Luciano Emmer, l’orso di Molveno: antesignano di molti registi e anticipatore di molte tematiche...

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Ottaviani Jones Luciano Emmer, l’orso di Molveno: antesignano di molti registi e anticipatore di molte tematiche del cinema italiano. Luciano Emmer, classe 1918, milanese di nascita, romano d’adozione come molti registi dell’epoca, inizia con cortometraggi documentaristici nel 1938, la maggior parte ispirati da pittori famosi, “ma realizza anche documentari di natura diversa. Queste opere testimoniano la disponibilità dell’autore all’impiego di un ampia gamma di codici espressivi e preannunciano la commistione di stile e di toni che caraterrizza i suoi lunometraggi a soggetto” (Moneti 25). Ricordando il suo famoso documentario su Giotto, Emmer afferma che quegli affreschi nella Cappella degli Scrovegni erano pronti ad essere filmati, nel senso che “i volti dei protagosnisti erano giá fissati nelle espressioni giuste”. Qundi per Emmer ed Enrico Gras era naturale filmare il capolavoro di Giotto, come se si trattasse di un racconto cinematografico della vita di Cristo (Emmer 29). Il suo il primo lungometraggio è del 1950, Domenica d’Agosto, e “il primo dei suoi ultimi film” (Francia di Celle e Ghezzi 7) è La ragazza in vetrina del 1961. Il passaggio dai documentari ai

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Ottaviani Jones

Luciano Emmer, l’orso di Molveno: antesignano di molti registi eanticipatore di molte tematiche del cinema italiano.

Luciano Emmer, classe 1918, milanese di nascita, romano

d’adozione come molti registi dell’epoca, inizia con

cortometraggi documentaristici nel 1938, la maggior parte

ispirati da pittori famosi, “ma realizza anche documentari di

natura diversa. Queste opere testimoniano la disponibilità

dell’autore all’impiego di un ampia gamma di codici espressivi e

preannunciano la commistione di stile e di toni che caraterrizza

i suoi lunometraggi a soggetto” (Moneti 25). Ricordando il suo

famoso documentario su Giotto, Emmer afferma che quegli affreschi

nella Cappella degli Scrovegni erano pronti ad essere filmati,

nel senso che “i volti dei protagosnisti erano giá fissati nelle

espressioni giuste”. Qundi per Emmer ed Enrico Gras era naturale

filmare il capolavoro di Giotto, come se si trattasse di un

racconto cinematografico della vita di Cristo (Emmer 29).

Il suo il primo lungometraggio è del 1950, Domenica d’Agosto,

e “il primo dei suoi ultimi film” (Francia di Celle e Ghezzi 7) è

La ragazza in vetrina del 1961. Il passaggio dai documentari ai

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lungometraggi è determinato dall’incontro con uno dei piú

importanti sceneggiatori del tempo, Sergio Amidei, il quale a

detta dello stesso Emmer, si presentò sul set del suo

ducumentario sulla città di Venezia, e con la sua brusca e

aggressiva timidezza, chiese ad Emmer se avessse mai fatto

l’aiutoregista, Emmer rispose negativamente, cosí Amidei incalzò

chiedendo se avesse fatto il centro Sperimentale di

Cinematografia, e quando Emmer rispose negativamente anche alla

seconda domanda, Amidei “rassicurato” gli propose di fare un film

insieme (Emmer 43). Così nacque Domenica d’Agosto ed il prolifico

sodalizio tra i due artisti.

Dai primi anni sessanta in poi Emmer si dedica quasi

esclusivamente alla televisione, al quale farà eco più tardi

anche Roberto Rosselini. In un intervista a Guglielmo Moneti del

1991, Emmer afferma che se fosse dipeso da lui, non avrebbe

nemmeno fatto i film del Il Bigamo e del Il Momento più Bello, i quali

rappresentavano una strada non piú sua, asserisce che proprio in

quel momento decise di chiudere con il cinema. Inoltre in quegli

stessi anni nasceva Carosello ed Emmer iniziò ad avere molte

offerte, così intraprese la strada della publicità, la quale è

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stata la via alla sua libertá artisitca, libera anche da una

censura moralista borghese. Nonostante tutto, decise, comunque,

di realizzare il film La Ragazza in Vetrina che ebbe una vicenda

produttiva molto travagliata e sancì definitivamente il suo

ritiro dal cinema. (Moneti11-12). Questa cocente delusione lo

fece dedicare alla sua “distrazione” del momento, la televesione.

Difatti, Emmer ritorna ai lungometraggi nei primi anni novanta, e

con una certa ironia che lo ha sempre acccompagnato, asserisce

che ha voluto fare Basta adesso ci faccio un film...(1991), in quanto

era l’ultima storia che aveva scritto, che traeva spunto dai

rapporti con il filgio, e con una certa malizia, aggiunge di aver

usato questo spunto per “liberarsi” di Terza Liceo, che innescò una

serie di richieste da parte dei produttori per girare il seguito

del fortunato film (Moneti 13). E sempre Emmer con la sua sagacia

riporta “Mi hanno sollecitato per anni a rifare Terza Liceo, i

produttori mi chiedevano di fare un nuovo film fresco;

consigliavo loro di mettere il mio nuovo copione in frigorifero”

(Emmer 63).

Questo temporaneo, ma alquanto lungo estraneamento dal

cinema, potrebbe apparire difficile da comprendere, ma in una

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delle sue prime dichiarazioni, forse la più esplicita e sincera,

Emmer afferma:

“Il cinema è morto quando è finito il bianco e nero,

cioè con l’avvento del colore. Perchè il colore era

senza volerlo, l’antisegnano della televisione. Non

c’era la fantasia straordinaria della realtà, vista

attraverso il mezzo nuovo, a colori. Vuoi mettere

l’essenza che il bianco e nero dava, la forza della

recitazione, la crudezza degli ambienti? Il bianco e

nero era il prolungamento del romanzo, dell’800. Ora

sono morti tutti e due”(Rutiloni).

Meno poetico, ma più prosaico e pratico, è quando dichiara

la sua voglia di fare cinema attribuita al fatto che fosse il suo

lavoro e l’unico mezzo per guadagnare “Questi giovani registi

sono quelli che vivono per fare cinema e invece bisogna fare

cinema per vivere... io sono uno che fa cinema e lo fa per vivere

e sono molto soddisfatto di questo mestiere, che fra l’altro, è

un mestiere come un altro”(Salvioni).

Il suo distaccamento dal cinema dei primi anni sessanta

allude ad un disamoramento per questo nuovo modo di interpretare

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il mondo. “L’esperienza infelice, con l’ottusità del sistema

censorio italiano, scoraggia Emmer, allontanandolo dal grande

schermo proprio quando avrebbe potuto dare ancora tanto, e di

valore. Ma l’avventura televisiva non è un ripiego vissuto con

rassegnazione...”(Di Palma). Come nota Di Palma, la censura della

nuova Italia borghese “perbenista” e religiosa, condannò molti

dei suoi film, in quanto considerati amorali per la presenza di

una vena sottile di erotismo (Moneti 10). Un ottimo esempio di

questo ostracismo verso i film di Emmer riguarda la scheda del

Centro Cattolico Cinematografico, che testualmente conclude la

critica del film Domenica d’Agosto con “la visione è esclusa per

tutti” tratta dal Vol. XXVII, Disp. 18, 1950 (Moneti 41). Emmer

ha decisamente sofferto l’“intolleranza censoria” (Emmer 79), per

esempio Terza Liceo dopo essere stato esaminato al limite della

bocciatura integrale, la censura chiese, ed ottenne, diciassette

tagli, mentre La ragazza in vetrina fu bloccato per un anno,

concedendo l’uscita del film alla sola condizione di tagliare la

scena incriminata dell’incontro tra il minatore e la ragazza in

vetrina.

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Ovviamente Emmer ha vissuto il Neorealismo dei grandi padri

ed assorbì molte delle innovazioni e delle tematiche politiche

del tempo, e nei suoi primi film si intravedono molte influenze

dell’ideologia del gruppo Cinema degli anni quaranta e cinquanta,

“Riguardo specificamente il Neorealismo, c’era

l’ostilità delle forze conservatrici nazionali, che si

sentivano messe sotto accusa e che consideravano il

Neorealismo un cinema pericoloso per i suoi messaggi di

conflittualitá sociale. Su questo punto sono d’accordo

con De Santis: il Neorealismo è stato deliberatamente

soppresso da determinate forze politiche di

potere”( Moneti 6).

Emmer per dovere ha sempre partecipato a manifestazioni e

condivideva gli ideali del gruppo Cinema, ma allo stesso tempo

aveva mantenuto un atteggiamento di rassegnazione in quanto

secondo lui alla fine “non c’era nulla da fare”(Moneti 6).

Tuttavia rinsaldò questa condivisione di idee con i registi

neorealisti dichiarando alla rivista Cinema del 1949, che “solo

se parte di una realtá autentica il film può diventare un opera

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d’arte autentica. Il problema del cinema è un problema di

autencità” (Moneti 31).

Emmer fu un regista sottovalutato dalla critica del tempo,

e venne confinato nel ghetto del neorealismo rosa. Durante gli

anni cinquanta, fu liquidato come “osservatore e narratore acuto

e affettuoso che non raggiunge certo lo studio sociologico e che

porta il segno del populismo ottimistico di un certo neorealismo,

ma con levità e senza predicazioni”(Rondi). Riguardo questa

“espulsione dal cinema italiano autoriconosciuto” Enrico Ghezzi

asserisce che questo “colore aggettivo, rosa”, usato con una

“certa ottusità da chi si occupa di cinema ... sconcerta ed

irrita di fronte alla robustezza del neorealismo brandito e

rivendicato” (Francia di Celle e Ghezzi 9).

Lo stesso Emmer racconta che lui non ha mai pensato di fare

un film “impegnato” o “leggero”, ma non avendo mai immesso

nessuna dichiarata indicazione ideologica, i suoi film venivano

considerati superficiali, elementari senza morale, e con

personaggi scanzonati e mai tropppo seri riguardo il loro ruolo

(Moneti 6). Ed è di nuovo Emmer che illumina la via della sua

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intricata carriera, rivelando che effettivamente “di Neorealismo

non ce ne è stato uno solo. I suoi registi piú rappresentatitivi

facevano un cinema diversissimo l’uno dall’altro. E credo che in

questo movimento eterogeneo e contradittorio un piccolo posto ci

sia ache per i miei film” (Moneti 6).

Effettivamente, con i suoi film, Emmer, ci racconta queste

fasi dell Italia post-bellica che gli causarono proprio le aspre

critiche degli intellettuali ‘impegnati’ nella rivoluzione

marxista. Con Domenica d’agosto e, sopratutto, con Parigi è sempre

Parigi, o come la chiamava affettuosamente Emmer, Domenica d’Agosto 2

“la sua uscita dall’universo del film d’autore è definitiva e

d’ora in poi le riviste cinematografiche più austere parleranno

poco di lui, e sempre come di un autore secondario”(Rausa).

Questa aspra, ma profetica critica nei confronti del film e del

regista, rivela una superficialità nell’interpretazione di tutti

i suoi film e del suo raffinato lavoro. I film di Emmer sono nati

da una realtà osservata giornalmente, minuziosamente, della quale

Emmer selezionava la parte che più lo appassionava (Moneti 6).

Emmer è sempre stato considerato un isolato, e lui alimentava

questa leggenda, dichiarando “a dire la verità, meno parlano di

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me e più contento sono! Io sono di queste parti (Molveno) e un

giorno desidero trovare un mio parente, sulle montagne, che è

l’orso!”(Gramola). Tuttavia, a parte questo suo riserbo naturale,

sul set è stato sempre molto amato dai suoi attori, Anna Bonaiuto

lo definisce un “gentiluomo d’altri tempi, un signore distaccato

ed elegante che urlava continuamente, una parolaccia ed un

insulto dietro l’alttro. Lunare, sublime, dolce” (Francia di

Celle e Ghezzi 10). Anche Lucia Bosè, dichiara che Amidei era un

personaggio serio e chiuso, mentre Emmer era totalmente

l’opposto, simpatico, gioioso, folle e energico (Francia di Celle

e Ghezzi 27).

Emmer usò storie di tutti i giorni per raccontare l’Italia

del suo tempo e riuscì a fondere le istanze neorealiste con il

costume e la cultura popolare del tempo anticipando la questione

delle nuove inquietudini della nuova borghesia, poi

magistralmente riprese negli anni sessanta da Michelangelo

Antonioni. “Parla di famiglia e dei problemi della piccola

borghesia in ricostruzione morale e materiale”, scrive a tanti

anni di distanza Maurizio Porro (Zaccagnini). Si ritrova anche

una flebile anticipazione della commedia all’italiana, benchè in

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Camilla, per esempio, i protagonisti non sviluppano completamente

quel senso di autocoscienza dei propri limiti e difetti, ed il

personaggio di Franco Fabrizi rappresenta, appunto, l’inizio

della costruzione del personaggio, che svilupperá negli anni

succcessivi e che diventerá la sua maschera, ovvero il milanese

affarista senza scrupoli. “Emmer non è nuovo a raccontare gli

anni '50 attraverso questo spicchio di società, e se non è

Antonioni, non è neanche un esponente della commedia

all'italiana, che per tutti gli anni cinquanta quasi non esiste,

e che deriderà più tardi, con cattiveria e genialità, l’ambiente

e la fauna osservata nel giardino del paese”(Zaccagnini).

Inoltre, Emmer è stato anche il capostipite di molti filoni

di film degenerati in film di serie dedicati alle vacanze degli

Italiani al mare, in montagna, durante il Natale, o all’estero.

“Degenerati” in quanto poco importa dove, e quando questi film

sono stati ambientati, in quanto si è ignorata un “attenzione

minuta e oggettiva per la realtà” tipico “di un occhio da

documentarista, come quello di Emmer”(Farinotti). Difatti nei

suoi primi film focalizza l’attenzione sul “come è tornata ad

essere facile la vita” per gli Italiani del dopo-guerra, su

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questi “nuovi italiani” che non ricordano più il dramma bellico e

il Fascismo, e vogliono vivere una vita allegra e spensierata.

Ribadisce la corta memoria degli Italiani, trasferendo questa

riflessione nel finale di Domenica d’agosto, nel quale, i

personaggi con l’imbrunire, e con il malinconico ritorno a Roma,

dimenticheranno le vicessitudini domenicane per cominciare una

nuova settimana all’insegna del presente e del futuro. Un

vagheggiamento poetico e delicato questo di Emmer, che ricorda la

poesia carducciana di San Martino, dove al tramonto tutte le

avventure della giornata, voleranno via nella sera come “esuli

pensieri nel vespero migrar”. Domenica d’Agosto si presenta come

una storia del cinema realista, creando una demarcazione dal

cinema Neorealista, in quanto “l’autencità è diversa dalla

realtà” (Vitti). È una storia di spiaggia, tra l’altro il primo

film del genere, che poi sará ripreso piú volte con una comicitá

di bassissimo profilo, trascurando quella qualitá essenziale di

Emmer, nel mettere a fuoco la realtà. È anche una storia

prettamente della cultura romana, dove una domenica sette di

agosto tutti i metropolitani romani si riversano come una valanga

nelle spiagge del vicino lido di Ostia. Questa cultura romana

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descritta da Emmer, il quale era milanese, destò notevoli

opinioni negative, tra i quali Ennio Flaiano, che nel 1950

commentò “il film di Luciano Emmer, è probabilmente un esempio di

neorealismo estivo... se non fosse appesantito da una certa

indulgenza per l’umorismo popolare romano, che assume spesso toni

di un desolato qualunquismo, sarebbe anche un buon esempio da

seguire” (Flaiano). Comunque Emmer aveva una affettuosa

ammirazione per la lingua romanesca, “il romanesco è molto

efficace. È una lingua molto cinematografica... Allora non si

poteva fare il cinema dialettale” (Gramola); e riguardo il popolo

romano afferma che “ prima Roma era piú tranquilla, caciarona,

con uno spirito diverso, fatta di trattorie, cinema e

scampagnate. C’era una generosità cinica dei romani, che erano

unici e generosi” (Rutiloni).

Emmer segue la forma di documentario sociologico che si

occupa di mostrare come è vissuta una calda domenica di agosto

dai romani di quel tempo. “Il regista recupera gli oggetti dello

sguardo, le zone dell’ imaginario del cinema realista” (Moneti

32). Tra tutta quella folla scatenata, “caciarona” che con i

treni, macchine di vario tipo e modello, biciclette e mezzi di

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fortuna, cerca di arrivare all’agognata spiaggia di Ostia,

vengono individuate cinque vicende, degne di essere seguite e

raccontate per diversi motivi. Lo stile è distinto da un testo

semplice, immerso in un intricato racconto, che usando un

meticoloso montaggio alternato ci presenta delle vignette, dei

bozzetti, i quali, a detta di Gian Luigi Rondi, “sono quasi tutti

riusciti” (Rondi). Nella maggior parte dei suoi film Emmer ha

privilegiato un racconto episodico intrecciato, come se, da un

certo punto di vista, volesse continuare la tradizione avviata

dal film Paisà.

Domenica d’Agosto inizia con l’inquadratura, apparentemente

casuale, di un bambino, che rappresenta la generazione post-

bellica a cui la fanciullezza è stata negata, il quale mostra una

maturitá al di là della sua età fisica, difatti nella parte

finale quando questo bambino rimane solo a sorvegliare la

bicicletta di uno dei ragazzi che ritarda nel tornare da una

lunga passeggiata. A questo punto questa storia si interseca con

un’altra, quella di due famiglie “pastasciuttare’ tipiche della

Roma popolare, delle quali si segue la vicende delle due giovani

figlie, che vogliono evadere dalla loro spiaggia popolare per

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andare alla spiaggia dei ricchi, che a quel tempo era la Vecchia

Pineta, status symbol della Roma dabbene al mare. In queste

storie Emmer mostra una separazione netta tra le classi sociali,

dove persino al mare, luogo di rilassamneto e svago, le diverse

spiagge sono divise tra loro in settori, da recinti di filo

spinato, e controllati da vigili come se fossero al confine con

un altra nazione, che in questo caso rappresenta la divisione di

due mondi, i ricchi e i poveri. C’è un breve discorso molto

importante che le figlie, Marcella (Anna Baldini) e la sua amica

riportano nel film, quando illegalmente sgaiottolano nella

Vecchia Pineta, “Ma in questa spiaggia non c’è nessuno? Eh, sí i

poveri sono tanti, i ricchi sono pochi...” (Domenica d’Agosto).

Anche il ragazzo (Franco Interlenghi) che Marcella incontra in

questa spiaggia è un povero che cerca di farsi passare per ricco,

ma alla fine si incontreranno a Roma nello stesso quartiere e

scopriranno la loro autenticità con candore ed semplicità. In

questo episodio Emmer sembra fare riferimento al fatto che

persone di classi uguali si attraggono, mentre persone

provenienti da classi differenti non riescono a mescolarsi.

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Sempre in Domenica d’Agosto, Luciana (Elvy Lissiak), una

ragazza del popolo, esce con un ragazzo dell’alta società che la

porta al mare alla Vecchia Pineta. In questo episodio Emmer crea

un sottotessto estremamente interessante e velatamente

politicizzato in quanto, l’ex ragazzo di Luciana, Roberto, che,

“ritornato dalla guerra, non si è più ripreso, entrando ed

uscendo di galera” (Domenica d’Agosto), vive nello stesso palazzo

di Luciana, e cerca di riconquistarla facendo soldi facili con

una rapina, la quale non andando in porto, rispedisce il giovane

in galera. Si ritrova una critica riguardo la mancata

responsabilitá delle istituzioni Italiane nel reintregare nella

societá quei valorosi giovani mandati alla guerra durante il

fascismo, dimostrando che di quella vita non ne è rimasto nulla.

Infatti uno dei soci di Roberto, mostrando un fazzoletto nero con

il quale si soffia il naso, esclama “Eh, come è finita la camicia

nera!!”(Domenica d’Agosto). Queste storie di apparente leggerezza

sottendevano una denuncia dei problemi sociali contemporanei nel

migliore stile neorealista. In questo stesso episodio, Emmer

marca la ditanza tra classi immergendo Luciana in questo gruppo

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di nobili e ricchi, dal quale alla fine scapperà via, ritornando

a Roma illibata e fiera dei suoi princìpi.

“La spiaggia luuuunga di Ostia” (Emmer 67) è stata un campo

fertile per gli sceneggiatori, un altro racconto prende spunto da

una colonia di bambine dove un vedovo ed una ragazza madre

portano le rispettive figlie, e nasce tra loro una dolce

sintonia, la quale porterà il signore a lasciare la sua compagna,

cafona e boriosa, e riprendersi la figlia dalla colonia per

ritornare a Roma in cerca della ragazza- madre. Emmer usa un

approccio inusuale nel mostrare l’institulizzazione severa di

questa colonia di suore dove, le bambine vengono rappresentate

come piccoli balilla. Anche qui è intenzionalmente creato un

sottofondo che testimonia indirettamente la collaborazione tra la

chiesa e il fascismo, creando un parallelo nello stile

dell’educazione giovanile. La macchina da presa segue delle

scelte registiche neutre, con la preferenza di riprese frontali

ad altezza uomo, e la prevalenza di campi medi insistendo

nell’inquadrare gli attori attraverso grade, e fili spinati delle

spiagge. Si nota un continuo ingabbiamento del personaggio, molto

evidente quando la bambina della colonia cerca di salutare il

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padre che si trova nella stessa spiaggia ma all’altro lato della

steccata. Ovviamente c’è una rappreaentazione grafica e fisica

dei separamenti sociali, ma anche un a forma artistica di

ritrarre un personaggio, non dimenticando che Emmer era un

appassionato di arte e sopratutto di pittura.

Emmer, secondo una visione zavattiniana, interpreta la

realtà contemporanea facendoci consapevoli di questi problemi, ma

a differenza di Zavattini, non la scava fino in fondo,

“il percorso di ricerca conoscitiva di Zavattini si

muove però costantemente sul terreno del dubbio e delle

domande; domande che possono anche rimanere senza

risposta proprio perchè non hanno dietro una tesi

precostituita. Si tratta solo di fare ricerca, di

interrogare costantemente la realtà, in quanto i film

di Zavattini non offrono soluzioni, non indicano strade

da seguire, e i finali, al pari della vita reale, sono

quanto di più evasivo si possa immaginare”(Perozzi).

Bisogna tuttavia sottolineate che, in Parigi è sempre Parigi,

Luciano Emmer, Ennio Flaiano, e Francesco Rosi, “hanno saputo

intuire e ben criticare non tanto la sciocca ricerca

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dell’opulenza e del consumo a tutti i costi, che sembra a tratti

pervadere la giornata della comitiva, bensì l’esistenza di una

vera e propria, imponente industria del tempo libero la quale

diverrà, nei decenni a venire, uno dei segni più stupidi della

società occidentale” (Rausa). Questa “industria del tempo libero”

è mostrata in Parigi è sempre Parigi soprattutto durante gli episodi

della mattinata e della serata, ed anticipa di molti anni la

critica fellininana della distrazione disorientante e corrutrice

della “dolce vita” romana. In questo secondo lungometraggio si

nota una minuziosa attenzione, quasi giornalistica (forse dovuta

anche alla pertecipazione di Rosi) ai dettagli, che raccontano

di una Parigi che non si trovava negli opuscoli turistici. Anche

Parigi è sempre Parigi è un film costruito con microstorie, divisibile

in tre parti della giornata, la mattina quando il gruppo di

turisti Italiani arriva nella capitale francese, il pomeriggio

quando la struttura narrativa si frammenta in microstorie, e la

sera quando tutti i personaggi vengono inghiottiti dall’industria

dello spettacolo parigino. Iniziando dalla mattina quando, questo

gruppo di Italiani in trasferta a Parigi per vedere la partita

della nazionale italiana, viene scortato da una guida turistica.

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La genialitá degli autori è quella di presentarci questo

carosello turistico, oltre che con le immagini, anche anche con

un commento di una voce fuori campo che elenca in un modo veloce

ed incomprensibile le bellezze parigine. Difatti, ad un certo

punto, Andrea ( Aldo Fabrizi) il capofamiglia, chiede di

rallentare e di spiegare cosa sia il Louvre perchè lui non riesce

a capire nulla. Questo piccolo frammento di testo, indirettamente

denuncia la crescente industria del turismo che tratta i

visitatori come “numeri su un autobus in corsa assillati

dall’esigenza di poter dire di ‘aver visto’”(Rausa). La serata,

invece, viene presentata come un turbine di spettacoli, i

personaggi si perdono e si ritrovano, il film presenta un

apparente esaltazione dello show-business. Apparente in quanto,

mentre la ragazza con la madre fanno il tour dei migliori locali

parigini, con le più belle scenografie ed i migliori artisti,

Andrea e altri due ragazzi del gruppo, in cerca delle “bellezze

femminili parigine”, si ritrovano nei quartieri malfamati della

cittá. Un atto di coraggio e originalitá da parte degli autori,

che mostrano una Parigi trasgressiva, con locali di travestiti e

transessuali, una situazione impensabile in un Italia degli anni

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Cinquanta , ma forse trascurata dalla attentissima censura e dal

pubblico in quanto ambientato a Parigi. I cacciatori di donne,

vengono guidati anche in uno dei bar più malfamati di Parigi con

prostitute e criminali ma, per questa trasgressione, finiranno

tutti in galera. Gli spettatori e critici del tempo non

riuscirono a cogliere pienamente il valore intriseco di questo

film in quanto travolti dalla spettacolaritá che la capitale

francese offriva.

Solamente con il senno di poi si è riuscito a capire

l’importanza che questo regista ha avuto per tutto il cinema

italiano, difatti Lupi nel 2012, dopo la morte di Emmer, dichiara

che “ era un regista di grande mestiere per l’acutezza nel

descrivere una serie di tipi italiani prelevati dalla realtà,

veri e propri bozzetti, spaccati di vita di un’ Italia in piena

ricostruzione” (Lupi). La forza rivoluzionaria di questo film è

quasi completamente oscurata dalla figura predominante di Aldo

Fabrizi e dall’eccesso degli spettacoli parigini, tuttavia sembra

rispettare la migliore tradizione del cinema impegnato nello

svelare le realtà sociali italiane con tutte le problematiche

relative dell’Italia post-bellica.

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Questi insuccessi, molto spesso più di critica che

commerciali, rivelano la grande longimeranza di Emmer, il quale

dopo molti anni raggiunse un elevato consenso critico e stizzato

dichiara “avrei dovuto ibernarli... e farli programmare nelle

sale trent’anni dopo” (Emmer 73). Camilla, è un ottimo esempio di

questo “posticipato successo” in quanto è stato un film in cui

era evidente la denuncia al capitalismo, alla societá

consumistica, alla speculazione edilizia, al crescente nepotismo,

contenente una forte critica alla perdita dei valori

tradizionali. La rappresentazione della famiglia Rossetti,

caratterizza un’analisi minuta della realtà e della psicologia

neo-media borghese di quel periodo, ovvero “un attenzione

all’uomo, ai problemi che circondano l’uomo... afferra la

sostanza della verità che è la sostanza della realtà insomma, la

grande lezione del neorealismo” (Vitti). Mario Rossetti (Gabriele

Ferzetti), studente di medicina e medico della mutua, uomo onesto

e preoccupato di mantenre la famiglia ai livelli di uno status

borghese, intraprende un traffico di medicinali con l’amico

Gianni (Franco Fabrizi), affarista milanese. I due cominciano a

guadagnare e la famiglia Rossetti cambia stile di vita, facendo

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l’ingresso nella società del consumerismo, particolarmente

rappresentato nella scena della notte di Natale, durante la quale

i bambini della famiglia Rossetti ricevono tantissimi regali.

Tutto ciò li porterà ad accumulare dei debiti altissimi che si

rifletteranno sulla stabilità pisico-affettiva di Mario e la

moglie Giovanna (Dina Perbellini). È Gianni, ovviamente, che

offre la soluzione da questa crisi sostenendo che “basta

aumentare il volume delle vendite, come nel sistema

americano!”(Camilla). Ma nel film questa soluzione non aiuta la

crisi finanziaria e sentimentale dei Rossetti, anzi l’acuisce,

creando delle divisioni tra i protagonisti. Sarà Camilla (Gina

Busin), la domestica, la Mary Poppins italiana, che comincerà a

riordinare la casa ed a educare i figli, e con la sua concreta

semplicità a riportare l’equilibrio tra la pazzia generale di

questi borhesi. “Il regista ironizza ferocemente sul mito della

ricchezza e idealizza la vitalità della povera gente, capace di

inventare il quotidiano” (Lupi). La parte finale mostra un pranzo

d’affari per promuovere i nuovi prodotti di Gianni e Mario, ma

serve solamente a svelare l’imbroglio e a dividerli

definitivamente. Gianni è un personaggio essenziale nel film, in

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quanto la sua palese immoralità rivela e denuncia la corruzione

dell’Italia intera, quindi dalla situazione di un singolo viene

rappresentato il malessere di un intero paese, mentre le ultime

scene sono dedicate al ripristino dei sani principi. Camilla

rimane al suo posto di lavoro che, più di una volta nel film ha

messo in discussione tentando di licenziarsi; Mario ludicamente

mostra un nuovo interesse per figli, sottolineato dalla frase del

figlio, che suonando il piano implora la madre di farlo finire

perchè “per una volta che papà mi sta a sentire lasciamela

suonare tutta...”(Camilla). Persino il cinismo di Gianni è

addolcito dal felice evento della paternità. Il finale di Camilla

è positivo e decisamente prevedibile, forse anche perchè, la

produzione non avrebbe potuto osare null’altro di differente in

quel periodo storico del cinema italiano, comunque, con raffinata

maestria, riesce ad evitare la retorica moraleggiante del

nascente perbenismo della nuova borhesia italiana. Queste

riflessioni sulla società italiana in transformazione erano

condivisi da molti intellettuali di quel periodo, i quali

sopratutto criticavano molti contemporanei per la loro cecitá

nei confronti della crescente omologazione culturale. “Avevo

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forse intuito sul nascere la perdita di certi valori tradizionali

il cui ritorno, impossibile è auspicato oggi da ipocriti

moralisti” (Emmer 68). Emmer usa la massiccia figura della tata

bellunese per svelare la perfetta illusione della “nuova famiglia

borhese” italiana. Indirettamente, come anche nei suoi film

precedenti, offre allo spettatore un sottofondo di critica

sociale. Lo stesso Zavattini era angustiato da questa regressione

della cultura italiana:

“in quanto in un primo tempo irride il dittatore, poi

gli chiede scusa per un Paese che ha continuato a

partorire uomini senza qualità e a produrre fascismo

post-fascista, un Paese che non riesce a diventare

libero, e la cui forza di essere uscito dalle macerie

della guerra non lo ha salvato dalla temperie

consumistica e dall’omologazione culturale” (Fantini).

Emmer presenta i suoi film usando contenuti realisti,

prendendo in considerazione che “l’autencità è diversa dalla

realtà” (Vitti), si può considerare Emmer un neorealista, in

quanto segue la forma del documentario sociologico che si occupa

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di mostrare la realtà contemporanea nel contesto storico in cui

vive. In molti dei suoi film gioca su una focalizzazione interna,

come quando si entra e si spia nella vita intima dei

protagonisti, ed una focalizzazione esterna come quando i

protagonisti interagiscono con il mondo e le persone circostanti.

Questa focalizzazione esterna serve ad Emmer come strumento per

consolidare il suo ideale dell’“impossibilità del superamento di

classe”, una coscenza ideologica classista molto forte, anche se

espressa con toni delicati e mai dirompenti, che caratterizza il

suo pessimismo. Questa vena di pessimismo, in modi diversi,

ispira molti registi del periodo neorealista, come quello di “di

ispirazione letteraria di Visconti” (Castelli).

Domenica d’Agosto, come anche Camilla, Terza Liceo, e Le ragazze di

piazza di Spagna, evidenziano l’idea che persone di classi uguali si

attraggono, mentre persone provenienti da classi differenti non

possono mescolarsi. Nel film Camilla questo scottante problema è

evidenziato dalla scena del figlio di Camilla, che soldato in

congedo, decide di andarla a trovale, e si invaghisce della

domestica del piano di sopra. C’è una chiara riaffermazione dello

“status quo” di una classe subalterna a quella, oramai dominante,

Ottaviani Jones 26

della nuova borghesia. La giovane domestica può sperare solamente

nell’amore da parte del figlio di una persona proveniente dal

suo stesso ceto. Assecondando il punto di vista di Camilla,

Emmer, ci mostra un altro esempio di disagio classista,

nell’omonimo film, quello del trattamento riservatole dagli

adulti della famiglia, ma sopratuto dagli amici, in particolare

da Gianni, che si rivolge a lei come la “nuova serva della casa”.

Questi film mostrano una accurata ricostruzione e rivelazione

della moralità degli italiani del periodo post-bellico e della

condizione delle donne rassegnate ad una vita sottomessa, ed alla

accettazione passiva delle infedeltà matrimoniali. Il concetto

della rassegnazione è sottolineato nel film Parigi è sempre Parigi

quando la moglie di Andrea (Ave Ninchi), decide di fermarsi in un

istituto di bellezza per pettinarsi e truccarsi ma,

inevitabilmente, tornata all’albergo, la figlia (Lucia Bosè) la

dissuade dicendole che sembra ridicola “conciata” in quel modo, e

la convince a tornare al suo look naturale prima del ritorno del

marito. Questa parola “conciata” è sapientemente scelta dagli

autori, in quanto contiene una connotazione negativa a priori, ed

usandola la figlia soffoca le idee di modernità suscitate nella

Ottaviani Jones 27

madre dall’istituto di bellezza parigino. A quel punto Andrea

ritorna all’albergo e comincia a cercare delle scuse per poter

uscire solo con gli altri uomini. Questa parte della

sceneggiatura é molto interessante in quanto, da questo momento

in poi, la moglie di Andrea è consapevole che lui uscirà in cerca

di donne, e che molto probabilmente la tradirà, per poi tornare

al talamo matrimoniale come se nulla fosse successo. Questa

consapevolezza è puntualizzata da una serie di frasi ironiche che

si scambia la coppia, fino alla teoria ipocrita maschilista della

superioritá della “moglie”nei confronti delle altre donne, che

rafforza la mentalità dannunziana/ fascista del mito del super

uomo, e che si impregnerá nalla cultura italiana fino ai nostri

giorni.

Sempre in Parigi è sempre Parigi Emmer rivolge uno sguardo

profondo e ameraggiato sulla situazione degli immigrati italiani,

inserendo il personaggio del barone, ovvero quello dell’italiano

“che ha fatto fortuna all’estero”, e che dovrebbe guidare Andrea

e gli altri due ragazzi italiani, per i quartieri parigini, in

cerca di donne, ma tutto va nel peggiore dei modi. La scena

significativa è quando Andrea decide di andarlo a trovare, e si

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scopre la vera realtà della situazione di questo baone, ovvero

quella di una vita di miseria vissuta in una piccola e sudicia

camera d’albergo, lavorando per strada dentro una grande

bottiglia di plastica per pubblicizzare una bevanda. Questa parte

della sceneggiatura è la più innovativa, mostrando una spietata

società che schiaccia la dignitá delle persone, e non da’ la

possibilità ad un immigrante di integrarsi nella nuova cultura.

L’integrazione fallita del barone è mostrata dai molteplici ed

infruttuosi tentativi di quest’ultimo nel trovare un posto

decente di svaghi per i suoi compatrioti. La dignità perduta del

barone è, invece, sottolineata da una scena memorabile, che senza

bisogno di dialoghi trasferisce allo spettatore quel senso di

vergogna che il barone prova quando, tornando nel suo

appartamento “in divisa da lavoro”, ovvero dentro questa

bottiglia gigante di plastica, incontra Andrea che è appena

uscito dal suo appartamento e che ha scoperto la verità sul suo

conto. Questa scena à magistralmente eseguita, e con una serie

di controcampi e primissimi piani, gli ultimi rarissimi nello

stile emmeriano, si nota la crescente compassione di Andrea verso

il barone, il quale cerca di non farsi riconoscere scivolando

Ottaviani Jones 29

dentro la bottiglia. Ma in questo caso la macchina da presa di

Emmer è impietosa, e scova lo sguardo imbarazzato del barone che

tenta inutilmente di celare la sua identità. Così si crea un

gioco di sguardi, nel quale il barone guarda Andrea, ma allo

stesso tempo, guarda nella m.d.p., ovvero si rivolge allo

spettatore. Con questo espediente Emmer riesce a denunciare

questa ingiustizia sociale, non solo agli occhi del personaggio

Andrea, ma anche a quelli dello spettatore. Alla fine Andrea, con

un gesto di “pietas”, decide di allontanarsi senza parlare al

barone, lasciandolo con una illusoria dignità. Il tema

dell’immigrazione, della brutalizzazione e sfruttamento degli

italiani all’estero, Emmer lo tratta nel film La ragaza in vetrina

del 1961, sceneggiato insieme a Pier Paolo Pasolini. Il film

tratta di una storia realmente accaduta riguardo il crollo di una

galleria in una miniera, nella quale morirono molti immigrati

italiani. La parte del film che tratta la miniera ha toni cupi e

claustofobici, e Tonino De Bernardi la descrive poeticamete

affermando “inizia nel buio di una notte straniera per finire

quasi fatalmente in quello ancora piú nero nelle viscere della

terra la quale si richiude al di sopra di tutti nella

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miniera,come se alle tenebre non ci fosse scampo” (Francia di

Celle e Ghezzi 169). Emmer concentra l’attenzione su un giovane

minatore (Bernard Bresson) appena arrivato che, superstite da

quella tragedia, spaventato e scoraggiato decide di ritornare in

Italia. Con lui si è salvato anche il veterano della miniera

(Lino Ventura) che lo convince a prendersi un “ricordo” dalle

vetrine di Amsterdam prima di rimpatriare. Emmer cattura uno

scorcio della vita di quelle donne nelle vetrine, le quali “erano

giá un reperto storico nate per accogliere i marinai che

tornavano al loro paese con l’illusone di un focolare e di una

compagna subito pronta a fare l’amore” (Emmer 81). La parte

sentimentale, il rapporto di queste donne con gli uomini che

capitavano nelle lore vetrine è anticonvenzionale, in quanto

Emmer mostra queste donne che si innamorano dei loro clienti.

Durante il fatidico incontro tra il giovane minatore e la

bellissima ragazza in vetrina (Marina Vlady) l’approccio è

freddo, basato sul denaro, con un chiaro avviso da parte della

ragazza no kiss, e proprio nel “rifiuto del bacio da parte della

prostituta, stava il senso del film” (Emmer 83). Alla fine è la

ragazza, che accompagnando il giovane alla stazione, richiede un

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bacio da lui. Questa richiesta è fondamentale in quanto cambia le

sorti del giovane che decide di rimanere ad Amsterdam e ritorna

alla miniera.

“I film nascono sempre per caso... La scenaggiatura che ho

appena finito racconta una storia che avviene durante la notte

piú lunga dell’anno... È la storia di sei donne in questo lasso

di tempo ed ognuna si sviluppa come se fosse una vita intera”

(Francia di Celle e Ghezzi 217) Questa è la premessa di Emmer

per il suo film Una lunga lunga lunga... notte d’amore, girato nel 2001,

nel quale il regista/sceneggiatore ritorna al suo stile di cinema

frammentato per raccontare, con toni delicati, le microstorie di

ognuna di queste donne, che in una notte capiranno il senso della

loro totale esistenza. Emmer esplora con molta fatica questo

mondo femminile degli anni novanta, dove le donne non sono più

come le sartine di piazza di Spagna, ma ognuna di loro esprime le

nevrosi di una modernità che le schiaccia e le fa scomparire la

mattina seguente. Questa attenzione particolare al mondo

femminile è esplorata anche nel suo film L’acqua... il fuoco, 2003, nel

quale Sabrina Ferilli è l’icontrastata protagonista di tre

storie, riguardanti la solitidune della donna moderna, e la

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fragilità dei rapporti sentimentali. Nell’ultimo episodio con

Giancarlo Gianninni, si percepisce una reminescenza felliniana,

in quanto i protagonisti sono artisti circensi, che vivono

girando le piazze d’Italia proponendo i loro spettacoli. Emmer,

come Fellini nel film La strada, osserva l’emozioni della

protagonista femminile, ed il suo disperato ed inascoltato

pianto. La differenza è che Emmer mostra la donna moderna

sensibile, ma abbastanza forte da sopravvivere ai suprusi e ai

dolori. C’è un vero rovesciamennto dei ruoli, completamene

opposto al film felliniano, L’acqua... il fuoco rivela la debolezza del

protagonista maschile che non riesce ad affrontare la vita e si

lascia morire. Il rapporto di Emmer con le donne, a detta dello

stesso, è stato sempre ottimo con una spiccata facilità di

comunicazione (Francia di Celle e Ghezzi 217), questa

affermazione è confermata dalle moltissime dichiarazioni

rilasciate da centinaia di attrici che hanno lavorato con lui.

Gabriel Fessler con una lucida interpretazione dichiara “il tono

è così adatto da farmi pensare che Emmer abbia passato gli ultimi

quarant’anni della sua vita a osservare con ammirazione

l’universo delle donne” (Francia di Celle e Ghezzi 208).

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Emmer dimostra in tutti i suoi primi film una forza

rivoluzionaria, anche se velata e non dirompente come quella dei

suoi contemporanei, rispettando la migliore tradizione del cinema

impegnato nello svelare le realtà sociali italiane con tutte le

problematiche relative dell’Italia post-bellica. Quindi in

questo senso segue “il sogno di Zavattini del cinema come

strumento di disvelamento delle cose, coscienza ed essere,

habitus, uso sociale effettivo dell’espressione, ovvero la

creazione di una coscienza cinematografica di massa dove il

pubblico non è più oggetto ma soggetto comunicativo” (Perozzi).

Negli ultimi film si nota anche un rafforzamento dell’idea

d’indeterminatezza che ha caretterizzato tutto lo stile

cinematografico emmeriano, nel quale le storie non terminano mai

con una conclusione netta “mi hanno sempre rimproverato il fatto

che i miei film non hanno un finale vero e proprio che conclude

la storia che ho narrato, e rimangono come sospesi

nell’indeterminatezza” (Emmer 69). I finali rimangono aperti così

che i protagonisti non possono risolvere il loro problema, come

anche “i film di Zavattini che non offrono soluzioni, non

indicano strade da seguire, e i finali, al pari della vita reale,

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sono quanto di più evasivo si possa immaginare” (Perozzi). Ed è

proprio l’ideale zavattiniano ciò che demarca la differenza

sostanziale tra i film degli anni Cinquanta e gli ultimi degli

anni Novanta. Emmer si ritrova a narrare una realtà aliena,

trasformata in una società disorientata e complessa, che si

riflette nelle debolezze dei protagonisti. Ed è Luhman a

ricordarci che la temporalizzazione della complessità è il tratto

distintivo della modernità (Cassano XVII).

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