Neoliberalismo, migrazioni e segregazione spaziale. politiche abitative e mix sociale nei casi...

19
Sociologia urbana e rurale n. 106, 2015 118 NEOLIBERISMO, MIGRAZIONI E SEGREGAZIONE SPAZIALE. POLITICHE ABITATIVE E MIX SOCIALE NEI CASI EUROPEO E ITALIANO di Alfredo Agustoni, Alfredo Alietti, Roberta Cucca * ٭Introduzione Le peculiarità dell’insediamento degli immigrati sul territorio e il disa- gio abitativo, che si collocano tra gli aspetti maggiormente critici della loro condizione, vanno letti congiuntamente nel quadro delle trasformazioni ur- bane degli ultimi decenni. Qui, «una nuova e diversa questione della perife- ria comincia ad affacciarsi alla ribalta, questione che rischia di porsi in ma- niera molto più aspra di quanto non avvenisse nell’universo produttivo for- dista, in cui comunque la periferia, pur tristissima, spazialmente separata ed estremamente massificata, era inclusa in un progetto sociale complessivo». Questo è coerente con le logiche di un contesto nel quale «il processo di urbanizzazione mondiale accelera vertiginosamente, ma questa accelera- zione non appare più legata ad un’idea di progresso» (Petrillo, 2013: 94, 66). Tale accelerazione dipende piuttosto dal fatto che «l’urbanizzazione è essa stessa un prodotto. Migliaia di lavoratori sono impegnati a produrla e il loro lavoro produce valore e plusvalore. Perché non riconcettualizzare il luogo di produzione di plusvalore come la città più che la fabbrica?» (Har- vey, 2012: 98), dove, se «il capitalismo produce in continuazione l’eccedenza di cui l’urbanizzazione ha bisogno, il capitalismo ha bisogno dell’urbanizzazione, per assorbire i prodotti eccedenti che produce in conti- nuazione» (Harvey, 2012: 10). Come evidenzia Bernardo Secchi, le politiche urbane e abitative di quel- lo che abbiamo definito l’“universo produttivo fordista”, a dispetto di nu- merose contraddizioni ed elementi di debolezza, erano comunque mirate a fare sì che «le distanze nello spazio praticato da ciascun gruppo sociale, all’interno e all’esterno della propria abitazione, fossero inferiori rispetto a quelle che intercorrevano tra i rispettivi livelli di reddito e potere». In con- ٭Università di Chieti-Pescara, [email protected], Università di Ferrara, alfre- [email protected], Politecnico di Milano, [email protected]. Benchè l’articolo sia il risultato di una comune riflessione, Alfredo Agustoni ha provveduto alla stesura dell’introduzione del § 2, Alfredo Alietti del § 1 e Roberta Cucca del § 3

Transcript of Neoliberalismo, migrazioni e segregazione spaziale. politiche abitative e mix sociale nei casi...

Sociologia urbana e rurale n. 106, 2015

118

NEOLIBERISMO, MIGRAZIONI E SEGREGAZIONE SPAZIALE. POLITICHE ABITATIVE E MIX SOCIALE NEI CASI EUROPEO E ITALIANO di Alfredo Agustoni, Alfredo Alietti, Roberta Cucca*٭

Introduzione Le peculiarità dell’insediamento degli immigrati sul territorio e il disa-

gio abitativo, che si collocano tra gli aspetti maggiormente critici della loro condizione, vanno letti congiuntamente nel quadro delle trasformazioni ur-bane degli ultimi decenni. Qui, «una nuova e diversa questione della perife-ria comincia ad affacciarsi alla ribalta, questione che rischia di porsi in ma-niera molto più aspra di quanto non avvenisse nell’universo produttivo for-dista, in cui comunque la periferia, pur tristissima, spazialmente separata ed estremamente massificata, era inclusa in un progetto sociale complessivo». Questo è coerente con le logiche di un contesto nel quale «il processo di urbanizzazione mondiale accelera vertiginosamente, ma questa accelera-zione non appare più legata ad un’idea di progresso» (Petrillo, 2013: 94, 66). Tale accelerazione dipende piuttosto dal fatto che «l’urbanizzazione è essa stessa un prodotto. Migliaia di lavoratori sono impegnati a produrla e il loro lavoro produce valore e plusvalore. Perché non riconcettualizzare il luogo di produzione di plusvalore come la città più che la fabbrica?» (Har-vey, 2012: 98), dove, se «il capitalismo produce in continuazione l’eccedenza di cui l’urbanizzazione ha bisogno, il capitalismo ha bisogno dell’urbanizzazione, per assorbire i prodotti eccedenti che produce in conti-nuazione» (Harvey, 2012: 10).

Come evidenzia Bernardo Secchi, le politiche urbane e abitative di quel-lo che abbiamo definito l’“universo produttivo fordista”, a dispetto di nu-merose contraddizioni ed elementi di debolezza, erano comunque mirate a fare sì che «le distanze nello spazio praticato da ciascun gruppo sociale, all’interno e all’esterno della propria abitazione, fossero inferiori rispetto a quelle che intercorrevano tra i rispettivi livelli di reddito e potere». In con-

-Università di Chieti-Pescara, [email protected], Università di Ferrara, alfre ٭

[email protected], Politecnico di Milano, [email protected]. Benchè l’articolo sia il risultato di una comune riflessione, Alfredo Agustoni ha provveduto alla stesura dell’introduzione del § 2, Alfredo Alietti del § 1 e Roberta Cucca del § 3

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

119

comitanza con il progressivo smantellamento dei sistemi di welfare, negli ultimi decenni, «lo spazio abitato dai diversi gruppi sociali è tornato a sepa-rarsi e a divergere nei suoi aspetti fondamentali», anche alla luce di «politi-che e comportamenti produttori d’esclusione» (Secchi, 2013: 38). Se, «in tutta la storia del capitalismo, una parte del plusvalore è stato estratto dallo Stato sotto forma di tassazione, e nei periodi di controllo democratico so-ciale la percentuale è sensibilmente aumentata, ponendo gran parte dell’eccedenza sotto il controllo statale, l’intero programma neoliberista è stato orientato alla privatizzazione del controllo sull’eccedenza» (Harvey, 2012: 36).

Potrebbe apparire, a questo proposito, singolare lo scarso spazio che i manuali di politiche sociali applicano alle questioni abitative, considerate di prevalente pertinenza delle politiche urbane (Cesareo, 2013), malgrado il fatto che le ineguali opportunità di accedere al bene casa finiscano per rap-presentare uno dei principali discrimini tra l’inclusione e la marginalizza-zione (anche, ma non soltanto, degli stranieri). Ne consegue, come avremo modo di illustrare nel nostro articolo, che la marginalità, non soltanto socia-le ma anche territoriale degli immigrati, risente pesantemente delle carenze caratteristiche del mercato della casa e del welfare abitativo italiani. A par-tire dagli anni Ottanta, quest’ultimo (che non era, tradizionalmente, dei più generosi) è stato oggetto di drastici ridimensionamenti, anche in base al presupposto che, “in un paese di proprietari di casa”, il complesso dei biso-gni connessi fosse fondamentalmente soddisfatto (Baldini, Poggio, 2010). L’enfasi sulla proprietà della casa, il progressivo disimpegno del settore pubblico nelle politiche abitative e il conseguente progressivo slittamento del welfare abitativo italiano verso un modello minimale, contribuiscono ampiamente a spiegare le dinamiche insediative e segregative.

Partendo da un discorso generale sull’ambiguo rapporto tra politiche abitative e segregazione in Europa, prendiamo successivamente in conside-razione il caso italiano, esaminando in primo luogo le caratteristiche del welfare abitativo per metterne in luce le variabili rilevanti nella spiegazione dei fenomeni di segregazione. Il terzo paragrafo si focalizza sul caso mila-nese, con un’analisi dei processi di segregazione e delle limitate e ambiva-lenti risposte pubbliche, interpretate sempre alla luce del discorso neolibe-rale sulla città impostosi negli ultimi anni.

Agustoni, Alietti, Cucca

120

1. Processi di concentrazione della povertà, politiche de-segregative e ricerca di mixité

A partire dalla metà degli anni ’80, l’entrata in crisi del modello fordista

con il suo aggregato di mediazione tra le classi sociali attraverso il welfare state delinea una forte instabilità delle economie urbane, aggravata dalla forte concorrenza scaturita dalla globalizzazione. La progressiva diminu-zione dell’intervento dello stato e il contemporaneo avvio di un regime neo-liberale nell’ambito delle politiche sociali comporta una riconfigurazione del principio universalistico degli interventi di welfare in favore di quello particolaristico e connotato territorialmente. L’enfasi sul preminente carat-tere spaziale della cosiddetta “nuova questione sociale” si afferma e, nel tempo, si rafforza attraverso l’evidenza della progressiva concentrazione e segregazione in determinati luoghi delle componenti autoctone e immigra-te, o minoranze etniche, maggiormente deprivate (Simon, 2003). Nello spe-cifico, l’analisi pone particolare attenzione sulle traiettorie insediative im-migrate nelle principali aree metropolitane europee, le quali mettono in ri-lievo lo svantaggio posizionale vissuto dagli stranieri nel mercato della casa in quanto housing class, secondo la nota analisi di Rex (1973), che vincola le opportunità di trovare una risposta al bisogno abitativo (Eumc, 2005; Musterd, 2005). Tale condizione di strutturale debolezza per il consegui-mento di una “buona abitazione”, definibile come new migrant penalty (Ja-yaweera, Choudhury, 2008), ha contribuito, nel tempo, a creare le condi-zioni per la concentrazione spaziale delle famiglie immigrate e/o delle mi-noranze etniche, soprattutto all’interno dello stock abitativo, pubblico e pri-vato, più fatiscente e in quelle aree urbane percorse da intensi processi di impoverimento materiale e vulnerabilità sociale. I quartieri di edilizia resi-denziale pubblica, o generalmente di social housing, nella maggior parte dei paesi europei divengono il contesto critico in cui si concentrano e si sommano le conseguenze negative della ristrutturazione economica e dei conseguenti processi di esclusione socio-economica che colpisce indiffe-rentemente sia gli autoctoni, sia gli stranieri che nel tempo vi si sono inse-diati. In tal senso, si assiste al sorgere nel dibattito accademico, politico e mass-mediatico di una toponomastica del degrado riferita a questi spazi ur-bani: ghetti, quartieri difficili, in crisi, sono alcuni dei termini utilizzati per descrivere gli effetti negativi della concentrazione e segregazione socio-spaziale delle componenti etniche/immigrate e autoctone deprivate.

Le politiche urbane promosse a partire dagli anni ’90 si alimentano sulle fondamenta di tale impostazione spaziale e dell’emergenza sociale ad essa collegata. L’argomento di fondo su cui si focalizza la narrazione sociologi-

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

121

ca sulla potenzialità negativa dei cosiddetti effetti quartiere, o territorio, re-lativa alla diminuzione delle chance di sfuggire dal circuito della povertà, dell’esclusione e dell’isolamento collegabile ad un deficit nella disponibili-tà di risorse locali, di opportunità lavorative e di capitale sociale (Musterd, Andersson, 2005; Bolt, Phillips, Van Kempen, 2010). In tal senso, la princi-pale preoccupazione espressa dal discorso politico-amministrativo riguarda il fallimento dell’integrazione nella “società della maggioranza” che al con-tempo rappresenterebbe la causa e l’effetto della concentrazione socio-etnica. La stessa Commissione Europea in un documento sulle linee di azione per lo sviluppo urbano sostenibile partendo da questi assunti di fondo sottolinea come una speciale sfida è quella di prevenire la segregazione spaziale e le concentrazioni di esclusione nelle città (cit. in Musterd, 2003: 625).

Su questo ordine del discorso accademico e politico l’associazione tra politiche de-segregative e la ricerca di un appropriato livello di social mi-xing permea, in misura più o meno esplicita, la gran parte degli interventi dei governi europei, pur nella loro distinta tradizione migratoria e struttura di welfare (Musterd, 2002; Musterd, Andersson, 2005; Barou, 2008; Bolt, 2009; Bolt, Phillips, Van Kempen, 2010). Il presupposto a favore di questa impostazione sta nella convinzione dei policy makers che la mescolanza sociale possa contribuire a ridurre gli esiti più gravi della segregazione e neutralizzare l’ipotizzata minaccia alla coesione sociale. Qui il richiamo al-la tradizione sociologica inerente alla cultura della povertà e i “valori di-sfunzionali” ad essa collegati è oltremodo esplicito. Sulla scia di un esteso confronto avviatosi dagli studi sul ghetto afroamericano di Wilson, la tema-tica in oggetto si è rilanciata in termini inediti, alimentando una retorica sulle patologie culturali rinvenibili in tali aree segregate, le quali risultereb-bero causa ed effetto di un regime relazionale improntato alla cultura del non-lavoro (worklessness), del sussidio, della devianza e della criminalità (Wilson, 1987; Massey, Denton, 1993; Sampson, Morenoff, Gannon-Rawley, 2002; Dietz, 2002; Galster, 2002). Sempre in riferimento all’analisi di Wilson, è importante sottolineare come il suo ragionamento sugli effetti quartiere e l’aggravamento delle condizioni nel ghetto afroame-ricano si leghi al venire meno del ruolo di social buffer delle famiglie di classe operaia e media che contribuiva a mantenere in vita e a sostenere le istituzioni di base del ghetto (chiese, scuole, negozi ecc.) anche, e soprattut-to, nelle fasi recessive del ciclo economico (Wilson, 1987). Pur concordan-do esplicitamente con l’ipotesi fondamentale che la presenza stabile di que-ste famiglie possa contribuire a rafforzare modelli di comportamento e di valori mainstream, il sociologo afroamericano ritiene il loro ruolo decisivo nel garantire la stabilità istituzionale in ragione delle loro più ampie risorse

Agustoni, Alietti, Cucca

122

educative e reddituali (Wilson, 1987: 144). Su questa base il discorso di complica, poiché non si tratterebbe di invocare il social mix nella sua pri-maria funzione di esempio comportamentale, oppure di ampliare e diversi-ficare i network sociali locali, ma di riprodurre quelle condizioni di parteci-pazione, di azione, di rivendicazione in grado di contrastare le dinamiche di esclusione garantite dalla presenza di famiglie di ceto medio (Rose et al., 2012, 16).

Senza entrare nel merito del dibattito che richiederebbe ben più ampio approfondimento, vi è da rilevare come diversi studi contestano la validità empirica dell’effetto quartiere, annotando il fatto che se è indubbio che la povertà si concentra in determinati zone, viceversa è assai discutibile af-fermare che la residenza in quartieri deprivati sia la causa della povertà (Oreopoulos, 2003; van Ham and Manley, 2010). In altre parole, la concen-trazione spaziale della povertà riflette le diseguaglianze economiche e, quindi, forzare i quartieri a divenire misti in termini socio-economici signi-fica trattare i sintomi della diseguaglianza non la cura (Cheshire, 2006, cit. in Arbaci, Rae, 2012: 1).

L’incertezza empirica sulla realtà dell’impatto degli “effetti territorio” non significa annullare la sua esistenza nel contesto specificatamente statu-nitense che ha assunto connotazioni sociali, politiche, razziali, storicamente determinate, tali da configurare differenze sostanziali con il caso europeo per quanto riguarda il più elevato tasso di segregazione delle minoranze et-nico-razziali, e il minore livello degli interventi pubblici sui deficit di inte-grazione socio-spaziale (Wacquant, 2006). Tuttavia, la forza delle ragioni a sostegno di una azione diretta a modificare la struttura della popolazione nelle aree urbane svantaggiate per contrastare e prevenire gli effetti quartie-re dovuti alla concentrazione di situazioni problematiche si è venuta a im-porre dall’altra sponda dell’Atlantico.

Le politiche di mixité in Europa non rappresentano una novità nel pano-rama degli interventi urbani e abitativi: in Svezia tale strumento è stato adottato fin dal 1974, in Gran Bretagna la creazione di quartieri socialmen-te misti era già presente negli anni ’50 e, con l’avvento del New Labour, a metà anni ’90 tale principio di governo ha avuto un rinnovato impulso nei progetti di rigenerazione urbana (Bolt, 2009; Lunay, 2010)1. Dal variegato mondo delle strategie e dei programmi adottati nei singoli paesi, è possibile

1 In realtà l’idea di creare il social mix mediante la progettazione urbanistica non è certo

originale, o uno strumento innovativo per far fronte alle problematiche attuali: ad esempio il movimento delle città-giardino fondato da Hughes all’inizio del XX secolo in America pro-fetizzava la costruzione di quartieri socialmente misti; su questa tradizione storica vedi il fondamentale saggio della Sarkissian (1976).

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

123

individuare due orientamenti, sovente compresenti, a fondamento della ri-cerca di un bilanciamento residenziale positivo tra le diverse componenti sociali ed etniche:

- la diversificazione abitativa (tipologia dell’alloggio e statuto di oc-cupazione) nelle zone svantaggiate e/o nelle nuove costruzioni;

- le procedure di allocazione degli alloggi nel mercato abitativo, spe-cificatamente nel comparto dell’edilizia sociale e pubblica come prassi pre-ventiva e di dispersione dei ceti più poveri e famiglie immigrate.

Nel primo orientamento, l’azione si articola nella riqualificazione dello stock alloggiativo, anche attraverso le demolizioni dei vecchi edifici e la ricostruzione di nuovi e più adeguati alloggi, in grado di attrarre una parte del ceto medio, o incentivare altre categorie di abitanti (es. studenti), e atti-vare politiche di tenure mix (casa in proprietà, affitto di mercato e sociale).

Il secondo presuppone un approccio di governo urbano peculiare alla definizione di un accettabile mix sociale ed etnico da raggiungere con una politica allocativa degli alloggi, in modo tale da prevenire la concentrazione di famiglie problematiche e, quindi, i possibili pericoli di “ghettizzazione”.

In alcune circostanze le autorità locali hanno individuato specifici criteri allocativi, come ad esempio il piano urbano “Rotterdam Perseveres” del 2003 in cui si propone di regolare l’afflusso di soggetti deprivati, parte di essi appartenenti alle minoranze etniche, nei quartieri sensibili attraverso più strette norme allocative, ad esempio aumentando il livello economico richiesto ai potenziali affittuari (Klienhans, 2004: 373). Nelle indicazioni sulle strategie abitative in Inghilterra rinvenibili nel The Green Paper Qua-lity and Choice for All, pubblicato nel 2000, si promuove la diversificazio-ne abitativa sia nei quartieri residenziali esistenti, sia in quelli nuovi, spin-gendo le autorità locali a sostenere la diversità sociale mediante le politi-che di allocazione (DETR, 2000, cit. in Kleinhans, 2004: 371). In Francia, gli organismi di gestione del patrimonio pubblico (HLM) possono interve-nire a discrezione per prevenire la concentrazione di famiglie problemati-che in determinati zone considerate a rischio, mentre in alcune municipalità tedesche, quali ad esempio Stoccarda, si stabilisce un tetto massimo del 30% di assegnatari stranieri all’interno dei quartieri di edilizia pubblica (Simon, 2003; Munch, 2010).

L’esperienza storica e la diffusione di politiche contro la segregazione centrate sull’idealizzazione del social mix quale principio di intervento ha posto, e pone tuttora, una lunga serie di analisi e contrapposizioni critiche. Un punto di criticità sulle politiche di mixitè si muove intorno alla presun-zione sociologicamente assai discutibile per cui la prossimità spaziale tra gruppi, o classi, differenti contribuisca ad una prossimità nelle relazioni so-

Agustoni, Alietti, Cucca

124

ciali. Già in passato, sulla debolezza di tale determinismo sociologico si so-no espressi alcuni autori come Herbert Gans (1961) il quale nella sua pio-nieristica riflessione sulla costituzione di balanced communities nella pro-gettazione urbanistica sottolineava come l’omogeneità del background so-cio-culturale, o la similarità di interessi e valori, è necessaria per sviluppare relazioni sociali che siano più profonde di un “educato scambio di saluti tra le persone incurante della loro propinquità” (Gans, 1961, cit. in Bolt, 2009). Norbert Elias giunge alla medesima conclusione nella sua ricerca condotta tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60 sul rapporto tra i vecchi (established) e i nuovi residenti (outsider) in una comunità popolare subur-bana inglese, da cui emergevano le difficoltà di instaurare scambi sociali positivi e la costante stigmatizzazione dei comportamenti degli outsider al fine di ricreare una distanza sociale venuta meno sul piano spaziale (Elias, Scotson, 2004).

Quindi, tale assunto si scontra con una realtà assai meno adattabile del previsto esplicitata dalla scarsa volontà dei differenti gruppi sociali ad en-trare in contatto e costruire rapporti coesi che possano modificare la situa-zione secondo gli intenti del social mix (Atkinson, Kintrea, 2001; Bolt, Özüekren, Phillips, 2010).

Nella sua disanima delle istanze normalizzatrici, dell’ordine e dell’armonia sottese alle pratiche amministrative di mixitè, Maurice Blanc afferma che esse prefigurano una visione della società come costituita da in-dividui “medi”, anonimi e intercambiabili, che possono essere facilmente spostati nello spazio anch’esso “medio” e senza qualità, per pervenire ad un giusto equilibrio (Maurice Blanc, Bidou-Zachariasen, 2010: 18). Lo sforzo di conseguire un bilanciamento delle caratteristiche socio-etniche nella struttura della popolazione a livello di quartiere, confligge con «cosa esattamente co-stituisca un giusto mix» (Bolt, 2009). La determinazione di una ipotetica “soglia di tolleranza” nella coabitazione interetnica si presta ad un uso stru-mentale e ideologico che rafforza la stigmatizzazione dei quartieri multiet-nici e la rappresentazione negativa dell’immigrazione (De Rudder, 1991).

Inoltre, in gran parte dei paesi europei le risposte pubbliche al rischio dell’impatto negativo dei processi segregativi sulle dinamiche di integra-zione, spesso si scontrano con una strutturazione delle politiche che di fatto producono tale conseguenza (Arbaci, 2007). A tale proposito, vi è da con-siderare come nelle politiche allocative nel comparto pubblico di gran parte dei paesi europei si sia affermato progressivamente un modello residuale, nel senso che le assegnazioni degli alloggi sono quasi esclusivamente de-stinate alle fasce più deboli della popolazione. La direzione verso la resi-dualità dell’offerta pubblica ha avuto un suo decisivo impulso dagli indiriz-

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

125

zi dell’Unione Europea in merito al riconoscimento delle politiche abitative quale “servizio d’interesse generale” e quindi di prevedere l’ammissibilità dei contributi statali all’edilizia sociale, in deroga al principio di concorren-zialità, solo se effettivamente risponda al bisogno espresso dalle categorie sociali prive di risorse per accedere al mercato privato. La conseguenza di questa direttiva è stata di modificare nella sostanza il carattere universali-stico del welfare abitativo vigente nei paesi del nord Europa, in particolare l’Olanda, introducendo una soglia di reddito quale principale criterio di se-lezione dei richiedenti. L’obbligo delle condizioni socio-economiche nella gestione dell’housing sociale evidenzia, da un lato, la progressiva selettività dell’offerta pubblica e la prevedibile concentrazione di soggetti vulnerabili, e dall’altro le difficoltà di implementare politiche di social mix (Alietti, 2013).

Infine, si dovrebbe valutare gli effetti perversi che nascono dal persegui-re in maniera acritica il modello di social mix che produce una sorta di di-scriminazione istituzionale nell’accesso, soprattutto nei confronti dei nuclei immigrati che concorre, appunto, alla loro relegazione nelle zone più sensi-bili e meno desiderabili (Cucca, Pologruto, 2011: 57; Sala Pala, 2006; Si-mon, 2003).

Le critiche avanzate tendono a svelare un modello di ingegneria sociale i cui presupposti non sono del tutto giustificati alla luce dei risultati ottenuti nella varietà dei progetti condotti nelle metropoli europee. Infatti, la leva del mix sociale sembra, alla luce dell’analisi fin qui svolta, contraddire le potenzialità di innescare meccanismi virtuosi in grado di attenuare gli effet-ti quartiere e concorrere alla trasformazione del quadro dei vincoli e delle possibilità per quella parte di residenti con minori competenze e abilità.

Provocatoriamente, qualcuno si è spinto ad affermare che le politiche di social mix siano costruite su un atto di fede valutata la scarsa evidenza em-pirica che le comunità miste contribuiscano al miglioramento delle chance di vita dei poveri e accrescano il capitale sociale e la coesione sociale (Che-sire, 2009).

Contro le spinte centripete all’omologazione sociale ed etnica, alla spe-cializzazione territoriale e al perdurare delle dinamiche di stigmatizzazione, la mescolanza tra classi sociali e appartenenze etniche può rappresentare un obiettivo di mutamento auspicabile per quanto risulti fragile (Lagrange, Oberti, 2006). Tale fragilità è imputata al fatto che il discorso sulla mixité rinvia le disuguaglianze e il loro trattamento alla distribuzione delle popo-lazioni nello spazio, mettendo tra parentesi l’essenziale, ovvero la disugua-glianza nella distribuzione della ricchezza (Blanc, Bidou-Zachariasen, 2010: 12).

Agustoni, Alietti, Cucca

126

Quindi, senza un’adeguata macro politica di inclusione socio-economica che accompagni lo sviluppo delle azioni de-segregative, a prescindere dagli strumenti utilizzati e dalle finalità espresse, il risultato appare debole e inef-ficace. Le strategie future devono giocoforza trovare punti di raccordo e di integrazione effettiva tra norme che stabiliscono sia le priorità d’intervento, sia le risorse per la diversificazione abitativa e rinnovate politiche di con-trasto ai meccanismi di esclusione sociale i quali talvolta poco, o nulla, hanno a che fare direttamente con la segregazione territoriale.

2. Welfare abitativo e mercato della paura: riflessioni sul caso italiano Quando passiamo ad analizzare il caso italiano, dobbiamo mettere in

conto quantomeno due ordini di fattori. Anzitutto il carattere relativamente recente dei fenomeni migratori nel nostro paese, che solo negli ultimi 15 anni hanno portato le problematiche della convivenza ad assumere un certo rilievo. In secondo luogo, la storica debolezza dell’edilizia sociale italiana, prevalentemente “residenziale pubblica”, che supera di poco il 5% dello stock abitativo. Come nel resto d’Europa, anche in Italia, il settore già fra-gile del welfare abitativo conosce un progressivo slittamento verso un mo-dello “residuale”, con il passaggio delle responsabilità dalla dimensione na-zionale a quella regionale e locale, nel quadro di politiche neoliberali che conducono ad una “rimercificazione” di settori che erano stati in preceden-za “demercificati” (Espring-Andersen, 1991). Soprattutto a partire dagli anni ’80, il progressivo disimpegno pubblico nel settore abitativo trova giu-stificazione nella sempre più elevata incidenza della proprietà della casa tra gli italiani (Baldini, 2010), spesso interpretata come peculiarità culturale. Nel complesso, «se in Europa, a partire dalla metà degli anni ’70, il model-lo di social housing di massa cede il passo al modello residuale, questo modello non può che manifestarsi in modo esasperato in Italia: negli anni ’90 scompare il finanziamento GesCaL, diminuiscono gli investimenti, lo stock viene in parte significativa privatizzato, il nucleo dei beneficiari si re-stringe sempre più ai nuclei familiari più disagiati» (Baldini, 2010: 156).

Il fatto che i bisogni non siano residuali, d’altro canto, sembra eviden-ziato da un interessante studio sulla povertà abitativa nel nostro paese (Pal-varini, 2010)2, centrato sul concetto di affordability (accesibilità) delle spe-

2 Si tratta di un lavoro che ha il solo limite di risalire a qualche anno addietro e di richie-

dere, pertanto, aggiornamenti per quanto riguarda i dati sulla povertà.

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

127

se abitative, alla luce del “reddito residuo”3. Partendo da questo tipo di ap-proccio, se il disagio abitativo è conseguenza della carenza di reddito, an-che la povertà, per altro verso, può essere interpretata come conseguenza delle spese legate all’alloggio. Al 2010, i nuclei poveri sono il 15,6% della popolazione italiana, ma in meno della metà dei casi le difficoltà economi-che si rivelano del tutto indipendenti dalle spese per la casa (tab. 1).

Tab. 1 Incidenza della povertà in Italia: indipendente e dipendente dalla casa

Povertà (15,6%)Indip. dalla casa (6,8%) Dip. dalla casa (8,8%)

Casa e redito(3,5%)

Solo casa(5,3%)

Fonte: Palvarini, 2010 Nel determinare la povertà dei nuclei immigrati, per proseguire con

l’analisi di Palvarini, il problema della casa si rivela in tutta la propria por-tata: circa il 60% dei nuclei immigrati poveri devono, almeno in parte, la propria precarietà economica alle spese sostenute per l’abitazione.

Tab. 2 Incidenza percentuale della povertà, indipendente e dipendente dalla casa, in Italia per nazionalità

Nazionalità Indipendente Dipendente Totale Italia 6,4% 8,2% 14,6% UE 19,3% 13,9% 33,2%

Extra UE 14,6% 22% 36,6% Fonte: Palvarini, 2010

La relativa marginalità delle politiche abitative in Italia ha un complesso

di intuibili conseguenze sulle dinamiche di segregazione. In primo luogo, per la debolezza di quello stesso settore al cui interno politiche di desegre-gazione potrebbero essere pensate. A questo si aggiunga che neppure le di-verse Aziende regionali per la casa fanno, normalmente, riferimento a si-mili criteri nelle politiche d’assegnazione. Ogni intervento di questo genere si trova ad essere, pertanto, limitato a marginali, per quanto virtuose, in-iziative provenienti dal privato sociale, oppure da azioni “mirate” che ve-dono agire congiuntamente il pubblico e il privato sociale o differenti attori pubblici (vi torneremo nel prossimo paragrafo). Complessivamente, come osserva Robert Castel (2004), la dismissione di politiche di welfare genera-

3 In poche parole, non ci si domanda quale percentuale del reddito familiare sia assorbita

dalle spese per la casa, ma quanto rimanga nelle tasche dei membri del nucleo dopo la corre-sponsione delle stesse.

Agustoni, Alietti, Cucca

128

trici di sicurezza, si traduce in un diffuso senso d’insicurezza che introduce negli spazi quotidiani diffidenze e paure. D’altro canto queste stesse paure costituiscono uno strumento di facile utilizzo sul “mercato” della politica: sono facilmente “capitalizzabili” in termini di consenso, ovvero di quella che Jonathan Simon (2007) definisce la “politica della paura”. L’immigrato si presta assai bene a fungere da simbolo delle inquietudini di un cambi-amento legato ai processi di globalizzazione e alle politiche neoliberali. Il disordine abitativo che lo contraddistingue, in buona parte prodotto della sua povertà abitativa, contribuisce ampiamente a questo effetto (Agustoni, Alietti, 2009).

Gli immigrati soddisfano le proprie esigenze abitative prevalentemente sul mercato dell’affitto privato, dove è oggetto di profonde forme di diffi-denza, di resistenza di proprietari e immobiliari. Alle diffidenze caratteris-tiche del mercato seguono condizioni abitative da paura: affitti a canone sistematicamente maggiorato4 (Cgil-Sunia, 2010) per alloggi generalmente fatiscenti, che finiscono per essere sovraffollati e che spesso, di fronte alla richiesta di un ricongiungimento familiare, si rivelano inadeguati, con grande costernazione di chi magari aveva acceso un mutuo per il loro ac-quisto. Non è un caso che gli stranieri si ritengano e si sentano discriminati soprattutto da parte degli operatori del settore abitativo (agenti immobiliari e funzionari degli sportelli casa dei comuni), oltre che delle forze dell’ordine e dai datori o colleghi di lavoro, come sembra attestare una ri-cerca riassunta nelle due tabelle sottostanti (Dipartimento Pari Opportunità - Fondazione per la Sussidiarietà, 2010).

Tali alloggi, non di rado, si collocano in condomini che si vedono tagli-are servizi essenziali (l’acqua o il riscaldamento) per la morosità di alcuni condomini. Spesso si concentrano in aree degradate, trasformate in territori di migrazione. Una situazione di questo genere, ineluttabilmente, contribu-isce a rafforzare il sentimento d’insicurezza.

La comparsa di immigrati in un territorio costituisce, spesso, un signifi-cativo pull factor per la popolazione “autoctona”, come dimostra egregia-mente uno studio della Banca d’Italia (Accetturro, Manaresi, Mocetti, Oli-vieri, 2012). Si tratta di un fenomeno che la letteratura anglosassone cono-sce come white flight (Thabit, 2003; Kruse, 2005; Pais, South, Crowder, 2008) e che, nel nostro paese, sembra portare mediamente all’esodo di sei nuclei italiani per ogni dieci nuclei immigrati in arrivo in una determinata circoscrizione. I comuni maggiormente interessati dall’insediamento immi-grato risultano, nel contempo, caratterizzati da una più significativa crescita

4 Nulla d’illegale, alla luce della Legge Zagatti che, nel 1998, abolisce l’equo canone.

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

129

dei valori immobiliari, come effetto dell’accresciuta domanda d’abitazioni. D’altronde, l’incremento dei valori immobiliari non riguarda i quartieri d’insediamento immigrato: questi ultimi, spesso caratterizzati da una quota di residenti stranieri fino a dieci volte superiore rispetto ad altre zone, pre-sentano una sostanziale (ed apparentemente paradossale) stabilità dei prezzi immobiliari.

Giudizio dei migranti sui luoghi e gli attori della discriminazione razziale ed etni-ca in Italia

Forze dell'ordineLuogo lavoro

Questura - Uff. Imm.Scuola/Univ.

NegoziCentri impiego

Uff. comune, prov. reg.Uff. postali

Banche e assic.Luoghi tempo libero

Sanità

Fonte: Dipartimento Pari Opportunità (2010)

Luoghi ed ambiti in cui i migranti hanno percepito di subire discriminazioni

Ag. immob. - servizi casa

Questura - Uff. imm.

Forze ordineSanità

Negozi

Uffici

Centri impiego

Luoghi tempo libero

Scuola/univ.

Banche e assic.

Poste

Fonte: Dipartimento Pari Opportunità (2010) L’analisi dei dati citati, porta gli autori a concludere che, in qualche ma-

niera, l’immissione di immigrati in un certo territorio finisca per scaricare, appunto per effetto del white flight, la tensione abitativa verso altri settori

Agustoni, Alietti, Cucca

130

della stessa area metropolitana. L’aspetto economico e quello simbolico, al di là di ogni consueta dicotomia, si coniugano squisitamente. La presenza di un patrimonio edilizio di scarso pregio, relativamente poco “desiderabi-le”, attira (alla luce di quanto detto sopra) settori di popolazione straniera, spinti dalla ricerca di una soluzione economica alle proprie esigenze abita-tive. D’altro canto, da parte della popolazione locale, la presenza di stranie-ri viene spesso avvertita come foriera di “degrado simbolico”, che non in-terferisce soltanto con il sentimento di sicurezza e con l’immagine del terri-torio, ma anche con i valori immobiliari. Interessi economici e “identità so-ciale” vanno, in questo caso, di pari passo.

3. Tra dismissione delle politiche e innovazione. Milano come laborato-rio di convivenza?

Un caso studio di assoluto interesse per comprendere l’intreccio tra di-

sagio abitativo, effetti della dismissione di politiche abitative e urbane orientate a promuovere affordability e sperimentazione di circoscritti inter-venti di social mix è l’area metropolitana di Milano.

Anche in questo contesto, sulla strada indicata dall’evoluzione che han-no conosciuto le politiche urbane ed abitative promosse in molti paesi este-ri, l’obiettivo della mescolanza sociale ha progressivamente conquistato centralità all’interno delle retoriche imperanti nel discorso pubblico sulle dinamiche urbane. D’altronde, come affermato recentemente da Bridge et al. (2011), chi potrebbe mai dichiararsi apertamente contrario all’ideale del-la società urbana mista, in contrapposizione ai processi di polarizzazione sociale e spaziale che stanno progressivamente trasformando le configura-zioni socio-spaziali delle nostre città? Seppure con una diffusione ancora contenuta rispetto ad alcune aree urbane europee e soprattutto a quelle Nord Americane, la segregazione spaziale di alcuni gruppi sociali agli apici della stratificazione inizia a rappresentare un fenomeno visibile anche all’interno del contesto milanese. In questo caso, però, a colpire non è spesso l’estensione territoriale delle aree connotata dalla sovra rappresentazione delle popolazioni immigrate, tanto le condizioni di degrado che caratteriz-zano le aree del loro insediamento.

Nel contesto milanese, meccanismi molto simili, già descritti in nostri precedenti contributi (Alietti, 1997; Agustoni, 2003; 2012; Agustoni, Aliet-ti, 2009; Cucca, 2012), caratterizzano tanto quartieri di edilizia residenziale pubblica (Calvairate, Corvetto-Mazzini, S. Siro e Stadera) che aree degra-date ma di edilizia privata (i dintorni di via Padova o la Bovisa, sempre a

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

131

Milano, come Zingonia o il Satellite di Pioltello nei paraggi del capoluogo lombardo). Si tratta di aree che hanno cominciato a caratterizzarsi come ter-ritori di migrazione in un periodo relativamente recente, non prima degli anni Novanta. Non di rado, lo spontaneo generarsi di variegate forme di “social mix” ha dato spunto, ben oltre all’“indifferenza civile” che nello scorso paragrafo abbiamo visto teorizzata da Herbert Gans, a fenomeni conflittuali, spesso mediaticamente sovraesposti e facilmente strumentaliz-zati dalla politica nazionale e locale. In certi casi, tuttavia, l’esigenza di ri-spondere alle numerose problematiche locali, di prodursi come interlocutori attivi rispetto agli attori politici e di reagire allo stigma territoriale, ha dato vita ad interessanti iniziative locali bottom-up, spesso promosse da preesi-stenti forme associative e da “minoranze attive” che hanno svolto un ruolo di social buffer, secondo l’analisi di Wilson citata nel primo paragrafo, non senza cospicue potenzialità in termini d’incubazione di capitale sociale. È il caso di “Via Padova è meglio di Milano” e del Comitato del Satellite di Pioltello (nati con il concorso di un ricco tessuto associativo presente nei due quartieri), nonché del Comitato di Zingonia (sorto, quest’ultimo, come reazione ad un progetto di “riqualificazione” che si risolveva nella demoli-zione delle “malfamate” torri di Zingonia di Ciserano).

A tali situazioni di disagio, nell’ultimo decennio sono pervenute risposte pubbliche limitate, e spesso connotate dalle retoriche proprie del discorso neoliberale sulla città: la necessità di dismettere i tradizionali strumenti di politica pubblica in favore di iniziative più circoscritte, puntuali e di carat-tere fortemente innovativo e sperimentale. In questo contesto il framework interpretativo offerto dagli studi sull’“effetto territorio” è stato recepito più o meno integralmente come sfondo entro cui inquadrare gli interventi sul degrado urbano. Inoltre, è da sottolineare come sin dal principio, il discorso pubblico elaborato attorno al concetto di social mix non abbia avuto come obiettivo unico il richiamo a interventi utili a contrastare i processi segrega-tivi che colpivano la componente immigrata, quanto quella di aprire gli in-terventi di welfare pubblico non solo in prima istanza ai gruppi sociali più svantaggiati, ma orientarli anche a favore di una classe media che iniziava ad essere maggiormente esposta al rischio abitativo (Bricocoli, Cucca, 2014). Il social mix, a differenza di quanto attuato in altri contesti, diviene quindi strumento per promuovere una diversa tipologia di “giustizia socia-le” i cui i beneficiari sono soggetti della classe media vulnerabile: la cosid-detta “area grigia” del disagio abitativo.

Il primo passaggio attraverso cui sono per la prima volta attuati inter-venti indirizzati ad attenuare la concentrazione di particolari gruppi sociali nell’edilizia residenziale pubblica, risale agli anni 2000 con la stagione del-

Agustoni, Alietti, Cucca

132

le politiche di riqualificazione e, in particolare, alcuni Pru e i Contratti di Quartiere (Briata et al., 2009). Attraverso i Contratti di quartiere si inizia, per la prima volta, in Lombardia e a Milano, a promuovere politiche orienta-te a una maggiore diversificazione delle assegnazioni delle nuove abitazioni ottenute attraverso le opere di riqualificazione, nonché a intervenire su situa-zioni di eccessiva “omogeneità” sociale attraverso la mobilità dei residenti. Già in quegli anni, l’idea del social mix sembrava appunto rappresentare una precondizione indiscutibile, e in buona parte indiscussa, della convivenza ci-vile fra diverse categorie di soggetti esposti al rischio abitativo.

Alcuni fattori sono di particolare rilevanza nell’analisi delle modalità at-traverso cui sono stati attuati i vari interventi orientati a promuovere una maggiore “mescolanza sociale” inizialmente nei quartieri di edilizia pubbli-ca e poi, come vedremo, nei nuovi progetti di housing sociale (Bricocoli, Cucca, 2014): a) l’indeterminatezza del concetto di social mix, la cui “ricet-ta” veniva affidata a pratiche di buon senso, e applicata unicamente in fase di assegnazione degli alloggi, senza una qualche forma di valutazione sui meccanismi che producono eterogeneità nel tempo; b) la scarsità, o presso-ché assenza, di interventi sociali per creare condizioni di convivenza fra soggetti, almeno a priori, considerati diversi o portatori di disagio più o meno conclamato.

In anni più recenti, in una fase di intensa ridefinizione delle politiche della casa e di crescente intensificazione della domanda sociale di alloggi, il social mix si è andato affermando quale principio di riferimento nell’assegnazione e nella costruzione di nuovi profili per gli interventi di nuova edificazione. Il mix sociale ha offerto un argomento importante alla decisione di sottrarre progressivamente quote consistenti di alloggi (e spes-so in ambiti urbani più centrali) al patrimonio di edilizia pubblica per poter procedere ad assegnazioni fuori lista a categorie di lavoratori ritenute di in-teresse primario, quali ad esempio le forze dell’ordine e gli infermieri, i tramvieri e gli studenti. Gli studenti in particolare rivestono un ruolo cen-trale nel discorso che si è costruito attorno al mix sociale, quasi che la loro presenza fosse di per sé benefica e amplificatrice di effetti positivi su un ambito di edilizia sociale. Un altro aspetto da tenere in considerazione è l’adozione strettamente funzionale di una interpretazione del mix sociale che è giocata unicamente sull’accostamento fisico e che non mette in alcun modo in gioco la dimensione concreta di processi di interazione sociale tra i soggetti. Un esempio rilevante sono gli interventi realizzati nell’ambito del programma “Abitare Milano 1” - la maggiore iniziativa per la realizzazione di edilizia pubblica promossa a Milano negli ultimi anni (Bricocoli, Cucca, 2014). Il programma, avviato nel 2005 dall’Amministrazione comunale,

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

133

consiste di quattro diversi interventi su aree precedentemente destinate a standard urbanistici e rese disponibili grazie a una legge regionale (la L.R. 7 del 2005) che fa ricadere fra questi ultimi anche l’edilizia residenziale so-ciale. Nel caso di “Abitare a Milano 1”, l’obiettivo del mix sociale è stato perseguito individuando quote fisse di alloggi e categorie specifiche di de-stinatari; in particolare questa operazione è stata realizzata attraverso l’introduzione da parte della Regione Lombardia di un nuovo tipo di cano-ne, cosiddetto “convenzionato” e determinato in funzione della reddittività dell’investimento del promotore di edilizia sociale. L’argomento per cui si è sottratto un discreto numero di alloggi al parco di nuovi alloggi a canone sociale per destinarli a canone convenzionato (determinato in corrispon-denza delle superfici, indipendente dalle condizioni di reddito e riservato ad inquilini il cui reddito è compreso tra una soglia minima di 14 mila euro e una massima di 40 mila euro) è quello dell’utilità di una molteplicità di profili socio-economici per evitare la concentrazione di soggetti svantag-giati, anche quando in realtà ci si riferisce ad interventi di edilizia pubblica di dimensioni assai modeste. I risultati di questa operazione si sono dimo-strati però quasi paradossali. Innanzitutto si è registrata una risposta ridot-tissima al bando a canone convenzionato da parte di questa “area grigia” di famiglie soggette a disagio abitativo, che però l’offerta pubblica non riesce a intercettare, con un evidente spreco di risorse pubbliche e soluzioni abita-tive per i ceti più deboli. In secondo luogo si sono prodotti spazi sociali ca-ratterizzati da straordinaria omogeneità: in uno dei progetti realizzati, il di-spositivo ha infatti permesso che più della metà dei nuovi abitanti della quota di residenza destinata a canone non-sociale fosse occupata da perso-nale delle forze dell’ordine.

In sostanza, in un contesto come quello milanese in cui la popolazione a rischio abitativo è assai numerosa e in cui le uniche categorie cui risulta di fatto garantita l’assegnazione di alloggi a canone sociale sono i nuclei fami-liari sottoposti a sfratto esecutivo oppure con minori e in condizioni di forte disagio (al 2012 i nuclei familiari ufficialmente iscritti alla graduatoria co-munale e aventi diritto erano 17mila, mentre l’offerta di alloggi era limitata a 1200 all’anno), il richiamo sistematico al mix sociale anziché tutelare e promuovere condizioni di coesione sociale, pare piuttosto contribuire all’esclusione dalle politiche di welfare di un numero consistente di poten-ziali destinatari aventi diritto. In sostanza, l’esempio di Milano testimonia come senza un’adeguata macro politica di inclusione socio-economica che accompagni lo sviluppo delle azioni de-segregative, tali interventi risultino non solo deboli e inefficaci, ma anche possibili meccanismi di riproduzione

Agustoni, Alietti, Cucca

134

e amplificazione delle disuguaglianze sociali e spaziali che sempre più ca-ratterizzano le nostre città.

Riferimenti Bibliografici Accetturo A., Manaresi F., Mocetti S., Olivieri E. (2012). Don’t stand so close to me: the

urban impact of immigration, Banca d’Italia, “Temi di discussione, Working Papers”, aprile.

Agustoni A. (2003). I vicini di casa. Milano: FrancoAngeli. Agustoni A. (2012). Un centro, periferia di cinque centri. In Osti G. e Ventura F. (a cura di).

Vivere da stranieri in aree fragili. Napoli: Liguori. Agustoni A., Alietti A. (2009). Società urbane e convivenza interetnica, Vita quotidiana e

rappresentazioni degli immigrati in un quartiere di Milano. Milano: FrancoAngeli. Agustoni A., Alietti A. (a cura di). (2011). Migrazioni, politiche urbane e abitative: dalla

dimensione europea alla dimensione locale. Fondazione Ismu, Regione Lombardia. Alietti A., Agustoni A. (a cura di). (2013). Integrazione, casa e immigrazione. Esperienze e

prospettive in Europa, Italia e Lombardia. Fondazione Ismu, Regione Lombardia. Alietti A. (1997). La convivenza difficile. Torino: L’Harmattan. Alietti A. (2011). Migrazioni, politiche urbane e abitative: alcune riflessioni sulle società

urbane. In Agustoni A., Alietti A. (a cura di). Migrazioni, politiche urbane e abitative: dalla dimensione europea alla dimensione locale. Fondazione Ismu, Regione Lombardia.

Alietti A. (2013). Politiche abitative, integrazione e immigrazione nel contest europeo. In Alietti A., Agustoni A. (a cura di). Integrazione, casa e immigrazione. Esperienze e prospettive in Europa, Italia e Lombardia. Fondazione Ismu, Regione Lombardia.

Arbaci S. (2007). Ethnic Segregation, Housing System and Welfare regimes. European Journal of Housing Policy, 4, pp. 401-433.

Arbaci S., Rae I. (2013). Mixed-Tenure Neighbourhoods in London: Policy Myth or Effective Device to Alleviate Deprivation?, International Journal of Urban and Regional Research, 2, pp. 451–479.

Atkinson R., Kintrea K. (2001). Disentangling Area Effects: Evidence from Deprived and Non-deprived Areas. Urban Studies, 1, pp. 2277-2298.

Baldini M. (2010). La casa degli italiani. Bologna: il Mulino. Baldini M., Poggio T. (2010). Housing policy toward the rental sector in Italy. A

distributive assessment. Università di Modena e Reggio Emilia, Materiali di discussione, giugno 2010.

Barou J. (2008). Mixité sociale et accès au logement:un couple antagonique? Recherches et Prévisions, 94, pp. 49-57.

Blanc M., Bidou-Zachariasen C. (2010). Éditorial. Espaces et Sociétés, Dossier Paradoxes de la mixité sociale, n. 140-141, pp. 9-20.

Blanc M., (2010). The Impact of Social Mix Policies in France. Housing Studies, 2, pp. 257-272.

Bolt G., Burgers J., van Kempen R. (1998). On the Social Significance of Spatial Location, Spatial Segregation and Social Inclusion. Netherlands Journal of Housing and the Built Environment, 1, pp. 83-95.

Bolt G. (2009). Combating residential segregation of ethnic minorities in European cities. Journal of Housing and the Built Environment, 24, pp. 397-405.

Neoliberismo, migrazioni e segregazione spaziale

135

Bolt G., Özüekren S., Phillips D., (2010). Linking Integration and Residential Segregation. Journal of Ethnic and Migration Studies, 2, pp. 169-186.

Bolt G., Phillips D., van Kempen R. (2010). Housing Policy, (De)segregation and Social Mixing: An International Perspective. Housing Studies, 2, pp. 129-135.

Briata P., Bricocoli M., Tedesco C. (2009). Città in periferia. Politiche urbane e progetti in Francia, Gran Bretagna e Italia. Roma: Carocci.

Bricocoli M., Cucca R. (2014) "Social mix and housing policy: Local effects of a misleading rhetoric. The case of Milan", in Urban Studies, 1–15, DOI: 10.1177/0042098014560499

Bridge G., Butler T., Lees L. (2011). (eds). Mixed Communities: Gentrification By Stealth? Bristol: Policy Press Scholarship

Castel R. (2004). L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? Torino: Einaudi. Cgil-Sunia (a cura di). (2010). L. Mariani Gli immigrati e la casa. in www.cgil.it. Cheshire P. (2009). Policies for mixed communities: faith-based displacement activity?

International regional science review, 3. pp. 343-375. Cucca R. (2012). The Hidden Unwanted. Patterns of immigrants’ marginality in

Copenhagen (Denmark) and Milan (Italy). In Yaelye C.C. Living on the boundaries: Urban Marginality in National and International Context. Emerald Inc. out of the UK.

Cucca R., Pologruto P. (2011). Azione pubblica e modelli empirici: una riflessione su alcuni casi studio. In Agustoni A., Alietti A. (a cura di). Migrazioni, politiche urbane e abitative: dalla dimensione europea alla dimensione locale. Fondazione Ismu, Regione Lombardia, pp. 51-80.

De Rudder V. (1991). Seuil de tolerance et cohabitation plurietnique. In Taguieff P.A. (sous la direction). Face au racisme, Vol. 2. Paris: La Découverte.

Dietz N. (2002). The estimation of neighbourhood effects in the social science: an interdisciplinary approach. Social Science Research, 4, pp. 539-575.

Dipartimento Pari Opportunità, Fondazione per la Sussidiarietà (2010), Studio per la definizione e l’organizzazione di un sistema d’indicatori per la misura dei fenomeni di discriminazione razziale, Ottobre 2010.

Espring-Andersen G. (1991). The Three Worlds of Welfare Capitalism. Cambridge: Polity Press.

Eumc (European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia). (2005). Migrants, Minorities and Housing: Exclusion, Discrimination and Anti-Discrimination in 15 Member States of the European Union. Eumc, 2005.

Harvey D. (2012). Il capitalismo contro il diritto alla città. Verona: Ombre Corte. Jayaweera, H., Choudhury, T. (2008). Immigration, faith and cohesion: evidence from local

areas with significant Muslim populations. New York: Joseph Rowntree Foundation. Kleinshans R. (2004). Social implications of housing diversification in urban renewal: a

review of recent literature. Journal of Housing and the Built Environment, 19, pp. 367-390.

Kruse K.M. (2005). White Flight. Atlanta and the Make of Modern Conservatism. Princeton: Princeton U.P.

Lagrange H., Oberti M. (2006). (a cura di). La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese. Milano: Bruno Mondadori.

Launay L. (2010). De Paris à Londres, le défi de la mixité sociale par “les acteurs clés”. Espaces et Sociétés, vol. 140/141, pp. 111–26

Munch S. (2009). “It’s all in the mix”: constructing ethnic segregation as a social problem in Germany. Journal of Housing and Build Environment, 24, pp. 441-455.

Musterd S., Andersson R. (2005). Housing Mix, Social Mix and Social Opportunities. Urban Affaire Review, 6, pp. 1-30.

Agustoni, Alietti, Cucca

136

Musterd S., Ostendorf W. (1998). (eds.) Urban Segregation and the Welfare State: Inequalities and Exclusion in Western Cities. London: Routledge.

Musterd S. (2002). Response: Mixed Housing Policy: a European (Dutch) Perspective. Housing Studies, 1, pp. 139-143.

Musterd S. (2005). Social and Ethnic Segregation in Europe: Levels, Causes and Effect. Journal of Urban Affairs, 3, pp. 331-348.

Musterd S., van Kempen R. (2009). Segregation And Housing Of Minority Ethnic Groups In Western European Cities. Tijdschrift voor Economische en Sociale Geografie, Royal Dutch Geographical Society Knag, 4, pp. 559-566.

Oreopoulos P. (2003). The Long-Run Consequences of living in a Poor Neighbourhood. Quarterly Journal of Economics, 4, pp. 1533-1575.

Pais J.F., South S.J., Crowder K. (2008). White Flight Revisited. A Multiethnic Perspective on Neighborhood Out-Migration. Population Research and Policy Review, 3: pp. 321-346.

Palvarini P. (2010). Cara dolce casa. Come cambia la povertà in Italia prima e dopo le spese abitative. In atti della Terza Conferenza ESPAnet Italia, Senza Welfare? Federalismo e diritti di cittadinanza nel modello mediterraneo, Napoli, 30 settembre-2 ottobre.

Petrillo A. (2013). Peripherein. Ripensare il senso delle periferie. Milano: FrancoAngeli. Rex J. (1973). Race, Colonialism and the City. London: Routledge and Kegan Paul. Rose D., Germain A., Bacqué M-H., Bridge G., Fijalkow Y., Slater T., (2012). Social Mix

and Neighborhood Revitalization in a Transatlantic Perspective: Comparing Local Policy Discourse and Expectations in Paris (France), Bristol UK) and Montréal. International Journal of Urban and Regional Research, 2, pp. 430-450.

Sala Pala V. (2006). Le racisme istitutionelle dans les attributions de logement social, une comparaison franco-britannique. Hommes & Migrations, 1264, pp. 103-113.

Sampson R., Morenoff J., Gannon-Rowley T. (2002). Assessing 'Neighborhood Effects': Social Processes and New Directions in Research. Annual Review of Sociology, 28, pp. 443-78.

Sarkissian W. (1976). The Idea of Social Mix in Town Planning: An Historical review. Urban Studies, 13, pp. 231-246.

Secchi B. (2013). La città dei ricchi e la città dei poveri. Bari: Laterza. Simon J. (2007). Il governo della paura. Milano: Cortina. Simon P. (2003). Le logement social en France et la gestion des “populations à risques.

Hommes & Migrations, 1246, pp. 76-91. Thabit W. (2003). How East New York Became a Ghetto. New York: New York University

Press. van Ham M, Manley D. (2010). The effect of neighbourhood housing tenure mix on labour

market outcomes: a longitudinal investigation of neighbourhood effects. Journal of Economic Geography, 10, pp. 257–28.

van Kempen R., Özüekren S. (1998). Ethnic Segregation in Cities: New Forms and Explanations in a Dynamic World. Urban Studies, 10, pp. 1631-1656.

van Kempen R., Bolt G. (2009). Social cohesion, social mix, and urban policies in the Netherlands. Journal of Housing and the Built Environment, 24, pp. 457-475.

Wilson W. (1987). The Truly Disadvantaged: the inner city, the underclass, and public policy. Chicago: University of Chicago Press.