La responsabilità morale dell'individuo nelle azioni collettive / Individual responsibility in...

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La responsabilità morale dell’individuo nell’azione collettiva: il caso dei cambiamenti climatici Introduzione Stabilire se possa essere attribuita una rilevanza morale ai contributi individuali ad azioni o problemi collettivi è una questione aperta tra i filosofi. Quando l’apporto del singolo si inserisce in un orizzonte di vasta scala ed è così piccolo da non poter generare alcuna modifica tangibile sullo stato delle cose, l’attribuzione di un valore morale a esso è infatti problematica. Il caso dei cambiamenti climatici esemplifica alla perfezione questo tipo di situazione: si tratta di un problema che richiede una risposta collettiva, ma nella cui enorme dimensione il ruolo del singolo si perde. I pericoli a cui i cambiamenti climatici espongono il pianeta e i suoi abitanti, e il fatto che renderanno particolarmente difficile alle generazioni future la vita sulla terra, sono ampiamente riconosciuti dalla comunità scientifica 1 , e anche da gran parte della popolazione mondiale 2 . Economisti, naturalisti, scienziati politici e sociali sono da anni impegnati nella ricerca di una via d’uscita, che appare però lontana e complessa. In parte per il fatto che i cambiamenti climatici sono un problema collettivo per la cui soluzione (o sarebbe meglio dire “prevenzione”) è necessario lo sforzo congiunto di più persone. 1 Tali considerazioni sono ormai ampliamente condivise dalla comunità scientifica, come mostra il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) http://ipcc-wg2.gov/AR5/images/uploads/IPCC_WG2AR5_SPM_Approved.pdf . Se persistono delle incertezze, esse riguardano per lo più la stima precisa dell’aumento globale della temperatura e la severità degli impatti a esso correlata. 2 Si vedano i sondaggi realizzati dalla Commissione Europea: Special Eurobarometer 409, Climate Change, 2014, per le opinioni degli europei, e quelli realizzati dagli studiosi americani dello Yale Project on Climate Change Communication: A. Leiserowitz, E. Maibach, C. Roser-Renouf, G. Feinberg, P. Howe, Climate change in the American mind: Americans’ global warming beliefs and attitudes in April, 2013. Yale University and George Mason University. New Haven, CT: Yale Project on Climate Change Communication, 2013. 1

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La responsabilità morale dell’individuo nell’azione collettiva: ilcaso dei cambiamenti climatici

Introduzione

Stabilire se possa essere attribuita una rilevanza morale aicontributi individuali ad azioni o problemi collettivi è unaquestione aperta tra i filosofi. Quando l’apporto del singolo siinserisce in un orizzonte di vasta scala ed è così piccolo da nonpoter generare alcuna modifica tangibile sullo stato delle cose,l’attribuzione di un valore morale a esso è infatti problematica.Il caso dei cambiamenti climatici esemplifica alla perfezionequesto tipo di situazione: si tratta di un problema che richiedeuna risposta collettiva, ma nella cui enorme dimensione il ruolodel singolo si perde. I pericoli a cui i cambiamenti climaticiespongono il pianeta e i suoi abitanti, e il fatto che renderannoparticolarmente difficile alle generazioni future la vita sullaterra, sono ampiamente riconosciuti dalla comunità scientifica1, eanche da gran parte della popolazione mondiale2. Economisti,naturalisti, scienziati politici e sociali sono da anni impegnatinella ricerca di una via d’uscita, che appare però lontana ecomplessa. In parte per il fatto che i cambiamenti climatici sonoun problema collettivo per la cui soluzione (o sarebbe meglio dire“prevenzione”) è necessario lo sforzo congiunto di più persone. 1 Tali considerazioni sono ormai ampliamente condivise dalla comunitàscientifica, come mostra il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel onClimate Change (IPCC)http://ipcc-wg2.gov/AR5/images/uploads/IPCC_WG2AR5_SPM_Approved.pdf. Sepersistono delle incertezze, esse riguardano per lo più la stima precisadell’aumento globale della temperatura e la severità degli impatti a essocorrelata.2 Si vedano i sondaggi realizzati dalla Commissione Europea: SpecialEurobarometer 409, Climate Change, 2014, per le opinioni degli europei, e quellirealizzati dagli studiosi americani dello Yale Project on Climate ChangeCommunication: A. Leiserowitz, E. Maibach, C. Roser-Renouf, G. Feinberg, P.Howe, Climate change in the American mind: Americans’ global warming beliefs and attitudes in April,2013. Yale University and George Mason University. New Haven, CT: Yale Project onClimate Change Communication, 2013.

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È senz’altro attraente la prospettiva di delegare laresponsabilità di agire non già agli individui, ma a “grandidecisori” da cui dipende il comportamento di milioni di persone,ovvero i rappresentanti dei paesi o delle istituzionisovranazionali. Essi hanno il potere di gestire numeri enormi diemissioni di gas serra e di riportare sotto controllo icambiamenti del clima o almeno i loro effetti più disastrosi. Vi èinfatti chi sostiene che, essendo i cambiamenti climatici unproblema collettivo frutto delle azioni aggregate, esso possaessere risolto esclusivamente “dall’alto”, per mezzo di una leggeo di un accordo internazionale. In caso contrario, infatti,qualsiasi azione individuale rischierebbe di essere uno sforzoinutile poiché unilaterale3. Un’altra osservazione che è stataavanzata è che le azioni del singolo in simili problemi collettivisiano inconsequenziali, e pertanto non possano essere moralmentevalutabili. Sinnott-Armstrong ha difeso questa posizione,chiedendosi se esiste un principio etico in grado di condannare unindividuo che, per puro divertimento, fa un giro in un’automobilemolto inquinante. La risposta dello studioso è che nessunprincipio può condannare tale azione, e in particolare non possonofarlo i principi consequenzialisti, perché l’azione non producealcuna conseguenza sullo stato delle cose, e quindi l’individuonon è tenuto a impegnarsi nel taglio delle emissioni – solo igoverni devono farlo4.

Molti filosofi si sono trovati in disaccordo con questiargomenti, e hanno provato a difendere, da diverse prospettivemorali, la necessità dell’impegno individuale. Il caso deicambiamenti climatici non è del resto l’unico in cui l’individuoviene chiamato in causa per partecipare alla realizzazione digrandi obbiettivi comuni. Capita sovente infatti di prendere parte

3 Questa è la tesi sostenuta da Baylor Johnson in B.L. Johnson, Ethical Obligations ina Tragedy of the Commons, in «Environmental Values», 12 (2003), n. 3, pp. 271–287;B.L. Johnson, The Possibility of a Joint Communique: My Response to Hourdequin, in«Environmental Values», 20 (2011), n. 2, pp. 147–156, e, sebbene formulate intermini diversi, anche da Elizabeth Cripps in Climate change and the moral agent.Individual Duties in an Interdependent World, Oxford, Oxford University Press, 2013.4 W. Sinnott-Armstrong in It’s not my fault: global warming and individual moral obligations, inW. Sinnott-Armstrong, R. Howarth (a cura di), Perspectives on Climate Change: Science,Economics, Politics, Ethics, Amsterdam, Elsevier, 2005.

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ad azioni in cui l’obbiettivo a cui si aspira può essere raggiuntosolo se un certo numero di persone le intraprende: dare uncontributo economico per la costruzione di una scuola in un paesein via di sviluppo, limitare i consumi di acqua, fare la raccoltadifferenziata. In tutti questi casi l’azione collettiva è in gradodi raggiungere l’obbiettivo, mentre quella individuale ha, di persé, poco peso: con la mia sola azione nessuna scuola verrebbecostruita, non verrebbe risparmiata alcuna risorsa naturale nél’inquinamento da rifiuti diminuirebbe. Eppure gli esseri umani, oalmeno parte di essi, continuano a essere motivati a dare unproprio contribuito, a ritenere tali azioni moralmente corrette.Resta da chiarire da dove se ne tragga la rilevanza morale, e sesi possa affermare che l’individuo sia responsabile di dare unproprio contributo in vista di un obbiettivo raggiungibile solocollettivamente.

Nelle pagine che seguono verranno esposte le argomentazionipiù significative con cui i filosofi hanno cercato di difenderel’importanza del singolo contributo nell’azione collettiva dallaprospettiva di diverse teorie morali - quella deontologica, quellaconsequenzialista, e quella dell’etica delle virtù. Si proporràsuccessivamente un’interpretazione della responsabilitàindividuale nelle azioni collettive, sostenendo che vi siaresponsabilità da parte del singolo anche quando la sua azione nonha effetti tangibili, e anche dove gli esiti delle azioni restanoaltamente incerti.

1. La responsabilità morale: deontologia, consequenzialismo,etica delle virtù

1.1. L’approccio deontologico

L’approccio deontologico punta a rintracciare a priori un valoremorale nelle azioni focalizzandosi sul principio su cui esse sibasano e senza occuparsi dell’effetto che generano. Alcunistudiosi si sono serviti di questo approccio per evitare ilproblema dell’inconsequenzialismo: valutando solo il principio in

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base al quale si agisce, il fatto che le azioni non producanorisultati significativi non è rilevante.

Marion Hourdequin ha fatto uso di un argomento deontologicoper supportare la tesi secondo cui anche i singoli individuidebbano contribuire al taglio delle emissioni con le loro azioniquotidiane5. La studiosa sostiene infatti la necessità di uncambiamento morale da parte degli individui, che deve avvenire aprescindere dagli effetti dell’azione. Per rispondere a chisostiene che l’unico ruolo dell’individuo risieda nel supportoall’azione politica, la studiosa sottolinea l’incoerenza di unsoggetto “politicamente impegnato” che contemporaneamente conducaperò la sua vita non curandosi di ridurre il proprio impattoambientale6. Hourdequin si appella al principio dell’integritàmorale del soggetto, per cui credere nella bontà di una causasignifica anche sposarla con le proprie azioni: supportare leazioni politiche non può dunque sostituire l’impegno personale7.

Anche il principio kantiano, che prescrive di agire secondo lamassima che possa valere come legge universale e di non trattarel’essere umano come mezzo ma solo come fine8, è stato preso inconsiderazione. Tale principio si focalizza sull’intenzione chemuove le azioni, e questo pone subito un problema per le azionicompiute senza alcuna intenzione negativa, che si uniformano a5 M. Hourdequin, Climate, Collective Action and Individual Ethical Obligations, in «EnvironmentalValues», 19 (2010), n. 4, pp. 443–464; M. Hourdequin, Climate Change and IndividualResponsibility: A Reply to Johnson, in «Environmental Values», 20 (2011), n. 2, pp. 157–162.6 La studiosa risponde qui a Johnson e a Sinnott-Armstrong, che hanno infattisostenuto che l’unico compito che si può ascrivere all’individuo nel problemadel cambiamento climatico sia quello di supportare l’elezione di candidatipolitici che abbiano in programma la riduzione delle emissioni, o di contribuirea promuovere un accordo sul clima, cfr. B.L. Johnson, Ethical Obligations in a Tragedy ofthe Commons, cit., e W. Sinnott-Armstrong, It’s not my fault: global warming and individualmoral obligations, cit.7 Anche Peter Singer in Famine, Affluence and Morality (in «Philosophy and Public Affairs», 1 (1972), no. 1, pp. 229-243), in si sofferma sul medesimo punto, osservando che una persona che “predichi ciò che non fa” non risulterebbe molto convincente.8 Questa formulazione dell’imperativo categorico kantiano la si trova esposta inI. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga, Johann Friedrich Hartknoch, 1785;ed. consultata a cura di T. Fritzsch, Reclam, Leipzig 1983 (2nd edition); trad.it. Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Milano, Bompiani,2003.

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principi che non hanno nulla di moralmente riprovevole, ma checontribuiscono ai cambiamenti climatici, come bollire dell’acqua,utilizzare la propria automobile, prendere un aereo. Sinnott-Armstrong ha osservato che neppure il caso del giro in automobileè condannabile secondo il principio kantiano, perché non vi ènessuna contraddizione nel pensare che il principio di fare ungiro in macchina per puro divertimento possa divenire una leggeuniversale9.

Le critiche mosse all’approccio deontologico nel caso deicambiamenti climatici si focalizzano inoltre sulla problematicitàdell’esclusione dalla valutazione morale degli effetti prodottidall’azione. Come suggerisce Jamieson, se si vuole capire comecomportarsi di fronte ai cambiamenti climatici, una teoria che sifocalizza sulla bontà del volere senza curarsi degli effetti chepuò generare non pare essere la più adatta10. L’adozione di questateoria è resa inoltre problematica dal fatto che i contributi alleazioni collettive non sono mai del tutto “a costo zero”. Puòtrattarsi di costi economici, di rinunce a beni materiali, o anchedi costi non materiali, come cambiare in qualche misura le proprieabitudini. Ma ritenere un soggetto responsabile di compiere unsacrificio senza considerarne l’effetto è un punto che hasollevato le obiezioni di molti. Dietz, Hepburn e Stern hannonotato che nel caso della riduzione dei gas serra il sacrificiorichiesto alla generazione presente può in alcuni casi tradursi inun venir meno di certi diritti per la medesima. Gli studiosiosservano il problema da una prospettiva più ampia, quando adagire sono regioni, paesi o altre entità sovranazionali, e ildilemma si ripropone in scala maggiore: si richiede un sacrificioimmediato per chi agisce in vista di un beneficio futuro per chiancora non esiste. Una rapida e significativa riduzione delleemissioni infatti porterebbe un abbassamento degli standard di9 W. Sinnott-Armstrong, Its’s not my fault: global warming and individual moral obligations, cit.,pp. 302-303. Anche Sandler osserva che il principio kantiano è inadatto avalutare questo tipo di azioni per la sua focalizzazione sull’intenzionalità,cfr. R. Sandler, Ethical Theory and the Problem of Inconsequentialism: Why Environmental EthicistsShould be Virtue-Oriented Ethicists, in «Journal of Agricultural Environmental Ethics», 23(2010), pp. 167–183; p. 173.10 D. Jamieson, When Utilitarians Should Be Virtue Theorists, in «Utilitas», 19 (2007), n. 2,pp. 1-24; p. 2.

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vita per la generazione presente, che specie in certe aree delmondo sono già molto bassi. Dunque è necessario bilanciare ognisacrificio richiesto con gli effetti da esso attesi nel futuro, egiustificare la diminuzione degli odierni standard di vita con laprotezione delle generazioni future da conseguenze ben piùnefaste11. Valutazioni del genere non possono prescindere dallaconsiderazione degli effetti delle azioni.

1.2. L’approccio consequenzialista

L’approccio consequenzialista tende ad attribuire rilevanza moraleall’azione sulla base dei risultati che essa produce. Questoapproccio consente di valutare con maggiore facilità le azioni incui il contributo del singolo produce sullo stato delle cose uneffetto rintracciabile - anche se piccolo rispetto alle dimensionidi un problema. Ad esempio, l’individuo che supportaeconomicamente la scolarizzazione di un bambino etiope non puòfare molto rispetto al problema dell’alfabetizzazione infantile inEtiopia, ma produce un risultato significativo sulla vita delbambino12.

Vi sono però certe tipologie di problemi collettivi in cui ilcontributo del singolo non è immediatamente identificabile. Insimili circostanze la valutazione morale diventa complessa: si puòassegnare un valore ad azioni che sembrano non sortire alcuneffetto? Gli studiosi hanno risposto in modi diversi a questointerrogativo.

Per primi vi sono coloro che non attribuiscono alcunarilevanza morale all’azione se essa non produce un effettotangibile sullo stato delle cose. Sinnott-Armstrong, quandocritica l’approccio consequenzialista, insiste proprio su questo

11 S. Dietz, C. Hepburn. N. Stern, Economics, ethics and climate change, in K. Basu, R.Kanbur (a cura di), Arguments for a Better World: Essays in Honour of Amartya Sen (Volume 2:Society, Institutions and Development), Oxford, Oxford University Press, 2009; p. 5.12 Anche Sinnott-Armstrong fa un esempio analogo citando le donazioni economicheper il problema della fame del mondo: la singola donazione non può far nullarispetto al problema in generale, ma può migliorare la situazione per un singoloindividuo, e questo rende l’azione moralmente rilevante. Cfr, W. Sinnott-Armstrong, It’s not my fault: global warming and individual moral obligations, cit., p. 299.

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punto: le emissioni di gas serra prodotte dal un giro in macchinanon hanno alcun effetto sul cambiamento climatico, e pertanto nonpossono essere considerate moralmente riprovevoli13.

Anche Sandberg è convinto che nel caso delle emissioni di gasserra si possa parlare di inconsequenzialismo per le azioni delsingolo: l’individuo che viaggia in aereo o in macchina ancheladdove non necessario non agisce in modo sbagliato perché le sueazioni non hanno alcuna conseguenza sullo stato delle cose14. SiaSandberg che Sinnott-Armstrong convergono sull’idea che il solocompito dell’individuo sia quello di provare a persuadere igoverni attraverso manifestazioni pubbliche o con la sceltaelettorale, perché i solo i governi sono in grado di produrrecambiamenti reali. Viene da obbiettare che anche in questo caso ilcontributo dell’individuo non sarà determinante: l’argomentodell’inconsequenzialismo potrebbe essere adottato per sostenereche il singolo non abbia alcuna responsabilità di partecipare auna manifestazione ambientalista, o di votare per un determinatopartito, dato che il suo contributo non genererà comunque alcunadifferenza sullo stato delle cose.

Gli argomenti di Sinnott-Armstrong e di Sandberg hanno datoluogo alle reazioni di altri filosofi consequenzialisti che sirifiutano di negare la responsabilità individuale in problemicollettivi. Diversi tipi di argomenti sono stati utilizzati:

(1). Alcuni studiosi cercano di mostrare come, nel caso deicambiamenti climatici e di altri problemi collettivi simili,l’azione del singolo si limiti a sembrare inconsequenziale, mentrein realtà non lo sia. E questo sulla base di due diversi tipi diconsiderazioni: a). Considerazioni tratte dalla psicologia sociale sullapotenziale influenza che le azioni esercitano sugli altri. Unargomento di questo genere è stato utilizzato da Hourdequin, chealle considerazioni deontologiche viste sopra ha aggiunto chel’azione del singolo non è necessariamente priva di effetto -solo, afferma, bisogna considerarne la dimensione relazionale, non

13 W. Sinnott-Armstrong, It’s not my fault: global warming and individual moral obligations, cit.,pp. 297-299.14 J. Sandberg, My Emissions Make No Difference, in «Environmental Ethics», 33 (2011), n. 3, pp. 229-248; p. 229.

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guardandolo come un agente isolato ma piuttosto come unacomponente di una rete sociale in cui gli individui agiscono e siinfluenzano a vicenda, per cui l’azione di uno può in realtà darluogo all’azione di molti15.

Molti saggi sono stati dedicati all’effetto a cascata che puòderivare dai comportamenti di pochi. Come mostra Gladwell, mode eabitudini di vario genere si diffondono rapidamente e contagianonumeri enormi di persone. Ciò non toglie, tuttavia, che talifenomeni di diffusione rapida ed esponenziale di comportamentisiano piuttosto rari: il potenziale di “influenza sociale” dellamaggioranza è comunque piuttosto basso16.

Argomenti di questo tipo hanno ricevuto diverse critiche.Sinnott-Armstrong ha commentato che, anche considerando lapotenziale influenza esercitabile su amici e conoscenti, si trattacomunque di numeri insignificanti rispetto a un problema diportata globale come i cambiamenti climatici17. Johnson ne fainvece una questione di comunicazione: azioni come andare inbicicletta anziché in macchina possono avere motivazioni diverse,e non comunicano direttamente un impegno ambientale. Non è dettodunque che i potenziali “spettatori” di simili azioni leinterpreterebbero come contributo al taglio delle emissioni, equindi non è chiaro come potrebbero venir convinti in questo modoad adottare certi comportamenti se non hanno intuito il principioche li muove18.

b). Vi sono poi studiosi che, focalizzandosi sul problemaspecifico dei cambiamenti climatici, cercano di quantificarel’impatto del singolo, sostenendo che esso sia tutt’altro cheintangibile. Nel caso delle emissioni di gas serra, Nolt ha basatola tesi della responsabilità individuale proprio sul danno cheanche le azioni di un solo individuo possono provocare. Lostudioso ha calcolato la quantità approssimativa di emissioni di15 M. Hourdequin, Climate, Collective Action and Individual Ethical Obligations, cit., pp. 452-457.16 M. Gladwell, The Tipping Point. How Little Things Can Make a Big Difference, Back Bay Books,2002; trad. it. Il punto critico. I grandi effetti dei piccolo cambiamenti, Milano, BUR, 2006.17 W. Sinnott-Armstrong, Its’s not my fault: global warming and individual moral obligations,cit., p. 300.18 B.L. Johnson, The Possibility of a Joint Communique: My Response to Hourdequin, cit., p.150.

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CO2 che “l’americano medio” produce durante la sua esistenza, esostiene che essa sia sufficiente a causare danni gravi allegenerazioni future e all’ambiente. Lo studioso è consapevoledell’imprecisione di questo calcolo, ma l’idea è solo di confutarela tesi che sostiene che le azioni del singolo non abbiano alcuneffetto sullo stato delle cose19. Hiller ha seguito la stradaintrapresa da Nolt e ha provato a calcolare gli effetti del giroin automobile, giungendo alla conclusione che le emissioni di ungiro in auto di 25 miglia equivalgono alle emissioni di ¼ digiornata dell’americano medio, il che equivale a provocare danniseri a ¼ della giornata di una persona. Sebbene imprecisi, questinumeri sono per Hiller l’unica base da cui partire per potervalutare le azioni individuali e attribuirvi responsabilità20.

La tesi di Nolt ha anche suscitato molte critiche. Sandler haosservato che il calcolo di Nolt contiene un errore essenziale:per capire quale danno realmente è in grado di produrre ilsingolo, non bisogna calcolare il danno derivante dalla quantitàtotale di emissioni e dividerlo per il numero di persone che aesse contribuiscono. Bisognerebbe, invece, sottrarre al dannoderivante dalla quantità totale di emissioni quello causato dalleemissioni del singolo e vedere se c’è differenza, e quanta. Ma ilcalcolo non è fattibile, e se anche lo fosse, nessuna differenzapotrebbe essere riscontrata21. A questo argomento si potrebbeaggiungere che il singolo produce un danno effettivo solo se lesue emissioni sono aggregate a quelle altrui, mentre di per sé nonne causerebbero alcuno, e quindi non esiste di fatto alcun dannopotenziale provocato dall’individuo in quanto tale.

Anche Elizabeth Cripps rifiuta l’argomento di Nolt, così comerifiuta gli argomenti che tendono a porre troppa enfasi sulleazioni individuali. Da una prospettiva strettamenteconsequenzialista, afferma Cripps, non è affatto detto che sarebbemeglio per un individuo tagliare le proprie emissioni, perché19 J. Nolt, How Harmful Are the Average American's Greenhouse Gas Emissions?, in «Ethics,Policy and Environment», 14 (2011), n. 1, pp. 3-10.20 A. Hiller, Climate Change and Individual Responsibility, in «The Monist», 94 (2011), n. 3, pp. 349-368; p. 357.21 R. Sandler, Beware of Averages: A Response to John Nolt's ‘How Harmful are the Average American's Greenhouse Gas Emissions?’, in «Ethics, Policy and Environment», 14 (2011), n. 1; pp.31-33.

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potrebbe anche essere che, tramite quelle emissioni, egli sia ingrado di produrre un beneficio maggiore e salvare molte più vite(ad esempio accumulando un’enorme ricchezza e donandola a unaONG). Il punto è che non si può, secondo Cripps, passare cosìagevolmente dal piano collettivo a quello individuale. Prevenirela morte di molti innocenti cercando di mitigare i cambiamenticlimatici è un obbiettivo che la collettività deve porsi e provarea raggiungere tagliando le emissioni, e agire in tal senso èquanto di meglio tutte le persone coinvolte possono fare. Mascorporando l’individuo dalla collettività l’argomento nonfunziona più: infatti non è altrettanto vero che colui cheindividualmente non coopera a questo obbiettivo è alloraresponsabile della morte di una frazione delle persone che lacollettività potrebbe salvare22.

(2) Vi sono anche studiosi che ammettono che gli effetti delleazioni individuali nei problemi collettivi siano minimi, tali dapoter essere chiamati impercettibili, ma ne difendono comunque larilevanza morale. Glover ha elaborato il “principio delladivisibilità”, secondo cui il contributo a un’azione collettiva èsì spesso quantitativamente irrilevante, eppure si tratta di unafrazione di un numero rilevante, ovvero di un numero in grado diprovocare un effetto tangibile. Glover fa l’esempio di un gruppodi cento banditi che si recano in un villaggio e rubano il pasto acento dei suoi abitanti. Ciascuno preleva solo un fagiolo su centodal piatto di ogni abitante, e così è convinto di non averarrecato individualmente alcun danno. Eppure il risultato è che ipiatti degli abitanti del villaggio restano vuoti al termine delsaccheggio. Dunque quella che di per sé pare un’azioneinsignificante, come rubare un fagiolo da un piatto in cui ve nesono cento, si rivela essere invece dannosa, poiché si aggiunge adaltre azioni analoghe23.

Parfit ha adottato una prospettiva simile. In Ragioni e Personeparla di cinque errori in matematica morale, cinque opinionidiffuse ma sbagliate che possono condurre l’individuo a giudicare

22 E. Cripps, Climate change and the moral agent, cit., pp. 120-122.23 J. Glover, M. Scott-Taggart, It makes no difference whether or not I do it, in«Proceedings of the Aristotelian Society», Supplementary Volume 49 (1975), pp.171-209; pp. 173-174.

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erroneamente la rilevanza morale del suo contributo ad azionicollettive. Secondo il quinto di questi errori, un’azione non puòessere ritenuta moralmente rilevante a causa degli effetti cheproduce sulle persone, se esse non sono in grado di percepirli, ein generale non si possono prescrivere o vietare delle azionidagli effetti impercettibili. Parfit rifiuta questa visionefacendo riferimento all’esempio di un torturatore che infliggedolore alla sua vittima accendendo degli interruttori che glitrasmettono una scossa elettrica. Ogni interruttore, da solo,aumenta la corrente di così poco che la vittima non percepiscealcuna variazione da uno stato all’altro, ma quando tutti gliinterruttori sono accesi prova un dolore insopportabile. Perstabilire la colpa del torturatore, Parfit afferma che è possibileche un dolore aumenti di un livello talmente piccolo da risultareimpercettibile alla persona che lo subisce. Affermare tuttavia cheun dolore impercettibile equivalga all’assenza di dolore implicail considerare “altrettanto doloroso” e “non più doloroso di” comerelazioni non transitive. Se si prendono in considerazione glistati adiacenti a cui vengono aggiunti quantitativi“impercettibili” di corrente elettrica con l’accensione di uninterruttore per volta, il dolore sembrerà uguale allo statoprecedente. Ma questo dovrebbe essere vero per ogni stato,portando alla conclusione assurda che in S1 (voltaggio minimo) lavittima senta lo stesso dolore che in S1000 (voltaggio massimo).Quindi si deve assumere che “altrettanto doloroso” e “non piùdoloroso di” siano relazioni transitive, e il fatto che ilsoggetto non percepisca la differenza non implica che essa nonsussista, né che l’azione che la provoca sia moralmenteneutrale2425.

L’approccio di Parfit e Glover presenta una valida soluzioneper attribuire un valore morale ai contributi del singolo nelleazioni collettive, perché stabilisce che possano avvenire dellevariazioni nello stato delle cose molto piccole e non percepibili

24 D. Parfit, Reasons and Persons, Oxford, Clarendon Press, 1984; trad. it. Ragioni ePersone, Il Saggiatore, Milano, 1989; pp. 78-82.25 Anche Frank Arntzenius e David McCarthy (in Self torture and group beneficence, in«Erkenntnis» 47 (1997); pp. 129-144; p. 141) sono giunti a una conclusionanaloga.

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dall’uomo, tali per cui non si avverte una differenza che invecec’è. Questo conduce a concludere che la chiave dell’attribuzionedella rilevanza morale è l’apportare un cambiamento, sia in modomanifesto, sia in modo impercettibile. Tuttavia vi sono problemicollettivi, come nel caso dei cambiamenti climatici, in cui inumeri delle persone coinvolte sono talmente grandi che l’apportoindividuale è vicinissimo allo zero - così vicino da essere ineffetti inconsequenziale. Appellarsi alla differenzaimpercettibile che esso è in grado di produrre e attribuirvi unarilevanza morale è piuttosto problematico nei contesti in cuil’azione individuale ha un costo tutt’altro che impercettibile,come per il taglio delle emissioni. Così com’era stato per gliargomenti deontologici, anche l’argomento dell’impercettibilitàdel danno o del beneficio si scontra col problema del costodell’azione individuale. Si riuscirebbe a convincere il singolo adaccettare un sacrificio tangibile per produrre un effettoirrilevante appellandosi esclusivamente a tale effetto, comemotivazione? Un principio in grado di motivare l’individuo a dareil proprio contributo dovrebbe essere in grado di giustificare larichiesta di un sacrificio percepibile con una ragione più forteche non sia solo l’effetto che è in grado di generare, perchéesso, pur non essendo nullo, nei problemi di dimensione globalepuò spesso essere considerato tale.

1.2.1. La presenza di un accordo collettivo?

C’è un’altra proposta che si colloca all’interno dell’approccioconsequenzialista, sebbene essa possa essere valutata anche intermini non solo consequenzialisti: la presenza di un accordocollettivo. La proposta getta le radici nella necessità diinscrivere il taglio delle emissioni del singolo in uno schemacooperativo tale per cui tutti siano tenuti a fare altrettanto.Johnson osserva infatti che le emissioni di gas serra non sononocive in sé: ciò che le rende tali è il fatto che venganoprodotte in enormi quantità. Dunque il problema non è ladimensione individuale, bensì quella aggregata, e per agire su di

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essa non c’è altro modo che regolamentare le azioni dellacollettività attraverso una legge. Altrimenti il rischio è che iltaglio individuale delle emissioni finisca per essereunilaterale26. L’unica responsabilità dell’individuo, per Johnson,è impegnarsi per il raggiungimento di un accordo vincolante sulleemissioni di gas serra, e solo una volta raggiunto, contribuire altaglio delle emissioni27.

Anche Cripps sostiene che la responsabilità morale di tagliarele proprie emissioni subentri per l’individuo solo una volta chesi sia organizzata un’azione collettiva, sebbene senza vincolaretale organizzazione alla presenza di una legge. Questo perchéCripps ha una concezione più trasversale della collettività, cheella concepisce come diversi gruppi accomunati da precisecaratteristiche (“the Young”, “the Polluters”, “the Able”28). La studiosadistingue tra la collettività intenzionale, formata da persone chesono consapevolmente unite nel raggiungimento di uno scopo, e lacollettività non intenzionale, in cui esistono dei gruppi chehanno una potenzialità, se tutti aderiscono a un fine comune, main cui ancora non c’è alcuna organizzazione per il raggiungimentodi esso29. In tali casi si parla di dovere ad agire solo in sensodebole - ovvero promuovere l’organizzazione della collettività.Nella fase che precede l’azione organizzata, i tagli individualidi emissioni non sono necessari, anzi, possono far nascere nelsoggetto la falsa credenza che il suo dovere si esaurisca lì, eper questo è meglio astenersi dall’azione unilaterale e impegnarsisul fronte collettivo. Solo dopo che la collettività si saràorganizzata potrà essere assegnato all’individuo il dovere di farela propria parte in quanto membro di essa. Ma i doveri che egliacquisisce in tal senso derivano non dalla sua potenzialitàindividuale (che per Cripps di fatto non sussiste), ma dallapotenzialità che egli ha in quanto membro della collettività30.

Questo tipo di approccio presenta senz’altro delle attrattiveper il consequenzialismo, perché limita la possibilità che

26 B.L. Johnson, Ethical Obligations in a Tragedy of the Commons, cit., p. 272.27 Ibidem, p. 286.28 E. Cripps, Climate change and the moral agent, cit., p. 3.29 Ibidem, pp. 28-38.30 Ibidem, p. 71.

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l’azione individuale finisca per essere uno sforzo unilaterale. Ilproblema è che vincola la responsabilità dell’individuo di agirealla presenza di un accordo. Questa visione pone una soglia moltoalta per l’ingresso nel territorio della responsabilità morale: ilsoggetto viene considerato responsabile di contribuire in primapersona solo dove non c’è il rischio dell’unilateralità, ma poichéquesto rischio c’è di fatto molto spesso, egli si ritroverebbe aessere dotato della responsabilità morale in pochi casi. Questoprincipio rende inoltre l’individuo non responsabile nei contestiin cui non vi potranno mai essere leggi vincolanti, come adesempio nel caso delle donazioni ad associazioni benefiche.

Nel caso delle emissioni di gas serra si presenta un ulterioreproblema: quello dei tempi. Da un lato sembra che l’unica verasoluzione possa arrivare da un accordo che agisca sulla dimensioneaggregata. Dall’altro viene da chiedersi quanto tempo ci vorrebbeper realizzarlo. Dal 1995 i paesi si riuniscono nella Conferenzadelle Parti ogni anno, senza che si sia raggiunto un esitosoddisfacente. Ciò che sappiamo, però, è che ogni giorno nel mondovengono rilasciate emissioni di gas serra per milioni ditonnellate, alcune necessarie alla sopravvivenza delle persone,altre del tutto evitabili. Si tratta di enormi quantità diemissioni che potrebbero essere risparmiate anche nel mentre chesi lavora alla promozione di un accordo. Lasciare l’individuolibero di non modificare il proprio comportamento finché non sigiunge a un accordo, può implicare che al momento in cui l’accordoverrà realizzato sarà già troppo tardi.

La presenza di un accordo vincolante può essere ancheconsiderata da un altro punto di vista, sostenendo che chiunqueagisca contro di esso si comporti da free-rider e sia per questomotivo condannabile31. E questo perché il free-rider si arroga unprivilegio rispetto agli altri – ovvero, desidera che tuttiagiscano in un modo pur comportandosi altrimenti32. Posto che ilcontributo al bene collettivo implica quasi sempre un sacrificioper l’individuo, e che la sua sola azione non ha influenza sullo31 Tralasciando le osservazioni sull’illegalità dell’infrangere la legge, che nonsono di grande utilità ai fini di questa argomentazione.32 Cfr. G. Cullity, Pooled Beneficence, in M. J. Almeida (a cura di), Imperceptible Harms and Benefits. Dordrecht, Kluwer, 2000, pp.9-42; p. 20.

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stato delle cose, per ognuno è più conveniente non cooperare: ilfree-rider delega agli altri il compito di promuovere obbiettivi peril bene comune, mentre lui cura il proprio interesse.

In generale, in presenza di una legge che richiede agliindividui di contribuire a un bene comune, non farlo significacomportarsi in modo ingiusto. Questo aspetto è ben visibile quandogli individui stessi sono i beneficiari del bene comune promosso,come nel caso del pagamento delle tasse. Colui che non paga letasse usufruisce comunque dei servizi che le tasse medesimefinanziano – trasporti, ospedali, scuole e così via. Quindipretende che siano gli altri a pagare per un beneficio di cui luistesso gode, ma a cui non contribuisce. Eppure egli non influiscein alcun modo sulle finanze del paese, perché il suo mancatocontributo non genera alcuna differenza.

Lo stesso principio morale che conduce a condannare chi sicomparta da free-rider è applicabile anche in assenza di un obbligogiuridico, come nel caso del voto. Infatti potremmo attribuire ungiudizio negativo analogo a chi sistematicamente non si reca avotare. Costui usufruisce dei vantaggi di vivere in un paesedemocratico dove i cittadini hanno il diritto di esprimersi circal’operato del proprio governo, cosa che li preserva da una seriedi potenziali violazioni dei loro diritti che avvengono in modoricorrente nei paesi non democratici33. Se tutti i cittadini di unpaese smettessero improvvisamente di recarsi al voto, però, lastessa democrazia sarebbe a rischio, con conseguenze imprevedibilie che nessuno desidererebbe. Senza contare il caso in cui, in unatornata elettorale, un candidato sia oggettivamente migliore di unaltro34: nel caso in cui egli venga eletto, il cittadino che non sireca al voto usufruisce dei vantaggi prodotti dall’azione altrui.

33 Si veda, a tal proposito, l’analisi offerta da Sen della carestia del Bengalaquando l’India si trovava ancora sotto la dominazione britannica, cfr. A. Sen,La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Roma-Bari, 2007.34 Parfit discute questo caso in Ragioni e persone e mostra come sia frutto di unerrore in matematica morale credere che i costi per il singolo di recarsi alvoto superino i benefici quando un candidato è realmente migliore dell’altro edalla sua elezione scaturiranno benefici per milioni di persone. Goldmancommenta la posizione di Parfit e discute esaurientemente la questione del voto,cfr. A.I. Goldman, Why citizens should vote: a causal responsibility approach, in «SocialPhilosophy & Policy Foundation», 16 (1999), n. 2, pp. 201-217.

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Dunque non è l’esistenza della legge o di un accordo collettivo acondannare moralmente il free-rider, quanto il principio sottostanteche, riconosciuto un bene, non sia giusto non contribuirviusufruendo dei benefici ottenuti dai contributi altrui35. Ma ilcaso dei cambiamenti climatici non rientra in questa categoria,perché il singolo individuo non gode in alcun modo degli effettidel suo stesso taglio di emissioni36, e quindi questo principio nonè in grado di dare un giudizio morale sul suo comportamento.

1.3. L’approccio dell’etica delle virtù

Anche i filosofi che abbracciano l’etica delle virtù sonointervenuti nel dibattito sulla responsabilità dell’individuo nelproblema del cambiamento climatico. Questo approccio enfatizza levirtù del soggetto agente, che sono dei tratti del suo essere chemuovono a loro volta tutte le azioni da lui compiute. Esserevirtuosi è più che agire talvolta in modo virtuoso (cosa che unapersona potrebbe fare per mero interesse in certi contesti): ilpossesso della virtù è una sorta di disposizione generale delsoggetto. La virtù si può definire come ciò il cui possesso è ingrado di promuovere il bene: l’approccio dell’etica delle virtù èinfatti, diversamente da quello deontologico, sensibile alleconseguenze prodotte dalle azioni, e i suoi sostenitori ritengonoche sia l’unico in grado di dare una risposta al problemadell’inconsequenzialismo.

Jamieson adotta questa prospettiva assieme all’utilitarismo.L’utilitarismo chiede di agire in modo da produrre il migliorrisultato possibile, e partendo dal presupposto che i cambiamenti35 Anche Amartya Sen ha osservato che la moralità di un’azione dovrebbe essereindipendente dalla sua esistenza come legge. L’iter ideale per istituire unalegge che prescrive un’azione è quello di riconoscerne prima il valore morale, equesto poi ne giustifica la presenza come legge, cfr. A. Sen, Elements of a Theory ofHuman Rights, in «Philosophy & Public Affairs», 32 (2004), n. 4, pp. 315-35636 E questo perché il taglio delle emissioni odierne ha come scopo quello diprevenire i cambiamenti climatici per le prossime generazioni. Si può inveceaffermare che tagliare certi tipi di emissioni ha delle conseguenze positive sulsingolo (utilizzare di meno l’automobile fa risparmiare, contribuisce ad averearia più pulita in città, ecc.), ma questi sono comunque considerati effettiindiretti di un’azione che ha un’altra finalità.

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climatici siano qualcosa di profondamente negativo, esso dovrebbeprescrivere di minimizzare il proprio impatto ambientale, e diagire in modo tale da indurre gli altri a fare altrettanto. Ilproblema è che ciò che conduce alla massimizzazione del benesseredel soggetto è non contribuire alla prevenzione del problema,lasciando fare agli altri. Per superare questo ostacolo Jamiesonafferma che, quando si tratta di decisioni ambientali, la politicache come individui è meglio adottare, è provare a ridurre ilproprio impatto ambientale seguendo un principio di virtù, noncurandosi di come agiscono gli altri. Senz’altro ci si espone cosìal rischio di compiere azioni che non risultano efficaci, ma delresto attendere che anche gli altri (individui o paesi) siimpegnino nella prevenzione del cambiamento climatico può volerdire aspettare troppo a lungo, portando così a un peggioramentoradicale della situazione. L’etica della virtù per Jamiesonconsente di superare il problema dell’efficacia dell’azioneindividuale, perché non subordina l’agire alla sua potenzialeefficacia, bensì al principio che l’uomo dovrebbe seguire quandoin procinto di agire. E se tutti seguissero quel principio, ancheil risultato desiderato verrebbe raggiunto37.

Come osserva Nefsky, il problema delle virtù in generale, èche per poter chiamare una persona “virtuosa” per il suouniformarsi a un principio di virtù, è necessario che taleprincipio promuova effettivamente un bene. Nel caso delle virtùambientali pare ripresentarsi lo stesso tipo di problema che sipone per il consequenzialismo: quando l’azione non provoca alcuneffetto tangibile, non è chiaro come essa possa venire chiamatavirtuosa o viziosa, né tale colui che la compie38. Inoltre, sel’azione “virtuosa” richiede dei sacrifici al soggetto, èdifficile richiederli a prescindere dall’effetto sperato. L’eticadelle virtù pone sì l’accento sul fatto che ciò che denota lavirtù è la bontà degli effetti della sua messa in pratica, maafferma anche che l’azione del singolo deve essere indipendente daquella altrui. Però in questo caso il risultato sperato si trova a

37 D. Jamieson, When Utilitarians Should Be Virtue Theorists, cit., pp. 7-8.38 J. Nefsky, The Morality of Collective Harm, Doctoral Thesis, UC Berkeley, 2012; p. 30.

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dipendere del tutto da come agiranno gli altri, e non può pertantoessere valutato indipendentemente.

2. Efficacia e responsabilità morale

2.1. Azioni non determinanti e responsabilità causale

Le teorie morali esposte finora hanno presentato tutte qualcheproblema. L’approccio deontologico risulta difficile da accettare,in primo luogo per la difficoltà di valutare azioni che vengonocompiute senza alcuna intenzionalità particolare (azioni che fannoparte della vita quotidiana ma da cui dipendono emissioni di CO2),e in secondo luogo perché non si pone il problema degli effettidelle azioni. Cosa che rende la valutazione impossibile in casisimili a quello dei cambiamenti climatici. L’etica delle virtùcerca di risolvere la questione ponendo gli effetti delle azionirispetto a un problema alla base della loro classificazione comevizi o virtù, ma poi afferma anche che le azioni individuali sonoda valutare indipendentemente da quelle altrui, cosa che non èpossibile nel caso del taglio alle emissioni, visto chel’efficacia delle azioni individuale dipende da come agiranno glialtri. Il consequenzialismo, che sembrerebbe l’approccio miglioreda adottare in casi in cui le conseguenze delle azioni sono ciòche conta, si scontra col fatto che tali conseguenze sono cosìpiccole da poter essere ignorate. Per tutte e tre le prospettivela richiesta di un sacrificio da parte dell’individuo non è facileda giustificare. Ciò che servirebbe, è un principio che nonprescinda dalle conseguenze delle azioni nella valutazione morale,ma che non si basi sulla differenza che esse sono in grado diprodurre.

Il problema principale con cui si scontra il consequenzialismoè che, laddove il contributo dei singoli individui è moltopiccolo, gli eventi sembrano essere causalmente sovradeterminati -si verificherebbero comunque a prescindere da come si comporta ilsingolo. Parfit ha provato a dare una risposta ponendo il caso diX e Y, ciascuno dei quali spara nello stesso momento a un uomo,

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uccidendolo. Poiché l’uomo sarebbe morto anche ricevendo uno solodei due proiettili, sia per X che per Y è vero che la sua azionenon ha fatto la differenza. Parfit risponde a questo paradossoaffermando che anche se un’azione singolarmente non nuoce anessuno, può comunque essere considerata sbagliata se fa parte diun gruppo di azioni che insieme causano un danno. Per fugareun’ulteriore obiezione, Parfit aggiunge che il gruppo di personeche può essere considerato responsabile è quello minimo per cui èvero che, se i suoi membri avessero agito diversamente, nessundanno (o beneficio) sarebbe stato arrecato39.

Il problema della sovradeterminazione causale non si chiudeperò qui. Come ha notato Sandberg, nei gruppi di grandi dimensioniil singolo potrebbe a pieno diritto non considerarsi parte delgruppo minimo – cosa ben visibile nel caso dei cambiamenticlimatici, perché vi sono troppi altri potenziali emettitori digas serra sufficienti a modificare il corso delle cose con le loroazioni senza che il singolo faccia la differenza40.

Se si vuole dare una giustificazione della richiesta dicontributo individuale nei problemi collettivi, bisogna farloaccettando il fatto che in molti contesti l’azione del singolo nonfarà la differenza. Tuttavia il non fare la differenza nonsignifica necessariamente essere inutile. Una prima osservazioneimportante, è che vi sono problemi collettivi in cui l’unico modocon cui l’individuo può contribuire è attraverso azioni che sonoper definizione non determinanti rispetto all’esito finale, e percui l’unica responsabilità causale esistente è quella dellacollettività41. In simili casi appare contraddittorio affermare che

39 D. Parfit, Reasons and Persons, cit., pp. 70-71.40 R. Sandberg, My Emissions Make No Difference, cit., p. 240.41 Naturalmente vi sono molte situazioni diverse, ciascuna delle quali è a sestante. Nel caso del voto, ad esempio, non vi sono persone o entità in gioco chepossono avere più peso di altre nel produrre il risultato finale. Nel caso delleemissioni di gas serra, si possono fare delle distinzioni di ruoli: i politicipossono firmare degli accordi vincolanti che avranno ripercussioni sull’interopianeta, e in questo caso sono soggetti più responsabili di altri. Le grandiaziende a loro volta sono dirette da un numero ristretto di individui, eresponsabili di grandi quantità di emissioni, per cui si può affermare che esseabbiano un peso maggiore. Ma una volta che si considera, come voce a se stantenel bilancio complessivo delle emissioni, la quantità prodotta dalle azioniindividuali (consumi energetici, trasporti, riscaldamento, ecc.) il discorso si

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la collettività sia responsabile ma non i suoi componenti, perchéla collettività è costituita da essi e senza di essi non esiste,per cui se essa è responsabile lo sono in qualche modo anchecoloro che la costituiscono. L’individuo che genuinamente vuolecontribuire alla risoluzione di un problema collettivo, può agireattraverso gli strumenti a sua disposizione, ovvero dando il suoapporto come singolo, pur sapendo che sarà minimo42. E purammettendo che il contributo del singolo è minimo, può aiutare,per comprenderne il valore morale, paragonarlo al mancatocontributo. Goldman riflette sul caso del voto: votare in favoredel candidato che poi vincerà sarà senz’altro un contributocausale superiore rispetto a quello di chi non ha votato. Perquesto motivo infatti, qualora venga eletto un candidato che, conla sua cattiva gestione, metterà il paese in serie difficoltà, sidirà che la responsabilità è di chi lo ha eletto. Tale “accusa”prescinde dal fatto che il singolo voto in sé non sia decisivo –anche senza essere tale, esso tuttavia concorre allaresponsabilità causale. E per questo si può affermare che ilcittadino abbia delle ragioni “oggettivamente buone” per votare.Inoltre, per chi concorre a realizzare un evento positivo c’è unasorta di riconoscimento, di “credito” morale, e parimenti c’è undiscredito per chi partecipa alla realizzazione di un eventonegativo43.

Miller suggerisce che nei casi in cui l’individuo partecipialla promozione di un bene con un contributo molto piccolo, possadirsi sì moralmente responsabile, ma in modo ridotto. Lo studiosofa l’esempio della costruzione dell’ala di un ospedale, per laquale ognuno dona un dollaro, e afferma che ciascun donatore hauna responsabilità minore perché essendo minimo il contributo

fa simile a quello del voto, perché nessun individuo con le sue singole azioniha generalmente più peso degli altri, eppure la somma delle singole azioniindividuali ha un peso notevole sul bilancio generale.42 L’individuo può anche, come sostengono Cripps, Johnson e Sinnott-Armstrong,impegnarsi per il raggiungimento di un accordo collettivo, ma questo non escludeche ogni giorno egli si trovi a poter ridurre le proprie emissioni in qualchemodo (sia che agisca anche politicamente, sia che non lo faccia). Il problema èstabilire come dovrà comportarsi di fronte a queste due alternative, sescegliere di ridurre il proprio impatto ambientale o di non farlo.43A.I. Goldman, Why citizens should vote: a causal responsibility approach, cit., pp. 208-209.

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dato, minimo è il costo da lui sostenuto, e inoltre anche il fineperseguito è da considerarsi in senso debole, perché nessuno ciperderebbe molto se l’opera non si realizzasse44. Questa posizionesi presta però ad alcune critiche, perché il fatto che ilcontributo dato da ciascuno sia piccolo non può considerarsi unamotivazione per diminuirne la rilevanza morale: nei problemiglobali (come quello dei cambiamenti climatici) il singolo ha perforza un ruolo minimo, e non può essere altrimenti. Tale ruolo èdato dalle grandi dimensioni del problema, però, non da una sceltaindividuale, e quindi la scarsità dell’apporto con cui sicontribuisce non può essere oggetto di valutazione morale.Inoltre, che il fine perseguito sia tale in senso attenuato èdiscutibile. Una persona può fortemente desiderare larealizzazione di un fine, pur consapevole che quello che può fareper ottenerlo è limitato.

Essere causalmente responsabili verso qualcosa, osservainoltre Nefsky, non implica necessariamente che il propriocontributo debba anche fare la differenza rispetto a essa. Sipossono ipotizzare situazioni in cui si può contribuire allarealizzazione di un risultato e in cui il proprio apporto non puòdirsi determinante, ma neanche superfluo. Nefsky fa l’esempio diuna persona che vuole imbucare una lettera entro sera, che sa chedi mattina non avrà tempo e pensa dunque di andarci nelpomeriggio. Espone la questione a un’amica, e quest’ultima decidedi andare lei stessa a imbucare la lettera subito. La letterasarebbe stata comunque imbucata entro sera, e l’amica dunque non èstata causalmente determinante a raggiungere il risultato, però hasenz’altro aiutato45. Questo argomento viene usato dalla studiosacome premessa per rafforzare un argomento basato sullacorresponsabilità causale simile a quello di Goldman. Nefskyafferma infatti che un’azione individuale anche se nonsignificativa può di fatto aiutare a ottenere il risultato, e questoè sufficiente a dare al soggetto una ragione morale ad agire intal senso.

44S. Miller, Collective Moral Responsibility: An Individualist Account, in «Midwest Studies inPhilosophy», 30 (2006); pp. 176-193; p. 182.45 J. Nefsky, The Morality of Collective Harm, cit.

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Quello che conta, più dell’effetto minimo apportato, è ilconcorso nel processo causale che produce un effetto rilevante.Ciò significa contribuire a esso in modo non determinante manemmeno inutile: se il candidato ha vinto le elezioni è anchegrazie al singolo voto, se la vittima dei torturatori soffre èanche a causa del singolo interruttore acceso. In questo tipo diazioni collettive il soggetto ha solo due alternative: contribuireo astenersi dal farlo. Ma l’astensione non implica un esitoneutrale: significa invece contribuire all’esito opposto. Sitratta di due alternative comportamentali contrarie tra loro, percui vi sono due opzioni: o attribuire a entrambe lo stesso valoremorale (che sarà per forza l’attribuzione di neutralità), oattribuire alle due un valore di segno opposto. Si tratta dicapire su che base avviene tale attribuzione.

2.2. Diversi tipi di azioni non determinanti, diverse responsabilità

Stabilito che anche per le azioni non determinanti possa esserciuna responsabilità morale, e che essa è legata all’appartenenza alprocesso causale che conduce alla realizzazione di un obbiettivocomune, è necessario capire quando le azioni partecipanoeffettivamente a un processo causale e quando invece sembranofarlo, ma non lo fanno.

Glover aveva iniziato una riflessione per differenziare icontributi individuali ad azioni collettive, parlando di una“soglia di discriminazione”. Si tratta del caso in cui tanteazioni con effetti impercettibili si sommano, fino al punto in cuisi raggiunge tale soglia ed essi vengono percepiti. Ad esempio, sec’è un razionamento di energia elettrica in città e io la utilizzocomunque, forse il razionamento verrà prolungato di un centesimo,e nessuno se ne accorgerà - perché la mia azione si trova al disotto della soglia di discriminazione. Sarebbe diverso se invecein molti agissero come me, perché la soglia si avvicinerebbe finoa essere forse oltrepassata. Si possono ipotizzare due scenari: ilprimo in cui io sono l’unica persona che continua a servirsidell’energia, perché ipoteticamente nessun altro in città ne ha

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bisogno; il secondo in cui vi sono altre persone che agiscono comeme. Nel primo caso la mia azione non provocherebbe alcun effetto,e da una prospettiva consequenzialista, Glover afferma che nonavrebbe senso attribuirle una disutilità, mentre nel secondo sì46.La riflessione di Glover suggerisce che vi siano in effetti,all’interno delle azioni che vengono definite non determinanti nelconcorrere a un danno o a un beneficio, ulteriori differenze dastabilire, per evitare di attribuire all’individuo unaresponsabilità morale anche laddove essa non sia dovuta.

Per prima cosa si possono identificare le azioni che risultanoprive di potenzialità: azioni collettive in cui anche supponendo chetutti gli individui coinvolti agiscano in un certo modo, la soglianon sarà raggiungibile. Sarebbe priva di potenzialità l’azione delsingolo che in prossimità della chiusura dei seggi si reca avotare per un candidato sebbene sappia, ad esempio a causa di unafuga di informazioni attendibili, che il candidato da luiprescelto ha preso solo poche centinaia di voti e dunque èimpossibile che vinca47.

Si può individuare una soglia minima di efficacia neicontributi ai problemi collettivi, al di sotto della quale sisituano le azioni prive di potenzialità. Sotto tale soglia si puòaffermare che non vi sia alcuna responsabilità morale per ilsingolo, e che agire o astenersi dal farlo siano azioni moralmenteidentiche, ed entrambe neutrali. Per poter ritenere la propriaazione priva di potenzialità è necessario possedere informazioni opoter fare previsioni attendibili sul comportamento delle altrepersone coinvolte, e dunque sulla potenzialità dell’azioneaggregata del singolo e di altri individui che potrebbero agireanalogamente. È importante sottolineare che possedere questo tipodi informazione è il solo modo per poter classificare delle azionicome prive di potenzialità. Si obietterà che questo significa chein poche circostanze l’individuo possiede tali informazioni e diconseguenza in poche circostanze viene manlevato dalla

46 J. Glover, M. Scott-Taggart, It makes no difference whether or not I do it, cit., pp. 171-172.47 Si ricorre qui all’esempio del voto perché si presta bene a cogliere il concetto di potenzialità di un’azione, ma nel caso del voto la responsabilità morale era stata attribuita sulla base comunque di altri fattori.

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responsabilità morale di agire, e in effetti è così. Solo leazioni che si rivelano prive di potenzialità possono realmentedirsi inutili, mentre la stessa cosa non vale per le azioni checoncorrono a un processo causale ancora aperto. E solo per leazioni inutili viene meno la responsabilità morale.

Jamieson sostiene che se anche il singolo fosse certo chel’obbiettivo di prevenire i cambiamenti climatici non saràraggiunto, non per questo si dovrebbe concedergli di comportarsicon totale incuranza nei confronti dell’ambiente48. Questo puntopuò essere in parte condivisibile, ma implica sicuramente un tipodi impegno minore da parte del soggetto. Può infatti aver sensoagire comunque in modo “virtuoso” anche se si è sicuri di nonpoter far nulla per modificare lo stato delle cose. Però a questopunto diventa centrale la questione del sacrificio che l’azionecosta al soggetto. Non si potrà infatti chiedere all’individuo unsacrificio quando non vi è alcuna possibilità di poter raggiungerel’obbiettivo sperato, né si potrà considerarlo in alcun modoresponsabile di dare un contributo. Quindi, se si caratterizzanole azioni che contribuiscono a obbiettivi di bene comune comeazioni che implicano un costo, il soggetto in questo caso non saràconsiderato moralmente responsabile di sostenerlo. Il che nonsignifica che, qualora tali azioni fossero a costo zero, nonsarebbe preferibile agire comunque secondo dei principi moralmentebuoni. In generale, tuttavia, le azioni prive di potenzialità sitrovano al di fuori del territorio della responsabilità morale.

Una volta escluso che il contributo del singolo si situi al disotto della soglia minima di efficacia, si può dire che l’azioneabbia la possibilità effettiva di contribuire al raggiungimentodella soglia di discriminazione, di fare cioè parte del processocausale che porta al raggiungimento di essa, pur apportando uncontributo che non fa la differenza. Queste sembrano essere lecondizioni per l’attribuzione di responsabilità morale al soggettoagente: l’esistenza di una potenzialità. E si potrà pertantodefinire buona l’azione che contribuisce causalmente allarealizzazione di un fine positivo (ad esempio contribuire altaglio delle emissioni), pur restando aperto il rischio che

48 Cfr. D. Jamieson, When Utilitarians Should Be Virtue Theorists, cit., p. 18.24

l’obbiettivo non sarà raggiunto (si potrebbe non riuscire atagliarle in modo sufficiente a prevenire gli effetti peggiori deicambiamenti climatici). Queste azioni potrebbero essere definitecome potenzialmente unilaterali: non c’è sicurezza di insuccesso, e perquesto il soggetto è moralmente responsabile di agire, ma ancorasussiste il rischio che l’azione si riveli a posteriori inutile.Il fatto però che resti un certo margine di incertezza sulrisultato non è una motivazione valida per rendere moralmenteneutrale l’azione del singolo in questi casi.

Mentre la mancanza di responsabilità morale per le azioniprive di potenzialità è riconosciuta dalle teorieconsequenzialiste (mentre quelle deontologiche e l’etica dellevirtù in molti casi la estenderebbero anche a quelle), lo stessonon può dirsi per le azioni potenzialmente unilaterali, su cui visono pareri discordanti. Infatti, pur soddisfatto il requisitominimo di partecipazione al processo causale, resta aperta lapossibilità che la soglia di discriminazione non venga raggiunta,ovvero che l’azione del singolo risulti inutile. Questa è laconsiderazione che ha portato Cripps e Johnson ad aggiungere comecondizione la presenza di un accordo collettivo (o di una legge)che scongiuri il rischio di unilateralità. Con l’inserimento diquesta condizione, però, la linea di demarcazione tra le azioniper cui esiste responsabilità morale e quelle per cui non esistesi sposta sensibilmente. Come si è detto, per molte delle azionicollettive in cui gli individui vengono costantemente coinvoltinon c’è sicurezza che la collettività agisca o sia tenuta adagire, poiché alla base non vi è alcuna organizzazione né vi sonoleggi in merito.

Cosa accadrebbe se si accettassero le posizioni di Cripps eJohnson e si riconoscesse all’individuo la responsabilità di agiresolo in presenza di un accordo collettivo? Per chiarire ladifferenza di responsabilità attribuite dai diversi approcci sipuò fare riferimento all’esempio di Parfit in cui vi sono milleuomini nel deserto che stanno soffrendo la sete, e altri milleuomini, ciascuno con una pinta d’acqua, che possono versarla inuna cisterna da cui verrà ridistribuita tra tutti.

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Si potrebbe parlare di azioni prive di potenzialità se vifossero mille uomini sofferenti come nell’esempio di Parfit, masolo, ad esempio, dieci uomini con una pinta d’acqua, perché glialtri 990 l’hanno già bevuta. Se essi versassero l’acqua nellacisterna, la quantità che arriverebbe ai mille uomini, contandoche dovrebbe per forza essere divisa tra tutti, non avrebbe alcunapotenzialità di dissetarli, non raggiungendo la soglia didiscriminazione oltre la quale essi percepiscono un sollievo.

Poniamo invece che vi siano i mille uomini con le mille pinte.Nessun individuo può prevedere come agiranno gli altri, pertantoil proprio gesto di versare l’acqua nella cisterna potrebberisultare unilaterale. Ma ci sono i numeri sufficienti per cuil’obbiettivo di dissetare gli uomini possa essere realizzato, setutti collaboreranno. L’azione del singolo è dotata dipotenzialità perché il fine è raggiungibile e ad esso contribuiscecausalmente, ma non vi è alcuna sicurezza che sarà raggiunto, percui essa è potenzialmente unilaterale.

Poniamo infine il caso in cui vi siano i mille uomini ciascunocon la sua pinta, organizzati in un gruppo collettivo che hal’obbiettivo comune di salvare gli uomini assetati. O poniamo cheesista una legge che stabilisce che in simili circostanze tuttisono tenuti a versare la propria acqua. Ciascuno versa l’acquanella cisterna e gli uomini vengono salvati. E se anche non tuttilo faranno (perché potrebbe comunque esserci qualche free-rider),verrebbe comunque raggiunta la soglia di discriminazione per cuigli uomini non verrebbero magari dissetati completamente, ma nonmorirebbero di sete.

I principi che antepongono l’organizzazione della collettivitàcon accordi o leggi all’azione diretta del singolo direbbero che,in simili circostanze, gli individui devono per prima cosaorganizzarsi con gli altri per costituire un gruppo che si impegnaa versare l’acqua nella cisterna, o istituire una legge cheobbliga tutti a farlo. Ciò che si sostiene qui invece è che, anchese persiste ancora il rischio di unilateralità, l’individuo hacomunque una forma di responsabilità morale di versare la suaacqua, senza aspettare di organizzarsi con gli altri: versarlaoppure no non sono cioè due azioni moralmente equivalenti. Perché

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si corre il rischio che l’organizzazione richieda un tempo taleper cui la situazione possa deteriorarsi nel mentre. Se gli uominipensassero a organizzarsi anziché versare la propria acqua nellacisterna, quelli che si trovano nel deserto potrebbero morire disete.

Ciò che sembra stabilire una distinzione netta tra le azioniprive di responsabilità e quelle che ne sono dotate è dunque lapotenzialità dei contributi, che, sebbene non determinanti, possonoessere visti come una parte costituente nella strada che portaverso il fine preposto. Si può affermare che un’azione sia dotatadi tale potenzialità verso un obbiettivo nel caso in cui, se anchele altre persone coinvolte nell’azione daranno il loro contributo,l’obbiettivo potrà essere raggiunto (anche se non è detto che losarà). Fare una donazione per la costruzione di un ospedale ocontribuire al taglio delle emissioni di CO2 con le proprie azioniquotidiane può non avere (e di fatto non ha) alcun impatto direttoe percepibile sullo stato delle cose, eppure non è nemmenoun’azione inutile: perché l’obbiettivo è aperto e raggiungibile, el’azione del singolo vi contribuisce, ed egli non avrebbe potutocontribuirvi se non così.

Questo approccio sembra essere piuttosto simile a quelloindividuato dal consequenzialismo delle regole, che applica ilprincipio kantiano dell’universalizzabilità della massimaconsiderando gli effetti che si produrrebbero se la medesima regolasu cui l’azione si basa venisse seguita da tutti. Il soggetto, difronte a ogni decisione, dovrebbe chiedersi dunque cosasuccederebbe se tutti agissero nel medesimo modo, e sulla basedella risposta valutare come agire. Questo tipo di approccio ètuttavia passibile di una critica: il principio diuniversalizzabilità della massima così applicato porta a vietareal singolo una serie di azioni neutrali, o a prescrivere azioniinutili. Impedirebbe ad esempio la scelta di non avere figli,perché se tutti smettessero di avere figli il genere umano siestinguerebbe49. Il consequenzialismo delle regole si basa solo

49 W. Sinnott-Armstrong, Its’s not my fault: global warming and individual moral obligations, cit., p. 307.

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sulle conseguenze che un’azione avrebbe se tutti la compissero50,mentre in questo caso ci si concentra sulla potenzialitàdell’azione, prima di poter dare al soggetto un’indicazionepratica su come comportarsi. La potenzialità di un’azione sistabilisce partendo da ciò che è prevedibile del comportamentoaltrui, da considerazioni circa lo stato delle cose e il numero dipersone coinvolte in essa. A volte è possibile fare previsioniattendibili in proposito, a volte no. Ma questo non fa decadere ilprincipio: infatti la responsabilità morale viene meno solo inpresenza di dati che assicurino che, qualunque cosa faccia ilsingolo, la sua azione sarà priva di potenzialità. Nei casi in cuitale certezza non si possieda, l’individuo avrà unaresponsabilità, derivata dal suo essere parte attiva nel processocausale. Ciò non implica che per ogni azione dotata dipotenzialità esista uno stesso tipo di responsabilità morale. È datenere certamente in considerazione la possibilità che un singoloindividuo possa realizzare un fine di importanza notevole per sestesso o per gli altri a condizione di non tagliare le proprieemissioni in un certo contesto. Ogni decisione in merito, ovvero,deve tenere conto dell’entità del sacrificio richiesto al singoloin relazione non solo a quello che egli può realizzarecompiendolo, ma a quello che potrebbe fare non compiendolo. Ciò cheinteressa qui, tuttavia, non è stabilire il grado diresponsabilità morale attribuibile all’individuo in contestisimili (che è una questione complessa che andrebbe trattataseparatamente e in modo dettagliato), bensì semplicemente negarel’assenza completa di responsabilità che altre teorie hannosostenuto.

Si ponga il caso dell’individuo che deve decidere secontribuire al taglio delle emissioni di gas serra. Egli non puòprevedere come si comporteranno gli altri; sa solo che esistonomolti paesi del mondo impegnati nel taglio delle emissioni e molteorganizzazioni trasversali che fanno altrettanto. E sa che, setutti coloro che ne hanno la possibilità tagliassero le proprie

50 Questo aspetto del consequenzialismo delle regole è stato commentato anche da Sandberg (cfr. J. Sandberg, My Emissions Make No Difference, cit., p. 238) e definito potenzialmente pericoloso da Glover (cfr. J. Glover, M. Scott-Taggart, It makes no difference whether or not I do it, cit., pp. 174-175).

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emissioni, i cambiamenti climatici potrebbero essere mitigati. Lasua azione è dunque dotata di una potenzialità, anche se nonesiste alcuna garanzia di successo, perché non vi sono ancoraaccordi collettivi né leggi. Per questo motivo si può affermareche egli sia moralmente responsabile di dare un proprio contributo– nel senso che non sarà moralmente indifferente che egli lofaccia oppure no.

Decade così la necessità, individuata da Cripps, diorganizzare la collettività: quella che la studiosa definisce unacollettività potenziale possiede già tutti i presupposti per poteragire in maniera efficace. Di fatto esiste già una collettività,dotata di potenzialità, costituita dei paesi che hanno adottatopolitiche ambientali e di individui che tagliano le emissioni digas serra, e perché le loro azioni siano efficaci non occorrononecessariamente altre forme di organizzazione. Sarebbero utili,certo, per eliminare il rischio ancora presente che anche talecollettività stia agendo unilateralmente. Ma non è indispensabileeliminare il rischio di unilateralità, per entrare nel territoriodella responsabilità morale.

Conclusione

In questo articolo si è provato a fornire all’individuo unamotivazione di tipo morale per contribuire in prima persona allarisoluzione di problemi collettivi. La prospettiva adottata sibasa più che sull’effetto minimo della singola azione, sulla suaappartenenza a un processo causale che ha la possibilità diraggiungere un risultato significativo, pur riconoscendo chel’apporto del singolo non è in grado di fare la differenzarispetto alla situazione, e pur restando aperta la possibilità chel’obbiettivo perseguito non venga raggiungo.

Può sembrare eccessivo attribuire all’individuo laresponsabilità morale di agire in simili circostanze, eppurel’estensione della responsabilità anche in casi così incertisembra essere l’unica scelta moralmente accettabile, perchél’alternativa è quella di attribuire la neutralità morale ad

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azioni che invece possono aiutare a produrre risultati di grandeimportanza per l’umanità. Un punto fondamentale resta da chiarire,e riguarda il tipo di responsabilità morale attribuibile. Sitratta di una responsabilità in qualche modo diversa rispetto aquella che esiste quando le azioni individuali possono influire inmodo tangibile sulla vita di qualcuno, e probabilmente in partediversa da quella che si acquisisce quando la collettività èorganizzata per perseguire un bene comune, e il rischio diunilateralità si riduce sensibilmente.

Poiché l’obbiettivo di questo saggio era quello di fugare ildubbio che i contributi ad azioni collettive in cui l’impatto delsingolo è minimo e l’esito è incerto fosse moralmente neutrale, cisi può per ora limitare ad affermare che gli individui abbianodelle ragioni morali a impegnarsi in queste situazioni, ovvero dellemotivazioni di tipo morale che li spingono in questa direzione. Laforza delle ragioni morali, specie in relazione alle altremotivazioni che spingono l’individuo ad astenersi dall’azione,resta l’elemento da chiarire, e potrebbe divenire la base di unaricerca a se stante. Per ora si può avanzare l’idea che lavalutazione della necessità dell’azione individuale possa sempreessere relazionata alle circostanze, ipotizzando un rafforzarsidelle ragioni in presenza di alcune condizioni. Ad esempio, si puòdire che il soggetto abbia ragioni morali più forti a dare ilproprio contributo quanto minore è il suo costo individuale,quanto minore appare il rischio di unilateralità, o quantomaggiore è la sua potenzialità come individuo (perché ad esempioagisce in un contesto sociale in cui sarebbe in grado diesercitare una discreta influenza su altri). E si può riconoscereche il soggetto sia moralmente giustificato a non eseguirel’azione in vista del bene comune se, tramite l’azione contraria,egli raggiunge un obbiettivo moralmente significativo in terminidi finalità di prima importanza (come la difesa della vitaumana)51. Le ragioni morali sono tali da implicare, per il

51 Quest’idea richiama in qualche modo quella esposta da Peter Singer (in Famine,Affluence and Morality, cit.) dove lo studioso afferma che se è in nostro potereprevenire che qualcosa di brutto accada senza sacrificare nulla di equivalenteimportanza morale, allora dovremmo farlo. L’argomento qui esposto è tuttavia piùsensibile alle condizioni del contesto e meno drastico riguardo all’equivalenza

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soggetto, un impegno proporzionale a dare il proprio contributo aun’azione collettiva, per cui a differenti condizioni siapersonali sia contestuali si riconosce una responsabilità diversa.

Ciò che si può in ultima analisi affermare, è che le ragionimorali a dare il proprio contributo alla risoluzione di unproblema collettivo debbano entrare a pieno titolo a far parte delprocesso decisionale dell’individuo ad agire, dove siconfronteranno con le altre ragioni che spingerebbero all’azionedi segno opposto. E il fatto che tale contributo non siaconsiderato moralmente neutrale rafforza le motivazioni aimpegnarsi in prima persona. Sebbene il singolo non faccia ladifferenza, pur sempre contribuirà al bene comune, e il suocontributo sarà piccolo, ma non nullo. Utile, ma non determinante.Dotato di valore morale, e non neutrale.

morale di sacrificio e obbiettivo.31