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1 “LA VERTÙ ANCORA APPRESSO AI BARBARI È ONORATA”: LIMITI ALL’INCONTRO INTERRELIGIOSO NELLE NOVELLE DI BANDELLO E GLI ECATOMMITI DI GIRALDI CINZIO Dalla metà del XV secolo cristiani e musulmani ricorrono, più che nel passato, alla guerra di corsa nello scontro religioso e militare in atto dal VII secolo, in cui non si esaurivano, comunque, i contatti tra i due schieramenti, alimentati anche dal commer- cio. La schiavitù praticata dai corsari è interpretata, in alcuni recenti studi di “mediterra- neistica”, come contributo alle relazioni tra i popoli. Persino in simili avverse circostan- ze sono recuperabili esempi di collaborazione amichevole, soprattutto a livello indivi- duale, come attestano le novelle di Bandello e Giraldi Cinzio esaminate in questo sag- gio. Tuttavia, attraverso il racconto del successo professionale e sociale in terra musul- mana, i personaggi dei due novellieri riflettono un atteggiamento sostanzialmente ambiguo verso l’Islam. L’analisi delle medesime novelle rivela infatti esempi di antago- nismo religioso e culturale, sostenuto dai narratori e protagonisti cristiani, che affronta- no l’incontro con l’altro ricorrendo alla lente deformante della preminenza culturale e dell’esclusivismo religioso. Il presente studio offre di tale dissonanza un’interpretazione basata sulle rappresentazioni dell’identità musulmana diffuse in Europa, soprattutto negli anni antecedenti la battaglia di Lepanto, quando di fronte alla supremazia strategico-militare dei turchi e i corsari barbareschi, loro alleati, si rendeva necessario ribadire la preminenza della propria fede e cultura. P ercorrere il Mediterraneo, per motivi commerciali, militari o religiosi, includeva da sempre il rischio di funesti stravolgimenti dei piani di viaggio, a causa di una violenta tempesta o dell’assalto di una nave pirata. Private dei beni personali, le vittime dei fuorilegge del mare venivano anche rese schiave, a uso del capitano dell’imbarcazione o di un membro del- l’equipaggio, oppure vendute al mercato degli schiavi. Con la rapida affer- mazione dell’Islam dalla Persia alla Penisola Iberica, tra il settimo e l’ottavo secolo, le imprese piratesche avevano assunto anche il significato di scontro politico-religioso tra cristiani e musulmani. 1 La tradizione novellistica quattro-cinquecentesca testimonia il coinvolgimento in questo conflitto ormai secolare dei seguaci tanto di Maometto quanto di quelli di Cristo ridotti in cattività: al valore commerciale 2 insito nella loro nuova identità, i prigionieri se ne vedevano attribuire anche uno di carattere ideologico. Infatti dalla conquista di Costantinopoli (1453), ma soprattutto dal XVI secolo, quando si fece evidente agli occhi dell’Europa cristiana la volontà di dominio dei turchi sull’intero bacino mediterraneo (Heers 53), la contesa militare-religiosa si avvalse anche del depauperamento di forza umana sottratta al campo avversario negli arrembaggi e nelle scorrerie sulle coste, secondo le forme in cui agiva la corsa. 3 A esso seguiva il danno finanziario

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“LA VERTÙ ANCORA APPRESSO AI BARBARI È ONORATA”:LIMITI ALL’INCONTRO INTERRELIGIOSO NELLE NOVELLE

DI BANDELLO E GLI ECATOMMITI DI GIRALDI CINZIO

Dalla metà del XV secolo cristiani e musulmani ricorrono, più che nel passato, allaguerra di corsa nello scontro religioso e militare in atto dal VII secolo, in cui non siesaurivano, comunque, i contatti tra i due schieramenti, alimentati anche dal commer-cio. La schiavitù praticata dai corsari è interpretata, in alcuni recenti studi di “mediterra-neistica”, come contributo alle relazioni tra i popoli. Persino in simili avverse circostan-ze sono recuperabili esempi di collaborazione amichevole, soprattutto a livello indivi-duale, come attestano le novelle di Bandello e Giraldi Cinzio esaminate in questo sag-gio. Tuttavia, attraverso il racconto del successo professionale e sociale in terra musul-mana, i personaggi dei due novellieri riflettono un atteggiamento sostanzialmenteambiguo verso l’Islam. L’analisi delle medesime novelle rivela infatti esempi di antago-nismo religioso e culturale, sostenuto dai narratori e protagonisti cristiani, che affronta-no l’incontro con l’altro ricorrendo alla lente deformante della preminenza culturale edell’esclusivismo religioso. Il presente studio offre di tale dissonanza un’interpretazionebasata sulle rappresentazioni dell’identità musulmana diffuse in Europa, soprattuttonegli anni antecedenti la battaglia di Lepanto, quando di fronte alla supremaziastrategico-militare dei turchi e i corsari barbareschi, loro alleati, si rendeva necessarioribadire la preminenza della propria fede e cultura.

Percorrere il Mediterraneo, per motivi commerciali, militari o religiosi,includeva da sempre il rischio di funesti stravolgimenti dei piani di

viaggio, a causa di una violenta tempesta o dell’assalto di una nave pirata.Private dei beni personali, le vittime dei fuorilegge del mare venivano ancherese schiave, a uso del capitano dell’imbarcazione o di un membro del-l’equipaggio, oppure vendute al mercato degli schiavi. Con la rapida affer-mazione dell’Islam dalla Persia alla Penisola Iberica, tra il settimo e l’ottavosecolo, le imprese piratesche avevano assunto anche il significato di scontropolitico-religioso tra cristiani e musulmani.1 La tradizione novellisticaquattro-cinquecentesca testimonia il coinvolgimento in questo conflittoormai secolare dei seguaci tanto di Maometto quanto di quelli di Cristoridotti in cattività: al valore commerciale2 insito nella loro nuova identità,i prigionieri se ne vedevano attribuire anche uno di carattere ideologico.Infatti dalla conquista di Costantinopoli (1453), ma soprattutto dal XVIsecolo, quando si fece evidente agli occhi dell’Europa cristiana la volontàdi dominio dei turchi sull’intero bacino mediterraneo (Heers 53), la contesamilitare-religiosa si avvalse anche del depauperamento di forza umanasottratta al campo avversario negli arrembaggi e nelle scorrerie sulle coste,secondo le forme in cui agiva la corsa.3 A esso seguiva il danno finanziario

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causato dagli onerosi riscatti che le famiglie e le comunità dovevano versa-re, per riavere i propri figli, padri o sorelle. Con le conversioni religiose,numerose quelle all’Islam tra gli schiavi cristiani nelle città corsare dellacosta nordafricana, si segnavano altrettanti punti a favore del proprio schie-ramento.4

La raccolta novellistica di Bandello (1484 ca-1561), Le novelle, inquattro parti, contiene due testi, I, 58 e III, 50, che sembrano invalidarel’inserimento della schiavitù esclusivamente entro parametri di intolleranzareligiosa e scontro militare. Lo stesso si può dire delle novelle II, 6 e VIII,6 ne Gli Ecatommiti di Giraldi Cinzio (1504-1573), in cui il materiale narra-tivo è disposto secondo parametri decameroniani. Bandello, invece, se nediscosta, introducendo ogni narrazione con una lettera dedicatoria, in cuiricostruisce l’occasione dell’atto narrativo.

Nelle quattro novelle summenzionate il dramma della guerra corsarasi risolve nella creazione di rapporti d’amicizia e stima tra il protagonistacristiano e quello musulmano. A questi testi si può applicare la chiave dilettura offerta dagli studi mediterranei degli ultimi anni, facenti sempreriferimento all’originale approccio all’analisi del Mediterraneo come sog-getto storico, dalle molteplici identità culturali, avviato da Braudel.5 Laschiavitù e, più in generale, la guerra corsara che la originava, possonoessere interpretate anche in base al principio del dialogo tra culture. Secon-do Guarracino, la mediterraneità si identifica con il concetto di scambio equello di relazione, che hanno reso possibile il mosaico culturale in cuiconsiste la “serie di civiltà accatastate le une sulle altre” (94) che da sempreè il Mediterraneo, in aggiunta a quelli di “pluralità ed eterogeneità” (ivi).6Senza negare l’evidenza del secolare confronto violento tra il mondo islami-co e quello cristiano, alcuni contributi di “mediterraneistica” (98) sonodedicati al recupero di esperienze di coesistenza e collaborazione pacifica,non soltanto nei momenti di tregua, ma anche durante fasi di aperto conflit-to militare. È sotto quest’ottica che Bono ha reinterpretato la schiavitù e leapostasie riconducibili alla corsa nel Mediterraneo del Cinquecento e Sei-cento: “La fitta trama di rapporti e di scambi di persone e cose fra le oppo-ste rive del Mediterraneo intessuta attraverso le vicende della guerra corsarae delle sue più dirette conseguenze, la schiavitù e le conversioni, da unaparte e dall’altra, costituisce una delle espressioni più tipiche e rilevanti diciò che può designarsi per eccellenza come «storia del Mediterraneo»” (Unaltro Mediterraneo 79).7

Accanto alle descrizioni di frequentazioni imperniate sull’apprezza-mento reciproco, le novelle qui prese in esame contengono, tuttavia, ancheinsistite allusioni all’antagonismo religioso e culturale che costituiva lo

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sfondo su cui si intrecciavano e venivano rappresentati persino i rapporticordiali tra musulmani e cristiani. Il presente studio rende ragione di questadissonanza, ricorrendo alla storia delle relazioni tra le due culture duranteil XVI secolo, al tempo, cioè, della maggior pressione militare esercitatadall’impero ottomano sull’Europa, sia dal lato sudorientale che quello medi-terraneo meridionale, con il coinvolgimento dei corsari barbareschi. Difronte alla superiorità strategico-militare del nemico turco, le due novelledi Bandello e di Giraldi Cinzio insistono sulla preminenza culturale el’esclusivismo religioso cristiani,8 che costituiscono il punto di vista da cuii protagonisti si relazionano all’alterità musulmana e ne giudicano anche ilcomportamento degno di lode. In base a questa duplice prospettiva essivagliano anche le occasioni di avanzamento professionale e sociale esperitenella società islamica, ma puntualmente rifiutate a favore del ritorno nellapatria cristiana.

Nella sezione introduttiva alla raccolta di contributi sul concetto di“estraneo” (= foreign), la comparatista americana Saunders spiega comeogni contatto tra identità culturali diverse sia compromesso sin dal suostabilirsi dall’atteggiamento parziale con cui l’altro viene avvicinato e chesi pone come premessa alla stessa identificazione dello straniero. Egli è tale,infatti, soltanto nel momento in cui un individuo lo relativizza a sé e comin-cia a identificarlo, prendendo atto di tutto quello che lo straniero non èrispetto a lui, della sua esclusione dai gruppi in cui l’individuo si riconosce(la famiglia, la comunità di residenza, l’etnia, lo Stato) e della non condivi-sione di una stessa lingua e patrimonio culturale. Inerente al processo didistinzione è la gerarchizzazione di valore dei due soggetti coinvolti. Inbase a essa, colui che prende atto dell’altro, differenziandolo da sé, ne ac-quista in superiorità, per l’autorità di cui si riveste avviando il procedimentodi discernimento e dunque ponendo ordine nel precedente caos delle catego-rie indistinte.9 Questo processo di diversificazione e classificazione è ri-scontrabile nell’approccio al musulmano nelle due novelle di Bandello e inquelle di Giraldi Cinzio. Parallelamente alla conflittualità, i due autori recu-perano l’impianto concettuale che la tradizione attribuiva alle differenze tracristiani e musulmani, non soltanto sul piano religioso. In particolare, distin-guono questi ultimi come non-cristiani, perché barbari, membri di una non-civiltà, che, conformemente all’immagine di essi diffusa con più insistenzadagli umanisti in Europa, indulgevano nell’annichilimento delle altre cultu-re, come quella classica greca in occasione della presa di Costantinopoli,oltre che nella spietatezza verso le vittime.10 Queste premesse rendono breveil passo per l’affermazione della superiorità culturale e morale cristiana,anche nelle circostanze di pacifico dialogo che entrambi novellieri instaura-

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no tra i rappresentanti dei due mondi. Sebbene le loro novelle contribuisca-no a problematizzare la visione univoca della belligeranza tra cristiani emusulmani nel Mediterraneo, allo stesso tempo mostrano l’impossibilità diignorare il contesto storico in cui si originano questi casi quasi esemplari.Pertanto, non pare confacente all’evidenza offerta dalle quattro novelle quianalizzate l’invito di Bono “per la costruzione del Mediterraneo … [ad]attribuire più spazio e rilievo nel quadro complessivo alle diverse moltepliciforme di pacifica convivenza, di scambi proficui, di influenze e trasmissionidi valori intellettuali e culturali” (Un altro Mediterraneo 263). Al contrario,si rivela pertinente la sollecitazione, nello stesso studio, ad avere “cura diequilibrare opportunamente nella narrazione vicende e aspetti di contrastoe di ostilità rispetto invece a modi e tempi di convivenza, di contatti e discambi” (260).

Prima di procedere all’analisi testuale delle novelle, si impone unaprecisazione terminologica. Per quanto l’attività del pirata e del corsaroconsistesse nel predare navi e comunità costiere, il secondo agiva in unambito di legalità. Attraverso il rilascio della lettera di corsa da parte delleautorità della città od ordine militare per cui corseggiava egli veniva auto-rizzato ad operare ai danni dei paesi rivali. La distinzione tra queste duefigure non si mantenne mai netta, perché anche il corsaro poteva essereattratto dall’opportunità economica, al punto da attaccare navi neutrali epersino quelle di uno stato alleato. Si trasformava quindi in pirata: “coluiche agiva al solo fine di fare bottino … un brigante pronto a impadronirsidi ogni nave o saccheggiare ogni insediamento costiero … non rispettavanessuna legge, non si piegava a nessuna bandiera: mirava solo ad arricchir-si” (Lenci 131). Nel XVI secolo l’attività dei pirati della costa magrebinaacquista in dignità legale, perché affianca quella dei turchi nella difesadell’Islam e nell’espansione del loro impero contro la cristianità, di cuil’imperatore Carlo V si poneva a strenuo protettore.11 I corsari barbareschicontribuivano alla causa islamica non soltanto partecipando alle battaglienavali combattute dalla Sublime Porta (anche nel settore orientale, come aPrevesa nel 1538 e a Lepanto nel 1571). Nel Mediterraneo occidentale, essisi erano assunti l’onere della lotta all’infedele, depredando le navi cristiane,facendone schiavi i passeggeri e diventando l’incubo più temuto delle popo-lazioni lungo le coste italiane e iberiche, da cui uomini, donne e bambinivenivano trascinati principalmente verso Tunisi, Tripoli e Algeri.12 Unavolta raggiunta, nel 1581, una tregua tra le superpotenze turca e spagnola,la corsa perse molto della sua componente religiosa, per diventare un feno-meno esclusivamente economico in cui le autorità delle città corsare, chefinanziavano l’attività e godevano dei profitti, erano sempre state coinvol-

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te.13 Al pascià spettava automaticamente una percentuale fissa sia dellamerce che dei prigionieri. Di questi ultimi una minoranza veniva assegnataal servizio di corte, come accade al protagonista cristiano nella III, 50 diBandello e a quelli di Giraldi Cinzio in II, 6 e VIII, 6. Gli altri si ritrovavanoa remare sulle galee, in condizioni disumane (è la sorte che attende FilippoLippi nella I, 58 di Bandello) e impiegati nella realizzazione di opere pub-bliche (Davis 12). Le donne, i giovanissimi di entrambi i sessi e alcuniuomini venivano destinati al mercato degli schiavi, per essere impiegaticome domestici. Li attendevano condizioni di vita più umane di quelle deigaleotti.

La guerra corsara nel Mediterraneo si sviluppò all’insegna della reci-procità (Fiume 39): ne erano coinvolti, non soltanto come vittime, anche icristiani, in particolare i Cavalieri di Malta (costituitisi nella prima metàdell’XI secolo a Gerusalemme) e dal 1562, anno della fondazione dell’ordi-ne da parte di Cosimo I de’ Medici, quelli di Santo Stefano. Su entrambi ifronti si tendeva a ignorare la componente economica all’origine dellescorrerie di mare e di terra, per esaltare invece il presunto impegno religiosodi quanti venivano incensati come eroici paladini della lotta all’infedele.14

Sulla base dei riferimenti contenuti nella tradizione novellistica italianapremoderna, la corsa, soprattutto la schiavitù di molti che ne risultò, appareun fenomeno unidirezionale, nel senso che viene ridotto alla vittimizzazio-ne, quasi esclusiva, dei cristiani. Sono poche, infatti, le novelle che ci rac-contano di musulmani fatti prigionieri da predoni cristiani e venduti inqualche mercato della penisola: erano molto attivi quelli di Palermo e Tra-pani, così come Ancona, Genova e, dalla fine del XVI secolo, Livorno, sededei Cavalieri di Santo Stefano. La raccolta di Masuccio Salernitano costitui-sce un’eccezione con le sue cinque narrazioni aventi per protagonisti schiavimori in territorio cristiano, quattro ambientate in Italia e una in Francia,sebbene soltanto di uno di essi sia certa la provenienza corsara, Malem nellaquarantottesima novella.15 Nel Cinquecento, nel momento in cui più chiara-mente le scorrerie dei pirati per mare e sulle coste erano sfruttate anchecome arma ideologica, i due novellieri più prolifici del secolo, Bandello eGiraldi Cinzio, escludono dal loro corpus narrativo la possibilità che a finirein catene fossero anche indifesi passeggeri di navi barbaresche e turche permano di spietati corsari maltesi, spagnoli, toscani.16

A quest’assenza così significativa si aggiunge, sul piano testuale, unaltro aspetto dell’incontro con l’altro nella cultura italiana del Cinquecento.Nelle quattro novelle qui analizzate, in particolare nelle due di Bandello,l’antagonista, anche quando non è più considerato tale, resta funzionaleall’esaltazione di valori solitamente professati dalla tradizione europeo-

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cristiana come a essa precipui, per quanto vengano riscontrati anche nellacultura designata a rappresentarne per opposizione l’identità. Nel periodoin cui Bandello e Giraldi Cinzio davano alle stampe le loro raccolte novelli-stiche (rispettivamente nel 1554 e nel 1565),17 i turchi, temuti, ma ancheammirati, per la loro rapida espansione a danno dell’Europa, rivestivanoquesto ruolo ormai da più di un secolo. Lo scontro non era puramente mili-tare, ma si alimentava del conflitto religioso che dall’VIII secolo aveva fattodell’Islam la compagine “altra” per eccellenza della Cristianità. I turchi,adesso e per tutto il XVII secolo, costituiranno agli occhi degli europei lapersonificazione storica dell’Islam e quindi l’immagine antitetica di tuttociò che la società del Vecchio Continente reputava essere la sua essenzialenatura: “L’Europa era propriamente la sede — patria e domus — dellaCristianità, era identificabile con la christiana religio e pertanto si potevastimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo” (Cardini 199).18 I riflessinella terminologia usata all’epoca per indicare i musulmani confermano ilruolo di sineddoche assunto dai turchi e dai mori (Bono, Schiavi musulmani36).19 Se l’immagine manichea del rapporto tra cristiani e musulmani rimaseprominente anche nel XVI secolo, contemporaneamente nelle discussionisugli ottomani intrattenute dagli intellettuali a partire dalla metà del Quat-trocento è rilevabile il desiderio di una conoscenza di essi non inficiatadall’antagonismo religioso. Machiavelli e Guicciardini ne trattano nelle loroopere in quanto soggetto politico: il primo arrivando a riconoscere, neiDiscorsi, i turchi (precedentemente i saraceni) fra i popoli tra i quali si eradispersa la virtù romana al momento del crollo dell’impero.20 Cardini haosservato il contributo anche delle lotte tra riformati e cattolici alla forma-zione di un’immagine più positiva dei turchi nel Cinquecento. Da una partee dall’altra si equiparava il nemico interno all’infedele.21 Allo stesso temposi evidenziava di quest’ultimo, cartina tornasole della deriva morale delprotestante o cattolico, il rispetto di virtù, quali la generosità e la tolleranza,che i due, in quanto cristiani, sentivano di possedere come naturale propen-sione.22 La disponibilità a riconoscere meriti all’altro e le nuove conoscenzesu di lui, anche tramite diari di viaggio e resoconti diplomatici, non dissipa-vano, comunque, antichi stereotipi e la strumentalizzazione delle informa-zioni acquisite a scopo difensivo.23

Le novelle qui analizzate testimoniano l’approccio al musulmano piùpersistente nella società europeo-cristiana del Cinquecento e che potevamanifestarsi sotto forma di mantenimento delle distanze identitarie e sensodi superiorità, anche in circostanze di prevalente buona disposizione reci-proca. Questi modi di rapportarsi all’altro animano l’atteggiamento di Leo-nardo da Vinci, il narratore della I, 58 di Bandello, e della sua brigata soli-

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dale di intellettuali e religiosi nei confronti dei barbareschi. Leonardo rac-conta l’episodio della schiavitù del pittore fiorentino Filippo Lippi a Tunisipresso il “gran corsaro” (Bandello, I, 650) Abdul Maumen e della sua libe-razione grazie alla breccia che il talento artistico apre nell’animo del padro-ne, per due volte descritto come “barbaro”. La narrazione esemplifica esostiene la tesi esposta nell’incipit della lettera dedicatoria, come spessoaccade nella raccolta bandelliana: “essere sempre stata la vertù in ognisecolo e appo tutte le genti d’ogni parte del mondo in grandissima stima”(646). La necessità di tale assunto scaturisce dallo stupore con cui il cardi-nale Guercense, uno dei membri della brigata, ha accolto la risposta alla suadomanda relativa al salario elargito da Ludovico Sforza a Leonardo daVinci. Si tratta di duemila ducati, senza contare frequenti e ricchi doni:“Parve gran cosa questa al cardinale” (647). Leonardo, a sua volta meravi-gliato di fronte alla grossolanità del prelato, derivante anche dall’evidenteignoranza degli autori antichi, che al contrario attestano il diffuso apprezza-mento per l’arte, ricorre alla novella per motivare e ricevere ratifica al pro-prio sbalordimento.24 Mira soprattutto a denunciare l’estraneità della reazio-ne del religioso alla comunità culturale di cui egli si fa portavoce nel ruolodi narratore. Per avvalorare la sua tesi, ricorre innanzitutto alla tradizioneculturale greco-antica. Porta l’esempio di Apelle, al quale Alessandro Ma-gno perdonava gli atteggiamenti meno riguardosi nei suoi confronti inomaggio alla maestria artistica. Segue a questo punto del racconto di Leo-nardo la vicenda relativa a Filippo Lippi, preceduta dalla significativa auto-sollecitazione: “Ma vegniamo al fatto per cui mosso mi sono a ragionarvidi lui per mostrarvi che la vertù ancora appresso ai barbari è onorata” (649).“Ancora” (= persino) attribuisce all’esemplificazione di “barbari”, cioè adAbdul Maumen e la sua gente, il ruolo di secondo termine di paragone,inferiore non soltanto rispetto a chi sta narrando e alla sua tradizione cultu-rale, ma in senso assoluto. In questo modo aumentano la meraviglia con cuisono accolti il comportamento di Abdul e di riflesso l’inappropriatezza dellareazione del cardinale.25

Catturato insieme ad alcuni amici dai corsari barbareschi e costrettoalla dura vita del galeotto, a Filippo un giorno viene assegnata la cura di ungiardino, probabilmente in una di quelle pause dall’attività corsara dovutealla stagione tardo-autunnale e invernale (Davis 82-85). Ritrovati a suadisposizione un muro e dei carboni, il pittore ritrae il suo padrone, con talemaestria da farlo sembrare vivo. Al momento epifanico del genio artisticoAbdul Maumen e i suoi affiliati reagiscono con uno stupore di tipo cultura-le, riconducibile cioè all’iconoclastia islamica26 (“Parve la cosa miracolosaa tutti, non s’usando il dissegno né la pittura in quelle bande [in Barberia]”,

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Bandello, I, 650), ma immediatamente il capitano corsaro assume anche unatteggiamento di ammirazione e riverenza nei confronti dell’artista. Daquesto momento il prigioniero diventa un amico, tanto rispettato da garanti-re l’affrancamento persino ai suoi compagni. Il rientro in patria viene ritar-dato da Bandello allo scopo di tratteggiare l’amicizia che si instaura tra ilpittore e Abdul: “Lavorò … con colori alcuni bellissimi quadri ed al padro-ne gli diede, il quale per riverenza de l’arte molti doni e vasi d’argento glidiede ed insieme coi compagni liberi e salvi, con le robe a Napoli fece permar portare” (ivi). Il significato edificante assunto dalla relazione tra i dueprotagonisti viene però nuovamente ridimensionato dal commento finale delnarratore. L’attribuzione ad Abdul della liberazione dei prigionieri, tantopiù straordinaria, perché compiuta nonostante la perdita economica in essaimplicita,27 non avviene in modo asettico, ma risente del senso di superioritàa cui è riconducibile l’indicazione del corsaro in quanto barbaro (“un barba-ro natural nostro nemico”, ivi), esattamente come veniva alluso nella fraseintroduttiva all’episodio. La vicenda viene quindi incorniciata tra due osser-vazioni che assurgono a coordinate interpretative, suffragando l’antago-nismo culturale come sfondo degli eventi raccontati. Se il riferimento allabarbarità di Abdul, seguito da quello alla sua sensibilità, sorte l’effetto dievidenziarne l’animo nobile, allo stesso tempo l’insistenza sulla primacaratteristica lo conferma nell’immutabilità della sua natura di diverso. Lagiustapposizione di questi due aspetti del personaggio approfondisce ladistanza ontologica che separa il corsaro da Filippo, Leonardo e la brigatain ascolto. Non soltanto viene definito “nostro nemico”, con allusione ancheai secoli di inimicizia e di scontri militari tra cristiani e musulmani, mal’ostilità risulta “natural”, al di là di qualunque reale casus belli storico.Contemporaneamente allo scoprirsi simili viene rinnovato l’impegno adifferenziarsi nettamente dal nemico ed esaltare la propria società comebaluardo di civiltà, in cui un valore come quello attribuito all’arte le è tal-mente connaturato da suscitare sorpresa e rimprovero quando viene negatoal suo interno. Significativamente Bandello fa seguire allo stupore del prela-to per il compenso di Leonardo l’allontanamento del religioso dalla brigata:“partito dal cenacolo alle sue camere se ne ritornò” (647). L’utilizzo daparte dei narratori bandelliani della generosità e riconoscenza dei “maomet-tani”, al fine di rimproverare e sollecitare i compagni cristiani alla responsa-bilità morale, risulta inequivocabile in due altre novelle della raccolta. Nelpreambolo della I, 57, che narra dell’assistenza offerta da un povero pesca-tore ad un viandante, sotto le cui spoglie si nasconde il re del Marocco,leggiamo: “Io veramente assai fiate ho ritrovato più carità e cortesia in moltidi loro che talora non ho fatto tra i nostri cristiani” (643). Un’osservazione

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ancor più critica attende gli ascoltatori e i lettori della II, 52, in cui Saich,re di Fez, perdona con generosità l’affronto militare di Maometto, signoredi Dubdù, mantenendo la promessa fattagli. Il narratore afferma nel pream-bolo: “Io confessar vi posso d’aver trovato in luoghi assai de l’Affrica viepiù d’amorevolezza e carità che, e mi vergogno a dirlo, non ho trovato tra’cristiani” (Bandello, II, 188).

L’assenza del cardinale Guercense, che sembrava il destinatario princi-pale del messaggio esornativo-pedagogico della narrazione, induce a ricer-care un’ulteriore motivazione per l’atto affabulatorio. Prevale, in questotesto, l’intento autocelebrativo della brigata, rappresentata da Leonardo econfermata nella sua preminenza culturale, a scapito di un moro, che inquanto tale resta l’altro per antonomasia, qualunque sia la qualità che lodistingue dal gruppo di appartenenza. Con la precisazione, “Né meno fu lavirtù di fra Filippo tra noi riverita” (Bandello, I, 650), aggiunta al commentofinale alle encomiabili azioni di Abdul, il narratore tempestivamente correai ripari contro i danni apportati all’identità culturale della sua società dalcardinale, accentuando la dimensione comunitaria che il confronto con l’al-tro assume nella novella. Il gruppo (“noi”) di Leonardo è colto nella suainterezza ad onorare l’artista. Nel campo dei barbari, al contrario, la reazio-ne di fronte al ritratto dipinto da Filippo si limita allo sbalordimento, nonispira alcun gesto d’ossequio a livello collettivo.

Mentre nella novella di Filippo Lippi il confronto si rivela di naturasoprattutto culturale, nella III, 50 la differenza tra “noi” e “loro” si appuntasulla religione. I corsari sono definiti anche qui “mori”, termine che insiste-va sulla valenza oppositiva tra cristiani e musulmani, ma ancor più inequi-vocabilmente il reggente di Tunisi viene identificato come “nemico dellanostra legge” (Bandello, II, 500).28 Una nuova brigata di conoscenti semprealtolocati si è intrattenuta discutendo di virtù, non più come nel testo prece-dente nell’accezione di straordinaria abilità artistica, ma di nobiltà d’animoche si manifesta nel sacrificio di sé da parte del contadino campano Petrielloper restare vicino alla moglie. La conversazione, Bandello riporta nelladedica, si è concentrata sul valore attribuito dai popoli, ovunque e in tuttii tempi, ad azioni virtuose: “di quanta forza sia appo tutte le nazioni la ver-tù” (488). La tesi generalissima viene spinta alle sue estreme conseguenzeattraverso il riferimento alla “gente barbara”, presso la quale “un atto vertu-oso assai spesso è in prezio” (ivi), seguito dalla concretizzazione che portaalla ribalta, come in I, 58, il nemico musulmano nell’immediatezza storicadel corsaro barbaresco. Il tutto viene preceduto dall’osservazione relativaall’evenienza che la virtù eserciti la sua forza redentrice anche sui malvagi(“i tristi”): “E veramente de la vertù il poter è molto grande, perciò che non

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solamente tira i buoni al suo amore, ma alletta ancora i tristi” (ivi). L’atmo-sfera di meraviglia, a cui ha contribuito il consueto episodio tratto dallatradizione classica, questa volta relativo a Scipione l’Africano, determinanella novella la reazione immediata e il comportamento del gruppo antago-nista nei confronti del protagonista cristiano. Con rapide pennellate il novel-liere fa precedere alla narrazione della cattura del contadino e della moglieda parte di corsari tunisini il quadro delle reali circostanze in cui avveniva-no le razzie sulle coste mediterranee. Il loro successo dipendeva moltodall’effetto sorpresa: la donna, stanca dopo molte ore trascorse a mietere,si addormenta sotto un albero vicino alla spiaggia e poco dopo si ritrovaprigioniera sulla nave di alcuni predoni del mare.29 A questo punto la novel-la si trasforma nell’encomiastico resoconto delle iniziative di Petriello, allacui immagine eroica non poco contribuisce lo stupore dei corsari di frontea quest’uomo che, pur di non separarsi dalla consorte, si offre in schiavitù,dopo aver percorso a nuoto il tratto di mare che lo separava dalla loro im-barcazione. Alla meraviglia suscitata da quest’impresa segue quella con cuiviene accolto il suo monologo. In esso Petriello perora la sua proposta,dichiarando il suo profondo amore coniugale.30 Allo stesso tempo dà provadi senso pratico, a cui ricorre nell’eventualità che la sua fede in ciò cheaccomuna gli esseri umani risulti mal riposta: “se alcuno di voi ha moglie,o se mai ha provato che cosa sia amore o sentito che tormento è vedersiprivare de la donna amata, io vi prego caldissimamente … che sia di piacervostro di restituirmi la moglie, ché ve ne sarò obligatissimo” (500). Allacomunanza di sentimenti segue la consapevolezza della spinta economicaalla base della corsa e pertanto “sapendo che voi di questo esercizio vivete”(ivi), Petriello rapidamente chiede di essere fatto schiavo, non confidandomolto nella possibilità che il suo grande affetto muova il nemico a restituir-gli la consorte, senza trarne alcun profitto. Ma non è soltanto per sete diguadagno che i corsari acconsentono a lasciare salire a bordo Petriello. Ilsuo discorso li ha conquistati, novelli Cimoni, li ha resi malleabili all’amo-re: “mossi a pietà, quello accettarono in galera e assai bene vestirono, resti-tuendogli l’amata moglie, e fin che pervennero a Tunisi gli fecero buonacompagnia” (ivi). Bandello crea una base d’intesa tra le parti coinvolte, ilriconoscimento del valore attribuito alla virtù umana, e su di essa costruisceun incontro tra avversari, resi adesso compagni. In questi termini possiamodescrivere anche il legame che si instaura tra i due cristiani e il re di Tunisi,al quale vengono donati. Messo al corrente delle circostanze in cui sonostati catturati, il sovrano li libera, si assicura i servizi del contadino, dietrocompenso, e dopo alcuni anni permette il loro ritorno a casa, ben forniti dimezzi e quindi riscattati dalla miseria in cui si trovavano al momento della

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cattura. I protagonisti cristiani di altre novelle quattro-cinquecentesche, perquanto onorati dai notabili del luogo, spesso dallo stesso reggente, per leloro capacità professionali, artistiche o virtù morali, solo temporaneamenteapprofittano dei vantaggi che la terra straniera offre loro: tutti rientrano inseno alla Cristianità, sovraccarichi di doni a dimostrazione dell’alta conside-razione in cui sono stati tenuti.31 Anche la III, 50 è fedele quindi a un cano-vaccio narrativo d’ambientazione musulmana in cui sulle differenze religio-se prevalgono il rispetto e la benevolenza reciproci. Tuttavia, nel finalecelebrativo, in cui l’antagonista dimostra con atti concreti la sua ammirazio-ne per la straordinarietà di Petriello (“e tanto si meravigliò de la vertù eamore coniugale del buon Petriello, che, poi che con onorate parole l’ebbecommendato, quello con la moglie fece liberi”, ivi), Tanzio, il narratore,inserisce contemporaneamente i gesti munifici del re di Tunisi entro coordi-nate di lotta religiosa (“quantunque fosse nemico de la nostra legge”, ivi)e confronto culturale: “a le volte tra gente barbara si trovano uomini che lavertù ammirano e amano, come tra noi sono assai spesso chi la vituperanoe biasimano” (501). Il regnante e i corsari che come lui hanno dato provadi un animo sensibile vengono sì celebrati, ma allo stesso tempo sono con-gedati con l’ormai abituale, ma sempre denigratorio, riferimento alla lorobarbarie. In questo modo l’osservazione sul possibile gradimento o disprez-zo della virtù, da parte di entrambi i gruppi individuati, è da interpretarsicome recriminazione nei confronti di un “noi” lasciatosi sopravanzare dalsuo altro nella stima di doti morali eccellenti, come dimostrano le espressio-ni “assai spesso” e “a le volte”. La meraviglia con cui Tanzio ammicca aisuoi ascoltatori, quando comunica l’ammirazione del sovrano di Tunisi perPetriello, testimonia il pregiudizio dell’inferiorità morale a cui l’avversarioreligioso continuava a essere sottoposto nella considerazione cristiana,anche quando l’atteggiamento del singolo ne sfatava la fondatezza.

Lo scontro religioso-culturale tra cristiani e musulmani assume nellanovellistica italiana, a partire dal Quattrocento, un ruolo rilevante: innanzi-tutto come criterio di giudizio, che obbliga i protagonisti delle novelle aconfrontarvisi, quando si prospetta la possibilità o necessità di rapportarsiall’infedele, e conseguentemente in quanto impedimento ad un approccioegalitario all’altro, attestato dalla I, 58 e III, 50 di Bandello. Le raccolte diMasuccio Salernitano (Novellino, pubblicato nel 1476) e di Agnolo Firenzu-ola (Ragionamenti, usciti nel 1548) offrono ulteriori esempi di questa preva-lente casistica relativa alle manifestazioni dell’antagonismo religioso nellaquotidianità tratteggiata nella narrativa breve premoderna. In Firenzuola (I,1) e Salernitano (XLVIII), la diversità di credo viene dibattuta in terminicompetitivi dagli stessi personaggi o richiamata dall’autore (Salernitano,

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XLVI), quando il dialogo sorprendentemente si instaura nonostante l’av-versione tra i due schieramenti: “pur mirabile fu la soa [della madre delcondottiero musulmano] fede nel pigliare tanta securitae nelle virtì de unoRe cristiano, de lei e della sue legge nimico e debellatore” (529). In entram-bi questi autori (Salernitano, XXII e Firenzuola, I, 1) l’affiliazione religiosadell’altro diventa inoltre veicolo di contaminazione attraverso relazioniamorose, che pertanto vengono condannate.

Le novelle musulmane di Giraldi Cinzio aggiungono a queste reazioniall’alterità di fede il trattamento apertamente dispregiativo. L’atteggiamentonon domina incontrastato nella II, 6 e la VIII, 6, che infatti si aprono all’in-segna dell’intesa reciproca, riconducibile non soltanto all’acquiescenzadello schiavo, adottata per rimediare allo svantaggio della subordinazione.In entrambi i testi il prigioniero cristiano viene sottratto all’umiliante edestenuante vita del remo, perché le sue doti fisiche e morali, il suo porta-mento nobile e, nel caso del protagonista della II, 6, Fineo, anche il valoremilitare, lo mettono in evidenza rispetto alla massa degli altri captivi. Neconsegue che i rispettivi padroni non possono non trattenerli vicini a sé,impiegandoli per il loro servizio personale, come accadeva già a Petriellonella III, 50 di Bandello, e assegnando loro ruoli di grande responsabilitàall’interno della corte: guardia all’harem del re di Tunisi in II, 6, senza cheFineo sia un eunuco, e addetto al servizio personale della prima moglie delsultano turco Selim I, per quanto riguarda Lamprino, “un bellissimo giova-ne, nato in Corfù … di bellissima presenza, e di molte virtù ornato” (GiraldiCinzio 356). Il controriformista Giraldi Cinzio, che attraverso l’iscrizionelatina premessa a Gli Ecatommiti dichiarava il suo impegno a rendere onoreall’autorità papale e difendere la dignità della Chiesa di Roma, oltre a com-battere il vizio, non poteva lasciare tra gli infedeli due eroi cristiani, nono-stante le opportunità di affermazione professionale e sociale che si presenta-no loro, anzi proprio a causa di esse.32 Allo scopo di ricondurre i protagoni-sti in terra cristiana, la relazione padrone-schiavo viene turbata dalla fugain VIII, 6 e dal tentativo in II, 6, che, se non coronato da successo, preludecomunque all’abbandono definitivo della società musulmana nel lieto finedella novella. È al momento in cui i piani di evasione vengono elaborati chel’acredine religiosa dei narratori di Giraldi Cinzio interviene a colpire senzariguardo l’altro, in particolare senza alcuna considerazione dei vincoli insta-uratisi. Nella II, 6 la fuga viene giustificata anche da altri fattori, il recuperodella libertà e la paura della contaminazione sessuale, a cui è esposta lacristiana Fiamma, l’amata di Fineo, prigioniera nell’harem del sultano diTunisi: la diversità religiosa di quest’ultimo acuisce la gravità dell’im-minente rapporto carnale. Messa al corrente dei piani escogitati da Fineo,

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Fiamma “ringraziò Iddio, che per sua pietà le mostrasse la via di non rima-nersi serva, e disonestamente femmina d’infedel re” (131). Dopo questoindiretto richiamo all’ostilità religiosa, la narratrice, Lucrezia, attiral’attenzione della compagnia in ascolto su un aspetto tradizionale dell’im-magine del musulmano, la spietata pravità, che nel caso del reggente diTunisi giunge ad abbattersi anche su coloro che godono del suo favore:“con tanto loro [di Fineo e Fiamma] dispiacere, quanto si può immaginareognuno che sappia la crudeltà delle genti di quel paese” (ivi).33A differenzadi un altro stereotipo, la brama sessuale, attribuita in questa novella esclusi-vamente al singolo individuo, nuovamente il sultano, la ferinità coinvolgeadesso l’intera comunità. Alla notizia dell’evasione dei due cristiani, a cuisi è unito il fratello di Fineo, giunto a Tunisi per aiutarli nell’impresa, ilsovrano concepisce esclusivamente punizioni violente e macabre, per ripa-gare l’affronto subito, precludendo in questo modo ogni via alla pietà, cheil recente passato condiviso con Fineo avrebbe giustificato: “volea fareardere tutti e tre vivi, o non gli potendo aver vivi, gli uccidessero e gli por-tassero le loro teste, che le voleva far porre su la cuba ad esempio deglialtri” (131).34

L’improvvisa rappresentazione così negativa dell’altro si scopre fun-zionale, attraverso la sottomissione finale del re di Tunisi alla volontà divi-na, all’esaltazione del dio cristiano, efficace negli interventi terreni a diffe-renza di quello, o quelli musulmani.35 Riacciuffati i fuggitivi, che sono statirespinti da una tempesta nel porto di partenza, il racconto delle peripezieche Fineo e Fiamma hanno dovuto affrontare, per coronare il loro amore,rende il padrone disponibile ad aiutarli contro il crudele destino, in accordocon il piano di Dio: “Poscia che Iddio vi ha, dopo tanti strani avvenimenti,mandati salvi nelle mie mani, non voglio già essere io quegli, che spengacosì ardente amore, o che sciolga il legame de’ cuori vostri” (ivi). Nellaraccolta giraldiana la divinità cristiana compare principalmente come di-spensatrice di giustizia, riequilibrando i torti subiti iniquamente a causadelle circostanze esterne o per la malvagità degli antagonisti, che alla lunganon possono impedire quanto preordinato da Dio. Nell’epilogo della II, 3,in cui Ligonio, figlio del re di Tunisi, riesce a muovere a pietà il sicarioincaricato dalla matrigna di ucciderlo, leggiamo: “E così la divina bontà, perchiaro segno, mostrò che né la incostanza della fortuna, né la malvagitàdella scelerata donna, poterono impedire quel fine al quale Ligonio era statoprodotto” (119), a cui possono essere aggiunti altri esempi, come in V, 10,VIII, 3 e 4. Il trionfo della divinità cristiana si desume dalla lettura dellanovella di Fineo e Fiamma sullo sfondo dell’antagonismo tra monoteismoe politeismo, quest’ultimo attribuito polemicamente ancora nel XVI secolo

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alla religione musulmana di cui offre testimonianza la protagonista della II,3, Altile, sorella del re di Damasco.36 Di fronte alla fuga dello sposo, Ligo-nio, la donna interpreta il suicidio come l’unica via rimastale, perché corri-spondente, secondo lei, alla volontà degli “Iddii immortali” (117).37 A essirivolge poi insistite preghiere in favore del marito, una volta chiarito ilmotivo del gesto di quest’ultimo e appresa la notizia della sua condanna amorte: “Altile tra questo tempo, non lasciò Dei né Dee nelle sue parti, cuinon porgesse e preghi e voti” (ivi).38 L’inutilità di interpellare tali divinitàdiventa manifesta nell’accostamento alla frase citata, con cui la narrazionesi avvia verso il lieto fine, dell’intervento di quello stesso “Iddio” che nelleparole di Aulo, il narratore, risulta “giusto riguardatore della innocenzaaltrui, e giusto punitore delle cose malvagie” (ivi).39 Alla volontà di questodio soggiace il re di Tunisi nella fase conclusiva della II, 6. A questo puntodella novella di Fiamma e Fineo si ristabiliscono legami di amicizia, basatisul rispetto del reggente per il loro sentimento e la gratitudine del giovaneper il signore, che non soltanto fa celebrare le nozze tra i due amanti, ma lirimanda a Savona accompagnati da alcuni nobili e ricolmi di doni preziosi.

Il trionfo della religione cristiana, alla cui divinità si piegano anchebrutali sovrani musulmani, viene replicato nella VIII, 6. Ambientata allacorte di Selim I, imperatore turco dal 1512 al 1520, la novella affronta iltema dell’ingratitudine, a cui è dedicata l’ottava giornata e verso cui GiraldiCinzio, per motivi personali, era molto sensibile.40 A distinguere questanovella dalle tre già analizzate interviene la conversione all’Islam delloschiavo cristiano, Lamprino, che cede alle minacce di morte del sultano.41

Il confronto interreligioso parrebbe superato quindi sin dall’esordio narrati-vo. In realtà, la perseveranza nella fede in cui Lamprino è nato e che nontradisce, nascondendola dietro il rispetto soltanto esteriore della ritualitàmusulmana, permette al novelliere di mantenere vivo il contrasto religioso.A questo fine sia lo schiavo che la narratrice esprimono giudizi derogatorisull’Islam, a cui si accompagnano più avanti nella narrazione quelli,religioso-politici, pronunciati dal cortigiano musulmano Zelimo contro icristiani. A proposito della moglie favorita di Selim, Tamulia, che scopria-mo essere la sorella di Lamprino, rapita dai corsari un anno prima di lui, lanarratrice ci informa che “l’aveva egli [il sultano] ridotta all’idolatria diMaometto” (357), la cui religione viene definita più volte, anche dal prota-gonista cristiano, “falsa”, oltre che “superstizione maomettana” (358). Dicontro, la religione cristiana è quella “la quale dà salute certissima a chiun-que con buon cuore la serva, ad onore del Redentore dell’umana generazio-ne” (359). Nonostante quest’atmosfera polemica, a livello tanto diegeticoquanto extradiegetico, Lamprino si comporta da cortigiano modello la cui

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volontà riflette quella del signore, che dal suo canto non perde occasioneper compiacere colui che in breve tempo è diventato il suo prediletto, susci-tando le invidie dei servitori locali.42 Ma l’atteggiamento benevolo delloschiavo va ben oltre l’obbedienza dovuta al sultano. Per non diminuire lastatura morale del personaggio, Giraldi Cinzio lo descrive prono a correrein aiuto del prossimo per la sua innata bontà: “di natura benigno era e gliparea di avere perduto quel giorno, nel quale egli non avea fatto piacere adalcuno” (356). Continua in questo modo la celebrazione del protagonista e,attraverso il suo nicodemismo, quella del dio cristiano, che interviene aricompensare la costanza dell’eroe fedele, ristabilendo l’equilibrio stravoltoogni qualvolta gli atti del buono siano ripagati ingiustamente. Questo siverifica nella VIII, 6 a causa della gelosia di Zelimo, cortigiano caduto indisgrazia che non sopporta il favore di cui gode Lamprino presso Selim.L’irriconoscente ex-prediletto, riammesso al servizio personale del sultanograzie al generoso intervento del collega, si esibisce in un monologo, in cuicerca di screditare il cristiano agli occhi del signore. Si concentra, dopo unfugace accenno alla condizione di straniero di Lamprino, esclusivamentesulla sua diversa origine religiosa e l’inimicizia che inevitabilmente nederiva: “uomo di strana nazione, e di religione contraria alla nostra … nonci hanno i cristiani meno per nemici, che noi per nimici abbiamo loro” (ivi).Zelimo prosegue prospettando, addirittura, conseguenze apocalittiche perl’Islam nel caso il sultano non prenda provvedimenti per fermare l’apparen-te relazione tra Tamulia e Lamprino, su cui il cortigiano lo sta mettendo alcorrente: “e potrebbono nascere figliuoli di ambi, che … portando con essoloro dal padre e dalla madre il seme della religion cristiana, farebbono anda-re in nulla la fede e la religion nostra” (ivi). Il silenzio sull’avvenuta conver-sione dei due cristiani sia da parte di Zelimo che di Selim, malgrado all’ini-zio della novella quest’ultimo avesse prospettato la morte all’avvenente egentile captivo in alternativa all’apostasia, lacera il tessuto narrativo.L’immediata reazione del signore al monologo (“Selino, che Tamulia ama-va quanto l’anima sua, rimase alle parole di Zelimo pieno di molto sospet-to”, ivi), riduttivamente indotta soltanto dal pericolo di perdere la moglie alui più cara per mano di un servitore ritenuto fedele, conferma la difficoltàdi giustificare, narrativamente, la componente anticristiana dell’invettiva.Possiamo vedere in questa stonatura il sopravvento delle posizioni ideologi-che dello scrittore, paladino della Chiesa controriformata, nelle cui novelleil fine didascalico viene perseguito sottomettendovi a volte la consequenzia-lità narrativa: “il testo giraldiano si caratterizza per una precisa strategiaretorica che subordina, organicamente e spesso armoniosamente [ma nonsempre], l’istanza narrativa alla persuasione e all’argomentazione relative

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ad una visione del mondo e ai valori etici che la fondano” (Patrizi 889).43

Se lo scontro tra fedi viene momentaneamente escluso dal piano affabulato-rio, sostituito dall’amore in quanto motivazione delle azioni del sultano,l’esito del piano omicida ai danni di Lamprino, concertato da Selim suistigazione di Zelimo, ve lo riammette. La conclusione della truffa, che siritorce contro quest’ultimo, a dimostrazione dell’infondatezza delle sueaccuse contro l’eroe, induce il sultano a lodare Dio, in quanto dispensatoredi giustizia,44 in contrapposizione alla divinità falsa a cui si rivolge inutil-mente il suo correligionario, attaccato dagli stessi leoni che avrebbero dovu-to eliminare Lamprino: “Zelimo, veduto il pericolo nel quale egli era, co-minciò a chiamare il suo falso Iddio, che gli desse aiuto” (Giraldi Cinzio359). Come in II, 6, anche qui l’esaltazione dell’effettivo potere del diocristiano è all’origine della riduzione del reggente musulmano a veicolo perrealizzare, nel concreto, l’equa distribuzione di pene e meriti. Selim ripagala fedeltà del protagonista, che mai aveva vacillato, offrendogli ricchissimidoni.

La conclusione della novella rappresenta il banco di prova delle nume-rose realtà, una per ogni personaggio, accalcatesi nel testo. Alcune vengonoconfermate, quelle coincidenti con la validità e quindi superiorità dellareligione cristiana, difesa dall’autore attraverso Lamprino, Tamalia e lanarratrice. Al contrario, la realtà sostenuta da Zelimo (e della cui validitàcerca di convincere Selim) viene confutata e umiliata nella sconfitta rappre-sentata dalla sua morte, a cui segue la capitolazione del sultano di fronte aldio cristiano, epilogo che accomuna questa narrazione a quella in II, 6.Nelle novelle giraldiane il personaggio promuove di fronte agli altriun’alternativa alla realtà oggettiva, per la sua mera sopravvivenza o perraggiungere obiettivi meno drammatici, tanto nel bene quanto nel male.45

Lamprino pratica pubblicamente la religione musulmana, innanzitutto persalvarsi la vita, ma anche per potere continuare a professarsi cristiano alme-no privatamente. La sorella, Tamulia, impegnata a mascherare la strettaparentela che li unisce, nell’epilogo della novella si dichiara intenzionata araggiungere il fratello nella loro patria cristiana (Corfù) e una volta quientra in convento. Sull’altro fronte religioso, per riappropriarsi in modoesclusivo del favore del sultano, Zelimo inganna Lamprino, spingendolo aintercedere per lui, e lo stesso Selim, al quale dipinge l’illusoria realtà dellarelazione tra lo schiavo e la favorita.46 Anche nella II, 6, dove il re di Tunisistima e si fida di Fineo senza il contributo della conversione, i protagonisticristiani vivono una doppia vita, quella di amanti desiderosi di tornare liberiin patria e quella che proiettano per il beneplacito del signore, a cui nascon-dono il loro amore, come già avevano fatto quando si erano ritrovati prigio-

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nieri sulla stessa nave corsara. Il tradimento interviene in quest’incontrointerreligioso senza mai essere etichettato in quanto tale, visto che l’eroe el’amata illudono per tornare a casa. A questo scopo si coalizzano controcolui che resta un padrone musulmano, per quanto pronto a ricompensarliper i loro meriti e qualità. Per quanto riguarda Fineo, l’apprezzamento siconcretizza nell’opportunità di avanzamento professionale alla corte e dun-que di ascesa sociale: “ Fineo, che i mercatanti conobbe, per l’autorità cheteneva nella corte del re, gli accolse amichevolmente, e fe loro molto onore”(131). La volontà di tornare libero tra cristiani, malgrado simili prospettive,caratterizza anche l’esperienza di Lamprino. I due giovani non si lascianosedurre a lungo dalla loro nuova vita di privilegi e appena se ne crea l’occa-sione abbandonano la terra degli infedeli: Fineo grazie all’intervento dellaFortuna che fa giungere al porto di Tunisi alcuni mercanti savonesi e nelcaso di Lamprino la scoperta della malafede di Selim, pronto a uccidere ilservitore. Soprattutto nella novella di cui questi due ultimi sono protagoni-sti, volgere le spalle a una vita comoda alla corte di un re, pronto a ricom-pensare per il suo errore di giudizio prova ulteriormente, nell’eco-nomianarrativa del racconto, il valore assoluto della religione cristiana, il cuiadepto non vacilla nemmeno di fronte alle condizioni di vita più agiate.47

L’adepto in questo caso è apparentemente un rinnegato, uno dei trecentomi-la cristiani che passarono all’Islam fra il ‘500 e il ‘600, in numero ben piùalto dei passaggi in direzione opposta (Scaraffia 4). Non si trattava esclusi-vamente di schiavi, che abiuravano soprattutto per migliorare le loro condi-zioni di vita, ma anche di molti europei che volontariamente si trasferivanoin Barberia o nell’impero ottomano, attratti dalle opportunità che la societàmusulmana offriva, innanzitutto “la possibilità di ascendere nella scalasociale … di assurgere alle più alte cariche del potere … Il mondodell’Islam, vicino all’Europa nella geografia, sentito come estraneo e ostile,esercitava, quindi, un’attrazione estremamente forte sui cristiani, tanto piùse ridotti a schiavi” (Bennassar vii).48 Ma niente di tutto questo ha alcuneffetto sull’eroe della VIII, 6, la cui conversione non viene mai addotta a unatto di libera scelta, ma alla “tenera età, e per la poca esperienza, e per lapaura della morte … conoscendosi essere nelle mani di crudelissimo uomo,si risolse di fingere di adorar Maometto, e di mostrare di negare il Salvatorecolla voce e con gli atti esteriori, ma non meno adorarlo col cuore, che sifacesse prima” (Giraldi Cinzio 356). Nella sua richiesta di aiuto a Dio,suscitata dal timore che l’ordine di recarsi dal guardiano dei leoni sia unatrappola,49 Lamprino ammette di essere stato fragile, ma allo stesso tempodà rilievo alla sua fedeltà interiore: malgrado le difficili circostanze, ilrispetto delle pratiche musulmane a lui imposto, non ha mai smesso di

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adorare Dio, anche se soltanto nel segreto del cuore. La preghiera, che vieneesaudita, termina significativamente con la richiesta di rivelargli il modo perfuggire e tornare a praticare la sua religione alla luce del sole.50

Il ritorno in seno alla Cristianità, che la capacità di sdoppiamentorendeva possibile anche in caso di abiura per libera scelta, perché ilrinnegato poteva sempre addurre un’adesione esclusivamente esterna allanuova fede, accomuna l’esito delle avventure vissute dai protagonisti delledue novelle bandelliane e di quelle giraldiane. Si tratta di una conclusioneindotta dall’atteggiamento di discriminazione polemica tra l’identitàmusulmana e quella cristiana. Il mantenimento delle distinzioni di caratteretra i due campi religiosi, soprattutto nelle novelle di Bandello, oltreall’irriverenza nei confronti della religione e cultura islamiche, di cuiprotagonisti e narratori giraldiani si fanno portavoce, trova la sua ragiond’essere nel contesto storico relativo agli anni in cui i due novellieriredigevano le loro raccolte, quelli cioè precedenti la battaglia di Lepanto(1571). L’Europa era accerchiata dal nemico turco, al quale dai primi annidel Cinquecento prestavano le proprie forze i corsari barbareschi anche conla schiavitù di migliaia di cristiani. Lo storico francese Heers parla dellapaura diffusa, soprattutto nell’Italia meridionale e nelle isole delMediterraneo occidentale, di una imminente invasione, di vederetrasformate “le chiese in moschee” e di essere obbligati a “convertirsi opagare un tributo” (131). Di fronte all’incombente conquista dell’Europa,vista l’inarrestabilità dell’avanzata turca, malgrado la breve battuta d’arrestosotto le mura di Vienna (1529), Bandello e Giraldi Cinzio tradisconopreoccupazioni simili e le affrontano richiamando la consolatoria visionedi una supremazia religioso-culturale cristiana, più potente di qualunqueprospettiva allettante di realizzazione professionale e sociale, quali quelleche sperimentano Filippo Lippi, Petriello, Fineo e Lamprino. Come era giàsuccesso nel Quattrocento, quando la maggior parte degli umanisti si eraimpegnata a connotare i turchi, prima, i musulmani in generale poi, comebarbari, anche adesso “It comforted … to feel that even as Europeans werelosing ground to the Turks they were somehow better than their foes andwould certainly rise again” (Bisaha 78). Un sentimento di riscossa siimpadronì delle popolazioni europee e mediterranee all’indomani dellavittoria di Lepanto, sulla quale la coalizione cristiana non seppecapitalizzare né militarmente né politicamente, ma che tuttavia rappresentò,come ha sostenuto Bono e prima di lui Braudel, “the end of a genuineinferiority complex on the part of Christendom and a no less real Turkishsupremacy” (Braudel 1103).51 Prima di questa svolta, anche le occasioni didialogo venivano sfruttate al fine di riaffermare la preminenza culturale e

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religiosa cristiana e affrontare in questo modo un nemico che, come inumerosi passaggi all’Islam dimostravano, poteva conquistare le anime ele menti, oltre che le città e le isole.

PAOLO PUCCIThe University of Vermont_____________________

1 “Not only does enslavement turn out to have been a very real possibility foranyone who traveled or lived in the Mediterranean, but it was also likely to be religionor ethnicity, not race, that determined who would capture and enslave whom” (Davis9).

2 Sino a questo periodo la fonte di approvvigionamento degli schiavi da partedelle comunità mediterranee era stata principalmente il commercio; pochi quellirequisiti durante scorribande piratesche. Il contigente più numeroso nei paesimusulmani era rappresentato dagli schiavi neri provenienti dal Sahara e dall’Africaorientale (Nubia); dalla costa nordafricana venivano esportati anche verso l’Europa.Qui furono famosi per tutto il Medioevo anche quelli slavi, in particolare le donneprovenienti dalle coste del Mar Nero e del Mar Caspio. Si vedano Bono, Un altroMediterraneo 85-87 e Balard 187.

3 Davis valuta il numero degli schiavi condotti nei territori sia musulmani checristiani nell’ordine delle migliaia: “Clashes on land or at sea between the Turks andtheir allies or surrogates and the Christian forces of Spain, Italy, and Portugalregularly brought thousands of captives to the slave markets of Fez, Algiers,Constantinople, Malta, Livorno, Lisbon, and Marseilles” (28). Per la problematicadistinzione concettuale tra pirateria e guerra di corsa, in particolare tra i loroprotagonisti, si veda più avanti pagina 4.

4 La vittoria della propria religione, a cui il nemico era passato, veniva resapubblica, specialmente se spontanea e da parte di nobili ed ecclesiastici, con unacerimonia per le strade della città, a confermare nella fede il popolo e a incoraggiarloa continuare la jihad contro l’infedele: “Quanto più di rango è il personaggio che siconverte, tanto più la conversione rappresenta un fatto politico … quella «buona» [ilcambiamento di fede spontaneo] versione spontanea] è dunque mostrata, esibita,messa in scena come lo spettacolo di celebrazione di una vittoria … deve proromperela verità di una religione superiore e la prova della sua universalità attraverso l’esamedel passaggio riuscito del neofita” (Touati, in Fiume 79). Negli stessi termini siesprime Bono (Conversioni di musulmani al cristianesimo 441) a proposito delleabiure degli schiavi musulmani in Italia.

5 Oltre a Bono (Un altro Mediterraneo ), Guarracino e Abulafia, citati in questostudio, si vedano la raccolta di saggi Rethinking the Mediterranean, e lo studio diHorden e Purcell.

6 Si vedano Bono, Un altro Mediterraneo 258 e Abulafia 26. 7 Cfr. Guarracino: “Non c’è visione così idealizzata dello spirito mediterraneo

che dimentichi di considerare come suo elemento costitutivo anche il rifiuto, ilconflitto, la guerra (compresa quella di religione): a patto, però, che ciò non renda deltutto impossibile lo scambio, ma al contrario vi sia strettamente intrecciato” (161).

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8 L’atteggiamento ufficiale della Chiesa del tempo nei confronti del più giovanemonoteismo partiva dal presupposto che solo la propria religione era quella giusta, inessa soltanto si era inverato perfettamente il messaggio di Dio agli uomini. L’Islamappariva allora come la negazione della perfezione raggiunta. Si veda Gäde in Fiume(xii-xiii) per quanto riguarda le diverse tipologie di approccio alle altre religioni,dall’esclusivismo, di cui sopra, all’interiorismo, che restituisce valore a tutti i credireligiosi.

9 “is the hierarchical nature of such relations, the inability of oppositional termsto remain neutral, their tendency to condense into binaries to enable the very powerrelations which condition them … By what right, or on what authority, does this “we”define the foreign? The assumption of that authority is itself a hierarchizing gesture;the very act of distinguishing places one on an upper tier in which the “us” is not onlydistinct from the foreign, but the bearer of authority, of the right to speak, of theability to produce the distinction” (Saunders 4).

10 All’indomani della disfatta di Costantinopoli erano stati i turchi ad essere cosìraffigurati, ma ben presto la barbarie venne imputata anche al resto dei musulmani. Sivedano qui pp. 5-6.

11 “conosciuto come irriducibile nemico dell’Islam: egli aveva difatti ereditatodai Re Cattolici la consegna esplicitamente sancita nel loro testamento, «que noncessen le la conquista de Africa y de pugnar por la fé contra los infieles»” (Cardini229). Tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, gli spagnoli avevano già contribuitoa fare del Mediterraneo occidentale un fronte molto caldo con l’istituzione di presidiin prossimità di alcune località costiere africane: Melilla (1497), Mers-el-Kebir(1505), Orano (1509) e nel 1510, oltre a Bugia e Tripoli, il Peñon de Argel, di frontead Algeri.

12 Si tratta delle tre reggenze barbaresche sviluppatesi nel corso del Cinquecentointorno al fenomeno della guerra corsara e attraverso cui i sultani di Costantinopolicercano di imporre il proprio potere a quest’area del Mediterraneo, anche se verso lafine del secolo i giannizzeri, il corpo militare proveniente dall’impero ottomano,cominciano a sfidare l’autorità dei pascià, governatori per conto della Porta che linominava direttamente (si vedano Bono, Corsari nel Mediterraneo 22-28 e Bennassar368-373). Molti degli sforzi militari barbareschi e turchi si appunteranno nelCinquecento sul tentativo di riconquistare Tripoli e Tunisi, che subirono la presenza diun presidio spagnolo nelle loro vicinanze rispettivamente fino al 1551 e al 1574. Perquanto riguarda Algeri, già nel 1515 gli abitanti avevano chiamato in loro soccorsoAruj, uno dei fratelli Barbarossa, per liberarsi degli spagnoli acquartierati sul Peñon deArgel e di cui il signore della città aveva dovuto riconoscere l’autorità. I Barbarossaerano corsari con al loro attivo un’intensa attività nel Mare Egeo, a danno soprattuttodei veneziani e i Cavalieri di Rodi. Spostatisi nel 1513 nel Mediterraneo occidentale,si scontrarono nel 1518 con gli spagnoli. Morto in quest’occasione Aruj, Khair-ed-Din, uno degli altri fratelli, assunse il potere della città, ma subito pose la suaconquista sotto il patronato della mezzaluna. È attraverso l’instaurazione di strettirapporti militari e il gesto di Khair-ed-Din, replicato dai successivi capitani corsari,che i regnanti di Costantinopoli riusciranno a intervenire nelle vicende barbaresche.

13 Lenci parla della corsa come del “principale motore della loro [gli statibarbareschi] stessa vita economica” (39).

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14 A proposito dell’immagine dei Cavalieri di Malta e quelli di Santo Stefano, siacoeva che secondo la tradizione storiografica, così si esprime Bono: “li hannopresentati come coraggiosi difensori della cristianità contro i musulmani senza vederela perfetta simmetria del loro operato rispetto a quello dei corsari infedeli” (Corsarinel Mediterraneo 54). Cfr. Lenci: “Nelle reggenze insomma i corsari tenevano apresentarsi anche come eroi dell’Islam impegnati contro gli infedeli e in tal modoerano popolarmente considerati” (44). L’attività corsara dei due ordini non si limitavaallo scontro per motivi religiosi; ne erano vittime anche gli abitanti di isole einsediamenti costieri cristiani. Gli uomini venivano fatti prigionieri allo scopo disfruttarli come rematori. Per quanto riguarda i Cavalieri di Malta, si veda Heers 59-60.

15 Per quanto riguarda Elia, lo schiavo originario di Tripoli nella ventiduesimanovella, possiamo desumere le circostanze della sua riduzione in cattività dalparticolare relativo al passato del suo padrone, Nicolao, gentiluomo trapanese che erastato un noto corsaro. Tuttavia, Masuccio non afferma mai che Elia sia stato acquisitoin una delle scorrerie del cristiano.

16 In Bandello si possono leggere due altre novelle, la I, 14 e la III, 68, di am-bientazione corsara, che riproducono lo stesso schema narrativo, consistente nellatradizionale assegnazione del ruolo di cattivo al corsaro musulmano. Bono lamentacome questa parzialità, dovuta all’imbarazzo di riconoscere il coinvolgimento attivodella civile Europa cristiana in una pratica di questo tipo, sia continuata sino al secoloscorso ed abbia contribuito, dal punto di vista storiografico, a fare della corsa nelMediterraneo un fenomeno a iniziativa esclusiva del mondo musulmano (Schiavimusulmani 1). Grazie a Braudel dal secondo dopoguerra si è imposta un’immagine piùobiettiva dell’esperienza corsara nel Mediterraneo (873-877). Si vedano anche Lenci38 e Ricci 43.

17 Nel 1554 escono le prime tre parti delle novelle di Bandello, la quarta usciràpostuma nel 1573.

18 Così lo storico riassume il diffuso concetto di Europa, elaborato da Pio IIall’indomani della caduta di Costantinopoli. Si veda Soykut 1-3.

19 Il termine “moro” aveva una particolare attinenza alle popolazioni dell’areamagrebina. Bono riporta che “A proposito dei magrebini … vi è l’ampio uso deltermine ‘mori’ per indicare genericamente i musulmani (similmente a quanto avvieneper il termine ‘turchi’); ciò accade, specialmente nell’ambito iberico, ed anche al difuori … mori sono i musulmani, in contrapposizione ai cristiani” (Schiavi musulmani37).

20 “E se dopo lo Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato né dove ilmondo abbia ritenuto la sua virtù insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di moltenazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’Turchi, quel del Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracinache fece tante gran cose ed occupò tanto mondo” (Machiavelli 242-243). Nelle operedi altri storici come Andrea Cambini e Paolo Giovio si rinvengono lodi per l’ordineregnante nella società turca, soprattutto in ambito militare.

21 I protestanti apostrofavano la Chiesa di Roma con epiteti del tipo “‘secondTurk’, the Antichrist, or the Eastern ‘whore of Babylon’” (Vitkus 212-213). I cattolicinon erano da meno e l’emergenza di combattere l’eresia tedesca veniva incalzataparagonandola a quella musulmana.

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22 “la polemica tra cattolici e riformati si risolse molto sovente in una gara trachi, per meglio colpire l’avversario, copriva di maggiori lodi l’infedele” (Cardini 224).Si veda anche Scaraffia 32.

23 Bisaha (180-181) porta l’esempio di Postel (La repubblica dei Turchi, 1560) eBusbecq (Lettere turche, 1578), in missione diplomatica a Costantinopoli dal 1535 al1549 per conto di Francesco I e in rappresentanza dell’imperatore Ferdinando dal1554 al 1562, rispettivamente. In entrambi la dimestichezza con la società turcadoveva servire a rendere più familiare il nemico per colpirlo meglio. Per quantoriguarda Postel (Il libro della concordia, 1553), la conoscenza della società turca eradettata dalla convinzione che Cristianesimo e Islam potevano essere riconciliati, anchese persisteva in lui un atteggiamento denigratorio nei confronti del credo musulmano,in particolare del Corano (Hentsch 65).

24 “ma io assai più di lui mi meraviglio e de la sua – sia mo questo con riverenzadel suo rosso cappello detto – ignoranza, dimostrando egli di poco esser essercitato nela lezione dei buoni autori” (Bandello, I, 647).

25 La meraviglia in Bandello non viene mai spinta a superare i limiti delverosimile, ma come dimostra la precisa, seppur breve, descrizione dell’ambientecorsaro barbaresco in cui l’episodio narrato è collocato, essa si situa sempre al centrodi realistiche circostanze, perché parte integrante della realtà: “le istorie che egli[Bandello] intende raccontare, devono essere vere e mirabili, entro una sorta di conod’ombra, rappresentato dalla verosimiglianza” (Menetti 95). Elevata dal novelliere diCastelnuovo Scrivia a criterio di scelta della materia narrativa, la sorpresa soddisfal’esigenza pedagogica del genere novella, attraverso il caso insolito, ma possibile, cheassicura così l’attenzione degli ascoltatori e lettori: “mi son messo a scriver tutti quegliaccidenti e casi che mi paiono degni di memoria e dai quali si può cavar utile opiacere” (Bandello, I, 1018). Nel caso del nostro il momento educativo per eccellenzasi realizza nella presa di coscienza della legge della Fortuna, di fronte alla cuimutevolezza devono essere accettate come possibili anche situazioni inaspettate, comequella presentata nella I, 58.

26 Sul tema si rimanda a Daniel (228-231). L’amore di Maometto II per l’arte,presso la cui corte si intrattenne per due anni Gentile Bellini, che lo ritrasse, non vennecondiviso dal successore al trono, Bayezid II, che “had all the many paintings in hisfather’s palace sold cheaply in the Instanbul bazaar” (Babinger 379). Negli stessi anni,1479-1480, un altro pittore italiano, Costanzo da Ferrara, era attivo alla corte diMaometto II. Di lui Ricci afferma: “maestro Costanzo aveva dato altro alimentoall’empia passione del sultano musulmano per la figurazione del corpo umano”(31).

27 “il prigioniero cristiano fu considerato non soltanto come un lavoratore dasfruttare al massimo, ma anche e soprattutto come un investimento da cui trarre unelevato profitto monetario … poteva … divenire fornitore di beni e servizi, oppureessere commercializzato e venduto sul mercato interno o su quello internazionale (inquest’ultima evenienza si trattava di restituirlo alla propria terra mediante un’opera-zione di riscatto) … Nel primo caso il prigioniero, soprattutto se era giovane efisicamente prestante, ben difficilmente poteva sottrarsi alla dura fatica del remo”(Lenci 123-124).

28 Si veda qui la nota 19 per le implicazioni del termine “moro”. 29 “a dozen corsairs in a tartan or felucca against a handful of poor fishermen

caught too far out at sea or a couple of village women snapped up while working in

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the fields” (Davis 7). Molto spesso i corsari indugiavano al largo del tratto di costasaccheggiato, per offrire immediatamente i prigionieri in riscatto, così da potermonettizzare su numerosi altri prima del rientro in porto, oppure, quando si trattava dipoveri diavoli, come in questa novella, “per vedere se altri prender potevano”(Bandello, II, 499). Per le dinamiche della corsa si vedano Lenci 37-61 e Fiume 7-24.

30 Sulla posizione di Bandello verso l’amore coniugale, come scudo al disordineche inevitabilmente la passione innesta, travolgendo la ragione e l’ordine sociale, siveda Perocco 119-121.

31 Si vedano in Salernitano la XLVIII e in Bandello anche la III, 67. Già la tramadelle novelle II, 9; V, 2 e X, 9 del Decameron si sviluppa in questi stessi terminiintorno al tema dell’incontro interreligioso.

32 “His in Hecatommithis meis, quibus vitia damnare, vitae ac moribusconsulere, sacrisanctae pontificiae auctoritati, ac romanae ecclesiae dignitati honoremhabere studui” (frontespizio). La Monica ha interpretato l’impegno politico-religiosodi Giraldi Cinzio all’interno dell’ambiente ferrarese all’indomani del matrimonio traErcole II (1508-1559) e Renata di Francia (1510-1574): “Giraldi … aristotelicoesponente di quel circolo rigidamente ortodosso raccolto intorno al duca Ercole IId’Este che, quando mutate circostanze politico-religiose lo richiesero, svolse lafunzione di controbilanciare l’altro, filo-calvinista, a volte pericolosamente inevidenza, riunito dalla duchessa Renata di Francia” (72). Patrizi ci ricorda che “laraccolta giraldiana si offre, fin nella dedica, come strumento di difesa e testimonianzadella vera fede” (890, corsivo mio).

33 Wheatcroft riassume le caratteristiche tradizionalmente attribuite ai turchi:“The atavistic preoccupation of the West with the Ottomans falls under three broadheadings: lust, cruelty, filth” (212). All’origine religiosa di questi stereotipi hadedicato alcune pagine Daniel: “In general, sexual licentiousness, whether withwomen or extended to various unnatural forms of indulgence, was associated withIslam … Muhammed had regarded continence as the inexpiable sin, according to aview taken as authoritative because it derived from Christians resident in the East”(168-169).

34 L’insistenza sull’orrido come componente denigratoria dell’immagine dell’al-tro si inserisce nel quadro più ampio dell’intento didascalico attribuito da GiraldiCinzio alle sue novelle. Nello stesso modo in cui Bandello ricorre al verosimile (cheinclude anche molte scene dai dettagli raccapriccianti, come in I, 42, II, 13, III, 52),per assicurarsi l’interesse dei suoi lettori, lo scrittore ferrarese si affida al macabro:“giacché sangue e uccisioni costituiscono ingredienti indispensabili delle novelleedificanti, per ribadirne ‘scenograficamente’ l’efficacia didascalica. L’uso e abuso dielementi macabri e truculenti, ma anche morbidi e patetici … derivano negliEcatommiti dalla volontà sempre vigile di mantenere desta l’attenzione e la tensionedel lettore-interlocutore lungo l’itinerario esistenziale tracciato dal Giraldi” (Pieri 62).

35 Come ribadito più avanti in questo studio, rientrava nella polemica anti-islamica l’accusa di paganesimo, che si era concretizzata sin dai tempi delle primechansons de geste nell’individuazione di un pantheon, di cui facevano parteMaometto, innanzitutto, ma anche Giove, oltre ad Apollino. Ancora nel XV secolo,Pulci nel suo Morgante fa dire a Rinaldo giunto alla presenza di re Corbante: “perchépur Macometto qua adorate/siete perduti” (IV, 95, 6-7) e all’inizio dell’ottava 97:

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“Lascia Apollino e gli altri vani iddei”. Si vedano, oltre a Daniel 338-343, anche Cruz56 e Allaire 176.

36 Per la tenacia della convinzione cristiana, in epoca premoderna, relativa alpaganesimo musulmano si veda Vitkus 216-217.

37 Dopo che il servitore della matrigna lo ha lasciato andare libero, Ligonio vienecatturato da alcuni mercanti e venduto al sultano di Babilonia, che, riconosciuti in luimodi nobili, lo fa educare insieme al figlio. Il giovane protagonista decide di affinarele sue arti cavalleresche alla corte del reggente di Siria. Qui si innamora, ricambiato,di Altile e segretamente la sposa.

38 Ligonio è costretto a fuggire, per evitare la morte a cui viene condannato dalsultano informato delle illecite nozze. Altile interpreta la scomparsa del marito cometradimento e si vuole uccidere, ma desiste dopo che la sorella le spiega il reale motivodella fuga.

39 Il ruolo di paladini della religione cristiana rivestito dai narratori giraldianirisalta in particolare nel proemio e nell’introduzione alla raccolta. Nella prima diqueste due sezioni, al momento che Fabio, il capo della brigata dei novellatori, prendela parola, Dio viene caratterizzato nel suo ruolo di giudice, anche nei confronti deipropri fedeli, che sono responsabili con il loro diffuso peccare del sacco di Roma del1527: “Che sebbene per gli peccati nostri (ch’altrimente pensar non si dee) la giustiziad’Iddio ci ha lasciata venire addosso questa tempesta” (7).

40 Sul tradimento del tradimento dell’ex-studente di Giraldi Cinzio, GiambattistaNicolucci (1503-1575), detto il Pigna, e le conseguenze nefaste per la carriera dicortigiano del novelliere, negli anni cinquanta e sessanta, che questo episodio diinvidia e malafede comportò, si vedano Bertino 13-19 e Piccioni 145-162. Con la VIII,6 il Cinzio apportava il proprio contributo, non soltanto intellettuale, alla questione, alungo discussa dalla cultura del Cinquecento, della corte come luogo “di unasimulazione assunta a regola di vita” (Moretti 35), in cui si fanno strada gli adulatoridel principe, a scapito degli onesti servitori.

41 Nell’impero ottomano, riporta Goffman, “talented Christians as well asMuslims served within the Ottoman military and administrative elites. By the reign ofMehmed II [1451-1481], however, such men seem to have melted into Islamo-Ottoman culture. There were no longer exceptions to the rule that members of thesultan’s household, the religious class, and the administration were Muslim … Outsideof these cadres, however, there were few professions within the empire that imposedsuch religious limitations” (83).

42 Giraldi Cinzio constata la necessaria consuetudine del cortigiano di aderire allavolontà del signore nel Discorso intorno a quello che si conviene a giovane nobile eben creato nel servire un gran Principe. Si veda a questo proposito Moretti: “I Signoridel Discorso esigono che i cortigiani facciano proprio il loro piacere, e si sentanogratificati dall’onore che essi concedono loro” (34).

43 Patrizi riscontra “il senso del novelliere” nella “consapevolezza deglistrumenti retorici ed oratori in atto per la creazione di un discorso evidentemente voltoa finalità extraletterarie, edificanti e, in vario modo, didascaliche” (886).

44 “conchiuse [Selim] che malignamente egli [Zelimo] aveva accusato Lamprino,e che Iddio, dell’essersi mostrato ingrato al suo benefattore, e dell’aver volutoingannar lui, gli aveva dato il guiderdone dicevole … Egli parve che chi regge le cosedivine e le umane, avesse molto ben proveduto” (Giraldi Cinzio 359).

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45 “La parola è anche una zona dove il personaggio cerca di creare una realtà sua,tentando di farla riconoscere e autenticare” (Francillon 71).

46 “Veggendo questi [Zelimo] adunque che Tamulia facea molte demostrazioniamorevoli a Lamprino, e che l’uno all’altra dava alcuni doni, deliberò di voler porre,con questa occasione, tanta gelosia nell’animo di Selin, ch’egli si disponesse a far malcapitare Lamprino” (Giraldi Cinzio 357).

47 “dolse molto a Selino di aver troppo creduto … ed usò ogni possibil diligenza,perch’egli ritornasse al suo servigio” (360).

48 Cfr. Scaraffia: “Nei paesi conquistati dai «turchi», che come popolo nonconoscevano aristocrazie per nascita, c’era la possibilità di arricchire e migliorare ilproprio stato, e quindi erano una meta molto invitante” (4). In alcuni rinnegati lastudiosa ha riconosciuto il “bisogno di riscattare una origine sociale bassa oillegittima, che avrebbe loro impedito, nei paesi cristiani, di occupare i gradi più altidel potere” (165).

49 “ma con animo tutto dubbioso, però che gli parve strano, che essendo eglinella riputazione, che egli era appresso il re, fosse mandato per messo ad uomo di sìvil condizione” (Giraldi Cinzio 358).

50 Scaraffia sottolinea la facilità del cristiano a vivere, se costretto, la fede in unadoppia forma: una semplicemente fatta di rituali, condivisi con la comunità ospitante,ma non ratificati nel loro valore religioso dal soggetto che li compie, e l’altracorrispondente alla sua sincera e privata adesione al credo cristiano. Questapredisposizione deriva dal processo di interiorizzazione a cui è stata sottoposta sindalle origini del Cristianesimo l’identità, non soltanto religiosa, della persona, per cuipiù che l’adesione in sé alle pratiche devozionali conta l’intenzione con cui vi siaderisce: “Per i cristiani la fede è un fatto interiore e individuale più facile daconservare, in circostanze avverse, con una strategia di sdoppiamento edissimulazione” (114). Al contrario i musulmani e gli ebrei non operano questadistinzione, la loro identità religiosa non soltanto si esplica nelle pratiche devozionali,vi si invera. Ne deriva la difficoltà a vivere la propria fede al di fuori della comunitàreligiosa di appartenenza (60).

51 Cfr. Bono, Un altro Mediterraneo 63-64, anche per i motivi che spiegano loscarso impatto di questo scontro sulle sorti strategico-militari del conflitto.

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