Le abbazie di Sant’Ambrogio di Ranchio, San Salvatore in Summano e Santa Maria in Trivio, in...

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1 GIOVANNI CHERUBINI 1. Sant’Ambrogio di Ranchio La storia dell’abbazia presenta un limite evidente, vale a dire la so- pravvivenza di una documentazione scritta poverissima per i primi secoli della sua esistenza 1 , ma anche una fortuna non frequente, la pubblica- zione cioè di un grosso volume dedicato al monastero e ai luoghi conter- mini 2 . In quel volume un esperto studioso animato dall’affetto per i luoghi ha raccolto le sue attente valutazioni scientifiche, offrendo anche pagine e pagine di documentazione relativa all’età moderna 3 . Ai suoi seguono i contributi di altri collaboratori che ci conducono, si può dire, sino ai no- stri giorni. Ma un terzo carattere della storia del monastero emerge da ciò che ci rimane: siano questi i pregevoli resti scultorei appartenenti alla tarda antichità, ma finiti poi soprattutto nella chiesa parrocchiale di Ranchio 4 ; oppure un messale prodotto da uno scriptorium ravennate del- l’XI secolo per il nostro monastero, già oggetto di studi e di discussioni numerose, finito negli Stati Uniti di America non sappiamo come e LE ABBAZIE DI SANT’AMBROGIO DI RANCHIO, SAN SALVATORE IN SUMMANO E SANTA MARIA IN TRIVIO 1 Marino Mengozzi segnala addirittura, nel volume che cito alla seguente nota 2, un solo documento del 1427, in copia del 1444, proveniente dall’Archivio del Monastero e conservato all’Archivio di Stato di Ravenna.. 2 AA.VV ., Ranchio. Vita e storia di una comunità, a cura di M. MENGOZZI, Cesena 1995 (Diocesi di Cesena-Sarsina. Servizio ben culturali, Strumenti, 1). 3 M. MENGOZZI, Panorama storico su Ranchio, in AA.VV ., Ranchio, cit., pp. 21-268. 4 P. NOVARA, Materiale scultoreo conservato nella chiesa parrocchiale di Rancio, in AA.VV ., Ranchio, cit., pp. 301-310.

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GIOVANNI CHERUBINI

1. Sant’Ambrogio di Ranchio

La storia dell’abbazia presenta un limite evidente, vale a dire la so-pravvivenza di una documentazione scritta poverissima per i primi secolidella sua esistenza1, ma anche una fortuna non frequente, la pubblica-zione cioè di un grosso volume dedicato al monastero e ai luoghi conter-mini2. In quel volume un esperto studioso animato dall’affetto per i luoghiha raccolto le sue attente valutazioni scientifiche, offrendo anche paginee pagine di documentazione relativa all’età moderna3. Ai suoi seguono icontributi di altri collaboratori che ci conducono, si può dire, sino ai no-stri giorni. Ma un terzo carattere della storia del monastero emerge daciò che ci rimane: siano questi i pregevoli resti scultorei appartenenti allatarda antichità, ma finiti poi soprattutto nella chiesa parrocchiale diRanchio4; oppure un messale prodotto da uno scriptorium ravennate del-l’XI secolo per il nostro monastero, già oggetto di studi e di discussioninumerose, finito negli Stati Uniti di America non sappiamo come e

LE ABBAZIE DI SANT’AMBROGIO DI RANCHIO,SAN SALVATORE IN SUMMANOE SANTA MARIA IN TRIVIO

1 Marino Mengozzi segnala addirittura, nel volume che cito alla seguente nota 2, unsolo documento del 1427, in copia del 1444, proveniente dall’Archivio del Monastero econservato all’Archivio di Stato di Ravenna..

2 AA. VV., Ranchio. Vita e storia di una comunità, a cura di M. MENGOZZI, Cesena1995 (Diocesi di Cesena-Sarsina. Servizio ben culturali, Strumenti, 1).

3 M. MENGOZZI, Panorama storico su Ranchio, in AA. VV., Ranchio, cit., pp. 21-268.4 P. NOVARA, Materiale scultoreo conservato nella chiesa parrocchiale di Rancio, in

AA. VV., Ranchio, cit., pp. 301-310.

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quando5; sia l’immagine della chiesa del monastero, che fu trasformata incasa colonica ma che è facilmente riconoscibile sia nella facciata che nel-l’abside: essa misurava m 22 circa di lunghezza e m 9 circa di larghezza.Non esistono invece o non sono mai state documentate tracce vere e pro-prie del complesso monastico. Non sappiamo neeppure quanti monaciesso ospitasse6.

Ma limitiamoci almeno ad utilizzare le notizie e le considerazioni pre-ziose contenute nel ricordato volume. L’abitato di Ranchio si trova quasial centro della valle del torrente Borello, affluente di sinistra del fiumeSavio, in provincia di Forlì e nel comune di Sarsina, ad un’altitudine di333 m sul livello del mare. «È disposto a serravalle, panoramicamente si-tuato su un dosso a sbarramento. Il toponimo deriva da «roncare» e «ron-cola» (latino runcare e runca)». Si riferisce a «luogo disboscato», quindi a«terreno coltivato» o talvolta anche a «pascolo». È un elemento tipicodella toponomastica romagnola e alto-tiberina, oltre che, più in generale,di quella dell’Italia settentrionale e centrale7. Se ne conoscono, ad esem-pio, in abbondanza, i nomi per i terreni del pieno Appennino contenuti al-l’interno della signoria di Santa Maria in Trivio, come Ronco Bretto,Ronco Borno, Ronco del Cavallo, Ronco di Giorgio, Roncore, Roncolungo, Ronco di tutti ed altri che ci fanno tra l’altro immaginare la storiadella loro nascita, dovuta cioè ad iniziative individuali in mezzo agli incoltioppure a qualche iniziativa collettiva provocata dai bisogni di una popo-lazione crescente8. Riconducibili al Medioevo della ripresa demograficasembrano anche le origini del castello di Ranchio (castrum Rancle), cioèdell’agglomerato abitativo originario. A Ranchio troviamo anche, già al-l’inizio dell’XI secolo, l’abbazia di Sant’Ambrogio, per la quale manca tut-tavia «una documentazione storica in grado di fornirci coordinate benprecise», così come sicuramente dal secolo XII esisteva la pieve di San

5 MENGOZZI, Panorama storico, cit., pp. 78-98. Il messale viene descritto, anche conil corredo di un’ampia bibliografia e un certo numero di riproduzioni; sull’importante ms.liturgico si vedano ora C. RUINI, Quadro storico-liturgico del messale di Ranchio, in Sar-sina e valle del Savio tra Roma e Ravenna, Atti del Convegno, Sarsina 23-26 ottobre 2008,a cura di M. MENGOZZI, Cesena 2009, pp. 249-257 (= «Studi Romagnoli», LIX, 2008);M. CASADEI TURRONI MONTI, Il messale di Ranchio e i suoi neumi tra Ravenna e Pomposa,ivi, pp. 259267.

6 Vedine due innagini in MENGOZZI, Panorama storico, cit., pp. 47 e 49.7 MENGOZZI, Panorama storico, cit., pp. 31-32.8 G. CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino dal XIII al XV secolo. Montecoronaro

dalla signoria dell’abbazia del Trivio al dominio di Firenze, Firenze 1972, pp. 56-57 enota 31.

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Bartolomeo. «Quale potrebbe essere, verosimilmente, lo scenario entrocui sorsero e si svilupparono ilmonasterium Sancti Ambrosii prima, il ca-strum Rancle poi, ed infine la plebs Sancti Bartholomei?». «È facile che leorigini di Ranchio siano davvero strettamente connesse alla nascita del-l’abbazia di Sant’Ambrogio»9, ma è anche facile immaginare che i destinidi Ranchio siano collegati, sin dai primi tempi, con l’antica diocesi di Sar-sina. In effetti, nel 1027, l’imperatore Corrado II, prendendo sotto la pro-tezione imperiale la Chiesa di Sarsina, prende anche, in particolare perintervento della consorte Gisela, sotto la sua protezione omundio, i beni,i servi e le serve del monastero di Sant’Ambrogio di Ranchio, con il divietodi trasferire o alienare le sue proprietà e col diritto riservato al vescovo diordinare, disporre e dirigere10. La data del documento – che, come notoe dimostrato, è una falsificazione in forma di diploma – ci riconduce tut-tavia, con sufficiente ragionevolezza, ad una origine del monastero collo-cabile prima del Mille o comunque intorno a quella data11.

Le notizie sull’abbazia sono, come abbiamo accennato, non molto nu-merose, almeno entro i secoli medievali. Da chi si è occupato della storiadel monastero sono stati tuttavia reperiti, qua e là, con pazienza ed attra-verso l’esame di una documentazione più ampia, il nome di cinque abati:Bonizone (1041), Opizone (1163), Martino (1195), Enrico (1209), Be-nedetto (1337)12. Ma altre cose sono state raccolte su altri aspetti di quelterritorio prossimo all’abbazia. Nel 1124 il castello di Ranchio era in pos-sesso di un conte Alberto e della moglie Matilde; nel 1154 il Castel diMonte Ranchi figura nel dominio temporale della Chiesa di Ravenna, mal’anno seguente Adriano IV accoglieva sotto la protezione apostolica laChiesa di Sarsina, con il monastero di Sant’Ambrogio e la pieve di SanBartolomeo. Tralasciando qualche altra notizia ricordo ancora che dal1192 al 1223 fu conte di Ranchio un Uberto appartenente alla famiglia delricordato conte Alberto. Per quanto schematica, la documentazione piùampia e più precisa è tuttavia quella contenuta nella Descriptio Roman-diole del cardinale Anglic Grimoard de Grisac, legato papale di Romagna,

9 MENGOZZI, Panorama storico, cit., pp. 32-35.10 Per l’edizione e l’esame approfondito del documento imperiale e della sua falsifi-

cazione è da vedere C. DOLCINI, I diplomi imperiali e papali di Sarsina 1 (1027?-1220), inAA. VV., «Ecclesia Santi Vicinii». Per una storia della diocesi di Sarsina, a cura di M. MEN-GOZZI, Cesena 1991 (Studia Ravennatensia, 4), pp. 30-41.

11 MENGOZZI, Panorama storico, cit., p. 46: «Non conosciamo l’atto di fondazione [delmonastero], ma è certamente anterore al Mille».

12 Ivi, p. 69.

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fatta stendere nel 1371. È ormai opinione dominante, soprattutto dopol’edizione che ne ha dato il Mascanzoni13, che i focularia in essa indicatiper le civitates, i castra, le ville e i burgi – cioè per le città (nel nostro paesesempre sede di un vescovo), per i castelli (cioè gli insediamenti al pari diquelle circondati da un muro di difesa), per i villaggi (insediamenti mo-desti e privi di mura), per i borghi (agglomerati indipendeti e indifesi, op-pure proiezioni esterne di un centro murato) – abbiano il valoredemografico di nucleo familiare su cui poggiava ovviamente la percezionefiscale della fumanteria, ma non costituiscano di per sé un valore fiscale.Nel 1371 l’abate di Ranchio governava dunque (tenet) il castello di Mer-curio, «che si trova su un altissimo monte» ed ha 20 fuochi, quello di Ca-stagneto, anch’esso «su un alto monte», con 18 fuochi, quello di Petrella,collocato «su un pendio», con 20 fuochi, il castello di Ranchio, «in unavalle sopra il fiume Borello, che ha una rocca e una torre fortissima», con50 fuochi, il castello di Rullato, «su una costa», con 32 fuochi. L’abate diRanchio governava poi, insieme a Tosolino dei nobili di Civorio, il ca-stello di Civorio, «che si trova su un pendio sopra il fiume Borello: ha unatorre non molto forte», con 22 fuochi14. Se con prudenza noi attribuiamoad ogni famiglia un numero di componenti di quattro persone (l’anno incui fu stesa la Descriptio cade in un periodo già flagellato dalla peste e lanostra stima potrebbe essere persino un po’ troppo alta), il totale degliabitanti dei cinque castelli arriva a 560, essendo 140 le famiglie, ma sol-tanto Ranchio, con 50 famiglie e 200 abitanti, appare, per quanto nongrande, tuttavia di un certo rilievo. Né servono a spostare molto questecifre i dati relativi a Civorio, non certo molto popolato, che l’abbazia diRanchio possedeva in comproprietà con altri. Per misurare invece, in qual-che modo, la ricchezza del monastero si può osservare che nel 1380, nelsinodo diocesano, esso aveva un estimo di 21 lire15. A confronto possonoessere posti gli estimi della pieve di Ranchio (17 lire), del vescovado sar-sinate (25 lire), del monastero di San Salvatore in Summano, di cui par-leremo più avanti (19 lire)16.

13 L. MASCANZONI, La «Descriptio Romandiole» del card. Anglic. Introduzione e testo,Bologna [1985] (Società di Studi Romagnoli, «Saggi e Repertori», 19).

14 M. MENGOZZI, Il Vicariatus Bobbii nella Descriptio Romandiole, in AA. VV., «Ec-clesia S. Vicinii», cit., pp. 329-338, alle pp. 331, 333, 336-337.

15 M. Mengozzi,Due sinodi sarsinati (1380 e 1460ca.), «Studi Romagnoli», LII (2001,ma 2004), pp. 669-698.

16 MENGOZZI, Panorama storico, cit., p. 52.

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Sant’Ambrogio seguì poi la sorte di tante istituzioni simili e fu con-cesso in commenda a partire dal 1398, quando ne fu abate commendata-rio Angelo di San Lorenzo in Damaso, forse nel 1486 da MalatestaGuerriero di Sogliano e poi da altri sette prelati (il primo fu Giovanni San-tini nel 1537, l’ultimo Giovanni Andrea Balducci dal 1789 e il 1827)17.La vita dell’abbazia fu segnata anche dalla sua decadenza materiale, rile-vata nel 1573 nella prima visita pastorale compiuta dal visitatore aposto-lico Girolamo Ragazzoni. Il tetto dell’abbazia era da sistemare, in cattivecondizioni. L’annessa cappella di san Mamete o Mamante, dove si cele-brava saltuariamente, andava pavimentata e si doveva sistemare l’altarecon tutti i suoi ornamenti. Nel 1602 nell’abbazia mancavano i vetri alle fi-nestre e c’erano travi sul pavimento. Nel 1607 il monastero «manca diconvento e di monaci». Nel 1662 la situazione sembrava persino peggiore.Nel 1694 un censimento, che ci informa sul numero dei religiosi e sullecase che si trovavano nello Stato Pontificio, registra che a Sarsina, né incittà né nella diocesi, si trova «alcuno monastero o convento di monachi,frati e preti regolari, e né meno di monache». Non ostante tutto questo sirinvengono ancora documenti importanti e ben più precisi che ci parlanodell’insieme di ciò che l’abbazia di Sant’Ambrogio conservava, in beni e di-ritti, come ci mostra un’inventario steso nel 1746 dall’arciprete di Ran-chio, per conto dell’abate commendatario Giuseppe Varesi, e come risultadalle «leggi e condizioni per gli enfiteuti» copiate nel 1788. Infine quat-tro anni più tardi l’abate commendatario Giovanni Andrea Balducci, chesarà anche l’ultimo abate e morirà nel 1827, compila un dettagliato in-ventario18. Tre anni dopo utili notizie sugli ultimi anni di esistenza del-l’abbazia ci sono fornite da una nota manoscritta conservata nell’archivioparrocchiale della chiesa plebana di Ranchio, mentre nel 1839 il ponte-fice Gregorio XVI dichiarò l’abbazia perpetuamente unita alla suddettachiesa parrocchiale, che poteva così godere dei suoi pur modesti redditi19.

Ma per dare un’idea più completa della vicenda religiosa giova direqualcosa anche della vecchia pieve di San Bartolomeo esterna al villaggiodi Ranchio20, ma degradata e condannata a morire e ad assumere accanto

17 Ivi, pp. 53 e 69.18 Ivi, pp. 53-66.19 Ivi, pp. 66-68.20 Ne parla ampiamente MENGOZZI, Panorama storico, cit., pp. 98 sgg., dal quale

traggo soltanto le notizie sulla fine della «pieve vecchia». Utile cartina per vedere la col-locazione della «pieve vecchia», dell’abbazia, dell’abitato di Ranchio a p. 176.

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al suo nome l’aggettivo di «vecchia», perché nel 1742 si ampliò l’oratorioche sorgeva nell’abitato, che fu anche dichiarato chiesa plebana. La co-munità incaricata di mantenere il vecchio edificio nella sostanza si rifiutòe volle cancellarla. La vecchia chiesa, circondata fra l’altro da un cimiteromolto pieno di tombe e di umani resti, fu così condannata a scomparire.

2. San Salvatore in Summano

L’imperatore Corrado II, come abbiamo già ricordato per l’abbazia diSant’Ambrogio di Ranchio, pose nel 1027, sotto il suo mundiburdio,anche i beni, i servi e le serve di quella di San Salvatore in Summano21;ma risale al 1041 la prima testimonianza certa22 di questo monastero,sorto come cenobio benedettino ma ben presto divenuto vescovile. Infattiun privilegio di Adriano IV del 20 marzo 1155, di grande importanza perla ricostruzione del territorio diocesano di Sarsina, elenca anche il mona-stero di San Salvatore de Simano23. Nel 1311 il vicario del vescovo diSarsina invia quattro suoi delegati al convegno provinciale che l’arcive-scovo di Ravenna terrà a Ravenna e a Bologna. Fra di loro c’è ancheBenvenuto, abate del monastero di San Salvatore24. Nella Descriptio Ro-mandiole del 1371 risulta che l’abbazia di San Salvatore in Summano go-vernava (tenet) due soli castelli e non molto popolosi, abitati cioè,rispettivamente, da 22 e da 16 fuochi. Il primo era quello di Montalto,«non molto forte», collocato «su un colle» subito ad occidente di Sarsina.Il secondo, meglio fortificato, era anche collocato su una felice posizionestradale sulla via di origine romana documentata anche dalla presenza dinuclei abitati che nel loro nome si richiamano alle pietre miliari comeQuarto, poco a sud di Sarsina. Si trattava del castello di Turrito, «in cui sitrovano una rocca e una torre forte, sopra il fiume Savio e la strada cheporta in Toscana»25.

Qualche notizia sul monastero, sul suo abate e sui suoi castelli con-sentono di rintracciare i regesti degli atti del notaio sarsinate Domenicoda Firenzuola per i primi vent’anni del Quattrocento, editi da più di mezzo

21 DOLCINI, I diplomi imperiali e papali, cit., pp. 39-40.22 F. KEHR, Italia pontificia, V. Aemilia sive provincia Ravennas, Berolinii 1911,

p. 119.23 C. CURRADI, Pievi sarsinati. Documenti e problemi, in AA. VV., «Ecclesia S. Vicinii»,

cit., p. 77.24 C. CURRADI, Regesti di documenti per la storia di Sarsina (secc. VII-XIV), in AA. VV.,

«Ecclesia S. Vicinii», cit., p. 301 n. 70.25 MENGOZZI, Il Vicariatus Bobbii nella Descriptio Romandiole, cit., pp. 333, 336.

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secolo26. Il 29 settembre del 1404 era abate Bartolomeo del fu Lorenzodi Firenze che, a Sarsina, nella residenza del vescovo, concede in enfiteusia due fratelli di Sarsina un appezzamento di terra aratoria situato nel ter-ritorio del castello di Montalto27. Di carattere diverso è invece il docu-mento nel quale, il successivo 6 novembre, nella cattedrale sarsinate diSan Vicinio, il vescovo concede all’abate Bartolomeo la sua benedizone«iuxta formam privilegiorum» dell’abbazia di San Salvatore in Sum-mano28. Il 30 giugno del 1406 l’abate figura come testimone, anzi comeunico testimone, ad un atto che si svolge nel suo castello di Turrito. Il no-bile Neri di Cione dei Roberti di Borgo Sansepolcro vi figura come con-cedente «in feudo» di due appezzamenti nel territorio del castello diCasalecchio, rispettivamente di terra aratoria e di terra aratoria con olivi,ricevendone 20 lire «a nome di rinnovo» – si trattava evidentemente del-l’anno in cui scadeva la concessione a lungo termine – e per mezza liraogni anno nella festa di san Niccolò. Prima di quest’atto, ma nel medesimogiorno e nella «villa» di Sabbione, territorio del medesimo castello di Tur-rito, un Salvetto del fu Riccio di Turrito lascia nel suo testamento 10 soldialla chiesa di San Fortunato di Turrito dove sceglie di essere sepolto, soldi40 per la sua sepoltura, all’abbazia di San Salvatore in Summano soldi 5,alla moglie Agnese la sua dote ed in più un appezzamento di terra arato-ria nel territorio del castello di Turrito29. Il 25 gennaio del 1407 ci regalainvece due regesti relativi ad un matrimonio tra due abitanti di Montalto,cioè l’altro castello del monastero, nel quale vengono scritti gli atti. Nelprimo Giovanni di Niccolò riceve per la dote da Giovanna di Bruno unasomma o un valore in denaro di 78 lire e le loca un appezzamento di terravignata ed uno di terra aratoria in due diverse località di quel castello.Nel secondo atto Giovanni vende invece ad un sarsinate, ma «salvo iuredominii et proprietatis monasterii Sancti Salvatoris de Sumano», un ap-pezzamento di terra aratoria nel distretto di Montalto30. Sempre per il1407, il 29 marzo, ci resta un testamento, ma più significativo di quellodi cui abbiamo già riferito. Con il consenso del marito, Giovanna del fuPerino di Careste, un castello della diocesi di Sarsina a quasi settecentometri di altitudine, lascia per testamento alla chiesa di Sant’Andea di Ca-

26 P. BURCHI, Regesto degli atti del notaio sarsinate Domenico da Firenzuola (1403-1419), «Studi Romagnoli», V (1954), pp. 29-108.

27 Ivi, p. 49 n. 152.28 Ivi, pp. 31-32 n. 168.29 Ivi, p. 62 nn. 255 e 256.30 Ivi, p. 68 nn. 304 e 305.

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reste, dove sceglie di essere sepolta, 10 soldi della sua dote per acquistareuna pianeta, al monastero di San Salvatore in Summano 5 soldi, alla chiesadi San Biagio di Rullato soldi 5, per la sua sepoltura soldi 20 tratti sem-pre dalla sua dote. L’atto fu steso «in villa de Casamagio», presente cometestimone il sarsinate don Francesco Tonsi, allora rettore della chiesa diSant’Andrea di Careste31. Il 19 agosto del 1416 sappiamo che l’abate diSan Salvatore in Summano non è più quello che abbiamo conosciuto. Inun atto steso nel castello di Ciola, dal quale risulta una causa tra lui e l’ar-ciprete della pieve di San Damiano, Ugolino di Servodeo di Ciola, si dicesoltanto, senza tuttavia indicare il nome, che l’abate è «de civitate lucana»,quindi lucchese32 e non fiorentino come Bartolomeo del fu Lorenzo.L’11 aprile del 1418 incontriamo di nuovo l’arciprete Ugolino come pro-tagonista di una causa con Altonio di Guelfo di Turrito33. Un atto del17 luglio successivo nomina un appezzamento di terra aratoria nel terri-torio del castello di Montalto34.

Questa certamente non ampia documentazione, che ho voluto tutta-via riferire senza modificarne l’ordine cronologico per preservarne il sensodella precarietà, non è tuttavia priva di interesse per la storia del mona-stero di San Salvatore in Summano, dei suoi rapporti con il vescovo diSarsina, con i suoi due castelli di Montalto e di Turrito e con i loro abi-tanti. Vi troviamo anche più di un dato sulle credenze religiose, partico-larmente al momento del testamento, così come sulle consuetudini relativealla proprietà condizionata della terra, cioè a quei possessi che i conta-dini, o più largamente i diversi conduttori, ricevevano dai titolari di si-gnorie, versando poi per questi una certa quantità di fitto di anno in anno,sino a quando non venisse, scaduto il tempo previsto, rinnovata la con-cessione, che assumeva nel tempo coperto dalla documentazione e per lasua rilevanza il senso vero e proprio di una vendita.

Ma poco posso ancora dire sul nostro monastero. Mi limiterò perciòa ricordare soltanto che l’abbazia fu dall’operoso Lelio Garuffi de Piis diBertinoro, vescovo di Sarsina per mezzo secolo (1530-1580), annessa allamensa vescovile35.

31 Ivi, p. 72 n. 339.32 Ivi, pp. 81-82 n. 417.33 Ivi, p. 96 n. 552.34 Ivi, p. 99 n. 577.35 M. MENGOZZI, La «poetica» cronotassi di Filippo Antonini e uno sconosciuto Li-

bellus seicentesco, in AA. VV., «Ecclesia S. Vicinii», cit., p. 380 n. 39.

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3. Santa Maria in Trivio

Fra le tre abbazie la più lontana da Sarsina era quella di Santa Mariain Trivio, anzi talmente lontana che soltanto una parte della sua signoriache si stendeva su castelli e territori dell’alta Valtiberina, cioè entro la To-scana geografica, non apparteneva al territorio diocesano di Sarsina, maa quello di Città di Castello, contado di Arezzo. Nello Statuto di que-st’ultima città si proclamava anzi, nel 1327, che affinché nessun nobile oaltri potesse occupare la giurisdizione del Comune il podestà della cittàaveva l’obbligo di ridurre sotto il potere di Arezzo tutte le terre dell’ab-bazia del Trivio comprese nella viscontaria Verone, cioè Valsavignone,Bulciano, Bulcianello, Canaleccia, Fratelle, Civitella; di far sì che esse pa-gassero dazi e collette al comune, e si sottoponessero a tutte le fazionireali e personali36. Ma non è per questi fatti, o almeno anche per altre ra-gioni, che quel territorio attira la nostra attenzione. Esso cadde intanto,nel corso della prima metà del Trecento, anche attraverso l’acquisizionedel titolo di abate da parte di un loro esponente, Federico, sotto il domi-nio o almeno la supremazia della famiglia feudale dei Della Faggiola, chesoprattutto con Uguccione, ma dopo anche con il figlio Neri, giocarono,per un mezzo secolo, un qualche ruolo nei conflitti della Toscana. E l’ab-bazia del Trivio vi cadde sottraendosi o meglio dopo essersi sottratta allasudditanza verso il monachesimo camaldolese, nella cui orbita era entratanei primissimi anni del XII secolo e recuperando i caratteri originari el’autonomia di una abbazia benedettina. Un monaco di Camaldoli che,forse all’inizio del Trecento, postillò a margine il privilegio papale del1154, scrisse a proposito dell’abbazia che essa, al suo tempo, non facevapiù parte della Congregazione camaldolese, e che nulla aveva più in co-mune con Camaldoli. Pur staccata da Camaldoli l’abbazia continuò ad es-sere un monastero «esente», sciolto dall’ubbidienza al vescovo sarsinate ed«immediatamente sottoposto alla santa romana curia» come dice un do-cumento del 1365. L’abate era «diocesanus in diocesi sua», secondo siesprimono gli annalisti camaldolesi37. Nel 1189 e nel 1192, come risultadal Liber Censuum, il monastero pagava alla Chiesa romana, per questaesenzione, il modesto censo di un bisante, cinquanta volte meno del po-

36 Statuto di Arezzo (1327), a cura di G. MARRI CAMERANI, Firenze 1946, pp. 81-82,Libro II, rubr. XVIII.

37 Per queste e per più ampie notizie vedi CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino,cit., pp. 29-37.

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tentissimo cenobio di San Colombano di Bobbio38. L’instaurarsi dell’e-senzione sollevò le proteste del clero «secolare» menomato nei suoi di-ritti. Questo avvenne da parte del vicino pievano di Bagno, che feceripetutamente appello a Roma per le decime e tutti i diritti parrocchiali didodici chiese dipendenti «violentemente» sottrattegli dall’abate del Tri-vio, ma questo non avvenne per quello che riguarda le chiese della diocesidi Città di Castello, dove l’elezione dei parroci aveva bisogno della con-ferma del locale pievano di Corliano. Diversa ancora la situazione nelleimmediate vicinanze dell’abbazia. Il pievano della chiesa del Trivio (il2 maggio 1305, «in domo plebis de Tribio», per volontà dell’abate, si riu-nisce il parlamento generale degli uomini con i loro consoli e consi-glieri39), i rettori delle chiese di San Bartolomeo di Cella – da nonconfondere con la cella inter Paras – o di Sant’Egidio di Motecoronaroavevano nell’abate il loro superiore spirituale oltre che il loro signore tem-porale e mai compare per le loro elezioni una conferma da parte del ve-scovo sarsinate. Come chiese «manuali» del monastero l’abate aveva ildiritto di «eligere, instituere et confirmare» i loro rettori, oltre che di com-minar loro la scomunica per mancato servizio e mancata obbedienza40.

Ma su un altro problema almeno, di carattere documentario, è indi-spensabile fare ora memoria, vale a dire sulla felice sopravvivenza, per glianni compresi tra il 1296 e il 1330, dello straordinario protocollo nota-rile di Boldrone da Civitella, che ci offre una documentazione relativa, sipotrebbe dire, all’insieme della vita locale, partendo dai diritti della si-gnoria – Boldrone lavorava per i monaci come per la comunità locale – efinendo agli aspetti più diversi e privati che riguardavano gli abitanti. Unaqualche integrazione alle notizie rintracciabili nei suoi atti offrono poi leinbreviature di altri due notai, ugualmente operanti all’interno dei villaggiin qualche modo legati al Trivio, che giungono sino al 134841.

Ma torniamo ora, per quello che ci risulta possibile, ai diritti del pre-sule sarsinate o dei pievani della sua diocesi nel nostro territorio. Nonmancarono neppure interventi superiori a favore del vescovo nel campodel potere laico. Nel 1269, a Ravenna, Tommaso da Figliano, conte diRomagna, rendeva noto ai prelati, ai rettori delle chiese, ai capi nobili e

38 P. FABRE, L. DUCHESNE, Le liber censuum de l’église romaine, Paris 1905-1910,vol. I p. 78, vol. II p. 114.

39 CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino, cit., p. 105.40 Ivi, pp. 37-38.41 Per una più ampia informazione su queste fonti vedi CHERUBINI, Una comunità del-

l’Appennino, cit., pp. 17-22.

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popolari di concedere in perpetuo ai vescovi di Sarsina i diritti imperialiin feudum su un certo numero di castelli e sulle relative corti situati nellapieve di Bagno o sotto il monastero del Trivio, e fra questi anche la villadel Trivio42. Ci si può chiedere se non fossero invece sfuggiti al vescovodi Sarsina i diritti plebani sul territorio dell’abbazia, o almeno sulla parteche spettava alla sua diocesi. Nel diploma che il pontefice Adiano IV con-cesse il 20 marzo 1155 alla Chiesa di Sarsina compare, fra le altre, anchela pieve di Santa Maria di Vignola, presso le Balze di Verghereto, a m1.081 di altezza43, più tardi, cioè dopo l’applicazione della Riforma tri-dentina, che aveva sotto di sé l’abbazia di Montecoronaro. Si riconosceva,tuttavia, che a quella data tarda e di decadenza dell’abbazia la chiesa diMontecoronaro aveva anche il battistero, come avveniva per poche altreparrocchie che non fossero plebane44. Forse una qualche luce esplicativaci viene già da un sinodo sarsinate del 1380, sopravvissuto alla larghis-sima scomparsa della documentazione ecclesiastica di quel territorio. Quelsinodo ci fornisce un elenco non completo dei pivieri e delle altre chesein essi comprese. Presenta per noi un certo interesse il fatto che insiemeal monastero di San Giovanni Battista Cellarun inter ambas Paras figuri lapieve di Vignola con le sue cappelle, cioè le chiese del Cotolo, di Colorio,di Castelrotto, senza nessun accenno né a Santa Maria in Trivio, né aMonte Coronaro45. Ma mi pare che molto più chiari siano tre testamenticontenuti negli atti del ricordato ser Boldrone da Civitella, datati 27 nag-gio 1305, 10 febbraio 1310 e 7 agosto 1313, nei quali la «pieve del Tri-vio» appare in modo chiaro, persino ad esplicita dimostrazione di essereuna cosa diversa da quella di Vignola. Nel primo caso proprio un abitantedi Cella lascia 30 soldi al monastero del Trivio, 10 soldi alla chiesa diCella, 5 soldi alla pieve del Trivio, 3 soldi alla chiesa di Montecoronaro,3 soldi all’eremo di Sant’Alberico, 2 soldi alle suore del Trivio. Nel se-condo caso un abitante di Montecoronaro lascia un appezzamento di terraal monastero del Trivio, 5 soldi alla pieve del Trivio, 5 soldi alla chiesa diMontecoronaro, 2 soldi alla chiesa di Cella, 2 soldi alle suore del Trivio,5 soldi al monastero di Cella inter Paras, 3 soldi all’eremo di Sant’Alberico.Nel terzo caso, infine, un altro abitante di Montecoronaro lascia 20 soldi

42 CURRADI, Regesti di documenti per la storia di Sarsina (secc. VII-XIV), cit., p. 296n. 53.

43 DOLCINI, I diplomi imperiali e papali di Sarsina, cit., p. 47.44 Vedi più avanti nota 46.45 MENGOZZI, Due sinodi sarsinati (1380 e 1400 ca.), cit., p. 676.

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al monastero del Trivio, 5 soldi alla pieve del Trivio, 3 soldi alla chiesa diMontecoronaro, 2 soldi alle suore del Trivio, 5 soldi alla pieve di Vignola,2 soldi alla chiesa del Cotolo, 3 soldi all’eremo di Sant’Alberico46. Ilmondo religioso degli abitanti del territorio della nostra abbazia facevadunque capo al monastero e alla pieve del Trivio, alla chiesa e alle suoredi Montecoronaro, sia a qualche altro luogo religioso, non esclusa la pievedi Vignola. Il monastero era collocato un po’ più in basso sia del castellodi Montecoronaro, sia di un insediamento aperto detto villa di Monte-coronaro. Un documento di altra natura fornisce qualche altra informa-zione sulla pieve del Trivio. Quest’ultima fu, nel 1330, presa in affitto dalparroco del castello di Cella per un anno dal monaco don Andrea, che neera il titolare, impegnandosi a versargli una certa quantità di grano e ga-rantendo una sua continua residenza nella pieve, la celebrazione del cultoe l’amministrazione dei sacramenti al popolo47.

Una quarantina di anni fa, quando mi capitò di occuparmi della sto-ria dell’abbazia, scoprii anche, grazie al sacerdote di Montecoronaro e aqualche abitante, che l’abbazia, ormai scomparsa o le cui rovine erano ir-riconoscibili sotto un nuovo rimboschimento, era tuttavia rintracciabile suun pianoro non lontano da un fossato, probabilmente nel Medioevo nonprivo d’acqua. Dai documenti si ricavano alcuni dati relativi al complessomonastico. Questo era forse protetto e delimitato da un muro di cinta esicuramente – almeno dai lati che non finivano direttamente sul dirupodella montagna – da fossati. Accanto al monastero (domus monasterii, pa-latium abatie), che era munito di un portico e di un chiostro, c’era lachiesa (ecclesia Sancte Marie de Trebio). Di locali particolari i documentici hanno conservato solo il ricordo della cucina, di uno scaldatorium in cuii monaci si riunivano nei mesi più feddi, infine della cantina, forse postain una costruzione isolata (domus que vocatur cella). Su un cocuzzolo piùin alto, a qualche centinaio di metri di distanza si trovava, a picco sui tettidel monastero e a sua difesa, una torre o comunque un complesso forti-ficato da identificare forse col guardengo abatie di cui parla un documentodel 1341.

Su quella che è ora una balza deserta e silenziosa, ben riparata dai ventidel settentrione e illuminata dal sole per molte ore del giorno, era alloraun fitto muoversi di uomini. I monaci dell’abbazia non erano molti, al-meno tra la metà del XIII e la metà del XIV secolo: cinque o sei in tutto,

46 CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino, cit., pp. 230-233, docc. 59-61.47 Ivi, p. 45 nota 58.

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più qualche fratello laico, qualche scolare, due o tre famuli o familiari.Incontriamo spesso, riuniti davanti ad un notaio, l’abate e qualcuno deisuoi uomini per stipulare i loro contratti di vendita e le loro carte di li-vello. Nella chiesa, nel portico, all’ombra di un noce presso il monastero– la domenica, presenti gli uomini venuti ad ascoltare la messa – l’abaterendeva talvolta giustizia o riceveva il giuramento di fedeltà che, genibusflexis, gli prestavano i suoi fideles. I monaci e più in particolare l’abateuscivano spesso, per molteplici negozi, dal monastero e si mischiavanoalla vita e talvolta ai conflitti del territorio, finendo, spesso, per sembrarenon troppo diversi dagli altri suoi abitatori. D’altra parte i legami di pa-rentela o le zone di origine legavano i monaci a quella vita d’ogni giornodalla quale, almeno in qualche misura, la loro scelta religiosa avrebbe do-vuto tenerli lontano. Valga, per tutti ed anche più che per gli altri, l’abateFederico, al quale abbiamo più indietro soltanto alluso, che usciva dalla fa-miglia signorile dei Della Faggiola, che continuò a far sentire il suo poteresul Trivio e sulle vicine terre toscane della viscontaria della Verona finointorno alla metà del Trecento48.

Dopo il Concilio di Trento, quindi a grande distanza di tempo, ve-niamo a sapere da una visita pastorale del vescovo sarsinate NicolaBrauzzi, per quanto riguarda Montecoronaro, dove fu presente il 9 lugliodel 1608, che la chiesa parrocchiale era l’abbazia di Santa Maria in Trivio,della congregazione dei Camaldolesi. Vi era un solo monaco, già vecchioe obeso, che organizzava la cura delle anime, ma sembrava incapace diservire una parrocchia tanto grande e difficile, popolata da 80 famigliecon 383 anime. Il vescovo aggiungeva che l’abbazia aveva sette altari eanche il battistero, come avveniva per poche altre parrocchie che non fos-sero plebane. Ma dov’era collocata alle origini la chiesa battesimale delTrivio, o meglio ancora la «pieve» a cui questa di Montecoronaro ovvia-mente si ricollegava? Non credo entro o nei pressi della chiesa di Monte-coronaro, ma credo piuttosto nei pressi del monastero, cioè al Trivio, oproprio nella sua chiesa di Santa Maria. Il vescovo Brauzzi ci fornisceun’altra utile notizia che riguarda insieme la vita religiosa e quella socialee che documenta una consuetudine formatasi, come vedremo, da tempo,vale a dire la transumanza e la pratica dell’emigrazione invernale dei mon-tanari verso la Maremma. Tutti gli abitanti avevano fatto Pasqua, ad ec-cezione degli absentes in locis marittimis. Il giorno dopo il vescovo si

48 Per tutto quello che precede vedi CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino, cit.,pp. 39-46.

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spostò presso la pieve di Santa Maria di Vignola e dichiarò che essa avevaora sotto di sé anche l’abbazia di Montecoronaro49.

Alla luce della nostra pur lacunosa documentazione si può pensareche, per la pieve di Santa Maria di Vignola, si trattasse del recupero diantichi diritti, ma non potremmo affermarlo con sicurezza. Le cose chepossiamo invece richiamare all’attenzione, anche per meglio capire i mu-tamenti avvenuti nella vita ecclesiastica e religiosa, sono, da un lato, laconquista fiorentina del territorio di Montecoronaro, di Verghereto e dialtre località nel 1404, a seguito della ribellione dei conti Guidi di Bagno(prima del 1385 era passato a loro anche Montecoronaro), che si schie-rarono con il duca di Milano contro la città alla quale si erano accoman-dati. Con le terre conquistate Firenze costituì subito una nuova podesteria,della quale fu messo a capo il castello di Verghereto ed unico conservatocon le proprie mura di difesa. Nell’aprile dell’anno successivo la nuova epiù grande unità territoriale si era già data uno Statuto, giunto sino a noi,così come è giunto sino a noi, al pari di altre nuove unità del contado fio-rentino, anche quel nuovo distretto sui monti tra Romagna e Toscana al-lora creato. Al Catasto fiorentino del 1428-29, che documenta, fra l’altro,anche a confronto dei dati del 1608, da poco richiamati, il basso livellodemografico provocato dalle ripetute esplosioni di peste, gli abitanti diMontecoronaro erano raggruppati in 35 famiglie soltanto, comprendenti181 individui, ed un imponibile medio per nucleo familiare modestissimo,cioè di appena 26 fiorini. Verghereto appariva ormai nel catasto come unvero, anche se modesto, capoluogo. Le sue famiglie erano 66, cioè quasiil doppio di quelle di Montecoronaro, l’imponibile medio per nucleo sa-liva a 48 fiorini, fra le famiglie erano compresi due «agiati», cioè due fa-miglie con un imponibile medio superiore ai 200 fiorini. Uno di costoroaveva una ricchezza di più di mille fiorini, costituita da immobili, da terre,da molti crediti, da molto bestiame che inviava in Maremma sotto la sor-veglianza di un gruppetto di «fanti». Numerosa e costituita da nove per-sone era anche la sua famiglia.

Ma del territorio di Montecoronaro, grazie ai documenti a nostra di-posizione, veniamo anche a conoscere i caratteri della signoria che vi eser-citò il monastero, gli accomodamenti realizzati nel corso del tempo tra ilsignore e l’universitas locale50, la condizione giuridica degli uomini e delle

49 P. ALTIERI, I vescovi che attuarono la Riforma tridentina, in AA. VV., «Ecclesia S. Vi-cinii», cit., p. 178.

50 Sul corpus statutario del Trivio rinvio a G. P. G. SCHARF, L’universitas del Trivio e isuoi statuti, «Studi Romagnoli», LIV (2003, ma 2006), pp. 151-176.

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terre a loro concesse, i possibili scambi di beni ed i pagamenti che il mo-nastero riceveva da questi scambi così come dai rinnovi che dovevano ri-chiedere a grande distanza di tempo coloro che detenevano delle terre.Naturalmente di tutto questo non posso che accennare in questa sede, sol-tanto aggiungendo che i terreni, con l’aumento della popolazione, subi-rono un intenso sfruttamento che rese i suoli ancora un po’ più poveri diquanto già non fossero. Posso anche dire che un’attività forse più rile-vante dell’agricoltura era l’allevamento del bestiame, particolarmenteovino, oltre che lo sfruttamento del bosco, ma più raramente la coltiva-zione degli alberi da frutto, e meno ancora, data l’altitudine del territorio,la coltivazione della vite. Ma gli attuali abitanti del territorio o quelli chese ne sono allontanati per motivi di lavoro, ma vi tornano con piacere nelcorso dell’estate, anche per l’esplosione di un nuovo interesse per la sto-ria passata e non incolore delle loro terre, amano andare alla ricerca di ciòche il territorio sembra aver tratto dalla sapienza dei monaci. Ed almenoun frutto pare ne abbiano scoperto, cioè una piccola pera dalla polpamolto rossa, sopravvissuta per tanti secoli alla decadenza e alla morte dellaloro abbazia, di aspetto sicuramente originale.

Posso ora richiamare l’attenzione anche sugli scambi che l’incrociostradale determinò presso il Mercatale (villa mercatali de Trivio) e più ingenerale nel territorio, così come le pur modeste attività artigianali localiche ci vengono documentate, le manifestazioni di una qualche stratifica-zione sociale, la presenza di un usuraio che tra il 1302 e il 1315 ha la-sciato testimonianza di 81 prestiti negli atti di ser Boldrone da Civitella51.Ma mi pare giunto il momento di spiegare, sia pur brevemente, attraversoquali vie il monastero del Trivio e la sua antica signoria declinarono. Unepisodio decisivo della crisi – ma il monastero era allora già in netta de-cadenza – fu la distruzione che esso subì, nel 1495, ad opera dell’esercitoveneto, guidato dal duca di Urbino. Nel 1500 papa Alessandro VI ordinòe dopo di lui, nel 1513, Leone X confermò la riunione dell’abbazia al mo-nastero fiorentino di San Felice in Piazza, per rinunzia fatta dal cardinalePietro Accolti suo abate commendatario. Alla metà del Seicento l’abatedel monastero di San Niccolò di Sansepolcro, al quale la nostra abbazia erastata trasferita nel 1579, insignito anche del titolo di abate di Santa Mariain Trivio e perciò amministratore dei residui beni dell’abbazia, si preoc-cupava di difenderne i resti dalle ingiurie degli animali e degli uomini. Un

51 Di tutto questo può trovarsi documentazione abbastanza diffusa in CHERUBINI, Unacomunità dell’Appennino, cit., passim.

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centinaio di anni più tardi essa era ricoperta di erbe e «ridotta una gril-laia». Intorno al 1820 le rovine dovevano apparire tuttavia ben ricono-scibili e tali senz’altro apparvero a Carlo Troya, che percorse la zona allaricerca delle orme dell’allegorico «veltro» dantesco. Eugenio Repetti, l’au-tore del notissimo Dizionario geografico fisico storico della Toscana, viracconta, fra l’altro, che egli visitò nell’ottobre del 1832 la chiesa di San-t’Egidio di Montecoronaro, a cui fu unita «con i suoi titoli e onorificenze»quella battesimale del Trivio, e vi trovò tre altari, fra i quali quello di si-nistra aveva «per mensa una lapida sepolcrale dei primi secoli del cristia-nesimo», oltre che «una croce d’ottone con parole incise che accertavanola sua provenienza dall’abbadia del Trivio», al pari di altri arredi sacri52.Ancora nel 1928 il parroco di Montecoronaro, don Domenico Foschi,scriveva ai Camaldolesi una lettera, sfortunatamente perduta, ponendoloro il quesito di come fosse finito e a chi il titolo dell’abbazia del Trivio.Gli rispose, incaricato dal padre priore, don Parisio Ciampelli, che si fir-mava «Segretario», ma che era soprattutto uno studioso dell’Ordine. La ri-sposta fu cortese, ma secca, motivata anche dal suo impegno nella piccolastoria di Bagno di Romagna che egli stava preparando53. Ma soprattuttocolpisce il fatto che non si faccia alcun riferimento ai documenti tratti dalnostro ser Boldrone da Civitella, pur editi con una certa larghezza negliAnnali Camaldolesi, di cui gli autori di quell’opera ancora preziosa bencolsero l’importanza. Quando quarant’anni fa mi capitò di occuparmi del-l’abbazia ricordo che qualche vecchio si rammentava di aver sentito par-lare di pietre squadrate e di ossa – certamente quelle del cimitero abba-ziale – rinvenute nel luogo in cui sorgeva l’antico complesso54.

Giunto alla fine di queste pagine, di questi tre profili di tre abbazieora dimenticate da parte dei più, mi resta soltanto da chiedermi se e cosasi possa trarre da questa storia oppure immaginare qualche tratto comune.La risposta non è facile, tuttavia una cosa sicuramente può essere osser-vata, vale a dire la diversità tra le vicende di Santa Maria in Trivio da unlato e quelle dei due monasteri più francamente sarsinati dall’altro. Comemi pare risulti con una certa chiarezza la prima operò, quando si sottrassea Camaldoli, con tutti i caratteri di un’abbazia padrona di sé stessa, al-

52 E. REPETTI,Dizionario geografico fisico storico della Toscana, vol. III, Firenze 1839,p. 373. E vedi anche vol. I, Firenze 1833, pp. 30-31.

53 Vedi questa risposta in GUERRA, Alla villa, cit., pp. 41-43.54 CHERUBINI, Una comunità dell’Appennino, cit., pp. 38-39.

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meno sul piano formale, perché poi, come abbiamo visto, dovette invecefare i conti, prima con i vicini e potenti gruppi signorili e più tardi, inmodo decisivo, con l’avanzata del comune di Firenze verso la Romagna (emeglio forse si potrebbe dire verso il controllo delle strade che conduce-vano in Romagna e dovevano garantire la sicurezza dei suoi commerci edei suoi commercianti). Per quanto con effetti ancora limitati, già con iprimi anni del Quattrocento quella che si affaccia da sud sul crinale dellamontagna e concretamente attraverso l’istituzione della podesteria di Ver-ghereto è una nuova economia ed un nuovo potere politico, che non ag-giusta, ma smantella, come è già avvenuto nello Stato fiorentino ed inmisura sia pure diversa anche in quelli di Siena e di Lucca, il potere dei si-gnori o se si preferisce il potere e la società feudale. Ma se penetriamoverso la Romagna ci accorgiamo che i signori ed il loro stile di vita sonoancora presenti, anzi caratterizzati da uno sminuzzamento territoriale chenon ostante l’emergere di molte signorie nelle città dura fatica, almenonella zona qui considerata, a costituirsi in area di potere più ampia. E glistessi caratteri della proprietà non sembrano subire l’attacco e la spintaverso il mutamento che emerge al Trivio, anche se si può facilmente os-servare essere proprio la proprietà ecclesiastica la più restia al mutamento.

Se passiamo ora a considerare le cose sotto il punto di vista delle isti-tuzioni ecclesiastiche non possiamo negare che le due abbazie di Sum-mano e di Ranchio appaiono, molto di più di quanto non avvenga per ilTrivio, almeno nella sua età più fortunata, assai meglio inserite o almenomolto meglio collegate con la diocesi e con il suo vescovo. Ma in generaleun’altra vicenda sembra emergere un po’ ovuque, vale a dire la difficoltà,alla lunga, di una facile convivenza tra le pievi e le abbazie (parlano, inquesto senso, sia la pieve di Vignola che quella di Ranchio), quasi che laragnatela della maggiore istituzione territoriale di base della Chiesa seco-lare avesse in sé una forza maggiore e più resistente nel tempo delle isti-tuzioni monastiche.

Ma su un’altra cosa rimarrebbe da dire qualcosa, sulla quale, perla verità, quello che ho scritto pochissimo mi consente, vale a dire il sen-timento cristiano e le manifestazioni di fede. Di grande interesse sonosempre, in questa direzione, i testamenti55. Ed anche i pur non molti te-

55 Per l’ambito sarsinate rinvio a M. MENGOZZI, Il pellegrinaggio nell’orizzonte lo-cale: l’esempio della diocesi di Cesena-Sarsina, in Pellegrini e luoghi santi dall’antichità almedioevo, a cura di M. MENGOZZI, Cesena 2000, pp. 107-140, alle pp. 128-130; ID.,Strade e pellegrini in valle Savio, «Studi Romagnoli», LI (2000, ma 2003), pp. 753-792, allepp. 779-781.

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stamenti esaminati sono pure in questo caso utili, perché indicano sempreuna qualche gerarchia nelle offerte da parte dei fedeli ed una qualche pre-ferenza in direzione di una chiesa piuttosto che di un’altra. E vi mancanopoi quelle raccolte di miracoli che certo orientate dalla guida dei religiosio anche un po’ meno condizionabili costituiscono pur sempre una docu-mentazione sicura della vita cristiana, come mi è capitato di dimostrare al-meno una volta e pur ponendomi in primo luogo l’idea di cogliervi la vitain tutti i suoi risvolti, non soltanto di quelli religiosi56. E non è nemmenonecessario che io accenni ad una più particolare manifestazione cristiana,il pellegrinaggio, che gode attualmente di un diffuso favore. Si trattavacerto di una cosa importante, ma non sempre ugualmente apprezzata, so-prattutto quando si trattava di pellegrinaggi lontani e non del pellegri-naggio locale o comunque da compiere in una giornata, in un climacertamente religioso, ma anche di festa e di solidarietà paesana. Il pelle-grinaggio lontano, insieme al voto da sciogliere, al fascino della difficoltà,delle genti nuove da incontrare, dei pericoli a cui si andava incontro avevaanche, non sempre facilmente distinguibili, curiosità un po’ più profane57.

56 G. CHERUBINI, Gente del Medioevo, Firenze 1995.57 G. CHERUBINI, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo, Napoli 2005; per la

diocesi sarsinate vd. MENGOZZI, Il pellegrinaggio nell’orizzonte locale, e ID., Strade e pel-legrini in valle Savio, cit. alla nota 54.