La trappola della passione. Esperienze di precarietà dei giovani highly skilled in Italia, Spagna e...

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Early draft of the chapter “La trappola della passione. Esperienze di precarietà dei giovani highly skilled in Italia, Spagna e Regno Unito”, Annalisa Murgia and Barbara Poggio, published in G. Cordella, S.E. Masi (eds.) Condizione giovanile e nuovi rischi sociali. Quali politiche?, Carocci, Roma, 2012: 105-123. 1. Introduzione Gli studi economici e sociologici che negli ultimi decenni si sono focalizzati sull’analisi dello sviluppo dei mercati e delle condizioni di lavoro, hanno messo in evidenza questioni come la crescente globalizzazione dei mercati, l’aumento della competitività tra le imprese e l’esigenza di sempre maggiore flessibilità. Molti di questi contributi, nel considerare le implicazioni di questi cambiamenti sulla forza lavoro, hanno polarizzato l’analisi su due distinti segmenti: uno flessibile, altamente qualificato, con salari elevati, alta mobilità e possibilità di negoziare buone condizioni di lavoro; un altro precario, non qualificato, con salari bassi, ridotta possibilità di mobilità e debole potere di contrattazione. I più recenti cambiamenti degli assetti economici, legati in particolare alla crisi, hanno in realtà contribuito a rendere i mercati sempre più flessibili, ma al contempo sempre meno dinamici, generando una crescente insicurezza per tutti i lavoratori, in particolare per le fasce più giovani, indipendentemente dal loro livello di istruzione e competenze, rendendo pertanto meno diverse le esperienze di accesso e di permanenza nel mercato del lavoro dei giovani più istruiti rispetto agli altri. A partire da queste constatazioni il progetto “Trapped or Flexible? Risk Transitions and Missing Policies for Young Highly Skilled Workers in Europe ”, finanziato dalla Commissione Europea e realizzato nel corso del 2011 1 , ha concentrato l'attenzione proprio sulla precarietà dei giovani con elevati titoli di studio. Nel corso della prima 1 I partner che hanno realizzato il progetto sono: l'IRS - Istituto per la Ricerca Sociale di Milano, il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento, il Centro di Ricerche e Servizi Avanzati per la Formazione “Amitié” di Bologna, l'Institute for Employment Studies di Brighton e il Centro de Estudios Economicos Tomillo S.L. Di Madrid. Il progetto è stato finanziato dalla Commissione Europea, DG Occupazione, Affari Sociali e Pari Opportunità, Dialogo Sociale, Diritti Sociali, Condizioni di Lavoro e Adattamento al cambiamento, attraverso l'azione “Pilot project to encourage conversion of precarious work into work with rights” (VP/2010/016). I risultati complessivi del progetto sono raccolti nel volume a cura di AA.VV. (2012) Precarious Work and Young Highly Skilled Workers in Europe. Risk Transitions and Missing Policies, Angeli, Milano. 1

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Early draft of the chapter “La trappola della passione. Esperienze di precarietà dei

giovani highly skilled in Italia, Spagna e Regno Unito”, Annalisa Murgia and Barbara

Poggio, published in G. Cordella, S.E. Masi (eds.) Condizione giovanile e nuovi rischi

sociali. Quali politiche?, Carocci, Roma, 2012: 105-123.

1. Introduzione

Gli studi economici e sociologici che negli ultimi decenni si sono focalizzati sull’analisi

dello sviluppo dei mercati e delle condizioni di lavoro, hanno messo in evidenza

questioni come la crescente globalizzazione dei mercati, l’aumento della competitività

tra le imprese e l’esigenza di sempre maggiore flessibilità. Molti di questi contributi, nel

considerare le implicazioni di questi cambiamenti sulla forza lavoro, hanno polarizzato

l’analisi su due distinti segmenti: uno flessibile, altamente qualificato, con salari elevati,

alta mobilità e possibilità di negoziare buone condizioni di lavoro; un altro precario, non

qualificato, con salari bassi, ridotta possibilità di mobilità e debole potere di

contrattazione.

I più recenti cambiamenti degli assetti economici, legati in particolare alla crisi, hanno

in realtà contribuito a rendere i mercati sempre più flessibili, ma al contempo sempre

meno dinamici, generando una crescente insicurezza per tutti i lavoratori, in particolare

per le fasce più giovani, indipendentemente dal loro livello di istruzione e competenze,

rendendo pertanto meno diverse le esperienze di accesso e di permanenza nel mercato

del lavoro dei giovani più istruiti rispetto agli altri.

A partire da queste constatazioni il progetto “Trapped or Flexible? Risk Transitions and

Missing Policies for Young Highly Skilled Workers in Europe”, finanziato dalla

Commissione Europea e realizzato nel corso del 20111, ha concentrato l'attenzione

proprio sulla precarietà dei giovani con elevati titoli di studio. Nel corso della prima

1 I partner che hanno realizzato il progetto sono: l'IRS - Istituto per la Ricerca Sociale di Milano, ilDipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento, il Centro di Ricerche eServizi Avanzati per la Formazione “Amitié” di Bologna, l'Institute for Employment Studies di Brighton eil Centro de Estudios Economicos Tomillo S.L. Di Madrid. Il progetto è stato finanziato dallaCommissione Europea, DG Occupazione, Affari Sociali e Pari Opportunità, Dialogo Sociale, DirittiSociali, Condizioni di Lavoro e Adattamento al cambiamento, attraverso l'azione “Pilot project toencourage conversion of precarious work into work with rights” (VP/2010/016). I risultati complessividel progetto sono raccolti nel volume a cura di AA.VV. (2012) Precarious Work and Young Highly SkilledWorkers in Europe. Risk Transitions and Missing Policies, Angeli, Milano.

1

fase progettuale è stata costruita una mappatura delle politiche implementate nei 27

paesi membri dell'Unione Europea, mirate a sostenere i giovani lavoratori con impieghi

non standard e a estendere loro i diritti garantiti a chi ha un lavoro permanente. In una

seconda fase si è invece proceduto alla realizzazione di tre studi di caso realizzati in

Italia, Spagna e Regno Unito, nel corso dei quali sono state utilizzate delle tecniche di

ricerca sia quantitative che qualitative rispetto allo specifico target individuato, al fine di

definire con maggiore chiarezza il fenomeno e le eventuali iniziative adottate per

contrastarlo all’interno dei diversi contesti nazionali, di individuare delle chiavi

interpretative e di fornire delle indicazioni di policy.

In questo contributo verrà inizialmente presentato un quadro generale della situazione

europea e successivamente ci si focalizzerà sui principali risultati della parte di ricerca

qualitativa. Verranno in particolare prese in considerazione le interviste realizzate con i

giovani highly skilled2 – donne e uomini, di età compresa tra i 25 e i 34 anni e con

almeno cinque anni di esperienza lavorativa – i quali, al momento dell'intervista,

lavoravano con un contratto temporaneo nel loro ambito di competenza o erano stati

costretti ad accettare occupazioni low-skilled. L'analisi delle interviste ha evidenziato la

forte carenza di politiche mirate a far fronte all'instabilità lavorativa della popolazione

giovanile in generale e più in particolare alle difficoltà occupazionali dei giovani

altamente qualificati. I principali punti di criticità – che saranno discussi nel paragrafo

successivo – riguardano per un verso la dimensione dell'instabilità lavorativa, per l'altro

le implicazioni che la precarietà lavorativa ha su tutti gli altri ambiti di vita, a partire

dall'articolazione tra vita privata e vita professionale, fino all'accesso ad una piena

protezione sociale, che resta legata al lavoro dipendente e a tempo indeterminato.

I principali risultati conoscitivi emersi dai racconti dei giovani precari highly skilled

sono stati in seguito discussi all'interno di alcuni focus group realizzati nell'ambito del

progetto in Italia, Spagna e Regno Unito, a cui hanno partecipato testimoni privilegiati

che a livello nazionale si occupano di politiche del lavoro: policy makers, enti di

formazione, enti previdenziali, sindacati, ecc. Nella sezione conclusiva proporremo

dunque, sulla base del confronto avvenuto nel corso dei focus group, un ragionamento

2 Nel corso del 2011 sono state effettuate tra le 20 e le 30 interviste semi-strutturate in ciascuno dei paesipartner, per un totale di 75. Le interviste sono state condotte nelle aree di Milano, Trento e Bologna perquanto riguarda il contesto italiano, di Madrid per la Spagna e di Brighton per il caso inglese. Tutti isoggetti intervistati erano in possesso di elevati titoli di studio (laurea, master e in alcuni casi dottorato diricerca).

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sulle politiche – quelle presenti e quelle che ancora mancano – mirate a sostenere i

giovani altamente qualificati che lavorano con forme contrattuali precarie.

2. Nuovi scenari di precarietà e nuovi soggetti precari

I nuovi scenari del lavoro hanno da tempo costretto esperti e studiosi a ridefinire le

tradizionali categorie interpretative costruite intorno al lavoro inteso come un “posto”,

fisso e di tipo dipendente (Casey, 1995; Sennett, 1998; Accornero, 2011). Nelle società

contemporanee, sempre più globalizzate e interconnesse, si assiste a un profondo

cambiamento – a cui hanno ampiamente contribuito le tecnologie dell’informazione e

della comunicazione – non solo della natura del lavoro, ma degli stessi rapporti sociali

(Marazzi, 1994; Beck, 1999; Beck, Beck-Gernsheim, 2002). In un tale contesto,

caratterizzato da situazioni eterogenee e in continua trasformazione, le immagini e i

significati attribuiti al lavoro si riarticolano dentro la mobilità dei soggetti, attraverso i

passaggi continui tra diversi lavori, nell’oscillazione tra occupazione e disoccupazione,

tra formazione e lavoro, dando luogo a nuovi percorsi professionali e più in generale a

nuove trame biografiche. I mutamenti del lavoro hanno infatti eroso la coerenza dei

compiti associati alle occupazioni e l’omogeneità delle categorie occupazionali,

lasciando spazio alla progressiva diffusione del lavoro cosiddetto flessibile. E a

cambiare, in questo scenario, non è solo la geografia del mondo del lavoro, ma anche le

diverse forme di vulnerabilità sociale che in essa sono incorporate (Castel, 1995;

Chicchi, 2001, Gallino, 2001).

Nei paesi dell'Europa altamente terziarizzati le tradizionali categorie di lavoro

tipico/atipico; retribuito/non retribuito; regolato da contratto o in nero;

materiale/immateriale perdono dunque la propria capacità euristica, così come lo stesso

dualismo che identifica un'attività professionale come qualificata o non qualificata.

Oggi, il concetto di génération précaire (Bourdieu, 1998) non fa più riferimento ai soli

bad jobs, ma riguarda l'intero mondo del lavoro, seppur con sfumature e contorni in

continuo movimento (Brophy, de Peuter, 2007; Neilson, Rossiter, 2008; Armano,

Murgia, 2011). Nonostante le enormi disuguaglianze che persistono tra gruppi di

lavoratori, le loro posizioni non sono riducibili a due opposte polarità: una composta di

soggetti autonomi, freelance, con elevate competenze e titoli di studio; l'altra fatta di

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lavoratori/trici che svolgono attività dequalificate, precarie e mal retribuite. Dove

collocare, ad esempio, l'esperienza di soggetti con elevati titoli di studio e con

professionalità altamente qualificate, che svolgono attività dense di significato, ma con

livelli retributivi minimi e quasi del tutto esclusi dalle forme di garanzia e protezione

sociale cui dà accesso il vecchio “posto fisso”, qualificato o meno che sia?

Ad essere esposti al costante rischio di disoccupazione, assenza di reddito e marginalità

sociale, nell'attuale knowledge economy (Barley, Kunda, 2004; Rullani, 2004), sono

oggi anche lavoratori e lavoratrici con elevate qualifiche e competenze. I precari highly

skilled – chiamati anche “cognitari” (Bifo, 2011), a evidenziare il fatto che a essere

precari sono anche lavoratori e lavoratrici della conoscenza, noti in letteratura come

knowledge workers (Harvey, 1990) – sono da tempo considerati come una categoria

sociale a rischio per diverse ragioni: sono soggetti contrattuali deboli, spesso autonomi

o parasubordinati; vivono condizioni di instabilità occupazionale; non godono di grande

attenzione e riconoscimento da parte delle istituzioni, delle imprese e delle forze

politiche; hanno prospettive di carriera particolarmente frammentate e incerte (Armano,

2010; Bologna, Banfi, 2011).

In un certo senso questa particolare categoria di giovani lavoratori è stata catturata da

quella che potremmo definire una “trappola della passione” (Murgia, 2012). Da un lato

svolgono attività che rappresentano per loro fonte di passione e piacere, e di

un’esperienza professionale che dà soddisfazioni, ma dall’altro questi lavoratori fanno

esperienza della passione nel senso più letterale del termine: la pena, la sofferenza e la

fatica causate da contratti di lavoro e da condizioni di instabilità che spesso sono forzati

ad accettare. Le condizioni particolari di identificazione che le persone hanno con il loro

lavoro e la convinzione che, nel caso di attività ricche di significato, stiano facendo

qualcosa di importante e che stiano lavorando per se stessi, li rende peraltro soggetti a

stress e auto sfruttamento (Morini, 2010; Formenti, 2011).

Rispetto a tale quadro, l’attuale crisi economica non ha fatto che generare una nuova e

crescente insicurezza per questa particolare categoria di lavoratori, altamente istruita e

qualificata, soprattutto per quanto riguarda le fasce più giovani (Villa, 2010; AA.VV.,

2012). Come mostra un recente rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro,

il lavoro temporaneo è cresciuto in maniera rilevante, sia per adulti che per giovani, tra

il 2000 e il 2008 in tutti i paesi membri dell'Unione europea. Tuttavia, l'aumento tra i

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giovani è stato nettamente più drastico: più di un giovane su tre non è riuscito ad

accedere a un lavoro permanente e questo numero è ulteriormente cresciuto in seguito

alla crisi (dal 36.3% nel 2008 al 37.1% nel 2010).

Fig. 1 – Incidenza del lavoro temporaneo sul totale del lavoro dipendente per classi di età nel

2010

Fonte: EUROSTAT - Labour Force Survey

Nell'EU27 sono a termine oltre il 50% dei contratti attraverso cui lavorano i giovani tra i

15 e i 20 anni, mentre si attestano intorno al 15% per i trentenni. Il lavoro temporaneo è

tuttavia diffuso in molti paesi anche tra lavoratori e lavoratrici nella fascia di età 25-39.

Oltre a una segregazione generazionale persiste inoltre il ben noto fenomeno della

segregazione di genere: nella maggior parte dei paesi europei le donne hanno più

probabilità degli uomini di essere impiegate con contratti temporanei. Nel 2010

l’incidenza del lavoro temporaneo sul totale dell’occupazione dipendente nell'EU27 è

stata in media del 14.6% per le donne e del 13.3% per gli uomini, con dei divari più o

meno accentuati all'interno dei vari paesi. Risultano in linea con il quadro generale

europeo Italia, Francia e Germania. L'Italia registra tuttavia delle più ampie differenze

di genere, dal momento che lavorano con contratti a termine (dipendenti, autonomi e

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parasubordinati) il 15.1 delle donne e il 9.8% degli uomini (Murgia, Poggio, Torchio,

2012). In Spagna, invece, la diffusione dei contratti a termine risulta notevolmente più

accentuata rispetto alla media europea, mentre nel Regno Unito la presenza del lavoro

temporaneo si attesta su livelli alquanto ridotti. Tuttavia, ad accomunare questi paesi è

la bassa presenza di differenze di genere nella distribuzione dei lavori a termine,

soprattutto per lo specifico target dei giovani highly skilled (González Gago et al. 2012;

Hadjivassiliou et al. 2012).

Se si considera nello specifico la diffusione del lavoro temporaneo tra i soggetti

altamente qualificati, oggetto di questo contributo, si registrano andamenti molto

differenti tra i diversi paesi membri. Tra i laureati della classe di età 15-24 il lavoro a

termine ha un'incidenza maggiore di oltre 6 punti percentuali rispetto alla media

osservata per tutti gli altri livelli di istruzione in Portogallo, Finlandia, Italia, Cipro e

Repubblica Ceca. Per i lavoratori più istruiti nella classe di età 25-39 il differenziale

nell’incidenza del lavoro temporaneo appare piuttosto consistente nel caso di Austria e

Italia (circa 7 punti percentuali). In molti paesi europei, dunque, specialmente quelli

caratterizzati da mercati del lavoro segmentati e che hanno attuato solo “riforme al

margine” l’istruzione universitaria non sembra offrire alcuna garanzia di ottenere un

impiego stabile.

Fig. 2 – Tassi di transizione da contratti temporanei a permanenti, in base al livello di istruzione

(media 2005-07)

Fonte: figure 32, capitolo 3, Employment in Europe 2010, European Commission

6

Inoltre, se nella maggior parte degli Stati Membri (11 su 19), i lavoratori con un livello

di istruzione primario hanno minori probabilità di transitare in tempi brevi verso un

contratto a tempo indeterminato, la relazione tra i tassi di transizione e il livello di

istruzione non sembra essere lineare. Solo in un numero ridotto di Stati Membri (7 su

19), infatti, il tasso di transizione verso contratti a tempo indeterminato è più alto per i

neolaureati che per gli individui con un livello di istruzione secondario. In altre parole,

lavoratori e lavoratrici con lavori temporanei e con elevati livelli di istruzione non

hanno più probabilità dei loro colleghi con un livello di istruzione più basso di ottenere

un lavoro permanente (Torchio, 2012).

Dopo aver offerto una panoramica del fenomeno dell'instabilità lavorativa tra i giovani

con alti titoli di studio, dedicheremo la prossima sezione alla discussione dei principali

risultati emersi dall'analisi delle interviste condotte con giovani precari highly skilled in

Italia, Spagna e Regno Unito.

3. Giovani highly skilled: tra instabilità contrattuale e desideri di realizzazione

Di seguito verranno presentati alcuni dei principali esiti emersi dall’analisi delle

interviste condotte con i giovani intervistati. La discussione dei risultati verrà distinta in

due sezioni: nella prima l’attenzione verrà in particolare focalizzata su alcune

dimensioni che riguardano più direttamente l’esperienza lavorativa, come l’instabilità e

la temporaneità della condizione contrattuale, la precarietà economica e la

dequalificazione. Nella seconda sezione, invece, prenderemo in considerazione le

implicazioni della condizione lavorativa sui vissuti personali, dedicando specifica

attenzione sia alle difficoltà di conciliazione quotidiana tra vita privata e professionale,

sia alle conseguenze che lo svolgere un lavoro temporaneo può avere rispetto al proprio

corso di vita, in corrispondenza di eventuali interruzioni di carriera, dovute ad esempio

alla maternità o a un periodo di malattia, o in riferimento alla progettazione del proprio

futuro.

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3.1. Lavori precari

La prima evidenza che è possibile rilevare dall’analisi dei testi di intervista è che

l’ingresso al lavoro non è mai raccontato come una transizione lineare tra la condizione

di studente e quella di lavoratore, ma come un percorso piuttosto accidentato, sottoposto

a continue interruzioni e cambiamenti di rotta. Nelle interviste realizzate in Gran

Bretagna la discontinuità è data soprattutto dal passaggio attraverso diverse esperienze

di stage, per lo più non remunerate, mentre nelle testimonianze raccolte in Italia e in

Spagna si tratta soprattutto di brevi episodi lavorativi, con contratti spesso non

rinnovati. In questo secondo caso, un momento cruciale per molte delle persone

intervistate sembra essere proprio quello relativo all’avvicinarsi della scadenza del

contratto, che viene descritto come una situazione caratterizzata da una certa

ambivalenza da parte dei datori di lavoro e da un conseguente senso di indeterminatezza

da parte dei giovani lavoratori.

A marzo mi avevano fatto un contratto di sei mesi. A settembre sono tornata sapendo

che sarebbe durato da settembre 2010 a settembre 2011. Però i giorni passavano e

questo contratto non arrivava. Quindi aspetta un giorno, aspetta una settimana... a un

certo punto era fine ottobre... allora sono andata a bussare alla porta del responsabile

del personale e mi sono sentita rispondere “Non è che rompendomi tutti i giorni i

coglioni tu pensi che io ti possa fare il contratto”. La conseguenza di questa cosa è che

io tutt'oggi non ho questo contratto. [Italia, donna, 33].

La percezione della natura precaria ed effimera di ogni esperienza di lavoro genera una

crescente demotivazione, insieme al timore della perdita di competenze. Per questi

intervistati sono le stesse modalità con cui si esplica il lavoro temporaneo a non farlo

percepire come un lavoro vero e proprio: si tratta infatti di esperienze brevi, che non

offrono possibilità di crescita e di apprendimento, né consentono di sentirsi appartenenti

ad un gruppo di lavoro, facendo sì che i giovani lavoratori si sentano estranei agli

ambienti in cui operano e dove non rimarranno più di qualche mese.

Il lavoro temporaneo è quello che davvero ti consuma e ti esaurisce. Lavoro come

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sostituto nelle filiali di banca quando c’è una grande mole di attività. Per esempio ho

dovuto andare in una filiale vicino ad una spiaggia in estate. Lì non c’è tempo per fare

niente di più dei tuoi compiti specifici. Quindi non puoi imparare nulla. Devi solo

lavorare e basta. Secondo me il problema è il lavoro temporaneo. Io sono potuto restare

nello stesso lavoro per non più di tre mesi. La stabilità mi renderebbe più felice e mi

stimolerebbe ad apprendere [Spagna, donna, 32].

In questa prospettiva la disoccupazione, tradizionalmente definita come mancanza di un

lavoro, assume una accezione più sfumata, in quanto ci si trova di fronte a confini più

labili tra chi ha un impiego e chi ne è senza. Muta anche il referente semantico del

concetto di “stabilità”, che non sembra soltanto riguardare il poter contare su un lavoro

permanente, ma anche la percezione di una continuità di reddito e di esperienze di

lavoro e sembra soprattutto caratterizzarsi come l'assenza del bisogno di cercare lavoro.

Per quanto riguarda in particolare il caso inglese, il disagio deriva soprattutto dal fatto

che le prime esperienze professionali si realizzano sotto forma di stage, solitamente non

remunerati. In diverse testimonianze si riscontra la disponibilità di persone con un

elevato titolo di studio ad accettare condizioni non garantite, se ciò viene percepito

come una opportunità – in futuro – di svolgere un lavoro coerente con il proprio titolo di

studio. Questo consolida la tendenza, da parte dei datori di lavoro, a fare ampio ricorso a

tali forme contrattuali per poter utilizzare personale giovane qualificato a buon mercato.

La maggior parte degli stage che ho fatto non erano retribuiti e questo ha cambiato la

mia prospettiva. Dopo aver fatto il mio terzo o quarto stage, e ottenuto la mia laurea e

la specializzazione, stavo cominciando a chiedermi di cos’altro avrei avuto bisogno per

trovare un lavoro. La mia prospettiva è passata dal voler avere un’esperienza di lavoro

nel mio primo stage a… ora basta, preferirei andare da Tesco e ottenere un lavoro

retribuito diverso da quello che sto cercando, piuttosto che fare un altro lavoro non

retribuito. Mi sentivo stupido per il fatto di offrire servizi gratuitamente, quando sono

laureato e qualificato [UK, uomo, 28 anni].

Un altro aspetto critico che contraddistingue la condizione lavorativa delle persone

intervistate, trasversalmente ai diversi contesti territoriali, riguarda la dimensione

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economica. Per molti degli intervistati, alla prestazione della propria attività

professionale non corrisponde un compenso monetario adeguato, e questo è, alla lunga,

fonte di profonda frustrazione. Né risulta compensata da una maggiore retribuzione la

discontinuità lavorativa, come era invece in qualche modo sottintesto dal paradigma

della flessibilità.

Mentre studiavo all’università ho lavorato 20 ore a settimana in un famoso ristorante

fast food. Cinque anni dopo, ho lavorato come ricercatore economico, un lavoro molto

più interessante. Tuttavia il mio salario (orario) era inferiore a quello nel ristorante.

Allora ho capito che livello di istruzione e salario non corrispondono per niente

[Spagna, uomo, 32].

Meno problematica, su questo versante, appare la situazione inglese, dove le criticità si

riscontrano prevalentemente nella fase di ingresso, ma poi la situazione sembra

progressivamente migliorare nel tempo.

Quando mi è stato offerto un impiego il mio stipendio era di £13,000 e quando sono

stato assunto a tempo indeterminato ho otteuto un aumento di £500, dopodiché riceverò

un aumento di £500 ogni anno [UK, uomo, 29].

La maggiore difficoltà per i laureati inglesi sembra piuttosto essere legata al debito

contratto con le banche per poter pagare i propri studi e alla difficoltà di ripianarlo visti i

redditi limitati delle prime occupazioni.

Il modo in cui le banche trattano i laureati aggrava notevolmente la loro miseria [UK,

donna, 30].

Un aspetto che accomuna gli intervistati nelle tre diverse realtà è la percezione che le

loro traiettorie professionali non portino da nessuna parte e che le credenziali educative

acquisite con anni di studio non siano effettivamente in grado di garantire condizioni di

lavoro soddisfacenti e la costruzione di un profilo professionale coerente e spendibile

sul mercato. Per molti dei giovani intervistati l’impossibilità di costruire un percorso

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coerente, il rischio di perdere le proprie competenze e il trovarsi a dover accettare lavori

di profilo molto inferiore a quelli per cui si sono qualificati, per poter sopravvivere,

rappresenta una forte fonte di ansia e frustrazione.

Ti senti frustrato. Io ho sempre pensato di non aver studiato per cinque anni per tirar su

il telefono. Non voglio essere una segretaria. Se avessi voluto esserlo non avrei mai

studiato per ottenere una laurea in legge [Spagna, uomo, 30].

La percezione di essere sovra-qualificati rispetto al lavoro svolto costituisce dunque una

delle principali criticità. I giovani più qualificati arrivano a pensare che i loro titoli di

studio agiscano formalmente come un ostacolo rispetto all’accesso al lavoro, aspetto che

accresce il loro senso di inadeguatezza e di demotivazione di fronte ad un divario

crescente tra aspettative e realtà.

Sarebbe molto più capace un elettrotecnico di fare il lavoro che faccio e avrebbe anche

credo molto più interesse, più spinta o molto più divertimento nel farlo. Io facevo fisica

della materia... onestamente non mi interessa nulla delle macchine... si, mi interessa

sapere come funzionano... però una volta che dopo sei mesi ho capito come vanno le

cose, poi non mi interessa più. Si, è lavoro e devo farlo al meglio, ma no...

intellettualmente non mi interessa proprio [Italia, uomo, 30 anni].

Il problema della dequalificazione sembra essere trasversale ai tre casi, pur nelle loro

specificità. Anche in Gran Bretagna infatti, seppure la possibilità di accedere ad un

posto di lavoro dopo la fase iniziale di apprendistato sembri maggiore rispetto agli altri

due casi, le opportunità di ottenere un lavoro coerente con il proprio percorso fomativo

risultano comunque essere limitate.

Ho fatto domanda per lavori ben al di sotto del mio livello di competenza e ancora non

sono stato invitato ad un colloquio. Questo ha aumentato la mia preoccupazione

rispetto alla mia capacità di ottenere un qualche lavoro, e in particolare uno che sia ad

un livello di competenza appropriato [UK, uomo, 28].

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Come abbiamo detto in precedenza, questa particolare categoria di giovani si trova

dunque ad essere bloccata in quella che può essere definita una “trappola della

passione”: da un lato, infatti, sono alla ricerca di un lavoro che consenta loro di vivere la

propria passione, ovvero di sviluppare le competenze acquisite nel percorso di studio e

sperimentarsi nel profilo sul quale hanno investito, dall’altro l’instabilità lavorativa, la

mancanza di tutela e in molti casi anche la stessa impossibilità di svolgere il lavoro per

cui si sono formati, producono stress, sofferenza ed insoddisfazione e generano ansia

rispetto al futuro.

3.2. Vite precarie

Un secondo ambito esplorato dalle interviste era quello relativo all’intreccio fra

traiettoria lavorativa e altre sfere di vita e in particolare alle implicazioni che percorsi

lavorativi instabili possono avere sull’esperienza biografica degli individui. Anche in

questo caso si osservano alcune differenze tra i due contesti mediterranei e la realtà

inglese. Nelle interviste realizzate in Italia e in Spagna vengono sottolineati soprattutto

il problema della dipendenza abitativa e le difficoltà di conciliazione tra vita lavorativa

e personale e di costruzione di un progetto familiare, in particolare da parte delle donne.

Sembra invece essere trasversale a tutte le testimonianze raccolte nei tre paesi oggetto

della ricerca la questione del sovradimensionamento lavorativo, ovvero della tendenza

del lavoro a fagocitare tutti gli altri ambiti vitali.

Per quel che riguarda la questione della dipendenza abitativa, per quanto la maggior

parte dei giovani intervistati spagnoli e italiani si sforzi di non essere un peso per la

propria famiglia di origine, la natura discontinua delle loro entrate fa sì che si trovino a

dover ricorrere al supporto e alle risorse familiari. Una preoccupazione presente nelle

riflessioni di diversi intervistati è in tal senso quella di non perdere la propria

indipendenza. Al contempo alcuni di loro descrivono la preoccupazione delle proprie

famiglie di fronte ad una situazione percepita come dissonante rispetto all’investimento,

individuale e familiare, sul percorso educativo.

Tornare in famiglia è una sconfitta personale e la percezione della famiglia

contribuisce, in un certo senso, a questa sensazione negativa. So che non mi

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condannano, ma lo vivono come un fallimento collettivo, anche se cercano di essere

ottimisti per non aumentare la mia frustrazione. Tuttavia sentono il mio fallimento

[Spagna, donna, 30].

La discontinuità lavorativa, la precarietà economica e la mancanza di autonomia

abitativa, tendono inoltre a scoraggiare ogni progetto di ampio respiro per il futuro,

spingendo i giovani – e soprattutto le giovani – intervistati/e a vivere alla giornata,

senza poter pianificare la costruzione di nuovi nuclei di coppia o fare scelte di

genitorialità.

Non ho mai pensato di avere figli perché non possono nemmeno immaginarlo nella mia

attuale situazione. Io non so nemmeno dove sarò nei prossimi tre mesi… [Spagna,

donna, 32].

Io non ho figli... e come dire... ci penso all'idea che comunque non ho garanzie

lavorative e quindi dover mettere al mondo oggi un figlio nella mia situazione non è

una cosa facile. Vivo da sola, quindi se una sera faccio tardi e torno a casa alle 10

grazie a dio devo pensare soltanto a me, quindi va bene. Non so, dovendo avere una

famiglia, a quel punto lì che cosa comporterebbe. La vedo sicuramente una situazione

problematica, non facile. Non vedo vantaggi nella mia condizione, di nessun tipo. Non

sono una libera professionista per scelta, ma per necessità, quindi vedo solo elementi

negativi. [Italia, donna, 33]

L'evento della maternità continua dunque a rappresentare un nodo cruciale, soprattutto

per le giovani donne che lavorano con contratti a termine, caratterizzati da scarse tutele

e dalla difficoltà di esercitare un diritto, anche laddove sia previsto, a causa della loro

brevità e dell'incognita di un possibile rinnovo o stabilizzazione. Anche i dati Eurostat

(2011) mostrano che se nel continente europeo persistono in generale rilevanti

differenze di genere sul lavoro, sono tuttavia bene più marcate le problematicità cui

devono far fronte le lavoratrici “atipiche” rispetto a quelle “tipiche”, soprattutto per

quanto riguarda le scelte di vita familiare: uscita dalla famiglia di origine, matrimonio,

convivenza, primo figlio, ecc.

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Il dover posticipare – e talvolta addirittura abbandonare – specifici progetti biografici, in

particolare legati all'indipendenza abitativa e alla genitorialità, è una condizione senza

dubbio legata al fatto che le nuove forme di lavoro esigono spesso un più forte

coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici rispetto al lavoro salariale classico, lasciando

scarsa autonomia per altre sfere vitali. Gli intervistati descrivono infatti situazioni

lavorative di costante disponibilità, in cui devono essere continuamente pronti a

rispondere alle richieste provenienti dalle organizzazioni. In tutti e tre i paesi la paura di

un possibile licenziamento o di un mancato rinnovo del contratto accentua ancora di più

questo condizionamento, portando a fenomeni di “super-lavoro” (Castel 2002).

Bisogna essere disponibili a lavorare sette giorni alla settimana e le richieste di lavoro

potrebbero arrivarti anche alle 11 della sera prima di un turno [Uk, uomo, 28 anni].

La settimana non esiste fondamentalmente, il sabato e la domenica magari bisogna già

preparare qualcosa per il lunedì... c'è da mettere a posto casa, pagare le bollette, per

cui rimane poco tempo per fare altre cose... un lavoro così ha ucciso tutto il resto del

tempo, decisamente. [Italia, Uomo, 33].

Tra i giovani intervistati sono molto pochi quelli che lavorano solo all’interno di orari

chiaramente predefiniti, ma al di là della destrutturazione del tempo e degli orari, ciò a

cui si assiste è una tendenza alla “intensificazione” e “densificazione” dell’orario di

lavoro (Gallino 2001).

Un secondo aspetto relativo all’intreccio tra lavoro e vita personale che emerge con

evidenza dalle interviste, in particolare quelle italiane e spagnole, riguarda la percezione

di vulnerabilità sul piano della protezione sociale. Nelle interviste viene denunciata più

volte la scarsa o talvolta inesistente possibilità di accedere ai diritti sociali previsti per

gli altri lavoratori: diritti pensionistici, indennità di malattia, congedi di maternità o

parentali retribuiti, formazione e sussidi di disoccupazione. Gli stralci delle interviste

realizzate con un avvocato spagnolo e con un archeologo italiano mettono ben in luce

sia la mancanza di attenzione da parte delle istituzioni rispetto a tali problematiche, sia

il divario di trattamento all'interno dello stesso contesto lavorativo di personale

permanente e temporaneo.

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Sembra che il governo non si preoccupi dell’economia informale. Ho passato più di due

anni in un bar senza alcun contratto. E non ho mai visti una ispezione di lavoro. E’ una

situazione molto diffusa tra i giovani avvocati [Spagna, uomo, 30].

A lungo andare, dopo dieci anni che hai contratto a progetto, non ne puoi più. Non puoi

lavorare in cantiere e non avere minimamente neanche la cassa edile o la sicurezza sul

lavoro... Il contratto edile presuppone la cassa integrazione per maltempo. Per cui se

c'è brutto tempo e non hai un lavoro alternativo in ufficio vai a casa, ma la giornata di

lavoro ti viene pagata comunque. Con il contratto a progetto già lo stipendio era

inferiore ai 1000 euro, per 40 ore settimanali in cantiere. Se cominciava a piovere...

arrivi a prendere buste paga di 620 euro... (ride) che è quello che ho speso di benzina

per andare avanti e indietro in sostanza. [Italia, uomo, 34]

L’aspirazione di molti di questi giovani non sembra tanto essere quella di riuscire ad

ottenere un posto di lavoro fisso per tutta la vita, quanto piuttosto la possibilità di

accedere a forme di tutela in grado di assicurare una continuità di reddito anche nelle

fasi di vita in cui non c’è l’effettiva possibilità di svolgere una attività lavorativa e di

poter fare progetti per il futuro, soprattutto quando non c’è una famiglia di supporto alle

spalle.

Le tre cose che ti posso citare sono sicuramente la previdenza, perché la pensione non

ce l'avremo mai... ci comincio a pensare. La malattia, perché se ti ammali non lavori

più, la maternità, perché non ho figli, ma anche volendo sarebbe impossibile... E poi,

problema che ho già vissuto varie volte, il reddito... nel senso che quello che mi serve è

un sostegno al reddito. È ingiusto che io non abbia l'accesso al reddito come un

operaio che rimane senza lavoro e per 6 mesi si becca la cassa integrazione [Italia,

uomo, 34].

Dopo aver messo in luce le criticità espresse dai giovani precari highly skilled, legate

soprattutto al fenomeno del sotto-inquadramento professionale e alla mancanza di diritti

legati alle forme contrattuali con cui lavorano, nella prossima e conclusiva sezione la

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nostra attenzione sarà rivolta ad alcune possibili proposte di policy – scaturite dai focus

group realizzati con i testimoni privilegiati nei tre paesi oggetto della ricerca – orientate

a promuovere la qualità e i diritti del lavoro di questo specifico target di lavoratori e

lavoratrici, attraverso la riduzione dei rischi sociali e il miglioramento delle condizioni

di lavoro.

4. Allargare i diritti a chi non ha un lavoro permanente: scenari e prospettive di

policy

Gli effetti della precarizzazione delle condizioni di lavoro in Europa, esacerbate dalla

crisi economica, hanno avuto implicazioni critiche soprattutto sulle giovani generazioni

e non hanno risparmiato i giovani con elevate qualifiche educative, a differenza di

quanto inizialmente si era previsto.

Al di là delle conseguenze individuali, relative – come abbiamo cercato di mettere in

evidenza in questo contributo – sia ai percorsi lavorativi strictu sensu, sia all’intreccio

tra vita lavorativa e personale – questo fenomeno rappresenta un costo sociale, in quanto

lo spreco di capitale umano altamente qualificato riduce le prospettive di crescita,

aumenta il rischio di povertà e le diseguaglianze tra le generazioni, riduce le entrate

fiscali e genera una più elevata spesa sociale.

Appare dunque sempre più urgente la necessità di sviluppare strategie di intervento

articolate, in grado di contrastare questo fenomeno e formulare politiche

specificatamente rivolte a questo target di giovani, fino ad oggi non considerato

prioritario.

Negli ultimi anni solo alcuni paesi europei hanno adottato iniziative mirate ai giovani

più qualificati, come nel caso degli accordi collettivi per ruoli dirigenziali e per salari e

orari flessibili realizzati in Svezia, il programma di sussidi per giovani liberi

professionisti in Grecia e il patto nazionale per la formazione per i giovani lavoratori

qualificati in Germania3.

3 Alcuni paesi hanno recentemente prestato specifica attenzione alla contrattazione collettiva dei giovanilavoratori qualificati. Si può menzionare, in particolare, l'esempio svedese, dove è entrato in vigore uncontratto collettivo per lavoratori/trici in posizioni di responsabilità, come nel caso dei dirigentidell'industria grafica (2004). In Grecia, invece, è stato introdotto, a partire dal 2009, un programma persupportare i giovani laureati fino a 34 anni di età nell'avvio di attività professionali autonome (rivolto adesempio a ingegneri, medici, farmacisti, avvocati, ecc.). Un altro caso interessante è rappresentato dalprogramma “Employment Bridge Bavaria” attivato in Germania. Si tratta di una iniziativa istituita per

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Se consideriamo in particolare i tre paesi coinvolti dalla nostra ricerca, rileviamo che

politiche o piani di intervento specificamente indirizzati a giovani altamente qualificati

non esistono. Se vogliamo offrire un quadro delle politiche presenti dobbiamo far

riferimento più in generale alle politiche attive per i giovani e agli interventi mirati alla

transizione scuola-lavoro.

Nel caso di Italia e Spagna, tuttavia, anche questo tipo di interventi non risultano

particolarmente sviluppati. Entrambi i paesi hanno assistito, a partire dagli anni ’80-’90

ad un rapido processo di flessibilizzazione del lavoro, favorito dall’introduzione di

tipologie contrattuali non standard, orientate ad aumentare il lavoro temporaneo. Alcune

di queste forme, come i contratti di formazione, l’apprendistato e le borse di studio

indirizzate in modo specifico ai giovani e gestite senza un adeguato controllo, hanno

ulteriormente rafforzato il problema della precarizzazione.

In Spagna non esiste ad oggi una strategia complessiva di contrasto alla crescita del

precariato nell’occupazione giovanile, ma si riscontra piuttosto una certa ambivalenza

politica. Se infatti da un lato il governo ha emanato linee guida e incentivi per favorire

le assunzioni a tempo indeterminato, dall’altro sono stati rimossi vari limiti alla portata

e all’uso del lavoro temporaneo. Ad esempio un nuovo strumento è stato introdotto con

la recente riforma del mercato del lavoro (2012), che prevede un nuovo contratto a

tempo indeterminato e full-time, assicurando incentivi monetari per le aziende in caso di

assunzione di disoccupati; giovani con meno di 30 anni; lavoratori con più di 45 anni

che siano iscritti alle liste di disoccupazione. Tuttavia, sparisce di pari passo l'indennità

per fine rapporto e licenziare sarà più economico, avendo fissato il tetto massimo a 12

mensilità in caso di licenziamento per giustificato motivo, concetto ridefinito dalla

recente riforma. Allo stato attuale, infatti, anche una caduta delle vendite o una

diminuzione delle entrate dell'azienda per tre trimestri consecutivi, così come l'assenza

per malattia durante il 20% dei giorni lavorativi per due mesi di seguito (senza che vi sia

più alcun legame con la media dell’assenteismo in azienda) sono considerati dei

“giustificati motivi”. Ancora limitate appaiono inoltre le iniziative sul piano della

formazione e dell’avvio di attività imprenditoriali, così come poco efficaci sono i servizi

per l’impiego.

garantire l'occupabilità e la formazione professionale dei giovani lavoratori qualificati, i quali vengonoassunti da un'azienda “ponte” che fa da mediatrice per il successivo inserimento all'interno di altresocietà.

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Anche in Italia si è proceduto attraverso una riforma del mercato su due livelli, basata

per lo più sulla deregolamentazione dei contratti di accesso al lavoro. Il processo di

flessibilizzazione è stato qui particolarmente rapido. I pochi tentativi di contenimento

normativo della precarizzazione e di intervento a favore dei giovani hanno avuto respiro

corto e non hanno prodotto significativi miglioramenti. Anche la nuova riforma del

lavoro (2012), pur introducendo alcuni correttivi rispetto all’uso indiscriminato dei

contratti a progetto e una migliore regolamentazione dell’apprendistato, di fatto non

apporta sostanziali novità, non intervenendo sull'elevato numero di tipologie contrattuali

a termine ad oggi in vigore e non introducendo alcuna forma di tutela universale per la

perdita del posto di lavoro, né tanto meno uno strumento di continuità del reddito.

Piuttosto diversa appare la situazione del Regno Unito, in cui la flessibilizzazione del

mercato del lavoro non è un processo altrettanto recente e la transizione tra scuola e

lavoro è favorita da un uso diffuso di tirocini o di altre misure dedicate. Negli ultimi

anni questo orientamento è stato ulteriormente sostenuto dal programma “Graduate

Talent Pool” (2009), basato sull’accesso a tirocini per i giovani neolaureati e dal “Young

Person’s Guarantee” che offre a chi è ancora disoccupato a sei mesi dalla laurea la

possibilità di accedere a tirocini, a corsi formativi o a forme di sostegno all’auto-

imprenditorialità. Dal 1999 è inoltre stato introdotto un salario minimo nazionale che

comprende diverse categorie di giovani. Nonostante i tirocini si rivelino strumenti

importanti per l’accesso al lavoro, essi presentano tuttavia anche notevoli criticità, tra

cui in particolare quella relativa alla remunerazione, in molti casi non prevista.

A fronte di questi diversi scenari, i testimoni privilegiati interpellati attraverso i focus

group condotti nei tre paesi all'interno del progetto di ricerca qui presentato, hanno

offerto una pluralità di proposte e indicazioni di policy per affrontare la questione

dell’occupazione dei giovani altamente qualificati, modificando o integrando gli attuali

assetti normativi. Tra le principali strategie identificate vi è in particolare quella mirata

all’introduzione di ammortizzatori sociali capaci di compensare la flessibilizzazione del

mercato, favorendo sicurezza e sostenibilità, anche al fine di ridurre l’attuale asimmetria

tra le diverse tipologie contrattuali. Uno strumento efficace in questa direzione può

essere rappresentato da una estensione (o un'introduzione, nei paesi, quali l'Italia, in cui

ancora questo strumento non è stato implementato a nessun livello) del sostegno al

reddito nei periodi di disoccupazione per i giovani neo-laureati, che consenta loro di

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trovare posizioni lavorative più coerenti con le loro qualifiche. Emerge inoltre come

necessaria una riforma dei sistemi educativi e formativi finalizzata a garantire una

maggiore armonizzazione tra percorsi di studio e opportunità di impiego, favorendo

l’alternanza fra istruzione, formazione e lavoro tramite iniziative di orientamento e

placement. Ad essa andrebbe associata la formulazione di politiche attive, servizi e

incentivi specifici per i giovani altamente qualificati (servizi di accompagnamento,

counselling, micro-credito, spazi di lavoro, ecc.).

Ulteriori iniziative da promuovere in questa prospettiva potrebbero rivelarsi le azioni di

sostegno all’imprenditorialità giovanile, tramite incentivi all’innovazione, all’auto-

attivazione e all’avvio di impresa; il supporto a forme di associazione e aggregazione tra

giovani professionisti e il riconoscimento delle loro istanze nei contesti di

contrattazione; e infine un rafforzamento dei sistemi di controllo e prevenzione rispetto

alle situazioni di sfruttamento e di rischio.

Gli esiti della nostra ricerca hanno da un lato messo in evidenza le conseguenze critiche,

in termini di sicurezza, di continuità lavorativa, di garanzie, connesse alla diffusione di

modelli di organizzazione del lavoro sempre più orientati alla flessibilità, anche su

segmenti della popolazione – come i giovani altamente qualificati – che si presumevano

immuni da questo tipo di rischi. Al contempo, grazie all’opportunità di porre a

confronto contesti territoriali diversi e agli stimoli emersi dalle riflessioni di diversi

testimoni privilegiati, è stato possibile delineare un quadro articolato di possibili

strategie di intervento per affrontare il problema, mirate in particolare a favorire un

grado più elevato di coerenza tra investimento formativo effettuato, competenze

acquisite e lavoro e ad offrire maggiore sicurezza rispetto alla progettualità per il futuro,

sia sul piano professionale che su quello privato e familiare. Nel concludere riteniamo

pertanto ancora una volta necessario sottolineare l’urgenza di azioni e politiche che

vadano in questa direzione, non solo per la rilevanza del problema in termini di vissuti

individuali, ma anche per le notevoli implicazioni in termini di (mancata) crescita e

sviluppo economico e sociale che questo tipo di situazione può generare.

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