate, come nel caso

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dell’incontro tra Antico e Contemporaneo), o anche luogo di ‘guadagno’ (il problema della ‘rendita dell’Arte’) fino ad estendersi ad abbracciare il Territorio, con il «Museo diffuso» e il «Land Museum» attraverso le installazioni di Land Art. La Museografia ha seguito le varie ‘mode’, come ha rincorso quelle espositive, senza porsi di fronte ad un ripensamento disciplinare (non a caso è ‘uscita’ dalle Discipline conservative e restaurative per entrare nel novero di quelle puramente ‘progettuali’) e svincolandosi sempre più dalla Museologia (incentrata sullo studio delle singole Collezioni espositive), tanto da progettare spazi flessibili ‘a prescindere’. Basta l’analisi degli ultimi cinquant’anni per vedere correre in parallelo e susseguirsi, tutte le diverse ‘mode museografiche’ che hanno concretamente prodotto spazi, arredi, installazioni: dal Museo «di collezionismo» (nel quale si punta a ricostruire filologicamente, sulla base degli Inventari, l’ambiente, spesso di residenza nobile o alto-borghese, in cui le opere si trovavano: come nelle sale della Galleria Modena di palazzo Pitti), al «Museo contemporaneo», dove le opere sono svincolate dal contesto e poste su superfici chiare (come nelle sale anni Cinquanta degli Uffizi), dal «Museo ambientato» (con mobili, colori e oggettistica verosimile o comunque di gusto storico), al recentissimo «Museo di colore», le cui superfici sono pensate per far risaltare le cromie degli oggetti esposti (con le pareti a colori rossi, blu o verdi, come le più recenti sale degli Uffizi). In tutto ciò, che cosa resta del rapporto tra Museificazione, Museologia e Museografia?Per sottrarre la Museografia alle ‘secche’ della moda, la raccomandazione è di riportare il dibattito al rapporto tra Museografia e Museologia, laddove, ancora una volta, è la Leggibilità che deve restare al centro dell’aspetto museografico, senza andare a detrimento, o peggio, obliterare i dati della Museologia. Deve essere la natura della Collezione – per un miglioramento dell’aspetto museale, in grado di diventare Monumento esso stesso come il proprio contenuto - ad orientare la natura stessa del Museo (scientifico, divulgativo, didattico, artistico, di collezionismo ...). Non la Museografia in sé (troppo spesso Disciplina accademica, avulsa dalla realtà) che può solo produrre spazi autoreferenziati. Un nuovo rapporto, stretto e inscindibile, scientificamente coordinato e ponderato, tra Museografia e Museologia farebbe uscire molti Musei italiani dallo stato di ‘apnea’ che oggi li vede coinvolti; interesserebbe il problema dei ‘Monumenti iconici’ e Museificazione; darebbe slancio ad una progettualità in grado di mettere al centro Leggibilità e Società. Il tema non è nuovo: da quando nel 1955 Giuseppe Pani Ermini utilizzò per la prima volta il termine «Museologia»; da quando all’XI Triennale di Milano del 1957 si dedicava una sezione proprio alla “Museologia” (si veda anche «A.Gioli, La

“Mostra di Museologia” alla XI° Triennale di Milano [1957], «Polittico», 4, 2005 [ma 2006], pp.143-160); da quando, dal 1967, grazie a Carlo Ludovico Ragghianti, si aprirono le prime Cattedre universitarie di «Museologia» (divenute purtroppo anch’esse, il più delle volte negli anni a seguire, non luogo di dibattito o di sistemazione disciplinare, ma ambiti di studio per la sola ‘storia delle collezioni’); da quando a Roma, nel 1971, si teneva il Congresso “Il Museo come esperienza sociale”; da quando nel 1972 sempre Ragghianti avviava, presso l’Università Internazionale di Firenze, il “Centro Studi per la Museologia”; e poi da quando in città, nel 1974, nell’ambito del “I° Congresso di Studi sulla Museologia” si avanzava il problema del rapporto tra Museografia e Museologia (con il contributo di Edoardo Detti, Carlo Scarpa, Franco Minissi ...). Si sottolineava allora come «la Museologia deve essere o diventare una Scienza sociale»; ma poi il dibattito è andato sempre più scemando. Ora si raccomanda che tale dibattito venga riaperto in vista di una rinnovata valutazione, non astrattamente in nome di un ‘Valore sociale’, ma all’insegna di una concreta ‘Leggibilità’ da parte della Società. La questione appare scottante e lo dimostrano casi eclatanti, per i quali non vi è stata alcuna riflessione proprio sui temi relativi al Restauro, alla Museografia e alla Museologia: come, a Firenze, per la sistemazione dei Grandi Uffizi (la cui ‘impressione comunicativa’ pare essersi concentrata soprattutto sui colori delle nuove sale, come se si trattasse di questioni di arredamento, dopo le ‘stagioni’, invece, della ‘Museografia funzionalista’ di Salvini, Michelucci, Detti ... quella più o meno ‘filologica’ di Bartoli, Morozzi ...); o, ancora, la sistemazione del Museo Archeologico Nazionale, il cui percorso risulta oggi a di poco ‘straniante’ se non decisamente peggiorato dopo il recupero della nuova ala, e dove restano ad esempio – a ricordo di una stagione ben più ‘felice’ – le poche ‘vecchie’ vetrine neo-egizie accostate, ma prese da sale diverse come mostrano i numeri di serie, dopo l’inconsulto smontaggio delle altre. E ciò mentre si guarda con qualche apprensione anche al rinnovo del MUDI (Museo dello Spedale degli Innocenti) dedicato all’Infanzia, vista la debolezza, anche in questo caso, di un preciso rapporto tra Museologia, Museografia e Restauro già in parte dei progetti preliminari presentati al Concorso, in alcuni casi per volontà degli Architetti Progettisti e non certo degli Esperti (interpellati evidentemente solo per ‘dovere’ di Bando; esempio di un trend non certo auspicabile) (cfr. Il concorso per il MUDI di Firenze, «Paesaggio Urbano», 2, 2009). Uno scollamento al quale si è poi cercato, in fase attuativa, di porre rimedio attraverso l’istituzione di una “Unità di progetto” che comprende anche Storici ed Esperti del Settore (ma ciò non andava fatto prima, a mo’ di workshop?).

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Guglielmo Calderini, Progetto per la facciata della basilica di San Lorenzo a Firenze, 1905