L'identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello

84
L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello Seminario conclusivo del Dottorato in Scienze Giuridiche Firenze, 23 maggio 2013 A cura di Vittoria Barsotti uaderni

Transcript of L'identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello

978-88-916-0551-1

€ 18,00

L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello

Seminario conclusivo del Dottorato in Scienze Giuridiche

Firenze, 23 maggio 2013

A cura di Vittoria Barsotti

uaderni

L’IDENTITÀ DELLE SCIEN

ZE GIURIDICHE IN

ORDIN

AMEN

TI MULTILIVELLO

- 2

L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello

Seminario conclusivo del Dottorato in Scienze Giuridiche

Firenze, 23 maggio 2013

A cura di Vittoria Barsotti

L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello

Seminario conclusivo del Dottorato in Scienze Giuridiche

Firenze, 23 maggio 2013

A cura di Vittoria Barsotti

© Copyright 2014 by Maggioli S.p.A.Maggioli Editore è un marchio di Maggioli S.p.A.

Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001: 2008

47822 Santarcangelo di Romagna (RN) • Via del Carpino, 8Tel. 0541/628111 • Fax 0541/622595

www.maggioli.it/servizioclientie-mail: [email protected]

Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzionee di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi.

Finito di stampare nel mese di maggio 2014nello stabilimento Maggioli S.p.a.Santarcangelo di Romagna (RN)

Indice

Presentazione............................................................................... pag. 7 L’identità delle scienze giuridiche in ordinamenti multilivello: il diritto comparato, di Luisa Antoniolli..................... » 9 L’identità delle scienze giuridiche nel mondo giuridico “plurale” – “Questa è l’acqua”, di Stefano Civitarese Matteucci... » 29 L’identità della scienza giuridica penale nell’ordinamento multilivello, di Vincenzo Militello.................... » 51 Ossimori del civilista, di Giovanni Passagnoli.............................. » 83 La fine del “grande stile” e la ricerca di una nuova identità per la scienza giuridica, di Massimo Vogliotti..... » 95

La fine del “grande stile” e la ricerca di una nuova

identità per la scienza giuridica

Massimo Vogliotti SOMMARIO: 1. Ordinamenti multilivello… – 2. …o ordine poliprospettico? Gli

effetti sulla scienza giuridica – 3. La crisi del “grande stile” – 3.1. La frammentazione del soggetto… – 3.2. …e il passaggio dall’idea di sostanza a quella di relazione – 4. La nuova identità del giurista e l’urgenza di un rinnovamento dell’educazione giuridica.

1. Ordinamenti multilivello… Non si può che apprezzare la scelta del Dottorato fiorentino di

dedicare il corso di quest’anno al tema dell’identità delle scienze giuridiche, da tempo alla ricerca di rinnovati profili identitari. Recentemente il tema si è riproposto con accresciuto interesse in relazione alle profonde trasformazioni dell’ambiente giuridico contemporaneo per effetto dei processi – sempre più penetranti – di europeizzazione e di globalizzazione del diritto1. Di qui la scelta – per chi scrive meno opportuna – di accostare la questione dell’identità della scienza giuridica 2, all’immagine – così pervasiva nella letteratura contemporanea da imporsi per un riflesso quasi

Professore associato, Università del Piemonte Orientale. 1 Si veda, ad esempio, R. VAN GESTEL, H.-W. MICKLITZ e M. POIARES MADURO,

Methodology in the New Legal World, EUI Working Papers, LAW 2012/13 e V.A. VON BOGDANDY, National legal scholarship in the European legal area – A manifesto, in International Journal of Constitutional Law, 10, 2012, pp. 603-613. Su quest’ultimo contributo – pubblicato l’anno prima in tedesco e poi anche in italiano in Il Foro italiano, 2012, V, c. 54 ss. – e sul dibattito che ha suscitato in Germania, v. M. BRUTTI, Per la scienza giuridica europea (riflessioni su un dibattito in corso), in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, p. 905 ss.

2 Preferisco declinarla al singolare perché, pur nella specifica varietà dei profili problematici, unitario è l’oggetto e il metodo delle varie discipline giuridiche.

96 Massimo Vogliotti

pavloviano – del multilivello. Ad onta del suo successo, infatti, questa metafora – coniata da Ingolf Pernice con riferimento al multilevel constitutionalism europeo3 – non appare adatta a tras-portarci efficacemente nella complessa topologia giuridica odierna4.

Al di là delle intenzioni di chi la propone 5 , l’immagine del “multilivello”, più che alludere semplicemente a differenze di scala e quindi ad una spazialità articolata in ordini di grandezza diversi (locali, nazionali, internazionali, sovranazionali e transnazionali), lasciando impregiudicata la questione del tipo di relazioni tra i vari ordini, suggerisce l’idea di gerarchia, e cioè di un tipo ben preciso di relazioni, e quindi di ordine, che rievoca – pur in una veste aggiornata – la metafora kelseniana della piramide.

Tale metafora, frutto maturo del paradigma giuridico moderno6, poteva rappresentare – con un’accettabile approssimazione – lo spazio giuridico ottocentesco e protonovecentesco. Quello spazio era occupato dai monòliti statali (sovrani nel loro territorio e nelle relazioni internazionali) ed era osservato con gli occhiali delle categorie teoriche moderne. Queste, come in seguito ci hanno insegnato le epistemologie costruttivistiche, non si limitavano a rappresentare uno stato di cose, ma, in parte, costituivano la realtà, contribuendo in tal modo, per un effetto di retroazione, a renderla

3V., tra i molti contributi, I. PERNICE, Multilevel Consitutionalism and the

Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited, in Common Market Law Review, 36, 1999, p. 703 ss. e ID., The Treaty of Lisbon: Multilevel Constitutionalism in Action, in Columbia Journal of European Law, 15, 2009, p. 349 ss.

4 Dello stesso avviso sono S. CASSESE, Oltre lo Stato, Roma-Bari, p. 8 ss. (ribadito in Il diritto globale, Torino, 2009, p. 23: «L’espressione multilevel constitutionalism suggerisce un’interpretazione che trascura la complessità delle strutture e dei processi decisionali») e G. DELLA CANANEA, Is European Constitutionalism Really “Multilevel”?, in ZaöRV, 70, 2010, p. 283 ss.

5 Come osserva G. DELLA CANANEA, Is European Constitutionalism Really “Multilevel”?, cit., pp. 301-302, «Pernice explicitly acknowledges that the vertical dimension is not the only one which is relevant. Indeed, as he correctly observes, the horizontal dimension has become increasingly important» (Della Cananea nota che, a questo proposito, vi è un’evoluzione nei lavori di Pernice).

6 Torneremo più avanti sulla nozione di paradigma giuridico moderno. Fin da ora si rinvia, per approfondimenti, a M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica, Torino, 2007 e ID. (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, 2008.

96 Massimo Vogliotti

pavloviano – del multilivello. Ad onta del suo successo, infatti, questa metafora – coniata da Ingolf Pernice con riferimento al multilevel constitutionalism europeo3 – non appare adatta a tras-portarci efficacemente nella complessa topologia giuridica odierna4.

Al di là delle intenzioni di chi la propone 5 , l’immagine del “multilivello”, più che alludere semplicemente a differenze di scala e quindi ad una spazialità articolata in ordini di grandezza diversi (locali, nazionali, internazionali, sovranazionali e transnazionali), lasciando impregiudicata la questione del tipo di relazioni tra i vari ordini, suggerisce l’idea di gerarchia, e cioè di un tipo ben preciso di relazioni, e quindi di ordine, che rievoca – pur in una veste aggiornata – la metafora kelseniana della piramide.

Tale metafora, frutto maturo del paradigma giuridico moderno6, poteva rappresentare – con un’accettabile approssimazione – lo spazio giuridico ottocentesco e protonovecentesco. Quello spazio era occupato dai monòliti statali (sovrani nel loro territorio e nelle relazioni internazionali) ed era osservato con gli occhiali delle categorie teoriche moderne. Queste, come in seguito ci hanno insegnato le epistemologie costruttivistiche, non si limitavano a rappresentare uno stato di cose, ma, in parte, costituivano la realtà, contribuendo in tal modo, per un effetto di retroazione, a renderla

3V., tra i molti contributi, I. PERNICE, Multilevel Consitutionalism and the

Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited, in Common Market Law Review, 36, 1999, p. 703 ss. e ID., The Treaty of Lisbon: Multilevel Constitutionalism in Action, in Columbia Journal of European Law, 15, 2009, p. 349 ss.

4 Dello stesso avviso sono S. CASSESE, Oltre lo Stato, Roma-Bari, p. 8 ss. (ribadito in Il diritto globale, Torino, 2009, p. 23: «L’espressione multilevel constitutionalism suggerisce un’interpretazione che trascura la complessità delle strutture e dei processi decisionali») e G. DELLA CANANEA, Is European Constitutionalism Really “Multilevel”?, in ZaöRV, 70, 2010, p. 283 ss.

5 Come osserva G. DELLA CANANEA, Is European Constitutionalism Really “Multilevel”?, cit., pp. 301-302, «Pernice explicitly acknowledges that the vertical dimension is not the only one which is relevant. Indeed, as he correctly observes, the horizontal dimension has become increasingly important» (Della Cananea nota che, a questo proposito, vi è un’evoluzione nei lavori di Pernice).

6 Torneremo più avanti sulla nozione di paradigma giuridico moderno. Fin da ora si rinvia, per approfondimenti, a M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica, Torino, 2007 e ID. (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, 2008.

La fine del “grande stile” 97

ad esse conforme7. La metafora della piramide sintetizzava ica-sticamente sia la concezione sillogistica del ragionamento giuridico (affermatasi già nel laboratorio umanistico in seguito all’adozione della nova methodus ramista)8 sia la rappresentazione del sistema delle fonti, e in generale dell’ordinamento giuridico, in modo lineare-gerarchico (organi e norme sono posti in una posizione di superiorità e di subordinazione gli uni rispetto agli altri, collegati da relazioni a senso unico, meramente esecutive e quindi improduttive) e arborescente (tutti gli elementi del sistema si generano gli uni dagli altri a partire da un unico centro di irradiazione della normatività)9.

Pur superando – con il riferimento a una pluralità di ordinamenti o di livelli di tutela dei diritti10 – il monismo statualista evocato dalla moderna immagine della piramide, la metafora del multilivello continua a rimanere invischiata nell’idea di un ordine gerarchico che non corrisponde più – se mai vi ha davvero corrisposto in passato 11 – ai modi di essere del diritto

7 Per un approccio costruttivistico al diritto, v., per tutti, V. VILLA,

Costruttivismo e teorie del diritto, Torino, 1999. 8 Sulla trasformazione degli studi logici operata dagli umanisti, che si riflette

nei trattati di dialettica legale apparsi durante tutto il Cinquecento, v. V. PIANO

MORTARI, Dialettica e giurisprudenza. Studio sui trattati di dialettica legale del sec. XVI (1957), in ID., Diritto logica metodo nel secolo XVI, Napoli, 1978, p. 117 ss. e C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell’umanesimo. “Inventio” e “metodo” nella cultura del XV e XVI secolo, Milano, 1968.

9 Per approfondimenti si rinvia a F. OST e M. VAN DE KERCHOVE, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002. V. anche M. BARBERIS, Europa del diritto, Bologna, 2008, p. 296, che osserva come il modello piramidale sia stato adottato sia dal giusnaturalismo moderno sia dal positivismo.

10 V., ad esempio, A. CARDONE, Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enciclopedia del diritto, Annali IV, Milano, 2011, p. 335 ss.

11 Dobbiamo infatti riconoscere, con Bruno Latour, che «non siamo mai stati moderni», che la realtà non ha mai pienamente corrisposto all’immagine piramidale (B. LATOUR, Nous n’avons jamais été modernes, Paris, 1991). Come ogni sistema complesso, anche il diritto (non a caso ridotto dalla modernità a sistema semplice) è retto da «gerarchie aggrovigliate»: tra le fonti del diritto vi sono sempre state relazioni ricorsive e il giudice non è mai stato, quindi, mera “bocca della legge”. Si ha una «gerarchia aggrovigliata» quando «quelli che si presume siano livelli gerarchici ben precisi e netti, inaspettatamente s’in-trecciano in un modo che viola i principi gerarchici» (D.R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante (1979), Milano, 1990, p. 749).

98 Massimo Vogliotti

contemporaneo. Più che dalla stratificazione, quest’ultimo è segnato dall’intersecazione dei livelli, dall’interazione e dall’interdipendenza degli ordinamenti, dalla loro porosità e «sconfinatezza»12, dalla loro «apertura laterale»13, dalla concorrenza e competizione 14 , dalle sovrapposizioni parziali di ordinamenti generali e settoriali 15 , dalla cooperazione dei rispettivi attori – specie giurisdizionali – che costruiscono ponti comunicativi, svolgendo una funzione essenziale di «de-frammentazione» di «ordini che nascono separati» 16 , dallo sviluppo «in forma non pianificata, ma spontanea»17 e contestuale, case by case.

Questo assetto topologico così complesso e a geometria variabile – che suggerisce metafore alternative come quella della rete 18 o

12 M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo

globale, Roma-Bari, 2006. 13 S. CASSESE, Il diritto globale, cit., p. 24. 14 A. ZOPPINI (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-

Bari, 2004 e A PLAIA (a cura di), La competizione tra ordinamenti giuridici, Milano, 2007.

15 Esempi in S. CASSESE, Il diritto globale, cit. e G. PALOMBELLA, È possibile una legalità globale? Il Rule of law e la governance del mondo, Bologna, 2012.

16 S. CASSESE, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, p. 99.

17 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 48. 18 Come tutte le metafore, la loro funzione non è quella di fornire una

rappresentazione precisa della realtà, bensì quella di sottolineare, con l’efficacia di un’immagine evocativa, il tratto tipico, la nota caratterizzante di un dato fenomeno. In questi ultimi anni, sono sempre più numerosi i riferimenti alla metafora della rete per rappresentare la configurazione del diritto contemporaneo. V., in particolare, il già ricordato saggio di F. OST e M. VAN DE

KERCHOVE, De la pyramide au réseau?. Nella letteratura italiana, si segnalano, ex plurimis e con differenti accenti, F. VIOLA, Autorità e ordine del diritto, Torino, 1987, p. 376 ss.; M. VOGLIOTTI, Mutations dans le champ pénal contemporain. Vers un droit pénal en réseau?, in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 2002, p. 721 ss.; M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, p. 145 ss.; S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., passim; M. BARBERIS, Europa del diritto, cit., p. 251 ss.; B. PASTORE, Le fonti e la rete: il principio di legalità rivisitato, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO e P. VERONESI (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Lorenza Carlassare, I, Napoli, 2009, p. 257 ss.; M.R. FERRARESE, Il costituzionalismo globale tra “non luogo” e “dislocazioni”, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2013, pp. 431 e 438, che parla del costituzionalismo nel mondo globalizzato come di una «rete viaria assai complessa», equiparabile al «cantiere di un’intera città in costruzione, il cui piano regolatore non è del tutto definito e

98 Massimo Vogliotti

contemporaneo. Più che dalla stratificazione, quest’ultimo è segnato dall’intersecazione dei livelli, dall’interazione e dall’interdipendenza degli ordinamenti, dalla loro porosità e «sconfinatezza»12, dalla loro «apertura laterale»13, dalla concorrenza e competizione 14 , dalle sovrapposizioni parziali di ordinamenti generali e settoriali 15 , dalla cooperazione dei rispettivi attori – specie giurisdizionali – che costruiscono ponti comunicativi, svolgendo una funzione essenziale di «de-frammentazione» di «ordini che nascono separati» 16 , dallo sviluppo «in forma non pianificata, ma spontanea»17 e contestuale, case by case.

Questo assetto topologico così complesso e a geometria variabile – che suggerisce metafore alternative come quella della rete 18 o

12 M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo

globale, Roma-Bari, 2006. 13 S. CASSESE, Il diritto globale, cit., p. 24. 14 A. ZOPPINI (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-

Bari, 2004 e A PLAIA (a cura di), La competizione tra ordinamenti giuridici, Milano, 2007.

15 Esempi in S. CASSESE, Il diritto globale, cit. e G. PALOMBELLA, È possibile una legalità globale? Il Rule of law e la governance del mondo, Bologna, 2012.

16 S. CASSESE, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, p. 99.

17 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 48. 18 Come tutte le metafore, la loro funzione non è quella di fornire una

rappresentazione precisa della realtà, bensì quella di sottolineare, con l’efficacia di un’immagine evocativa, il tratto tipico, la nota caratterizzante di un dato fenomeno. In questi ultimi anni, sono sempre più numerosi i riferimenti alla metafora della rete per rappresentare la configurazione del diritto contemporaneo. V., in particolare, il già ricordato saggio di F. OST e M. VAN DE

KERCHOVE, De la pyramide au réseau?. Nella letteratura italiana, si segnalano, ex plurimis e con differenti accenti, F. VIOLA, Autorità e ordine del diritto, Torino, 1987, p. 376 ss.; M. VOGLIOTTI, Mutations dans le champ pénal contemporain. Vers un droit pénal en réseau?, in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, 2002, p. 721 ss.; M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, p. 145 ss.; S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., passim; M. BARBERIS, Europa del diritto, cit., p. 251 ss.; B. PASTORE, Le fonti e la rete: il principio di legalità rivisitato, in G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO e P. VERONESI (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Lorenza Carlassare, I, Napoli, 2009, p. 257 ss.; M.R. FERRARESE, Il costituzionalismo globale tra “non luogo” e “dislocazioni”, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2013, pp. 431 e 438, che parla del costituzionalismo nel mondo globalizzato come di una «rete viaria assai complessa», equiparabile al «cantiere di un’intera città in costruzione, il cui piano regolatore non è del tutto definito e

La fine del “grande stile” 99

dell’interlegalità 19 – non fotografa soltanto l’ordine giuridico globale, che con evidenza «non si sovrappone come un altro strato, a quello statale»20, ma rappresenta altresì – seppur con tinte meno contrastate – il tessuto relazionale che connette gli Stati al (duplice) ordine sovranazionale europeo.

Non è necessario spendere troppe parole e richiamare la vastissima letteratura che sottolinea la specificità dell’ordinamento dell’Unione europea (non catalogabile secondo la tradizionale tassonomia monismo-dualismo), per mostrare come i rapporti tra Unione e Stati non si lascino rappresentare secondo il moderno schema gerarchico, ma piuttosto – e in prima battuta – secondo i criteri della competenza e della sussidiarietà. Non solo. All’interno delle aree di competenza europea (ampliate, a livello contestuale – e quindi in modo non pianificato dall’alto – dalla Corte di Giustizia, in settori particolarmente qualificanti come quello della tutela dei che procede sulla base di diverse iniziative», che «spesso nascono nelle periferie, e non solo sulla base di istituzioni pubbliche, ma anche di soggetti privati».

19 B. DE SOUSA SANTOS, Law: A Map of Misreading. Toward a Postmodern Conception of Law, in Journal of Law and Society, 3, 1987, pp. 298-299. L’interlegalità «is the phenomenological counterpart of legal pluralism» e esprime l’idea che «we live in a time of porous legality or of legal porosity, of multiple networks of legal orders forcing us to constant transitions and trespassing. Our legal life is constituted by an intersection of different legal orders» (p. 298).

20 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 10. Da tempo Sabino Cassese ci fornisce capitoli – ricchissimi di esemplificazioni narrative – di un «trattato di anatomia giuridica della globalizzazione» (M.R. FERRARESE, Il diritto orizzontale. L’ordinamento giuridico globale secondo Sabino Cassese, in Politica del diritto, 2007, p. 639), con particolare riferimento alla sua disciplina, il diritto amministrativo, che – in seguito all’adozione di moduli contrattuali tipici del diritto privato e sotto la spinta della «rete dei poteri globali» (p. 51) – ha perso la sua tradizionale connotazione verticale/imperativa e statuale, per seguire linee di sviluppo orizzontali (cooperative e negoziali) e assumere un aspetto ibrido (globale e statale). A quest’ultimo proposito, Cassese osserva che «è sbagliato» (p. 51) sia ritenere che i numerosi e frammentati «sistemi regolatori globali» (p. 44), generati non solo dagli Stati, ma da organi o enti substatali e da altre organizzazioni globali, siano «nelle mani degli Stati, i soli che contino», sia «pensare che le decisioni globali sfuggano agli Stati. Tra sistemi regolatori globali e regolatori nazionali c’è un’area grigia, mista. Questa serve, di volta in volta, e talora contemporaneamente, agli Stati per far sentire la propria voce nel sistema globale e a quest’ultimo per penetrare negli Stati e raggiungere la società civile e il territorio, gli elementi che sono assenti nei poteri pubblici globali» (p. 51).

100 Massimo Vogliotti

diritti e del diritto penale), le Corti costituzionali statali, franato l’argine della dottrina dualista, sono riuscite comunque a spezzare la linea gerarchica “diritto europeo/diritto nazionale”, inventandosi strumenti che consentono di far convivere, tramite un «regolamento elastico di confini» 21 , il primato europeo e la supremazia del nucleo indisponibile del patrimonio valoriale custodito nelle Costituzioni nazionali (è il caso, ad esempio, della dottrina italiana dei «contro-limiti» o della distinzione tra «supremazia» e «primato» escogitata dal Tribunale costituzionale spagnolo)22.

Se si spinge lo sguardo ai rapporti tra l’altra Europa, quella geograficamente più estesa, e gli Stati membri, la logica che li governa è sempre quella di garantire un raccordo tra ordinamento maggiore e ordinamenti minori (volutamente si evitano gli aggettivi fuorvianti “sovraordinato” e “inferiore”) che consenta di far convivere le esigenze opposte, ma egualmente meritevoli, dell’uniformità e della differenza. A tal proposito, fin dalla sentenza Handyside, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato la dottrina del “margine nazionale di apprezzamento” che permette di riservare un certo spazio di autonomia agli Stati in ambiti eticamente sensibili, dove non sussiste un’omogeneità di vedute tra i paesi membri del Consiglio d’Europa 23 . Quest’apprezzabile esigenza di tutelare le specificità nazionali incontra, tuttavia, il limite della compatibilità delle difformità locali rispetto ad una soglia – precisata prudentemente a livello centrale – diretta ad assicurare che la misura restrittiva di un diritto tutelato dalla Convenzione (nel caso ricordato si trattava della libertà di espressione) sia «necessaria in una società democratica» e proporzionata rispetto al sacrificio del diritto protetto a livello europeo.

21 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 56. 22 Per ulteriori esempi, v., oltre al saggio di Cassese ricordato nella nota

precedente, F. FONTANELLI e G. MARTINICO, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del «dialogo nascosto» fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multi-livello, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2008, p. 351 ss.

23 Sul margine nazionale di apprezzamento v. M. DELMAS-MARTY, Les forces imaginantes du droit (II). Le pluralisme ordonné, Paris, 2006, p. 78 ss. e S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 61, cui si rinvia per ulteriori informazioni bibliografiche.

100 Massimo Vogliotti

diritti e del diritto penale), le Corti costituzionali statali, franato l’argine della dottrina dualista, sono riuscite comunque a spezzare la linea gerarchica “diritto europeo/diritto nazionale”, inventandosi strumenti che consentono di far convivere, tramite un «regolamento elastico di confini» 21 , il primato europeo e la supremazia del nucleo indisponibile del patrimonio valoriale custodito nelle Costituzioni nazionali (è il caso, ad esempio, della dottrina italiana dei «contro-limiti» o della distinzione tra «supremazia» e «primato» escogitata dal Tribunale costituzionale spagnolo)22.

Se si spinge lo sguardo ai rapporti tra l’altra Europa, quella geograficamente più estesa, e gli Stati membri, la logica che li governa è sempre quella di garantire un raccordo tra ordinamento maggiore e ordinamenti minori (volutamente si evitano gli aggettivi fuorvianti “sovraordinato” e “inferiore”) che consenta di far convivere le esigenze opposte, ma egualmente meritevoli, dell’uniformità e della differenza. A tal proposito, fin dalla sentenza Handyside, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato la dottrina del “margine nazionale di apprezzamento” che permette di riservare un certo spazio di autonomia agli Stati in ambiti eticamente sensibili, dove non sussiste un’omogeneità di vedute tra i paesi membri del Consiglio d’Europa 23 . Quest’apprezzabile esigenza di tutelare le specificità nazionali incontra, tuttavia, il limite della compatibilità delle difformità locali rispetto ad una soglia – precisata prudentemente a livello centrale – diretta ad assicurare che la misura restrittiva di un diritto tutelato dalla Convenzione (nel caso ricordato si trattava della libertà di espressione) sia «necessaria in una società democratica» e proporzionata rispetto al sacrificio del diritto protetto a livello europeo.

21 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 56. 22 Per ulteriori esempi, v., oltre al saggio di Cassese ricordato nella nota

precedente, F. FONTANELLI e G. MARTINICO, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del «dialogo nascosto» fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multi-livello, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2008, p. 351 ss.

23 Sul margine nazionale di apprezzamento v. M. DELMAS-MARTY, Les forces imaginantes du droit (II). Le pluralisme ordonné, Paris, 2006, p. 78 ss. e S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 61, cui si rinvia per ulteriori informazioni bibliografiche.

La fine del “grande stile” 101

Quanto ai rapporti tra le fonti dei due ordinamenti, la spinta europea verso la sovraordinazione è bilanciata dalla controspinta statale che delimita ambiti impermeabili ai flussi normativi europei. Per limitarci all’Italia, dopo un (troppo) lungo periodo di scarsa valorizzazione della Convenzione, la Corte costituzionale – rifiutando, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il percorso ermeneutico che l’avrebbe condotta ad equiparare l’ordine convenzionale a quello dell’Unione 24 – ha stabilito che la Convezione, nel significato ad essa attribuito dalla giurisprudenza della Corte, prevale sì sulle leggi ordinarie, grazie alla copertura dell’art. 117 Cost., ma cede di fronte alla Costituzione e alle leggi pari ordinate25.

Se ora ci rivolgiamo all’ambito, più rarefatto, dei rapporti tra altri ordini giuridici, non possiamo che aspettarci, a fortiori, la medesima refrattarietà rispetto allo schema gerarchico.

È il caso, ad esempio, dei rapporti tra il Consiglio d’Europa e l’Unione europea, rapporti che la Corte di Strasburgo regola secondo il principio dell’equivalenza: se un ordinamento dà garanzie equivalenti a quello dell’altro, quest’ultimo si astiene dall’applicare le sue norme. In caso contrario, esso interviene per assicurare il rispetto dei diritti meno garantiti 26. Analogo rifiuto della logica gerarchica si ha, per fare un ultimo esempio, nei rapporti tra l’ordine regionale europeo e l’ordine globale delle Nazioni Unite. Sconfessando una decisione del Tribunale di primo grado, in forza della quale le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sarebbero vincolanti per l’Unione, la Corte di Giustizia ha stabilito, nel caso Kadi, che il primato del diritto globale non è strutturale, ma funzionale; esso non è fondato, cioè, sulla gerarchia, ma è giustificato dall’obiettivo di perseguire finalità comuni, quali, nella fattispecie, la lotta al terrorismo internazionale, sempre che ciò avvenga, però – ecco tracciato il limite – nel rispetto dei principi “costituzionali” europei27.

24 Sentenza 80/2011. 25 Sentenze 348 e 349/2007. 26 È il caso della sentenza Bosphorus c. Irlanda, 30 giugno 2005, della Corte

europea dei diritti dell’uomo, su cui v. S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 71 ss. e la nota bibliografica a p. 74.

27 Sul caso Kadi (C-402/05 ECR 2008 I-6351, Kadi v. Council), v. G. DELLA

CANANEA, Is European Constitutionalism Really “Multilevel”?, cit., p. 310 ss. e ancora S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., p. 80 ss. e la nota bibliografica a p.

102 Massimo Vogliotti

2. …o ordine poliprospettico? Gli effetti sulla scienza giuridica

Il titolo del seminario sembra inoltre suggerire che vi sia una

relazione significativa tra la topologia multilivello e l’identità della scienza giuridica, nel senso, cioè, che l’assetto multilivello degli ordinamenti contemporanei o, fuor di metafora, il diritto sovranazionale europeo e quello transnazionale della globalizzazione economica e finanziaria (cui si deve aggiungere, specie in seguito all’istituzione della Corte penale internazionale, un diritto globale – seppur embrionale – dei diritti) abbiano determinato un mutamento dell’identità della scienza giuridica o, meglio, impongano una revisione profonda delle categorie teoriche della comunità scientifica. In altre parole, le epocali trasformazioni dello spazio giuridico contemporaneo sarebbero all’origine – secondo questa prospettiva, ampiamente diffusa – di una discontinuità della linea storica tale da provocare la radicale trasformazione dei caratteri della scienza giuridica.

Tale lettura, se non proprio suggerita, almeno autorizzata, dal titolo, non mi convince. Non ritengo, infatti, che vi sia un nesso così stringente tra mutamento dell’identità della scienza giuridica e nuova configurazione dello spazio giuridico. Quest’ultima dovrebbe piuttosto intendersi come un’ulteriore, importante, tappa del processo di trasformazione della scienza giuridica, processo che si è avviato, ai margini della comunità giuridica ortodossa, già agli albori del Novecento e che ha subito una forte accelerazione nel secondo dopoguerra, in seguito alla «catastrofe»28 dei totalitarismi e della guerra. In quella riduzione del diritto al «puro fatto della volontà dello Stato cioè del gruppo o dei gruppi dominanti»29, in quella profonda «crisi del diritto»30 che ha sconvolto le coscienze

81. Sui rapporti tra Tribunali penali internazionali e Corte internazionale di giustizia (che secondo i primi non sarebbero di tipo gerarchico), v. M. DELMAS-MARTY, Les forces imaginantes, cit., p. 50 ss.

28 G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe (1950), in ID., Opere, vol. V, Milano, 1959, p. 151 ss.

29 Ivi, p. 182. 30 Sulla questione della crisi del diritto, a cui la Facoltà di Padova dedicò,

nella primavera del 1951, una serie di conferenze (poi raccolte nel volume La crisi del diritto, Padova, 1951), v. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano, p. 275 ss., che nota come la letteratura sulla

102 Massimo Vogliotti

2. …o ordine poliprospettico? Gli effetti sulla scienza giuridica

Il titolo del seminario sembra inoltre suggerire che vi sia una

relazione significativa tra la topologia multilivello e l’identità della scienza giuridica, nel senso, cioè, che l’assetto multilivello degli ordinamenti contemporanei o, fuor di metafora, il diritto sovranazionale europeo e quello transnazionale della globalizzazione economica e finanziaria (cui si deve aggiungere, specie in seguito all’istituzione della Corte penale internazionale, un diritto globale – seppur embrionale – dei diritti) abbiano determinato un mutamento dell’identità della scienza giuridica o, meglio, impongano una revisione profonda delle categorie teoriche della comunità scientifica. In altre parole, le epocali trasformazioni dello spazio giuridico contemporaneo sarebbero all’origine – secondo questa prospettiva, ampiamente diffusa – di una discontinuità della linea storica tale da provocare la radicale trasformazione dei caratteri della scienza giuridica.

Tale lettura, se non proprio suggerita, almeno autorizzata, dal titolo, non mi convince. Non ritengo, infatti, che vi sia un nesso così stringente tra mutamento dell’identità della scienza giuridica e nuova configurazione dello spazio giuridico. Quest’ultima dovrebbe piuttosto intendersi come un’ulteriore, importante, tappa del processo di trasformazione della scienza giuridica, processo che si è avviato, ai margini della comunità giuridica ortodossa, già agli albori del Novecento e che ha subito una forte accelerazione nel secondo dopoguerra, in seguito alla «catastrofe»28 dei totalitarismi e della guerra. In quella riduzione del diritto al «puro fatto della volontà dello Stato cioè del gruppo o dei gruppi dominanti»29, in quella profonda «crisi del diritto»30 che ha sconvolto le coscienze

81. Sui rapporti tra Tribunali penali internazionali e Corte internazionale di giustizia (che secondo i primi non sarebbero di tipo gerarchico), v. M. DELMAS-MARTY, Les forces imaginantes, cit., p. 50 ss.

28 G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe (1950), in ID., Opere, vol. V, Milano, 1959, p. 151 ss.

29 Ivi, p. 182. 30 Sulla questione della crisi del diritto, a cui la Facoltà di Padova dedicò,

nella primavera del 1951, una serie di conferenze (poi raccolte nel volume La crisi del diritto, Padova, 1951), v. P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano, p. 275 ss., che nota come la letteratura sulla

La fine del “grande stile” 103

dei giuristi fino ad allora anestetizzate dalla mitologia giuridica moderna, vanno individuate le radici della cesura della linea storica, della discontinuità del pensiero giuridico dell’Europa continentale, cesura e discontinuità che sono l’effetto di due eventi davvero epocali: il varo delle Costituzioni rigide e il recupero della natura pratica del sapere giuridico, recupero che è il risultato, a sua volta, della riabilitazione della tradizione aristotelica della filosofia pratica31 e, soprattutto, dell’esperienza quotidiana del giudizio di costituzionalità delle leggi.

Di questi due eventi, quello davvero cruciale non è quello giuridico-istituzionale, ma quello culturale: il fatto della Costituzione rigida – pur rilevantissimo – non era in grado, di per sé, di porre il diritto al riparo da nuove ubriacature collettive. Per ottenere quel risultato occorreva abbandonare la concezione monodimensionale del diritto, propria del positivismo giuridico (la riduzione cioè dell’intero fenomeno giuridico a manifestazione di auctoritas, la «letale riduzione del diritto a legge»)32 e vedere la Costituzione come qualcosa di profondamente diverso da una mera lex superior 33 , capace sì – diversamente dallo stato di diritto

crisi che si affermò in quegli anni «ci mostra degli intellettuali che si interrogano, che compiono un pubblico esame di coscienza, che si pongono problemi sul proprio ruolo, che si fanno domande, anche le più imbarazzanti, sulla legittimità di formalismo e legalismo finalmente valutati nel prisma impietoso di un’etica professionale» (p. 277).

31 Su questa vicenda, maturata in ambito culturale tedesco fin dagli anni Cinquanta e poi dispiegatasi nel decennio successivo, v. l’ampio saggio di F. VOLPI, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. PACCHIANI (a cura di), Filosofia pratica e scienza politica, Abano Terme, 1980, p. 11 ss.

32 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea (1943-1944), Roma, 1996, p. 86. Sulle cause della riduzione del diritto a una dimensione v. M. VOGLIOTTI, Legalità, in Enciclopedia del diritto, Annali VI, Milano, 2013, p. 385 ss.

33 Alla Costituzione, com’è noto, si guardò, invece, a lungo secondo la prospettiva tradizionale del positivismo legalista. Ne è un primo esempio emblematico la nota critica scritta nel 1947, appena fu divulgato il progetto presentato dalla Commissione dei 75, da Oreste Ranelletti. Per il prestigioso gius-pubblicista, «una costituzione deve essere la “legge” di “organizzazione fondamentale dello Stato”, quindi contenere, ma anche limitarsi alle norme supreme che regolino l’ordinamento legislativo, governativo, giudiziario dello Stato» (Note sul progetto di Costituzione presentato dalla Commissione dei settantacinque all’Assemblea costituente, in Il Foro italiano, 1947, IV, ora in Scritti giuridici scelti, I, Lo Stato, Napoli, 1992, p. 549, ricordato da P. GROSSI, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno,

104 Massimo Vogliotti

ottocentesco e protonovecentesco – d’imbrigliare il legislatore ordinario, ma incapace di svolgere quella funzione di cui la «catastrofe», «con la efficacia che solo la storia dà alle dimostrazioni» 34 , aveva mostrato l’urgenza: limitare il potere. Occorreva, in altri termini, guardare alla nuova Costituzione repubblicana non con i vecchi occhiali del paradigma moderno, sotto i quali essa appariva come espressione di un’auctoritas (qui nelle vesti dell’onnipotente potere costituente), esposta alle incursioni del legislatore costituzionale, ma osservarla con occhiali nuovi, riconoscendola come la novella incarnazione degli agraphoi nomoi di Antigone, della seconda dimensione del diritto, quella che viene non dall’alto del potere politico (la Costituzione come lex superior), ma dal basso, dagli strati profondi della società e a cui non si obbedisce per timore della sanzione, ma si aderisce spontaneamente perché persuasi della sua ratio, perché convinti della bontà del suo progetto di società libera e giusta35.

Solo con questo sguardo rinnovato della comunità scientifica (il diritto, non dobbiamo mai dimenticarlo, è – nelle sue strutture portanti – ciò che la cultura giuridica diffusa pensa e vuole che sia) si è potuto “scoprire” – rectius, costruire con il performativo della scienza giuridica – la novità della Costituzione ed edificare un nuovo paradigma giuridico i cui contorni si stanno sempre più delineando.

Per creare le condizioni di felicità di quel performativo, la comunità scientifica dovette preliminarmente sottoporsi a un faticoso e paziente lavacro culturale che bonificasse il terreno su cui aveva potuto attecchire la dottrina delle norme Lectio doctoralis per il conferimento della Laurea honoris causa in Studi politici e internazionali, Università di Macerata, 12 giugno 2013, p. 73 dell’opuscolo). Sottolinea l’importanza dello sguardo che si rivolge alla Costituzione («è decisivo il punto di vista»), G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, 2007, p. 67 ss.

34 G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, cit., p. 180. 35 Sulla Costituzione come espressione della seconda dimensione (o «lato»)

del diritto, cui si obbedisce non per coercizione ma per persuasione, v. G. ZAGREBELSKY, Il giudice delle leggi, artefice del diritto (2007), in ID., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, p. 337 ss. e, più diffusamente, ID., La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, p. 15 ss. Della Costituzione come «atto di ragione» e non di volontà dice P. GROSSI, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno (2010), in ID., Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, 2012, p. 27.

104 Massimo Vogliotti

ottocentesco e protonovecentesco – d’imbrigliare il legislatore ordinario, ma incapace di svolgere quella funzione di cui la «catastrofe», «con la efficacia che solo la storia dà alle dimostrazioni» 34 , aveva mostrato l’urgenza: limitare il potere. Occorreva, in altri termini, guardare alla nuova Costituzione repubblicana non con i vecchi occhiali del paradigma moderno, sotto i quali essa appariva come espressione di un’auctoritas (qui nelle vesti dell’onnipotente potere costituente), esposta alle incursioni del legislatore costituzionale, ma osservarla con occhiali nuovi, riconoscendola come la novella incarnazione degli agraphoi nomoi di Antigone, della seconda dimensione del diritto, quella che viene non dall’alto del potere politico (la Costituzione come lex superior), ma dal basso, dagli strati profondi della società e a cui non si obbedisce per timore della sanzione, ma si aderisce spontaneamente perché persuasi della sua ratio, perché convinti della bontà del suo progetto di società libera e giusta35.

Solo con questo sguardo rinnovato della comunità scientifica (il diritto, non dobbiamo mai dimenticarlo, è – nelle sue strutture portanti – ciò che la cultura giuridica diffusa pensa e vuole che sia) si è potuto “scoprire” – rectius, costruire con il performativo della scienza giuridica – la novità della Costituzione ed edificare un nuovo paradigma giuridico i cui contorni si stanno sempre più delineando.

Per creare le condizioni di felicità di quel performativo, la comunità scientifica dovette preliminarmente sottoporsi a un faticoso e paziente lavacro culturale che bonificasse il terreno su cui aveva potuto attecchire la dottrina delle norme Lectio doctoralis per il conferimento della Laurea honoris causa in Studi politici e internazionali, Università di Macerata, 12 giugno 2013, p. 73 dell’opuscolo). Sottolinea l’importanza dello sguardo che si rivolge alla Costituzione («è decisivo il punto di vista»), G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, 2007, p. 67 ss.

34 G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, cit., p. 180. 35 Sulla Costituzione come espressione della seconda dimensione (o «lato»)

del diritto, cui si obbedisce non per coercizione ma per persuasione, v. G. ZAGREBELSKY, Il giudice delle leggi, artefice del diritto (2007), in ID., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, p. 337 ss. e, più diffusamente, ID., La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, p. 15 ss. Della Costituzione come «atto di ragione» e non di volontà dice P. GROSSI, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno (2010), in ID., Introduzione al Novecento giuridico, Roma-Bari, 2012, p. 27.

La fine del “grande stile” 105

programmatiche36, dottrina perfettamente in linea con i presupposti teorici della scienza giuridica moderna la quale – per le caratteristiche testuali della Costituzione (una trama paratattica di principi) – non poteva riconoscervi il timbro consueto della giuridicità (un sistema ipotattico di norme), ma solo quello di un programma etico-politico rivolto al legislatore, non ancora spodestato, malgrado la Costituzione, dal suo trono di signore del diritto37.

In Italia, la premessa fondamentale per realizzare il riorientamento gestaltico nei confronti della Costituzione fu l’istituzione, nel 1956, della Corte costituzionale, un «monstrum tra

36 Com’è noto, la distinzione delle norme costituzionali in «programmatiche»

e «precettive», operata nel 1948 dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 7 febbraio 1948), recepita dalla V sezione del Consiglio di Stato in una decisione dello stesso anno (Cons. St., sez. V, 26 maggio 1948) e accolta dalla dottrina (che la approfondì con l’ulteriore distinzione tra norme precettive di applicazione immediata e differita), venne rifiutata dalla Corte costituzionale fin dalla sua prima sentenza (C. cost. 14 giugno 1956, n. 1). V., in merito, P. CALAMANDREI, La Costituzione e le leggi per attuarla (1955), Milano, 2000, p. 25 ss.

37 Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione non la discontinuità, ma la continuità con il passato è sottolineata: la giuspubblicistica dominante rimane «fedele alla vecchia dottrina dello Stato-persona quale figura astratta e ipostatizzata», riproponendo la distinzione tra politica e diritto che si traduce nel congelamento delle norme costituzionali, ridotte a principi politici rivolti al legislatore; civilisti e penalisti, da parte loro, continuano a seguire il metodo tecnico-giuridico che si riconferma, «almeno fino a tutti gli anni sessanta», come «l’abito “scientifico” del giurista, grazie al quale lo Stato e il diritto possono essere ancora sottratti alla politica, cui viene ora associata la Costituzione, e la scienza giuridica può celebrare, autoreferenzialmente, la propria continuità» (L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, 1999, pp. 57-58). Sul versante giusfilosofico, il paesaggio non cambia: da un lato, l’aspirazione ad arginare l’auctoritas del potere politico, sorta in reazione alla «catastrofe» dei totalitarismi, si traduce nell’appello all’obsoleta categoria del diritto naturale, non scorgendo nella Costituzione l’incarnazione aggiornata di quella seconda dimensione del diritto che si stava cercando; dall’altro lato, la teoria generale d’ispirazione positivistico-norma-tivista — nella versione kelseniana ridefinita da Bobbio e Scarpelli con gli strumenti della filosofia analitica — seguita a riproporre la dicotomia scienza del diritto/politica del diritto, attribuendo alla prima l’unico ed esclusivo compito di descrivere avalutativamente il diritto conditum, oscurando, in tal modo, il proprium della visione costituzionale del diritto, ossia l’inesauribile tensione ius conditum/ius condendum.

106 Massimo Vogliotti

il politico e il giuridico»38, che era la prima, importante, smentita della moderna dottrina – continentale – della divisione dei poteri39. In particolare, il principale compito specificamente assegnatole, il controllo di costituzionalità delle leggi, non poteva che spingerla a rifiutare la tesi del carattere non propriamente normativo ma programmatico, politico, delle norme costituzionali: seguire quella tesi avrebbe infatti sancito l’aborto del nuovo organo che, dopo otto anni, vedeva finalmente la luce.

Il riconoscimento del carattere pienamente normativo, giuridico, dell’intero testo costituzionale aveva ricadute dirompenti sul versante metodologico. Gli articoli della Costituzione, infatti, lungi dall’ospitare dati normativi che chiedono soltanto di essere scoperti dalla scienza e applicati dalla giurisdizione, esprimono piuttosto programmi di azione, cause finali cui deve tendere l’intera pratica giuridica. Ebbene, il quotidiano confronto con quel programma assiologico (e con quel nuovo materiale giuridico), fa comprendere alla Corte che il suo compito non consiste propriamente nel far saltare le sostanze legislative incompatibili con le più dure sostanze costituzionali; capisce ben presto che la sua missione non può esaurirsi nell’annullare leggi in contrasto con una legalità superiore 40 , ma consiste in qualcosa di più e, soprattutto, di profondamente diverso, non contemplato (e non contemplabile con le categorie giuridiche del tempo) dai padri costituenti: concorrere, insieme con tutta la magistratura ordinaria, all’attuazione del progetto costituzionale, aggiornandolo alla luce dell’evoluzione della società italiana41.

38 P. GROSSI, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico

pos-moderno, cit., p. 73. 39 Sulla radicale differenza tra la versione continentale e quella anglosassone

della dottrina della divisione dei poteri, v. G. AMATO, Il dilemma del principio maggioritario, in Quaderni costituzionali, 1994, p. 171 ss.

40 Sulla scia di Kelsen, la dottrina cercò di «mantenere la disciplina del controllo di costituzionalità delle leggi sui binari costituiti dalla dottrina delle fonti elaborata dal giuspositivismo, riconducendo le decisioni d’incosti-tuzionalità ad una forma di “legislazione negativa” (A. PIZZORUSSO, Le sentenze dei giudici costituzionali tra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo, in Costituzionalismo.it, 2, 2007, par. 2, che cita, al riguardo, P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, p. 60).

41 Come osserva Maurizio Fioravanti, la «stragrande maggioranza dei nostri costituenti [...] pensava in termini tutto sommato tradizionali, sia alla funzione giurisdizionale, ancora intesa come mera applicazione della norma positiva

106 Massimo Vogliotti

il politico e il giuridico»38, che era la prima, importante, smentita della moderna dottrina – continentale – della divisione dei poteri39. In particolare, il principale compito specificamente assegnatole, il controllo di costituzionalità delle leggi, non poteva che spingerla a rifiutare la tesi del carattere non propriamente normativo ma programmatico, politico, delle norme costituzionali: seguire quella tesi avrebbe infatti sancito l’aborto del nuovo organo che, dopo otto anni, vedeva finalmente la luce.

Il riconoscimento del carattere pienamente normativo, giuridico, dell’intero testo costituzionale aveva ricadute dirompenti sul versante metodologico. Gli articoli della Costituzione, infatti, lungi dall’ospitare dati normativi che chiedono soltanto di essere scoperti dalla scienza e applicati dalla giurisdizione, esprimono piuttosto programmi di azione, cause finali cui deve tendere l’intera pratica giuridica. Ebbene, il quotidiano confronto con quel programma assiologico (e con quel nuovo materiale giuridico), fa comprendere alla Corte che il suo compito non consiste propriamente nel far saltare le sostanze legislative incompatibili con le più dure sostanze costituzionali; capisce ben presto che la sua missione non può esaurirsi nell’annullare leggi in contrasto con una legalità superiore 40 , ma consiste in qualcosa di più e, soprattutto, di profondamente diverso, non contemplato (e non contemplabile con le categorie giuridiche del tempo) dai padri costituenti: concorrere, insieme con tutta la magistratura ordinaria, all’attuazione del progetto costituzionale, aggiornandolo alla luce dell’evoluzione della società italiana41.

38 P. GROSSI, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico

pos-moderno, cit., p. 73. 39 Sulla radicale differenza tra la versione continentale e quella anglosassone

della dottrina della divisione dei poteri, v. G. AMATO, Il dilemma del principio maggioritario, in Quaderni costituzionali, 1994, p. 171 ss.

40 Sulla scia di Kelsen, la dottrina cercò di «mantenere la disciplina del controllo di costituzionalità delle leggi sui binari costituiti dalla dottrina delle fonti elaborata dal giuspositivismo, riconducendo le decisioni d’incosti-tuzionalità ad una forma di “legislazione negativa” (A. PIZZORUSSO, Le sentenze dei giudici costituzionali tra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo, in Costituzionalismo.it, 2, 2007, par. 2, che cita, al riguardo, P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, p. 60).

41 Come osserva Maurizio Fioravanti, la «stragrande maggioranza dei nostri costituenti [...] pensava in termini tutto sommato tradizionali, sia alla funzione giurisdizionale, ancora intesa come mera applicazione della norma positiva

La fine del “grande stile” 107

È un learning by doing quello che sperimenta la Corte: mettendo in tensione il diritto che è con il diritto che deve essere per essere conforme alla Costituzione, i giudici, pur inconsapevolmente e con tentennamenti e ambiguità42, praticano nuovamente – dopo la lunga parentesi moderna – il vecchio metodo aristotelico della filosofia pratica, il cui fine, come meglio si vedrà più avanti, non è la verità ma l’agire giustamente (eupraxia), e riscoprono la natura relazionale dell’essere del diritto, il suo essere praxis e non “cosa”, “sostanza”. Nel loro lavoro quotidiano, i giudici non sono chiamati

vigente al caso concreto, sia alla centralità della legge come fonte del diritto, la cui vita non avrebbe affatto dovuto dipendere in modo così stretto e quotidiano dalla Costituzione». Con la scelta del sistema proporzionale, che avrebbe dovuto consentire l’attuazione della Costituzione con il concorso di tutte le forze sociali e politiche rappresentate in Parlamento, essi rifiutavano l’idea americana della legge come espressione del potere della maggioranza, dalla cui possibile tirannia occorreva difendersi tramite il judicial review. I nostri costituenti «conservavano invece una visione molto più ampia, e comunque diversa, della legge, che si riconnetteva» (malgrado l’esperienza dei regimi autoritari e grazie alla mitologia giuridica illuministica) «alla Rivoluzione francese, e in essa vedeva l’espressione di una razionalità di carattere generale, e anche lo strumento-principe necessario per la riforma sociale, al tempo della Rivoluzione per la distruzione dell’antico regime, e ora, in pieno Novecento, per l’attuazione della Costituzione soprattutto sul versante del principio di eguaglianza». Ciò che si verificò fu invece il protagonismo della giurisdizione, specialmente costituzionale, nell’attuazione del progetto costituzionale, giurisdizione che divenne il luogo che «più di ogni altro, e dello stesso Parlamento, [ha reso] possibile la vita concreta della Costituzione» (M. FIORAVANTI, La trasformazione del modello costituzionale, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Sistema politico e istituzioni, a cura di G. DE ROSA e G. MONINA, Soveria Mannelli, 2003, pp. 310, 306 e 308).

42 È il caso, ad esempio, del giudizio di ragionevolezza che Corte costituzionale e dottrina si sono sforzati di ancorare a un dato giuridico positivo (l’art. 3 della Costituzione), costruendolo come «rapporto di congruità tra termini solo legislativi, cioè per rimanere nel campo chiuso delle manifestazioni di volontà del legislatore, e respingere così la sfida che questa nozione porta al positivismo costituzionale». I risultati non potevano che essere deludenti, perché «l’incostituzionalità come irragionevolezza è, all’evidenza, l’apertura a un’altra dimensione del diritto, distinta da quella formale della legge»; è la testimonianza della «trionfale ricomparsa» dell’«altro lato del diritto, il lato materiale» (G. ZAGREBELSKY, Il giudice delle leggi artefice del diritto, cit., p. 350). La ragionevolezza è il tipo di razionalità proprio della ragion pratica e sfugge perciò a qualsiasi tentativo di darle un fondamento giuridico positivo perché di esso è criterio di validità: non è fondata da quello, ma di quello è fondamento.

108 Massimo Vogliotti

a conoscere le sostanze legislative nella loro oggettività, allo scopo di sopprimere quelle che risultano incompatibili con la superiore legalità costituzionale. Ciò che essi propriamente fanno è metabolizzare la legge – tramite gli strumenti delle sentenze interpretative di rigetto e delle sentenze manipolative, che si fabbricano ben presto nella prassi applicativa – in modo tale da renderla conforme all’eupraxia costituzionale; solo quando questa operazione ermeneutica risulta impraticabile la legge viene estirpata dal tessuto normativo.

Senza rendersene pienamente conto, nel loro quotidiano mettere in relazione il diritto che è (la legge) con il diritto che deve essere (la Costituzione), i giudici della Corte oltrepassano i confini della modernità e si avviano a riconquistare la seconda dimensione del diritto. Nella pratica del giudizio di costituzionalità, infatti, la Costituzione non viene trattata come una mera iper-sostanza legislativa43, come un gradino che innalza e rafforza la piramide giuridica (che, anzi, indebolisce, di più, mina alle fondamenta)44,

43 Lo sguardo che, invece, rivolge alla Costituzione Natalino Irti, del tutto

coerentemente rispetto alla prospettiva del moderno positivismo giuridico, gli fa apparire una realtà completamente diversa, che conferma la cornice teorica del monismo positivista (il diritto a una dimensione). Per Irti, infatti, «il quotidiano e affannoso discorrere, che si fa dai giuristi, di “valori” posti oltre e sopra la volontà, non restituisce un centro, ma piuttosto ne rivela l’incolmabile perdita. Quei “valori” sono collocati in carte costituzionali o dichiarazioni universali, cioè in altri documenti della volontà umana, sempre revocabili modificabili violabili. Si scopre così che essi non provengono da una fonte universalmente e incondizionatamente valida, ma esistono perché gli uomini vogliono che esistano, che il loro senso deriva dalla volontà che abbiano un senso» (N. IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004, p. 25).

44 Più che rafforzare la piramide delle fonti, la Costituzione la indebolisce. E ciò non solo e non tanto nel senso che il policentrismo istituzionale disegnato dalla Costituzione «reca con sé lo sgretolamento della gerarchia, affiancando (quando non sostituendo) ad essa, come criterio ordinatore delle fonti, la competenza» (B. PASTORE, Le fonti e la rete, cit., p. 258), ma anche e soprattutto perché la vaghezza delle norme costituzionali, che vanno, case by case, ponderate e bilanciate (dato il loro carattere pluralistico e quindi conflittuale), rappresenta un fattore di diluizione dell’impalcatura gerarchica, costantemente sottoposta all’erosione ermeneutica che viene dal basso, dalla diffusa fabbrica interpretativa che le precisa e le ridefinisce semanticamente a contatto con i fatti e con le categorie culturali di senso e di valore della società. Sullo slittamento dal criterio della gerarchia al criterio della competenza ha particolarmente insistito F. MODUGNO, Fonti del diritto (gerarchia delle), Enciclopedia del diritto,

108 Massimo Vogliotti

a conoscere le sostanze legislative nella loro oggettività, allo scopo di sopprimere quelle che risultano incompatibili con la superiore legalità costituzionale. Ciò che essi propriamente fanno è metabolizzare la legge – tramite gli strumenti delle sentenze interpretative di rigetto e delle sentenze manipolative, che si fabbricano ben presto nella prassi applicativa – in modo tale da renderla conforme all’eupraxia costituzionale; solo quando questa operazione ermeneutica risulta impraticabile la legge viene estirpata dal tessuto normativo.

Senza rendersene pienamente conto, nel loro quotidiano mettere in relazione il diritto che è (la legge) con il diritto che deve essere (la Costituzione), i giudici della Corte oltrepassano i confini della modernità e si avviano a riconquistare la seconda dimensione del diritto. Nella pratica del giudizio di costituzionalità, infatti, la Costituzione non viene trattata come una mera iper-sostanza legislativa43, come un gradino che innalza e rafforza la piramide giuridica (che, anzi, indebolisce, di più, mina alle fondamenta)44,

43 Lo sguardo che, invece, rivolge alla Costituzione Natalino Irti, del tutto

coerentemente rispetto alla prospettiva del moderno positivismo giuridico, gli fa apparire una realtà completamente diversa, che conferma la cornice teorica del monismo positivista (il diritto a una dimensione). Per Irti, infatti, «il quotidiano e affannoso discorrere, che si fa dai giuristi, di “valori” posti oltre e sopra la volontà, non restituisce un centro, ma piuttosto ne rivela l’incolmabile perdita. Quei “valori” sono collocati in carte costituzionali o dichiarazioni universali, cioè in altri documenti della volontà umana, sempre revocabili modificabili violabili. Si scopre così che essi non provengono da una fonte universalmente e incondizionatamente valida, ma esistono perché gli uomini vogliono che esistano, che il loro senso deriva dalla volontà che abbiano un senso» (N. IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004, p. 25).

44 Più che rafforzare la piramide delle fonti, la Costituzione la indebolisce. E ciò non solo e non tanto nel senso che il policentrismo istituzionale disegnato dalla Costituzione «reca con sé lo sgretolamento della gerarchia, affiancando (quando non sostituendo) ad essa, come criterio ordinatore delle fonti, la competenza» (B. PASTORE, Le fonti e la rete, cit., p. 258), ma anche e soprattutto perché la vaghezza delle norme costituzionali, che vanno, case by case, ponderate e bilanciate (dato il loro carattere pluralistico e quindi conflittuale), rappresenta un fattore di diluizione dell’impalcatura gerarchica, costantemente sottoposta all’erosione ermeneutica che viene dal basso, dalla diffusa fabbrica interpretativa che le precisa e le ridefinisce semanticamente a contatto con i fatti e con le categorie culturali di senso e di valore della società. Sullo slittamento dal criterio della gerarchia al criterio della competenza ha particolarmente insistito F. MODUGNO, Fonti del diritto (gerarchia delle), Enciclopedia del diritto,

La fine del “grande stile” 109

ma «come la punta emergente», nella sua «testualità cartacea», di un «ben più ampio continente sommerso»45, che affiora grazie alla diffusa fabbrica interpretativa; non una nuova, più dura, corteccia, ma linfa che deve irrorare, in ogni momento applicativo, l’intera pratica giuridica.

In seguito alla diagnosi weberiana del disincantamento del mondo e del politeismo dei valori, la Costituzione è l’unica via praticabile per il «ristabilimento del dualismo del diritto»46 e per consentire ai giuristi dell’Europa continentale di ricucire lo strappo con la cultura giuridica inglese che, pur aprendosi alle nuove vicende della modernità (la rivoluzione individualistica, la formazione dello Stato moderno, l’economia capitalistica) e malgrado alcuni, anche robusti, tentativi d’importare oltremanica la concezione monodimensionale del diritto e il metodo razionalistico dei giuristi di civil law, insieme con il suo frutto più celebrato, il codice47, non ha mai reciso i legami con la tradizione antica e

Aggiornamento, I, 1997, p. 561 ss. e ID., A mo’ d’introduzione. Considerazioni sulla “crisi” della legge, in ID. (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, II. Crisi della legge e sistema delle fonti, Milano, 2000, p. 60, in cui sottolinea come «la supremazia della Costituzione è [...] di natura diversa rispetto a quella della legge e perciò non si sostituisce ad essa — essendo per di più data una tantum — non si limita ad aggiungere un nuovo gradino nella gerarchia delle fonti. Semmai, dissolve lo schema gerarchico, disponendo della legge, stabilendo ambiti di materie ad essa sottratti, creando nuove fonti da affiancarle, limitandone il contenuto».

45 P. GROSSI, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno, cit., p. 76.

46 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., p. 70. Il lettore potrebbe forse obiettare che un’altra via sussiste: quella seguita dalla cultura giuridica inglese, che ha puntato non su un astratto e immutabile diritto naturale, ma sul concreto e mutevole common law of the land. A tale obiezione si può rispondere osservando che la cultura giuridica inglese non ha conosciuto la rottura epistemologica moderna (e la conseguente amputazione di una delle due dimensioni del diritto). Dopo quell’amputazione – e dopo la moderna rimozione dell’oralità nel diritto (su cui v. M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione, Bologna, 2000, pp. 159-225 e M. VOGLIOTTI, De l’auteur au «rhapsode» ou le retour de l’oralité dans le droit contemporain, in Revue interdisciplinaire d’études juridiques, 2003, pp. 81-137) – non era più possibile ricorrere alla legge non scritta di Antigone: l’unica via praticabile era quella della scrittura, di un Testo ieratico posto al di sopra della legge del principe.

47 Spiccano, in vario modo, i nomi di Hobbes (che, nel Dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England, inizia la sua

110 Massimo Vogliotti

medievale della filosofia pratica, ciò che le ha consentito di mantenere viva la tensione feconda tra le due dimensioni del diritto, il diritto che è (il diritto positum: statute law) e il diritto che deve essere per essere accettato come “giusto” dalla società e dalla «ragione artificiale»48 dei giuristi (il common law of the land)49. Nelle attuali società pluralistiche e multiculturali, l’appello alla categoria che fino alla rottura positivistica aveva incarnato le esigenze della seconda dimensione del diritto – il diritto naturale – esperimento pur tentato nell’immediato dopoguerra, non è più

polemica con il common law e a favore del diritto legislativo con la critica dell’idea di “ragione artificiale” sostenuta da Coke, cui oppone una concezione volontaristica del diritto) e di Bentham (anch’egli, come noto, critico del common law a cui contrappone il modello codicistico tipico dell’illuminismo razionalistico).

48 Sulla celebre distinzione di Coke tra artificial reason, quella che mancava al re (nella specie Giacomo I), e natural reason, v. G. FASSÒ, La legge della ragione (1964), Milano, 1999, p. 221 ss.).

49 Come bene osserva G. PALOMBELLA, Il rule of law. Argomenti di una teoria (giuridica) istituzionale, in Sociologia del diritto, 2009, pp. 46-47, diversamente dalla nozione continentale di “stato di diritto”, quella inglese di rule of law «dipende da una distinzione: da un lato, quel versante del diritto che appartiene al paese, alla terra, che ne protegge l’idea positiva di giustizia e dà alle libertà ciò che è loro dovuto; è il versante formato dalle decisioni giudiziarie, dal common law, dalle convenzioni costituzionali. Dall’altro il gubernaculum e la volontà del sovrano, gli obiettivi che questi si è dato, le sue politiche “di governo”. Pertanto, da una parte, si dà ciò che in concreto costituisce il tessuto delle condizioni storiche minime della coesistenza, necessarie per il rispetto dell’individualità degli esseri umani; dall’altra, la sfera del bene (incluso il bene “comune”), e l’evoluzione delle scelte operate da una comunità nel tempo». Questa natura “relazionale” del diritto (che reca perciò impressa nel suo codice genetico l’idea del limite) si manifesta nella stessa legge, la quale non è concepita come espressione di una volontà unilaterale, ma come un accordo tra le tre componenti del potere legislativo (la Camera dei Comuni, quella dei Lords e il re); come «“prodotto di giustizia”, piuttosto che di volontà politica sovrana» (G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, p. 27, che precisa come, all’origine, lo stesso Parlamento inglese poteva considerarsi, «al modo medievale, una Corte di giustizia. La procedura parlamentare non era agli antipodi rispetto a un modello giudiziario. In entrambi i casi valeva l’esigenza del due process che implicava la garanzia per tutte le parti e per tutte le posizioni di poter far valere le proprie ragioni (audiatur et altera pars) in procedimenti imparziali»).

110 Massimo Vogliotti

medievale della filosofia pratica, ciò che le ha consentito di mantenere viva la tensione feconda tra le due dimensioni del diritto, il diritto che è (il diritto positum: statute law) e il diritto che deve essere per essere accettato come “giusto” dalla società e dalla «ragione artificiale»48 dei giuristi (il common law of the land)49. Nelle attuali società pluralistiche e multiculturali, l’appello alla categoria che fino alla rottura positivistica aveva incarnato le esigenze della seconda dimensione del diritto – il diritto naturale – esperimento pur tentato nell’immediato dopoguerra, non è più

polemica con il common law e a favore del diritto legislativo con la critica dell’idea di “ragione artificiale” sostenuta da Coke, cui oppone una concezione volontaristica del diritto) e di Bentham (anch’egli, come noto, critico del common law a cui contrappone il modello codicistico tipico dell’illuminismo razionalistico).

48 Sulla celebre distinzione di Coke tra artificial reason, quella che mancava al re (nella specie Giacomo I), e natural reason, v. G. FASSÒ, La legge della ragione (1964), Milano, 1999, p. 221 ss.).

49 Come bene osserva G. PALOMBELLA, Il rule of law. Argomenti di una teoria (giuridica) istituzionale, in Sociologia del diritto, 2009, pp. 46-47, diversamente dalla nozione continentale di “stato di diritto”, quella inglese di rule of law «dipende da una distinzione: da un lato, quel versante del diritto che appartiene al paese, alla terra, che ne protegge l’idea positiva di giustizia e dà alle libertà ciò che è loro dovuto; è il versante formato dalle decisioni giudiziarie, dal common law, dalle convenzioni costituzionali. Dall’altro il gubernaculum e la volontà del sovrano, gli obiettivi che questi si è dato, le sue politiche “di governo”. Pertanto, da una parte, si dà ciò che in concreto costituisce il tessuto delle condizioni storiche minime della coesistenza, necessarie per il rispetto dell’individualità degli esseri umani; dall’altra, la sfera del bene (incluso il bene “comune”), e l’evoluzione delle scelte operate da una comunità nel tempo». Questa natura “relazionale” del diritto (che reca perciò impressa nel suo codice genetico l’idea del limite) si manifesta nella stessa legge, la quale non è concepita come espressione di una volontà unilaterale, ma come un accordo tra le tre componenti del potere legislativo (la Camera dei Comuni, quella dei Lords e il re); come «“prodotto di giustizia”, piuttosto che di volontà politica sovrana» (G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, p. 27, che precisa come, all’origine, lo stesso Parlamento inglese poteva considerarsi, «al modo medievale, una Corte di giustizia. La procedura parlamentare non era agli antipodi rispetto a un modello giudiziario. In entrambi i casi valeva l’esigenza del due process che implicava la garanzia per tutte le parti e per tutte le posizioni di poter far valere le proprie ragioni (audiatur et altera pars) in procedimenti imparziali»).

La fine del “grande stile” 111

storicamente proponibile: suonerebbe come «un grido di guerra civile, un appello alla divisione, alla discriminazione»50.

Questo riorientamento gestaltico nei confronti della Costituzione – primo significativo frutto di una scienza giuridica che, nel suo fronte avanzato e con non poche resistenze, stava ricostruendo la propria identità e riconquistando la sua dignità di scienza – viene sancito formalmente dalla Corte costituzionale mediante un nuovo performativo che si aggiunge – rafforzandolo – a quello con cui, quindici anni prima, aveva rigettato la dottrina delle norme programmatiche. Si allude alla costruzione della categoria dei «principi supremi», sottratti al potere dispositivo del legislatore costituzionale e, tramite la già ricordata dottrina dei «controlimiti», al riparo altresì da eventuali aggressioni provenienti dal diritto sovranazionale europeo 51 . Con questa operazione si porta a compimento – con un atto formale, ribadito dalla giurisprudenza successiva e sostenuto dalla cultura costituzionalistica che, nel frattempo, aveva anch’essa “scoperto”, con le altre comunità giuridiche italiane, la novità rappresentata dalla Costituzione – il percorso che ha condotto a riguadagnare un ambito – quello dei valori fondamentali della società – che il paradigma moderno aveva finito per spingere fuori del diritto e quindi del campo d’indagine della scienza giuridica.

Come si è già accennato, questo percorso, che chiude la lunga parentesi dell’«assolutismo giuridico moderno» 52 , è parte di un itinerario più lungo – che non si è ancora concluso – di ridefinizione dell’identità della scienza giuridica. La vicenda, più

50 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., p. 71. A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità (1990), in ID., Filosofia del diritto ed ermeneutica, Milano, 2003, p. 277, dopo aver affermato che «oggi non ci può più essere nessun ritorno al diritto naturale classico», individua il definitivo punto di non ritorno nel pensiero di Kant: «Egli ci ha insegnato che i contenuti derivano dall’esperienza e perciò valgono solo a posteriori».

51 La prima pronuncia della Corte in cui compare la categoria dei “principi supremi” è la sentenza del 24 febbraio 1971, n. 30. Due anni dopo la Corte elabora la nozione dei “controlimiti” nella celebre sentenza 27 dicembre 1973, n. 183. In merito, v., rispettivamente, M. PIAZZA, I limiti alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, Padova, 2002 e M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995.

52 P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998 specialmente il saggio d’apertura Ancora sull’assolutismo giuridico (ossia: della ricchezza e della libertà dello storico del diritto).

112 Massimo Vogliotti

recente, dell’europeizzazione e della globalizzazione del diritto non apre una nuova, autonoma, via, ma si inserisce in quello stesso percorso di ricerca identitaria avviato nel secondo dopoguerra. Allo stesso modo in cui la Costituzione non ha introdotto un nuovo e superiore livello di legalità, così queste ulteriori, profonde, trasformazioni dello spazio giuridico non hanno aggiunto nuovi livelli di legalità, ma piuttosto ulteriori prospettive costituzionali, nuovi custodi dei diritti e, più in generale, della seconda dimensione del diritto.

Per quanto riguarda la prospettiva europea, la riconquista della seconda dimensione del diritto si deve a un autorevole organo giurisdizionale, la Corte di Giustizia, che, «nella empiria di una prassi quotidiana» 53 , è giunta a vincolare il diritto europeo al rispetto dei diritti fondamentali «quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario»54. Come osserva Paolo Grossi, «il nuovo ordine giuridico europeo, che assume giustamente l’individuazione e il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo al cuore del suo programma, ha il proprio basamento non in una norma progettata e scritta nei palazzi alti del potere, ma nella stessa storia dei popoli, nelle tradizioni che i popoli hanno accumulato nella loro vicenda storica, nelle radici solidissime di principi non scritti»55.

Anche nel più vasto spazio globale si scorgono i primi «segni di un processo di costituzionalizzazione del diritto»56, seppur in forma ancora embrionale e con differenti accenti di tutela a seconda della regione e del settore considerati. Nella più tradizionale regione del diritto internazionale, la riconquista della seconda dimensione del diritto, e quindi l’imposizione di limiti all’azione degli Stati, è avvenuta, ad opera della dottrina internazionalistica, attraverso la

53 P. GROSSI, Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto

(2009), ora in Paolo Grossi, a cura di G. ALPA, Roma-Bari, 2011, p. 31 54 La formula è quella scolpita nell’art. 6 del Trattato di Maastricht, che, nella

fondazione della nuova realtà politico-giuridica, recepisce il performativo della Corte di Giustizia. V., per la ricostruzione dell’intera vicenda, A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002.

55 P. GROSSI, Un impegno per il giurista di oggi, cit., p. 31. 56 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 62. In merito, v. anche G. PALOMBELLA, È

possibile una legalità globale?, cit.

112 Massimo Vogliotti

recente, dell’europeizzazione e della globalizzazione del diritto non apre una nuova, autonoma, via, ma si inserisce in quello stesso percorso di ricerca identitaria avviato nel secondo dopoguerra. Allo stesso modo in cui la Costituzione non ha introdotto un nuovo e superiore livello di legalità, così queste ulteriori, profonde, trasformazioni dello spazio giuridico non hanno aggiunto nuovi livelli di legalità, ma piuttosto ulteriori prospettive costituzionali, nuovi custodi dei diritti e, più in generale, della seconda dimensione del diritto.

Per quanto riguarda la prospettiva europea, la riconquista della seconda dimensione del diritto si deve a un autorevole organo giurisdizionale, la Corte di Giustizia, che, «nella empiria di una prassi quotidiana» 53 , è giunta a vincolare il diritto europeo al rispetto dei diritti fondamentali «quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario»54. Come osserva Paolo Grossi, «il nuovo ordine giuridico europeo, che assume giustamente l’individuazione e il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo al cuore del suo programma, ha il proprio basamento non in una norma progettata e scritta nei palazzi alti del potere, ma nella stessa storia dei popoli, nelle tradizioni che i popoli hanno accumulato nella loro vicenda storica, nelle radici solidissime di principi non scritti»55.

Anche nel più vasto spazio globale si scorgono i primi «segni di un processo di costituzionalizzazione del diritto»56, seppur in forma ancora embrionale e con differenti accenti di tutela a seconda della regione e del settore considerati. Nella più tradizionale regione del diritto internazionale, la riconquista della seconda dimensione del diritto, e quindi l’imposizione di limiti all’azione degli Stati, è avvenuta, ad opera della dottrina internazionalistica, attraverso la

53 P. GROSSI, Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto

(2009), ora in Paolo Grossi, a cura di G. ALPA, Roma-Bari, 2011, p. 31 54 La formula è quella scolpita nell’art. 6 del Trattato di Maastricht, che, nella

fondazione della nuova realtà politico-giuridica, recepisce il performativo della Corte di Giustizia. V., per la ricostruzione dell’intera vicenda, A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002.

55 P. GROSSI, Un impegno per il giurista di oggi, cit., p. 31. 56 S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 62. In merito, v. anche G. PALOMBELLA, È

possibile una legalità globale?, cit.

La fine del “grande stile” 113

categoria dello ius cogens, consacrata, nel 1969, dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati57.

In generale, «nell’arena globale» il profilarsi di una rule of law di uguali dimensioni si deve all’azione sinergica di due fattori: l’affermarsi progressivo di «un corpo di principi generali comuni», d’indole soprattutto procedurale58, e la penetrazione, oltre i confini statali, della tutela giurisdizionale, assicurata (in modi spesso ancora rudimentali e senza rotture rispetto al tradizionale sistema negoziale di soluzione delle controversie attraverso i canali diplomatici) da corti e organi quasi-giurisdizionali che sono cresciuti rapidamente a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, dando luogo a fenomeni di concorrenza e di frizione che si accentuano nei casi in cui le corti appartengano ad ordini giuridici settoriali dotati di «diversa ragione sociale»59.

Il progressivo affollamento della scena giurisdizionale europea e globale può apparire, se osservato con i vecchi occhiali del giurista moderno, una preoccupante fonte di confusione e di contrasti tra ordini e giurisdizioni a cui porre rimedio tracciando nitide linee di confine e stabilendo precise relazioni gerarchiche tra corti (e tra Carte dei diritti). Questo stesso fenomeno, tuttavia, se osservato senza quegli occhiali deformanti, appare, invece, come un arricchimento delle prospettive costituzionali che va preservato.

Come sembra suggerire anche la nostra Corte costituzionale nella sentenza 388 del 1999, dove si afferma che le diverse formule ospitate nei vari cataloghi dei diritti «si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione», nel campo della protezione dei diritti la questione relativa al pedigree della fonte non è

57 Sulla genesi e sui contenuti dello ius cogens, v. A. CASSESE, Diritto

internazionale, vol. I, I lineamenti, Bologna, 2003, p. 234 ss. 58 Così Sabino Cassese che ne traccia un sintetico elenco: «Principio di

legalità, diritto di partecipare alla formazione delle norme (notice and comment, riconosciuto dall’Oie), obbligo di consultazione (imposto dalla World Bank alle amministrazioni domestiche nell’ambito della Heavily Indebted Poor Countries Initiative), diritto di essere ascoltati (procedural participation riconosciuta dalla Fatf e dall’Appelate Body del Wto), diritto di accesso ai documenti amministrativi, obbligo di motivazione degli atti amministrativi (l’obbligo di adottare una reasoned decision, fatto rispettare dall’Appellate Body del Wto), diritto di ottenere decisioni prese sulla base di dati scientifici e controllabili, principio di proporzionalità» (S. CASSESE, Oltre lo Stato, cit., p. 59).

59 G. PALOMBELLA, È possibile una legalità globale?, cit., p. 13.

114 Massimo Vogliotti

fondamentale. In quanto espressione non di auctoritas ma dell’altro lato del diritto, e cioè del patrimonio valoriale della società nel suo sviluppo storico, i diritti non sono un catalogo chiuso e fossilizzato nei testi dell’una o dell’altra Carta, ma il prodotto – sempre in evoluzione – della maturazione della cultura giuridica e delle trasformazioni dell’ethos della società. Il primato qui non va alla fonte (al testo scritto, che è solo l’epifenomeno di una realtà ben più profonda), ma all’interpretazione che consente alle Carte di mantenere vivo il legame con il lato del diritto a cui costitutivamente appartengono60.

Tra i documenti relativi ai diritti non si dà dunque una gerarchia precostituita in astratto, ma piuttosto in essi va ravvisata e valorizzata una comune vocazione a servire, «simultaneamente e paritariamente» – non «l’uno sotto o sopra rispetto all’altro», ma «l’uno accanto all’altro»61 – la causa dei diritti. Il coordinamento tra questi materiali giuridici, e il bilanciamento tra i principi in essi contenuti, è assicurato, nei vari contesti applicativi e a partire dalle prospettive ordinamentali loro proprie, dai «tribunali di Babele»62 attraverso un confronto dialogico – che si nutre della disponibilità al reciproco ascolto e si ispira, come si è accennato, a criteri di raccordo volti a preservare certi ambiti di autonomia ordinamentale – finalizzato alla tutela effettiva e ben ponderata dei diritti. È in questo dialogo diffuso – in cui l’unica forma di primato davvero significativa è quella culturale dell’autorevolezza guada-gnata sul campo – tra una pluralità di custodi dei diritti, appartenenti a orizzonti culturali e geografici differenti e non disposti su una scala gerarchica, che si può sperare di garantire una migliore tutela dei diritti. Va quindi respinta la tentazione, tipica del giurista moderno, sempre mosso dall’aspirazione alla reductio ad unum, di costruire una torre di Babele costituzionale, di superare, cioè, il fecondo pluralismo delle voci – che frammenta il potere e arricchisce il campo semantico dei diritti – affidando ad una sola corte il diritto all’ultima parola, con il risultato di produrre una grande concentrazione di potere – e di responsabilità – nelle

60 Nella stessa prospettiva, v. A. RUGGERI, Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in Associazione italiana dei costituzionalisti, 1/2001, p. 5.

61 Ivi, pp. 11 e 8. 62 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit.

114 Massimo Vogliotti

fondamentale. In quanto espressione non di auctoritas ma dell’altro lato del diritto, e cioè del patrimonio valoriale della società nel suo sviluppo storico, i diritti non sono un catalogo chiuso e fossilizzato nei testi dell’una o dell’altra Carta, ma il prodotto – sempre in evoluzione – della maturazione della cultura giuridica e delle trasformazioni dell’ethos della società. Il primato qui non va alla fonte (al testo scritto, che è solo l’epifenomeno di una realtà ben più profonda), ma all’interpretazione che consente alle Carte di mantenere vivo il legame con il lato del diritto a cui costitutivamente appartengono60.

Tra i documenti relativi ai diritti non si dà dunque una gerarchia precostituita in astratto, ma piuttosto in essi va ravvisata e valorizzata una comune vocazione a servire, «simultaneamente e paritariamente» – non «l’uno sotto o sopra rispetto all’altro», ma «l’uno accanto all’altro»61 – la causa dei diritti. Il coordinamento tra questi materiali giuridici, e il bilanciamento tra i principi in essi contenuti, è assicurato, nei vari contesti applicativi e a partire dalle prospettive ordinamentali loro proprie, dai «tribunali di Babele»62 attraverso un confronto dialogico – che si nutre della disponibilità al reciproco ascolto e si ispira, come si è accennato, a criteri di raccordo volti a preservare certi ambiti di autonomia ordinamentale – finalizzato alla tutela effettiva e ben ponderata dei diritti. È in questo dialogo diffuso – in cui l’unica forma di primato davvero significativa è quella culturale dell’autorevolezza guada-gnata sul campo – tra una pluralità di custodi dei diritti, appartenenti a orizzonti culturali e geografici differenti e non disposti su una scala gerarchica, che si può sperare di garantire una migliore tutela dei diritti. Va quindi respinta la tentazione, tipica del giurista moderno, sempre mosso dall’aspirazione alla reductio ad unum, di costruire una torre di Babele costituzionale, di superare, cioè, il fecondo pluralismo delle voci – che frammenta il potere e arricchisce il campo semantico dei diritti – affidando ad una sola corte il diritto all’ultima parola, con il risultato di produrre una grande concentrazione di potere – e di responsabilità – nelle

60 Nella stessa prospettiva, v. A. RUGGERI, Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in Associazione italiana dei costituzionalisti, 1/2001, p. 5.

61 Ivi, pp. 11 e 8. 62 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit.

La fine del “grande stile” 115

mani di poche persone e di perdere lo sguardo poliprospettico sui diritti che ha fortemente contribuito all’intensificazione della loro tutela63.

Oltre all’arricchimento delle prospettive costituzionali di tutela dei diritti – che hanno ulteriormente indebolito la dimensione verticale del diritto – le profonde trasformazioni dello spazio giuridico hanno contribuito – lo si è già accennato – ad accelerare il processo di ridefinizione dell’identità della scienza giuridica e, in generale, di costruzione di un nuovo paradigma.

Con l’aumento della complessità della scena giuridica contemporanea, per effetto dell’europeizzazione e della globalizzazione del diritto, si approfondiscono le discrasie tra la mappa teorica e la realtà. Grazie a questi cantieri dell’innovazione e allo sguardo rigenerato dall’incontro con la cultura giuridica di common law – che fa compiere, al giurista continentale, un ulteriore passo verso il pieno recupero della natura pratica del sapere giuridico – si manifestano, sotto una luce più vivida, fenomeni che di fatto erano già presenti nel territorio statale, ma in modo meno visibile, perché di dimensioni più ridotte e velati dall’impalcatura teorica e mitologica del paradigma moderno. Non solo. Queste anomalie del paradigma (la giurisprudenza fonte, la retroattività dei mutamenti giurisprudenziali, la perdita del monopolio della legge nel campo penale, gli obblighi giurisdizionali di tutela penale che sanciscono la fine dell’arbitrio del legislatore di non punire 64 , la produzione privata del diritto ad opera degli

63 Analoghe considerazioni in A. RUGGERI, Rapporti tra Corte costituzionale e

Corti europee, cit., p. 12, nota 44, in cui si paventa che un’ipotetica Corte dotata del «diritto di ultima parola sulle questioni di diritto costituzionale (anche nelle loro proiezioni interordinamentali)» possa trasformarsi in un «potere costituente permanente». Sul punto, v. anche M.R. FERRARESE, Dal “verbo” legislativo a chi dice l’“ultima parola”: le corti costituzionali e la rete giudiziaria, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2011, pp. 84-85, che – dopo aver sottolineato come «la moltiplicazione di sedi giudiziarie», causata dal «costituzionalismo globale», abbia determinato «una grande dispersione [...] del potere di dire l’“ultima parola”» – osserva come oggi «la sfida è la costruzione di una semantica che, mentre non può più contare sulla chiusura, riesce a convivere con l’apertura, la capacità di dialogo, senza rinunciare ad alcune cesure (sia pure temporanee e provvisorie) nel dialogo».

64 F. VIGANÒ, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, IV, Napoli, 2011, p. 2645 ss.

116 Massimo Vogliotti

uomini di affari e delle grandi law firms)65 non solo appaiono, sotto la lente sovranazionale e transnazionale, in forme più macroscopiche, ma cessano di essere viste solo come aberrazioni patologiche della realtà per ricevere, dai nuovi attori della scena europea e globale, un riconoscimento formale che finisce per essere recepito, seppur in forme non (ancora) così esplicite e compiute, dagli stessi attori statali, specie giurisdizionali66.

Quei mutamenti della realtà del diritto e quel rinnovamento dello sguardo teorico, da un lato, hanno aggravato la crisi delle categorie teoriche moderne (la statualità del diritto, la sovranità, la necessità di una legittimazione politica, mediante elezione, per ogni forma di

65 Già negli anni Quaranta e Cinquanta, il fenomeno della produzione del

diritto ad opera degli uomini di affari era stato diagnosticato da Tullio Ascarelli, le cui insistenze, volte a dilatare fino a tal punto la nozione di fonte, erano ritenute, allora, «bizzarrie di un grand’uomo» (così P. GROSSI, La formazione del giurista e l’esigenza di un odierno ripensamento metodologico, in Quaderni fiorentini, 32, 2003, p. 45). V., in merito, le considerazioni di P. GROSSI, Le aporie dell’assolutismo giuridico (ripensare, oggi, la lezione metodologica di Tullio Ascarelli), in Assolutismo giuridico, cit., p. 354 ss.

66 In questi ultimi anni gli esempi sono lievitati, provenienti soprattutto dalla Corte di Cassazione, un collegio che nulla ha più in comune con quello del (lungo) dopoguerra in cui era tetragona guardiana dell’antico. Uno per tutti. Con la sentenza 21 gennaio 2010, n. 18288, in Cassazione penale, 2011, p. 17 ss. (con una nota di R. RUSSO, Il ruolo della law in action e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle Sezioni Unite. Un tema ancora aperto), le Sezioni Unite, recependo la linea giurisprudenziale europea, hanno sancito che «il reale significato della norma, in un determinato contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa». Il giudice, prosegue la Corte, «riveste un ruolo fondamentale nella precisazione dell’esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l’interpretazione che ne viene data. La struttura generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza» (par. 4 e 7 della parte in diritto). Da questa concezione “allargata” della legalità, la Corte ha tratto «la conclusione che l’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone di includere nel concetto di nuovo “elemento di diritto” idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il “diritto vivente”» (par. 9). La Corte era stata chiamata a decidere «se il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite renda ammissibile o no la riproposizione della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza negata» (par. 1).

116 Massimo Vogliotti

uomini di affari e delle grandi law firms)65 non solo appaiono, sotto la lente sovranazionale e transnazionale, in forme più macroscopiche, ma cessano di essere viste solo come aberrazioni patologiche della realtà per ricevere, dai nuovi attori della scena europea e globale, un riconoscimento formale che finisce per essere recepito, seppur in forme non (ancora) così esplicite e compiute, dagli stessi attori statali, specie giurisdizionali66.

Quei mutamenti della realtà del diritto e quel rinnovamento dello sguardo teorico, da un lato, hanno aggravato la crisi delle categorie teoriche moderne (la statualità del diritto, la sovranità, la necessità di una legittimazione politica, mediante elezione, per ogni forma di

65 Già negli anni Quaranta e Cinquanta, il fenomeno della produzione del

diritto ad opera degli uomini di affari era stato diagnosticato da Tullio Ascarelli, le cui insistenze, volte a dilatare fino a tal punto la nozione di fonte, erano ritenute, allora, «bizzarrie di un grand’uomo» (così P. GROSSI, La formazione del giurista e l’esigenza di un odierno ripensamento metodologico, in Quaderni fiorentini, 32, 2003, p. 45). V., in merito, le considerazioni di P. GROSSI, Le aporie dell’assolutismo giuridico (ripensare, oggi, la lezione metodologica di Tullio Ascarelli), in Assolutismo giuridico, cit., p. 354 ss.

66 In questi ultimi anni gli esempi sono lievitati, provenienti soprattutto dalla Corte di Cassazione, un collegio che nulla ha più in comune con quello del (lungo) dopoguerra in cui era tetragona guardiana dell’antico. Uno per tutti. Con la sentenza 21 gennaio 2010, n. 18288, in Cassazione penale, 2011, p. 17 ss. (con una nota di R. RUSSO, Il ruolo della law in action e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle Sezioni Unite. Un tema ancora aperto), le Sezioni Unite, recependo la linea giurisprudenziale europea, hanno sancito che «il reale significato della norma, in un determinato contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa». Il giudice, prosegue la Corte, «riveste un ruolo fondamentale nella precisazione dell’esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l’interpretazione che ne viene data. La struttura generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza» (par. 4 e 7 della parte in diritto). Da questa concezione “allargata” della legalità, la Corte ha tratto «la conclusione che l’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone di includere nel concetto di nuovo “elemento di diritto” idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il “diritto vivente”» (par. 9). La Corte era stata chiamata a decidere «se il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite renda ammissibile o no la riproposizione della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza negata» (par. 1).

La fine del “grande stile” 117

produzione del diritto, la gerarchia delle fonti, il principio della divisione dei poteri, la dicotomia fatto/diritto e scienza del diritto/politica del diritto, la netta separazione tra diritto sostanziale e processo, con la supremazia del primo sul secondo, il modello sillogistico del ragionamento giuridico, la natura dichiarativa dell’interpretazione e la funzione meramente riproduttiva, esecutiva, della giurisdizione) e, dall’altro lato, hanno fornito un importante contributo alla creazione di nuove categorie teoriche, più attente alla sostanza valoriale che alla forma, all’effettività che alla validità formale. È il caso, per limitarci al contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo – che, con la sua logica floue67 e la sua particolare attenzione alle peculiarità dei contesti applicativi, è il laboratorio più produttivo di novità – delle nozioni di «materia penale»68 e di «sostanza dell’incriminazione»69, dell’esigenza che la tutela dei diritti non sia soltanto promessa in the books, ma si realizzi concretamente attraverso un’«indagine effettiva»70 e della risemantizzazione della nozione di legge (e, di

67 Sulla logica floue o fuzzy della Corte di Strasburgo ha particolarmente

insistito Mireille DELMAS-MARTY (v. Le flou du droit: du Code pénal aux droits de l’homme, Paris, 1986 e, con J.F. COSTE, Logiques non standard et droit: l’exemple des droits de l’homme, in Le genre humain, 1998, p. 135 ss.). In merito, ci permettiamo di segnalare anche M. VOGLIOTTI., La logica floue della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», in Giurisprudenza italiana, 1998, V, c. 851 ss.

68 Su questa nozione, v. La «matière pénale» comme flou du droit pénal, a cura del Groupe de recherche droits de l’homme et logiques juridiques, diretto da M. DELMAS-MARTY, in Revue de science criminelle, 1987, p. 819 ss.

69 Consapevole della fragilità e dell’ambiguità del limite rappresentato dal tenore lessicale dell’enunciato, la Corte utilizza (anche) questa nozione assiologicamente connotata, che rinvia al tipo di disvalore sanzionato dalla norma incriminatrice, per tracciare il limite del diritto giurisprudenziale (sul punto, v. M. VOGLIOTTI, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia nel diritto penale, Torino, 2011, p. 121 ss.).

70 Nell’intento di assicurare una tutela effettiva dei diritti, la Corte pone a carico dello Stato il dovere di svolgere, nei casi di violazione di determinati diritti fondamentali (in particolare il diritto alla vita e quello a non essere sottoposti a tortura) «a thorough and effective investigation capable of leading to the identification and punishment of those responsible, including effective access for the complainant to the investigatory procedure» (Sent. 2 novembre 2004, Abdülsamet Yaman c. Turchia, par. 53). A tal fine, la Corte ha elaborato un’autonoma categoria di obblighi c.d. procedurali che comprendono il carattere

118 Massimo Vogliotti

riflesso, di legalità), che, anche in ambito penale, non si definisce più per il suo involucro formale – potendo provenire, come la lex medievale, da diverse fonti, anche non scritte – ma per la sua sostanza, dovendo superare un test qualitativo volto ad accertare la concreta «accessibilità» e la ragionevole «prevedibilità» della norma71.

3. La crisi del “grande stile” Nelle pagine precedenti è già emersa, seppur in modo indiretto,

la condizione spirituale in cui versa oggi la scienza giuridica. Prendendo spunto dal modello delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, si potrebbe qualificare il tempo presente come un tempo di «scienza straordinaria», caratterizzato dalla crisi del vecchio paradigma – quell’insieme di «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca» 72 – e dalla progressiva proliferazione di nuove ipotesi teoriche, spesso in competizione tra loro e sostenute da metafore immaginifiche73, che preludono alla formazione di un nuovo paradigma, da cui prenderà avvio una nuova fase di «scienza normale»74. L’attuale tempo di

ex officio del procedimento, la sua trasparenza, diligenza e celerità, l’indipendenza effettiva («pratica») delle autorità incaricate delle indagini e la possibilità di partecipazione attiva della vittima all’intera procedura. Sulla questione la Corte è ritornata recentemente con la sentenza della Grande Chambre, 12 novembre 2013, Söderman c. Suède.

71 V., in proposito, V. ZAGREBELSKY, La Convezione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in ID. e V. MANES, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, p. 69 ss. Sulla nozione medievale di “legge”, v. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, p. 135 ss.

72 T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (I ed., 1962; II ed., 1970), Torino, 1999, p. 10.

73 Per un ricco campionario, v. M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto, cit., pp. 12-14. 74 La fase della “scienza normale” è quella che si apre dopo un periodo

rivoluzionario con l’affermazione di un dato paradigma. Essa si occupa della «ripulitura» del nuovo paradigma, ossia si impegna «all’articolazione di quei fenomeni e di quelle teorie che sono già fornite» da esso. Una tale attività si presenta «come un tentativo di forzare la natura entro le caselle prefabbricate e

118 Massimo Vogliotti

riflesso, di legalità), che, anche in ambito penale, non si definisce più per il suo involucro formale – potendo provenire, come la lex medievale, da diverse fonti, anche non scritte – ma per la sua sostanza, dovendo superare un test qualitativo volto ad accertare la concreta «accessibilità» e la ragionevole «prevedibilità» della norma71.

3. La crisi del “grande stile” Nelle pagine precedenti è già emersa, seppur in modo indiretto,

la condizione spirituale in cui versa oggi la scienza giuridica. Prendendo spunto dal modello delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, si potrebbe qualificare il tempo presente come un tempo di «scienza straordinaria», caratterizzato dalla crisi del vecchio paradigma – quell’insieme di «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca» 72 – e dalla progressiva proliferazione di nuove ipotesi teoriche, spesso in competizione tra loro e sostenute da metafore immaginifiche73, che preludono alla formazione di un nuovo paradigma, da cui prenderà avvio una nuova fase di «scienza normale»74. L’attuale tempo di

ex officio del procedimento, la sua trasparenza, diligenza e celerità, l’indipendenza effettiva («pratica») delle autorità incaricate delle indagini e la possibilità di partecipazione attiva della vittima all’intera procedura. Sulla questione la Corte è ritornata recentemente con la sentenza della Grande Chambre, 12 novembre 2013, Söderman c. Suède.

71 V., in proposito, V. ZAGREBELSKY, La Convezione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in ID. e V. MANES, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, p. 69 ss. Sulla nozione medievale di “legge”, v. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, p. 135 ss.

72 T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (I ed., 1962; II ed., 1970), Torino, 1999, p. 10.

73 Per un ricco campionario, v. M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto, cit., pp. 12-14. 74 La fase della “scienza normale” è quella che si apre dopo un periodo

rivoluzionario con l’affermazione di un dato paradigma. Essa si occupa della «ripulitura» del nuovo paradigma, ossia si impegna «all’articolazione di quei fenomeni e di quelle teorie che sono già fornite» da esso. Una tale attività si presenta «come un tentativo di forzare la natura entro le caselle prefabbricate e

La fine del “grande stile” 119

crisi va dunque colto nella sua «duplice dimensione di incrinatura e distruzione ma altresì di crescita e rinnovazione; con il convincimento che, affinché si abbia una palingenesi, occorre il coraggio di distruggere non per smania iconoclastica ma per liberare il terreno e consentire una libera nascita del nuovo»75.

Come suggerisce l’etimologia della parola krisis – sostantivo derivato dalla radice del verbo krino, distinguere e separare, risolvere e decidere – che nella medicina ippocratica indicava la fase “decisiva” nel decorso di una malattia, crisi, nel nostro caso, non significa soltanto “separazione” tra la realtà del diritto e un modello teorico che appare sempre più incapace a rappresentarla e a ordinarla, ma anche momento di passaggio da uno stato ad un altro: non solo tempo di tramonti, quindi, ma anche tempo di transizione, di apertura di nuovi orizzonti. Ne consegue che il discorso sulla crisi – inaugurato dalla comunità giuridica italiana all’inizio del secolo scorso con la prolusione pisana di Santi Romano sulla crisi dello Stato76, esteso, con accenti drammatici,

relativamente rigide fornite dal paradigma». Compito della scienza normale non è, infatti, quello di scoprire nuovi generi di fenomeni; «anzi, spesso sfuggono completamente quelli che non si potrebbero adattare all’incasellamento» (T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 44). Per maggiori informazioni sull’applicazione in ambito giuridico del modello di Kuhn si rinvia al nostro Tra fatto e diritto, cit., p. 5 ss.

75 Così P. GROSSI, Enrico Finzi: un innovatore solitario, in Enrico Finzi. “L’officina delle cose”, a cura del medesimo, Milano, 2013, p. XLIV, con riferimento specifico all’opera di Enrico Finzi, considerato da Paolo Grossi già «un civilista pos-moderno» per la sua attenzione alla storicità e alla fattualità del diritto, per la sua coscienza della complessità dell’ordine giuridico che lo conduce al «rifiuto dei riduzionismi legalistici e formalistici moderni» (pp. XXII-XXIII)] e a guardare gli istituti giuridici “da sotto in su”, preoccupandosi di recuperare al diritto quei rapporti di fatto «che i privati onesti osservano come giuridici» (così lo stesso Finzi citato da Grossi a p. XXVIII), rapporti che appaiono di fatto «soltanto in un loro formalistico raffronto al modello di rapporto perfetto e assolutamente tipico, che un formalismo miope potrebbe condannare nella fossa delle invalidità, ma che invece l’ordinamento, per le istanze sociali da cui è mosso, recupera alla dimensione della giuridicità ad un più basso livello possessorio, facendone tanti possessi di diritti costruiti sull’analogia economico-sociale col rapporto perfetto» (p. XXV).

76 S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi (1910), in ID., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano, 1969, p. 5 ss. Su quel discorso e sul suo significato, v. P. GROSSI, «Lo Stato moderno e la sua crisi»

120 Massimo Vogliotti

nell’immediato secondo dopoguerra all’intero diritto, e spinto di recente fino a formulare l’ipotesi nichilistica della «fine del diritto»77 – non ha per oggetto il diritto in sé che, quale «dimensione ontica di una società, non è né può essere in crisi» 78 , ma una particolare identità del diritto e della scienza giuridica, quell’identità che ha cominciato a prendere forma durante la stagione dell’umanesimo giuridico – la «più fattiva fucina della modernità»79, secondo Paolo Grossi – si è definita con le dottrine giusnaturalistiche e illuministiche e ha raggiunto una sua compiutezza tipica in seguito al sisma della rivoluzione francese. Ad essere in crisi non è quindi il diritto in sé, ma piuttosto «l’artificioso tentativo di semplificazione e costrizione a cui il diritto era stato sottoposto negli ordinamenti moderni a regime rigidamente codificato»80. In crisi è dunque il paradigma giuridico moderno a cui, nella sua maturità positivistica – statualistica e legalistica – si deve, secondo Carl Schmitt, la responsabilità della «crisi della scienza giuridica europea»81 e che, nell’attuale momento storico, rappresenta un «ostacolo epistemologico» 82 da superare definitivamente per comprendere il presente e progettare il futuro.

Già annunciata alla fine del diciannovesimo secolo, la crisi irrompe all’alba del Novecento. Lo sviluppo economico e tecnologico, indotto dalla rivoluzione industriale e fonte di profondi rivolgimenti sociali, fa saltare la corazza rigida e semplificante dello Stato monoclasse ottocentesco e spinge i giuristi a colmare il fossato che la modernità aveva scavato tra la società e il diritto. Un magma di fatti e d’interessi nuovi, che non potevano trovare cittadinanza nei vecchi documenti ufficiali dei giuristi, preme con

(a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano), in Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 41 ss.

77 P. ROSSI (a cura di), Fine del diritto?, Bologna, 2009 (volume che trae origine dall’incontro organizzato dall’Accademia delle Scienze di Torino il 4 giugno 2008).

78 P. GROSSI, L’identità del giurista, oggi, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2010, p. 1090.

79 P. GROSSI, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, p. 90. 80 P. GROSSI, Scienza giuridica italiana, cit., p. 276. 81 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 49. 82 G. BACHELARD, La formation de l’esprit scientifique (1938), Paris, 1980, p.

13 ss.

120 Massimo Vogliotti

nell’immediato secondo dopoguerra all’intero diritto, e spinto di recente fino a formulare l’ipotesi nichilistica della «fine del diritto»77 – non ha per oggetto il diritto in sé che, quale «dimensione ontica di una società, non è né può essere in crisi» 78 , ma una particolare identità del diritto e della scienza giuridica, quell’identità che ha cominciato a prendere forma durante la stagione dell’umanesimo giuridico – la «più fattiva fucina della modernità»79, secondo Paolo Grossi – si è definita con le dottrine giusnaturalistiche e illuministiche e ha raggiunto una sua compiutezza tipica in seguito al sisma della rivoluzione francese. Ad essere in crisi non è quindi il diritto in sé, ma piuttosto «l’artificioso tentativo di semplificazione e costrizione a cui il diritto era stato sottoposto negli ordinamenti moderni a regime rigidamente codificato»80. In crisi è dunque il paradigma giuridico moderno a cui, nella sua maturità positivistica – statualistica e legalistica – si deve, secondo Carl Schmitt, la responsabilità della «crisi della scienza giuridica europea»81 e che, nell’attuale momento storico, rappresenta un «ostacolo epistemologico» 82 da superare definitivamente per comprendere il presente e progettare il futuro.

Già annunciata alla fine del diciannovesimo secolo, la crisi irrompe all’alba del Novecento. Lo sviluppo economico e tecnologico, indotto dalla rivoluzione industriale e fonte di profondi rivolgimenti sociali, fa saltare la corazza rigida e semplificante dello Stato monoclasse ottocentesco e spinge i giuristi a colmare il fossato che la modernità aveva scavato tra la società e il diritto. Un magma di fatti e d’interessi nuovi, che non potevano trovare cittadinanza nei vecchi documenti ufficiali dei giuristi, preme con

(a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano), in Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 41 ss.

77 P. ROSSI (a cura di), Fine del diritto?, Bologna, 2009 (volume che trae origine dall’incontro organizzato dall’Accademia delle Scienze di Torino il 4 giugno 2008).

78 P. GROSSI, L’identità del giurista, oggi, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2010, p. 1090.

79 P. GROSSI, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, p. 90. 80 P. GROSSI, Scienza giuridica italiana, cit., p. 276. 81 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 49. 82 G. BACHELARD, La formation de l’esprit scientifique (1938), Paris, 1980, p.

13 ss.

La fine del “grande stile” 121

forza crescente, increspando la superficie liscia e geometrica del diritto borghese.

In Italia, sulla soglia del nuovo secolo, Santi Romano osserva quelle trasformazioni con sguardo rinnovato. Fin dal già ricordato discorso inaugurale pisano per l’anno accademico 1909-10, depone le vecchie categorie semplificanti e lascia che la complessità rimossa riaffiori nelle mappe dei giuristi. Lo scenario che gli si apre di fronte è un pullulare di formazioni sociali, di organizzazioni e associazioni che cent’anni prima, con la legge Le Chapelier, la rivoluzione francese aveva cancellato con un «atto autoritario», con un «artificio sommo del potere politico ansioso di toglier di mezzo il rischio più grosso per il nuovo Stato accentratore in via di edificazione»83. Quell’atto, con cui «non si volle porre di fronte allo Stato che l’individuo» 84 e di cui la storia aveva mostrato la sua «eccessiva velleitarietà»85, aveva creato un paesaggio artificiale che ora appare, al giovane giuspubblicista palermitano, «eccessiva-mente semplice»86. In quel fiorire di gruppi sociali, coagulati dalla condivisione di un comune interesse economico («sono federazioni o sindacati di operai, sindacati patronali, industriali, mercantili, di agrari, di funzionari, sono società cooperative, istituzioni di mutualità, camere di lavoro…»), vi ravvisa «una specie di crisi nello Stato moderno»87.

Qualche anno dopo, nel celebre saggio sull’Ordinamento giuridico88, allarga quella visione, sciogliendo il diritto dalla morsa dello Stato, «povero gigante scoronato»89, come lo chiama, nello

83 Così P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 12. 84 S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, cit., p. 14. Individuo, prosegue

subito dopo Santi Romano, «in apparenza armato di una serie infinita di diritti enfaticamente proclamati e con non costosa generosità largiti, ma nel fatto non sempre protetto nei suoi legittimi interessi».

85 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 12. 86 S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, cit., p. 13. 87 Ivi, p. 12. 88 S. ROMANO, L’ordinamento giuridico (1917-1918), II ed., Firenze, 1946. 89 G. CAPOGRASSI, Saggio sullo Stato (1918), in ID., Opere, Milano, 1959, vol. I,

p. 5. In un saggio di poco successivo, Capograssi prende poi chiaramente le distanze dalla concezione formalistica e statualistica che riduce il diritto al «voluto dallo Stato». Si assiste, infatti, «a una ripresa del contenuto giuridico sopra la forma. Il rapporto di vita […] tende a divenire rapporto giuridico. La sovranità diventa esercizio di una funzione che si decentra sempre più, ed i fatti

122 Massimo Vogliotti

stesso anno, Giuseppe Capograssi, filosofo del diritto attento alla dimensione esperienziale del fenomeno giuridico. Dopo la lunga parentesi statualistica, con la rivoluzione copernicana di Romano (il diritto, nella sua visione, prima di essere norma, è ordinamento del sociale e quindi non piove dall’alto, ma viene dal basso, dalle radici della società) e con la conseguente teoria della pluralità degli ordinamenti, il diritto viene nuovamente calato nella culla della società e nelle pagine dei giuristi si infittiscono, non a caso, i riferimenti a un’esperienza, come quella medievale, in cui l’assetto giuridico era plurale e il diritto era svincolato dal monopolio del potere politico90.

La crisi dello Stato non poteva che trascinare con sé l’altro monumento del paradigma moderno e cioè la legge, il pilastro – che si rivelerà fragile e infìdo – su cui era stato edificato lo stato di diritto ottocentesco.

L’evento che per primo incide profondamente sulla fisionomia della legge è la prima guerra mondiale. La necessità di far fronte, con provvedimenti d’urgenza, alle nuove emergenze che quella conflagrazione imponeva, spinse gli Stati europei a semplificare e ad accelerare il procedimento legislativo, delegando – con autorizzazioni sempre nuove e sempre più ampie – il potere di legiferare al governo91. Lo strappo con il passato – che non verrà

[…] acquistano tanto valore quanto ne ha la norma di legge» (G. CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta (1922), in ID., Opere, cit., vol. I, p. 410).

90 Nell’Introduzione agli Scritti sull’esperienza giuridica, Capograssi nota come «a tratti la vita giuridica contemporanea sotto certi aspetti per la singolare fecondità di formazioni collettive e di sistemi normativi concorrenti e divergenti sull’unico soggetto, ripresenta alcuni profili della vita medievale, contrassegnata anch’essa dalla molteplicità delle discipline collettive e delle autorità che tenevano regolata in isfere coesistenti la vita dell’individuo» (G. CAPOGRASSI, Studi sull’esperienza giuridica (1932), in ID., Opere, cit., vol. II, p. 215). Su queste riscoperte novecentesche dell’esperienza giuridica medievale da parte dei giuristi italiani (non sempre culturalmente provveduti), v. P. GROSSI, Unità giuridica europea: un Medioevo prossimo venturo?, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 31, 2002, p. 43 ss.

91 Sul rafforzamento, durante la prima guerra mondiale, del potere dell’esecutivo, che, tramite lo strumento della delega parlamentare, diventa il normale produttore di disposizioni aventi carattere legislativo, v. C. SCHMITT, L’evoluzione recente del problema delle delegazioni legislative (1938), in Quaderni costituzionali, 1986, p. 536 ss., in cui si nota come la speranza di ritornare, dopo le procedure legislative semplificate del periodo bellico, alle

122 Massimo Vogliotti

stesso anno, Giuseppe Capograssi, filosofo del diritto attento alla dimensione esperienziale del fenomeno giuridico. Dopo la lunga parentesi statualistica, con la rivoluzione copernicana di Romano (il diritto, nella sua visione, prima di essere norma, è ordinamento del sociale e quindi non piove dall’alto, ma viene dal basso, dalle radici della società) e con la conseguente teoria della pluralità degli ordinamenti, il diritto viene nuovamente calato nella culla della società e nelle pagine dei giuristi si infittiscono, non a caso, i riferimenti a un’esperienza, come quella medievale, in cui l’assetto giuridico era plurale e il diritto era svincolato dal monopolio del potere politico90.

La crisi dello Stato non poteva che trascinare con sé l’altro monumento del paradigma moderno e cioè la legge, il pilastro – che si rivelerà fragile e infìdo – su cui era stato edificato lo stato di diritto ottocentesco.

L’evento che per primo incide profondamente sulla fisionomia della legge è la prima guerra mondiale. La necessità di far fronte, con provvedimenti d’urgenza, alle nuove emergenze che quella conflagrazione imponeva, spinse gli Stati europei a semplificare e ad accelerare il procedimento legislativo, delegando – con autorizzazioni sempre nuove e sempre più ampie – il potere di legiferare al governo91. Lo strappo con il passato – che non verrà

[…] acquistano tanto valore quanto ne ha la norma di legge» (G. CAPOGRASSI, La nuova democrazia diretta (1922), in ID., Opere, cit., vol. I, p. 410).

90 Nell’Introduzione agli Scritti sull’esperienza giuridica, Capograssi nota come «a tratti la vita giuridica contemporanea sotto certi aspetti per la singolare fecondità di formazioni collettive e di sistemi normativi concorrenti e divergenti sull’unico soggetto, ripresenta alcuni profili della vita medievale, contrassegnata anch’essa dalla molteplicità delle discipline collettive e delle autorità che tenevano regolata in isfere coesistenti la vita dell’individuo» (G. CAPOGRASSI, Studi sull’esperienza giuridica (1932), in ID., Opere, cit., vol. II, p. 215). Su queste riscoperte novecentesche dell’esperienza giuridica medievale da parte dei giuristi italiani (non sempre culturalmente provveduti), v. P. GROSSI, Unità giuridica europea: un Medioevo prossimo venturo?, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 31, 2002, p. 43 ss.

91 Sul rafforzamento, durante la prima guerra mondiale, del potere dell’esecutivo, che, tramite lo strumento della delega parlamentare, diventa il normale produttore di disposizioni aventi carattere legislativo, v. C. SCHMITT, L’evoluzione recente del problema delle delegazioni legislative (1938), in Quaderni costituzionali, 1986, p. 536 ss., in cui si nota come la speranza di ritornare, dopo le procedure legislative semplificate del periodo bellico, alle

La fine del “grande stile” 123

ricucito, ma anzi allargato, dopo l’evento bellico – è evidente già ai giuristi dell’epoca, i quali si pongono dubbi di carattere costituzionale riguardo ad una prassi che fa dei corpi legislativi non dei produttori di leggi, ma di legislatori. Al congresso dei giuristi tedeschi del 1921, il giuspubblicista Heinrich Triepel – dopo aver constatato che il mutamento dell’essenza della legge, da atto stabile e meditato dell’assemblea rappresentativa ad atto mutevole e sommario del potere esecutivo (il decreto e il provvedimento, significativamente battezzato, quest’ultimo, “legge motorizzata”), si verifica in Germania con la legge di delega dei pieni poteri del 4 agosto del 1914 – ricorda un passo di una lettera scrittagli prima di morire da Karl Binding, in cui il suo grande maestro, in guisa di lascito testamentario, scrive: «Il prossimo grande compito è la lotta al provvedimento, nell’usurpazione che questo compie nei confronti della legge»92.

Il passaggio – seppur formalmente autorizzato dalle assemblee rappresentative – di una parte crescente di potere legislativo dai parlamenti ai governi, che prefigura l’arretramento dello «Stato legislativo» a vantaggio dello «Stato amministrativo» (il quale si richiama alla «necessità concreta, allo stato delle cose, alla forza della situazione, ai bisogni del tempo e ad altre giustificazioni non dettate da norme ma da situazioni»)93, fa venir meno anche un altro aspetto – considerato dal pensiero giuridico liberale consustanziale alla legge – e cioè la sua generalità e astrattezza. Con l’ingresso dello Stato direttamente nel gioco economico-sociale e con il progressivo aumento del peso politico di forze prima trascurate – che in Italia avevano da poco ottenuto il suffragio universale – la legge, per tenere il passo di una società complessa e in rapida trasformazione, è costretta a diventare duttile, mobile e settoriale, calibrata su concrete e particolari situazioni, pronta a rispondere alle rivendicazioni di gruppi sempre più numerosi e frammentati. La pressione di questi gruppi e dei fatti nuovi – che obbliga il

normali procedure venne frustrata per varie ragioni, in parte contingenti e in parte destinate a diventare strutturali (lo scritto di Schmitt prende le mosse dal saggio dello studioso svedese H. TINGSTÉN, Les pleins pouvoirs. L’expansion des pouvoirs gouvernamentaux pendant et après la grande guerre, Paris, 1934).

92 Il passo è ricordato da C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 58.

93 C. SCHMITT, Legalità e legittimità (1932), in G. MIGLIO e P. SCHIERA (a cura di), Le categorie del “politico”, Bologna, 1972, p. 217.

124 Massimo Vogliotti

legislatore a tenere sempre aperto il cantiere della produzione normativa, caratterizzata, come si è visto, da un ridotto tasso di generalità e di astrattezza e spesso frutto di contrattazione e di compromessi tra interessi plurimi e confliggenti94 – finisce, inoltre, per esautorare il codice – l’altro grande monumento della scienza giuridica moderna – dal suo ruolo di protagonista dell’ordine borghese. L’epoca aurea delle codificazioni è ormai alle spalle e già si scorgono i primi, significativi, segni della futura «età della decodificazione»95.

Generata da quei venti nuovi, si alza, seppur ai margini della comunità scientifica, un’imponente ondata antiformalista che investe l’intera mitologia giuridica moderna. Pur profondamente scossa, quella mitologia – che rappresenta il fondamentale cemento narrativo del paradigma moderno – non viene travolta da quegli attacchi iconoclastici e dalle confutazioni della realtà, ma, con opportuni aggiustamenti, continuerà per tutto il secolo – e in parte continua ancora – a condizionare l’immaginario della scienza giuridica ortodossa.

Il primo personaggio di quella narrazione – in cui «il paesaggio storico depone confusione disordine terrestrità complessità per ridursi a un disegno semplice nitido lineare», a un «teorema politico-giuridico»96 – ad essere desacralizzato è lo Stato. Frutto di un calcolo razionale di individui irrelati che decidono, in piena libertà, di abbandonare l’insicuro stato di natura e di creare ex nihilo, con un contratto, la società civile a difesa della propria incolumità fisica (Hobbes) o dei diritti naturali (Locke), lo Stato – nella narrazione giusnaturalistica moderna – è concepito come «ente di ragione per eccellenza, nel quale soltanto l’uomo realizza pienamente la propria natura di essere razionale»97. Con l’avvento delle teorie socialiste – che dopo un periodo di estraneità riuscirono

94 Un attento osservatore del nuovo come Giuseppe Capograssi coglie, nella

proliferazione di enti intermedi tra Stato e individuo, la tendenza della legge «a diventare contrattuale» e vi ravvede una delle cause del «sentimento della instabilità della legge, della volontarietà, quasi si direbbe, della ambulatorietà della legge» (G. CAPOGRASSI, Studi sull’esperienza giuridica, cit., p. 216).

95 N. IRTI, L’età delle decodificazione, Milano, 1979. 96 P. GROSSI, Oltre le mitologie giuridiche della modernità, in ID., Mitologie

giuridiche della modernità, Milano, 2001, pp. 47-48. 97 N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, in N. BOBBIO e M. BOVERO, Società

e Stato nella filosofia politica moderna, Milano, 1984, p. 106.

124 Massimo Vogliotti

legislatore a tenere sempre aperto il cantiere della produzione normativa, caratterizzata, come si è visto, da un ridotto tasso di generalità e di astrattezza e spesso frutto di contrattazione e di compromessi tra interessi plurimi e confliggenti94 – finisce, inoltre, per esautorare il codice – l’altro grande monumento della scienza giuridica moderna – dal suo ruolo di protagonista dell’ordine borghese. L’epoca aurea delle codificazioni è ormai alle spalle e già si scorgono i primi, significativi, segni della futura «età della decodificazione»95.

Generata da quei venti nuovi, si alza, seppur ai margini della comunità scientifica, un’imponente ondata antiformalista che investe l’intera mitologia giuridica moderna. Pur profondamente scossa, quella mitologia – che rappresenta il fondamentale cemento narrativo del paradigma moderno – non viene travolta da quegli attacchi iconoclastici e dalle confutazioni della realtà, ma, con opportuni aggiustamenti, continuerà per tutto il secolo – e in parte continua ancora – a condizionare l’immaginario della scienza giuridica ortodossa.

Il primo personaggio di quella narrazione – in cui «il paesaggio storico depone confusione disordine terrestrità complessità per ridursi a un disegno semplice nitido lineare», a un «teorema politico-giuridico»96 – ad essere desacralizzato è lo Stato. Frutto di un calcolo razionale di individui irrelati che decidono, in piena libertà, di abbandonare l’insicuro stato di natura e di creare ex nihilo, con un contratto, la società civile a difesa della propria incolumità fisica (Hobbes) o dei diritti naturali (Locke), lo Stato – nella narrazione giusnaturalistica moderna – è concepito come «ente di ragione per eccellenza, nel quale soltanto l’uomo realizza pienamente la propria natura di essere razionale»97. Con l’avvento delle teorie socialiste – che dopo un periodo di estraneità riuscirono

94 Un attento osservatore del nuovo come Giuseppe Capograssi coglie, nella

proliferazione di enti intermedi tra Stato e individuo, la tendenza della legge «a diventare contrattuale» e vi ravvede una delle cause del «sentimento della instabilità della legge, della volontarietà, quasi si direbbe, della ambulatorietà della legge» (G. CAPOGRASSI, Studi sull’esperienza giuridica, cit., p. 216).

95 N. IRTI, L’età delle decodificazione, Milano, 1979. 96 P. GROSSI, Oltre le mitologie giuridiche della modernità, in ID., Mitologie

giuridiche della modernità, Milano, 2001, pp. 47-48. 97 N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, in N. BOBBIO e M. BOVERO, Società

e Stato nella filosofia politica moderna, Milano, 1984, p. 106.

La fine del “grande stile” 125

a filtrare anche all’interno della cittadella dei giuristi – si fa strada l’idea che lo Stato, «anziché essere il trionfo della ragione in terra, come ha creduto tutta la filosofia politica da Hobbes a Hegel, è il mezzo con cui la classe dominante mantiene il proprio dominio»98.

Analoga sorte subiscono il codice e la legge. Ad essere preso di mira è innanzitutto il mito della completezza del codice e, in generale, quello della chiusura positivistico-legalistica del diritto: le profonde trasformazioni sociali di cui si è detto e il lievitare della complessità della realtà aprivano sempre nuove e vistose smagliature nei tessuti del codice e della legge. Inoltre, ed è il secondo attacco, in un’atmosfera culturale segnata dalla tesi weberiana del politeismo dei valori e aggravata dall’emotivismo etico dei neopositivisti del Circolo di Vienna, che segnano la fine del programma giusnaturalistico di dare una fondazione razionale ai valori (per Kelsen «la giustizia è un ideale irrazionale») 99 , la narrazione del codice come ratio scripta, come la traduzione in linguaggio giuridico positivo dei teoremi della ragione scoperti dalla scienza giuridica, non regge più e il codice comincia a rivelare il suo volto autentico: «On avait organisé […] le Code de la bourgeoisie», denuncia Raymond Saleilles in occasione della cerimonia del centenario100, cui gli farà eco, settant’anni dopo e con toni ben più radicali, André-Jean Arnaud che presenta il Code Napoléon come «la regola del gioco nella pace borghese»101. Allo stesso modo, la legge, sacralizzata come l’espressione della volontà generale, appariva – agli occhi del ceto escluso dal gioco politico ma

98 Ivi, p. 117. 99 H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), Milano, 1952, p.

13. 100 R. SALEILLES, Le Code civil et la méthode historique, in Le Code civil –

1804-1904 – Livre du centenaire, Paris, 1904, p. 115. L’omissis della citazione recita: «Sans le savoir et sans le vouloir», «quasi per attenuare la diagnosi registrando quello che è un risultato oggettivo più che un programma voluto» (così P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato. Lungo l’itinerario scientifico di Raymond Saleilles (1993), ora in ID., Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Milano, 2008, p. 282, nota 37).

101 A.-J. ARNAUD, Essai d’analyse structurale du code civil français. La règle du jeu dans la paix bourgeoise, Paris, 1973. V., in merito, la recensione di TARELLO, A proposito del «Code Napoléon», II, «Code civil» e regola del gioco borghese, in ID., Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, 1988, p. 138, in cui si sottolinea il «carattere “dissacratore” nei riguardi di un “monumento” qual è, in ogni senso, il Codice Napoleone».

126 Massimo Vogliotti

che andava sempre più acquisendo, grazie alla concentrazione di grandi masse di lavoratori nelle grandi industrie, coscienza di classe – come l’espressione non di tutta, ma di una parte – per giunta assai ristretta – della società civile.

Sorte non dissimile subisce il soggetto unico di diritto che costituiva il presupposto antropologico imprescindibile – uscito dalla culla giusnaturalistica – per portare a compimento quell’immane opera di semplificazione del diritto richiesta «dalla consapevolezza illuministica degli inconvenienti del particolarismo e dall’illuministica battaglia per un diritto certo e comprensibile»102 e realizzata, con una scelta politico-ideologica ben precisa, dalla codificazione borghese. Con il passaggio dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse, quel soggetto artificiale non riesce più a nascondere il suo vero volto: non l’uomo universale e astratto, «protagonista del tempo metastorico dello stato di natura»103, ma una figura umana ben precisa, particolare e concreta: l’uomo possidente, maschio, adulto e sano di mente104, protagonista di un ordine socio-economico, rigidamente individualistico, costruito a tutto beneficio del soggetto borghese.

Infine, l’ondata antiformalistica si abbatte sulla figura del giudice che, nelle pagine di quella frangia di giuristi eterodossi, perde il ruolo ancillare di “bocca della legge” – che gli era stato imposto dall’illuministica polemica antigiurisprudenziale, a garanzia della certezza del diritto, del dominio assoluto del mitico legislatore razionale e della tenuta dell’ordine piramidale – per assumere il ruolo di deuteragonista (o, per la corrente realista, di unico, vero, protagonista) della ben più complessa e frammentata narrazione giuridica novecentesca, scardinando il sistema delle fonti e sconvolgendo gli equilibri stabiliti dalla dottrina continentale della separazione dei poteri.

102 G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e

codificazione del diritto, Bologna, 1976, p. 35. 103 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 20. 104 V., in proposito, A.-J. ARNAUD, Essai d’analyse structurale du code civil

français, cit., pp. 64-69 e la recensione, già ricordata, di G. TARELLO, A proposito del «Code Napoléon», cit., p. 136: «L’analisi ludico-strutturale del Code civil consente di mettere in rilievo assai bene l’aspetto mistificatorio dell’operazione conosciuta come “elaborazione del diritto civile a soggetto unico”; il soggetto unico di diritto (civile) ci si rivela come soggetto particolare (e non l’uomo in universale) in quanto appunto maschio adulto sano di mente».

126 Massimo Vogliotti

che andava sempre più acquisendo, grazie alla concentrazione di grandi masse di lavoratori nelle grandi industrie, coscienza di classe – come l’espressione non di tutta, ma di una parte – per giunta assai ristretta – della società civile.

Sorte non dissimile subisce il soggetto unico di diritto che costituiva il presupposto antropologico imprescindibile – uscito dalla culla giusnaturalistica – per portare a compimento quell’immane opera di semplificazione del diritto richiesta «dalla consapevolezza illuministica degli inconvenienti del particolarismo e dall’illuministica battaglia per un diritto certo e comprensibile»102 e realizzata, con una scelta politico-ideologica ben precisa, dalla codificazione borghese. Con il passaggio dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse, quel soggetto artificiale non riesce più a nascondere il suo vero volto: non l’uomo universale e astratto, «protagonista del tempo metastorico dello stato di natura»103, ma una figura umana ben precisa, particolare e concreta: l’uomo possidente, maschio, adulto e sano di mente104, protagonista di un ordine socio-economico, rigidamente individualistico, costruito a tutto beneficio del soggetto borghese.

Infine, l’ondata antiformalistica si abbatte sulla figura del giudice che, nelle pagine di quella frangia di giuristi eterodossi, perde il ruolo ancillare di “bocca della legge” – che gli era stato imposto dall’illuministica polemica antigiurisprudenziale, a garanzia della certezza del diritto, del dominio assoluto del mitico legislatore razionale e della tenuta dell’ordine piramidale – per assumere il ruolo di deuteragonista (o, per la corrente realista, di unico, vero, protagonista) della ben più complessa e frammentata narrazione giuridica novecentesca, scardinando il sistema delle fonti e sconvolgendo gli equilibri stabiliti dalla dottrina continentale della separazione dei poteri.

102 G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e

codificazione del diritto, Bologna, 1976, p. 35. 103 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 20. 104 V., in proposito, A.-J. ARNAUD, Essai d’analyse structurale du code civil

français, cit., pp. 64-69 e la recensione, già ricordata, di G. TARELLO, A proposito del «Code Napoléon», cit., p. 136: «L’analisi ludico-strutturale del Code civil consente di mettere in rilievo assai bene l’aspetto mistificatorio dell’operazione conosciuta come “elaborazione del diritto civile a soggetto unico”; il soggetto unico di diritto (civile) ci si rivela come soggetto particolare (e non l’uomo in universale) in quanto appunto maschio adulto sano di mente».

La fine del “grande stile” 127

Anche nel mondo del diritto comincia ad avvertirsi, insomma, quella crisi del “grande stile” che, in quegli stessi anni, la letteratura, specialmente quella austriaca, stava elaborando.

Il grande stile, ci dice Claudio Magris in un bellissimo, denso, saggio sull’Uomo senza qualità di Musil, è la capacità della letteratura «di ridurre il mondo all’essenziale e di dominare la proliferazione del reale in una laconica unità di significato». Nel suo costringere e comprimere «le dolorose dissonanze della vita – ma anche le sue riottose diversità – nella compatta armonia della forma», il grande stile è però anche violenza, «è la violenza metafisica di un pensiero che impone alle cose una camicia di forza e fa di esse i simboli di un universale e di un’identità che viola la loro singolarità e la loro autonomia». I filosofi, scrive Musil nell’Uomo senza qualità, «sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò s’impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema». Ogni pensiero, prosegue Magris, «che conferisce unità – o meglio la propria unità – al mondo è un gesto di autorità, che impone silenzio a ciò che è radicalmente diverso e lo esclude dalla storia». La fine del grande stile – fondata sulla «consapevolezza che, nella realtà contemporanea, l’intero è andato perduto e il senso unitario della vita s’è reso irreperibile» – ha dunque un significato «liberatorio», in quanto «disarticola la prevaricatrice compostezza di una volontà tesa ad imporre una gerarchia unitaria ed unificante ad ogni particolarità ribelle»105.

Il grande stile era anche quello della narrazione giuridica ottocentesca. Una narrazione unitaria, coerente, completa, che, nella razionalità delle sue linee geometriche, sorrette da una robusta ed efficacissima mitologia, prometteva di garantire certezza, libertà ed eguaglianza. «Tutto era allora così semplice!»106, notava Giuseppe Capograssi rievocando gli ultimi anni della Belle Époque: «Semplicissimo il soggetto politico Stato, semplicissima la miriade di soggetti fisici, ormai ridotti nella loro atomistica individualità dopo che la grande rivoluzione aveva anéanti, ridotto nel nulla, ogni incrostazione comunitaria o – comunque – associativa. Semplicissimo il diritto ridotto a voce del soggetto

105 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, in Nuova corrente, 79/80, 1979, pp. 253-

254. 106 G. CAPOGRASSI, Il problema di V.E. Orlando (1953), in ID., Opere, vol. V,

cit., p. 359.

128 Massimo Vogliotti

politico, ossia della legge, tanto semplice da poter essere sistemato in un libriccino chiamato codice»107. Una narrazione, però – quella della modernità matura – che, nel ridurre a unità «le proteiformi maschere del molteplice che costituiscono l’autentico tessuto della vita»108, perde di vista le specificità irripetibili delle varie situazioni particolari, cancella le differenze sostanziali, riduce al silenzio le voci dissonanti rispetto allo spartito ufficiale, innalza – fin dal giusnaturalismo groziano – un’artificiosa muraglia tra i fatti e il diritto, tra la forma e la sostanza, che riduce la libertà a conservazione dello status quo109 e svuota di significato la moderna promessa di eguaglianza, perché quell’annuncio rivoluzionario non penetra nella concretezza delle situazioni reali, ma si arresta alla superficie giuridica, traducendosi in un’eguaglianza meramente formale che giova al solo possidente.

Il grande stile, aggiunge Magris, «si frantuma quando vengono a mancare due presupposti fondamentali: l’idea di soggetto e l’idea di sostanza»110, idee che vengono demolite, specialmente dalla cultura austriaca, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

3.1. La frammentazione del soggetto… Il romanzo classico, è ancora Magris a parlare, è «la

rappresentazione di un mondo nei cui innumerevoli e cangianti dettagli palpita e circola la legge del tutto. Il grande stile, diceva Hofmannsthal, consiste anzitutto nella capacità di tacere il pullulare dei particolari a vantaggio dell’essenziale, è ciò che permette di dare un senso alla vita e di farlo trasparire in ogni

107 P. GROSSI, L’identità del giurista, oggi, cit., p. 1094. 108 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 254. 109 Impedendole di farsi, per riprendere la formula compendiosa dello storico

Adolfo Omodeo, «liberatrice», una libertà, cioè, da intendersi non come «quieto adagiarsi o inquieto e pavido barricarsi nelle strutture sociali esistenti», ma come una libertà propulsiva, «che deve partire all’assalto di tutti i privilegi e le ingiustizie sociali» (così A. GALANTE GARRONE in un articolo pubblicato su La Stampa il 24 settembre del 1960, per ricordare la pubblicazione per Einaudi di tutti gli scritti politici dello storico napoletano, ora in ID., Libertà liberatrice, Torino, 1992, p. 8).

110 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 256.

128 Massimo Vogliotti

politico, ossia della legge, tanto semplice da poter essere sistemato in un libriccino chiamato codice»107. Una narrazione, però – quella della modernità matura – che, nel ridurre a unità «le proteiformi maschere del molteplice che costituiscono l’autentico tessuto della vita»108, perde di vista le specificità irripetibili delle varie situazioni particolari, cancella le differenze sostanziali, riduce al silenzio le voci dissonanti rispetto allo spartito ufficiale, innalza – fin dal giusnaturalismo groziano – un’artificiosa muraglia tra i fatti e il diritto, tra la forma e la sostanza, che riduce la libertà a conservazione dello status quo109 e svuota di significato la moderna promessa di eguaglianza, perché quell’annuncio rivoluzionario non penetra nella concretezza delle situazioni reali, ma si arresta alla superficie giuridica, traducendosi in un’eguaglianza meramente formale che giova al solo possidente.

Il grande stile, aggiunge Magris, «si frantuma quando vengono a mancare due presupposti fondamentali: l’idea di soggetto e l’idea di sostanza»110, idee che vengono demolite, specialmente dalla cultura austriaca, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

3.1. La frammentazione del soggetto… Il romanzo classico, è ancora Magris a parlare, è «la

rappresentazione di un mondo nei cui innumerevoli e cangianti dettagli palpita e circola la legge del tutto. Il grande stile, diceva Hofmannsthal, consiste anzitutto nella capacità di tacere il pullulare dei particolari a vantaggio dell’essenziale, è ciò che permette di dare un senso alla vita e di farlo trasparire in ogni

107 P. GROSSI, L’identità del giurista, oggi, cit., p. 1094. 108 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 254. 109 Impedendole di farsi, per riprendere la formula compendiosa dello storico

Adolfo Omodeo, «liberatrice», una libertà, cioè, da intendersi non come «quieto adagiarsi o inquieto e pavido barricarsi nelle strutture sociali esistenti», ma come una libertà propulsiva, «che deve partire all’assalto di tutti i privilegi e le ingiustizie sociali» (così A. GALANTE GARRONE in un articolo pubblicato su La Stampa il 24 settembre del 1960, per ricordare la pubblicazione per Einaudi di tutti gli scritti politici dello storico napoletano, ora in ID., Libertà liberatrice, Torino, 1992, p. 8).

110 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 256.

La fine del “grande stile” 129

dettaglio, che in tal modo appare sempre ricco di significato e mai assurdo e irrelato». Ma questo grande stile «presuppone un soggetto che abbia una sostanza compatta, presuppone le più alte capacità creative e organizzative di un soggetto che si ponga quale ordinatore del reale e si appropri di esso, riducendolo a oggetto e dominandolo»111.

Dal punto di vista narratologico, questo soggetto compatto, creatore organizzatore e dominatore del reale, è incarnato dalla figura del “Narratore onnisciente”, una voce narrante che conosce tutto della materia raccontata, i pensieri più reconditi dei personaggi, gli avvenimenti presenti, passati e futuri e «può muoversi liberamente nello spazio e nel tempo e dire ciò che avviene altrove contemporaneamente112. Il Narratore onnisciente è, per definizione, un narratore attendibile, fonte della verità: ciò che afferma non è mai contraddetto o smentito da altri elementi del testo. Secondo la terminologia di Genette, la sua narrazione è «non focalizzata» o a «focalizzazione zero»; il narratore, cioè, «ne sa più del personaggio, o meglio, ne dice più di quanto ne sappia uno qualunque dei personaggi»113 e viene dunque ad assumere, secondo la formula flaubertiana, il “punto di vista di Dio”114.

Nella narrazione giuridica ottocentesca, la figura ideale del “Legislatore razionale e onnipotente” svolge il medesimo ruolo demiurgico del narratore onnisciente dei grandi romanzi di Balzac e di Manzoni115. Il Legislatore-Narratore onnisciente e onnipotente conosce lo svolgimento del racconto, prevede le mosse dei suoi personaggi, di cui stabilisce sovranamente il ruolo (il giudice “bocca

111 Ivi, p. 258. 112 H. GROSSER, Narrativa, Milano, 1985, p. 84. 113 Il passo di Genette è citato da H. GROSSER, Narrativa, cit., p. 83. 114 Secondo Flaubert «il narratore deve essere come Dio nel proprio

racconto» (ivi, p. 88). 115 Sappiamo che «solo il legislatore (un legislatore onnipotente) poteva

trasformare il diritto naturale da modello razionale, possibile e ideale, da strumento critico del diritto positivo, in effettiva normativa statuale» (A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano, 1982, p. 354). Sulla figura del «saggio e incorruttibile législateur […] con la sua sempre buona e giusta volonté générale», postulato fondamentale della narratologia giuridica dello Stato liberale ottocentesco, v. C. SCHMITT, Legalità e legittimità (1932), in G. MIGLIO e P. SCHIERA (a cura di), Le categorie del politico, Bologna, 1974, p. 211 ss. (la citazione è tratta dalla p. 217) e F. OST e M. VAN DE KERCHOVE, Jalons pour une théorie critique du droit, Bruxelles, 1987, p. 97 ss.

130 Massimo Vogliotti

della legge”, il dottore esegeta, l’amministratore esecutore della legge…), assicura che il senso della narrazione sia conforme a un sistema unitario di valori e che il testo sia privo di antinomie, di lacune e di ridondanze. È garante della prevedibilità, della razionalità e della coerenza della storia. Ciò che afferma non è mai contraddetto dai suoi personaggi perché non vi è spazio per punti di vista diversi dal suo.

Dalla fine del Diciannovesimo secolo, la letteratura della crisi abbandona la figura del Narratore onnisciente. L’unità, la linearità, l’oggettività e la verità della narrazione – assicurate dall’assenza di focalizzazione – cedono il passo di fronte alla tecnica della «focalizzazione interna» variabile e multipla, che organizza la narrazione adottando i punti di vista – parziali e spesso inattendibili perché deformati e inesatti – dei vari personaggi116.

Il tramonto del Narratore onnisciente è l’effetto, sul piano narratologico, della crisi del soggetto, «il quale non riesce più a porre fra sé e il caos vitale la rete del linguaggio e si dissolve in un fluttuante fascio di sensazioni e di rappresentazioni»117. Con l’Uomo del sottosuolo di Dostoevskij e con Zeno Cosini di Italo Svevo, «il soggetto scopre […] di essere non già il centro unitario che sintetizza e gerarchizza le contraddizioni, bensì il luogo caotico e sconnesso nel quale le contraddizioni si incontrano, si accavallano e si mescolano senza mai risolversi»118. L’Io si frammenta e, come scrive Musil nell’Uomo senza qualità, «perde il senso che ha avuto finora di un sovrano che compie atti di governo» 119 . Facendo proprio l’insegnamento di Freud secondo cui il soggetto non è padrone in casa propria, ma è abitato da una pluralità di istanze in perenne conflitto, l’Io diventa un «flusso di coscienza» in Joyce e in Svevo, «un altro» in Rimbaud, «uno, nessuno e centomila» in Pirandello, un «uomo senza qualità» in Musil, cioè una molteplicità di attributi privi di un centro unificatore.

116 Secondo la classificazione di Genette, si ha focalizzazione interna

“variabile”, «se i punti di vista adottati sono quelli di più personaggi in successione»; “multipla”, «se i punti di vista adottati sono di più personaggi contemporaneamente, o meglio per uno stesso evento» (H. GROSSER, Narrativa, cit., p. 88).

117 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 256. 118 Ivi, pp. 258-259. 119 Citato da Claudio Magris, ivi, p. 256.

130 Massimo Vogliotti

della legge”, il dottore esegeta, l’amministratore esecutore della legge…), assicura che il senso della narrazione sia conforme a un sistema unitario di valori e che il testo sia privo di antinomie, di lacune e di ridondanze. È garante della prevedibilità, della razionalità e della coerenza della storia. Ciò che afferma non è mai contraddetto dai suoi personaggi perché non vi è spazio per punti di vista diversi dal suo.

Dalla fine del Diciannovesimo secolo, la letteratura della crisi abbandona la figura del Narratore onnisciente. L’unità, la linearità, l’oggettività e la verità della narrazione – assicurate dall’assenza di focalizzazione – cedono il passo di fronte alla tecnica della «focalizzazione interna» variabile e multipla, che organizza la narrazione adottando i punti di vista – parziali e spesso inattendibili perché deformati e inesatti – dei vari personaggi116.

Il tramonto del Narratore onnisciente è l’effetto, sul piano narratologico, della crisi del soggetto, «il quale non riesce più a porre fra sé e il caos vitale la rete del linguaggio e si dissolve in un fluttuante fascio di sensazioni e di rappresentazioni»117. Con l’Uomo del sottosuolo di Dostoevskij e con Zeno Cosini di Italo Svevo, «il soggetto scopre […] di essere non già il centro unitario che sintetizza e gerarchizza le contraddizioni, bensì il luogo caotico e sconnesso nel quale le contraddizioni si incontrano, si accavallano e si mescolano senza mai risolversi»118. L’Io si frammenta e, come scrive Musil nell’Uomo senza qualità, «perde il senso che ha avuto finora di un sovrano che compie atti di governo» 119 . Facendo proprio l’insegnamento di Freud secondo cui il soggetto non è padrone in casa propria, ma è abitato da una pluralità di istanze in perenne conflitto, l’Io diventa un «flusso di coscienza» in Joyce e in Svevo, «un altro» in Rimbaud, «uno, nessuno e centomila» in Pirandello, un «uomo senza qualità» in Musil, cioè una molteplicità di attributi privi di un centro unificatore.

116 Secondo la classificazione di Genette, si ha focalizzazione interna

“variabile”, «se i punti di vista adottati sono quelli di più personaggi in successione»; “multipla”, «se i punti di vista adottati sono di più personaggi contemporaneamente, o meglio per uno stesso evento» (H. GROSSER, Narrativa, cit., p. 88).

117 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 256. 118 Ivi, pp. 258-259. 119 Citato da Claudio Magris, ivi, p. 256.

La fine del “grande stile” 131

Prima di allora, in pieno clima positivistico, la figura del Narratore onnisciente era stata abbandonata dalla narrativa verista. Mossi dalla volontà di rappresentare oggettivamente la realtà, senza mediazioni colte e letterarie, i romanzieri veristi ribaltano la gerarchia narrativa tradizionale: mentre nei grandi romanzi ottocenteschi la narrazione è costruita dall’alto – il God’s eye point of view del Narratore onnisciente – nei romanzi veristi la narrazione scaturisce dal basso.

A tal fine, nei Malavoglia (1881), Verga adotta la tecnica narrativa della «focalizzazione esterna». Sceglie, cioè, come nota Guido Baldi, di «non presentare i fatti dal proprio punto di vista di intellettuale borghese, con i parametri di giudizio, la scala di valori, i moduli espressivi che ad esso competono, bensì di delegare la funzione narrativa ad un anonimo “narratore” popolare, che appartiene allo stesso livello sociale e culturale dei personaggi che agiscono nella vicenda ed è portatore della visione caratteristica di un milieu subalterno, provinciale e rurale». Questo narratore, però, «lungi dal fornire una prospettiva rigorosamente unitaria sul narrato», secondo la tecnica del Narratore onnisciente del romanzo tradizionale, «sin dalle prime pagine lascia che si affermi la prospettiva dei personaggi singoli e concreti, che nella loro multiforme pluralità gestiscono quantitativamente la parte maggiore del processo affabulativo». Ciò avviene sia attraverso l’«ampio uso del discorso diretto, che è il mezzo più classico mediante cui si può affermare nel narrato la visione soggettiva dei personaggi», sia tramite il «discorso indiretto e l’indiretto libero, che del parlato diretto conservano tutte le movenze, le immagini, i costrutti […] e consentono in egual modo ai personaggi di assumere l’iniziativa del racconto, imponendo la loro soggettività». E tuttavia, «anche quando è il “narratore” che racconta, l’affinità sociale, culturale e linguistica che lo lega al mondo rappresentato fa sì che, in certi casi, si verifichi un vero e proprio processo di osmosi coi personaggi, e che le rispettive fisionomie si confondano al punto da rendere difficile distinguere a chi appartenga la prospettiva sulla materia narrata». Baldi utilizza l’aggettivo «camaleontico» per connotare questo narratore che «non ha una fisionomia unitaria e coerente, ma assume di volta in volta la maschera di tutti coloro che entrano in scena, protagonisti, comprimari e comparse, si

132 Massimo Vogliotti

colora della loro ideologia, si identifica coi loro pregiudizi e le loro credenze»120.

È del tutto evidente quanto sia diversa questa tecnica narrativa rispetto a quella adottata, ad esempio, nei Promessi sposi di Manzoni. Qui il narratore (onnisciente) «prende per mano il lettore e lo guida prima a familiarizzarsi con i luoghi, spiegandogli davanti una bella carta topografica, poi a coordinarsi con l’epoca storica in cui si svolgono i fatti, poi a conoscere uno a uno, ben descritti, i personaggi». Nei Malavoglia, invece, «dall’inizio, ex abrupto, il lettore diviene un abitante dei luoghi; la voce narrante gli parla dei piccoli paesi della costa catanese come se li conoscesse anche lui “da che mondo è mondo”, e gli addita i personaggi con il solo nome con cui sono noti da sempre fra i compaesani; non gli fa percorrere le linee astratte di una carta topografica, ma gli parla di cose, delle piccole cose di cui è concretamente composto quel mondo (le barche sull’acqua, le tegole al sole)»121.

Mosso da un’analoga esigenza di realismo, qualche anno più tardi, nel 1897, il giudice americano Oliver Wendell Holmes, ribalta anch’egli la gerarchia tradizionale della narrazione giuridica, focalizzandola sulla molteplicità dei punti di vista dei giudici, presentati come le autentiche voci narranti del diritto 122 . Radicalizzando la prospettiva narratologica di Holmes (e della sociological jurisprudence di Roscoe Pound), nel corso degli anni Trenta del nuovo secolo, autori realisti come Karl Llewellyn e Jerome Frank invitano i giuristi americani a squarciare il velo mistificante delle forme, dei concetti e della logica matematica per

120 G. BALDI, Società antagonistica e valori nei «Malavoglia», in L’artificio

della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, 1980, pp. 75-83. Sulla tecnica del discorso indiretto libero (o erlebte Rede, discorso rivissuto) e sul modo originale con cui questa viene impiegata da Verga, v. L. SPITZER, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», in Romanische Literaturstudien. 1936-1956, Tubinga, 1959, p. 624 ss.

121 R. CESERANI e L. DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario, IV, Società e cultura della borghesia in ascesa, Torino, 1986, pp. 1146-1147.

122 Holmes, com’è risaputo, riduce il diritto alle «prophecies of what the courts will do in fact, and nothing more pretentious» (O.W. HOLMES, The Path of the Law, in Harvard Law Review, 10, 1897, p. 461). Convinto che la vita del diritto non è la logica, ma l’esperienza, Holmes demolisce l’idea secondo cui «the only force at work in the development of the law is logic» e che il diritto possa essere tratto «like mathematics from some general axioms of conduct» (ivi, p. 465).

132 Massimo Vogliotti

colora della loro ideologia, si identifica coi loro pregiudizi e le loro credenze»120.

È del tutto evidente quanto sia diversa questa tecnica narrativa rispetto a quella adottata, ad esempio, nei Promessi sposi di Manzoni. Qui il narratore (onnisciente) «prende per mano il lettore e lo guida prima a familiarizzarsi con i luoghi, spiegandogli davanti una bella carta topografica, poi a coordinarsi con l’epoca storica in cui si svolgono i fatti, poi a conoscere uno a uno, ben descritti, i personaggi». Nei Malavoglia, invece, «dall’inizio, ex abrupto, il lettore diviene un abitante dei luoghi; la voce narrante gli parla dei piccoli paesi della costa catanese come se li conoscesse anche lui “da che mondo è mondo”, e gli addita i personaggi con il solo nome con cui sono noti da sempre fra i compaesani; non gli fa percorrere le linee astratte di una carta topografica, ma gli parla di cose, delle piccole cose di cui è concretamente composto quel mondo (le barche sull’acqua, le tegole al sole)»121.

Mosso da un’analoga esigenza di realismo, qualche anno più tardi, nel 1897, il giudice americano Oliver Wendell Holmes, ribalta anch’egli la gerarchia tradizionale della narrazione giuridica, focalizzandola sulla molteplicità dei punti di vista dei giudici, presentati come le autentiche voci narranti del diritto 122 . Radicalizzando la prospettiva narratologica di Holmes (e della sociological jurisprudence di Roscoe Pound), nel corso degli anni Trenta del nuovo secolo, autori realisti come Karl Llewellyn e Jerome Frank invitano i giuristi americani a squarciare il velo mistificante delle forme, dei concetti e della logica matematica per

120 G. BALDI, Società antagonistica e valori nei «Malavoglia», in L’artificio

della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, 1980, pp. 75-83. Sulla tecnica del discorso indiretto libero (o erlebte Rede, discorso rivissuto) e sul modo originale con cui questa viene impiegata da Verga, v. L. SPITZER, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», in Romanische Literaturstudien. 1936-1956, Tubinga, 1959, p. 624 ss.

121 R. CESERANI e L. DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario, IV, Società e cultura della borghesia in ascesa, Torino, 1986, pp. 1146-1147.

122 Holmes, com’è risaputo, riduce il diritto alle «prophecies of what the courts will do in fact, and nothing more pretentious» (O.W. HOLMES, The Path of the Law, in Harvard Law Review, 10, 1897, p. 461). Convinto che la vita del diritto non è la logica, ma l’esperienza, Holmes demolisce l’idea secondo cui «the only force at work in the development of the law is logic» e che il diritto possa essere tratto «like mathematics from some general axioms of conduct» (ivi, p. 465).

La fine del “grande stile” 133

guardare il diritto come effettivamente è, “da sotto in su”123. Il real law, sostengono, non deve essere cercato nella narrazione asettica e cartacea del legislatore, ma nell’intrico delle mille, piccole e grandi, storie raccontate oralmente nei processi, con la passione di chi quelle storie le ha vissute sulla propria pelle, e raccolte nelle sentenze dei giudici.

Come nella poetica verista di Verga, in cui il narratore adotta un punto di vista esterno e si limita a registrare, oggettivamente, i discorsi e i comportamenti dei personaggi, così nella teoria realista del diritto il giurista scienziato sociale deve disfarsi delle sovrastrutture metafisiche della scienza giuridica tradizionale, normativista e concettualista, e concentrare la sua analisi sui comportamenti dei vari attori giuridici e sui discorsi dei giudici contenuti nelle sentenze. L’attenzione del giurista non va più rivolta ai soggetti disincarnati della narrazione legislativa (maschere che filtrano, deformandola, la realtà), né agli oggetti depurati dai loro attributi reali o ai comportamenti tipizzati in formule generali e astratte, e neppure, a fortiori, agli algidi concetti della dogmatica, decostruiti per rivelarne – dietro lo schermo della neutralità e dell’avalutatività – la loro effettiva connotazione politica. No, lo sguardo del giurista, come quello della voce narrante dei Malavoglia, deve posarsi – senza filtri dogmatici – su quell’uomo particolare, in carne ed ossa, vittima di quel preciso fatto di reato; non sul concetto di “veicolo” o sul tipo “lesione personale gravissima”, ma su quella concreta automobile e su quel ributtante sfregio sul volto. Il giurista scienziato non deve più cercare e mostrare, come fa il narratore dei Promessi sposi, il diritto sulla cartina geografica del legislatore o seguendo le linee geometriche delle astratte topografie della dottrina, ma – allo stesso modo del narratore dei Malavoglia che, senza filtri letterari, vive tra la gente di Aci Trezza e osserva, come i suoi personaggi, la casa del nespolo e la barca Provvidenza – deve uscire dal suo studiolo, abbandonando le falsanti categorie teoriche della mechanical

123 Questo, come si è già ricordato, è lo sguardo eterodosso, improntato a schietto pragmatismo, con cui il civilista Enrico Finzi, a partire dalla seconda decade del Novecento, guarda al diritto, respingendo «l’idea che il Codice sia lo specchio perfetto dell’ordinamento, quasi un museo dove ci sono armadii e teche, dove tutto è ben classificato, ma dove quel tutto rappresenta una parte minima della civiltà che il museo ha la pretesa di manifestare al visitatore» (così P. GROSSI, Enrico Finzi: un innovatore solitario, cit., p. XXVI).

134 Massimo Vogliotti

jurisprudence, e scendere tra le vie, le piazze, i porti di città reali osservando la vita dei loro abitanti e registrandone fedelmente le voci.

La crisi della figura mitica del Legislatore-Narratore onnisciente e onnipotente, che dominava il sistema unitario e gerarchizzato delle fonti e pianificava dall’alto la narrazione giuridica ottocentesca, è testimoniata, seppur con toni ben più moderati di quelli assunti dalla rivolta antiformalista d’oltreoceano, da un altro giudice, il primo presidente della Corte di cassazione francese, in occasione del centenario del Code civil, il grand récit della narrazione giuridica borghese.

Nel tracciare il bilancio di un secolo di esistenza del codice, Ballot-Beaupré, dopo aver reso omaggio, nelle battute iniziali, ad un’opera ancor oggi «digne d’être admirée» 124 , prosegue il suo discorso tessendo l’elogio della giurisprudenza che, «dans le cours du siècle dernier, plusieurs générations de praticiens – notaires, avoués, avocats, magistrats – ont, avec le concours de la doctrine, contribué à former» 125 . Nelle pieghe della sua pur grandiosa architettura, quell’opera mostrava «des imperfections, elle avait des lacunes, qu’avec la marche des années les transformations sociales ont rendues plus sensibles». Pertanto, in presenza di «tous les changements qui, depuis un siècle, se sont opérés dans les idées, dans les mœurs, dans les institutions, dans l’état économique et social de la France, la justice et la raison commandent d’adapter libéralement, humainement, le texte aux réalités et aux exigences de la vie modernes». Il giudice – a cui la penna demistificante di Ballot-Beaupré attribuisce nuovamente il ruolo, che gli era stato revocato dalla critica illuministica, di attivo lector in fabula126 – «ne doit pas s’attarder à rechercher obstinément quelle a été, il y a cent ans, la pensée des auteurs du Code en rédigeant tel ou tel article; il doit se demander ce qu’elle serait si le même article était aujourd’hui rédigé par eux».

Come si vede, nel ritratto dell’alto magistrato, il codice perde quella corazza cristallina che la mitologia ottocentesca gli aveva

124 Discours di M. BALLOT-BEAUPRÉ, Premier Président de la Cour de

cassation, in Le Code civil – 1804-1904 – Livre du centenaire, t. II, Paris-Frankfurt, 1969, p. 24.

125 Ivi, p. 36. 126 U. ECO, Lector in fabula, Milano, 1979.

134 Massimo Vogliotti

jurisprudence, e scendere tra le vie, le piazze, i porti di città reali osservando la vita dei loro abitanti e registrandone fedelmente le voci.

La crisi della figura mitica del Legislatore-Narratore onnisciente e onnipotente, che dominava il sistema unitario e gerarchizzato delle fonti e pianificava dall’alto la narrazione giuridica ottocentesca, è testimoniata, seppur con toni ben più moderati di quelli assunti dalla rivolta antiformalista d’oltreoceano, da un altro giudice, il primo presidente della Corte di cassazione francese, in occasione del centenario del Code civil, il grand récit della narrazione giuridica borghese.

Nel tracciare il bilancio di un secolo di esistenza del codice, Ballot-Beaupré, dopo aver reso omaggio, nelle battute iniziali, ad un’opera ancor oggi «digne d’être admirée» 124 , prosegue il suo discorso tessendo l’elogio della giurisprudenza che, «dans le cours du siècle dernier, plusieurs générations de praticiens – notaires, avoués, avocats, magistrats – ont, avec le concours de la doctrine, contribué à former» 125 . Nelle pieghe della sua pur grandiosa architettura, quell’opera mostrava «des imperfections, elle avait des lacunes, qu’avec la marche des années les transformations sociales ont rendues plus sensibles». Pertanto, in presenza di «tous les changements qui, depuis un siècle, se sont opérés dans les idées, dans les mœurs, dans les institutions, dans l’état économique et social de la France, la justice et la raison commandent d’adapter libéralement, humainement, le texte aux réalités et aux exigences de la vie modernes». Il giudice – a cui la penna demistificante di Ballot-Beaupré attribuisce nuovamente il ruolo, che gli era stato revocato dalla critica illuministica, di attivo lector in fabula126 – «ne doit pas s’attarder à rechercher obstinément quelle a été, il y a cent ans, la pensée des auteurs du Code en rédigeant tel ou tel article; il doit se demander ce qu’elle serait si le même article était aujourd’hui rédigé par eux».

Come si vede, nel ritratto dell’alto magistrato, il codice perde quella corazza cristallina che la mitologia ottocentesca gli aveva

124 Discours di M. BALLOT-BEAUPRÉ, Premier Président de la Cour de

cassation, in Le Code civil – 1804-1904 – Livre du centenaire, t. II, Paris-Frankfurt, 1969, p. 24.

125 Ivi, p. 36. 126 U. ECO, Lector in fabula, Milano, 1979.

La fine del “grande stile” 135

costruito e appare materia plastica la quale, «entre les mains des juristes», diventa «un instrument d’une singulière puissance». Attraverso «la combinaison d’articles même séparés et éloignés les uns des autres», la duttilità del codice – abilmente plasmato dagli interpreti – «permet d’attenuer les effets rigoureux ou de corriger les imperfections de l’un d’eux»127. Dopo un secolo di vita, il codice ritrova lo spirito autentico che aveva ispirato i suoi redattori – epigoni della cultura giuridica medievale – e che si può riassumere nella celebre battuta del Discours préliminaire di Portalis: «Les codes des peuples se font avec le temps; mais, à proprement parler, on ne les fait pas»128.

Ma non è solo la voce narrante a frammentarsi, focalizzandosi nuovamente – dopo la lunga rimozione illuministica – su una pluralità di fonti. Anche i personaggi della narrazione giuridica si arricchiscono di nuove identità, rivelando finalmente, dietro la maschera del soggetto unico di diritto, i loro mille volti reali.

Analogamente alla letteratura, pronta ad assorbire i contributi della psicanalisi che riducono il soggetto a un «aggregato di relazioni psichiche», a un «agglomerato che riunisce, sotto una provvisoria unità di superficie, una struttura plurima del soggetto» 129 , la narrazione giuridica novecentesca decompone il soggetto generale e astratto del grande stile della codificazione borghese, frammentandolo in una pluralità di soggetti situati, colti nei loro vari contesti vitali, definiti dalle molteplici qualità possedute e strettamente connessi alla rete dei rapporti sociali ed economici che concretamente li avvolgono e li costituiscono.

La prima, fondamentale, figura soggettiva generata dall’implo-sione del moderno soggetto unico di diritto – a cui se ne aggiun-geranno via via numerose altre, sempre più minuziosamente ricche

127 Ibidem, pp. 24, 27-28. 128 J.É.M. PORTALIS, Discours préliminaire sur le projet de code civil, in

Discours et rapports sur le code civil, Centre de Philosophie politique et juridique, Université de Caen, 1992, p. 15. Sull’immaginario del codice, cfr. le osservazioni di D. DE BECHILLON, L’imaginaire d’un code, in Droits, 27, 1998, p. 173 ss. In generale, sul significato del codice nella modernità giuridica e sulla necessità di un ripensamento di questo genere letterario, v. P. CAPPELLINI e B. SORDI (a cura di), Codici. Una riflessione di fine millennio, Atti dell’incontro di studio (Firenze, 26-28 ottobre 2000), Milano, 2002 e F. OST, Codifier en 1987?, in Le Journal des procès, 116, 1987, p. 16 ss.

129 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 257.

136 Massimo Vogliotti

di tratti tipizzanti (il soggetto donna, minorenne, infortunato, malato, pensionato, disoccupato, consumatore, studente, omosessuale, transessuale…) – è il soggetto lavoratore. Com’è noto, il Codice Napoleone aveva risolto il problema del lavoro subordinato e autonomo mediante il vecchio schema romanistico della locatio operarum. Secondo questa categoria teorica, il lavoratore, parte debole del contratto, è (beffardamente) nobilitato a proprietario della propria forza lavoro, che viene offerta – come se fosse una semplice cosa – in godimento a un altro soggetto – formalisticamente equiparato al primo, ma sostanzialmente soggetto forte – contro la prestazione di un corrispettivo. Trasparente il sostrato ideologico soggiacente all’operazione tecnico-giuridica della moderna borghesia: «Visione materialistica del lavoro, sua mercificazione nella riduzione a cosa; separazione fra lavoro e personalità del lavoratore, con il significato prevalente di togliergli ogni connotazione etica e sociale»130.

Il superamento dell’impostazione romanistica, che svaluta la persona del lavoratore di cui si trascura la sua identità tipica, presuppone che il fatto “lavoro” venga colto nella sua «specificità etica e sociale»131. Ciò avviene alla fine del secolo XIX, in seguito alle profonde trasformazioni economico-sociali provocate dalla rivoluzione industriale e alle conseguenti rivendicazioni del quarto stato, che riesce ad estorcere alla borghesia le prime «rozze “impure” fattualissime leggi sociali»132. Il diritto del lavoro, e con esso il nuovo soggetto lavoratore, nascono in quegli atti di legislazione sociale, nella prassi dei concreti rapporti di lavoro e «nella riflessione di una consapevole scienza giuridica che cerca di definire tecnicamente le avvenute conquiste sociali». In questa riflessione – cui il giurista tedesco Philipp Lotmar fornisce, all’alba del Novecento, il primo significativo contributo, valorizzando come fonti numerosi atti forgiati nell’«officina delle cose»133 – due sono i punti di non ritorno. Primo: il contratto di lavoro – in cui accanto all’io individuale si affianca, a sua tutela, un io collettivo, che

130 P. GROSSI, L’Europa del diritto, cit., p. 202. 131 Ivi, p. 201. 132 Ivi, p. 203. In Germania – dove il BGB non parla formalmente di locazione

d’opere, ma a quello schema è sostanzialmente modellato il contratto di lavoro – le leggi sociali sono concesse paternalisticamente dall’alto.

133 È un’espressione di Enrico Finzi (v., per la citazione, P. GROSSI, Enrico Finzi: un innovatore solitario, cit., p. XXXVI).

136 Massimo Vogliotti

di tratti tipizzanti (il soggetto donna, minorenne, infortunato, malato, pensionato, disoccupato, consumatore, studente, omosessuale, transessuale…) – è il soggetto lavoratore. Com’è noto, il Codice Napoleone aveva risolto il problema del lavoro subordinato e autonomo mediante il vecchio schema romanistico della locatio operarum. Secondo questa categoria teorica, il lavoratore, parte debole del contratto, è (beffardamente) nobilitato a proprietario della propria forza lavoro, che viene offerta – come se fosse una semplice cosa – in godimento a un altro soggetto – formalisticamente equiparato al primo, ma sostanzialmente soggetto forte – contro la prestazione di un corrispettivo. Trasparente il sostrato ideologico soggiacente all’operazione tecnico-giuridica della moderna borghesia: «Visione materialistica del lavoro, sua mercificazione nella riduzione a cosa; separazione fra lavoro e personalità del lavoratore, con il significato prevalente di togliergli ogni connotazione etica e sociale»130.

Il superamento dell’impostazione romanistica, che svaluta la persona del lavoratore di cui si trascura la sua identità tipica, presuppone che il fatto “lavoro” venga colto nella sua «specificità etica e sociale»131. Ciò avviene alla fine del secolo XIX, in seguito alle profonde trasformazioni economico-sociali provocate dalla rivoluzione industriale e alle conseguenti rivendicazioni del quarto stato, che riesce ad estorcere alla borghesia le prime «rozze “impure” fattualissime leggi sociali»132. Il diritto del lavoro, e con esso il nuovo soggetto lavoratore, nascono in quegli atti di legislazione sociale, nella prassi dei concreti rapporti di lavoro e «nella riflessione di una consapevole scienza giuridica che cerca di definire tecnicamente le avvenute conquiste sociali». In questa riflessione – cui il giurista tedesco Philipp Lotmar fornisce, all’alba del Novecento, il primo significativo contributo, valorizzando come fonti numerosi atti forgiati nell’«officina delle cose»133 – due sono i punti di non ritorno. Primo: il contratto di lavoro – in cui accanto all’io individuale si affianca, a sua tutela, un io collettivo, che

130 P. GROSSI, L’Europa del diritto, cit., p. 202. 131 Ivi, p. 201. 132 Ivi, p. 203. In Germania – dove il BGB non parla formalmente di locazione

d’opere, ma a quello schema è sostanzialmente modellato il contratto di lavoro – le leggi sociali sono concesse paternalisticamente dall’alto.

133 È un’espressione di Enrico Finzi (v., per la citazione, P. GROSSI, Enrico Finzi: un innovatore solitario, cit., p. XXXVI).

La fine del “grande stile” 137

assume il ruolo di parte contraente e di produttore di norme – «non può essere astratto dalle effettive situazioni socio-economiche». Secondo: il contratto di lavoro «non è una relazione contrattuale anonima, né il lavoro può essere ridotto entro una concezione meramente patrimoniale. Il lavoro è la stessa persona in azione, che impegna in esso non una dimensione patrimoniale ma squisitamente personale; il lavoro è parte essenziale della vita di quel soggetto in carne e ossa che è il lavoratore»134.

3.2. …e il passaggio dall’idea di sostanza a quella di relazione Al pari del soggetto, anche l’altro presupposto del “grande stile”,

l’idea di sostanza, viene negata e dissolta in quella di relazione. Nella letteratura della crisi, osserva Magris, «ogni valore, anzi

ogni realtà appare meramente funzionale, risulta una variabile determinata unicamente dal contesto e mutevole con l’incessante mutarsi di quest’ultimo; l’attività del Geist consiste nello scoprire e nell’istituire continuamente nuove correlazioni e nuovi rapporti, entro i quali i dati dell’esperienza si dispongono con funzioni e quindi con significati stabiliti dalla costellazione del momento e perciò sempre nuovi». L’Uomo senza qualità, dice Musil, «è fatto di qualità senza l’uomo: le sue proprietà non sono più proprietà di una sostanza che dia loro un senso unitario, ma sono un aggregato di proprietà privo di centro cui esse possano riferirsi e che le possa gerarchizzare». La realtà «diviene una serie infinita di centri e l’arte, per esserle fedele, mima e riproduce nella propria disarticolazione la sua molteplicità anarchica» 135 . Seguendo l’insegnamento di Nietzsche secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni136, «Musil scompone ogni pretesa realtà consolidata

134 P. GROSSI, L’Europa del diritto, cit., pp. 205-206. 135 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., pp. 257 e 259. 136 «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo “ci sono soltanto

fatti”, io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni. Non possiamo stabilire nessun fatto “in sé”: forse è assurdo il volere qualcosa del genere. Voi dite: “tutto è soggettivo”; ma già questo è una interpretazione. Il “soggetto” non è un che di dato, ma un che di immaginato in aggiunta, di posto sullo sfondo. E infine, è necessario porre anche un interprete dietro l’interpretazione? Già questo è immagine poetica, ipotesi. Nella misura in cui la parola “conoscenza” ha in genere un senso, il mondo è conoscibile; ma lo si può

138 Massimo Vogliotti

nelle “prospettive senza fine”, nelle interpretazioni incessanti e discontinue che la compongono e la dissolvono, in un gioco prospettico dietro il quale non c’è un soggetto che interpreti ma solo l’autonomo movimento delle interpretazioni». Il reale, prosegue Magris, continuando a suscitare una cascata di rimandi evocativi per il giurista che si avventura oltre la modernità, «è un immenso e mutevole campo di relazioni retto dal principio d’indeterminazione, continuamente modificato dall’osservatore che vuole conoscerlo e con ciò stesso lo altera ovvero dal narratore, la cui parola non ha davanti a sé né una totalità organica da rappresentare né una informe da plasmare e costituire dialetticamente, bensì una struttura di reazioni interdipendenti che si trasforma ed aggiusta parallelamente alla scrittura del romanzo, il quale perciò non può mai assestarsi in una forma definitiva bensì muta, al pari della verità, dice Musil, come la forma di un sacco via via riempito di nuovi contenuti». Le parole dei personaggi del romanzo di Musil «sono puri significanti sottratti alla tirannide del significato, sono metafore che non si svelano alla decodificazione del pensiero logico-rappresentativo, bensì al gioco che costituisce il discorso poetico. Il linguaggio e la vita di Clarisse non conoscono sostantivi né oggetti o stati, bensì solo verbi e processi in divenire: le ninfee adagiate sull’acqua non sono ninfee, ma un “dolce adagiarsi”»137.

Il passaggio, sul piano filosofico, dall’idea di sostanza all’idea di relazione, che in letteratura trova in Musil una testimonianza particolarmente significativa, è il risultato di un variegato intreccio di contributi che recentemente è stato riassunto con la formula “svolta contestuale”.

Come nota Carlo Penco in un’opera collettanea dedicata a tale vicenda, dietro la più nota e risalente etichetta “svolta linguistica”, che Richard Rorty aveva inventato nel 1967 per compendiare la

interpretare in altro modo: esso non ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo. I nostri istinti, il loro pro e contro. Ogni istinto è una sorta di avidità di potenza, ognuno ha la sua prospettiva che vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri». (F. NIETZSCHE, La volontà di potenza. Frammenti postumi (II ed., riveduta da O. Weiss, 1911), Milano, 1994, par. 481, pp. 271-272).

137 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., pp. 260, 262, 261 e 265-266.

138 Massimo Vogliotti

nelle “prospettive senza fine”, nelle interpretazioni incessanti e discontinue che la compongono e la dissolvono, in un gioco prospettico dietro il quale non c’è un soggetto che interpreti ma solo l’autonomo movimento delle interpretazioni». Il reale, prosegue Magris, continuando a suscitare una cascata di rimandi evocativi per il giurista che si avventura oltre la modernità, «è un immenso e mutevole campo di relazioni retto dal principio d’indeterminazione, continuamente modificato dall’osservatore che vuole conoscerlo e con ciò stesso lo altera ovvero dal narratore, la cui parola non ha davanti a sé né una totalità organica da rappresentare né una informe da plasmare e costituire dialetticamente, bensì una struttura di reazioni interdipendenti che si trasforma ed aggiusta parallelamente alla scrittura del romanzo, il quale perciò non può mai assestarsi in una forma definitiva bensì muta, al pari della verità, dice Musil, come la forma di un sacco via via riempito di nuovi contenuti». Le parole dei personaggi del romanzo di Musil «sono puri significanti sottratti alla tirannide del significato, sono metafore che non si svelano alla decodificazione del pensiero logico-rappresentativo, bensì al gioco che costituisce il discorso poetico. Il linguaggio e la vita di Clarisse non conoscono sostantivi né oggetti o stati, bensì solo verbi e processi in divenire: le ninfee adagiate sull’acqua non sono ninfee, ma un “dolce adagiarsi”»137.

Il passaggio, sul piano filosofico, dall’idea di sostanza all’idea di relazione, che in letteratura trova in Musil una testimonianza particolarmente significativa, è il risultato di un variegato intreccio di contributi che recentemente è stato riassunto con la formula “svolta contestuale”.

Come nota Carlo Penco in un’opera collettanea dedicata a tale vicenda, dietro la più nota e risalente etichetta “svolta linguistica”, che Richard Rorty aveva inventato nel 1967 per compendiare la

interpretare in altro modo: esso non ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo. I nostri istinti, il loro pro e contro. Ogni istinto è una sorta di avidità di potenza, ognuno ha la sua prospettiva che vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri». (F. NIETZSCHE, La volontà di potenza. Frammenti postumi (II ed., riveduta da O. Weiss, 1911), Milano, 1994, par. 481, pp. 271-272).

137 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., pp. 260, 262, 261 e 265-266.

La fine del “grande stile” 139

rivoluzione filosofica dell’inizio del XX secolo138, si nascondeva una «rivoluzione più profonda», data «dal ruolo centrale del contesto nell’analisi del linguaggio e del pensiero» 139 . Uno dei principi fondamentali che si accompagnavano alla nuova logica era il “principio del contesto” di Frege, secondo cui il significato di una parola non è un’idea o rappresentazione mentale, come sostenuto da una lunga tradizione che affonda le sue radici in Locke, ma si dà (solo) nel contesto di un enunciato140. Questo principio, «nelle sue diverse formulazioni e sviluppi, è stato […] una delle fonti della svolta contestuale del secolo passato, le cui conseguenze iniziano a emergere con maggior chiarezza nel nostro secolo»141.

Il principio di contestualità è stato ripreso, tra gli altri, da Wittgenstein che ne ha proposto una riformulazione allargata, sostenendo che per comprendere il significato di una parola non basta coglierla in relazione ad un enunciato, ma occorre comprendere l’intero linguaggio 142 . Con una precisazione fonda-mentale: il significato delle parole e degli enunciati «va inteso non tanto (o non solo) sullo sfondo di un linguaggio come insieme potenzialmente infinito di frasi ben formate, ma sullo sfondo di quell’intreccio di parole e azioni costituito dai giochi linguistici in cui gli enunciati sono inseriti»143. Ciò significa che è impossibile separare il contesto linguistico dal contesto extralinguistico (il contesto dell’azione): l’idea che il punto di partenza per la comprensione del significato è rappresentato da quella fitta rete di usi che sono i numerosi e variopinti giochi linguistici di cui è fatto un linguaggio «comporta che l’analisi delle espressioni linguistiche

138 La svolta linguistica consisterebbe nel fatto che «tutti i problemi filosofici

sono problemi sollevati dai fraintendimenti linguistici e nel fatto che il metodo filosofico si ridurrebbe all’analisi linguistica» (C. PENCO, Introduzione. Le ragioni di una svolta, in ID. (a cura di), La svolta contestuale, Milano-New York, 2002, p. XVIII).

139 Ivi, p. XV. 140 Il principio è stato enunciato nelle Grundlagen der Mathematik (par. 60),

del 1884. V., sul punto, ivi, il Capitolo I di Eva Picardi. 141 C. PENCO, Introduzione, cit., p. XV. 142 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche (1953), Torino, 1968, par. 199:

«Comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio». V. anche il par. 381: «Come faccio a sapere che questo colore è rosso? – Una risposta potrebbe essere questa: “Ho imparato l’italiano”».

143 C. PENCO, Introduzione, cit., p. XXIX.

140 Massimo Vogliotti

non può essere separata dall’analisi del contesto in cui tali espressioni vengono pronunciate»144, contesto che rinvia, a sua volta e necessariamente, alla più ampia “forma di vita” della comunità linguistica.

La versione di Wittgenstein del principio del contesto di Frege è simile a quella proposta da Quine nel saggio Due dogmi dell’empirismo (1951), poi ripresa in Parola e Oggetto (1960) con un esplicito riferimento al paragrafo 199 delle Ricerche filosofiche. Anche Quine rifiuta le teorie che riducono il significato ad “oggetto”, “sostanza”: esse sarebbero accomunate dallo stesso «mito del significato», ossia del «mito di un museo in cui gli oggetti esposti sono i significati e le parole sono le etichette»145. Per Quine il significato non è analizzabile in unità semantiche definite e costanti; esso risulta, piuttosto, da «una rete di relazioni globali, in cui i termini non sono separabili dal contesto e in cui le proposizioni sono interdipendenti» 146 . La medesima prospettiva olistica vale per gli enunciati della scienza. Non è possibile dare una verifica empirica di singole proposizioni: «L’unità di conferma empirica è l’intero sistema della scienza»147.

Nello stesso ordine di idee si collocano autori come Hanson (1958), Kuhn (1962) e Feyerabend (1965), che hanno impresso una «svolta storica» 148 alla filosofia della scienza. Muovendo dal presupposto che non sia possibile rappresentare oggettivamente la realtà in quanto ogni oggetto si manifesta già “carico” di teoria (la cosiddetta theory-ladeness delle osservazioni) 149 , questi filosofi “delle cornici concettuali” sostengono che il significato dei termini scientifici dipende dal contesto teorico in cui si trovano e che questi

144 Ivi, p. XVIII. 145 W.V.O. QUINE, La relatività ontologica, in ID., La relatività ontologica e

altri saggi (1969), Roma, 1986, p. 60. 146 S. BORUTTI, Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle scienze

umane, Milano, 1991, p. 84. 147 C. PENCO, Introduzione, cit., p. XIX. 148 V., in merito, M. DORATO, Filosofia della scienza, in F. D’AGOSTINI e N.

VASSALLO (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino, 2002, p. 228. 149 Gli oggetti non sono più considerati, alla stregua dei neopositivisti, come

dei dati che si impongono al soggetto conoscente, il quale si limiterebbe a rappresentarli sulla sua mappa teorica, ma come dei «punti di condensazione» all’interno della nostra «rete linguistico-concettuale» (S. BORUTTI, Teoria e interpretazione, cit., p. 71).

140 Massimo Vogliotti

non può essere separata dall’analisi del contesto in cui tali espressioni vengono pronunciate»144, contesto che rinvia, a sua volta e necessariamente, alla più ampia “forma di vita” della comunità linguistica.

La versione di Wittgenstein del principio del contesto di Frege è simile a quella proposta da Quine nel saggio Due dogmi dell’empirismo (1951), poi ripresa in Parola e Oggetto (1960) con un esplicito riferimento al paragrafo 199 delle Ricerche filosofiche. Anche Quine rifiuta le teorie che riducono il significato ad “oggetto”, “sostanza”: esse sarebbero accomunate dallo stesso «mito del significato», ossia del «mito di un museo in cui gli oggetti esposti sono i significati e le parole sono le etichette»145. Per Quine il significato non è analizzabile in unità semantiche definite e costanti; esso risulta, piuttosto, da «una rete di relazioni globali, in cui i termini non sono separabili dal contesto e in cui le proposizioni sono interdipendenti» 146 . La medesima prospettiva olistica vale per gli enunciati della scienza. Non è possibile dare una verifica empirica di singole proposizioni: «L’unità di conferma empirica è l’intero sistema della scienza»147.

Nello stesso ordine di idee si collocano autori come Hanson (1958), Kuhn (1962) e Feyerabend (1965), che hanno impresso una «svolta storica» 148 alla filosofia della scienza. Muovendo dal presupposto che non sia possibile rappresentare oggettivamente la realtà in quanto ogni oggetto si manifesta già “carico” di teoria (la cosiddetta theory-ladeness delle osservazioni) 149 , questi filosofi “delle cornici concettuali” sostengono che il significato dei termini scientifici dipende dal contesto teorico in cui si trovano e che questi

144 Ivi, p. XVIII. 145 W.V.O. QUINE, La relatività ontologica, in ID., La relatività ontologica e

altri saggi (1969), Roma, 1986, p. 60. 146 S. BORUTTI, Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle scienze

umane, Milano, 1991, p. 84. 147 C. PENCO, Introduzione, cit., p. XIX. 148 V., in merito, M. DORATO, Filosofia della scienza, in F. D’AGOSTINI e N.

VASSALLO (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino, 2002, p. 228. 149 Gli oggetti non sono più considerati, alla stregua dei neopositivisti, come

dei dati che si impongono al soggetto conoscente, il quale si limiterebbe a rappresentarli sulla sua mappa teorica, ma come dei «punti di condensazione» all’interno della nostra «rete linguistico-concettuale» (S. BORUTTI, Teoria e interpretazione, cit., p. 71).

La fine del “grande stile” 141

contesti teorici (i “paradigmi”) sono storicamente determinati. Ne consegue che un mutamento di paradigma (“rivoluzione”) determina una sorta di mutamento dell’arredo del mondo e, quindi, una trasformazione dell’orizzonte dei problemi della comunità scientifica, chiamata a immaginare nuove soluzioni: «Dopo un mutamento di paradigma, gli scienziati non possono non vedere in maniera diversa il mondo in cui sono impegnate le loro ricerche. Nei limiti in cui i loro rapporti con quel mondo hanno luogo attraverso ciò che essi vedono e fanno, possiamo dire che, dopo una rivoluzione, gli scienziati reagiscono a un mondo differente»150.

Infine – ma si potrebbe continuare, ricordando, per esempio, la teoria degli atti linguistici di Austin, che fornisce un ulteriore, fondamentale, contributo alla svolta pragmatica della filosofia analitica – il padre della feconda e ramificata famiglia ermeneutica, Hans Georg Gadamer, ha attribuito un ruolo assolutamente centrale al contesto (all’applicazione) nell’attività del comprendere: «Il testo, sia esso la legge o la rivelazione divina, per esser compreso in modo adeguato, cioè conformemente al modo in cui esso stesso si presenta, deve venir compreso in ogni momento, ossia in ogni situazione concreta, in maniera nuova e diversa. Comprendere significa sempre, necessariamente, applicare»151.

Anche in ambito giuridico, i primi segni di valorizzazione del contesto – o, più precisamente, il ritorno d’interesse per il contesto, dopo la lunga parentesi moderna in cui il diritto era stato congelato in testi autoritativi che si assumevano impermeabili alle dinamiche applicative – si manifestano tra la fine del XIX e gli anni Venti e Trenta del XX secolo, in quel torno di tempo in cui, come si è più volte ricordato, il «mondo di ieri»152 stava tramontando e quello di domani cominciava a dischiudersi.

150 T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962; II ed. 1970),

Torino, 1999, p. 139. 151 H.G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Milano, 1983, p. 360. 152 Il Mondo di ieri è il titolo dell’autobiografia dello scrittore austriaco

Stephan Zweig, pubblicata nel 1942, l’anno della sua morte. Il primo capitolo di quell’opera, come ci ricorda opportunamente Paolo Grossi nell’incipit di un saggio dedicato al novecento giuridico, è intitolato, significativamente “Il mondo della sicurezza”, quel mondo dell’infanzia e della giovinezza che crolla con la prima guerra mondiale: «Ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua

142 Massimo Vogliotti

Mentre la comunità giuridica ortodossa continuava a coltivare l’hortus conclusus della “scienza normale”, sforzandosi di rimediare alle sempre più numerose anomalie del paradigma attraverso la strategia delle “ipotesi ad hoc”153, la letteratura giuridica della crisi denunciava, dalle due sponde dell’Atlantico, la «mechanical jurisprudence» e il ««fétichisme de la loi écrite et codifiée», incoraggiando i giuristi a rigettare il dogma secondo cui «toute solution juridique devrait être puisée dans la loi écrite» 154 e a volgere lo sguardo «au-delà» dei testi normativi155, verso la «nature des choses» (Gény), il «freies Recht» (Kantorowicz), il «lebendes Recht» (Ehrlich), l’«esperienza concreta» (Capograssi), l’«individualità del reale» (Antolisei), il «law in action» (Pound) e il «real law» (Llewellyn), un fiorire di nozioni diverse, a cui altre si potrebbero aggiungere, ma tutte accomunate dalla medesima intenzione di ricollocare il diritto nel contesto della società, dei suoi valori, dei suoi bisogni, dei suoi interessi.

Termini, categorie, principi, istituti che si erano cristallizzati in significati coerenti rispetto alla cornice paradigmatica moderna, ma che ora si rivelano inadeguati ad afferrare la complessità recuperata e il dinamismo della realtà, rompono i vecchi involucri alla ricerca di nuovi significati in linea con le nuove – e, per i più, ereticali – sensibilità teoriche.

La legge, innanzitutto, «non ha più la corazza di rigidità attribuitagli quale carattere essenziale dalla strategia moderna, ma, proiettata verso il futuro, è considerata aperta a fare suo il divenire incessante, pervenendo a variare i suoi contenuti in relazione al variare degli eventi» 156 . L’interpretazione – sterilizzata dall’ostra-cismo illuminista che l’aveva confinata alla mera esegesi della legge,

norma» (passo riportato da P. GROSSI, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., p. 4).

153 Si rinvia, per alcune esemplificazioni, a M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto, cit., pp. 5-7.

154 F. GENY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif (1899), II ed., Paris, 1919, I, § 35, p. 70 e § 61, p. 127.

155 L’esigenza di andare «au-delà» dei testi normativi è un leit motif di Saleilles. Nel 1899, nella prefazione alla prima edizione del Méthode di Gény, ammette con soddisfazione: «Il sera difficile désormais que cet “au-delà” ne devienne pas le mot d’ordre de tous les juristes» (R. SALEILLES, Préface a F. GENY, Méthode d’interprétation, cit., p. XXV).

156 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 15.

142 Massimo Vogliotti

Mentre la comunità giuridica ortodossa continuava a coltivare l’hortus conclusus della “scienza normale”, sforzandosi di rimediare alle sempre più numerose anomalie del paradigma attraverso la strategia delle “ipotesi ad hoc”153, la letteratura giuridica della crisi denunciava, dalle due sponde dell’Atlantico, la «mechanical jurisprudence» e il ««fétichisme de la loi écrite et codifiée», incoraggiando i giuristi a rigettare il dogma secondo cui «toute solution juridique devrait être puisée dans la loi écrite» 154 e a volgere lo sguardo «au-delà» dei testi normativi155, verso la «nature des choses» (Gény), il «freies Recht» (Kantorowicz), il «lebendes Recht» (Ehrlich), l’«esperienza concreta» (Capograssi), l’«individualità del reale» (Antolisei), il «law in action» (Pound) e il «real law» (Llewellyn), un fiorire di nozioni diverse, a cui altre si potrebbero aggiungere, ma tutte accomunate dalla medesima intenzione di ricollocare il diritto nel contesto della società, dei suoi valori, dei suoi bisogni, dei suoi interessi.

Termini, categorie, principi, istituti che si erano cristallizzati in significati coerenti rispetto alla cornice paradigmatica moderna, ma che ora si rivelano inadeguati ad afferrare la complessità recuperata e il dinamismo della realtà, rompono i vecchi involucri alla ricerca di nuovi significati in linea con le nuove – e, per i più, ereticali – sensibilità teoriche.

La legge, innanzitutto, «non ha più la corazza di rigidità attribuitagli quale carattere essenziale dalla strategia moderna, ma, proiettata verso il futuro, è considerata aperta a fare suo il divenire incessante, pervenendo a variare i suoi contenuti in relazione al variare degli eventi» 156 . L’interpretazione – sterilizzata dall’ostra-cismo illuminista che l’aveva confinata alla mera esegesi della legge,

norma» (passo riportato da P. GROSSI, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., p. 4).

153 Si rinvia, per alcune esemplificazioni, a M. VOGLIOTTI, Tra fatto e diritto, cit., pp. 5-7.

154 F. GENY, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif (1899), II ed., Paris, 1919, I, § 35, p. 70 e § 61, p. 127.

155 L’esigenza di andare «au-delà» dei testi normativi è un leit motif di Saleilles. Nel 1899, nella prefazione alla prima edizione del Méthode di Gény, ammette con soddisfazione: «Il sera difficile désormais que cet “au-delà” ne devienne pas le mot d’ordre de tous les juristes» (R. SALEILLES, Préface a F. GENY, Méthode d’interprétation, cit., p. XXV).

156 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 15.

La fine del “grande stile” 143

riducendo la giurisdizione a meccanica sussunzione di fatti sotto norme semanticamente chiuse a ogni apporto della vicenda applicativa: «Pour appliquer une loi, il n’y avait qu’à la lire», osservava, retrospettivamente, Raymond Saleilles157 – ritrova la sua autentica natura relazionale, di mediazione produttiva tra «la dinamica di valori e fatti e la statica dell’edificio legale» 158 , consentendo alle parole della legge, di per sé immobili, di seguire il flusso della storia, di adeguarsi alle cangianti sfumature dei contesti, recependo i nuovi significati richiesti dai mutamenti della realtà e dall’evoluzione della società e dei suoi costumi.

Prevedibile, alla luce di questa nuova “poetica” giuridica, che si rispolveri un termine come quello di equità che l’astrattismo moderno aveva abbandonato nelle soffitte del lessico giuridico, come relitto di un’epoca d’inciviltà giuridica che si riteneva ormai definitivamente alle spalle. L’equità – «ossia l’atteggiamento del diritto a misurarsi in modo ravvicinato con la giustizia, e dove il fattuale la vince sul formale, il particolare sul generale, il concreto sull’astratto – era un mostro orrendo per ogni legalismo statalista e formalista, giacché, vanificando la muraglia cinese fra diritto e non/diritto, scompigliava la confinazione netta con il mondo dei fatti, innalzava il ruolo del giudice e umiliava quello del legislatore»159. Per la nuova sensibilità giuridica, invece, l’equità, lungi dall’essere considerata un evento marginale – come rimedio eccezionale a disfunzioni ugualmente eccezionali dello schema giuridico formale – o, più sovente, patologico della vita del diritto – perché aprirebbe all’arbitrio del diritto giurisprudenziale, compromettendo il dogma della divisione dei poteri e il valore fondamentale della certezza del diritto (la stella polare dell’assiologia giuridica moderna) – comincia, faticosamente, a riguadagnare la posizione centrale che aveva sempre avuto prima

157 Il passo dell’Allocution introduttiva a un volume collettaneo su Les

méthodes juridiques (1911), ricordato da P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato. Lungo l’itinerario scientifico di Raymond Saleilles, cit., p. 289, prosegue così : «Et si elle présentait quelques lacunes ou quelques points douteux, avec un peu de grammaire e de logique, il était si facile de tout expliquer. Heureux furent les juges qui vécurent jusque vers le dernier quart du XIXe siècle ! Ils pouvaient remplir leurs fonctions sans trop de troubles de conscience. Je n’en dirai pas autant de leurs successeurs».

158 P. GROSSI, Novecento giuridico, cit., p. 18. 159 Ivi, p. 16.

144 Massimo Vogliotti

della rottura epistemologica moderna, ritrovando il significato che avevano i suoi predecessori: l’aequitas medievale 160 o l’epieikeia aristotelica quali indicatori, sul piano ontologico, della natura bidimensionale (e, più in generale, relazionale) del diritto e, sul piano epistemologico, della natura pratica del sapere giuridico, di un sapere, cioè, che rifugge dalle astrattezze perché il suo compito autentico è «trovare ciò che è giusto nel caso concreto»161.

Quella scossa contestualista sprigiona un autentico effetto liberatorio.

Nelle vene sclerotizzate del diritto circola nuovamente la linfa della storia, dei fatti, della società, con i suoi uomini in carne ed ossa, spinti da concreti interessi e animati da valori non omogenei. Dopo quasi un secolo di esegesi – del cui metodo il vecchio studente Saleilles conservava nitida «l’impression de sécheresse»162 – e contro l’imperante concettualismo pandettista, alla scienza giuridica si chiede di affrancarsi dal monismo positivista e dallo statualismo legalista, di «rompre avec le moule sacrosaint du Code civil» 163, facendo della giurisprudenza «une science de faits, une science du dehors, qui, comme toutes les sciences, puise dans la nature des choses»164. E tuttavia, nella breccia che il richiamo al contesto apre nella cinta muraria del testo legislativo, s’infilano presto i germi delle imminenti derive scettiche e decisionistiche che sfoceranno, molti anni dopo, nella diagnosi del nichilismo. Dopo essersi a lungo riposato sul polo del testo, l’accento di una parte dei giuristi neoterici si sposta radicalmente su quello del contesto, trascinando

160 L’aequitas è «quel complesso ordinato e armonico di principi regole istituti

che, al di là delle forme giuridiche, si può con occhi umili e attenti rinvenire nelle stesse cose. Una realtà oggettiva da leggere, dichiarare, trascrivere nella lex» (P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 138-139, dove più avanti – a p. 169 – si precisa come questo mondo che «sta al di sotto delle forme giuridiche e le sorregge» non è «metagiuridico», ma solamente «metaformale»).

161 Così H.G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 368, nel paragrafo dedicato significativamente a “L’attualità ermeneutica di Aristotele” (pp. 363-376), dove richiama la categoria dell’epieikeia (p. 370).

162 Il passo, citato da P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato. Lungo l’itinerario scientifico di Raymond Saleilles, cit., p. 291, è tratto dalla Lettre à M.P. Desjardins sur l’enseignement du droit (citazione completa ivi, p. 279, nota 29).

163 R. SALEILLES, Monsieur C. Bufnoir professeur à la Faculté de Droit de l’Université de Paris, in Archivio giuridico, LX, 1898, p. 543.

164 R. SALEILLES, Préface a F. GENY, Méthode d’interprétation, cit., p. XXV.

144 Massimo Vogliotti

della rottura epistemologica moderna, ritrovando il significato che avevano i suoi predecessori: l’aequitas medievale 160 o l’epieikeia aristotelica quali indicatori, sul piano ontologico, della natura bidimensionale (e, più in generale, relazionale) del diritto e, sul piano epistemologico, della natura pratica del sapere giuridico, di un sapere, cioè, che rifugge dalle astrattezze perché il suo compito autentico è «trovare ciò che è giusto nel caso concreto»161.

Quella scossa contestualista sprigiona un autentico effetto liberatorio.

Nelle vene sclerotizzate del diritto circola nuovamente la linfa della storia, dei fatti, della società, con i suoi uomini in carne ed ossa, spinti da concreti interessi e animati da valori non omogenei. Dopo quasi un secolo di esegesi – del cui metodo il vecchio studente Saleilles conservava nitida «l’impression de sécheresse»162 – e contro l’imperante concettualismo pandettista, alla scienza giuridica si chiede di affrancarsi dal monismo positivista e dallo statualismo legalista, di «rompre avec le moule sacrosaint du Code civil» 163, facendo della giurisprudenza «une science de faits, une science du dehors, qui, comme toutes les sciences, puise dans la nature des choses»164. E tuttavia, nella breccia che il richiamo al contesto apre nella cinta muraria del testo legislativo, s’infilano presto i germi delle imminenti derive scettiche e decisionistiche che sfoceranno, molti anni dopo, nella diagnosi del nichilismo. Dopo essersi a lungo riposato sul polo del testo, l’accento di una parte dei giuristi neoterici si sposta radicalmente su quello del contesto, trascinando

160 L’aequitas è «quel complesso ordinato e armonico di principi regole istituti

che, al di là delle forme giuridiche, si può con occhi umili e attenti rinvenire nelle stesse cose. Una realtà oggettiva da leggere, dichiarare, trascrivere nella lex» (P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., pp. 138-139, dove più avanti – a p. 169 – si precisa come questo mondo che «sta al di sotto delle forme giuridiche e le sorregge» non è «metagiuridico», ma solamente «metaformale»).

161 Così H.G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 368, nel paragrafo dedicato significativamente a “L’attualità ermeneutica di Aristotele” (pp. 363-376), dove richiama la categoria dell’epieikeia (p. 370).

162 Il passo, citato da P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato. Lungo l’itinerario scientifico di Raymond Saleilles, cit., p. 291, è tratto dalla Lettre à M.P. Desjardins sur l’enseignement du droit (citazione completa ivi, p. 279, nota 29).

163 R. SALEILLES, Monsieur C. Bufnoir professeur à la Faculté de Droit de l’Université de Paris, in Archivio giuridico, LX, 1898, p. 543.

164 R. SALEILLES, Préface a F. GENY, Méthode d’interprétation, cit., p. XXV.

La fine del “grande stile” 145

il testo nel vortice ermeneutico che lo dissolve nel flusso delle interpretazioni165.

La «dissoluzione nichilistica del referente dell’interpretazione»166 fa perdere al diritto la sua dimensione normativa di guida ragionevolmente affidabile dell’azione, di discrimine – per quanto poroso e sfocato – tra il permesso e il proibito, riducendo il diritto al mero fatto delle decisioni167. All’ingenuità semantica di Alice – convinta che le «parole abbiano un loro proprio significato e non si possa costringerle a indicare cose diverse»168 – si contrappone lo scetticismo sprezzante di Humpty Dumpty, che, dopo la svolta contestualista, lancia sfide formidabili e ineludibili al pensiero giuridico: «Quando io mi servo di una parola […] quella parola significa quello che pare e piace a me, né più né meno». E all’obiezione di Alice che pone il problema «se lei può dare alle parole dei significati così differenti», il realista radicale Humpty Dumpty risponde: «Il problema è […] chi è chi comanda: ecco tutto»169.

Come accennato, al crepuscolo del secolo scorso, la sfida scettica del realismo è stata rilanciata con le parole d’ordine del nichilismo giuridico.

165 Come nota Kaufmann, «l’enorme crescita della razionalità formale fino ad

una vera razionalità sistematico-funzionale, raggiunto il suo punto culminante, doveva cadere nel suo contrario. Ma cadere da un estremo all’altro è proprio un segno del moderno» (A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità, cit., p. 261). Analogamente, sull’«andamento pendolare» della cultura giuridica moderna, v. V. VILLA, Costruttivismo e teorie del diritto, cit., p. 2.

166 M. FERRARIS, Invecchiamento della «scuola del sospetto», in G. VATTIMO e P.A. ROVATTI (a cura di), Il pensiero debole, Milano, 1983, p. 122.

167 Da queste posizioni estremiste che riducono il diritto al fatto dell’interpretazione, prendono le distanze gli stessi giuristi che pure avevano condiviso la critica al concettualismo e all’astrattismo della giurisprudenza tradizionale. È il caso dello stesso promotore del movimento del diritto libero, la cui opera era nota a Llewellyn. Hermann Kantorowicz denuncia, infatti, che la tesi di quel movimento «has been exaggerated by those realists who teach that law consists of judicial decisions alone, and therefore of facts» (H. KANTOROWICZ, Some Rationalism about Realism, in Yale Law Journal, 43, 1933-34, p. 1241).

168 U. SCARPELLI, Metodo giuridico, in Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, XXXI, Diritto, parte II, Milano, 1972, p. 424.

169 L. CARROLL, Alice dietro lo specchio (1871), Milano, 1991, p. 207.

146 Massimo Vogliotti

Per chi individua nel «nichilismo» la «dimensione in cui deve vivere l’ermeneutica giuridica» 170 , non sarebbe possibile «contrapporre la norma alla sua interpretazione»; si potrebbero «contrapporre tra loro solo più risultati interpretativi»171. Infatti, si argomenta, «poiché prima dell’applicazione dei criteri ermeneutici» – quali, ad esempio, «l’interpretazione letterale, quella secondo la volontà psichica, secondo la volontà oggettiva, la razionalità del legislatore, la desiderabilità dei risultati ecc.» – il testo o «interpretandum non può essere noto, ne segue che le varie contrapposizioni che possono sorgere in tema di interpretazione possono riguardare solo i diversi risultati interpretativi raggiunti con l’applicazione dei diversi criteri (il risultato cui si giunge mediante il criterio letterale vs. il risultato cui si giunge mediante il criterio del legislatore razionale ecc.)»172.

Se non è possibile contrapporre l’enunciato normativo (che si dà soltanto attraverso il fascio di interpretazioni generato dal processo ermeneutico) alla sua interpretazione, viene meno la possibilità di distinguere l’interpretazione di un testo dall’uso meramente strumentale di esso. Se, infatti, «tutte le interpretazioni», disancorate dal testo, «sono delle affabulazioni», l’interpretazione del giurista viene ridotta a «un semplice uso-dei-testi indirizzato ad un determinato fine» e come tale «non ha affatto uno scopo diverso da quello che l’interprete in quel momento si prefigge» 173 . Ne consegue che «il metro con cui giudicare delle interpretazioni giuridiche non può essere che quello del loro successo in quanto affabulazioni» 174.

In questa prospettiva, il testo viene ridotto a pretesto per consentire all’interprete di imporre – con la forza o grazie alla sua abilità retorica – le proprie affabulazioni e il successo diventa l’unico autentico parametro con cui valutare le interpretazioni. Evidente è l’esito decisionistico – puntualmente esplicitato – di queste premesse: «Non bisogna più vedere il diritto come una serie di interpretazioni di testi (norme o precedenti) ma come un

170 Così P.G. MONATERI, «Correct our watches by the public clocks». L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in J. DERRIDA e G. VATTIMO (a cura di), Diritto, giustizia e interpretazione, Roma-Bari, 1998, p. 204.

171 Ivi, p. 202. 172 Ibidem. 173 Ivi, p. 204. 174 Ivi, p. 205.

146 Massimo Vogliotti

Per chi individua nel «nichilismo» la «dimensione in cui deve vivere l’ermeneutica giuridica» 170 , non sarebbe possibile «contrapporre la norma alla sua interpretazione»; si potrebbero «contrapporre tra loro solo più risultati interpretativi»171. Infatti, si argomenta, «poiché prima dell’applicazione dei criteri ermeneutici» – quali, ad esempio, «l’interpretazione letterale, quella secondo la volontà psichica, secondo la volontà oggettiva, la razionalità del legislatore, la desiderabilità dei risultati ecc.» – il testo o «interpretandum non può essere noto, ne segue che le varie contrapposizioni che possono sorgere in tema di interpretazione possono riguardare solo i diversi risultati interpretativi raggiunti con l’applicazione dei diversi criteri (il risultato cui si giunge mediante il criterio letterale vs. il risultato cui si giunge mediante il criterio del legislatore razionale ecc.)»172.

Se non è possibile contrapporre l’enunciato normativo (che si dà soltanto attraverso il fascio di interpretazioni generato dal processo ermeneutico) alla sua interpretazione, viene meno la possibilità di distinguere l’interpretazione di un testo dall’uso meramente strumentale di esso. Se, infatti, «tutte le interpretazioni», disancorate dal testo, «sono delle affabulazioni», l’interpretazione del giurista viene ridotta a «un semplice uso-dei-testi indirizzato ad un determinato fine» e come tale «non ha affatto uno scopo diverso da quello che l’interprete in quel momento si prefigge» 173 . Ne consegue che «il metro con cui giudicare delle interpretazioni giuridiche non può essere che quello del loro successo in quanto affabulazioni» 174.

In questa prospettiva, il testo viene ridotto a pretesto per consentire all’interprete di imporre – con la forza o grazie alla sua abilità retorica – le proprie affabulazioni e il successo diventa l’unico autentico parametro con cui valutare le interpretazioni. Evidente è l’esito decisionistico – puntualmente esplicitato – di queste premesse: «Non bisogna più vedere il diritto come una serie di interpretazioni di testi (norme o precedenti) ma come un

170 Così P.G. MONATERI, «Correct our watches by the public clocks». L’assenza di fondamento dell’interpretazione del diritto, in J. DERRIDA e G. VATTIMO (a cura di), Diritto, giustizia e interpretazione, Roma-Bari, 1998, p. 204.

171 Ivi, p. 202. 172 Ibidem. 173 Ivi, p. 204. 174 Ivi, p. 205.

La fine del “grande stile” 147

processo di decisioni» 175 . Infatti, si prosegue, «ciò che noi chiamiamo interpretazione è in realtà un’altra cosa. È l’uso dei testi. È la manipolazione delle nozioni. Questo uso dei testi naturalmente non ha bisogno di un fondamento. La manipolazione non si fonda, si giustifica con il fine. Perciò il problema del fondamento è qui un non-problema: è il frutto di un’illusione, è una affabulazione creata dalle affabulazioni» 176.

Il “suicidio” dell’ermeneutica come scienza dell’interpretazione è il risultato inevitabile della dissoluzione nichilistica del referente: se non ci sono testi ma solo interpretazioni, allora non vi possono essere, propriamente, neppure interpretazioni (che presuppongono il riferimento ad un’alterità), ma solo decisioni valutabili in base alla loro capacità di avere successo.

Non è questo il luogo per tentare di rispondere alla sfida scettica, mostrando come la tesi ermeneutica dell’impossibilità di un accesso immediato ai testi, cioè senza la mediazione produttiva dell’interpretazione, non implica affatto la conclusione nichilistica secondo cui il referente testuale si scioglierebbe nel flusso delle interpretazioni177. Qui interessa piuttosto evidenziare come la tesi scettica condivida, seppur con esiti opposti, le stesse premesse epistemologiche “forti” della tesi formalista. In altre parole, gli scettici sarebbero degli oggettivisti delusi, costretti «ad aderire ad una sorta di “nichilismo conoscitivo” per il fatto di aver erroneamente confidato, in un primo tempo, in una nozione troppo forte di conoscenza, rivelatasi poi insostenibile»178. Se per Alice il significato è una “sostanza solida” posta sovranamente dal suo Autore e racchiusa nel testo, per Humpty Dumpty, disilluso circa la possibilità di conoscere oggettivamente – avalutativamente – il senso degli enunciati normativi, il significato è una “sostanza liquida” che l’interprete può manipolare secondo le sue personali strategie ermeneutiche179. Alla volontà di potenza del legislatore si

175 Ivi, p. 206. 176 Ibidem. 177 Si è cercato di farlo, evidenziando i limiti dell’interpretazione, nel saggio

Tra fatto e diritto, cit., p. 243 ss. 178 Così, V. VILLA, Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo, Torino,

1993, p. 175. 179 Sull’«ontologia della sostanza», che caratterizza il paradigma giuridico

moderno, sia nell’incarnazione giusnaturalistica sia in quella positivistica, v. A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità, cit., p. 286. Sulle due anime

148 Massimo Vogliotti

sostituiscono le volontà di potenza dei giudici e, più precisamente, quelle dei giudici posti al vertice delle varie piramidi giurisdizionali 180 . Ciò accade perché normativisti – ingenui o disincantati come Kelsen – e realisti – moderati o radicali à la Frank – sono accomunati dallo stesso fraintendimento metodologico in cui è incorso il giurista moderno; continuano, cioè, ad adottare quello stesso metodo delle scienze teoretiche che i giuristi neoterici di allora avevano abbracciato, fin dall’umanesimo giuridico, perché convinti dai successi delle scienze della natura che con quel nuovo viatico avrebbero potuto rifondare, su basi solide e certe, l’edificio giuridico in disfacimento, orfano dei tradizionali fondamenti divini e naturali181.

della modernità, quella solida e quella liquida (secondo le note metafore di Z. Bauman), si rinvia ai primi due capitoli del nostro Tra fatto e diritto.

180 Questo, come ha spiegato efficacemente Michel Troper, è l’esito decisionistico cui conduce, suo malgrado, la teoria kelseniana dell’inter-pretazione (M. TROPER, Kelsen, la théorie de l’interprétation et la structure de l’ordre juridique, in Revue internationale de philosophie, 1981, p. 518 ss.). Tale conclusione deriva dalla concezione kelseniana dell’interpretazione autentica, che, come noto, è l’interpretazione propria degli organi che applicano autoritativamente il diritto. Mentre l’interpretazione della scienza giuridica mira ad individuare tutti i significati (le norme) contenute negli enunciati normativi (o, nel lessico di Kelsen, «schemi normativi»), l’interpretazione dei giudici consiste nella scelta – non razionalmente guidata – di uno dei diversi significati contenuti nello schema normativo. A ciò si aggiunge che se il giudice applica una norma non compresa nello schema, la sentenza – che per Kelsen è una vera e propria norma, seppur individuale – sarebbe comunque valida (e rimarrebbe tale se un giudice superiore non la annullasse). È evidente che se si porta alle estreme conseguenze questo ragionamento si ottiene il risultato – in tutto simile a quello cui erano pervenuti i realisti americani – che non è più il legislatore a porre la norma, ma il giudice, con la conseguenza che la validità di una norma non è data dalla conformità alla norma superiore, ma dall’interpretazione dell’autorità che si trova al vertice della piramide giudiziaria, cioè da chi è posto nelle condizioni di controllare l’attività di applicazione delle norme. Risulta quindi ribaltata la gerarchia espressa dal paradigma piramidale kelseniano: l’ordinamento giuridico non è più formato da una sola piramide al cui vertice c’è la norma fondamentale, ma «d’autant de pyramides qu’il y a d’ordres de juridictions, le sommet de chacune de ces pyramides étant constitué des normes que la cour suprême de cet ordre de juridictions énonce par la voie de l’interprétation» (p. 528).

181 Sulle ragioni che hanno indotto il giurista moderno ad adottare il metodo delle scienze teoretiche e sugli effetti paradossali che tale adozione ha prodotto, si rinvia al nostro Tra fatto e diritto, cit., p. 169 ss.

148 Massimo Vogliotti

sostituiscono le volontà di potenza dei giudici e, più precisamente, quelle dei giudici posti al vertice delle varie piramidi giurisdizionali 180 . Ciò accade perché normativisti – ingenui o disincantati come Kelsen – e realisti – moderati o radicali à la Frank – sono accomunati dallo stesso fraintendimento metodologico in cui è incorso il giurista moderno; continuano, cioè, ad adottare quello stesso metodo delle scienze teoretiche che i giuristi neoterici di allora avevano abbracciato, fin dall’umanesimo giuridico, perché convinti dai successi delle scienze della natura che con quel nuovo viatico avrebbero potuto rifondare, su basi solide e certe, l’edificio giuridico in disfacimento, orfano dei tradizionali fondamenti divini e naturali181.

della modernità, quella solida e quella liquida (secondo le note metafore di Z. Bauman), si rinvia ai primi due capitoli del nostro Tra fatto e diritto.

180 Questo, come ha spiegato efficacemente Michel Troper, è l’esito decisionistico cui conduce, suo malgrado, la teoria kelseniana dell’inter-pretazione (M. TROPER, Kelsen, la théorie de l’interprétation et la structure de l’ordre juridique, in Revue internationale de philosophie, 1981, p. 518 ss.). Tale conclusione deriva dalla concezione kelseniana dell’interpretazione autentica, che, come noto, è l’interpretazione propria degli organi che applicano autoritativamente il diritto. Mentre l’interpretazione della scienza giuridica mira ad individuare tutti i significati (le norme) contenute negli enunciati normativi (o, nel lessico di Kelsen, «schemi normativi»), l’interpretazione dei giudici consiste nella scelta – non razionalmente guidata – di uno dei diversi significati contenuti nello schema normativo. A ciò si aggiunge che se il giudice applica una norma non compresa nello schema, la sentenza – che per Kelsen è una vera e propria norma, seppur individuale – sarebbe comunque valida (e rimarrebbe tale se un giudice superiore non la annullasse). È evidente che se si porta alle estreme conseguenze questo ragionamento si ottiene il risultato – in tutto simile a quello cui erano pervenuti i realisti americani – che non è più il legislatore a porre la norma, ma il giudice, con la conseguenza che la validità di una norma non è data dalla conformità alla norma superiore, ma dall’interpretazione dell’autorità che si trova al vertice della piramide giudiziaria, cioè da chi è posto nelle condizioni di controllare l’attività di applicazione delle norme. Risulta quindi ribaltata la gerarchia espressa dal paradigma piramidale kelseniano: l’ordinamento giuridico non è più formato da una sola piramide al cui vertice c’è la norma fondamentale, ma «d’autant de pyramides qu’il y a d’ordres de juridictions, le sommet de chacune de ces pyramides étant constitué des normes que la cour suprême de cet ordre de juridictions énonce par la voie de l’interprétation» (p. 528).

181 Sulle ragioni che hanno indotto il giurista moderno ad adottare il metodo delle scienze teoretiche e sugli effetti paradossali che tale adozione ha prodotto, si rinvia al nostro Tra fatto e diritto, cit., p. 169 ss.

La fine del “grande stile” 149

Per recuperare la natura autenticamente relazionale del diritto occorreva abbandonare il metodo descrittivo, veritativo ed oggettivante delle scienze teoretiche – che, nella tripartizione aristotelica delle scienze, concepiva il diritto come un oggetto (razionale, normativo, empirico o linguistico, a seconda delle sue moderne declinazioni giusrazionalistiche e giuspositivistiche) indipendente dal soggetto conoscente e poneva, quale fine del sapere giuridico, la ricerca della verità, intesa come piena corrispondenza tra la proposizione scientifica e l’enunciato normativo, tra l’interpretazione e la “cosa” diritto – e ricollocare il sapere giuridico nel grembo delle scienze pratiche, dove sempre vi era stato, fino alla rottura epistemologica moderna. Le scienze pratiche – cui appartengono la morale, la politica e il diritto – non separano nettamente l’oggetto dal soggetto: il loro oggetto non è una “cosa”, una “sostanza” che si possa separare dal soggetto conoscente e alla quale questi dovrebbe adeguarsi, ma l’azione dell’uomo, un fenomeno inconcepibile in astratto (si agisce sempre qui ed ora)182 e in cui è impossibile separare l’agire (l’oggetto di tali scienze) dal soggetto che agisce183. Non a caso il fine delle scienze pratiche – l’eupraxia, l’agire bene, giustamente – si traduce, in ultima analisi, nel perfezionamento del soggetto agente, cioè dell’uomo: agire bene significa diventare migliore184.

Con la riconquista del metodo delle scienze pratiche – le cui prime testimonianze si hanno a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso nelle forme di una teoria dell’argomentazione ispirata al metodo topico-dialettico della filosofia aristotelica e,

182 Diversamente dalle scienze teoretiche in cui la conoscenza è ricercata in

sé, per un fine di verità, nelle scienze pratiche, ci dice Aristotele, la conoscenza è ricercata «in relazione a qualcosa ed ora» (Metafisica, II, 1, 993 b 19-23), cioè «in vista di altro, appunto dell’azione, e in una situazione particolare, come è quella in cui sempre si colloca l’azione» (E. BERTI, Filosofia pratica, Napoli, 2004, p. 6, cui si rinvia per una breve ma esaustiva introduzione ai temi della filosofia pratica).

183 Nel paragrafo intitolato “L’abbandono dello schema soggetto-oggetto” da parte dell’ermeneutica, Kaufmann osserva che «il diritto (a differenza della legge) non è e non ha entità (i paragrafi, gli articoli), e non è predato o condizione (“natura”), ma azione, e perciò esso non può essere “oggetto” di una conoscenza che sia indipendente dal “soggetto”» (A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità, cit., p. 287).

184 Così E. BERTI, Filosofia pratica, cit., p. 9.

150 Massimo Vogliotti

successivamente, in quelle dell’ermeneutica185 – la scienza giuridica continentale riscopre, dopo la lunga parentesi moderna, la natura relazionale dell’essere del diritto 186 , ponendo le premesse per il recupero della sua seconda dimensione (il diritto come ratio o ex parte societatis) che la modernità, come si è già avuto modo di dire, aveva rimosso. Il diritto torna così nuovamente ad essere concepito come relazione tra i testi normativi e i mutevoli contesti applicativi187, come tensione fisiologica e virtuosa tra il diritto che è – il diritto positum, cristallizzato in testi autoritativi – e il diritto che deve essere per essere ritenuto giusto (o ragionevole, il che è equivalente perché la ratio della ragion pratica non è strumentale e avalutativa come quella moderna, ma teleologicamente orientata ai valori) dai partners ragionevoli 188 della comunità linguistica di riferimento, come filtrata dalla “ragione artificiale” dei giuristi, il

185 Queste prime testimonianze in ambito giuridico sono parte del più ampio

movimento di riabilitazione della tradizione aristotelica della filosofia pratica, di cui già si è detto (v. supra, par. 2). Cfr., in particolare, i lavori pionieristici di T. VIEHWEG, Topica e giurisprudenza (1953), Milano, 1962 e di CH. PERELMAN (tra cui spicca il poderoso Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica (1958), Torino, 1989, scritto con L. OLBRECHTS-TYTECA; cfr. anche, per una sintesi delle sue numerose riflessioni in ambito giuridico, Logique juridique. Nouvelle rhétorique, Paris, 1976). A questa letteratura, e a quella che da quei lavori si sviluppò, va aggiunto, in particolare, l’indirizzo ermeneutico che, a partire dall’area tedesca, si è affermato – con risultati particolarmente fecondi – in ambito giuridico in seguito all’opera di Gadamer, il quale ha più volte sostenuto, a partire dal paragrafo di Verità e metodo intitolato “L’attualità ermeneutica di Aristotele”, che la filosofia pratica di Aristotele è il modello della filosofia ermeneutica. Per una ricca introduzione ai temi dell’ermeneutica giuridica si rinvia a F. VIOLA e G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999.

186 Categorico, nella sua prospettiva ermeneutica, Kaufmann: «“Oggetto” delle scienze normative – etica, teoria delle norme, scienza del diritto – non sono mai sostanze ma relazioni» (A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità, cit., p. 304).

187 Contesti che non solo aprono semanticamente il testo, ma contribuiscono a ridurne la polisemia, inevitabile se l’impresa interpretativa si focalizza esclusivamente sul polo del testo. V., in merito, G. ZACCARIA, Tra Ermeneutica ed Analitica: dal contrasto alla collaborazione, in M. JORI (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, Torino, 1994, pp.143-144.

188 J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di indivi-duazione del diritto (1972), Napoli, 1983, pp. 18-20.

150 Massimo Vogliotti

successivamente, in quelle dell’ermeneutica185 – la scienza giuridica continentale riscopre, dopo la lunga parentesi moderna, la natura relazionale dell’essere del diritto 186 , ponendo le premesse per il recupero della sua seconda dimensione (il diritto come ratio o ex parte societatis) che la modernità, come si è già avuto modo di dire, aveva rimosso. Il diritto torna così nuovamente ad essere concepito come relazione tra i testi normativi e i mutevoli contesti applicativi187, come tensione fisiologica e virtuosa tra il diritto che è – il diritto positum, cristallizzato in testi autoritativi – e il diritto che deve essere per essere ritenuto giusto (o ragionevole, il che è equivalente perché la ratio della ragion pratica non è strumentale e avalutativa come quella moderna, ma teleologicamente orientata ai valori) dai partners ragionevoli 188 della comunità linguistica di riferimento, come filtrata dalla “ragione artificiale” dei giuristi, il

185 Queste prime testimonianze in ambito giuridico sono parte del più ampio

movimento di riabilitazione della tradizione aristotelica della filosofia pratica, di cui già si è detto (v. supra, par. 2). Cfr., in particolare, i lavori pionieristici di T. VIEHWEG, Topica e giurisprudenza (1953), Milano, 1962 e di CH. PERELMAN (tra cui spicca il poderoso Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica (1958), Torino, 1989, scritto con L. OLBRECHTS-TYTECA; cfr. anche, per una sintesi delle sue numerose riflessioni in ambito giuridico, Logique juridique. Nouvelle rhétorique, Paris, 1976). A questa letteratura, e a quella che da quei lavori si sviluppò, va aggiunto, in particolare, l’indirizzo ermeneutico che, a partire dall’area tedesca, si è affermato – con risultati particolarmente fecondi – in ambito giuridico in seguito all’opera di Gadamer, il quale ha più volte sostenuto, a partire dal paragrafo di Verità e metodo intitolato “L’attualità ermeneutica di Aristotele”, che la filosofia pratica di Aristotele è il modello della filosofia ermeneutica. Per una ricca introduzione ai temi dell’ermeneutica giuridica si rinvia a F. VIOLA e G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999.

186 Categorico, nella sua prospettiva ermeneutica, Kaufmann: «“Oggetto” delle scienze normative – etica, teoria delle norme, scienza del diritto – non sono mai sostanze ma relazioni» (A. KAUFMANN, La filosofia del diritto oltre la modernità, cit., p. 304).

187 Contesti che non solo aprono semanticamente il testo, ma contribuiscono a ridurne la polisemia, inevitabile se l’impresa interpretativa si focalizza esclusivamente sul polo del testo. V., in merito, G. ZACCARIA, Tra Ermeneutica ed Analitica: dal contrasto alla collaborazione, in M. JORI (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, Torino, 1994, pp.143-144.

188 J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di indivi-duazione del diritto (1972), Napoli, 1983, pp. 18-20.

La fine del “grande stile” 151

cui compito non è descrivere oggettivamente e sistemare “dati” normativi, ma, come lo era stato per il giurista medievale, la riduzione «de iniquo ad aequum»189, assicurare, cioè, che il diritto positivo sia reso conforme, nei sempre nuovi e differenti contesti applicativi, all’aequitas costituzionale. Come il linguaggio e la vita della Clarisse di Musil «non conoscono sostantivi né oggetti o stati, bensì solo verbi e processi in divenire», così il linguaggio del giurista che ha oltrepassato i confini della modernità per accingersi a costruire un nuovo paradigma e, quindi, una nuova identità per la scienza giuridica, non conosce più, propriamente, la sostanza «diritto positivo», ma piuttosto azioni, processi, atti di «posizione, positivizzazione, riconoscimento» del diritto190.

4. La nuova identità del giurista e l’urgenza di un rinno-vamento dell’educazione giuridica

Con il recupero della natura pratica del sapere giuridico e quindi

della seconda dimensione del diritto, operazione che conduce alla restaurazione dell’ontologia relazionale, il giurista interprete riassume il ruolo protagonistico che era stato suo fino alla «vittoria del positivismo giuridico»191 e alla conseguente perdita di «valore

189 Il passo, tratto da Placentini Summa Codicis, Moguntiae, 1536, è ricordato

da P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, p. 169, in cui nota come tra le finalità dell’interpretatio «non v’è soltanto la chiarificazione di un testo oscuro ma la ben più impegnativa riduzione “de iniquo ad aequum”».

190 Così G. ZACCARIA, Sul concetto di positività del diritto, in ID. (a cura di), Diritto positivo e positività del diritto, Torino, 1991, p. 358, in un denso saggio, tutto da rileggere, sulla ridefinizione del concetto di positività del diritto alla luce delle acquisizioni dell’ermeneutica e della conseguente concezione del diritto non come insieme statico di dati normativi (non come sostanza), ma come una dinamica «pratica sociale» (come una rete di relazioni). Per una prospettiva simile v. anche, nella letteratura giusfilosofica italiana, F. VIOLA, Il diritto come pratica sociale, Milano, 1990 e, muovendo da premesse epistemologiche costrut-tivistiche, V. VILLA, Costruttivismo e teorie del diritto, cit. (a p. 5 scrive che l’adozione di una prospettiva costruttivistica – figlia della “svolta contestuale” e del tutto simile, rispetto agli esiti, all’ermeneutica – ha ricadute ontologiche fondamentali: «Si passa dal diritto come dato al diritto come pratica sociale»).

191 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 49.

152 Massimo Vogliotti

della giurisprudenza come scienza»192, condannata «ai lavori forzati dell’esegesi» 193 e poi alla «gara di corsa» con la «legge motoriz-zata» 194 : dopo «la lunga espropriazione» perpetratasi nella fase positivistico-legalistica della modernità (una fase non accidentale, ma inscritta nel suo codice genetico), «il diritto torna ad essere quello che fu nei grandi momenti della storia giuridica occidentale, il romano e il medievale, o che è stato ed è nel pianeta del common law: cosa da giuristi»195.

Tra questi, spiccano per importanza crescente i giudici e specialmente quelli dei “Grandi Tribunali”, nazionali, sovranazionali e internazionali, dove siedono prestigiosi giuristi, molti dei quali docenti che si sono fatti valere in illustri Accademie, dentro e fuori i confini nazionali, dando vita ad una fertilissima «iurisprudentia in azione, intesa nella sua accezione più alta» 196. Questi giudici, di

192 Si allude, come il lettore avrà compreso, alla celebre conferenza – rimasta «ancora sino ad oggi come una spina nel cuore della scienza giuridica» (così N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio (1950), in U. SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, p. 297) – di H. VON

KIRCHMANN, La mancanza di valore della giurisprudenza come scienza (1848), in ID., Il valore scientifico della giurisprudenza, Milano, 1964. Per effetto della «svalutazione positivistica, per non dire nichilistica, della scienza del diritto quale scienza» (C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 64), «l’ignoranza, la trascuratezza, la partigianeria del legislatore» sono diventate, per l’allora procuratore della repubblica, l’oggetto della letteratura giuridica. «Il genio stesso – prosegue von Kirchmann – non si rifiuta di servire alla irragionevolezza; di esibire, per giustificarla, tutto il suo spirito e la sua dottrina. La legge positiva ha trasformato i giuristi in vermi; che si nutrono soltanto di legno putrido; allontanandosi da tutto ciò che è sano, essi si annidano soltanto nel marcio, e vi tessono le loro tele. In quanto la scienza del diritto assume come proprio oggetto il contingente, diventa contingente essa stessa; tre parole di rettifica del legislatore ed intere biblioteche diventano carta straccia» (ivi, p. 18).

193 P. GROSSI, La formazione del giurista, cit., p. 52. 194 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., pp. 63 e 61. 195 P. GROSSI, La formazione del giurista, cit., p. 52. 196 Così P. GROSSI, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri,

oggi, domani, in Contratto e impresa / Europa, 2013, p. 690, con riferimento specifico – ma il giudizio si può estendere alla Corte di Strasburgo e a tutte le Corti costituzionali statali – alla Corte di Giustizia, «operosa officina» cui si deve, case by case, la costruzione di gran parte dell’intelaiatura giuridica dell’Europa, la sua primauté rispetto agli ordinamenti statali, l’apertura verso un diritto penale dell’Unione e, soprattutto, fin dalla sentenza Stauder del 1969, l’elaborazione – come già si è ricordato – di un «breviario dei diritti

152 Massimo Vogliotti

della giurisprudenza come scienza»192, condannata «ai lavori forzati dell’esegesi» 193 e poi alla «gara di corsa» con la «legge motoriz-zata» 194 : dopo «la lunga espropriazione» perpetratasi nella fase positivistico-legalistica della modernità (una fase non accidentale, ma inscritta nel suo codice genetico), «il diritto torna ad essere quello che fu nei grandi momenti della storia giuridica occidentale, il romano e il medievale, o che è stato ed è nel pianeta del common law: cosa da giuristi»195.

Tra questi, spiccano per importanza crescente i giudici e specialmente quelli dei “Grandi Tribunali”, nazionali, sovranazionali e internazionali, dove siedono prestigiosi giuristi, molti dei quali docenti che si sono fatti valere in illustri Accademie, dentro e fuori i confini nazionali, dando vita ad una fertilissima «iurisprudentia in azione, intesa nella sua accezione più alta» 196. Questi giudici, di

192 Si allude, come il lettore avrà compreso, alla celebre conferenza – rimasta «ancora sino ad oggi come una spina nel cuore della scienza giuridica» (così N. BOBBIO, Scienza del diritto e analisi del linguaggio (1950), in U. SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, p. 297) – di H. VON

KIRCHMANN, La mancanza di valore della giurisprudenza come scienza (1848), in ID., Il valore scientifico della giurisprudenza, Milano, 1964. Per effetto della «svalutazione positivistica, per non dire nichilistica, della scienza del diritto quale scienza» (C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 64), «l’ignoranza, la trascuratezza, la partigianeria del legislatore» sono diventate, per l’allora procuratore della repubblica, l’oggetto della letteratura giuridica. «Il genio stesso – prosegue von Kirchmann – non si rifiuta di servire alla irragionevolezza; di esibire, per giustificarla, tutto il suo spirito e la sua dottrina. La legge positiva ha trasformato i giuristi in vermi; che si nutrono soltanto di legno putrido; allontanandosi da tutto ciò che è sano, essi si annidano soltanto nel marcio, e vi tessono le loro tele. In quanto la scienza del diritto assume come proprio oggetto il contingente, diventa contingente essa stessa; tre parole di rettifica del legislatore ed intere biblioteche diventano carta straccia» (ivi, p. 18).

193 P. GROSSI, La formazione del giurista, cit., p. 52. 194 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., pp. 63 e 61. 195 P. GROSSI, La formazione del giurista, cit., p. 52. 196 Così P. GROSSI, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri,

oggi, domani, in Contratto e impresa / Europa, 2013, p. 690, con riferimento specifico – ma il giudizio si può estendere alla Corte di Strasburgo e a tutte le Corti costituzionali statali – alla Corte di Giustizia, «operosa officina» cui si deve, case by case, la costruzione di gran parte dell’intelaiatura giuridica dell’Europa, la sua primauté rispetto agli ordinamenti statali, l’apertura verso un diritto penale dell’Unione e, soprattutto, fin dalla sentenza Stauder del 1969, l’elaborazione – come già si è ricordato – di un «breviario dei diritti

La fine del “grande stile” 153

diversa formazione e provenienza (geografica, culturale e professionale), sono gli autentici «eroi culturali»197 del diritto del tempo presente, allo stesso modo in cui lo erano stati durante quell’altra (lunga) fase di transizione – e quindi di “scienza straordinaria” – che fu l’Antico Regime198, in cui i Grandi Tribunali – dialogando tra loro 199 , anche grazie ai rapporti di «consorzio o sodalizio» che accomunavano, all’interno e oltre i confini dello Stato

fondamentali» che colma un – non più sopportabile – vuoto del Trattato fondativo e da cui «i redattori della cosiddetta Carta di Nizza, del Duemila, hanno tratto le pietre già pronte per la costruzione dell’edificio» (ivi, pp. 690 e 689). Per una ricognizione dei primi sessant’anni di lavoro, promossa dalla stessa Corte con la collaborazione di insigni giuristi, v. The Court of Justice and the Construction of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case Law, Berlin-Heidelberg, 2013.

197 L’espressione è di Gino Gorla. Cfr. G. GORLA e F. ROSELLI, Per la storia del potere dei giudici in Italia fra il secolo XVI e i secoli XIX-XX fino alla cessazione dello Statuto Albertino: alcune tracce, in Il Foro italiano, 1986, V, c. 99: «In Italia nei secoli XVI-XVIII gli “eroi culturali”, i “protagonisti”, sono i grandi giudici e i grandi forensi in genere. Questo fenomeno si incontra, sebbene in minore misura, anche in Francia, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi nei detti secoli».

198 Fase analoga di transizione sì, ma contraddistinta da una direzione contraria: mentre nell’Ancien Régime si va dall’universalismo dello ius commune al particolarismo degli iura propria, nell’attuale fase di transizione paradigmatica, iniziata nel secondo dopoguerra, si va dal nazionalismo giuridico degli Stati all’universalismo europeo e globale.

199 Sul dialogo tra i Grandi Tribunali che, malgrado la formazione degli ordinamenti statali, si sentivano ancora parte di un più ampio diritto comune, v. G. GORLA, Il ricorso alla legge di un «luogo vicino» nell’ambito del diritto comune europeo, in Il Foro italiano, 1973, V, c. 89 ss. Tale dialogo si sviluppava tramite la citazione della lex alii loci, quando «nella lex loci e nel diritto comune non si trova[va] “decisus” il caso sub iudice, o in genere controverso» (c. 89), e tramite la citazione delle decisioni di Grandi Tribunali di altri Stati che, una volta recepite e diventate consuetudo iudicandi dei tribunali statali, perdevano il loro valore di autorità “probabili” (persuasive) per assumere il valore di leges, cioè di autorità “necessarie”, vincolanti. Gorla osserva che «se su una data questione o casus si era formata una communis opinio o una magis communis opinio o interpretatio dei tribunali degli altri Stati, quelli di uno Stato cercavano di stare in coro con tale opinio, specialmente se magis communis». Donde l’annotazione secondo cui il fatto che in uno Stato si desse tanto valore all’interpretatio dei tribunali di altri Stati «significava che ciascuno Stato non si sentiva geloso della propria sovranità» (c. 95). Non a caso il declino di tale pratica coincise con il tramonto di quel senso di appartenenza ad un’unica cultura giuridica che contraddistingueva l’età del diritto comune. Come nota ancora Gorla, «con la fine del secolo XVIII, o i primi del XIX, sembra chiudersi il processo storico del ricorso alla lex alii loci» (c. 104).

154 Massimo Vogliotti

di appartenenza, «giuristi forensi di alto livello»200 – erano artefici dell’ordine giuridico e custodi delle leggi fondamentali del regno contro gli attacchi del principe201.

Come allora, al giudice non si chiede più di scoprire – secondo il metodo descrittivo e veritativo delle scienze teoretiche – e poi di applicare 202 “sostanze” giuridiche confinate all’interno di singoli testi normativi o enucleabili dal sistema chiuso del diritto positum. A un compito ben più complesso e delicato egli è da tempo

200 G. GORLA e F. ROSELLI, Per la storia del potere dei giudici, cit., c. 97, in cui

si osserva che la rottura di quei consorzi tra forensi di alto livello, avvenuta nel corso dell’Ottocento con la chiusura statualistica degli ordinamenti, «può considerarsi come una delle cause di decadenza del potere dei giudici». Non è un caso, allora, che in questi ultimi anni caratterizzati dall’espansione del potere giudiziario, si assista a un ritorno di questi “consorzi” che facilitano il dialogo, tramite la conoscenza delle varie esperienze giurisprudenziali e la «socializzazione reciproca di giudici di diversi paesi e tradizioni». Questo network è il risultato di una pratica informale «sempre più ricorrente di consultazioni per via elettronica e di incontri diretti, in occasione di seminari, dibattiti e convegni vari», ma anche «di numerose organizzazioni transnazionali di giudici, corti e circuiti giudiziari» (M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato, cit., pp. 123-124), di cui è un importante esempio la Venice Commission un’organizzazione transgiudiziaria che, attraverso la propria postazione web, si propone di far circolare rapidamente le più importanti decisioni di rilievo costituzionale e di facilitare in tal modo «the exchange of information and ideas among old and new democracies in the field of judge-made law», precisandosi che tale scambio non va inteso solo a beneficio delle Corti costituzionali dei paesi dell’Europa dell’est e centrale, ma anche a beneficio del «case-law of the existing courts in Western Europe and North America» (la citazione, tratta dal sito web “Codices”, si deve a A.M. SLAUGHTER, A New World Order, Princeton, 2004, pp. 72-73).

201 Su ruolo dei Grandi Tribunali durante l’Ancien Régime, v. G. GORLA, Unificazione “legislativa” e unificazione “giurisprudenziale”. L’esperienza del diritto comune (1977), in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 651 ss. e, più di recente, I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, 2002, p. 85 ss.

202 Sulla moderna separazione tra interpretazione e applicazione – non ancora del tutto abbandonata dalla scienza giuridica, specie di orientamento analitico – v. G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 161 ss., in cui propone l’idea – propria, come si è visto, dell’ermeneutica gadameriana e in linea con la natura pratica del sapere giuridico – che non si interpreta in astratto un testo normativo, ma lo si applica sempre a un contesto particolare, rivolgendosi a un uditorio determinato e in vista della risoluzione (giusta, ragionevole: il fine delle scienze pratiche è l’eupraxia) di un problema pratico.

154 Massimo Vogliotti

di appartenenza, «giuristi forensi di alto livello»200 – erano artefici dell’ordine giuridico e custodi delle leggi fondamentali del regno contro gli attacchi del principe201.

Come allora, al giudice non si chiede più di scoprire – secondo il metodo descrittivo e veritativo delle scienze teoretiche – e poi di applicare 202 “sostanze” giuridiche confinate all’interno di singoli testi normativi o enucleabili dal sistema chiuso del diritto positum. A un compito ben più complesso e delicato egli è da tempo

200 G. GORLA e F. ROSELLI, Per la storia del potere dei giudici, cit., c. 97, in cui

si osserva che la rottura di quei consorzi tra forensi di alto livello, avvenuta nel corso dell’Ottocento con la chiusura statualistica degli ordinamenti, «può considerarsi come una delle cause di decadenza del potere dei giudici». Non è un caso, allora, che in questi ultimi anni caratterizzati dall’espansione del potere giudiziario, si assista a un ritorno di questi “consorzi” che facilitano il dialogo, tramite la conoscenza delle varie esperienze giurisprudenziali e la «socializzazione reciproca di giudici di diversi paesi e tradizioni». Questo network è il risultato di una pratica informale «sempre più ricorrente di consultazioni per via elettronica e di incontri diretti, in occasione di seminari, dibattiti e convegni vari», ma anche «di numerose organizzazioni transnazionali di giudici, corti e circuiti giudiziari» (M.R. FERRARESE, Diritto sconfinato, cit., pp. 123-124), di cui è un importante esempio la Venice Commission un’organizzazione transgiudiziaria che, attraverso la propria postazione web, si propone di far circolare rapidamente le più importanti decisioni di rilievo costituzionale e di facilitare in tal modo «the exchange of information and ideas among old and new democracies in the field of judge-made law», precisandosi che tale scambio non va inteso solo a beneficio delle Corti costituzionali dei paesi dell’Europa dell’est e centrale, ma anche a beneficio del «case-law of the existing courts in Western Europe and North America» (la citazione, tratta dal sito web “Codices”, si deve a A.M. SLAUGHTER, A New World Order, Princeton, 2004, pp. 72-73).

201 Su ruolo dei Grandi Tribunali durante l’Ancien Régime, v. G. GORLA, Unificazione “legislativa” e unificazione “giurisprudenziale”. L’esperienza del diritto comune (1977), in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 651 ss. e, più di recente, I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, 2002, p. 85 ss.

202 Sulla moderna separazione tra interpretazione e applicazione – non ancora del tutto abbandonata dalla scienza giuridica, specie di orientamento analitico – v. G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 161 ss., in cui propone l’idea – propria, come si è visto, dell’ermeneutica gadameriana e in linea con la natura pratica del sapere giuridico – che non si interpreta in astratto un testo normativo, ma lo si applica sempre a un contesto particolare, rivolgendosi a un uditorio determinato e in vista della risoluzione (giusta, ragionevole: il fine delle scienze pratiche è l’eupraxia) di un problema pratico.

La fine del “grande stile” 155

chiamato. Un compito che mette in gioco la sua responsabilità ed esige prudenza, che è il tipo di sapere – e di virtù – proprio delle scienze pratiche (la phronesis aristotelica). Non «scopritore»203 di sostanze giuridiche già date e custode inflessibile di un ordine che lo precede, ma costruttore di significati (e delle stesse fonti normative) 204 e principale artefice dell’ordine. Non destinatario passivo di norme imposte dall’alto e i cui contenuti sono indiscutibili (dura lex sed lex), ma tessitore critico e prudente di auctoritates e di rationes 205 , di materiali giuridici positivi – di provenienza disparata, sovrabbondanti e in molti casi e sempre più spesso frammentati e sconnessi – e di ragioni tratte dalla «cultura costituzionale», che è la forma in cui vive e si alimenta – dopo il tramonto della categoria del diritto naturale, incompatibile con l’antropologia e la fisica moderna e con l’attuale pluralismo – la

203 N. BOBBIO, Il modello giusnaturalistico, cit., p. 26, con riferimento ai

caratteri del giusnaturalismo moderno che, in linea con l’adozione del metodo descrittivo delle scienze teoretiche, elimina dal suo orizzonte l’interpretatio, affidando al giurista il compito ritenuto «ben più nobile di scoprire le regole universali della condotta attraverso lo studio della natura dell’uomo, non diversamente da quello che fa lo scienziato della natura».

204 Sul punto si rinvia al nostro Tra fatto e diritto, cit., p. 271 e ai relativi riferimenti bibliografici.

205 L’ordine giuridico medievale era il risultato di questa intima relazione tra auctoritates e rationes. Diversamente dalla prospettiva moderna – e specialmente illuministica – che separa nettamente l’autorità dalla ragione, nel pensiero giuridico medievale le due nozioni erano intimamente collegate. Come nota Gino Gorla, «le auctoritates erano un deposito di rationes; o, se non lo erano all’origine o non lo erano più per non essere aggiornate, si poteva criticarle o aggiornarle con le rationes» (G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disp. prel. cod. civ., in ID., Diritto comparato e diritto comune europeo, cit., p. 449). Le “autorità” si distinguevano in necessarie (la lex nell’accezione medievale del termine, comprendente, oltre alle norme del principe, le consuetudini, gli statuti, e il corpus iuris) e in probabili (le opinioni dei dottori e le decisioni dei tribunali). Le “ragioni” non consistevano «nel libero raziocinio individuale, nell’individuale senso del giusto, in un criterio meramente soggettivo di “decisione”» (ivi, p. 448). Esse erano tratte dal fondamento valoriale su cui si radicava l’ordine giuridico medievale: l’aequitas o il diritto naturale-divino. Inoltre, facevano parte delle rationes anche gli argomenti utilizzati per “cucire” le auctoritates, tra i quali spiccava su tutti l’argomento a similibus ad similia su cui quell’ordo di giuste relazioni naturali poggiava.

156 Massimo Vogliotti

seconda dimensione del diritto”206. Come i giuristi dell’antico ius commune, i giudici del nuovo diritto comune europeo, dialogando tra loro, costruiscono il tessuto connettivo tra il diritto sovranazionale delle due Europe e gli iura propria degli Stati, «tessono la rete dei rapporti tra ordinamenti» ed elaborano, tramite l’invenzione di «regole di coesistenza, “passerelle”, linkages tra ordini giuridici» differenti e disarticolati, un «sistema globale degli ordini giuridici»207.

In questa fase estremamente complessa della vita del diritto – caratterizzata dalla transizione da un paradigma ad un altro e contrassegnata dalla rivincita della iurisdictio, che elabora un diritto eminentemente sapienziale, sul gubernaculum 208 – sulla scienza giuridica grava, innanzitutto, il difficile ma entusiasmante compito di proseguire l’opera, avviata nel secondo dopoguerra, di edificazione del nuovo paradigma giuridico. Molti mattoni sono già stati fabbricati – specialmente, si deve ammetterlo, dai Grandi

206 In questo senso v. G. ZAGREBELSKY, Il giudice delle leggi, artefice del

diritto, cit., p. 349. 207 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., pp. 14, 43 e 93. V. anche M.R.

FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Bologna, 2010, p. 128: «Le corti fanno di più che configurare limiti ai poteri legislativi ed esecutivi dei paesi democratici, o aspiranti a un’etichetta democratica: esse compiono un continuo lavoro di saldatura tra diversi ordinamenti e spezzoni giuridici, riempiono i vuoti, creano dottrine, riparano incoerenze». Si aggiungano, con riferimento specifico all’Europa, G. MARTINICO, L’integrazione silente. La funzione interpretativa della Corte di Giustizia e il diritto costituzionale europeo, Napoli, 2009 e, per il diritto penale, con ampi riferimenti bibliografici, V. MANES, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012 e C. SOTIS, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012.

208 Su questa rivincita – che si esprime sui fronti della produzione del diritto (ponendo fine alla moderna «sterilizzazione politica» della magistratura: G. TARELLO, Orientamenti della magistratura, del giurista-interprete e della dottrina sulla funzione politica, in Politica del diritto, 1972, p. 461), della rappresentanza (la giurisdizione come arena in cui i soggetti esclusi dai luoghi tradizionali della rappresentanza «riescono a far sentire la loro voce», come «un canale per la rappresentanza politica, con un innegabile arricchimento del processo democratico nel suo insieme»: così S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1999, pp. 184 e 186) e della legittimazione (imprestando le sue forme di legittimazione all’amministrazione e alla politica che, in crisi di rappresentatività, reinventa la democrazia nelle forme – “giurisdizionali” – della democrazia partecipativa e deliberativa), v. M. VOGLIOTTI, Legalità, cit., p. 403 ss.

156 Massimo Vogliotti

seconda dimensione del diritto”206. Come i giuristi dell’antico ius commune, i giudici del nuovo diritto comune europeo, dialogando tra loro, costruiscono il tessuto connettivo tra il diritto sovranazionale delle due Europe e gli iura propria degli Stati, «tessono la rete dei rapporti tra ordinamenti» ed elaborano, tramite l’invenzione di «regole di coesistenza, “passerelle”, linkages tra ordini giuridici» differenti e disarticolati, un «sistema globale degli ordini giuridici»207.

In questa fase estremamente complessa della vita del diritto – caratterizzata dalla transizione da un paradigma ad un altro e contrassegnata dalla rivincita della iurisdictio, che elabora un diritto eminentemente sapienziale, sul gubernaculum 208 – sulla scienza giuridica grava, innanzitutto, il difficile ma entusiasmante compito di proseguire l’opera, avviata nel secondo dopoguerra, di edificazione del nuovo paradigma giuridico. Molti mattoni sono già stati fabbricati – specialmente, si deve ammetterlo, dai Grandi

206 In questo senso v. G. ZAGREBELSKY, Il giudice delle leggi, artefice del

diritto, cit., p. 349. 207 S. CASSESE, I tribunali di Babele, cit., pp. 14, 43 e 93. V. anche M.R.

FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Bologna, 2010, p. 128: «Le corti fanno di più che configurare limiti ai poteri legislativi ed esecutivi dei paesi democratici, o aspiranti a un’etichetta democratica: esse compiono un continuo lavoro di saldatura tra diversi ordinamenti e spezzoni giuridici, riempiono i vuoti, creano dottrine, riparano incoerenze». Si aggiungano, con riferimento specifico all’Europa, G. MARTINICO, L’integrazione silente. La funzione interpretativa della Corte di Giustizia e il diritto costituzionale europeo, Napoli, 2009 e, per il diritto penale, con ampi riferimenti bibliografici, V. MANES, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012 e C. SOTIS, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012.

208 Su questa rivincita – che si esprime sui fronti della produzione del diritto (ponendo fine alla moderna «sterilizzazione politica» della magistratura: G. TARELLO, Orientamenti della magistratura, del giurista-interprete e della dottrina sulla funzione politica, in Politica del diritto, 1972, p. 461), della rappresentanza (la giurisdizione come arena in cui i soggetti esclusi dai luoghi tradizionali della rappresentanza «riescono a far sentire la loro voce», come «un canale per la rappresentanza politica, con un innegabile arricchimento del processo democratico nel suo insieme»: così S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1999, pp. 184 e 186) e della legittimazione (imprestando le sue forme di legittimazione all’amministrazione e alla politica che, in crisi di rappresentatività, reinventa la democrazia nelle forme – “giurisdizionali” – della democrazia partecipativa e deliberativa), v. M. VOGLIOTTI, Legalità, cit., p. 403 ss.

La fine del “grande stile” 157

Tribunali, e in particolare, come già accennato, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – ma altri ne occorrono. Occorre, inoltre, anzi urge – e questo è un compito che spetta essenzialmente, se non esclusivamente, alla scienza – definire la cornice concettuale e le singole categorie teoriche del nuovo paradigma 209 , per farne patrimonio comune (avviando così una nuova stagione di “scienza normale”) e diffonderle presso i giuristi pratici perché abbiano maggiore consapevolezza di ciò che fanno e se ne servano come guida per il loro agire. Cornice concettuale e categorie teoriche che non sono il frutto di asettiche opzioni epistemologiche e metodologiche, ma (anche e soprattutto) il risultato di precise scelte valoriali, di politiche culturali o, meglio, di «politiche della cultura»210 a cui il giurista non può e non deve sottrarsi.

Il già ricordato riorientamento gestaltico nei confronti della Costituzione repubblicana, avvenuto in seguito all’istituzione della Corte costituzionale, ne è un esempio emblematico. Il rigetto della lettura della Costituzione come testo eminentemente politico rivolto

209 Questo era il programma che si era annunciato nell’introduzione al saggio

Tra fatto e diritto, cit., pp. 28-31 e di cui si è avviata la realizzazione con studi monografici riferiti alla categoria della legalità (v. la “voce” citata nella nota precedente) e al divieto di analogia nel diritto penale (Dove passa il confine?, cit.). Ma tutte le categorie del paradigma moderno devono essere ripensate alla luce del nuovo paradigma: sovranità, divisione dei poteri, sistema delle fonti, giurisdizione, interpretazione, obbligatorietà dell’azione penale…

210 L’espressione è di N. BOBBIO, Politica e cultura (1955), Torino, 1977, p. 37, secondo cui «la politica della cultura, come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura, si contrappone alla politica culturale, cioè alla pianificazione della cultura da parte dei politici».

Sui giudizi di valore come ingredienti inevitabili dei paradigmi scientifici, v. T. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., Poscritto 1969, pp. 223-225. Nella letteratura giuridica italiana ha sostenuto, in polemica con numerosi rappresentanti dell’indirizzo giusanalitico, che «i giudizi di valore sono una componente necessaria della conoscenza giuridica» V. VILLA, Costruttivismo e teorie del diritto, cit., p. 239 (anche se, subito dopo, non se la sente di estendere quest’affermazione anche alla teoria del diritto, limitandosi ad ammetterne «la mera possibilità (da valutare caso per caso)»). Com’è noto, la consapevolezza della presenza ineludibile di giudizi di valore nell’attività della scienza giuridica (e la contestuale convinzione neopositivistica mai sconfessata – il giudizio di valore del neopositivismo! – che il discorso scientifico dovesse essere necessariamente avalutativo) ha finito per imporre a Scarpelli l’idea che il positivismo giuridico non sia una teoria ma una politica del diritto (U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico?, Milano, 1965, pp. 49-100).

158 Massimo Vogliotti

al legislatore – lettura dettata dalla cornice paradigmatica moderna – e il riconoscimento, tramite il performativo dei “principi supremi”, della Costituzione come incarnazione della seconda dimensione del diritto, sottratta – nel suo nucleo assiologico fondamentale – alla disponibilità di qualsiasi auctoritas, è un’operazione culturale assiologicamente connotata, strettamente collegata al trauma dei totalitarismi: con essa si voleva reintrodurre nel tessuto del diritto – e nell’orizzonte della scienza giuridica – l’idea dell’indisponibile, del limite, che la categoria ottocentesca dello stato di diritto, a causa della cornice teorica del paradigma moderno, non era riuscita ad assicurare. Per riassumere la vicenda con le parole di Hilary Putnam, si potrebbe dire che il criterio di «accettabilità razionale» della teoria che rifiuta la categoria delle “norme programmatiche” e che fa della Costituzione non una mera iper-legge (espressione di auctoritas), ma la reincarnazione attualizzata della seconda dimensione del diritto (il diritto come ratio), dipende, in fondo, dalla «nostra idea di fioritura cognitiva umana, e perciò anche […] dalla nostra idea di fioritura umana totale, di eudemonia», cioè, in altre parole, «dalla nostra idea del bene»211.

Inutile aggiungere che le ricadute pratiche delle opzioni paradigmatiche di fondo sono rilevantissime: segno che – già a questo livello apparentemente così distante dalla prassi – l’incidenza della scienza sulla vita quotidiana del diritto e dei suoi utenti è profondissima. Basti ricordare, qui, l’opposto esito delle decisioni del Tribunale di Roma nel caso Welby e della Corte di Cassazione nel caso Englaro, decisioni che muovono da premesse teorico-valoriali incompatibili212: la prima sterilizza la Costituzione, resusci-tando di fatto la categoria delle norme programmatiche (secondo l’idea moderna del diritto come insieme chiuso di norme e non anche di principi giuridicamente cogenti e aperti alla società e ai suoi valori e secondo l’altrettanto moderna concezione della giurisdizione come attività esecutiva e non ricostruttiva) 213 ; la

211 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia (1981), Milano, 1985, pp. 146 e 149. 212 Il riferimento è all’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. civile, del 16

dicembre del 2006 e alla sentenza della Corte di cassazione, sez. I civile, del 16 ottobre 2007, n. 21748.

213 V., in proposito, le dure critiche di S. RODOTÀ, Su Welby l’occasione mancata dei giudici, in La Repubblica, 18 dicembre 2006 e di G. ZAGREBELSKY, Il giudice la legge e i diritti di Welby, in La Repubblica, 19 marzo 2007, in cui si lamenta che il giudice, dopo aver riconosciuto la sussistenza, tra le pieghe della

158 Massimo Vogliotti

al legislatore – lettura dettata dalla cornice paradigmatica moderna – e il riconoscimento, tramite il performativo dei “principi supremi”, della Costituzione come incarnazione della seconda dimensione del diritto, sottratta – nel suo nucleo assiologico fondamentale – alla disponibilità di qualsiasi auctoritas, è un’operazione culturale assiologicamente connotata, strettamente collegata al trauma dei totalitarismi: con essa si voleva reintrodurre nel tessuto del diritto – e nell’orizzonte della scienza giuridica – l’idea dell’indisponibile, del limite, che la categoria ottocentesca dello stato di diritto, a causa della cornice teorica del paradigma moderno, non era riuscita ad assicurare. Per riassumere la vicenda con le parole di Hilary Putnam, si potrebbe dire che il criterio di «accettabilità razionale» della teoria che rifiuta la categoria delle “norme programmatiche” e che fa della Costituzione non una mera iper-legge (espressione di auctoritas), ma la reincarnazione attualizzata della seconda dimensione del diritto (il diritto come ratio), dipende, in fondo, dalla «nostra idea di fioritura cognitiva umana, e perciò anche […] dalla nostra idea di fioritura umana totale, di eudemonia», cioè, in altre parole, «dalla nostra idea del bene»211.

Inutile aggiungere che le ricadute pratiche delle opzioni paradigmatiche di fondo sono rilevantissime: segno che – già a questo livello apparentemente così distante dalla prassi – l’incidenza della scienza sulla vita quotidiana del diritto e dei suoi utenti è profondissima. Basti ricordare, qui, l’opposto esito delle decisioni del Tribunale di Roma nel caso Welby e della Corte di Cassazione nel caso Englaro, decisioni che muovono da premesse teorico-valoriali incompatibili212: la prima sterilizza la Costituzione, resusci-tando di fatto la categoria delle norme programmatiche (secondo l’idea moderna del diritto come insieme chiuso di norme e non anche di principi giuridicamente cogenti e aperti alla società e ai suoi valori e secondo l’altrettanto moderna concezione della giurisdizione come attività esecutiva e non ricostruttiva) 213 ; la

211 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia (1981), Milano, 1985, pp. 146 e 149. 212 Il riferimento è all’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. civile, del 16

dicembre del 2006 e alla sentenza della Corte di cassazione, sez. I civile, del 16 ottobre 2007, n. 21748.

213 V., in proposito, le dure critiche di S. RODOTÀ, Su Welby l’occasione mancata dei giudici, in La Repubblica, 18 dicembre 2006 e di G. ZAGREBELSKY, Il giudice la legge e i diritti di Welby, in La Repubblica, 19 marzo 2007, in cui si lamenta che il giudice, dopo aver riconosciuto la sussistenza, tra le pieghe della

La fine del “grande stile” 159

seconda valorizza la Costituzione come linfa giuridica che alimenta e sorregge l’intera attività ermeneutica del giudice, concepita non come passiva esecuzione di norme, ma come delicata e complessa opera ricostruttiva, come prudente e responsabile tessitura di auctoritates e rationes, attinte – queste ultime – anche da decisioni di corti straniere, e ciò in quanto riconosciute come testimonianze autorevoli di una cultura costituzionale che travalica i confini degli Stati e impiegate come ulteriori fonti di legittimazione dell’attività ermeneutica, priva di un ancoraggio giuridico solido ed evidente, di un’auctoritas già tutta dispiegata in un testo chiaro e distinto214.

Si potrebbe sintetizzare il discorso sulla rilevanza delle fondamentali opzioni teorico-valoriali che costituiscono la cornice concettuale del paradigma e definiscono i criteri di “accettabilità razionale” delle decisioni giurisprudenziali, richiamando la battuta di Wittgenstein, già ricordata, che condensa la sua prospettiva olistica rispetto al significato: «Come faccio a sapere che questo

Costituzione, del diritto a richiedere l’interruzione della respirazione assistita, afferma che tale diritto non è «concretamente tutelato dall’ordinamento», richiedendosi un preciso intervento del legislatore (finendo così, come osserva Zagrebelsky, per «subordinare la Costituzione alla legge, proprio come si cercava di fare con la vecchia e superata dottrina delle norme costituzionali solo “programmatiche”»). Analoga impostazione – mossa da chiari e strategici intenti politici – anima il ricorso alla Corte costituzionale (da questa poi rigettato con l’ord. 334/2008) delle Camere contro la sentenza Englaro della Cassazione, colpevole di aver esercitato poteri spettanti in esclusiva al legislatore, esorbitando dai «confini stessi della giurisdizione» (dalla lettura dei motivi del ricorso emergono con chiarezza tutti i presupposti teorici del paradigma moderno, presupposti sconfessati dal nuovo paradigma costituzionale).

214 Tra i primi interessanti contributi relativi al fenomeno – oggi studiatissimo – del dialogo dei giudici (un altro fondamentale – e precedente – è quello di A.M. SLAUGHTER, A New World Order, cit., p. 65 ss.), v. J. ALLARD e A. GARAPON, Les juges dans la mondialisation. La nouvelle révolution du droit, Paris, Seuil, 2005 in cui si osserva che i giudici, quando citano decisioni straniere, «sont tout d’abord à la recherche de solutions ou d’arguments logiques, les jurisprudences étrangères offrant une sorte de boîte à idées». In secondo luogo – e questa è forse la ragione principale del ricorso alla giurisprudenza alii loci – i giudici, chiamati a risolvere casi altamente conflittuali senza riferimenti normativi espliciti, sono «en quête de réassurance juridique. À la fertilisation réciproque, s’ajoute donc une recherche de légitimité» (pp. 18-19). In merito, v. anche, più di recente, V. BARSOTTI, Tra il dialogo e la cooperazione. Il nuovo ruolo delle corti nell’ordine globale, in L. ANTONIOLLI, G.A. BENACCHIO e R. TONIATTI (a cura di), Le nuove frontiere della cooperazione, Trento, 2012, p. 199 ss.

160 Massimo Vogliotti

colore è rosso? – Una risposta potrebbe essere questa: “Ho imparato l’italiano”»215. Allo stesso modo noi potremmo dire: «Come faccio a sapere se è lecito interrompere la respirazione o l’alimentazione e l’idratazione artificiali? – Una risposta potrebbe essere questa: “Ho imparato il gioco linguistico del diritto”».

Definire la cornice concettuale del paradigma e le singole categorie teoriche significa ridisegnare la mappa dei problemi e delle soluzioni con cui la comunità scientifica orienterà poi la sua quotidiana attività di «scienza normale»216. Antichi problemi vengo-no riconfigurati ed esigono soluzioni rinnovate 217 , problemi che

215 V. supra nota 141. 216 Come si è ricordato all’inizio del terzo paragrafo, per Kuhn un paradigma

è un insieme di «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca» (T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 10).

217 Ad esempio, la certezza del diritto – il problema e il valore fondamentale del paradigma giuridico moderno, coerente con il nuovo metodo delle scienze teoretiche – viene ridefinita, per riprendere una locuzione della Corte europea dei diritti dell’uomo, ragionevole prevedibilità, standard più consono rispetto alle mutate premesse epistemologiche. Le soluzioni mutano di conseguenza: mentre il paradigma giuridico moderno ha cercato essenzialmente, se non esclusivamente, nella precisione linguistica dell’enunciato legislativo la soluzione al problema della certezza (nel diritto penale con il principio della tassatività della fattispecie), il nuovo paradigma, che ha rinunciato a quello standard impraticabile ed è consapevole dell’illusorietà e della fragilità di quella soluzione, deve ricorrere a una soluzione più complessa, che fa tesoro delle acquisizioni dell’ermeneutica e punta su una sinergia di rimedi, tra cui la valorizzazione del formante giurisprudenziale come strumento capace di ridurre la polisemia del testo, il potenziamento della funzione nomofilattica della Cassazione mediante riforme di tipo processuale (quale la riduzione delle impugnazioni, che richiede, a sua volta, interventi diversi, tra cui la riforma della prescrizione), ordinamentale, organizzativo e culturale (in particolare l’adozione, da parte dei giudici, della cultura del precedente). Si è tentato di impostare una soluzione al problema della certezza del diritto (rectius della ragionevole prevedibilità), alla luce della cornice concettuale del nuovo paradigma, nel saggio La «rhapsodie»: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser la production juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, in Revue interdisciplinaire d’études juridiques, 2001, pp. 176-179.

Analogo discorso può essere fatto per il problema della gestione e dell’esercizio dell’azione penale (per alcuni spunti v. il lavoro appena citato, pp. 173-175 e Les relations police-parquet en Italie: un équilibre menacé?, in Droit et Société, 58, 2004, pp. 468-476).

160 Massimo Vogliotti

colore è rosso? – Una risposta potrebbe essere questa: “Ho imparato l’italiano”»215. Allo stesso modo noi potremmo dire: «Come faccio a sapere se è lecito interrompere la respirazione o l’alimentazione e l’idratazione artificiali? – Una risposta potrebbe essere questa: “Ho imparato il gioco linguistico del diritto”».

Definire la cornice concettuale del paradigma e le singole categorie teoriche significa ridisegnare la mappa dei problemi e delle soluzioni con cui la comunità scientifica orienterà poi la sua quotidiana attività di «scienza normale»216. Antichi problemi vengo-no riconfigurati ed esigono soluzioni rinnovate 217 , problemi che

215 V. supra nota 141. 216 Come si è ricordato all’inizio del terzo paragrafo, per Kuhn un paradigma

è un insieme di «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e di soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca» (T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 10).

217 Ad esempio, la certezza del diritto – il problema e il valore fondamentale del paradigma giuridico moderno, coerente con il nuovo metodo delle scienze teoretiche – viene ridefinita, per riprendere una locuzione della Corte europea dei diritti dell’uomo, ragionevole prevedibilità, standard più consono rispetto alle mutate premesse epistemologiche. Le soluzioni mutano di conseguenza: mentre il paradigma giuridico moderno ha cercato essenzialmente, se non esclusivamente, nella precisione linguistica dell’enunciato legislativo la soluzione al problema della certezza (nel diritto penale con il principio della tassatività della fattispecie), il nuovo paradigma, che ha rinunciato a quello standard impraticabile ed è consapevole dell’illusorietà e della fragilità di quella soluzione, deve ricorrere a una soluzione più complessa, che fa tesoro delle acquisizioni dell’ermeneutica e punta su una sinergia di rimedi, tra cui la valorizzazione del formante giurisprudenziale come strumento capace di ridurre la polisemia del testo, il potenziamento della funzione nomofilattica della Cassazione mediante riforme di tipo processuale (quale la riduzione delle impugnazioni, che richiede, a sua volta, interventi diversi, tra cui la riforma della prescrizione), ordinamentale, organizzativo e culturale (in particolare l’adozione, da parte dei giudici, della cultura del precedente). Si è tentato di impostare una soluzione al problema della certezza del diritto (rectius della ragionevole prevedibilità), alla luce della cornice concettuale del nuovo paradigma, nel saggio La «rhapsodie»: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser la production juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, in Revue interdisciplinaire d’études juridiques, 2001, pp. 176-179.

Analogo discorso può essere fatto per il problema della gestione e dell’esercizio dell’azione penale (per alcuni spunti v. il lavoro appena citato, pp. 173-175 e Les relations police-parquet en Italie: un équilibre menacé?, in Droit et Société, 58, 2004, pp. 468-476).

La fine del “grande stile” 161

erano centrali non lo sono più ed altri lo diventano218 e, infine, nuovi problemi sorgono a cui si deve rispondere con soluzioni inedite219. In quest’opera progettuale – che richiede capacità immaginative, mente aperta, coraggio e, allo stesso tempo, cautela – utili spunti provengono da quelle culture giuridiche (la medievale e quelle di common law) che condividono, con il nuovo paradigma, le medesime premesse teoriche e metodologiche: la natura pratica del sapere giuridico, l’ontologia relazionale e, quindi, la doppia dimen-sione del diritto.

Oltre a questo compito fondamentale di edificazione del nuovo paradigma – in cui è impegnata una parte, specialmente la più giovane, della comunità scientifica220 – la scienza giuridica, nel suo

218 Se per il paradigma moderno il problema cruciale era la “formazione della

legge perfetta” (F. OST, L’amour de la loi parfaite, in J. BOULARD-AYOUB, B. MELKEVIK e P. ROBERT (a cura di), L’amour des lois. La crise de la loi moderne dans les sociétés contemporaines, Laval, 1996, pp. 53-77), per il nuovo paradigma è invece la “formazione dell’uomo di legge” (si rinvia, in merito, all’ultimo capitolo di Tra fatto e diritto: “Dalla centralità della legge alla centralità dell’uomo di legge”).

219 Ad esempio, il riconoscimento del diritto giurisprudenziale come un fenomeno ineliminabile anche in ambito penale fa sorgere il problema di come gestirlo in conformità con le esigenze di prevedibilità delle conseguenze penali dell’azione e con i valori fondamentali del diritto penale (magari anch’essi, in parte, ridefiniti). Diventa un problema – che esige soluzioni (error iuris? Prospective overruling?) – il mutamento di giurisprudenza in materia penale (in malam ma anche in bonam partem, come testimoniato dalla sentenza 230/2012 della Corte costituzionale) alla luce del principio di irretroattività (o di retroattività, a seconda dei casi) della legge (rectius, del diritto) penale. Su queste problematiche ci si è soffermati nei saggi Penser l’impensable: le principe de la non-rétroactivité du jugement pénal in malam partem. La perspective italienne, in Revue de l’Université Libre de Bruxelles, 2, 2002, pp. 61-123 (anche on-line in Diritto & Questioni pubbliche, 3, 2003) e Dove passa il confine?, cit.

220 Kuhn sottolinea come coloro che riescono ad inventare un nuovo paradigma «sono quasi sempre o molto giovani oppure nuovi arrivati nel campo governato dal paradigma che essi modificano. Forse non c’era bisogno di rendere così esplicito questo punto; è ovvio, infatti, che sono quelli gli uomini i quali, proprio perché sono solo scarsamente condizionati dalle regole tradizionali della scienza normale […] hanno maggiore probabilità di vedere che quelle regole non servono più a definire problemi risolvibili e di concepire un altro insieme di regole che possano sostituirle» (T.S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 117).

162 Massimo Vogliotti

insieme, deve collaborare con le istituzioni politiche 221 , con la giurisprudenza pratica e con i vari attori (pubblici e privati) della globalizzazione 222 nell’opera polifonica di costruzione dell’ordine giuridico, controllando che essa risulti conforme al programma costituzionale e alle Carte sovranazionali e internazionali dei diritti. Il compito più alto – e il fine ultimo – della scienza giuridica in quanto scienza pratica sta proprio nell’assicurare che l’agire giuridico sia orientato verso il “giusto” (l’eupraxia aristotelica) e quindi nel custodire la seconda dimensione del diritto, «il nocciolo indistruttibile di ogni diritto rispetto a qualsiasi attività normativa disgregante». In questo «sta la dignità»223 della scienza che, insieme

221 È il caso, ad esempio, della collaborazione tra «istituzioni comunitarie e

accademia, che non ha precedenti nella storia della codificazione» (così G. AJANI, Un diritto comune europeo della vendita? Nuove complessità, in Trenta giuristi europei sull’idea di codice europeo dei contratti, in Contratto e impresa/Europa, 1, 2012, p. 83), nell’ambito dell’armonizzazione del diritto civile e in particolare del diritto dei contratti. Sul punto si rinvia alle informazioni contenute nel recentissimo scritto di P. GROSSI, Il messaggio giuridico dell’Europa, cit., pp. 691-692. Analogo discorso può essere fatto, in ambito penale, a proposito del progetto “Corpus Juris”, elaborato tra il 1995 e il 1996 da una commissione di insigni penalisti, coordinati da M. Delmas-Marty, allo scopo di elaborare alcuni principi fondamentali in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, nel quadro di uno spazio giudiziario europeo (il rapporto è stato pubblicato in francese e in inglese a cura di M. DELMAS-MARTY: Corpus Juris portant dispositions pénales pour la protection des intérêts financiers de l’Union européenne, Paris, 1997).

222 Un esempio emblematico del ruolo che la scienza giuridica può svolgere nel disciplinare la nuova lex mercatoria globale è rappresentato dagli “Unidroit Principles of International Commercial Contracts”, la cui prima redazione è del 1994 (v. Contratti commerciali internazionali e principi Unidroit, a cura di M.J. BONELL e F. BONELLI, Milano, 1997). Come osserva F. GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 2001, p. 242, «il filtro culturale di Unidroit» rimodella la lex mercatoria, in sé creazione unilaterale della classe imprenditoriale, «secondo i principi generali del diritto, nella ricerca del giusto punto di equilibrio fra gli opposti interessi in gioco, fra le ragioni dell’impresa e le esigenze di protezione del contraente debole».

223 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 83, che precisa: «Non possiamo sceglierci, secondo i nostri gusti, i regimi e i mutevoli detentori del potere, ma tuteliamo, con il cambiare delle situazioni, ciò su cui poggia un modo razionale di essere uomini che non può fare a meno dei principi del diritto. Di tali principi fa parte un riconoscimento della persona che non venga meno neppure nella contesa e che poggi sul rispetto reciproco; una sensibilità per la logica e per la coerenza dei concetti e delle istituzioni; il senso

162 Massimo Vogliotti

insieme, deve collaborare con le istituzioni politiche 221 , con la giurisprudenza pratica e con i vari attori (pubblici e privati) della globalizzazione 222 nell’opera polifonica di costruzione dell’ordine giuridico, controllando che essa risulti conforme al programma costituzionale e alle Carte sovranazionali e internazionali dei diritti. Il compito più alto – e il fine ultimo – della scienza giuridica in quanto scienza pratica sta proprio nell’assicurare che l’agire giuridico sia orientato verso il “giusto” (l’eupraxia aristotelica) e quindi nel custodire la seconda dimensione del diritto, «il nocciolo indistruttibile di ogni diritto rispetto a qualsiasi attività normativa disgregante». In questo «sta la dignità»223 della scienza che, insieme

221 È il caso, ad esempio, della collaborazione tra «istituzioni comunitarie e

accademia, che non ha precedenti nella storia della codificazione» (così G. AJANI, Un diritto comune europeo della vendita? Nuove complessità, in Trenta giuristi europei sull’idea di codice europeo dei contratti, in Contratto e impresa/Europa, 1, 2012, p. 83), nell’ambito dell’armonizzazione del diritto civile e in particolare del diritto dei contratti. Sul punto si rinvia alle informazioni contenute nel recentissimo scritto di P. GROSSI, Il messaggio giuridico dell’Europa, cit., pp. 691-692. Analogo discorso può essere fatto, in ambito penale, a proposito del progetto “Corpus Juris”, elaborato tra il 1995 e il 1996 da una commissione di insigni penalisti, coordinati da M. Delmas-Marty, allo scopo di elaborare alcuni principi fondamentali in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, nel quadro di uno spazio giudiziario europeo (il rapporto è stato pubblicato in francese e in inglese a cura di M. DELMAS-MARTY: Corpus Juris portant dispositions pénales pour la protection des intérêts financiers de l’Union européenne, Paris, 1997).

222 Un esempio emblematico del ruolo che la scienza giuridica può svolgere nel disciplinare la nuova lex mercatoria globale è rappresentato dagli “Unidroit Principles of International Commercial Contracts”, la cui prima redazione è del 1994 (v. Contratti commerciali internazionali e principi Unidroit, a cura di M.J. BONELL e F. BONELLI, Milano, 1997). Come osserva F. GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 2001, p. 242, «il filtro culturale di Unidroit» rimodella la lex mercatoria, in sé creazione unilaterale della classe imprenditoriale, «secondo i principi generali del diritto, nella ricerca del giusto punto di equilibrio fra gli opposti interessi in gioco, fra le ragioni dell’impresa e le esigenze di protezione del contraente debole».

223 C. SCHMITT, La condizione della scienza giuridica europea, cit., p. 83, che precisa: «Non possiamo sceglierci, secondo i nostri gusti, i regimi e i mutevoli detentori del potere, ma tuteliamo, con il cambiare delle situazioni, ciò su cui poggia un modo razionale di essere uomini che non può fare a meno dei principi del diritto. Di tali principi fa parte un riconoscimento della persona che non venga meno neppure nella contesa e che poggi sul rispetto reciproco; una sensibilità per la logica e per la coerenza dei concetti e delle istituzioni; il senso

La fine del “grande stile” 163

con la giurisdizione, è «organo della coscienza sociale»224, tradut-trice – con la sua artificial reason – del variegato e disarticolato linguaggio sociale (con i suoi contenuti, plurimi e confliggenti, di interessi bisogni valori) in un linguaggio giuridico sintatticamente ordinato e semanticamente giusto, secondo le direttrici assiologiche della Costituzione.

Lungi dall’essere devota vestale del sacro fuoco normativo del Legislatore, la scienza giuridica deve farsi – per usare una parola volutamente provocatrice – “militante”225. Ciò è tanto più necessario oggi, in una fase (che si protrae ormai da vent’anni) particolarmente critica della nostra storia repubblicana in cui la Costituzione – con il suo humus teorico e il suo impianto valoriale, il cui baricentro è il principio di eguaglianza sostanziale insieme con l’idea di una libertà non egoistica ma solidale – è preda dei formidabili attacchi dei «poteri selvaggi»226, provenienti sia da quella parte del ceto politico della reciprocità e del livello minimo di regolarità procedurale, del due process of law senza cui non c’è diritto».

224 Così P. GROSSI, Un impegno per il giurista di oggi, cit., p. 39, notando come la legittimazione del giurista (teorico e pratico) risieda nel suo «ruolo di organo della coscienza sociale grazie al possesso della scienza e della tecnica del diritto».

225 In un senso simile a quello fatto proprio dalla magistratura nella mozione approvata in occasione del XII congresso dell’Associazione nazionale dei magistrati italiani, svoltosi a Gardone nel 1965. Dopo aver dichiarato di abbandonare la «concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad un’attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese», la magistratura associata rivendica il compito di tutelare «l’indirizzo politico nella Costituzione», precisando che «il problema dell’indirizzo politico nell’ambito della funzione giudiziaria non si pone, ovviamente, in termini di indirizzo politico contingente, che spetta alle forze politiche […], bensì in termini di tutela dell’indirizzo politico-costituzionale» (ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI, Atti e commenti, XII Congresso nazionale, Brescia-Gardone, 25-28 settembre 1965, Roma, 1966, pp. 309-310).

226 L. FERRAJOLI, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Roma-Bari, 2011, che esordisce notando che «è in atto un processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano», processo manifestatosi «nella costruzione di un regime basato sul consenso o quanto meno sulla passiva acquiescenza di una parte rilevante della società italiana a una lunga serie di violazioni della lettera o dello spirito della Costituzione». E aggiunge che «il suo aspetto più grave consiste però nel rifiuto opposto dall’attuale ceto di governo, ben più che alla Costituzione del 1948, al costituzionalismo medesimo, cioè ai limiti e ai vincoli costituzionali imposti alle istituzioni rappresentative» (p. VII).

164 Massimo Vogliotti

che vorrebbe restaurare la concezione monodimensionale e potestativa del diritto, propria del paradigma moderno nella sua fase positivistica (la nostalgia per l’idea, figlia della categoria moderna della sovranità, che vi sia un «padrone del diritto»227 e per una narratologia giuridica dominata dal Legislatore-Narratore onnipotente, ora nelle vesti aggiornate della maggioranza governativa o, meglio, del suo capo, in quanto espressione diretta del “popolo sovrano”), sia dal «finanzcapitalismo» 228 globale che esautora le democrazie costituzionali (e la politica tout court) imponendo le sue leggi contrabbandate come giusnaturalistiche – ma in realtà espressione di un hobbesiano “stato di natura” ancora più diseguale ed insicuro – e, dopo aver provocato la rovinosa crisi di questi ultimi anni, spinge la sua hybris fino a citare in giudizio le Costituzioni nate dalla lotta antifascista, accusandole di essere d’ostacolo all’applicazione delle «necessarie misure di austerity» e quindi «inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea», in quanto «mostrano una forte influenza delle idee socialiste», specie in relazione alle «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori»229.

Finora la cultura giuridica, nelle sue varie articolazioni, accademiche, associative e giurisdizionali, si è mostrata all’altezza del suo compito di custode della Costituzione e del costituzionalismo, respingendo più volte quegli attacchi. E tuttavia è prevedibile che essi proseguiranno e si faranno, anzi, ancora più virulenti ed insidiosi. A questo proposito, occorre che la scienza giuridica si impegni sempre di più – considerando tra i suoi «luoghi di lavoro anche quelli appartenenti alla cosiddetta società civile» – in un’opera di diffusione capillare della cultura costituzionale, perché se la Costituzione «non ha dalla sua parte una viva cultura costituzionale conforme, entrata nelle vene delle relazioni sociali e politiche, non è nulla»230.

227 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 213: «Tra Stato costituzionale e

qualunque “padrone del diritto” c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti».

228 L. GALLINO, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, 2011. 229 Le citazioni sono tratte dal rapporto, datato 28 maggio 2013, della banca

d’affari statunitense JP Morgan, una delle protagoniste – formalmente denunciata nel 2012 dal governo federale americano – dei progetti di finanza creativa e quindi della crisi dei subprime scoppiata nel 2008.

230 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., pp. 87-88.

164 Massimo Vogliotti

che vorrebbe restaurare la concezione monodimensionale e potestativa del diritto, propria del paradigma moderno nella sua fase positivistica (la nostalgia per l’idea, figlia della categoria moderna della sovranità, che vi sia un «padrone del diritto»227 e per una narratologia giuridica dominata dal Legislatore-Narratore onnipotente, ora nelle vesti aggiornate della maggioranza governativa o, meglio, del suo capo, in quanto espressione diretta del “popolo sovrano”), sia dal «finanzcapitalismo» 228 globale che esautora le democrazie costituzionali (e la politica tout court) imponendo le sue leggi contrabbandate come giusnaturalistiche – ma in realtà espressione di un hobbesiano “stato di natura” ancora più diseguale ed insicuro – e, dopo aver provocato la rovinosa crisi di questi ultimi anni, spinge la sua hybris fino a citare in giudizio le Costituzioni nate dalla lotta antifascista, accusandole di essere d’ostacolo all’applicazione delle «necessarie misure di austerity» e quindi «inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea», in quanto «mostrano una forte influenza delle idee socialiste», specie in relazione alle «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori»229.

Finora la cultura giuridica, nelle sue varie articolazioni, accademiche, associative e giurisdizionali, si è mostrata all’altezza del suo compito di custode della Costituzione e del costituzionalismo, respingendo più volte quegli attacchi. E tuttavia è prevedibile che essi proseguiranno e si faranno, anzi, ancora più virulenti ed insidiosi. A questo proposito, occorre che la scienza giuridica si impegni sempre di più – considerando tra i suoi «luoghi di lavoro anche quelli appartenenti alla cosiddetta società civile» – in un’opera di diffusione capillare della cultura costituzionale, perché se la Costituzione «non ha dalla sua parte una viva cultura costituzionale conforme, entrata nelle vene delle relazioni sociali e politiche, non è nulla»230.

227 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 213: «Tra Stato costituzionale e

qualunque “padrone del diritto” c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti».

228 L. GALLINO, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, 2011. 229 Le citazioni sono tratte dal rapporto, datato 28 maggio 2013, della banca

d’affari statunitense JP Morgan, una delle protagoniste – formalmente denunciata nel 2012 dal governo federale americano – dei progetti di finanza creativa e quindi della crisi dei subprime scoppiata nel 2008.

230 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., pp. 87-88.

La fine del “grande stile” 165

Per sostenere questo impegno e, più in generale, per far fronte ai nuovi, difficili, compiti cui il giurista è oggi chiamato, è necessario puntare sulla formazione – questione tradizionalmente trascurata dalla cultura giuridica di civil law 231, ma che è diventata cruciale

231 In questi ultimi anni si deve registrare, con soddisfazione, una lodevole

inversione di tendenza, testimoniata da una fioritura di progetti di ricerca, di convegni e di pubblicazioni sul tema (tanto da venir definito un “soggetto scottante” da J.R. MAXEINER, Integrating Practical Training and Professional Legal Education, in J. KLABBERS e M. SELLERS (a cura di), The Internationalization of Law and Legal Education, London, 2008, p. 37). Ci limitiamo a segnalare, qui, la monumentale “Collana per l’Osservatorio sulla formazione giuridica” (13 volumi), promossa da Vincenzo Cerulli e Orlando Roselli (coordinatore nazionale della ricerca MIUR-COFIN PRIN 2004, da cui la collana ha tratto origine) e pubblicata per i tipi dell’Editoriale Scientifica (per una bella presentazione v. P. COSTA, La formazione del giurista: a proposito di una recente collana di studi, in Sociologia del diritto, 1, 2013, pp. 215-222), due dossier – uno intitolato Les enjeux contemporaines de la formation juridique, in Droit et Société, 83, 2013, pp. 9-116 (dove si segnala, in apertura, che nel 2008 è stato istituito in Francia il “Conseil national du droit”, col compito di presentare proposte sull’insegnamento del diritto, la formazione e l’impiego dei giuristi) e l’altro, L’enseignement du droit au début du XXIe siècle, perspectives critiques, pubblicato, significativamente, nel primo numero della nuova rivista Jurisprudence. Revue critique, 2010, pp. 87-263 (oltre a quattro studi, il dossier pubblica gli atti di un convegno che si è svolto a Chambéry il 3 luglio 2009) – e tre workshop dedicati alla formazione giuridica nell’ultimo congresso mondiale di sociologia del diritto (ISA/RCSL), svoltosi a Tolosa dal 3 al 6 settembre 2013.

Ben diverso – e non a caso, stante i diversi presupposti paradigmatici – è invece lo scenario nei paesi di common law, ai quali guardavano con particolare interesse Alessandro Giuliani e Nicola Picardi, promotori (si trattava della prima, grossa, pietra nello stagno dell’indifferenza) di un’importante ricerca internazionale sull’educazione giuridica, iniziativa che si spiega guardando al momento in cui la ricerca si svolse, l’inizio degli Settanta, un periodo contrassegnato dai primi, evidenti, segni della “rivoluzione giuridica” in atto, che premeva per un profondo ripensamento del modello formativo (A. GIULIANI e N. PICARDI, L’educazione giuridica (1975 e 1979), 2 voll., II ed., Bari, 2008). Nei paesi anglosassoni, l’importanza per la legal education – la cui letteratura «ha i numeri e la consistenza metodologica di una vera e propria tradizione disciplinare» (così F. TREGGIARI, “Pericle e l’idraulico”. La formazione e la professione del giurista nelle giurisdizioni anglofone, in O. ROSELLI (a cura di), Osservatorio sulla formazione giuridica 2006, Napoli, 2007, p. 150) – è testimoniata in modo evidente dalla presenza di prestigiose riviste ad essa dedicate, a cominciare dal Journal of Legal Education, la rivista che l’Association of American Law School, costituita nel 1900, pubblica ormai da più di 70 anni.

166 Massimo Vogliotti

con il nuovo paradigma – rinnovando contenuti e metodi dell’edu-cazione giuridica, a partire dalle aule universitarie. Il modello formativo che si è affermato in seguito all’involuzione positivistica del paradigma giuridico moderno, e a cui ancora oggi si ispira, nelle sue linee essenziali, l’insegnamento universitario del diritto, non è più soddisfacente.

Come il “grande stile”, quel modello pedagogico si esprimeva all’«indicativo», ossia in modo «definitivo e assoluto» 232 : l’inse-gnamento frontale, passivizzante e articolato in una pluralità di discipline non comunicanti, era funzionale alla trasmissione aproblematica e acritica (all’indicativo, appunto), di sostanze normative ordinate a sistema e di verità cristallizzate nelle categorie senza tempo della dogmatica.

Il nuovo modello educativo dovrebbe, invece, esprimersi al «congiuntivo», modo che indica il «senso delle possibilità». Chi possiede quest’ultimo, nota Musil, «non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere, ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe esser anche diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è». Il romanzo musiliano al congiuntivo «si rivolge verso “le non ancor deste intenzioni di Dio”, verso le possibilità nemmeno ancor potenziali, verso l’estraneo non integrabile – ossia verso forze che non si lasciano più unificare e ordinare, vale a dire oggettivare e reificare da un soggetto legislatore». Compito della poesia, prosegue Magris, è «spezzare il volto compatto del mondo affacciandosi sul mare dell’altrove e dell’incerto, e non già racchiudere il mondo, con rassicuranti e poliziesche parole, entro i saldi orizzonti di un significato preciso, esauriente, definito». La poesia «è la capacità di immaginare come l’uomo può essere, è l’essenza stessa del senso della possibilità: è profezia, utopia, saggismo, tentacolare tentativo di sperimentare in tutte le direzioni le virtualità della propria esistenza»233.

Anche l’insegnamento del diritto dovrebbe trasmettere questo “senso delle possibilità”, l’idea che il sapere giuridico non è un

232 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 255. 233 Ivi, pp. 255 e 261.

166 Massimo Vogliotti

con il nuovo paradigma – rinnovando contenuti e metodi dell’edu-cazione giuridica, a partire dalle aule universitarie. Il modello formativo che si è affermato in seguito all’involuzione positivistica del paradigma giuridico moderno, e a cui ancora oggi si ispira, nelle sue linee essenziali, l’insegnamento universitario del diritto, non è più soddisfacente.

Come il “grande stile”, quel modello pedagogico si esprimeva all’«indicativo», ossia in modo «definitivo e assoluto» 232 : l’inse-gnamento frontale, passivizzante e articolato in una pluralità di discipline non comunicanti, era funzionale alla trasmissione aproblematica e acritica (all’indicativo, appunto), di sostanze normative ordinate a sistema e di verità cristallizzate nelle categorie senza tempo della dogmatica.

Il nuovo modello educativo dovrebbe, invece, esprimersi al «congiuntivo», modo che indica il «senso delle possibilità». Chi possiede quest’ultimo, nota Musil, «non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere, ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe esser anche diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è». Il romanzo musiliano al congiuntivo «si rivolge verso “le non ancor deste intenzioni di Dio”, verso le possibilità nemmeno ancor potenziali, verso l’estraneo non integrabile – ossia verso forze che non si lasciano più unificare e ordinare, vale a dire oggettivare e reificare da un soggetto legislatore». Compito della poesia, prosegue Magris, è «spezzare il volto compatto del mondo affacciandosi sul mare dell’altrove e dell’incerto, e non già racchiudere il mondo, con rassicuranti e poliziesche parole, entro i saldi orizzonti di un significato preciso, esauriente, definito». La poesia «è la capacità di immaginare come l’uomo può essere, è l’essenza stessa del senso della possibilità: è profezia, utopia, saggismo, tentacolare tentativo di sperimentare in tutte le direzioni le virtualità della propria esistenza»233.

Anche l’insegnamento del diritto dovrebbe trasmettere questo “senso delle possibilità”, l’idea che il sapere giuridico non è un

232 C. MAGRIS, Dietro quest’infinito, cit., p. 255. 233 Ivi, pp. 255 e 261.

La fine del “grande stile” 167

sapere veritativo, descrittivo e oggettivante – secondo i dettami del metodo delle scienze teoretiche, adottato dal giurista moderno dell’Europa continentale – ma un sapere costruttivo, valutativo, controversiale, contestuale, ipotetico, dubitativo, processuale, conformemente al metodo delle scienze pratiche, all’idea, antica e medievale (e mai abbandonata dai giuristi di common law), del sapere giuridico come ars opponendi et respondendi; un sapere che non può ambire a verità e a dimostrazione, ma deve accontentarsi di verosimiglianza e di persuasione, e che proprio per questa sua natura, epistemologicamente fragile, esige un impegno argomen-tativo particolarmente forte, una disponibilità al confronto dialo-gico, una cultura del dubbio metodico e un’acuta vigilanza nei confronti della fallibilità del giudizio (della vitiosa argumentatio), all’origine – sul terreno processuale – del metodo del contraddittorio e delle regole di esclusione probatoria234.

A tal fine, il nuovo modello educativo, più che imporre lo studio mnemonico di sostanze normative sempre più volatili e duttili tra le mani dell’interprete e perlustrare le singole province del diritto statale con mappe troppo particolareggiate235, dovrebbe stimolare le facoltà immaginative e progettuali, lo spirito critico, la disponibilità a sondare ipotesi alternative e a imboccare sentieri obliqui e non ancora battuti, la curiosità e il desiderio di percorrere, con senso della meraviglia, itinerari culturali anche personali, aprirsi ad altre prospettive disciplinari che illuminano diversamente i contesti che il diritto deve regolare, potenziare le competenze espressive, orali e

234 In merito vanno ricordati gli studi di Alessandro Giuliani (tra cui il

fondamentale Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1961), studioso attento ai nessi tra i caratteri del sapere giuridico (che Giuliani radicava saldamente nel terreno delle scienze pratiche) e i modelli educativi. Su questo aspetto degli studi di Giuliani, v. F. TREGGIARI, L’educazione al diritto, in F. CERRONE e G. REPETTO (a cura di), Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, Milano, 2012, pp. 827-844.

235 V., in tal senso, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Contenuti “culturali” e contenuti “positivi” nella formazione di base del giurista, in V. CERULLI IRELLI e

O. ROSELLI (a cura di), La riforma degli studi giuridici, Napoli, 2005, p. 82, secondo cui ciò che si deve fornire agli studenti «non è l’analitica e compiuta conoscenza dei fondali di un mare che si trasforma in continuazione, non una carta topografica continuamente aggiornata che sarà sempre già vecchia quando lo studente giunge a laurearsi. Quello che dobbiamo fornire è un pieno dominio dell’uso dei basilari strumenti di navigazione, bussola, sestante, scandaglio, di cui il laureato dovrà saper fare buon uso».

168 Massimo Vogliotti

scritte, puntare su metodi d’insegnamento più interattivi e partecipativi, promuovere la capacità di risolvere casi, tessendo relazioni argomentative tra i vari materiali giuridici, come accadeva col metodo d’insegnamento medievale della quaestio disputata236, filtrato negli Inns londinesi e all’origine delle moot courts del sistema educativo dei paesi di common law237. Dovrebbero essere particolarmente valorizzate, infine – oltre alle discipline teoriche che rendono i novizi consapevoli delle caratteristiche del sapere giuridico e della natura del diritto – lo studio della storia e della comparazione (che dovrebbe fecondare tutti gli insegnamenti di diritto positivo) e ciò per mostrare la storicità e svelare le radici culturali delle categorie giuridiche, evitando le trappole del «cronocentrismo» («l’assunzione del presente come il nostro chiuso ed esclusivo orizzonte»)238 e dell’etnocentrismo, che sono ostacoli epistemologici per comprendere l’altro e, attraverso l’altro, sé stessi.

È evidente che questo modello educativo, qui solo abbozzato con alcune pennellate impressionistiche239, è agli antipodi rispetto alla tendenza, che sembra oggi prevalente, ad imporre un’impronta “professionalizzante” agli studi giuridici, tendenza che va di pari passo con la «tecnicizzazione del sapere giuridico», con la «risoluzione del mestiere del giurista nella conoscenza e

236 La quaestio è «l’analisi del caso dubbio o controverso finalizzata ad ottenere una solutio, che, non essendo predeterminata nel casus legis, doveva essere ricercata argumentis (e che, essendo solo la risposta più verosimile e convincente al dubbio, assumeva valore di verità solo probabile, sine praeiudicio melioris sententiae)» (F. TREGGIARI, L’educazione al diritto, cit., p. 837). Su tale metodo di ricerca e d’insegnamento, oltre al fondamentale H. KANTOROWICZ, The Quaestiones Disputatae of the Glossators, in Revue d’histoire du droit, XVI, 1938, pp. 1-67, v. anche A. ERRERA, La “quaestio” medievale e i glossatori bolognesi, in Studi senesi, 108, 1996, pp. 490-530.

237 Il nesso tra il metodo medievale delle quaestiones e le moot courts inglesi è messo in luce nell’incipit del già citato saggio di H. KANTOROWICZ, The Quaestiones Disputatae of the Glossators, cit., p. 1.

238 P. COSTA, A che cosa serve la storia del diritto? Un sommesso elogio dell’inutilità, in O. ROSELLI (a cura di), La dimensione sociale del fenomeno giuridico. Storia, lavoro, economia, mobilità e formazione, Napoli, 2007, p. 38.

239 Nella stessa prospettiva, oltre a numerosi contributi pubblicati nella già ricordata “Collana per l’Osservatorio sulla formazione giuridica”, v. i recenti contributi di S. CASSESE, L’educazione del giurista, in Nuova antologia, vol. 610, 2013, pp. 36-45 e di CH. JAMIN, La cuisine du droit. L’École de Droit de Sciences Po: une expérimentation française, Paris, 2012, che illustra l’innovativo progetto educativo attuato dall’École de Droit di Sciences Po di Parigi.

168 Massimo Vogliotti

scritte, puntare su metodi d’insegnamento più interattivi e partecipativi, promuovere la capacità di risolvere casi, tessendo relazioni argomentative tra i vari materiali giuridici, come accadeva col metodo d’insegnamento medievale della quaestio disputata236, filtrato negli Inns londinesi e all’origine delle moot courts del sistema educativo dei paesi di common law237. Dovrebbero essere particolarmente valorizzate, infine – oltre alle discipline teoriche che rendono i novizi consapevoli delle caratteristiche del sapere giuridico e della natura del diritto – lo studio della storia e della comparazione (che dovrebbe fecondare tutti gli insegnamenti di diritto positivo) e ciò per mostrare la storicità e svelare le radici culturali delle categorie giuridiche, evitando le trappole del «cronocentrismo» («l’assunzione del presente come il nostro chiuso ed esclusivo orizzonte»)238 e dell’etnocentrismo, che sono ostacoli epistemologici per comprendere l’altro e, attraverso l’altro, sé stessi.

È evidente che questo modello educativo, qui solo abbozzato con alcune pennellate impressionistiche239, è agli antipodi rispetto alla tendenza, che sembra oggi prevalente, ad imporre un’impronta “professionalizzante” agli studi giuridici, tendenza che va di pari passo con la «tecnicizzazione del sapere giuridico», con la «risoluzione del mestiere del giurista nella conoscenza e

236 La quaestio è «l’analisi del caso dubbio o controverso finalizzata ad ottenere una solutio, che, non essendo predeterminata nel casus legis, doveva essere ricercata argumentis (e che, essendo solo la risposta più verosimile e convincente al dubbio, assumeva valore di verità solo probabile, sine praeiudicio melioris sententiae)» (F. TREGGIARI, L’educazione al diritto, cit., p. 837). Su tale metodo di ricerca e d’insegnamento, oltre al fondamentale H. KANTOROWICZ, The Quaestiones Disputatae of the Glossators, in Revue d’histoire du droit, XVI, 1938, pp. 1-67, v. anche A. ERRERA, La “quaestio” medievale e i glossatori bolognesi, in Studi senesi, 108, 1996, pp. 490-530.

237 Il nesso tra il metodo medievale delle quaestiones e le moot courts inglesi è messo in luce nell’incipit del già citato saggio di H. KANTOROWICZ, The Quaestiones Disputatae of the Glossators, cit., p. 1.

238 P. COSTA, A che cosa serve la storia del diritto? Un sommesso elogio dell’inutilità, in O. ROSELLI (a cura di), La dimensione sociale del fenomeno giuridico. Storia, lavoro, economia, mobilità e formazione, Napoli, 2007, p. 38.

239 Nella stessa prospettiva, oltre a numerosi contributi pubblicati nella già ricordata “Collana per l’Osservatorio sulla formazione giuridica”, v. i recenti contributi di S. CASSESE, L’educazione del giurista, in Nuova antologia, vol. 610, 2013, pp. 36-45 e di CH. JAMIN, La cuisine du droit. L’École de Droit de Sciences Po: une expérimentation française, Paris, 2012, che illustra l’innovativo progetto educativo attuato dall’École de Droit di Sciences Po di Parigi.

La fine del “grande stile” 169

nell’applicazione di regole tecniche», in una sorta di «ingegneria sociale» che si presta facilmente a diventare docile strumento nelle mani dei nuovi (aspiranti) padroni del diritto, tra cui spiccano, per forza e determinazione, i protagonisti del finanzcapitalismo che regge la globalizzazione tramite «l’adozione planetaria dei modelli giuridici elaborati dai grandi studi professionali americani»240.

La sfida è notevole e, con quel suo appropriarsi – abusivamente – dell’aggettivo “professionalizzante”, particolarmente insidiosa. La cultura giuridica deve prenderla sul serio e contrastarla sul suo stesso terreno, mostrando, cioè, che – di fronte alla complessità della realtà contemporanea, ai conflitti culturali, alle conquiste della tecnoscienza, ai dilemmi etici, spesso tragici, che il giurista deve affrontare e alle ferite sempre più profonde che violano l’integrità e la dignità della persona umana – la figura di giurista di cui la società ha oggi davvero bisogno non è quella di un semplice tecnico del diritto (figura coerente con la concezione, tipicamente moderna, strumentale e avalutativa della ragione giuridica), ma quella di un uomo di cultura 241 che sappia usare abilmente gli attrezzi della

240 P. COSTA, A che cosa serve la storia del diritto?, cit., p. 38. Per

un’educazione giuridica più professionalizzante, tutta piegata sulle esigenze del mondo del lavoro (e degli studi legali, che, per effetto della crisi, sono spinti a risparmiare tempo e denaro per la formazione dei loro praticanti), si è schierato recentemente il New York Times con una serie di articoli. Tra questi, un editoriale del 25 novembre 2011 conclude la sua requisitoria affermando perentoriamente che «law is now regarded as a means rather than an end, a tool for solving problems». A queste parole, che veicolano una concezione puramente strumentale del diritto, ha risposto Bruce Ackerman il giorno seguente sullo stesso giornale, replicando che «to the contrary, law also helps define our fundamental problems: What is the meaning of free speech or equal protection? Does antitrust law make sense? What is the best form of environmental regulation? Many law students will become our future leaders. If they don’t take such questions seriously, who should?». Secondo Ackerman, l’editoriale ha sbagliato diagnosi: «The real deficiency of most law school courses» consiste nel fatto che «they are too concerned with hot topics, not basic themes». Ciò che occorre fare per migliorare l’educazione dei futuri giuristi è piuttosto prendere sul serio gli insegnamenti di Oliver Wendell Holmes e di Benjamin Cardozo, arricchendo «the judicial tradition with the insights of social science and philosophy to define the legal challenges of the 21st century».

241 Su questa identità insiste particolarmente U. SCARPELLI, L’educazione del giurista, in Rivista di diritto processuale, 1968, p. 24, che, di fronte al dilemma se alla Facoltà di Giurisprudenza vada data «un’impostazione di fondo scientifica ovvero pratico-professionale», non ha esitazioni a rispondere nel

170 Massimo Vogliotti

ragione giuridica (che è una ragione pratica, teleologicamente orientata) e che sia eticamente impegnato nell’opera di umanizzazione del diritto (il suo sapere non è la techne, propria delle “scienze poietiche” come quelle dell’artigiano, ma la phronesis, che, come sappiamo, è il sapere – e la virtù – propria delle scienze pratiche)242.

Come si vede, ci troviamo, nuovamente e inevitabilmente, di fronte ad un’impegnativa scelta di valore che implica una ben precisa scelta di politica della cultura e dell’educazione, scelta che finisce per incidere sulle sorti future del diritto. Dobbiamo decidere, insomma, «chi sia il nostro ideale giurista del futuro: un giurista rassegnato alla logica di Humpty Dumpty (per il quale le parole significano ciò che vuole il padrone) oppure un giurista interessato ad allargare il ventaglio delle possibilità e a immaginare alter-native»243.

Si potrebbe obiettare che questa proposta educativa al “con-giuntivo”, culturalmente così esigente244, potrebbe essere adeguata per la formazione dei giuristi che saranno chiamati a svolgere i

primo senso: «All’Università si addice in generale, non tanto procurare immediatamente specifiche abilità professionali, quanto produrre intelletti scientificamente allenati e capaci di acquisire e modificare abilità professionali: che è poi, fra l’altro, il solo modo per procurare le abilità professionali occorrenti in diversi ruoli oggi e nel futuro, non essendo possibile coprire nell’insegnamento la gamma troppo vasta delle specifiche abilità professionali e prevedere con sicurezza le abilità professionali che le trasformazioni sociali richiederanno agli studenti di ora fra un po’ di anni o qualche decennio». Dei «buoni pratici», prosegue Scarpelli, «rimarrebbero presto indietro al tempo e non sarebbero più nemmeno dei buoni pratici; soltanto giuristi educati nel rigore ed insieme nell’apertura, adattabilità ed elasticità della scienza potranno, attraversando e superando la crisi, far fronte ai compiti che il tempo pone loro» (pp. 22-23).

242 Sulla differenza tra il tipo di sapere delle scienze pratiche e poietiche e sul diverso modo di atteggiarsi in esse dell’applicazione, v. H.G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. 366-376.

243 P. COSTA, A che cosa serve la storia del diritto?, cit., pp. 38-39. 244 Non solo esigente, ma in buona parte anche utopistica, stante la carenza di

preparazione di base dei nostri studenti, «che si trovano spesso in difficoltà di fronte a testi e ad argomentazioni complesse e mostrano addirittura un decrescente livello di alfabetizzazione», a cui si tende a rispondere con una reazione opposta a quella qui auspicata, e cioè «proponendo testi e lezioni sempre più ridotti ed elementari» (così P. COSTA, La formazione del giurista, cit., pp. 218-219).

170 Massimo Vogliotti

ragione giuridica (che è una ragione pratica, teleologicamente orientata) e che sia eticamente impegnato nell’opera di umanizzazione del diritto (il suo sapere non è la techne, propria delle “scienze poietiche” come quelle dell’artigiano, ma la phronesis, che, come sappiamo, è il sapere – e la virtù – propria delle scienze pratiche)242.

Come si vede, ci troviamo, nuovamente e inevitabilmente, di fronte ad un’impegnativa scelta di valore che implica una ben precisa scelta di politica della cultura e dell’educazione, scelta che finisce per incidere sulle sorti future del diritto. Dobbiamo decidere, insomma, «chi sia il nostro ideale giurista del futuro: un giurista rassegnato alla logica di Humpty Dumpty (per il quale le parole significano ciò che vuole il padrone) oppure un giurista interessato ad allargare il ventaglio delle possibilità e a immaginare alter-native»243.

Si potrebbe obiettare che questa proposta educativa al “con-giuntivo”, culturalmente così esigente244, potrebbe essere adeguata per la formazione dei giuristi che saranno chiamati a svolgere i

primo senso: «All’Università si addice in generale, non tanto procurare immediatamente specifiche abilità professionali, quanto produrre intelletti scientificamente allenati e capaci di acquisire e modificare abilità professionali: che è poi, fra l’altro, il solo modo per procurare le abilità professionali occorrenti in diversi ruoli oggi e nel futuro, non essendo possibile coprire nell’insegnamento la gamma troppo vasta delle specifiche abilità professionali e prevedere con sicurezza le abilità professionali che le trasformazioni sociali richiederanno agli studenti di ora fra un po’ di anni o qualche decennio». Dei «buoni pratici», prosegue Scarpelli, «rimarrebbero presto indietro al tempo e non sarebbero più nemmeno dei buoni pratici; soltanto giuristi educati nel rigore ed insieme nell’apertura, adattabilità ed elasticità della scienza potranno, attraversando e superando la crisi, far fronte ai compiti che il tempo pone loro» (pp. 22-23).

242 Sulla differenza tra il tipo di sapere delle scienze pratiche e poietiche e sul diverso modo di atteggiarsi in esse dell’applicazione, v. H.G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. 366-376.

243 P. COSTA, A che cosa serve la storia del diritto?, cit., pp. 38-39. 244 Non solo esigente, ma in buona parte anche utopistica, stante la carenza di

preparazione di base dei nostri studenti, «che si trovano spesso in difficoltà di fronte a testi e ad argomentazioni complesse e mostrano addirittura un decrescente livello di alfabetizzazione», a cui si tende a rispondere con una reazione opposta a quella qui auspicata, e cioè «proponendo testi e lezioni sempre più ridotti ed elementari» (così P. COSTA, La formazione del giurista, cit., pp. 218-219).

La fine del “grande stile” 171

difficili e delicati compiti di tessitura dell’ordine giuridico (giuristi impegnati nei corpi legislativi, giudici dei “Grandi Tribunali”, avvocati di importanti ONG o di influenti law firms, alti funzionari della pubblica amministrazione) e che insegneranno a loro volta il diritto da una cattedra universitaria. Appare, invece, «spropor-zionata ed enfatica se pensiamo agli studenti assai più numerosi che lavoreranno sì come giuristi, ma nei limiti di una tranquilla e decorosa professione»245.

Rispondo riprendendo integralmente le parole con cui Uberto Scarpelli, ponendosi la stessa obiezione in un saggio – attualissimo – del 1968, difendeva un modello educativo in tutto simile a quello qui tratteggiato.

Scarpelli osservava che «i compiti dei giuristi non sono compiti assolvibili da poche forti individualità nell’indifferenza degli altri membri della classe professionale dei giuristi, ma sono compiti dell’intera classe professionale; che la razionalizzazione sociale richiede di essere attuata in ogni punto della struttura sociale con buona tecnica e vigile coscienza; che come il piccolo così il grosso strappo dell’ordine razionale del diritto può avvenire nei punti più impreveduti, ed il modesto avvocato ed il giovane pretore possono trovarsi a difendere tesi e principi e prendere decisioni di grande importanza e di gravi conseguenze politiche e sociali; che infine le forti individualità, i grandi giuristi legislatori, i grandi giudici e avvocati, i maestri del diritto, possono sostenere e vincere le battaglie per la libertà e la giustizia attraverso il diritto soltanto se li sostiene la chiara opinione e il fermo impegno dei loro colleghi giuristi». E concludeva: «In un paese libero c’è bisogno che sotto il quotidiano adempimento delle mansioni, talora grigie e monotone, dei giuristi, vi siano una carica, una tensione morale e politica pronte a manifestarsi nelle occasioni di crisi; ed a creare insieme la competenza tecnica e questa carica, questa tensione, dovrebbe tendere l’educazione del giurista nell’università»246.

245 U. SCARPELLI, L’educazione del giurista, cit., p. 18. 246 Ibidem.