Ottaviani Jones
Luciano Emmer, l’orso di Molveno: antesignano di molti registi eanticipatore di molte tematiche del cinema italiano.
Luciano Emmer, classe 1918, milanese di nascita, romano
d’adozione come molti registi dell’epoca, inizia con
cortometraggi documentaristici nel 1938, la maggior parte
ispirati da pittori famosi, “ma realizza anche documentari di
natura diversa. Queste opere testimoniano la disponibilità
dell’autore all’impiego di un ampia gamma di codici espressivi e
preannunciano la commistione di stile e di toni che caraterrizza
i suoi lunometraggi a soggetto” (Moneti 25). Ricordando il suo
famoso documentario su Giotto, Emmer afferma che quegli affreschi
nella Cappella degli Scrovegni erano pronti ad essere filmati,
nel senso che “i volti dei protagosnisti erano giá fissati nelle
espressioni giuste”. Qundi per Emmer ed Enrico Gras era naturale
filmare il capolavoro di Giotto, come se si trattasse di un
racconto cinematografico della vita di Cristo (Emmer 29).
Il suo il primo lungometraggio è del 1950, Domenica d’Agosto,
e “il primo dei suoi ultimi film” (Francia di Celle e Ghezzi 7) è
La ragazza in vetrina del 1961. Il passaggio dai documentari ai
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lungometraggi è determinato dall’incontro con uno dei piú
importanti sceneggiatori del tempo, Sergio Amidei, il quale a
detta dello stesso Emmer, si presentò sul set del suo
ducumentario sulla città di Venezia, e con la sua brusca e
aggressiva timidezza, chiese ad Emmer se avessse mai fatto
l’aiutoregista, Emmer rispose negativamente, cosí Amidei incalzò
chiedendo se avesse fatto il centro Sperimentale di
Cinematografia, e quando Emmer rispose negativamente anche alla
seconda domanda, Amidei “rassicurato” gli propose di fare un film
insieme (Emmer 43). Così nacque Domenica d’Agosto ed il prolifico
sodalizio tra i due artisti.
Dai primi anni sessanta in poi Emmer si dedica quasi
esclusivamente alla televisione, al quale farà eco più tardi
anche Roberto Rosselini. In un intervista a Guglielmo Moneti del
1991, Emmer afferma che se fosse dipeso da lui, non avrebbe
nemmeno fatto i film del Il Bigamo e del Il Momento più Bello, i quali
rappresentavano una strada non piú sua, asserisce che proprio in
quel momento decise di chiudere con il cinema. Inoltre in quegli
stessi anni nasceva Carosello ed Emmer iniziò ad avere molte
offerte, così intraprese la strada della publicità, la quale è
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stata la via alla sua libertá artisitca, libera anche da una
censura moralista borghese. Nonostante tutto, decise, comunque,
di realizzare il film La Ragazza in Vetrina che ebbe una vicenda
produttiva molto travagliata e sancì definitivamente il suo
ritiro dal cinema. (Moneti11-12). Questa cocente delusione lo
fece dedicare alla sua “distrazione” del momento, la televesione.
Difatti, Emmer ritorna ai lungometraggi nei primi anni novanta, e
con una certa ironia che lo ha sempre acccompagnato, asserisce
che ha voluto fare Basta adesso ci faccio un film...(1991), in quanto
era l’ultima storia che aveva scritto, che traeva spunto dai
rapporti con il filgio, e con una certa malizia, aggiunge di aver
usato questo spunto per “liberarsi” di Terza Liceo, che innescò una
serie di richieste da parte dei produttori per girare il seguito
del fortunato film (Moneti 13). E sempre Emmer con la sua sagacia
riporta “Mi hanno sollecitato per anni a rifare Terza Liceo, i
produttori mi chiedevano di fare un nuovo film fresco;
consigliavo loro di mettere il mio nuovo copione in frigorifero”
(Emmer 63).
Questo temporaneo, ma alquanto lungo estraneamento dal
cinema, potrebbe apparire difficile da comprendere, ma in una
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delle sue prime dichiarazioni, forse la più esplicita e sincera,
Emmer afferma:
“Il cinema è morto quando è finito il bianco e nero,
cioè con l’avvento del colore. Perchè il colore era
senza volerlo, l’antisegnano della televisione. Non
c’era la fantasia straordinaria della realtà, vista
attraverso il mezzo nuovo, a colori. Vuoi mettere
l’essenza che il bianco e nero dava, la forza della
recitazione, la crudezza degli ambienti? Il bianco e
nero era il prolungamento del romanzo, dell’800. Ora
sono morti tutti e due”(Rutiloni).
Meno poetico, ma più prosaico e pratico, è quando dichiara
la sua voglia di fare cinema attribuita al fatto che fosse il suo
lavoro e l’unico mezzo per guadagnare “Questi giovani registi
sono quelli che vivono per fare cinema e invece bisogna fare
cinema per vivere... io sono uno che fa cinema e lo fa per vivere
e sono molto soddisfatto di questo mestiere, che fra l’altro, è
un mestiere come un altro”(Salvioni).
Il suo distaccamento dal cinema dei primi anni sessanta
allude ad un disamoramento per questo nuovo modo di interpretare
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il mondo. “L’esperienza infelice, con l’ottusità del sistema
censorio italiano, scoraggia Emmer, allontanandolo dal grande
schermo proprio quando avrebbe potuto dare ancora tanto, e di
valore. Ma l’avventura televisiva non è un ripiego vissuto con
rassegnazione...”(Di Palma). Come nota Di Palma, la censura della
nuova Italia borghese “perbenista” e religiosa, condannò molti
dei suoi film, in quanto considerati amorali per la presenza di
una vena sottile di erotismo (Moneti 10). Un ottimo esempio di
questo ostracismo verso i film di Emmer riguarda la scheda del
Centro Cattolico Cinematografico, che testualmente conclude la
critica del film Domenica d’Agosto con “la visione è esclusa per
tutti” tratta dal Vol. XXVII, Disp. 18, 1950 (Moneti 41). Emmer
ha decisamente sofferto l’“intolleranza censoria” (Emmer 79), per
esempio Terza Liceo dopo essere stato esaminato al limite della
bocciatura integrale, la censura chiese, ed ottenne, diciassette
tagli, mentre La ragazza in vetrina fu bloccato per un anno,
concedendo l’uscita del film alla sola condizione di tagliare la
scena incriminata dell’incontro tra il minatore e la ragazza in
vetrina.
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Ovviamente Emmer ha vissuto il Neorealismo dei grandi padri
ed assorbì molte delle innovazioni e delle tematiche politiche
del tempo, e nei suoi primi film si intravedono molte influenze
dell’ideologia del gruppo Cinema degli anni quaranta e cinquanta,
“Riguardo specificamente il Neorealismo, c’era
l’ostilità delle forze conservatrici nazionali, che si
sentivano messe sotto accusa e che consideravano il
Neorealismo un cinema pericoloso per i suoi messaggi di
conflittualitá sociale. Su questo punto sono d’accordo
con De Santis: il Neorealismo è stato deliberatamente
soppresso da determinate forze politiche di
potere”( Moneti 6).
Emmer per dovere ha sempre partecipato a manifestazioni e
condivideva gli ideali del gruppo Cinema, ma allo stesso tempo
aveva mantenuto un atteggiamento di rassegnazione in quanto
secondo lui alla fine “non c’era nulla da fare”(Moneti 6).
Tuttavia rinsaldò questa condivisione di idee con i registi
neorealisti dichiarando alla rivista Cinema del 1949, che “solo
se parte di una realtá autentica il film può diventare un opera
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d’arte autentica. Il problema del cinema è un problema di
autencità” (Moneti 31).
Emmer fu un regista sottovalutato dalla critica del tempo,
e venne confinato nel ghetto del neorealismo rosa. Durante gli
anni cinquanta, fu liquidato come “osservatore e narratore acuto
e affettuoso che non raggiunge certo lo studio sociologico e che
porta il segno del populismo ottimistico di un certo neorealismo,
ma con levità e senza predicazioni”(Rondi). Riguardo questa
“espulsione dal cinema italiano autoriconosciuto” Enrico Ghezzi
asserisce che questo “colore aggettivo, rosa”, usato con una
“certa ottusità da chi si occupa di cinema ... sconcerta ed
irrita di fronte alla robustezza del neorealismo brandito e
rivendicato” (Francia di Celle e Ghezzi 9).
Lo stesso Emmer racconta che lui non ha mai pensato di fare
un film “impegnato” o “leggero”, ma non avendo mai immesso
nessuna dichiarata indicazione ideologica, i suoi film venivano
considerati superficiali, elementari senza morale, e con
personaggi scanzonati e mai tropppo seri riguardo il loro ruolo
(Moneti 6). Ed è di nuovo Emmer che illumina la via della sua
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intricata carriera, rivelando che effettivamente “di Neorealismo
non ce ne è stato uno solo. I suoi registi piú rappresentatitivi
facevano un cinema diversissimo l’uno dall’altro. E credo che in
questo movimento eterogeneo e contradittorio un piccolo posto ci
sia ache per i miei film” (Moneti 6).
Effettivamente, con i suoi film, Emmer, ci racconta queste
fasi dell Italia post-bellica che gli causarono proprio le aspre
critiche degli intellettuali ‘impegnati’ nella rivoluzione
marxista. Con Domenica d’agosto e, sopratutto, con Parigi è sempre
Parigi, o come la chiamava affettuosamente Emmer, Domenica d’Agosto 2
“la sua uscita dall’universo del film d’autore è definitiva e
d’ora in poi le riviste cinematografiche più austere parleranno
poco di lui, e sempre come di un autore secondario”(Rausa).
Questa aspra, ma profetica critica nei confronti del film e del
regista, rivela una superficialità nell’interpretazione di tutti
i suoi film e del suo raffinato lavoro. I film di Emmer sono nati
da una realtà osservata giornalmente, minuziosamente, della quale
Emmer selezionava la parte che più lo appassionava (Moneti 6).
Emmer è sempre stato considerato un isolato, e lui alimentava
questa leggenda, dichiarando “a dire la verità, meno parlano di
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me e più contento sono! Io sono di queste parti (Molveno) e un
giorno desidero trovare un mio parente, sulle montagne, che è
l’orso!”(Gramola). Tuttavia, a parte questo suo riserbo naturale,
sul set è stato sempre molto amato dai suoi attori, Anna Bonaiuto
lo definisce un “gentiluomo d’altri tempi, un signore distaccato
ed elegante che urlava continuamente, una parolaccia ed un
insulto dietro l’alttro. Lunare, sublime, dolce” (Francia di
Celle e Ghezzi 10). Anche Lucia Bosè, dichiara che Amidei era un
personaggio serio e chiuso, mentre Emmer era totalmente
l’opposto, simpatico, gioioso, folle e energico (Francia di Celle
e Ghezzi 27).
Emmer usò storie di tutti i giorni per raccontare l’Italia
del suo tempo e riuscì a fondere le istanze neorealiste con il
costume e la cultura popolare del tempo anticipando la questione
delle nuove inquietudini della nuova borghesia, poi
magistralmente riprese negli anni sessanta da Michelangelo
Antonioni. “Parla di famiglia e dei problemi della piccola
borghesia in ricostruzione morale e materiale”, scrive a tanti
anni di distanza Maurizio Porro (Zaccagnini). Si ritrova anche
una flebile anticipazione della commedia all’italiana, benchè in
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Camilla, per esempio, i protagonisti non sviluppano completamente
quel senso di autocoscienza dei propri limiti e difetti, ed il
personaggio di Franco Fabrizi rappresenta, appunto, l’inizio
della costruzione del personaggio, che svilupperá negli anni
succcessivi e che diventerá la sua maschera, ovvero il milanese
affarista senza scrupoli. “Emmer non è nuovo a raccontare gli
anni '50 attraverso questo spicchio di società, e se non è
Antonioni, non è neanche un esponente della commedia
all'italiana, che per tutti gli anni cinquanta quasi non esiste,
e che deriderà più tardi, con cattiveria e genialità, l’ambiente
e la fauna osservata nel giardino del paese”(Zaccagnini).
Inoltre, Emmer è stato anche il capostipite di molti filoni
di film degenerati in film di serie dedicati alle vacanze degli
Italiani al mare, in montagna, durante il Natale, o all’estero.
“Degenerati” in quanto poco importa dove, e quando questi film
sono stati ambientati, in quanto si è ignorata un “attenzione
minuta e oggettiva per la realtà” tipico “di un occhio da
documentarista, come quello di Emmer”(Farinotti). Difatti nei
suoi primi film focalizza l’attenzione sul “come è tornata ad
essere facile la vita” per gli Italiani del dopo-guerra, su
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questi “nuovi italiani” che non ricordano più il dramma bellico e
il Fascismo, e vogliono vivere una vita allegra e spensierata.
Ribadisce la corta memoria degli Italiani, trasferendo questa
riflessione nel finale di Domenica d’agosto, nel quale, i
personaggi con l’imbrunire, e con il malinconico ritorno a Roma,
dimenticheranno le vicessitudini domenicane per cominciare una
nuova settimana all’insegna del presente e del futuro. Un
vagheggiamento poetico e delicato questo di Emmer, che ricorda la
poesia carducciana di San Martino, dove al tramonto tutte le
avventure della giornata, voleranno via nella sera come “esuli
pensieri nel vespero migrar”. Domenica d’Agosto si presenta come
una storia del cinema realista, creando una demarcazione dal
cinema Neorealista, in quanto “l’autencità è diversa dalla
realtà” (Vitti). È una storia di spiaggia, tra l’altro il primo
film del genere, che poi sará ripreso piú volte con una comicitá
di bassissimo profilo, trascurando quella qualitá essenziale di
Emmer, nel mettere a fuoco la realtà. È anche una storia
prettamente della cultura romana, dove una domenica sette di
agosto tutti i metropolitani romani si riversano come una valanga
nelle spiagge del vicino lido di Ostia. Questa cultura romana
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descritta da Emmer, il quale era milanese, destò notevoli
opinioni negative, tra i quali Ennio Flaiano, che nel 1950
commentò “il film di Luciano Emmer, è probabilmente un esempio di
neorealismo estivo... se non fosse appesantito da una certa
indulgenza per l’umorismo popolare romano, che assume spesso toni
di un desolato qualunquismo, sarebbe anche un buon esempio da
seguire” (Flaiano). Comunque Emmer aveva una affettuosa
ammirazione per la lingua romanesca, “il romanesco è molto
efficace. È una lingua molto cinematografica... Allora non si
poteva fare il cinema dialettale” (Gramola); e riguardo il popolo
romano afferma che “ prima Roma era piú tranquilla, caciarona,
con uno spirito diverso, fatta di trattorie, cinema e
scampagnate. C’era una generosità cinica dei romani, che erano
unici e generosi” (Rutiloni).
Emmer segue la forma di documentario sociologico che si
occupa di mostrare come è vissuta una calda domenica di agosto
dai romani di quel tempo. “Il regista recupera gli oggetti dello
sguardo, le zone dell’ imaginario del cinema realista” (Moneti
32). Tra tutta quella folla scatenata, “caciarona” che con i
treni, macchine di vario tipo e modello, biciclette e mezzi di
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fortuna, cerca di arrivare all’agognata spiaggia di Ostia,
vengono individuate cinque vicende, degne di essere seguite e
raccontate per diversi motivi. Lo stile è distinto da un testo
semplice, immerso in un intricato racconto, che usando un
meticoloso montaggio alternato ci presenta delle vignette, dei
bozzetti, i quali, a detta di Gian Luigi Rondi, “sono quasi tutti
riusciti” (Rondi). Nella maggior parte dei suoi film Emmer ha
privilegiato un racconto episodico intrecciato, come se, da un
certo punto di vista, volesse continuare la tradizione avviata
dal film Paisà.
Domenica d’Agosto inizia con l’inquadratura, apparentemente
casuale, di un bambino, che rappresenta la generazione post-
bellica a cui la fanciullezza è stata negata, il quale mostra una
maturitá al di là della sua età fisica, difatti nella parte
finale quando questo bambino rimane solo a sorvegliare la
bicicletta di uno dei ragazzi che ritarda nel tornare da una
lunga passeggiata. A questo punto questa storia si interseca con
un’altra, quella di due famiglie “pastasciuttare’ tipiche della
Roma popolare, delle quali si segue la vicende delle due giovani
figlie, che vogliono evadere dalla loro spiaggia popolare per
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andare alla spiaggia dei ricchi, che a quel tempo era la Vecchia
Pineta, status symbol della Roma dabbene al mare. In queste
storie Emmer mostra una separazione netta tra le classi sociali,
dove persino al mare, luogo di rilassamneto e svago, le diverse
spiagge sono divise tra loro in settori, da recinti di filo
spinato, e controllati da vigili come se fossero al confine con
un altra nazione, che in questo caso rappresenta la divisione di
due mondi, i ricchi e i poveri. C’è un breve discorso molto
importante che le figlie, Marcella (Anna Baldini) e la sua amica
riportano nel film, quando illegalmente sgaiottolano nella
Vecchia Pineta, “Ma in questa spiaggia non c’è nessuno? Eh, sí i
poveri sono tanti, i ricchi sono pochi...” (Domenica d’Agosto).
Anche il ragazzo (Franco Interlenghi) che Marcella incontra in
questa spiaggia è un povero che cerca di farsi passare per ricco,
ma alla fine si incontreranno a Roma nello stesso quartiere e
scopriranno la loro autenticità con candore ed semplicità. In
questo episodio Emmer sembra fare riferimento al fatto che
persone di classi uguali si attraggono, mentre persone
provenienti da classi differenti non riescono a mescolarsi.
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Sempre in Domenica d’Agosto, Luciana (Elvy Lissiak), una
ragazza del popolo, esce con un ragazzo dell’alta società che la
porta al mare alla Vecchia Pineta. In questo episodio Emmer crea
un sottotessto estremamente interessante e velatamente
politicizzato in quanto, l’ex ragazzo di Luciana, Roberto, che,
“ritornato dalla guerra, non si è più ripreso, entrando ed
uscendo di galera” (Domenica d’Agosto), vive nello stesso palazzo
di Luciana, e cerca di riconquistarla facendo soldi facili con
una rapina, la quale non andando in porto, rispedisce il giovane
in galera. Si ritrova una critica riguardo la mancata
responsabilitá delle istituzioni Italiane nel reintregare nella
societá quei valorosi giovani mandati alla guerra durante il
fascismo, dimostrando che di quella vita non ne è rimasto nulla.
Infatti uno dei soci di Roberto, mostrando un fazzoletto nero con
il quale si soffia il naso, esclama “Eh, come è finita la camicia
nera!!”(Domenica d’Agosto). Queste storie di apparente leggerezza
sottendevano una denuncia dei problemi sociali contemporanei nel
migliore stile neorealista. In questo stesso episodio, Emmer
marca la ditanza tra classi immergendo Luciana in questo gruppo
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di nobili e ricchi, dal quale alla fine scapperà via, ritornando
a Roma illibata e fiera dei suoi princìpi.
“La spiaggia luuuunga di Ostia” (Emmer 67) è stata un campo
fertile per gli sceneggiatori, un altro racconto prende spunto da
una colonia di bambine dove un vedovo ed una ragazza madre
portano le rispettive figlie, e nasce tra loro una dolce
sintonia, la quale porterà il signore a lasciare la sua compagna,
cafona e boriosa, e riprendersi la figlia dalla colonia per
ritornare a Roma in cerca della ragazza- madre. Emmer usa un
approccio inusuale nel mostrare l’institulizzazione severa di
questa colonia di suore dove, le bambine vengono rappresentate
come piccoli balilla. Anche qui è intenzionalmente creato un
sottofondo che testimonia indirettamente la collaborazione tra la
chiesa e il fascismo, creando un parallelo nello stile
dell’educazione giovanile. La macchina da presa segue delle
scelte registiche neutre, con la preferenza di riprese frontali
ad altezza uomo, e la prevalenza di campi medi insistendo
nell’inquadrare gli attori attraverso grade, e fili spinati delle
spiagge. Si nota un continuo ingabbiamento del personaggio, molto
evidente quando la bambina della colonia cerca di salutare il
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padre che si trova nella stessa spiaggia ma all’altro lato della
steccata. Ovviamente c’è una rappreaentazione grafica e fisica
dei separamenti sociali, ma anche un a forma artistica di
ritrarre un personaggio, non dimenticando che Emmer era un
appassionato di arte e sopratutto di pittura.
Emmer, secondo una visione zavattiniana, interpreta la
realtà contemporanea facendoci consapevoli di questi problemi, ma
a differenza di Zavattini, non la scava fino in fondo,
“il percorso di ricerca conoscitiva di Zavattini si
muove però costantemente sul terreno del dubbio e delle
domande; domande che possono anche rimanere senza
risposta proprio perchè non hanno dietro una tesi
precostituita. Si tratta solo di fare ricerca, di
interrogare costantemente la realtà, in quanto i film
di Zavattini non offrono soluzioni, non indicano strade
da seguire, e i finali, al pari della vita reale, sono
quanto di più evasivo si possa immaginare”(Perozzi).
Bisogna tuttavia sottolineate che, in Parigi è sempre Parigi,
Luciano Emmer, Ennio Flaiano, e Francesco Rosi, “hanno saputo
intuire e ben criticare non tanto la sciocca ricerca
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dell’opulenza e del consumo a tutti i costi, che sembra a tratti
pervadere la giornata della comitiva, bensì l’esistenza di una
vera e propria, imponente industria del tempo libero la quale
diverrà, nei decenni a venire, uno dei segni più stupidi della
società occidentale” (Rausa). Questa “industria del tempo libero”
è mostrata in Parigi è sempre Parigi soprattutto durante gli episodi
della mattinata e della serata, ed anticipa di molti anni la
critica fellininana della distrazione disorientante e corrutrice
della “dolce vita” romana. In questo secondo lungometraggio si
nota una minuziosa attenzione, quasi giornalistica (forse dovuta
anche alla pertecipazione di Rosi) ai dettagli, che raccontano
di una Parigi che non si trovava negli opuscoli turistici. Anche
Parigi è sempre Parigi è un film costruito con microstorie, divisibile
in tre parti della giornata, la mattina quando il gruppo di
turisti Italiani arriva nella capitale francese, il pomeriggio
quando la struttura narrativa si frammenta in microstorie, e la
sera quando tutti i personaggi vengono inghiottiti dall’industria
dello spettacolo parigino. Iniziando dalla mattina quando, questo
gruppo di Italiani in trasferta a Parigi per vedere la partita
della nazionale italiana, viene scortato da una guida turistica.
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La genialitá degli autori è quella di presentarci questo
carosello turistico, oltre che con le immagini, anche anche con
un commento di una voce fuori campo che elenca in un modo veloce
ed incomprensibile le bellezze parigine. Difatti, ad un certo
punto, Andrea ( Aldo Fabrizi) il capofamiglia, chiede di
rallentare e di spiegare cosa sia il Louvre perchè lui non riesce
a capire nulla. Questo piccolo frammento di testo, indirettamente
denuncia la crescente industria del turismo che tratta i
visitatori come “numeri su un autobus in corsa assillati
dall’esigenza di poter dire di ‘aver visto’”(Rausa). La serata,
invece, viene presentata come un turbine di spettacoli, i
personaggi si perdono e si ritrovano, il film presenta un
apparente esaltazione dello show-business. Apparente in quanto,
mentre la ragazza con la madre fanno il tour dei migliori locali
parigini, con le più belle scenografie ed i migliori artisti,
Andrea e altri due ragazzi del gruppo, in cerca delle “bellezze
femminili parigine”, si ritrovano nei quartieri malfamati della
cittá. Un atto di coraggio e originalitá da parte degli autori,
che mostrano una Parigi trasgressiva, con locali di travestiti e
transessuali, una situazione impensabile in un Italia degli anni
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Cinquanta , ma forse trascurata dalla attentissima censura e dal
pubblico in quanto ambientato a Parigi. I cacciatori di donne,
vengono guidati anche in uno dei bar più malfamati di Parigi con
prostitute e criminali ma, per questa trasgressione, finiranno
tutti in galera. Gli spettatori e critici del tempo non
riuscirono a cogliere pienamente il valore intriseco di questo
film in quanto travolti dalla spettacolaritá che la capitale
francese offriva.
Solamente con il senno di poi si è riuscito a capire
l’importanza che questo regista ha avuto per tutto il cinema
italiano, difatti Lupi nel 2012, dopo la morte di Emmer, dichiara
che “ era un regista di grande mestiere per l’acutezza nel
descrivere una serie di tipi italiani prelevati dalla realtà,
veri e propri bozzetti, spaccati di vita di un’ Italia in piena
ricostruzione” (Lupi). La forza rivoluzionaria di questo film è
quasi completamente oscurata dalla figura predominante di Aldo
Fabrizi e dall’eccesso degli spettacoli parigini, tuttavia sembra
rispettare la migliore tradizione del cinema impegnato nello
svelare le realtà sociali italiane con tutte le problematiche
relative dell’Italia post-bellica.
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Questi insuccessi, molto spesso più di critica che
commerciali, rivelano la grande longimeranza di Emmer, il quale
dopo molti anni raggiunse un elevato consenso critico e stizzato
dichiara “avrei dovuto ibernarli... e farli programmare nelle
sale trent’anni dopo” (Emmer 73). Camilla, è un ottimo esempio di
questo “posticipato successo” in quanto è stato un film in cui
era evidente la denuncia al capitalismo, alla societá
consumistica, alla speculazione edilizia, al crescente nepotismo,
contenente una forte critica alla perdita dei valori
tradizionali. La rappresentazione della famiglia Rossetti,
caratterizza un’analisi minuta della realtà e della psicologia
neo-media borghese di quel periodo, ovvero “un attenzione
all’uomo, ai problemi che circondano l’uomo... afferra la
sostanza della verità che è la sostanza della realtà insomma, la
grande lezione del neorealismo” (Vitti). Mario Rossetti (Gabriele
Ferzetti), studente di medicina e medico della mutua, uomo onesto
e preoccupato di mantenre la famiglia ai livelli di uno status
borghese, intraprende un traffico di medicinali con l’amico
Gianni (Franco Fabrizi), affarista milanese. I due cominciano a
guadagnare e la famiglia Rossetti cambia stile di vita, facendo
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l’ingresso nella società del consumerismo, particolarmente
rappresentato nella scena della notte di Natale, durante la quale
i bambini della famiglia Rossetti ricevono tantissimi regali.
Tutto ciò li porterà ad accumulare dei debiti altissimi che si
rifletteranno sulla stabilità pisico-affettiva di Mario e la
moglie Giovanna (Dina Perbellini). È Gianni, ovviamente, che
offre la soluzione da questa crisi sostenendo che “basta
aumentare il volume delle vendite, come nel sistema
americano!”(Camilla). Ma nel film questa soluzione non aiuta la
crisi finanziaria e sentimentale dei Rossetti, anzi l’acuisce,
creando delle divisioni tra i protagonisti. Sarà Camilla (Gina
Busin), la domestica, la Mary Poppins italiana, che comincerà a
riordinare la casa ed a educare i figli, e con la sua concreta
semplicità a riportare l’equilibrio tra la pazzia generale di
questi borhesi. “Il regista ironizza ferocemente sul mito della
ricchezza e idealizza la vitalità della povera gente, capace di
inventare il quotidiano” (Lupi). La parte finale mostra un pranzo
d’affari per promuovere i nuovi prodotti di Gianni e Mario, ma
serve solamente a svelare l’imbroglio e a dividerli
definitivamente. Gianni è un personaggio essenziale nel film, in
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quanto la sua palese immoralità rivela e denuncia la corruzione
dell’Italia intera, quindi dalla situazione di un singolo viene
rappresentato il malessere di un intero paese, mentre le ultime
scene sono dedicate al ripristino dei sani principi. Camilla
rimane al suo posto di lavoro che, più di una volta nel film ha
messo in discussione tentando di licenziarsi; Mario ludicamente
mostra un nuovo interesse per figli, sottolineato dalla frase del
figlio, che suonando il piano implora la madre di farlo finire
perchè “per una volta che papà mi sta a sentire lasciamela
suonare tutta...”(Camilla). Persino il cinismo di Gianni è
addolcito dal felice evento della paternità. Il finale di Camilla
è positivo e decisamente prevedibile, forse anche perchè, la
produzione non avrebbe potuto osare null’altro di differente in
quel periodo storico del cinema italiano, comunque, con raffinata
maestria, riesce ad evitare la retorica moraleggiante del
nascente perbenismo della nuova borhesia italiana. Queste
riflessioni sulla società italiana in transformazione erano
condivisi da molti intellettuali di quel periodo, i quali
sopratutto criticavano molti contemporanei per la loro cecitá
nei confronti della crescente omologazione culturale. “Avevo
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forse intuito sul nascere la perdita di certi valori tradizionali
il cui ritorno, impossibile è auspicato oggi da ipocriti
moralisti” (Emmer 68). Emmer usa la massiccia figura della tata
bellunese per svelare la perfetta illusione della “nuova famiglia
borhese” italiana. Indirettamente, come anche nei suoi film
precedenti, offre allo spettatore un sottofondo di critica
sociale. Lo stesso Zavattini era angustiato da questa regressione
della cultura italiana:
“in quanto in un primo tempo irride il dittatore, poi
gli chiede scusa per un Paese che ha continuato a
partorire uomini senza qualità e a produrre fascismo
post-fascista, un Paese che non riesce a diventare
libero, e la cui forza di essere uscito dalle macerie
della guerra non lo ha salvato dalla temperie
consumistica e dall’omologazione culturale” (Fantini).
Emmer presenta i suoi film usando contenuti realisti,
prendendo in considerazione che “l’autencità è diversa dalla
realtà” (Vitti), si può considerare Emmer un neorealista, in
quanto segue la forma del documentario sociologico che si occupa
Ottaviani Jones 25
di mostrare la realtà contemporanea nel contesto storico in cui
vive. In molti dei suoi film gioca su una focalizzazione interna,
come quando si entra e si spia nella vita intima dei
protagonisti, ed una focalizzazione esterna come quando i
protagonisti interagiscono con il mondo e le persone circostanti.
Questa focalizzazione esterna serve ad Emmer come strumento per
consolidare il suo ideale dell’“impossibilità del superamento di
classe”, una coscenza ideologica classista molto forte, anche se
espressa con toni delicati e mai dirompenti, che caratterizza il
suo pessimismo. Questa vena di pessimismo, in modi diversi,
ispira molti registi del periodo neorealista, come quello di “di
ispirazione letteraria di Visconti” (Castelli).
Domenica d’Agosto, come anche Camilla, Terza Liceo, e Le ragazze di
piazza di Spagna, evidenziano l’idea che persone di classi uguali si
attraggono, mentre persone provenienti da classi differenti non
possono mescolarsi. Nel film Camilla questo scottante problema è
evidenziato dalla scena del figlio di Camilla, che soldato in
congedo, decide di andarla a trovale, e si invaghisce della
domestica del piano di sopra. C’è una chiara riaffermazione dello
“status quo” di una classe subalterna a quella, oramai dominante,
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della nuova borghesia. La giovane domestica può sperare solamente
nell’amore da parte del figlio di una persona proveniente dal
suo stesso ceto. Assecondando il punto di vista di Camilla,
Emmer, ci mostra un altro esempio di disagio classista,
nell’omonimo film, quello del trattamento riservatole dagli
adulti della famiglia, ma sopratuto dagli amici, in particolare
da Gianni, che si rivolge a lei come la “nuova serva della casa”.
Questi film mostrano una accurata ricostruzione e rivelazione
della moralità degli italiani del periodo post-bellico e della
condizione delle donne rassegnate ad una vita sottomessa, ed alla
accettazione passiva delle infedeltà matrimoniali. Il concetto
della rassegnazione è sottolineato nel film Parigi è sempre Parigi
quando la moglie di Andrea (Ave Ninchi), decide di fermarsi in un
istituto di bellezza per pettinarsi e truccarsi ma,
inevitabilmente, tornata all’albergo, la figlia (Lucia Bosè) la
dissuade dicendole che sembra ridicola “conciata” in quel modo, e
la convince a tornare al suo look naturale prima del ritorno del
marito. Questa parola “conciata” è sapientemente scelta dagli
autori, in quanto contiene una connotazione negativa a priori, ed
usandola la figlia soffoca le idee di modernità suscitate nella
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madre dall’istituto di bellezza parigino. A quel punto Andrea
ritorna all’albergo e comincia a cercare delle scuse per poter
uscire solo con gli altri uomini. Questa parte della
sceneggiatura é molto interessante in quanto, da questo momento
in poi, la moglie di Andrea è consapevole che lui uscirà in cerca
di donne, e che molto probabilmente la tradirà, per poi tornare
al talamo matrimoniale come se nulla fosse successo. Questa
consapevolezza è puntualizzata da una serie di frasi ironiche che
si scambia la coppia, fino alla teoria ipocrita maschilista della
superioritá della “moglie”nei confronti delle altre donne, che
rafforza la mentalità dannunziana/ fascista del mito del super
uomo, e che si impregnerá nalla cultura italiana fino ai nostri
giorni.
Sempre in Parigi è sempre Parigi Emmer rivolge uno sguardo
profondo e ameraggiato sulla situazione degli immigrati italiani,
inserendo il personaggio del barone, ovvero quello dell’italiano
“che ha fatto fortuna all’estero”, e che dovrebbe guidare Andrea
e gli altri due ragazzi italiani, per i quartieri parigini, in
cerca di donne, ma tutto va nel peggiore dei modi. La scena
significativa è quando Andrea decide di andarlo a trovare, e si
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scopre la vera realtà della situazione di questo baone, ovvero
quella di una vita di miseria vissuta in una piccola e sudicia
camera d’albergo, lavorando per strada dentro una grande
bottiglia di plastica per pubblicizzare una bevanda. Questa parte
della sceneggiatura è la più innovativa, mostrando una spietata
società che schiaccia la dignitá delle persone, e non da’ la
possibilità ad un immigrante di integrarsi nella nuova cultura.
L’integrazione fallita del barone è mostrata dai molteplici ed
infruttuosi tentativi di quest’ultimo nel trovare un posto
decente di svaghi per i suoi compatrioti. La dignità perduta del
barone è, invece, sottolineata da una scena memorabile, che senza
bisogno di dialoghi trasferisce allo spettatore quel senso di
vergogna che il barone prova quando, tornando nel suo
appartamento “in divisa da lavoro”, ovvero dentro questa
bottiglia gigante di plastica, incontra Andrea che è appena
uscito dal suo appartamento e che ha scoperto la verità sul suo
conto. Questa scena à magistralmente eseguita, e con una serie
di controcampi e primissimi piani, gli ultimi rarissimi nello
stile emmeriano, si nota la crescente compassione di Andrea verso
il barone, il quale cerca di non farsi riconoscere scivolando
Ottaviani Jones 29
dentro la bottiglia. Ma in questo caso la macchina da presa di
Emmer è impietosa, e scova lo sguardo imbarazzato del barone che
tenta inutilmente di celare la sua identità. Così si crea un
gioco di sguardi, nel quale il barone guarda Andrea, ma allo
stesso tempo, guarda nella m.d.p., ovvero si rivolge allo
spettatore. Con questo espediente Emmer riesce a denunciare
questa ingiustizia sociale, non solo agli occhi del personaggio
Andrea, ma anche a quelli dello spettatore. Alla fine Andrea, con
un gesto di “pietas”, decide di allontanarsi senza parlare al
barone, lasciandolo con una illusoria dignità. Il tema
dell’immigrazione, della brutalizzazione e sfruttamento degli
italiani all’estero, Emmer lo tratta nel film La ragaza in vetrina
del 1961, sceneggiato insieme a Pier Paolo Pasolini. Il film
tratta di una storia realmente accaduta riguardo il crollo di una
galleria in una miniera, nella quale morirono molti immigrati
italiani. La parte del film che tratta la miniera ha toni cupi e
claustofobici, e Tonino De Bernardi la descrive poeticamete
affermando “inizia nel buio di una notte straniera per finire
quasi fatalmente in quello ancora piú nero nelle viscere della
terra la quale si richiude al di sopra di tutti nella
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miniera,come se alle tenebre non ci fosse scampo” (Francia di
Celle e Ghezzi 169). Emmer concentra l’attenzione su un giovane
minatore (Bernard Bresson) appena arrivato che, superstite da
quella tragedia, spaventato e scoraggiato decide di ritornare in
Italia. Con lui si è salvato anche il veterano della miniera
(Lino Ventura) che lo convince a prendersi un “ricordo” dalle
vetrine di Amsterdam prima di rimpatriare. Emmer cattura uno
scorcio della vita di quelle donne nelle vetrine, le quali “erano
giá un reperto storico nate per accogliere i marinai che
tornavano al loro paese con l’illusone di un focolare e di una
compagna subito pronta a fare l’amore” (Emmer 81). La parte
sentimentale, il rapporto di queste donne con gli uomini che
capitavano nelle lore vetrine è anticonvenzionale, in quanto
Emmer mostra queste donne che si innamorano dei loro clienti.
Durante il fatidico incontro tra il giovane minatore e la
bellissima ragazza in vetrina (Marina Vlady) l’approccio è
freddo, basato sul denaro, con un chiaro avviso da parte della
ragazza no kiss, e proprio nel “rifiuto del bacio da parte della
prostituta, stava il senso del film” (Emmer 83). Alla fine è la
ragazza, che accompagnando il giovane alla stazione, richiede un
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bacio da lui. Questa richiesta è fondamentale in quanto cambia le
sorti del giovane che decide di rimanere ad Amsterdam e ritorna
alla miniera.
“I film nascono sempre per caso... La scenaggiatura che ho
appena finito racconta una storia che avviene durante la notte
piú lunga dell’anno... È la storia di sei donne in questo lasso
di tempo ed ognuna si sviluppa come se fosse una vita intera”
(Francia di Celle e Ghezzi 217) Questa è la premessa di Emmer
per il suo film Una lunga lunga lunga... notte d’amore, girato nel 2001,
nel quale il regista/sceneggiatore ritorna al suo stile di cinema
frammentato per raccontare, con toni delicati, le microstorie di
ognuna di queste donne, che in una notte capiranno il senso della
loro totale esistenza. Emmer esplora con molta fatica questo
mondo femminile degli anni novanta, dove le donne non sono più
come le sartine di piazza di Spagna, ma ognuna di loro esprime le
nevrosi di una modernità che le schiaccia e le fa scomparire la
mattina seguente. Questa attenzione particolare al mondo
femminile è esplorata anche nel suo film L’acqua... il fuoco, 2003, nel
quale Sabrina Ferilli è l’icontrastata protagonista di tre
storie, riguardanti la solitidune della donna moderna, e la
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fragilità dei rapporti sentimentali. Nell’ultimo episodio con
Giancarlo Gianninni, si percepisce una reminescenza felliniana,
in quanto i protagonisti sono artisti circensi, che vivono
girando le piazze d’Italia proponendo i loro spettacoli. Emmer,
come Fellini nel film La strada, osserva l’emozioni della
protagonista femminile, ed il suo disperato ed inascoltato
pianto. La differenza è che Emmer mostra la donna moderna
sensibile, ma abbastanza forte da sopravvivere ai suprusi e ai
dolori. C’è un vero rovesciamennto dei ruoli, completamene
opposto al film felliniano, L’acqua... il fuoco rivela la debolezza del
protagonista maschile che non riesce ad affrontare la vita e si
lascia morire. Il rapporto di Emmer con le donne, a detta dello
stesso, è stato sempre ottimo con una spiccata facilità di
comunicazione (Francia di Celle e Ghezzi 217), questa
affermazione è confermata dalle moltissime dichiarazioni
rilasciate da centinaia di attrici che hanno lavorato con lui.
Gabriel Fessler con una lucida interpretazione dichiara “il tono
è così adatto da farmi pensare che Emmer abbia passato gli ultimi
quarant’anni della sua vita a osservare con ammirazione
l’universo delle donne” (Francia di Celle e Ghezzi 208).
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Emmer dimostra in tutti i suoi primi film una forza
rivoluzionaria, anche se velata e non dirompente come quella dei
suoi contemporanei, rispettando la migliore tradizione del cinema
impegnato nello svelare le realtà sociali italiane con tutte le
problematiche relative dell’Italia post-bellica. Quindi in
questo senso segue “il sogno di Zavattini del cinema come
strumento di disvelamento delle cose, coscienza ed essere,
habitus, uso sociale effettivo dell’espressione, ovvero la
creazione di una coscienza cinematografica di massa dove il
pubblico non è più oggetto ma soggetto comunicativo” (Perozzi).
Negli ultimi film si nota anche un rafforzamento dell’idea
d’indeterminatezza che ha caretterizzato tutto lo stile
cinematografico emmeriano, nel quale le storie non terminano mai
con una conclusione netta “mi hanno sempre rimproverato il fatto
che i miei film non hanno un finale vero e proprio che conclude
la storia che ho narrato, e rimangono come sospesi
nell’indeterminatezza” (Emmer 69). I finali rimangono aperti così
che i protagonisti non possono risolvere il loro problema, come
anche “i film di Zavattini che non offrono soluzioni, non
indicano strade da seguire, e i finali, al pari della vita reale,
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sono quanto di più evasivo si possa immaginare” (Perozzi). Ed è
proprio l’ideale zavattiniano ciò che demarca la differenza
sostanziale tra i film degli anni Cinquanta e gli ultimi degli
anni Novanta. Emmer si ritrova a narrare una realtà aliena,
trasformata in una società disorientata e complessa, che si
riflette nelle debolezze dei protagonisti. Ed è Luhman a
ricordarci che la temporalizzazione della complessità è il tratto
distintivo della modernità (Cassano XVII).
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