Migrazioni internazionali, culture politiche e globalizzazione

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Testi e pretesti

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Testi e pretesti

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Umberto Melotti

Migrazioni internazionali

Globalizzazione e culture politicheIstruzioni per l’uso della filosofia nella vita

Bruno Mondadori

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Tutti i diritti riservati© 2004, Paravia Bruno Mondadori Editori

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Indice

VII Introduzione

1 1. Migrazioni internazionali e processo di globalizzazioneLe tre fasi delle migrazioni post-belliche in Europa,p. 3; Le relazioni fra globalizzazione e migrazioni in-ternazionali, p. 10

15 2. Migrazioni internazionali e culture politicheLa Francia: l’assimilazionismo “repubblicano” e la suacrisi, p. 16; Il Regno Unito: retaggio coloniale e plura-lismo ineguale, p. 22; La Germania: dalla precarietàistituzionalizzata a un’integrazione difficile, p. 28; I trepaesi del Benelux: Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo,p. 38; Tre paesi del Sud Europa: Spagna, Portogallo,Grecia, p. 46; L’Austria: un grande passato multina-zionale, un incerto presente, p. 61; La Svezia, fra wel-fare State e multiculturalismo, p. 66; Un paese “candi-dato”: la Polonia, p. 80; Due altri paesi europei: laSvizzera e San Marino, p. 84; Gli Stati Uniti d’Ameri-ca: dal “melting pot” al multiculturalismo, p. 88; IlCanada: un multiculturalismo precorritore, ma parzia-le, p. 93; L’Australia: multiculturalismo spinto e con-trollo dell’immigrazione, p. 101

105 3. Globalizzazione e culture politicheLa comunitarizzazione delle politiche europee d’im-migrazione, p. 106; La convergenza delle politichemigratorie dei paesi dell’Unione Europea, p. 128

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135 4. Il caso italianoL’Italia, da paese di emigrazione a paese d’immigra-zione, p. 135; Lo sviluppo della legislazione italianasull’immigrazione, p. 146; Il dibattito politico-ideo-logico in Italia, 162

167 5. L’immigrazione e la cultura politica italianaL’idea italiana di nazione e l’immigrazione, p. 167;L’idea italiana di “nazione”: una risorsa per l’inte-grazione e la convivenza civile, p. 175; Il retaggioitaliano, una risorsa per l’Europa, p. 182

185 6. Conclusione

187 Glossario209 Bibliografia225 Nota bibliografica229 Indice dei nomi

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Introduzione

Come diceva Hegel, l’uccello di Minerva spicca il voloal calar della sera. O, se si preferisce citare Marx, l’ana-tomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scim-mia (e non viceversa, come vorrebbe una banale impo-stazione evoluzionista).

Non c’è da stupirsi quindi, fuor di metafora, se ab-biamo cominciato a interrogarci sulle culture politichedei diversi paesi europei e a metterne a fuoco le signifi-cative differenze proprio in un momento storico in cui,sotto il duplice attacco del processo di globalizzazionee dell’unificazione europea, quelle culture sono entratein una crisi profonda, che ha fra l’altro notevolmenteinciso sulla loro previa netta distinzione. Ciò risultatanto più chiaro se si assume il concetto di “cultura po-litica” in un’accezione diversa e più ampia di quelladella tradizione accademica nordamericana, già moltoinsoddisfacente in sé (Pirni, 2003) e per di più del tut-to inadeguata al contesto europeo, che, per la maggior“profondità del campo storico” (Abdel-Malek, 1972),richiede un accostamento molto più attento alla “speci-ficità storica” (Mills, 1959). Preciso dunque subito cheper cultura politica intendo qui l’insieme delle idee fon-damentali che in un determinato paese orientano sullungo periodo la concezione dello Stato, del popolo edella nazione, le relazioni esplicitamente o implicita-mente istituite fra loro, con particolare riferimento airapporti fra etnicità, nazionalità e cittadinanza, e i prin-cìpi che regolano l’acquisizione di quest’ultima, con

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tutti i diritti e i doveri che ne conseguono (cfr., più am-piamente, cap. 2; vedi anche il Glossario, sub voce).

Converrà peraltro chiarire preliminarmente le princi-pali relazioni esistenti fra globalizzazione, migrazioniinternazionali e culture politiche: una strana trimurti (o,meglio, una cattolicissima “santa trinità”, dati gli strettie complessi rapporti fra i suoi tre elementi) che richie-de, se non il culto, almeno l’attenzione degli studiosi, epiù in particolare dei sociologi politici, che invece han-no sinora quasi completamente ignorato l’argomento one hanno, al più, analizzato isolatamente le singolecomponenti.

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1. Migrazioni internazionali e processo di globalizzazione

Gioverà partire da una ricostruzione storica delle rela-zioni esistenti fra le migrazioni internazionali e il pro-cesso di globalizzazione.

Ricordo innanzi tutto che le grandi migrazioni inter-nazionali sono state sin dagli inizi dell’età moderna –convenzionalmente datata a partire dalla scoperta del-l’America (1492) – il principale fattore che ha concor-so alla formazione dell’attuale sistema mondiale, chedella cosiddetta “globalizzazione” costituisce la neces-saria premessa. Gli stessi Stati Uniti d’America, la po-tenza ormai da tempo mondialmente egemone, sonosorti da quelle migrazioni, così come altri importantipaesi del cosiddetto Primo Mondo, il Canada, l’Au-stralia e la Nuova Zelanda, e tutti quelli dell’Americapiù o meno propriamente definita latina, fra cui l’Ar-gentina, il Brasile, il Cile, l’Uruguay e il Venezuela, cuiha dato un apporto fondamentale l’emigrazione italia-na. Anche molti paesi dell’Asia e dell’Africa, ove purela popolazione autoctona era molto più numerosa chein America o in Australia, hanno conosciuto una con-sistente immigrazione europea durante la loro coloniz-zazione diretta o indiretta. Ancor oggi gli effetti di ta-le processo si fanno largamente sentire in molti paesi.Basti qui richiamare che l’India, che fu la più grande eimportante colonia britannica, utilizza tuttora l’inglesecome lingua ufficiale (accanto all’hindi, peraltro pocoamato e poco conosciuto in numerosi suoi Stati), chevi assolve una fondamentale funzione integratrice, al di

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là delle profonde differenze culturali presenti nelle suediverse aree. Quanto all’Africa, tuttora vi si distinguo-no paesi anglofoni, francofoni e lusofoni, e nei paesiche hanno subìto una più o meno lunga colonizzazio-ne italiana (l’Eritrea, la Somalia, l’Etiopia e la Libia)anche la lingua del nostro paese risulta tuttora assai piùconosciuta che altrove. Ma l’influenza della colonizza-zione non si è ovviamente limitata all’idioma. Parimen-ti affetti ne sono stati molti altri aspetti dell’organizza-zione sociale e della cultura, fra cui la stessa religione.In ogni caso a questo processo si deve la formazione inquei contesti delle prime vere società multiculturalidella storia moderna, che fuori d’Europa non sono cer-to cosa nuova (ovviamente se si distingue, come peral-tro sempre si dovrebbe, multiculturalità e multicultu-ralismo; cfr. Melotti, 1999a; vedi anche il Glossario,sub voce).

Rispetto al passato, va sottolineato però un cambia-mento fondamentale. Per quattro secoli e mezzo, dal1492 alla seconda guerra mondiale, i flussi migratorierano andati, per l’essenziale, dal centro del sistemamondiale in formazione, allora costituito dalla vecchiaEuropa, alle sue periferie: le Americhe, l’Africa, l’Asia,la lontana Oceania. All’indomani della seconda guerramondiale – nel quadro dell’accelerata trasformazioneche caratterizzò quegli anni, che videro fra l’altro l’af-fermazione della potenza americana, la divisione delmondo in due grandi blocchi politici, economici, ideo-logici e militari in competizione, la fine dei grandi im-peri coloniali con l’accesso all’indipendenza di quasitutti i paesi asiatici e africani, la costituzione dello Statod’Israele, con il conseguente inizio del dramma palesti-nese, e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in alcunipaesi del Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l’Algeriain Africa e Cuba in America Latina – si ebbe anche l’in-

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versione della direzione fondamentale dei flussi migra-tori, che cominciarono ad andare sempre più dalle pe-riferie del sistema mondiale al suo centro (che com-prendeva ormai, come sua parte integrante, anche gliStati Uniti d’America, divenuti anzi, proprio in questoperiodo, il centro del centro). Il fattore di fondo sotte-so a questo rovesciamento della tendenza secolare è sta-to indubbiamente il diverso andamento dei trend de-mografici nel centro e nella periferia (cfr. in particolareSauvy, 1962; Davies, 1974): un dato di grande rilevanzastorica, che indusse a individuare in questa “nemesi sto-rica” del colonialismo (Lanternari, 1991), più che lacontinuazione dei vecchi flussi migratori, l’inizio di unnuovo grande processo destinato a ridisegnare sul lun-go periodo la stessa mappa etnografica del mondo (cfr.Golini, 1986; Lanternari, 1991).

Le tre fasi delle migrazioni post-belliche in Europa

Dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni no-stri (la metà di un secolo tutt’altro che “breve”, a con-siderarne da vicino gli eventi), per quanto concernel’immigrazione in Europa si devono distinguere tre fasiabbastanza diverse per natura, provenienza, destinazio-ne e funzione dei flussi (cfr. Melotti, 1990, 1991a,1992a), e non due, come sono soliti fare quegli studiosi(fra cui, da ultimo, Giordano Sivini, 2002), che, in os-sequio alla tradizionale impostazione neo-marxista, si li-mitano a distinguere, con terminologia decisamentefuorviante, una “fase fordista” e una “fase post-fordi-sta”, peraltro mal definendo tanto la prima, che “fordi-sta” è stata soltanto in parte (dato che anche nel perio-do così qualificato le immigrazioni concernevano non

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solo le grandi imprese industriali moderne, ma anchel’edilizia e il terziario) quanto la seconda, che si do-vrebbe in ogni caso definire positivamente, per ciò chesi ritiene che sia, e non soltanto negativamente, per ciòche si afferma che non sia più (secondo il vezzo di chi,altrettanto inadeguatamente, definisce l’attuale società“post-moderna”, “post-industriale”, “post-nazionale” oaddirittura “post-capitalistica”, senza preoccuparsi diprecisare che cosa invece sarebbe: una carenza presen-te anche in studiosi ben noti, come Touraine, Habermase Giddens, peraltro meno ingiustificati dei loro tardiepigoni per il fatto di aver utilizzato tali espressioni inanni più o meno lontani, quando la situazione attuale sipresentava ancora per più aspetti incerta).

La prima fase (1945-1973) comprende sia migrazioniintercontinentali, sia migrazioni continentali, che peral-tro, almeno in Europa, vanno nettamente distinte.

Le migrazioni intercontinentali furono essenzialmen-te dovute ai “fattori di espulsione” (push factors) pre-senti nei paesi di esodo, tra cui gli effetti delle grandicrisi politiche ed economiche che hanno accompagna-to il processo di decolonizzazione. Ricordo, per quantoconcerne l’impero britannico, i sanguinosi scontri chehanno portato alla divisione prima dell’India e delPakistan (con perduranti conseguenze nel Kashmir) epoi del Pakistan occidentale e del Pakistan orientale(con la nascita del Bangla Desh), determinando decinedi milioni di profughi, e le drammatiche violenze in Afri-ca orientale, prima e dopo l’indipendenza di Kenya,Uganda e Tanzania, che hanno causato la fuga o l’espul-sione di rilevanti componenti delle minoranze europee easiatiche ivi insediate. A ciò si possono aggiungere lereiterate fughe verso Hong Kong, allora colonia dellacorona britannica, e da lì poi verso altri paesi, specienei momenti di crisi politica ed economica della Re-

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pubblica Popolare Cinese. Quanto all’impero francese,basti qui richiamare gli effetti delle guerre d’Indocina(1946-1954) e di Algeria (1955-1962), che determina-rono la partenza in massa non solo dei pieds noirs (i co-loni francesi), ma anche degli harkis (i nativi che aveva-no collaborato con loro) e dei dissidenti politici, e il de-finitivo stabilimento in Francia dei lavoratori di queipaesi già ivi presenti con progetti migratori temporanei.Simili per molti aspetti furono del resto le migrazioniche interessarono in quel periodo gli altri paesi colo-niali: il Belgio (per il Congo, in crisi profonda dopo lasua indipendenza, e il Ruanda e il Burundi, scossi dasanguinosi conflitti etnici poi periodicamente riaccesi-si), i Paesi Bassi (per l’Indonesia e il Suriname) e, unpoco più tardi, il Portogallo (per la Guinea-Bissau, Ca-po Verde, l’Angola e il Mozambico, che conquistaronola propria indipendenza con guerre accompagnate e se-guite da interni conflitti). L’Italia stessa conobbe a piùriprese migrazioni dalle sue ex colonie, a volte anchecon motivazioni di rifugio politico, in relazione alle vi-cende che hanno interessato la Somalia (restata sino al1960 in sua amministrazione fiduciaria e poi travolta dauna lunga serie di colpi di Stato e di guerre civili), l’E-ritrea (nel 1962 incorporata dall’Etiopia, da cui si reseindipendente con una lunga guerra, ripresa poi per al-tri motivi) e anche l’Etiopia e la Libia (scosse da colpidi Stato “modernizzanti” che vi hanno instaurato delleodiose dittature militari).

Le migrazioni continentali europee si dovettero inve-ce, oltre che ai fattori di espulsione nei paesi di esodo(di ordine demografico, economico, sociale, culturale ein parte anche politico, come nel caso della Spagna, delPortogallo, della Grecia e della Jugoslavia), ai fattori diattrazione (pull factors) nei paesi di approdo. Fra que-sti, ce ne fu uno, storicamente datato, ma estremamen-

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te importante, che ha caratterizzato il fenomeno: il ri-chiamo di manodopera per la ricostruzione post-bellicae il lungo periodo di espansione che le ha fatto seguito(un richiamo particolarmente forte, dati anche gli effet-ti a breve e a medio termine della falcidie di maschi inetà produttiva determinata dai massacri della secondaguerra mondiale). Queste migrazioni continentali han-no interessato quasi tutti i paesi europei, ma con unanetta distinzione di ruoli fra quelli dell’Europa meri-dionale e quelli dell’Europa centro-settentrionale: i pri-mi costituirono le aree di esodo e i secondi le aree di ap-prodo. All’interno dei paesi dell’Europa meridionalenon sono però mancate delle migrazioni interne che ri-producevano almeno in parte la logica di quelle migra-zioni continentali. È stato questo il caso, in Italia, dellemigrazioni dalle regioni del Sud e del Nord-est verso iltriangolo industriale di Milano, Torino e Genova e ver-so Roma e, in Spagna, delle migrazioni dall’Andalusia eda altre regioni del Sud verso la Catalogna e Madrid(cfr. Melotti, 1992a).

La seconda fase (1973-1982) si apre con la grande cri-si del 1973-1974, scatenata dall’aumento del costo delpetrolio (Carlo, 1976), ma determinata anche (e forseancor più) dall’esaurirsi della funzione trainante delleattività produttive che avevano caratterizzato la prece-dente fase espansiva (Amin, 1974): una crisi strutturaleassai complessa, in cui ha giocato un ruolo importantel’aumento del costo del lavoro in molti paesi del Norddel mondo (fra cui l’Italia, dove quell’aumento fu anziparticolarmente rilevante per effetto delle strabordantiazioni sindacali del cosiddetto “autunno caldo” del1969, alimentate dall’illusione che il salario potesse es-sere trattato come una “variabile indipendente” e, an-cor più, dal clima di “contestazione generale” apertodai movimenti del ’68). In questa fase, mentre in Euro-

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pa tendono a venir meno le migrazioni continentali so-pra citate (Gaspard e Servan-Schreiber, 1984), i movi-menti migratori si accelerano e si estendono, nel conte-sto di quella nuova divisione internazionale del lavoro(Melotti, 1979, 1985, 1990a; Cohen, 1987) che comin-cia a profilarsi appunto in questi anni anche come par-ziale risposta alla crisi. Ne risulta peraltro una situazio-ne quanto mai contraddittoria. Da un lato, nonostantela persistente domanda di una manodopera flessibile ea buon mercato, non appagata dall’offerta interna so-prattutto per i cosiddetti “lavori delle tre d” (dirty, dan-gerous and demanding: sporchi, pericolosi e faticosi), itradizionali paesi europei d’immigrazione, l’uno dopol’altro, chiudono le loro frontiere a un’ulteriore immi-grazione regolare per motivi di lavoro. Dall’altro, gli ef-fetti della crisi, che infierisce anche nei paesi della peri-feria non produttori di petrolio, causandovi tensionisociali, conflitti e repressioni anche estremamentecruente (basti qui ricordare i colpi di Stato in Cile e inArgentina, con le loro decine di migliaia di desapareci-dos, l’aggravarsi della dittatura militare in Brasile, leguerre civili in America centrale, la trasformazione delregime rivoluzionario in una vera e propria dittatura aCuba, il nuovo conflitto israelo-arabo, l’inasprirsi deiconflitti etnici in Ruanda e Burundi, Etiopia, Eritrea,Somalia e Sri Lanka e la repressione contro la mino-ranza cinese e i montagnards nel Vietnam appena riuni-ficato), si aggiungono ai già consistenti fattori di espul-sione ivi strutturalmente presenti, incrementando a di-smisura la pressione migratoria. Mentre si assiste così auna vera e propria “clandestinizzazione delle migrazio-ni”, peraltro non scientemente perseguita, come daparte di taluni si è un po’ avventuristicamente afferma-to (cfr., per esempio, Chiarello, 1983), ai migranti permotivi economici si aggiungono dalle aree più dispara-

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te numerosissimi migranti per motivi politici. È in que-sto contesto che divengono paesi d’immigrazione (ingran parte malgrado sé stessi, stante fra l’altro la loro al-ta disoccupazione interna, che in questo periodo addi-rittura si aggrava per la prima volta dalla fine della se-conda guerra mondiale) anche i paesi dell’Europa me-ridionale, fra cui l’Italia, che, essendo stati sino ad allo-ra dei paesi di emigrazione, non avevano provveduto achiudere le loro frontiere.

Anche fuori dell’Europa si aprono però dei nuovi po-li migratori. Fra questi i paesi petroliferi del MedioOriente e dell’Africa settentrionale e occidentale (la Li-bia e la Nigeria, soprattutto), il pur riluttante Giappone,ormai divenuto la terza potenza industriale del mondo,e i nuovi paesi industriali: dapprima le ben note “quat-tro tigri” asiatiche (Hong Kong, Singapore, Taiwan e laCorea del Sud), caratterizzate da un’“industrializzazionevassalla”, poi anche altri paesi, interessati da quel pro-cesso d’industrializzazione dipendente che coinvolge ra-pidamente, in varie forme, una parte crescente del mon-do in via di sviluppo (cfr. Melotti, 1979).

La terza fase (1982-…) inizia con la ripresa economi-ca degli anni ottanta ed è tuttora in corso, nonostantele alterne vicende della congiuntura economica e l’im-patto di pur straordinarie vicende storiche (il crollo delmuro di Berlino, la crisi e l’implosione dell’Unione So-vietica e dei suoi vari paesi satelliti, la guerra del Golfo,con le sue molteplici conseguenze nel Medio Oriente ein Europa, la crisi dei Balcani e, da ultimo, dopo un pe-riodo di solo apparente assestamento, gli attentati alleTorri Gemelle di New York e al Pentagono e le azionibelliche condotte in nome della “guerra al terrorismo”,fra cui gli interventi armati americani in Afghanistan ein Iraq). In questa fase le migrazioni internazionali ten-dono a generalizzarsi e a intensificarsi a scala planeta-

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ria, nell’ambito di quelle ulteriori trasformazioni eco-nomiche, politiche, sociali e culturali cui ci si suol rife-rire con il termine (equivoco, ma evocativo) di “globa-lizzazione”.

D’altra parte in questa fase persistono e anzi si ag-gravano i fattori espulsivi in molti paesi di esodo. InAfrica, in particolare, vengono meno le speranze e le il-lusioni del periodo della decolonizzazione e dei primianni dell’indipendenza politica. L’imperversare dellacrisi economica e la disgregazione sociale che l’accom-pagna, incrudelite in molti casi da conflitti insensati,non lasciano intravedere alcuna concreta prospettivadi soluzione a breve o a medio termine. Si profila così,per dirla con le amare parole pronunciate proprio nel1982 da Edem Kodjo, il segretario dell’Organizzazionedell’Unità Africana, un periodo in cui “il futuro sem-bra essere senza futuro”. Ciò induce alla fuga crescen-ti masse di giovani, disposti ad affrontare ogni rischiopur di andarsene (come confermano le reiterate trage-die che colpiscono quelli che cercano di attraversare ilSahara su zeppi e scassati autocarri e poi di passare ilMediterraneo su vecchie e stracariche “carrette delmare”).

Fra questa fase e la precedente, al di là delle differen-ze, esiste peraltro una continuità. La cosiddetta “globa-lizzazione” si sovrappone infatti ai processi della nuovadivisione internazionale del lavoro, da cui si distinguesoprattutto per la pervasività e la rapidità delle trasfor-mazioni, dovute in gran parte allo sviluppo delle nuovetecnologie informatiche e comunicative e al ruolo do-minante assunto (secondo antiche “profezie” solo tem-poralmente sbagliate) dalla “virtuale” economia finan-ziaria rispetto alla “reale” economia produttiva (comenon mancano di ricordarci sino alla noia i pluriquoti-diani bollettini sull’andamento di tutte le principali bor-

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se del mondo, somministratici ossessivamente da quasitutte le emittenti radiofoniche e televisive e poi ripresi adovizia dalla stampa). Ciò d’altra parte assicura un’inu-sitata capacità di penetrazione ai modelli di vita e diconsumo dei paesi del centro del sistema mondiale e,fra questi, di quelli tecnologicamente ed economica-mente più avanzati, a partire dagli Stati Uniti d’Ameri-ca, da tempo ormai diventati, come già detto, il centrodel centro.

Le relazioni fra globalizzazione e migrazioni internazionali

Ciò premesso, cerchiamo di puntualizzare le principalirelazioni fra globalizzazione e migrazioni internaziona-li, individuando, all’interno di una complessa dialetticastorica, la direzione in cui si sono prevalentemente ma-nifestate le loro reciproche influenze (peraltro non ri-ducibili alla sovrasemplificante logica binaria di queisociologi che credono di poter distinguere sempre, perdirla nei termini del loro gergo fuorviante, “variabili in-dipendenti” e “variabili dipendenti”).

Da una parte, il processo di globalizzazione tende aincrementare le migrazioni internazionali (anche se nontutte le sue componenti agiscono univocamente in talsenso). In particolare:

a) gli accresciuti contatti reali e virtuali diffondono nel-la popolazione dei paesi a un grado di sviluppo inter-medio la sensazione di deprivazione relativa, che, ancorpiù della povertà stessa, motiva una gran parte dellenuove migrazioni internazionali (che, in contrasto con ilsenso comune, provengono per lo più non già dai paesipiù poveri, ma appunto da quelli a un livello interme-

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dio, come la Cina, l’India, il Pakistan, Sri Lanka e le Fi-lippine in Asia, i paesi del Maghreb in Africa e i paesidell’America Latina);b) la presenza nei paesi in via di sviluppo delle grandimultinazionali, il commercio e il turismo internazionalie la diffusione a scala globale dei mezzi di comunica-zione di massa controllati o influenzati dai paesi occi-dentali favoriscono la cosiddetta “socializzazione anti-cipata” (vedi il Glossario, sub voce) ai valori e ai modellidi comportamento delle aree più sviluppate: un pro-cesso che ancora nella prima fase delle migrazioni post-belliche era ritenuto possibile soltanto nel caso dei flus-si interni a un paese (come avevano sostenuto, peresempio, Alberoni e Baglioni, 1965, nei loro studi sullemigrazioni di quel tempo). Tale socializzazione, che sti-mola le migrazioni, risulta peraltro assai più facile, perdirla con Merton (1957), che ne aveva introdotto il con-cetto, per ciò che concerne le “mete” proposte che noni “mezzi” che in un determinato contesto sono consi-derati legittimi per perseguirle, con conseguente ten-denza allo sviluppo di forme di devianza più o menogravi e di vera e propria criminalità. La socializzazioneanticipata è del resto stimolata anche dalla scolarizza-zione di massa, d’impronta spesso occidentalizzante,che per di più diffonde fra i giovani un’almeno ele-mentare conoscenza delle più importanti lingue veico-lari (l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese),che anche di per sé facilita le migrazioni. All’accresciu-ta distanza geografica fra i paesi di emigrazione e i pae-si d’immigrazione non corrisponde così più necessaria-mente una maggior distanza culturale dei migranti, cheva invece indagata caso per caso, analizzando situazio-ni complesse e contraddittorie (anche perché il proces-so di globalizzazione suscita a volte, tanto a livello di in-dividui che di interi paesi, reazioni profonde, fra cui,

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per esempio, rigurgiti integralisti e fondamentalisti,presenti non soltanto nelle aree a dominante religioneislamica, ove il fenomeno è ormai da tempo divenutosin troppo evidente);c) i contraddittori processi di sviluppo avviati nei paesidi esodo dall’esportazione di attività produttive (che alungo termine possono ridurre la propensione a emi-grare, creando in loco maggiori possibilità di occupa-zione), sul breve e sul medio periodo più spesso l’incre-mentano, destrutturando almeno parzialmente l’orga-nizzazione sociale esistente, con esiti a volte anche gra-vemente anomici (cfr. Melotti, 1985; Atteslander, 1995);d) la diffusione in tempo reale delle informazioni relati-ve a opportunità di guadagno, sistemazioni abitative an-che precarie, possibilità di ingresso regolare e clandesti-no, tolleranza dell’irregolarità e della stessa criminalità,forme di accoglimento e di assistenza, regolarizzazioni esanatorie ecc., promuove le nuove migrazioni interna-zionali (va sottolineato in particolare l’effetto di richia-mo delle sanatorie, messo in luce da numerose ricerchee confermato dalle stesse dichiarazioni di molti immi-grati clandestini);e) l’accresciuta facilità degli spostamenti, grazie alla ri-duzione dei costi e dei rischi (almeno per i viaggi nongestiti dalle organizzazioni criminali operanti nel setto-re delle migrazioni clandestine), consente reiterati ten-tativi migratori e rende possibili anche migrazioni tem-poranee un tempo impensabili, comprese quelle che siconfigurano di fatto come una forma anomala di fron-talierato (fra cui, per esempio, parte di quelle che inter-corrono fra i paesi del Maghreb e i paesi dell’Europameridionale loro più vicini, come la Spagna per il Ma-rocco e l’Italia per la Tunisia);f ) la facilitazione delle rimesse monetarie anche illegaliai paesi di origine, per via bancaria o attraverso le agen-

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zie delle multinazionali specializzate in trasferimenti fi-nanziari (come, per esempio, la Western Union), ormailargamente presenti in quasi tutti i paesi, costituisce unulteriore incentivo alle migrazioni per motivi economi-ci (nonché alle forme di criminalità predatoria, che ve-dono spesso coinvolti i migranti).

D’altra parte le migrazioni internazionali concorrono alprocesso di globalizzazione in vari modi. In particolare,queste migrazioni:

a) costituiscono una parziale alternativa all’esportazio-ne della produzione in paesi ove il costo del lavoro è mi-nore o sostituiscono la funzione di tale esportazione inquelle attività in cui quest’ultima risulta difficile o addi-rittura impossibile (attività alberghiere e della ristora-zione, turismo, servizi alla persona ecc.);b) moltiplicano nei paesi d’immigrazione l’offerta dibeni e di servizi “esotici”: prodotti alimentari e medici-nali, cucina, musica ecc., per tacere delle prestazionisessuali (massaggi “orientali”, intrattenimenti erotici divaria natura, prostituzione vera e propria) da parte disoggetti diversi dai fenotipi localmente prevalenti (don-ne sudamericane, nigeriane, tailandesi, slave, albanesiecc.; viados brasiliani e di altri paesi sudamericani; ra-gazzi maghrebini, rumeni, albanesi ecc.);c) introducono nei paesi d’immigrazione lingue, cultu-re, religioni, usi e costumi diversi da quelli locali;d) concorrono alla formazione di società multirazziali,multietniche, multiculturali, multilinguistiche e multi-religiose nei paesi d’immigrazione, con tutte le relativepotenzialità, ma anche con tutti i relativi problemi,spesso sottovalutati o taciuti per malintesa “correttezzapolitica” (cfr. Melotti, 2000b; vedi anche, nel Glossario,le voci “Razza”, “Etnia”, “Cultura” ecc.);

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e) stimolano il consumo di prodotti stranieri sia neipaesi d’immigrazione, sia nei paesi di emigrazione;f ) contribuiscono, con le rimesse degli emigrati, ad au-mentare il potere di acquisto dei paesi di emigrazione,concorrendo al loro inserimento nel mercato mondiale;g) diffondono nelle aree di origine degli immigrati, conil ritorno temporaneo o definitivo di questi, i modelli divita e di consumo dei paesi d’immigrazione, integrandol’azione dei mezzi di comunicazione, della pubblicità edel turismo. Di conseguenza le migrazioni internazio-nali concorrono in modo significativo a quell’omologa-zione culturale che costituisce uno dei più vistosi aspet-ti della globalizzazione e, più in particolare, a quel“multiculturalismo di mercato” (Martiniello, 1997, p.75) in cui si concreta di fatto l’idealizzato mondo degliUnited colors of Benetton.

Ciò mette in luce, fra l’altro, la contraddizione di queglioppositori della globalizzazione che, mentre contestanola tendenziale convergenza dei valori e dei consumi ascapito della cosiddetta “diversità” culturale, si pro-nunciano in favore di migrazioni internazionali illimita-te, teorizzando per i migranti non solo il “diritto di fu-ga” dai loro paesi (del resto già da tempo riconosciutodalle Nazioni Unite), ma anche un insostenibile “dirit-to di accesso” a ogni altro (Mezzadra, 2001, 2002), innome di un superficiale “cosmopolitismo” ideologicodel tutto cieco alle conseguenze (per i paesi di approdoe per gli stessi migranti) di un’eventuale assoluta “li-bertà di movimento”, che porterebbe inevitabilmente adrammatici scenari di darwinismo sociale.

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Non meno stretto è il rapporto (anch’esso non univoco,né unidirezionale) delle migrazioni internazionali con leculture politiche.

Ciò risulta tanto più chiaro se, in contrasto con le dif-fuse, ma riduttive, definizioni originariamente formula-te nel contesto nordamericano (cfr. in particolare Al-mond e Verba, 1963), ma poi pedissequamente ripreseda molti anche da noi (cfr. Santambrogio, 2001; Pirni,2003), per cultura politica s’intenda, come ho già altro-ve proposto, l’insieme delle idee fondamentali che in undeterminato paese orientano sul lungo periodo la preva-lente concezione dello Stato, del popolo e della nazione,le relazioni esplicitamente o implicitamente istituite fraloro in base anche a tale concezione (fra cui, in partico-lare, la declinazione del popolo in termini di éthnos o didémos e la visione etico-politica o etnico-culturale dellanazione), le relazioni fra etnicità, nazionalità e cittadi-nanza, i princìpi che regolano l’acquisizione di que-st’ultima a titolo originario o derivato e i diritti e i do-veri che ne conseguono (cfr. Melotti, 1997, 1999b,2001a, 2001c, 2002a; vedi anche, nel Glossario, le voci“Etnia”, “Nazionalità”, “Nazione”, “Popolo”).

Ho già avuto occasione di sottolineare più voltequanto la cultura politica così intesa abbia profonda-mente influenzato le politiche migratorie dei tre princi-pali paesi europei d’immigrazione (la Francia, la Ger-mania e il Regno Unito), che anche per questo sono ri-sultate a lungo tanto nettamente distinte da configurare

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tre modelli di gestione diversi, se non addirittura op-posti, per quanto concerne sia la politica dell’immigra-zione in senso stretto, cioè le norme relative all’ammis-sione degli immigrati, sia la politica per gli immigrati,cioè le misure relative al loro inserimento (cfr. Melotti,1992a, 1992b, 1993a, 1993b, 1993c, 1994, 1997, 2000a,2001a, 2001b, 2001c, 2003a). Ciò vale anche per l’Ita-lia, che pure da questo punto di vista è stata studiatamolto di meno e soltanto negli ultimi anni (cfr. Melotti,1999b, 1999c, 2000a, 2001a, 2001c). Prima di procede-re, converrà quindi richiamare brevemente le culturepolitiche di questi paesi e il loro rapporto con le politi-che migratorie.

La Francia: l’assimilazionismo “repubblicano”e la sua crisi

È opportuno cominciare dalla Francia, ove, su quasi 60milioni di abitanti, nel 2000 vivevano, nonostante le nu-merosissime naturalizzazioni, 3 263 000 stranieri, pari al5,6% della popolazione. La Francia è infatti il paese eu-ropeo in cui l’immigrazione è più antica e ha assolto piùcomplesse funzioni.

La politica migratoria della Francia si è a lungo ca-ratterizzata per il suo assimilazionismo etnocentrico: unorientamento che ha costituito una risposta – non occa-sionale, ma dettata dalla sua prevalente cultura politica– a un’immigrazione utilizzata sin dal secolo scorso perfronteggiare non solo occasionali carenze di manodo-pera, ma una cronica crisi demografica, assai pericolosaanche sul piano militare, per la potenziale minaccia rap-presentata dalla confinante Germania, in forte crescitademografica, oltre che in via d’industrializzazione e diunificazione.

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In effetti la Francia, che alla vigilia della rivoluzionedel 1789 era il paese europeo di gran lunga più popolo-so, nei primi decenni del secolo seguente subì il con-traccolpo demografico dei massacri interni, delle guer-re rivoluzionarie e delle guerre napoleoniche e conobbepoi, prima degli altri paesi europei, una forte caduta deltasso di natalità. Così, quando, dopo il 1820, cominciòla sua industrializzazione, emerse una consistente do-manda di forza-lavoro che l’offerta interna non poté ap-pagare: una situazione che si è protratta, tra alti e bassi,sino ai giorni nostri, stanti anche le successive reiteratefalcidie causate dalle varie guerre combattute in Euro-pa e nelle colonie (fra cui, nell’Ottocento, la guerrafranco-prussiana e le guerre di conquista in Africa e inAsia e, nel Novecento, le due grandi guerre mondiali ele guerre di repressione in Vietnam e in Algeria).

Ciò ha favorito un’immigrazione, in parte tempora-nea e in parte definitiva, che la società francese ha cer-cato d’integrare nell’unico modo concepibile in un pae-se che si rappresentava come una grande nazione omo-genea e s’identificava profondamente con un forte Sta-to accentrato, che non riconosceva al proprio internoné nazionalità minoritarie né gruppi etnici locali e con-trastava con vigore ogni pretesa di mediazioni partico-laristiche fra le istituzioni e i cittadini (ai quali d’altraparte assicurava, su una base tendenzialmente ugualita-ria, i diritti formali solennemente sanciti dalla rivoluzio-ne dell’89, della cui tradizione, laica e giacobina, la suacomponente repubblicana, dominante sin dalla cadutadi Luigi Bonaparte, si è sempre considerata erede).

L’integrazione, in questo contesto, presupponeva ne-cessariamente un’assimilazione alla cultura del paese,così come la configurava l’ideologia dell’État-Nation. Inconcreto, il progetto francese (in parte implicito e inparte esplicito) prevedeva che gli immigrati, non che

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utilizzare la propria identità etnico-culturale come unarisorsa strategica per un’integrazione non subalterna,l’abbandonassero completamente per diventare dei“buoni francesi”: un processo che presupponeva l’assi-milazione per quanto concerneva la lingua, la cultura e,possibilmente, la stessa mentalità. In cambio lo Statoestendeva agli immigrati tutti i diritti dei cittadini, gra-zie alla cosiddetta “naturalizzazione” (cioè la concessio-ne della cittadinanza), che premiava l’avvio di tale pro-cesso e ne favoriva l’ulteriore sviluppo (gli stranieri chehanno acquisito ogni anno la cittadinanza francese sonostati, in media, 100 000 negli anni ottanta e 115 000 ne-gli anni novanta, nonostante i problemi di cui diremotra poco). D’altra parte anche gli immigrati che non po-tevano o non volevano naturalizzarsi mettevano al mon-do, volenti o nolenti, dei figli francesi. Sin dal 1889 inmateria di cittadinanza vigeva infatti lo jus soli, limitatosolo di recente (1993) e per un breve periodo (per unconfronto, gioverà richiamare che l’Italia, che è restatafino a pochi decenni or sono il maggior paese europeodi emigrazione e che in conseguenza di quel processoha ancora all’estero circa 4 milioni di cittadini, continuaa privilegiare lo jus sanguinis, che permette di attribui-re la cittadinanza italiana ai figli dei suoi emigrati, e so-lo dopo di essere diventata a sua volta un paese d’im-migrazione, ha parzialmente rivisto le sue norme sullacittadinanza, estendendo lo jus soli).

Il progetto assimilazionista in tema d’immigrazioneha avuto a lungo in Francia un pendant significativo nel-la politica coloniale. Quest’ultima prevedeva infatti chegli évolués di ogni razza e di ogni cultura, proprio invirtù della loro assimilazione, potessero acquisire glistessi diritti dei francesi (anche se, di fatto, solo una mi-nima parte dei colonizzati poté beneficiarne davvero).Ma, come quella politica coloniale, che pur ebbe a con-

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seguire dei notevolissimi risultati, a un determinato mo-mento non riuscì più a contrastare le aspirazioni dei co-lonizzati all’indipendenza, così quella politica migrato-ria, nonostante i successi del passato, è entrata in unacrisi profonda, non essendo più in grado di far fronte aiproblemi posti dai mutamenti dell’immigrazione.

Proprio per favorire l’assimilazione degli immigrati,finché le fu possibile la Francia preferì attingere aigrandi serbatoi di manodopera degli altri paesi latini ecattolici (in un primo tempo il Belgio, oltre tutto di lin-gua francese nella sua area vallone, da cui provenne ilcontributo più consistente sino agli inizi del Novecen-to; poi, per un lungo periodo, sino agli anni settanta,l’Italia, la Spagna e il Portogallo). Ma questi serbatoi sisono da tempo esauriti e la maggior parte degli immi-grati giunge ormai da aree più lontane: i paesi del Ma-ghreb, di lingua araba e di religione musulmana; i pae-si dell’Africa occidentale, di prevalente religione animi-sta o musulmana; i paesi del Sud-est asiatico, di tradi-zione buddista o confuciana. Orbene, anche se si trattaper lo più di paesi che hanno conosciuto la colonizza-zione francese e in cui il francese a volte costituisce an-cora la lingua veicolare o la prima lingua straniera, ilprogetto assimilatore si scontra oggi con la maggior di-stanza culturale di questi immigrati, nonostante i già ci-tati effetti della socializzazione anticipata e dell’omolo-gazione culturale indotta dal processo di globalizzazio-ne. A ciò si aggiunga l’assai più evidente diversità etni-ca dei nuovi venuti, la loro ormai rilevante consistenzanumerica e la loro frequente presenza in nuclei d’inte-re famiglie o addirittura in comunità etniche organizza-te, che rivendicano la propria identità e promuovono laconservazione dei legami con i paesi di origine. D’altraparte lo stesso progetto assimilazionista appare ancheintrinsecamente sempre meno legittimo a mano a mano

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che si dissolvono le convinzioni nella missione civilizza-trice della Francia, si diffonde un maggior rispetto perla diversità culturale ed emerge una nuova consapevo-lezza dell’iniquità di subordinare il riconoscimento dialcuni diritti fondamentali all’acquisizione della cittadi-nanza (che oltre tutto in tale contesto, per le ragioni giàdette, implica di fatto una rinuncia alla propria identitàculturale, il cui mantenimento si configura ormai, sem-pre di più, in tutto il mondo, come un inalienabile di-ritto della persona).

Peraltro la “sindrome da invasione” (come l’hannodefinita alcuni autori francesi), emersa sin dagli anni ot-tanta specialmente per ciò che concerne la componentearabo-islamica della nuova immigrazione, ha determina-to delle forti reazioni xenofobe, che hanno trovatoespressione, fra l’altro, nella proposta di rivedere radi-calmente lo stesso codice della cittadinanza per ripristi-nare l’antico jus sanguinis. Questa proposta, dapprimaavanzata solo dall’estrema destra (il Fronte nazionale diLe Pen), ma poi fatta propria anche da forze più mode-rate (di cui si fece portavoce Valéry Giscard d’Estaing,ex presidente della Repubblica e futuro presidente dellaConvenzione europea), fu parzialmente accolta nel 1993dalla maggioranza di centro-destra da poco tornata alpotere. Aspre furono peraltro le reazioni contro taleriforma da parte di chi, fedele al vecchio “modello re-pubblicano d’integrazione” (come la sinistra francesesuole definire il tradizionale progetto assimilazionista),ne giudicava le conseguenze «nefaste non solo per gliimmigrati, ma anche per i francesi e per la stessa Re-pubblica» (per riprendere le dure parole di Sami Naïr,1993, p. 2, un sociologo di origine algerina, consiglieredi Mitterrand per l’immigrazione e poi eurodeputato so-cialista). Così, con il ritorno al governo della sinistra(1997), la vecchia normativa fu sostanzialmente ripristi-

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nata. Il dibattito politico sull’immigrazione è restatoperò molto caldo, come dimostra anche il ruolo che il te-ma ha giocato nelle ultime elezioni presidenziali (2002),in cui Le Pen, il leader dell’estrema destra più ostile al-l’immigrazione, ha inaspettatamente scalzato il capo delgoverno Jospin, candidato dell’aperturista “sinistra plu-rale”, dal ballottaggio con il presidente uscente Chirac(conclusosi poi con un’ampia vittoria di quest’ultimo):un fatto che ha scatenato in Francia un vero psicodram-ma di massa, con sventolio di tricolori nelle piazze e in-flazione di appelli alla difesa dei valori repubblicani.

Con tutto ciò nel dibattito francese si continua a te-matizzare, in prevalenza, l’“integrazione degli immigra-ti”: un’espressione passe-partout, in cui il primo terminerappresenta peraltro poco più di un eufemismo per lavecchia “assimilazione” (anche se sposta l’accento dalpiano culturale a quello sociale), mentre il secondo ten-de a ridurre ideologicamente gli stranieri, ormai presen-ti anche in Francia in un’assai vasta gamma di figure, asoggetti senza storia e senza cultura, pronti a entrare,come materia grezza illimitatamente plasmabile, nellagrande macchina assimilatrice della società francese.

Proprio questa macchina, però, da tempo perde mol-ti colpi. Ciò si deve a diversi fattori. Oltre alla maggiorresistenza dei nuovi immigrati all’assimilazione, per leragioni già sopra accennate, va ricordata la crisi dellevecchie agenzie di socializzazione (la scuola, l’esercito,la fabbrica, i sindacati, i partiti) e la difficoltà per laChiesa cattolica (che, del resto, in questo campo hasempre avuto in Francia un ruolo ben minore che inItalia) di far sentire la propria voce ai musulmani, chedell’immigrazione recente costituiscono la componentedi gran lunga più numerosa.

Sul piano amministrativo, d’altra parte, prevale anco-ra il rifiuto per gli interventi speciali per gli stranieri

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(ora motivato anche con il timore di suscitare reazionixenofobe fra gli autoctoni). La preferenza è, almeno uf-ficialmente, per gli interventi “universalistici”, di dirit-to comune, per tutti coloro (francesi o stranieri) chepresentino determinati problemi (abitativi, sanitari,educativi ecc.), anche se ben raramente gli interventi diquesto tipo costituiscono delle risposte efficaci alle par-ticolari difficoltà degli immigrati.

Le conseguenze sono state gravissime. Come ebbe aosservare uno dei più autorevoli sociologi francesi,Alain Touraine (1991, p. 9), commentando le distrutti-ve forme di conflittualità che periodicamente esplodo-no nelle banlieues a più alta concentrazione d’immigra-ti, la Francia conosce da tempo una forte carenza d’in-tegrazione sociale e questa situazione ostacola la stessaassimilazione culturale.

La politica francese risulta così contraddittoria rispet-to al suo stesso tradizionale obiettivo. Ma tant’è. Taleorientamento non è affatto casuale, perché s’iscrive inuna forte e radicata cultura politica e solo con la sua cri-si ha cominciato a cambiare (cfr. cap. 3).

Il Regno Unito: retaggio coloniale e pluralismo ineguale

Nel Regno Unito, su quasi 60 milioni di abitanti, nel2000 vivevano 2 450 000 stranieri, pari al 4,1% dellapopolazione, in gran parte come risultato di un’immi-grazione di ormai lunga data, anche se meno antica diquella della Francia. La politica migratoria britannicadifferisce però profondamente da quella francese, cosìcome profondamente diversa è la cultura politica chel’ispira: una cultura pragmatica, che riconosce i parti-colarismi etnici e culturali, promuove l’autonomia e il

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decentramento e valorizza il ruolo delle formazioni so-ciali intermedie. Per quanto concerne la regolazione deifenomeni sociali, questa cultura diffida dei provvedi-menti astratti e generali e privilegia l’azione delle am-ministrazioni locali, che per i loro significativi poteri(pur ridimensionati negli anni ottanta) si configuranocome un effettivo “governo locale” (local government).

Anche il forte etnocentrismo, comune al progettofrancese e al progetto britannico, si esprime nei due ca-si in forma diversa, se non opposta. In Francia, come siè visto, si manifesta, paradossalmente, in forma univer-salistica, nella pretesa che gli immigrati di qualsiasi raz-za e cultura abbiano a divenire dei “buoni francesi”.Nel Regno Unito si manifesta invece in forma partico-laristica, nella convinzione che gli immigrati anche deipaesi tradizionalmente più vicini per storia e culturamai potrebbero diventare dei “buoni britannici”. Li siaccetta pertanto per quello che sono, dandone perscontata l’irrecuperabile diversità (non più definita “in-feriorità” per acquisita “correttezza politica”, ma pursempre di fatto considerata tale dai più). Ci si preoccu-pa peraltro di porli nella condizione di nuocere il menopossibile, limitandone le interferenze suscettibili dimettere a repentaglio lo stile di vita britannico (secon-do il timore da tempo pubblicamente espresso da alcu-ni esponenti di spicco del Partito conservatore, fra cuil’ex premier Margaret Thatcher e il nipote di WinstonChurchill, cui si è recentemente aggiunto anche qualcheimportante membro del New Labour, fra cui l’attualeministro dell’Interno David Blunkett). Si dà infatti perscontato che il controllo della situazione non debbasfuggire di mano ai nativi, i quali, peraltro, per un for-male ossequio alla regola democratica che ancora li pri-vilegia, si descrivono non già come i bianchi o gli an-glosassoni, ma come la “maggioranza”.

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Anche tale progetto, come quello francese, costituiscein parte il pendant e in parte la continuazione sul terri-torio metropolitano della politica coloniale. Peraltro ta-le politica, che nel caso della Francia era caratterizzatadall’impostazione assimilazionista e dal governo diretto,nel caso del Regno Unito era caratterizzata dall’imposta-zione differenzialista e dal governo indiretto. In altre pa-role, i britannici ammettevano che i colonizzati conser-vassero, se lo volevano, le loro tradizioni e le loro strut-ture sociali e politiche (fossero queste i reami dei maha-rajah in India o le organizzazioni tribali in Africa), pur-ché riconoscessero, al di sopra di loro, l’autorità del vi-ceré o del governatore britannico. Questa politica è poiproseguita, con le necessarie modifiche, nel Com-monwealth, che, non a caso, è riuscito a sopravvivere al-la decolonizzazione, mentre la Communauté française,sua tardiva imitazione nelle forme, ma non nello spirito,fu presto costretta a dichiarare il proprio fallimento.

Il diverso progetto dei due paesi corrisponde anche aprocessi immigratori di natura almeno in parte diversa.Nel Regno Unito l’arrivo degli stranieri non ha maisvolto una funzione demografica importante ed è statoanche assai meno motivato da un’inappagata domandadi lavoro. A determinarlo, almeno agli inizi (se si pre-scinde dall’arrivo di un piccolo gruppo di caraibici, re-clutati per le attività del basso terziario tra la metà deglianni cinquanta e la metà degli anni sessanta), sono sta-te piuttosto le vicende storiche dei paesi di esodo e, piùin particolare, le già ricordate crisi politiche ed econo-miche dei paesi del Commonwealth. Di conseguenza èstato anche un fatto assai meno individuale, che ha as-sunto a volte la fisionomia di un vero e proprio movi-mento di massa alla ricerca di un rifugio (come nel ca-so degli indo-pachistani, negli anni quaranta e cinquan-ta, o degli asiatici insediati in Africa orientale, negli an-

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ni sessanta, o dei cinesi e dei vietnamiti fuggiti nell’an-cora britannica Hong Kong negli anni settanta e ottan-ta). Inoltre nel Regno Unito da più tempo l’immigra-zione proviene da lontano: in genere dai paesi del Nuo-vo Commonwealth, cioè le ex colonie delle Indie occi-dentali, dell’Asia e dell’Africa, abitate in prevalenza dapopolazioni di colore (dato anche che sino al 1962 glioriginari di tali paesi potevano entrare nel Regno Unitosenza particolari formalità, in quanto British subjects,così come quelli dei paesi del Vecchio Commonwealthabitati in prevalenza da “bianchi”: Canada, Australia eNuova Zelanda). Da più tempo, quindi, gli immigraticostituiscono uno stock che si differenzia notevolmentedagli autoctoni in termini razziali, etnici e culturali.

Queste popolazioni trapiantate (perché di ciò in ef-fetti si tratta, nella maggior parte dei casi) hanno potu-to formare nel Regno Unito le loro comunità (mentre inFrancia sino al 1981 le stesse associazioni degli immi-grati, soggette ad autorizzazione speciale, furono assaicontrastate, se non proibite, con la motivazione che l’e-sercizio del diritto di associazione spettava solo ai citta-dini). Nel Regno Unito le “comunità etniche” sono co-sì potute diventare da tempo degli importanti punti diriferimento per gli interventi delle autorità amministra-tive (mentre in Francia la pubblica amministrazione haloro negato a lungo ogni riconoscimento, privilegiandoil rapporto diretto con i singoli immigrati).

A ciò si aggiunga che nel Regno Unito la distinzionefra i cittadini e i non cittadini è molto meno netta chenegli altri paesi europei. Esiste infatti tutta una gammadi situazioni intermedie per la presenza di una catego-ria, quella degli originari del Commonwealth, a sua vol-ta differenziata secondo il paese di provenienza, la datadi arrivo nel Regno Unito, l’eventuale ascendenza bri-tannica (la cosiddetta patriality), le eventuali pregresse

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prestazioni per l’amministrazione britannica ecc. Inol-tre gli immigrati dal Commonwealth regolarmente resi-denti godono del diritto di voto attivo e passivo sia alleelezioni amministrative sia alle elezioni politiche e laconcentrazione di alcune comunità in determinati col-legi assicura loro in molti casi, dato anche il sistemaelettorale vigente, una notevole influenza (come dimo-stra l’elezione al Parlamento di alcuni loro esponenti).

Come si vede, si tratta di un’impostazione assai flessi-bile, che ha a lungo dimostrato un’apprezzabile capa-cità di far fronte a una situazione in movimento. Peral-tro anch’essa ha rivelato da tempo i suoi limiti. Le co-munità più consistenti infatti mordono il freno e solle-citano un cambiamento nel senso di un effettivo multi-culturalismo, con la rinuncia all’egemonia da parte del-la componente autoctona (che peraltro non pare affattodisposta ad assecondare la richiesta). D’altro canto lacosiddetta “seconda generazione” degli immigrati con-testa sempre più vivacemente un sistema che, pur con-cedendo dei riconoscimenti e persino dei privilegi allecomunità, relega di fatto gli individui che ne fanno par-te in una posizione subalterna, enfatizzandone indebi-tamente la vera o presunta “diversità”.

In proposito va sottolineato che il dibattito sulla pre-senza straniera (che in Francia verte sull’“integrazionedegli immigrati”, senza distinzioni di razza e di etnia)nel Regno Unito ruota invece proprio intorno alle “re-lazioni di razza e di etnia” (racial and ethnic relations) eil problema più appassionatamente discusso è quellodei diritti delle “minoranze” etniche e razziali (che agiudizio di alcuni non sarebbero ancora sufficiente-mente garantiti, nonostante la lunga tradizione liberal-democratica del paese). Si aggiunga che la stessa termi-nologia impiegata in tale dibattito lascia molto a desi-derare. Innanzi tutto la definizione in termini razziali ed

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etnici delle popolazioni immigrate è spesso del tutto im-propria e lascia intravedere per le sue evidenti forzatu-re (basti dire che anche gli asiatici sono stati a lungo uf-ficialmente inseriti fra i blacks, cioè i “neri”) un’indebi-ta tendenza a razzializzare e a etnicizzare i problemi. Insecondo luogo la configurazione aprioristica di quellepopolazioni in “minoranze” non può che evocare l’im-magine di un pur blando apartheid, tanto più che nelmondo anglosassone le differenze di razza e di etnia su-scitano ancora delle diffuse reazioni emotive. In propo-sito uno dei più autorevoli specialisti britannici, JohnRex (1990, pp. 81 e 85), sudafricano di origine e quin-di particolarmente sensibile in proposito, ancora agliinizi dello scorso decennio non esitava a parlare di unacondizione di “disuguaglianza segregata”, che contra-stava un’effettiva integrazione degli immigrati.

Va detto però che, proprio per far fronte alle discri-minazioni e al razzismo e favorire l’integrazione delleminoranze, nel Regno Unito sono state adottate sin da-gli anni sessanta delle importanti misure legislative eamministrative. Meritano una particolare menzione, inproposito, i tre Race Relations Acts del 1965, del 1968 edel 1976 e l’istituzione, nel loro quadro, di una Com-missione per l’uguaglianza razziale, che ha assunto ilcoordinamento delle diffuse istituzioni locali già attivein materia. L’ultima delle leggi sopra citate, la più orga-nica, impegna le autorità locali non solo a eliminareogni forma di discriminazione diretta o indiretta, maanche a promuovere fra i gruppi etnici l’“uguaglianzadelle opportunità”. L’Amendment del 2000 ha estesol’applicazione di tali norme anche alle attività della po-lizia e delle altre pubbliche amministrazioni, che ne era-no in precedenza esentate.

Si tratta di iniziative che molto potrebbero insegnareagli altri paesi europei, in cui la convivenza più o meno

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forzata di gruppi di origine diversa ha portato alla ri-balta, in qualche caso per la prima volta, problemi econflitti di natura implicitamente o esplicitamente etni-ca o razziale.

Ciò nondimeno ancora agli inizi degli anni novanta lasituazione si presentava aperta a esiti diversi. Come eb-be a scrivere allora uno dei maggiori esperti britannici aconclusione di una documentata analisi, era lecito spe-rare che la Gran Bretagna avesse a divenire in tempinon lunghissimi una buona società multirazziale e mul-tietnica, anche se non si poteva affatto escludere unasua evoluzione in senso del tutto opposto, con conse-guenze devastanti per la condizione degli immigrati e lastessa convivenza civile (cfr. O’Donnell, 1991, p. 37).Non tutti i dubbi sono stati fugati, né sono mancati an-cora negli ultimi anni dei conflitti anche gravi (come ireiterati riots nelle città nell’Inghilterra centro-occiden-tale più toccate dalla disindustrializzazione), ma oggi sipuò forse guardare al futuro con un po’ più di ottimi-smo, date anche le trasformazioni da tempo in corsonella cultura politica del paese (cfr. cap. 3).

La Germania: dalla precarietà istituzionalizzataa un’integrazione difficile

Ancora diverso è il caso tedesco. La Germania – che damolti decenni è il paese europeo con il più alto numeroassoluto d’immigrati (giunto nel 2002 a 7 336 000, pocomeno degli abitanti dell’Austria, su una popolazione di82,6 milioni, pari all’8,9%) – ha infatti a lungo rifiutatodi riconoscersi come un paese d’immigrazione e ha im-prontato la sua politica a questa presa di posizione, chei suoi governanti hanno ribadito per decenni, reiteran-do una dichiarazione che, come una formula magica,

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avrebbe dovuto esorcizzarne lo spettro: Deutschland istkein Einwanderungsland («La Germania non è un pae-se d’immigrazione»).

Eppure la Germania è diventata un paese d’immigra-zione sin dalla fine dell’Ottocento (quando era ancheun importante paese di emigrazione) e nel secondo do-poguerra, tra la metà degli anni cinquanta e la metà de-gli anni sessanta, ha addirittura intrapreso un’attiva po-litica di reclutamento della manodopera straniera perfar fronte alle esigenze della ricostruzione post-bellica edel successivo periodo di espansione, culminato nel bennoto “miracolo economico”, e da qualche tempo (dopola chiusura a un’ulteriore immigrazione per motivi di la-voro, decretata nel 1973) ha ripreso la ricerca all’esterodi lavoratori specializzati e non specializzati.

Va peraltro ricordato che in Germania gli immigratisono stati a lungo considerati dei meri “lavoratori ospi-ti” (Gastarbeiter), cioè degli individui la cui permanenzasul suolo tedesco era giustificata solo da motivi di lavoroe, almeno in via di principio, doveva essere limitata neltempo, anche se il sistema d’immigrazione temporanea erotatoria che li configurava così era in effetti ormai tra-montato alla metà degli anni settanta. La già citata chiu-sura delle frontiere a ulteriori arrivi di lavoratori favorìinfatti inopinatamente la stabilizzazione di quelli cheerano restati nel paese, che, con i familiari che poi li rag-giunsero, finirono per dar vita (proprio come in altripaesi caratterizzati da un ben diverso orientamento) auna tipica “popolazione derivata dall’immigrazione”,per utilizzare la definizione che ne danno i demografi. Ilrifiuto ideologico di prendere atto della situazione haperò esonerato la classe politica tedesca dal compito dielaborare un vero progetto d’integrazione per questi im-migrati, benché, a partire almeno dagli inizi degli anninovanta, alcune sue componenti cominciassero a far lo-

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ro riferimento con l’ambigua e contraddittoria espres-sione di “concittadini stranieri” (ausländische Mitbürger)e altre, le più solidali, avessero già cominciato a inneg-giare alle attese meraviglie della società multikulti, me-ritandosi qualche richiamo alla realtà persino da DanielCohn-Bendit (1992), l’ex leader del maggio francese,diventato assessore agli affari multiculturali di Fran-coforte sul Meno, una delle città tedesche con la più al-ta percentuale d’immigrati.

Se non sono mancate sul piano locale iniziative assaivalide (fra cui quelle, particolarmente significative, pro-mosse proprio da Cohn-Bendit, che istituì fra l’altro unpionieristico centro municipale per la mediazione inter-culturale), di fatto, sino a pochi anni or sono, la politi-ca perseguita in Germania poteva essere sintetizzata piùfacilmente in termini negativi che positivi: «Né integra-zione, né segregazione», per riprendere l’icasticaespressione di uno studioso italiano che ben conoscevala situazione di quel paese per personale protratta espe-rienza (Giordano, 1987, p. 61).

In Germania, in realtà, gli immigrati sono a lungo re-stati solo degli “stranieri” (Ausländer), di cui si potevaanche apprezzare l’apporto economico, ma di cui non sicaldeggiava affatto l’insediamento definitivo. Con lorosi poteva anche convivere per un lungo periodo di tem-po, se necessario, ma senza confusioni di status. Nono-stante qualche concessione in data relativamente recen-te (1993), l’acquisizione della cittadinanza restava assaidifficile, sia per la prima generazione d’immigrati (la na-turalizzazione presupponeva almeno quindici anni dipermanenza legale nel paese per gli adulti e otto anniper i giovani dai 17 ai 23 anni), sia per la seconda (lo jussoli non fu introdotto che nel 2000). In via di principio,pertanto, i giovani nati in Germania da genitori immi-grati erano destinati a restare stranieri in quello che era

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il loro solo paese e, nonostante la citata riforma, le na-turalizzazioni concesse a qualsiasi titolo risultavanoquattro volte meno numerose che in Francia, benché gliimmigrati fossero più del doppio. Non che favorirne la“nazionalizzazione”, ci si attendeva infatti che gli immi-grati fossero sempre pronti a lasciare il paese, e non sol-tanto per loro libera scelta o in seguito a una crisi eco-nomica o politica, ma anche in ossequio a un eventualeimprovviso cambiamento degli orientamenti del gover-no. Pertanto l’obiettivo era non già la loro assimilazione,ma il loro mantenimento in una condizione anche giuri-dicamente precaria, considerata funzionale sia alla lorogradita “flessibilità” sul mercato del lavoro, sia al loroauspicato rientro al paese d’origine (incentivato con va-rie misure, peraltro con esiti sempre molto modesti).

Anche questa impostazione non era occasionale, maaffondava le sue radici in una precisa cultura politica.La Germania è stato l’ultimo grande paese europeo acostituirsi in Stato nazionale e la formazione della na-zione (così come nel caso dell’Italia) ha preceduto digran lunga quella di tale Stato. D’altra parte, la nazione –lungi dall’essere concepita in termini soggettivi ed etico-politici come in Francia, dove Renan (1882) poté addi-rittura definirla come un “plebiscito di tutti i giorni” –è stata sempre concepita in termini oggettivi ed etnico-culturali: un fatto di sangue e di terra (Blut und Boden),in cui nativamente si esprime l’asserita irriducibile spe-cificità del popolo tedesco (Deutsches Volk). Anche do-po la costituzione dello Stato nazionale, per le note vi-cende storiche (fra cui, in questo secondo dopoguerra,la sofferta divisione del paese in due Stati, imposta daivincitori), l’appartenenza a tale popolo è stata sempreprivilegiata rispetto all’appartenenza a uno Stato (comeha dimostrato anche la rapida riunificazione dei dueStati tedeschi, già politicamente, economicamente, mi-

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litarmente e ideologicamente contrapposti, dopo la ca-duta del muro di Berlino, propiziata da grandi manife-stazioni di massa caratterizzate dal grido Wir sin einVolk: «Siamo un solo popolo»). Proprio per questo iprofughi tedeschi provenienti dai territori orientali delReich passati alla Polonia e all’Unione Sovietica (i Ver-triebene), i transfughi dalla cosiddetta Repubblica de-mocratica tedesca (gli Übersiedler) e persino i discen-denti dei tedeschi trapiantatisi molte generazioni or so-no nei paesi dell’Europa orientale (gli Aussiedler) sonosempre stati considerati nella Repubblica federale, se-condo il dettato della sua Legge fondamentale (l’equiva-lente della nostra Costituzione), come dei potenziali cit-tadini (al pari degli ebrei in Israele, se è lecito introdur-re un paragone azzardato solo in apparenza, date le ra-dici bibliche della cultura protestante prevalente in Ger-mania, da un lato, e, dall’altro, l’influenza della culturapolitica tedesca sul movimento sionista, prima, e sulladominante componente askenazita dello Stato d’Israele,poi). D’altra parte tale concezione ha favorito la tenden-za a tutelare come un patrimonio fondamentale la prete-sa omogeneità etnico-culturale del popolo tedesco e acontrastarne in ogni modo il dissolvimento (anche sespesso in forma più implicita che non esplicita, per ra-gioni d’immagine e di opportunità, stante anche il ricor-do, in Germania e all’estero, del regime nazista, che diquel mito si era alimentato, con gli esiti a tutti ben noti).

L’influenza di questa concezione sulla politica immi-gratoria tedesca non sarebbe potuta essere più chiara. Alungo la prima preoccupazione di quest’ultima è statainfatti quella di «tracciare la distinzione tra gli autocto-ni e gli stranieri» (Blaschke, 1993, p. 152) e ancora agliinizi degli anni novanta tutta la normativa in materia eraorientata a favorire la temporaneità della presenza degliimmigrati sul suolo tedesco e a prevenirne il radica-

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mento. A tal fine erano privilegiati gli interventi di pri-ma accoglienza, legati a un’effettiva presenza per moti-vi di lavoro, come, per esempio, l’istituzione di dormi-tori (a carico dei datori di lavoro e quindi destinati aisoli lavoratori, e non, come in Italia, almeno sino alla re-cente legge Bossi - Fini, a carico degli enti pubblici equindi aperti anche ai disoccupati e ai marginali). Que-sta politica otteneva inoltre l’effetto di disincentivare iricongiungimenti familiari, ammessi per formale osse-quio ai cosiddetti “diritti umani”, ma poco graditi equindi non facilitati. Allo stesso modo tanto le iniziati-ve di carattere sociale e culturale per i lavoratori quan-to i programmi scolastici per i loro figli tendevano a fa-vorire il mantenimento dei legami con il paese di origi-ne, in vista del loro pur improbabile ritorno. In partico-lare, per quanto concerneva l’istruzione primaria, inmolti Länder emergeva la preoccupazione che i ragazzistranieri non perdessero la conoscenza della lingua delpaese di origine o addirittura che l’acquisissero, se natiin Germania (mentre in Francia, al contrario, tutto l’in-segnamento mirava a una socializzazione alla cultura delpaese di approdo: impartito unicamente in francese, innome di una parità di trattamento sin troppo sciovinisti-camente interpretata, non dissimulava l’obiettivo di farpersino dimenticare l’esistenza del paese di origine, se-condo l’impostazione già sperimentata a suo tempo nel-le colonie, dove si utilizzavano dei sussidiari dall’incipitormai proverbiale: Nos ancêtres les Gaulois).

Alla metà degli anni novanta la situazione si era con-siderevolmente aggravata. Quarant’anni di “politicadello struzzo” (è difficile definire altrimenti la caparbianegazione del carattere immigratorio della Germania)avevano infatti determinato l’accumulo di tanti e taliproblemi da imporre un’urgente inversione di rotta, conl’avvio di una politica d’integrazione. Del resto già allo-

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ra oltre un quarto degli stranieri viveva in Germania dapiù di vent’anni e molti di loro erano addirittura nati là.

Per la verità, nel 1973, il governo federale, pur riba-dendo il carattere non immigratorio del paese, avevapreconizzato una loro “integrazione temporanea” (Inte-gration auf Zeit): una contraddizione in termini, peraltrodettata dall’intento di “rendere più umana la condizionedegli immigrati”. Ma la trasformazione della natura del-l’immigrazione, avviata in quello stesso anno dalla chiu-sura delle frontiere, rese del tutto insufficienti le misureche avrebbero dovuto realizzarla. Infatti, da un lato, ini-ziò il consolidamento delle presenze pregresse, con lacomplessificazione del tipo d’immigrazione esistente, e,dall’altro, cominciò anche per la Germania il periododell’immigrazione clandestina e irregolare, dell’aumentodel tasso di disoccupazione fra gli stessi immigrati legalie dell’arrivo in massa dal Terzo Mondo di “rifugiati” ve-ri e falsi. Successivamente, sul finire degli anni ottanta, iltracollo dei paesi dell’Est rovesciò sulla Repubblica fe-derale tedesca delle ondate di profughi senza preceden-ti in tempo di pace: oltre un milione e mezzo di persone,con un saldo netto di circa un milione, fra il 1989 e il1990, prima dell’unificazione dei due Stati tedeschi, traÜbersiedler e Aussiedler. Dopo l’unificazione (1990) l’af-flusso degli Aussiedler continuò a un ritmo assai elevatoe il numero dei rifugiati di altra origine aumentò anco-ra, mentre il quadro in presenza si complicava ulterior-mente per le migrazioni interne, di tedeschi e di stra-nieri, dai nuovi ai vecchi Länder e le difficoltà di convi-venza emerse un po’ dappertutto fra autoctoni e immi-grati, a partire dalle città dell’ex Germania orientale, ingrave crisi economica.

In questo contesto non possono stupire le pur gravis-sime esplosioni di razzismo e di xenofobia, moltiplica-tesi all’indomani della riunificazione. Il modello dell’e-

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straniazione degli immigrati, nato in una diversa epocastorica, con altre funzioni, pareva del resto fatto appo-sta per coltivare pregiudizi, divisioni, odi e rancori.

Successivamente vi sono stati dei segni di resipiscen-za per quanto concerne quella politica, anche se le stes-se pur autorevoli dichiarazioni in favore dell’integrazio-ne degli stranieri residenti da molti anni nel paese, chehanno preceduto e accompagnato l’adozione di misurepiù restrittive sull’asilo politico (1993), ne rivelavano, ingenere, una concezione piuttosto riduttiva. L’integra-zione era vista infatti non come la conseguenza sponta-nea dello sviluppo di normali relazioni sociali fra perso-ne di origine diversa, ma come il risultato di un proces-so guidato dall’alto, nell’interesse innanzi tutto dellacomponente tedesca, che avrebbe dovuto continuare atrarre dalla situazione un particolare vantaggio: assicu-rarsi l’apporto dei lavoratori stranieri senza dover rico-noscere loro pieni diritti di cittadinanza (con i costi e irischi relativi). Non sorprende pertanto, in tale conte-sto, neanche l’aperto ritorno alla politica dei Gastarbei-ter, soprattutto per ciò che concerne i lavoratori prove-nienti dalla Polonia e dagli altri paesi dell’Europa orien-tale (Rudolph, 1996).

Vanno però ricordate, come un segnale importante delpur lento mutamento di clima iniziato nel decennio scor-so, le parole pronunciate nel 1993 dall’ex presidente del-la Repubblica federale tedesca Richard von Weizsäckerdavanti alle bare di cinque immigrati turchi uccisi a So-lingen, in uno dei più efferati crimini razzisti della recen-te storia tedesca: «Gli estremisti che sfilano per le stradegridando “La Germania ai tedeschi” (Deutschland denDeutschen) che cosa vogliono? Cambiare la Costituzio-ne? Perché il suo articolo 1 dichiara inviolabile non già ladignità dei tedeschi, ma la dignità degli uomini, e un’af-fermazione diversa metterebbe in discussione proprio la

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dignità dei tedeschi. Quanto ai turchi [che vivono inGermania], non sarebbe più giusto e più umano comin-ciare a chiamarli cittadini tedeschi di origine turca?».

Un rilevante passo in avanti in questa direzione è sta-to poi compiuto, qualche anno dopo, con la riformadella legge sulla cittadinanza, approvata il 23 maggio1999 dalla nuova maggioranza rosso-verde, peraltronon senza laceranti contrasti nel Parlamento e nel pae-se (l’opposizione democristiana, pur di ridimensionar-ne la portata rispetto all’originaria proposta, giunse per-sino a minacciare il ricorso al referendum abrogativo).Questa legge, entrata in vigore il 1° gennaio 2000, haoperato una prudente, ma significativa rottura con laconsolidata tradizione sopra illustrata, riconoscendoper la prima volta ai giovani nati in Germania da immi-grati stranieri il diritto di accedere, a determinate con-dizioni, alla cittadinanza del paese, senza passare per leforche caudine di una difficile “naturalizzazione”.

Più recentemente (22 marzo 2002) la medesima mag-gioranza ha votato una nuova legge sull’immigrazione(Zuwanderungsgesetz), parimenti contestata dall’oppo-sizione, impegnatasi ad abrogarla o a emendarla in sen-so fortemente restrittivo nel caso di una sua vittoria nel-le successive elezioni politiche (vittoria data allora qua-si per certa, ma poi mancata, sia pur di un soffio, pereventi intercorsi nel frattempo: l’annunciata guerraamericana all’Iraq, che ha premiato i partiti più contra-ri all’intervento, e le distruttive alluvioni dell’estate, chehanno accresciuto i consensi alla componente ecologi-sta della coalizione al governo).

Questa legge, che ha avuto il notevole merito di san-cire ufficialmente il carattere immigratorio della Ger-mania (riconosciuto per la prima volta solo nel luglio2001, dal rapporto di una commissione governativa adhoc), sarebbe dovuta entrare in vigore il 1° gennaio 2003.

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Una sentenza della Corte costituzionale l’ha però an-nullata prima, su ricorso dei Länder a maggioranza de-mocristiana, per un grave vizio procedurale nella suaapprovazione (l’indebito computo doppio del voto delpresidente socialdemocratico del Bundesrat, il Senatofederale, in una situazione di parità di voti). Tale legge,che secondo il suo proponente, il ministro dell’InternoOtto Schily, «avrebbe dato alla Germania la più mo-derna legislazione in materia», coniugava princìpi uma-nitari e realistiche considerazioni delle esigenze dell’e-conomia e delle capacità d’integrazione del paese. Frale sue innovazioni più significative vanno segnalate ladefinizione di limiti massimi annui, determinati sullabase delle indicazioni dei Länder e delle imprese, perl’ingresso della manodopera non specializzata; l’intro-duzione di un sistema a punti, modellato su quello ca-nadese (vedi infra), che privilegiava (con permesso di la-voro e di soggiorno a tempo indeterminato, ricongiun-gimento familiare ed eventualmente la cittadinanza) gliesperti e i lavoratori specializzati con determinate qua-lifiche e conoscenze linguistiche; l’estensione del dirittodi asilo a categorie in precedenza non previste (come iperseguitati non da governi o altre istituzioni, ma dabande armate in territori in cui fosse venuta meno l’au-torità dello Stato); la repressione dell’abuso delle ri-chieste di asilo, sanzionato anche con l’espulsione im-mediata; la limitazione del ricongiungimento familiareautomatico ai figli di non più di 12 anni. Secondo le di-chiarazioni dei partiti di maggioranza, la legge sarebbedovuta essere riproposta subito senza modifiche, ma inrealtà non lo è stata ancora, per il timore di una sua boc-ciatura al Bundesrat, ove al momento mancano i votiper una sua approvazione corretta.

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I tre paesi del Benelux: Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo

Anche negli altri paesi dell’Unione Europea la culturapolitica ha esercitato un’influenza importante sulla po-litica migratoria.

Gioverà iniziare questa rapida rassegna dai tre paesidel Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), chesono stati, con quelli sopra analizzati, alcune delle piùtradizionali mete migratorie dell’Europa occidentale.

Questi tre paesi si sono formati in età moderna inun’area (a nord della Francia e a ovest della Germania,all’altezza del canale della Manica) che era stata abitatada più di un millennio da numerosi gruppi etnici assaidiversi fra loro. Questa differenza concerneva anche laloro lingua. Alcuni parlavano infatti dialetti neolatini (eparlano ora il francese); altri parlavano invece dialettigermanici (e parlano ora, per lo più, il neerlandese, co-me è stata ridenominata, per comune accordo, dopo lasua recente standardizzazione, specie per quanto neconcerne l’ortografia, la lingua prima chiamata olande-se nei Paesi Bassi e fiammingo in Belgio). Tale divisionerisale alla crisi dell’Impero romano, quando i celti ro-manizzati, in precedenza insediati in tutta la Gallia bel-gica (come i Romani chiamavano quell’area, conquista-ta da Giulio Cesare alla metà del I secolo a.C.), furonosospinti verso l’altopiano delle Ardenne dalle tribù ger-maniche dilagate nella pianura delle Fiandre, ove poi sistanziarono (la frontiera linguistica passa ora poco asud di Bruxelles, enclave prevalentemente francofona inun territorio già fiammingo).

Il Belgio (30 518 km2, circa 1/10 dell’Italia, con poco piùdi 10 milioni di abitanti e una densità di 336 abitanti perkm2, una delle più alte del mondo) è stato spesso ingiu-

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stamente considerato un paese artificiale, frutto solo del-le manovre della diplomazia ottocentesca, desiderosa dirisolvere, con la costituzione di uno Stato cuscinetto, lospinoso problema rappresentato da un’area ricca di ri-sorse agricole e minerali e anche strategicamente moltoimportante (per la sua posizione geografica di fronte al-l’Inghilterra), che era stata contesa per secoli fra le prin-cipali potenze europee. Corrispettivamente anche la na-zionalità belga è stata a lungo vista (per riprendere lasprezzante espressione utilizzata nella seconda metà del-l’Ottocento da un ministro francese, Camille HyacintheOdilon Barrot) come una mera nationalité de conven-tion. Eppure la nazione belga si è formata nel corso diun lungo processo storico, che non ha mancato di carat-terizzarne profondamente la cultura politica, che risultanotevolmente diversa da quella dei paesi vicini.

Di questo processo si possono individuare tre fasi sa-lienti. In un primo momento si andò definendo, in quel-la parte delle Fiandre che conobbe prima il dominioborgognone (1369-1477), poi quello degli Asburgo diSpagna (1555-1714) e infine quello della casa d’Austria(1715-1790), una specifica identità culturale, compene-trata di “libertà” premoderne, privilegi storici e cattoli-cesimo controriformista (che trovò un suo punto di rife-rimento importante nell’Università di Lovanio, fondatagià nel 1425). Quest’identità si rafforzò poi nel corso del-le guerre di religione fra cattolici e protestanti, che por-tarono alla separazione delle “Province Unite calviniste”dai “Paesi Bassi cattolici” (1579), che peraltro non com-prendevano ancora l’importante principato ecclesiasticodi Liegi, restato soggetto al Sacro romano impero. In unsecondo momento, contemporaneamente agli inizi dellaRivoluzione francese, la “Rivoluzione brabantina”(1789), così denominata dalla regione che ha per capo-luogo Bruxelles, pur essendo iniziata come una semplice

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rivolta localistica contro le riforme laicizzanti di Giusep-pe II, agì da precipitante, accelerando la trasformazionedi quell’identità culturale in una vera e propria identitànazionale. Sul modello della confederazione americana,costituita pochi anni prima, fu così proclamata la confe-derazione degli Stati Uniti del Belgio (1790), che ebbeperaltro vita effimera, per l’intervento degli austriaci pri-ma e dei francesi poi. Sconfitto Napoleone, che avevaannesso il paese alla Francia, il congresso di Vienna(1815) stabilì che quei territori, ribattezzati “Paesi Bassimeridionali”, entrassero a far parte, con il principato diLiegi e le Province Unite, del regno dei Paesi Bassi, isti-tuito in funzione antifrancese. Ma il sovrano preposto aquesto Stato, il protestante Guglielmo d’Orange, conmisure intese a contenere la strabordante influenza delclero cattolico e a favorire la diffusione della lingua olan-dese, s’inimicò sia i conservatori cattolici (anche di lin-gua fiamminga), sia i liberali francofoni. Così quando inFrancia la rivoluzione di luglio dette un segnale di rivol-ta, un’altra insurrezione portò alla proclamazione del-l’indipendenza del Belgio (1830), la cui corona fu offer-ta a un principe tedesco, Leopoldo di Sassonia-Cobur-go-Gotha, che l’accettò preferendola a quella, parimentioffertagli, di un altro nuovo Stato, la Grecia.

Il nuovo regno si diede una Costituzione che, pur es-sendo fra le più liberali del tempo, riconosceva un’uni-ca lingua ufficiale, il francese, madrelingua della com-ponente allora economicamente e culturalmente domi-nante. Ciò suscitò dei contrasti, che divennero semprepiù aspri con l’emergere di una specifica identità fiam-minga nelle regioni settentrionali e, successivamente,per reazione, di una specifica identità vallone in quellemeridionali. Si aggiunga che, peraltro in anni a noi assaipiù vicini, dopo la seconda guerra mondiale, il tradizio-nale rapporto di forze fra il Sud, più ricco, e il Nord,

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più povero, si rovesciò, in seguito all’irreversibile crisi(iniziata già negli anni sessanta) delle attività minerarienelle aree valloni e il forte sviluppo di quelle industrialie commerciali in quelle fiamminghe. Ciò rischiò di por-tare alla secessione di queste ultime, ma lo Stato nazio-nale sopravvisse all’aspro conflitto grazie a un’abile in-gegneria costituzionale che, attraverso una lunga serie diriforme (1980-1993), operò una trasformazione in sensofederale dello Stato, con il riconoscimento di pari dirittie pari dignità a tutte le “comunità” linguistico-culturalipresenti nel paese (oltre ai due principali gruppi già so-pra citati, esiste anche una piccola componente di lin-gua tedesca, per lo più insediata nei territori del Reichannessi al Belgio dopo la prima guerra mondiale).

A unire il paese concorrono fattori premoderni e mo-derni. Fra i primi va ricordata, oltre alla fedeltà alla co-rona (così come in altri paesi monarchici), la religionecattolica, che in passato determinò sia il rifiuto dellacomponente fiamminga di unirsi ai protestanti di linguaolandese degli attuali Paesi Bassi, sia quello della com-ponente francofona di aderire allo Stato laicista france-se. Ciò spiega il ruolo assai particolare che tuttora vi ri-veste la Chiesa cattolica, riconosciuta depositaria di tan-ta parte dell’identità nazionale, nonostante le strenuebattaglie per la laicità della scuola e delle altre istituzio-ni pubbliche combattute da alcune importanti forze po-litiche (fra cui i liberali e i socialisti, che si sono alterna-ti ai cattolici al governo o ne hanno condiviso con lorola responsabilità), al punto da indurre il cattolicissimore Baldovino ad autosospendersi per 48 ore (il 4 e 5aprile 1990) per permettere a un reggente temporaneodi firmare la controversa legge sull’aborto. D’altra par-te, tra i fattori moderni, va ricordata la capacità dimo-strata dal paese nel secondo dopoguerra di aprirsi pri-ma ai propri vicini (compresi i protestanti olandesi),

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con la costituzione del Benelux, l’unione economicacon i Paesi Bassi e il Lussemburgo, e poi agli altri paesieuropei, con l’importante contributo dato sin dagli ini-zi degli anni cinquanta alla costituzione delle Comunitàeuropee. Il Belgio ospita ormai da tempo alcune delleprincipali istituzioni dell’Unione Europea, della qualeBruxelles costituisce la capitale di fatto, e l’importanteruolo internazionale di tale città ufficialmente bilingue(che dal 1967 è sede anche del comando supremo dellaNATO) è divenuto un ulteriore elemento di coesione.

Quanto all’immigrazione, iniziata sin dalla fase dellaricostruzione post-bellica, in un primo tempo è statatrattata come una risorsa funzionale all’economia ed èstata utilizzata soprattutto per le attività più pesanti emeno gradite alla manodopera nazionale, fra cui il lavo-ro nelle miniere (come ci ricorda la tragedia di Marci-nelle, una cittadina nei dintorni di Charleroi, ove nel1956 perirono, per uno scoppio di grisou in una galle-ria, molte centinaia d’immigrati italiani). Più tardi vi fuun arrivo in massa di africani, in parte anche per moti-vi di rifugio politico, dalle ex colonie del Congo, delRuanda e del Burundi, squassate, a partire dalla lorostessa indipendenza, da distruttivi conflitti fra le etnie ele fazioni. Sempre per motivi politici, vi è stata un’im-migrazione anche da molti altri paesi cattolici (o dicomponenti cattoliche di paesi in prevalenza non tali,come la Palestina). Successivamente è diventata impor-tante anche l’immigrazione dai paesi musulmani delNord Africa, e più in particolare dal Marocco, da cuiproviene il gruppo extracomunitario più numeroso.

Complessivamente, secondo i dati del 2001, gli immi-grati sono 862 000, pari all’8,4% della popolazione, unadelle percentuali più alte in Europa. I tre quarti sonoperò costituiti da immigrati comunitari, in gran parte dalungo tempo residenti, e ciò riduce i problemi. D’altra

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parte la legge di “naturalizzazione rapida”, entrata in vi-gore nel maggio 2000, ha favorito l’acquisizione della cit-tadinanza belga da parte di un numero crescente di stra-nieri (oltre 60 000 l’anno, contro i 30 000 della fine deglianni novanta e i 10 000 scarsi degli anni ottanta). Nel2004 l’elettorato amministrativo attivo è stato esteso agliextracomunitari residenti da almeno cinque anni.

Tuttavia negli ultimi hanno vi è stata una preoccupan-te crescita di forze politiche dall’orientamento più o me-no marcatamente xenofobo, fra cui il Vlaams Blok, unmovimento attivo nell’area fiamminga sin dalla fine de-gli anni ottanta, che ha riportato una significativa affer-mazione nelle ultime elezioni politiche (maggio 2003).

I Paesi Bassi sono un’altra nazione premoderna di tipomonarchico, ancorché la fedeltà alla corona vi rivestaun’importanza minore che nel Belgio, data anche la lo-ro maggior compattezza linguistica. La nazione vi si èinfatti sviluppata, all’interno di frontiere politiche deri-vanti da privilegi e “libertà” medievali, attraverso unprocesso storico (già in parte accennato, parlando delBelgio) di cui furono parte saliente le guerre di religio-ne del XVI e XVII secolo, che in quei territori si con-clusero con l’affermazione del protestantesimo calvini-sta. Religione e politica vi si presentano tuttora stretta-mente intrecciate, anche se lo spirito del calvinismo,che pervade anche la minoranza cattolica e i numerosinon credenti (cfr. Zahn, 1993, p. 46), si accompagna or-mai a un diffuso rispetto per ogni posizione non confor-mista e a una diffusa tolleranza per tutte le “diversità”,comprese quelle non da tutti apprezzate (come l’omo-sessualità, la tossicodipendenza, l’esercizio in forma or-ganizzata della prostituzione).

L’immigrazione è assai consistente: nel 2001, su pocopiù di 16 milioni di abitanti, vi erano 700 000 immigra-

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ti regolari (di cui il 30% comunitari), pari al 4,3% del-la popolazione, ai quali si dovrebbero aggiungere i mol-ti originari delle ex colonie che hanno acquisito a suotempo la cittadinanza ope legis. Ciò si deve sia alla col-locazione geografica del paese, situato all’incrocio diimportanti vie di comunicazione terrestre, fluviale emarittima, sia al suo retaggio storico (di paese aperto aimovimenti di rifugio politico e centro di un impero co-loniale assai vasto, che comprendeva, fra l’altro, uno deipiù grandi paesi asiatici, l’Indonesia, alcune isole delleAntille e quella parte della Guyana che corrisponde al-l’attuale Suriname). Per gestirla, dopo una fase in cui,proprio come in Germania, si era voluto negare ideolo-gicamente il carattere immigratorio del paese (cfr. Böh-ning, 1972, p. 42), è stata adottata una pionieristica po-litica pluralista, ispirata a «una delle principali caratte-ristiche della società olandese», il rispetto della diver-sità, che ne ha fatto un caso canonico di pluralismo cul-turale (cfr. Entzinger, 1985, p. 61; 1990).

Il Lussemburgo è un granducato dalle caratteristiche de-cisamente premoderne, peraltro ormai da tempo para-dossalmente caratterizzato da una prevalente economiache molti definirebbero “post-moderna”. Il suo piccoloterritorio (2600 km2), che ne fa poco più di una città-sta-to con il suo circondario, ospita infatti diverse istituzio-ni comunitarie, molte organizzazioni finanziarie e nume-rose sedi di imprese multinazionali, attratte da una legi-slazione particolarmente favorevole. Anche per questo èormai da tempo il paese dell’Unione Europea con la piùalta percentuale d’immigrati (su meno di 450 000 abi-tanti, vi erano nel 2001 oltre 162 000 immigrati, pari al36,9% della popolazione). Si tratta però, in gran parte(per l’86,1%, anche in questo caso la percentuale più al-ta in Europa), di cittadini comunitari (in larga misura im-

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piegati nelle predette attività), che non pongono partico-lari problemi. In precedenza vi era stata anche una “nor-male” immigrazione di lavoro, di cui gli italiani prima e iportoghesi poi avevano costituito la componente più nu-merosa.

Situato all’incrocio della cultura francese e della cul-tura tedesca, il Lussemburgo ne ha sempre subito l’in-fluenza, sin da quando divenne un paese indipendente(1839). Nelle scuole s’insegnano sia il francese, sia il te-desco (utilizzati dalla stampa locale e, come lingue uffi-ciali, dalle amministrazioni pubbliche), anche se dal1984 la “lingua nazionale” è il lussemburghese (unaparlata popolare francone, in precedenza consideratasolo come un dialetto, utilizzata nella vita quotidiana eanche nei dibattiti comunali). L’identità del paese si ca-ratterizza per questo singolare trilinguismo, ritenutoimportante anche per valutare il grado d’integrazionedegli immigrati. Poiché però si fa ben poco per inse-gnare loro il lussemburghese, gli immigrati tendono aimparare soltanto la lingua che sembra loro più utile omeno difficile, che per i più è il francese, anche se ciò liesclude dai posti pubblici, che richiedono la conoscen-za delle tre lingue.

Nel paese vige lo jus sanguinis. Peraltro la nuova leg-ge sulla cittadinanza (entrata in vigore il 1° gennaio2002) ha un po’ allargato le maglie della naturalizzazio-ne, sostituendo al precedente requisito di un’almenoparziale “assimilazione” quello di un’“integrazione suf-ficiente”, che tuttavia prevede la conoscenza di una del-le tre lingue ufficiali e, nel caso che non sia il lussem-burghese, di nozioni di base di quest’ultima.

Recentemente (2003) il diritto di voto amministrativoè stato esteso anche agli extracomunitari regolarmenteresidenti nel paese da almeno cinque anni.

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Tre paesi del Sud Europa: Spagna, Portogallo, Grecia

Spagna e Portogallo si spartiscono la penisola iberica,una terra che fu oggetto di un’intensa romanizzazionesin dalla sua conquista (iniziata già nel III secolo a.C.),con la sola eccezione dell’area più settentrionale (corri-spondente a grandi linee all’attuale Paese Basco), abita-ta dai discendenti di quelle popolazioni che nel Paleoli-tico superiore controllavano tutta l’area franco-canta-brica. La penisola conobbe poi una lunga serie di inva-sioni barbariche e una protratta dominazione araba,che ne fece per secoli una terra di frontiera, e al tempostesso di contatto, fra cristiani e musulmani (con l’ag-giunta di piccole, ma significative componenti ebraiche,di volta in volta tollerate o perseguitate dagli uni e daglialtri). La liberazione delle terre occupate dai mori av-venne dall’XI al XV secolo attraverso una serie di par-ziali ricuperi dal Nord verso il Sud entrati nell’epos del-la penisola col nome di Reconquista. Appunto nel corsodi questo processo si è andata forgiando l’identità cul-turale dei due paesi iberici.

La Spagna, che fu fra i primi paesi europei a costituirsiin Stato nazionale, si presenta oggi, di fatto, come unasupranación, cioè una “nazione di nazioni e di naziona-lità” differenti, oppure, come a volte anche si è detto,uno “Stato di nazioni” (con una definizione che rovesciaquella degli Stati Uniti, che si considerano una “nazionedi Stati”). È questo il risultato di una lunga vicenda sto-rica che è cominciata con l’unificazione dei regni di Ca-stiglia e di Aragona (1479), grazie al matrimonio fra i ri-spettivi sovrani Isabella e Ferdinando II, e la conclusio-ne della Reconquista, con la presa di Granada (1492). Inquello stesso anno Cristoforo Colombo, al servizio dei

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sovrani di Spagna (che il papa avrebbe poi insignito deltitolo di “re cattolici”), scoperse il continente america-no, dando avvio a quella rapida conquista di gran partedel Nuovo Mondo che avrebbe fatto della Spagna, nelsecolo seguente, la potenza mondialmente dominante(con colonie anche in Africa e nel Pacifico: un imperoimmenso su cui, secondo le parole di Carlo V, non tra-montava mai il sole). Consumato quel siglo de oro, dopoalterne vicende (fra cui vanno ricordate, in particolare,le dure repressioni della cosiddetta santa Inquisizione altempo della Controriforma e la forte centralizzazioneamministrativa del Settecento), una nuova importantetappa della formazione della coscienza nazionale fu co-stituita dalla pugnace resistenza opposta all’invasionenapoleonica (1808), peraltro seguita dalla perdita di tut-te le colonie americane, a eccezione di Cuba e di Porto-rico. La sconfitta da parte degli Stati Uniti, nel tragico1898, tolse poi alla Spagna anche quei due possedimen-ti e le Filippine. A queste vicissitudini si aggiunsero poi,nel secolo scorso, la breve parentesi repubblicana (1931-1936), la sanguinosa guerra civile (1936-1939) e la lungadittatura franchista (1939-1978), cui seguì peraltro unarapida democratizzazione, un sorprendente sviluppoeconomico e l’adesione, con una fisionomia profonda-mente rinnovata, all’Europa comunitaria (1986).

La Costituzione spagnola del 1978 ha eretto il plura-lismo politico a valore supremo dell’ordinamento delloStato, riconoscendo l’autogoverno alle diverse regionistoriche, ridefinite quali “comunità autonome” dallecompetenze garantite. Sono state così accolte, almeno inparte, le rivendicazioni da tempo avanzate da molte diloro, fra cui le due più dinamiche regioni del Nord, laCatalogna e il Paese Basco, caratterizzate, fra l’altro, daspecifiche lingue che in precedenza si era più volte ten-tato di ridurre al rango di semplici dialetti. Ciò ha rap-

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presentato una chiara rottura con il centralismo politicoe culturale del franchismo, che aveva eretto a sistema la«feroce belligeranza contro ogni fatto o manifestazionedi diversità» (Murillo de la Cueva, 1994, p. 218).

A favore dell’unità del paese gioca peraltro un ruoloimportante, così come in passato, la netta definizione deisuoi confini (i Pirenei al nord e il mare per tutto il restodella penisola iberica, occupata peraltro anche dal Por-togallo, di cui nessuno più rimette in discussione l’ormaiplurisecolare indipendenza). Un altro importante fattoredi unità è costituito dall’esistenza della monarchia, dive-nuta di recente oggetto di una nuova fedeltà “superna-zionale”. L’importanza di questa istituzione non risultaperò pari a quella che riveste in altri paesi, come, peresempio, il Regno Unito, per effetto di alcuni eventi del-la storia recente (fra cui la già ricordata parentesi repub-blicana, la lacerante guerra civile e la lunga reggenza daparte del caudillo durante la dittatura franchista), anchese l’attuale sovrano ha saputo meritarsi una diffusa stimaper il suo significativo contributo alla transizione demo-cratica, che ha concorso a garantire contro gli ultimi col-pi di coda del franchismo e qualche pur velleitario ten-tativo golpista. In ogni caso l’acquisizione della cittadi-nanza spagnola per opzione o per naturalizzazione pre-suppone una promessa di fedeltà al re, oltre che l’impe-gno a rispettare la Costituzione e le altre leggi vigenti.

La Spagna, come l’Italia, è diventata un paese d’im-migrazione in tempi relativamente recenti, senza avereun progetto preciso per gestirla. Del resto si è trattato alungo di un’immigrazione in gran parte clandestina,proveniente dal vicino Marocco, che ha trovato atten-zione e assistenza quasi solo da parte delle organizza-zioni cattoliche. Una serie di sanatorie ha però poi por-tato nel 2002 a 1 230 000 il numero dei regolari, su unapopolazione complessiva di 40 400 000 abitanti, pari al

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3,0%. Circa un quarto è però costituito da cittadini dialtri paesi dell’Unione Europea, molti dei quali in Spa-gna non per motivi di lavoro, ma per residenza elettiva(è il caso, in particolare, dei pensionati inglesi e tedeschitrasferitisi sulle coste mediterranee della penisola o nel-le Canarie per il clima più mite e il minor costo della vi-ta). Fra i regolari, tuttavia, il primo gruppo nazionale èquello dei marocchini, ormai più di 200 000. Numerosisono inoltre gli irregolari, soprattutto nelle regioni delSud, ove lavorano nell’agricoltura. Sul finire del 2000 èstata approvata una nuova legge sull’immigrazione assaipiù rigida della precedente (entrata in vigore meno di unanno prima), che avrebbe dovuto contrastare con più vi-gore, grazie anche a espulsioni immediate, la formazionedi ulteriore irregolarità, che preoccupa il governo e leamministrazioni locali (nel 2003 il numero degli irrego-lari è stato stimato fra i 600 000 e gli 850 000).

Il Portogallo, di cui Alfonso Henriques si era proclama-to re già nel 1139, grazie al potere e al prestigio acqui-sito nella lotta contro i mori, vide riconosciuta la pro-pria “autonomia” sia da Alfonso VII, autoproclamatosiimperatore di tutte le Spagne (un titolo introdotto dasuo nonno Alfonso VI), sia dalla Chiesa cattolica e, unavolta conclusa la riconquista del proprio territorio(1250), si costituì in Stato sovrano (1263). In seguitopoté salvaguardare la propria indipendenza dalla Spa-gna, che tentò più volte di fagocitarlo, e recuperarla,dopo un sessantennio di assoggettamento (1580-1640),grazie a un insieme di fattori diversi. Fra questi, va ri-cordata, in primo luogo, l’originalità della sua lingua,che aveva acquisito dignità letteraria sin dal tempo deitrovatori (anche se il suo substrato, che risale in parteall’età preromana e in parte alle invasioni barbariche,non è in realtà molto diverso da quello di tutte le altre

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lingue della penisola iberica, eccezion fatta solo per l’eu-scara, la lingua del Paese Basco, né mancano, come perquelle, aree di transizione linguistica). Un secondo fat-tore è stata la lunga alleanza con l’Inghilterra, che datadal trattato di Windsor (1386), stipulato al tempo dellaguerra dei cent’anni, e ha conosciuto soltanto pochi ebrevi intervalli, per contrasti coloniali. Un terzo e forseancor più importante fattore è stata la sua eccezionalevocazione marittima, che ne ha valorizzato la posizionegeografica affacciata sull’Atlantico, all’estremo occiden-te dell’Europa continentale. Ciò ne favorì, quando l’e-conomia, la tecnologia e l’organizzazione sociale lo con-sentirono, la straordinaria proiezione transoceanica, cul-minata nella formazione di un vastissimo impero colo-niale, che giunse a comprendere il più grande paese del-l’America del Sud, il Brasile (scoperto dal portoghesePedro Alvares Cabral nel 1500), e numerosi altri paesi inAfrica (Capo Verde, la Guinea-Bissau, l’Angola e il Mo-zambico) e in Asia (Goa, sulle coste dell’India, Macao,sulle coste della Cina, e Timor, in Estremo Oriente).

L’idea portoghese della nazione ha sempre enfatizza-to la dimensione etnico-culturale, che al tempo del re-gime salazarista (1932-1974) divenne la base di quell’i-deologia lusitana che, nelle intenzioni dei suoi fautori,avrebbe dovuto consolidare i rapporti con le colonie ele ex colonie sparse per il mondo (il Brasile, al tempodel regime militare, la riprese e la riformulò, sotto for-ma di un ambiguo “lusotropicalismo”, ispirato alle ela-borazioni del sociologo Gilberto Freyre, per coonestarele proprie ambizioni egemoniche sui paesi di linguaportoghese dell’Africa e sulla stessa metropoli, allorapiuttosto malridotta).

Il Portogallo, democratizzato e rivitalizzato dall’in-cruenta “Rivoluzione dei garofani” (25 aprile 1974), en-trò a far parte dell’Europa comunitaria dodici anni do-

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po, assieme alla Spagna (1986). Da grande paese di emi-grazione, qual era stato per secoli, con un’accentuazio-ne dovuta anche a motivi politici durante il regime diSalazar, il Portogallo aveva già cominciato a diventare,con la fine delle guerre di repressione coloniale in Afri-ca, un paese d’immigrazione.

Il quadro si presentava peraltro piuttosto complesso.Vi era, infatti, sia un’assai consistente immigrazione re-golare di ritorno, costituita per lo più di portoghesi pro-venienti dalle ex colonie (circa 800 000 persone) e inminor misura dall’Europa, sia un’immigrazione, per lopiù irregolare, di cittadini di altri paesi, per lo più ex-tracomunitari (l’80%), provenienti in gran parte dalBrasile e dalle ex colonie africane (in primo luogo CapoVerde). Dopo la sanatoria del 2001, il numero degli im-migrati stranieri regolari ha raggiunto le 350 000 unità,su poco più di 10 milioni di abitanti, pari al 3,5% dellapopolazione.

La nuova legge sull’immigrazione e sul lavoro deglistranieri, approvata nel luglio 2000, prevede condizionidi relativo privilegio per coloro che siano nati e resi-denti in Portogallo o vi risiedano dall’età di dieci anni oabbiano dei figli minorenni.

La Grecia, pur essendo separata soltanto da un bracciodi mare dall’Italia, con cui ha intrattenuto per lunghiperiodi intensi rapporti, ne differisce profondamenteper storia e cultura, che hanno subìto la protratta in-fluenza della sua collocazione geografica. Situata nellaparte più meridionale dei Balcani, in una terra moltomontagnosa che si articola in varie penisole profonda-mente insinuate nel Mediterraneo orientale, confina anord con altri paesi balcanici (l’Albania, la Macedonia ela Bulgaria), di cui ha condiviso in gran parte la storiaturbolenta, e a est con la Turchia, di cui ha sofferto il

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plurisecolare dominio. Del paese fanno parte anche piùdi 400 isole, un centinaio delle quali abitate, che neestendono il complessivo sviluppo costiero a oltre15 000 km (il doppio dell’Italia).

La Stato moderno, privo di ogni continuità storicacon la Grecia dell’antichità classica, si è formato nelcorso dell’Ottocento (l’indipendenza del paese fu rico-nosciuta nel 1830, peraltro in confini che comprende-vano solo un quarto della popolazione greca di allora),dopo un’insurrezione cruenta contro i turchi, vittorio-samente conclusa anche grazie al sostegno delle poten-ze occidentali, desiderose di sottrarre i Balcani all’Im-pero ottomano ormai in decadenza.

Il nuovo Stato si richiamò tuttavia al retaggio dellaGrecia classica (già evocato da molti fautori greci e stra-nieri della sua libertà), denominandosi Hellas. Il termi-ne, peraltro, non aveva mai definito in precedenza unaspecifica unità politica. La Grecia antica era restata in-fatti soltanto un’entità culturale, costituita, per dirlacon Erodoto, da póleis di ceppo comune simili per lin-gua, religione, riti e costumi. Fra loro esisteva peraltro,al di là delle forti rivalità che le hanno spesso divise, ali-mentando anche lunghi conflitti per l’egemonia, unafondamentale solidarietà, com’è dimostrato dalle guer-re persiane, che combatterono alleate, sotto gli auspicidel santuario di Delfi, in uno “scontro di civiltà” desti-nato a rafforzarne l’identità comune. Del carattere cul-turale di questa identità, del resto, gli stessi antichi gre-ci avevano piena consapevolezza. Basti qui citare le pa-role di Isocrate: «Noi consideriamo greci coloro checondividono la nostra cultura». Una frase che, dopo il1830, divenne l’insegna dell’irredentismo greco.

A definire l’identità culturale della Grecia modernaconcorre però anche un altro fattore, spesso sottovalu-tato: la religione ortodossa, che nel passato ne assicurò

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la distinzione non solo dal mondo musulmano, ma an-che da quello cattolico (lo scisma del cristianesimoorientale dal cristianesimo occidentale è divenuto for-male nel 1054 e ha cominciato a operare nella coscien-za popolare bizantina almeno dal 1204, data del saccodi Costantinopoli durante la quarta crociata). Se nellaconcezione degli intellettuali moderni è quasi sempreprevalsa la prima componente (la memoria idealizzatadel mondo classico, nella lettura che ne hanno dato l’Il-luminismo prima e il Romanticismo poi), nel popolo èa lungo prevalsa, e forse prevale tuttora, la seconda, ali-mentata da una Chiesa che in diverse fasi della storiadel paese ha giocato un ruolo estremamente importan-te. Dopo aver tenuto viva la fiamma del cristianesimosotto la dominazione ottomana, quella Chiesa ha infattiappoggiato la stessa lotta di liberazione contro la Subli-me Porta (che non fu solo guerra di greci contro turchi,ma anche guerra di cristiani contro musulmani), spe-cialmente dopo la condanna a morte inflitta dal sultanoal suo patriarca Gregorio V e a molti suoi metropoliti(1821), e dopo il 1830, nonostante la sua spiccata avver-sione per ogni moderna forma di esercizio del potere, hasostenuto anche le ulteriori rivendicazioni irredentistedello Stato greco, rompendo i suoi legami con il pa-triarcato di Costantinopoli (1833), riassoggettatosi agliottomani. Dal 1852, del resto, la Chiesa greca, autocefa-la e sinodale, è diventata un’istituzione dello Stato e ta-le è di fatto restata sino ai giorni nostri, anche se la suaforma di cristianesimo è ormai considerato solo la reli-gione della maggioranza della popolazione (formalmen-te ortodossa al 98%) e non più la religione dello Stato.

Tra i fattori culturali che concorrono a definire l’i-dentità greca riveste un’importanza tutta particolare lalingua, che costituisce il vero elemento di continuità conil passato, dato anche che le differenze fra il greco anti-

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co e il greco moderno sono molto minori di quelle cheesistono fra il latino e le attuali lingue romanze. A causadel relativo isolamento geografico, il greco aveva del re-sto conosciuto, prima ancora di divenire una straordi-naria lingua letteraria, una propria accentuata differen-ziazione dalle altre lingue indoeuropee, comprese quel-le dei paesi più vicini. Come si ricorderà, nell’anticaGrecia erano considerati “barbari” coloro che non par-lavano il greco o lo parlavano male (bárbaroi significavaletteralmente “balbettanti”): un termine che ha poi ac-quisito il suo significato attuale per il rimarchevole et-nocentrismo della cultura greca. D’altra parte chi nonapparteneva al mondo delle póleis non era neppure con-siderato un essere umano completo, dal momento chel’uomo era concepito come uno zoón politikón (Aristo-tele), cioè come un animale della pólis, con tutte le rela-tive implicazioni di carattere sociale, culturale e politico.

Roma e il cristianesimo non mancarono di esercitareuna profonda influenza su tale cultura (che, d’altra par-te, esercitò su di loro un’influenza ancora più marcata).Le póleis però sopravvissero a lungo alla perdita dellaloro stessa autonomia e continuarono a rappresentare latipica forma di vita associata del mondo greco anche al-l’interno dei grandi imperi multietnici e multiculturalidell’età ellenistica. La loro cultura venne però poi pro-gressivamente a dissolversi all’interno dell’Impero bi-zantino (come segnala, fra l’altro, simbolicamente, lachiusura delle ultime scuole filosofiche ateniesi, accusa-te di paganesimo, nel 529). Il greco continuò tuttavia aessere la lingua ufficiale di quell’impero e la sua forma“pura” (katharévusa), utilizzata anche dalla Chiesa or-todossa, fu a lungo tutelata contro il “volgare” (dimo-tikí), che pure finì per subentrarle a poco a poco nellavita civile, sino a diventare, in tempi a noi molto vicini,la lingua ufficiale della Grecia moderna.

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A spezzare la continuità con il passato concorsero va-rie vicende storiche. In quel millennio in cui l’Imperoromano d’Oriente sopravvisse a quello d’Occidentenella penisola balcanica e in molte isole greche si suc-cessero, in realtà, le invasioni barbariche (di slavi, alba-nesi, valacchi, bulgari ecc.), nonché le incursioni e le oc-cupazioni almeno parziali da parte di altre popolazioni(arabi, normanni, turchi ecc.). Dopo la quarta crociatagià citata, che smembrò il paese tra i cavalieri franchi ei signori locali creando un’effimera serie di staterellifeudali, anche Venezia e Genova occuparono isole e co-ste della Grecia. Il colpo decisivo fu però assestato, aImpero già indebolito, dalla conquista turca di Costan-tinopoli (1453), che aprì la strada alla rapidissima occu-pazione ottomana di tutta la Grecia.

I turchi, anche per propria convenienza, dimostraro-no a lungo molta tolleranza per la Chiesa ortodossa, chefinì così per diventare il principale punto di riferimentodi un’ellenicità ormai di fatto sempre più identificatacon la sua versione del cristianesimo. In ogni caso que-sta religione (assieme alla cultura illuministica della dia-spora intellettuale e agli orientamenti liberali dei mer-canti greci di Costantinopoli) concorse ad alimentare larivolta contro gli ottomani, quando anche in questo re-moto angolo dell’Europa mediterranea cominciaronoad arrivare le nuove idee nazionali diffuse dalla Rivolu-zione francese.

Dopo l’indipendenza una persistente lettura non etni-ca, ma culturale della nazione (peraltro definita éthnosin greco) alimentò a lungo l’ideologia espansionisticadella Grande Idea, che, in nome di un irredentismo pa-nellenico, predicava la necessità di estendere i confinidella Grecia sino a includervi tutte le vicine popolazionipiù o meno ellenizzate ancora sotto il dominio ottoma-no. Tale allargamento poi effettivamente avvenne, alme-

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no in parte: varie tappe (1863, 1881, 1913, 1919) porta-rono infatti a un raddoppiamento del territorio e dellapopolazione dello Stato. Il trattato di Losanna (1923),stipulato dopo la caduta dell’Impero ottomano fra le po-tenze vincitrici della prima guerra mondiale e la nuovaTurchia, che aveva sconfitto la Grecia in un successivoconflitto (1920-1921), sancì però una vera e propria“pulizia etnica” da attuarsi mediante lo scambio delle“minoranze” insediate entro i confini dei due Stati (unevento traumatico che i greci ancora ricordano come la“catastrofe” degli anni venti). I greci dell’Asia Minore edella Tracia orientale (circa un milione e mezzo di per-sone) dovettero trasferirsi nel territorio riconosciuto al-la Grecia (che contava allora 5 milioni di abitanti) oemigrare altrove, mentre i turchi della Macedonia, del-l’Epiro e di Creta (circa mezzo milione di persone) do-vettero trasferirsi in quello lasciato in via definitiva allaTurchia, che comprendeva tutta l’Anatolia (dallo scam-bio forzato furono esclusi i greci di Costantinopoli e iturchi della Tracia occidentale, ma non i greci di Smir-ne). Il quadro fu completato da uno scambio volontariodi popolazione con la Bulgaria (previsto dalla conven-zione di Neuilly del 1919), peraltro di dimensioni assaipiù contenute (circa 100 000 persone per parte), e dauna serie di spostamenti spontanei che interessarono igreci dell’Albania, della Romania e della Macedoniaserba e i valacchi dell’Epiro e della Macedonia greca.Ciò comportò un aumento della popolazione della Gre-cia e una riduzione delle sue minoranze etniche alla per-centuale più bassa presente nei Balcani, tanto da per-mettere al regime parafascista di Ioannis Metaxas(1936-1941) di vantare il valore aggiunto costituito dauna nazione omogenea (cfr. Koliopoulos e Veremis,2002, p. 235). Ancor oggi, in effetti, nonostante tutti isuccessivi sconvolgimenti della seconda guerra mondia-

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le, nessuna delle pur numerose minoranze presenti nelpaese (turchi, bulgari, macedoni, armeni ecc.) superal’1% della popolazione.

Omogeneità etnica non significa però compattezzasociale. Dopo la seconda guerra mondiale (che vide, fral’altro, la lunga occupazione della Grecia da parte dellepotenze dell’Asse) il paese conobbe un’aspra guerra ci-vile (1946-1949), suscitata dal tentativo del Partito co-munista d’impadronirsi del potere, com’era avvenuto inaltri paesi dell’Europa dell’Est, con il sostegno di Unio-ne Sovietica e Jugoslavia. Quel tentativo fu sconfitto ela Grecia aderì alla NATO (1950). Ma la destabilizzazio-ne delle sue già precarie istituzioni aprì la strada a unaserie di governi autoritari, fra cui, dopo una breve pa-rentesi democratica, il duro “regime dei colonnelli”(1967-1974), che cadde solo perché una sua avventatainiziativa provocò l’occupazione militare di Cipro daparte della Turchia (1974). Il resto è storia recente, dicui basta qui ricordare la rapida ridemocratizzazionedel paese, con l’abolizione per referendum della mo-narchia (1974), e l’adesione alle Comunità europee(1981), di cui la Grecia ha molto beneficiato anche intermini economici.

L’emigrazione ha rappresentato per la Grecia, sinoagli anni settanta, una costante e spesso dura necessità.Sin dall’antichità il suo eccesso di popolazione rispettoalle scarse risorse del suo territorio (che, come ebbe anotare Platone, già nei dintorni di Atene «bastava a darcibo soltanto alle api») ha determinato una consistenteemigrazione, che ha portato alla fondazione di numero-sissime colonie in tutto il bacino del Mediterraneo (fracui l’Italia meridionale, che fu denominata per questo“Magna Grecia”). A questo processo si è accompagna-ta anche una vivace diaspora mercantile, che ha interes-sato, anche in età romana e al tempo della dominazione

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ottomana, tutti i principali empori del Mediterraneo.Negli ultimi due secoli a questi flussi si sono aggiunte lemigrazioni transoceaniche. Si calcola che solo fra il 1881e il 1915 siano partiti per le Americhe, e principalmenteper gli Stati Uniti, oltre 320 000 greci (su una popola-zione passata in quegli anni da 1 700 000 a 2 600 000unità). Dopo la prima guerra mondiale l’emigrazione siridusse, soprattutto per effetto del drastico taglio dellequote annue d’immigrati da parte degli Stati Uniti(1921), ma non si arrestò del tutto, anche per la pres-sione costituita dall’arrivo nel paese di molte centinaiadi migliaia di profughi privi di tutto in seguito ai citatiscambi di popolazione (fra il 1922 e il 1940 gli emigratifurono almeno 100 000). Nel secondo dopoguerra ilmovimento riprese a un ritmo sostenuto, che portò al-l’estero in vent’anni, fra il 1955 e il 1975, 1 200 000 per-sone, per il 60% dirette verso i paesi industriali del-l’Europa centro-occidentale, e più in particolare la Ger-mania. Nella seconda metà degli anni settanta, ancheper effetto della crisi economica che colpì allora queipaesi, l’emigrazione si contrasse fortemente, mentre au-mentarono i rientri, con la conseguenza di saldi migra-tori per la prima volta positivi dopo la “catastrofe” de-gli anni venti. Anche per la concomitante caduta deltasso di natalità e l’avvio di un ciclo di sviluppo econo-mico veniva così a concludersi la parabola della grandeemigrazione greca.

Per effetto di questo straordinario processo nel 1980vivevano negli Stati Uniti quasi un milione di cittadinidi origine greca, secondo i dati ufficiali americani, e1 250 000, secondo le fonti greche. In Unione Sovieticanel 1989 (data dell’ultimo censimento prima della suadissoluzione) erano 360 000 le persone di nazionalitàgreca. In Europa occidentale vivono oggi, secondo gliultimi dati disponibili, oltre 600 000 greci (con una pre-

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senza particolarmente forte in Germania). In Australiane vivono regolarmente oltre 420 000 e in Canada qua-si 200 000, cui vanno aggiunti i numerosi irregolari (va-lutati ad almeno la metà dei regolari, in entrambi i pae-si). Altri 120 000 vivono in Africa, 50 000 in AmericaLatina (soprattutto in Brasile e in Argentina) e 30 000 inIsraele.

Ciò nondimeno, a partire dagli anni settanta, anche laGrecia è diventata un paese d’immigrazione. Fra il 1971e il 1981 il numero degli stranieri legalmente residentinel paese si è quasi raddoppiato, passando da 94 000 a181 000, mentre si calcolavano ad almeno 60 000 i clan-destini. L’immigrazione è poi continuata, tra alti e bas-si, con picchi che hanno raggiunto i 70-80 000 arrivi re-golari l’anno agli inizi dello scorso decennio.

Si è così arrivati nel 2000 a più di un milione d’im-migrati su 10 245 000 abitanti. Gli immigrati regolarierano 655 000, pari al 6,4% della popolazione, mentregli irregolari e i clandestini erano valutati ad almeno400 000 (prima della sanatoria del maggio-agosto2001). Il gruppo più consistente è costituito dagli alba-nesi, per lo più irregolari: circa 400 000, compresi i“greci etnici” di religione cristiana, avvantaggiati dauna più facile concessione dei visti di entrata (cosa cheha indotto anche molti musulmani a convertirsi al cri-stianesimo). Un altro gruppo piuttosto consistente èquello dei “greci etnici” provenienti dalle ex repubbli-che sovietiche: Russia, Georgia, Azerbaigian, Kazaki-stan e Uzbekistan. In genere sono stati accolti più be-nignamente di quelli dell’Albania, perché associati aiprofughi dalla Turchia degli anni venti, dato che moltidiscendono da quei greci che erano stati allora costret-ti a lasciare l’Asia Minore o la Tracia, anche se nonmancano fra loro i discendenti di quelli che si erano in-sediati sulle sponde del Mar Nero al tempo degli otto-

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mani (i cosiddetti “greci del Ponto”) e quelli che ave-vano cercato rifugio in Unione Sovietica durante laguerra civile o la dittatura militare. Per questi “greci et-nici”, definiti palinostountes (“quelli che ritornano”), èprevisto un trattamento più favorevole di quello riser-vato agli altri immigrati, cosa che peraltro non basta agarantire loro un’occupazione in lavori più stabili e me-glio pagati. Fra gli altri immigrati vanno ancora ricor-dati i polacchi, giunti sin dagli inizi degli anni ottantaper effetto della crisi economica del loro paese (così co-me del resto in Italia); i serbi, arrivati per lo più dallaBosnia, con motivazioni di rifugio politico, al tempodel disastroso e crudele conflitto che vide feroci “puli-zie etniche” da parte di tutte le forze in campo; i curdi,provenienti dalla Turchia e dall’Iraq; i palestinesi, at-tratti dal buon trattamento loro riservato dalla Grecia,desiderosa di accattivarsi gli Stati arabi in vista delle de-cisioni delle Nazioni Unite sul destino di Cipro. A que-sti rifugiati di fatto (che avevano ispirato il detto secon-do cui «dalla Grecia si va via come emigrati, mentre visi viene come profughi o rifugiati») si aggiungono or-mai anche numerosi “immigrati normali”, fra cui i fi-lippini e i cingalesi, in maggioranza donne dedite al la-voro domestico.

Il paese, preso di contropiede da questi arrivi ina-spettati e spesso non desiderati, dalle motivazioni piùdiverse e a volte anche dalle dimensioni rovinose, nonha ancora elaborato per loro un progetto preciso. Nelsuo semestre di presidenza europea il governo grecoha però sostenuto con forza una politica d’integrazio-ne sociale per gli immigrati regolari e di maggior con-trollo per i clandestini.

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L’Austria: un grande passato multinazionale,un incerto presente

L’Austria si è costituita in Stato nazionale moderno do-po la prima guerra mondiale (1918), conclusasi con lasconfitta degli Imperi centrali. Vent’anni dopo è stataperò annessa alla Germania nazista, dopo un interven-to militare tedesco, con l’Anschluss, un atto poi accetta-to dagli austriaci, bon gré, mal gré, con un plebiscito ap-provato con il 99,7% dei voti (1938). Ha così potuto ri-cuperare l’indipendenza solo al termine della secondaguerra mondiale (1945) e la piena sovranità dieci annidopo (1955), quando, con la firma del trattato di pace,le quattro potenze vincitrici hanno posto fine all’occu-pazione militare del suo territorio. La nuova Austria,sorta da queste vicende contraddittorie e complesse, èun paese relativamente piccolo (84 000 km2, poco piùdi un quarto dell’Italia), con un numero di abitanti li-mitato (circa 8 000 000 nel 2000, un settimo della po-polazione italiana) e una densità media relativamentebassa (95 abitanti per km2), anche se la sua popolazio-ne è concentrata nelle principali città, data la sua natu-ra montagnosa (la sua altitudine media, 1000 m s.l.m., èin Europa seconda solo a quella della Svizzera, che ar-riva ai 1300).

La piccola Austria di oggi è però la principale erededi un grande impero multietnico, multinazionale e mul-ticulturale, cui costantemente rimandano le sue memo-rie. È stata infatti il cuore prima del Sacro romano im-pero, almeno da quando la sua corona ritornò agliAsburgo (1493), e poi dell’Impero austriaco (1806), co-me fu ridefinito al tempo delle guerre napoleoniche, edell’Impero austro-ungarico (1867), ridenominato cosìquando fu riconosciuta pari dignità formale allo Statomagiaro nell’ambito di un’unione tramite la monarchia,

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divenuta duplice per l’occasione. A Vienna hanno cosìfatto capo nel corso dei secoli, per periodi più o menolunghi, genti di lingua e cultura diversa: non solo tede-schi, ma francesi, spagnoli, ungheresi, cechi, sloveni,croati, italiani, polacchi, serbi, rumeni, bosniaci ecc.Nel passato l’Austria è stata anche il più importante ba-luardo del cattolicesimo in Europa orientale, sia controil dilagare del protestantesimo, dopo la Dieta di Spira(1529), sia contro l’estendersi dell’islamismo, che le ar-mi ottomane avevano portato nel cuore dell’Europa (iturchi furono fermati proprio sotto le mura di Viennanel 1683 e furono poi ricacciati sempre più a sud).

Paese di illuminate riforme nel Settecento, con MariaTeresa e Giuseppe II, sovrani che hanno lasciato un di-screto ricordo anche in alcune regioni dominate (fra cuila Lombardia), dopo lo choc della Rivoluzione francesee delle conquiste napoleoniche divenne nell’Ottocento,a partire dal congresso di Vienna (1815), gestito con sa-piente regia dal suo ministro degli Esteri Metternich, ilbastione (e il bastone) della reazione. In “santa allean-za” con la Prussia e la Russia zarista, intervenne così ri-petutamente a reprimere i fremiti nazionali, le aspira-zioni liberali e le rivendicazioni sociali che per oltre unsecolo agitarono l’Europa in un complesso intreccio.Ma proprio lo spiccato carattere multinazionale fece diquell’Impero uno straordinario laboratorio per lo stu-dio delle nazionalità. In Austria emerse così, tra la finedell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un’importanteriflessione sui conflitti nazionali e sulla stessa natura del-le nazioni. Basti qui ricordare il fondamentale contribu-to dato a quel dibattito dai cosiddetti “austromarxisti”(i marxisti revisionisti austriaci), fra cui Karl Renner eOtto Bauer, illustri personaggi che avrebbero poi svoltoanche degli importanti ruoli politici nell’Austria repub-blicana. Bauer (1907), in particolare, prese nettamente

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le distanze dalla sottovalutazione del fatto nazionale an-cora presente fra i marxisti (Marx ed Engels, pur nonnascondendo le loro simpatie per la causa dell’Italia,della Polonia e dell’Irlanda, avevano sostanzialmente ri-dotto la nazione a un epifenomeno dei rapporti econo-mici, seguiti in ciò da molti altri, fra cui Karl Kautsky,che pure aveva dedicato al tema specifica attenzione).Bauer però criticava altresì le impostazioni di quegli au-tori “borghesi” che, secondo la tradizione tedesca, consi-deravano la nazione ora un’entità di stirpe e di discen-denza (“materialismo nazionale”), ora un’unità di linguae di cultura espressa da uno “spirito del popolo” (Geists-volk) ipostatizzato a realtà metastorica (“spiritualismonazionale”). Per lui la nazione era invece una “comu-nanza di destino” (Schicksalsgemeinschaft), derivante dauna storia plurisecolare condivisa che, grazie a intera-zioni complesse protratte nel tempo, avrebbe esercitatoun’influenza profonda sulle coscienze degli uomini, aldi là delle stesse divisioni di classe.

Questa elaborazione notevole e per tanti aspetti pre-corritrice della migliore sociologia del Novecento si col-locava nel quadro della vivacissima cultura mitteleuro-pea di quel periodo, di cui l’Austria era il centro. In ef-fetti nel quadrilatero di Vienna, Praga, Budapest e Trie-ste e nelle adiacenti regioni danubiane e subalpine si eb-be allora una straordinaria fioritura delle arti e dellescienze (qualche nome, fra i tanti: Freud, Mahler, Musil,Wittgenstein, Schönberg, Hofmannsthal, Klimt, Böhm-Bawerk e il giovane Kelsen). Era questo il frutto dellaconvivenza stimolante e sinergica, in un contesto fra ipiù favorevoli ai contatti e allo scambio, di una miriadedi gruppi diversi per lingua, cultura, storia e religione(un contesto che, peraltro, poteva anche generare deimostri, se è vero che lo stesso Hitler si aggirava in que-gli anni, con le sue frustrazioni, per le strade di Vienna).

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Al confronto l’Austria del secondo dopoguerra, usci-ta stremata dall’esperienza nazista e dalla sconfitta, ap-pare un paese sin troppo ripiegato su sé stesso: un pic-colo Stato monoetnico racchiuso fra le sue montagne eisolato anche dal punto di vista politico, perché situatoai confini con i paesi del Patto di Varsavia, da cui restòdiviso per tutto il periodo della guerra fredda dalla co-siddetta “cortina di ferro”, e costretto a una “neutra-lità” più imposta che non scelta per la sua non ricerca-ta funzione di cuscinetto fra i blocchi. Si aggiunga chedall’Italia stessa l’Austria restava divisa da un muro didiffidenza, dovuto al suo passato di grande nemica del-l’irredentismo italiano e al suo presente di protettrice diquello sud-tirolese, dedito allora anche ad attività terro-ristiche. Il centro di un potente e brillante impero mul-tinazionale era così ridotto al ruolo di una provincia pe-riferica dell’Occidente, lungo il nuovo limes con i paesidell’Est europeo. La ricostruzione, prima, e la ripresaeconomica, poi, peraltro fortemente connotate in senso“dipendente”, non bastavano a compensare la profon-da crisi culturale in cui era piombato il paese, resa an-cora più evidente da una “cultura di massa” caratteriz-zata dalla somministrazione, al cinema, alla radio e allatelevisione, di massicce dosi d’improbabili storie dicontadinelle e di arciduchi, un «castello di sogni» (Ste-fan Zweig) sorretto anche da talune iniziative di “pre-stigio” della “cultura alta”, ispirata sin troppo spesso al-le medesime nostalgie (come il rituale Concerto di Ca-podanno, invariabilmente concluso dalla Marcia di Ra-detzky, penosamente ritmata dai battimani del pubbli-co). Da ciò anche buona parte dei problemi insortiquando, con il tracollo dei regimi dei paesi dell’Est e lacrisi balcanica, l’Austria è diventata, sempre di più, unpaese d’immigrazione: un’immigrazione non scelta, masubita, proprio come la sua neutralità. Non sorprende

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pertanto lo sviluppo, nel corso degli anni novanta, di ri-vendicazioni identitarie frammiste a reazioni xenofobe,come quelle che hanno portato nel 1998 a un vistososuccesso elettorale del Partito della libertà di Haider(un partito dell’estrema destra, la cui importanza è sta-ta peraltro assai sopravvalutata all’estero, soprattutto dachi non attendeva altro per poter gridare al ritorno diun pericolo fascista o nazista nell’Europa continentale:il riferimento, non casuale, è all’ormai specializzato“Economist”, che ha dedicato a Haider, così come adaltri sgraditi leader continentali, dei numeri evidente-mente dettati dal livore politico).

Nel 2000 l’Austria, su un totale di 8 065 000 abitanti,contava 760 000 stranieri, pari al 9,4% della popolazio-ne, per l’86,1% extracomunitari (in ciò seconda solo al-l’Italia, in cui però la percentuale degli stranieri era so-lo un quarto della sua). I più sono presenti per motividi lavoro (circa 250 000), ma parecchi sono quelli uffi-cialmente riconosciuti come rifugiati (circa 20 000, cioèpiù che in Italia). Alta, in ogni caso, è la disoccupazio-ne, sia nella popolazione totale (circa il 7%), sia fra glistranieri (oltre l’8%). Non pochi pertanto sono gli au-striaci, anche qualificati, che hanno preferito emigrare,soprattutto verso la Germania e la Svizzera.

Abbastanza numerose sono anche le naturalizzazioni,almeno da quando (1993) il periodo di residenza legalerichiesto è stato dimezzato (da 10 a 4 o 5 anni). Negliultimi tempi ne hanno beneficiato circa 25 000 personeall’anno: turchi, ex jugoslavi, rumeni, in prima linea. Vasottolineato che le domande di naturalizzazione sonostimolate anche dalla difficoltà di trovare lavoro per chinon abbia la cittadinanza.

L’ingresso nell’Unione Europea, avvenuto con l’ulti-mo drappello dei paesi che vi sono stati ammessi nelloscorso decennio (1995), ha cominciato a ridare un certo

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slancio al paese, che ha altresì beneficiato della mutatasituazione geopolitica dell’Est europeo. Anche l’ormaiavvenuta definizione di ogni vertenza con l’Italia (salvol’improbabile ritorno di anacronistiche ventate naziona-liste al di là e al di qua del Brennero) è stato uno svilup-po positivo, destinato a giovare a entrambi i paesi.

La Svezia, fra welfare State e multiculturalismo

La Svezia è per dimensioni il più grande paese dell’Eu-ropa settentrionale e il terzo paese dell’Unione europea,dopo la Francia e la Spagna. Con una superficie di cir-ca 450 000 km2 (compresi 40 000 km2 di acque interne),si estende per 1500 km nella parte orientale della peni-sola scandinava, che condivide con la Norvegia, da cuila separa la più lunga frontiera terrestre europea. È di-visa in tre regioni naturali: il Norrland, lo Svealand e ilGötaland. La prima, la più settentrionale e la più gran-de, che occupa i 2/3 della superficie del paese, è peròquasi disabitata, per ragioni climatiche dovute a latitu-dine e montuosità; le altre due, caratterizzate da un cli-ma più mite, anche per gli effetti indiretti della corren-te del Golfo, sono invece abbastanza densamente po-polate. Il 90% dei suoi abitanti, circa 9 000 000, vive inrealtà nelle due regioni situate a sud del 60° parallelo(che segna il limite settentrionale delle grandi città eu-ropee, una “cintura urbana” che comprende Oslo, Hel-sinki, San Pietroburgo e Tallin), con forti addensamen-ti attorno a tre città: Stoccolma, la capitale, e Göteborge Malmö, sorte come centri portuali di fronte alla Da-nimarca. Ciò rende poco significativo il dato della bas-sa densità media (22 ab./km2). La popolazione è piut-tosto omogenea, sia dal punto di vista etnico, sia daquello culturale e religioso, anche per il relativo isola-

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mento che ha caratterizzato in passato il paese. In effet-ti due sole sono le minoranze autoctone di qualche con-sistenza, i lapponi (circa 10 000), concentrati nella partepiù settentrionale del paese, oltre il circolo polare arti-co, e i finnici (circa 30 000), concentrati nelle aree adia-centi al confine con la Finlandia, tracciato senza tropporiguardo per le realtà etniche agli inizi dell’Ottocento,quando questo paese fu separato dalla Svezia ed erettoin granducato dipendente dalla Russia. La Svezia è unamonarchia costituzionale parlamentare e osserva sin dal1818 una politica di neutralità internazionale. Ciò le hapermesso di attraversare quasi indenne le due grandiguerre mondiali e anche la successiva guerra fredda, purtrovandosi situata tra la Finlandia, allora legata all’URSS

da un patto ineguale di “amicizia e mutua assistenza”(1948), e la Norvegia, paese co-fondatore della NATO

(1949). Ha così potuto dedicarsi con tranquillità alla co-struzione della sua “società del benessere”, nonostantele scarse risorse naturali: le foreste, che occupano oltreil 60% delle sue terre, alcuni giacimenti minerari e so-prattutto le acque, che le consentono un’abbondanteproduzione di energia elettrica a buon mercato. Il suoprodotto lordo pro capite è assai superiore a quello del-l’Italia (20%), ma il suo indice di “sviluppo umano” loè molto di più (nel 2003 la Svezia era al terzo posto diquesta classifica, preceduta da due altri paesi nordici, laNorvegia e l’Islanda, mentre l’Italia figurava al ventune-simo posto). Le sue condizioni di vita sono in effetti ec-cellenti da molti punti di vista, grazie anche al buon go-verno, consentito dalla fattiva collaborazione di istitu-zioni statali, imprese pubbliche e private, sindacati ecooperative, e il suo welfare è diventato addirittura pro-verbiale, anche se di recente è stato un po’ ridimensio-nato (così come in molti altri paesi) per varie ragioni, fracui l’invecchiamento della popolazione.

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Le prime notizie sul paese risalgono a Tacito, che nelsuo libro sulla Germania (scritto sul finire del I secolod.C.) menziona i suiones che l’abitavano. Peraltro vive-vano allora in Svezia almeno due diverse popolazionigermaniche, i goti al sud e gli svear più a nord. Questiultimi finirono poi per estendere il loro controllo su tut-to il paese, il cui nome nella lingua nazionale, Sverige(da svear e rike), significa appunto “Regno degli svear”.Il centro di questo Stato, ancora primitivo per la sua or-ganizzazione tribale, era situato nella zona di Uppsala,ove avevano sede i re-sacerdoti e il santuario del dioOdino. A partire dall’VIII secolo gli abitanti delle re-gioni scandinave (chiamati in Occidente vichinghi, cioè“guerrieri”, o normanni, cioè “uomini del nord”, e inEuropa orientale, dove andavano per lo più come mer-canti, partendo dalla Svezia, vareghi o variaghi) diederoavvio a un serie di scorrerie, spedizioni, invasioni e con-quiste, grazie alle loro navi a chiglia piatta che permet-tevano loro sia di compiere lunghe traversate marittime,sia di risalire i fiumi anche meno profondi. Verso sud leloro mete principali furono l’Irlanda (attaccata nel 795e poi conquistata e utilizzata come base per i commer-ci), le isole britanniche (che sottomisero a partire dallaseconda metà del IX secolo) e le regioni continentali delMare del Nord e della Manica, fra cui la Normandia,che da loro prese nome (IX-XI secolo). Da qui poi, co-steggiando la penisola iberica, penetrarono nel Medi-terraneo, s’insediarono in Sicilia (1027) e in altre partidell’Italia meridionale, entrando in conflitto con arabi ebizantini, e parteciparono da protagonisti alla primacrociata (conclusasi con la presa di Gerusalemme nel1100). A est, attraversando il Baltico e poi seguendo ilcorso dei fiumi e i numerosi laghi della regione (fra cuiil Ladoga, su cui istituirono delle basi importanti), rag-giunsero Kiev e Novgorod, il più antico nucleo della

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Russia, e si spinsero sino al Mar Nero e al Mar Caspio(IX-XI secolo), da cui intrattennero rapporti con Co-stantinopoli, l’Iran e la Cina (vendendo pellicce, armi eschiavi e acquistando spezie e seterie destinate all’Inghil-terra e alla Francia). A ovest, attraversando l’Atlantico,colonizzarono l’Islanda (874) e raggiunsero la Groen-landia (985) e, da qui, occasionalmente, la mitica Vin-land, probabilmente l’isola di Terranova, nel continen-te americano.

Attorno all’anno 1000 la Svezia iniziò la sua conver-sione al cristianesimo, anche se nel popolo sopravvisse-ro a lungo credenze e tradizioni germaniche. Dissoltosipoi alla morte di Canuto il Grande (1035) il fragile “im-pero nordico” fondato da questo vichingo cristiano cheaveva cinto a un tempo le corone di Inghilterra, Dani-marca e Norvegia, la Svezia cominciò ad avviare auto-nome relazioni commerciali con le città anseatiche e ini-ziò la conquista della Finlandia, che concluse nel 1284.Ma dovette altresì lottare per difendere e poi recupera-re la propria indipendenza. I tre regni scandinavi furo-no infatti unificati nel 1389 da Margherita, la regina diDanimarca e di Norvegia, cui una parte della nobiltàdel paese aveva offerto anche la corona della Svezia. Se-guirono aspri scontri tra le fazioni, caparbie rivolte e re-pressioni cruente, con orrendi massacri, come il “bagnodi sangue” di Stoccolma (1520), ordinato dal re Cristia-no di Danimarca nel tentativo di stroncare la resistenzasvedese. Uno dei suoi capi però sopravvisse, assunse lacorona di Svezia con il nome di Gustavo I Vasa (1523-1560) e fondò la prima dinastia nazionale del paese. Po-co dopo egli istituì anche la prima Chiesa di Stato rifor-mata (1527), che, pur essendo in origine più nazionaleche non luterana, ruppe poi completamente con Romae confluì nell’alveo del protestantesimo (1593). Seguìun periodo di torbidi interni e di conflitti esterni per il

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predominio nelle aree del Baltico. Con Gustavo Adolfo(1611-1632) e sua figlia Cristina (1632-1654) la Sveziaottenne delle significative vittorie militari e realizzò del-le importanti conquiste, sancite poi dalla pace di Vest-falia (1648), che ne riconobbe l’egemonia nell’area nor-dica. In questo periodo, il più glorioso della sua storia,si diffuse nel paese, con qualche ritardo, la grande cul-tura del Rinascimento.

Nel secolo seguente Carlo XII (1697-1718) tentò dirinverdire i fasti di quei suoi predecessori con altre ini-ziative belliche, ma, dopo qualche vittoria, fu sconfittodalla “grande coalizione” costituita dalla Danimarca,dalla Polonia e dalla Russia di Pietro il Grande. La Sve-zia, perduti tutti i suoi possedimenti al di là del Baltico,si ripiegò su sé stessa, «convertendosi da sfolgorantemeteora in una stella fissa» del cielo nordico (Tullio-Al-tan, 1999, p. 38). La fine della grande epopea espansio-nistica aprì però una fase di proficuo sviluppo econo-mico, politico e culturale: un’“era della libertà” con go-verni parlamentari, miglioramenti della convivenza civi-le e notevoli progressi in campo artistico, letterario escientifico (a Uppsala, da tre secoli sede della più anti-ca università dell’Europa settentrionale, fiorirono glistudi e le ricerche a opera di notevoli ingegni, fra cui ilLinneo, riconosciuto maestro dei naturalisti del tempo,mentre a Stoccolma fu fondata una prestigiosa Accade-mia delle Scienze, cui si ricollega parzialmente la tradi-zione dei premi Nobel istituiti agli inizi del secolo scor-so). Nella seconda metà del Settecento fu restauratol’assolutismo, ma con Gustavo III (1771-1792) anche laSvezia conobbe la stagione delle riforme illuminate,nonché la concessione della libertà religiosa (sia pursenza piena uguaglianza, giacché i sovrani e i governan-ti dovevano essere di religione luterana: una condizionepoi costituzionalmente sancita nel secolo seguente).

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Agli inizi dell’Ottocento la Svezia fu coinvolta nel tur-bine delle guerre napoleoniche, in cui, schierandosi alfianco dell’Inghilterra, ma contro la Russia, perse laFinlandia (1808), dopo oltre mezzo millennio di domi-nio. Deposto il sovrano sconfitto, il nuovo re, CarloXIII, designò a proprio erede il maresciallo franceseBernadotte. Questi batté sul campo la Danimarca,strappandole la Norvegia (1814), e, con il nome di Car-lo XIV, assunse il trono, dando avvio all’attuale dina-stia. Al suo lungo regno (1818-1844) seguì quello, me-no felice, del figlio Oscar I (1844-1859), turbato dallerivendicazioni indipendentiste della Norvegia (che fu-rono poi pacificamente soddisfatte nel 1905, con laconcessione di un plebiscito dall’esito scontato). Tra laseconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecentoil paese conobbe un notevole sviluppo per l’avvio del-l’industrializzazione, che tuttavia non bastò ad argina-re un’emigrazione, diventata di massa (tra il 1850 e il1920 lasciarono il paese ben 1,2 milioni di persone, sui5 milioni di abitanti di allora, di cui più di un milionealla volta degli Stati Uniti). Dopo la prima guerra mon-diale, in cui la Svezia mantenne una rigorosa neutralità,fu introdotto il suffragio universale maschile e femmi-nile (1918): una riforma importante, che spianò la stra-da ai successi elettorali della socialdemocrazia, iniziatisubito dopo la grande crisi del 1929, che suscitò nelpaese tensioni e conflitti. I socialdemocratici vinseronel 1932 e poi di nuovo, a maggioranza assoluta, nel1936. Durante la seconda guerra mondiale chiamaronoaltre forze a costituire un governo di “unità nazionale”per fronteggiare la situazione (la Svezia, pur essendorestata neutrale, dovette subire il transito sul suo terri-torio delle truppe tedesche dirette in Norvegia). Peròpoi la socialdemocrazia riprese a governare da sola ocon alleati più o meno omogenei, con due soli interval-

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li (tra il 1976 e il 1982 e tra il 1991 e il 1994), in cui pe-raltro i partiti conservatori temporaneamente ritornatial potere non rimisero in causa le sue più importantiriforme. Si andò così configurando un originale mo-dello sociale: una democrazia ispirata a princìpi socialiavanzati, che assicura a tutti i cittadini notevoli presta-zioni e buoni servizi grazie a un elevato prelievo fisca-le, che assolve anche la funzione di limitare le disugua-glianze, altrimenti destinate a incrementarsi, in un’or-mai da tutti accettata economia di mercato. Sarebbeperaltro sbagliato ritenere che questa società ricca etranquilla, lodevolmente impegnata in molte iniziativeinternazionali di pace e nella cooperazione allo svilup-po dei paesi più poveri, non abbia i suoi problemi. Fraquesti, la consistente disoccupazione, notevolmenteaumentata anche per la difficoltà dei giovani di trovareun lavoro all’altezza delle loro aspettative, alimentateda un’elevata scolarità; l’alto tasso dei suicidi, da ana-lizzare peraltro senza dimenticare il notevole invec-chiamento della popolazione e l’accentuata secolariz-zazione; la diffusione delle tossicodipendenze fra i gio-vani e dell’alcolismo fra gli anziani; e il malessere poli-tico che di quando in quando emerge, come testimo-niano la pur minoritaria presenza di aggressivi movi-menti xenofobi, alcuni dei quali anche di dichiaratoorientamento neonazista (cfr. Bjørgo, 1997), e gli at-tentati, di non chiara matrice, di cui sono stati vittimedue esponenti di spicco del Partito socialdemocratico,il primo ministro Olaf Palme (1986) e la ministra degliEsteri Anna Lindh (2003).

Caduto il muro di Berlino e dissoltisi i regimi dell’Esteuropeo, la Svezia, pur senza rinunciare a quella neu-tralità che aveva mantenuto anche negli anni più diffici-li della guerra fredda, è entrata a far parte dell’UnioneEuropea, assieme all’Austria e alla Finlandia (1995). Ma,

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diversamente da questi due paesi, non ha voluto aderi-re alla moneta unica europea, temendone i rischi e icontraccolpi su un’economia già in difficoltà per l’altolivello dei salari e delle imposte (il passaggio all’euro èstato respinto ancora una volta nel settembre 2003, inun referendum tenuto solo pochi giorni dopo l’uccisio-ne della Lindh, che si era pronunciata per la sua intro-duzione).

Sino agli anni trenta la Svezia era stata un paese diemigrazione (salvo un’immigrazione antica, di mercantie artigiani, soprattutto dalla Germania, iniziata già nelXII secolo, ma di dimensioni tanto contenute da confi-gurarla, secondo i dati del censimento del 1910, comeuno dei paesi europei con il minor numero di stranieri).La sua industrializzazione, più tardiva di quella dellamaggior parte dei paesi dell’Europa centro-settentrio-nale, aveva ben poco inciso sul suo prevalente carattereagricolo, causa prima della sua emigrazione. Peraltro,già prima della seconda guerra mondiale era iniziatauna certa immigrazione, cui si accompagnò, a partiredall’avvento del regime nazista in Germania, un arrivodi rifugiati, che aumentò poi durante la guerra. Quan-do questa finì, la Svezia, che grazie alla neutralità avevaconservato intatto il suo apparato produttivo, conobbeun rapido sviluppo, anche per la consistente domandadi beni di consumo da parte degli altri paesi europei,usciti semidistrutti dalla guerra, e ciò sollecitò l’immi-grazione. In proposito la politica della Svezia fu almenoagli inizi molto liberale. I numeri erano del resto piut-tosto contenuti (negli anni cinquanta la media fu di cir-ca 10 000 arrivi all’anno) e gli immigrati per lo più pro-venivano dai vicini paesi nordici, con cui la Svezia nel1954 istituì un vero mercato comune del lavoro. Ne be-neficiarono soprattutto i migranti finlandesi, un 20%dei quali apparteneva del resto alla minoranza svedese

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della Finlandia, assai più numerosa di quella finlandesedella Svezia. La domanda di lavoro crebbe ancora neldecennio seguente, di pari passo con lo sviluppo di unasocietà dai più alti consumi, richiamando altra immi-grazione (negli anni sessanta gli arrivi furono dai 30 000ai 60 000 per anno, nonostante che dal 1967 il rilasciodel permesso di soggiorno fosse stato sottoposto allacondizione di aver già ottenuto un permesso di lavoroprima dell’ingresso nel paese). Il picco fu toccato nel1970, quando i lavoratori stranieri avevano raggiunto ilnumero di 228 000, per il 50% finlandesi. Due anni do-po la già più volte citata “crisi del petrolio” indusse achiudere le frontiere a un’ulteriore immigrazione permotivi di lavoro. Quel provvedimento, sollecitato dallepotenti organizzazioni sindacali, preoccupate di tutelarei lavoratori svedesi, precedette anzi la chiusura operatain altri paesi. Ciò non comportò tuttavia un arresto tota-le dell’immigrazione, anche perché il blocco non potevaconcernere i cittadini dei paesi nordici. Nel 1980 i lavo-ratori nati all’estero arrivarono così a circa 500 000, parial 10% della forza-lavoro: 250 000 con cittadinanzastraniera e quasi altrettanti con cittadinanza svedese ac-quisita per naturalizzazione. Stava però decisamentemutando la fisionomia dell’immigrazione. Basti dire chein quell’anno gli arrivi dall’area nordica (16 200) eranogià stati superati da quelli da altre aree (18 200). Nelfrattempo era cresciuto anche il numero dei rifugiati(dalle sporadiche domande di asilo degli anni sessanta,per lo più di cittadini dell’Europa orientale, si era pas-sati alle 10 000-30 000 domande della fine degli annisettanta e degli inizi degli anni ottanta, provenienti perlo più da cittadini di paesi del Terzo Mondo: iraniani,iracheni, cileni, argentini, peruviani, curdi ed eritrei). Ilnumero delle domande di asilo crebbe ancora di più neldecennio seguente, sino ad arrivare a oltre 170 000 fra

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il 1992 e il 1994, in gran parte di originari dell’ex Jugo-slavia sconvolta dalle guerre intestine. Del resto, per l’i-spirazione umanitaria della sua politica, la Svezia accet-tava anche domande di asilo non rispondenti ai requi-siti previsti dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati.Inoltre, sin dagli anni settanta, la Svezia si era impe-gnata ad accogliere, oltre a chi le chiedeva direttamen-te rifugio, una piccola quota dei profughi ospitati neicampi di raccolta gestiti dalle organizzazioni interna-zionali (circa 1250 l’anno). Così alla metà degli anni no-vanta su 8,8 milioni di abitanti la Svezia era arrivata acontare quasi un milione di nati all’estero e le “personedi origine straniera” (definizione che comprendeva, ol-tre ai precedenti, anche quelli con almeno un genitorenato all’estero) erano ormai diventati 1,6 milioni, pocomeno di un abitante su cinque (benché gli “stranieri”fossero molti di meno: 474 000, secondo i dati del 2003,pari al 5,3% della popolazione). Ciò imponeva una po-litica specifica, soprattutto per gli immigrati, dato che ilcontrollo delle frontiere risultava meno difficile che inaltri paesi.

In Svezia, in realtà, gli stranieri possono arrivare qua-si solo per mare o in aereo. Pochi sono quelli che attra-versano il pur lungo confine terrestre con la Norvegia emeno ancora quelli che si avventurano nelle fredde elontane aree settentrionali per attraversare quello conla Finlandia. Per quanto concerne gli arrivi dalla Dani-marca il discorso è diverso. Ma, dato che sin dagli annicinquanta i cittadini dei paesi nordici (Danimarca, Fin-landia, Islanda, Norvegia e Svezia) possono passare dal-l’uno all’altro senza passaporto, il controllo ai confinifra loro è ridotto al minimo. Il controllo più importan-te è in realtà operato ai loro confini con altri paesi. Inaltre parole, per la Svezia, che non ha confini terrestricon paesi non nordici, più che il controllo ai porti di ar-

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rivo dei battelli provenienti dalla Danimarca o dallaFinlandia, contava quello effettuato tra la Danimarca ola Finlandia e gli altri paesi. Poche, e dagli esiti a volteanche molto imbarazzanti, erano infatti le richieste didocumenti rivolte al momento dell’ingresso in Svezia aipasseggeri dal sembiante non “nordico”. La situazionesi è poi generalizzata con l’ingresso diretto o indirettodei paesi nordici nel cosiddetto “spazio Schengen”(che ha ridotto anche i controlli fra Danimarca e Ger-mania).

Quanto alla politica per gli immigrati, va sottolineatoche è stata sin dall’inizio assai diversa da quella degli al-tri paesi di cultura lato sensu germanica (la Repubblicafederale tedesca, i Paesi Bassi e gran parte della Svizze-ra). Mentre questi paesi tendevano a considerare gli im-migrati come una mera manodopera destinata a unapermanenza soltanto temporanea (la politica dei “lavo-ratori ospiti” di cui si è detto), la Svezia, che pure pre-vedeva un legame fra permesso di soggiorno e permes-so di lavoro, li trattava come persone di pari dignità eassicurava loro, e alle loro famiglie, il rinnovo quasi au-tomatico di quei permessi e la fruizione di diritti eco-nomico-sociali uguali a quelli dei cittadini. Inoltre, dal1975, furono loro ampiamente riconosciuti anche deidiritti culturali, nell’ambito di un dichiarato “multicul-turalismo” che trovò attuazione soprattutto nelle scuo-le. Le parole d’ordine di tale politica erano uguaglianza,libertà di scelta e partecipazione.

A monte di questa impostazione vi era la specifica cul-tura politica del paese, quale si era andata ridefinendocontestualmente all’affermarsi del welfare State (ispiratoin Svezia, almeno in parte, alla tradizionale solidarietàdel folkhem: la “casa (o, meglio, il focolare) del popolo”.In Svezia esiste da tempo un vasto e radicato consensosui compiti e sulle funzioni delle organizzazioni sociali.

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In caso di particolari bisogni (dovuti ad anzianità, ma-lattia, incidenti ecc.) si pensa che il cittadino debba ri-volgersi non già ai suoi famigliari o ai suoi amici, ma aistituzioni pubbliche, incaricate dallo Stato o dagli entilocali di dispensare le necessarie prestazioni. In linea diprincipio tutti hanno un uguale il diritto di accedere atali servizi, indipendentemente dalla propria condizionepersonale o sociale, dal reddito e dalla stessa condizio-ne lavorativa. Si tratta infatti di diritti di “cittadinanzasociale” percepiti come fondamentali e inviolabili.Quando nel paese hanno cominciato a fare la loro com-parsa gli immigrati, tale impostazione ha finito per ap-plicarsi spontaneamente anche a loro, tanto più che lacittadinanza politica non rappresentava un chiaro e net-to confine. Da un lato vigevano norme assai liberali perla sua acquisizione (bastano cinque anni di residenza le-gale, ridotti a due soli per i cittadini dei paesi nordici, edalla metà degli anni novanta è ammessa anche la dop-pia cittadinanza); dall’altro la cittadinanza non è richie-sta neanche per l’elettorato amministrativo attivo e pas-sivo (sin dal 1975 bastano tre soli anni di permanenzalegale). In realtà il permesso di residenza, soprattutto sepermanente, configura una sorta di denizenship, cioèuna condizione intermedia fra quella dello straniero equella del cittadino (cfr. Hammar, 1985, p. 31).

Per quanto concerne più specificamente gli aspetticulturali, sino alla metà degli anni sessanta prevaleva l’i-dea che gli immigrati, allora per lo più provenienti daivicini paese nordici, avrebbero finito per assimilarsi.Con l’aumento dell’immigrazione e con la sua comples-sificazione, questa convinzione cedette a poco a poco ilcampo al riconoscimento della necessità di prevedereparticolari servizi per gli stranieri, specialmente in am-bito educativo. Si cominciò così a prospettare l’idea diun’educazione multiculturale. Nel 1976 fu riconosciuto

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agli stranieri il diritto di richiedere per i propri bambi-ni l’insegnamento della loro madrelingua nelle scuolepubbliche e nel 1979, almeno là dove il loro numeroconsentisse la formazione di classi specifiche, si comin-ciò a utilizzare la madrelingua anche per l’insegnamen-to delle altre materie. Esperienze pilota furono effettua-te con classi in finnico e turco. Già nel 1981 si contava-no in Svezia 300 classi con insegnamento in madrelin-gua, frequentate da 4000 figli d’immigrati; altri 100 000studiavano la madrelingua per due ore alla settimananei primi sei anni dei nove previsti dalla scuola del-l’obbligo, mentre i loro compagni svedesi si dedicava-no ad altre attività. Almeno altrettanti erano figli d’im-migrati che, per scelta dei genitori, seguivano invece ilnormale curriculum. Esperimenti d’insegnamento inmadrelingua sono stati effettuati anche nelle scuole su-periori. L’idea di fondo cui questo programma s’ispira-va era il perseguimento di un “bilinguismo attivo”, ingrado di assicurare sia un adeguato inserimento nelmondo del lavoro, sia il mantenimento dei legami coni familiari e il paese di origine. L’operazione aveva uncosto non indifferente, ma vi si poteva far fronte graziealle imposte pagate dagli stessi immigrati, impiegatiquasi tutti regolarmente in un paese in cui con le tassenon si scherza.

Di meno facile soluzione sono state altre questioni,dibattute anche altrove, legate alle pratiche religiose. InSvezia la macellazione kasher degli ebrei e quella halaldei musulmani sono proibite per evitare inutili soffe-renze agli animali. Con gli ebrei è stato però possibilearrivare a un compromesso, perché anche molti rabbiniortodossi hanno finito per accettare lo stordimento de-gli animali prima della loro uccisione. Ma molta carnemacellata conformemente a quelle prescrizioni religiosedeve ancora essere importata.

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Un altro tema assai dibattuto è quello della condizio-ne della donna, che in molti gruppi d’immigrati conti-nua a essere inferiore, in contrasto non solo con le nor-me costituzionali, ma anche con un costume caratteriz-zato, anche prima che in molti altri paesi europei, dallacompleta emancipazione femminile. La questione è sta-ta portata drammaticamente alla ribalta dall’omicidioper motivi di onore, organizzato come una vera e pro-pria esecuzione, di cui è stata vittima nel 2001 una ra-gazza curda, Fadime Sahindal, che aveva voluto sce-gliersi il proprio ragazzo, rifiutando il matrimonio com-binato dai suoi genitori. Ciò ha portato alla costituzio-ne di comitati e di associazioni interculturali per la pro-mozione dei diritti delle donne immigrate.

Vi è inoltre una contraddizione, parziale, ma genera-le, tra welfare State e multiculturalismo. Là dove lo Sta-to si assume compiti altrove affidati alle famiglie o alleassociazioni e alle organizzazioni private risulta più dif-ficile venire incontro alle esigenze di individui ed etniedi cultura diversa (basti dire che ci sono voluti più divent’anni dall’entusiastica proclamazione della politicamulticulturale perché a Stoccolma venisse aperta la pri-ma moschea). Il recente ridimensionamento dell’inter-vento statale può quindi forse favorire in modo indiret-to lo sviluppo di risposte più adeguate ai problemi po-sti dalle nuove immigrazioni. Va però ricordato che,prima che di ordine culturale, questi problemi sono diordine sociale. La concentrazione degli immigrati in de-terminate aree urbane, dovuta non a scelte politiche,ma a fattori economici, ha comportato anche in Sveziaun pericoloso aumento di tensioni e di conflitti. D’altraparte l’“eccezionalità svedese” sembra forse essere arri-vata al capolinea, perché anche per la Svezia si è apertaormai una fase caratterizzata dalla crescente importan-za delle decisioni assunte in sede europea.

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Un paese “candidato”: la Polonia

A conclusione di questa rassegna dei principali paesid’immigrazione dell’Unione Europea, gioverà aggiun-gere qualche parola sulla Polonia, un paese che entreràa farne parte il 1° maggio 2004. Dei 10 paesi che diven-teranno membri dell’Unione in quella data, la Polonia èdel resto quello di gran lunga più popoloso ed econo-micamente più importante (con oltre 38 milioni di abi-tanti conta per quasi la metà della loro popolazione edel loro prodotto interno lordo). Per di più la Polonianon nasconde la sua intenzione di giocare in seno all’U-nione un ruolo di media potenza e ha già cominciato afar pesare la sua presenza bloccando, assieme alla Spa-gna, l’approvazione del trattato costituzionale al Consi-glio europeo di Bruxelles (dicembre 2003), cui è inter-venuta di pieno diritto in quanto paese candidato.

La Polonia costituisce un tipico caso di nazione etnico-culturale, di chiara ispirazione romantica, che si è costi-tuita in Stato moderno dopo una singolare vicenda sto-rica, come risultato della caparbia resistenza della suapopolazione (rafforzata dal sostegno della Chiesa catto-lica) all’annientamento della sua identità, perseguito nelcorso dei secoli dai suoi potenti vicini: i tedeschi prote-stanti della Prussia e poi della Germania nazista e glislavi ortodossi della Russia e poi dell’Unione Sovietica,cui si sono aggiunti spesso anche i cattolici dell’Imperomultinazionale asburgico.

Formatasi in una regione di passaggio tra l’Europacentrale e l’Europa orientale, priva di elementi morfo-logici atti a distinguerne chiaramente il territorio, la Po-lonia conobbe di volta in volta espansioni anche note-voli, invasioni e amputazioni distruttive e perfino dellereiterate spartizioni fra le potenze confinanti (nel 1772,nel 1793, nel 1795 e nel 1815), che ne cancellarono l’e-

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sistenza come formazione politica indipendente tra lafine del XVIII secolo e la conclusione della prima guer-ra mondiale (1918). Per più di un secolo restò così unanazione senza Stato, agitata da moti indipendentisti eda rivolte spesso soffocate nel sangue (è diventata addi-rittura proverbiale la frase «L’ordine regna a Varsavia»,pronunciata da un ministro francese dopo la repressio-ne zarista del 1831). Anche dopo la prima guerra mon-diale, del resto, l’indipendenza polacca fu minacciata eil paese scomparve di nuovo, sia pure per un breve pe-riodo, in seguito alla nuova spartizione operatane daGermania nazista e Unione Sovietica (1939) dopo ilpatto Ribbentrop - Molotov e poi all’occupazione tede-sca quando, rompendo quel patto, la prima attaccò la se-conda (1941). La Polonia rinacque poi, dopo la sua “li-berazione” da parte dell’Armata Rossa (1945), entro inuovi confini imposti da Stalin nei suoi negoziati con glialleati negli ultimi anni della seconda guerra mondiale.Restò però una “repubblica popolare” a sovranità limi-tata nell’ambito del blocco sovietico, da cui poté eman-ciparsi solo più di un quarantennio dopo, con il tracol-lo dell’URSS, pur avendo già riacquistato prima alcunelibertà grazie alla lotta tenace dei movimenti di opposi-zione e, più in particolare, di un coraggioso sindacato diprevalente ispirazione cattolica, Solidarnosc, sostenutodalla Chiesa.

Dopo la seconda guerra mondiale il paese, che primapresentava una significativa presenza di minoranze et-nico-culturali, pari a circa il 30% della popolazione, haacquisito una pressoché totale omogeneità, per l’espul-sione, a ovest, della consistente minoranza tedesca e la“ricolonizzazione” dei “territori recuperati” grazie allospostamento del confine occidentale alla linea dei fiumiOder e Neisse e il rientro, a est, delle minoranze polac-che dai territori a maggioranza lituana, bielorussa e

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ucraina passati all’Unione Sovietica e poi ai suoi Statisuccessori (ben 8 milioni di persone). D’altra parte laminoranza ebraica, assai numerosa prima della secondaguerra mondiale (circa 3,5 milioni di persone), è statacostretta ad andarsene o è stata quasi completamentesterminata (3 milioni di morti) durante l’occupazionenazista (gli ebrei sono ora solo 12 500, meno della metàdi quelli presenti in Italia). Ciò nondimeno l’antisemiti-smo continua ad allignare anche nella nuova Polonia,formalmente democratica e progressista, ma guidata(dopo una pur importante parentesi che ha visto al go-verno gli uomini di Solidarnosc) da personaggi e parti-ti legati all’esperienza del “comunismo nazionale” po-lacco. Peraltro, per assicurare la propria indipendenzacontro un eventuale colpo di coda delle pretese egemo-niche russe, la Polonia ha istituito un rapporto privile-giato con gli Stati Uniti, secondo la ben nota tendenzadei paesi più deboli a preferire un “padrone” lontano alrischio di un “padrone” vicino (da ciò anche la parteci-pazione polacca alla guerra americana in Iraq, contra-stata invece vivacemente da Francia e Germania). Que-sto rapporto dovrebbe garantire la Polonia sul pianomilitare, cosa che l’Unione Europea non è in grado difare, mentre l’adesione a quest’ultima dovrebbe accele-rarne la ripresa economica, peraltro già cominciata, do-po la grave crisi degli anni ottanta. Forse per questo ta-le adesione è stata votata con largo consenso dai suoicittadini (il 77% del 59% dei votanti), nonostante i pre-vedibili contrasti con la Francia, per la politica agricola,e con la Spagna e la Grecia, per la ripartizione dei fon-di strutturali.

Anche la Polonia, che è stata a lungo un paese di emi-grazione verso gli Stati Uniti e l’Europa occidentale eancora manda all’estero molti suoi cittadini per motividi lavoro, è diventata nel corso degli anni novanta un

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paese d’immigrazione, dai vicini paesi dell’Est e ancheda paesi più lontani. Ciò ha suscitato nel paese delle dif-fuse preoccupazioni soprattutto per ciò che concerne laconcorrenza dei nuovi arrivati sul mercato del lavoro.

Nonostante il limitato numero degli immigrati rego-lari (meno di 50 000, secondo i dati del 2000), nel pae-se esistono ormai consistenti gruppi etnici almeno inparte originati dai nuovi movimenti migratori. I più nu-merosi sono i bielorussi e gli ucraini (300-400 000 pergruppo, comprese peraltro le preesistenti minoranze in-terne), ma non mancano i greci, i macedoni, i palestine-si, i curdi, i pachistani, i vietnamiti.

Queste presenze sono in parte collegate al fiorentebusiness delle frontiere. Un contrabbando assai difficileda controllare anche per le diffuse connivenze dà da vi-vere a migliaia di persone al di qua e al di là dei confinicon l’Ucraina e la Bielorussia. In Ucraina i contrabban-dieri portano carburanti, alcolici e prodotti contraffattidi varia natura e ritornano con materiali da costruzionee prodotti di largo consumo. A ciò si aggiunge il traffi-co di armi, droghe, anabolizzanti e opere d’arte vere efasulle (icone che in Ucraina valgono pochi dollari inOccidente vengono vendute anche a mille volte tanto).Complessivamente queste attività producono diretta-mente o indirettamente, secondo alcune stime giornali-stiche, il 20% del prodotto interno lordo polacco. A ciòsi aggiunge la consistente immigrazione clandestina, fa-cilitata dal fatto che lungo le frontiere (1200 km) nonesistono ostacoli naturali e i posti di controllo distanoalmeno 30 km l’uno dall’altro. L’Unione Europea ha co-minciato a finanziare da tempo la costruzione di nuoviposti di controllo e si è fatta carico del 10% dei costidella sorveglianza. Ma ciò non basta certo a eliminare ilproblema, che nasce anche dal carattere artificiale dellefrontiere a suo tempo imposte e dai conseguenti mas-

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sicci rimescolamenti di popolazione e sconta, più in ge-nerale, gli effetti della tragica storia del paese (cfr. Euri-sko, 2003, p. 18).

Ciò nondimeno l’accoglienza degli immigrati è civile,solo raramente vengono operati dei rimpatri forzati e ilperiodo di permanenza legale richiesto per l’acquisizio-ne della cittadinanza è di cinque anni e quindi sta nellamedia europea.

Due altri paesi europei: la Svizzera e San Marino

La Svizzera è il paese europeo al di fuori dell’Unione Eu-ropea che conta il più alto numero d’immigrati: 1 485 000nel 2003, pari al 20,3% della popolazione, la percentua-le più alta in Europa, dopo quella dei due piccolissimiStati del Liechtenstein e del Lussemburgo.

Pur essendo un paese di dimensioni limitate, tantoper estensione (41 000 km2) che per popolazione (pocopiù di 7 300 000 abitanti, meno quindi della Lombar-dia, che su 24 000 km2 ne conta quasi 9 milioni), è un’u-nità piuttosto complessa (una confederazione, secondola sua pur impropria denominazione ufficiale), checomprende “cantoni” di lingua diversa (il 63,9% dellapopolazione parla tedesco, il 19,2% il francese, il 6,6%l’italiano, lo 0,5% il ladino retoromancio, il 9,5% altrelingue), alcuni di prevalente religione cattolica e altri diprevalente religione protestante (principalmente la“Chiesa riformata” di Calvino e Zwingli). Il paese è ca-ratterizzato da una singolare cultura politica. Fonda-mento della nazione è la fedeltà alla Costituzione (1848)che, assicurando l’autonomia dei “cantoni” e le cosid-dette “libertà degli svizzeri”, consente di trascendere,nel momento stesso in cui le riconosce e le legittima, le

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particolarità etnico-culturali presenti nella Confedera-zione e, più in particolare, le pur importanti differenzelinguistiche e religiose, che avevano determinato in pas-sato sanguinosi conflitti. Un “patriottismo costituziona-le” ante litteram sublima insomma le diversità, trasfor-mandole, da un potenziale elemento di disgregazione,in un’importante risorsa, fonte di forza e di ricchezzamateriale e spirituale.

La Svizzera, «nata nel Medioevo e dal Medioevo»(De Reynold, 1939), si è formata non per unificazione,ma per aggregazioni successive, a partire dal patto(1291) dei tre mitici “cantoni della foresta” (Schwyz,Unterwalden e Uri), cui si aggiunsero via via tutti gli al-tri (l’ultimo fu quello di Ginevra, nel 1815). Questoprocesso fu avviato dalla volontà di difendersi da vicinipotenti e prepotenti senza perdere la propria autono-mia (la Confederazione, pur essendo ormai da tempodivenuta uno Stato federale, è tuttora costituita, in teo-ria, di piccole entità sovrane, coincidenti per lo più coni “cantoni”, che hanno volontariamente rinunciato auna parte della propria sovranità per perseguire assiemeil bene comune). La cittadinanza svizzera si acquistapertanto tramite l’appartenenza a uno di questi cantoni,anche se è sempre garantito ai cittadini il diritto di cam-biare cantone. Per gli stranieri è assai difficile (e anchecostoso) acquisire tale cittadinanza (che d’altra parte as-sicura anche dei notevolissimi benefici economici),mentre è più facile conseguire la residenza permanentee i relativi diritti. La paura dell’Überfremdung (comeviene definito in lingua tedesca l’“inforestieramento”,contro cui si è pronunciato sin dal 1924 il Consiglio fe-derale svizzero) ha peraltro sollecitato varie iniziativereferendarie dagli accenti a volte schiettamente xenofo-bi (come quelle, tristemente famose, promosse daSchwarzenbach e dell’Azione nazionale, negli anni ses-

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santa e settanta), intese a espellere gli immigrati e a bloc-care un’ulteriore immigrazione (cfr. Castelnuovo Friges-si, 1977). Tali iniziative sono però sempre state respintea maggioranza. Da ultimo, nel 2000, è stata sconfitta an-che la proposta di limitare il numero degli immigrati al20% della popolazione, il che avrebbe comportato unachiusura pressoché completa all’immigrazione, dato chegli stranieri già rappresentavano in quell’anno il 19,8%della popolazione. La Svizzera, paese costituzionalmen-te neutrale, sede europea dell’Organizzazione delle Na-zioni Unite e sede principale della Croce Rossa inter-nazionale, dell’Ufficio internazionale del lavoro e del-l’Organizzazione mondiale delle migrazioni, fa, d’altrocanto, ben più che la sua parte per l’accoglienza dei ri-fugiati, secondo la convenzione firmata oltre cin-quant’anni fa (1951) proprio in una delle sue principa-li città, Ginevra (un impegno forse anche motivato daltriste ricordo delle tremende conseguenze che ebbe asuo tempo il suo rifiuto di accogliere tanti ebrei dellaconfinante Germania, all’insegna del detto “la barca èpiena”). A uno scrittore svizzero, Max Frisch (1965), sideve, in ogni caso, l’affermazione, poi divenuta emble-matica dei problemi posti dalle nuove migrazioni inter-nazionali e, più in particolare, da quelle della prima fa-se post-bellica: «Abbiamo cercato braccia, sono venutepersone».

Vale la pena di ricordare che, prima di diventare unpaese d’immigrazione, la Svizzera è stata a lungo, sinoalla fine dell’Ottocento, un paese di emigrazione, cheha esportato per secoli lavoratori più o meno qualifica-ti e anche mercenari, di cui le “guardie svizzere” dellaCittà del Vaticano costituiscono un’ultima espressione(si calcolano a circa un milione i caduti svizzeri nelleguerre che hanno insanguinato l’Europa tra il XV e ilXIX secolo). Anche la parola “nostalgia”, in apparen-

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za di antica origine per le sue radici greche (nóstos =viaggio e álgos = dolore), è stata in realtà coniata inSvizzera, in tempi relativamente recenti (nel 1688, daJohannes Hofer, un medico di Basilea), proprio per de-finire lo strano malessere che colpiva molti giovani del-la Svizzera interna costretti a lasciare la propria terra ela propria famiglia per andare a guadagnarsi da viverealtrove (cfr. Melotti, 1998; anche Castelnuovo Frigessie Risso, 1982). Ricordo questo fatto, così spesso igno-rato o dimenticato, perché ci aiuta a capire che il pas-sato di emigrazione di un paese non basta a garantireun carattere aperto e solidale alla sua politica d’immi-grazione.

La Repubblica di San Marino presenta, per alcuni aspet-ti, caratteristiche simili. Anche questo piccolissimo Sta-to (60 km2, meno di 30 000 abitanti), totalmente inclu-so nel territorio italiano, è infatti una repubblica dallasecolare identità premoderna. Peraltro San Marino co-stituisce un caso estremo (e in parte persino grottesco)di jus sanguinis, sia pur contraddittoriamente coniuga-to a una singolare forma di patriottismo costituzionale.A tutela della “bontà dei costumi” e della “onoratezza”dei suoi cittadini e dei suoi abitanti, le sue Leges Statu-tae prevedono che «nessuna persona forestiera, di qual-sivoglia qualità, possa diventare, chiamarsi o intendersicittadino, terriere o abitante della Terra di San Marinoo dei suoi castelli, ancorché avesse abitato in questi luo-ghi, o territorio e contado, continuamente per lo spaziodi cento anni e ivi avesse tenuto la sua sede con la mag-giore parte delle sue sostanze, possedendo anche beniimmobili», con la sola eccezione di coloro cui tale pri-vilegio fosse concesso «peculiarmente» dai capitani reg-genti e dai consiglieri in carica (libro 2°, rubrica 73).Anche «la nascita sul territorio di San Marino da padre

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forestiero non porta mai all’acquisto della cittadinanzasammarinese anche se concorra o la residenza centena-ria o la residenza ultrasecolare attraverso più generazio-ni». Peraltro, per ovviare ai problemi creati da una sif-fatta normativa, sono state poi introdotte di quando inquando – come in tanti altri paesi – delle sanatorie, purpresentate sempre, secondo l’uso, come un fatto “uni-co” e “del tutto eccezionale” (così, per esempio, la leg-ge del 12 settembre 1907), che ne hanno mitigato il ri-gore (benché la prima prevedesse, fra i vari requisiti, laresidenza a San Marino da oltre un ventennio). Anchela politica migratoria è improntata a uno spirito moltorestrittivo, per preservare l’identità del paese. Da ulti-mo, nel 1999, con una decisione unanime del Congres-so di Stato, è stata vietata l’immigrazione per motivi dilavoro alle collaboratrici domestiche di meno di cin-quant’anni, nel timore che queste potessero circuire iloro datori di lavoro per farsi sposare e acquisire così lacittadinanza del paese!

Con tutto ciò, nel 2001 a San Marino gli stranieri era-no 4300, pari al 16,0% della popolazione.

Gli Stati Uniti d’America: dal “melting pot” al multiculturalismo

Gli Stati Uniti, come “nazione d’immigrati” o “nazionedi nazioni”, come si sono talvolta definiti, hanno privi-legiato l’acquisizione della cittadinanza per jus soli (dal-la ratifica del 14° emendamento della Costituzione nel1868) e hanno altresì favorito la naturalizzazione deinuovi arrivati, previa una loro formale professione di“patriottismo costituzionale”: il giuramento di fedeltàalla Costituzione. Peraltro la cultura politica di questopaese è piuttosto complessa e ha conosciuto nel corso

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del tempo dei cambiamenti significativi che è opportu-no ricordare.

Agli inizi prevalse la cultura inglese e protestante dei“padri pellegrini” (pilgrim fathers), che, a partire dal1608, si trasferirono nel Nuovo Mondo con le loro fami-glie, per motivi religiosi, con l’intento di costruirvi unasocietà migliore di quella che si erano lasciata alle spalle(per cogliere l’importanza di questo fatto basta un con-fronto con la conquista iberica dell’America che suol og-gi definirsi latina, dovuta a cadetti spiantati di famigliearistocratiche e ad avventurieri a caccia di titoli nobilia-ri e di ricchezze, accompagnati da missionari fanatici de-siderosi di convertire gli indigeni a un cattolicesimo in-tollerante e corrotto anche a costo della loro distruzionefisica). Tuttavia il carattere anglosassone e protestantedella cultura dominante non trovò mai una chiara con-ferma nelle norme di legge (cfr. Walzer, 1992, p. 9), cherisultarono piuttosto ispirate a un generico deismo (InGod we trust), venato di cosmopolitismo massonico, co-sì come del resto i simboli del potere.

In realtà, già negli ultimi decenni del Settecento eradiffusa l’idea che in quel paese si stesse formando un“uomo nuovo” per effetto della fusione di genti di ori-gine e provenienza diversa, come dimostra la famosaterza lettera di St. John de Crèvecoeur (1782), un fran-cese trasferitosi in America, che descrive gli americanicome «individui di tutte le razze fusi (melted) in unnuovo tipo (race) umano».

Con la continuazione delle immigrazioni dall’Euro-pa, che comportarono l’arrivo di sempre più numerosiimmigrati dall’Irlanda e dai paesi dell’Europa orientalee meridionale (tedeschi, polacchi, italiani, russi, greciecc.), per lo più di religione cattolica, ebraica e orto-dossa, si affermò però poi la convinzione che i nuovivenuti dovessero, almeno in parte, “assimilarsi” alla

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componente wasp (cioè bianca, anglosassone e prote-stante) costituita dai discendenti dei “padri fondatori”(l’“assimilazione” non fu invece mai neppure ipotizza-ta né per gli autoctoni, i cosiddetti indiani d’America,né per i discendenti degli africani portati a forza nelNuovo Mondo come schiavi). A ciò si accompagnò pe-raltro l’idea, soprattutto al tempo della grande immi-grazione di massa a cavaliere tra Ottocento e Novecen-to, che il cittadino americano si formasse, come un quidnovi et pluris, dalla dissoluzione delle diverse identitàoriginarie degli immigrati e dalla sinergica fusione nelnuovo contesto delle loro qualità positive. Anche ilmotto del “grande sigillo” degli Stati Uniti, E pluribusunum (“Da molti uno solo”), originariamente formula-to per descrivere la formazione dell’unità politica fede-rale a partire dai suoi Stati membri, fu così reinterpre-tato da molti come se si riferisse a tale processo. Si dif-fuse in ogni caso l’idea che gli Stati Uniti fossero il gran-de “crogiuolo di Dio”, per dirla con l’icastica metaforache apparve agli inizi del Novecento nel titolo di unafortunata pièce teatrale, The Melting Pot, scritta daIsrael Zangwill, un ebreo britannico entusiasta del pae-se (la commedia, rappresentata per la prima volta a Wa-shington nel 1908, fu poi pubblicata, riveduta e corret-ta, con una dedica al presidente Theodore Roosevelt).

Questo concetto è stato di recente ribadito affer-mando che gli Stati Uniti non sarebbero tanto un’unio-ne di Stati quanto «un’unione di razze, di nazioni e direligioni, tutte disperse e mescolate, senza territori loropropri» (Walzer, 1992, p. 13).

Peraltro, per la persistente predominanza economica,sociale, culturale e politica della componente wasp, ilparadigma dell’anglo-conformity non venne mai menodel tutto, mentre dal pur teorizzato melting pot conti-nuarono a essere a lungo esclusi gli elementi autoctoni

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e quelli di origine africana, che, soprattutto negli Statidel Sud, restarono assoggettati sino alla metà degli annisessanta a odiose forme di segregazione e di discrimina-zione (ormai da tempo dichiarate illegali, ma non anco-ra dappertutto davvero scomparse).

L’idea del melting pot entrò però ben presto in crisi. Cisi dovette infatti rendere conto, grazie anche alle primegrandi ricerche di sociologia urbana, dell’esistenza in mol-te città (e a volte in particolari quartieri) di hyphenatedAmericans, come li definì uno dei primi teorici del plu-ralismo culturale (Kallen, 1924), cioè di “americani coltrattino”, che conservavano almeno in parte, a dispettodell’esaltata “fusione”, le loro originarie identità. Eraquesto il caso, allora, di molti gruppi di immigrati euro-pei e dei loro diretti discendenti (gli italo-americani, ipolacco-americani, i russo-americani, i greco-americani,gli ispano-americani e gli ebrei-americani, per lo piùprovenienti dall’Europa orientale), ma divenne più tardianche quello degli afro-americani, prima neppure consi-derati, degli ispano-americani provenienti dal Messico eda altri paesi dell’America Latina e degli asiatici prove-nienti da Cina, Giappone, Vietnam, Corea, Filippineecc., nonché degli arabi del Nord Africa e del MedioOriente. Alcune di queste componenti si rivelarono peròparticolarmente resistenti a una anche solo parziale fu-sione e si parlò per loro di unmeltable ethnics (Novak,1977). Sin dagli inizi degli anni sessanta era del restoemerso un revival etnico (Glazer e Moynihan, 1963;Smith, 1981) che comportò per determinati gruppi, intermini di affermazione identitaria, effetti simili a quelliche avevano avuto in altri contesti i movimenti di libera-zione nazionale (cfr. Walzer, 1992, p. 60). Anche perquesto il paese, che era già andato ben oltre il suo di-chiarato pluralismo culturale (evocato dalla metafora delsalad bowl, la grande insalata mista in cui ogni ingre-

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diente conserva il suo sapore), ha finito per ridefinirsi inchiave multietnica e multiculturale, anche se con alcuninon lodevoli eccessi di zelo che hanno suscitato più chelegittime preoccupazioni (cfr., per esempio, Schlesinger,1992; Arthur e Shapiro, 1995; Miller, 1998).

I problemi del resto non mancano. A partire dagli an-ni sessanta l’immigrazione è stata sempre molto forte ela quota della popolazione nata all’estero (26,4 milioninel 2000) ha superato il 10%. I nuovi immigrati, giuntia rappresentare circa la metà della crescita della popo-lazione degli ultimi anni, tendono a concentrarsi in al-cuni Stati (più dei 2/3 in California, New York, Florida,Texas, New Jersey e Illinois), alimentando ghetti urba-ni in cui si accumulano le tensioni ed esplodono diquando in quando in distruttive forme di conflittualità(si può ricordare, in proposito, il caso particolarmentegrave, ma non unico, di Los Angeles, messa a ferro efuoco per sei giorni, nel 1992, da gruppi etnici esaspe-rati e violenti, passati alle vie di fatto, con l’esito di ol-tre 600 incendi e 50 morti, dopo l’assoluzione dei poli-ziotti che avevano picchiato a sangue un delinquentellonero che non si era fermato al loro alt).

Dopo gli eclatanti attentati alle Torri Gemelle di NewYork e al Pentagono (11 settembre 2001), l’entusiasmoper il multiculturalismo si è molto raffreddato, tanto daindurre alcuni osservatori a inserire il termine in quel“vocabolario dell’ottimismo” che a loro avviso sarebbestato spazzato via da quegli eventi (cfr. Battista, 2001, p.12). In ogni caso, dopo di allora, sulla stampa e nei di-scorsi correnti, si sono piuttosto moltiplicati i riferi-menti a quello “scontro delle civiltà” fra l’Occidente eil resto del mondo che era già stato teorizzato nel pre-cedente decennio, con sin troppa fortuna, da un menche mediocre politologo di Harvard (cfr. Huntington,1993, 1996).

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L’ideologia predominante continua tuttavia a privile-giare il già accennato “patriottismo costituzionale”, ali-mentato non solo dai notevoli successi politici, econo-mici e militari degli ultimi anni, ma dallo stesso civismodimostrato da tanta parte della popolazione americanain quei tragici momenti (cfr. Melotti, 2002d).

Sono così aumentate negli ultimi anni anche le “natu-ralizzazioni” (574 000 nel 2002), che prima degli anninovanta soltanto in due anni, durante la seconda guer-ra mondiale (1943 e 1944), avevano superato le 300 000unità. Hanno il diritto di farne domanda gli stranieri(aliens) che hanno superato i 18 anni, ottenuto un per-messo di soggiorno e vissuto continuativamente negliStati Uniti per almeno 5 anni. Tra i requisiti richiesti viè anche la conoscenza della lingua e della storia ameri-cana, accompagnata da un “buon carattere morale”, co-sa che introduce nella procedura qualche elemento didiscrezionalità. La concessione avviene con una solennecerimonia collettiva, che prevede, come già detto, unaprofessione giurata di patriottismo costituzionale.

Il Canada: un multiculturalismo precorritore,ma parziale

Il Canada è un altro paese d’immigrazione originariache, a conclusione di un processo storico partito datutt’altre premesse, ha ridefinito in chiave multicultura-le la propria politica per gli immigrati e la sua stessaidentità.

La cultura politica del Canada è peraltro ben diversada quella degli Stati Uniti d’America anche per effettodell’assai più prolungata influenza britannica in granparte del paese e della significativa influenza francese inalcune sue province. D’altra parte la scelta del multi-

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culturalismo (di cui si è cominciato a parlare sin daglianni settanta, con un consistente anticipo sugli altripaesi, ed è poi stata formalizzata nel 1988 con una spe-cifica legge) ha rappresentato anche una risposta, siapur parziale e non da tutti condivisa, a uno dei princi-pali problemi del paese: la suddivisione, che risale allasua stessa colonizzazione, in un’area anglofona (domi-nante sin dal 1763) e in un’area francofona (maggiorita-ria nel Québec e parzialmente presente anche nel NewBrunswick, nell’Ontario e nel Manitoba). Si aggiungache il Québec è da tempo agitato da fermenti indipen-dentisti, che hanno trovato il più o meno aperto soste-gno della Francia (il cui presidente De Gaulle, nel 1967,durante una non dimenticata visita ufficiale, giunse a in-neggiare pubblicamente alla sua “libertà”). In propositovale la pena di ricordare che gli indipendentisti, dopo laloro netta sconfitta nel primo referendum per la sovra-nità del Québec (1980), sono stati superati solo di stret-ta misura nel secondo (1995), per il voto determinantedei cosiddetti “neocanadesi” (i cittadini di recente im-migrazione non appartenenti ai due principali gruppilinguistici), fra cui quelli di ascendenza italiana, terzacomponente storica della sua popolazione. Ciò detto, vaaggiunto che in questo paese, grande, ricco e in granparte ancora sottopopolato, la politica dell’immigrazio-ne è stata sempre relativamente aperta e la concessionedella cittadinanza agli immigrati è sempre stata ispirataa princìpi decisamente liberali (ora la cittadinanza puòessere acquisita in meno tre anni e oltre l’85% degli im-migrati recenti sono diventati cittadini canadesi).

Qualche riferimento geografico e storico può aiutarea inquadrare la situazione. Il Canada, che ha un territo-rio più vasto di quello degli Stati Uniti (9 975 000 km2),è abitato da quasi 32 milioni di persone (2003), un ter-zo dei quali (più di 10 milioni) di origine non britanni-

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ca né francese. La densità è ancora di soli 3 abitanti perkm2 (anche se la popolazione è concentrata per il 90%nella cosiddetta “fascia utile”, una striscia lungo il suoconfine meridionale profonda solo 300 km) e il suo red-dito medio annuo pro capite è di 28 600 dollari (nel2002). I cittadini stranieri che vi vivono sono poco me-no di 5 milioni, pari al 15,6% della popolazione.

Esplorato da Giovanni Caboto (1497-1498), per con-to del re d’Inghilterra, e poi da Giovanni da Verrazza-no (1524-1526), al servizio dei francesi, il Canada fu co-lonizzato inizialmente da questi ultimi, che vi fondaro-no la Nouvelle France, un avamposto in una terra anco-ra fondamentalmente incognita. Passò però sotto il do-minio britannico dopo la guerra dei sette anni, con iltrattato di Parigi (1763), ma il Quebec Act (1774) assi-curò il rispetto della lingua, della cultura e della religio-ne dei coloni francesi e il mantenimento dei privilegidella Chiesa cattolica. Dopo la dichiarazione d’indipen-denza delle tredici colonie americane che avrebbero da-to vita al nucleo originario degli Stati Uniti (1776), perevitare che quelle del Canada fossero tentate di seguir-ne l’esempio la Gran Bretagna concesse loro un’ampiaautonomia (1791). Ciò portò al consolidamento delladivisione fra la comunità francofona del Québec (nel“basso Canada”) e quella anglofona dell’Ontario (nel-l’“alto Canada”), rinsanguata dall’arrivo dagli Stati Uni-ti di consistenti gruppi di “lealisti”, cioè di coloni resta-ti fedeli alla corona britannica. Seguì, dopo la fine delleguerre napoleoniche, il vero e proprio inizio dell’immi-grazione dal Regno Unito, che incrementò i contrastitra i due gruppi linguistici. Nel tentativo di risolverli av-viando l’“inevitabile” assimilazione della comunità fran-cofona, basso e alto Canada furono uniti, ma con lacreazione del dominion del Canada (1867) a tale unionefu data forma confederale.

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Dopo un lento avvio, lo sviluppo del paese fu accele-rato dalla pur illusoria scoperta dell’oro nell’area delloYukon e del Klondike (1896), che stimolò l’immigra-zione da diversi paesi. Un più duraturo impulso allo svi-luppo e all’immigrazione fu dato dalla costruzione del-le grandi ferrovie transcontinentali (la Canadian Paci-fic, completata nel 1885, e la National Canadian, com-pletata nel 1923). Dopo la prima guerra mondiale, cuidiede un consistente contributo, il paese entrò a far par-te del Commonwealth (1926) e ottenne poi la completaindipendenza nel suo ambito (1931).

Alla fine della seconda guerra mondiale cominciò unanuova fase di grande sviluppo, che richiamò una consi-stente manodopera anche qualificata (oltre 3 milionid’immigrati fra il 1946 e il 1968). Agli inizi degli annisettanta la popolazione risultò così composta non piùsoltanto di anglofoni (44,6%) e di francofoni (28,7%)nati nel paese, ma anche di immigrati più o meno re-centi di altra origine (26,7%). Numerosi erano i bilin-gui (12,1%), ma non mancavano quelli che non cono-scevano né l’inglese, né il francese (fra cui molti indianied eschimesi, pari all’1,3% della popolazione). I fran-cofoni erano concentrati nel Québec (62%) e nel Nuo-vo Brunswick (19%), così come quasi la metà dei bilin-gui (45%). Frattanto i cattolici erano aumentati sino acostituire il 46% della popolazione. Con l’esaurirsi del-la grande immigrazione europea, in precedenza privile-giata dal sistema delle “nazionalità preferite”, il Canadadovette aprirsi all’immigrazione da altre aree. Per la se-lezione degli immigrati fu così introdotto un “sistema apunti” (1967), che premiava la competenze, eliminandoogni forma di discriminazione razziale ed etnica ancheindiretta. La conseguenza fu un’accresciuta diversità,che, in un contesto caratterizzato da una notevole di-sponibilità di risorse, ispirò la svolta multiculturale.

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Gioverà ricordare che nei primi novant’anni di vitadella Confederazione era prevalsa la convinzione che gliimmigrati dovessero essere assimilati nell’unica nazionecanadese (One Canada, One Nation), considerata comeeminentemente britannica. Per questo, mentre s’inco-raggiava l’immigrazione dall’Europa (e, più in particola-re, dalla Gran Bretagna) e dagli Stati Uniti, era ostaco-lata, con un’aperta discriminazione, motivata anche conla loro pretesa inadattabilità al clima del paese, quelladei cosiddetti blacks (asiatici, africani e caraibici).

La situazione cambiò profondamente con l’emana-zione del Canadian Bill of Rights (1960), che bandivaogni discriminazione per motivi di razza, origine, reli-gione, colore e sesso e comportò di conseguenza uncambiamento delle norme federali in materia d’immi-grazione (1962). Gli immigrati dai Caraibi, dall’Africa edall’Asia, che nel 1961 rappresentavano meno del 5%dei nuovi arrivati (mentre il 95% veniva dall’Europa edagli Stati Uniti), nel 1990 giunsero a costituirne il70%. La componente di origine non britannica né fran-cese, che nel 1961 rappresentava solo il 25% della po-polazione, nel 1991 arrivò a costituirne il 42%. Le “mi-noranze visibili”, che nel 1961 erano solo il 3%, nel1991 arrivarono al 10% (con concentrazione notevolenelle principali città, come Toronto, Montreal e Van-couver, ove raggiunsero o superarono il 20%).

A ciò si accompagnò il passaggio a una politica di plu-ralismo culturale, che prevedeva l’integrazione, e nonpiù l’assimilazione, delle minoranze etniche, la cui pre-senza cominciò a essere considerata non solo come unanecessità per motivi economici, ma anche come un fat-tore di arricchimento culturale. Nel frattempo la linguainglese e la lingua francese furono riconosciute di paridignità a tutti gli effetti (1969). Nel 1971 fu annunciatadal premier Pierre Elliot Trudeau, un liberale del Qué-

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bec, di padre francofono e madre anglofona, una “poli-tica di multiculturalismo nel quadro del bilinguismo”,cui seguì anche il riconoscimento del diritto delle popo-lazioni autoctone all’autogoverno. Questo “multicultu-ralismo”, non ancora chiaramente definito, intendevavalorizzare il pluralismo etnico e culturale per favorire laconvivenza e la collaborazione nel mutuo rispetto degliormai numerosi gruppi di origine diversa. Al tempo stes-so avrebbe dovuto contrastare o prevenire l’omogeneiz-zazione e la depersonalizzazione della società di massa ele conseguenti situazioni di disagio, promovendo leidentità individuali e collettive al di fuori della tradizio-nale fedeltà nazionale, ma non in contrasto con essa.Questa peculiare forma di pluralismo era presentata co-me l’«essenza della nuova identità canadese». A com-pletamento delle iniziative di questa fase nel 1972 fu no-minato anche un ministro per il Multiculturalismo.

Un significativo sviluppo di tale politica si ebbe nel1988 con l’emanazione del Canadian MulticulturalismAct. Questo documento, dopo aver ribadito che il plu-ralismo culturale e il riconoscimento delle diversità et-niche e culturali costituiscono un elemento fondamen-tale della società canadese, al di là dello stesso bilingui-smo in precedenza enfatizzato, dettava delle norme peril perseguimento delle finalità multiculturali. In parti-colare attribuiva molte competenze in materia alle pro-vince, ai territori e alle municipalità, cui raccomandavadi coinvolgere anche le organizzazioni della società ci-vile, e istituiva delle forme di monitoraggio per assicu-rare l’attuazione di tale politica, di cui nel corso deglianni novanta furono meglio precisati gli obiettivi. Fraquesti figurano ora l’eliminazione di ogni forma di di-scriminazione etnica e razziale, l’estensione dell’accessi-bilità delle istituzioni a tutti i cittadini, l’integrazionenella società canadese dei nuovi venuti, la promozione

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dell’uguaglianza sociale e della diversità culturale qualivalori fondamentali del paese.

L’esperienza canadese ha alimentato un dibattitoideologico per molti aspetti anticipatore. Lo stesso ter-mine “multiculturalismo” (già inventato nel secolo pre-cedente) si è del resto cominciato a diffondere proprioda lì. In ogni caso il più noto teorico del multiculturali-smo è stato un canadese, il filosofo Charles Taylor(1992, 1994), che ebbe a definirlo, in modo molto pre-gnante, come la “politica del riconoscimento”.

Peraltro il multiculturalismo non ha risolto neanchein Canada tutti i problemi di convivenza. Ciò ha susci-tato molte riserve e molte resistenze. In particolare pro-prio i francofoni, che almeno all’inizio sembravano es-serne stati i maggiori beneficiati, hanno manifestatoun’aperta ostilità a questa politica, giudicata in contra-sto con il loro primo obiettivo, che resta la loro survi-vance come “nazione”. In realtà a molti di loro il multi-culturalismo sembra addirittura offensivo, perché, pre-vedendo l’ugual trattamento di tutti i gruppi etnici e ditutte le culture, li pone sul medesimo piano delle altreminoranze (i gruppi etnici formatisi per effetto delle im-migrazioni recenti e le stesse comunità indigene, cui cisi suole ormai riferire con la rispettosa espressione di fir-st nations). In tal modo verrebbe ignorato o smantellatoquello status privilegiato cui credono di aver diritto perla loro particolare consistenza (il 27% della popolazio-ne al censimento del 2001), il loro plurisecolare insedia-mento nel paese, la loro condizione di maggioranza inuna provincia importante come il Québec, la loro “alta”cultura, che si richiama a quella francese, a lungo domi-nante in Europa e tuttora di grande rilievo nel mondo,e la loro stessa identità storica di cofondatori del paese.Ciò imporrebbe, a loro avviso, l’accoglimento di una lo-ro ben diversa rivendicazione: quella di costituirsi, come

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molti di loro da tempo richiedono, in uno Stato indi-pendente, sia pur associato al Canada anglofono, o al-meno in un’unità politica tanto autonoma da potersi mi-surare su un piede di parità non già con le altre mino-ranze, ma con lo stesso Stato federale (cfr. Piccone Stel-la, 2003, p. 111).

Va sottolineato in proposito che il Canada è uno Sta-to giuridicamente composto da dieci province (nove an-glofone e una francofona), dotate già di una notevoleautonomia (superiore a quella degli Stati della vicina fe-derazione stellata), ma che tale organizzazione obnubi-la un fatto ben più rilevante: l’esistenza al suo interno didue società ancora molto distinte non solo per la lingua,che ne è solo la manifestazione più percepibile, ma an-che per molti altri aspetti, fra cui la stessa cultura poli-tica. Basti dire che, in contrasto con gli orientamentipluralistici largamente prevalenti nelle province an-glofone, nel Québec predomina l’idea francese della ci-toyenneté, che comporta anche il rifiuto di “etnicizza-re” alla maniera anglosassone la propria e l’altrui diver-sità. Così, mentre le altre province hanno accolto confavore la politica federale dell’immigrazione, che pre-mia gli skills professionali degli aspiranti indipendente-mente dalla loro origine, il Québec ha ottenuto una leg-ge speciale che gli consente di selezionarli a proprio pia-cimento, in modo da poter favorire quelli che sembra-no i più assimilabili nel suo contesto francofono: i lati-ni, gli africani delle ex colonie francesi e gli haitiani(Piccone Stella, 2003, pp. 110-111). Così, paradossal-mente, anche la politica dell’immigrazione viene utiliz-zata per difendere un’identità che si sente minacciatadalle conseguenze della globalizzazione. Negli ultimitempi, peraltro, più che rifiutare il multiculturalismo, ilQuébec sembra essersi deciso a darne una propria spe-cifica interpretazione, che insiste, più che sul plurali-

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smo di stampo anglosassone, sull’interculturalità, ormaibene accetta anche in Francia.

D’altra parte nelle province anglofone il paesaggio et-nico, ben lungi dal presentarsi come un “mosaico oriz-zontale” almeno tendenzialmente ugualitario, si presen-ta ancora come un “mosaico verticale”, per dirla conJohn Porter (1965), lo studioso più noto della stratifica-zione sociale del Canada. In cima vi sono infatti ancorai canadesi di origine britannica, un po’ più sotto quellidi origine francese, verso la metà quelli di altra origineeuropea (tedeschi, italiani, ucraini, polacchi, norvegesi,svedesi, russi, spagnoli, portoghesi, greci ecc.) e moltopiù in basso le “minoranze etniche visibili” degli altriimmigrati e i gruppi indigeni (indiani ed eschimesi) (cfr.Gundara, 2001-2002, p. 17).

Peraltro, pur non avendo prodotto un’effettiva ugua-glianza delle opportunità per tutti i gruppi, il multicul-turalismo ha dato a quelli che erano stati a lungo vitti-me di odiose forme di discriminazione nuovi diritti, unnuovo senso di dignità e degli importanti strumenti diemancipazione e di affermazione. La diversità etnica eculturale, ufficialmente riconosciuta e apprezzata, siconfigura in realtà come una risorsa strategica in uncontesto che può ben essere definito come un “mosaicodinamico” (cfr. Stellin, 1999, pp. 170-172).

L’Australia: multiculturalismo spinto e controllo dell’immigrazione

L’Australia è un’altra ex colonia britannica “bianca”che trae origine da un processo immigratorio di lungadata, caratterizzato da ondate di genti di provenienzadiversa, fra cui, in alcuni periodi, non pochi italiani. Lapopolazione (quasi 20 milioni di abitanti, su un territo-

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rio di 7 683 000 km2, peraltro solo in piccola parte abi-tabile) è in netta prevalenza di origine europea ed è tut-tora costituita per quasi un quarto d’immigrati recenti,per gestire i quali si è da tempo optato, sull’esempio ca-nadese, per una politica multiculturale.

La storia del paese (scoperto dagli europei agli inizidel XVII secolo, ma entrato nell’area dei loro effettiviinteressi solo più tardi, grazie alle esplorazioni di JamesCook, tra il 1768 e il 1771) è stata caratterizzata dall’im-migrazione sin da quando, nel 1788, l’Inghilterra vi aprì,nell’area dove poi sorse Sydney, una colonia penale (chegiunse a ospitare molte decine di migliaia di detenuti),per alleggerire le sue carceri dopo la chiusura degli sta-bilimenti di pena della Virginia, diventata indipendente.Seguirono ben presto i primi immigrati liberi, dediti al-l’agricoltura e all’allevamento. Settlers (in gran parte exufficiali e soldati) e squatters (occupanti abusivi, costi-tuiti anche da ex forzati fuggiti con le mandrie loro affi-date) cominciarono subito a strappare le terre miglioriagli aborigeni, sterminati con massacri ancora peggioridi quelli che segnarono la conquista delle Americhe: un“peccato originale” su cui nel paese si preferisce tuttorasorvolare (in Tasmania gli aborigeni furono integralmen-te distrutti, mentre nel resto del paese furono drastica-mente ridotti, dal milione che probabilmente erano al-l’arrivo degli inglesi a poche centinaia di migliaia).

Per quanto concerne l’immigrazione, a lungo preval-se la strenua difesa del carattere “bianco” del paese,specialmente contro la pressione dei cinesi, che comin-ciò a farsi sentire dopo la scoperta dei giacimenti auri-feri nei territori del Nuovo Galles del Sud (1851) e diVictoria (1856). Più tardi, per lo stesso motivo, furonoespulsi dal paese i braccianti melanesiani che vi eranostati introdotti tra il 1868 e il 1876 per la coltivazionedella canna da zucchero.

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Questa impostazione schiettamente razzista perduròanche dopo la trasformazione del paese in un dominion(1901) e dettò una politica assimilazionista chiaramenteispirata, come in altre aree sotto influenza britannica, alprincipio dell’anglo-conformity. Asiatici e blacks non fu-rono i soli gruppi oggetto di discriminazione, perchédal 1916 l’ingresso fu vietato anche ai greci e ai maltesi.La grande crisi del 1929-1932 comportò la chiusura aogni tipo d’immigrazione, cui seguì, dopo la secondaguerra mondiale, una nuova apertura, caratterizzata pe-raltro dal persistente rifiuto dell’immigrazione asiatica edalla non dissimulata preferenza per l’immigrazionedall’Europa centro-settentrionale. L’intento ufficial-mente dichiarato era infatti quello di forgiare una “raz-za unita”, come ebbe ad affermare ancora alla fine de-gli anni sessanta il ministro australiano dell’Immigrazio-ne (cfr. Piccone Stella, 2003, p. 123).

In quegli anni, peraltro, sotto la spinta della necessitàdi forza-lavoro, richiesta dal “miracolo economico”, manon più appagata dall’immigrazione britannica ed euro-pea, l’Australia aveva già cominciato a ricevere le nuovecorrenti migratorie, che avrebbero incrementato rapida-mente le etnie presenti sul suo territorio. Ciò comportòanche l’inizio di un ripensamento che avrebbe portato inbreve tempo all’abbandono dell’assimilazionismo peruna politica dell’integrazione caratterizzata dall’accetta-zione delle diversità culturali almeno nella sfera privata(1966). Per tale via pochi anni dopo, nel 1973, si giun-se a teorizzare la convivenza pacifica dei diversi gruppi,di cui fu riconosciuta la pari dignità, con il solo limite,imposto a tutti, del rispetto dei princìpi fondamentali diuna società democratica.

Si trattava di un’autentica svolta in senso “multicul-turalista”, come quella politica fu definita con il termi-ne già utilizzato per connotare l’esperienza canadese, da

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poco avviata. Ma il governo laburista che l’introdussein Australia, sconfessando il proprio precedente orien-tamento in materia, diede di tale politica una versionepiù schiettamente sociale di quella canadese, varata daun governo liberale. Ciò ha comportato però un note-vole incremento dei costi per l’accoglienza degli immi-grati e i successivi interventi in ambito sanitario, edu-cativo e comunicativo, che ha suscitato non poche resi-stenze nella popolazione.

Nello stesso periodo è notevolmente aumentato l’af-flusso d’immigrati cinesi, vietnamiti, filippini ecc.,giunti a costituire circa il 40% dell’immigrazione e il5% della popolazione. Ciò ha diffuso nel paese una“sindrome asiatica” (com’è stata definita), che ha in-dotto il governo a dare un nuovo colpo di freno all’im-migrazione, soprattutto per ciò che concerne la suacomponente clandestina, in gran parte proveniente ap-punto dai paesi asiatici. Di conseguenza la politica mul-ticulturale, pur non essendo stata ufficialmente rivista,rischia di ridursi, di fatto, a un mal dissimulato “assi-milazionismo di ritorno” (cfr. Piccone Stella, 2003, pp.125-137). Di questa tendenza restrittiva è anche espres-sione la cancellazione dal “territorio nazionale” di unmigliaio di isole e di isolotti per impedire a chi vi sbar-chi di poter chiedere rifugio al paese (2002) e il rifiuto,ampiamente commentato dalla stampa di tutto il mon-do, di lasciar attraccare a un qualsiasi porto australianouna nave stracarica di clandestini, che è stata scortatadalla marina a 1200 km di distanza (2003).

Con tutto ciò, per quanto concerne la concessionedella cittadinanza agli immigrati, l’Australia resta unodei paesi più liberali del mondo. Bastano infatti due so-li anni di residenza legale nel paese per poterne diven-tare cittadini.

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3. Globalizzazione e culture politiche

I cambiamenti sopra richiamati vanno naturalmenteesaminati nel contesto del processo di globalizzazioneda tempo in atto, che, come abbiamo già accennato, haprofondamente inciso sulle culture politiche di tutti ipaesi, e più in particolare di quelli europei, rendendolevia via meno distinte. D’altra parte nel corso dell’ultimodecennio le politiche migratorie dei paesi dell’UnioneEuropea sono state sempre più influenzate anche dagliorientamenti di quest’ultima, che ha progressivamenteesteso le sue competenze in materia, in origine quasi ine-sistenti. Si aggiunga che il processo di globalizzazionenon ha mancato di modificare le stesse correnti migra-torie dirette verso i diversi paesi europei, rendendole permolti aspetti assai più simili di quanto non fossero neidecenni precedenti, quando erano ancora fortementecaratterizzate dalle relazioni coloniali e post-coloniali.L’immigrazione, in realtà, quasi dappertutto, dipendeormai fondamentalmente dalle stesse ragioni demografi-che, economiche, sociali, politiche e culturali, ormai datempo individuate e analizzate (vedi, in particolare, Me-lotti, 1985).

Per questo insieme di motivi le politiche migratoriedei diversi paesi europei – fra cui, in modo del tuttoparticolare, quelli dell’Unione Europea, che nel corsodegli anni novanta hanno quasi tutti accettato di trasfe-rire a quest’ultima quote crescenti della loro sovranitàin argomento – si sono notevolmente ravvicinate in en-trambi i loro aspetti: le politiche dell’immigrazione e le

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politiche per gli immigrati. Le prime risultano ormai datempo ispirate in tutti paesi a una notevole prudenza(tanto che certi loro superficiali critici si sono sentiti au-torizzati a parlare polemicamente in proposito di una“fortezza Europa”, ancorché in molte sue parti, fra cuil’Italia, l’Europa assomigli assai più a un colabrodo chea una cittadella fortificata). Le seconde risultano ormaidappertutto ispirate al principio di un’integrazione so-ciale con salvaguardia delle vecchie e delle nuove diver-sità culturali o, per lo meno, di quelle non manifesta-mente in contrasto con l’ordine pubblico, i diritti fon-damentali della persona e l’uguaglianza giuridica senzadistinzioni di razza, di sesso e di religione sancita daquasi tutte le costituzioni europee (il riferimento con-cerne non solo certe ben note pretese delle componen-ti più radicali dell’Islam, ma anche le pratiche, menoconosciute, ma non più accettabili, di altre religioni e dialtre sette più o meno “esotiche” che violano sistemati-camente i più elementari diritti della persona o confi-gurano dei precisi reati: abuso della credulità popolare,circonvenzione d’incapaci, truffa ecc.).

La comunitarizzazione delle politiche europeed’immigrazione

Per meglio comprendere il processo di tendenzialeomogeneizzazione delle politiche migratorie europee èopportuno ricostruire a grandi linee le tappe che han-no portato alla loro pur ancora parziale comunitarizza-zione (cfr. Melotti, 2003b).

Gioverà ricordare, innanzi tutto, che sin dagli annicinquanta sei paesi (la Francia, la Repubblica federaletedesca, l’Italia, il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussembur-go) avevano dato vita alle prime comunità europee (la

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Comunità europea del carbone e dell’acciaio, istituita il18 aprile 1951 con il trattato di Parigi, e la Comunitàeconomica europea e la Comunità europea dell’energiaatomica, istituite il 25 marzo 1957 con il trattato di Ro-ma). A tali comunità aderirono poi via via il Regno Uni-to, l’Irlanda e la Danimarca (1973), la Grecia (1981), laSpagna e il Portogallo (1986), la Svezia, l’Austria e laFinlandia (1995). Il risultato principale fu la costituzio-ne nell’Europa occidentale di un grande “mercato co-mune”, che prevedeva, fra l’altro, la libera circolazionedei lavoratori comunitari (attuata in tre fasi), di cui be-neficiarono sia i paesi di emigrazione dell’Europa meri-dionale, sia i paesi d’immigrazione dell’Europa centro-settentrionale.

L’Atto unico europeo (adottato il 28 febbraio 1986 edentrato in vigore il 1° luglio 1987) sancì poi l’impegno atrasformare quel “mercato comune”, entro il 1992, inun “mercato interno”, caratterizzato non solo dallacompleta libertà di circolazione di persone, beni, servi-zi e capitali, ma anche da misure orientate all’armoniz-zazione legislativa e alla coesione economica.

Il 14 giugno 1985 la Francia, la Repubblica federaletedesca, il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo (cioè ipaesi che, con l’Italia, avevano dato avvio al processod’integrazione europea) sottoscrissero l’accordo diSchengen, cui poi aderirono, a eccezione del RegnoUnito e dell’Irlanda, tutti gli altri paesi dell’attualeUnione Europea (l’Italia nel 1990, la Spagna e il Porto-gallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l’Austria nel 1995, laDanimarca, la Finlandia e la Svezia nel 1996). Si tratta-va di un accordo al di fuori della sfera delle comunitàallora esistenti, ma a chiara vocazione comunitaria, per-ché aperto a tutti gli Stati membri e solo a loro, anchese quando vi aderirono i tre ultimi paesi sopra citati isuoi effetti furono estesi alla Norvegia e all’Islanda, due

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paesi non comunitari loro associati da precedenti patti.Questo accordo prevedeva l’eliminazione di tutti i con-trolli alle frontiere fra i paesi aderenti (le cosiddette“frontiere interne”) e la loro sostituzione con controllialle loro frontiere con i paesi terzi (le cosiddette “fron-tiere esterne”). L’accordo concerneva, ovviamente, an-che gli aspetti dell’immigrazione più direttamente per-tinenti alla sicurezza e all’ordine pubblico, data anche laprevista libera circolazione delle persone fra gli Statiaderenti. La convenzione applicativa di quell’accordo(firmata il 19 giugno 1990) ne prevedeva l’entrata in vi-gore il 1° gennaio 1993, in coincidenza con l’avvio del“mercato unico”, ma per varie ragioni (in primis l’im-possibilità di apprestare in tempo un’efficiente rete te-lematica) la sua effettiva operatività fu rimandata al 26marzo 1995 per sette paesi e a una data ancora succes-siva per gli altri (per l’Italia, la prima di questo gruppo,al 26 ottobre 1997).

Nel frattempo la convenzione di Dublino, sottoscrit-ta il 15 giugno 1990 da 11 Stati europei (12 con la Da-nimarca, che vi aderì l’anno seguente), provvide a defi-nire una serie di questioni relative all’asilo, con l’inten-to di pervenire a un’armonizzazione delle normative.Furono stabiliti, fra l’altro, dei precisi criteri di compe-tenza per risolvere i due annosi problemi delle “do-mande multiple” (le richieste presentate a più Stati dal-la stessa persona) e dei “rifugiati in orbita” (i richieden-ti rimandati da uno Stato all’altro per controversa com-petenza). La convenzione entrò in vigore parecchi annidopo, il 1° settembre 1997.

Il trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 edentrato in vigore il 1° novembre 1993, diede un decisi-vo impulso al processo d’integrazione europea istituen-do fra i paesi già membri delle tre precedenti comunitàl’Unione Europea, un’organizzazione internazionale sui

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generis dall’orientamento più schiettamente politico edalle competenze decisamente più vaste. Le tre comu-nità storiche non furono peraltro soppresse, come tal-volta si sente affermare, ma furono inserite nella nuovacostruzione. La Comunità europea del carbone e del-l’acciaio e la Comunità europea dell’energia atomicavennero assorbite dalla Comunità economica europea(con cui sin dal 1967 avevano in comune gli organi ese-cutivi), che, col nuovo nome di Comunità europea, chene segnalava l’ampliamento del raggio di azione, fu in-tegrata nell’Unione Europea. Oltre a queste rilevantimodifiche strutturali, il trattato di Maastricht previdel’instaurazione di un’unione economica e monetaria(con l’introduzione di una “moneta unica” a partire dal1° gennaio 1999), estese notevolmente le funzioni delParlamento europeo e istituì una “cittadinanza euro-pea” per i cittadini degli Stati membri quale fonte di le-gittimazione del processo d’integrazione e strumentoper diffondere un sentimento di appartenenza all’Unio-ne. D’altra parte sancì anche due princìpi già implicitinella precedente normativa: la “sussidiarietà” e la “pro-porzionalità”. La prima prescrive che, nei settori di suacompetenza non esclusiva, la Comunità possa interve-nire solo quando vi sia motivo di ritenere che per un de-terminato obiettivo la sua azione sia più efficace diquella dei paesi membri; la seconda stabilisce che laportata del suo intervento non trascenda tale obiettivo.

L’Unione Europea poggia metaforicamente su tre “pi-lastri”. Il primo, costituito dalle materie già di compe-tenza delle tre preesistenti comunità europee, prevede il“metodo comunitario” (la procedura sovranazionale,propria di quelle comunità e ora della Comunità euro-pea, che attribuisce agli Stati membri un ruolo solo se-condario). Gli altri due, costituiti da materie in prece-denza di competenza esclusiva degli Stati (il secondo

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comprende la politica estera e la sicurezza comune e ilterzo la giustizia e gli affari interni), utilizzano una ver-sione temperata del “metodo intergovernativo” (che la-scia l’ultima parola ai rappresentanti degli Stati). L’im-migrazione, pur essendo stata riconosciuta come una“questione di interesse comune”, fu inserita nel terzopilastro, nonostante le sue molte connessioni con le ma-terie del primo.

Qualche anno dopo, però, il trattato di Amsterdam,firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° mag-gio 1999, trasferì dal terzo al primo pilastro quasi tuttala cooperazione per la giustizia e gli affari interni (fra cui,per quanto qui più ci concerne, l’azione comune in ma-teria d’immigrazione, la concessione dell’asilo, il rilasciodei visti d’ingresso e, in generale, tutte le questioni rela-tive alla libera circolazione delle persone). Per garantireun passaggio senza troppe scosse dalla procedura inter-governativa a quella comunitaria fu previsto un periododi transizione (della durata di un quinquennio dall’en-trata in vigore del trattato e quindi destinato a conclu-dersi il 30 aprile 2004) in cui le decisioni richiedono l’as-senso di tutti i paesi membri. Fu tuttavia prevista la pos-sibilità di una “cooperazione rafforzata” fra un certo nu-mero di Stati (almeno la metà più uno, cioè otto) per ini-ziative su cui non vi fosse unanimità, purché venisserorispettate le competenze esclusive della Comunità, i suoiobiettivi e i suoi interessi e tale cooperazione restasseaperta all’adesione degli altri Stati dell’Unione. Inizial-mente era richiesto anche che a essa non si opponesse al-cuno Stato membro, ma questo indiretto diritto di vetofu poi abolito dal trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio2001, eccetto che per le questioni militari o relative alladifesa. Inoltre quel trattato stabilì che il numero minimodi otto Stati dovesse valere anche per il periodo succes-sivo all’allargamento dell’Unione a 25 paesi, quando ta-

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le numero avrebbe rappresentato non più la maggioran-za, ma meno di un terzo degli Stati membri.

Uno dei protocolli allegati al trattato di Amsterdamsancì l’inserimento nell’Unione Europea dell’acquis diSchengen (l’accordo vero e proprio, le successive ade-sioni, la convenzione, le decisioni e le dichiarazioni delcomitato esecutivo e degli organi delegati). Per la suanatura complessa, quell’acquis fu però ripartito fra ilprimo e il terzo pilastro, con un’opzione di “base giuri-dica mista” destinata a creare qualche problema.

Per di più quel protocollo non fu sottoscritto da trepaesi membri dell’Unione: il Regno Unito e l’Irlanda,che non avevano aderito allo stesso accordo di Schen-gen, e la Danimarca, che, pur avendovi aderito, per mo-tivi costituzionali si riservò di accettare di volta in volta,entro sei mesi, le singole decisioni assunte in materia(cosa che peraltro poi non ha fatto quasi mai). Questipaesi si avvalsero della possibilità di sottoscrivere unaclausola di opting out che in futuro non potrà più esse-re utilizzata da alcun altro paese (compresi i nuovimembri dell’Unione).

La “comunitarizzazione” della politica migratoriaprevista dal trattato di Amsterdam è restata dunque“imperfetta” (per la distribuzione dell’acquis di Schen-gen fra il primo e il terzo pilastro) e a “geometria varia-bile” (sia per l’autoesclusione da quell’acquis di alcunipaesi e l’estensione dei suoi effetti ad altri, sia per la ci-tata possibilità di una “cooperazione rafforzata” di unaloro parte in determinati ambiti). Quel trattato ha pe-raltro aperto una fase nuova, caratterizzata da un ruolomolto più attivo delle istituzioni europee, che ha pro-mosso la convergenza della produzione legislativa e del-la prassi amministrativa degli Stati membri.

Tale sviluppo fu ulteriormente favorito dal supera-mento negli anni seguenti della prospettiva ancora emi-

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nentemente “difensiva” propria dell’acquis di Schen-gen. Un significativo passo in tal senso fu compiuto alvertice europeo di Cardiff (15-16 giugno 1998), che die-de mandato alle competenti istituzioni dell’Unione (laCommissione e il Consiglio) di predisporre un “pianod’azione” per la miglior attuazione dello «spazio di li-bertà, sicurezza e giustizia» previsto dal trattato di Am-sterdam. Tale piano, che prendeva in considerazione inun’ottica nuova le problematiche dell’immigrazione,dell’asilo e della protezione temporanea, fu approvatopoi dal Consiglio europeo di Vienna (11-12 dicembre1998), che giunse ad auspicare «lo sviluppo di una stra-tegia globale in materia».

Un notevole impulso al processo di omogeneizzazio-ne delle politiche migratorie fu dato l’anno seguentedal Consiglio straordinario di Tampere (15-16 ottobre1999), che riconobbe esplicitamente la necessità di unapolitica comune dell’Unione in tema di asilo e di im-migrazione e sollecitò un ravvicinamento delle legisla-zioni nazionali relative all’ammissione e al soggiornodei cittadini dei paesi terzi. Secondo il Consiglio, in ar-gomento bisognava operare sulla base di una valuta-zione comune della situazione demografica ed econo-mica sia dei paesi dell’Unione Europea, sia dei paesi diorigine dei flussi, senza peraltro trascurare gli impor-tanti legami storici e culturali esistenti con alcuni di lo-ro. In altre parole, bisognava contemperare gli interes-si degli uni e degli altri e favorire l’immigrazione lega-le anche per meglio contrastare quella clandestina, ge-stita in gran parte da organizzazioni malavitose. A talfine fu caldeggiato il ricorso al partenariato con i paesidi provenienza e di transito, anche per incoraggiare gliimmigrati a partecipare allo sviluppo dei loro paesi. Fusegnalata altresì l’esigenza di assicurare agli immigratiun “equo trattamento” e un progressivo miglioramen-

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to della loro condizione giuridica, che arrivasse al rico-noscimento, per quelli da tempo legalmente residenti,di diritti e di doveri “analoghi” a quelli dei cittadinidell’Unione. A tal fine fu decisa anche l’introduzionedi misure comuni per combattere il razzismo, la xe-nofobia e ogni forma di discriminazione economica,sociale e culturale. Per quanto concerne specificamen-te l’asilo, richiamata innanzi tutto la necessità di un ri-goroso rispetto da parte di tutti gli Stati membri degliobblighi derivanti dalla normativa internazionale sui ri-fugiati (la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,modificata dal Protocollo di New York del 31 gennaio1957), fu riconosciuta l’opportunità di assicurare delleforme di protezione “sussidiaria”, rispetto a quella“primaria” prevista da tale normativa, alle persone bi-sognose di tutela non rientranti nella rigorosa defini-zione del “rifugiato” di quella convenzione (che confi-gura come tale solo «chi, temendo a ragione di essereperseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,appartenenza a un determinato gruppo sociale o per leproprie opinioni politiche, si trovi fuori del paese dicui sia cittadino e per quel timore non possa o non vo-glia avvalersi della sua protezione oppure chi, nonavendo una cittadinanza e trovandosi fuori del paese incui abbia la sua residenza abituale, per il predetto ti-more non possa o non voglia farvi ritorno»). Fu inoltresottolineata l’utilità di pervenire in tempi brevi a unaprocedura comune per il riconoscimento del diritto diasilo e alla definizione di uno status uniforme per colo-ro che l’avessero ottenuto. Il documento conclusivo ri-badì l’esigenza di un «accostamento generale al feno-meno migratorio» che comprendesse le questioni con-nesse alla politica, ai diritti e allo sviluppo dei paesi edelle regioni di origine e di transito, facendosi caricodella lotta alla povertà e del miglioramento delle con-

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dizioni di vita e delle possibilità di trovare lavoro, conun impegno per la prevenzione dei conflitti, la stabiliz-zazione degli Stati democratici, il rispetto dei dirittiumani, fra cui, in particolare, quelli delle minoranze,delle donne e dei bambini. Di fatto ciò implicava il ri-conoscimento della necessità per l’Europa di aprirsi aun’immigrazione sia pur contenuta e controllata, supe-rando quell’“opzione zero” che aveva a lungo caratte-rizzato, in modo più o meno chiaro o più o meno net-to, la politica migratoria di tutti i principali paesi del-l’Unione (cfr. Pastore, 2001).

Nello stesso spirito l’Agenda sociale europea, appro-vata dal Consiglio di Nizza (7-8-9 dicembre 2000) con-temporaneamente alla promulgazione della Carta euro-pea dei diritti fondamentali (un testo giuridicamentenon vincolante, ma di grande valore storico-politico),precisò a chiare lettere che la lotta contro la povertà el’esclusione sociale in Europa doveva essere integratada azioni intese a garantire la parità di trattamento atutti i cittadini dei paesi terzi legalmente residenti nelterritorio dell’Unione. La parità di trattamento indi-pendentemente dalla razza e dall’origine etnica è poi di-ventata una norma di legge in tutti i paesi membri pereffetto di una precedente direttiva del Consiglio dell’U-nione (29 giugno 2000) che tutti gli ordinamenti internihanno dovuto recepire entro il giugno 2003 (cfr. Na-scimbene e Favilli, 2003).

Nel frattempo la Commissione europea aveva elabo-rato due importanti “comunicazioni” al Consiglio e alParlamento europeo, l’una sull’asilo e l’altra sull’immi-grazione (entrambi i documenti furono adottati il 22novembre 2000).

In materia di asilo, la Commissione affermò la neces-sità di raggiungere un punto di equilibrio tra due esi-genze irrinunciabili: il doveroso rispetto assoluto del-

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l’ammissione umanitaria e il perseguimento dei legitti-mi obiettivi di prevenzione e di lotta contro l’immigra-zione illegale, che non raramente ricorre in modo deltutto abusivo anche alle domande di asilo. Fece inoltrepropria la proposta di una procedura e di uno statusuniformi in tutti i paesi dell’Unione, anche per non in-centivare inutili flussi secondari fra loro.

In materia d’immigrazione, riconosciuto il diritto diogni paese membro di limitare l’ammissione dei citta-dini non comunitari, la Commissione suggerì di colle-gare il permesso di soggiorno al permesso di lavoro,prevedendo il rilascio agli interessati a quest’ultimo diun “titolo combinato” (destinato a diventare perma-nente dopo qualche anno) che assolvesse entrambe lefunzioni. Anche per il ricongiungimento familiare (giàriconosciuto come un diritto dalla Carta sociale euro-pea del 1961 e dalla convenzione europea sui lavorato-ri migranti del 1977) sollecitò un’omogeneizzazionedelle normative, per evitare che le differenze in materiapotessero influenzare la scelta di un determinato paese.Quanto ai diritti e ai doveri degli immigrati, caldeggiòl’introduzione di uno status comune per i residenti dilungo periodo (compresi i rifugiati e i familiari stranie-ri di cittadini dell’Unione, ma non gli studenti, i lavo-ratori stagionali e i beneficiari di una protezione sol-tanto temporanea) quale strumento d’integrazione sot-tratto alla discrezionalità delle varie amministrazionistatali.

La Commissione sottolineò con forza che l’integra-zione degli immigrati regolari deve costituire una prio-rità per l’Unione Europea, «realtà di per sé pluralistica,arricchita da una varietà di tradizioni culturali e sociali,la cui diversità è destinata ad aumentare in futuro». Se-condo la Commissione, occorreva rispettare tali diffe-renze, senza però dimenticare i princìpi e i valori con-

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divisi da tutti gli europei, fra cui elencava, con forse ec-cessivo ottimismo, «i diritti e la dignità dell’uomo, la va-lutazione positiva del pluralismo e il riconoscimentoche l’appartenenza alla società si basa su una serie di di-ritti, ma comporta altresì una serie di responsabilità pertutti gli appartenenti, nazionali o immigrati che siano».Segnalava inoltre che, essendo l’integrazione un proces-so di lunga durata, alle misure già adottate dall’Unioneper combattere «i due maggiori ostacoli all’integrazio-ne, l’esclusione sociale e le disuguaglianze sul mercatodel lavoro», bisognava aggiungerne altre, specificamen-te rivolte agli immigrati di seconda generazione, com-presi quelli nati nel territorio dell’Unione, anche perevitare che le loro particolari difficoltà alimentasseroforme di devianza e criminalità.

Per quanto concerne la lotta contro l’immigrazioneclandestina, secondo la Commissione bisognava opera-re su due fronti: da un lato facilitare l’immigrazione le-gale; dall’altro semplificare le procedure per il respingi-mento alle frontiere o la rapida espulsione di quanti ar-rivassero violando le norme sull’asilo e sull’immigrazio-ne. A tal fine, peraltro, anche la Commissione racco-mandava di sviluppare il dialogo con i paesi di origine edi transito degli immigrati attraverso i rapporti di par-tenariato esistenti (fra cui il “partenariato euromediter-raneo” istituito fra l’Unione Europea e dodici paesi del-la cosiddetta sponda sud dopo la conferenza di Barcel-lona del 1995).

Nel loro insieme queste proposte configuravano unastrategia integrata che guarda all’immigrazione come aun processo multidimensionale e di ampio respiro, cherichiede interventi in più direzioni, compresa la coope-razione allo sviluppo, vista come un volano importanteper contenere sul medio e sul lungo periodo i potentifattori espulsivi operanti nei paesi di esodo.

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Questo orientamento verso una politica comune diasilo e di immigrazione ha trovato una sostanziale con-ferma al Consiglio europeo di Laeken (14-15 dicembre2001), il cui risultato forse più significativo è stata laconvocazione di una Convenzione incaricata di stende-re un progetto di Costituzione europea. Per l’asilo èperò emerso un orientamento un po’ più restrittivo,specie per ciò che concerne gli standard minimi di ac-coglienza (che un successivo Consiglio per la giustizia egli affari interni ha stabilito a livelli per alcuni aspetti in-feriori a quelli già previsti dalla normativa italiana).Quanto all’immigrazione, si sono riscontrate non pochedifficoltà, dovute anche alla riluttanza delle ammini-strazioni di alcuni Stati a coordinarsi in ambiti già di lo-ro esclusiva competenza. C’è da dire, del resto, che unatransizione così rapida dalla procedura intergovernativaa quella comunitaria, senza precedenti in altre materie,era inevitabilmente destinata a suscitare qualche pro-blema, date anche le situazioni e le preoccupazioni di-verse degli Stati membri. La Germania e l’Austria, par-ticolarmente esposte al rischio di una massiccia immi-grazione dai vicini paesi dell’Est europeo, hanno contra-stato la proposta di un più facile rilascio dei visti d’in-gresso e dei permessi di lavoro e hanno per contro ri-chiesto una moratoria di parecchi anni per l’estensioneagli attuali paesi candidati della libera circolazione dellepersone (moratoria successivamente approvata per unperiodo compreso fra i cinque e i sette anni dal loro in-gresso nell’Unione e poi ridotto a due). La Francia, nonentusiasta della rinuncia a una quota della sua sovranitànazionale in un ambito così delicato, difende gelosa-mente il principio della sussidiarietà, sia pur con tonimutevoli secondo le sue maggioranze di governo. LaSpagna, sotto la duplice pressione dell’immigrazionemaghrebina al Sud e del terrorismo basco al Nord, chie-

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de una maggior disponibilità dei paesi dell’Europa cen-tro-settentrionale per l’accoglienza degli extracomuni-tari e l’esclusione dal diritto di asilo dei cittadini del-l’Unione, per impedire alle organizzazioni terroristichedi costituirsi delle comode basi nei paesi vicini. La Gre-cia, che pratica una politica di espulsioni spicce degliimmigrati illegali anche grazie ad accordi bilaterali coni paesi confinanti, non vede di buon occhio l’imposizio-ne di norme più garantiste in materia, mentre sollecitauna politica più solidale per gli immigrati legali, che hapoi direttamente promosso durante il suo semestre dipresidenza europea (gennaio-giugno 2003).

Divergenze significative sono emerse anche al Consi-glio europeo di Siviglia (22 giugno 2002), specialmenteper ciò che concerne il modo di affrontare l’immigra-zione clandestina. La Spagna, presidente di turno, haproposto una linea più dura (che prevedeva, fra l’altro,il taglio degli aiuti ai paesi terzi che non collaborasseroal controllo dei flussi), trovando il sostegno del RegnoUnito, dell’Italia, dei Paesi Bassi e della Danimarca. LaFrancia e la Svezia si sono opposte con motivazioni di-verse (politiche la prima e umanitarie la seconda). LaGermania, anche per gli interni contrasti suscitati dallasua legge sull’immigrazione del marzo precedente, hapreferito mantenere una posizione defilata e prudente.Alla fine è stato raggiunto un compromesso con una“soluzione premiale” che riserva determinati vantaggi(soprattutto in termini di maggiori quote d’immigrazio-ne regolare) ai paesi disposti a collaborare al controllodei flussi senza penalizzare gli altri con misure in con-trasto con gli obiettivi della politica di sviluppo. Si è tut-tavia stabilito che tutti i futuri accordi di associazione odi cooperazione dell’Unione e della Comunità includa-no una clausola che impegni i paesi terzi a collaborarealla gestione dei flussi migratori e a riammettere i loro

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cittadini emigrati clandestinamente. Il Consiglio hachiesto anche un nuovo regolamento dei criteri e deimeccanismi per la determinazione dello Stato compe-tente a esaminare le domande di asilo presentate in unaltro Stato membro. Tale regolamento (denominatoDublino 2) è poi stato adottato il 18 febbraio 2003.

Il più importante sviluppo di questo periodo si ebbeperò al vertice di Copenaghen (12-13 dicembre 2002),che sancì l’allargamento dell’Unione Europea a 25membri, con l’ammissione, entro il primo semestre del2004, di altri dieci Stati (Polonia, Ungheria, Repubblicaceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania,Malta e Cipro). L’adesione di Romania e Bulgaria fu in-vece rimandata al 2007, per la loro ancora insoddisfa-cente situazione economica e finanziaria, mentre l’aper-tura di un negoziato ufficiale con la Turchia (che avevapresentato domanda di adesione sin dal 1987) fu rin-viata a data da determinare, non solo per i motivi espli-citamente addotti (la sua situazione politica ed econo-mica «non ancora consolidata», l’ancora aperta que-stione di Cipro e il trattamento riservato alle minoran-ze, giudicato non conforme ai princìpi dell’Unione), maanche, e forse più, per altre ragioni, fra cui la sua imba-razzante connotazione di paese islamico (nonostante lasua ufficiale laicità, che ne fa un unicum nel mondo mu-sulmano sin dal tempo di Kemal Atatürk) e il suo ca-rattere di grande paese di emigrazione (la Turchia, checonta 70 milioni di abitanti, che ne farebbero il secon-do paese più popoloso dell’Unione, ha oltre 3 milioni diemigrati in Europa, per i 2/3 concentrati in Germania,ove i suoi cittadini costituiscono il primo gruppo stra-niero). Il trattato di Atene (16 aprile 2003) formalizzòpoi l’allargamento dell’Unione, che portava alla ricom-posizione dell’Europa dopo la caduta del muro di Ber-lino (1989), il collasso dell’Unione Sovietica (1991) e la

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fine della guerra fredda. I paesi candidati si sono impe-gnati tutti a recepire integralmente l’acquis comunitarioe quindi, per ciò che qui ci concerne, ad adeguare le lo-ro politiche migratorie a quelle dell’Unione.

Il vertice di Salonicco (19-20 giugno 2003) ha saluta-to con soddisfazione la conclusione del lavoro dellacommissione che era stata incaricata di stendere il pro-getto di trattato costituzionale europeo. Quella commis-sione, presieduta dall’ex presidente francese Valéry Gi-scard d’Estaing (per l’Italia vi avevano partecipato, fragli altri, l’ex primo ministro Giuliano Amato, che ne èstato anche uno dei due vicepresidenti, e in rappresen-tanza del governo il vicepresidente del Consiglio Gian-franco Fini) aveva in effetti svolto un importante lavoro,pervenendo a un testo, peraltro giudicato ancora da ri-finire, che, secondo il Consiglio, avvicinava l’Unione aisuoi cittadini, ne rafforzava il carattere democratico,agevolava la capacità decisionale dei suoi organi (anchein vista del suo previsto allargamento), ne potenziava lapossibilità di agire come una forza coerente sulla scenainternazionale e dava delle risposte efficaci alle sfide po-ste dalla globalizzazione e dall’accresciuta interdipen-denza.

Quanto ai temi da noi qui specificamente affrontati, ilvertice, riconoscendo «assoluta priorità» alla problema-tica migratoria, ha sottolineato l’esigenza di una politicadell’Unione più strutturata, che affronti l’intera gammadelle relazioni con i paesi terzi, dalla rapida conclusionedi accordi di riammissione con i principali paesi di ori-gine alla promozione di un’ulteriore cooperazione conloro, in un processo a due direzioni inteso a combatterel’immigrazione clandestina, da un lato, e a esplorare icanali di una pur condizionata immigrazione legale, dal-l’altro. In tale contesto ha affermato altresì l’opportu-nità di esaminare e approfondire ulteriormente la que-

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stione dell’integrazione degli immigrati regolari nelle so-cietà europee, rivedendo a tal fine i fondi stanziati per ilperiodo 2004-2006 e prevedendo nei bilanci successividegli importi adeguati a tale esigenza.

Per quanto concerne l’elaborazione di una politicacomune in materia di immigrazione clandestina, fron-tiere esterne, rimpatrio dei clandestini e cooperazionecon i paesi terzi, ha caldeggiato l’urgente definizione diun’impostazione coerente, a livello dell’Unione, per idati di identificazione biometrica, con soluzioni armo-nizzate per i cittadini dei paesi terzi, i passaporti dei cit-tadini dell’Unione, i visti e i sistemi d’informazione. Inparticolare, affrontando la complessa e delicata que-stione dei controlli alle frontiere marittime, ha sottoli-neato l’importanza di assicurare la continuità e la coe-renza dell’azione comunitaria, con priorità definite emetodi più strutturati. A tal fine ha invitato la Commis-sione a esaminare la possibilità d’introdurre nuovi mec-canismi e d’istituire una struttura operativa specificaper rafforzare la cooperazione per il controllo dellefrontiere esterne. Anche per il rimpatrio degli immigra-ti illegali, materia di competenza degli Stati membri, hasollecitato un rafforzamento della cooperazione esisten-te con meccanismi più efficaci e l’eventuale istituzionedi uno strumento comunitario. In proposito ha ribadi-to che le azioni dell’Unione Europea devono iscriversiin un quadro integrato ed equilibrato, che tenga contodella situazione esistente nelle varie aree e in ogni sin-golo paese.

Per l’asilo è stata ribadita la determinazione di perve-nire a un regime europeo comune, come richiesto aTampere e specificato a Siviglia, precisando anche unadata (la fine del 2003) entro cui adottare la relativa nor-mativa. Ma tale scadenza è non stata poi rispettata peril persistere di alcune divergenze fra i vari paesi.

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Anche per la politica d’integrazione dei cittadini deipaesi terzi regolarmente soggiornanti nel territorio del-l’Unione è stata ribadita l’impostazione di Tampere,riaffermando la necessità di una politica globale e plu-ridimensionale che preveda per loro diritti e doveri ana-loghi a quelli dei cittadini dell’Unione Europea. Tale po-litica dovrebbe tener conto di molti fattori, come l’oc-cupazione, l’istruzione e la formazione linguistica, la sa-nità e i servizi sociali, l’alloggio e le problematiche ur-bane, la cultura e la partecipazione alla vita sociale, conparticolare riferimento alle peculiari esigenze di deter-minate categorie (donne, bambini, anziani, rifugiati,persone con protezione internazionale per motivi uma-nitari) e i bisogni in parte diversi anche per la naturastessa dell’immigrazione (temporanea di breve o lungadurata o permanente). Ciò tende a configurare le poli-tiche d’integrazione come un processo continuo a duedirezioni, basato su diritti e doveri reciproci degli im-migrati legalmente soggiornanti e delle società che liospitano. Tali politiche, di spettanza degli Stati membri,e quindi necessariamente caratterizzate dalla loro «di-versità giuridica, politica, economica, sociale e cultura-le», dovrebbero d’altra parte svolgersi «in un quadrocoerente dell’Unione Europea», da meglio precisarecon la definizione di «princìpi fondamentali comuni»,con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati. Per-tanto «gli organi competenti dell’Unione Europea, leautorità nazionali e locali, i sindacati, le associazioni deidatori di lavoro, le organizzazioni non governative, leorganizzazioni di migranti e le organizzazioni che per-seguono scopi culturali, sociali e sportivi dovrebberoessere incoraggiati a partecipare allo sforzo comune a li-vello di Unione e a livello nazionale».

Peraltro proprio in questi anni delle pesanti nubi siaddensavano sull’Europa, per l’esacerbarsi dello scon-

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tro tra fondamentalismo islamico e Occidente dopo glispettacolari attentati alle Torri Gemelle di New York eal Pentagono (11 settembre 2001) e gli interventi mili-tari americani in Afghanistan (dal 7 ottobre 2001) e inIraq (dal 20 marzo 2003), con la partecipazione diret-ta del Regno Unito e il sostegno di altri paesi dell’U-nione, fra cui l’Italia. Questa crisi globale ha indotto leistituzioni europee a riesaminare anche la politica del-l’immigrazione nell’ottica della sicurezza comune, pursottolineando contestualmente l’esigenza di non pena-lizzare gli immigrati provenienti da determinati paesicon provvedimenti ingiusti in sé e destinati a moltipli-care i problemi.

In questo contesto contraddittorio, aggravato anchedalla ripresa del terrorismo islamico contro i cittadinidei paesi europei (italiani non esclusi) e dall’acuirsi del-la pressione migratoria per conseguenza diretta e indi-retta degli eventi bellici, si è trovato a operare il gover-no italiano, durante il suo semestre di presidenza del-l’Unione Europea (luglio-dicembre 2003). Benché talepresidenza non sia partita in modo molto brillante (perla poco diplomatica reazione del presidente del Consi-glio italiano Silvio Berlusconi alle provocazioni di unesponente della socialdemocrazia tedesca nel corsodella presentazione del programma del semestre al Par-lamento europeo), in tema d’immigrazione i ministriitaliani si sono mossi con inusitata rapidità, meritando-si l’apprezzamento di tutti in governi europei.

In particolare, il ministro dell’Interno Giuseppe Pi-sanu (che in Italia era stato contestato poche settimaneprima da un partito della sua stessa maggioranza di go-verno, la Lega nord, per i ritardi del suo ministero neldare piena attuazione alla legge Bossi - Fini) sin dal 3luglio ha avanzato due precise proposte per contrasta-re con più efficacia l’immigrazione clandestina, che, se-

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condo i dati da lui riferiti, nel precedente quinquennioavrebbe portato in Europa tra i 500 000 e i 700 000nuovi irregolari all’anno, che è poi risultato difficile, senon impossibile, espellere o integrare, o anche solocontrollare sul territorio, come la situazione avrebbeimposto, soprattutto dopo l’11 settembre. La primaproposta concerneva l’attraversamento dei paesi mem-bri da parte dei convogli degli immigrati espulsi; la se-conda riguardava l’organizzazione di voli congiunti perl’espulsione dei clandestini da due o più Stati. In sinte-si, i clandestini che non avessero ottenuto l’asilo sareb-bero dovuti essere espulsi rapidamente, con accompa-gnamento ai paesi di origine o ai confini dell’Unione,per iniziativa congiunta degli organi di due o più paesimembri (e quindi anche con una riduzione dei costi),con mezzi ordinari o straordinari debitamente scortati,in modo di prevenire le fughe e le dispersioni nei pae-si da attraversare e ottenerne così più facilmente il per-messo di transito e un eventuale sostegno logistico.

Queste proposte sono state poi integrate, per quantoconcerne l’immigrazione clandestina via mare, dal co-siddetto Piano Nettuno, probabilmente così denomina-to dal nome del dio che, secondo Omero, avrebbe osta-colato i viaggi di Ulisse tra le sponde del Mediterraneo(anche se l’interpretazione corrente fa riferimento soloal nome delle grotte marine della Sardegna, di cui Pisa-nu è originario). Tale piano si articola in quattro punti:determinazione di quote europee d’ingressi regolari;aiuti economici ai paesi di origine e di transito dei clan-destini in cambio di un impegno effettivo a contrastarele migrazioni illegali; gestione integrata dei confini ter-restri, marittimi e aerei dell’Unione Europea; misure se-vere contro i passeurs, gli scafisti e soprattutto le orga-nizzazioni che gestiscono le migrazioni clandestine e iltraffico di esseri umani, mettendone a rischio anche la

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vita. Ne consegue una serie di misure specifiche, fra cuiun’«oculata gestione degli ingressi legali», con quoteeuropee riservate ai paesi terzi che sottoscrivano accor-di di rimpatrio e di collaborazione tecnica al controllodelle frontiere. Per tutelare e monitorare gli ingressi le-gali, è stato inoltre proposto l’inserimento nei docu-menti (passaporti, visti, permessi di soggiorno) di datibiometrici idonei a un riconoscimento sicuro: non piùsolo le impronte digitali (già utilizzate dal sistema auto-matico europeo d’identificazione Eurodac, istituito l’11dicembre 2000 ed entrato in vigore il 15 gennaio 2003),ma anche gli elementi necessari al riconoscimento iridi-co e facciale. D’altra parte è stata anche segnalata l’op-portunità di una revisione, migliorativa per gli immigra-ti, delle direttive in vigore in tema d’ingressi per studio,lavoro e asilo politico e della stessa definizione del “ri-fugiato”.

Il capitolo fondamentale del piano è però costituitodall’istituzione di un’Agenzia comunitaria per la gestio-ne integrata dei confini esterni, con una ripartizione deicompiti e dei costi fra tutti i paesi dell’Unione (il cosid-detto burden sharing). Questa agenzia, costituita dai re-sponsabili delle frontiere di ogni paese, dovrebbe coor-dinare le operazioni sui diciassette confini esterni, dacontrollare con unità miste di polizia (al pattugliamen-to congiunto del Mediterraneo hanno già aderito, conuna parziale divisione dei compiti e una partecipazionealle spese, Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unitoe Spagna, mentre Malta e Cipro hanno assicurato il lo-ro sostegno logistico). Il controllo delle frontiere do-vrebbe far ricorso anche alle nuove tecnologie satellita-ri. Queste misure sono state discusse al vertice informa-le di Roma (11-12 settembre 2003) e sono poi state ap-provate con alcune modifiche (perché la Germania e laSvezia si erano opposte all’idea di quote d’immigrazio-

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ne europee, preferendo gestire quote nazionali) al suc-cessivo Consiglio per la giustizia e gli affari interni(Bruxelles, 27 novembre 2003).

Il Consiglio europeo di Bruxelles (11-12 dicembre2003) ha espresso il proprio gradimento per tali deci-sioni, auspicandone l’entrata a regime per il 1° gennaio2005, data entro cui dovrebbe diventare operativa l’A-genzia europea per la gestione della cooperazione allefrontiere. D’altra parte il Consiglio ha esortato a com-piere rapidi progressi anche in materia di asilo e di rim-patrio.

Il vertice ha manifestato, inoltre, il suo apprezzamen-to per i risultati della conferenza sul dialogo interreli-gioso svoltasi a Roma il 30 e 31 ottobre 2003, sottoli-neando la funzione dell’incontro e del confronto qualestrumento di pace e di coesione sociale in Europa e aisuoi confini. L’importanza del dialogo è stata ribaditaanche con riferimento ai paesi terzi, ricordando la riu-nione di Tunisi, del 5 dicembre 2003, fra i paesi mem-bri del Mediterraneo occidentale e i paesi dell’Unionedel Maghreb.

Nel frattempo la Convenzione incaricata di redigereil progetto di trattato costituzionale europeo ha resopubblico il risultato dei suoi lavori. La bozza, presen-tata il 16 luglio 2003 a Roma al presidente del Consi-glio italiano, nella sua qualità di presidente pro tempo-re dell’Unione Europea, afferma solennemente il carat-tere pluralistico dell’Europa, “unita nella diversità”(preambolo), senza citare né le sue pretese “radici cri-stiane” (o “giudaico-cristiane”), come avrebbe voluto ilpapa stesso, né, in opposta prospettiva, i valori filoso-fici laici del “secolo dei lumi”, come avrebbe desidera-to il suo presidente Valéry Giscard d’Estaing. L’ampiodocumento integra in un unico testo i principali ele-menti dei vari trattati europei attualmente vigenti, as-

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segna all’Unione una sua personalità giuridica unica,incorpora nella sua seconda parte la Carta dei dirittifondamentali dell’Unione (cui dà quindi una valenzacostituzionale). Semplifica, inoltre, gli strumenti giuri-dici e non giuridici dell’Unione e istituzionalizza la su-premazia del diritto comunitario, stabilendo per la pri-ma volta una gerarchia delle norme. Per ciò che qui piùci concerne, afferma il fondamento dell’Unione «suivalori della dignità umana, della libertà, della demo-crazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del ri-spetto dei diritti umani» e, in più particolare, «sul plu-ralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietàe sulla non discriminazione» (art. 2). Sottolinea conforza il rispetto della «diversità culturale, religiosa elinguistica» (art. 22). Dichiara espressamente l’intentodi sviluppare «una politica comune in materia di asilo,immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fon-data sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei con-fronti dei cittadini dei paesi terzi», e l’impegno a «con-trastare la criminalità, il razzismo e la xenofobia» (art.158). Affermazioni più precise in materia si ritrovanoin una specifica sezione dedicata alle politiche relativeai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione(artt. 166-169), che peraltro poco aggiunge agli orien-tamenti già da tempo formulati in proposito dalle isti-tuzioni europee.

Salvo sorprese, il trattato costituzionale dovrebbe es-sere sottoscritto da tutti gli Stati membri, una volta ap-pianati i contrasti (relativi soprattutto alle modalità dicomputo della maggioranza qualificata richiesta per ledecisioni non unanimi) che ne hanno impedito l’appro-vazione al Consiglio europeo di Bruxelles (12-13 di-cembre 2003).

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La convergenza delle politiche migratorie dei paesi dell’Unione Europea

Il processo testé delineato ci aiuta a comprendere megliola convergenza, già sopra accennata, delle politiche mi-gratorie di tutti i paesi dell’Unione Europea. Mi limito arichiamarne qui qualche aspetto che va al di là delle me-re modifiche normative e concerne la stessa cultura po-litica, con particolare riferimento ai tre principali paesieuropei d’immigrazione, sopra analizzati in dettaglio (cfr.cap. 2).

La Francia, pur non rinunciando a un’impostazioneprevalentemente individualista, accetta ormai come in-terlocutori legittimi delle autorità pubbliche i rappresen-tanti delle comunità straniere presenti sul suo territorio enon denuncia più come un’inaccettabile ghettoïsation àl’americaine il riconoscimento delle loro peculiarità etni-co-culturali. Da tempo sono state introdotte anche dellemisure “particolaristiche” per venire incontro alle esi-genze degli immigrati, specialmente per ciò che concer-ne l’accesso alle abitazioni nei quartieri di edilizia sov-venzionata (cfr. Stame Meldolesi, 1995, 2004). Vi si di-scute altresì l’opportunità d’introdurre nella vita sociale epersino nelle scuole degli elementi d’interculturalità enon suscitano più scandalo le proposte avanzate in talsenso (cfr., fra le prime, Clanet, 1986), già stigmatizzatecome irresponsabili provocazioni di minoranze incapacidi apprezzare nel modo ritenuto dovuto gli asseriti persi-stenti meriti della tradizionale impostazione “repubblica-na”. Né manca chi, nella seconda metà degli anni novan-ta, si è spinto a preconizzare un “multiculturalismo allafrancese”, inteso come un compromesso fra i valori laicie repubblicani, da concepirsi in modo non più giacobi-no, e quelli delle varie comunità immigrate (cfr. Amselle,1996; Roman, 1996; Wieviorka, 1996; Touraine, 1997).

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Un significativo passo in tal senso è stato recente-mente compiuto (13 dicembre 2003) con la presenta-zione al presidente Chirac del rapporto della Commis-sione sulla laicità, presieduta dal “mediatore della Re-pubblica” Bernard Stasi, un ex ministro democristianodi sentimenti liberali, e composta da venti esperti, fracui alcune personalità di grande prestigio (MohammedArkoun, Jacqueline Costa-Lascoux, Regis Debray, Gil-les Kepel, Henri Péna-Ruiz, René Rémond, Alain Tou-raine e Patrick Weil). La commissione, pur esprimendoun parere favorevole al divieto di entrare negli edificipubblici, fra cui le scuole statali, con capi di abbiglia-mento e simboli vistosi che ostentino l’appartenenza re-ligiosa o politica (grandi croci, velo islamico, kippahebraica, turbanti sikh), ha proposto di ammettere l’usodi segni “discreti” di fede o di origine (medagliette, pic-cole croci, manine di Fatima, piccoli Corani, stelle diDavid ecc.). Questo segnale di apertura è stato confer-mato dal suggerimento (peraltro non accolto da Chi-rac) d’inserire nel calendario delle festività pubbliche lapiù importante ricorrenza ebraica, Yom Kippur (il gior-no dell’espiazione), cara anche a molti ebrei non prati-canti, e la principale ricorrenza islamica, Aid-el-Kebir(il giorno del sacrificio). Sono state inoltre caldeggiatedelle misure intese a garantire la neutralità religiosa epolitica di tutti i servizi pubblici (scuole, caserme, ospe-dali, cimiteri), cui è stato peraltro chiesto di rispettare,nella misura del possibile, le diverse sensibilità cultura-li e religiose (negli ospedali, per esempio, molte donnemusulmane, spontaneamente o perché indotte da pa-dri, fratelli e mariti, rifiutano le prestazioni mediche einfermieristiche dispensate da personale maschile). Lacommissione ha anche richiesto un grande rilancio del-la lotta alle discriminazioni razziali e della politica del-l’integrazione.

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«In considerazione del mutamento del paesaggio spi-rituale intercorso nell’ultimo secolo», la laicità, pur con-fermata come un valore irrinunciabile della Repubblica,è stata così reinterpretata come uno strumento per fa-vorire la convivenza civile in un paese ormai multietni-co e multireligioso (4-5 milioni sono gli islamici e600 000 gli ebrei). Si è infatti capito che la laicità, desa-cralizzata, può favorire non solo la tolleranza reciproca,ma l’integrazione, il cui insuccesso è ormai sin troppoevidente. Ma a tal fine occorre sviluppare con urgenzaanche una nuova cultura della quotidianità, che pro-muova, per esempio, l’emancipazione femminile e l’u-guaglianza dei sessi senza pretendere un’impossibile as-similazione forzata delle popolazioni di origine non eu-ropea a usi e costumi che nello stesso Occidente si sonoaffermati solo in tempi relativamente recenti. Le princi-pali proposte della Commissione, nonostante le prote-ste e le minacce di alcune organizzazioni islamiche, so-no state approvate dall’Assemblea Nazionale, la Came-ra dei deputati, il 10 febbraio 2004.

D’altra parte, poiché anche in Francia esistono pro-blemi di natura diversa, che comportano dei rischi nonsolo per l’integrazione, ma per la sicurezza e l’ordinepubblico, è stata approvata ancor prima (28 ottobre2003) una legge, proposta dal ministro dell’Interno Sar-kosy, che mira a contrastare con più vigore l’immigra-zione illegale e le sue conseguenze.

Il Regno Unito guarda all’immigrazione come a unarisorsa ormai irrinunciabile, nonostante le ben note dif-ficoltà economiche e sociali (causate dalla disindustria-lizzazione e aggravate dall’attuale congiuntura interna einternazionale), che non hanno mancato di suscitarediffuse resistenze fra gli autoctoni e reazioni anche vio-lente fra gli immigrati, soprattutto nei vecchi centri in-dustriali in crisi, ove periodicamente esplodono i con-

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flitti (cfr. Body-Gendrot, 1993). Anche le conseguenzedi lungo periodo che il processo comporta sono sostan-zialmente accettate, benché di quando in quando rie-merga il richiamo a uno “spirito britannico” da recupe-rare, come nel recente saggio del ministro dell’InternoBlunkett (2002) intitolato Reclaiming Britishness. È si-gnificativo, in proposito, che lo stesso principe Carlo,destinato, in caso di ascesa al trono, ad assumere il ruo-lo di defensor fidei, abbia pubblicamente espresso l’in-tenzione di assolverlo a favore non già della sola Chiesaanglicana (di cui il re d’Inghilterra è capo ex officio), madi tutte le fedi di fatto presenti nel paese.

D’altra parte, mentre è stata facilitata l’immigrazionelegale per motivi di lavoro, è stata data una stretta si-gnificativa all’immigrazione illegale, compresa quellache adduce motivi politici. L’ultima legge su asilo, im-migrazione e nazionalità (7 novembre 2002) ha cercatodi porre un freno all’arrivo degli asilanti, diventati nelfrattempo sempre più numerosi (oltre 110 000 nel 2002)per motivi diversi: la presenza nel paese di più o menoconsistenti comunità di connazionali in grado di aiutar-li; la possibilità di ottenere un permesso di lavoro doposei mesi dall’arrivo, anche prima della decisione defini-tiva sulla domanda di asilo; la facilità di restare nel pae-se illegalmente, in caso di non accoglimento della do-manda, per l’inesistenza di documenti ufficiali d’iden-tità. La nuova legge dispone l’identificazione biometri-ca degli immigrati (attraverso le impronte digitali o il ri-conoscimento iridico); combatte i passeurs e il lavoronero; accelera l’esame delle domande di asilo e ne pre-vede un vaglio più attento per individuare quelle abusi-ve; istituisce dei centri di accoglienza e di controllo pergli asilanti; proibisce loro di lavorare prima che ne siaaccolta la domanda; impedisce i ricorsi “manifestamen-te infondati” contro il suo rigetto; vieta l’accettazione

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delle domande presentate da cittadini di paesi candida-ti all’ingresso nell’Unione Europea, ormai ufficialmenteconsiderati “sicuri”; prevede l’accoglimento delle do-mande patrocinate nei paesi di origine dai rappresen-tanti dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazio-ni Unite; rende meno facile il prolungamento del sog-giorno e l’ottenimento della cittadinanza britannica;stabilisce che gli immigrati seguano dei corsi di inglese,scozzese o gallese; introduce delle misure intese a favo-rire la loro integrazione sociale.

La Germania, che, come abbiamo visto, ha smesso didefinirsi come un “paese di non immigrazione”, ha an-che saputo superare l’idea di una mera “integrazionetemporanea” degli immigrati, elaborata con scarsa for-tuna trent’anni or sono. Per i giovani nati in Germaniada immigrati stranieri è ormai prevista l’acquisizionedella cittadinanza tedesca al compimento della maggioretà e per gli immigrati di prima generazione la “natura-lizzazione” non è più un sogno impossibile. D’altra par-te l’auspicio (formulato anche in Austria) che tutti gliimmigrati presenti nel paese imparino il tedesco, piùche un’ultima resistenza dettata dall’ancor prevalenteconcezione etnico-culturale della nazione, costituisceuna testimonianza dell’ormai intervenuta accettazionedel loro insediamento definitivo.

Come si vede, al di là delle pur persistenti differenze,emerge la convergenza verso un modello d’integrazionesociale con salvaguardia dell’identità culturale degli im-migrati, che è proprio quello indicato dalla Commissio-ne europea (2000) nel suo documento sopra citato e poiripreso dal progetto di trattato costituzionale.

Vale la pena di sottolineare che antesignana di questoorientamento è stata, paradossalmente, l’Italia, diventa-ta un paese d’immigrazione solo a partire dagli anni set-tanta, dopo essere stata per più di un secolo il primo

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paese europeo di emigrazione. In realtà tale orientamen-to caratterizza già chiaramente la sua prima legge in ma-teria d’immigrazione, la n. 943 del 30 dicembre 1986,firmata da De Michelis e Craxi, ma frutto in realtà diuna pluriennale elaborazione collettiva cui hanno datoun contributo importante le principali confederazionisindacali (cfr. Federazione CGIL-CISL-UIL, 1982). Que-sto orientamento è stato poi confermato da tutte le leg-gi successive: la n. 39 del 28 febbraio 1990 (la legge Mar-telli), la n. 40 del 19 febbraio 1998 (la legge Turco - Na-politano) e anche la n. 189 del 30 luglio 2002 (la leggeBossi - Fini), attualmente in vigore, che pur moveva so-prattutto da preoccupazioni di altra natura (di controllosociale e di ordine pubblico).

Per quanto in apparenza strano, il fatto ha una sua lo-gica. L’immigrazione in Italia è cominciata nella secon-da delle tre citate fasi dell’immigrazione post-bellica inEuropa, quella caratterizzata dalla nuova divisione in-ternazionale del lavoro, e ha preso abbrivio nella terza,quella più segnata dal processo di globalizzazione e dal-l’unificazione europea. Inoltre la cultura politica italia-na, e soprattutto l’idea italiana di nazione, è più deboledi quella degli altri tre paesi sopra analizzati e si collocasin dalle origini in una posizione intermedia fra quellafrancese e quella tedesca. Per di più in Italia è semprestata molto forte l’influenza dell’universalismo, profeti-co e tattico a un tempo, della Chiesa cattolica, che halargamente compenetrato tutte le principali forze poli-tiche, a partire dalla Democrazia cristiana, il partito chene ha retto le sorti per oltre un quarantennio e ha poidato luogo a una diaspora, manifesta e latente, che hainteressato quasi tutte le formazioni politiche attual-mente rappresentate nel Parlamento. Un ruolo moltoimportante ha giocato anche l’internazionalismo prole-tario, che ha ispirato, e in parte ancora ispira, i partiti

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politici, i sindacati e i movimenti della sinistra. Inoltrel’europeismo italiano, forte e diffuso (anche perché l’I-talia, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, havisto nell’integrazione europea un’importante possibi-lità di riscatto e di promozione), ha reso il paese parti-colarmente ricettivo alle indicazioni delle istituzioni co-munitarie, mentre la crisi evidente dei modelli “nazio-nali” degli altri paesi europei ha dissuaso per tempo an-che solo dal tentare di ripercorrerne pedissequamentela via e ha per contro sollecitato la ricerca di una stradadiversa. All’originalità italiana ha d’altra parte concorsoanche qualche caratteristica nazionale non proprio lo-devole, come la disinvoltura con cui da noi si disatten-dono sistematicamente le norme vigenti e se ne applica-no altre, non formali, che appartengono a una sorta dicostituzione materiale non scritta, più forte di quellastessa ufficialmente vigente. Ciò comporta che di fattomolto spesso si puniscano coloro che osservano le leggie si premino invece coloro che le violano (nel caso spe-cifico con le reiterate sanatorie e i conseguenti benefici,così come del resto accade con le amnistie, gli indulti ei provvedimenti di grazia nella sfera penale e i condoniedilizi, fiscali e contributivi in quella amministrativa).

Anche al di là del particolare interesse che riveste pernoi, è dunque opportuno dedicare un approfondimentospecifico all’immigrazione in Italia, che del resto, da ca-so anomalo, quale è stata agli inizi (cfr. Melotti, 1990b,1991a; Bolaffi, 1996), è da tempo ormai diventata uncaso esemplare (cfr. Melotti, 1994b).

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L’Italia è diventata un paese d’immigrazione in anni re-lativamente recenti e, così come gli altri late comers del-l’immigrazione in Europa (la Spagna, il Portogallo e laGrecia, in particolare), divenuti paesi di approdo nellastessa fase storica, ha conosciuto un’immigrazione do-vuta assai più ai fattori di espulsione nei paesi di esodoche ai fattori di attrazione nel paese di approdo e ha co-stituito a lungo per i migranti solo una seconda o terzaopzione rispetto ad altre mete più ambite (cfr. Melotti,1985).

L’Italia, da paese di emigrazione a paese d’immigrazione

La trasformazione dell’Italia in paese d’immigrazione èavvenuta nel corso degli anni settanta, quando gli arrivi(già cominciati con l’arrivo dei primi cinesi fra le dueguerre e ripresi in sordina negli anni sessanta, soprat-tutto dalle ex colonie del Corno d’Africa e dalla vicinaTunisia) aumentarono rapidamente, nonostante la gra-ve crisi economica che allora vi imperversava, così comedel resto in molti altri paesi del Nord e del Sud delmondo (cfr. cap. 1). Molti di coloro che, per loro stessaaffermazione, avrebbero preferito dirigersi verso i tra-dizionali paesi d’immigrazione dell’Europa centro-set-tentrionale o addirittura verso gli Stati Uniti, il Canadae l’Australia, trovando le loro frontiere almeno ufficial-

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mente chiuse, cominciarono infatti a riversarsi in Italia,che, considerandosi ancora un paese di emigrazione enon d’immigrazione, aveva lasciato le sue del tuttoaperte (di fatto, ma non di diritto, dato che tale “aper-tura” dipendeva soltanto dalla sistematica disapplica-zione, più per trasandatezza e inefficienza che per scel-ta consapevole, delle pur restrittive norme sugli “stra-nieri” ereditate dalla legislazione fascista). A questi im-migrati economici si aggiunsero poi, via via, i numerosiprofughi politici di quel periodo (argentini, brasiliani,cileni, uruguayani, paraguayani, salvadoregni, palesti-nesi, libanesi, eritrei, etiopici, somali, iraniani, curdi,vietnamiti, tamil ecc.). L’immigrazione s’incrementò ul-teriormente negli anni ottanta, per effetto sia dei persi-stenti fattori espulsivi nei paesi di origine (per le crisieconomiche e politiche che colpirono molti paesi delTerzo Mondo e dell’Europa orientale), sia dei fattori diattrazione, che cominciarono ad acquisire una certa ri-levanza anche in Italia per il notevole sviluppo dei co-siddetti golden eighties (1982-1989), che pure non fu-rono così aurei per tutti. In questo periodo a orientarei flussi verso l’Italia concorsero anche le ulteriori restri-zioni all’immigrazione legale e i più severi controlli con-tro quella clandestina introdotti dagli altri paesi europeiattorno alla metà degli anni ottanta.

Secondo i dati del Ministero dell’Interno (basati suipermessi di soggiorno rilasciati dalle questure), il nu-mero degli stranieri legalmente presenti in Italia si rad-doppiò nel corso degli anni settanta, passando dai circa150 000 del 1970 ai circa 300 000 del 1980, e aumentò aun ritmo ancora più rapido nel decennio successivo, ar-rivando a poco meno di 800 000 nel 1990, l’anno in cuifurono varate le prime misure intese a contenere gli in-gressi. Dopo un breve periodo di assestamento (dovutonon tanto a quei provvedimenti, che ebbero ben scarso

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successo, quanto alla guerra del Golfo e alla nuova crisieconomica), l’immigrazione riprese a un ritmo sostenu-to, che portò a un ulteriore raddoppio delle presenze le-gali alla fine del decennio. Gli immigrati regolari arriva-rono così a circa 1 700 000 nel 2000, compresi i minorisenza proprio permesso di soggiorno (Caritas di Roma,2000). Con un’ulteriore impennata, sono poi saliti a cir-ca 2 600 000 (1° gennaio 2004), inclusi quelli con proce-dura di regolarizzazione avviata, ma non ancora conclu-sa a quella data. Ciò colloca l’Italia al quarto posto inEuropa (se non addirittura al terzo: i dati sono contro-versi, anche per il diverso sistema di calcolo) per il nu-mero assoluto degli immigrati legali, dopo i tre paesi so-pra analizzati in dettaglio (nell’ordine la Germania, laFrancia e il Regno Unito), ove l’immigrazione è iniziataassai prima, in una diversa fase storica e per motivi inparte differenti, ed è stata per di più addirittura solleci-tata in alcuni periodi (diversamente che in Italia) conmirate politiche di richiamo e di reclutamento. La parti-colare rapidità del processo immigratorio in Italia risul-ta del tutto evidente, se si considera che nell’ultimo de-cennio lo stock di immigrati si è accresciuto di oltre150 000 unità all’anno, con un’accelerazione nell’ultimoquinquennio, e ha comportato ogni anno un aumentodella popolazione pari a quella di una città medio-gran-de, come Cagliari o Brescia. Ciò ha fatto dell’Italia, inquesti ultimi anni, il paese europeo a più forte immigra-zione dopo la Germania, con ingressi due volte più altiche in Francia: un fenomeno tanto più rilevante perchéavvenuto in un decennio in cui gli effetti della depres-sione demografica sul mercato del lavoro, tanto annun-ciati da alcuni studiosi, si sono appena fatti sentire e de-stinato a portare il numero degli immigrati, secondo leprevisioni dei demografi, a 6,5 milioni fra vent’anni (cfr.Livi Bacci, 2003, 2004).

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Bisogna inoltre considerare che in Italia il numero ef-fettivo degli immigrati è sempre stato notevolmente piùalto di quello risultante dai permessi di soggiorno, per leconsistenti presenze illegali. Anche se le quattro genero-sissime sanatorie del 1987, del 1990, del 1995 e del 1998hanno consentito la regolarizzazione di oltre 800 000persone (120 000 la prima, 222 000 la seconda, 246 000la terza, 217 000 la quarta), il numero degli irregolari èrestato infatti sempre molto alto, anche per l’effetto dirichiamo di quelle stesse sanatorie. Alla fine del 2000,secondo le pur discutibili stime della polizia, comunica-te dall’allora ministro dell’Interno Gerardo Bianco, gliirregolari sarebbero stati almeno 250 000 – un numerosuperiore a quello calcolato prima della sanatoria alloraappena conclusa da un gruppo di lavoro istituito pres-so lo stesso Ministero dell’Interno (1998) – e alla vigiliadella quinta sanatoria, quella dell’autunno 2002, il nu-mero degli irregolari ipotizzato dal Dipartimento dipubblica sicurezza era di circa 800 000: una valutazionepoi sostanzialmente confermata dalle oltre 700 000 do-mande di regolarizzazione presentate entro la scadenza(11 novembre 2002) dai datori di lavoro per quei loro di-pendenti che potessero dimostrare il loro arrivo in Italiaprima della data prevista, con l’impegno ad assumerli re-golarmente per almeno un anno e a pagare per loro tremesi di contributi previdenziali arretrati (un numero chefra l’altro dimostra il sostanziale fallimento della leggeTurco - Napolitano sul fronte del contenimento degli ar-rivi illegali, nonostante la sua pretesa “severità”, ripetu-tamente asserita in numerosi interventi parlamentari etelevisivi dalla sua prima firmataria).

In ogni caso l’Italia è restata (almeno sino all’ultimasanatoria) il primo paese in Europa per il numero, as-soluto e relativo, degli immigrati irregolari, così come loè per la percentuale degli extracomunitari sul totale de-

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gli immigrati regolari (quasi il 90% al 1° gennaio 2003)e la percentuale dei disoccupati fra gli immigrati irrego-lari e regolari: un insieme di dati che segnala la partico-lare problematicità della situazione, con ovvi riflessi ne-gativi sia per l’integrazione sociale degli immigrati, sia(cosa non indipendente da quella) per la sicurezza, l’or-dine pubblico e la convivenza civile: temi che proprioper questo hanno finito per essere sempre più discussicon riferimento diretto e indiretto all’immigrazione, an-che se alcuni improvvisati “esperti” (cito per tutti DalLago, 1994, e Palidda, 1994) nelle più che legittime pre-occupazioni in argomento non hanno saputo veder al-tro che l’espressione di un pregiudizio dettato da xe-nofobia o razzismo.

Per comprendere queste difficoltà, non bisogna di-menticare che l’Italia è diventata un paese d’immigra-zione quando i potenti fattori di spinta già sopra ricor-dati hanno indotto crescenti frange della popolazionedi alcuni paesi del Terzo Mondo prima e dell’Europaorientale poi a tentare l’avventura dell’Occidente, cer-cando sbocchi anche in quei paesi dell’Europa meridio-nale in cui l’immigrazione costituisce per molti aspettiun paradosso. In questi paesi, infatti, l’immigrazionecoesiste con l’emigrazione (che ancora continua, sia purin misura ridotta) e soprattutto con la disoccupazione el’inoccupazione, che restano invece a livelli assai alti. InItalia, in particolare, la disoccupazione negli anni ottan-ta superava il 12% su base nazionale e il 20% nel Mez-zogiorno (che ancora ne detiene il triste primato fra tut-te le aree europee), con tassi ancora più elevati per de-terminate categorie (la disoccupazione femminile supe-rava il 15% e quella giovanile il 25% su base nazionaleed entrambe superavano il 40% nel Mezzogiorno). Delresto, nonostante un recente miglioramento (nel 2002 iltasso generale di disoccupazione è sceso al 9%, quello

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femminile al 12% e quello giovanile al 24%), l’Italia èrimasta all’ultimo posto nell’Unione Europea per l’indi-ce di occupazione elaborato dall’Eurostat (l’Ufficio sta-tistico della Comunità europea), così come è rimasta al-l’ultimo posto fra tutti i trenta paesi dell’Organizzazio-ne di cooperazione e sviluppo economico per il tassodella popolazione attiva (OCDE, 2003), e ha conosciutonegli ultimi anni anche una certa ripresa dell’emigrazio-ne (ormai calcolabile a circa 100 000 unità all’anno).Oggi (2003) la disoccupazione giovanile (sotto i 25 an-ni) è al 27% in Italia (23,9% per i ragazzi e 31,9% perle ragazze) e arriva a sfiorare il 50% nel Sud (il 58,5%per le ragazze), con il 52,8% in Sicilia, il 55,1% in Ca-labria e il 59,6% in Campania, mentre è al 23,4% nelCentro e il 10,3% nel Nord, con un minimo del 4,5%nel Trentino-Alto Adige.

Di conseguenza qui, così come in genere nei paesi del-l’Europa meridionale, gli immigrati s’inseriscono per lopiù in segmenti del mercato del lavoro che sono poco ri-cercati dagli autoctoni (se non proprio “rifiutati”, comea volte impropriamente si dice), soprattutto per le con-dizioni ivi praticate. Le ragioni sono diverse. Fra queste,vi è il considerevole aumento dei redditi di molte fami-glie, che, assieme alle pur misere provvidenze statali e aqualche lavoretto in nero, consente di tamponare le con-seguenze anche di lunghi periodi d’inoccupazione gio-vanile, dovuti, almeno in parte, alle irrealistiche aspetta-tive suscitate nei giovani e nelle loro famiglie da una sco-larizzazione prolungata, ma di qualità sempre più bassae poco rispondente alle effettive esigenze del mercato.La domanda e l’offerta di lavoro però non s’incontranosempre anche per quanto concerne gli immigrati. Cosìin Italia (come in Spagna, Portogallo e Grecia) ancheuna parte non piccola di questi ultimi, regolari o irrego-lari che siano, restano disoccupati, in contrasto, anche in

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questo caso, con le sonore, ma insostenibili affermazio-ni dei soliti noti, per i quali non esisterebbe vera disoc-cupazione fra gli immigrati (cfr., per esempio, Palidda,1994, p. 31). Non sorprende pertanto che qui molti diloro abbiano finito per incrementare la piaga della cri-minalità diffusa o siano diventati una manovalanza diquella organizzata, che da tempo ha esteso le sue attivitàmolto al di là delle sue tradizionali regioni d’insedia-mento (la Sicilia, la Campania, la Calabria, la Puglia).Del resto molti vengono in Italia proprio per svolgerviattività illecite, confidando nell’inefficienza o nella con-nivenza della polizia, nell’ipergarantismo delle norme vi-genti e nella comprensione così spesso dimostrata nei lo-ro confronti, anche ultra legem, da una parte non picco-la della magistratura, che tende ad assolverli, o almeno arimetterli in libertà, anche quando siano stati arrestatiper gravi reati, adducendo i più disparati motivi (prete-sa incostituzionalità delle “repressive” leggi vigenti,mancato rispetto di alcuni formalismi procedurali, nonpunibilità per asserito stato di bisogno anche per reaticontro il patrimonio di non modesta entità, “inumano”sovraffollamento delle carceri, comunicazione delle mi-sure cautelari in italiano e non nella lingua dell’imputa-to o in altra lingua da lui dichiarata comprensibile ecc.).

Per quanto concerne il lavoro, bisogna inoltre ricor-dare che l’Italia presenta un vastissimo settore “infor-male” e molte centinaia di migliaia d’immigrati regolarie irregolari (così come, del resto, quasi 4 milioni d’ita-liani) vi trovano un’occupazione in nero, che non appa-re nelle statistiche. Anche questo fatto non facilita l’in-tegrazione. A ciò si aggiunga che molti immigrati crea-no essi stessi i loro posti di lavoro (se così li si può defi-nire), come il piccolo ambulantato di strada (special-mente di prodotti contraffatti o di contrabbando), il la-vaggio dei vetri alle automobili in sosta o la questua più

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o meno mascherata: attività estremamente precarie, mache a volte consentono di realizzare un reddito superio-re allo stipendio di un funzionario di medio livello neiloro paesi (alcune di queste attività sono peraltro con-trollate da organizzazioni malavitose, per lo più collega-te a quelle dei paesi di provenienza, che si approprianodi gran parte dei loro guadagni). Simile, ma per altriaspetti ancora più grave, è il caso delle donne straniereche praticano la prostituzione di strada (almeno 20-25 000, ma esistono stime anche quattro volte superio-ri), per il 70-80% costrette a farlo da organizzazionimalavitose o da sfruttatori violenti, per lo più dei lorostessi paesi (cfr. Caritas Ambrosiana, 2002).

Al 1° gennaio 2003 i lavoratori regolari (tra subordi-nati e autonomi) erano 834 000, pari al 55% delle pre-senze complessive, ai quali si dovrebbero aggiungere i650 000 successivamente regolarizzati per effetto dellasanatoria allora pendente. I più erano impiegati nel set-tore terziario (servizi domestici, servizi alla persona, al-berghi e ristorazione, imprese di pulizia, portinerie ecc.).Collaboratori domestici e badanti assommavano da solia quasi mezzo milione e altri 340 000 erano i regolariz-zandi. Un buon numero era però presente anche nel set-tore primario (soprattutto agricoltura e pesca, specie nel-le regioni meridionali) e nel settore secondario (cave eminiere, edilizia, fonderie, ceramifici e, specialmente nel-le regioni settentrionali, piccola e media industria, ancheleggera). Secondo i dati comunicati alla Camera dei de-putati dal ministro dell’Interno il 25 giugno 2003, lavo-ratori domestici e badanti costituivano il 50% dei lavo-ratori immigrati; servizi, settore alberghiero, ristorazio-ne, pubblici esercizi, costruzioni, trasporti e pulizie neoccupavano il 13%; le industrie (soprattutto quelle tessi-li, dei metalli e della conceria) più del 15%; l’agricoltura(principalmente le attività stagionali di raccolta) il 10%.

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Cominciava inoltre a diventare significativo, specie nelNord, il fenomeno, in realtà non nuovissimo, dell’im-prenditoria etnica. Quasi 60 000 erano i titolari e i socid’imprese con cittadinanza straniera (sui 180 000 “natiall’estero” risultanti alle Camere di Commercio), unquarto dei quali nella sola Lombardia (Caritas di Roma,2003a; Cerfe, 2003). Anche volendo scontare una consi-stente percentuale di “auto-impiego di rifugio”, si trattadi un apporto non trascurabile, tanto più che una partedi tali imprese dà lavoro, direttamente e indirettamente,anche a italiani. Molte di queste imprese, va sottolineato,sono sorte negli ultimi anni, grazie alla legge n. 40/98,che ha favorito il lavoro autonomo degli immigrati.

In alcune attività è ancora alta la concentrazione d’im-migrati di determinati paesi, rilevata sin dalle prime ri-cerche sull’immigrazione straniera in Italia. Così, peresempio, la maggior parte di coloro che provengono daFilippine, Sri Lanka, Eritrea, Repubblica Dominicana,Ecuador, Salvador, Mauritius e Capo Verde (in più omeno netta prevalenza donne) prestano servizio dome-stico, mentre molti di coloro che provengono da Maroc-co e Senegal (in prevalenza uomini) si dedicano all’am-bulantato di strada. I cinesi, d’altra parte, lavorano inconsistente misura in ristoranti, concerie, pelletterie, la-boratori tessili, spesso di proprietà di loro connazionali.Questa segmentazione etnica del mercato del lavoro, as-sai accentuata agli inizi del processo immigratorio (cfr.Melotti, 1985), si è però già notevolmente ridimensiona-ta. Persiste tuttavia l’importanza delle catene migratoriee delle reti etniche, con conseguenze positive e negativea un tempo, dato che facilitano, sì, l’inserimento econo-mico e sociale dei nuovi arrivati, ma concorrono anche aformare delle vere e proprie “comunità incapsulate”, co-me nel caso tipico dei cinesi, con la conseguenza di crea-re autoemarginazione ed emarginazione (Melotti, 1985,

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1988; Chiozzi, 1987), quando addirittura non ne incana-lino una parte in attività devianti di rilevanza anche pe-nale (cfr. Barbagli, 1999; Ambrosini, 2003).

Si sta, in ogni caso, consolidando il fenomeno, relati-vamente recente, di una certa domanda di forza-lavoroimmigrata, specialmente in alcune aree (le grandi città,soprattutto per la collaborazione domestica e i servizi; leprovince del Nord-est, della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, per la piccola e media industria; altre provin-ce del Nord e anche alcune del Sud, per i lavori stagio-nali agricoli). Poiché peraltro ciò non elimina affatto lediffuse resistenze all’insediamento di nuovi immigrati,ma anzi le rafforza, soprattutto in determinati contesti,c’è chi ha descritto la situazione applicando loro l’eti-chetta di wanted, but not welcome (richiesti, ma nonbenvenuti) data da Zolberg (1987) ai nuovi migrantitransnazionali in America, o inventando per loro la de-finizione di “utili invasori” (Ambrosini, 1999). Nel me-desimo senso si è parlato anche di una “sindrome trevi-giana”, per dire che gli immigrati sarebbero graditi digiorno, come lavoratori, ma non di notte, come cittadi-ni o anche solo come fruitori del territorio (il riferimen-to è al caso esemplare di Treviso, una cittadina delNord-est ad alta densità d’immigrati attivi nella piccolae media industria, il cui ex sindaco “sceriffo”, il leghistaGentilini, amatissimo da gran parte della popolazione,si è distinto in battaglie contro la loro presenza “inde-corosa” nei luoghi pubblici).

D’altra parte la concentrazione degli immigrati sul ter-ritorio si sta riducendo. Inizialmente sovrarappresentatiin alcune aree (le regioni di confine e quelle con porti eaeroporti internazionali, i grandi centri urbani, le zoneagricole del Centro-sud), si sono infatti diffusi in tutto ilpaese, anche se ancora notevole è la loro presenza nelleregioni, nelle province e nelle città che offrono le mag-

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giori possibilità di lavoro o, almeno, di sopravvivenza.Secondo gli ultimi dati disponibili (1° gennaio 2003), chesi riferiscono ai soli adulti con permesso di soggiorno,troviamo ai primi posti la Lombardia (348 000), seguitada Lazio (240 000), Veneto (155 000), Emilia-Romagna(151 000), Toscana (111 000), Piemonte (108 000), Cam-pania (59 000) e Sicilia (50 000). Se si calcolano anche iminori, i regolarizzati recenti non ancora compresi inquesti dati e gli irregolari, si superano i 300 000 nella so-la area metropolitana di Roma, i 200 000 in quella di Mi-lano e i 100 000 in quella di Napoli, con percentuali sul-la popolazione ormai da tempo superiori al 10% (la “so-glia critica” un po’ ingenuamente individuata dai primistudi sulle migrazioni internazionali in Europa), così co-me del resto in molte altre città di minori dimensioni.

Si tratta quindi di un fenomeno assai significativo, chesi è sviluppato nell’arco di un quarantennio, con accele-razioni anche brusche in determinate fasi. Peraltro permolti anni le istituzioni vi hanno prestato ben scarsa at-tenzione. In realtà, dall’inizio dell’immigrazione, nei pri-mi anni sessanta, sino alla fine del 1986, l’unica rispostadata al fenomeno fu un sostanziale laissez-faire: nessunprogetto sociale complessivo, nessun orientamento pre-ciso in tema d’integrazione, nessuna iniziativa con un mi-nimo di respiro, nessun intervento specifico neanche pertutelare la sicurezza e l’ordine pubblico (nonostante lapur segnalata diffusione già in quegli anni di significativecomponenti immigratorie sistematicamente dedite ad at-tività malavitose). L’assistenza, ridotta ai minimi termini,era per lo più delegata alla Caritas o ad altre organizza-zioni d’ispirazione cattolica vicine alla Chiesa e al partitodi maggioranza relativa di allora, la Democrazia cristiana,e, in minor misura, alle associazioni sindacali e parasin-dacali e ai patronati collegati ai tre maggiori partiti poli-tici del tempo: la Democrazia cristiana, il Partito comu-

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nista e il Partito socialista (con tutti gli sprechi e gli abu-si facilmente immaginabili). Seguì, per un breve periodo(1987-1990), una politica orientata alla regolarizzazionedi tutti i presenti (condizionata al tempo della prima sa-natoria, incondizionata al tempo della seconda), secondoi dettami di quel “solidarismo” che accomunava allora,consociativamente, i due principali partiti della maggio-ranza di centro-sinistra (la Democrazia cristiana e il Par-tito socialista) e il maggior partito di opposizione (il Par-tito comunista). Successivamente (1990), quando divenneevidente ai più che anche a causa di quella politica la si-tuazione aveva superato il livello di guardia, ci fu un ten-tativo di colpo di freno (informalmente sollecitato anchedalle autorità comunitarie, preoccupate dei suoi possibi-li riflessi oltre i confini italiani, data anche la già previstaeliminazione dei controlli alle frontiere tra gli Stati mem-bri), peraltro con misure mal definite e peggio applicate.

Lo sviluppo della legislazione italiana sull’immigrazione

Il primo provvedimento legislativo italiano in materiad’immigrazione fu la legge n. 943 del 30 dicembre 1986,firmata dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dalministro del Lavoro e della previdenza sociale GianniDe Michelis, entrambi socialisti. Seguì, pochi anni do-po, la legge n. 39 del 28 febbraio 1990, conosciuta comela legge Martelli, dal nome del giovane vicepresidentedel Consiglio, il “delfino” socialista Claudio Martelli,inesperto, ma caparbio quant’altri mai, che l’imposecontro le resistenze non solo dell’opposizione di destra(il Movimento sociale italiano) e dei due soli parlamen-tari della Lega lombarda, ma anche di alcune compo-nenti della stessa coalizione di governo (una parte dei

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democristiani e i repubblicani). Queste leggi furono poiintegrate, in ambiti specifici, da alcuni provvedimenti adhoc, concernenti l’introduzione dei visti d’ingresso per icittadini dei paesi a maggior “rischio migratorio”, “ec-cezioni umanitarie” per coloro che provenissero da pae-si dilaniati dai conflitti bellici (come la Somalia e gli Sta-ti dell’ex Jugoslavia), altre “eccezioni” imposte dalla ne-cessità di fronteggiare determinate “emergenze” (fra cuil’arrivo in massa degli albanesi sulle coste adriatiche nel1991 e poi di nuovo nel 1997) e misure speciali a favoredei vecchi e dei nuovi rifugiati.

Le leggi n. 943/1986 e n. 39/1990, che pur furono re-cepite allora soprattutto come dei provvedimenti intesia regolarizzare gli extracomunitari già presenti illegal-mente nel paese, hanno definito il quadro generale del-le politiche per gli immigrati. Esse hanno infatti sancitoi loro principali diritti e ne hanno preconizzato l’inte-grazione sociale nel rispetto della diversità culturale.

La legge n. 943/1986 ha riconosciuto a tutti i lavora-tori extracomunitari legalmente residenti in Italia la pa-rità di trattamento e la piena uguaglianza giuridica coni lavoratori italiani. Ha assicurato loro il diritto al ri-congiungimento familiare e ha affermato, per loro e peri loro congiunti, il diritto all’uso dei servizi sociali e sa-nitari, all’abitazione e alla scuola (diritto, quest’ultimo,esteso poi, nel 1994, anche ai figli degli immigrati irre-golari, così come previsto dalla Convenzione sui dirittidell’infanzia, applicabile a tutti i minori, approvata dal-l’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 eratificata dall’Italia il 27 maggio 1991). Ha altresì rico-nosciuto il diritto degli immigrati di organizzare pro-prie associazioni e di mantenere la propria identità cul-turale e ne ha promosso la partecipazione, in forma in-diretta, alle decisioni che li riguardassero, tramite unaspecifica “consulta” istituita presso il Ministero del La-

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voro e della previdenza sociale (che peraltro ha avutovita breve e precaria, così come le coeve consulte regio-nali e municipali sorte sul suo modello). La legge pre-vedeva anche, per la prima volta in Italia, la lotta al-l’immigrazione clandestina, ma questo punto, pur pre-sente nel suo stesso titolo, fu quasi completamente di-satteso, per ragioni diverse (malintesa “solidarietà”,inefficienza amministrativa e anche connivenze e inte-ressi non confessabili venuti poi in parte alla luce).

La legge n. 39/1990 ha definito un insieme d’inter-venti per favorire l’integrazione sociale e la promozioneculturale degli immigrati e ha stanziato dei fondi di unacerta consistenza per dare attuazione al loro diritto allacasa e all’educazione. Ha garantito a tutti gli immigratiregolari l’iscrizione gratuita all’assistenza sanitaria pub-blica per il periodo di un anno (poi portato a tre). Haeliminato la cosiddetta “riserva geografica” che in Italia(così come in pochissimi altri paesi) precludeva ai noneuropei la possibilità di chiedere il riconoscimento del-lo status di rifugiati ai sensi della Convenzione di Gine-vra (anche se non fu loro mai negato il rifugio de facto,rafforzato dalla protezione dell’ACNUR, l’Alto commis-sariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con la cui de-legazione in Italia il governo aveva stipulato uno speci-fico accordo, che prevedeva anche un cospicuo contri-buto finanziario). Ha stabilito il principio di una pro-grammazione degli ingressi (che, pur essendo poi resta-ta per alcuni anni a livello zero, per l’elevatissimo nu-mero di disoccupati fra gli immigrati regolari già pre-senti nel paese, non ha impedito l’arrivo di una mediadi oltre 50 000 immigrati regolari all’anno, grazie allenorme sul ricongiungimento familiare e sul rifugio poli-tico e ai contratti di lavoro, spesso del tutto fasulli o dicomodo, ma ben raramente controllati davvero). Suc-cessivamente, nella seconda metà degli anni novanta, il

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numero degli immigrati regolari annualmente previstofu fissato a 63 000, in aggiunta a quello, non piccolo, dicoloro che, già presenti irregolarmente in Italia, hannopotuto beneficiare delle sanatorie del 1996 e del 1998(complessivamente quasi mezzo milione di persone).

Nel suo insieme, questa legislazione s’ispirava al prin-cipio di attribuire agli immigrati regolari gli stessi dirit-ti civili, economici e sociali dei cittadini italiani, senzarichiedere loro, come condizione per fruirne, l’acquisi-zione della cittadinanza (un principio che l’Italia avevapropugnato per decenni per i suoi emigrati all’estero).Ciò implicava, per molti aspetti, l’equiparazione di fat-to degli immigrati extracomunitari regolari ai cittadinidei paesi comunitari, con una sola rilevante eccezione:il diritto di voto alle elezioni amministrative, che in Ita-lia è tuttora riconosciuto soltanto a questi ultimi, men-tre in altri paesi europei è stato da tempo esteso, a de-terminate condizioni, anche agli extracomunitari, se-condo gli auspici da tempo formulati dal Consigliod’Europa e dal Parlamento europeo. È questo il casodell’Irlanda (1963), della Svezia (1975), della Danimar-ca (1981), dei Paesi Bassi (1985), della Finlandia (1992),del Lussemburgo (2003), del Belgio (2004), del Porto-gallo (1971) e della Spagna (1993), in entrambi limita-tamente ai cittadini di determinati paesi e a condizionedi reciprocità, e persino di qualche Land tedesco, pertacere del Regno Unito, in cui, come già detto, i cittadi-ni dei paesi del Commonwealth godono di pieni dirittipolitici. Nei paesi europei non appartenenti all’Unioneil voto amministrativo agli stranieri è previsto in Islanda(1981), per i soli cittadini dei paesi nordici, in Norvegia(1982) e anche in qualche cantone svizzero, fra cui quel-lo di Neuchâtel (1849), che ne è stato un antesignano, equello del Giura (1979), che lo ha introdotto subito do-po la sua istituzione.

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Per contro, in Italia è stato sempre fortemente affer-mato il diritto all’identità culturale e religiosa e, più ingenerale, il rispetto della diversità, del resto già profon-damente radicato nella società civile. Proprio per que-sto, per fare un esempio, vicende simili a quelle reitera-tamente vissute in Francia dalle giovani musulmaneespulse dalle scuole statali o sospese senza stipendio da-gli impieghi pubblici solo perché indossavano il cosid-detto “foulard islamico” in Italia sarebbero state addi-rittura impensabili. Peraltro qualche dichiarazione deci-samente sopra le righe, o peggio, contro l’“invadenzaislamica” è stata di recente espressa non solo dagli espo-nenti di alcuni partiti politici (in particolare la Leganord), ma anche da alcuni prelati della Chiesa cattolica(come il cardinale Giacomo Biffi, allora arcivescovo diBologna, monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo diComo, e don Gianni Baget-Bozzo, un sacerdote da tem-po impegnato in politica, prima con i socialisti e poi conForza Italia) e da alcuni opinion makers del mondo laicoben noti per le loro prese di posizione eccessivamenteumorali (come il politologo Giovanni Sartori, 2000, e lascrittrice Oriana Fallaci, 2001). Queste posizioni si sonopoi diffuse per qualche tempo nel contesto delle esage-rate reazioni emotive suscitate dall’ordinanza di un ma-gistrato che, nel rispetto del principio costituzionale del-la laicità dello Stato, si era espresso per la rimozione delcrocifisso dalle aule del plesso scolastico di un piccolocomune abruzzese, accedendo al ricorso di un genitoredi religione islamica, il cittadino italiano Adel Smith (na-to ad Alessandria d’Egitto da padre italiano), presidentedi un’associazione da lui costituita, l’Unione musulmanid’Italia (22 ottobre 2003). Con poche eccezioni, hannopartecipato all’orgia di esternazioni perturbate e com-mosse, aperta da una rabbiosa dichiarazione televisivadel cardinale Ersilio Tonini, per solito assai misurato,

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molti importanti personaggi politici della destra e dellasinistra (con limitati, ma meritori, dissensi nei due schie-ramenti) e lo stesso presidente della Repubblica Ciampi,da cui pure sarebbe stato lecito attendersi, al contrario,un intervento a tutela dei diritti costituzionalmente ga-rantiti delle minoranze, della pari libertà di coscienza ditutti i cittadini, della laicità dello Stato e della stessa in-dipendenza della magistratura, dati i virulenti attacchirivolti da tanti pulpiti a quel magistrato.

Peraltro in Italia, più ancora che in altri paesi, inter-corre un divario notevole fra il teorico riconoscimentodei diritti e la loro effettiva attuazione. Non stupiscepertanto che anche alcuni diritti di natura economico-sociale pur costituzionalmente garantiti (come quelli allavoro e alla casa) siano restati quasi lettera morta, cosìcome del resto per molti italiani.

D’altra parte il forte garantismo della nostra legisla-zione, coniugato con la scarsa efficienza degli apparatidi polizia e la macchinosità e la lentezza delle procedu-re amministrative e giudiziarie (anche a prescindere dal-le ricorrenti connivenze di non pochi funzionari deviatidai loro ruoli istituzionali), assicurava la pressoché tota-le impunità alla maggior parte degli immigrati, regolarie irregolari, che si fossero macchiati di reati anche gravi(con tutto ciò gli immigrati sono arrivati a costituire cir-ca 1/3 della popolazione carceraria). Il meccanismo del-le espulsioni era quasi inceppato. In prima istanza eraaffidato all’esecuzione spontanea degli stessi “intimati”,che peraltro ben raramente rispettavano l’ordine di la-sciare il paese. In seconda istanza era previsto l’accom-pagnamento alla frontiera, che peraltro era eseguito sol-tanto in una piccola parte dei casi (agli inizi degli anninovanta uno su dieci; alla fine del decennio uno su sei).Per di più bastava la distruzione dei documenti d’iden-tità da parte degli interessati e la comunicazione da par-

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te loro di false generalità per mettere in scacco tutta laprocedura, caratterizzata da un esasperato formalismo.

A questa situazione ha cercato di porre rimedio il go-verno Dini con un decreto (il D.L. n. 489 del 18 no-vembre 1995) che prevedeva (accanto ad altri provve-dimenti, fra cui la terza delle sanatorie sopra citate) del-le procedure di espulsione più spicce almeno per i clan-destini colti in flagranza di reato. Ma quel decreto, rei-terato per ben quattro volte, con varie modifiche, non èmai stato convertito in legge per la strenua opposizionedelle componenti più garantiste della maggioranza dicentro-sinistra di quel periodo ed è stato lasciato deca-dere (con salvaguardia però, a opera di una specificalegge, la n. 617 del 9 dicembre 1996, delle misure di sa-natoria per gli immigrati clandestini). Vale la pena di ri-cordare che, prima e dopo quel decreto, anche alcuniben noti prelati, fra cui monsignor Luigi Di Liegro, re-sponsabile della Caritas romana, e monsignor RaffaeleNogaro, vescovo di Caserta, sono insorti contro leespulsioni degli stessi immigrati illegali autori di gravireati, definendole un “atto d’inciviltà” e invitando a“urlare” contro tale asserita “barbarie” (cfr. Di Liegro ePittau, 1992; Nogaro, 1996a e 1996b).

In luogo del decreto decaduto, il 19 febbraio 1998 fuapprovata, dopo lunghe e defatiganti discussioni, unanuova legge, la n. 40/98, che i suoi due proponenti, laministra della Solidarietà sociale Livia Turco e il mini-stro dell’Interno Giorgio Napolitano (entrambi diessiniprovenienti dall’apparato del vecchio Partito comuni-sta), avevano voluto presentare come l’attesa “legge or-ganica” sull’immigrazione, mentre il vero progetto di“legge organica” (predisposto da una pletorica com-missione di studio che aveva iniziato a operare nel 1993,quando la delega per l’immigrazione era ancora gestitadalla ministra Contri) era stato affondato, prima della

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sua stessa presentazione alle Camere, dal fuoco incro-ciato della composita lobby pro-immigrati, ben rappre-sentata anche all’interno della commissione, e delle for-ze politiche, di maggioranza e di opposizione, fautrici diun maggior rigore.

La legge Turco - Napolitano (firmata anche dal primoministro Romano Prodi, un ex democristiano passato aipopolari, e dall’ex comunista Massimo D’Alema, a queltempo leader dei democratici di sinistra), a detta dei suoiinesperti, ma testardi proponenti, avrebbe dovuto pre-vedere sia delle efficaci misure per l’integrazione degliimmigrati, sia dei seri provvedimenti per combatterel’immigrazione clandestina (notevolmente accresciutasinel frattempo). Le opposte resistenze emerse durante ilsuo iter parlamentare hanno però finito per svuotarlaquasi di ogni senso e poche sono state le sue reali inno-vazioni rispetto alla normativa precedente (come si puòevincere dal Testo Unico che coordinò poi tutte le nor-me vigenti in materia). Di qualche rilievo furono peral-tro l’introduzione di una carta di soggiorno permanenteper gli immigrati regolari residenti in Italia da almenocinque anni, i permessi semestrali per il lavoro stagiona-le (pur destinati in gran parte a non essere rispettati equindi a creare nuova irregolarità), le facilitazioni perl’esercizio del lavoro autonomo e delle attività professio-nali, il sostegno alle iniziative sociali e culturali per gliimmigrati (per lo più gestite da enti e associazioni legatialla Chiesa cattolica e ai sindacati) e la semplificazionedelle procedure per i ricongiungimenti familiari di pa-renti anche non stretti (che una successiva sentenza del-la Corte di Cassazione estese a catena, consentendo ai ri-chiamati di far venire a loro volta altri parenti, e così via,all’infinito). Poco incisive sono state invece le norme,pur formalmente più severe, contro l’immigrazione clan-destina, lo sfruttamento degli immigrati e ogni forma di

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discriminazione sociale. L’inadeguatezza della legge suquesto piano è del resto platealmente emersa pochi me-si dopo, con la confusa e contraddittoria risposta nell’e-state ai nuovi sbarchi in massa di clandestini sulle costemeridionali (internati per trenta giorni e poi paradossal-mente lasciati liberi di andare dove volessero, nel caso incui fossero riusciti a non farsi identificare entro tale ter-mine). A ciò si aggiunse agli inizi dell’anno seguente ilcaotico avvio della quarta sanatoria, chiamata non piùcosì, ma “regolarizzazione”, per quel pedaggio d’ipocri-sia che il vizio talvolta paga alla virtù: una sanatoria alungo ufficialmente smentita, ma poi formalizzata, quan-do già ne erano diventati evidenti gli effetti di richiamo,alimentati non solo dal fatto che comunque se ne par-lasse, ma anche dalle irresponsabili dichiarazioni di al-cune autorità (fra cui lo stesso presidente della Repub-blica Oscar Luigi Scalfaro, che in un suo viaggio all’e-stero giunse a proclamare urbi et orbi, sul finire del1999, che «le porte spalancate sono un fatto di civiltà»).

Dopo le elezioni politiche del 2001, che hanno vistouna netta vittoria della coalizione di centro-destra, sonocambiati i suonatori, ma non è cambiata la musica o, al-meno, non è cambiata molto. Nonostante i chiari impe-gni elettorali assunti in materia dalla nuova maggioran-za, è occorso più di un anno perché venisse varata unanuova legge sull’immigrazione un po’ più restrittiva (lagià citata Bossi - Fini del 30 luglio 2002, entrata in vi-gore il 10 settembre successivo). Per di più anche que-sta legge è stata snaturata rispetto al suo originario di-segno dalle numerose modifiche imposte in itinere dal-la componente neo-democristiana della maggioranza,l’UDC, che ha anche imposto un’ennesima sanatoria (laquinta in tre lustri, un record mondiale che nessunoprobabilmente ci invidia), resa oltre tutto a maglie sem-pre più larghe dalle sue crescenti reiterate richieste, si-

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no a configurare di fatto un ulteriore motivo di richia-mo dell’immigrazione (come hanno confermato le di-chiarazioni di molti clandestini arrivati in Italia con lasperanza di poterne beneficiare in qualche modo). Co-sì è stata in parte compromessa quella prioritaria fun-zione di controllo sociale che i suoi firmatari avevanoassegnato alla legge, che, dopo il suo stravolgimento, sa-rebbe forse più corretto chiamare non più Bossi - Fini,ma Giovanardi (dal nome del ministro neo-democri-stiano per i Rapporti con il Parlamento che l’ha così tra-sformata, facendosi interprete delle prevalenti posizioniin materia della Chiesa e delle organizzazioni cattoli-che). In ogni caso coloro che avevano proposto una leg-ge severa, intesa innanzi tutto a ripristinare l’ordinepubblico inficiato dal precedente lassismo, sembranoaver fatto la fine dei pifferi di montagna, che andaronoper suonare e furono suonati. Partiti con l’idea di espel-lere tutti gli immigrati illegalmente presenti in Italia,hanno finito per approvare, probabilmente senza nean-che rendersene conto, la più grande sanatoria mai varatanel paese (anche in questo caso chiamata pudicamente“regolarizzazione”): oltre 702 000 domande, quasi quan-to tutte quelle presentate nelle quattro sanatorie prece-denti, distribuite nell’arco di dodici anni.

Ciò non è tuttavia bastato ad ammorbidire le reazionidi un’opposizione invelenita, che ha persino accusato lalegge di “razzismo”, nonostante la sua sostanziale conti-nuità con la precedente normativa (che i partiti dellanuova maggioranza avevano a suo tempo criticato) spe-cialmente per ciò che concerne la politica dell’integra-zione, che non è stata minimamente intaccata. In ognicaso la legge non merita l’“indignazione” con cui è stataaccolta da chi ha voluto addossarle “colpe immagina-rie”, come ha onestamente riconosciuto la stessa presi-dente della commissione per le politiche d’integrazione

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degli immigrati del precedente governo di centro-sini-stra, Giovanna Zincone (2002), proprio per questo poivituperata sulle colonne dell’“Unità”, diventata il prin-cipale organo di quel settarismo fazioso che dalla scon-fitta elettorale affligge gran parte della sinistra. Peraltroanche alcuni esponenti dell’estrema sinistra hanno sot-tolineato, sia pur con discutibili valenze ideologiche, la“continuità” fra la politica immigratoria del governo dicentro-destra e quella dei precedenti governi di centro-sinistra, da loro già ingenerosamente accusata di tratta-re gli immigrati come “non-persone”, nonostante tutti idiritti esplicitamente riconosciuti agli stessi clandestini(come caratteristico esempio di queste posizioni estre-mistiche si possono vedere le affermazioni di un colla-boratore del “Manifesto”, Alessandro Dal Lago, 1999,2002, 2003).

La Bossi - Fini segna peraltro un parziale ritorno al-l’impostazione “lavoristica” che aveva già connotato laprima legge italiana sull’immigrazione (la 943 del 1986).Ha introdotto infatti una precisa relazione fra permes-so di soggiorno e contratto di lavoro (recependo a suomodo le indicazioni della citata comunicazione dellaCommissione europea, 2000), con l’istituzione di un“contratto di soggiorno per lavoro”, che prevede fral’altro, per chi assume uno straniero non comunitario,l’obbligo di garantirgli un adeguato alloggio e di pagar-gli il viaggio di rientro in patria a fine rapporto. Corri-spettivamente ha abrogato, fra gli alti lai delle non di-sinteressate associazioni xenofile, l’istituto della sponso-rizzazione, previsto dalla Turco - Napolitano, che per-metteva di entrare in Italia legalmente a chi volesse cer-carvi un lavoro. Questo istituto, pur poco utilizzato (so-lo 15 000 ingressi l’anno), si era infatti rivelato una fon-te di abusi, quale facile espediente per aggirare la nor-mativa vigente, dato che la garanzia richiesta poteva es-

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sere prestata anche da un connazionale con permesso disoggiorno o da un’associazione di volontariato dispostaa dare senza troppi rischi una poco costosa copertura,pagata spesso dagli stessi migranti o dai loro parenti.Non è però affatto vero che ora si possa entrare legal-mente in Italia soltanto con un contratto di lavoro (co-me ha sostenuto una certa stampa disinformata o fazio-sa). È stata infatti confermata la possibilità d’ingressoregolare anche per molte altre ragioni: residenza eletti-va, visite, affari, turismo, studio, formazione, cure me-diche, motivi religiosi, rifugio politico, “motivi umani-tari” determinati da guerre, disordini e calamità natura-li e, soprattutto, ricongiungimento familiare (cui già pri-ma si dovevano più ingressi regolari che agli stessi mo-tivi di lavoro). Il ricongiungimento familiare è stato tut-tavia meglio definito, con alcune restrizioni intese acontenerne il rischio di utilizzazioni anomale, reso an-cora più grave dalla già ricordata dilatazione a catenaoperatane dalla Corte di Cassazione (ora del ricongiun-gimento possono beneficiare solo il coniuge, i figli mi-norenni e, a determinate condizioni, i figli maggiorennie i genitori a carico). Resta in vigore la carta di soggior-no (conseguibile peraltro dopo un periodo di perma-nenza regolare un poco più lungo: sei anni invece dicinque). È stato inoltre stabilito che a chi richieda ilpermesso di soggiorno siano prese le impronte digitali,per ovviare all’uso di falsi documenti, non infrequenteda parte degli immigrati con conti in sospeso con la giu-stizia. Per evitare le accuse di discriminazione avanzatedall’opposizione, tale misura (già proposta senza suc-cesso qualche anno prima da un sottosegretario all’In-terno del precedente governo di centro-sinistra) è statapoi estesa anche ai cittadini italiani, che dovranno rila-sciare le loro impronte in occasione del rinnovo dei do-cumenti d’identità. Per contrastare l’immigrazione

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clandestina è stato prolungato da 30 a 60 giorni il pe-riodo di permanenza negli appositi centri in cui do-vrebbero essere identificati coloro che entrano nel pae-se sprovvisti di documenti, si è ridotto da 15 a 5 giorniil periodo entro cui gli “intimati” dovrebbero lasciare ilpaese e si è rivisto il meccanismo dell’espulsione ammi-nistrativa, cui si è attribuita immediata esecutività conaccompagnamento alla frontiera. Per quelli che doves-sero rientrare in Italia clandestinamente dopo l’espul-sione è stato introdotto il reato d’ingresso clandestino,mentre il primo tentativo d’immigrazione illegale conti-nua a costituire soltanto un illecito amministrativo. D’al-tra parte, per quanto concerne la prevenzione dell’im-migrazione clandestina (gestita in gran parte da orga-nizzazioni malavitose che non esitano a mettere a re-pentaglio la vita sia di chi ricorra loro, sia di chi tenti dicontrastarle), è stato posto l’accento sulla collaborazio-ne con i paesi di origine e di transito degli immigrati, dicui si è deciso di tener conto nell’elaborazione dei pro-grammi di cooperazione e nella determinazione dellequote riservate d’ingressi legali stabilite annualmentenel decreto sui flussi. Si tratta, insomma, di un insiemedi misure equilibrate e ragionevoli, che rispondono ingran parte alle coeve indicazioni delle istituzioni euro-pee (supra, pp. 106 ss.), ma anche di attuazione non fa-cile, date le ben note carenze degli organi che dovreb-bero curarne l’applicazione e lo stesso boicottaggio (im-mediatamente iniziato) da parte delle associazioni xe-nofile, che hanno sostenuto una raffica di ricorsi per lapretesa incostituzionalità di alcuni articoli della legge(261 casi pendenti al 4 luglio 2003), e delle componen-ti della magistratura più ostili al governo, che, andandoben oltre le loro legittime competenze, ne hanno siste-maticamente disapplicato molti articoli importanti coni più disparati pretesti (Silvestri, 2002; Polchi, 2003).

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È peraltro troppo presto per esprimere una valutazio-ne complessiva sul provvedimento, che rappresenta inrealtà un compromesso (dagli esiti al momento ancorapoco prevedibili) fra la tradizionale politica dell’integra-zione (declinata ora con particolare accento sull’inseri-mento lavorativo e sul ricongiungimento familiare) e leesigenze di un maggior controllo sociale. In ogni caso, aldi là del giudizio che si voglia dare di questa legge, le suevicissitudini testimoniano meglio di ogni altra cosa la de-cisiva influenza che sulla politica migratoria di un paeseesercita la sua cultura politica. Nel caso italiano, al di làdell’alternarsi al governo di forze politiche anche inaspro contrasto, su ogni altro elemento ha sempre finitoper prevalere il tradizionale solidarismo di matrice catto-lica, che da ultimo ha travolto anche l’iniziale imposta-zione securitaria del disegno di legge. Eppure una parteconsistente del mondo cattolico continua a criticare laBossi - Fini, chiedendone una “radicale revisione”, conl’intento di ottenere ancora di più (si vedano, per esem-pio, le dichiarazioni di monsignor Vittorio Nozza, dellaCaritas italiana, di monsignor Luigi Petris, della Fonda-zione Migrantes, e di monsignor Guerino Di Tora, dellaCaritas romana, in Caritas di Roma, 2002, pp. 7-10, e,più recentemente, quelle del vescovo Francesco Monte-negro, presidente della Caritas, e del “carismatico” mis-sionario no global Alex Zanotelli, che ha proposto anchedi violare sistematicamente la legge, dando ospitalità aiclandestini in chiese e monasteri, in “Corriere della Se-ra”, 27 giugno 2003, pp. 6 e 9). La CISL, il sindacato d’i-spirazione cattolica, ha anche lanciato una raccolta di fir-me per la sua abrogazione (di cui però non si è saputopiù nulla). I missionari comboniani hanno promosso ma-nifestazioni di piazza con il polemico rilascio di “per-messi di soggiorno in nome di Dio” (15 novembre 2003).Apprezzamento, ma soprattutto per la grande sanatoria

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che ha accompagnato la legge, è stato invece espresso dalcardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenzaepiscopale italiana (cfr. Scafi, 2002, pp. 1 e 16).

Numerosi sono stati anche gli interventi legislativinon specifici che hanno esercitato una notevole in-fluenza sulla gestione dell’immigrazione. Mi limito quia citarne alcuni.

Fra questi riveste un particolare rilievo la riforma del-la normativa sulla cittadinanza, approvata poco dopo lalegge Martelli con la legge n. 91 del 5 febbraio 1992.Anche questa riforma ha rappresentato, in realtà, uncompromesso fra la disponibilità all’integrazione e latendenza a un maggior rigore. Pur riconfermando il tra-dizionale principio dell’attribuzione della cittadinanzaper jus sanguinis, ha infatti previsto delle significativeagevolazioni per l’acquisizione della cittadinanza italia-na da parte di alcune categorie di stranieri (discendentidi ex cittadini italiani, coniugi di cittadini italiani, gio-vani nati in Italia da genitori stranieri), ma ha altresì in-trodotto una distinzione fra i cittadini dei paesi comu-nitari e quelli degli altri paesi. Il richiesto periodo di re-sidenza legale, che in precedenza era di cinque anni pertutti, è stato infatti ridotto a quattro per i primi e au-mentato a dieci per i secondi. L’istituzione della cittadi-nanza dell’Unione Europea (entrata in vigore nel 1993)ha reso poco dopo quasi del tutto inutile il beneficioper gli originari dei paesi membri. La legge ha avutoperò il merito non piccolo di recepire il principio costi-tuzionale della parità giuridica di uomini e donne, su-perando la diversità di trattamento loro riservata dallalegge del 1912 (in parte già modificata per effetto di al-cune sentenze della Corte costituzionale).

Per i suoi riflessi indiretti sulla condizione degli immi-grati, va ricordata anche la normativa in tema di discri-minazioni. In particolare la legge n. 205 del 25 giugno

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1993 (di conversione del D.L. n. 97 del 24 aprile 1993),che ha integrato la precedente legge di ratifica della con-venzione di New York del 1965 sull’eliminazione di ogniforma di discriminazione razziale (legge n. 654 del 13 ot-tobre 1975), ha istituito una specifica repressione pena-le per gli atti di discriminazione o provocazione razziale,etnica, nazionale e religiosa, l’incitamento a commetter-li e la diffusione di idee relative alla pretesa inferiorità osuperiorità di qualsiasi gruppo razzialmente o etnica-mente definito. Tale repressione è stata poi confermatadall’art. 41 della legge Turco - Napolitano. Successiva-mente però l’Italia ha fatto qualche resistenza alla pro-posta d’introdurre nella normativa europea la medesimarepressione per il “razzismo” e la “xenofobia” (definitiin modo molto lato), ammaestrata in ciò dal pessimo usofatto in Francia e in Germania di simili leggi, che si so-no prestate a interventi illiberali.

Recentemente (7 ottobre 2003), nel corso di un con-vegno del Consiglio nazionale dell’economia e del lavo-ro), uno dei firmatari dell’ultima legge sull’immigrazio-ne, l’onorevole Gianfranco Fini, presidente di Alleanzanazionale e vicepresidente del Consiglio dei ministri, haproposto (piuttosto sorprendentemente, date le sueprecedenti prese di posizione in argomento) di estende-re il diritto di voto amministrativo agli immigrati rego-lari da tempo residenti in Italia (previa la necessaria re-visione costituzionale). A ciò ha fatto seguito la presen-tazione alle Camere da parte del suo partito di un ap-posito disegno di legge costituzionale, in aggiunta aquelli per molti aspetti simili già depositati da altri par-titi, che del resto riprendevano il progetto presentatonella precedente legislatura dal governo Prodi, ma nonportato in aula per il timore di una sua bocciatura.

A grandi linee l’Italia si sta dunque movendo, anchese non senza difficoltà e contraddizioni, in sintonia con

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gli altri paesi europei, dove, dopo la crisi dei grandiprogetti sociali ispirati alle loro specifiche culture poli-tiche, si assiste ora al tentativo di fronteggiare i proble-mi esistenti con più realismo e senso pratico.

Il dibattito politico-ideologico in Italia

Con tutto ciò, il dibattito politico-ideologico in corso inItalia continua a essere caratterizzato dal prevalere ditoni esacerbati e di astratte polemiche, come è stato datempo documentato da chi scrive e da altri (Furcht,1993; Melotti, 1996, 1999c, 1999d, 2000b, 2001b, 2003;Moffa, 2002; Guolo, 2003).

Nel corso degli anni ottanta i primi studiosi italianidell’immigrazione avevano proposto, con felice e antici-patrice intuizione, un’«integrazione sociale con salva-guardia dell’identità culturale» degli immigrati (Melotti,1985). Successivamente, però, altri autori svilupparono,in termini spesso ingenui e discutibili, l’idea di una nonmeglio specificata “società multiculturale” che avrebbedovuto risolvere tutti i problemi come per incanto, de-terminando per di più il poi ritualmente evocato “arric-chimento reciproco” (Ferrarotti, 1988; Ghirelli, 1991;Macioti, 1991). Né sono mancati coloro che, chiudendoentrambi gli occhi su una realtà già allora assai articola-ta e complessa, hanno imputato tutte le difficoltà causa-te da un’immigrazione rapida, consistente e mal gestitaal preteso “razzismo degli italiani”, per utilizzare la for-mula inventata da alcuni disinvolti giornalisti, propensia épater les bourgeois anche per mediocri motivi di cas-setta (vedi, in particolare, Bocca, 1988, e Lerner, 1989,su cui, criticamente, Melotti, 1991b e 1993d).

Ciò ha fatto sì che anche alcuni studiosi abbiano fini-to per interrogarsi più sul cosiddetto “razzismo” che non

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sull’immigrazione, che era, ed è, il vero problema, anchese gravi episodi di razzismo in Italia non sono mancati.Per di più alcuni di questi autori (cfr., in particolare, Bal-bo e Manconi, 1990; Rivera, 1997, 2003) hanno ripresopedissequamente, dalle elaborazioni francesi, dei concet-ti e delle argomentazioni non solo estremamente discuti-bili, ma fuorvianti e, in ogni caso, non rispondenti all’ef-fettiva situazione italiana (mi riferisco, in particolare, al-le elaborazioni sul cosiddetto “razzismo culturale”, checonfondono indebitamente razzismo, etnocentrismo eculturocentrismo, e quelle sul cosiddetto “razzismo dif-ferenzialista”, che scontano l’originaria formulazione nelcontesto francese con un implicito riferimento e un’acri-tica adesione al vecchio “modello repubblicano d’inte-grazione” sopra descritto). Ha così proliferato un “anti-razzismo militante” fazioso ed estremista, «surrogatoriodi altre militanze frustrate o tramontate», come ebbe anotare Gian Enrico Rusconi (1989, p. 27), che pure ave-va fondato, con Laura Balbo e Luigi Manconi, Italia-Razzismo, la prima associazione antirazzista italiana delperiodo dell’immigrazione. Del resto anche la Balbo, cheaveva già messo in guardia contro l’“antirazzismo facile”di una certa sinistra (Balbo, 1989), ha sentito poi l’esi-genza di denunciare il carattere ambiguo dello stessa ca-tegoria del “razzismo”, ideologicamente ed emotivamen-te sovraccarica e spesso inficiata da un fuorviante sog-gettivismo espressivo (Balbo, 1990, p.14, e 2003, p. 15;cfr. anche, nel Glossario, la voce “Razzismo”).

Per la verità, toni esasperati e ingenui al tempo stessos’incontrano in entrambe le subculture politiche che fu-rono a lungo dominanti in Italia: quella cattolica e quel-la marxista. La prima tende infatti a guardare agli im-migrati come ai “nuovi poveri”, immagini di Cristo cuinon è lecito chiudere le porte in faccia e che anzi biso-gna amare e invitare a entrare (così, per esempio, l’ex

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responsabile della segreteria per gli esteri della Curia diMilano, Nunzio Ferrante, 1986, p. 27, e due noti espo-nenti della Caritas romana, Luigi Di Liegro e FrancoPittau, 1992, p. 14). La seconda li considera invece co-me il “nuovo proletariato”, da cui ci si attende un con-tributo fondamentale per quella rivoluzione anticapita-listica che le “integrate” classi lavoratrici del Nord delmondo sembrano avere ormai messo nel dimenticatoio:una idealizzazione che ha però già trovato una smentitanei paesi di più antica esperienza immigratoria, in cuipure, per tanto tempo, diversamente che da noi, gli im-migrati avevano davvero contribuito a “fare il proleta-riato” (Gallissot et al., 1994).

Recentemente si è diffuso però, fra gli studiosi, unmaggiore spirito critico ed è emersa sempre più chiara-mente la consapevolezza che giovano più le misure con-crete e responsabili che non le fughe in avanti e leastratte e settarie contrapposizioni ideologiche (Melot-ti, 1992a; Zincone, 1994, 2000; Bolaffi, 1996, 2001; Del-le Donne, 2000). Peraltro, quando trattano dell’immi-grazione, anche molti sociologi e molti teorici politici, epiù in particolare i ricorrenti neofiti dell’argomento(Dal Lago, 1996, 1999; Palidda, 1996, 1997, 2000; Mez-zadra, 2001, 2002; Cavazzani, 2002; De Giorgi, 2002ecc.), sembrano gareggiare in demagogia con i più scri-teriati esponenti no global e si compiacciono di civetta-re con le irresponsabili tesi dei “cattivi maestri” ritor-nati di recente in auge sull’onda dei nuovi movimenti(cito, per tutti, Toni Negri, coautore di uno stolido vo-lume sul cosiddetto “Impero” che il primo degli autorisopra citati, il Dal Lago, è giunto a presentare grotte-scamente come «il più importante libro di filosofia po-litica degli ultimi dieci anni». Vedi Puppo, 2002, p. xvi,e, per una critica di questa tendenza, Melotti, 1993f,1994b, 1996, 1999c, 1999d, 2002b, 2004).

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D’altra parte la serietà dell’analisi, pur necessaria, dasola non basta. Per fronteggiare al livello dovuto la sfi-da costituita dalle nuove migrazioni internazionali oc-corre elaborare un nuovo progetto sociale europeo, chesostituisca i diversi progetti sociali nazionali, che, comeabbiamo visto, o non esistono più o sono in piena crisi.

Il passaggio a una società multirazziale, multietnica,multiculturale, multilinguistica e multireligiosa è inevi-tabile sul lungo periodo, ma non rappresenta di per séuna soluzione ai problemi esistenti, che nel corso diquesto processo potrebbero anzi addirittura aggravarsi(cfr. Cohn-Bendit e Schmidt, 1992). Per una transizionepositiva si richiedono delle trasformazioni profonde, alivello strutturale e culturale. Per ciò che concerne la ri-sposta politica, occorrerebbe definire un nuovo rappor-to fra Stato e società civile, cultura e organizzazione so-ciale, etnicità, nazionalità e cittadinanza. In particolare,sarebbe necessario articolare quest’ultima a tre diversilivelli, locale, statale e sovranazionale, dando così fral’altro piena attuazione alla nuova cittadinanza europea,in vigore ormai da tempo, ma tuttora poco esploratanelle sue pur importanti valenze integratrici. È questoun terreno su cui tutti i paesi europei dovranno benpresto misurarsi, superando i persistenti limiti insiti nel-le loro pur periclitanti culture politiche.

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5. L’immigrazione e la cultura politica italiana

La cultura politica italiana ha esercitato sulla politicamigratoria un’influenza ambivalente. Da un lato ha ali-mentato prevenzioni anche ingiustificate nei confrontidegli stranieri; dall’altro ha propiziato l’emergere di unorientamento favorevole a un’integrazione sociale nelrispetto della diversità culturale. Le difficoltà riscontra-te in Italia per la gestione dell’immigrazione non sono,infatti, dipese soltanto dalle specifiche caratteristicheche quest’ultima vi ha assunto, ancorché qui sia preval-sa, più che altrove, un’immigrazione non cercata, masubita, che ha dato luogo a situazioni di grave preca-rietà e a ricorrenti emergenze. Sono dipese anche da al-cuni aspetti della cultura politica italiana. Peraltro que-sta cultura ha rappresentato non solo un problema, maanche una risorsa.

L’idea italiana di nazione e l’immigrazione

Converrà partire da un esame dello stesso concetto ita-liano di “nazione”, dato che ogni discorso sull’immi-grazione “straniera” chiama in causa almeno indiretta-mente il carattere che tale idea ha assunto nel paese diapprodo.

È opportuno ricordare, innanzi tutto, che in Italia l’i-dea di nazione ha oscillato nel tempo fra quella roman-tica, oggettiva, naturalistica ed etnico-culturale, di tipotedesco, e quella illuministica, soggettiva, volontaristica

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ed etico-politica, di tipo francese. La prima, che ha ispi-rato gran parte degli stessi movimenti risorgimentali edè riemersa poi, in forma degradata e deteriorata, nelleelaborazioni del fascismo (che da ultimo riprese dalcontesto tedesco anche le impostazioni razziste del na-zismo), alimenta diffidenze e paure nei confronti deglistranieri. La seconda, già presente in alcune delle più si-gnificative figure del pensiero ottocentesco e novecen-tesco, ha ispirato, e ispira, da quando l’Italia è diventa-ta un paese d’immigrazione, sia certe malcelate velleità“assimilazioniste”, diffuse anche a livello di senso co-mune («Se vengono qui, devono adattarsi»), sia certedisinvolte aperture “cosmopolite”, che, sotto altre piùrecenti influenze, provenienti per lo più dal contestoanglosassone, hanno finito per dar vita a un retorico epasticciato “multiculturalismo” di maniera: una fuga inavanti che non affronta i problemi, ma li nega, con l’a-critico entusiasmo dei neofiti (cfr. Melotti, 2000b). D’al-tra parte anche il diffuso atteggiamento positivo versoun’integrazione sociale rispettosa delle altre culture hatrovato conforto nel concetto italiano di nazione.

Peraltro il sentimento nazionale, che pur ha conosciu-to negli ultimi anni una certa ripresa (cfr. Barbé, 1997,1999), in Italia è sempre stato assai più debole che in tut-ti gli altri paesi europei (eccezion fatta, forse, per alcuniperiodi dell’era fascista, in cui assunse tuttavia formenon lodevoli), come molte ricerche e molti sondaggihanno documentato (cfr., in particolare, Segatti, 1999).

I motivi sono vari e numerosi. Fra questi, vale la penadi ricordare che tale sentimento – così come lo stessosenso dello Stato, per riprendere l’espressione cara aivecchi liberali, o la “religione civile”, per utilizzare quel-la, di ascendenza rousseauiana, che è stata di recente ri-lanciata da alcuni studiosi (Tullio-Altan, 1995a, 1995b;Rusconi, 1997, 1999; cfr. anche Autori Vari, 1999) – in

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Italia ha subìto l’attacco di entrambe le subculture po-litiche a lungo dominanti: la bianca, sostanzialmentecollegata alla Chiesa e alle organizzazioni cattoliche, e larossa, collegata ai partiti e ai movimenti di una pur va-riegata e mutevole sinistra (peraltro a lungo egemoniz-zata dal Partito comunista, che nel secondo dopoguer-ra si è configurato per quasi mezzo secolo come una ve-ra e propria controchiesa, caratterizzata dai suoi miti edai suoi riti). In effetti in Italia, più che altrove, hannoesercitato una pervasiva influenza gli orientamenti“ecumenici” della religione che non a caso si definisce“cattolica” (cioè universale) e quelli “internazionalisti”(sia pur a senso unico) di tale sinistra. Per quanto con-cerne il mondo cattolico, che non ha mai nascosto leproprie radicate diffidenze verso lo Stato, consideratocome un “idolo” cui non è lecito prestare primaria fe-deltà, basti qui citare (oltre ai non infrequenti inviti, rei-terati anche di recente, a disattenderne le leggi sgradite,per una sorta di obiezione di coscienza peraltro solo ra-ramente dichiarata) il ricorrente motto di molti suoiesponenti impegnati sul fronte delle immigrazioni: «Nelmio paese nessuno è straniero». Per quanto concerneinvece l’area della sinistra, non meno diffidente verso loStato, ancora da molti marxisticamente considerato co-me «l’organizzazione economico-politica della classeborghese» (secondo la definizione di Gramsci, 1918, lafigura forse più rappresentativa di tale cultura), si pos-sono ricordare, risalendo nel tempo, molti motti diver-si, ma convergenti: «La mia patria è il mondo intero»(degli anarchici di fine secolo); «Il proletariato non hapatria» (dei socialisti anche riformisti); «Noi faremo co-me la Russia» (dei socialisti massimalisti, prima, e deicomunisti, poi, che fecero a lungo riferimento a questaidealizzata patria straniera anche dopo la teorizzazionedi una “via nazionale al socialismo” da parte di alcuni

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loro dirigenti). È questa una tradizione che, nonostantele «dure repliche della storia» (Bobbio), ancora condi-ziona gli attuali partiti post-comunisti e neo-comunisti(pur andati negli anni scorsi al governo, infrangendouna semisecolare conventio ad excludendum) e anche al-tre forze politiche solo in apparenza meno schierate, co-me i Verdi, nelle cui file hanno trovato rifugio moltipersonaggi provenienti dalla vecchia sinistra extraparla-mentare di orientamento populista, stalinista o maoista.

Sulla situazione italiana, d’altra parte, pesa anche unparticolare retaggio storico: quello di un paese che, do-po la caduta dell’Impero romano (ma in realtà ancheprima, se ricordiamo la terribile invasione dei galli diBrenno, nel 390 a.C., e la spedizione dei cartaginesi diAnnibale, fra il 218 e il 203 a.C., peraltro più che con-traccambiate), ha fatto esperienza di vicende che hannodiffuso una comprensibile diffidenza nei confronti deglistranieri. In quest’Italia «battuta, spogliata, lacera, cor-sa» (Machiavelli) si sono infatti succedute devastanti in-vasioni barbariche (di visigoti, vandali, unni, ostrogoti,longobardi, franchi ecc.), umilianti dominazioni stranie-re (di arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, tede-schi, francesi, spagnoli, austriaci ecc.) e reiterate incur-sioni predatrici di soldati di ventura (come i lanziche-necchi) e di pirati e corsari (greco-bizantini, saraceni,arabo-berberi, albanesi, turchi ecc.), il cui ricordo persi-ste nelle torrette di avvistamento disseminate lungo tut-te le coste e nella stessa caratteristica struttura difensivadi tanti centri rivieraschi, nonché in tante feste popolari(che spesso ancora culminano nella “giostra del sarace-no”) e in tanti detti proverbiali (fra cui l’ormai solo iro-nica esclamazione “Mamma, li turchi!”). Più di un’ecove ne è anche nella grande letteratura e nel teatro: dallapetrarchesca denuncia della “tedesca rabbia” alle ferociinvettive alfieriane contro i francesi; dall’ironica apertu-

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ra ariostesca su «i mori che nocquer tanto» ai dolenti co-ri manzoniani e verdiani che ricordano il «volgo disper-so che nome non ha» e lamentano la «patria perduta».Di qui le reiterate esortazioni a «liberare l’Italia dai bar-bari», dalla famosa conclusione del Principe di Machia-velli all’appello al re Carlo Alberto del repubblicanoMazzini, dai manifesti degli interventisti democratici altempo della prima guerra mondiale alle lettere dei con-dannati a morte della Resistenza. A ciò si aggiunga che imeno giovani ancora personalmente ricordano gli or-rendi eccidi perpetrati nel corso della seconda guerramondiale dalle truppe naziste e dalle bande titine, en-trati a far parte del resto di un’ormai meno divisa me-moria collettiva. Né miglior ricordo hanno lasciato in di-verse parti del paese gli eserciti alleati, accolti sì, dai più,come dei liberatori, ma resisi responsabili di non pocheatrocità, come gli inutili bombardamenti di molte città(fra cui Roma e Milano), e di diffuse violenze contro ledonne (a volte promesse in preda alle truppe, come nelcaso delle “marocchinate”, stuprate nelle chiese dai nor-dafricani che ne facevano parte: una vicenda che ispiròil romanzo La ciociara di Moravia e l’omonimo film chene trasse De Sica). A ciò si potrebbe aggiungere ora, simagna licet, la devastazione del centro di Genova appe-na rinnovato, effettuata nel luglio del 2001 dai BlackBlocs calati da mezza Europa per contestare vandalica-mente, con la volonterosa collaborazione di non pochifacinorosi nostrani, la riunione del G8.

Alcune vicende collegate con le prime immigrazioniin Italia non sono certo servite a smantellare gli stereo-tipi alimentati da tale memoria storica, ma li hanno an-zi confermati e rafforzati (cfr. Delle Donne, 1998). Bastiqui ricordare l’attentato al papa in piazza San Pietrocompiuto da un giovane turco (13 maggio 1981) e, qual-che anno dopo, a opera di due gruppi di terroristi pale-

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stinesi, il sequestro dell’Achille Lauro e dei suoi passeg-geri, culminato nella feroce uccisione di un paraplegicoamericano di origine ebraica, brutalmente scaraventatoin mare con la sua carrozzella (7 ottobre 1985), e il san-guinoso attentato con morti e feriti all’aeroporto di Fiu-micino (27 dicembre 1985). Più recentemente centri diappoggio, finanziamento e reclutamento per il terrori-smo sono stati scoperti in moschee e istituti islamici dinumerose città italiane, da cui sembra che siano partitianche alcuni dei “martiri” che si sono resi responsabilidi azioni stragiste in altri paesi (cfr. CESIS, 2004).

Va inoltre ricordato che lo Stato nazionale in Italia siè costituito assai più tardi che negli altri paesi dell’Eu-ropa occidentale: per l’esattezza dopo tutti gli altri a ec-cezione della sola Germania, se si considera la data del-la sua proclamazione ufficiale, ma anche dopo que-st’ultima, se non si dimentica che due importanti re-gioni del Nord-est, il Trentino e la Venezia Giulia, fu-rono “redente” solo al termine della prima guerra mon-diale (combattuta, al pari di tutte quelle del Risorgi-mento, al grido «Va’ fuori d’Italia, va’ fuori straniero!»,come ci ricorda il suo inno più importante, la Canzonedel Piave).

Per di più in Italia la formazione dello Stato naziona-le avvenne senza (e in buona parte contro) le masse po-polari: sia quelle per lo più borboniche e sanfediste delSud, sia quelle per lo più cattoliche e socialiste del Cen-tro e del Nord, per tacere di quelle, meno numerose, madiffuse in tutto il paese, di orientamento anarchico e li-bertario, refrattarie a ogni tipo di autorità, nazionale onon nazionale che fosse. La “nazionalizzazione dellemasse” (Mosse, 1974), rimaste a lungo estranee a taleStato, cominciò in effetti solo con la prima guerra mon-diale (e in forma tutt’altro che indolore) e fu poi capar-biamente perseguita dal fascismo, ma in forme contrad-

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dittorie e in parte persino controproducenti, per il ca-rattere autoritario di quel regime, che, nonostante il dif-fuso consenso di cui per tanto tempo fruì, finì per raffor-zare le preesistenti radicate diffidenze verso lo Stato.D’altra parte non va enfatizzato oltre modo, secondo idettami di una certa storiografia a lungo dominante, ilcontributo dato a quel processo dalla Resistenza, che fuuna nobile e coraggiosa guerra di minoranze, ma fucombattuta (diversamente che in Francia e in altri paesi)con motivazioni più sociali e politiche che non naziona-li e fu addirittura vissuta da alcune sue importanti com-ponenti come l’inizio di una guerra rivoluzionaria con-tro la borghesia, fascista o antifascista che fosse (cfr. Pan-sa, 2003, e Galli della Loggia, 2004). Né maggiore ful’apporto della cosiddetta “prima Repubblica”, a lungodivisa nelle due già citate subculture egemonizzate dalleforze politiche che facevano riferimento ai contrappostiblocchi della guerra fredda e poi naufragata miseramen-te, al termine di quella fase, negli intrighi dei partiti edelle loro correnti e nelle tempeste di “Mani Pulite” (co-me si è autocelebrativamente definita la pur tutt’altroche limpida campagna giudiziaria contro la corruzione).Orbene, una nazione debole e con uno scarso senso del-lo Stato difficilmente può perseguire una politica d’inte-grazione forte, tanto più in una fase di crisi e di transi-zione aspra e polemica come l’attuale.

In realtà, la carenza di un vero progetto sociale glo-bale paragonabile a quelli a lungo perseguiti nei princi-pali paesi europei d’immigrazione ha lasciato ampiospazio a molte iniziative confuse. Invece di una ben de-finita politica di controllo e d’integrazione, si è avuto lostrabordare dell’assistenzialismo spicciolo di matricecattolica, che, nella latitanza delle istituzioni, ha finitoper assolvere un’indebita funzione di supplenza, specieper ciò che concerne la gestione (con fondi pubblici, in

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genere non rendicontati né rendicontabili) della com-ponente irregolare dell’immigrazione, del resto assaiconsistente e per molti anni addirittura maggioritaria(diversamente che nei paesi dell’Europa centro-setten-trionale). D’altro canto lo Stato, incapace di far rispet-tare le proprie leggi, ha lasciato che si creasse un pres-soché inestricabile groviglio di gravi problemi – sociali edi ordine pubblico – che ha reso estremamente difficileogni tentativo di affrontare razionalmente la situazione.

Ciò ha alimentato purtroppo due opposti estremismi:quello, almeno tendenzialmente xenofobo, di chi, esa-sperato dagli esiti del processo immigratorio, predicauna drastica chiusura delle frontiere e l’espulsione inmassa degli immigrati, percepiti solo come un costo ecome un rischio, e quello, astrattamente xenofilo, dichi, ignorando una realtà per molti aspetti inquietante,inneggia irresponsabilmente alle meraviglie dell’“incon-tro con l’altro” e alle “magnifiche sorti e progressive”della “società multiculturale” in formazione. Ma di ciòho già avuto occasione di occuparmi diffusamente al-trove (cfr. Melotti, 1996, 1999c, 1999d, 2000b) e non miripeterò qui.

Va sottolineato, invece, che, in contrasto con quantoera stato affrettatamente sostenuto da alcuni dei primiosservatori del fenomeno, gli atteggiamenti apertamen-te razzisti hanno trovato in Italia ben poco spazio, tan-to nelle forze politiche quanto nell’opinione pubblica(cfr. Melotti, 1991b; Sniderman et al., 1995), nonostan-te le reazioni suscitate da un’immigrazione mal control-lata e peggio gestita, che, aggravando molte forme dicriminalità micro e macro, è da tempo diventata unadelle più evidenti cause dell’insicurezza, specialmentenelle grandi città (Melotti, 1993e; Barbagli, 1999).

Non bisogna peraltro sottovalutare i rischi di unapossibile degenerazione, anche per la diffusa mancan-

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za di una cultura dell’immigrazione che non risparmiagli stessi più alti livelli della classe dirigente. Basti direche anni fa il futuro presidente del Consiglio del primogoverno di sinistra e poi presidente della Commissioneeuropea, Romano Prodi (1977), ha potuto affermareche l’Italia, avendone fatto a meno in passato per la suaricostruzione e il suo sviluppo, avrebbe dovuto conti-nuare a «mandare avanti una società senza “negri”»per non aggiungere ai suoi già gravi problemi «quelli diuna difficile convivenza razziale» e che più recente-mente due ministri, firmatari di importanti leggi sul-l’immigrazione, hanno potuto utilizzare con disprezzoil termine “baluba” (Claudio Martelli) e definire gli im-migrati dei “bongo bongo” (Umberto Bossi).

L’idea italiana di “nazione”: una risorsa per l’integrazione e la convivenza civile

L’idea italiana di nazione, per quanto debole e contrad-dittoria, costituisce però anche una risorsa. Converràquindi riprendere il discorso sopra accennato, per met-tere in luce questo verso della medaglia.

Va sottolineato, innanzi tutto, che l’idea italiana di na-zione presenta una sua indubbia originalità, anche se atutta prima può sembrare soltanto una mediazioneeclettica fra le istanze “particolaristiche” del Romantici-smo (che avevano trovato la loro prima e più alta espres-sione in Germania, con le ben note elaborazioni di Her-der, Schlegel e Fichte) e le aspirazioni “universalistiche”dell’Illuminismo (che aveva avuto in Italia dei significa-tivi sviluppi, soprattutto in alcune città, come Milano eNapoli, ove più marcata era stata l’influenza francese, enon cessò di ispirare la riflessione di molti studiosi an-che nel corso dell’Ottocento). In ogni caso l’idea italia-

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na di nazione, pur partendo dal richiamo romantico alsangue e alla terra (come nell’emblematica invocazionemanzoniana, del 1821, alla patria «una d’arme, di lin-gua, d’altare, | di memorie, di sangue e di cor»), trasce-se ben presto l’orientamento etnico-culturale implicitoin questa impostazione, come dimostrano le elaborazio-ni di tutti i principali autori del cosiddetto “canone na-zionale”, giunti a interpretare la nazione come un vin-colo di solidarietà suscettibile di aprirsi agli altri (cfr.Chabod, 1961; Banti, 2000; Russi, 2000).

Esemplare in proposito fu l’elaborazione di Giusep-pe Mazzini, il riconosciuto apostolo del “principio dinazionalità” («A ogni Stato una nazione, a ogni nazioneuno Stato»). Questi, pur enfatizzando forse più di ognialtro personaggio del Risorgimento l’importanza dellanazione, la configurò sempre come un momento inter-medio fra gli individui e l’umanità, che restò per lui ilpunto di riferimento più alto (dopo quello a un Dio pe-raltro più astrattamente invocato, nel noto binomio conil popolo, che non effettivamente assunto a orienta-mento del pensiero e dell’azione). Ciò gli rendeva deltutto inconcepibile la giustificazione, in nome dell’inte-resse nazionale, di qualsiasi prevaricazione dei diritti al-trui (sia di singoli individui, sia di altri popoli), che è in-vece sin troppo spesso presente nelle elaborazioni diquei teorici che s’ispirano a motivi particolaristici (bastiqui ricordare le impostazioni icasticamente evocate dal-l’ormai proverbiale espressione anglosassone Right orwrong, my country o dall’affermazione tedesca, poi di-ventata sinistra nella stessa Germania, Deutschland überalles). Ciò lo porta a una netta distinzione di “naziona-lità” e “nazionalismo”, al rifiuto di ogni “primato” e aun impegno militante per tutte le nazioni oppresse.

Di quest’apertura universalistica dell’idea di nazionedel Mazzini costituisce una prova il fatto che, con pre-

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corritrice intuizione, egli abbia fondato – subito dopo laGiovine Italia (1831), la sua associazione per l’indipen-denza, l’unità e il rinnovamento repubblicano del paese– la Giovine Europa (1834), la prima associazione de-mocratica sovranazionale del continente. A ciò si ag-giunga l’impegno per la libertà degli altri popoli testi-moniato da tanti patrioti da lui ispirati o influenzati. Ba-sti citare, per tutti, Giuseppe Garibaldi, che, dopo lesue ben note battaglie per la libertà nel continente ame-ricano, impugnò le armi anche in difesa della Francia,pur intervenuta in precedenza a stroncare la Repubbli-ca romana a lui così cara. Ciò conferma che l’idea maz-ziniana della nazione (sempre coniugata alla libertà, co-sì come del resto quella di tutte le altre grandi figure delRisorgimento, dal Cattaneo al Cavour) esprimeva più latensione verso un avvenire da costruire in spirito di so-lidarietà con gli altri popoli che un ripiegamento su unmitico passato di primordiali purezze da tutelare controogni possibile contaminazione (come nel caso delle ela-borazioni non solo a quel tempo dominanti in Svizzerae Germania).

Questo orientamento emerge anche in autori più at-tenti alle formulazioni giuridico-istituzionali. Fra questimerita una particolare menzione Pasquale StanislaoMancini (1851), il maggior teorico italiano dei dirittidelle nazionalità. Questi, trent’anni prima di Renan, mi-se in luce l’insufficienza dei tradizionali elementi ogget-tivi con cui da parte di molti ancora si definivano le na-zioni e sottolineò per contro l’importanza dell’elemen-to soggettivo, la “coscienza della nazionalità”, per dirlacon lui, cioè il sentimento di appartenenza a una deter-minata unità politica.

A questa concezione – in Italia a lungo prevalente,con l’unica significativa eccezione di alcuni esponentidella sinistra storica, fra cui il Crispi, che pure in prece-

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denza era stato mazziniano – si riallaccia anche l’idea(divulgata dal detto attribuito al D’Azeglio) che si po-tessero «fare gli italiani». È questa un’idea che si ritro-va, in forme diverse, in moltissimi autori, anche là dovemeno ce lo si aspetterebbe. Cito, per tutti, GiovanniGentile (1919), che, criticando chi tratta la nazione co-me se fosse «determinata da certi caratteri della struttu-ra cranica o dalla lingua o dalla religione o dal com-plesso della tradizione storica», come se fosse un patri-monio ereditato dai padri, conclude che la nazione«non c’è, se non in quanto si fa».

Peraltro, in almeno apparente contrasto con tale con-cezione, notevolmente aperta, per ciò che concerne lacittadinanza, la legislazione italiana ha sempre privile-giato lo jus sanguinis (espressamente previsto dal Codi-ce Civile del 1865 e ribadito dalla legge n. 55 del 1912).Va detto però che quest’impostazione – ispirata altrove,in molti casi, a un atteggiamento da Herrenvolk, pro-penso a difendere i propri privilegi escludendo dai di-ritti di cittadinanza i non appartenenti al preteso “po-polo dei signori”, come appare chiaramente nelle pre-valenti elaborazioni tedesche – da noi esprimeva piut-tosto una preoccupazione da “grande proletaria”, perriprendere la pur retorica definizione dell’Italia dataagli inizi del Novecento dai primi nazionalisti e poi dif-fusa dal Pascoli (1911): quella di mantenere un legamealmeno formale con i suoi numerosi cittadini emigratiall’estero e i loro figli nati là. Va ricordato in propositoche nel suo primo secolo di esistenza come Stato nazio-nale (1861-1961) l’Italia ha conosciuto un’emigrazionedi 26 milioni di persone, pari alla sua intera popolazio-ne al momento dell’Unità e a poco meno della metà del-la sua popolazione attuale, e che la citata legge del 1912fu votata negli anni culminanti della grande emigrazio-ne transoceanica (diretta verso paesi in cui vigeva lo jus

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soli, così come del resto in Francia, altra tradizionalemeta dell’emigrazione italiana). Del resto, le prime leg-gi sull’immigrazione in Italia rivelano in modo eviden-te, come abbiamo già detto, la chiara intenzione di assi-curare agli immigrati stranieri quei diritti che l’Italiaaveva a lungo rivendicato per i suoi emigrati.

La contrapposizione fra Italia e Germania non vaperò esagerata. In effetti negli anni precedenti la primaguerra mondiale anche la Germania, pur ricevendo giàuna consistente immigrazione dall’Est, era un grandepaese di emigrazione (verso l’Europa occidentale e ver-so le Americhe) e una preoccupazione simile a quelladell’Italia non fu certo estranea alla formalizzazionedello jus sanguinis operata dalla sua legge sulla cittadi-nanza del 1913 (cfr. Brubaker, 1992). Per contro in Ita-lia avevano già allora cominciato a prendere piede degliorientamenti etnocentrici e persino razzisti, anche in re-lazione con gli sviluppi della sua pur tardiva e miseran-da politica coloniale.

In effetti era allora in atto anche in Italia la deriva insenso illiberale dell’idea di nazione. L’involuzione, co-minciata negli ultimi decenni dell’Ottocento con i go-verni della sinistra storica, si era ben presto estesa adaltri ambienti, compresi quelli ufficialmente liberali,che, pur prendendo le distanze dai peggiori eccessi delnazionalismo attivista, troppo concessero, in nome del“realismo politico”, a un’ambigua irrisione delle «alci-nesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Uma-nità», secondo la ben nota frase del Croce (1917), allo-ra non del tutto estraneo a tale temperie culturale. Ladegenerazione fu ancora più evidente nelle varie cor-renti dell’“interventismo” prebellico, non escluse quel-le di dichiarato orientamento democratico. Il regimefascista aggravò poi la situazione, sia sul piano pratico(con un ricorso sistematico alla peggior retorica nazio-

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nalista per giustificare le sue stolide iniziative in Italia eall’estero), sia sul piano teorico (con la pretesa, coeren-te con la sua impostazione totalitaria, di rappresentarel’intera “comunità nazionale”, concepita come un ag-gregato organico di popolo e Stato, provvidenzialmen-te guidato dal Duce e inquadrato dal Partito nazionalefascista e dalle sue varie organizzazioni di massa). A ciòsi aggiunga il già accennato sbocco razzista di tutta lasua costruzione teorica. Molti finirono così per pensa-re che, se quella era la nazione, meglio fosse non esse-re nazionali.

Forse anche per questo nel secondo dopoguerra inItalia di nazione si è parlato poco, nonostante le oppo-ste elaborazioni teoriche dell’antifascismo repubblica-no (che, contro Mussolini, ricordava che «noi siamo na-ti a nazione in nome della libertà e dell’autodetermina-zione dei popoli», per citare Carlo Rosselli) e la rifon-dazione pratica che a giudizio di alcuni ne avrebbe poioperato la Resistenza. Lo stesso aggettivo “nazionale”,percepito come squalificato epiteto nostalgico, divenneoggetto di diffidenza, se non di disprezzo, e fu utilizza-to quasi solo da alcuni partiti e movimenti di destra. Glialtri preferirono definirsi “italiani” o evitarono addirit-tura qualsiasi riferimento anche indirettamente nazio-nale, almeno sino a tempi recenti.

A questa diffusa diffidenza si è aggiunta, nello scorsodecennio, un’inattesa contestazione frontale dello Statonazionale unitario, che ha peraltro ripreso alcuni moti-vi della “questione settentrionale” già emersa sul finiredell’Ottocento. Sin d’allora, in effetti, nel Nord si co-minciò a parlare di una possibile secessione, in seguitoal contrasto fra la componente, per lo più ivi insediata,che si percepiva come il “paese produttivo”, perché fat-tivamente impegnata nelle attività industriali e com-merciali, e quella che la prima considerava come il

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“paese improduttivo”, cioè la “burocrazia romana”,costituita per di più, in crescente misura, da quadri im-migrati dal Sud, con una conseguente “meridionalizza-zione” delle istituzioni, considerata da molti fra le prin-cipali cause d’inefficienza, clientelismo e corruzione. Senon mancava certo il pregiudizio, giocava un ruolo an-che l’evidente differenza di usi, costumi e mentalità ri-levabile fra i quadri formatisi nel Regno sabaudo e nelLombardo-Veneto e quelli formatisi invece nel Regnoborbonico e nello Stato pontificio. Similmente, un se-colo dopo, fra gli anni ottanta e gli anni novanta, ancheper reazione al persistente cattivo governo (esasperantecentralismo, soffocante burocratismo, impudente cor-ruzione, esagerata pressione fiscale), nelle regioni set-tentrionali si sviluppò con imprevedibile rapidità unmovimento dal dichiarato carattere “etnodemocrati-co”, che, dalle iniziali posizioni autonomiste e federali-ste, approdò per qualche anno a un aperto secessioni-smo, non risparmiandosi neppure il rito grottesco dellafondazione di una nuova entità politica, la Padania,concepita come una nazione indipendente perfetta, do-tata di un proprio Parlamento e di un proprio governoe in attesa soltanto di un riconoscimento internaziona-le formale. L’espressione politica di tale movimento, laLega nord, fra il 1994 e il 1996 (prima della sua tem-poranea deriva secessionista, ma quando era ormai piùche evidente la sua netta contrapposizione allo Statounitario), arrivò a essere la prima formazione politicaper numero di eletti al Parlamento italiano ed espresseper una pur breve legislatura la presidente della Came-ra dei deputati e per sette mesi un vicepresidente delConsiglio con la responsabilità specifica del Ministerodell’Interno e altri importanti ministri e sottosegretari:una situazione senza precedenti in nessun altro paesedel mondo.

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Forse anche per questo il nuovo presidente della Re-pubblica Carlo Azeglio Ciampi, di non sospette originiazioniste, subito dopo il suo insediamento (1999) si èfortemente impegnato nel rilancio del sentimento na-zionale italiano. Gli esiti di tale tentativo rimangono pe-raltro molto incerti, nonostante il nuovo sventolio di tri-colori in occasione non più soltanto delle partite dellasquadra nazionale di calcio o dei successi della Ferrariin Formula 1.

Al di là di queste e di altre vicissitudini, su cui non èil caso di soffermarsi qui, l’idea italiana di nazione restarelativamente aperta e, come tale, rappresenta un im-portante strumento d’integrazione, che dovrebbe esse-re meglio utilizzato per favorire la convivenza civile diitaliani e immigrati stranieri. La sua natura non esclusi-va consente infatti di formulare un progetto per l’esten-sione dei diritti di cittadinanza a tutti i nuovi venuti sen-za richiedere loro l’abbandono della propria cultura edelle proprie fedeltà compatibili con la Costituzione re-pubblicana.

Il retaggio italiano, una risorsa per l’Europa

Per sviluppare una politica d’integrazione nel rispettodelle diversità culturali, l’Italia può contare anche su unaltro importante elemento, che gli italiani spesso di-menticano: il suo retaggio di civiltà, dovuto anche allafunzione di crogiuolo di popoli e di culture che la peni-sola ha svolto nei secoli anche malgrado sé stessa.

Questa straordinaria risorsa, che costituisce una par-te fondamentale dell’identità culturale e civile degli ita-liani (cfr. Cerroni, 1996), non deve essere assolutamen-te sprecata. Solo sulla sua base si potrà infatti tentare dielaborare un progetto di grande respiro, in grado sia di

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favorire il dialogo e la convivenza fra gli italiani e gli im-migrati stranieri, sia di ravvivare i legami di solidarietàfra gli italiani residenti nel paese e i loro connazionali(ancor più numerosi degli immigrati stranieri in Italia)emigrati all’estero per scelta o per necessità.

Per questa via l’Italia, forte della sua «meravigliosadebolezza» (Braudel), potrebbe dare un contributo im-portante anche all’elaborazione di una risposta europeaalle nuove sfide poste dalla globalizzazione. Al di fuoridi ogni retorica, infatti, tale retaggio potrebbe concor-rere a definire una nuova cultura politica, né nazionali-sta né cosmopolita, in grado di governarla. Sarebbe, delresto, del tutto insensato pensare di poter gestire i gran-di movimenti di popolazione previsti per l’avvenire ab-bandonando all’andamento delle forze spontanee ilprocesso di globalizzazione, cioè il fattore che più sem-bra destinato a esercitare ancora per un lunghissimo ar-co di tempo un’influenza determinante sulle trasforma-zioni della convivenza umana.

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6. Conclusione

Non è probabilmente un caso che la già citata impor-tante “comunicazione” della Commissione europea sul-l’immigrazione (che ne prospetta un’integrazione nel ri-spetto della diversità culturale) sia stata formulata sottola presidenza di un italiano, Romano Prodi, a confermadi un’ormai maturata sensibilità in argomento da partealmeno di una parte della nostra classe politica (lo stes-so Prodi, come abbiamo visto, aveva in precedenza as-sunto posizioni ben diverse). Questa nuova sensibilità,del resto, è stata dimostrata anche da altre importanti fi-gure della scena politica italiana, compreso chi, per sto-ria personale e appartenenza politica, poteva esserne ri-tenuto più lontano (mi riferisco in particolare all’attua-le vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, chesembra avere molto appreso dalla sua recente esperien-za alla Convenzione europea).

Mi piace pertanto concludere questo lavoro (che hanecessariamente per tanti aspetti le caratteristiche di unwork in progress) con le parole di un altro italiano chenegli ultimi anni ha ben meritato: il presidente della Re-pubblica Carlo Azeglio Ciampi (2003). Questi, in un re-cente lucido intervento, ha indicato con chiarezza la viaper un accostamento critico alle problematiche dellaglobalizzazione, dedicando una particolare attenzioneproprio al tema delle grandi migrazioni internazionali.

Ha detto Ciampi, con parole che meritano di essereriprese testualmente: «L’espansione dell’economiamondiale negli ultimi decenni e la crescita generalizza-

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ta del tenore di vita non hanno portato a una più equadistribuzione del reddito fra i popoli del mondo. Sia-mo, anzi, in presenza di un progressivo ampliamentodel solco che divide i paesi ricchi e avanzati e i paesipoveri e arretrati. […] Il fenomeno della globalizzazio-ne, unito alla diffusione dell’innovazione tecnologica,offre nuove straordinarie opportunità di progresso pa-cifico per l’intera comunità mondiale. Ma la globaliz-zazione ha bisogno di una forte etica, che non perdamai di vista l’essere umano e i suoi irrinunciabili biso-gni, materiali e spirituali». In particolare, «il riconosci-mento agli “altri”, a tutti gli “altri”, degli stessi diritti dicui noi godiamo o che rivendichiamo per noi è la basedella convivenza, il presupposto dello Stato di diritto».Su questo punto «etica religiosa ed etica laica s’incon-trano e convergono nel predicare uguali norme di com-portamento e insegnano a praticare il “dialogo” e a vi-vere le istituzioni come strumenti per organizzare e faravanzare la vita della collettività».

Sono parole da meditare e indicazioni a cui dare at-tuazione.

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AcculturazioneProcesso di acquisizione, almeno parziale, di un’altra cultura,in età adulta. Può essere dovuta tanto a una colonizzazionesubita quanto a una migrazione in un altro contesto cultura-le. Si distingue dall’inculturazione, che è invece il processo diacquisizione della cultura del proprio gruppo in età formati-va. L’acculturazione costituisce una parte importante della so-cializzazione. Il termine può essere utilizzato in senso attivo(acculturare), passivo (essere acculturato) o riflessivo (accul-turarsi).[➔ Cultura, Socializzazione]

AsiloProtezione che uno Stato può concedere a uno straniero chene faccia richiesta per sottrarsi a persecuzioni o a situazionipolitiche non gradite. La Costituzione italiana del 1948 pre-vede il diritto di asilo per «lo straniero al quale sia impeditonel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratichegarantite dalla Costituzione italiana […] secondo le condizio-ni stabilite dalla legge» (art. 10, comma 3). Ma questa formu-lazione tanto ampia del diritto di asilo (la più ampia presentein una Costituzione europea), per quanto in astratto del tuttolodevole, ha reso di fatto inapplicabile la norma (basti direche, ai sensi di quell’articolo, avrebbero il diritto di chiedereasilo in Italia molti miliardi di persone!). Ciò ha impedito atutt’oggi la stessa emanazione della legge ordinaria che avreb-be dovuto darle attuazione. L’“asilo” non va peraltro confusocon il “rifugio” ai sensi della Convenzione di Ginevra, istitu-to ben più preciso, cui anche l’Italia dà piena attuazione.[➔ Profugo, Rifugio]

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AssimilazioneProcesso di acquisizione di caratteristiche simili a quelle diun’altra popolazione o di un altro gruppo per qualche aspet-to diversi. Il termine può essere utilizzato in senso attivo (as-similare), passivo (essere assimilato) o riflessivo (assimilarsi).[➔ Integrazione sociale]

CittadinanzaDesigna la condizione giuridica che deriva dall’appartenenzadi un individuo a una determinata unità politica (in genere, manon necessariamente, uno Stato). Da tale condizione deriva uninsieme di diritti e di doveri, peraltro variabili nel tempo e nel-lo spazio. I diritti più specificamente legati alla cittadinanzasono quelli politici.

La cittadinanza può essere acquisita a titolo originario (cioèper nascita) o a titolo derivato (cioè per altre ragioni). L’ac-quisizione a titolo originario può avvenire per “diritto di san-gue” (jus sanguinis), cioè per nascita da un altro cittadino, oper “diritto di suolo” (jus soli), cioè per nascita in un determi-nato territorio. L’acquisizione a titolo derivato può avvenireper mutamento dei confini di uno Stato, beneficio di legge,matrimonio con un cittadino, naturalizzazione ecc. È impor-tante non confondere, come da parte di molti si fa, nazionalitàe cittadinanza.[➔ Nazionalità, Nazione]

ClandestinoCon questo termine (derivato dall’avverbio latino clam, “dinascosto”) si definisce lo straniero che sia entrato illegalmen-te in un paese e vi rimanga sfuggendo ai controlli delle sue au-torità. Alcuni autori distinguono il clandestino, così inteso,dall’irregolare, entrato legalmente, ma poi rimastovi illegal-mente, perché senza permesso di soggiorno (è il caso, peresempio, di chi sia entrato ufficialmente solo per un breve sog-giorno turistico) o con permesso di soggiorno scaduto. Peral-tro anche questi irregolari, nella maggior parte dei casi, cerca-no di sottrarsi ai controlli della polizia, il che rende la distin-zione non sempre chiara né significativa.

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CosmopolitismoConcezione di chi guarda al mondo come se fosse una solacittà (da kósmos, “mondo”, e pólis, “città”), in uno spirito difratellanza universale. In età moderna un cosmopolitismo diquesto tipo è stato teorizzato dagli illuministi. Oggi il terminedesigna a volte l’atteggiamento di chi, ritenendosi “cittadinodel mondo”, ostenta snobisticamente il proprio disprezzo peramor di patria e sentimenti nazionali.

CulturaNel suo significato antropologico designa «il complesso insie-me che comprende il sapere, le credenze, le arti, la morale, ildiritto, i costumi e tutte le altre capacità e abitudini che l’uo-mo acquisisce in quanto membro di una società» (Tylor,1871).

Cultura politicaÈ la parte della cultura più direttamente pertinente alla politi-ca. L’espressione è stata introdotta da alcuni autori americaniper indicare l’insieme degli atteggiamenti individuali verso lapolitica e gli orientamenti di tipo cognitivo, affettivo e valuta-tivo che condizionano l’agire politico (Almond e Verba, 1963).Qui è peraltro impiegata con valenze meno soggettive per in-dicare, con riferimento alla storia di “lunga durata”, l’insiemedelle idee fondamentali che in un determinato paese orienta-no sul lungo periodo la concezione dello Stato, del popolo edella nazione, le relazioni esplicitamente o implicitamente isti-tuite fra loro, con particolare riferimento ai rapporti fra etni-cità, nazionalità e cittadinanza, e i princìpi che regolano l’ac-quisizione di quest’ultima, con i diritti e i doveri che ne con-seguono.[➔ Cittadinanza, Cultura, Etnia, Nazione, Popolo]

CulturocentrismoTendenza dei membri di una società complessa a valutare glialtri gruppi o i loro membri sulla base dei valori e degli orien-tamenti prevalenti nella propria società, con la conseguenza diritenerli inferiori almeno per qualche aspetto. L’analoga ten-denza riscontrabile nei gruppi etnici è definita “etnocentri-smo”. La reazione all’etnocentrismo e al culturocentrismo ha

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portato alcuni antropologi a teorizzare il “relativismo cultura-le”, che risulta peraltro inficiato dall’impossibilità di giustifi-carne le premesse in modo non relativo.[➔ Cultura, Etnocentrismo]

DiasporaIl termine, che significa letteralmente “disseminazione” (dalgreco diaspéiro, “seminare qua e là”), indica la dispersione nelmondo di individui e gruppi provenienti da un determinatopaese. Applicato dapprima agli ebrei, è stato poi utilizzato perdesignare il risultato di quelle migrazione che hanno dato vitain molti luoghi diversi a gruppi più o meno consistenti di in-dividui provenienti dallo stesso paese che conservano in unaqualche misura la propria lingua e la propria cultura. Si puòparlare così di una diaspora greca, di una diaspora cinese e na-turalmente di una diaspora italiana.

DifferenzialismoIn positivo il differenzialismo è la posizione di chi sottolineal’importanza di salvaguardare le differenze (e, più in partico-lare, le differenze etniche e culturali) contro l’omologazione.Questa posizione è stata sostenuta con forza da Claude Lévi-Strauss (1952), in un prezioso volumetto scritto per l’UNESCO.Uno studioso marxista francese, Henri Lefebvre (1970), hapoi pubblicato un “manifesto differenzialista” che, in chiavepiù direttamente politica, propugnava la resistenza ai grandipoteri omogeneizzanti che operano nel mondo moderno, inprimo luogo il capitalismo stesso. La sordità per questi temidella sinistra francese, da sempre favorevole alla politica di as-similazione degli immigrati, ha però fatto sì che il differenzia-lismo divenisse uno dei cavalli di battaglia della Nuova destra.Ciò ha comportato un’indebita identificazione di differenzia-lismo e razzismo da parte della sinistra francese, che ha inven-tato, per bollare con un’etichetta d’infamia i suoi avversari, l’e-tichetta di “razzismo differenzialista”, non esitando a coinvol-gere nell’accusa lo stesso Lévi-Strauss. Anche in Italia la tesidell’esistenza di un “nuovo razzismo” differenzialista, caratte-rizzato non già dall’idea dell’ineguaglianza biologica delle raz-ze, ma da quella dell’irriducibile differenza delle culture, è sta-ta ripresa da alcuni militanti della sinistra (Balbo e Manconi,

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1990; Rivera, 1997, 2003 ecc.), peraltro in modi spesso confu-si, dettati più dall’intento di polemizzare contro determinateforze politiche (in particolare la Lega nord) che da una serenaanalisi della situazione.[➔ Omologazione, Razzismo]

EspulsioneProvvedimento di allontanamento di uno straniero dal territo-rio di uno Stato per intimazione o per accompagnamentocoatto. Può essere deciso dalla magistratura o dagli organi dipolizia, secondo la legislazione vigente e le circostanze con-crete (clandestinità, irregolarità, flagranza di determinati rea-ti). Nei regimi autoritari può esserne colpito anche il cittadi-no. Il provvedimento è normalmente escluso per i rifugiati eper alcune categorie protette previste dalla legge (per esem-pio, i minori e le donne in stato di gravidanza).

EtniaIl termine indica a rigore un raggruppamento umano di picco-le o medie dimensioni che si distingue da tutti gli altri dello stes-so ordine per determinati caratteri biologici e culturali. Poichétali caratteri, nelle zone di originario insediamento, sono di so-lito distribuiti a gradienti, le differenze fra i gruppi territorial-mente più prossimi sono sempre limitate e per di più possonorisultare più o meno significative per i vari caratteri, ciascunodei quali presenta in genere una propria particolare distribu-zione. Acquista pertanto importanza anche l’elemento soggetti-vo, cioè la coscienza dell’appartenenza a uno specifico gruppo,che sorge in genere dal contatto con i gruppi vicini. Alcuni stu-diosi hanno teorizzato, almeno in parte impropriamente, l’ori-gine etnica delle nazioni (cfr. Smith, 1986).

Nella letteratura sulle migrazioni, peraltro, con tale terminesi designano spesso solo le cosiddette “minoranze visibili”, perdi più confondendo indebitamente etnicità, nazionalità e cit-tadinanza. Si parla così, per esempio, di etnia egiziana, brasi-liana o cinese, quando in Egitto, Brasile e Cina le vere etnie so-no decine o centinaia. Ciò fa parte, del resto, del processo dietnicizzazione delle differenze, cui non si sottraggono neppu-re molti studiosi anche qualificati.[➔ Cittadinanza, Etnicizzazione, Nazionalità, Nazione]

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EtnicizzazioneTermine con cui si indica la tendenza a dare indebite spiega-zioni o interpretazioni di carattere etnico a situazioni, tensionie conflitti di altra natura (sociale, culturale, religiosa, politicaecc.).[➔ Etnia]

EtnocentrismoTermine, introdotto da William G. Sumner (1906), per indi-care la tendenza dei membri di un gruppo etnico a valutare glialtri simili gruppi o i loro membri sulla base dei valori e degliorientamenti del proprio gruppo, con la conseguenza di rite-nerli inferiori almeno per qualche aspetto. Per parlare della si-mile tendenza presente nelle società complesse, ove il giudizioverte in genere sugli aspetti lato sensu culturali, il termine piùappropriato sarebbe “culturocentrismo”, introdotto da TullioTentori (1987), ma ancora utilizzato solo da pochi studiosi.[➔ Cultura, Etnia]

Fortezza EuropaMetafora, già attestata nella seconda metà degli anni ottanta,al tempo dell’accordo di Schengen (1985), con cui alcuni cri-tici delle politiche di controllo e di limitazione dell’immigra-zione adottate dai paesi europei indicano polemicamente lepretese conseguenze di tale “chiusura”, dettata a loro dire dauna sindrome da “cittadella assediata” o addirittura da xe-nofobia e razzismo. Chi conosce davvero tali politiche e le lo-ro effettive conseguenze evita di usare tale fuorviante espres-sione.[➔ Razzismo, Xenofobia]

GlobalizzazioneÈ il processo caratterizzato dall’estendersi a scala planetariadei modelli economici, sociali, politici e culturali originaria-mente emersi nel “centro” dell’attuale “sistema mondiale”,formatosi in età moderna a partire dalla colonizzazione euro-pea del resto del mondo e trasformatosi via via per effetto de-gli sviluppi del capitalismo moderno e soprattutto di quelli piùrecenti, caratterizzati dalla crescente importanza delle attivitàfinanziarie e dalla diffusione delle nuove tecnologie informati-

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che e comunicative. Comporta un’almeno parziale “omologa-zione” dei modelli di vita e di consumo, nonché delle culturepresenti nel mondo, e più in particolare, per ciò che qui più ciconcerne, delle culture politiche.[➔ Cultura, Cultura politica, Omologazione]

IdentitàInsieme delle caratteristiche che distinguono un individuo oun gruppo da altri individui o da altri gruppi. Al di là delle ap-parenze, non è un dato, ma un processo che muta nel tempo.Le stesse caratteristiche che sembrano più permanenti acqui-stano in realtà un’importanza variabile nei diversi contesti, inrelazione a quelle di altri individui o di altri gruppi. Gli ele-menti principali dell’identità individuale sono il sesso, l’età, lacultura, la razza (comunque sia definita in quel contesto), lareligione, la nazionalità, la cittadinanza, l’attività svolta, l’ap-partenenza a (o la simpatia per) determinati gruppi sociali, po-litici, religiosi, sportivi ecc., in una parola ciò che fa sì che unindividuo sia riconosciuto dagli altri e si riconosca. Da ciò an-che la grande importanza psicologica dell’identità. Ben notisono i problemi legati alle “crisi d’identità” determinate da uncambiamento di status o di ruolo, a volte collegato al muta-mento dell’età (per esempio, le crisi adolescenziali o le crisidella terza età) o al mutamento del proprio contesto (peresempio, le crisi dei migranti, soprattutto dei più giovani, so-spesi, come si dice, fra “due culture”). Anche le trasformazio-ni causate dalla globalizzazione possono determinare per glistessi motivi delle crisi d’identità, anche estremamente gravi,in grado di dar luogo, così come del resto le migrazioni, a “psi-copatologie da sradicamento”.

L’identità è però anche un fatto collettivo. Di particolareimportanza sono, in determinati contesti, l’identità etnica e l’i-dentità nazionale, che del resto concorrono a definire l’iden-tità individuale.

Il concetto di “identità etnica” è stato fatto di recente og-getto di critiche non convincenti (Fabietti, 1995), così comedel resto quello stesso di “identità” (Remotti, 1996), da partedi autori di orientamento sostanzialmente idealista.[➔ Cultura, Etnia, Nazione]

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InforestieramentoTermine, utilizzato soprattutto in Svizzera (l’equivalente tede-sco è Überfremdung), per designare una presenza stranieratanto numerosa da alterare le caratteristiche fondamentali diuna popolazione. Il tema, agitato in Svizzera sin dagli anniventi, è stato ripreso nel corso delle numerose iniziative refe-rendarie (peraltro sempre bocciate, anche se a volte di strettamisura) intese a diminuire con l’espulsione o limitare con il di-vieto di ulteriore immigrazione la percentuale degli immigratistranieri sulla popolazione.

Integrazione socialeIl concetto è intuitivo, ma difficile da definire. Innanzi tuttoconviene precisare che con questa espressione ci si può riferi-re sia all’“integrazione della società”, sia all’“integrazione nel-la società”. Qui ci occuperemo solo della seconda, anche senaturalmente il carattere più o meno integrato della societànon manca di influenzare l’integrazione nella società e vice-versa. Senza entrare nel merito del dibattito sull’“integrazio-ne”, che ha visto impegnati quasi tutti i principali esponentidella sociologia sin dalle sue origini, mi limito qui a qualchecenno sull’integrazione sociale degli immigrati. Con questaespressione, a mio giudizio, si deve intendere il loro inseri-mento positivo nella società, come soggetti in interazione nor-male con gli altri, in condizione di almeno tendenziale parità,in ogni aspetto della vita sociale, a partire dall’eventuale atti-vità lavorativa, senza che sia richiesto loro per questo di ri-nunciare a valori, atteggiamenti e comportamenti che ritenga-no importanti, purché non siano in contrasto con i fondamen-tali princìpi della convivenza civile. L’integrazione sociale cosìdefinita può avvenire in forme diverse, secondo la cultura po-litica di ciascun paese e le caratteristiche stesse del processomigratorio e, ancor più, del tipo di immigrati presenti. In Eu-ropa si sono dati tre principali tipi di integrazione sociale, pe-raltro tutti assai imperfetti e storicamente datati: l’integrazio-ne per assimilazione (modello francese), che però funziona so-lo quando l’assimilazione non sia perseguita in modo così rigi-do da suscitare ripulsa e rigetto; l’integrazione pluralistica(modello britannico), che però funziona solo quando il plura-lismo non sia tanto “ineguale” da trascorrere in realtà in una

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forma di blando apartheid; e l’integrazione temporanea per in-serimento lavorativo (modello tedesco), che però funziona so-lo quando non degeneri in una forma di “sviluppo separato”che mistifica solo lo sfruttamento della manodopera reclutata.Nei confronti di questi modelli, già in parte superati, costitui-sce un indubbio passo in avanti quello del multiculturalismo(modello canadese o australiano), pur con tutti i suoi limiti ele sue contraddizioni. Al di là di tale modellistica, va tuttaviaricordato che, per perseguire una buona integrazione sociale,nulla è più utile che l’applicazione con sensatezza, tolleranza erispetto dei fondamentali princìpi di giustizia e di convivenzacivile a tutti coloro che sono di fatto presenti in una determi-nata società e l’eventuale temporaneo sostegno, economico,sociale, culturale e psicologico a chi versi per qualsiasi motivoin condizioni di particolare disagio.

La preoccupazione dei sociologi per l’integrazione socialedegli immigrati può essere facilmente spiegata: il suo contra-rio – l’esclusione, l’emarginazione, il disadattamento – costi-tuiscono un grave problema non solo per questi ultimi, ma pertutta la società, come fonte di devianza e di criminalità.

Contro l’integrazione sociale degli immigrati si pronuncia-no solo coloro che la confondono indebitamente con l’assimi-lazione totale con perdita dell’identità culturale oppure perse-guono il rovesciamento dell’ordine sociale esistente e vedononegli immigrati di recente arrivo un “nuovo proletariato” gio-vane e combattivo, in grado di risvegliare l’ormai “integrata”classe lavoratrice dei paesi a sviluppo avanzato. Ma tutto indi-ca che si tratta solo di pericolose utopie, come conferma an-che l’esperienza dei paesi in cui l’immigrazione è cominciataassai prima che da noi.[➔ Assimilazione, Cultura politica, Multiculturalismo, Plurali-smo culturale]

InterculturalismoIl termine indica una politica intesa a favorire non solo la con-vivenza delle culture, ma i loro rapporti e lo scambio recipro-co. È particolarmente utilizzato in ambito scolastico, ove sindagli anni ottanta si parla anche in Italia di “educazione inter-culturale”. In Francia il termine “interculturalismo” è preferi-to a quello di “multiculturalismo”, avvertito come troppo lega-

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to alle teorizzazioni e alle esperienze anglosassoni, anche quan-do in realtà l’uso del secondo termine sarebbe più corretto.[➔ Multiculturalismo]

Melting pot, salad bowl, creusetCon quest’espressione si suole definire l’idea, a lungo coltiva-ta negli Stati Uniti, che in quel paese gli immigrati si fondes-sero (melting pot significa “crogiuolo”) per dar vita a un uomonuovo: il “buon americano” (la metafora è apparsa forse perla prima volta nel titolo di una commedia del primo Novecen-to sugli immigrati in America, The Melting Pot, di IsraelZangwill, che parla appunto di questo paese come del “cro-giuolo di Dio”). In realtà il melting pot non ha mai funzionatocome se lo immaginava Zangwill: un processo di adattamentoreciproco su basi ugualitarie fra persone di origini anche mol-to diverse. La posizione dominante della componente wasp(cioè bianca, anglosassone e protestante) ha determinato in-fatti, sin dalle prime fasi dell’immigrazione negli Stati Uniti,una forte tendenza all’anglo-conformity. Sin dagli anni venti siè scoperta inoltre l’esistenza di “americani col trattino” (gliitalo-americani, i greco-americani, i polacco-americani, i rus-so-americani, gli ebrei-americani dell’Europa orientale ecc.),che mantenevano almeno in parte, anche per più generazioni,caratteristiche proprie. Successivamente, anche per l’allarga-mento delle provenienze, si sono individuati gruppi ancora piùresistenti all’azione del “crogiuolo”: i cosiddetti unmeltableethnics, cioè gli “etnici non amalgamabili” (espressione di fat-to applicata, a torto o a ragione, a cinesi, coreani, vietnamiti,giapponesi, messicani, cubani, portoricani, haitiani, arabi eafricani dei più diversi paesi). Infine il revival etnico, che hacoinvolto anche gli afro-americani e gli indiani nativi del pae-se, ha determinato la fine di un’illusione. Alla nuova situazio-ne si è tentato di far fronte con una politica “multiculturale”,peraltro nella sostanza molto più limitata e contraddittoria diquella canadese e australiana, anche se in certi contesti (peresempio le università) è stata perseguita a volte con una radi-calità così insensata da suscitare reazioni più che legittime, an-che se in apparenza esagerate (Arthur Schlesinger jr. è giuntoa parlare di “disunione dell’America”). In ogni caso il panora-ma delle maggiori metropoli evoca ormai, più che l’auspicato

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melting pot, l’avveniristico incubo di Blade Runner: gruppi se-parati fra loro, spesso in conflitto, a volte segregati in parti di-verse del territorio, in situazioni di emarginazione e di degra-do urbano, sociale e culturale, pronti agli scontri e alle som-mosse, come quelle che nella prima metà degli anni novantahanno devastato Miami e ancor più Los Angeles (50 morti, piùdi 600 incendi, saccheggi e distruzioni). I più ottimisti hannodunque pensato bene di sostituire alla metafora del meltingpot quella del salad bowl: la grande insalata della cucina ame-ricana, in cui ogni ingrediente conserva il suo sapore. Glieventi dell’11 settembre 2001 hanno però assestato un ulterio-re colpo alla speranza di una convivenza pacifica in una so-cietà molto aperta e con scarsi controlli, anche se una partenotevole della popolazione ha saputo reagire alla sfida del ter-rorismo con ammirevole dignità.

La metafora del crogiuolo è stata utilizzata anche in Francia,dove è stato impiegato il corrispondente termine creuset perindicare il processo della formazione del “buon francese” apartire dalla crescente presenza nel paese d’immigrati di origi-ne diversa. L’impostazione era però profondamente diversa daquella americana, perché in Francia (che non è, diversamentedagli Stati Uniti, un paese sorto dalle immigrazioni) nessunoha mai pensato che anche i francesi dovessero entrare nel cro-giuolo per fondersi con i nuovi venuti. Il processo era anzi vi-sto in chiave assimilazionista. Anche questa politica ha tuttaviaconosciuto crescenti difficoltà ed è da tempo in crisi.[➔ Assimilazione, Multiculturalismo]

MulticulturalismoIl termine indica una politica intesa a favorire la buona convi-venza di culture diverse nello stesso contesto, su una base diuguaglianza, nella convinzione che ciò comporti un arricchi-mento per tutta la società. In alcune versioni (da definirsi piùpropriamente con il termine di “interculturalismo”) implicaaltresì degli interventi per favorirne i rapporti e lo scambio re-ciproco. Il multiculturalismo è stato teorizzato da Charles Tay-lor (1992) e da altri come la “politica del riconoscimento” edella valorizzazione delle diversità. Con il termine “multicul-turalismo” hanno definito le proprie scelte per la gestione del-l’immigrazione il Canada prima (sin dal 1971) e l’Australia poi

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(1973). Negli Stati Uniti si parla invece di “multiculturalismo”per definire alcune sperimentazioni, velleitarie e spesso grot-tesche, introdotte nelle scuole e nelle università, in nome diuna pretesa “correttezza politica” intesa a ipercompensare glieffetti delle passate (e non sempre del tutto superate) discri-minazioni di razza, di sesso e di etnia. In Italia il “multicultu-ralismo” è spesso superficialmente invocato come generico si-nonimo di una politica migratoria “buonista”, alimentata dal-l’attesa di straordinarie meraviglie derivanti dall’incrementodella “diversità” e da un mitizzato “incontro con l’Altro” (spes-so letteralmente scritto con la maiuscola). Per definire questeposizioni, che poco hanno a che fare con un multiculturalismorazionale e prudente, si è opportunamente parlato di “abba-glio multiculturale” (Melotti, 2000).[➔ Cultura, Pluralismo culturale, Interculturalismo, Integra-zione sociale]

NazionalitàSentimento di appartenenza a un’unità nazionale. Nel lin-guaggio comune viene a volte erroneamente identificata con lecaratteristiche etnico-culturali e, più in particolare, con la lin-gua o la religione. Ciò avviene a volte anche nel linguaggio bu-rocratico o addirittura nei documenti d’identità (come a suotempo nell’Unione Sovietica). Più frequente è la sua confusio-ne (anche nei documenti d’identità) con la cittadinanza (in al-cuni paesi, per esempio in Francia e nel Regno Unito, i duetermini sono addirittura utilizzati dai più come se fossero deisinonimi interscambiabili). Tale errore era anche presente neltrattato di Maastricht (1992), ma è poi stato corretto nel trat-tato di Amsterdam (1997), forse grazie anche a un mio inter-vento in una riunione di esperti, che per questo almeno non èstata inutile.[➔ Cittadinanza, Cultura, Etnia, Nazione]

NazioneLivello d’integrazione socioculturale e politica (superiore aquello delle precedenti formazioni sociali: bande, tribù, domi-ni, prime forme di Stato) proprio di alcune società complesse,sia del mondo antico (le società basate sul modo di produzio-ne asiatico, caratterizzate dall’esistenza di Stati burocratici e

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accentrati, come l’Egitto, la Cina e il Vietnam; cfr. Melotti,1972), sia del mondo moderno (gli Stati burocratici e accen-trati del capitalismo incipiente o maturo e gli Stati pseudoso-cialisti del collettivismo burocratico). A tale livello d’integra-zione corrisponde in genere un sentimento di appartenenza eun’ideologia che nasce dal fatto che l’organizzazione politicadetiene un sostanziale diritto di vita e di morte sui sudditi e neinfluenza in ogni caso profondamente la sorte. Il discorso na-zionale può enfatizzare veri o pretesi elementi “oggettivi” dicarattere etnico-culturale (la discendenza comune, la lingua, lareligione, le tradizioni, gli usi, i costumi, le memorie, la comu-nanza di destino ecc.) o elementi “soggettivi” di carattere etico-politico (la coscienza, la scelta, la volontà ecc.). Nell’imposta-zione romantica prevalgono i primi (come nel caso tipico del-la Germania) e nell’impostazione illuministica i secondi (co-me nel caso tipico della Francia). A volte entrambi gli ele-menti sono presenti, in modo variamente articolato (come nelcaso italiano).[➔ Etnia, Nazionalità]

OmologazioneIl termine “omologazione” (dal greco homós, “identico”, e ló-gos, “parola, discorso”) ha diversi significati. Il più diffuso,presente nel linguaggio giuridico e sportivo, indica l’atto di«convalida ufficiale di atti o di fatti soggetti a una norma o auna disciplina determinata» (dal dizionario Devoto-Oli). Pe-raltro omologare significa anche “rendere conforme a un mo-dello” e in questa accezione è per lo più impiegato nelle scien-ze sociali, specie con riferimento a valori, norme, comporta-menti. Si parla in particolare di omologazione per indicare(con prevalenti connotazioni critiche) il processo di omoge-neizzazione a livello internazionale determinato dal processodi globalizzazione. In tal senso è sinonimo (o quasi) di “occi-dentalizzazione del mondo” (Latouche, 1989) e di diffusionedi ciò che è stato polemicamente, ma superficialmente indica-to come il “pensiero unico” dell’Occidente. Il termine, inizial-mente presente soprattutto nella lingua italiana (grazie all’usoevocativo fattone, senza una definizione precisa, da Pier Pao-lo Pasolini nei suoi “scritti corsari” pubblicati sulla prima pa-gina del “Corriere della Sera”), si sta ora diffondendo anche in

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altre lingue, ove prima si utilizzava nello stesso senso il sinoni-mo “omogeneizzazione”, più comune, ma meno preciso, datoche non implica il riferimento a un modello.[➔ Globalizzazione]

Pluralismo culturaleL’espressione indica la compresenza nello stesso contesto diculture differenti e l’eventuale politica intesa a favorirne laconvivenza, senza pretendere di assimilare le culture minori-tarie a quella maggioritaria. Con riferimento alle migrazioni èspesso utilizzata per definire l’esperienza del Regno Unito edei Paesi Bassi, almeno a partire da una certa data.[➔ Cultura]

Politica migratoriaL’espressione indica il complesso della politica relativa alle mi-grazioni, che si compone in genere di due elementi: la politicadell’immigrazione (cioè la politica relativa agli ingressi degliimmigrati, che può andare dal reclutamento al respingimentoe prevede in molti casi delle quote annue e una selezione ma-nifesta o latente, più o meno rigida, per motivi razziali, etnici,professionali, culturali ecc.) e la politica per la gestione degliimmigrati (che può prevederne una presenza solo temporaneao una presenza permanente e, in quest’ultimo caso, può mira-re a favorirne la segregazione, l’assimilazione o l’integrazione,con interventi orientati allo sviluppo separato, all’assorbimen-to, al pluralismo culturale, al multiculturalismo o all’intercul-turalismo). Della politica per gli immigrati fanno ovviamenteparte le misure in ambito sociale, educativo, sanitario, comu-nicativo ecc. La politica migratoria dipende largamente dallacultura politica.[➔ Cultura politica]

PopoloIl termine “popolo” ha più di un significato. Nell’uso politicomoderno, in particolare, designa la popolazione di una deter-minata unità politica, peraltro con valenze diverse nelle varieculture politiche. In quelle di ispirazione romantica designainfatti l’éthnos, con valenze che oggi diremmo appunto etno-grafiche (come nell’espressione “tradizioni popolari”, cui s’in-

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titola una diffusa disciplina antropologica). In quelle di ispira-zione illuministica designa invece il démos, cioè l’insieme deicittadini, portatori di particolari diritti e doveri (come nell’e-spressione “sovranità popolare”). La stessa polisemia si ri-scontra del resto nei corrispondenti termini delle altre princi-pali lingue europee, anche se nel tedesco Volk (dal sanscritovàrgah, radice del latino vulgum e dell’italiano volgo) prevalela connotazione romantica e nel francese peuple e nell’inglesepeople (dal latino populus) la connotazione illuministica, a vol-te peraltro riletta con accenti romantici (come in Michelet).Né mancano utilizzazioni che enfatizzano un’impostazione dirango o di ceto, come nell’espressione “andare verso il popo-lo” (in cui quest’ultimo termine traduce il suo equivalente rus-so narod, da cui deriva il termine narodnicestvo, che designa inrusso il “populismo”), o di classe, come nell’espressione “ilpopolo ha fame” o “classi popolari“. Quest’ambivalenza eragià presente nel latino populus, che nell’espressione senatuspopulusque romanus indica la parte della popolazione distintadagli ottimati.

In senso politico si entra a far parte del “popolo” (démos)con l’acquisizione della cittadinanza; in senso etnografico del“popolo” (éthnos) non si può invece mai entrare a far partecompletamente. Questa differenza ha alimentato in Francia, incontrapposizione all’impostazione “repubblicana”, la distin-zione, proposta dal Front National e da altri partiti e movi-menti di destra, di “francesi di carta” (français de papier) e“francesi di schiatta” (français de souche). Resta il fatto che del“popolo” in senso sociale si fa parte comunque, anche senzacittadinanza. Basta non arricchire.[➔ Etnia, Nazione]

ProfugoSi designano “profughi” coloro che devono lasciare un paeseper guerre, scambi di popolazione, espulsioni di massa, cata-strofi naturali (per esempio, gli armeni e i greci costretti a la-sciare i territori passati alla Turchia negli anni venti, gli italianiche hanno preferito abbandonare l’Istria e la Dalmazia dopo laseconda guerra mondiale, i serbi della Bosnia, i “musulmani”della Bosnia-Erzegovina e gli albanesi del Kosovo che hannolasciato i loro paesi per le guerre e le “pulizie etniche” in cor-

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so). Da non confondere con i “rifugiati”, anche se fra i profu-ghi vi possono essere persone che hanno titolo a essere ricono-sciute come tali.[➔ Rifugio/Rifugiato]

RazzaÈ il termine con cui si suole indicare una sottopopolazione, al-l’interno della specie, caratterizzata da una distribuzione dideterminati geni parzialmente diversa da quella di altre sotto-popolazioni. Mentre per l’individuazione della specie esiste uncriterio obiettivo abbastanza soddisfacente (la completa inter-fecondità degli individui che la compongono), ancorché nonperfetto (dato che è applicabile solo alle specie a riproduzionesessuata, all’interno delle quali, per di più, esistono anche in-dividui non reciprocamente fecondi), le altre categorie dellatassonomia biologica, sia superiori (genere, famiglia, ordine,classe, tipo ecc.), sia inferiori (sottospecie, razza, varietà) nonsono definibili con criteri obiettivi e sono quindi affidate allaprudente discrezionalità dello studioso (per questo le si èscherzosamente definite come unità considerate tali da un nu-mero sufficientemente grande di specialisti della materia).Non appartiene quindi alla sfera scientifica, bensì a quellaideologica, negare o affermare astrattamente l’esistenza dellerazze umane. Alcuni seri studiosi (per esempio, TheodosiusDobzhansky, 1962) utilizzano questo concetto senza imbaraz-zo. Altri (per esempio, Luigi Luca Cavalli-Sforza e FrancescoCavalli-Sforza, 1993) preferiscono invece evitarlo, anche per-ché sovraccarico di valenze ideologiche. Personalmente prefe-risco utilizzare il termine, spiegandone il significato, anzichécensurarlo in ossequio alla cosiddetta “correttezza politica”.La razza non deve essere infatti un totem, ma neanche untabù; e il modo più serio di combattere il razzismo è quellonon già di tacere, o negare, la realtà della diversità umana,bensì di spiegarne l’origine e l’effettiva natura, sottraendolo al-lo sfondo oscuro dei sentimenti irrazionali. Può essere ancheutile ricordare che, a differenza delle antiquate impostazionitipologiche, i genetisti che utilizzano il concetto non ricono-scono più le quattro o cinque “razze” caratterizzate fonda-mentalmente dal colore della pelle, ma elaborano ben piùcomplesse classificazioni per render maggiormente conto del-

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le caratteristiche di queste sottopopolazioni mendeliane mute-voli nel tempo (per esempio, Dobzhansky giunge a indivi-duarne 34, alcune delle quali di origine relativamente recente,anche per ibridazione di preesistenti sottopopolazioni). Si ag-giunga che le razze, sorte da un processo di divergenza evolu-tiva fra sottopopolazioni un tempo parzialmente isolate (cfr.Melotti, 1978), per effetto dell’opposto processo di riconver-genza, indotto dalla globalizzazione e dalle nuove migrazioniinternazionali, sembrano destinate a scomparire nel giro dipochi secoli, sino a configurarsi davvero, per dirla conDobzhansky (1962), come «reliquie dello stadio preculturaledell’evoluzione umana» (p. 275).[➔ Razzismo]

RazzismoÈ l’atteggiamento o il comportamento discriminatorio o perse-cutorio nei confronti di chi è considerato di razza diversa. Nonva confuso né con l’etnocentrismo o il culturocentrismo (ilpregiudizio etnico o culturale), né con la xenofobia (la pauraper lo straniero, che non necessariamente concerne individuiritenuti di razza diversa né necessariamente comporta reazionidiscriminatorie o persecutorie). Dal razzismo vanno tenute ri-gorosamente distinte, a maggior ragione, altre forme di discri-minazione (sociale, sessuale, culturale ecc.), contrariamente aun pessimo uso recente (in origine meramente metaforico) cheha indotto a parlare di razzismo contro le donne, i giovani, ivecchi, gli omosessuali, gli handicappati, i tossicodipendenti, isieropositivi, i malati di mente e persino i fumatori. Il “razzi-smo”, ridotto a un generico sinonimo del pregiudizio e delladiscriminazione, diviene così una generica etichetta di stigma-tizzazione per ogni atteggiamento d’intolleranza e di ripulsa:un’inflazione che sfocia nell’insignificanza.

La recente negazione (in parte ideologica, in parte derivan-te da una scarsa conoscenza della genetica di popolazione)dell’esistenza di razze umane (cioè, nella definizione moderna,di sottopopolazioni della specie umana caratterizzate da unadistribuzione parzialmente diversa di determinati geni) haportato alcuni a parlare di un “razzismo senza razze” (Balibar,1988), cioè di un razzismo basato non più su vere o pretesedifferenze di razza, ma su differenze di cultura ipostatizzate a

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nuova natura. Si è così confuso razzismo e culturocentrismo.A questo errore se ne è accompagnato un altro: quello di co-loro che hanno cominciato a parlare di un “nuovo razzismodifferenzialista” (fautore del mantenimento della separazionefra i gruppi umani diversi) che sarebbe subentrato al “vecchiorazzismo inegualitario” (fautore della loro gerarchizzazioneanche a fini di sfruttamento). I due errori si sono a volte com-binati. C’è così chi ha parlato di un “nuovo razzismo cultura-le differenzialista” che avrebbe soppiantato il “vecchio razzi-smo biologico inegualitario”. Ma due errori non fanno una ve-rità. Del resto la stessa tipologia così formulata è del tuttoscorretta, perché esistono, e sono esistite in passato, posizioniinegualitarie e posizioni differenzialiste nell’ambito sia del raz-zismo biologico (l’unico vero razzismo, che grazie al cielo stadiminuendo), sia di ciò che questi autori chiamano impropria-mente “razzismo culturale”.

Queste elaborazioni (pretenziose e confuse al tempo stesso)hanno avuto una particolare fortuna in Francia, ove, per la par-ticolare cultura politica, si è a lungo privilegiata una particola-re risposta all’immigrazione – l’assimilazione – che ha indottoa vedere come il fumo negli occhi tutto ciò che favorisse il man-tenimento da parte degli immigrati della propria cultura. Pe-raltro tali impostazioni sono state pedissequamente riprese an-che in Italia da alcuni autori vicini alle posizioni dell’“an-tirazzismo militante” (cito, per tutti, Balbo e Manconi, 1990;Rivera, 1997, 2003).[➔ Culturocentrismo, Differenzialismo, Etnocentrismo, Razza]

Rifugio/RifugiatoÈ la protezione concessa da un paese a «chi, temendo a ragio-ne di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazio-nalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per leproprie opinioni politiche, si trovi fuori del paese di cui sia cit-tadino e per quel timore non possa o non voglia avvalersi del-la sua protezione oppure a chi, non avendo una cittadinanza etrovandosi fuori del paese in cui abbia la sua residenza abi-tuale, per il predetto timore non possa o non voglia farvi ri-torno» (Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951).

In considerazione del carattere eccessivamente individualisti-co di tale definizione, il Consiglio d’Europa di Tampere (1999)

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ha riconosciuto l’opportunità di assicurare delle forme di pro-tezione “sussidiaria”, rispetto a quella “primaria” prevista dallaConvenzione di Ginevra, alle persone bisognose di tutela chenon rientrino nella sua rigorosa definizione del “rifugiato”.[➔ Asilo, Profugo]

SocializzazioneIndica il processo di acquisizione da parte di un nuovo mem-bro di valori, norme, usi, costumi, atteggiamenti e comporta-menti propri di un gruppo o di un’organizzazione sociale o al-meno di una loro componente più o meno significativa. In pro-posito si suole distinguere la “socializzazione primaria”, che in-teressa il bambino e avviene di solito nella famiglia, e la “socia-lizzazione secondaria”, che interessa individui già almeno inparte formati e avviene di solito, almeno in parte, in specificheistituzioni. “Agenzie di socializzazione” in tal senso sono, peresempio, la scuola, l’esercito, la fabbrica, i sindacati, i partiti, inquanto trasmettono, anche al di là della loro funzione manife-sta, valori e codici di comportamento. Poiché questi aspetti del-la vita sociale concernono in gran parte la “cultura” in sensoantropologico, la socializzazione primaria coincide largamentecon l’inculturazione e la socializzazione secondaria con l’accul-turazione. Il termine può essere utilizzato in senso attivo (so-cializzare), passivo (essere socializzato) o riflessivo (socializzar-si), per esempio quando si parla di socializzazione anticipata.[➔ Acculturazione, Cultura, Socializzazione anticipata]

Socializzazione anticipataCon questa espressione (o altre simili: socializzazione antici-patoria o anticipatrice, presocializzazione ecc.) si designa l’ac-quisizione, prima che ne esistano le condizioni di esplicazione,di un orientamento all’azione idoneo a un determinato conte-sto (Merton, 1957). Negli studi sulle migrazioni l’espressioneè stata ripresa per indicare l’acquisizione almeno parziale giànelle località di partenza dei valori e degli orientamenti propridelle località di arrivo. Con questo significato l’espressione èstata utilizzata in Italia da Francesco Alberoni e Guido Baglio-ni (1965), che peraltro ritenevano che tale processo potesseaver luogo soltanto nelle migrazioni interne (come quelle, daloro studiate, dell’Italia del secondo dopoguerra), e non anche

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nelle migrazioni internazionali, come peraltro ormai da tem-po avviene, anche per effetto della cosiddetta “globalizzazio-ne”.[➔ Globalizzazione, Socializzazione]

TolleranzaNel linguaggio ordinario con “tolleranza” si definisce l’atteg-giamento di chi sopporta idee o comportamenti altrui chenon condivide o non approva. Nella storia del pensiero e del-la politica il termine ha però acquisito un significato più spe-cifico e in parte diverso. Designa infatti l’atteggiamento nonostativo dello Stato nei confronti della professione e della dif-fusione di idee (filosofiche, religiose, politiche, scientifiche)diverse da quelle dominanti. Questa tolleranza non fu scono-sciuta nel mondo orientale e nel mondo antico. Fu però com-piutamente teorizzata solo in Occidente, nell’età moderna,dopo le guerre di religione che insanguinarono l’Europa, incontrapposizione all’intolleranza che le determinò e ad altreviolenze, commesse anche altrove (in particolare in America)per imporre agli indigeni la religione cristiana. Locke (1667),Spinoza (1670) e Voltaire (1763) dettero importanti contribu-ti alla promozione di una cultura della tolleranza. Oggi parla-re di tolleranza può sembrare obsoleto. Tutti gli Stati liberal-democratici sono andati infatti ben oltre, riconoscendo paridiritti e dignità a tutte le minoranze politiche e religiose. Lastessa Chiesa cattolica, che l’aveva combattuta a lungo (vedi ilSillabo di Pio IX, del 1864, e l’enciclica Libertas di LeoneXIII, del 1888, e per quanto concerne l’Italia il concordatodel 1929, al tempo del fascismo), ha finito non solo per acco-glierla (Concilio Vaticano II, 1962-1965), ma per promuover-la, anche con importanti incontri “ecumenici” sino a pochidecenni fa addirittura impensabili. Eppure non è inutile ri-cordare l’importanza della tolleranza, in un momento in cui ilnuovo pluralismo religioso introdotto dalle immigrazionisembra sollecitare dei rigurgiti d’intolleranza cui non sono re-stati estranei importanti personaggi politici e prelati dellaChiesa cattolica (si pensi alla “questione dei crocifissi” negliedifici pubblici, esplosa prima in Baviera e poi in Italia). Gio-verà quindi ricordare che la Costituzione italiana del 1948 haabolito la posizione privilegiata del cattolicesimo come “reli-

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gione di Stato” e la sua distinzione dagli altri culti, “tollerati”se non in contrasto con l’ordine pubblico (cosa accettata an-che dalla Chiesa cattolica con il nuovo concordato del 1984).La Costituzione ha per contro assicurato pari tutela a tutte leconfessioni religiose (art. 8), ha riconosciuto la piena libertà diogni persona di professare il proprio sentimento religioso informe individuali e collettive (art. 19) e ha affermato nella suaforma più ampia il principio della libertà di pensiero. Su que-sta base la Corte costituzionale ha poi precisato nel modo piùchiaro che lo Stato non deve imporre ai cittadini «propri va-lori e contenuti ideologici» (sentenza 189/1987) e, più parti-colarmente, che il principio fondamentale della laicità delloStato implica la sua suprema garanzia «per la salvaguardia del-la libertà di religione in regime di pluralismo confessionale eculturale» (sentenza 203/1989).

A sua volta l’UNESCO, nella sua Dichiarazione sulla tolle-ranza (16 novembre 1995), ha ridefinito quest’ultima come «ilrispetto, l’accettazione e l’apprezzamento della ricchezza edella diversità delle culture del mondo», concludendo che «èla chiave di volta dei diritti dell’uomo, del pluralismo, dellademocrazia e dello Stato di diritto».[➔ Pluralismo culturale]

XenofobiaPaura irrazionale dello straniero (dal greco xénos, “straniero”,e fóbos, “paura”) che, come altre fobie, può assumere aspettipatologici. In termini più generali, ma spesso a sproposito, siè parlato, con riferimento alle immigrazioni, anche di una“sindrome dell’altro”, di cui la xenofobia può costituire unacomponente. Da non confondere con il razzismo e con la mi-soxenia (l’odio o il disprezzo per lo straniero).[➔ Razzismo]

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Nota bibliografica

Dagli ampi riferimenti bibliografici sopra riportati si possonodesumere molte indicazioni utili a chi voglia approfondire laconoscenza dei temi trattati in questo libro. Ritengo però op-portuno segnalare in particolare alcuni testi.

Sulla globalizzazione esistono ormai molti libri, ma menti-rei se dicessi di averne letto uno solo che mi sia apparso dav-vero soddisfacente. Mi limito quindi a indicare due testi di-ventati ormai classici: il volume collettaneo a cura di MikeFeatherstone (Global Culture. Nationalism, Globalization andModernity, Sage, London 1990) e il libro di Roland Robertson,tradotto anche in italiano (Globalization. Social Theory andGlobal Culture, Sage, London, 1992; trad. it. Globalizzazione.Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999). Chi vo-lesse prendere visione dell’impostazione marxista in materiapuò riferirsi ai libri di Samir Amin (Les défis de la mondialisa-tion, L’Harmattan, Paris 1996; trad. it. Oltre la mondializza-zione, Editori Riuniti, Roma 1999, oppure Capitalism in theAge of Globalization, Zed Books, London 1997; trad. it. Il ca-pitalismo nell’età della globalizzazione, Asterios, Trieste 1997),un po’ retrò, ma ricchi di dati. Decisamente sopravvalutati misembrano invece due libri, più vicini al nostro tema, di cui so-no autori due noti studiosi, Saskia Sassen (Migranten, Flücht-linge und Siedler. Von der Massenwanderung zur Festung Euro-pa, Fischer, Frankfurt a. M. 1996; trad. it. Migranti, coloni, ri-fugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltri-nelli, Milano 1999) e Zygmunt Bauman (Globalization. TheHuman Consequences, Polity Press-Blackwell, Cambridge-Oxford, 1998; trad. it. Dentro la globalizzazione. Le conse-guenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari, 1999, 20012).

Sulle migrazioni in Europa e in Italia molti dati importantie alcune buone analisi si trovano nell’aggiornato Dossier Stati-stico Immigrazione 2003 della Caritas (piazza S. Giovanni inLaterano 6 - 00184 Roma). Utile è anche l’Ottavo Rapporto

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sulle migrazioni 2002 della Fondazione ISMU (Angeli, Milano2003), in cui però vi sono dei capitoli del tutto inaffidabili (co-me quello sulla devianza, firmato da Salvatore Palidda, in cui siafferma che l’Italia sarebbe «uno dei paesi più sicuri d’Europae del mondo»). Entrambi i volumi, poi, nei rispettivi capitolisulla salute, inneggiano al cosiddetto “effetto migrante sano”(formulato per un’altra fase delle migrazioni internazionali),preoccupandosi più di certificare la presunta sana e robusta co-stituzione degli immigrati che di analizzare le situazioni reali.Dati internazionali interessanti si possono reperire anche neirapporti annuali del Sistema di osservazione permanente dellemigrazioni (SOPEMI) dell’OCDE (Tendances des migrations in-ternationales, Paris), peraltro molto disordinati e qualche voltaaffidati, per quanto concerne l’Italia, ad autori specializzati nelriprendere testi altrui senza citare la fonte. Fra gli studi in ar-gomento, a parte il mio libro L’immigrazione, una sfida per l’Eu-ropa (Edizioni Associate, Roma 1992), da tempo esaurito, e al-cuni miei articoli già citati nei riferimenti bibliografici, mi sem-bra utile segnalare L’immigrazione straniera in Italia, di Corra-do Bonifazi (il Mulino, Bologna 1998), e L’esperienza migrato-ria: immigrati e rifugiati in Italia, di Maria Immacolata Maciotied Enrico Pugliese (Laterza, Roma-Bari 2003).

Sul mercato del lavoro accurate sono le analisi di MaurizioAmbrosini (Utili invasori. L’inserimento degli immigrati nelmercato del lavoro italiano, Angeli, Milano 1999, e La fatica diintegrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, il Mulino, Bologna2001), pur caratterizzate da un’impostazione per molti aspettieccessivamente ottimistica. Per controbilanciarla, può giovarela lettura di qualcuno dei numerosi saggi in argomento di unaseria economista del lavoro, Alessandra Venturini (cito, fra ipiù accessibili, L’occupazione straniera, in “Equilibri”, Bolo-gna, n. 2, 1997, pp. 183-191).

Sulle politiche migratorie, e più in particolare sulle politi-che sociali per gli immigrati, si può vedere il Secondo rapportosull’integrazione degli immigrati in Italia della Commissioneper le politiche di integrazione degli immigrati del Diparti-mento per gli Affari sociali della presidenza del Consiglio deiministri, pubblicato a cura di Giovanna Zincone (il Mulino,Bologna 2001). Il ponderoso volume è però notevolmente in-ficiato da troppi contributi decisamente modesti, oltre che daun’eccessiva subalternità agli orientamenti dei governi di allo-

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ra e, più particolarmente, della ministra Turco, che ha gestitoper un quinquennio la delega per l’immigrazione. Per contro,da evitare sono alcuni volumi dettati quasi esclusivamente dalfurore ideologico (cito, in particolare, Non-persone, di Ales-sandro Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1999, 20042, e l’antologiaI confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, acura di Sandro Mezzadra e Agostino Petrillo, Manifestolibri,Roma 2000). Ispirati al medesimo catastrofismo apocalitticosono i libri di Salvadore Palidda (Polizia post-moderna. Etno-grafia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000),Sandro Mezzadra (Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza,globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2001), Ferruccio Gam-bino (Migranti nella tempesta, Ombre Corte, Verona 2003) eAnnamaria Rivera (Estranei e nemici. Discriminazione e vio-lenza razzista in Italia, Derive/Approdi, Roma 2003), esempidi un “genere”, sin troppo diffuso, che poco insegna sullarealtà e molto sul modo in cui certi personaggi del sottoboscoaccademico italiano hanno utilizzato migrazioni e globalizza-zione per dare libero sfogo alle proprie passioni.

Sulle società multiculturali e sul multiculturalismo sono di-sponibili alcuni volumetti abbastanza ben fatti. Segnalo in par-ticolare quelli di Andrea Semprini (Le multiculturalisme,“Que sais-je?”, Presses Universitaires de France, Paris 1997;trad. it. Il multiculturalismo, Angeli, Milano 2000), MarcoMartiniello (Sortir des ghettos culturels, Presses de SciencesPo, Paris 1997; trad. it. Le società multietniche, il Mulino, Bo-logna 2000) e Vincenzo Cesareo (Società multietniche e multi-culturalismi, Vita e Pensiero, Milano 2000). Più che accettabi-le sarebbe stato anche il libro di Enzo Colombo (Le societàmulticulturali, Carocci, Roma 2002), se l’autore avesse citato itesti altrui a cui ha attinto a piene mani (sui contenuti non pos-so che essere largamente d’accordo, essendo stato fra i più sac-cheggiati). Peraltro, come antidoto a certi facili entusiasmi ma-nifestati per la promozione dell’Italia a paese d’immigrazioneprima e a società multiculturale poi, mi permetto di consiglia-re un agile volumetto da me curato, L’abbaglio multiculturale(Seam, Roma 2000), che passa sistematicamente in rassegna leprese di posizione in argomento, con ampie citazioni che lorendono persino involontariamente divertente (meno aggior-nato, ma a raggio più ampio, è il mio precedente scritto Quel-li che l’immigrazione…, in “Il Mondo 3”, Roma, n. 1-2, pp.

Nota bibliografica

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448-489). Quel volumetto contiene, oltre alla mia introduzio-ne (“Quando il multiculturalismo diventa un abbaglio”, pp.11-58), uno stimolante intervento di Gian Enrico Rusconi(“Retorica del multiculturalismo, religione e laicità”, pp. 59-69) e uno splendido saggio di Francesco Belvisi (“I lati oscuridi un abbaglio: società multiculturale, Costituzione e diritto”,pp. 91-135).

Sul concetto di cultura politica può essere utile La culturapolitica nell’Italia che cambia, a cura di Franco Crespi e Am-brogio Santambrogio (Carocci, Roma 2001), che però ripren-de, in sostanza, l’impostazione tipica del mondo accademicoamericano, di cui pure denuncia l’insufficienza. In realtà i piùnoti testi americani in argomento (a partire dal classico librodi Almond e Verba, citato nei riferimenti bibliografici) sononon solo del tutto inadeguati alla realtà italiana, che pure i lo-ro autori dicono di aver espressamente studiato, ma anche de-cisamente obsoleti.

Su etnicità, nazionalità e cittadinanza rimando al volumedallo stesso titolo da me curato (Seam, Roma 2000), che con-tiene, dopo un contributo al chiarimento di questi controver-si concetti (che nel glossario di questo libro ho potuto soltan-to riassumere a grandi linee), una mia analisi delle situazionipresenti in Europa occidentale e un saggio assai interessantedi Christian Giordano su quelle dell’Europa orientale. Per ilprocesso di formazione delle diverse nazioni in Europa e lesue conseguenze sulla loro cultura politica è fondamentale illibro, di gradevolissima lettura, di Carlo Tullio Altan Gli ita-liani in Europa (il Mulino, Bologna 1999), che può essere util-mente integrato dal saggio di Umberto Cerroni, Le radici cul-turali dell’Europa (Manni, Lecce 2001), utile anche per i suoiriferimenti all’identità italiana, dall’autore specificamente af-frontata in un precedente volume (L’identità civile degli italia-ni, Manni, Lecce 1996).

Sulle prospettive europee c’è invece molto di meno diquanto sarebbe lecito aspettarsi, a parte gli articoli, miei e dialtri, citati nei riferimenti bibliografici. Per una ricostruzionedei processi del passato può essere utile il libro a cura di Ser-gio Fabbrini, Unione Europea: le istituzioni e gli attori di un si-stema sopranazionale, Laterza, Roma-Bari 2002, che però nonaffronta gli argomenti trattati in questo libro.

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Alfonso VI 49Alfonso VII 49Amato, G. 120Annibale 170Aristotele 54Arkoun, M. 129Atatürk (Mustafà Kemal)

119

Baget-Bozzo, G. 150Baglioni, G. 205Balbo, L. 163Baldovino del Belgio 41Bauer, O. 62, 63Berlusconi, S. 123Bernadotte, J.-B.-J. 71Bianco, G. 138Biffi, G. 150Blunkett, D. 23, 131Bobbio, N. 170Böhm-Bawerk, E. von 63Bossi, U. 33, 123, 133, 154,

155, 156, 159, 175Braudel, F.-P. 182Brenno 170

Caboto, G. 95Cabral, P.A. 50Calvino, G. (Cauvin, J.) 84Canuto il Grande 69Carlo Alberto di Savoia 171Carlo d’Inghilterra 131

Carlo V di Spagna 47Carlo XII di Svezia 70Carlo XIII di Svezia 71Carlo XIV di Svezia 71Cattaneo, C. 177Cavour, C. 177Chirac, J. 21, 129Churchill, W. 23Ciampi, C.A. 151, 182, 185Cohn-Bendit, D. 30Colombo, C. 46Contri, F. 152Cook, J. 102Costa-Lascoux, J. 129Craxi, B. 133, 146Crispi, F. 177Cristiano di Danimarca 69Cristina di Svezia 70Croce, B. 179

D’Alema, M. 153D’Azeglio, M. 178Dal Lago, A. 164De Gaulle, C. 94De Michelis, G. 133, 146De Sica, V. 171Debray, R. 129Di Liegro, L. 152, 164Di Tora, G. 159Dini, L. 152Dobzhansky, T. 203

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Indice dei nomi

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Engels, F. 63Erodoto 52

Fallaci, O. 150Ferdinando II di Aragona 46Ferrante, N. 164Fichte, J.G. 175Fini, G. 33, 120, 123, 133,

154, 155, 156, 159, 161,185

Freud, S. 63Freyre, G. 50Frisch, M. 86

Garibaldi, G. 177Gentile, G. 178Gentilini, G. 144Giddens, A. 4Giovanardi, C. 155Giovanni da Verrazzano 95Giscard d’Estaing, V. 20,

120, 126Giulio Cesare 38Giuseppe II 40, 62Gramsci, A. 168Gregorio V 53Guglielmo d’Orange 40Gustavo Adolfo di Svezia 70Gustavo I Vasa 69Gustavo III di Svezia 70

Habermas, J. 4Haider, J. 65Henriques, A. 49Herder, J.G. von 175Hitler, A. 63Hofer, J. 87Hofmannsthal, H. von 63

Isabella di Castiglia 46Isocrate 52

Jospin, L. 21

Kautsky, K. 63Kelsen, H. 63Kepel, G. 129Klimt, G. 63Kodjo, E. 9

Le Pen, J.-M. 20, 21Lefebvre, H. 190Leone XIII 206Leopoldo di Sassonia-Co-

burgo-Gotha 40Lévi-Strauss, C. 190Lindh, A. 72, 73Locke, J. 206

Machiavelli, N. 170, 171Maggiolini, A. 150Mahler, G. 63Mancini, P.S. 177Manconi, L. 163Margherita di Danimarca e

Norvegia 69Maria Teresa d’Austria 62Martelli, C. 133, 146, 160,

175Marx, K. 63Mazzini, G. 171, 176Merton, R.K. 11Metaxas, I. 56Metternich, K.W.L. 62Michelet, J. 201Mitterrand, F. 20Molotov (Skrjabin, V.M.) 81Montenegro, F. 159Moravia, A. 171Musil, R. 63Mussolini, B. 180

Naïr, S. 20

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Napoleone Bonaparte 40Napolitano, G. 133, 138,

152, 153, 156, 161Negri, A. 164Nogaro, R. 152Nozza, V. 159

Odilon Barrot, C.H. 39Oscar I di Svezia 71

Palme, O. 72Pascoli, G. 178Pasolini, P.P. 199Péna-Ruiz, H. 129Petris, L. 159Pietro il Grande 70Pio IX 204Pisanu, G. 123, 124Pittau, F. 152, 164Platone 57Porter, J. 101Prodi, R. 153, 161, 175, 185

Rémond, R. 129Renan, E. 31, 177Renner, K. 62Rex, J. 27Ribbentrop, J. von 81Roosevelt, T. 90Rosselli, C. 180Ruini, C. 160Rusconi, G.E. 163

Sahindal, F. 79Salazar, A. 51Sarkosy, N. 130

Sartori, G. 150Scalfaro, O.L. 154Schily, O. 37Schlegel, F. von 175Schlesinger, A. jr. 196Schönberg, A. 63Schwarzenbach, J. 85Smith, A. 150Spinoza, B. 206St. John de Crèvecoeur, J.H.

89Stasi, B. 129Sumner, W.G. 192

Tacito 68Taylor, C. 99, 197Tentori, T. 192Thatcher, M. 23Tonini, E. 150Touraine, A. 4, 22, 129Trudeau, P.E. 97Turco, L. 133, 138, 152, 153,

156, 161

Voltaire (Arouet, F.-M.) 206

Weil, P. 129Weizsäcker, R. von 35Wittgenstein, L. 63

Zangwill, I. 90, 196Zanotelli, A. 159Zincone, G. 156Zolberg, A.R. 144Zweig, S. 64Zwingli, H. 84

Indice dei nomi

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Ristampa Anno

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Stampato per conto della casa editricepresso litotipo, Settimo Milanese, Milano, Italia

Melotti, Umberto.Migrazioni internazionali / Umberto Melotti. – [Milano] :

Bruno Mondadori, [2004].240 p. ; 17 cm. – (Testi e pretesti).ISBN 88-424-9183-7.1. Migrazioni.

304.82

Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano.

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