La trappola della passione. Esperienze di precarietà dei giovani highly skilled in Italia, Spagna e...
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Early draft of the chapter “La trappola della passione. Esperienze di precarietà dei
giovani highly skilled in Italia, Spagna e Regno Unito”, Annalisa Murgia and Barbara
Poggio, published in G. Cordella, S.E. Masi (eds.) Condizione giovanile e nuovi rischi
sociali. Quali politiche?, Carocci, Roma, 2012: 105-123.
1. Introduzione
Gli studi economici e sociologici che negli ultimi decenni si sono focalizzati sull’analisi
dello sviluppo dei mercati e delle condizioni di lavoro, hanno messo in evidenza
questioni come la crescente globalizzazione dei mercati, l’aumento della competitività
tra le imprese e l’esigenza di sempre maggiore flessibilità. Molti di questi contributi, nel
considerare le implicazioni di questi cambiamenti sulla forza lavoro, hanno polarizzato
l’analisi su due distinti segmenti: uno flessibile, altamente qualificato, con salari elevati,
alta mobilità e possibilità di negoziare buone condizioni di lavoro; un altro precario, non
qualificato, con salari bassi, ridotta possibilità di mobilità e debole potere di
contrattazione.
I più recenti cambiamenti degli assetti economici, legati in particolare alla crisi, hanno
in realtà contribuito a rendere i mercati sempre più flessibili, ma al contempo sempre
meno dinamici, generando una crescente insicurezza per tutti i lavoratori, in particolare
per le fasce più giovani, indipendentemente dal loro livello di istruzione e competenze,
rendendo pertanto meno diverse le esperienze di accesso e di permanenza nel mercato
del lavoro dei giovani più istruiti rispetto agli altri.
A partire da queste constatazioni il progetto “Trapped or Flexible? Risk Transitions and
Missing Policies for Young Highly Skilled Workers in Europe”, finanziato dalla
Commissione Europea e realizzato nel corso del 20111, ha concentrato l'attenzione
proprio sulla precarietà dei giovani con elevati titoli di studio. Nel corso della prima
1 I partner che hanno realizzato il progetto sono: l'IRS - Istituto per la Ricerca Sociale di Milano, ilDipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento, il Centro di Ricerche eServizi Avanzati per la Formazione “Amitié” di Bologna, l'Institute for Employment Studies di Brighton eil Centro de Estudios Economicos Tomillo S.L. Di Madrid. Il progetto è stato finanziato dallaCommissione Europea, DG Occupazione, Affari Sociali e Pari Opportunità, Dialogo Sociale, DirittiSociali, Condizioni di Lavoro e Adattamento al cambiamento, attraverso l'azione “Pilot project toencourage conversion of precarious work into work with rights” (VP/2010/016). I risultati complessividel progetto sono raccolti nel volume a cura di AA.VV. (2012) Precarious Work and Young Highly SkilledWorkers in Europe. Risk Transitions and Missing Policies, Angeli, Milano.
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fase progettuale è stata costruita una mappatura delle politiche implementate nei 27
paesi membri dell'Unione Europea, mirate a sostenere i giovani lavoratori con impieghi
non standard e a estendere loro i diritti garantiti a chi ha un lavoro permanente. In una
seconda fase si è invece proceduto alla realizzazione di tre studi di caso realizzati in
Italia, Spagna e Regno Unito, nel corso dei quali sono state utilizzate delle tecniche di
ricerca sia quantitative che qualitative rispetto allo specifico target individuato, al fine di
definire con maggiore chiarezza il fenomeno e le eventuali iniziative adottate per
contrastarlo all’interno dei diversi contesti nazionali, di individuare delle chiavi
interpretative e di fornire delle indicazioni di policy.
In questo contributo verrà inizialmente presentato un quadro generale della situazione
europea e successivamente ci si focalizzerà sui principali risultati della parte di ricerca
qualitativa. Verranno in particolare prese in considerazione le interviste realizzate con i
giovani highly skilled2 – donne e uomini, di età compresa tra i 25 e i 34 anni e con
almeno cinque anni di esperienza lavorativa – i quali, al momento dell'intervista,
lavoravano con un contratto temporaneo nel loro ambito di competenza o erano stati
costretti ad accettare occupazioni low-skilled. L'analisi delle interviste ha evidenziato la
forte carenza di politiche mirate a far fronte all'instabilità lavorativa della popolazione
giovanile in generale e più in particolare alle difficoltà occupazionali dei giovani
altamente qualificati. I principali punti di criticità – che saranno discussi nel paragrafo
successivo – riguardano per un verso la dimensione dell'instabilità lavorativa, per l'altro
le implicazioni che la precarietà lavorativa ha su tutti gli altri ambiti di vita, a partire
dall'articolazione tra vita privata e vita professionale, fino all'accesso ad una piena
protezione sociale, che resta legata al lavoro dipendente e a tempo indeterminato.
I principali risultati conoscitivi emersi dai racconti dei giovani precari highly skilled
sono stati in seguito discussi all'interno di alcuni focus group realizzati nell'ambito del
progetto in Italia, Spagna e Regno Unito, a cui hanno partecipato testimoni privilegiati
che a livello nazionale si occupano di politiche del lavoro: policy makers, enti di
formazione, enti previdenziali, sindacati, ecc. Nella sezione conclusiva proporremo
dunque, sulla base del confronto avvenuto nel corso dei focus group, un ragionamento
2 Nel corso del 2011 sono state effettuate tra le 20 e le 30 interviste semi-strutturate in ciascuno dei paesipartner, per un totale di 75. Le interviste sono state condotte nelle aree di Milano, Trento e Bologna perquanto riguarda il contesto italiano, di Madrid per la Spagna e di Brighton per il caso inglese. Tutti isoggetti intervistati erano in possesso di elevati titoli di studio (laurea, master e in alcuni casi dottorato diricerca).
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sulle politiche – quelle presenti e quelle che ancora mancano – mirate a sostenere i
giovani altamente qualificati che lavorano con forme contrattuali precarie.
2. Nuovi scenari di precarietà e nuovi soggetti precari
I nuovi scenari del lavoro hanno da tempo costretto esperti e studiosi a ridefinire le
tradizionali categorie interpretative costruite intorno al lavoro inteso come un “posto”,
fisso e di tipo dipendente (Casey, 1995; Sennett, 1998; Accornero, 2011). Nelle società
contemporanee, sempre più globalizzate e interconnesse, si assiste a un profondo
cambiamento – a cui hanno ampiamente contribuito le tecnologie dell’informazione e
della comunicazione – non solo della natura del lavoro, ma degli stessi rapporti sociali
(Marazzi, 1994; Beck, 1999; Beck, Beck-Gernsheim, 2002). In un tale contesto,
caratterizzato da situazioni eterogenee e in continua trasformazione, le immagini e i
significati attribuiti al lavoro si riarticolano dentro la mobilità dei soggetti, attraverso i
passaggi continui tra diversi lavori, nell’oscillazione tra occupazione e disoccupazione,
tra formazione e lavoro, dando luogo a nuovi percorsi professionali e più in generale a
nuove trame biografiche. I mutamenti del lavoro hanno infatti eroso la coerenza dei
compiti associati alle occupazioni e l’omogeneità delle categorie occupazionali,
lasciando spazio alla progressiva diffusione del lavoro cosiddetto flessibile. E a
cambiare, in questo scenario, non è solo la geografia del mondo del lavoro, ma anche le
diverse forme di vulnerabilità sociale che in essa sono incorporate (Castel, 1995;
Chicchi, 2001, Gallino, 2001).
Nei paesi dell'Europa altamente terziarizzati le tradizionali categorie di lavoro
tipico/atipico; retribuito/non retribuito; regolato da contratto o in nero;
materiale/immateriale perdono dunque la propria capacità euristica, così come lo stesso
dualismo che identifica un'attività professionale come qualificata o non qualificata.
Oggi, il concetto di génération précaire (Bourdieu, 1998) non fa più riferimento ai soli
bad jobs, ma riguarda l'intero mondo del lavoro, seppur con sfumature e contorni in
continuo movimento (Brophy, de Peuter, 2007; Neilson, Rossiter, 2008; Armano,
Murgia, 2011). Nonostante le enormi disuguaglianze che persistono tra gruppi di
lavoratori, le loro posizioni non sono riducibili a due opposte polarità: una composta di
soggetti autonomi, freelance, con elevate competenze e titoli di studio; l'altra fatta di
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lavoratori/trici che svolgono attività dequalificate, precarie e mal retribuite. Dove
collocare, ad esempio, l'esperienza di soggetti con elevati titoli di studio e con
professionalità altamente qualificate, che svolgono attività dense di significato, ma con
livelli retributivi minimi e quasi del tutto esclusi dalle forme di garanzia e protezione
sociale cui dà accesso il vecchio “posto fisso”, qualificato o meno che sia?
Ad essere esposti al costante rischio di disoccupazione, assenza di reddito e marginalità
sociale, nell'attuale knowledge economy (Barley, Kunda, 2004; Rullani, 2004), sono
oggi anche lavoratori e lavoratrici con elevate qualifiche e competenze. I precari highly
skilled – chiamati anche “cognitari” (Bifo, 2011), a evidenziare il fatto che a essere
precari sono anche lavoratori e lavoratrici della conoscenza, noti in letteratura come
knowledge workers (Harvey, 1990) – sono da tempo considerati come una categoria
sociale a rischio per diverse ragioni: sono soggetti contrattuali deboli, spesso autonomi
o parasubordinati; vivono condizioni di instabilità occupazionale; non godono di grande
attenzione e riconoscimento da parte delle istituzioni, delle imprese e delle forze
politiche; hanno prospettive di carriera particolarmente frammentate e incerte (Armano,
2010; Bologna, Banfi, 2011).
In un certo senso questa particolare categoria di giovani lavoratori è stata catturata da
quella che potremmo definire una “trappola della passione” (Murgia, 2012). Da un lato
svolgono attività che rappresentano per loro fonte di passione e piacere, e di
un’esperienza professionale che dà soddisfazioni, ma dall’altro questi lavoratori fanno
esperienza della passione nel senso più letterale del termine: la pena, la sofferenza e la
fatica causate da contratti di lavoro e da condizioni di instabilità che spesso sono forzati
ad accettare. Le condizioni particolari di identificazione che le persone hanno con il loro
lavoro e la convinzione che, nel caso di attività ricche di significato, stiano facendo
qualcosa di importante e che stiano lavorando per se stessi, li rende peraltro soggetti a
stress e auto sfruttamento (Morini, 2010; Formenti, 2011).
Rispetto a tale quadro, l’attuale crisi economica non ha fatto che generare una nuova e
crescente insicurezza per questa particolare categoria di lavoratori, altamente istruita e
qualificata, soprattutto per quanto riguarda le fasce più giovani (Villa, 2010; AA.VV.,
2012). Come mostra un recente rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro,
il lavoro temporaneo è cresciuto in maniera rilevante, sia per adulti che per giovani, tra
il 2000 e il 2008 in tutti i paesi membri dell'Unione europea. Tuttavia, l'aumento tra i
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giovani è stato nettamente più drastico: più di un giovane su tre non è riuscito ad
accedere a un lavoro permanente e questo numero è ulteriormente cresciuto in seguito
alla crisi (dal 36.3% nel 2008 al 37.1% nel 2010).
Fig. 1 – Incidenza del lavoro temporaneo sul totale del lavoro dipendente per classi di età nel
2010
Fonte: EUROSTAT - Labour Force Survey
Nell'EU27 sono a termine oltre il 50% dei contratti attraverso cui lavorano i giovani tra i
15 e i 20 anni, mentre si attestano intorno al 15% per i trentenni. Il lavoro temporaneo è
tuttavia diffuso in molti paesi anche tra lavoratori e lavoratrici nella fascia di età 25-39.
Oltre a una segregazione generazionale persiste inoltre il ben noto fenomeno della
segregazione di genere: nella maggior parte dei paesi europei le donne hanno più
probabilità degli uomini di essere impiegate con contratti temporanei. Nel 2010
l’incidenza del lavoro temporaneo sul totale dell’occupazione dipendente nell'EU27 è
stata in media del 14.6% per le donne e del 13.3% per gli uomini, con dei divari più o
meno accentuati all'interno dei vari paesi. Risultano in linea con il quadro generale
europeo Italia, Francia e Germania. L'Italia registra tuttavia delle più ampie differenze
di genere, dal momento che lavorano con contratti a termine (dipendenti, autonomi e
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parasubordinati) il 15.1 delle donne e il 9.8% degli uomini (Murgia, Poggio, Torchio,
2012). In Spagna, invece, la diffusione dei contratti a termine risulta notevolmente più
accentuata rispetto alla media europea, mentre nel Regno Unito la presenza del lavoro
temporaneo si attesta su livelli alquanto ridotti. Tuttavia, ad accomunare questi paesi è
la bassa presenza di differenze di genere nella distribuzione dei lavori a termine,
soprattutto per lo specifico target dei giovani highly skilled (González Gago et al. 2012;
Hadjivassiliou et al. 2012).
Se si considera nello specifico la diffusione del lavoro temporaneo tra i soggetti
altamente qualificati, oggetto di questo contributo, si registrano andamenti molto
differenti tra i diversi paesi membri. Tra i laureati della classe di età 15-24 il lavoro a
termine ha un'incidenza maggiore di oltre 6 punti percentuali rispetto alla media
osservata per tutti gli altri livelli di istruzione in Portogallo, Finlandia, Italia, Cipro e
Repubblica Ceca. Per i lavoratori più istruiti nella classe di età 25-39 il differenziale
nell’incidenza del lavoro temporaneo appare piuttosto consistente nel caso di Austria e
Italia (circa 7 punti percentuali). In molti paesi europei, dunque, specialmente quelli
caratterizzati da mercati del lavoro segmentati e che hanno attuato solo “riforme al
margine” l’istruzione universitaria non sembra offrire alcuna garanzia di ottenere un
impiego stabile.
Fig. 2 – Tassi di transizione da contratti temporanei a permanenti, in base al livello di istruzione
(media 2005-07)
Fonte: figure 32, capitolo 3, Employment in Europe 2010, European Commission
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Inoltre, se nella maggior parte degli Stati Membri (11 su 19), i lavoratori con un livello
di istruzione primario hanno minori probabilità di transitare in tempi brevi verso un
contratto a tempo indeterminato, la relazione tra i tassi di transizione e il livello di
istruzione non sembra essere lineare. Solo in un numero ridotto di Stati Membri (7 su
19), infatti, il tasso di transizione verso contratti a tempo indeterminato è più alto per i
neolaureati che per gli individui con un livello di istruzione secondario. In altre parole,
lavoratori e lavoratrici con lavori temporanei e con elevati livelli di istruzione non
hanno più probabilità dei loro colleghi con un livello di istruzione più basso di ottenere
un lavoro permanente (Torchio, 2012).
Dopo aver offerto una panoramica del fenomeno dell'instabilità lavorativa tra i giovani
con alti titoli di studio, dedicheremo la prossima sezione alla discussione dei principali
risultati emersi dall'analisi delle interviste condotte con giovani precari highly skilled in
Italia, Spagna e Regno Unito.
3. Giovani highly skilled: tra instabilità contrattuale e desideri di realizzazione
Di seguito verranno presentati alcuni dei principali esiti emersi dall’analisi delle
interviste condotte con i giovani intervistati. La discussione dei risultati verrà distinta in
due sezioni: nella prima l’attenzione verrà in particolare focalizzata su alcune
dimensioni che riguardano più direttamente l’esperienza lavorativa, come l’instabilità e
la temporaneità della condizione contrattuale, la precarietà economica e la
dequalificazione. Nella seconda sezione, invece, prenderemo in considerazione le
implicazioni della condizione lavorativa sui vissuti personali, dedicando specifica
attenzione sia alle difficoltà di conciliazione quotidiana tra vita privata e professionale,
sia alle conseguenze che lo svolgere un lavoro temporaneo può avere rispetto al proprio
corso di vita, in corrispondenza di eventuali interruzioni di carriera, dovute ad esempio
alla maternità o a un periodo di malattia, o in riferimento alla progettazione del proprio
futuro.
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3.1. Lavori precari
La prima evidenza che è possibile rilevare dall’analisi dei testi di intervista è che
l’ingresso al lavoro non è mai raccontato come una transizione lineare tra la condizione
di studente e quella di lavoratore, ma come un percorso piuttosto accidentato, sottoposto
a continue interruzioni e cambiamenti di rotta. Nelle interviste realizzate in Gran
Bretagna la discontinuità è data soprattutto dal passaggio attraverso diverse esperienze
di stage, per lo più non remunerate, mentre nelle testimonianze raccolte in Italia e in
Spagna si tratta soprattutto di brevi episodi lavorativi, con contratti spesso non
rinnovati. In questo secondo caso, un momento cruciale per molte delle persone
intervistate sembra essere proprio quello relativo all’avvicinarsi della scadenza del
contratto, che viene descritto come una situazione caratterizzata da una certa
ambivalenza da parte dei datori di lavoro e da un conseguente senso di indeterminatezza
da parte dei giovani lavoratori.
A marzo mi avevano fatto un contratto di sei mesi. A settembre sono tornata sapendo
che sarebbe durato da settembre 2010 a settembre 2011. Però i giorni passavano e
questo contratto non arrivava. Quindi aspetta un giorno, aspetta una settimana... a un
certo punto era fine ottobre... allora sono andata a bussare alla porta del responsabile
del personale e mi sono sentita rispondere “Non è che rompendomi tutti i giorni i
coglioni tu pensi che io ti possa fare il contratto”. La conseguenza di questa cosa è che
io tutt'oggi non ho questo contratto. [Italia, donna, 33].
La percezione della natura precaria ed effimera di ogni esperienza di lavoro genera una
crescente demotivazione, insieme al timore della perdita di competenze. Per questi
intervistati sono le stesse modalità con cui si esplica il lavoro temporaneo a non farlo
percepire come un lavoro vero e proprio: si tratta infatti di esperienze brevi, che non
offrono possibilità di crescita e di apprendimento, né consentono di sentirsi appartenenti
ad un gruppo di lavoro, facendo sì che i giovani lavoratori si sentano estranei agli
ambienti in cui operano e dove non rimarranno più di qualche mese.
Il lavoro temporaneo è quello che davvero ti consuma e ti esaurisce. Lavoro come
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sostituto nelle filiali di banca quando c’è una grande mole di attività. Per esempio ho
dovuto andare in una filiale vicino ad una spiaggia in estate. Lì non c’è tempo per fare
niente di più dei tuoi compiti specifici. Quindi non puoi imparare nulla. Devi solo
lavorare e basta. Secondo me il problema è il lavoro temporaneo. Io sono potuto restare
nello stesso lavoro per non più di tre mesi. La stabilità mi renderebbe più felice e mi
stimolerebbe ad apprendere [Spagna, donna, 32].
In questa prospettiva la disoccupazione, tradizionalmente definita come mancanza di un
lavoro, assume una accezione più sfumata, in quanto ci si trova di fronte a confini più
labili tra chi ha un impiego e chi ne è senza. Muta anche il referente semantico del
concetto di “stabilità”, che non sembra soltanto riguardare il poter contare su un lavoro
permanente, ma anche la percezione di una continuità di reddito e di esperienze di
lavoro e sembra soprattutto caratterizzarsi come l'assenza del bisogno di cercare lavoro.
Per quanto riguarda in particolare il caso inglese, il disagio deriva soprattutto dal fatto
che le prime esperienze professionali si realizzano sotto forma di stage, solitamente non
remunerati. In diverse testimonianze si riscontra la disponibilità di persone con un
elevato titolo di studio ad accettare condizioni non garantite, se ciò viene percepito
come una opportunità – in futuro – di svolgere un lavoro coerente con il proprio titolo di
studio. Questo consolida la tendenza, da parte dei datori di lavoro, a fare ampio ricorso a
tali forme contrattuali per poter utilizzare personale giovane qualificato a buon mercato.
La maggior parte degli stage che ho fatto non erano retribuiti e questo ha cambiato la
mia prospettiva. Dopo aver fatto il mio terzo o quarto stage, e ottenuto la mia laurea e
la specializzazione, stavo cominciando a chiedermi di cos’altro avrei avuto bisogno per
trovare un lavoro. La mia prospettiva è passata dal voler avere un’esperienza di lavoro
nel mio primo stage a… ora basta, preferirei andare da Tesco e ottenere un lavoro
retribuito diverso da quello che sto cercando, piuttosto che fare un altro lavoro non
retribuito. Mi sentivo stupido per il fatto di offrire servizi gratuitamente, quando sono
laureato e qualificato [UK, uomo, 28 anni].
Un altro aspetto critico che contraddistingue la condizione lavorativa delle persone
intervistate, trasversalmente ai diversi contesti territoriali, riguarda la dimensione
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economica. Per molti degli intervistati, alla prestazione della propria attività
professionale non corrisponde un compenso monetario adeguato, e questo è, alla lunga,
fonte di profonda frustrazione. Né risulta compensata da una maggiore retribuzione la
discontinuità lavorativa, come era invece in qualche modo sottintesto dal paradigma
della flessibilità.
Mentre studiavo all’università ho lavorato 20 ore a settimana in un famoso ristorante
fast food. Cinque anni dopo, ho lavorato come ricercatore economico, un lavoro molto
più interessante. Tuttavia il mio salario (orario) era inferiore a quello nel ristorante.
Allora ho capito che livello di istruzione e salario non corrispondono per niente
[Spagna, uomo, 32].
Meno problematica, su questo versante, appare la situazione inglese, dove le criticità si
riscontrano prevalentemente nella fase di ingresso, ma poi la situazione sembra
progressivamente migliorare nel tempo.
Quando mi è stato offerto un impiego il mio stipendio era di £13,000 e quando sono
stato assunto a tempo indeterminato ho otteuto un aumento di £500, dopodiché riceverò
un aumento di £500 ogni anno [UK, uomo, 29].
La maggiore difficoltà per i laureati inglesi sembra piuttosto essere legata al debito
contratto con le banche per poter pagare i propri studi e alla difficoltà di ripianarlo visti i
redditi limitati delle prime occupazioni.
Il modo in cui le banche trattano i laureati aggrava notevolmente la loro miseria [UK,
donna, 30].
Un aspetto che accomuna gli intervistati nelle tre diverse realtà è la percezione che le
loro traiettorie professionali non portino da nessuna parte e che le credenziali educative
acquisite con anni di studio non siano effettivamente in grado di garantire condizioni di
lavoro soddisfacenti e la costruzione di un profilo professionale coerente e spendibile
sul mercato. Per molti dei giovani intervistati l’impossibilità di costruire un percorso
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coerente, il rischio di perdere le proprie competenze e il trovarsi a dover accettare lavori
di profilo molto inferiore a quelli per cui si sono qualificati, per poter sopravvivere,
rappresenta una forte fonte di ansia e frustrazione.
Ti senti frustrato. Io ho sempre pensato di non aver studiato per cinque anni per tirar su
il telefono. Non voglio essere una segretaria. Se avessi voluto esserlo non avrei mai
studiato per ottenere una laurea in legge [Spagna, uomo, 30].
La percezione di essere sovra-qualificati rispetto al lavoro svolto costituisce dunque una
delle principali criticità. I giovani più qualificati arrivano a pensare che i loro titoli di
studio agiscano formalmente come un ostacolo rispetto all’accesso al lavoro, aspetto che
accresce il loro senso di inadeguatezza e di demotivazione di fronte ad un divario
crescente tra aspettative e realtà.
Sarebbe molto più capace un elettrotecnico di fare il lavoro che faccio e avrebbe anche
credo molto più interesse, più spinta o molto più divertimento nel farlo. Io facevo fisica
della materia... onestamente non mi interessa nulla delle macchine... si, mi interessa
sapere come funzionano... però una volta che dopo sei mesi ho capito come vanno le
cose, poi non mi interessa più. Si, è lavoro e devo farlo al meglio, ma no...
intellettualmente non mi interessa proprio [Italia, uomo, 30 anni].
Il problema della dequalificazione sembra essere trasversale ai tre casi, pur nelle loro
specificità. Anche in Gran Bretagna infatti, seppure la possibilità di accedere ad un
posto di lavoro dopo la fase iniziale di apprendistato sembri maggiore rispetto agli altri
due casi, le opportunità di ottenere un lavoro coerente con il proprio percorso fomativo
risultano comunque essere limitate.
Ho fatto domanda per lavori ben al di sotto del mio livello di competenza e ancora non
sono stato invitato ad un colloquio. Questo ha aumentato la mia preoccupazione
rispetto alla mia capacità di ottenere un qualche lavoro, e in particolare uno che sia ad
un livello di competenza appropriato [UK, uomo, 28].
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Come abbiamo detto in precedenza, questa particolare categoria di giovani si trova
dunque ad essere bloccata in quella che può essere definita una “trappola della
passione”: da un lato, infatti, sono alla ricerca di un lavoro che consenta loro di vivere la
propria passione, ovvero di sviluppare le competenze acquisite nel percorso di studio e
sperimentarsi nel profilo sul quale hanno investito, dall’altro l’instabilità lavorativa, la
mancanza di tutela e in molti casi anche la stessa impossibilità di svolgere il lavoro per
cui si sono formati, producono stress, sofferenza ed insoddisfazione e generano ansia
rispetto al futuro.
3.2. Vite precarie
Un secondo ambito esplorato dalle interviste era quello relativo all’intreccio fra
traiettoria lavorativa e altre sfere di vita e in particolare alle implicazioni che percorsi
lavorativi instabili possono avere sull’esperienza biografica degli individui. Anche in
questo caso si osservano alcune differenze tra i due contesti mediterranei e la realtà
inglese. Nelle interviste realizzate in Italia e in Spagna vengono sottolineati soprattutto
il problema della dipendenza abitativa e le difficoltà di conciliazione tra vita lavorativa
e personale e di costruzione di un progetto familiare, in particolare da parte delle donne.
Sembra invece essere trasversale a tutte le testimonianze raccolte nei tre paesi oggetto
della ricerca la questione del sovradimensionamento lavorativo, ovvero della tendenza
del lavoro a fagocitare tutti gli altri ambiti vitali.
Per quel che riguarda la questione della dipendenza abitativa, per quanto la maggior
parte dei giovani intervistati spagnoli e italiani si sforzi di non essere un peso per la
propria famiglia di origine, la natura discontinua delle loro entrate fa sì che si trovino a
dover ricorrere al supporto e alle risorse familiari. Una preoccupazione presente nelle
riflessioni di diversi intervistati è in tal senso quella di non perdere la propria
indipendenza. Al contempo alcuni di loro descrivono la preoccupazione delle proprie
famiglie di fronte ad una situazione percepita come dissonante rispetto all’investimento,
individuale e familiare, sul percorso educativo.
Tornare in famiglia è una sconfitta personale e la percezione della famiglia
contribuisce, in un certo senso, a questa sensazione negativa. So che non mi
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condannano, ma lo vivono come un fallimento collettivo, anche se cercano di essere
ottimisti per non aumentare la mia frustrazione. Tuttavia sentono il mio fallimento
[Spagna, donna, 30].
La discontinuità lavorativa, la precarietà economica e la mancanza di autonomia
abitativa, tendono inoltre a scoraggiare ogni progetto di ampio respiro per il futuro,
spingendo i giovani – e soprattutto le giovani – intervistati/e a vivere alla giornata,
senza poter pianificare la costruzione di nuovi nuclei di coppia o fare scelte di
genitorialità.
Non ho mai pensato di avere figli perché non possono nemmeno immaginarlo nella mia
attuale situazione. Io non so nemmeno dove sarò nei prossimi tre mesi… [Spagna,
donna, 32].
Io non ho figli... e come dire... ci penso all'idea che comunque non ho garanzie
lavorative e quindi dover mettere al mondo oggi un figlio nella mia situazione non è
una cosa facile. Vivo da sola, quindi se una sera faccio tardi e torno a casa alle 10
grazie a dio devo pensare soltanto a me, quindi va bene. Non so, dovendo avere una
famiglia, a quel punto lì che cosa comporterebbe. La vedo sicuramente una situazione
problematica, non facile. Non vedo vantaggi nella mia condizione, di nessun tipo. Non
sono una libera professionista per scelta, ma per necessità, quindi vedo solo elementi
negativi. [Italia, donna, 33]
L'evento della maternità continua dunque a rappresentare un nodo cruciale, soprattutto
per le giovani donne che lavorano con contratti a termine, caratterizzati da scarse tutele
e dalla difficoltà di esercitare un diritto, anche laddove sia previsto, a causa della loro
brevità e dell'incognita di un possibile rinnovo o stabilizzazione. Anche i dati Eurostat
(2011) mostrano che se nel continente europeo persistono in generale rilevanti
differenze di genere sul lavoro, sono tuttavia bene più marcate le problematicità cui
devono far fronte le lavoratrici “atipiche” rispetto a quelle “tipiche”, soprattutto per
quanto riguarda le scelte di vita familiare: uscita dalla famiglia di origine, matrimonio,
convivenza, primo figlio, ecc.
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Il dover posticipare – e talvolta addirittura abbandonare – specifici progetti biografici, in
particolare legati all'indipendenza abitativa e alla genitorialità, è una condizione senza
dubbio legata al fatto che le nuove forme di lavoro esigono spesso un più forte
coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici rispetto al lavoro salariale classico, lasciando
scarsa autonomia per altre sfere vitali. Gli intervistati descrivono infatti situazioni
lavorative di costante disponibilità, in cui devono essere continuamente pronti a
rispondere alle richieste provenienti dalle organizzazioni. In tutti e tre i paesi la paura di
un possibile licenziamento o di un mancato rinnovo del contratto accentua ancora di più
questo condizionamento, portando a fenomeni di “super-lavoro” (Castel 2002).
Bisogna essere disponibili a lavorare sette giorni alla settimana e le richieste di lavoro
potrebbero arrivarti anche alle 11 della sera prima di un turno [Uk, uomo, 28 anni].
La settimana non esiste fondamentalmente, il sabato e la domenica magari bisogna già
preparare qualcosa per il lunedì... c'è da mettere a posto casa, pagare le bollette, per
cui rimane poco tempo per fare altre cose... un lavoro così ha ucciso tutto il resto del
tempo, decisamente. [Italia, Uomo, 33].
Tra i giovani intervistati sono molto pochi quelli che lavorano solo all’interno di orari
chiaramente predefiniti, ma al di là della destrutturazione del tempo e degli orari, ciò a
cui si assiste è una tendenza alla “intensificazione” e “densificazione” dell’orario di
lavoro (Gallino 2001).
Un secondo aspetto relativo all’intreccio tra lavoro e vita personale che emerge con
evidenza dalle interviste, in particolare quelle italiane e spagnole, riguarda la percezione
di vulnerabilità sul piano della protezione sociale. Nelle interviste viene denunciata più
volte la scarsa o talvolta inesistente possibilità di accedere ai diritti sociali previsti per
gli altri lavoratori: diritti pensionistici, indennità di malattia, congedi di maternità o
parentali retribuiti, formazione e sussidi di disoccupazione. Gli stralci delle interviste
realizzate con un avvocato spagnolo e con un archeologo italiano mettono ben in luce
sia la mancanza di attenzione da parte delle istituzioni rispetto a tali problematiche, sia
il divario di trattamento all'interno dello stesso contesto lavorativo di personale
permanente e temporaneo.
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Sembra che il governo non si preoccupi dell’economia informale. Ho passato più di due
anni in un bar senza alcun contratto. E non ho mai visti una ispezione di lavoro. E’ una
situazione molto diffusa tra i giovani avvocati [Spagna, uomo, 30].
A lungo andare, dopo dieci anni che hai contratto a progetto, non ne puoi più. Non puoi
lavorare in cantiere e non avere minimamente neanche la cassa edile o la sicurezza sul
lavoro... Il contratto edile presuppone la cassa integrazione per maltempo. Per cui se
c'è brutto tempo e non hai un lavoro alternativo in ufficio vai a casa, ma la giornata di
lavoro ti viene pagata comunque. Con il contratto a progetto già lo stipendio era
inferiore ai 1000 euro, per 40 ore settimanali in cantiere. Se cominciava a piovere...
arrivi a prendere buste paga di 620 euro... (ride) che è quello che ho speso di benzina
per andare avanti e indietro in sostanza. [Italia, uomo, 34]
L’aspirazione di molti di questi giovani non sembra tanto essere quella di riuscire ad
ottenere un posto di lavoro fisso per tutta la vita, quanto piuttosto la possibilità di
accedere a forme di tutela in grado di assicurare una continuità di reddito anche nelle
fasi di vita in cui non c’è l’effettiva possibilità di svolgere una attività lavorativa e di
poter fare progetti per il futuro, soprattutto quando non c’è una famiglia di supporto alle
spalle.
Le tre cose che ti posso citare sono sicuramente la previdenza, perché la pensione non
ce l'avremo mai... ci comincio a pensare. La malattia, perché se ti ammali non lavori
più, la maternità, perché non ho figli, ma anche volendo sarebbe impossibile... E poi,
problema che ho già vissuto varie volte, il reddito... nel senso che quello che mi serve è
un sostegno al reddito. È ingiusto che io non abbia l'accesso al reddito come un
operaio che rimane senza lavoro e per 6 mesi si becca la cassa integrazione [Italia,
uomo, 34].
Dopo aver messo in luce le criticità espresse dai giovani precari highly skilled, legate
soprattutto al fenomeno del sotto-inquadramento professionale e alla mancanza di diritti
legati alle forme contrattuali con cui lavorano, nella prossima e conclusiva sezione la
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nostra attenzione sarà rivolta ad alcune possibili proposte di policy – scaturite dai focus
group realizzati con i testimoni privilegiati nei tre paesi oggetto della ricerca – orientate
a promuovere la qualità e i diritti del lavoro di questo specifico target di lavoratori e
lavoratrici, attraverso la riduzione dei rischi sociali e il miglioramento delle condizioni
di lavoro.
4. Allargare i diritti a chi non ha un lavoro permanente: scenari e prospettive di
policy
Gli effetti della precarizzazione delle condizioni di lavoro in Europa, esacerbate dalla
crisi economica, hanno avuto implicazioni critiche soprattutto sulle giovani generazioni
e non hanno risparmiato i giovani con elevate qualifiche educative, a differenza di
quanto inizialmente si era previsto.
Al di là delle conseguenze individuali, relative – come abbiamo cercato di mettere in
evidenza in questo contributo – sia ai percorsi lavorativi strictu sensu, sia all’intreccio
tra vita lavorativa e personale – questo fenomeno rappresenta un costo sociale, in quanto
lo spreco di capitale umano altamente qualificato riduce le prospettive di crescita,
aumenta il rischio di povertà e le diseguaglianze tra le generazioni, riduce le entrate
fiscali e genera una più elevata spesa sociale.
Appare dunque sempre più urgente la necessità di sviluppare strategie di intervento
articolate, in grado di contrastare questo fenomeno e formulare politiche
specificatamente rivolte a questo target di giovani, fino ad oggi non considerato
prioritario.
Negli ultimi anni solo alcuni paesi europei hanno adottato iniziative mirate ai giovani
più qualificati, come nel caso degli accordi collettivi per ruoli dirigenziali e per salari e
orari flessibili realizzati in Svezia, il programma di sussidi per giovani liberi
professionisti in Grecia e il patto nazionale per la formazione per i giovani lavoratori
qualificati in Germania3.
3 Alcuni paesi hanno recentemente prestato specifica attenzione alla contrattazione collettiva dei giovanilavoratori qualificati. Si può menzionare, in particolare, l'esempio svedese, dove è entrato in vigore uncontratto collettivo per lavoratori/trici in posizioni di responsabilità, come nel caso dei dirigentidell'industria grafica (2004). In Grecia, invece, è stato introdotto, a partire dal 2009, un programma persupportare i giovani laureati fino a 34 anni di età nell'avvio di attività professionali autonome (rivolto adesempio a ingegneri, medici, farmacisti, avvocati, ecc.). Un altro caso interessante è rappresentato dalprogramma “Employment Bridge Bavaria” attivato in Germania. Si tratta di una iniziativa istituita per
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Se consideriamo in particolare i tre paesi coinvolti dalla nostra ricerca, rileviamo che
politiche o piani di intervento specificamente indirizzati a giovani altamente qualificati
non esistono. Se vogliamo offrire un quadro delle politiche presenti dobbiamo far
riferimento più in generale alle politiche attive per i giovani e agli interventi mirati alla
transizione scuola-lavoro.
Nel caso di Italia e Spagna, tuttavia, anche questo tipo di interventi non risultano
particolarmente sviluppati. Entrambi i paesi hanno assistito, a partire dagli anni ’80-’90
ad un rapido processo di flessibilizzazione del lavoro, favorito dall’introduzione di
tipologie contrattuali non standard, orientate ad aumentare il lavoro temporaneo. Alcune
di queste forme, come i contratti di formazione, l’apprendistato e le borse di studio
indirizzate in modo specifico ai giovani e gestite senza un adeguato controllo, hanno
ulteriormente rafforzato il problema della precarizzazione.
In Spagna non esiste ad oggi una strategia complessiva di contrasto alla crescita del
precariato nell’occupazione giovanile, ma si riscontra piuttosto una certa ambivalenza
politica. Se infatti da un lato il governo ha emanato linee guida e incentivi per favorire
le assunzioni a tempo indeterminato, dall’altro sono stati rimossi vari limiti alla portata
e all’uso del lavoro temporaneo. Ad esempio un nuovo strumento è stato introdotto con
la recente riforma del mercato del lavoro (2012), che prevede un nuovo contratto a
tempo indeterminato e full-time, assicurando incentivi monetari per le aziende in caso di
assunzione di disoccupati; giovani con meno di 30 anni; lavoratori con più di 45 anni
che siano iscritti alle liste di disoccupazione. Tuttavia, sparisce di pari passo l'indennità
per fine rapporto e licenziare sarà più economico, avendo fissato il tetto massimo a 12
mensilità in caso di licenziamento per giustificato motivo, concetto ridefinito dalla
recente riforma. Allo stato attuale, infatti, anche una caduta delle vendite o una
diminuzione delle entrate dell'azienda per tre trimestri consecutivi, così come l'assenza
per malattia durante il 20% dei giorni lavorativi per due mesi di seguito (senza che vi sia
più alcun legame con la media dell’assenteismo in azienda) sono considerati dei
“giustificati motivi”. Ancora limitate appaiono inoltre le iniziative sul piano della
formazione e dell’avvio di attività imprenditoriali, così come poco efficaci sono i servizi
per l’impiego.
garantire l'occupabilità e la formazione professionale dei giovani lavoratori qualificati, i quali vengonoassunti da un'azienda “ponte” che fa da mediatrice per il successivo inserimento all'interno di altresocietà.
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Anche in Italia si è proceduto attraverso una riforma del mercato su due livelli, basata
per lo più sulla deregolamentazione dei contratti di accesso al lavoro. Il processo di
flessibilizzazione è stato qui particolarmente rapido. I pochi tentativi di contenimento
normativo della precarizzazione e di intervento a favore dei giovani hanno avuto respiro
corto e non hanno prodotto significativi miglioramenti. Anche la nuova riforma del
lavoro (2012), pur introducendo alcuni correttivi rispetto all’uso indiscriminato dei
contratti a progetto e una migliore regolamentazione dell’apprendistato, di fatto non
apporta sostanziali novità, non intervenendo sull'elevato numero di tipologie contrattuali
a termine ad oggi in vigore e non introducendo alcuna forma di tutela universale per la
perdita del posto di lavoro, né tanto meno uno strumento di continuità del reddito.
Piuttosto diversa appare la situazione del Regno Unito, in cui la flessibilizzazione del
mercato del lavoro non è un processo altrettanto recente e la transizione tra scuola e
lavoro è favorita da un uso diffuso di tirocini o di altre misure dedicate. Negli ultimi
anni questo orientamento è stato ulteriormente sostenuto dal programma “Graduate
Talent Pool” (2009), basato sull’accesso a tirocini per i giovani neolaureati e dal “Young
Person’s Guarantee” che offre a chi è ancora disoccupato a sei mesi dalla laurea la
possibilità di accedere a tirocini, a corsi formativi o a forme di sostegno all’auto-
imprenditorialità. Dal 1999 è inoltre stato introdotto un salario minimo nazionale che
comprende diverse categorie di giovani. Nonostante i tirocini si rivelino strumenti
importanti per l’accesso al lavoro, essi presentano tuttavia anche notevoli criticità, tra
cui in particolare quella relativa alla remunerazione, in molti casi non prevista.
A fronte di questi diversi scenari, i testimoni privilegiati interpellati attraverso i focus
group condotti nei tre paesi all'interno del progetto di ricerca qui presentato, hanno
offerto una pluralità di proposte e indicazioni di policy per affrontare la questione
dell’occupazione dei giovani altamente qualificati, modificando o integrando gli attuali
assetti normativi. Tra le principali strategie identificate vi è in particolare quella mirata
all’introduzione di ammortizzatori sociali capaci di compensare la flessibilizzazione del
mercato, favorendo sicurezza e sostenibilità, anche al fine di ridurre l’attuale asimmetria
tra le diverse tipologie contrattuali. Uno strumento efficace in questa direzione può
essere rappresentato da una estensione (o un'introduzione, nei paesi, quali l'Italia, in cui
ancora questo strumento non è stato implementato a nessun livello) del sostegno al
reddito nei periodi di disoccupazione per i giovani neo-laureati, che consenta loro di
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trovare posizioni lavorative più coerenti con le loro qualifiche. Emerge inoltre come
necessaria una riforma dei sistemi educativi e formativi finalizzata a garantire una
maggiore armonizzazione tra percorsi di studio e opportunità di impiego, favorendo
l’alternanza fra istruzione, formazione e lavoro tramite iniziative di orientamento e
placement. Ad essa andrebbe associata la formulazione di politiche attive, servizi e
incentivi specifici per i giovani altamente qualificati (servizi di accompagnamento,
counselling, micro-credito, spazi di lavoro, ecc.).
Ulteriori iniziative da promuovere in questa prospettiva potrebbero rivelarsi le azioni di
sostegno all’imprenditorialità giovanile, tramite incentivi all’innovazione, all’auto-
attivazione e all’avvio di impresa; il supporto a forme di associazione e aggregazione tra
giovani professionisti e il riconoscimento delle loro istanze nei contesti di
contrattazione; e infine un rafforzamento dei sistemi di controllo e prevenzione rispetto
alle situazioni di sfruttamento e di rischio.
Gli esiti della nostra ricerca hanno da un lato messo in evidenza le conseguenze critiche,
in termini di sicurezza, di continuità lavorativa, di garanzie, connesse alla diffusione di
modelli di organizzazione del lavoro sempre più orientati alla flessibilità, anche su
segmenti della popolazione – come i giovani altamente qualificati – che si presumevano
immuni da questo tipo di rischi. Al contempo, grazie all’opportunità di porre a
confronto contesti territoriali diversi e agli stimoli emersi dalle riflessioni di diversi
testimoni privilegiati, è stato possibile delineare un quadro articolato di possibili
strategie di intervento per affrontare il problema, mirate in particolare a favorire un
grado più elevato di coerenza tra investimento formativo effettuato, competenze
acquisite e lavoro e ad offrire maggiore sicurezza rispetto alla progettualità per il futuro,
sia sul piano professionale che su quello privato e familiare. Nel concludere riteniamo
pertanto ancora una volta necessario sottolineare l’urgenza di azioni e politiche che
vadano in questa direzione, non solo per la rilevanza del problema in termini di vissuti
individuali, ma anche per le notevoli implicazioni in termini di (mancata) crescita e
sviluppo economico e sociale che questo tipo di situazione può generare.
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