Realismo morale

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Elvio Baccarini Realismo morale La Rosa Editrice, Torino, 1998 Introduzione Il presente lavoro riguarda problemi di metaetica, cioè riflessioni sulla natura della morale. I limiti di questa discussione sono quelli della riflessione filosofica angloamericana contemporanea. Quelle dottrine che, seppure molto influenti e di fondamentale rilevanza storica, non hanno oggi una presenza nelle discussioni contemporanee saranno presentate molto brevemente nell’introduzione. La loro esposizione servirà soltanto a spiegare i termini del dibattito attuale. L’analisi della natura della morale nell’ambito angloamericano contemporaneo assume aspetti molteplici. In gran parte, però, come è ampiamente noto, consiste nell’analisi del linguaggio morale. Tale approccio dovrebbe rivelare la natura della morale stessa. Seguendo quella che ci appare essere una tendenza dominante in questi ultimi anni, analizzeremo tale dibattito con attenzione particolare alle categorizzazioni epistemologiche e ontologiche – qual è la natura dei fatti morali e quale conoscenza possiamo averne? –. Nelle linee più generali, le principali posizioni contrapposte sono quella realista e quella antirealista. La posizione realista sostiene che esistono fatti morali e che noi possiamo conoscerli. Secondo il realismo, quindi, sussiste una verità morale, ossia un insieme di enunciati (morali) che corrispondono ad una realtà esterna. Il concetto di verità che viene qui messo in campo è quello di verità come corrispondenza. ‘Vero’ è ciò che corrisponde ad una realtà che non viene determinata dal processo di conoscenza che la riguarda. A questo concetto viene contrapposto quello di verità come costruzione, secondo il quale non possiamo parlare di una realtà esterna al processo di conoscenza, poiché questa non ci sarebbe in alcun modo accessibile. ‘Vero’ è ciò che viene stabilito o in un’interazione tra la realtà esterna ed un processo di conoscenza valido, o, addirittura, semplicemente da un procedimento di conoscenza valido (ad esempio, nella sistemazione delle nostre credenze in un insieme coerente). La posizione antirealista nega che vi siano degli enunciati che descrivano correttamente la realtà morale, cioè che vi siano enunciati morali veri. Questo può essere sostenuto in due modi. Il primo è quello di negare che gli enunciati abbiano la capacità di descrivere una realtà morale, in quanto avrebbero degli scopi diversi dalla descrizione di fatti. Il secondo è di concedere che gli enunciati possiedano una dimensione descrittiva, ma siano tutti falsi. Poiché qualcosa come una realtà morale semplicemente non esisterebbe, ogni enunciato morale che abbia come funzione la descrizione della realtà morale sarebbe falso, così come sono falsi, ad esempio, gli enunciati che riguardano le streghe, i ciclopi, i cavalli alati, ecc. L’origine di tale controversia teorica può essere collocata nel 1903, quando vennero pubblicati i Principia Ethica di George Moore. 1 L’argomento più noto di questo libro, che viene discusso in tutto il dibattito successivo fino

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Elvio Baccarini

Realismo morale La Rosa Editrice, Torino, 1998

Introduzione

Il presente lavoro riguarda problemi di metaetica, cioè riflessioni sulla natura della morale. I limiti di questa discussione sono quelli della riflessione filosofica angloamericana contemporanea. Quelle dottrine che, seppure molto influenti e di fondamentale rilevanza storica, non hanno oggi una presenza nelle discussioni contemporanee saranno presentate molto brevemente nell’introduzione. La loro esposizione servirà soltanto a spiegare i termini del dibattito attuale. L’analisi della natura della morale nell’ambito angloamericano contemporaneo assume aspetti molteplici. In gran parte, però, come è ampiamente noto, consiste nell’analisi del linguaggio morale. Tale approccio dovrebbe rivelare la natura della morale stessa. Seguendo quella che ci appare essere una tendenza dominante in questi ultimi anni, analizzeremo tale dibattito con attenzione particolare alle categorizzazioni epistemologiche e ontologiche – qual è la natura dei fatti morali e quale conoscenza possiamo averne? –.

Nelle linee più generali, le principali posizioni contrapposte sono quella realista e quella antirealista. La posizione realista sostiene che esistono fatti morali e che noi possiamo conoscerli. Secondo il realismo, quindi, sussiste una verità morale, ossia un insieme di enunciati (morali) che corrispondono ad una realtà esterna. Il concetto di verità che viene qui messo in campo è quello di verità come corrispondenza. ‘Vero’ è ciò che corrisponde ad una realtà che non viene determinata dal processo di conoscenza che la riguarda.

A questo concetto viene contrapposto quello di verità come costruzione, secondo il quale non possiamo parlare di una realtà esterna al processo di conoscenza, poiché questa non ci sarebbe in alcun modo accessibile. ‘Vero’ è ciò che viene stabilito o in un’interazione tra la realtà esterna ed un processo di conoscenza valido, o, addirittura, semplicemente da un procedimento di conoscenza valido (ad esempio, nella sistemazione delle nostre credenze in un insieme coerente).

La posizione antirealista nega che vi siano degli enunciati che descrivano correttamente la realtà morale, cioè che vi siano enunciati morali veri. Questo può essere sostenuto in due modi. Il primo è quello di negare che gli enunciati abbiano la capacità di descrivere una realtà morale, in quanto avrebbero degli scopi diversi dalla descrizione di fatti. Il secondo è di concedere che gli enunciati possiedano una dimensione descrittiva, ma siano tutti falsi. Poiché qualcosa come una realtà morale semplicemente non esisterebbe, ogni enunciato morale che abbia come funzione la descrizione della realtà morale sarebbe falso, così come sono falsi, ad esempio, gli enunciati che riguardano le streghe, i ciclopi, i cavalli alati, ecc.

L’origine di tale controversia teorica può essere collocata nel 1903, quando vennero pubblicati i Principia Ethica di George Moore.1 L’argomento più noto di questo libro, che viene discusso in tutto il dibattito successivo fino

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ai giorni nostri, è quello che denuncia la cosiddetta fallacia naturalistica. Si tratta di un argomento che indica un salto logico tra termini che descrivono entità naturali e giudizi morali. L’argomento, evidentemente, riprende un’affermazione analoga già argomentata da David Hume e di cui ci occuperemo in seguito.

La fallacia naturalistica è l’errore logico compiuto da chi vuol derivare termini normativi da termini descrittivi. Si tratta di un tentativo di ridurre gli enunciati morali a enunciati naturali, con il semplice strumento dell’analisi linguistica (per questo lo si chiama anche ‘naturalismo analitico’). Moore, nel denunciare l’errore naturalistico, usa il celeberrimo open question argument per mostrare come gli enunciati normativi non possono essere identici per definizione agli enunciati descrittivi. Moore sostiene, infatti, che neanche il naturalista, cioè il sostenitore della dottrina per cui i fatti morali corrispondono a fatti naturali, sarà disposto, di fronte alla dichiarazione di identità di significato tra un enunciato normativo ed uno descrittivo, ad affermare che la domanda ‘perché?’ posta a questa affermazione d’identità sia banale. Così, se qualcuno chiede: ‘per quale motivo ‘bene’ = ‘conseguimento della massima utilità’?’, nessuno sarà disposto a ritenere la domanda scontata. Però, se la domanda non è banale, è evidente, secondo Moore, che l’affermazione non rappresenta una verità analitica.2

La denuncia della fallacia naturalistica pone un problema importante: se i giudizi morali non sono equivalenti a giudizi naturali, a quali entità si riferiscono? La risposta di Moore è: a entità non naturali, sui generis, colte da una facoltà cognitiva particolare, l’intuizione morale.

L’analisi di Moore ha lasciato un segno profondo. Il suo argomento a proposito della fallacia naturalistica venne accolto quasi senza obiezioni. Ci furono, invece, dei forti dubbi sulla sua proposta intuizionistica, che identificava nei giudizi morali le espressioni di verità sui generis, differenti dalla verità naturali ed empiriche che cogliamo con i nostri cinque sensi o sulla loro base.

La prima reazione all’intuizionismo fu quella dell’emotivismo, una dottrina sviluppatasi a partire dagli anni ’30. Nella sua versione più radicale, l’emotivismo riprende una concezione diffusa nella filosofia del linguaggio del primo positivismo logico. Secondo tale concezione, hanno significato soltanto quegli enunciati che sono verificabili. Questa condizione non è soddisfatta dagli enunciati morali come vengono interpretati nella dottrina intuizionistica di Moore. Con le parole di Alfred Ayer:

Un tratto caratteristico di questa teoria, raramente riconosciuto dai suoi sostenitori, è che essa rende inverificabili le affermazioni di valore. Infatti è risaputo che quanto sembra intuitivamente certo a un individuo, a un altro può sembrare dubbio o persino falso. Perciò, dove non sia possibile fornire qualche criterio per decidere fra intuizioni in conflitto, il puro e semplice appello all’intuizione non ha valore di prova per la validità della proposizione.3

Quando due soggetti differiscono nei loro giudizi su fatti empirici è possibile risolvere il conflitto appellandosi a una realtà verificabile. Se io dico che nella stanza accanto alla nostra c’è una sedia e un altro soggetto dice che non vi è alcuna sedia, basta aprire la porta per vedere chi di noi due ha ragione. Non è così per la realtà morale. Non esiste, per Ayer, un’osservazione morale

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indipendente che possa dirimere un conflitto di opinioni. Se è così e se il significato può appartenere soltanto ad enunciati verificabili, bisogna concludere, allora, che gli enunciati morali sono privi di significato.

Ayer propone un’analisi del tutto diversa degli enunciati morali. Questi non veicolano la descrizione di alcuna realtà, e non sono altro che funzioni di nostre emozioni, con le quali esprimiamo approvazione e con le quali tentiamo di convincere gli altri ad abbracciare le nostre.

La critica di Ayer non è, a sua volta, priva di problemi. È particolarmente problematico proprio il presupposto logico-positivistico, ossia che abbiano significato soltanto gli enunciati verificabili.

Tuttavia, l’emotivismo ha assunto anche forme che non si appellano al presupposto generale di Ayer. In una delle sue versioni più elaborate, quella presentata da Charles Stevenson, si sottoscrive il fatto che gli enunciati morali abbiano un significato, precisamente il significato emotivo. Il significato emotivo si distingue da quello descrittivo perché non fornisce una descrizione della realtà, bensì intende provocare un effetto, ossia trasmettere dei sentimenti di approvazione, non modificando credenze, bensì modificando atteggiamenti.

Il significato emotivo di una parola è la tendenza di una parola, affermatasi nel corso della storia del suo uso, di produrre (risultare da) risposte affettive nelle persone. È l’insieme immediato di sentimenti che circondano una parola. Queste tendenze a produrre risposte affettive si legano a una parola molto tenacemente.

… In virtù della persistenza di queste tendenze affettive (assieme ad altre ragioni) diviene possibile classificarle come significati.4

L’emotivismo, quindi, non poggia necessariamente su una teoria del linguaggio di dubbia validità. E, tuttavia, le sue debolezze sono evidenti. Innanzi tutto, l’affermazione secondo la quale lo scopo dei giudizi morali non è quello di creare una credenza, bensì un atteggiamento, non fornisce una definizione specifica ed esclusiva della morale. Anche se questa descrizione fosse vera, non riguarderebbe in senso peculiare la morale, in quanto vi sono sicuramente altri universi di discorso che possono essere descritti in questo stesso modo. Inoltre, è dubbio che lo scopo dei giudizi morali sia quello descritto. Ad esempio, è perfettamente possibile che io esprima un giudizio morale in presenza di un soggetto che lo condivide. In questo caso, non è mia intenzione cambiare il suo atteggiamento. È, infine, problematica la descrizione di come i giudizi morali operino nel creare una credenza o nell’influenzare un atteggiamento. Si sostiene che ciò accadrebbe attraverso un appello più o meno palese ai sentimenti. Se è così, però, il discorso morale perde ogni valenza razionale. L’unico suo criterio di validità sarebbe l’efficacia retorica. Questo è sembrato esagerato persino a chi non sostiene il realismo morale. Gli emotivisti avrebbero ridotto il linguaggio morale ad un discorso propagandistico, il cui scopo sarebbe unicamente il tentativo di trascinare gli altri all’interno del proprio sistema di preferenze. Una delle conseguenze indesiderate di tale situazione è che l’emotivista non lascia alcuna possibilità di fondare una distinzione di valore tra qualcuno simile a San Francesco, da un lato, e qualcuno simile a Hitler dall’altro. Ciascuno dei due, nel proprio linguaggio morale, esprime i propri sentimenti di approvazione e disapprovazione e tenta di convincere gli altri ad abbracciarli. Non c’è alcuna base per sostenere che tra i due sistemi di credenze morali una sia preferibile all’altra.5

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L’emotivismo ha consegnato un problema sostanziale alla successiva filosofia morale: come rinunciare a posizioni realistiche senza tuttavia rinunciare alla razionalità.6 Il tentativo più noto in questa direzione è quello di Richard Hare, ideatore del prescrittivismo che, sull’analisi delle proprietà logiche del linguaggio, costruisce un metodo di ragionamento che dovrebbe consentire di affrontare razionalmente le controversie morali. Alla sua metaetica sarà dedicato il primo capitolo della presente ricerca.

Dopo l’esposizione della metaetica di Hare ci occuperemo di proposte metaetiche il cui centro non è più costituito dalle analisi linguistiche. Il secondo capitolo presenta posizioni filosofiche che negano il valore obiettivo dei giudizi morali, ma lo fanno sulla base di considerazioni ontologico-epistemologiche a posteriori. Si tratta di posizioni naturaliste che rifiutano alla morale il genere di obiettività presente nella scienza.

Un’ulteriore critica alla posizione realistica è rappresentata da Richard Rorty – cui dedicheremo il terzo capitolo della nostra ricerca –, che rifiuta qualsiasi tipo di obiettivismo, tanto per la morale, quanto per le altre imprese conoscitive umane (fra le quali la scienza). Lo scopo dell’indagine filosofica – e, in verità, di ogni indagine – non è scoprire verità, bensì fornire soluzioni pragmaticamente proficue ai nostri problemi. La filosofia in Rorty perde qualsiasi status epistemologicamente privilegiato e si muove alla pari di altri sforzi intellettuali, come l’arte.

Dopo l’analisi della posizione di Rorty, si esamineranno alcuni tentativi di replica realista alle critiche degli antirealisti. Il quarto capitolo sarà dedicato ad Alan Gewirth, e al suo tentativo fondazionale che si diparte dall’analisi logica della definizione di agente razionale, per giungere a sostenere che ogni agente caratterizzato da alcune modalità specifiche dovrebbe logicamente impegnarsi ad accogliere ciò che Gewirth chiama principio supremo della morale.

Il quinto capitolo si occupa di quelle posizioni ontologiche ed epistemologiche che sviluppano un’analogia tra qualità morali e qualità secondarie come i colori. Si tratta della cosiddetta posizione disposizionale, secondo la quale le proprietà morali sono equivalenti alle proprietà secondarie nel senso che, al pari di queste, hanno la disposizione a creare, in condizioni adatte, determinate percezioni nei soggetti.

Il sesto capitolo si occuperà delle critiche a quella che chiameremo concezione assoluta della realtà. La concezione assoluta asserisce che hanno esistenza reale soltanto gli oggetti e le proprietà che sono conoscibili in modo indipendente da caratteristiche cognitive o prospettive particolari. Tra queste vi sono, ovviamente, anche le qualità disposizionali. Per tale motivo questo capitolo, soprattutto nella sua seconda parte, può essere considerato come una prosecuzione del precedente. Inizieremo esaminando la posizione di Hilary Putnam, secondo la quale i critici a posteriori del realismo morale commettono l’errore di pensare che siano possibili delle conoscenze che non facciano riferimento alla prospettiva particolare di ciascun soggetto. Ogni conoscenza, invece, presuppone la sussunzione di alcuni valori. I valori perciò sono almeno tanto reali quanto lo sono le conoscenze empiriche. La seconda parte del capitolo si occuperà della posizione resa influente da Thomas Nagel, secondo la quale vi sono due prospettive, entrambe indispensabili, nella conoscenza

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della realtà: una particolare ed una universale. Nessuna delle due è riducibile all’altra senza perdite significative.

Il settimo capitolo sarà dedicato al realismo a posteriori. Si tratta di un tentativo di fondazione naturalistica dell’etica, che sostiene che i fatti morali non sono fatti sui generis, bensì fatti naturali. Dicendo ‘naturali’ si intende ‘conoscibili dai nostri cinque sensi’ (o sulla loro base) e inseribili in un’immagine scientifica del mondo. Si tratta, però, di un senso ampio di ‘naturale’, tale da comprendere anche i fatti storici, sociologici, psicologici, ecc. ‘Naturale’ in questo senso è termine contrapposto a ‘non-naturale’, come può essere non-naturale la descrizione dell’Iperuranio di Platone. Questa forma di naturalismo intende evitare la fallacia naturalistica sostenendo che essa colpisce i tentativi analitici, mentre la riduzione dei fatti morali ai fatti naturali dovrebbe essere realizzata a posteriori. Un modello di riduzione teorica che sembra particolarmente proficuo è quello di presentare la riduzione teorica dei fatti morali ad un insieme di leggi di razionalità pratica. Per illustrare la fecondità di tale posizione ci si concentrerà su un settore soltanto della morale e precisamente sulla giustizia.

L’ottavo capitolo sarà dedicato ad una critica al modello relativistico di interpretazione della morale, che nega che vi qualcosa come una natura umana, valida interculturalmente, e sostiene, piuttosto, che ciò che continuiamo a chiamare ‘natura umana’ è un prodotto modellato dalle diverse tradizioni storiche e culturali. Il caso paradigmatico che esamineremo è quello di Alasdair MacIntyre.

Il nono capitolo tenterà di fornire una risposta a quest’ultima posizione, attraverso gli strumenti offerti dalla teoria della giustizia di John Rawls. Anche contrariamente a quanto sembra voler dire l’ultimo Rawls, questa teoria può basarsi su assunzioni sufficientemente non problematiche per poterne affermare la validità universale e non soltanto locale.

Il decimo capitolo presenterà la critica di Philip Pettit al liberalismo. Secondo Pettit, la dottrina liberale offre troppo poche garanzie agli appartenenti alla comunità politica, garanzie che, viceversa, sarebbero rintracciabili nella tradizione del repubblicanesimo. Si tenterà di mostrare come il liberalismo e, in particolare, la teoria della giustizia di Rawls, possa affrontare senza perdite significative queste critiche.

L’undicesimo capitolo è dedicato alle applicazioni. Si indicherà come la concezione della giustizia che si è esposta possa fornire standard di giudizio adeguati per affrontare i dibattiti sulle minoranze nazionali e sull’organizzazione dello Stato dal punto di vista dell’autonomia locale.

1 G.E. Moore, Principia Ethica, Milano, Bompiani, 1964. (Principia Ethica, Cambridge,

Cambridge University Press, 1903). 2 In Italia il problema è stato già studiato e discusso. Si veda, ad esempio, la “Rivista di

filosofia” del febbraio 1976 ed il libro di G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere. Milano, Giuffrè, 1963.

3 A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 134. (Language, Truth and Logic, London, Victor Gollanz, 1936.)

4 C.L. Stevenson, The Emotive Meaning of Ethical Terms, “Mind”, 1937, ora in L. Pojman (a cura di), Ethical Theory. Classical and Political Readings, Belmont, California, Wadsworth Publishing Company, 1989, p. 375.

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5 Nell’esposizione di queste critiche ho seguito G.J. Warnock, Filosofia morale

contemporanea. Logica e semantica del discorso morale, Roma, Armando, 1974, pp. 57-65 (Contemporary Moral Philosophy, London, Macmillan and Co Ltd, 1967).

6 Un tentativo di questo genere è stato presentato in Italia da Uberto Scarpelli. Vedi U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna, Il Mulino, 1982.

Capitolo primo

La proposta prescrittivista di Richard Hare

Hare ha formulato e difeso una delle più interessanti e intelligenti proposte, tanto di analisi della morale, quanto di discussione sui problemi di contenuto della morale, apparse sulla scena filosofica del dopoguerra. Si tratta di una posizione fondazionalista basata su un’analisi del linguaggio morale.

Hare ritiene che l’impasse principale della filosofia morale contemporanea sia derivata dal voler imporre un modello descrittivista all’analisi del linguaggio morale, mentre il modello di analisi adeguato è quello prescrittivista. Il prescrittivista si nega che lo scopo della filosofia morale sia scoprire fatti morali. Non di meno, a differenza di quanto sostiene l’emotivismo, secondo l’opinione di Hare il programma prescrittivista riesce nell’impresa di fornire una base razionale alla morale.

Nelle pagine che seguono si cercherà di presentare con precisione la proposta di Hare, indicando alla fine quelli che riteniamo essere i problemi irrisolti delle sue aspirazioni fondazionaliste. Ci si occuperà, in modo diretto, delle formulazioni più recenti di Hare, successive ai suoi primi due libri,1 in modo da evitare completamente possibili dibattiti sulla continuità o meno della sua teoria2 – questioni di cui, evidentemente, non neghiamo affatto l’importanza, ma che esulano dai limiti che ci siamo imposti –.

1.1. Innanzi tutto, è opportuno specificare più dettagliatamente che

cosa sia il descrittivismo, la posizione che deve essere assunta dai filosofi morali realisti e che Hare ritiene implausibile. I descrittivisti sono caratterizzati dall’accettazione di una teoria del significato la quale sostiene che

comprendere il significato di una frase, usata nell’espressione di un enunciato, vuol dire comprendere le condizioni di verità dell’enunciato, ovvero qual è il dato di fatto che consente che esso possa essere chiamato vero.3

Il significato di ‘la neve è bianca’ viene compreso se si comprende che questa frase è vera se la neve è bianca ed è falsa se non è vero che la neve è bianca. Lo stesso criterio deve essere valido in morale. Comprendere la frase ‘rubare è ingiusto’ vuol dire comprendere che questa frase è vera se rubare è ingiusto e che la frase è falsa se non è vero che rubare è ingiusto. Il significato della frase, quindi, consiste nella descrizione di un dato di fatto.

La teoria del significato propugnata dai descrittivisti, ovviamente, non ha un’applicazione universale, in quanto non tutte le frasi hanno un significato determinato dalle condizioni di verità. Sono esempi di questo tipo gli imperativi. Gli imperativi come ‘non fumare!’ hanno evidentemente un significato e noi lo comprendiamo, anche se non comprendiamo le loro condizioni di verità, poiché non ce ne sono.

Hare identifica due forme di descrittivismo: la versione naturalistica e quella intuizionistica. La versione naturalistica sostiene che le condizioni di

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verità degli enunciati morali sono determinate, per definizione, da proprietà o fatti naturali. Ad esempio, il naturalista può dire che ‘giusto = contribuisce ad elevare la felicità generale’. In questo caso, si deve sostenere che comprendere il significato di ‘rispettare le libertà degli altri è giusto’ vuol dire, per definizione, comprendere che ‘rispettare la libertà degli altri è giusto’ è vero se rispettare la libertà degli altri contribuisce ad elevare la felicità generale ed è falso se non è vero che rispettare la libertà degli altri contribuisce ad elevare la felicità generale.

Il descrittivismo naturalistico può avere due forme: quella oggettivista e quella soggettivista. A entrambe le forme è comune ricondurre la determinazione del significato degli enunciati morali alle loro condizioni di verità. Tuttavia, mentre l’oggettivismo ricerca le condizioni di verità in qualcosa di esterno alla mente umana, il soggettivismo si basa sugli stati mentali. Un primo esempio di naturalismo oggettivista è stato fornito dall’esempio precedente. Un altro può essere il seguente: ‘p è giusto = c’è nel soggetto S un sentimento di approvazione per p’. Come si esprime lo stesso Hare:

Secondo la teoria descrittivista oggettivista, un enunciato morale è vero se e solo se si ha uno stato di cose diverso da uno stato della mente o da una disposizione di alcune persone; seconda la teoria descrittivista soggettivista, un enunciato morale è vero se e solo se si ha uno stato della mente o una disposizione in alcune persone.4

Dall’altra parte della classificazione descrittivista ci sono gli intuizionisti. Gli intuizionisti non accettano il naturalismo. Sulla scia soprattutto delle analisi di Hume e di Moore,5 negano che sia possibile cogliere le verità morali con definizioni che le riducano a verità naturali. Gli intuizionisti affermano che esistono verità morali con caratteristiche peculiari, distinte da quelle naturali, conoscibili con una facoltà particolare, l’intuizione morale. Tanto i naturalisti, quanto gli intuizionisti, però, concordano nel sostenere l’idea-guida della strategia descrittivista, secondo la quale la comprensione del significato di un enunciato morale si esaurisce nella comprensione delle sue condizioni di verità.

Ciò che Hare imputa ai descrittivisti è di non aver compreso che gli enunciati morali hanno lo stesso carattere degli imperativi. Il loro significato, a detta di Hare, è determinato solo parzialmente dalle loro condizioni di verità. Ciò che li rende enunciati morali è il loro carattere prescrittivo, che li accomuna agli imperativi e non consente che il loro significato sia esplicabile nei termini delle loro condizioni di verità. Non aver compreso questa fondamentale parentela logico-linguistica ha delle conseguenze molto gravi, dal punto di vista di un filosofo razionalista come Hare. Infatti, abbracciando il descrittivismo, secondo Hare, si sarebbe condannati al relativismo. Cerchiamo di comprendere come si sviluppa questa argomentazione, prima per la versione naturalistica, poi per quella intuitivistica.

1.2. Per il naturalista, le condizioni di verità sono determinate per

definizione da alcune proprietà o fatti naturali. Così, in alcune società che oggi siamo disposti a ritenere arretrate, si dirà che la virtù morale per le donne consiste nel dedicarsi esclusivamente alla procreazione. Si dirà, cioè, ‘virtù (per le donne) = attività procreativa’. È ovvio che il naturalista ha compiuto un trucco. Ha spacciato un giudizio morale (quello riguardante una virtù morale)

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come definizione linguistica di un concetto morale. Gli effetti di questa mossa dovrebbero essere duplici. Da un lato, costringe gli aderenti alla convenzione linguistica del gruppo immaginato per il nostro esempio ad accogliere anche il giudizio morale surrettiziamente inserito nella definizione del concetto di virtù, pena la caduta in una contraddizione. Nessun appartenente al gruppo, infatti, potrebbe dire che una donna è virtuosa e allo stesso tempo constatare che essa si dedica primariamente ad attività non procreative. Dall’altro lato, il naturalista ha privato il gruppo di qualsiasi possibilità argomentativa nei confronti di altri gruppi. I membri di altri gruppi, infatti, sarebbero condannati ad essere legati alle convinzioni morali implicite nelle loro convenzioni linguistiche, allo stesso modo in cui lo sono gli appartenenti al primo gruppo alle proprie. È questa un’evidente conclusione relativistica.

Come dice Hare:

I disaccordi morali vengono ridotti a disaccordi linguistici e il risultato è che noi finiamo con l’essere costretti ad adottare le opinioni morali di coloro il cui linguaggio stiamo parlando.6

Né questo è l’unico argomento utilizzabile per operare una reductio ad absurdum del descrittivismo naturalista:

Un’importante caratteristica del linguaggio ignorata dal naturalismo sta nel fatto che esso ci permette di continuare ad usare i termini morali con il loro medesimo significato per esprimere opinioni morali discordi da quelle invalse, come fanno i riformatori morali. Ciò sarebbe impossibile se i termini morali fossero connessi a proprietà fisse di azioni, ecc., in virtù del loro significato.7

L’argomentazione si basa sul fatto che anche persone con opinioni morali diverse usano le parole con significati uguali, cosa che invece non sarebbe possibile se il naturalismo fosse vero. Il naturalismo, quindi, sembra essere confutato da un fatto empirico.

Ma la versione soggettivista del descrittivismo morale contiene, inoltre, delle difficoltà specifiche. I soggettivisti potrebbero, infatti, non scomporsi più di tanto per la critica precedente, quella della soluzione relativista, in quanto loro stessi sono relativisti nel loro punto di partenza. Tuttavia, Hare individua una conseguenza altamente implausibile e verosimilmente indesiderata anche per la posizione relativista. Infatti, questa ultima posizione deve assumere che il semplice riconoscimento di uno stato mentale in un soggetto ci obbliga a condividere le sue opinioni morali. Secondo la definizione soggettivista, infatti, ‘p è giusto = c’è nel soggetto S uno stato mentale di approvazione per p’. Se accogliamo questa definizione però dobbiamo anche ammettere che poiché nel soggetto S c’è un sentimento di approvazione per p, allora p è giusto.8

Infine, secondo Hare, il soggettivismo non consente alcuna possibilità di disaccordo morale. Ciascuno definirà giusto ciò per cui prova sentimenti di approvazione; ciascuno dei suoi interlocutori dovrà convenire che egli ha ragione nel definire giusto ciò che definisce giusto (eventualmente, richiedendo il rispetto della stessa condizione per sé) e non ci sarà alcun conflitto. Riteniamo, tuttavia, che l’individuazione di questa difficoltà sia erronea. Si tratta di una critica esagerata, in quanto si può determinare almeno una possibilità di conflitto: quello pratico. Diversi soggetti possono scontrarsi non nelle loro credenze morali, ma nella loro pratica, e questo scontro, spesso, è determinato dai diversi codici morali che accolgono. Questo è un dato

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empirico e per qualsiasi teoria sarebbe un grave errore non riuscire a tenerne conto. Tuttavia, il soggettivismo, come ogni relativismo, può farlo. I relativisti, infatti, affermano che ogni insieme di credenze ha un valore epistemologico limitato. Ma ciò non implica che anche la portata pratica di una credenza morale sia limitata. Un soggetto può pensare che una credenza morale sia valida soltanto per lui, e, tuttavia, ritenere che egli debba applicarla universalmente. Se più di un soggetto farà così, sarà possibile si generi una conflittualità pratica, pur non essendoci alcun conflitto epistemologico. Non indugeremo ulteriormente sul soggettivismo naturalistico – confortati in questo dall’esempio dello stesso Hare –, in quanto è una posizione che non ha eccessiva rilevanza nel dibattito più recente.

Consideriamo, invece, più in dettaglio le implicazioni relativistiche dell’intuizionismo. L’intuizionismo afferma che le condizioni di verità di ogni enunciato morale sono determinate da ciò che ciascuno, con la sua peculiare facoltà cognitiva morale (l’intuizione morale) percepisce come dato morale rilevante. Queste percezioni, che poi non sono null’altro se non le convinzioni morali usuali, variano da società a società. In questo modo, ancora una volta, ciascuno sarà costretto entro le credenze morali del suo gruppo e, ancora una volta, si sarà affermato, con il descrittivismo, il relativismo. Per mostrare la correttezza della propria critica, Hare non si basa soltanto su esempi esotici riguardanti società diverse dalle nostre, ma constata, ad esempio, come due tra i massimi filosofi della politica contemporanei, «Rawls e Nozick giungono a conclusioni radicalmente opposte esercitando le loro rispettive facoltà morali».9

Si vede con ciò come l’intuizionismo ricade nel relativismo: gli intuizionisti non si richiamano, nel cercare supporto alla propria posizione, a nulla di obiettivo, ma soltanto ai propri pensieri e a quelli degli altri, e questi varieranno da una persona e da una società ad altre.10

I descrittivisti, secondo Hare, pensano di aver trovato un metodo di selezione tra le intuizioni facendo appello alla coerenza, che consiste nel ricercare l’insieme più ricco di credenze morali compatibili ed eliminare quelle che si scontrano con le condizioni di coerenza di questo insieme. Però, neppure questo tentativo riesce a tutelare i descrittivisti dal soggettivismo e dal relativismo.

L’‘equilibrio’ raggiunto da costoro tempera forze che possono essere state originate dal pregiudizio; e, per quanto riflettiamo, questo non potrà mai costituire una solida base per la moralità. In questa maniera sarebbe possibile difendere persino due sistemi reciprocamente incompatibili; e tutto ciò che tale difesa dimostra, è che i sostenitori dei due sistemi sono cresciuti in ambienti morali diversi.11

Il problema del relativismo, anche nelle sue forme non palesemente soggettiviste, è di basare sempre la morale su uno stato soggettivo: in modo indiretto, nel caso dell’oggettivismo naturalista, e in modo diretto nel caso dell’intuizionismo. I descrittivisti (con l’eccezione di quelli autodichiarantisi soggettivisti) vanno alla ricerca di dati obiettivi (verità analitiche, o verità morali peculiari); tuttavia, gli unici dati dei quali dispongono sono le loro opinioni sulle questioni morali (anche quando queste opinioni vengono introdotte surrettiziamente nelle definizioni linguistiche, come nel caso del naturalismo). La certezza di poter disporre di giudizi validi, e non soltanto creduti tali,

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potrebbe essere raggiunta soltanto disponendo di una valida argomentazione, a sostegno dei giudizi morali. Però, tale argomentazione non è disponibile per il descrittivismo.

1.3. Hare è convinto che questa difficoltà sia evitabile abbandonando il

descrittivismo ed optando per il prescrittivismo. Il prescrittivismo è, come abbiamo già ricordato, la dottrina che afferma che il significato degli enunciati morali va ricercato primariamente nella loro dimensione prescrittiva. Ciò significa che ogni enunciato morale intende fornire un’indicazione per un’azione e, come tale, contiene un imperativo implicito.

Il prescrittivismo non va confuso con il soggettivismo naturalista. Come abbiamo visto, il soggettivismo ritiene che il significato dei concetti morali sia determinato dagli stati soggettivi degli individui. Confondere il prescrittivismo con il soggettivismo è, in realtà, facile. Si potrebbe pensare che il prescrittivista vuol far risalire il significato di enunciati come ‘è obbligatorio pagare le tasse’ al dato di fatto che ci sia in un soggetto il desiderio che si paghino le tasse. Tuttavia, si tratta di un’interpretazione sbagliata.

Il prescrittivismo, infatti, rappresenta una dottrina non descrittivista. L’analisi dei significati degli enunciati morali compiuta dal prescrittivista non implica ricerche sugli stati soggettivi degli individui. Si limita, invece, ad analizzare quali imperativi, quali richieste di azione, siano presenti negli enunciati morali. All’enunciato, pronunciato dal soggetto S, ‘è obbligatorio p’, per il soggettivista è importante che corrisponda uno stato mentale in S di desiderio che avvenga p; per il prescrittivista è importante che sia stato emesso il comando di eseguire p.

È evidente come il prescrittivismo blocchi ogni possibilità di fondare una posizione realista. Sebbene il prescrittivismo non neghi esplicitamente l’esistenza di una realtà morale, tuttavia pretende di risolvere il problema rendendolo inutile, affermando che l’esistenza di un’eventuale realtà morale semplicemente non è oggetto di discussione: l’ontologia morale diviene un tema privo di interesse per la metaetica prescrittivista.12 Essendo la realtà morale esterna al discorso morale, diviene impossibile una sua fondazione.

Per Hare, tuttavia, tutto ciò non compromette la possibilità di fondare una prospettiva morale razionalista. Hare, infatti, ritiene che la convinzione che soltanto il realismo morale ammetta una prospettiva razionale sia un pregiudizio e lo crede per due motivi. Primo, in quanto è convinto di aver mostrato che proprio il descrittivismo è condannato al relativismo. Secondo, poiché a questa condanna non andrebbe soggetto, invece, il non-descrittivismo, in particolare nella versione offerta dal prescrittivismo. Il problema cruciale, per una prospettiva razionalista, infatti, non è quello di scoprire se ci sia un realtà morale, bensì quello di identificare quali sono i giudizi morali validi. Il problema ontologico viene rimpiazzato da quello epistemologico.13

Per mostrare che l’intervento della ragione è possibile anche quando non abbiamo a che fare con enunciati descrittivi, il filosofo inglese si serve dell’esempio semplice di desideri e scelte. Vediamo, sulla scia di quanto fa Hare, che cosa succede con la risposta all’enunciato ‘Posso offrirti una tazza di the?’, ad esempio: ‘Sì, dammi una tazza di the.’14 Anche in questi semplici

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esempi è possibile trovare degli elementi di razionalità o irrazionalità. Come prima cosa, ci si può chiedere se la persona che risponde alla domanda comprenda l’esatto significato delle parole pronunciate da chi gli rivolge la domanda. Come seconda cosa, chi fornisce la risposta (se vuole essere razionale) deve chiedersi che cosa potrebbe accadere al variare delle risposte possibili. Infine, colui che risponde deve sapere quali sono le sue preferenze e assumerle a parametro di giudizio per i corsi di eventi possibili che dipendono dalle diverse risposte.

Si può constatare, quindi, che anche nei casi di espressione di desideri o scelte semplici c’è spazio per la razionalità, tanto nel versante logico (costituito, nel nostro esempio, soprattutto dalla comprensione del significato e delle proprietà logiche delle parole), quanto in quello della conoscenza dei fatti. Entrambi questi elementi svolgeranno un ruolo fondamentale nella discussione razionale in ambito morale:

Dobbiamo comprendere che cosa vogliamo dire con espressioni come ‘Io devo’. Comprendere il significato di una parola come questa vuol dire comprendere le sue proprietà logiche, o, in altri termini, che cosa essa implica, oppure in che cosa ci impegniamo quando la pronunciamo. Questo è ciò che l’argomentazione morale essenzialmente è.15

In particolare, potremo osservare che c’è una proprietà del linguaggio morale che è associata a quella della prescrittività ed è di assoluta rilevanza, secondo Hare, nella risoluzione di tutti i conflitti morali e, quindi, nei tentativi di evitare il relativismo. La prescrittività è, infatti, una caratteristica comune a tutti i tipi di imperativi, mentre, per converso, non tutti i tipi di imperativi sono esempi di enunciati morali. La caratteristica che differenzia gli enunciati morali dagli altri imperativi è la loro universalità. Gli enunciati morali, quindi, oltre a essere prescrittivi, sono pure universali. C’è un’ulteriore caratteristica che hanno gli enunciati morali ed è la loro dominanza; tuttavia, non ci soffermeremo su questa ultima, poiché la caratteristica, dai più ritenuta la più importante ai fini dell’argomentazione morale razionale, è l’universalità.

Dicendo che ogni enunciato morale (ogni prescrizione morale) è universale, si intende sostenere che va applicato in modo identico a tutte le situazioni che sono simili in modo rilevante. Non è consentito, cioè, esprimere un enunciato morale in una situazione ed esprimere un enunciato morale contrastante in una situazione simile in modo rilevante. Ad esempio, se io dico che il ladro che mi ha rubato il portafoglio deve essere arrestato, non potrei affermare una cosa diversa se, in un’altra situazione, mi trovassi nelle condizioni del ladro.

Hare specifica tre caratteristiche dell’universalità che dovrebbero consentire di evitare confusioni che, invece, si sono presentate sovente in campo metaetico. Innanzitutto, quando si parla di ‘situazioni simili’, Hare richiede che si prendano in considerazione anche i desideri e le motivazioni degli individui, come dati rilevanti per esprimere un giudizio. Una situazione nella quale un tale maltratta una persona che soffre e desidera non soffrire non può essere giudicata simile ad una situazione nella quale egli maltratta un masochista.

La seconda specificazione riguarda la distinzione tra generalità e universalità. I due concetti non vanno confusi. I principi possono essere ritenuti

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universali a pari titolo di merito, anche se si trovano a livelli diversi di specificazione. Per fare un esempio, il principio ‘Non mentire in nessuna situazione’ è più generale del principio ‘Non mentire, tranne nelle situazioni nelle quali arrechi danno ad altre persone non mentendo’ e questo, a sua volta, è più generale del principio ‘Non mentire tranne nelle situazioni quando arrechi un danno irreparabile ad altre persone non mentendo’. Tutti e tre gli enunciati, però, sono considerati universali a pari titolo di merito.

Passiamo ora alla terza specificazione. Anche le relazioni, come quella di ‘madre di’ possono essere universali. Questa specificazione permette di attribuire particolari diritti e doveri a persone, senza infrangere il principio di universalità. Così, se si dice ‘Ogni genitore ha il dovere di occuparsi del destino dei propri figli’, non si lede il principio di universalità in situazioni maggiormente determinate.

Il principio di universalità e quello di prescrittività costituiscono gli aspetti logici del discorso morale. Hare ritiene che mediante questi, in unione con la conoscenza dei fatti empirici rilevanti e assieme a un altro principio che esamineremo fra poco, si possa sviluppare un’argomentazione morale in grado di tutelarci dal relativismo. Per comprendere meglio le ambizioni di Hare, presenteremo un esempio di argomento morale. È possibile trovarne in quasi ogni scritto di Hare, ma noi ne costruiremo uno che rispetti la formulazione più recente del suo modello argomentativo.

L’individuo A è stato scoperto dalla polizia a rubare delle mele al mercato. Si deve giudicare se condannarlo, oppure no. Non c’è uniformità di preferenze. Il giudice vorrebbe condannarlo, vista la sua preferenza per un’effettiva tutela del diritto di proprietà. Il commerciante derubato vuole vederlo condannato, per riparare al danno che ha subito. Il ladro, ovviamente, non vuole essere condannato, in quanto la sua preferenza è quella di non finire in prigione. Come si risolverà il conflitto di preferenze? Contrariamente a quello che comunemente si sarebbe indotti a pensare, per Hare, nessuno può appellarsi ad un principio di giustizia preconfezionato. Ognuno deve rimandare all’esito del ragionamento morale, che sarà stabilito dai principi che abbiamo elencato. Ciascuno potrà sviluppare questo ragionamento da solo tenendo, però, presenti le preferenze degli altri, ritenute equivalenti a fatti rilevanti. In particolare, è importante ricordare che ciascuno deve formulare un principio universale che guidi la sua argomentazione,16 e ciascuno deve essere pronto ad accettare il principio in ogni situazione simile in modo rilevante. Le variazioni dei ruoli degli individui non sono ritenute pertinenti; le situazioni, cioè, saranno ritenute simili, anche se i diversi soggetti dovessero ricoprire ruoli diversi. Se, cioè, in un’altra situazione, il rapinato divenisse giudice, il ladro divenisse rapinato ed il giudice ladro, non ci sarebbero differenze rilevanti tra questa situazione e quella precedentemente descritta. Come si fa, quindi, a verificare la disponibilità alla formulazione di un principio universale? Lo si fa immaginando se stesso in ciascuna delle situazioni possibili. Il giudice deve immaginare se stesso nel ruolo del rapinato e nel ruolo del ladro. Gli altri due devono effettuare lo stesso esperimento mentale. È necessario specificare che immaginare se stesso nei ruoli degli altri, secondo la formulazione esplicita dei testi più recenti di Hare, vuol dire immaginarsi nei ruoli degli altri con le motivazioni e le preferenze degli altri e non con le proprie. Ritornando al nostro

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esempio, possiamo dire che il giudice deve identificarsi nella situazione dell’imputato, con le motivazioni e le preferenze dell’imputato, immaginando, cioè, di trovarsi di fronte ad un tribunale, senza più credere nella sacralità della proprietà e non volendo finire in prigione.

Hare ritiene che segua immediatamente che non sia possibile immaginare compiutamente di avere una preferenza ipotetica in una situazione ipotetica, senza acquisire una preferenza attuale per la situazione ipotetica. Il nostro giudice, cioè, se dice: ‘Immagino me stesso in una situazione ipotetica di fronte ad un tribunale, rischiando di essere condannato, con la preferenza di non venire condannato’, dovrà anche dire: ‘ora ho la preferenza di non venire condannato, se mi trovassi nella situazione del ladro’. Si tratta, secondo Hare, di ammettere una semplice verità concettuale. Quest’ultimo principio – chiamato da un interprete di Hare principio di riflessione condizionale –17 fa acquisire al ragionamento morale un elemento decisivo.

Il processo di identificazione richiesto dal modello argomentativo di Hare trasforma per ciascuno le preferenze degli altri in preferenze proprie attuali (seppure, riferentesi a situazioni della propria vita soltanto ipotetiche). Si risolverà, allora, il conflitto di preferenze tra soggetti diversi così come si risolvono tutti i conflitti di preferenze che si hanno nel corso della vita: si tenterà di massimizzare la soddisfazione di preferenze. Quando constato che sono seccato dall’andare dal dentista e che sono turbato dal dolore (crescente nel corso del tempo) provocato dalla carie, effettuo una comparazione tra la preferenza di non andare dal dentista adesso e la preferenza riferentesi alla situazione futura, di non soffrire dolori maggiori provocati dai problemi ai denti. La scelta razionale, probabilmente, consisterà nell’andare dal dentista.

Hare è convinto che questo modello di ragionamento sia di norma vincolante per tutti e che, quindi, consenta di risolvere ogni conflitto etico. Il segreto della vittoria contro il relativismo e l’irrazionalismo risiede, cioè, nella capacità di prescindere dalle diverse opinioni morali in conflitto (cosa impossibile, invece, per i descrittivisti, in entrambe le forme individuate da Hare) e nel fare invece riferimento principalmente alle proprietà logiche dei concetti morali e alla conoscenza dei fatti non morali. Il monito si rivolge in modo chiaro agli intuizionisti, che fanno dell’appello alle intuizioni il fondamento della morale, ma anche ai naturalisti, che, secondo Hare, fanno bene a tentare di fondare la morale per mezzo dell’analisi del linguaggio, ma sbagliano nel soffermarsi sugli aspetti materiali semantici nei quali, come abbiamo visto, sono state introdotte surrettiziamente opinioni morali, invece di basarsi esclusivamente sull’analisi delle proprietà logiche dei concetti morali.

1.4. Cercheremo di esporre le difficoltà dell’idea principale di Hare,

ossia la sua convinzione secondo la quale si potrebbe fondare la morale, riuscendo a evitare il relativismo, in base alla sola analisi degli aspetti formali del linguaggio morale, unita alla conoscenza di alcuni fatti morali rilevanti (dove la rilevanza segue i criteri sopra esposti).

Prima si cercherà di indicare come l’accusa di soggettivismo rivolta da Hare a chi fonda la conoscenza morale sulle credenze morali è esagerata in almeno una delle sue formulazioni, anche se, senza un’adeguata argomentazione, l’esito è effettivamente quello indicato dal filosofo inglese.

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Si passerà poi all’aspetto centrale della discussione, cercando di mostrare che la strategia di Hare di fondare l’argomentazione morale sui soli aspetti formali non morali del linguaggio morale non riesce a tutelarsi dalla deriva relativistica, dal momento che non fornisce alcuna motivazione per preferire un tipo di linguaggio morale come quello prescrittivo-universalistico raccomandato da Hare piuttosto che un altro o, addirittura, per accettare un qualsiasi linguaggio morale.

Hare ritiene che con l’appello alle intuizioni noi non ci riferiamo a qualcosa di obiettivo, bensì al pensiero di chi esprime le proprie intuizioni morali. Per Hare in circostanze siffatte noi ci serviamo soltanto di credenze immediate, non sostenute da argomentazioni, mentre il traguardo dell’obiettività si può raggiungere soltanto se le credenze possono essere sostenute in maniera argomentativamente adeguata. Riteniamo che la critica di Hare sia e affrettata e esagerata. Osservazioni analoghe, infatti, potrebbero essere rivolte anche alle nostre credenze empiriche, dove pure dobbiamo fare riferimento alle nostre convinzioni immediate in maniera simile a ciò che accade nel caso delle credenze morali. Quando dico che c’è un tavolo di fronte a me, lo dico in quanto ho una corrispondente credenza immediata, non in base a un’argomentazione. Tengo fede alla mia convinzione, in quanto ritengo che essa sia in grado di mettermi in contatto con una realtà obiettiva. La stessa speranza lega gli intuizionisti alle loro credenze morali. Ovviamente, la speranza sembra essere più fondata nel caso delle conoscenze empiriche piuttosto che in quello delle credenze morali, ma soltanto perché c’è un maggior consenso nel primo caso piuttosto che nel secondo, non perché nel primo caso ci sia un sostegno argomentativo che, invece, manca nel secondo. Infatti, soltanto in un periodo relativamente recente sono stati ottenuti dei risultati soddisfacenti nello studio epistemologico della percezione,18 mentre neppure Hare sarebbe disposto a dire che chiunque avesse fede nelle conoscenze empiriche, ad esempio due secoli fa, peccasse di soggettivismo. Nemmeno oggi, del resto, si può dire che lo studio epistemologico della percezione abbia raggiunto risultati conclusivi. Comunque sia, la giustificazione di qualsiasi credenza empirica non si può ottenere diversamente che mediante l’appello ad altre credenze empiriche. Se si applicasse con coerenza il criterio di Hare, che afferma che sono credenze soggettive tutte le credenze immediate non sostenute da argomenti, si dovrebbero ritenere soggettive tutte le credenze tranne quelle logiche e matematiche.

Per questi motivi, si può ritenere esagerata l’accusa di soggettivismo. Tuttavia, tale accusa può fare nuovamente la sua comparsa in maniera più soddisfacente, se si riesce a rintracciare un consenso non soddisfacente nel campo della morale. Ci sono, in effetti, parecchie credenze morali a proposito delle quali esistono opinioni discordanti. In mancanza di un modo di determinare quali siano vere e quali false, rimarremmo effettivamente condannati all’arbitrio individuale e quindi al soggettivismo. Hare perciò avrebbe ragione nel richiedere, per evitare il soggettivismo, una strategia argomentativa che superi il solo appello alle intuizioni morali.

Vedremo ora se la sua intenzione di fondare l’argomentazione morale sugli aspetti logici del linguaggio morale possa essere perseguita con successo. Si argomenterà che Hare, in realtà, impiega anche delle intuizioni morali per far

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funzionare il principio dell’universalizzabilità e, quindi, la sua ambizione di fondare la morale sulla sola analisi linguistica è fallace. In alternativa, Hare potrebbe evitare l’appello alle intuizioni morali facendo riferimento a considerazioni prudenziali e di convenienza; anche questa strategia, come si tenterà di mostrare, è tuttavia incompatibile con gli assunti della sua teoria.

Nella linea argomentativa che presento, seguirò parzialmente l’esposizione di John Mackie.19 L’idea basilare di tale critica è che la logica dei termini morali non impone affatto quel concetto di universalità che ha un ruolo fondamentale nel modello di argomentazione proposto da Hare.

Mackie ha distinto tre diversi livelli di universalizzazione del discorso morale, ritenendo che non sia un fatto di pura logica dover orientarsi verso il raggiungimento di tutti e tre i livelli. Il primo livello di universalizzazione impone di astrarre dalle semplici differenze numeriche tra i soggetti. Il fatto che io sia un soggetto diverso da ciascuno dei lettori di queste pagine non mi consente di formulare un principio morale diverso per me da quelli che formulo per i miei lettori. Non posso dire ‘p è un mio diritto, ma non un diritto di S’ e giustificare l’affermazione con il semplice fatto che S ed io siamo due persone diverse. Il secondo livello di universalizzazione impone di trascurare, nella formulazione dei principi morali, la diversità dei ruoli occupati dai diversi soggetti. Questo principio ci obbliga a legiferare non soltanto prendendo in considerazione la situazione attuale, ma anche tutte le possibili variazioni. Se si volesse formulare il principio ‘Tutti sono obbligati a leggere gli articoli su Hare’, si potrebbe farlo soltanto dopo essersi immaginati anche in ruoli diversi da quello di uno che sta scrivendo un articolo su Hare. Alla fine, si può accogliere il principio soltanto se si è disposti a farlo anche in situazioni diverse da quelle in cui siamo situati adesso. Il terzo livello di universalizzazione impone di dare uguale peso e considerazione ai sistemi di valori di tutti i soggetti. Questo livello impone un‘ulteriore condizione rispetto al livello precedente. Non soltanto bisogna immaginarsi in tutte le possibili situazioni incluse dal principio, ma bisogna farlo anche immaginando di accogliere il sistema di valori delle persone attualmente incluse nelle diverse situazioni. L’accoglimento di questo terzo livello è, secondo Mackie, indispensabile per la metaetica di Hare.

L’idea di Mackie, ripresa anche da altri autori,20 è che il concetto di universalizzabilità proposto da Hare è impregnato di credenze morali sostanziali e non è soltanto una proprietà formale del linguaggio. Da un lato, si potrebbe dire che l’estensione dell’universalizzabilità proposta da Hare ed il rispettivo modello di ragionamento, rispettando il principio di neutralità (tutti i sistemi di valori hanno uguale dignità), rispecchiano quello che è il modo liberale di affrontare il problema morale. La prospettiva liberale sarebbe contrapposta a un modo diverso di fondare la morale, precisamente quello che si basa su valori o sistemi di valori ritenuti assoluti e che si accontenta di un diverso livello di universalità. In questo ultimo caso, il concetto di universalità si spingerà fino al livello di progressione identificabile con il secondo livello di Mackie, quello che impone al soggetto di accogliere il valore (se lo accoglie), anche se presenta delle possibili conseguenze svantaggiose pure per lui. Dall’altro lato, un discorso analogo può essere fatto a proposito del rapporto tra sistemi morali deontologici e sistemi morali conseguenzialisti, nel senso che

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l’estensione del concetto di universalizzabilità ingloberebbe una morale conseguenzialista, mentre le morali deontologiche imporrebbero un arresto al secondo livello.

Come abbiamo visto, Hare pone a fondamento della sua argomentazione due caratteristiche del discorso morale, la prescrittività e l’universalizzabilità, ed un ulteriore principio logico, il principio di riflessione condizionale. Come si potrebbe tentare di usare, ragionando in base al modello di Hare, ciascuno di questi strumenti per rispondere alle critiche di Mackie?

Incominciamo con il principio di riflessione condizionale. Invocandolo, si potrebbe dire che non è vero che se non tutta l’argomentazione si basa sull’uso dell’universalizzabilità, allora è richiesto l’appello alle intuizioni morali. L’introduzione del principio di riflessione condizionale non deriva dall’appello ad alcuna intuizione morale, bensì dall’esigenza di conoscere alcuni fatti rilevanti. Questo è molto importante, perché proprio questo principio guida la parte finale dell’argomentazione nella quale si richiede a ciascun soggetto di assumere un atteggiamento di neutralità tra le proprie preferenze attuali e quelle degli altri soggetti, rendendo equivalenti le seconde alle prime.

Un’altra linea argomentativa consiste nell’affermare che l’universalizzabilità è un unico processo logico, non diviso nei livelli esposti da Mackie.

Vorrei sottolineare che, parlando rigorosamente, non esistono diverse fasi di universalizzazione, contrariamente a quanto afferma Mackie. Io sostengo che i giudizi morali sono universalizzabili soltanto in un senso, in quanto implicano giudizi identici in tutti i casi identici nelle loro proprietà universali.21

Hare è pronto ad ammettere soltanto che esiste una progressione nell’esposizione dell’universalizzabilità.

Esiste peraltro, come Mackie ben comprende, una progressione nell’uso che facciamo di questa singola proprietà logica man mano che sviluppiamo la nostra teoria del ragionamento morale.22

Con questa affermazione, Hare desidera porre i suoi critici di fronte ad una situazione radicalizzata: accettare l’universalizzabilità dei concetti morali, con tutte le implicazioni che egli desidera, oppure rifiutarla completamente come aspetto logico dei concetti morali. Di fatto, una gran parte dei critici di Hare non intende rinunciare all’universalizzabilità e perciò tale linea di difesa ha una sua notevole efficacia.

Un terzo argomento è stato esposto da Peter Singer23 e accolto da Hare. È un argomento che si appella ai vantaggi che ai prescrittivisti derivano dal fatto di considerare non soltanto l’aspetto universale dei concetti morali, ma anche quello prescrittivo (considerato in opposizione a quello descrittivo). Il problema dell’interpretazione dell’universalizzabilità, infatti, riguarderebbe soltanto i descrittivisti e non i prescrittivisti. Poiché questi pensano che le loro convinzioni morali abbiano valore obiettivo, i descrittivisti si richiamano all’universalità soltanto come a un mezzo che serve per non permettere deviazioni dalle loro convinzioni morali: il rispetto di uguali diritti per ciascuno, indipendentemente dal suo sistema di valori (nel caso del liberale descrittivista), o il rispetto del particolare sistema di valori (nel caso di chi non è liberale, ma rimane descrittivista). Il prescrittivista, invece, non pensa che le opinioni morali

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possano avere alcuna legittimità di per sé. Si tratta soltanto di preferenze, come tante altre. Per conservare una superiorità su altre preferenze devono essere sottoposte al processo argomentativo che si basa sul principio dell’universalizzabilità. Sono, infatti, le convinzioni morali che ricevono autorità dall’universalizzabilità e non è vero che la seconda viene stabilita dalle prime. Non è vero, cioè, per il prescrittivista che il livello di universalizzabilità che viene adottato dipende dalle convinzioni morali, bensì è vero il contrario.

Se si accoglie questo terzo argomento, Hare riesce ad evitare l’obiezione che gli è stata rivolta. Se il prescrittivismo è vero, egli può impiegare il concetto di universalizzabilità così come fa, anche senza basarsi su intuizioni morali. Finisce, però, con l’andare incontro a un’altra difficoltà che sembra fatale per la sua ambizione di fondare la morale sulla sola analisi linguistica e che si esporrà alla fine del capitolo, dopo aver commentato più dettagliatamente la difesa del progetto di Hare.

1.5. Inizieremo esaminando l’argomento che fa uso del principio di

riflessione condizionale. Innanzitutto, c’è da dire che il principio è opinabile. Il principio può valere per le situazioni nelle quali il soggetto ha attualmente una posizione almeno indifferente verso le proprie preferenze ipotetiche. Dopo essersi immaginato nella situazione ipotetica, un soggetto potrà dire: ‘Desidero ora che, qualora mi trovassi nella situazione S con la preferenza P, la mia preferenza venga rispettata’.

Immaginiamo il seguente esempio. Un giocatore di calcio veramente appassionato della propria attività, la sera prima della finale della Coppa dei Campioni, desidera con la massima intensità di vincere la finale e subordina ogni altra attività alla finale del giorno dopo (va a letto presto, mangia cibi leggeri per cena, beve soltanto acqua minerale non gasata, ecc.). Lo stesso calciatore, oltre a desiderare sopra ogni cosa la Coppa dei Campioni, prova anche una forte attrazione per Sharon Stone e quindi riesce a immaginare se stesso con una diversa gerarchia delle preferenze; perciò può dire: ‘Mi immagino nella situazione s, quando desidererei al di sopra di ogni altra cosa, di passare una notte con Sharon Stone’, e applicare il principio di riflessione condizionale, concludendo: ‘Desidero, ora, con la massima intensità che, se mi trovassi nella situazione s, mi accada di passare la notte con Sharon Stone’.

Per rendere ancora più chiaro l’esempio, introduciamo alcuni elementi fiabeschi. Immaginiamo che davanti al nostro calciatore in attesa della sua finale compaia il Genio di Aladino, appena uscito dalla lampada e gli dica le seguenti cose: «Ti capiterà di vivere una vita alternativa. Vivrai una serata esattamente equivalente a questa, con un’unica differenza. Al posto di desiderare massimamente di vincere la Coppa, desidererai massimamente di passare la notte con Sharon Stone. Io potrò soddisfare il tuo desiderio, però soltanto se mi dici già adesso di farlo. Che cosa rispondi?». A questo punto, il principio di riflessione condizionale sembra confermato, perché sembra opportuno attendersi che il calciatore, comprendendo pienamente in quale stato d’animo si troverà nella situazione descritta dal Genio, dopo aver avuto piena garanzia che nella notte alternativa desidererà veramente più di ogni altra cosa di essere con Sharon Stone, effettivamente gli richieda ora di soddisfare nel mondo alternativo il suo desiderio alternativo.

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Tuttavia, immaginiamo ora un soggetto che abbia una forte avversione verso le preferenze che immagina di avere in una determinata situazione ipotetica. Immaginiamo un pacifista radicale. Egli condanna la guerra ovunque e sempre. Immaginiamo, ancora, che egli si identifichi con una situazione ipotetica nella quale acquista la preferenza di organizzare guerre continue dopo essere divenuto un capo di Stato. Secondo Hare, bisognerebbe sostenere che egli è cogentemente obbligato a dire: ‘Desidero ora che, se divenissi un capo di stato con la preferenza di guidare il mio paese a guerre continue, il mio desiderio sia soddisfatto’. È probabile, invece, che egli possa attualmente disprezzare se stesso nella situazione ipotetica e augurarsi, in riferimento a quella situazione, tutto il male possibile.

Immaginiamo un altro esempio riferentesi ad una situazione davvero ipotetica, ma tale da indicare con forse maggiore energia quanto stiamo tentando di dimostrare. Pensiamo a situazioni di mutazioni genetiche mostruose, simili a quelle viste nei film, o lette nei romanzi, come le storie dei lupi mannari, del dottor Jeckyll e Mr. Hyde, o del film Il bacio della pantera. Ognuno dei soggetti descritti sa che, avvenuta la mutazione, avrà delle preferenze diverse dalle attuali. Il personaggio interpretato da Nastassja Kinski ne Il bacio della pantera sa che, trasformatasi in pantera, desidererà con la massima intensità di sbranare un soggetto umano per recuperare la forma umana. Nastassja sa benissimo in che cosa consisterà il suo stato d’animo, in quanto ha già subito delle mutazioni analoghe e, quindi, conosce la faccenda empiricamente. Tuttavia, è ben lontana nella situazione attuale dal desiderare che, quando si troverà nella forma di pantera, siano soddisfatti i suoi desideri. Al contrario, nella situazione attuale desidera che i suoi desideri futuri non siano soddisfatti. In una scena del film si è fatta legare, per essere nell’impossibilità di agire (e quindi di soddisfare i propri desideri) una volta trasformata in pantera. Non sembra che alcuna contraddizione sia identificabile nel comportamento della bella Nastassja, il che dovrebbe indicare che il principio di riflessione condizionale non indica una verità concettuale.

Per ipotesi, comunque, immaginiamo che il principio sia valido e che possa essere applicato in vista della conoscenza dei fatti. Il problema è, però, che al variare delle diverse credenze morali fondamentali varierà anche la rilevanza dei fatti da considerare. Da una prospettiva deontologica, ad esempio, le conseguenze che i diversi soggetti subiscono dall’applicazione di una norma morale potranno essere considerate irrilevanti. In questo modo, essendo irrilevanti i fatti la cui indagine introduce il principio di riflessione condizionale, viene a mancare anche l’applicazione del principio stesso. Essendo l’impiego del principio condizionato dalla rilevanza dei fatti inclusi nell’argomentazione morale, rimane da vedere se questa inclusione dipenda dall’adesione a particolari intuizioni morali. Tentiamo di comprendere se l’analisi del concetto di universalizzazione ci fornisce una qualche risposta.

È da ritenere innanzi tutto valida l’idea di Hare per cui l’universalizzabilità è un unico processo logico. Si tratta del principio per cui se qualcosa appartiene ad un’altra cosa in virtù di una caratteristica della seconda cosa, essa apparterrà a tutto ciò che possiede questa caratteristica. Con espressione più formale: Se P appartiene a R in virtù di S, essa apparterrà a tutti gli R1, R2,…, Rn che possiedono S.

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Secondo Hare, l’universalizzabilità rappresenta un test, simile al test del metodo ipotetico-deduttivo proposto da Popper.24 In questo test, la classe dei soggetti rilevanti è quella degli esseri umani. Un principio morale è valido se è accettabile da qualsiasi essere umano. Così, verifico il principio ‘Non mangiare la carne al venerdì’ verificando se esso sia accettabile per tutti gli esseri umani. Poniamo che non lo sia. In questo caso, l’enunciato morale sarà falsificato.

Al contrario di quanto sostiene Hare, c’è chi parte dall’idea che l’universalizzabilità non sia un criterio di verifica, bensì un metodo di applicazione. Poniamo che l’enunciato morale ‘Non mangiare la carne al venerdì’ sia valido per Paolo, poiché egli è un figlio di Dio dotato di ragione. In questo caso, si passerà all’affermazione che l’enunciato è applicabile a tutti gli esseri ragionevoli figli di Dio.

A questo punto, appare evidente che la questione fondamentale non è se l’universalizzabilità sia un unico processo logico o sia, piuttosto, suddivisibile in più livelli. La questione è se vi siano enunciati morali confermati indipendentemente, oppure se essi siano soltanto ipotesi che devono essere verificate dall’universalizzabilità. Il momento cruciale della discussione è allora la terza replica alle critiche che abbiamo visto, secondo la quale i giudizi morali non sono giustificati indipendentemente, in quanto non sono né veri né falsi. Si tratta soltanto di preferenze tra le altre e la loro accettabilità deve essere verificata con il criterio dell’universalizzabilità. Non ci si addentrerà nella discussione se il prescrittivismo rappresenti un’analisi adeguata dell’argomentazione morale. Si tenterà di mostrare, invece, che, ponendo l’accento su queste caratteristiche, Hare non riesce a giustificare una morale razionalistica.

Rimangono più che mai aperti i quesiti: ‘Per quale motivo intraprendere il gioco linguistico morale?’, ‘Per quale motivo non inventare un nuovo linguaggio morale, che ci guidi a ragionare in modo diverso?’. Hare è del tutto cosciente del problema e conseguentemente, afferma che l’abbandono del gioco linguistico ordinario, seppure legittimo, non può essere arbitrario, bensì motivato.

Non posso vietare ai filosofi, né a nessun altro, di partire da domande diverse da quelle che vengono espresse per mezzo dei termini morali usati nel loro senso attuale. Le nuove domande possono essere importanti e feconde. Ma se mi proponessero non solo di pormi le nuove domande assieme alle vecchie, ma anche di cessare completamente di pormi queste ultime, esigerei che mi persuadessero non soltanto dell’importanza delle nuove domande, ma anche dell’irrilevanza delle vecchie. E sarebbe arduo convincermi di ciò, senza presentarmi un’indagine sulle vecchie domande che sia perlomeno estesa come quella affrontata in questo libro e nelle altre mie opere, ma conduca a conclusioni diverse dalle mie.25

Tuttavia, questa linea di difesa di Hare non ha buone prospettive. Hare, nella citazione che abbiamo visto, ammette che il carico della prima prova spetta a lui e, quindi, legittimamente richiede che, dopo, il suo rivale fornisca una prova almeno altrettanto plausibile. Tuttavia, Hare, vuole rimanere al livello dell’analisi linguistica e ciò non gli permette di fornire alcuna prova dell’importanza del linguaggio morale che raccomanda. Certamente, è riuscito a mostrare che il linguaggio morale ordinario è abbastanza ricco di proprietà e conseguenze logiche, tanto ricco da permettere lo sviluppo di interessanti

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argomentazioni morali. Nonostante ciò, ci si potrebbe ancora chiedere se queste argomentazioni siano veramente qualcosa di più di un tedio inutile o un interessante passatempo. È questa la domanda che pone l’amoralista, un atteggiamento anche da Hare ritenuto una fondata possibilità logica.26 Non si potrebbe pensare che, se proprio c’è bisogno di una morale, si potrebbe idearne una basata su regole diverse da quelle identificate da Hare?

Per rispondere a questa domanda, Hare deve aggiungere alle analisi linguistiche anche delle analisi empiriche e lo fa nel capitolo undicesimo de Il pensiero morale. In questo capitolo, Hare spiega per quale motivo una morale supportata dal linguaggio morale sia più valida di soluzioni alternative o dell’amoralismo. E la ragione principale viene rintracciata in una connessione tra moralità e prudenza. Hare afferma che un sistema morale del tipo di quello che egli propone è in grado di offrire una vita migliore di quella offerta dall’assenza di moralità o da sistemi morali alternativi. Con le sue parole:

Non è un caso che il mondo e la società siano strutturati in modo tale che generalmente il crimine non renda. Sono stati gli uomini a crearli così, perché non vogliono che il crimine renda; torna maggiormente all’interesse generale che

i criminali debbano rendere conto dei loro delitti. … Il genere umano ha scoperto che si può rendere la vita molto più tollerabile se si ritiene che, nel complesso, la moralità renda.27

Questa strategia di giustificazione è promettente, seppure Hare non faccia altro che presentarne un accenno. Se c’è una possibilità di fondare la morale questa dipenderà dal mostrare la sua utilità. Con ciò, però, si mette in secondo piano il programma originario di Hare: il ruolo fondativo dell’analisi linguistica. Hare, nello spiegare il suo progetto, ha più volte indicato che l’analisi linguistica avrebbe dovuto chiarire i problemi di fronte ai quali si trova il pensiero morale e rintracciare gli adeguati strumenti argomentativi per risolverli. È finito con il risultare, invece, che, se non vogliamo far sembrare la morale un semplice pregiudizio, i problemi devono essere determinati ad un livello precedente, quello di un’analisi empirica dell’importanza della morale. Questo ripiegamento ha almeno una conseguenza importante. Se l’importanza ed il ruolo della morale sono stabiliti al livello di un’analisi empirica antropologica, sociologica, ecc., non si vede per quale motivo l’argomentazione non possa procedere direttamente da questa individuazione alla soluzione dei problemi morali, senza passare, come vuole Hare, attraverso l’indagine linguistica. In tale modo, si ripropone un ritorno alla vecchia metodologia contrattualista o convenzionalista. Questa potrà servirsi di tutte le determinazioni dell’argomentazione morale che sono necessarie ai bisogni collettivi e individuali identificati dall’indagine empirica. La fondazione ultima della morale sembra essere proprio una fondazione a posteriori, una delle cose che Hare assolutamente non voleva.

Vedremo in un capitolo successivo che aver imboccato questa strada conduce Hare direttamente dal prescrittivismo al descrittivismo. Prima tuttavia sarà opportuno esaminare un’altra batteria di critiche rivolte al realismo morale.

1 R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Roma, Ubaldini, 1968. (The Languages of Morals,

Oxford, Oxford University Press, 1952.); R.M., Hare, Libertà e ragione, Milano, Il Saggiatore, 1971. (Freedom and Reason, Oxford, Oxford University Press, 1963).

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2 Per le discussioni sull’evoluzione del pensiero di Hare, vedi E. Lecaldano,

Introduzione all’edizione italiana, in R.M., Hare, Il pensiero morale, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 9-20. (Moral Thinking, Oxford, Oxford University Press, 1981.); W.D. Hudson, The Development of Hare’s Moral Philosophy, in D. Seanor e N. Fotion (a cura di), Hare and Critics, Oxford, Oxford University Press, 1989.

3 R.M. Hare, Universal Prescriptivism, in P. Singer (a cura di), A Companion to Ethics, Oxford, Blackwell, 19932, p. 452.

4 R.M. Hare, Some Confusions about Subjectivism, in J. Bricke (a cura di), Freedom and Morality, Lawrence, University Press of Kansas, 1976, ora in R.M. Hare, Essays in Ethical Theory, Oxford, Oxford University Press, 1989, p. 19.

5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bari, Laterza, 1992. (A Treatise on Human Nature, Oxford, Oxford University Press, 1978); G.E. Moore, Principia Ethica, cit.

6 R.M. Hare, Come decidere razionalmente le questioni morali, in L. Gianformaggio e E. Lecaldano (a cura di), Etica e diritto, Bari, Laterza, 1986, p. 50.

7 R.M. Hare, Il pensiero morale, cit., p. 105; per un’esposizione più ampia delle difficoltà derivanti da questo problema, vedi R.M. Hare, A Reductio ad Absurdum of Descriptivism, in S. Shanker (a cura di), Philosophy in Britain, London, Croom Helm, 1986, ora in R.M. Hare, Essays in Ethical Theory, cit.

8 R.M. Hare, Essays in Ethical Theory, cit., pp. 20-24. 9 R.M. Hare, Come decidere razionalmente le questioni morali, cit., p. 47. 10 R.M. Hare, Universal Prescriptivism, cit., p. 454. 11 R.M. Hare, Il pensiero morale, cit., p. 43. 12 R.M., Hare, Ontology in Ethics, in T. Honderich (a cura di), Morality and Objectivity,

London, Routledge, 1985, ora in R.M. Hare, Essays in Ethical Theory, cit. 13 Ibidem. 14 R.M. Hare, What Makes Choices Rational?, “Review of Metaphysics”, 1979, ora in

R.M., Hare, Essays in Ethical Theory, cit., p. 36. 15 R.M. Hare, The Structure of Ethics and Morals, in R.M. Hare, Essays in Ethical Theory,

cit., p. 175. 16 È sull’accentuazione di questa caratteristica del pensiero morale che Hare indica

l’origine anche kantiana della sua teoria; cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza, 1970 (Grundlegung zur Metaphysick der Sitten, 1785)

17 A. Gibbard, Hare’s Analysis of ‘Ought’ and Its Implications, in D. Seanor e N. Fotion (a cura di), Hare and Critics, cit. Nello stesso volume, si vedano i commenti di Hare al testo di Gibbard e a quello di Nagel; per una denominazione diversa del principio, ma sempre per una discussione dello stesso, cfr. anche W. Rabinowicz, Hare on Prudence, “Theoria”, 1989, pp. 145-151 e I. Persson, Universalizability and the Summing of Desires, “Theoria”, 1989, pp. 159-170.

18 Per una rassegna ed una discussione delle più recenti teorie della percezione, vedi S. Prijic, Oko i svijet, Fiume, Hrvatski kulturni dom, 1995.

19 J.L. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, Harmondsworth, Penguin Books, 19878, pp. 83-102.

20 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, Bari, Laterza, 1985, pp. 104-112. (Ethics and the Limits of Philosophy, London, Fontana Press/Collins, 1985) e T. Nagel, Foundations of Impartiality, in D. Seanor e N. Fotion (a cura di), Hare and Critics, cit.; sull’inefficacia dell’universalizzazione come strumento di argomentazione morale, vedi anche G.J. Warnock, Filosofia morale contemporanea, cit., pp. 86-93.

21 R.M. Hare, Il pensiero morale, cit., p. 150. 22 Ibidem. 23 P. Singer, Reasoning towards Utilitarianism, in D. Seanor e N. Fotion (a cura di), Hare

and Critics, cit. 24 R.M. Hare, Why Do Applied Ethics, in R.M. Fox e J.P. de Marco (a cura di), New

Directions in Ethics, London, Routledge, 1986, ora in R.M. Hare, Essays in Ethical Theory, cit., p. 8-13.

25 R.M. Hare, Il pensiero morale, cit., p. 49-50. 26 Ivi, p. 231-236. 27 Ivi., p. 245.

Capitolo secondo

Le critiche a posteriori al realismo morale

Hare ha tentato di mostrare che il realismo morale non è efficacemente sostenuto da un’analisi del linguaggio morale. Abbiamo tentato di confutarlo mostrando che la sua proposta metaetica alternativa non può avere successo. Passiamo ora ad un tipo di critica molto diverso. Si tratta di una posizione che afferma che ci sono buone ragioni a posteriori per credere che il realismo sia falso. I critici del realismo morale che stiamo per presentare ammettono che i giudizi morali possono essere veri o falsi; ammettono, cioè, che sono degli enunciati descrittivi. Affermano, però, anche che sono tutti falsi.

Questa posizione è sostenuta da un’ontologia che afferma che non esistono altri oggetti se non quelli naturali. Per ‘oggetti naturali’ si intende tutti gli oggetti che possono o essere conosciuti dai nostri sensi o sulla base di questi. ‘Naturale’, tuttavia, non è un termine contrapposto a storico, o sociale, oppure umano. La storia, la società ed il genere umano fanno parte del mondo naturale. Il termine ‘naturale’ è contrapposto a termini come ‘metafisico’ o ‘soprannaturale’; il mondo naturale, cioè, viene contrapposto a possibili mondi sui generis, che sono diversi dal mondo che ci è accessibile sulla base dei nostri apparati sensoriali. Questa posizione è naturalistica, poiché ritiene che esistono solo fatti naturali, ed empiristica in quanto si possono conoscere e, quindi, presumere che esistano solo i fatti o le proprietà conoscibili tramite il metodo empirico. Adottando la prospettiva naturalista, alcuni filosofi pensano che si approdi a una metaetica antirealista. Il filosofo di riferimento di questa posizione è, senz’altro, Hume. Si inizierà perciò l’esposizione delle critiche a posteriori del realismo partendo proprio dalla sua filosofia morale.

Hume è stato inserito dagli interpreti all’interno di prospettive filosofiche alquanto varie. Secondo una delle interpretazioni dominanti, Hume sarebbe un antirealista, un non-descrittivista, un emotivista.1 Per altri un non-descrittivista e un prescrittivista.2 Tuttavia, c’è anche chi ha voluto porlo tra gli antirealisti descrittivisti.3 Le interpretazioni che vogliono Hume realista sono decisamente in minoranza. Si cercherà di mostrare che Hume ha senz’altro rivolto delle critiche al realismo morale che sono assimilabili alle critiche a posteriori dei naturalisti, ma è difficile considerare le sue critiche come quelle di un emotivista o di un prescrittivista, per il motivo che queste ultime sono incomprensibili o fortemente incomplete se prive di analisi linguistiche. Non sembra, infatti, che Hume abbia fatto dell’analisi linguistica l’aspetto principale della sua critica al realismo morale. In realtà, Hume è in modo inopinabile interpretabile come antirealista solo se si considera il realismo aprioristico, ossia quella versione del realismo che ritiene la morale conoscibile con strumenti razionali, indipendentemente da analisi empiriche, e valida per tutti gli esseri razionali; il tipo di realismo che nell’introduzione abbiamo visto esemplificato da Moore. Si indicherà, invece, in uno dei capitoli successivi, come dal pensiero di Hume sia derivabile un realismo morale naturalistico e riduzionistico, accentuando l’aspetto del suo pensiero morale che si basa sull’analisi delle virtù artificiali, di contro a quello che si basa sull’analisi delle virtù naturali.

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In altre parole, Hume verrà interpretato come il filosofo che può darci le prime basi per sviluppare una forma di realismo morale. Intanto, però, verrà presentato nella veste di critico di una versione particolare di realismo e, come si è detto, di esponente influente delle critiche a posteriori del realismo morale.

2.1. Hume ha sviluppato alcuni argomenti per dimostrare

l’implausibilità di fondazioni razionalistiche della morale. Il primo dei suoi argomenti è quello che si basa sull’inefficacia della ragione considerata come possibile motivazione per l’azione. La morale, infatti, viene ritenuta da Hume innegabilmente una fonte di motivazione per le azioni. Però, Hume ritiene altrettanto innegabile che i prodotti della ragione (con i quali Hume indica tanto conoscenze su verità formali quanto su quelle empiriche) da soli non possono costituire una spinta per l’azione. La morale secondo Hume ha a che fare primariamente con i sentimenti, che soli possono costituire una spinta ad agire.

Con le parole dello stesso Scozzese:

Quindi, poiché la morale ha un’influenza sulle azioni e sulle affermazioni, ne consegue che essa non può derivare dalla ragione e ciò in quanto la sola ragione, come si è già dimostrato non può mai avere un’influenza del genere. La morale suscita le passioni o impedisce le azioni. La ragione di per se stessa è del tutto impotente in questo campo. Le regole della morale, perciò, non sono delle conclusioni della nostra ragione.4

Consideriamo un altro argomento con il quale Hume critica l’idea di coloro i quali sostengono che le verità morali sono scopribili tramite dimostrazioni formali, come lo sono le verità della geometria e dell’algebra. Secondo una tale proposta, i significati dei termini morali si risolverebbero in relazioni determinate. Tuttavia, Hume non può accogliere una simile pretesa. Lo Scozzese, infatti, dice che tutte le possibili relazioni che sono oggetto di dimostrazione si possono applicare tanto agli esseri animati, quanto agli esseri inanimati. Di conseguenza, se la morale riguardasse soltanto queste relazioni, i termini morali, come il vizio o la virtù, sarebbero applicabili agli animali o agli oggetti inanimati, così come lo sono agli esseri umani.

Se voi affermate che il vizio e la virtù consistono in relazioni suscettibili di una dimostrazione certa, dovrete limitarvi a quelle quattro relazioni che sole ammettono questo grado di evidenza, e in tal caso cadrete in assurdità da cui non riuscirete mai a liberarvi. Infatti, se riponete l’essenza stessa della morale nelle relazioni, dato che non ce n’è neanche una che non sia applicabile non solo agli esseri privi di ragione, ma anche agli oggetti inanimati ne segue che anche questi oggetti dovrebbero essere suscettibili di merito o demerito. Rassomiglianza, contrarietà, gradi di qualità e rapporti di quantità e di numero: tutte queste relazioni appartengono tanto propriamente alla materia, quanto alle nostre azioni, passioni e volizioni. È perciò fuori di discussione che la morale non consiste in nessuna di queste relazioni, e che il senso morale non consiste nella loro scoperta.5

Infine, Hume presenta un altro argomento, divenuto celeberrimo, per dimostrare l’infondatezza logica di una dimostrazione della fattualità dei valori morali. Si tratta del famosissimo passaggio nel quale lo Scozzese smaschera il salto logico ingiustificato compiuto dalle considerazioni di carattere normativo.

In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma

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l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve e non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti.6

In questo passo, il bersaglio polemico di Hume è lo stesso di quello preso di mira nel nostro secolo da Moore, ovvero il naturalismo, o meglio: una sua versione, per così dire, analitica, che riduce le verità morali a verità fattuali e rimanda la giustificazione delle prime ad una derivazione logica delle seconde.

Già queste argomentazioni negative sono potute sembrare sufficienti per parlare di antirealismo. Cosicché, a proposito di Hume, sembra si possa concludere con Mackie che

la sua dottrina afferma che le distinzioni morali non riportano alcune caratteristiche obiettive: la bontà o giustezza morale non è una qualità o una relazione che può essere trovata in, o tra situazioni o azioni obiettive, e nessuna procedura puramente intellettuale o cognitiva può risultare in un giudizio morale.7

Ma allora, se le proposte indicate vanno rifiutate, dobbiamo chiederci: da dove derivano i nostri atteggiamenti morali? Nel pensiero di Hume gli interpreti hanno individuato due classi di risposte. La prima si lega ad affermazioni come le due seguenti.

Così il corso dell’argomentazione ci porta a concludere che, poiché il vizio e la virtù non si possono scoprire semplicemente mediante la ragione o il confronto di idee, deve essere grazie a qualche impressione o sentimento suscitato da tali

qualità che noi siamo in grado di stabilire una differenza tra di loro. La morale, perciò, è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio.8

E, ancora:

Un’azione, un sentimento, una qualità sono virtuosi o viziosi: perché? Perché la loro vista provoca un piacere o un dolore di tipo particolare. Quindi, dando ragione del piacere o del dolore, spiegheremo sufficientemente il vizio o la virtù. Avere il senso della virtù non significa altro che sentire una soddisfazione di un tipo particolare nel contemplare una certa qualità.9

Secondo queste formulazioni, la visione di determinati fenomeni provoca in noi dolore o piacere di un particolare tipo. Sono queste relazioni a determinare ciò che è virtuoso o ciò che è contrario a virtù. Questa descrizione sembra calzare bene con quelle che Hume chiama virtù naturali. Le virtù naturali sono virtù che corrispondono in ogni loro istanza ad alcune motivazioni naturali presenti in noi, suscitando sentimenti di approvazione che si identificano con le qualità virtuose. È, in questo senso, una virtù naturale l’amore che i genitori portano per i propri figli.

Passiamo, ora, alle virtù artificiali. La prima caratteristica delle virtù artificiali è che esse

producono piacere e approvazione grazie ad artifici o invenzioni che nascono dalle condizioni e dalle necessità dell’umanità.10

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Le virtù artificiali, seppure non corrispondano in ciascuna singola loro istanza ad alcuna motivazione naturale, soddisfano una maggiore convenienza globale dell’umanità. Fra le virtù artificiali, la più caratteristica è la giustizia.

L’antirealismo di Hume sembra essere qui potentemente confermato. Le virtù artificiali sono convenzioni e, quindi, sembrano non essere oggetto di conoscenza, bensì oggetto di creazione. La ‘creazione’ della quale qui si parla non è corrispondente al termine ‘costruzione’, che si è usato a proposito di una delle teorie correnti della verità. Non si tratta di una creazione interna al processo di conoscenza, si tratta di una creazione effettiva, nel senso che le virtù artificiali cominciano a esistere nella realtà, quando gli esseri umani le creano. Tuttavia, questa esistenza non è sufficiente per parlare di realismo morale, in quanto l’esistenza interessante per il realista dovrebbe essere indipendente da quella che sussiste grazie a una creazione degli esseri umani.

2.2. Il filosofo che forse meglio di ogni altro si è fatto interprete nel

nostro secolo della tradizione inaugurata da Hume è Mackie. Questi distingue tra problemi morali di primo ordine e problemi morali di secondo ordine. I problemi morali di primo ordine riguardano le risposte che diamo ai nostri quesiti morali. Le questioni morali di secondo ordine riguardano la possibilità o meno di includere le presunte verità morali nella descrizione del mondo e la possibilità di conoscerle. I problemi di secondo ordine sono problemi primariamente epistemologici ed ontologici. I due ordini di problemi sono per Mackie separati. È possibile essere allo stesso tempo scettico nelle questioni di secondo ordine e seguire, senza difficoltà particolari, il codice morale che si adotta come risposta alle questioni di primo ordine. Secondo Mackie, ad esempio, è possibile seguire con convinzione una pratica che obbliga ad aiutare i poveri e a rispettare la libertà degli altri anche senza pensare che gli enunciati compresi nel codice morale che sancisce questa pratica rispecchino un qualche tipo di verità o abbiano, in qualche modo, validità obiettiva. Mackie si autoproclama scettico a proposito delle questioni morali di secondo ordine e, quindi, sostenitore di una posizione antirealista in morale.

2.2.1. Mackie ammette che il realismo morale esce da vincitore in uno

dei modelli di discussione metaetica. Si tratta della discussione che abbiamo visto in precedenza e che si basa sull’analisi dei significati del discorso morale. Mackie è convinto che questa analisi porti al cognitivismo piuttosto che all’anticognitivismo.

Innanzi tutto, Mackie ritiene che il realismo sia la posizione metaetica tradizionalmente accolta tanto dalla maggior parte dei filosofi nel corso della storia del pensiero occidentale, quanto dal senso comune. Ciò dovrebbe suggerire che, essendo il senso comune convinto che vi sia una realtà morale da descrivere, venga fatto uso di forme linguistiche adatte allo scopo. E, di fatto, Mackie afferma che vi è una forte convinzione, da parte di chi esprime giudizi morali, che i suoi enunciati siano autentici e non soltanto espressioni di atteggiamenti soggettivi. C’è, inoltre, l’idea diffusa che le verità morali siano portatrici della motivazione morale e che, se queste presunte verità si rivelassero pregiudizi, tutta la costruzione della morale cadrebbe.

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La negazione dell’obiettività dei valori può portare con sé una reazione emotiva radicale, il senso che nulla abbia alcuna importanza, che la vita abbia perso il proprio scopo. Ovviamente, tale reazione è sbagliata. L’abbandono della credenza nell’obiettività dei valori non è una buona ragione per smettere di avere interessi soggettivi o desideri. Però, può causare, almeno temporaneamente, un affievolimento degli interessi che si hanno o dell’attaccamento ai propri scopi.

Si è ritenuto con tale fermezza che l’affermazione che i valori sono obiettivi sia la fonte dell’adesione soggettiva ad essi e dei tentativi di realizzarli, da provocare la fine dell’adesione ai valori, in seguito all’abbandono della credenza nella loro obiettività.11

Mackie, quindi, conclude che ci sono ragioni sufficienti per pensare che il realismo morale venga favorito da una metaetica che intenda limitarsi all’indagine linguistica.

Se l’etica di secondo livello fosse confinata, quindi, all’analisi linguistica e concettuale, si dovrebbe concludere che i valori morali sono obiettivi. Che lo siano è parte di ciò che i nostri enunciati morali abituali significano: i concetti morali tradizionali dell’uomo comune, così come quelli di un filone dominante nella storia della filosofia occidentale, sono concetti riguardanti valori obiettivi.12

Mackie non crede che ciò sia sufficiente per pensare che il realismo morale sia una posizione filosofica plausibile. Egli pensa soltanto che le discussioni riguardanti le analisi linguistiche non rappresentino il modello metaetico corretto. Al posto di questo modello, Mackie propone un’analisi a posteriori. Quest’analisi dovrebbe rivelare che, anche se i giudizi morali sono giudizi che possono essere veri o falsi, ovvero presumono di descrivere una realtà, tuttavia, sono tutti falsi, in quanto ci sarebbero buone ragioni per credere che questa realtà non esiste.

2.2.2. Il primo argomento messo in campo da Mackie è quello della

relatività. L’argomento si basa sulla grande variabilità dei codici morali in diverse epoche storiche, in diverse società e in gruppi sociali diversi. Questa variabilità, di per sé, non è una prova sufficiente per l’antirealismo. Può benissimo esserci una realtà morale, senza che vi sia accordo nel percepirla o nell’interpretarla. Tuttavia, Mackie ritiene che la migliore spiegazione del disaccordo sia proprio l’inesistenza di una realtà sulla quale accordarsi.

L’argomento della relatività possiede una qualche forza semplicemente in quanto le variazioni attuali dei codici morali sono più facilmente spiegabili dall’ipotesi che riflettono dei modi di vivere piuttosto che dall’ipotesi che esprimono delle percezioni, la maggior parte delle quali inadeguate e distorte, di valori obiettivi.13

L’altro argomento esposto da Mackie è l’argomento della stranezza (argument from queerness). L’argomento è costituito da due parti, una parte ontologica ed una parte epistemologica: (i) se esistessero valori obiettivi, questi sarebbero entità, o qualità, o relazioni di una specie molto misteriosa e molto diversa da qualsiasi altra cosa che ci sia conosciuta nell’universo; (ii) se li conoscessimo, lo potremmo fare in virtù di una facoltà conoscitiva, o di un’intuizione, o percezione morale davvero misteriosa, del tutto diversa dalle vie abituali per conoscere qualsiasi altra cosa.

Come si fa a presupporre l’esistenza di qualcosa di così strano e inconsueto come lo sono le proprietà che deve immaginare il realista morale? Secondo Mackie, non può essere fornita alcuna risposta convincente a tale

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quesito. I realisti morali replicheranno cercando di trovare degli alleati qualificati per il loro progetto, di solito nello studio di proprietà modali, oppure nella matematica. È di questo tipo, ad esempio, la strategia di John Finnis.14 Di fronte a questa risposta, i sostenitori del naturalismo reiterano la propria critica sostenendo che la verità di questi altri fatti può essere provata empiricamente e, quindi, il realista morale continua a ritrovarsi privo di sostegno. Così, ad esempio, si dirà che per giustificare le verità matematiche non c’è bisogno di alcun presupposto platonico, bensì si può farlo semplicemente indicando la connessione tra la fisica e la matematica. È parte integrale dell’argomentazione di Mackie l’idea che i supposti fatti morali, se esistessero, sarebbero alquanto strani. A questo si aggiunga che la descrizione del mondo può essere molto più semplice se non si suppone l’esistenza di questi fatti. Nella replica a Mackie, quindi, non è sufficiente dire che esistono altri fatti altrettanto strani e misteriosi. Bisognerebbe dimostrare che le descrizioni del mondo ricaverebbe altrettanta semplicità dall’esclusione di questi fatti quanta se ne ricaverebbe dall’esclusione di quelli morali.

Per quale motivo Mackie pensa che il realismo morale sia obbligato ad accogliere l’intuizionismo? Vi sono almeno due argomenti che suffragano questa affermazione. Il primo si basa sul carattere pratico della morale. Credere in una verità morale vuol dire essere motivati nel modo predisposto dalla credenza. Ora, dice Mackie, i presunti oggetti morali sarebbero degli oggetti ben strani se, di per sé, fossero in grado di essere motivanti. Qualsiasi altro oggetto, infatti, può motivare soltanto se posto in connessione con i nostri desideri. Per dirla con le parole dello stesso Mackie, i realisti morali si trovano costretti

a postulare delle entità-valore o caratteristiche-valore aventi un carattere del tutto diverso da qualsiasi altra cosa che noi conosciamo e, quindi, a postulare anche una corrispondente facoltà cognitiva con la quale le potremmo individuare.15

L’altro argomento è il seguente. Tutti sono pronti a dire che le qualità morali sono in qualche modo legate alle qualità naturali. Il produrre dolore, ad esempio, è spesso ritenuto uno dei motivi per condannare anche moralmente delle azioni. Sembra che la valutazione morale segua dalla conoscenza di fatti naturali. Ma, in che cosa consiste questo legame? Quale proprietà, o quale entità, riesce a legare le proprietà naturali alle proprietà morali? Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un fenomeno strano ed inspiegabile.

A proposito dei problemi indicati può forse ritornare utile l’introduzione del concetto di sopravvenienza, così come è stato elaborato da Simon Blackburn.16 La sopravvenienza è quel concetto che indica che determinati fenomeni di ordine inferiore provocano l’esistenza di fenomeni di ordine superiore; ovvero, ci dice che i cambiamenti nei fenomeni a livello superiore avvengono soltanto se avvengono cambiamenti in fenomeni a livello

inferiore. Così, si potrà dire che determinate proprietà naturali N1, N2, , NN provocano la presenza di una determinata proprietà morale M. M non potrà

mutare senza che prima avvenga un cambiamento in N1, N2, , NN. Ad esempio, il fatto che un uomo sia pronto ad offrire aiuto a chi si trova in difficoltà, sia privo di invidia, e stia attento a non recare danno alle altre

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persone, ne fa una persona buona. Fino a quando questa persona continuerà a corrispondere a questa descrizione naturale, la persona continuerà ad essere ritenuta una persona buona.

Compare anche qui il problema della natura di questa relazione che lega i fatti naturali ai fatti morali. Tradizionalmente, si ritiene che la soluzione non possa consistere nell’affermazione di un legame logico fra i due insiemi. Sarebbe, secondo una linea classica nel pensiero filosofico, errato pensare che ci sia un legame logico tra i fatti naturali ed i fatti morali. Questo ha delle conseguenze molto importanti. La relazione di sopravvenienza può stabilirsi senza che si sappia perché e può cessare di essere valida, ancora una volta senza che si sappia per quale motivo. Ritornando al nostro esempio, può cominciare, senza che si sappia perché, ad essere vero che il fatto che un uomo sia pronto ad offrire aiuto a chi si trova in difficoltà, sia privo di invidia, e stia attento a non recare danno alle altre persone, ne faccia una persona buona. Tuttavia, non si sa per quale motivo questa regola sia stata stabilita, come neppure fino a quando o perché questa regola continuerà ad essere valida. La relazione, con ciò, diviene ancora una volta misteriosa. Il commento di Blackburn è il seguente:

Non vedo alcuna contraddizione nel credere in ciò; tuttavia, non lo trovo filosoficamente molto invitante. La sopravvenienza diviene, per il realista, un fatto logico opaco e isolato, per il quale nessuna spiegazione può essere offerta.17

Per tutti questi motivi, Mackie consiglia di adottare una prospettiva antirealista, ovvero di immaginare che le nostre credenze morali non siano delle percezioni corrette, bensì delle nostre proiezioni sul mondo esterno. Nel concludere l’esposizione del proprio programma scettico, Mackie presenta una spiegazione di come pensa che questa proiezione avvenga, con il che ritiene anche di indicare come sia possibile realizzare una descrizione dell’esperienza morale senza far ricorso a fatti morali.

2.2.4. Una prima spiegazione di questa proiezione è rappresentata dalla

fallacia patetica, la nostra tendenza generale a proiettare i nostri sentimenti sugli oggetti esterni. Tuttavia, Mackie è convinto di disporre anche di una spiegazione più specifica. La morale è un fatto sociale, che viene trasmesso tramite l’educazione ai membri della società. In questo senso, si può dire che la morale abbia veramente un’autorità esterna al soggetto, seppure non l’autorità esterna che vuole il realista. Questo carattere esterno, comunque, sarebbe sufficiente a spiegare il processo di proiezione dei valori. Il soggetto li riceve dall’esterno e, una volta interiorizzati, continua a considerarli come se fossero di provenienza esterna. Resta il problema di spiegare per quale motivo vengono proiettati sugli oggetti e sui fenomeni esterni, e non spiegati a partire dalla loro autentica origine, quella sociale. Il motivo è semplice: fa parte dell’educazione morale la trasmissione della credenza che i valori siano obiettivi e non siano soltanto una convenzione sociale.

L’obiettivizzazione della morale, quindi, inverte quello che è l’ordine delle cose. Nella realtà, ci sono i nostri bisogni ed i nostri desideri ed i valori sono generati sulla loro base. Il realista morale pensa che, invece, ci siano i valori nelle cose e che i nostri desideri si conformino a questa realtà.

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2.3.1. Passeremo ora all’analisi della posizione metaetica di Blackburn. Questi, come abbiamo già accennato, può essere inteso sulla stessa scia di Mackie, in particolare per quanto riguarda l’affermazione dell’impossibilità per il realista di spiegare la sopravvenienza dei fatti morali a partire dai fatti naturali. Blackburn ritiene, infatti, che la sopravvenienza possa essere spiegata con maggiore facilità in termini antirealisti.

Blackburn osserva che c’è una connessione non misteriosa tra i fatti naturali ed i fatti morali. Ciascuno di noi, osservando dei fatti naturali, spesso ha delle reazioni di approvazione e disapprovazione morale. Osservando dei ragazzacci che danno fuoco ad un gatto esprimiamo le più energiche reazioni morali. Questa connessione è sufficiente per stabilire un rapporto di sopravvenienza? A Blackburn sembra di sì. È vero che siamo noi, con le nostre reazioni, a stabilire le opportune distinzioni morali. Tuttavia, una volta espresso un giudizio su un fatto, sembra che si ridurrebbe la morale ad un arbitrio se si esprimesse un giudizio morale diverso per un altro fatto naturale esattamente identico. La mutazione della descrizione naturale, quindi, sembra dover implicare quella morale anche per l’antirealista. Se è così, allora si è data una spiegazione del rapporto di sopravvenienza che ha il merito di non dover ricorrere a nulla di misterioso. Da un lato, si è tutelata l’intuizione profonda che ci sia un legame tra i fatti naturali e i fatti morali, dall’altro lato si sono evitati imbarazzi ontologici ed epistemologici. Inoltre, Blackburn è convinto in tal modo di aver mostrato che il realismo morale sia falso. Blackburn, però, dalla falsità del realismo morale, non è disposto a concludere la falsità del suo resoconto proposizionale del discorso morale, ovvero, di un resoconto che analizza gli enunciati morali come aventi la classica forma proposizionale con un soggetto ed un predicato che indica le proprietà di questo soggetto.

Tutelando un resoconto proposizionale del discorso morale, Blackburn si oppone alle forme antirealiste che si basano sull’analisi del linguaggio e pensa, con ciò, di ottenere parecchi vantaggi. Il resoconto proposizionale del linguaggio morale ci permette di usare, con pieno diritto, una nozione di ‘progresso morale’, presentandolo sotto la forma di ‘insieme progredito di atteggiamenti morali’; ci permette, cioè, di far uso di una nozione che ci consente di valutare i nostri atteggiamenti morali e di giudicare quali siano progrediti rispetto agli altri. Il resoconto proposizionale, inoltre, ci permette di far uso di nozioni logiche, come quella di coerenza o compatibilità. Infine, ci consente di reintrodurre una nozione di verità morale, anche se si tratta di una verità intesa come costruzione e non come corrispondenza, Con il che, ovviamente, non si può parlare di realismo. Tuttavia, Blackburn pensa che si tratti di una nozione sufficiente per evitare un atteggiamento schizoide nei confronti del codice morale che si adotta, ovvero di accoglierlo, pur ritenendolo falso.

A proposito di quest’ultimo problema, è doverosa una spiegazione. A dire il vero, Blackburn non pensa che ci sia un problema autentico riguardante la compatibilità tra proiettivismo e accoglimento di giudizi morali. Così come i nostri sensi ci forzano a credere in un determinato mondo esterno, così i nostri sentimenti morali ci dovrebbero forzare ad accogliere un determinato codice morale. Tuttavia, non si può neppure dire che non ci sia alcun problema. Come dice lo stesso Blackburn,

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Il problema non è costituito dalla fonte soggettiva del valore in sé, bensì dall’inabilità delle persone a confrontarsi con essa e dalla loro conseguente necessità di un’immagine nella quale i valori si imprimono su di un testimone puramente passivo e ricettivo, che non ha alcuna responsabilità in materia.18

Tutte le difficoltà di aderire ad un codice morale anche dopo aver adottato una prospettiva proiettivista sono causate da un errato modo di intendere gli obblighi morali, ovvero, dall’attitudine (acquisita) a rispettare i codici morali soltanto se hanno un’autorità esterna.

Può darsi che vi siano persone che non possono coesistere con l’idea che i valori abbiano una forza soggettiva; che non possono coesistere con l’idea che il significato della loro vita e delle loro attività siano qualcosa che loro stessi hanno la facoltà di determinare e che anche la riflessione critica sul modo migliore per determinarli venga svolta alla luce di altri sentimenti che sono ritenuti semplicemente dati. Ma, ciò avverrà perché queste persone hanno un difetto nella propria sensibilità - una sensibilità che li ha istruiti a pensare che le cose non hanno valore se non lo hanno per Dio, o per un mondo concepito al di fuori di ogni particolare insieme di interessi, desideri o altro.19

Il vero problema dell’adesione al codice morale, quindi, non è quello dell’incompatibilità tra una prospettiva teorica che sostiene che i giudizi morali sono falsi ed una prospettiva interna che ci tiene legati a essi. Non c’è nessuna difficoltà a meno che non si sia educati a dover ricorrere ad un’autorità esterna.20 Tuttavia, c’è il problema di fornire all’individuo un’adeguata rappresentazione del suo codice morale, che gli permetta di guardarlo dalla prospettiva interna come se fosse vero. Questa è precisamente la posizione del quasi-realismo con il suo resoconto proposizionale del discorso morale.

Un altro problema rispetto al quale la strategia quasi-realista risulta efficace è di riuscire a rendere conto di alcune forme del linguaggio e, precisamente, delle forme indirette, come ad esempio quelle condizionali. Queste forme di espressione sono problematiche per il proiettivista in quanto egli sembra dover sostenere che le forme del linguaggio morale servono a esprimere un impegno del soggetto nei confronti di determinati valori. Quando si dice: ‘Rubare è moralmente spregevole’ ci si impegna così a sostenere il valore della tutela della proprietà. Questo resoconto, appunto, sembra non funzionare in alcuni contesti, come quello condizionale. Quando si afferma: ‘Se picchiare i cani è moralmente sbagliato, allora lo è anche picchiare i gatti’, non si esprime alcun impegno a proposito di alcune delle due affermazioni.

Blackburn chiama le posizioni che rispecchiano una teoria proiettivista impegni; quelle che rispecchiano una teoria realista giudizi. Quando formuliamo un condizionale deriviamo le conseguenze da una supposizione (nel nostro esempio, dalla supposizione che sia moralmente sbagliato picchiare i cani deriviamo la conseguenza che sia moralmente sbagliato picchiare i gatti). Detto in termini più tecnici, aggiungiamo una supposizione all’insieme dei nostri giudizi ed impegni e vediamo a quali cambiamenti nell’insieme conduca questa supposizione. Formuliamo la supposizione che sia moralmente sbagliato picchiare i cani e vediamo che diviene (nel nostro insieme di giudizi ed impegni) moralmente sbagliato picchiare i gatti. Il problema è quello di vedere se sia possibile far rientrare anche gli impegni, accanto ai giudizi, tra ciò che può essere incluso nella supposizione. Se la risposta sarà positiva, non ci

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saranno difficoltà: si potrà far uso di espressioni tipiche di una dottrina proiettivista anche nelle forme di espressione indiretta.

La difficoltà ad accogliere una simile posizione sta proprio nell’idea che si possono derivare conseguenze solo da supposizioni che possono essere vere. Una posizione classica sostiene che solo se si rivelerà che picchiare i cani è realmente sbagliato si sarà costretti a dire che è sbagliato picchiare i gatti. Ovviamente, il proiettivista nega che gli enunciati morali possano essere veri. Bisogna, quindi, identificare delle caratteristiche dei giudizi morali che assegnino loro le stesse proprietà logiche che avrebbero se possedessero l’attributo di verità. Il quasi-realismo, secondo Blackburn, pur negando che vi sia una verità morale, sostiene che esiste un modo corretto e uno scorretto di esprimere giudizi morali. Questo è sufficiente per permettere agli enunciati morali di avere le stesse proprietà rilevanti degli enunciati che possono essere veri. Se è così, allora dobbiamo essere pronti ad affermazioni del genere: ‘Non puoi impegnarti a questo (avere quest’attitudine) senza impegnarti a quest’altro, o, senza esprimere quest’altro giudizio’.21

Cerchiamo di comprendere come il quasi-realismo sia promettente in quanto strategia per trattare gli enunciati come se fossero veri. Blackburn consiglia di partire da una definizione de ‘il miglior insieme possibile di atteggiamenti’. L’insieme comprende come elementi tutti i possibili sviluppi degli atteggiamenti. Si riterrà vero un enunciato morale se e solo se esso farà parte di questo insieme. In altre parole: dato M* = il miglior insieme possibile di atteggiamenti, m è vero = m è un elemento di M*. Ma a questo punto, compare il problema di riuscire ad individuare questo insieme. Infatti, se ci fosse più di un insieme corrispondente alle caratteristiche spiegate, verrebbe compromessa una condizione essenziale per poter parlare di verità, ovvero l’adozione del principio del terzo escluso: non possono allo stesso tempo essere veri p e -p. Se più di un insieme di atteggiamenti morali potesse essere giudicato ottimale, atteggiamenti anche contrastanti sarebbero veri allo stesso tempo.

Blackburn raffigura la soluzione di questo problema con l’immagine di un albero. Il tronco costituisce l’insieme di atteggiamenti a proposito dei quali lo sviluppo della sensibilità morale creerà consenso. I rami sono gli atteggiamenti contrastanti. Il concetto di verità si applicherà soltanto alle credenze che hanno sede nel tronco; soltanto queste costituiranno l’insieme ottimale. E questo perché la conoscenza stessa delle diramazioni è sufficiente per stabilire che nel loro caso è impossibile applicare il concetto di verità. Se a proposito di un presunto fatto morale non si può raggiungere consenso, si dovrà negargli l’attribuzione di verità, anche nel senso inteso dal quasi-realismo.

2.4.1. Vi è una terza critica del progetto realista che è rintracciabile

negli scritti di Gilbert Harman. Questo filosofo basa il suo antirealismo sulle esigenze di una particolare dottrina epistemologica, quella della coerenza esplicativa. La strategia epistemologica della coerenza esplicativa sostiene che la credenza in un fatto è epistemologicamente giustificata se e solo se questo fatto può fungere da migliore spiegazione di altri fatti, oppure essere spiegato da altri fatti. Ad esempio, i fatti morali supereranno questa prova se e solo se

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serviranno come migliore spiegazione di alcuni fatti non-morali, come la credenza nella loro esistenza, oppure se potranno spiegare la motivazione ad agire in un certo modo. Harman ritiene che i fatti morali non possano superare questa verifica, poiché il realista dovrebbe dimostrare che le credenze morali sono provocate da fatti morali. Ma Harman ritiene che ciò non sia possibile. Parlando di due situazioni nelle quali dei soggetti esprimono giudizi morali, Harman conclude che

in nessuno dei due casi c’è alcuna ragione ovvia per assumere alcunché a proposito dei ‘fatti morali’ come se fosse veramente ingiusto maltrattare un gatto

oppure sacrificare il paziente della stanza 306. Sembra che tutto ciò che dobbiamo assumere è che abbiamo dei principi morali più o meno bene articolati che sono riflessi nei giudizi che esprimiamo e basati su una nostra sensibilità morale. Sembra essere completamente irrilevante alla nostra spiegazione che i nostri giudizi intuitivi immediati siano veri o falsi.22

Nel giustificare questa sua affermazione, Harman si richiama a un’importante differenza che crede di rintracciare tra i giudizi riguardanti fatti empirici e fatti morali. I giudizi sui fatti empirici possono essere ridotti a una spiegazione del meccanismo percettivo sulla base del quale si formano e per mezzo del quale si entra, in un qualche senso rilevante, a contatto con la realtà esterna. Nulla di simile sarebbe disponibile a proposito dei fatti morali.

Harman ammette che c’è una strategia che potrebbe avere delle possibilità di successo nel rendere conto dei fatti morali. Si tratta della strategia riduzionista. Questo tipo di strategia (ontologica ed epistemologica) risolve i problemi riducendo dei fatti ritenuti problematici a fatti ritenuti meno problematici, salvando le credenze iniziali, ma liberandole dal peso di dover affermarne l’esistenza sui generis. In filosofia morale questa strategia consisterà nel ridurre i fatti morali a fatti naturali. Un modo promettente di realizzare questo progetto è rappresentato dalla proposta funzionalista. Secondo il funzionalismo, i giudizi valutativi, come quelli morali, rappresenterebbero giudizi su come una qualsiasi cosa svolge la propria funzione. Così, ad esempio, si giudicherà un buon coltello quello che ad esempio ha un’impugnatura maneggevole e una lama affilata. Con questa strategia si realizza una riduzione dei termini valutativi a termini descrittivi (e, quindi, da presunti fatti valutativi a fatti naturali). Essere un buon coltello, infatti, corrisponde a un insieme di fatti naturali: avere un’impugnatura maneggevole ed una lama affilata e ad avere la funzione di tagliare se impugnato da una mano. Come dice Harman:

I giudizi valutativi rilevanti sono fattuali. I fatti sono fatti naturali, seppure talvolta fatti complessi. Giudichiamo che qualcosa è buono o cattivo, che è giusto o ingiusto, che deve o non deve avere certe caratteristiche, o fare alcune cose, relativamente a un insieme di interessi, ruoli e funzioni. Possiamo abbreviare questo giudizio dicendo che X è buono nella misura in cui risponde adeguatamente a interessi rilevanti. Specificare questi interessi vuol dire specificare a che cosa corrisponde un buon X.23

Lo stesso principio funzionalista potrebbe essere valido anche in ambito metaetico. Tuttavia, Harman non pensa che si tratti di una possibilità priva di difficoltà. Ci sono, ad esempio, dei comportamenti i quali non è chiaro in che senso svolgano delle funzioni meglio di comportamenti alternativi. Consideriamo i casi di dilemma morale, ad esempio quello di Oreste. Egli si trova

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di fronte al dilemma di dover vendicare il padre e di dover non uccidere la madre. La madre era l’assassina del padre. Oreste non può rispettare entrambe le prescrizioni. Quale sarà la soluzione più funzionale? Harman ritiene che non vi siano risposte semplici a domande come questa, e perciò conclude che il tentativo funzionalista potrà portare al massimo a risultati vaghi e approssimativi. Ciò rappresenta una seria difficoltà per il tentativo naturalistico riduzionista, che sembra così non destinato a mietere i successi che incontra in altri campi.

Ma la vaghezza dei tentativi riduzionistica attualmente noti non sarebbe ancora sufficiente per rinunciare al tentativo riduzionista. Vi è, infatti, l’esempio analogo dei colori. Anche a proposito dei colori, la riduzione è realizzata soltanto in modo approssimativo. Tuttavia, non si rinuncia a fare riferimento ai colori nell’esplicazione delle percezioni e questo avviene per motivi di praticità: la spiegazione delle percezioni che fa uso di riferimenti ai colori è più semplice e, quindi, più appropriata all’uso di quanto sia l’esplicazione che rinunci al riferimento linguistico ai colori. Harman ritiene che non ci siano questi vantaggi pratici a proposito dei fatti morali e, quindi, essi non trovano un posto nei meccanismi di spiegazione nemmeno in base a criteri teorici meno stretti di quelli appena considerati.

2.4.2. Mostrata l’infondatezza del tentativo realista, Harman intende

presentare un resoconto alternativo, che dovrebbe mostrare in qual modo i presupposti antirealisti abbiano migliori probabilità di spiegare le credenze morali. Harman, perciò, si pone il problema di spiegare la forte autorità che noi attribuiamo ai giudizi morali. Tale autorità è usualmente adoperata dai realisti per mostrare che i giudizi morali non sono semplici reazioni emotive o espressioni di preferenze. Harman ritiene che tutta l’autorità dei giudizi morali derivi dall’educazione. I codici morali vengono trasmessi al bambino dai genitori. Il bambino li immagina come degli esseri onniscienti e onnipotenti

il cui amore gli è assolutamente indispensabile; egli tenta di accontentarli in

modo da farsi amare e non punire. Il bambino, però, ha bisogno di un modo per anticipare i loro desideri. A questo punto egli usa l’immaginazione.

In questo modo arriva a immaginare che lui stesso è un genitore e, quindi, tenta di agire in modo da soddisfare questo genitore immaginario. Per usare una terminologia freudiana, il bambino sviluppa un ‘superego’ e un ‘ego-ideale’. Egli internalizza alcune richieste morali.24

La morale, quindi, riesce ad avere una grande forza anche senza ricorrere a presupposti realisti. La spiegazione della genesi della morale non è però ancora completa. C’è da spiegare come mai i genitori trasmettano un codice morale e non un altro. La risposta di Harman è che i genitori operano come agenti sociali, come intermediari tra un individuo che deve essere socializzato (il bambino) e la morale costruita socialmente. L’origine prima della morale viene rintracciata da Harman in un convenzionalismo analogo a quello di Hume.

Harman abbraccia il punto di vista secondo il quale c’è una rigida connessione tra l’accoglimento di un giudizio morale e l’essere motivato da questo giudizio. Un soggetto è vincolato ad un giudizio morale soltanto se questo giudizio presenta per lui una ragione per agire. Ovviamente, noi possiamo esprimere dei giudizi morali riguardo a un soggetto anche se questo

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non è vincolato ai nostri giudizi morali nel modo descritto sopra, ovvero anche senza che i nostri giudizi morali possano presentare delle ragioni motivanti per l’azione del soggetto che giudichiamo. I giudizi morali saranno vincolanti per il soggetto soltanto se gli forniranno delle ragioni per agire.

Esprimiamo dei giudizi interni a proposito di una persona soltanto se supponiamo che essa è capace di essere motivata dalle considerazioni morali

rilevanti. I giudizi interni includono giudizi con i quali affermiamo che qualcuno avrebbe dovuto o deve fare qualcosa o che qualcuno è stato giusto o ingiusto nell’aver fatto qualcosa. I giudizi interni non includono i giudizi nei quali definiamo qualcuno (letteralmente) inumano, cattivo, traditore o nemico.25

Ad esempio, noi potremmo giudicare la pratica del cannibalismo e dire che si tratta di una pratica moralmente condannabile. Non potremmo, però, dire che chi segue la pratica del cannibalismo è obbligato ad abbandonarla, a meno che non siamo in grado di fornire a questi soggetti delle buone ragioni per farlo. Harman a questo proposito sostiene che i giudizi morali vincolanti per i soggetti implicano dei predicati di questo tipo: ‘Obbligo (A, D, C, M)’, il che vuol dire che un soggetto A ha l’obbligo di compiere D, in base a determinate considerazioni C, se e solo se queste considerazioni riescono a fornire al soggetto una motivazione M. Invece il realismo morale, secondo Harman, non è capace di fornire questo genere di considerazioni motivanti. Harman ritiene che

affinché ci sia una ragione sufficiente per qualcuno per fare qualcosa è necessario che ci sia un valido ragionamento alla portata di questa persona che la conduca alla decisione di compiere quell’azione, Cosicché se la persona fallisce nell’intendere l’opportunità di compiere quell’azione lo fa per disattenzione, mancanza di tempo, manchevolezze nel considerare o apprezzare alcuni argomenti, ignoranza di testimonianze rilevanti, un errore nel ragionamento, irrazionalità, irragionevolezza o debolezza di volontà.26

Nulla, nella prospettiva del realismo morale, suggerisce Harman, può adempiere a questo scopo. Questo non è possibile per il realismo morale naturalistico, in quanto si tratta di una posizione ritenuta da Harman implausibile. Ma lo stesso vale per il tentativo di quel realismo morale che si potrebbe chiamare autonomo, che si concentra sui valori morali senza cercare loro una giustificazione ontologica ed epistemologica che li faccia rientrare nel mondo descritto dalle scienze naturali.

In questo approccio, la scienza è rilevante, poiché i nostri giudizi morali dipendono anche da dati di fatto empirici; però non attribuiamo alcuna speciale importanza all’affermazione che gli obblighi ed i valori possono essere parte del mondo, come esso è rivelato dalla scienza. Piuttosto, noi ci occupiamo della morale considerata come un fatto interno e ricerchiamo principi generali.27

Un argomento aggiuntivo contro la posizione or ora descritta è il seguente. Se si accetta l’approccio internalista ed autonomo inevitabilmente si incontrano difficoltà con entità non empiriche. In particolare, Harman ritiene che chi accetta l’autonomia della morale non potrà rifiutare l’approccio religioso, in quanto questo non implica alcun prezzo ontologico ed epistemologico superiore a quello implicato dal primo approccio.

L’unica soluzione per spiegare la genesi della morale è per Harman un convenzionalismo sul modello di quello proposto da Hume, cioè una riduzione

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naturalistica della morale. I fatti morali sono ridotti alla convenzione normativa di ciascuna società. Si tratta, però, di una riduzione che porta all’antirealismo, contrariamente, ad esempio, alla riduzione funzionalista che Harman criticava. L’antirealismo del convenzionalismo di Harman deriva dal fatto che la convenzione è da lui ritenuta, in gran misura, arbitraria. Agli individui che compongono la società, ad esempio, è concesso di decidere se vogliono accogliere il cannibalismo oppure no. Sebbene utile, la convenzione normativa è largamente arbitraria nei suoi contenuti. Non esistono quindi norme obiettivamente valide.

2.5.1. Ci occuperemo ora della critica al realismo morale di Mark

Timmons. L’obiettivo critico di Timmons è l’applicazione del coerentismo al realismo morale. La più influente versione del coerentismo è quella dell’equilibrio riflessivo.28 Secondo i sostenitori di questo metodo, i giudizi morali sono formulati in due modi diversi. Il primo è quello della vita quotidiana. Si tratta di giudizi intuitivi che ciascuno formula usualmente, quando, ad esempio, richiede il rispetto di un diritto, oppure giudica qualcuno, oppure fa delle affermazioni che riguardano l’interesse pubblico. Alcuni tra questi giudizi sono affidabili, perché li abbiamo raggiunti in condizioni cognitive pertinenti. Chiameremo questi giudizi giudizi morali ponderati, allo scopo di distinguerli dalle intuizioni non affidabili. C’è però un altro modo di formulare i giudizi morali. È quello praticato dai filosofi, che arrivano ai propri giudizi morali derivandoli dalle proprie costruzioni teoriche.

I sostenitori dell’equilibrio riflessivo affermano che ciascuno dei due modi di esprimere i giudizi morali è meritevole di considerazione. Di conseguenza, per raggiungere una completa giustificazione epistemologica delle credenze è necessario realizzare una coerenza tra i giudizi ponderati e le formulazioni teoriche. Un ulteriore passo nell’accrescimento dell’affidabilità dei giudizi morali sarà quello di renderli coerenti anche con tutte le credenze naturali, con ulteriori teorie non morali, ecc. Si parlerà, in questo ultimo caso, di equilibrio riflessivo ampio.

Dal punto di vista epistemologico, l’equilibrio riflessivo può essere interpretato in due modi. Il realista dice che fornisce la prova di una realtà morale indipendente. L’antirealista afferma che l’equilibrio riflessivo rappresenta una costruzione e non la scoperta di una presunta realtà. Timmons abbraccia la seconda posizione.

2.5.2.1. Solitamente, sono due le obiezioni rivolte alla connessione tra

realismo e coerentismo. La prima sostiene che i coerentisti non sono in grado di assicurare che ci siano degli input dalla realtà esterna al sistema concettuale del soggetto conoscente. Senza una simile garanzia, i coerentisti non potranno sostenere che la loro metodologia guida alla scoperta di una qualche realtà. L’altra obiezione sostiene che per ogni sistema di credenze coerente può esistere almeno un sistema alternativo senza che vi sia una possibilità di selezione. I sostenitori del realismo possono replicare in due modi diversi.

2.5.2.2. Il primo è quello di ammettere che non disponiamo

attualmente di una garanzia del fatto che le nostre credenze sono il risultato di

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input dall’esterno, ovvero del fatto che queste credenze riproducono una realtà esterna, ma di aggiungere che ciò non è eccessivamente preoccupante. L’approccio giusto è quello di trovare prima qual è il sistema morale massimamente coerente, e in ciò ci soccorre in maniera adeguata il metodo dell’equilibrio riflessivo. In questo modo, riusciremo a sapere quali giudizi ponderati sono candidati ad una giustificazione epistemologica completa, alla quale provvedere in seguito.

Consideriamo questa strategia più dettagliatamente. Dobbiamo partire da un insieme di giudizi morali ponderati. Questi giudizi non hanno ancora una piena giustificazione epistemologica, poiché non indicano a quale genere di realtà si riferiscono. La loro giustificazione completa si avrà soltanto quando verranno posti in relazione con una teoria morale. La teoria ci permetterà di spiegare la natura ontologica della realtà alla quale i giudizi ponderati si riferiscono. Una volta ottenuta questa spiegazione, sarà possibile l’indagine epistemologica pertinente, poiché l’epistemologo saprà quale tipo di conoscenza deve confermare. Ad esempio, se la teoria in equilibrio sarà una teoria deontologica, può darsi che l’epistemologo debba giustificare la conoscenza dei fatti non naturali. Oppure, la teoria può essere conseguenzialista. In questo caso, molto probabilmente, l’epistemologo dovrà affrontare la connessione fra giudizi morali e fatti naturali.

Timmons replica con tre obiezioni. La prima esprime scetticismo a proposito della possibilità di identificare un sistema massimamente coerente prima di aver trovato un criterio definitivo di selezione dei giudizi ponderati Sorvoliamo su questo problema. Una valutazione su questo punto può essere espressa soltanto in seguito a discussioni sul contenuto della morale e non in seguito a quelle metodologiche che stiamo affrontando. La seconda sostiene che non è corretto giustificare i giudizi ponderati appellandosi alla stessa teoria che essi dovrebbero selezionare. Timmons crede che una tale giustificazione guidi ad un esito antirealista e non a uno realista. Il problema principale non risiede nel fatto che i giudizi ponderati (che svolgono il ruolo delle osservazioni nelle scienze empiriche) siano impregnati di teoria. Egli accetta che anche nelle scienze empiriche le osservazioni siano impregnate di teoria, nel senso che l’abilità di realizzare alcune osservazioni dipende dal fatto che l’osservatore ha accolto alcune assunzioni teoriche. Questo, però, non è ancora sufficiente per comprometterne l’obiettività.

L’obiettività della scienza non è compromessa fino a quando è possibile mantenerne l’indipendenza, e quindi una neutralità, in relazione alle teorie che le osservazioni sono chiamate (in un certo contesto) a verificare. In breve, secondo la richiesta dell’indipendenza, le assunzioni teoriche dalle quali dipendono le osservazioni (ad esempio, quelle che ‘guidano’ le osservazioni) non devono favorire alcuna delle teorie plausibili in competizione che sono verificate da queste osservazioni.29

Cerchiamo di interpretare queste affermazioni. Le osservazioni sono guidate dalle teorie. Nel campo delle scienze empiriche, ciò non significa che siano guidate dalle teorie che devono verificare. Ad esempio, quando si verifica la teoria copernicana, le osservazioni sono guidate da una teoria diversa da quelle in competizione (compresa quella copernicana). Ma lo stesso non avviene nel campo dell’etica. Quando si verifica, ad esempio, la teoria di Rawls della

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giustizia come equità, i giudizi ponderati chiamati a verificare la teoria sono guidati dalla teoria stessa. E tuttavia, Timmons è in errore sia riguardo le scienze empiriche sia per ciò che concerne la morale. Innanzitutto, chi sostiene che le osservazioni empiriche sono impregnate di teoria solitamente afferma che esse sono guidate esattamente dalla stessa teoria che devono verificare. Anche se ciò che dà obiettività alla scienza è il fatto che le osservazioni non sono completamente guidate dalle teorie, non è vero che sia completamente assente l’effetto della teoria che si vuole verificare. Ma che cosa avviene nel campo dell’etica? Timmons non ci fornisce alcuna ragione per pensare che nel campo della morale i giudizi ponderati siano impregnati di teoria in un modo che possa condurci all’antirealismo, cioè in modo tale da essere condizionati fino al punto da non poter essere usati per verificare le teorie stesse.

L’affermazione che i giudizi ponderati non avrebbero potuto essere formulati se chi li formula non avesse accolto precedentemente degli assunti morali teorici incontra almeno due difficoltà. Nell’esposizione della prima difficoltà indicheremo come si possa dire che gli assunti teorici non hanno nulla a che vedere con i giudizi ponderati, proprio in quanto questi rappresentano le credenze morali stabilmente e in modo permanente accolte dal senso comune. Appare del tutto implausibile dire che il senso comune può averli accolti soltanto perché precedentemente ha abbracciato l’idea che sono validi quei giudizi morali che verrebbero espressi dietro a un velo d’ignoranza, oppure che risultano dall’analisi della natura universalistica e prescrittivistica del linguaggio morale, oppure da un’analisi del concetto di azione o da altre teorie morali.

L’altra difficoltà è costituita dal fenomeno della conversione morale. Immaginiamo il seguente esempio. Paolo ha letto molti libri di filosofia morale. Alla fine delle sue letture, accoglie una teoria ultralibertaria sul modello di quella raccomandata da Robert Nozick. Successivamente, viene a conoscenza del destino sfortunato di una persona, che muore di fame. Ritiene che una morte di questo tipo sia un caso di ingiustizia. In seguito a questa nuova credenza procede ad una revisione della propria teoria della giustizia. Questa revisione, però, non sarebbe stata possibile se i giudizi morali fossero impregnati e completamente condizionati dalla teoria che verificano. Le vicende dello sfortunato morto di fame avrebbero dovuto essere percepite, alla luce della teoria di Nozick, non come un caso di ingiustizia, bensì come un semplice caso di sfortuna.

Timmons potrebbe replicare dicendo che la revisione non segue razionalmente dall’adozione del nuovo giudizio, bensì è un fenomeno olistico di tipo irrazionale. Paolo, semplicemente, ad un certo momento ha deciso di rinunciare alla teoria precedentemente accolta e a tutte le sue conseguenze. Il problema di Timmons è spiegare perché lo avrebbe fatto. Ogni risposta non può che essere ad hoc (e, come tale, sospetta), perché, per una simile conversione non vi sono analogie con altri campi. L’analogia con le scienze non può essere di aiuto a Timmons, poiché nelle scienze naturali le conversioni teoriche avvengono in seguito ad un accumulo di anomalie (difficoltà) a danno di teorie precedentemente accolte. Questo fatto indica che vi è una certa indipendenza delle osservazioni dalle teorie e, quindi, se Timmons spiegasse la conversione morale con l’analogia con le scienze naturali dovrebbe riconoscere

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proprio quello che vuole negare: l’indipendenza dei giudizi ponderati. Non può funzionare neppure una comparazione con l’accoglimento e l’abbandono di mode. L’accoglimento di una moda è di per sé un atto limitato nel tempo, mentre l’adesione ad un paradigma morale rappresenta un impegno profondo del proprio sé.

Il fenomeno della conversione morale mostra l’indipendenza (almeno parziale) dei giudizi morali ponderati dalle teorie morali. Almeno un filosofo ha tentato di mostrare come da questo fenomeno si possa derivare una giustificazione diretta del realismo morale: Richard Werner.30 Osservando la conversione morale, si vede che l’osservazione di nuovi fenomeni può cambiare le credenze morali di un individuo. Werner interpreta questo fatto sostenendo che è la realtà che condiziona le percezioni morali. Se i giudizi morali derivassero esclusivamente dalla sensibilità interna del soggetto, questi cambiamenti non sarebbero possibili. L’antirealista, però, potrebbe replicare sostenendo che l’osservazione di questi fenomeni non fa che mutare la sensibilità interna del soggetto. Ad esempio, Paolo, conoscendo il triste destino di un povero, cambia semplicemente la sua sensibilità morale e non viene a conoscenza di una realtà morale esterna. Timmons, ovviamente, non può far uso di questo tipo di argomentazione, poiché essa si basa sulla supposizione che le conversioni morali siano, comunque, di carattere induttivo, cioè derivino da singole osservazioni, il che non sarebbe possibile se fosse una qualche prospettiva generale a determinarle. Timmons non può neppure appellarsi ad argomenti simili a quelli esposti nel campo della filosofia della scienza da epistemologi quali Paul Feyerabend oppure Thomas Kuhn. Secondo tali posizioni le teorie determinerebbero pure gli standard di valutazione delle osservazioni che sono chiamate a verificarle. Una teoria, quindi, sarebbe allo stesso tempo anche uno standard epistemologico.31 Ma, le teorie in equilibrio riflessivo determinano gli standard di giustificazione soltanto nel senso debole di indicare all’epistemologo quali tipi di fatti devono essere conosciuti e, quindi, quale genere di conoscenza si deve giustificare. Una volta stabilito ciò, l’epistemologo svolge il proprio compito in modo del tutto autonomo.

In questo senso, contrariamente a quanto ritiene Timmons, la situazione non è diversa rispetto a quella presente nelle scienze e nella filosofia della scienza. Anche in questi campi, le teorie devono determinare quali categorie di fatti devono essere supposte e soltanto allora l’epistemologo può iniziare la discussione sull’obiettività del campo messo a tema. Ciò non appare evidente se (come sembra fare Timmons) pensiamo che le scienze operino soltanto con fatti osservabili. In realtà, le scienze operano con fatti che variano in relazione all’osservabilità. Ci sono fatti osservabili, fatti che lo sono in via di principio, fatti non osservabili neppure in via di principio, fatti osservabili con gli strumenti offerti dalle tecniche attuali. Soltanto dopo aver determinato con quali fatti abbiamo a che fare, possiamo aprire una discussione epistemologica riguardante l’obiettività.32

Il terzo argomento messo in campo da Timmons è, in effetti, un argomento valido, la cui forza può essere ancora maggiore di quella che Timmons è disposto a riconoscergli. Timmons constata che il tentativo coerentista intende indicare come il metodo dell’equilibrio riflessivo ci conduca alla verità. Tuttavia, se allo stato attuale non disponiamo di una prova

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dell’affidabilità dei giudizi ponderati, non possiamo sostenere che il metodo dell’equilibrio riflessivo ci conduca alla verità. La nostra affermazione sarebbe soltanto un atto di fede. Questo argomento è, in realtà, sufficiente a mostrare la preferibilità di un approccio diverso rispetto a quello che stiamo discutendo. Anziché iniziare il dibattito epistemologico risolvendo l’obiezione dei sistemi coerenti alternativi, sembra preferibile cercare di dare una risposta almeno prima facie alla domanda se ci siano delle buone ragioni per pensare che i giudizi ponderati siano una risposta agli input del mondo esterno. Si cercherà di presentare una soluzione a questo problema nei capitoli successivi.

1 Per questa interpretazione in Italia, si veda, ad esempio, S. Castignone, Naturalismo o

emotivismo? Un dilemma dell’etica humeana, “Rivista di filosofia, 1971, pp. 69-89. 2 Per un accenno a questa possibilità, vedi E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica

contemporanea, Bari, Laterza, 1991. 3 Vedi, ad esempio R.J. Glossop, On Understanding the Ethics of David Hume, “Rivista di

filosofia”, 1971, pp. 257-265. 4 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 483. 5 Ivi, p. 490-491. 6 Ivi, p. 496-497; sul ruolo della ragione nella filosofia morale di Hume, vedi anche P.

Marrone, Il ruolo della ragione nella filosofia pratica di Hume - Questioni e problemi, “Giornale di metafisica”, 1971, pp. 299-330.

7 J.L. Mackie, Hume’s Moral Theory, London, Routledge and Kegan Paul, 1980, p. 2. 8 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 497. 9 Ivi, p. 498. 10 Ivi, p. 504. 11 J.L. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, cit., p. 34. 12 Ivi, p. 35. 13 Ivi, p. 37. 14 J. Finnis, Fundamentals of Ethics, Georgetown, Georgetown University Press, 1983, p.

57-60. 15 J.L. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, cit., p. 40. 16 S. Blackburn, Moral Realism, in J. Casey (a cura di), Morality and Moral Reasoning,

London, Methuen, 1971; Spreading the World, Oxford, Oxford University Press, 1984, pp. 182-187; per un’esposizione più tecnica, vedi Supervenience Revisited, in G. Sayre-McCord (a cura di), Essays in Moral Realism, Ithaca, Cornell University Press, 1988.

17 S. Blackburn, Moral Realism, cit., p. 111. 18 S. Blackburn, Spreading the World, cit., p. 198. 19 S. Blackburn, Errors and the Phenomenology of Values, in T. Honderich (a cura di),

Morality and Objectivity, London, Routledge and Kegan Paul, pp. 10-11. 20 Vedi S. Blackburn, How to Be an Ethical Antirealist, “Midwest Studies in Philosophy”,

1987, pp. 370-371. 21 S. Blackburn, Rule Following and Moral Realism, in S. Holtzman e C.M. Leich (a cura

di), Wittgenstein: To Follow a Rule, London, Routledge and Kegan Paul, 1981, pp. 177-178. 22 G. Harman, The Nature of Morality, Oxford, Oxford University Press, 1977, p. 7. 23 Ivi, p. 16. 24 Ivi, p. 60. 25 G. Harman, Moral Relativism Defended, “Philosophical Review”, 1975, ora in L.

Pojman (a cura di), Ethical Theory: Classical and Contemporary Readings, cit., p. 34. 26 G. Harman, Is There a Single True Morality, in D. Copp e D. Zimmerman (a cura di),

Morality, Reason and Truth, Totowa, New Jersey, Rowman and Allanheld, 1984, p. 38. 27 Ivi, p. 31. 28 Per il metodo dell’equilibrio riflessivo, vedi J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano,

Feltrinelli, 1984, pp. 56-58 (A Theory of Justice, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1971); N. Daniels, Wide Reflective Equilibrium and Theory Acceptance in Ethics, “The Journal of Philosophy”, 1979, pp. 256-282.

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29 M. Timmons, On the Epistemic Status of Considered Moral Judgments, “The Southern

Journal of Philosophy”, 1990, Supplement, p. 109. 30 Per l’esposizione di Werner, vedi R. Werner, Ethical Realism, “Ethics”, 93, 1983, pp.

653-679 e Ethical Realism Defended, “Ethics”, 95 , 1985, pp. 292-296. Per le critiche a Werner, vedi B.C. Postow, Werner’s Ethical Realism, “Ethics”, 85, 1985, pp. 285-291 e B. Bercic, Realizam, relativizam, tolerancija, Fiume, Hrvatski kulturni dom, 1995, pp. 34-36.

31 T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978 (The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, Chicago University Press, 1962); P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1990 (Against Method: Outline of an Anarchist Theory of Knowledge, London, Verso, 1975).

32 Per una discussione riguardante la posizione epistemologica dei fatti non osservabili nella scienza, vedi. B. van Fraasen, L’immagine scientifica, Bologna, CLUEB, 1985 (The Scientific Image, Oxford, Oxford University Press, 1980); M. Devitt, Realism and Truth, Oxford, Blackwell, 1984, pp. 125-134; P.M. Churchland, La natura della mente e la struttura della scienza, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 97-116 (A Neurocomputational Perspective. The Nature of Mind and the Structure of Science, Cambridge, Mass., MIT Press, 1989); B. Bercic, Znanost i istina. Realizam i instrumentalizam u filozofiji znanosti, Fiume, Hrvatski kulturni dom, 1995, pp. 38-43.

Capitolo terzo

Non c’è alcuna oggettività

3.1. L’antirealismo di Rorty è radicale e si applica ad ogni campo del sapere. Inizieremo con l’esposizione della sua dottrina filosofica generale (volta all’affermazione dell’assenza di principi razionali e cognitivi universali) e passeremo successivamente all’esposizione della sua filosofia morale.

Rorty sostiene una divisione basilare tra due diversi modi di intendere la filosofia: quello dei metafisici e quello degli ironici. I metafisici sono coloro che pensano di avere a che fare con verità necessarie e che ritengono che lo scopo della filosofia sia di scoprirle. Gli ironici, invece, ammettono di operare con conoscenze contingenti, dettate da scelte che si basano su influenze contingenti (come la lettura di romanzi, o il contatto con altre esperienze di vita), piuttosto che su fondamenti razionali. Rorty è un fautore di quest’ultima prospettiva e, conseguentemente, non cerca una fondazione neppure per la proposta ironica, bensì si limita a proporla, auspicando che la descrizione che ne fornirà sia in grado di convincere i lettori.

La filosofia più interessante non è quasi mai quella che esamina i pro e i contro di una tesi ma quella, di solito, che rappresenta, implicitamente o esplicitamente, la competizione tra un vocabolario accettato e un vocabolario nuovo, non ancora completamente articolato, che promette veramente grandi cose.Quest’ultimo ‘metodo’ della filosofia è lo stesso della politica utopistica o della scienza rivoluzionaria (in contrapposizione alla politica parlamentare e alla scienza normale). Il metodo consiste nel ridescrivere in modo nuovo moltissime cose fino a creare un modello di comportamento linguistico che la nuova generazione sarà spinta ad adottare.1

Cerchiamo di definire con maggior precisione le differenze tra l’approccio metafisico e quello ironico. Ciò può essere proficuamente fatto confrontando i loro diversi atteggiamenti nei confronti della scienza e nei confronti della verità. Il metafisico assume la scienza come paradigma dell’attività umana ed è convinto che possa condurre alla scoperta della verità. L’ironico, invece, vede nella scienza un’attività umana fra le altre e le nega il privilegio di essere «luogo d’incontro tra l’uomo e una realtà ‘solida’, non umana.»2 Secondo l’ironico, infatti, la posizione privilegiata della scienza decade quando decade l’idea stessa che vi sia una realtà esterna, oggetto di scoperta. Secondo l’ironico, in conclusione, la verità è una costruzione. Questa posizione può essere ulteriormente compresa e sviluppata, se si passa a vedere quali sono le differenze tra il metafisico e l’ironico nel campo della filosofia del linguaggio.

A parere di Rorty, i metafisici ritengono che vi sia un’essenza dell’uomo e che, fra i molti linguaggi formulabili per descriverla, vi sia soltanto un linguaggio corrispondente a questa essenza. Ritenendo che ci siano delle essenze (ovvero qualità fondamentali e immutabili), infatti, è ovvio pensare che esistano anche delle divisioni obiettive nella natura e che lo scopo del linguaggio sia quello di cogliere queste differenze catalogandole nei concetti linguistici. Il linguaggio che riuscirà a compiere quest’opera sarà quello da

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privilegiare. Visto il criterio per la scelta dei linguaggi (la corrispondenza con la realtà esterna), si può dire che, secondo i metafisici, anche i linguaggi, così come le teorie scientifiche, sono delle scoperte. Che vi sia un concetto ‘cane (o, indifferentemente, ‘dog’, oppure ‘pas’) e che vi sia un concetto ‘gatto’ (o, ‘cat’, oppure ‘macka’) sarebbe una scoperta, poiché equivarrebbe a constatare che vi sono delle qualità fondamentali, in grado di accomunare i cani da un lato ed i gatti dall’altro, in quanto speci naturali. Allo stesso modo, sarebbe una scoperta che non vi sono caratteristiche fondamentali in grado di rendere i cani ed i gatti una specie naturale di fronte ai cavalli. Di conseguenza, sarebbe anche una scoperta la vacuità di un concetto linguistico che accomunasse cani e gatti, di contro ai cavalli.

Rorty, invece, ritiene che i linguaggi siano oggetto di costruzione e non di scoperta, dal momento che nega che vi siano essenze tanto nella realtà esterna, quanto in quella umana. Le essenze non sarebbero espresse dai linguaggi, bensì sarebbero create dai linguaggi. Secondo Rorty, quindi, non vi sono caratteristiche fondamentali in grado di accomunare, ad esempio, i cani da un lato, i gatti da un altro, i cavalli da un terzo, piuttosto che i cani ed i gatti da un lato ed i cavalli da un secondo e, quindi, non vi è neppure una fondata esigenza del linguaggio di rispecchiare divisioni naturali. Siamo noi, costruendo i nostri linguaggi ed i nostri schemi concettuali, che stabiliamo le divisioni ‘naturali’. In tal modo, si riesce a spiegare anche l’affermazione riportata già sopra, secondo la quale la verità non sarebbe una scoperta, bensì una costruzione. La verità, secondo Rorty, è una proprietà dei linguaggi e non una proprietà del mondo. Da quest’ultima affermazione, legata a quella che afferma che i linguaggi sono oggetto di costruzione, si conclude che la verità stessa è oggetto di costruzione.

Si può illustrare ulteriormente la posizione ironica facendo uso di una metafora sulla differenza tra mezzo e strumento ed osservando come la prospettiva metafisica veda il linguaggio come mezzo, quella ironica come strumento. Secondo la concezione tradizionale, infatti, il linguaggio è un mezzo di rappresentazione o di espressione. Nella prospettiva ironica, invece, il linguaggio è funzionalmente identico ad altri strumenti (come quelli dell’idraulico o del falegname). Il modo di selezionare i linguaggi non è più collegato alla loro adeguatezza nella descrizione del mondo. I linguaggi, invece, vengono selezionati in base alla loro praticità.

Dire che il proprio linguaggio di prima era inadeguato per affrontare un qualche pezzo di mondo (ad esempio, il cielo stellato sopra di noi, o le devastanti passioni dentro di noi) significa dire semplicemente che adesso, avendo appreso un nuovo linguaggio, sappiamo cavarcela meglio.3

Con ciò si arriva ad ammettere la contingenza del nostro linguaggio e di tutta la nostra cultura.

Questa analogia ci porta a considerare il ‘nostro linguaggio’ – e perciò la scienza e la cultura dell’Europa novecentesca – come qualcosa che si formò a causa di molti fatti meramente contingenti. Il nostro linguaggio e la nostra cultura sono un caso, il risultato di migliaia di mutazioni genetiche che trovarono una nicchia (e di milioni di altre che non ne trovarono alcuna), allo stesso modo delle orchidee e degli antropoidi.4

Rorty, quindi, si oppone con argomenti connessi di epistemologia e filosofia del linguaggio alle pretese di fondare il liberalismo in modo

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universalistico.5 Questi argomenti colpiscono la fondazione universalistica in due modi: (i) si nega che esistano verità immutabili, indipendenti dall’uomo; (ii) si nega che esista un’essenza umana necessaria, diversa da quella che noi creiamo contingentemente con le descrizioni di noi stessi; di conseguenza, si nega pure che esistono delle verità morali, che sarebbero tali in quanto corrispondenti all’immutabile essenza dell’uomo. Fondamentalmente è, a questo proposito, l’utilizzo rortiano delle teorie psicoanalitiche di Freud.

3.2. Freud ha mostrato come ogni personalità sia composta da un

intreccio di desideri e credenze, che dipendono dalle vicende personali dell’individuo che li possiede. Da questo assunto, Rorty conclude che non vi è alcuna essenza umana permanente, bensì soltanto storie individuali di ciascuno di noi.

La sua unica utilità consiste nel farci volgere dall’universale al concreto, dal tentativo di trovare verità necessarie, credenze ineliminabili, ai fatti contingenti idiosincratici del nostro passato individuale, all’impronta cieca che recano tutti i nostri atti.6

Anzi, Freud arriverebbe a dire qualcosa di più, e, cioè, che in ogni persona vi è un tale livello di intreccio psicologico, che è possibile immaginare che in ciascuno siano presenti più di una personalità, ognuna internamente coerente.

Freud non popolò lo spazio interiore con degli analoghi dei corpuscoli boyliani, ma con analoghi di persone – folle internamente coerenti di credenze e desideri.7

Questa indagine psicologica ha delle conseguenze immediate a riguardo della fondazione della morale.

Rifiutare l’idea di ‘vero essere umano’ significa abbandonare il tentativo di

divinizzare l’io al posto del mondo. Significa sbarazzarsi dell’ultima cittadella della necessità, dell’ultimo tentativo di porre tutti gli uomini di fronte a medesimi imperativi, alle medesime richieste incondizionate.8

Vi è un secondo modo nel quale Freud, nella lettura di Rorty, contesta ogni fondazione razionalistica della morale. Per la prospettiva razionalistica, infatti, è essenziale che vi sia una differenza qualitativa fondamentale tra la parte razionale e la parte passionale dell’essere umano. È la parte razionale ad essere a contatto con la verità morale e, quindi, essa svolge il ruolo di guardiano delle passioni. Con Freud, interpretato nella prospettiva ironica, la distinzione si perde. Tutte le parti della psiche di una persona sono il risultato della sua storia personale e ciascuna sviluppa una propria logica interna.

Esistono soltanto forme diverse di adattamento che ognuno esibisce di fronte alle proprie mutevoli vicende personali.

Freud ci insegna a concepire sia il superuomo nietzscheano sia la coscienza morale comune di Kant come due tra le molte forme di adattamento, due tra le molte strategie per far fronte ai fatti contingenti della propria educazione, per venire a patti con un’impronta cieca.9

Il liberale – ironico, borghese, postmoderno – non coltiva più alcuna pretesa fondativa.

Per gli ironici liberali la domanda ‘Perché non dovremmo essere crudeli?’ non ha risposta – la convinzione che la crudeltà è una cosa orribile non ha alcun

sostegno teorico –. Chiunque pensi che esistono risposte ben fondate a

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questo genere di domande – algoritmi che risolvono i dilemmi morali di questo tipo – dentro di sé è ancora o un teologo o un metafisico. Crede in un ordine atemporale e immutabile che determina lo scopo dell’esistenza umana e stabilisce una gerarchia di responsabilità.10

Tuttavia, pur rinunciando ad una fondazione della morale, Rorty non rinuncia ad alcuni particolari valori morali, come quelli delle società liberali. Si tratta di ordinamenti caratterizzati dalla massima libertà e tolleranza reciproca dei suoi membri. Detto in termini di storia del pensiero, si può dire che Rorty si inserisce nella tradizione che va da John Stuart Mill, fino a pensatori contemporanei come Rawls, Ronald Dworkin, Bruce Ackerman ed altri. I valori politici che caratterizzano questa tradizione e che Rorty vuole promuovere sono quelli della tolleranza e della solidarietà. Il quesito che si pone a questo punto è come giustificare l’accoglimento di questa posizione etico-morale e filosofico-politica. La strategia tradizionale è quella di derivarla da alcune premesse filosofiche. Però, proprio questo è ciò che secondo Rorty non si può fare.

Non intendo dire, tuttavia, che le concezioni davidsoniana-wittgensteiniana del linguaggio e nietzscheana-freudiana della coscienza e dell’io che ho delineato forniscono i ‘fondamenti filosofici della democrazia’. Il concetto di ‘fondamento filosofico’ si dilegua, infatti, insieme al vocabolario del razionalismo illuministico.11

Al massimo si può dire che la visione ironica può dare delle motivazioni in favore del liberalismo, indicando delle similarità con questa dottrina politica. Entrambe negano che ci siano delle forze esterne alla nostra volontà alle quali dovremmo adeguarci e conformare le nostre credenze ed i nostri atteggiamenti.

La differenze tra la ricerca di fondamenti e il tentativo di ridescrizione è emblematica della differenza tra la cultura del liberalismo e le precedenti forme di vita culturale. Perché idealmente la prima sarebbe una cultura da cima a fondo illuminata, secolare, una cultura in cui non rimarrebbe traccia della divinità, abbia questa la forma di un mondo divinizzato o di un io divinizzato. In essa non avrebbe posto l’idea che esistono forze non umane di fronte a cui gli uomini sarebbero responsabili.12

Rorty identifica un aspetto non liberale nel metodo metafisico nella sua tendenza a cercare un terreno neutrale sul quale giudicare i diversi giochi linguistici contrapposti. Questo terreno, infatti, sarebbe possibile soltanto se ci fosse un ordine precostituito, in grado di impedire alcune mosse intellettuali e favorirne altre.

Nella pratica un punto morto, cioè non artificiale e teorico potrebbe esistere soltanto se certi argomenti e giochi linguistici fossero tabù: se in una società ci fosse accordo sul fatto che determinati problemi sono sempre rilevanti, che alcune questioni hanno la precedenza sulle altre, che c’è un ordine fisso della discussione e che non sono lecite le mosse di aggiramento. Questo sarebbe esattamente il tipo di società che i liberali cercano di evitare.13

I liberali, contrariamente ai metafisici, vogliono una società caratterizzata dalla più ampia apertura intellettuale, dove non ci sono temi proibiti, dove l’esito delle nostre azioni e dei nostri ragionamenti, per essere valido, non conosce altre regole se non quelle di rispettare la libertà dell’esposizione di tutte le ragioni ed essere accolto in seguito a una simile disputa.

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Ma questa discussione sulle analogie, non è troppo importante come motivazione determinante a favore dell’accettazione e della promozione del liberalismo. Il liberalismo, secondo Rorty, per noi – individui post-metafisici –, non ha bisogno di alcuna fondazione, né di particolari motivazioni che provengano dalla filosofia. È determinante il fatto di essere cresciuti in una tradizione liberale, essere stati educati in questa tradizione ed aver constatato che questa tradizione ha dato dei buoni risultati.

Nella misura in cui la giustizia diviene la prima virtù di una società, la necessità di una tale legittimazione può gradualmente cessare di essere avvertita. Tale società si adatterà al pensiero che la politica sociale non ha bisogno di altra autorità che quella costituita da un accordo coronato da successo tra individui che si scoprono eredi delle stesse tradizioni storiche e posti di fronte agli stessi problemi.14

E, ancora, parlando dell’adesione ad un sistema morale:

Non vi è alcun ‘fondamento’ per tali lealtà e convinzioni se si eccettua il fatto che le credenze, i desideri e le emozioni che le sorreggono si sovrappongono a quelle di molti membri del gruppo con cui ci identifichiamo ai fini di scelte morali o politiche, e l’ulteriore fatto che queste sono caratteristiche distintive di quel gruppo.15

È per questo motivo che i filosofi che incontrano le simpatie di Rorty dedicano molto impegno a ricostruire la storia del mondo occidentale come una storia del progresso nel quale le democrazie liberali contemporanee sono viste come parte dello stesso movimento che ha portato all’abolizione della schiavitù o del feudalesimo.16 Rorty conia anche un nome per il tentativo di difesa dei valori della civiltà sviluppatasi sull’Atlantico settentrionale (con il che vuole indicare la civiltà occidentale), tentativo oramai al di là di qualsiasi dottrina filosofica metafisica: liberalismo borghese postmoderno.17 Il liberalismo borghese postmoderno ritiene che quelli che tradizionalmente sono pensati come principi filosofici fondanti sono soltanto dei validi modi per riassumere gli atteggiamenti morali già presenti nella tradizione, non per giustificarli.

In altre parole, il liberalismo, come qualsiasi altra dottrina, non ha bisogno di alcuna fondazione, fino a quando siamo disposti a sostenerlo. Se cessassimo di farlo, nessuna fondazione filosofica sarebbe in grado di salvarlo.

Che le società liberali siano tenute insieme da convinzioni filosofiche mi sembra un’idea ridicola. Le società sono tenute insieme dai vocabolari comuni e dalle speranze condivise.18

Fino a quando continuiamo ad essere eredi della tradizione dalla quale deriviamo, non solo possiamo esserlo senza alcuna necessità di fondazione, ma addirittura ogni posizione radicalmente opposta non può che sembrarci inaccettabile in quanto abnorme, addirittura tale da rendere impossibile una qualsiasi discussione.

Noi eredi dell’illuminismo riteniamo che nemici della democrazia liberale come Nietzsche o Loyola siano dei folli, per usare il termine di Rawls. Ciò si verifica perché non c’è modo di considerarli come concittadini della nostra democrazia costituzionale, come persone i cui progetti di vita potrebbero, con un po’ di ingegno e di buona volontà, essere adattati a quelli degli altri cittadini.19

È per questo motivo che, anche quando guardiamo ad altre civiltà come a possibili suggestioni per innovazioni all’interno della nostra, non possiamo

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pensare al nostro futuro senza immaginare che esso incorpori quelle riforme già compiute dai nostri predecessori per le quali li applaudiamo.20

Per rafforzare e confermare l’adesione alle proprie istituzioni, i liberali ironici piuttosto che ai filosofi ricorreranno a suggerimenti che provengono dal terreno artistico.

L’ironico legge i critici letterari e ne fa i suoi consiglieri semplicemente perché questi hanno una rete di conoscenze eccezionalmente vasta. Essi sono i suoi consiglieri morali non perché hanno una speciale via d’accesso alla verità morale, ma perché hanno molta esperienza. Hanno letto più libri e di conseguenza hanno meno probabilità di restare intrappolati nel vocabolario di un unico libro.21

Certamente, Nietzsche e Loyola possono continuare a sostenere i propri punti di vista e, a loro volta, ribattere dicendo che il tipo di società proposto dai liberali produce dei caratteri indesiderabili.22 In mancanza di una possibilità di argomentare razionalmente contro gli oppositori, potrebbe dire un critico di Rorty, non rimane che la violenza. Rorty, tuttavia, non pensa che questo sia un esito necessario e, anzi, ribadisce di potersi differenziare dai sostenitori del totalitarismo.

Contro questa assimilazione al nazismo dell’inevitabile etnocentrismo del pragmatista mi soffermerei sul fatto che vi è un’importante differenza fra il dire ‘Ammettiamo di non poter giustificare le nostre credenze e speranze’ e il dire, come i nazisti, ‘Non ci interessa affatto di legittimare noi stessi agli occhi degli altri.23

La strategia da adottare verso gli interlocutori con cui siamo in opposizione radicale è quella di fornire delle descrizioni, contrapposte alle loro, in grado di motivarli a cambiare il loro atteggiamento e ad adottare il nostro. Così, il liberale potrebbe ribattere a Nietzsche e Loyola dicendo che

anche se i caratteristici tipi caratteriali delle democrazie liberali annoverano individui grigi, calcolatori, mediocri e scevri da eroismo, la prevalenza di tali individui può essere un prezzo ragionevole da pagare per la libertà politica.24

Oppure, rivolgendosi ad un altro nemico radicale del liberalismo, cioè al nazista, Rorty dice che:

Io posso tentare di mostrargli come possono essere belle le cose nelle società libere, come possono essere orribili nei campi nazisti, come il suo Führer può essere ridescritto plausibilmente come un paranoico ignorante piuttosto che come un profeta ispirato, come il Trattato di Versailles può essere ridescritto come un compromesso ragionevole piuttosto che come una vendetta, e così via.25

La tattica principale sarà quella di appellarsi a descrizioni letterarie, sociologiche e antropologiche adatte a motivare l’adesione al liberalismo. Coerentemente con ciò, Rorty indica quanto George Orwell ed altri scrittori, nei loro romanzi o poesie, abbiano potuto fare per lo sviluppo del liberalismo.

In una società liberale, per come idealmente la concepisco io, l’eroe culturale sarebbe il ‘poeta forte’ di Bloom e non il guerriero, il sacerdote, il saggio e lo scienziato ‘logico’, ‘oggettivo’, dedito alla ricerca della verità.26

Un modo per promuovere il liberalismo, quindi, è quello di appellarsi alle descrizioni letterarie che indicano quanto negative possono essere le società che non rispettano la libertà e alle descrizioni letterarie che promuovono i

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caratteri forti, edificatori del proprio destino. La promozione sociale di queste personalità dovrebbe favorire e sviluppare lo spirito di tolleranza. Su questo punto c’è da dire che in Rorty sussiste più di qualche ambiguità. Da un lato, egli sembra dire che la diffusione di personalità (letterarie) liberali borghesi postmoderne, come in seguito ad una sorta di ‘mano invisibile’, genererà il sostegno alla società liberale. Dall’altro lato, però, Rorty indica anche i pericoli che possono nascere dalla volontà di temperamenti autonomi di trasportare le proprie idiosincrasie, i propri linguaggi originali nella propria azione pubblica e auspica che i grandi intellettuali lascino la propria autonomia alla sfera della vita privata, mentre nella vita pubblica si impegnino per il sostegno alle istituzioni liberali esistenti.27 Non approfondiremo questi dettagli. Per la nostra discussione è sufficiente constatare la convinzione di Rorty che la presentazione di descrizioni adeguate possa esercitare un ruolo decisivo nella riconferma del sostegno e nella diffusione del liberalismo, tanto presentando la negatività delle società antiliberali, quanto rendendo apprezzabili i temperamenti autonomi, tenendo presente che questo ultimo scopo non viene realizzato, probabilmente, nel modo ottimale quando gli stessi intellettuali vogliono essere protagonisti, con le loro idiosincrasie, della vita pubblica.

Passiamo al secondo genere di descrizioni che possono contribuire a diffondere il sostegno al liberalismo. Si tratta delle descrizioni in grado di suscitare una capacità di identificazione con l’altrui dolore e, quindi, di destare la solidarietà.

L’ironico liberale ritiene che l’unico vincolo sociale necessario è la consapevolezza del fatto che l’umiliazione è una sofferenza per tutti. Laddove per il metafisico ciò che contraddistingue tutti gli esseri umani dal punto di vista morale è il loro essere in relazione con uno stesso potere superiore – ad esempio la razionalità, Dio, la verità o la storia – per l’ironico la definizione di un individuo dal punto di vista etico, di un soggetto morale, ‘è qualcosa che può essere umiliato’. Il senso di solidarietà umana dell’ironico è fondato sulla percezione di un pericolo comune, non di un possesso comune o di un potere universale.28

E, ancora, parlando dell’ironico:

Secondo lui la solidarietà umana non dipende dall’avere una verità o un fine comune ma dall’avere una comune speranza egoistica, la speranza che il proprio mondo – le piccole cose di cui è formato il proprio vocabolario decisivo – non venga distrutto.29

Ossia:

I romanzi e gli studi etnografici che acuiscono la nostra sensibilità al dolore di chi non parla il nostro linguaggio devono svolgere l’incarico che si pensava svolgessero le ricerche di un’essenza umana universale. La solidarietà dev’essere costruita pezzetto per pezzetto: non è già lì che ci aspetta, sotto forma di un linguaggio primo che al momento buono tutti possiamo riconoscere.30

Proprio per questo motivo, Rorty consiglia la lettura di autori come Choderlos de Laclos e Vladimir Nabokov, che ci aiutano a capire la sofferenza che siamo in grado di provocare. Oppure, di antropologi come Clifford Geertz, che ci fanno conoscere civiltà diverse dalla nostra. Non solo non c’è alcun bisogno di ricorrere ad una fondazione metafisica universalistica, ma questa addirittura non avrebbe nulla da aggiungere alla desiderabilità del liberalismo.

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È bene specificare ulteriormente la proposta di Rorty, anche a costo di una certa ridondanza, per far capire chiaramente che le motivazioni che egli cerca per la solidarietà rientrano nella prospettiva ironica. Ad una prima lettura, infatti, si potrebbe pensare che, tutto sommato, con una simile ‘fondazione’ della solidarietà si sia tornati ad una forma di universalismo abbastanza tradizionale. Si sarebbe fondato quest’ultimo, partendo dalla ricerca di ciò che è comune a tutti gli esseri umani e che li mette in grado di sentirsi simili e provare un immediato senso di identificazione e somiglianza.

Tuttavia, Rorty nega che questo processo possa mai aver luogo. Gli esseri umani, nella sua interpretazione, non sono né simili né differenti, poiché non c’è alcuna essenza che permetta le operazioni di identificazione e reidentificazione; anzi, in considerazione dei diversi linguaggi che adottano, sono piuttosto dissimili che simili. La solidarietà, in sintesi, non è una molla, presente in ognuno di noi, pronta a scattare al riconoscimento di ciò che c’è di comune nella nostra essenza umana. Prova ne sia che, solitamente, c’è maggiore solidarietà all’interno di gruppi limitati, piuttosto che con l’umanità intesa nella sua interezza.

È, tuttavia, ambizione dei liberali ironici mettere in risalto, tramite particolari descrizioni, le somiglianze tra tutti gli esseri umani, in modo da costruire la solidarietà. I liberali ironici, per ripetere un concetto su cui già si è insistito, però non lo fanno pensando di ritrovare una essenza comune. Essi sono coscienti che altre descrizioni, come quelle dei razzisti, potrebbero mettere in risalto le differenze, piuttosto che le somiglianze, e, quindi, compromettere la solidarietà, anziché costruirla.

Nella mia società utopica la solidarietà umana non sarebbe considerata come qualcosa di cui si deve rendere conto liberandosi dei ‘pregiudizi’ o scavando in profondità nascoste, ma come un obiettivo da raggiungere. E non con la ricerca, ma con l’immaginazione: riuscendo, grazie all’immaginazione, a vedere gli individui diversi da noi come nostri simili nel dolore. La solidarietà non la si scopre con la riflessione: la si crea.31

Ancora una volta, i liberali ironici sostengono i propri valori, pur consci della loro contingenza.

3.3. La proposta di Rorty non è priva di difficoltà. Come conciliare

etnocentrismo e liberalismo? L’etnocentrismo è la prospettiva che proclama il maggior valore ed una certa esclusività della propria prospettiva. Il liberalismo, invece, promuove la tolleranza e la neutralità verso prospettive diverse. L’incompatibilità sembra evidente.

Tuttavia, l’etnocentrismo è un termine che può comparire a due diversi livelli. Uno è quello metaetico, il livello di discussione teorica delle diverse prospettive morali. L’altro è quello sostanziale, dove si contrappongono le diverse prospettive morali nei loro contenuti. Al primo livello, l’etnocentrismo si contrappone all’universalismo ed è a questo livello che Rorty lo accoglie. È al secondo livello che l’etnocentrismo si oppone al liberalismo. A questo livello, Rorty lo respinge.

Quindi, si può dire che anche il liberale, non disponendo di verità universali, né di prospettive universali, è etnocentrico, in quanto non può che far parte del proprio gioco linguistico e guardare il mondo e guardare gli altri

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esseri umani dalla prospettiva della propria tradizione e del proprio gruppo. Però la tradizione alla quale appartiene, a differenza di altre, gli impone l’apertura ad esperienze quanto più diversificate possibile. Per dirla con le parole dello stesso Rorty, la cultura liberale è orgogliosa di avere sempre nuove finestre aperte, per avvicinarsi a sempre nuove esperienze.32 È per questo che il liberale è pronto a tollerare e a cercare di conoscere esperienze profondamente diverse dalle sue. È per questo, inoltre, che la società liberale dà tanto potere agli antropologi e ad altre persone in grado di estendere l’attenzione generale a comunità ritenute diverse o, addirittura, incompatibili. Che questo sia un approccio utile, è confermato, secondo Rorty, dal fatto che la civiltà occidentale effettivamente riesce a realizzare un’estensione della propria solidarietà verso comunità aliene; basti pensare che, fino al secolo scorso, gli Indiani d’America non suscitavano reazioni diverse da quelle provocate da criminali, psicopatici o idioti del villaggio.

Con ciò risulta rafforzata la compatibilità tra la tolleranza liberale e la prospettiva ironica.

3.4. Un altro problema rilevante alla teoria di Rorty è formulabile nella

seguente obiezione: con la prospettiva ironica di Rorty non solo non si può fondare (come egli stesso riconosce) alcun sistema morale (e, quindi, neppure quello liberale), ma non si possono neppure trovare delle motivazioni sufficienti per alcun sistema morale (compreso quello liberale), neppure per il sistema morale connesso alla tradizione alla quale si appartiene.

Rorty stesso è cosciente dell’eventualità di questa obiezione e formula una possibile risposta. Egli, naturalmente, vuole affermare che è possibile assumere la prospettiva ironica e riconoscere la contingenza delle proprie credenze e, tuttavia, continuare a sostenerle. Nel fare ciò, Rorty si apparenta a quanto già detto da liberali quali Isaiah Berlin e Joseph Schumpeter, i quali avrebbero fatto proprio il credo che «riconoscere la validità relativa delle proprie convinzioni e ciononostante sostenerle risolutamente è ciò che distingue l’uomo civile dal barbaro».

L’obiezione affrontata da Rorty si basa sul fatto che appare intuitivamente contraddittorio credere in qualcosa e credere che questa credenza sia ‘solo relativamente vera’. È possibile secondo questa critica, credere in qualcosa soltanto se si ritiene che questa credenza colga una verità. La prospettiva ironica non può, quindi, che condurre al nichilismo.

Il problema è, secondo Rorty, risolvibile semplicemente adottando in modo completo il vocabolario ironico. Berlin e Schumpeter, infatti, pur abbracciando una visione ironica, continuano a usare un vecchio linguaggio, che impone loro i paradossi (o presunti tali) del relativismo. Nella terminologia ironica non c’è spazio per il relativismo e, quindi, neppure per i suoi paradossi, in quanto non c’è spazio per la posizione antitetica, cioè l’universalismo – o, nella terminologia di Rorty, l’assolutismo –.

L’assolutismo è la posizione che afferma che c’è una verità assoluta, mentre tutte le posizioni che vi si oppongono sono false. Per una simile posizione, ovviamente, nessuna credenza che non sia conforme a questa verità può essere accolta. Per il filosofo ironico una simile posizione, però, non è neppure a rigore concepibile. L’ironico nega che sia possibile assumere una

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posizione distaccata, neutrale, dalla quale valutare il peso specifico delle posizioni contrapposte, una posizione che Rorty equipara alla posizione divina. Possiamo soltanto giudicare quello che è razionale o irrazionale in base al nostro gioco linguistico, non ciò che lo è in senso assoluto.

Non si potrà più presupporre l’esistenza di uno schema generalissimo di riferimento in base al quale chiedere, ad esempio, ‘Se la libertà non ha un rango morale privilegiato, se è solo un valore tra i tanti, cosa si può dire allora a

sostegno del liberalismo?’ Né si potrà pensare che la cosa più razionale da

fare consiste nel porre questa libertà accanto agli altri candidati e usare poi la ‘ragione’ per esaminarli tutti attentamente e scoprire se ve ne è qualcuno, e quale, che è ‘moralmente privilegiato’. Solo a partire dal presupposto che esiste un punto di osservazione al quale innalzarsi ha senso chiedere ‘Se le proprie convinzioni sono valide solo in maniera relativa, perché sostenerle risolutamente?’.33

Il criterio di scelta, per l’ironico, non è né può essere la conformità ad una verità assoluta. Quindi, l’obiezione che egli accoglie credenze non conformi a questa verità viene semplicemente dichiarata insensata.

Per chi accetta tutto ciò non esiste la ‘posizione relativistica’, così come non esiste l’empietà per chi non crede nell’esistenza di Dio. In questo caso infatti non esisterà alcun punto di vista superiore verso cui essere responsabili o di cui poter magari infrangere i precetti.34

Il fatto importante, nella replica di Rorty, è il modo nel quale egli intende le credenze che risultano in un’adesione a determinate istituzioni sociali. Queste non sono l’effetto di un supporto epistemologico, bensì il risultato di un’adesione, un atto di fede o di amore.

Dobbiamo pensare che la fedeltà alle istituzioni sociali non è più relativa a una giustificazione fondata su premesse ben note e comunemente accettate – ma anche non più arbitrarie della scelta dei propri amici e dei propri eroi.35

Ma se l’unica fonte della motivazione morale fosse quella indicata da Rorty, la morale diverrebbe soltanto una fonte motivazionale tra le altre. Spesso si potrebbero riscontrare, infatti, motivazioni contrapposte ben più energiche. In questo modo, ad esempio, l’impulso egoistico potrà prevalere a pieno titolo sullo spirito liberale, se si apparterrà ad un gruppo avvantaggiato in grado di assoggettare gli altri. La morale, però, continuerà a dire il critico di Rorty, non può avere questo ruolo, poiché deve essere dominante sulle altre motivazioni.

A questo punto, Rorty può ribattere accusando il proprio critico di petitio principi. Che la morale debba avere assicurato il ruolo di motivazione superiore alle altre è un assunto contrario a quanto può ammettere la filosofia ironica; può averlo, ma non necessariamente. Il critico di Rorty, quindi, assume un fatto che è tutto da dimostrare e che costituisce, dal punto di vista della filosofia ironica, un pregiudizio della vecchia metafisica.

È possibile, però, rivolgere a Rorty un’obiezione più impegnativa. Prima della sua esposizione, è necessario prendere atto delle due posizioni tra le quali egli oscilla. La sua è una proposta estetico-pragmatista, poiché ciascun soggetto, o qualsiasi comunità, possono scegliere il proprio sistema morale in base ai propri gusti personali (o collettivi), oppure strutturarlo nel corso del tempo in un rapporto dialettico tra determinazioni e necessità pratiche stabilite dall’eredità culturale e dalle innovazioni dettate da cambiamenti di gusto o

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preferenze. La sua proposta ha però anche un’inclinazione funzionalista, poiché esistono effettivamente delle necessità obiettive, che riguardano tutta l’umanità, e la scelta di un codice morale dipende pure da quale è il modo migliore di organizzare le comunità. Abbiamo visto il valore che Rorty attribuisce ad autori come Orwell, in grado di mostrare quanto siano brutte le cose in ordinamenti totalitari. Abbiamo, anche, visto in che modo Rorty pensa di poter convertire un nazista: indicandogli i vantaggi della società liberale rispetto a quella totalitaria. Sembra, quindi, che ci siano problemi comuni a persone diverse, con il che si apre proprio la prospettiva funzionalista indicata sopra.

Eppure, pare che così non possa essere. Per il funzionalismo organizzazioni, codici morali, atti mentali, prospettive di vita sono funzionali a qualcosa (di solito un ordine di problemi) che sussiste nella realtà. Per Rorty, invece, la natura umana è variabile, è essa stessa una scelta per la quale individui o comunità possono optare. Rorty abbraccia con decisione questa posizione nelle sue discussioni sulla solidarietà che abbiamo presentato. Anche la priorità della democrazia sulla filosofia è la formulazione di un sistema morale che non è null’altro che una sistemazione delle intuizioni morali già vive nella comunità, quindi, una sistemazione delle preferenze presenti. Questo sembra annichilire il funzionalismo rintracciabile, episodicamente, in Rorty. È vero che una volta stabilitasi una natura (un insieme di preferenze), parte della riflessione morale riguarderà anche il modo più funzionale di dare un’organizzazione alla comunità umana, relativamente a questa natura (sebbene si tratti una natura posta e non data). Tuttavia, questa riflessione sarà soltanto secondaria e strumentale ad una scelta precedente: quella dei valori e delle preferenze che si vogliono abbracciare. L’opzione per la parte più propriamente normativa del sistema morale è il risultato di una scelta precedente, dettata da insiemi di preferenze e non da una natura umana data. L’elemento funzionalista, nel pensiero di Rorty, quindi, è secondario, mentre è fondamentale l’elemento estetico-pragmatico.

Neppure questa conclusione, però, è del tutto pacifica. Ricordiamoci del fatto che, secondo Rorty, la scelta di un linguaggio (e quindi dell’elemento basilare di una cultura) rappresenta un adattamento ecologico, una risposta a necessità dettate da fattori dati. Ricordiamoci anche del fatto che Rorty è arrivato a identificare dei tratti comuni nelle diverse situazioni umane.

L’antropologo e l’indigeno si trovano in accordo, dopo tutto, su un enorme numero di luoghi comuni. Di solito condividono credenze relative, per esempio, alla desiderabilità di trovare sorgenti, al pericolo di accarezzare un serpente velenoso, al bisogno di ripararsi in caso di cattivo tempo, alla tragedia della morte delle persone amate, al valore del coraggio e della resistenza, e così via.36

Se è così, però, Rorty si trova di fronte ad un problema di notevole spessore. La scelta dei sistemi morali non è più una scelta estetica; è una scelta di nuovo funzionale nel senso che abbiamo visto. E con ciò stesso, viene inoltre ridimensionato anche l’elemento ironico, che intendeva dismettere completamente il concetto di verità. Se l’accoglimento di una tradizione culturale corrisponde ad un adattamento ecologico, sembra riaperta la possibilità di dire che è vero che ci sono dei bisogni umani, seppure relativi a situazioni ecologiche diverse, ed è vero che ci sono delle risposte in grado di

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soddisfare questi bisogni. Altrimenti, non si vede che senso abbia parlare di risposte a problemi ecologici. La scelta di una tradizione non sarebbe altro che un completo arbitrio. Sembra che nel pensiero di Rorty ci sia quanto meno una tensione autentica: quella tra il voler rappresentare una piena libertà di scelta dei codici morali e quella tra il volere fare di questi codici delle risposte a dei problemi. Per quale delle due possibilità optare?

Rorty ha parlato delle motivazioni che si possono fornire a favore della solidarietà e le ha trovate nella possibilità di dare delle descrizioni degli altri che li renda simili a noi, in virtù di una comune capacità di soffrire. Queste descrizioni nulla hanno a che vedere con delle descrizioni vere. Descrizioni diverse, aventi pari dignità epistemologica, potrebbero edificare un senso di totale diversità e condurre ad un’assoluta mancanza di solidarietà. Quanto detto sembra sostenere pienamente la visione estetica ed ironica della morale. La scelta della morale è un fatto di gusti e preferenze, la verità non ha alcun ruolo da giocare. Possiamo ritenere questa prospettiva consigliabile? Sì, soltanto se siamo sicuri che non ci saranno situazioni insidiose, se qualsiasi cosa facciano gli individui o le comunità non può accadere loro nulla di male.

Immaginiamo, però, una situazione del genere. Da un lato, ci sono i liberali di Rorty, ironici sostenitori della solidarietà, che costruiscono stupende descrizioni di un’altra comunità, presentandola composta da individui molto simili a loro, con un’uguale capacità di soffrire. Oppure, una comunità di pacifisti, che costruiscono descrizioni di un’altra comunità confermanti la loro visione dei rapporti umani. La seconda comunità, invece, è composta da predoni, da individui pronti ad assoggettare chiunque per trarne profitto. Oppure, meno ferocemente, è composta da parassiti, da individui che pensano di poter vivere del lavoro altrui, che non producono nulla, ma attendono aiuti per sopravvivere. È chiaro che i liberali di Rorty, in questo caso, faranno malissimo a seguire le proprie costruzioni romanzesche, perché verranno annientati, nella peggiore delle ipotesi, o più o meno impoveriti per sostenere dei parassiti nella migliore. Alquanto deludenti saranno gli esiti anche per i pacifisti, che, forse, potrebbero anche preferire il secondo dei due possibili risultati che abbiamo ipotizzato, piuttosto che ricorrere all’uso della violenza seppure per motivi di difesa. Nel primo dei due esiti ipotetici, però, verrebbero annientati.

Appare evidente, quindi, che il codice morale scelto, se vuole essere una forma di adattamento ecologico, deve basarsi su credenze vere. Su credenze vere riguardanti l’ambiente circostante e l’uomo stesso: verità antropologiche, verità sociologiche, verità sulle ricchezze naturali a disposizione, e verità su come sfruttarle in modo ottimale.

Rorty ha ragione nel dire che la fondazione di una morale non può risultare da principi astratti della ragione, né da principi conformi a verità immutabili, né, infine, basarsi su un’essenza metafisica degli esseri umani. Ma se si vuole dire che la morale, assieme ad una tradizione culturale alla quale sarebbe legata, è una risposta ai problemi ecologici di una comunità, si deve fare un passo avanti rispetto al punto dove la prospettiva ironica di Rorty vuole fermarsi. Bisogna riconoscere che ci sono delle verità da scoprire: oltre a quelle elencate sopra, anche la verità su quale è l’organizzazione più funzionale di una

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comunità umana e, quindi, su qual è il codice morale, ovvero la parte normativa dell’organizzazione della comunità, da preferire.

La proposta di Rorty sarebbe stata più valida se avesse favorito la prospettiva funzionalista di contro a quella estetico-pragmatica. L’intera prospettiva ironica della filosofia di Rorty è di fatto insostenibile. Tuttavia, vi è un importante insegnamento nel suo pensiero. Se da un lato è vero che escludere la ricerca della verità può essere fatale, è altrettanto vero che la ricerca di verità metafisiche diviene inutile. La proposta di una filosofia morale che sia una ricerca di soluzioni empiriche ai problemi umani è quanto, in tale prospettiva, permane di valido nella filosofia di Rorty.

In sintesi, nel resoconto di Rorty vi sono tre prospettive contrapposte. Quella metafisica, per cui vi sono verità morali vincolanti per ogni essere razionale. Condividiamo il rifiuto di questa dottrina. Vi è la proposta estetico-pragmatica, contro la quale abbiamo presentato degli argomenti. La terza è la più plausibile. Non è così nell’opinione di tutti.

Jo Burrows, ad esempio, nega che una simile impresa sia realizzabile, poiché sarebbe illusorio, nel ragionamento morale l’abbandono di ogni considerazione metafisica a favore dell’interesse per dati di fatto empirici puri (o che almeno lo siano nella stessa misura di quelli studiati dalle scienze naturali)37. Il tentativo funzionalista in pratica finirebbe con il coincidere largamente con una versione conservatrice del modello estetico-pragmatico. Non sarebbe altro che la scelta del tutto inconsapevole di un modo di vita posto. Così, quando Rorty discute sull’atteggiamento da adottare verso (l’ormai ex) Impero Sovietico e ritiene che considerazioni filosofiche siano del tutto inutili e che tutto ciò che può servire sono le relazioni dei servizi di spionaggio su ciò che la parte russa può voler intraprendere, Burrows dice che una prospettiva funzionalista sarebbe impossibile da applicare. Quando si parla di valutazioni che riguardano il comportamento sociale da adottare, tutte le valutazioni sono cariche di numerosi presupposti. Così, anche i rapporti dei servizi di sicurezza nazionale sono carichi di presupposti teorici. Lo sono anche valori apparentemente universali. Anche il valore della pace rappresenta un atteggiamento ricco di premesse ideologiche. Per rendersene conto basterebbe verificare che cosa ne pensano i terroristi dell’IRA. Di conseguenza la proposta funzionalista fallirebbe, poiché diversi individui o diverse comunità avrebbero, di fatto, finalità diverse e, quindi, scelte funzionali diverse. Di fronte a questa situazione si potrebbe reagire, come vuole la prospettiva ironica, facendo della morale la scelta estetico-pragmatica di finalità all’interno di una descrizione del mondo che noi costruiamo. Oppure, come vuole Burrows, obbligando la filosofia morale a occuparsi anche delle finalità. Non si potrebbe, però, adottare l’atteggiamento del funzionalismo, cioè intendere la morale come la scoperta dell’ordinamento politico-sociale ottimale in relazione alle caratteristiche umane date.

Il funzionalismo non sarebbe altro che un modo per rinchiudere le discussioni di filosofia morale all’interno degli schemi consentiti dall’ideologia liberale, che, invece, non potrebbe venire posta in dubbio, poiché sarebbero strutturalmente respinte le discussioni a livello ideologico e teorico. Ridurre la morale a un insieme di considerazioni empiriche vuol dire, in realtà, perpetuare

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un particolare ordinamento, una descrizione del mondo già posta e, quindi, adottare una prospettiva estetico-pragmatica conservatrice.

Gli argomenti di Burrows non sono decisivi. È possibile che la pace non possa essere sempre il valore supremo per tutti e che a volte sia preferibile uno stato di guerra a quello di una pace ingiusta. Ma con ciò non si fa altro che constatare una cosa che è ben facile ammettere: che la natura umana presenta motivazioni che possono entrare in conflitto. La motivazione di vivere in una comunità dove le morti violente sono ridotte al minimo può contrastare con la motivazione di voler vivere da uomo libero piuttosto che da schiavo, oppure con la motivazione di voler vedere puniti vecchi crimini. Tuttavia, ciò indica soltanto la necessità di una filosofia morale che sia in grado di identificare queste diverse motivazioni ed il miglior modo per armonizzarle, accogliendo anche i suggerimenti e i metodi delle scienze empiriche.

Con ciò, si è indicata la strada per formulare delle risposte alle critiche a posteriori al realismo morale. Come vedremo in seguito, una parte importante di questa strada sarà costituita dal ricorso ad una prospettiva che può essere in grado di fondare una morale valida universalmente anche basandosi sui pochi tratti comuni dell’umanità che Rorty stesso dice di essere disposto ad accogliere.

1 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia, solidarietà, Bari, Laterza, 1989, p.

16 (Contingency, Irony, Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989). 2 Ivi, p. 10. 3 Ivi, p. 23. 4 Ivi, p. 25. 5 Per l’epistemologia di Rorty, vedi anche R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura,

Milano, Bompiani, 1986 (Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Princeton University Press, 1979).

6 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia, solidarietà, cit., p. 46. 7 R. Rorty, Freud e la riflessione morale, in R. Rorty, Scritti filosofici II, Bari, Laterza, 1993,

p. 198 (Freud and Moral Reflection, in J. Smith e W. Kerrigan (a cura di), Pragmatism’s Freud: The Moral Disposition of Psychoanalysis, Baltimora, John Hopkins University Press, 1986, ora in R. Rorty, Essays on Heidegger and Others. Philosophical Papers - Vol. II, Cambridge, Cambridge University Press, 1991).

8 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia, solidarietà, cit., p. 47. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 4. 11 Ivi, p. 58. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 66. 14 R. Rorty, La priorità della democrazia sulla filosofia, in R. Rorty, Scritti filosofici I, Bari,

Laterza, 1994, p. 245 (The Priority of Democracy to Philosophy, in M. Peterson e R. Vaughan (a cura di), The Virginia Status of Religious Freedom, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, ora in R. Rorty, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers - Vol. I, Cambridge, Cambridge University Press, 1991).

15 R. Rorty, Liberalismo borghese postmoderno, in R. Rorty, Scritti filosofici I, cit., p. 269 (Postmodernist Bourgeois Liberalism, “The Journal of Philosophy”, 1983, ora in R. Rorty,. Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers - Vol. I, cit.)

16 R. Rorty, Cosmopolitismo senza emancipazione, in R. Rorty, Scritti filosofici I, cit. pp. 285-286 (Cosmopolitanism without Emancipation: A Response to Jean-Francois Lyotard, “Critique”, 1985, ora in R. Rorty, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers - Vol. I, cit.)

17 R. Rorty, Scritti filosofici I, cit. p. 267. 18 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà., cit., p. 105.

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19 R. Rorty, Scritti filosofici I, cit., p. 248. 20 Ivi, p. 286-287. 21 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, cit., p. 98-99. 22 Secondo alcuni interpreti questa possibilità dimostrerebbe che non è possibile

accogliere una formulazione della giustizia prescindendo dalle discussioni sulla teoria della persona. Si veda S. Mulhall e A. Swift, Liberals & Communitarians, Oxford, Blackwell, 19942, pp. 235-236.

23 R. Rorty, Scritti filosofici I, cit., p. 289. 24 Ivi, p. 190. 25 R. Rorty, Truth and Freedom: A Reply to McCarty, in G. Outka e J.P. Reeder (a cura

di), Prospects for a Common Morality, Princeton, Princeton University Press, 1993, p. 282. 26 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, cit., p. 68. 27 R. Rorty, Identità morale e autonomia privata, in R. Rorty, Scritti filosofici II, cit. (Moral

Identity and Private Autonomy, in Michel Foucault philosophe: recontre internationale, Parigi, Seuil, 1989, ora in R. Rorty, Essays on Heidegger and Others. Philosophical Papers - Vol. II, cit.). Cfr. C.B. Guignon e D.R. Haley, Biting the Bullett: Rorty on Private and Public Morality, in A.R. Malachowsky (a cura di), Reading Rorty, Oxford, Blackwell, 1990, pp. 335-361 e N. Fraser, Solidarity or Singularity? Richard Rorty between Romanticism and Technocracy, in A.R. Malachowky (a cura di), cit.

28 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, cit. 111. 29 Ivi, p. 113. 30 Ivi, p. 115. 31 Ivi, p. 5. 32 Vedi R. Rorty, Sull’etnocentrismo: una risposta a Clifford Geertz, in R. Rorty, Scritti

filosofici II, cit., p. 274 (On Ethnocentrism: A Reply to Clifford Geertz, “Michigan Quarterly Review”, 1986, ora in R. Rorty, Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers - Vol. II, cit.)

33 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, cit., p. 64. 34 Ivi, p. 64-65. 35 Ivi, p. 69. 36 R. Rorty, Scritti filosofici I, cit., p. 36. 37 J. Burrows, Conversational Politics. Rorty’s Pragmatist Apology for Liberalism, in A.R.

Malachowsky (a cura di), Reading Rorty, cit..

Capitolo quarto

La morale come necessità dialettica dell’azione

La prima risposta alla posizione antirealista che ci accingiamo a considerare è quella di Gewirth, il quale tenta di offrire una proposta filosofica radicalmente antirelativista e razionalista. La morale, secondo Gewirth, deve disporre per essere efficace di un fondamento obiettivo e universale, condivisibile da tutti gli esseri razionali. Lo spazio per l’antirealismo è reso possibile da una pessima identificazione dei correlati degli enunciati morali che in questo campo svolgono il ruolo che le osservazioni empiriche svolgono nelle scienze naturali. Le intuizioni morali non sono affidabili a causa delle grandi divergenze che le riguardano. Quanto consenso, ad esempio, riusciremo ad ottenere, a livello delle intuizioni morali, per problemi come l’aborto? L’intuizionismo non ha potuto che spianare la strada al soggettivismo e al relativismo.

I tentativi di fondare la morale con definizioni linguistiche non hanno avuto maggiore fortuna. Quando si è tentato di definire i termini morali in modo molto ristretto ci si è trovati di fronte all’obiezione già nota della domanda sul perché i termini linguistici debbano essere definiti proprio in un modo e non in un altro. Dall’altro lato, quando le definizioni morali evitano questo problema, sono tali da poter supportare più di una proposta morale.

Migliore sorte, secondo Gewirth, non accompagna neppure la proposta coerentista. Secondo questa proposta, il modo per giustificare epistemologicamente e selezionare gli enunciati morali è quello di vedere se riescono ad essere coerenti con altri enunciati morali. Gli enunciati che riescono a comporre un sistema coerente saranno epistemologicamente giustificati. Il problema di questa proposta è l’esistenza contemporanea di sistemi coerenti di enunciati morali contrapposti e la possibilità di conflitti interni ai sistemi di enunciati, che anche se sono formalmente coerenti, possono creare nelle situazioni empiriche dilemmi morali.

Quanto detto non suona nuovo e l’abbiamo già rintracciato in altri filosofi presentati in questa ricerca. Ciò che è nuovo, invece, è il tentativo di Gewirth di risolvere il problema dell’obiettività della morale. La proposta di Gewirth è fondazionalista, poiché egli pensa di poter giustificare la morale linearmente partendo dalla determinazione delle condizioni generiche dell’azione. Identificate queste condizioni, il principio supremo della morale deriva da una semplice analisi logica. L’obiettività e l’universalità della morale viene fondata nel modo più radicale. Ogni agente deve accogliere le condizioni generiche dell’azione assieme alle regole della logica che sviluppano il ragionamento, pena l’irrazionalità. Si può dire, quindi, che il sistema di Gewirth, se riuscirà ad avere successo, avrà una forza categorica e non soltanto ipotetica, poiché spiegherà perché la morale debba essere accolta e seguita, e darà risposte chiare alle domande riguardanti i problemi morali.

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4.1. Azione è, secondo Gewirth, ogni comportamento volontario e intenzionale (traduciamo con questa espressione l’inglese purposive, cioè avente un fine). L’azione è il fondamento della morale, poiché tutti gli enunciati morali, direttamente o indirettamente, servono a indicare come gli uomini devono agire. Inoltre, il concetto di azione può svolgere la funzione di fondamento della morale in quanto è determinato da alcune caratteristiche generiche. Si tratta di caratteristiche che sono condizioni necessarie affinché si abbia un’azione. Di conseguenza, si tratta di caratteristiche che vincolano ogni agente.

Le caratteristiche generiche dell’azione sono la volontarietà (o libertà) e l’intenzionalità.

Dicendo che un’azione è volontaria o libera intendo dire che la sua esecuzione è sotto il controllo dell’agente, nel senso che egli sceglie senza costrizione di agire così come agisce, conoscendo le condizioni prossime della sua azione. Dicendo che un’azione è deliberata oppure intenzionale dico che un’agente agisce per un fine oppure uno scopo che costituisce la sua ragione per agire.1

Un aspetto delle caratteristiche generiche dell’azione che si rivelerà particolarmente importante è legato all’intenzionalità. Poiché l’agente agisce per uno scopo, egli ha una predilezione, almeno prima facie, al suo ottenimento e questo non può essergli indifferente, oppure ostile. Ciascun agente, quindi, ha un atteggiamento valutativo verso la propria azione: egli, necessariamente, ritiene che il suo scopo sia buono ed esprime un giudizio positivo implicito che lo riguarda. Le caratteristiche generiche dell’azione rappresentano la premessa del ragionamento morale. Il metodo dialettico rappresenta il modello di ragionamento con il quale dalla premessa si arriverà alle conclusioni morali.

4.2. In che cosa consiste il metodo dialettico seguito da Gewirth?

Gewirth ritiene che un’azione non consista soltanto nell’insieme di comportamenti che la compongono, bensì anche in alcuni atti mentali. Ad esempio, poiché l’azione ha come caratteristica generica quella di essere deliberata, essa si accompagna necessariamente all’atto mentale di ritenere che lo scopo per il quale si agisce sia buono. Il pensiero, a sua volta, viene interpretato da Gewirth come vincolato ad atti linguistici che servono ad esprimerlo. Di conseguenza, nella misura in cui all’agente sono attribuibili degli atti mentali, cioè pensieri, gli sono attribuibili pure degli enunciati. Il metodo dialettico consiste nell’identificare quali pensieri (e enunciati) sono necessariamente attribuibili ad ogni agente per comprendere a quali conseguenze logiche tali pensieri ed enunciati conducano.

Il metodo è dialettico, poiché procede dall’interno del punto di vista del soggetto agente. Gli enunciati ed i passaggi logici sono validi esclusivamente da questo punto di vista e non riproducono delle verità apodittiche. Vedremo che un simile metodo consente a Gewirth di evitare alcuni problemi tradizionali della filosofia morale, come la fallacia naturalistica.2

Il metodo è, però, nel contempo, analiticamente necessario, anche se gli enunciati che comprende sono veri relativamente ai singoli agenti e non in modo apodittico. Si tratta, infatti, di enunciati non contingentemente legati a qualche singolo soggetto, bensì enunciati necessariamente legati ad ogni agente in quanto agente. Per questo motivo, la conseguenza alla quale si arriverà, cioè

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il principio morale supremo, potrà essere ritenuto vero tout court e non soltanto relativamente a qualche singolo soggetto.

La sequenza che ci presenta Gewirth, dalle caratteristiche generiche dell’azione al principio supremo della morale, è riproducibile in tre fasi: la prima nella quale si stabiliscono le caratteristiche generiche dell’azione, la seconda nella quale il soggetto esprime degli enunciati prudenziali per tutelare la propria azione, la terza nella quale si effettua il passaggio dal livello prudenziale al livello morale. Gewirth stesso, tuttavia, in Reason and Morality non ha fornito un’esposizione così formale del proprio schema, come, invece, hanno preferito fare i suoi interpreti; laddove lo ha fatto, ha parlato di quattro fasi dell’argomentazione. In questa esposizione si seguirà quella proposta da Deryck Beylevend3 e accettata dallo stesso Gewirth nella prefazione che ha scritto al libro del suo interprete. Altri interpreti di Gewirth hanno preferito parlare di due fasi.4 Qui si cercherà di ridurre al minimo la presentazione dei passaggi del ragionamento e ci si soffermerà maggiormente soltanto sugli aspetti che risultano problematici e decisivi per la comprensione delle fasi successive.

4.3.1. Lo schema di ragionamento presentato da Gewirth inizia con la

determinazione che l’agente dà delle proprie caratteristiche generiche. Il primo enunciato, quindi, è:

(1) ‘Faccio X per il fine F’. Da (1) segue l’enunciato: (2) ‘F è un bene’. Sarebbe, infatti, impossibile che un soggetto compia un’azione, in

modo volontario, per uno scopo che ritiene negativo in base a tutti i propri criteri. È vero che non tutti i soggetti agiscono per scopi che ritengono moralmente positivi e che nessuno agisce sempre e soltanto per scopi ritenuti moralmente positivi, tuttavia, non è immaginabile che qualcuno agisca volontariamente per uno scopo che non sia ritenuto apprezzabile in base ad almeno un criterio (estetico, prudenziale, o altro). È vero anche che qualcuno può agire in base ad uno scopo che ritiene positivo in base ad un criterio, ma negativo in riferimento ad altri. Morire per salvare una persona è un bene dal punto di vista morale, ma non da quello prudenziale. Tuttavia, per un tale agente si dirà semplicemente che agisce in base allo scopo ritenuto il migliore, in seguito alla valutazione comparata di tutti i diversi criteri che rientrano nella sua ponderazione valutativa in quel momento.

Come indica lo stesso Gewirth, è palesemente sbagliato passare dall’enunciato ‘A fa X per il fine F’ a ‘F è un bene’. Un nazista stermina gli ebrei per la purezza della razza anche se la purezza della razza non è un bene. È, tuttavia, corretto il passaggio da ‘Un nazista stermina gli ebrei per la purezza della razza’, a ‘Un nazista pensa che la purezza della razza sia un bene’. Diversamente, non sarebbe comprensibile perché stermini gli ebrei. L’uso del metodo dialettico evita, perciò, il problema sollevato dalla fallacia naturalistica.

L’agente non constata soltanto di avere degli scopi particolari. Deve pure ammettere le caratteristiche generiche dell’azione, ossia, la volontarietà e l’intenzionalità. In considerazione di queste caratteristiche, l’agente deve riconoscere pure che:

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(3) ‘La mia libertà ed il mio benessere sono condizioni generiche necessarie dell’azione’.

Infatti, è una verità banale che quando un agente si trova ad agire sotto costrizione il suo comportamento non è più volontario o libero e non corrisponde al concetto di azione, la quale, per definizione, è volontaria, oltre che intenzionale. Per quanto riguarda l’intenzionalità, a parere di Gewirth, l’agente non può non riconoscerne la prossimità con il concetto di benessere. Il benessere è costituito dalle condizioni prossime dell’azione e comprende l’integrità mentale e fisica dell’agente, come pure la sua confidenza nella possibilità di condurre a termine le proprie azioni. I beni elencati in questa prima esposizione del benessere sono chiamati da Gewirth ‘beni fondamentali’ (basic goods). Accanto a questi beni, fanno parte del benessere i ‘beni non alienabili’ (nonsubstractive goods). Questi beni consistono nella possibilità di non vedersi ridotti i beni che già si possiedono e servono a tutelare ulteriormente l’intenzionalità dell’azione. Infine, fanno parte del benessere i ‘beni additivi’ (additive goods), cioè i beni che accrescono la possibilità di migliorare le condizioni che garantiscono l’intenzionalità dell’azione.5

L’agente, quindi, deve accogliere un altro enunciato. Sulla base di (2) e (3) egli deve ammettere come analiticamente vero l’enunciato:

(4) ‘La mia libertà ed il mio benessere sono beni necessari’. Questo passaggio potrebbe incontrare un’ovvia obiezione. Il passaggio

sembra basarsi sull’idea che, se voglio ottenere F, e M1, M2, , Mn sono i mezzi necessari per raggiungere questo fine, devo perseguire anche questi mezzi. Questo principio si scontra con alcuni ovvi controesempi. Un nazionalista vuole agire per la glorificazione ed il rafforzamento della sua nazione. Se l’unico mezzo del quale può disporre sono i campi di sterminio, però, potrebbe rinunciare al proprio scopo, perché il mezzo per raggiungerlo può essere giudicato aberrante. Tuttavia, se un’agente valuta sopra ogni altra cosa un fine determinato, allora deve esprimere anche una valutazione finale positiva dei mezzi che servono a raggiungere questo fine. Tuttavia, Gewirth applica il principio per cui ‘se A vuole F e M è un mezzo per F, allora A vuole M’ in modo molto limitato. L’applicazione riguarda soltanto le condizioni generiche dell’azione. Si tratta di condizioni necessarie affinché qualsiasi azione si possa svolgere. Senza accogliere queste condizioni, il soggetto cessa di essere un agente, ovvero cessa di voler perseguire un qualsiasi fine e di esternare un qualsiasi comportamento volontario. Se è vero che il soggetto può rinunciare ai mezzi per raggiungere alcuni fini quando degli altri fini supremi gli impediscono di praticare questi mezzi, è vero anche che, privato delle condizioni generiche, il soggetto non potrà raggiungere alcun fine, neppure quello supremo. Il soggetto, quindi, si trova nella necessità dialettica di dover apprezzare i beni generici. Ovviamente, il ragionamento ha valore soltanto dialettico – nel senso dato all’espressione da Gewirth –, ossia indica una sequenza di enunciati che ogni soggetto accettare dal proprio punto di vista.

Il seguente passaggio logico consiste nell’accoglimento dell’enunciato: (5) ‘Devo avere la libertà e il benessere’. L’enunciato va interpretato come un obbligo prudenziale. Il soggetto, cioè,

si trova nella necessità dialettica, avendo constatato che la libertà ed il benessere sono dei beni irrinunciabili per lui, a dover ammettere che

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prudenzialmente ha l’obbligo di tutelare questi beni. Sarebbe, infatti, contraddittorio per l’agente, dopo aver sostenuto che la libertà ed il benessere sono beni irrinunciabili, ritenere possibile che per lui non sia necessario tutelarli. Tanto per Gewirth che per Beylevend questo enunciato è equivalente a (4), poiché non fa che esprimere la risolutezza dell’agente ad avere ciò che ritiene sia un bene necessario. Se tra (4) e (5) vi sia un rapporto di equivalenza, non è importante qui stabilirlo, poiché è fondamentale soltanto l’implicazione da (4) a (5) e non quella inversa. È tale l’implicazione che serve a spiegare il successivo passaggio logico.

Con ciò è conclusa la prima fase dello schema di ragionamento di Gewirth, quella che è servita a determinare ciò che è necessariamente un bene per l’agente in quanto agente: sono necessariamente beni per l’agente la libertà e il benessere, che sono le condizioni generiche dell’azione, privato delle quali l’agente cessa di essere tale. Esamineremo ora il passaggio logico da questa determinazione all’espressione della richiesta di diritti da parte dell’agente.

4.3.2. Con le parole di Gewirth:

Un’importante, anche se non l’unica, base affinché un’azione sia ritenuta giusta dal punto di vista dell’agente è che egli ritenga che essa abbia uno scopo buono. L’agente, quindi, considera un’azione giustificata da questa bontà. Però, a fortiori, egli considera se stesso particolarmente giustificato nel possesso della libertà e del benessere fondamentale, poiché queste sono le condizioni necessarie di tutte le sue azioni e quindi di ogni scopo o fine che egli può ottenere o perseguire tramite l’azione.6

Sulla base di quanto detto fino all’enunciato (5) compreso, quindi, l’agente si trova nella necessità dialettica di esprimere:

(6) ‘(Ho un diritto alla libertà ed al benessere) implica reciprocamente (Ogni altro agente ha l’obbligo almeno a non interferire con la mia libertà ed il mio benessere)’.

Questa affermazione dei propri diritti fondamentali viene interpretata da Gewirth come una conseguenza logica dell’accoglimento dell’agente del proprio obbligo prudenziale a tutelare la propria libertà ed il proprio benessere. Se il soggetto ha l’obbligo di tutelare i propri beni generici, egli, per implicazione logica, deve richiedere almeno la non interferenza degli altri con questi beni. Da ciò la richiesta di un diritto equivalente ad un obbligo per gli altri a non interferire.

Il diritto del quale si parla in questo contesto è un diritto prudenziale. Il soggetto, infatti, lo reclama non sulla base di valutazioni morali, che includono la considerazione degli interessi degli altri, bensì esclusivamente sulla base degli interessi propri. Con ciò non si vuole dire che si tratta di una richiesta egoista. Madre Teresa di Calcutta richiederà prudenzialmente un diritto alle proprie condizioni generiche dell’azione per motivi altruistici, poiché vuole agire per fare del bene agli altri.

Sostenendo che si tratta di un diritto (con i corrispondenti doveri) di carattere prudenziale si evitano alcune critiche. Ad esempio, è stato obiettato a Gewirth che, richiedendo il riconoscimento di un diritto, l’agente deve impegnarsi a fornire buone ragioni agli altri, affinché il corrispondente dovere sia veramente vincolante per loro.7 L’obiezione è, però, debole, considerando,

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appunto, che i diritti invocati sono diritti prudenziali. Questo vuol dire che essi si basano su delle buone ragioni del richiedente affinché gli altri si astengano, non su delle buone ragioni per gli altri ad astenersi.

La ‘buona ragione’ sulla quale l’agente fonda la sua richiesta di diritti esprime ciò che è, dal suo punto di vista, una buona ragione per le altre persone, per agire in

un certo modo. Non è necessariamente una ragione accettata, in prima istanza, dagli altri agenti che sono i soggetti del suo giudizio.8

L’argomentazione di Gewirth a favore di (6) assume la forma di una reductio ad absurdum e procede nel seguente modo: se l’agente non accettasse (6) egli dovrebbe accettare:

(A) ‘Non è vero che tutte le altre persone devono almeno astenersi dall’interferire con la mia libertà ed il mio benessere’.

In questo caso, però, egli riterrebbe alienabili i beni generici e, quindi, dovrebbe affermare:

(B) ‘Non è vero che la mia libertà ed il mio benessere sono beni necessari’.

Se sono beni alienabili, infatti, non sono beni necessari. Tuttavia, l’enunciato (B) contraddice l’enunciato (4) che, però, come abbiamo visto, l’agente deve necessariamente accettare. Di conseguenza, essendo l’enunciato (4) necessariamente vero, l’enunciato (B) è necessariamente falso. Poiché l’enunciato (B) segue dall’enunciato (A), sulla base del modus tollendo tollens, l’enunciato (A) è necessariamente falso. Se l’enunciato (A) è necessariamente falso, allora è necessariamente vero l’enunciato che lo nega, cioè (6). Di conseguenza, dal punto di vista dell’agente, l’enunciato (6) è necessariamente vero. Formalmente, l’argomento può essere presentato nel seguente modo:

(I) ((B) v (4))& - ((B) & (4)) (II) (4)

(III) -(B) I, II

(IV) (A) (B)

(V) -A III, IV

(VI) (A) -(6)

(VII) (6) V, VI Perciò vi è necessità per ogni agente di richiedere un diritto alla libertà

ed al benessere. La terza fase dell’argomentazione di Gewirth riguarda il passaggio dai diritti prudenziali ai diritti morali e si conclude con l’enunciazione del principio supremo della morale.

4.3.3. La premessa della fase dell’argomentazione di Gewirth nella

quale si realizza il passaggio dal livello prudenziale a quello morale è che ogni richiesta di diritti deve fondarsi sull’enunciazione, almeno implicita, di una ragione per la quale si richiede il diritto. Senza l’enunciazione di una ragione non si è di fronte alla richiesta di un diritto, bensì di fronte ad un’intimidazione. Questa ragione, inoltre, deve essere una ragione sufficiente, cioè una ragione che dà una completa giustificazione della richiesta.

Il passaggio dal livello prudenziale al livello morale utilizza due principi generali. Il primo principio è chiamato da Gewirth criterio della somiglianza rilevante. Questo principio afferma che ogni volta che un soggetto S richiede per

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se stesso un diritto D, sulla base di una ragione sufficiente RS, egli dovrà riconoscere lo stesso diritto ad ogni altro soggetto che soddisfa RS. Questo principio non è niente altro che l’applicazione del principio logico dell’universalizzabilità. Sulla base della formulazione più ampia di questo principio, se una proprietà P appartiene ad un soggetto S in virtù di una qualità Q del soggetto stesso, la stessa proprietà apparterrà ad ogni altro soggetto S1,

S2, , Sn che possiede la stessa qualità. Il criterio della somiglianza rilevante, però, non basta da solo ad

assicurare il nuovo passaggio richiesto da Gewirth. Si tratta, infatti, soltanto di un principio formale, che non pone alcun limite a quali sono le somiglianze rilevanti nella distribuzione di diritti.

Gewirth invoca, perciò, un secondo principio, l’argomento della autonomia dell’azione (Argument for the Sufficiency of Agency). Questo principio afferma che l’unico criterio di somiglianza rilevante che può essere invocato nella distribuzione dei diritti è la descrizione di se stesso in quanto agente. Perciò, l’unico criterio, necessario e sufficiente, in base al quale ad un soggetto si assegna un diritto è quello di possedere le caratteristiche generiche dell’azione.

Che questo criterio sia necessario è, per Gewirth, una cosa ovvia. Un soggetto che non possedesse dei fini volontari non avrebbe alcun titolo per richiedere dei diritti. Che cosa, infatti, se ne farebbe? Più problematico è dimostrare che si tratta di una ragione sufficiente. Gewirth è convinto di disporre di un argomento convincente per dimostrarlo. Immaginiamo che un soggetto dichiari che la ragione sufficiente per la quale reclama un diritto è una ragione più specifica di quella di essere un agente, ad esempio, quella di essere un seguace dell’unica religione vera. A questo punto, potremmo chiedergli se qualora cessasse di seguire questa religione reclamerebbe per sé i diritti ai beni generici. Se risponde di sì, allora contraddice la prima affermazione, quella per la quale soltanto l’appartenenza all’unica religione vera è una ragione sufficiente per disporre di diritti. Se risponde di no, contraddice la descrizione dell’agente e le implicazioni logiche che ne seguono. A questo punto, il soggetto si trova costretto ad abbandonare uno dei due enunciati. Per determinare quale, è importante notare che la contraddizione deriva fondamentalmente dal conflitto tra la descrizione di se stesso come appartenente all’unica religione vera e la descrizione di se stesso come agente. La prima è una condizione soltanto contingente; il soggetto potrebbe anche non immaginarsi quale appartenente all’unica religione vera. La seconda descrizione, invece, è necessaria: quali siano le caratteristiche specifiche di un agente, egli possederà sempre le caratteristiche generiche. Per evitare la contraddizione, quindi, l’unica via possibile è la rinuncia all’enunciato contingente.

Gewirth, a questo punto, può formulare il successivo passaggio logico del suo ragionamento:

(7) ‘(Ciascun soggetto ha un diritto alla libertà e al benessere) implica reciprocamente (Ogni altro soggetto - compreso me stesso - ha il dovere di non interferire con la sua libertà ed il suo benessere)’.

(7) segue da (6), se si accolgono il principio dell’universalizzabilità e l’argomento dell’autonomia dell’azione. Con questo passaggio logico si è passati dalla dimensione prudenziale alla dimensione morale, poiché il soggetto dal riferimento esclusivo agli interessi propri è dovuto passare all’interesse per

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altri agenti. Questo interesse morale non è evitabile. Gewirth non vuole dire che a ciascun soggetto conviene instaurare la dimensione morale per propria utilità (come nel pensiero dei contrattualisti). L’ingresso nella dimensione morale segue dall’applicazione dei due principi esposti.

Rimane da vedere ora l’ultimo passaggio logico nel ragionamento di Gewirth, quello nel quale si stabilisce il principio supremo della morale, chiamato principio della coerenza generica. L’ultimo passaggio consiste nel concludere da (7):

(8) ‘Agisci in accordo con i diritti generici dei soggetti che recepiscono la tua azione come nei riguardi di quelli tuoi’.

Il principio della coerenza generica sostiene che ogni agente deve avere verso i diritti degli altri un rispetto equivalente a quello che richiede per i diritti propri. Ciò segue dal riconoscimento che ha dovuto esprimere di un diritto alla libertà e al benessere dovuto agli altri uguale a quello che reclama per se stesso, e dal fatto che questo diritto è equivalente ad un obbligo che vincola pure lui. Questo principio è utilizzato da Gewirth quale criterio fondamentale di ogni discussione morale. Ogni enunciato morale particolare dovrà essere coerente con esso. Servendosi del principio della coerenza generica, Gewirth indica la possibilità di fondare diritti positivi, oltre che negativi, doveri particolari che un agente può avere verso gruppi sociali ristretti, come la famiglia,9 e specifica quale sia il modo corretto di intendere la solidarietà sociale.10 Il principio della coerenza generica è necessario formalmente, in quanto rappresenta un’applicazione del principio dell’universalizzabilità. A differenza delle applicazioni tradizionali del principio dell’universalizzabilità, l’applicazione di Gewirth ha anche un contenuto necessario. Solitamente, il principio dell’universalizzabilità dice soltanto che a casi simili si devono applicare conclusioni simili. Non si dice, perciò, né quali sono i casi simili, né quali sono le conclusioni da applicare. In Gewirth però non è così. Il principio della coerenza generica è pure materialmente (o categoricamente) necessario, poiché non può essere evitato da alcun soggetto con il richiamo a particolari desideri, inclinazioni, istituzioni, ecc. determinati da convenzioni. Infatti, il principio è dominante su tutti gli altri enunciati morali in quanto deriva dalle condizioni necessarie dell’azione, che gli forniscono un contenuto necessario.

4.4. In che modo la prestazione teorica di Gewirth incrocia la nostra

discussione sul realismo morale? Innanzitutto, conviene soffermarsi sul fatto che il ragionamento di Gewirth, se ha successo, conduce ad una fondazione universalistica della morale. È vero che il principio della coerenza generica è un principio necessario non in modo diretto, ossia non è vero che è di per sé contraddittorio negarlo. Il principio è necessario come lo è un teorema, in base alla sua derivazione logica da premesse. I suoi passaggi sono validi perché sono necessari dal punto di vista interno dell’agente. Questo legame al punto di vista dell’agente, però, non conduce al relativismo. Al contrario, esso conduce all’universalismo, poiché si riferisce al punto di vista di ogni soggetto.

Poiché il principio della coerenza generica deve logicamente essere ammesso da ogni agente, esso è necessario e universale nel contesto dell’azione e questo è il contesto rilevante per la morale.11

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Però, oltre a essere universale, il principio può essere pure considerato vero? Innanzitutto, ammettendo che il ragionamento del filosofo americano sia stato corretto, si può accogliere quanto sostenuto da Gewirth, ossia che il principio rappresenta una verità analitica, poiché deriva dalla determinazione delle condizioni generiche dell’azione. La derivazione non è, tuttavia, di carattere semplice, come nelle verità analitiche convenzionali del tipo ‘tutti gli scapoli sono non sposati’, ma più complessa, poiché dipende dalla determinazione delle proprietà dell’azione e dell’agente e da diversi passaggi logici. Questo è un fatto molto importante. Infatti, un’ovvia obiezione che potrebbe essere rivolta a Gewirth è quella di essersi reso colpevole di fallacia naturalistica, poiché Gewirth sembra voler derivare la morale da descrizioni fattuali. La fallacia naturalistica, in realtà, viene evitata poiché Gewirth non opera con verità analitiche ovvie, bensì con verità analitiche complesse, cosicché ‘l’argomento della domanda aperta’ risulta lecito e atteso, fino al punto di arrivare alla descrizione delle condizioni necessarie dell’azione, quando la open question trova finalmente una risposta. Si è obbiettato a Gewirth di non esser riuscito a realizzare il passaggio dalla descrizione alla prescrizione e, quindi, di non essere riuscito a risolvere il problema del salto logico dall’essere al dover essere.12 A questa obiezione, Gewirth stesso replica, sostenendo che per lui non costituisce un aspetto prioritario l’esser riuscito o meno a realizzare un passaggio logico da premesse fattuali a una conclusione morale legittima.

Il mio interesse non riguarda il problema del’‘essere-dover essere’; consiste, piuttosto, nel mostrare che ogni agente deve accettare logicamente alcuni giudizi morali sul dovere.13

Non ci soffermeremo sul problema se Gewirth sia riuscito a superare la grande divisione. Quello che ci interessa è di vedere se sia riuscito a fondare una conclusione, che oltre a essere valida universalmente, sia anche vera, nel senso della verità come corrispondenza. Nel cercare una risposta non ci porremo la domanda se i giudizi analiticamente veri siano veri anche nel senso della verità come corrispondenza. Cercheremo di vedere se lo sia il principio supremo della morale, ed i giudizi che ne seguono, in quanto aventi dei correlati nel mondo esterno.

Hare nega che una siffatta discussione abbia una qualsiasi importanza ed afferma che la discussione sulla verità come corrispondenza nulla aggiunge a quanto si è dimostrato sulla necessità concettuale del principio della coerenza generica. L’aver mostrato che un enunciato deve essere accolto dagli agenti, anche sulla base di una dimostrazione di carattere concettuale, è del tutto sufficiente, e Gewirth indicandone dei correlati empirici non aggiungerebbe nulla alla forza dell’enunciato.

Tutto ciò che Gewirth doveva fare era di mostrare che queste prescrizioni, alle quali ogni agente è impegnato, ci impegnano a loro volta ad alcune prescrizioni morali dalle quali nessun agente che è coerente nel suo ragionamento può dissentire. La nozione di verità morale non ha alcun ruolo da svolgere in questo argomento.14

Quanto sostenuto da Hare è in parte vero. Se un enunciato deve essere accolto su base puramente logica, non verrà accolto con maggiore forza se a suo vantaggio si indicano anche prove empiriche. Tuttavia, mostrare che un enunciato, derivato da un’analisi logica, abbia un correlato empirico serve a

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spiegare la natura del contenuto di questo enunciato, ovvero rappresenta un contributo filosofico rilevante. Gewirth, infatti, sostiene di essere riuscito a offrire un corrispondente ai giudizi morali analogo alle osservazioni empiriche nelle scienze naturali. A questo proposito, dopo aver enunciato il principio supremo della morale, Gewirth afferma che

le caratteristiche generiche dell’azione adempiono a questa funzione non direttamente in quanto correlati di corrispondenza dei giudizi morali, ma, piuttosto, ponendo, attraverso la struttura normativa dell’azione, alcune richieste ai giudizi morali, che devono conformarsi a queste caratteristiche, per evitare contraddizioni.15

A questo punto, tuttavia, sembra che l’analogia con i giudizi empirici sia valida soltanto fino ad un certo punto. Le caratteristiche generiche dell’azione svolgono il ruolo di elemento invariabile che verifica in modo obiettivo la validità dei giudizi morali, così come la realtà empirica fa con i giudizi empirici. Però i giudizi empirici svolgono questo ruolo in modo diretto. Un soggetto che dice ‘La neve è bianca’ verifica la propria affermazione aprendo la finestra e guardando se nel mondo ci sia la neve e di che colore sia. Se le caratteristiche generiche dell’azione svolgessero per la morale un ruolo esattamente analogo ai correlati empirici nella valutazione dei giudizi empirici, gli enunciati morali si dovrebbero verificare aprendo la finestra e guardando i vari soggetti che compiono determinate azioni. Invece non è così. Chi verifica il principio della coerenza generica lo fa come si verifica un teorema, ovvero non cercando qualcosa in giro per il mondo, bensì controllando se questo sia compatibile con gli assiomi, nel nostro caso con la definizione delle caratteristiche generiche dell’azione. Sembra, quindi, che gli enunciati morali non abbiano dei correlati nel mondo e che ad essi non sia applicabile il concetto di verità come corrispondenza. Gewirth, tuttavia, nega che sia così.

Il principio della coerenza generica è vero in virtù della corrispondenza: esso corrisponde a ciò che ogni agente logicamente deve ammettere come suoi doveri e, quindi, è vero in quanto sostiene i doveri che necessariamente appartengono ad ogni agente.16

Il principio afferma qualcosa riguardante il mondo: che ogni agente ha il dovere di rispettare i diritti degli altri quanto i propri. Questa affermazione è vera se ogni agente ha veramente questi doveri, è falsa nel caso contrario. Certamente Gewirth non propone di verificare questo enunciato andando a interrogare o scandagliare con strumenti psicoingegneristici gli agenti per trovare i doveri, come imporrebbe una metodologia rigorosamente empirica. La sua dimostrazione realista si fonda sul fatto che i concetti di azione e agente hanno dei correlati nel mondo attuale, e da ciò deduttivamente si constata che pure il principio della coerenza generica, che deriva da questi concetti, rappresenta una verità sul mondo ed è vero perché corrisponde ad una descrizione vera del mondo.17

4.4.1. Vi sono due obiezioni che sembrano fatali alla teoria di Gewirth.

La prima fa riferimento alla derivazione di (6), cioè di ‘(Ho un diritto alla libertà ed al benessere) implica reciprocamente (Ogni altro agente ha l’obbligo almeno a non interferire con la mia libertà ed il mio benessere)’ da (4) ‘La mia libertà ed il mio benessere sono beni necessari’ (e dall’enunciato che esso

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implica, cioè (5) ‘Devo avere la libertà ed il benessere’). Ciò che si intende questionare non è se sia lecito passare dal fatto che qualcuno ha assoluto bisogno di qualcosa all’affermazione che egli ne ha diritto. La discussione su questo problema implicherebbe la determinazione di che cosa obiettivamente significhi ‘poter attribuire dei diritti’. Nel contesto dell’argomentazione di Gewirth, comunque, si tratta di un problema irrilevante. Il passaggio logico avviene nell’ambito del metodo dialettico. Di conseguenza, non c’è bisogno di ricercare se vi siano delle ragioni obiettive per passare dalla determinazione di necessità assolute da parte di un soggetto ai suoi diritti, bensì è fondamentale vedere se dal punto di vista del soggetto tale passaggio è necessario. La domanda corretta è: può (razionalmente) un soggetto, dopo aver constatato di aver bisogno assoluto di qualcosa astenersi dal reclamarlo come diritto? Ci sono stati dei critici di Gewirth che pensano che ciò sia possibile. Uno di questi è Kai Nielsen, il quale scrive:

Ciò che egli ha probabilmente mostrato è che gli agenti (cioè, ciascuno di noi) desiderano ed hanno bisogno della libertà e del benessere e usualmente intraprenderanno i passi, se necessari, per proteggere il proprio accesso a questi

beni. Da ciò non segue che egli, se è razionale, deve credere (nel senso di Gewirth) di avere un diritto alla libertà e al benessere. Egli può dire, in piena coerenza, che la protezione della sua libertà e del suo benessere sono per lui beni necessari che essenzialmente lui stesso deve tutelare, se può farlo, e, allo stesso tempo, come Bentham, ritenere che parlare di diritti non abbia alcun senso.18

L’esempio di Nielsen è quello di un soggetto perfettamente razionale, perfettamente pronto a fare tutto ciò che è necessario per tutelare i propri interessi e, tuttavia, scettico a proposito dell’esistenza dei diritti. La sua posizione epistemologica ed ontologica è che non vi siano diritti. Di conseguenza, non potrà reclamarli, perché non si può reclamare sinceramente qualcosa nella cui esistenza non si crede. Con ciò, ovviamente, non concede agli altri il diritto di interferire con i suoi beni fondamentali. Senza reclamare, né concedere nulla, egli si organizza in modo da tutelare la propria libertà ed il proprio benessere.

Una critica analoga è rivolta a Gewirth da Bernard Williams.

Se non c’è nessuna legge, allora il silenzio non è significativo né permissivo: è semplicemente silenzio. In un altro senso, naturalmente, la gente ‘può’ interferire con la mia libertà, ma questo vuol dire soltanto che non c’è nessuna legge per impedirlo, permetterlo o imporlo. Se questo ‘può’ significhi ‘è in grado di farlo’ dipende da me e da ciò che sono in grado di fare. Per dirla con le parole dell’egoista Max Stirner, la «tigre che mi assale è nel suo diritto, io che la uccido sono pure nel mio diritto. Contro di lei io difendo non il mio diritto, ma me stesso».19

Williams ci spiega che con la mancata richiesta di un diritto, l’agente non riconosce necessariamente agli altri soggetti la liceità di interferire con i suoi beni fondamentali. Il soggetto si limita a non pronunciarsi, ma questo non vuol dire ancora che egli non senta di dover far tutto il necessario per tutelare la propria libertà ed il proprio benessere. Con ciò l’agente non contraddice gli enunciati (4) e (5).

Negli argomenti di Nielsen e Williams c’è qualcosa di erroneo. Sembra che una parte dell’argomento si basi sul fatto che i diritti invocati dall’agente appaiano (o possano apparire) giustificati dal suo punto di vista, ma non lo

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siano obiettivamente, oppure dal punto di vista degli altri. Così, tanto il seguace di Jeremy Bentham invocato da Nielsen quanto il seguace di Stirner invocato da Williams rifiutano il passaggio a (6) perché non credono che i diritti esistono. Questo modo di argomentare, però, non è pertinente. (6) non parla di diritti giustificati obiettivamente. Ricordiamoci infatti che l’argomento di Gewirth segue sempre il metodo dialettico. La giustificazione esterna non ha alcun ruolo da svolgere. Il problema, quindi, non è se esistono delle buone ragioni obiettive per assegnare diritti ad un soggetto, bensì se il soggetto debba invocarli. L’argomento di Nielsen e Williams commette l’errore di rivolgere una critica da una prospettiva sbagliata: quella esterna invece di quella interna. È vero, invece, un aspetto cruciale della loro argomentazione, cioè che gli agenti possono non esprimere (6). Gewirth avrebbe buon gioco contro Nielsen e Williams se gli agenti potessero soddisfare (4) e (5) soltanto con (6). Ovvero, se l’unico modo nel quale un agente potrebbe evitare l’interferenza degli altri fosse l’astensione di questi dall’interferenza. In questo caso anche chi è scettico nei confronti delle argomentazioni epistemologiche ed ontologiche a favore dei diritti dovrebbe invocarli, perché altrimenti si porrebbe in contraddizione con (4) e (5). Tuttavia, non è così. L’agente può ottenere l’assenza di interferenza degli altri soggetti invocando la loro astensione, ma può ottenere quanto gli serve anche organizzando una difesa efficace. Tenendo presente questa seconda possibilità, un agente può accogliere (4) e (5), ma non accogliere (6). Invece di (6), l’agente, dopo (4) e (5) può accogliere (6a): ‘Devo organizzare una difesa efficace contro la possibile interferenza degli altri agenti’. L’agente che non ritiene alienabili la libertà ed il benessere ed accoglie una visione prudenziale, si concentra su una strategia diversa da quella dell’invocare i diritti. Questo agente sarebbe, forse, disposto ad ammettere, come si fa nella tradizione contrattualista, che il miglior modo per tutelare i propri interessi è quello di instaurare un sistema morale che stabilisca i rispettivi diritti e doveri; tuttavia, questo sarebbe un giudizio sintetico e non analitico, come, invece, servirebbe a Gewirth.

4.4.2. Esporremo ora un’obiezione a Gewirth, che concerne la ragione

necessaria e sufficiente ritenuta tratto caratteristico dell’universalizzazione che riconosce diritti all’agente se e solo se egli compie analogo riconoscimento ai diritti degli altri. Ricordiamoci che l’universalizzazione riguarda il passaggio da (6) (‘Ho un diritto alla libertà ed al benessere’ implica reciprocamente ‘Ogni altro agente ha l’obbligo almeno a non interferire con la mia libertà ed il mio benessere’) a (7) (‘Ciascun soggetto ha un diritto alla libertà e al benessere’ implica reciprocamente ‘Ogni altro soggetto (compreso me stesso) ha il dovere di non interferire con la sua libertà ed il suo benessere’). Ricordiamoci ancora che l’universalizzazione ha come presupposto che la ragione necessaria e sufficiente con la quale ogni agente reclama i propri diritti è null’altro che la descrizione di se stesso come un soggetto avente degli scopi volontari. Ora, è chiaro che non tutti gli agenti avranno la tendenza a compiere un’universalizzazione sulla base di questo criterio. Immaginiamo un integralista religioso. Il suo ragionamento procederà nel seguente modo:

(1’) ‘Faccio X per rispettare le prescrizioni dell’unica religione vera’. (2’) ‘Rispettare le prescrizioni dell’unica religione vera è un bene’.

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(3) ‘La mia libertà ed il mio benessere sono condizioni generiche necessarie dell’azione’.

(4) ‘La mia libertà ed il mio benessere sono beni necessari’. (5) ‘Devo avere la libertà ed il benessere’. (6) (‘Ho un diritto alla libertà ed al benessere) implica reciprocamente

(Ogni altro agente ha l’obbligo almeno a non interferire con la mia libertà ed il mio benessere)’.

(7’) (‘Ciascun soggetto che agisce per rispettare le prescrizioni dell’unica religione vera ha un diritto alla libertà ed al benessere’) implica reciprocamente (‘Ogni altro soggetto (compreso me stesso) ha il dovere di non interferire con la libertà ed il benessere di chi agisce per rispettare le prescrizioni dell’unica religione vera’).

Rammentiamo che Gewirth sostiene che un simile agente contraddice se stesso. Se gli chiediamo: ‘Se tu non perseguissi l’unica religione vera, chiederesti per te i diritti fondamentali?’ ed egli risponde di no, contraddice ciò che deve necessariamente dire in quanto agente. Se dice di sì, contraddice la ragione necessaria e sufficiente che ha esposto nel reclamare i propri diritti. Ora, poiché l’affermazione negativa lo conduce a contraddire degli enunciati necessari, deve abbandonare la ragione necessaria e sufficiente che ha utilizzato per enunciarli.

In realtà, pure il nostro integralista religioso (chiamiamolo IR) può invocare l’azione finalizzata alla sua religione come una ragione necessaria per l’assegnazione di diritti, anche senza cadere in contraddizione. Egli può dire che è vero che qualora non perseguisse l’unica religione vera invocherebbe i diritti fondamentali, esattamente come fa adesso. Tuttavia in quel caso la sua richiesta sarebbe sbagliata, illegittima, infondata. IR, quindi, presenta una distinzione tra richieste di diritti legittime e richieste di diritti illegittime, assumendo una posizione di secondo ordine, ovvero una prospettiva dalla quale valuta gli atteggiamenti degli agenti. In altre parole, IR distingue tra se stesso e gli altri agenti che scelgono i propri fini e se stesso che valuta queste scelte. In questo caso, poiché ogni agente non può che approvare i fini che ha volontariamente scelto, IR può ammettere che nessun agente non può non richiedere i diritti fondamentali: è la logica che lo impone agli agenti dal loro punto di vista interno, cioè, a imporlo è la logica del metodo dialettico. Tuttavia, non tutti i punti di vista sono ritenuti legittimi. Secondo il nostro integralista religioso, l’unica legittima richiesta di diritti è quella di chi persegue l’unica religione vera.

È probabile che Gewirth stesso consideri questa possibilità, quando parla di un soggetto che, come il nostro IR, pone una distinzione tra se stesso come agente e se stesso come giudice di sé e degli altri agenti. Il problema di Gewirth a questo punto è di capire per quale motivo un simile agente debba accettare ulteriori condizioni necessarie nell’attribuzione dei diritti, come quelle poste dal nostro IR, oltre alle proprietà generiche dell’azione. Secondo Gewirth, la richiesta di simili condizioni aggiuntive non è priva di problemi, poiché sono necessarie delle spiegazioni razionali che la giustifichino; spiegazioni delle quali, invece, non si dispone nel dibattito filosofico. In mancanza di una spiegazione razionale convincente, l’attribuzione dei diritti dovrà basarsi sull’unico criterio disponibile, che è quello già rilevato da

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Gewirth, ossia il possesso delle condizioni generiche dell’azione. Essendo l’unico criterio disponibile, diviene, oltre che una condizione necessaria, pure una condizione sufficiente.20

L’argomento di Gewirth, a questo punto, non è più che per l’agente è logicamente impossibile negare che la descrizione di se stesso in quanto agente sia un titolo sufficiente per il possesso dei diritti generici. L’argomento è che nessun agente possiede argomenti razionali per farlo. Di conseguenza, accanto alla sequenza logica che ha presentato, Gewirth si trova nella condizione di dover dimostrare che nessuna fondazione morale specifica sia valida razionalmente. Così come non può essere valida l’argomentazione di nessun integralista religioso, non può esserlo neppure, ad esempio, quella di un seguace di un’etica teleologica, o di molti seguaci di etiche deontologiche, che dovrebbero argomentare similmente ad IR. In realtà, Gewirth fa molto poco per fornire un’argomentazione di questo tipo. È rintracciabile una discussione su questo tema nella parte introduttiva di Reason and Morality e in poche pagine di The Basis and Content of Human Rights.21 In ogni caso, anche se le proposte di Gewirth fossero attualmente del tutto valide, sarebbe possibile la comparsa di una nuova proposta morale che nega la validità al passaggio da (6) a (7). L’ambizione di Gewirth di porre fine alle discussioni filosofiche morali con un’argomentazione avente la forza di necessità logica è ridimensionata. Il passaggio da (6) a (7) non ha una tale forza, poiché non è contraddittoria la negazione della ragione sufficiente invocata per realizzare il passaggio.

I problemi cui si trova di fronte Gewirth, però, sono anche più ampi di quanto abbiamo indicato fino ad ora. L’argomento che egli espone contro chi nega il passaggio da (6) a (7) sarebbe valido se l’unico modo per opporvisi fosse quello di affermare che c’è un fondamento oggettivo per sostenere un criterio di similarità diverso da quello che si appella alle caratteristiche generiche dell’azione. La pretesa di Gewirth, tuttavia, è più rigorosa di quanto sia invece possibile richiedere. Per comprenderlo, possiamo constatare che un criterio di somiglianza non generico, nell’argomentazione di secondo ordine che stiamo valutando, può essere richiesto anche da chi non crede assolutamente che la morale abbia una base oggettiva. Immaginiamo un soggetto convinto del fatto che i giudizi morali di valore siano soltanto espressioni soggettive dell’agente. Questo agente dirà: ‘Ho diritto alla libertà e al benessere perché perseguo un fine che ritengo giusto perseguire’ (dove ‘giusto’ vale: ‘approvo e raccomando agli altri’). Questo agente, ad esempio, dirà: ‘Ho diritto alla libertà ed al benessere perché il mio fine (aiutare i poveri) è giusto (ossia, è il fine che approvo e raccomando agli altri)’. Se gli viene posta la domanda: «Se tu cominciassi a disprezzare i poveri e assumessi un atteggiamento negativo verso l’aiuto che viene loro offerto, continueresti a reclamare il diritto alla libertà ed al benessere?», l’agente potrà rispondere: «Reclamerei i diritti, però sarei un essere aberrante. Non ritengo giusto che se io divenissi quel tipo di persona meriterei i diritti fondamentali (ossia: ‘ho un atteggiamento di disgusto verso la possibilità che io riceva i diritti fondamentali se divenissi quel tipo di persona’). Di conseguenza, ritengo che una condizione necessaria per richiedere i diritti fondamentali sia l’essere una persona che ama aiutare i poveri». Con ciò si vede che è possibile assumere un criterio di

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similarità più specifico di quello proposto da Gewirth e che il suo passaggio da (6) a (7) non è giustificato logicamente.

4.4.3. Ma anche se si è disposti ad accogliere il principio della coerenza

generica come un enunciato necessario, il dibattito morale non ne ricava gli esiti positivi che Gewirth vorrebbe. Rimane, infatti, ancora aperta la questione di quali siano gli enunciati più specifici che possano essere ritenuti validi. Immaginiamo ancora il caso di un integralista religioso. Egli può pensare di una persona che non segue la sua religione che questa non corrisponde al criterio di agente, perché la riterrà o tale da non essere bene informata, oppure in preda ad istinti che non può controllare, cioè tale da non seguire propositi volontari. Lo dirà, ad esempio, di un agente che mangia una buona bistecca fiorentina in un giorno in cui è previsto il digiuno. Un simile integralista religioso seguirà tutto il ragionamento di Gewirth, da (1) a (8), ma mentre un liberale, ad una domanda specifica in materia, risponderà dicendo che ciascuno ha diritto a mangiare quando gli pare tutto ciò che vuole, il nostro integralista religioso dirà che durante i giorni di digiuno nessuno deve mangiare, poiché chi lo fa non è un agente che persegue scopi volontari.

Quindi, il tentativo di Gewirth risulta alla fine infruttuoso, perché, per essere giustificato, il principio supremo della morale deve ricorrere ad assunti empirici e non basarsi esclusivamente su un procedimento logico.

1 A. Gewirth, Reason and Morality, Chicago, Chicago University Press, 1978, p. 27. 2 Per una spiegazione dell’utilità del metodo dialettico, vedi M. Matulovic, Moralnost i

utemeljenje ljudskih prava, “Filozofska istrazivanja”, 1988, pp. 208-209. 3 D. Beylevend, The Dialectical Necessity of Morality, Chicago, Chicago University Press,

1991, pp. 20-46. 4 Vedi M. Matulovic, Ljudska prava, Zagabria, Hrvatsko filozofsko društvo, 1996, pp.

169-180. 5 Per ulteriori spiegazioni riguardanti il benessere cfr. paragrafi 2.3. e 2.4. di A.

Gewirth, Reason and Morality, cit. 6 A. Gewirth, The “Is-Ought” Problem Resolved, in A. Gewirth, Human Rights: Essays on

Justification and Application, Chicago, Chicago University Press, 1982, pp. 118-119. 7 Per un esempio di questa obiezione: C. McMahon, Gewirth’s Justification of Morality,

“Philosophical Studies”, 1986, pp. 261-281. 8 A. Gewirth, The Justification of Morality, “Philosophical Studies”, 1988, p. 252. 9 A. Gewirth, Ethical Universalism and Particularism, “The Journal of Philosophy”, 1988,

pp. 283-303. 10 A. Gewirth, Why Rights Are Indispensable, “Mind”, 1986, pp. 340-342; Common

Morality and the Community of Rights, in G. Outka e J.P. Reeder (a cura di), Prospects for a Common Morality, cit., pp. 43-46.

11 A. Gewirth, Reason and Morality, cit., p. 158. 12 Per un’esposizione della discussione di questo aspetto della proposta di Gewirth,

vedi D. Beylevend, The Dialectical Necessity of Morality, cit., pp. 121-144. 13 A. Gewirth, Replies to My Critics, in E. Regis (a cura di), Gewirth’s Ethical Rationalism.

Critical Essays with a Reply by Alan Gewirth., Chicago, Chicago University Press, 1994. La risposta di Gewirth si riferisce a W.D. Hudson, The “Is-Ought” Problem Resolved?, in E. Regis (a cura di), Gewirth’s Ethical Rationalism. Critical Essays with a Reply by Alan Gewirth, cit.

14 R.M. Hare, Do Agents Have to Be Moralists?, in E. Regis (a cura di), Gewirth’s Ethical Rationalism. Critical Essays with a Reply by Alan Gewirth, cit., pp. 57-58.

15 A. Gewirth, Reason and Morality, cit., p. 176. 16 Ivi, p. 177.

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17 Da alcune delle caratteristiche che abbiamo esposto precedentemente, c’è chi ha

voluto concludere che Gewirth, in realtà, non segue un metodo dialettico. Vedi E.Y. Chinn, Gewirth’s “Dialectical Argument”, “The Southern Journal of Philosophy”, 1993, pp. 2-3.

18 K. Nielsen, Against Ethical Rationalism, in E. Regis (a cura di), Ethical Rationalism. Critical Essays with a Reply by Alan Gewirth, cit., p. 67.

19 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 76. 20 A. Gewirth, Reason and Morality, cit., p. 126. 21 A. Gewirth, The Basis and Content of Human Rights, in A. Gewirth, Human Rights, cit.,

p. 43-45.

Capitolo quinto

L’analogia con i colori

Ci occuperemo ora di un altro tentativo di rispondere alle critiche a posteriori dell’antirealismo. La strategia che ci apprestiamo ad esaminare accoglie uno dei presupposti della critica antirealista a posteriori, vale a dire che le uniche qualità che esistono sono le qualità naturali. Tuttavia, secondo i nostri realisti, tra le qualità naturali si possono enumerare anche le disposizioni: tanto le disposizioni di alcuni fatti, enti, avvenimenti, comportamenti, ecc. a provocare delle reazioni in noi, quanto le nostre disposizioni a reagire in un certo modo di fronte ad alcuni fatti, enti, avvenimenti, comportamenti, ecc. Chiameremo queste teorie disposizionali. I sostenitori delle teorie disposizionali differiscono tra loro in quanto alcuni concentrano la loro analisi sulle disposizioni degli oggetti, ecc. a provocare delle reazioni in noi, mentre altri concentrano la propria analisi sulle nostre disposizioni a reagire in un certo modo di fronte ad oggetti, ecc. di un certo tipo. Tra i rappresentanti del primo tipo di disposizionalismo è John McDowell, tra i rappresentanti del secondo vi è Bruce Brower. Per motivi che si chiariranno in seguito, i due approcci sono complementari e, quindi, tratteremo i due approcci come un’unica teoria.

Inizieremo dalla posizione di McDowell, che ha proposto di identificare le proprietà morali con le qualità secondarie, recuperando il realismo morale. Presenteremo, poi, la critica di Blackburn a McDowell, le critiche di Crispin Wright a Blackburn e allo stesso McDowell e, poi, la critica di Brower a Wright. Successivamente, presenteremo la proposta di David Lewis e la critica di Mark Johnston a Lewis, assieme a una proposta alternativa. Concluderemo con l’argomento di Alan Goldman, che dovrebbe essere decisivo nel dimostrare che l’analogia con le qualità secondarie non conduce, per lo meno in etica, a una posizione realista.

5.1. Il punto di riferimento storico privilegiato dalla filosofia inglese

contemporanea in questo dibattito è John Locke.1 Così accade pure per McDowell, il quale, però, a differenza di Locke, sostiene che le qualità secondarie sono reali. Da questa posizione McDowell giunge al realismo morale poiché afferma che le qualità morali sono equivalenti a quelle secondarie. Tralasciando tutti i precedenti dibattiti storici sulla distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, si inizierà l’esposizione del problema, con qualche breve accenno a Locke. Le qualità primarie sono la solidità, l’estensione, la figura e la mobilità di un corpo. Tali qualità corrispondono agli oggetti quali essi sono; se noi percepiamo un oggetto come un quadrato (a condizione che la nostra percezione non sia distorta) esso è veramente quadrato, se lo percepiamo come denso, esso è veramente denso. Le qualità primarie sono qualità che ci raffigurano gli oggetti quali veramente sono. Le qualità secondarie, invece, «non sono che poteri di produrre sensazioni varie in noi mediante le loro qualità primarie».2 sono qualità di questo genere ad

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esempio i colori, i suoni, gli odori, ecc. Le qualità secondarie non sono che disposizioni delle qualità primarie a produrre in noi determinate sensazioni. Le qualità secondarie, tuttavia, non raffigurano gli oggetti quali essi sono. Un oggetto che percepiamo come giallo non è giallo di per sé; produce soltanto la percezione del giallo. Con le parole di Locke:

Le idee delle qualità primarie dei corpi sono ritratti di esse e i loro esemplari esistono realmente nei corpi stessi; mentre le idee prodotte in noi dalle qualità secondarie non rassomigliano ad esse per nulla. Nei corpi non esiste nulla di simile a tali nostre idee. Nei corpi, che noi denominiamo da esse, esse non sono che il potere di produrre in noi quelle sensazioni: e ciò che è dolce, azzurro o caldo nell’idea, non è che una certa massa, figura e movimento delle particelle insensibili nei corpi che noi chiamiamo appunto estesi, figurati e mobili.3

Locke intende indicare un errore compiuto dal senso comune: quello di credere che le qualità secondarie siano altrettanto reali delle qualità primarie. I realisti che ci accingiamo a esaminare, contrariamente a Locke, pur accogliendo la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, vogliono mostrare che il realismo è sostenibile anche a proposito delle qualità secondarie.

McDowell ritiene che l’errore compiuto da Mackie nel denunciare il presunto errore del realismo morale è quello di aver analizzato le proprietà morali con il modello di analisi delle qualità primarie. E in effetti, posto il problema in questi termini, l’antirealismo morale diviene un candidato molto plausibile, visto che l’unica possibilità per il realista sembra quella di dover far appello ad una realtà sui generis e a facoltà cognitive sui generis. Le proprietà morali, invece, devono essere intese come qualità secondarie, ossia delle disposizioni a produrre in noi determinate percezioni.

Una qualità secondaria è una proprietà la cui ascrizione a un oggetto non è adeguatamente compresa tranne che in quanto vera (se è vera), in virtù della disposizione dell’oggetto a realizzare una particolare influenza percettiva.4

Così, ad esempio, un oggetto è rosso se è tale da apparire in determinate circostanze rosso. L’esperienza delle qualità secondarie sembra riferirsi a proprietà realmente possedute dall’oggetto in questione. La proprietà di un oggetto di poter apparire rosso è indipendente dal suo apparire attualmente rosso agli osservatori. La proprietà è lì, indipendentemente dal fatto che qualcuno ne abbia esperienza. Perché si è quindi ritenuto che le qualità secondarie implichino l’antirealismo? Le qualità secondarie non sono concepibili tranne che nei termini di alcuni stati soggettivi e, in un certo senso, sono soggettive. Le qualità primarie, invece, sono oggettive, nel senso che il fatto di possederle può essere spiegato anche indipendentemente dalla loro disposizione ad apparire in un certo modo. Le qualità secondarie non possiedono questo tipo di oggettività. Tuttavia, il contrasto, in questo caso non è tra un’esperienza veridica ed un’esperienza illusoria, come sembrerebbero sostenere gli antirealisti. In sintesi, ciò che McDowell suggerisce è di distinguere tra: (i) esperienza veridica ed esperienza illusoria (per cui le qualità primarie e le qualità secondarie, secondo McDowell, si collocano dalla stessa parte); (ii) proprietà non essenzialmente fenomeniche e proprietà essenzialmente fenomeniche (per cui le qualità primarie e le qualità secondarie sono distinte). Gli antirealisti dovrebbero affermare che le qualità secondarie sono soltanto delle creazioni mentali. Però l’esperienza di una qualità

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secondaria non è l’esperienza di una proprietà creata dall’esperienza stessa, bensì, la percezione di una disposizione che è lì per essere percepita.

Gli antirealisti rafforzano la propria posizione con un’argomentazione ulteriore, secondo la quale l’appello all’esistenza reale delle qualità secondarie sarebbe minato dal fatto che le qualità secondarie sarebbero esplicativamente povere. Quando ci si chiede: «perché un oggetto è rosso?» sembra che la risposta di coloro che vogliono difendere il realismo debba essere «perché ha la qualità di apparire rosso». La spiegazione sembra veramente non informativa: dire che una cosa è rossa perché ha la qualità di apparire rossa vuol dire affermare un’autentica banalità. Ma McDowell respinge come non decisiva questa critica, poiché ciò che è essenziale per il realista non è che le qualità secondarie rientrino nella spiegazione causale della percezione, bensì il fatto che è incoerente fornire la spiegazione di una percezione non tenendone conto. Se per la percezione di un oggetto rosso è sufficiente rifarsi alle qualità primarie dell’oggetto percepito e, quindi, formulare la spiegazione fisica della percezione, sarebbe però incoerente con questa spiegazione affermare che l’oggetto non possiede anche la proprietà di apparire rosso. Perciò:

la verifica esplicativa corretta non consiste nel vedere se qualcosa ha un peso nella

spiegazione favorita (può non averlo, senza essere eliminata dalla spiegazione per questo motivo), bensì nel vedere se chi realizza la spiegazione può escluderla senza contraddizione.5

Anche le qualità morali sono disposizione a produrre determinate percezioni nei soggetti.

Un’analogia tra l’esperienza di colori e (per dirla così) l’esperienza di valori sembra naturale. Possiamo imparare a realizzare delle classificazioni soltanto perché alle nostre dotazioni naturali capita di essere tali da darci il giusto tipo di esperienza visiva. In un modo simile, noi possiamo imparare a vedere il mondo nei termini di un insieme specifico di classificazioni valutative, estetiche o morali, soltanto perché le nostre propensioni affettive e le nostre attitudini sono tali da farci occupare nel modo appropriato delle cose che queste classificazioni ci insegnano a vedere catalogate in un certo modo.6

Così, ad esempio, l’amore di una madre per il proprio figlio ha la disposizione a produrre in noi, in accordo con la nostra sensibilità morale, la percezione di una virtù. L’errore degli antirealisti è quello di voler applicare alle qualità morali i criteri di verifica delle qualità primarie. Da qui il loro antirealismo. È infatti vero, anche secondo McDowell, che non esistono proprietà morali di per sé senza alcun riferimento a chi le conosce. Tuttavia, per poter sostenere una posizione realista, non è necessario richiedere un tale tipo di realtà. Come le qualità secondarie, così anche le proprietà morali hanno un’esistenza che va interpretata in relazione alla sensibilità di un soggetto. Anche l’appello degli antirealisti ai criteri di spiegazione causale non costituisce un modello adeguato di critica. È ancora più ovvio per le qualità morali , di quanto non lo sia per le qualità secondarie, di non poter apparire in una spiegazione causale. Tuttavia, questo fatto, come accade proprio per le qualità secondarie tradizionali, non implica l’antirealismo. Infatti, per sostenere una posizione realista, non è necessario introdurre delle proprietà nella spiegazione causale, bensì è sufficiente mostrare che la loro esistenza non può essere negata con coerenza. Vi è, inoltre, una ragione specifica delle proprietà morali per escludere il

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criterio della spiegazione causale. Le proprietà morali non sono semplicemente tali da produrre una determinata reazione nei soggetti, ma tali da meritare determinate reazioni da parte dei soggetti. Un’analogia a questo proposito può essere la seguente. Un animale terrificante ha la caratteristica di provocare paura in soggetti come noi. La spiegazione di questa caratteristica non verrà data dalla spiegazione causale meccanica della nostra percezione dell’animale, bensì dalla spiegazione delle caratteristiche che lo rendono terrificante. Tenteremo di individuare le ragioni per le quali l’animale merita di essere terrificante. Una volta individuate queste ragioni, diverrà contraddittorio affermare che l’animale non possiede nella realtà la qualità di essere terrificante. A proposito delle qualità morali, l’analisi rilevante non sarà quella di verificare il procedimento meccanico causale per cui noi percepiamo qualcosa come moralmente virtuoso, bensì di spiegare perché qualcosa merita di essere percepito come virtuoso. Una volta individuate queste ragioni, diverrà contraddittorio affermare che l’azione non possiede nella realtà la qualità di essere virtuosa.

5.2.1. Blackburn ritiene che vi siano alcuni punti deboli nella proposta

di McDowell: (i) La sopravvenienza delle qualità morali è molto diversa dalla

sopravvenienza delle qualità secondarie.

È un dato di fatto stabilito dalla scienza che le proprietà secondarie

sopravvengono sulle proprietà primarie. Non si dirà, però, che qualcuno non ha la competenza di identificare le proprietà secondarie se non sa che queste sopravvengono a partire da altre proprietà. Dall’altro lato, non è una legge stabilita dalla scienza che le proprietà morali sopravvengono da quelle naturali, mentre si dirà proprio che qualcuno non ha la competenza di identificarle se non sa che esse debbano essere sopravvenienti in questo modo.7

Le variazioni nelle qualità secondarie (ad esempio, nei colori) dipendono da variazioni nella struttura degli oggetti, ovvero da variazioni delle qualità primarie. Questa è una legge scientifica. Tuttavia, una persona può essere riconosciuta come sufficientemente abile nell’identificare i colori anche se non conosce queste leggi. Ed è, infatti, un’esperienza condivisa che la maggioranza delle persone comuni sono in grado di riconoscere i colori, pur senza sapere nulla sulla legge fisica che riguarda la loro formazione. Esattamente il contrario avviene con le qualità morali. In questo caso non c’è alcuna legge scientifica che stabilisca una connessione tra le proprietà morali e le proprietà naturali. Ma sarebbe ritenuto moralmente incompetente chi fallisse nel percepire questa connessione: chi, ad esempio, valutasse in modo diverso due fatti che, invece, ritiene perfettamente identici nelle loro proprietà primarie. Sembra perciò che mentre le percezioni delle qualità secondarie sono il semplice risultato di un meccanismo percettivo conosciuto, le qualità morali siano il risultato di un processo di conoscenza più complesso.

(ii) Sono largamente noti i meccanismi percettivi con i quali si conoscono le qualità secondarie. E quando il meccanismo percettivo è alterato possiamo dimostrarlo. Lo stesso non vale per la presunta percezione delle qualità morali. In particolare, non c’è alcun metodo scientifico per determinare tra due persone in disaccordo quale delle due stia sbagliando.

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(iii) La percezione delle qualità secondarie è relativa al nostro apparato percettivo: se cambiasse la struttura del nostro occhio, anche gli oggetti che chiamiamo rossi perderebbero questa attribuzione. Difficilmente saremmo disposti ad accogliere la stessa conclusione a proposito delle proprietà morali.

Se ognuno arrivasse a ritenere lecito maltrattare gli animali, ciò non renderebbe tale azione lecita: significherebbe soltanto che tutti hanno subito un deterioramento.8

(iv) Non ha alcun significato dire che sono stati commessi errori su vasta scala nel determinare alcune qualità secondarie. Ad esempio, non lo ha dire che un’intera civiltà sbagliava nel giudicare rossi degli oggetti che invece non lo erano. Nei nostri giudizi morali, invece, vogliamo poter disporre della possibilità di esprimere proprio questo genere di critica.

(v) La quinta obiezione si concentra sulla presunta discordanza tra credenze e motivazione. Una persona può percepire una qualsiasi tra le qualità secondarie senza che alcuna motivazione di alcun genere sorga in lei. Accogliere quest’idea in etica sembra difficile: pare, infatti, esserci una connessione tra l’accogliere un giudizio morale ed essere motivato.

(vi) Le qualità morali sono attributive: le stesse cose che sono delle virtù per un padre non sono delle virtù per un generale. Lo stesso non vale per le proprietà secondarie: un pomodoro è rosso tanto per chi lo vende quanto per chi lo compra.

5.2.2. Si tenterà ora di rispondere a questo primo gruppo di critiche.

Seguiremo in larga misura le linee argomentative proposte da Wright. (i) È vero che il tipo di sopravvenienza delle qualità secondarie è

diverso dal tipo di sopravvenienza delle qualità morali. Tuttavia, ciò non presenta un particolare problema. L’analogia tra i due tipi di proprietà non vuol dire completa identità e la discordanza constatata da Blackburn, in questo caso, non è rilevante per la discussione.

La proposta che si basa sull’analogia con le qualità secondarie consiste (o deve consistere) nel dire che noi dobbiamo pensare alle qualità morali come a colori, ecc., ovvero come a disposizioni che inducono alcuni tipi di effetti percettivi in soggetti appropriatamente ricettivi. Tale comparazione non ci dà alcuna ragione per pensare che ogni tipo di costrizione che opera nella nozione di ricettività

appropriata nel caso morale corrisponderà a quelle delle qualità secondarie. È un criterio nella definizione dell’appropriata sensibilità ricettiva dei soggetti, in ambito morale, che essi siano disposti a registrare le differenze morali soltanto quando credono di aver notato le differenze non-morali.9

Le qualità secondarie, quindi, non sono il risultato della percezione di un qualsiasi soggetto in una qualsiasi situazione. Sono il risultato della percezione di un soggetto adeguatamente ricettivo: attento, non alterato da stupefacenti oppure da bevande alcoliche, sufficientemente riposato, ecc. Condizioni specifiche vengono richieste anche ai soggetti che devono cogliere le qualità morali; tra queste condizioni, quella di essere a conoscenza delle mutazioni dei fatti naturali. Le condizioni di adeguatezza mutano, però il fatto rilevante non muta: tanto le qualità morali quanto quelle secondarie sono disposizioni che richiedono delle condizioni di adeguatezza. L’analogia rilevante continua a sussistere.

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(ii) Blackburn, ancora una volta, punta su una discordanza che non è rilevante per la sussistenza dell’analogia. Blackburn, infatti, sottolinea come nel caso della percezione delle qualità secondarie ci sia una spiegazione scientifica che può rendere conto della percezione stessa e valutarla. Il fatto che tale spiegazione non esista ancora a proposito della percezione delle qualità morali indica soltanto che le condizioni di adeguatezza per chi percepisce le qualità morali non sono soltanto di natura fisica.

(iii) Alla terza obiezione si può rispondere nel seguente modo. Il soggetto che percepisce le qualità morali è sottoposto ad alcune condizioni di adeguatezza. Si possono porre tra le condizioni di adeguatezza alcuni criteri che escludono i cambiamenti drastici nelle valutazioni morali che portano al relativismo, ai quali fa appello Blackburn. Ovviamente, rimane il problema di come giustificare le condizioni di adeguatezza, ma questo è un problema diverso da quello sollevato dall’obiezione.

(iv) Si può rendere conto delle diversità di opinioni tra civiltà diverse e, quindi, di errori su vasta scala nella valutazione morale, appellandosi ancora una volta alle condizioni di adeguatezza. Si potrà dire che alcune civiltà, nel giudicare determinati fatti o comportamenti, semplicemente non disponevano dei presupposti adeguati per una corretta percezione. Si potrà dire, ad esempio, che non conoscevano adeguatamente i fatti non-morali, che non provavano ad un sufficiente livello l’identificazione con la sofferenza altrui, oppure altro ancora.

(v) Quest’obiezione comporta l’errore di presupporre l’erroneità della posizione avversaria. L’obiezione dice: accogliere i giudizi morali implica acquisire una motivazione; non c’è nulla, però, che possa essere percepito come una motivazione. Ora, questa conclusione può anche essere vera. La si può affermare, però, soltanto alla fine della discussione, non fin da subito. Che esistano tali qualità è proprio il tema della discussione e proprio ciò che vuole dimostrare chi sostiene l’analogia tra qualità secondarie e qualità morali.

(vi) Ancora una volta, Blackburn indica una diversità tra le qualità secondarie e le qualità morali che, di nuovo, non è rilevante. Il suo argomento sarebbe efficace se le qualità attributive non potessero essere disposizionali. Non si vede, tuttavia, perché non potrebbero esserlo. Un (moralmente) buon padre è un padre che provoca (ha la disposizione a provocare) l’approvazione di un osservatore morale normale in condizioni valide. Lo stesso si può dire di un buon generale o di chiunque altro.

Ma sebbene ritenga sia possibile persuasivamente ribattere alle obiezioni di Blackburn, lo stesso Wright ritiene che anche la posizione di McDowell non sia immune da difetti.

5.3.1. Wright identifica l’enunciato fondamentale della teoria

disposizionale delle qualità secondarie in:

x è rosso per ogni S: se S fosse percettivamente normale e dovesse incontrare x in condizioni percettivamente normali, S avrebbe l’esperienza di x quale rosso.10

La teoria disposizionale delle qualità secondarie sostiene che un oggetto è rosso se e solo se un soggetto normale in condizioni normali lo vedrebbe come

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rosso. Con il termine ‘condizioni normali’ si intende ‘condizioni adeguate’. Con questa espressione si indicano le condizioni che consentono il riconoscimento delle diverse qualità, in contrapposizione a condizioni che invece ne danno un riconoscimento distorto.

Un’analisi simile a quella disposizionale può essere fornita anche per le qualità primarie e si può dire, ad esempio, che

x è un quadrato per ogni S: se S è percettivamente normale e incontrasse x in condizioni percettivamente normali, S avrebbe l’esperienza di x come di un quadrato.11

Tuttavia, le qualità primarie possono essere determinate anche attraverso un’analisi non disposizionale che va sotto il nome di bicondizionale canonico.

X è approssimativamente un quadrato se i quattro lati ed i quattro angoli interni di x fossero misurati correttamente e nessun cambiamento dovesse avvenire nella forma di x durante la misurazione, allora i lati sarebbero determinati quali approssimativamente uguali nella loro lunghezza e gli angoli sarebbero determinati quali angoli approssimativamente retti.12

Ovviamente, il fatto che le qualità primarie possano essere determinate anche da un’analisi non disposizionale stabilisce una fondamentale differenza tra queste qualità e quelle secondarie. È vero che in entrambi i casi le qualità potranno essere riconosciute da soggetti normali in condizioni normali. Tuttavia, nel caso delle qualità primarie, l’insieme degli enti che esemplificano le diverse qualità primarie è determinato anche indipendentemente dal loro riconoscimento; l’abbiamo visto con il bicondizionale canonico esposto sopra. Le condizioni normali (o adeguate) per il riconoscimento delle diverse qualità primarie saranno perciò determinate dall’estensione delle stesse qualità. Con ciò si vuol dire che, stabilite indipendentemente le diverse ricorrenze delle qualità primarie, si riterranno condizioni normali per il loro riconoscimento quelle condizioni per le quali si può constatare che hanno le capacità di condurre al riconoscimento di determinazioni stabilite indipendentemente.

Ad esempio, quali oggetti, tra quelli che si trovano in una stanza, sono quadrati e quali invece sono triangoli, è già determinato prima che gli stessi oggetti siano osservati da noi. Le condizioni di appartenenza ai diversi insiemi sono determinate dai corrispondenti bicondizionali canonici. Saranno, quindi, condizioni normali per il riconoscimento dei triangoli e dei quadrati le condizioni che mettono i soggetti in grado di realizzare il riconoscimento delle diverse figure che sono già state classificate dai bicondizionali canonici. Così, possiamo constatare di aver osservato le diverse figure geometriche in condizioni di osservazione diverse. In queste diverse condizioni abbiamo stabilito con risultati diversi quali figure corrispondano ai quadrati e quali no. Successivamente abbiamo eseguito delle misurazioni con degli strumenti precisi. Abbiamo constatato che alcune condizioni di osservazione ci hanno portato ad un riconoscimento dei quadrati corrispondente a quello realizzato con le misurazioni. Altre condizioni osservative ci hanno portato a determinazioni discordanti con quelle realizzate con gli strumenti di misurazione. A questo punto, siamo in grado di chiamare le condizioni del primo gruppo ‘condizioni normali’ e, allo stesso tempo, di escludere in quanto inadeguate le condizioni del secondo gruppo. Sono le qualità primarie a

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stabilire le condizioni di adeguatezza del loro riconoscimento e non il contrario.

La situazione è molto diversa per il riconoscimento delle qualità secondarie. Le qualità secondarie sono stabilite soltanto nel processo del loro riconoscimento. Non abbiamo una determinazione di quali oggetti, in una stanza siano rossi e quali verdi, prima di realizzare un riconoscimento degli stessi oggetti e in condizioni diverse (ad esempio, di illuminazione) gli stessi oggetti potranno apparire di colore diverso. Però, secondo Wright, possiamo continuare a dire che nelle situazioni usuali gli oggetti del gruppo R appaiono rossi, mentre gli oggetti del gruppo V appaiono verdi. Chiameremo queste condizioni ‘normali’. ‘Normale’ vale qui semplicemente come ‘usuale’. È questo tipo di normalità che stabilisce il criterio di adeguatezza. Non essendoci alcun criterio per determinare le ricorrenze delle qualità secondarie diverse da quello del loro riconoscimento in condizioni normali (adeguate), si può dire che la presenza delle diverse qualità negli oggetti è stabilita dalle stesse condizioni di adeguatezza del loro riconoscimento. Contrariamente a quanto avveniva con le qualità primarie, non sono le stesse qualità a stabilire le condizioni di adeguatezza per il loro riconoscimento.

Wright a questo punto espone il bicondizionale che stabilisce il criterio per la determinazione delle qualità morali.

L’azione x è moralmente corretta se e solo se per ogni S: se S esamina il contesto e le conseguenze di x, abbracciando tutte le considerazioni moralmente rilevanti, e se S è un soggetto moralmente valido, allora S giudicherà che x è moralmente corretta.13

Si pone a questo punto la domanda: come sono stabilite le condizioni di adeguatezza nel caso del riconoscimento delle qualità morali? Sono stabilite da un’estensione delle qualità morali già determinata, come nel caso delle qualità primarie, oppure la determinazione delle qualità morali si effettuerà nel processo del loro ritrovamento, in condizioni adeguate da soggetti adeguati?

Se si vuole mantenere l’analogia tra le qualità morali e quelle secondarie, sembra che non si possa optare per la seconda soluzione. Tuttavia, secondo Wright, ciò non è possibile. Non c’è alcun modo di stabilire le condizioni di adeguatezza per il riconoscimento delle qualità morali senza disporre già di una determinazione indipendente dei concetti morali. Si è detto, infatti, che il riconoscimento deve essere realizzato da un soggetto ‘moralmente valido’, che riesce a cogliere tutte le ‘considerazioni moralmente rilevanti’. Queste due condizioni di adeguatezza, ovviamente, richiedono già il possesso di concezioni morali precedenti al riconoscimento delle singole ricorrenze. Il modello di riconoscimento delle singole ricorrenze delle qualità morali, quindi, ricalca il modello delle qualità primarie. Con ciò cade l’analogia tra qualità morali e qualità secondarie sostenuta da McDowell.

Wright è convinto di aver ottenuto un altro risultato importante. Egli ritiene che le qualità morali non possano essere neppure qualità primarie. Le qualità primarie hanno un potere causale di agire su altri enti, le qualità morali, invece, sono causalmente inerti (questo argomento ricalca quello analogo di Harman). E ancora: esiste un’epistemologia delle qualità primarie, che spiega come queste interagiscono coi nostri meccanismi conoscitivi, ma lo stesso non

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può dirsi delle qualità morali. Non essendo né qualità primarie, né qualità secondarie, quindi, le qualità morali non esistono nella realtà.

5.3.2. Ma forse l’argomentazione di Wright non è del tutto stringente.

Brower, infatti, ritiene che l’errore fondamentale di Wright sia stato quello di confondere due significati di ‘predeterminato’.

In un senso, l’estensione è predeterminata quando i fatti che determinano che cosa c’è nell’estensione sono completamente distinti da qualsiasi fatto riguardante come noi risponderemmo al fenomeno. In un altro senso, l’estensione è predeterminata se noi abbiamo delle credenze su che cosa ci sia nell’estensione e noi usiamo queste credenze per guidare la nostra teoria.14

Secondo Brower, il bicondizionale riguardante le qualità morali mostra soltanto che ci sono delle credenze morali che guidano le nostre teorie. Questo loro carattere sarebbe del tutto compatibile con il realismo etico disposizionale, cioè con la posizione che sostiene l’analogia tra le qualità morali e le qualità secondarie. Brower ritiene che noi abbiamo una sensibilità morale, costituita da un complesso insieme di disposizioni morali, che ci porta ad avere determinate credenze morali, che entrano in gioco tramite le nostre risposte a situazioni attuali, oppure ipotetiche. Questa sensibilità, che crea le nostre credenze morali, ci porta anche a formulare teorie morali più o meno appropriate. Sono queste le teorie morali che contribuiranno a stabilire le condizioni di adeguatezza del bicondizionale che determina le qualità morali. Il dato importante, non colto affatto da Wright, è che queste teorie sono il risultato della nostra sensibilità morale, non di un criterio indipendente dalle nostre disposizioni. In tale senso, le qualità morali stesse continuano ad avere il loro carattere disposizionale e non sono assimilabili alle qualità primarie.

Il problema a questo punto è: perché ricorrere alle condizioni di adeguatezza? Se le condizioni di adeguatezza sono stabilite dalle credenze morali, come potranno, poi, fungere da filtro per le stesse credenze morali? Il problema sembra lo stesso di quello che ci sarebbe se gli accusati potessero scegliere da soli i propri giudici. Sembra che Brower possa fornire una risposta, proponendo una prospettiva epistemologica coerentista, secondo la quale si ha una giustificazione epistemologica quando si hanno delle credenze autonome correggentesi e sostenentesi reciprocamente.

(a) Noi abbiamo delle disposizioni a rivedere e rigettare delle risposte, alla luce di nuove informazioni. (b) Abbiamo non soltanto delle disposizioni di primo ordine ma anche delle disposizioni di secondo ordine e, probabilmente, di

ordine superiore a rivedere e regolare le disposizioni di primo ordine. c Il livello superiore di una disposizione non è una garanzia della sua abilità a superare le disposizioni a livello inferiore.15

Le disposizioni morali che determinano le condizioni di adeguatezza sono disposizioni di ordine superiore che controllano e selezionano i risultati delle disposizioni a livello inferiore. A volte, però, sono le ultime a provocare una revisione delle prime. La situazione, quindi, non è quella di un accusato che sceglie il giudice da solo, ma quella di credenze diverse che si controllano reciprocamente.

Con ciò si è spiegato, di contro all’obiezione di Wright, perché le qualità morali non sono paragonabili a quelle primarie, ma sono legittimamente

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qualità disposizionali e, perciò, allo stesso tempo, perché le qualità morali vanno identificate in base allo stesso criterio con il quale si identificano le qualità secondarie (ovvero, il criterio di soggetti conoscenti adeguati in condizioni conoscitive adeguate).

5.4. Ma il realismo disposizionale etico è veramente una forma di

realismo? Abbiamo già visto le ragioni presentate da McDowell a sostegno di questa identificazione. Le proprietà disposizionali sono proprietà genuinamente presenti nella realtà, proprietà che hanno la disposizione ad agire in un certo modo su soggetti che hanno particolari sensibilità. La loro presenza non dipende dal fatto di essere percepite attualmente; ci sono condizioni di adeguatezza cognitiva che stabiliscono che alcune percezioni delle qualità disposizionali possono essere sbagliate. Con ciò si soddisfa una delle condizioni essenziali per poter parlare di realtà esterna: il tentativo di conoscere la realtà esterna implica la possibilità di sbagliare nel tentativo, poiché la possibilità dell’errore è esclusa soltanto se è il processo cognitivo stesso a creare le realtà (che, in questo caso, sarebbe soltanto una realtà fittizia).

L’approccio disposizionale di Brower è diverso da quello di McDowell: il suo scopo è quello di rintracciare le nostre disposizioni a reagire, non la disposizione di alcuni fenomeni a provocare le nostre reazioni. Secondo Brower:

Il realismo etico disposizionale afferma che noi abbiamo una sensibilità morale, modellata dalla natura e dalla cultura. Esso tratta la verità morale come determinata dagli output della nostra sensibilità scopribili empiricamente.16

Ossia,

nel percepire che cosa è giusto o sbagliato, noi percepiamo, in ultima analisi, qualcosa su come noi siamo disposti a reagire, quindi percepiamo qualcosa che riguarda noi stessi. Però la nostra conoscenza etica è guidata e regolata da un processo di scoperta delle nostre stesse disposizioni, non è soltanto una creazione di queste disposizioni.17

I due approcci disposizionali sono, in realtà, complementari. Dire che vi sono delle qualità che hanno la disposizione a creare in noi delle reazioni vuole anche dire che noi abbiamo la disposizione a cogliere determinate qualità in determinati modi. Non ha alcun senso dire che un oggetto ha la disposizione a provocare la sensazione di rosso in un cieco. Allo stesso modo, dire che abbiamo delle disposizioni a reagire in un certo modo di fronte a qualcosa vuol anche dire che questo qualcosa ha la disposizione a provocare delle reazioni in noi. Non ha senso dire: io ho la disposizione ad agire in modo M di fronte a P, però P non ha la disposizione a provocare in me la reazione M. Se negassi le disposizioni di P nei miei confronti, dovrei ammettere anche che io stesso non ho particolari disposizioni rivolte a determinate situazioni. Potrei dire che mi capita casualmente di reagire in un certo modo di fronte a certe situazioni, oppure che ho la capacità di decidere di reagire di fronte a certe situazioni in un certo modo. Ma questo è proprio ciò che Brower non vuole sostenere.

Veniamo alla difesa realista di Brower. Cosciente della varietà di definizioni di ‘realismo’, Brower ne identifica, tuttavia, una determinazione centrale: un’entità è reale se è indipendente dalla mente umana. Il problema diviene, perciò, quello di determinare che cosa significa ‘indipendente’.

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La prima condizione dell’indipendenza è rappresentata dalla tesi dell’indipendenza causale:

Un’entità è causalmente indipendente se i fatti che la riguardano sono causalmente indipendenti da ciò che noi pensiamo e scegliamo. Il mondo è causalmente indipendente dal pensiero. Il modo nel quale pensiamo a una cosa non la porta ad esistere, come non porta ad esistere i fatti che la riguardano.18

La tesi dell’indipendenza causale a sua volta va spiegata. Il fatto che qualcuno sia timido, ovviamente, non è indipendente dai pensieri del soggetto che è timido. Tuttavia, solitamente noi riconosciamo che la timidezza è una proprietà reale. La situazione è simile a proposito delle proprietà morali. Queste dipendono dalle nostre disposizioni, e non sono in una posizione ontologicamente peggiore rispetto alla timidezza. Si può parlare di realismo, nonostante la dipendenza disposizionale, per il seguente motivo. La timidezza di un soggetto è dipendente dai pensieri del soggetto, ma non è dipendente dal pensiero del soggetto di essere timido; è presente nel soggetto non perché il soggetto pensa di essere timido. Lo stesso può dirsi delle disposizioni morali. Che un soggetto abbia la disposizione ad apprezzare l’amore che i genitori danno ai figli non dipende dalla sua percezione di avere la disposizione. In tutti questi sensi rilevanti la tesi dell’indipendenza causale viene rispettata.

A questa prima condizione si deve aggiungere quella rappresentata dalla tesi dell’indipendenza costitutiva.

L’esistenza del mondo, delle entità del mondo ed il modo nel quale il mondo è fatto non sono riducibili a, né costituiti da fenomeni mentali. Il mondo è

costitutivamente indipendente dal pensiero. Vogliamo dire che i tavoli e gli alberi non sono fatti di nostre idee sensoriali o dati sensoriali.19

Anche in questo caso, la tesi ha bisogno di alcuni chiarimenti. Noi vogliamo dire che i nostri stati mentali sono reali anche se sono costituiti, appunto, da stati mentali. Che io abbia una convinzione che p non è, ovviamente, un dato di fatto costitutivamente indipendente dalle mie convinzioni; è un’ovvietà, infatti, dire che la mia convinzione che p è costituita dalla mia convinzione che p, quindi da una mia convinzione. Non è, però, costituita dalla mia convinzione di essere convinto che p. La tesi dell’indipendenza costitutiva va, quindi, interpretata nel modo seguente: p è reale se non è costituito dal pensiero (convinzione, credenza, ecc.) che sia reale. In questo senso, la mia convinzione che p soddisfa il criterio. Lo stesso sarà per le mie disposizioni morali.

Esiste, infine, un terzo criterio rappresentato dalla tesi dell’indipendenza epistemica, che possiamo presentare con un’unica proposizione.

Ciò che pensiamo del mondo, anche se con un’adeguata giustificazione, può essere falso.20

Il criterio è, secondo Brower, soddisfatto dal realismo etico disposizionale. Anche in situazioni semplici noi possiamo sbagliare sulle nostre disposizioni. Possiamo essere convinti con la massima certezza che in una data situazione reagiremo in un certo modo, mentre poi, quando la situazione diviene attuale, reagiamo in un modo diverso, il che rafforza, a parere di Brower, il legame fondazionale tra la teoria disposizionale ed il realismo morale.

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5.5.1. Lewis è un altro degli autori che sostengono l’approccio disposizionale alla teoria del valore. La sua definizione di valore è la seguente:

Qualcosa di un’appropriata categoria è un valore se e solo se saremmo disposti, sotto condizioni ideali, ad apprezzarlo.21

Questa definizione solleva alcune domande: che cosa sono gli atteggiamenti favorevoli di valutazione? Qual è l’appropriata categoria delle cose che sono oggetto di valutazione? Chi sono i soggetti che esprimono le valutazioni? Qual è lo status modale del bicondizionale? Lewis tenta di rispondere con una teoria metafisica naturalistica e riduzionistica, oltre che soggettivista – nel senso che analizza i valori nei termini dei nostri atteggiamenti, anche se non sostiene che qualsiasi cosa sia pensata sia vera –. La teoria è anche internalista, nel senso che pone una connessione concettuale tra i valori e le motivazioni. La teoria è inoltre cognitiva, poiché ci consente di raggiungere una conoscenza di ciò che è apprezzabile. Infine, la teoria è condizionatamente relativista: essa non esclude che esistano valori soltanto relativi a particolari raggruppamenti umani.

5.5.2. La prima domanda è ‘in che cosa consiste il valutare?’. La

risposta di Lewis è che il valutare consiste in un desiderio. Non, però, in un desiderio semplice, bensì in un desiderio di ordine superiore: attribuire valore a qualcosa vuol dire desiderare di desiderarla. Un valore è, quindi, qualcosa che siamo disposti in condizioni ideali a desiderare di desiderare. Da ciò si vede come la teoria sia internalista. Chi ritiene che una cosa sia un valore desidera di desiderarla, quindi, la desidera; desiderandola, la realizzerà, a meno che questa realizzazione non si scontri con altri desideri.

Vediamo ora quali sono le cose che sono oggetto di valutazione. Se ne possono identificare due classi diverse, dal momento che i desideri stessi possono essere raggruppati in due classi. Possiamo desiderare, innanzitutto, che il mondo possa venire strutturato in un certo modo, ovvero che esso realizzi una certa classe di possibilità. Lewis chiama questi desideri ‘desideri de dicto’. Esistono, tuttavia, anche desideri che non riguardano il mondo esterno, ma riguardano il soggetto stesso che li prova: un soggetto può desiderare di possedere una proprietà. Lewis chiama questi desideri ‘desideri de se’. I valori possono riguardare entrambi i generi di desideri, con la sola esclusione delle versioni egoistiche dei desideri de se.

Ma quali condizioni sono ideali? Lewis le identifica nella capacità di realizzare, con l’immaginazione, una conoscenza della situazione che si sta valutando. La nuova definizione del valore, quindi, è: ‘Qualcosa è un valore se e solo se noi siamo disposti, in condizioni della massima possibile conoscenza immaginativa, ad approvarla’.22 Questa definizione ci dà la possibilità di effettuare una sorta di verifica canonica dei valori. Bisogna immaginare con la massima intensità una situazione. Se si riesce ad approvarla, si dovrà ritenere che quella situazione presenta delle proprietà che le danno un valore. La definizione, inoltre, ci dà la possibilità di parlare di verità morale e di conservare lo spazio anche per l’errore morale.

La domanda seguente riguarda l’identità dei soggetti che valutano. Lewis fornisce una risposta assolutista ed una relativista a questa domanda. La risposta assolutista ritiene che tutta l’umanità possa presentare un’identica

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disposizione alle valutazioni. Il soggetto che valuta quindi può essere considerato come unico rappresentante di tutta l’umanità. Quella relativista, invece, dice che diversi individui o gruppi avranno diverse disposizioni a valutare. Lewis stesso non si esprime a favore di alcuna delle due risposte.

L’ultima delle domande poste da Lewis riguarda lo status modale del bicondizionale. Lewis ritiene che l’equivalenza tra valore e ciò che siamo disposti ad approvare è analitica, seppure non analitica in modo ovvio. La specificazione di ‘analiticità non ovvia’ è necessaria per evitare il problema di Moore. L’argomento di Moore si basava sul fatto che le domande riguardanti l’equivalenza tra enunciati morali ed enunciati non morali non hanno risposte ovvie. Da ciò concludeva che non c’è equivalenza analitica tra i due generi di asserzioni. Lewis respinge questo tipo di argomentazione, in quanto nega che l’equivalenza analitica presupponga l’ovvietà.

A questo punto, Lewis si trova di fronte ad un problema: se l’equivalenza non è ovvia, quali motivi ci sono per pensare che esista? La risposta è che tale equivalenza corrisponde alla nostra esperienza morale. Secondo Lewis, è un dato di fatto che quando vogliamo verificare se qualcosa rappresenta un valore genuino, la sottoponiamo alla verifica del metodo canonico: cerchiamo di ottenere la miglior conoscenza immaginativa riguardante il fatto e ci chiediamo se desideriamo di desiderarlo.

5.5.3. Un’altra discussione sul problema delle qualità disposizionali è

sviluppata da Johnston, che pure presenta un’analogia tra le qualità secondarie e quelle morali. L’analogia fondamentale consiste nell’identificare tanto i concetti morali quanto quelli riguardanti le qualità secondarie come concetti dipendenti dalle risposte (response-dependent) dei soggetti. Le qualità che dipendono dalle risposte sono definibili nel seguente modo: ‘x è C se e solo se x è tale da produrre R in S nelle condizioni K’.23 Secondo Johnston una teoria disposizionale del genere rappresenta una posizione realista opposta a una posizione antirealista, simile a quella di Mackie, dal momento che afferma che le qualità identificate nel bicondizionale come C esistono veramente. È una posizione opposta anche al realismo interno, il quale sostiene che le qualità non esisterebbero se non esistessero i soggetti che le percepiscono. Il bicondizionale che abbiamo visto, ovviamente, ha un valore controfattuale, quindi, è vero, se è vero, anche quando non esistono i soggetti che percepiscono le qualità, oppure sono assenti le condizioni nelle quali questa percezione dovrebbe verificarsi. Johnston, tuttavia, ammette che si tratta di un realismo in un certo modo qualificato in quanto afferma che le proprietà morali non esistono di per sé, ma soltanto in virtù delle risposte che provocano.

Prima di esporre la teoria disposizionale che intende sostenere, Johnston critica quella di Lewis. Lewis come abbiamo visto afferma che riusciamo a percepire le qualità disposizionali in virtù della nostra capacità immaginativa, che ci dota di un’apprensione molto viva di una determinata situazione, facendoci esprimere un giudizio morale al riguardo. Johnston ritiene che una simile descrizione trascura un aspetto molto importante della percezione morale: il fatto che nelle nostre convinzioni morali vi è pure un elemento di ragionamento che non è identificabile soltanto nell’apprensione

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immaginativa, ma piuttosto con un ragionamento pratico sostantivo a proposito dei valori. Per confermare la propria affermazione, Johnston presenta due argomentazioni. Innanzitutto, si appella ad una caratteristica riconosciuta dei giudizi morali: la connessione tra proprietà non morali e proprietà morali è costante. Un soggetto non può non dire che un’azione con determinate caratteristiche non morali è virtuosa, mentre un’altra azione, esattamente identica nelle sue caratteristiche non morali, non è virtuosa. Però, se si sottoscrive quanto sostenuto da Lewis, non si ha alcuna garanzia che questo sarà veramente il caso. Per quanto efficacemente attivi la propria capacità immaginativa, non si sarà mai certi che lo stesso soggetto percepirà allo stesso modo il valore di due azioni identiche. Di conseguenza, la connessione tra fatti non morali e proprietà morali deve essere stabilita da «un modello caratteristico di valutazione e ragionamento pratico».24 Solo questo assicura una connessione costante tra i fatti non morali e le valutazioni morali, in quanto le identiche costrizioni alle inferenze valide si imporranno a chiunque tenterà di sviluppare un ragionamento pratico. Sulla scia di questa idea, Johnston propone un nuovo modo di intendere il bicondizionale che determina i valori.

X è un valore se e solo se il ragionamento pratico sostiene la considerazione positiva di x, cioè se le asserzioni di un buon ragionamento pratico supportano la conclusione che x è un valore.25

Definire una cosa come moralmente valida vuol dire anche raccomandarla. Immaginiamo di aver definito i valori morali nei termini di determinate risposte in determinate condizioni. Se queste stesse condizioni non sono specificate in termini normativi, smarriamo la funzione di raccomandazione dei giudizi morali, con il che ne perdiamo una caratteristica del tutto essenziale. Immaginiamo, ad esempio, che le condizioni richieste siano quelle standard dell’osservatore ideale. Un soggetto può emettere un giudizio in una situazione non corrispondente alle condizioni ideali. A questo punto, può anche chiedersi perché il suo giudizio avrebbe un valore inferiore a quello dello spettatore ideale, ovvero perché le valutazioni morali dello spettatore ideale dovrebbero avere una forza vincolante per lui. Lewis propone una teoria riduttivista: i fatti morali vanno ridotti a fatti naturali. Johnston, invece, riconduce i concetti morali ad altri concetti normativi, poiché ritiene che una corretta determinazione dei concetti morali implichi sempre l’uso di altri concetti normativi. L’argomentazione di Johnston colpisce allo stesso modo anche il naturalismo di Lewis.

Il problema per Johnston è ora di mostrare come si possa sostenere una teoria disposizionale e, allo stesso tempo, accogliere il bicondizionale esposto sopra. È importante a questo proposito cercare di comprendere quali siano le caratteristiche che Johnston attribuisce al concetto di razionalità. Per Johnston non appare implausibile attribuire al concetto un significato che comprende (i) la compatibilità logica, matematica e probabilistica tra credenze, e (ii) la tendenza a massimizzare l’utilità (come nella teoria delle decisioni). Tuttavia, la razionalità possiede anche una dimensione più sostantiva, che potrà suggerirci, ad esempio, che contrariamente a quanto diceva Hume, è più ragionevole desiderare un danno al proprio dito piuttosto che la distruzione del mondo intero. Credenze come queste, riguardanti la ragione sostanziale, sono

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condivise da chi condivide il nostro modo di vivere. Johnston, comunque, ammette che importanti domande su che cosa sia sostanzialmente ragionevole sono prive di risposte conclusive, il che vuol dire che anche le discussioni sui valori si trovano prive di risposte siffatte. Si può dire che non sono contestate formulazioni molto generali, come la seguente:

(1) x è un valore se e solo se la ragione sostanziale sta dalla parte dell’apprezzamento di x.26

I problemi sorgono quando si vuole determinare che cosa dica la ragione sostanziale a livello di questa formulazione:

(2) y rappresenta una ragione sostanziale per/contro l’apprezzamento di x se e solo se siamo disposti stabilmente a ritenerla tale in condizioni di crescente informazione e riflessione critica.27

Tra le informazioni richieste dal bicondizionale (2) è compreso innanzitutto ciò che la conoscenza immaginativa ci dice sulla relazione tra x e y. La riflessione critica selezionerà le credenze che derivano da tali input informativi eliminando quelle credenze che sono risultati di pregiudizi, falsa coscienza, ecc. Le credenze che supereranno la riflessione critica saranno inserite in un ampio equilibrio riflessivo con il resto delle nostre conoscenze. Rimane il fatto che una simile determinazione delle ragioni sostanziali potrà essere condotta seguendo metodi diversi. Bisogna, a questo punto, stabilire quali di questi metodi sono validi. Per Johnston,

(3) un metodo per valutare le ragioni sostanziali è un metodo accettabile per determinare se il peso di una ragione sostanziale sta dalla parte dell’apprezzamento di x se e solo se siamo disposti stabilmente a ritenerlo tale in condizioni di crescente informazione e riflessione critica.28

In conclusione,

(4) La ragione sostanziale sta dalla parte dell’apprezzamento di x se e solo se lo fa in accordo con ciascuno e tutti i metodi di valutazione delle ragioni pro e contro x.29

Ci sono alcune ragioni per cui in (4) si parla al plurale di diversi metodi di valutazione delle ragioni sostanziali. Un simile approccio si rende necessario in considerazione della grande differenza tra i diversi valori (valori morali, preferenze personali, ecc.), della natura controversa degli approcci alle considerazioni di valore in campi diversi e di un ragionevole scetticismo a proposito della capacità critica di dissolvere queste controversie. Potremo identificare dei valori tout court soltanto se tutti i diversi metodi di valutazione delle ragioni sostanziali procederanno nella stessa direzione a proposito di questi valori. Altrimenti, dovremo fornire delle determinazioni parziali. In questo caso, la ragione sostanziale potrà riconoscere una pluralità di valori diversi e rimarrà aperto il problema dell’ordine da stabilire tra di essi.

I quattro bicondizionali servono a mostrare come la proposta di Johnston possa essere considerata una proposta disposizionale. Come (1) mette in risalto, la nozione di valore è concettualmente connessa a quella di ragione sostanziale. Però la nozione di ragione sostanziale non è del tutto oggettiva, bensì disposizionale, come viene indicato da (2) e (3). Dipendendo la determinazione dei valori dalla determinazione delle ragioni sostanziali, ed

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essendo la determinazione dei valori sostanziali disposizionale, anche la determinazione dei valori è disposizionale.

5.6. Concludiamo con una critica al realismo etico disposizionale

esposta da Goldman. È una critica che vuole mostrare come l’etica disposizionale è condannata al relativismo e come ciò colpirebbe le sue ambizioni al realismo.

L’argomento di Goldman non nega l’analogia tra le qualità morali e le qualità secondarie, bensì sostiene l’antirealismo a proposito di entrambe. Ci concentreremo sulla sua concezione dei colori e sul suo concetto di giustizia. I primi rappresentano l’esempio costante di qualità secondarie, in Goldman come in altri. Il secondo è per Goldman quello particolarmente problematico tra tutti i concetti che rappresentano le qualità morali.

Il problema per Goldman è rappresentato dal fatto che i colori non sono uniformi, neppure quando rientrano sotto un unico concetto. Il ‘rosso’, ad esempio, si presenta in un ampio spettro di variazioni e quindi conclude Goldman

diverrà fortemente verosimile che soggetti normali vedranno variazioni leggermente diverse sulle stesse superfici, in condizioni normali.30

La percezione di una delle variazioni del rosso può mutare relativamente a fattori come gli oggetti che circondano il colore che ci interessa, oppure l’età del soggetto che percepisce. Alcuni test molto precisi hanno confermato che anche in condizioni artificiali e molto controllate, quando le condizioni esterne sono identiche, soggetti diversi vedono delle variazioni sulle stesse superfici. Perciò,

noi non possiamo specificare in alcun modo non arbitrario una classe di soggetti normali e condizioni normali tali che gli oggetti abbiano quelle varianti di colore

che appaiono a quei soggetti in quelle condizioni. Di conseguenza, noi non possiamo concepire le qualità secondarie in termini di oggetti che ‘sono tali da apparire in determinati modi a soggetti normali in condizioni normali’. I dati empirici sembrano guidarci a una posizione non realista riguardo ai colori.31

Relativamente a osservatori diversi, lo stesso oggetto sarà rosso1, rosso2 o rosso3 (dove l’indice indica diverse varianti del rosso).

Gli stessi problemi si presentano al realista che punta sulla similarità tra proprietà morali e proprietà secondarie, in particolare al realista morale che si riferisce al concetto di giustizia. Nel caso dei concetti morali, si assumerà come prospettiva valida la prospettiva di un osservatore razionale, che conosce i fatti, benevolo e in grado di identificarsi con i soggetti interessati. Si riterranno prescrizioni valide riguardanti la giustizia quelle espresse da un osservatore simile a quello imparziale. Il modello ricalca quelli visti in precedenza, con l’aggiunta della specificazione delle condizioni di validità per l’osservatore, che negli autori precedenti era espressa soltanto in modo generico. Il problema è che giudici di questo genere possono emettere giudizi diversi. Uno dei giudici può approvare una concezione della giustizia che ricalca il modello utilitarista. Egli aggregherà le preferenze di ogni singolo individuo e approverà i provvedimenti che favoriscono la crescita massima di questo aggregato. Un altro può individuare in alcuni interessi individuali delle costrizioni che limitano

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eventuali provvedimenti ispirati dall’utilitarismo. Guardando a problemi più particolari, si può dire che un osservatore simile a quello definito sopra può sovrapporre la lealtà ed i doveri verso la famiglia a quelli verso lo Stato, mentre un altro osservatore può esprimere valutazioni diverse. Il problema che a questo punto si presenta ricalca il problema appena considerato riguardante le qualità secondarie: agli stessi oggetti di osservazione si attribuiranno proprietà incompatibili. La conclusione di Goldman è che

noi non possiamo dire che le distribuzioni approvate da ciascuno tra tali osservatori sono giuste, poiché, ad esempio, uno schema distributivo aggregativo ed uno non aggregativo non possono entrambi essere giusti per lo stesso gruppo. Almeno, non possono entrambi essere giusti se sono incompatibili e se la giustizia è una proprietà reale nel senso fino ad ora suggerito.32

Di conseguenza, non si può far altro che pensare che sia sbagliato sostenere che le proprietà morali risiedono negli oggetti e ci si trova costretti ad ammettere che siamo noi a proiettare i nostri valori sugli oggetti. Prima di ritenere esaurita la discussione con i propri interlocutori, Goldman valuta ancora un argomento del quale questi potrebbero disporre. Chi punta sul realismo in relazione alle qualità secondarie compie una rinuncia nei confronti dell’universalismo. La versione più ambiziosa si arresta agli esseri umani. Il fatto che ciò che appare rosso a noi può apparire verde ai marziani non rappresenta alcun problema. La via che potrebbe essere intrapresa dagli interlocutori di Goldman consisterebbe nel relativizzare ulteriormente il criterio, accettando anche le differenze all’interno del genere umano. In questo modo si evita l’attribuzione di proprietà incompatibili, in quanto le proprietà vengono definite in relazione ai diversi osservatori. Non si dirà più che un oggetto è rosso1, bensì che è rosso1 per me, rosso2 per un altro osservatore, ecc. Lo stesso si farà per la giustizia. Si dirà, ad esempio, che lo schema distributivo S è giusto per i soggetti dell’insieme I, mentre per i soggetti dell’insieme I’ è giusto lo schema distributivo S’.

Goldman pensa che questa soluzione non sia soddisfacente. Il realismo è la posizione che sostiene che alcuni fatti sono reali se esistono indipendentemente dalle credenze o dalle teorie che li riguardano. Con questa ultima relativizzazione, non si riesce a soddisfare questo criterio. Ciascuna ricorrenza di giustizia viene relativizzata a gruppi determinati in base al loro accoglimento di diverse credenze morali. X sarà giusto per i soggetti dell’insieme I se e solo se provocherà la loro approvazione. Però l’approvazione sarà determinata o respinta in relazione al fatto, ad esempio, che i soggetti accolgano o respingano l’utilitarismo. Di conseguenza l’approvazione dipende proprio dalle credenze dei soggetti, il che non sembra compatibile con il realismo.

Al realista non rimarrà, secondo Goldman, altra possibilità che appellarsi ad una caratteristica delle descrizioni realiste condivise dalle proprietà secondarie e da quelle morali: la possibilità di sbagliare. Il realista, cioè, dirà che se le proprietà secondarie e le proprietà morali fossero il risultato unicamente di nostre proiezioni, non ci sarebbe la possibilità di avere percezioni sbagliate: essere rosso ed apparire rosso sarebbero la stessa cosa. Invece non è così. Il rosso viene, comunque, determinato in relazione a situazioni ideali; quindi c’è la possibilità di sbagliare se la percezione avviene in condizioni non idonee.

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Tuttavia, se restringo la classe delle persone rilevanti per determinare un colore (o la giustizia o l’ingiustizia di un’azione) a soggetti che percepiscono allo stesso modo, allora si elimina la possibilità che intere comunità possano commettere errori su vasta scala.

Si potrebbe dire che intere comunità possono sbagliare perché giudicano in condizioni sbagliate. Goldman, però, presenta un’ulteriore complicazione che compromette questa replica. La validità o meno delle condizioni viene stabilita dal criterio di appartenenza alle comunità. Questo sembra escludere nuovamente la possibilità di errori su vasta scala delle comunità stesse. È da ritenere che la critica di Goldman sia giusta se rivolta alle forme più semplici di teoria disposizionale. In questi casi l’analogia con i colori non conduce al realismo morale. Ma si tratta di vedere se l’argomentazione di Goldman sia in grado di minacciare anche le proposte disposizionali più complesse, come quelle di Brower e Johnston. Brower replicava a Wright affermando che la nostra espressione di giudizi morali è limitata da credenze morali di ordine superiore, che determinano le condizioni di adeguatezza (e che a loro volta sono riordinate dalle espressioni particolari della sensibilità morale, seguendo un’epistemologia coerentista). Nel caso di Johnston i criteri della ragione sostanziale svolgono il ruolo che in Brower hanno le teorie morali più generali. Il problema in entrambi i casi è di vedere se sarà possibile evitare il relativismo. Non è facile pensare che possa essere così. Contrariamente a quanto sembra credere Brower, molti saranno propensi a credere che chi ha una sensibilità morale rivolta all’utilitarismo formulerà un’insieme coerente di credenze morali diverso rispetto a chi ha una sensibilità diversa, e che nessun processo coerentista possa risolvere il problema. Rimanendo, come deve fare una teoria disposizionale, al livello di selezione stabilito soltanto della sensibilità morale non si dovrebbe riuscire a superare il relativismo. Né sarà diverso con la proposta di Johnston che si appella alla ragione sostanziale. È difficile pensare che questa riesca a essere indipendente dalla sensibilità morale e quindi riaffioreranno gli stessi problemi che coinvolgono la teoria di Brower. Se questo è vero, l’unica soluzione possibile può sembrare quella di definire il realismo in modo da renderlo compatibile con il relativismo, ma si sono già viste nell’esposizione di Goldman le ragioni che indicano l’insuccesso di questo tentativo. Una risposta plausibile può essere data soltanto da discussioni morali sostanziali, che sole possono indicare se le speranze di Brower e Johnston siano fondate o eccessivamente ottimistiche.

Il problema ora affrontato è se l’adozione di una teoria disposizionale conduca al realismo. È un problema diverso da quello sollevato dall’analogia con le qualità secondarie. In questo secondo caso ci si chiede se l’analogia sia una rappresentazione valida della morale. Nel capitolo settimo si tenterà di mostrare che le qualità morali hanno un’oggettività superiore a quella disposizionale e quindi che il resoconto disposizionale della morale non sia epistemologicamente e ontologicamente corretto.

1 Cfr. J. Kim e E. Sosa (a cura di), A Companion to Metaphysics, Oxford, Blackwell, 1995,

p. 424-426. 2 J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Firenze, Vallecchi, p. 94 (An Essay Concerning

Human Understanding, Oxford, Pringle-Pattison, 1969). 3 Ivi, p. 96-97.

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4 J. McDowell, Values and Secondary Qualities, in T. Honderich (a cura di), Morality and

Objectivity, cit., p. 111. 5 Ivi, p. 118. 6 J. McDowell, Non-cognitivism and Rule Following, in S.M. Holtzman e C.M. Leich,

Wittgenstein: To Follow a Rule, cit., p. 142. 7 S. Blackburn, Errors and the Phenomenology of Value, cit., pp. 13-14. 8 Ivi, p.14. 9 C. Wright, Moral Values, Projection and Secondary Qualities, “Proceedings of the

Aristotelian Society”, 1988, p. 6. 10 Ivi, p. 14. 11 Ivi, p.16. 12 Ivi, p. 19. Wright non parla di un quadrato bensì di un quadrato approssimativo; si

tratta di una specificazione dovuta a motivi che per noi, ora, sono privi di importanza. 13 B.W. Brower, Dispositional Ethical Realism, “Ethics”, 103, 1993, p. 226. Abbiamo

presentato, per facilitare la lettura, una semplificazione del bicondizionale di Wright. 14 Ivi, p. 227. 15 Ivi, p. 231. 16 Ivi, p. 246. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 238. 19 Ivi, 240. 20 Ivi, p. 244. 21 D. Lewis, Dispositional Theories of Values, “Proceedings of the Aristotelian Society”,

1989, Supplement, p. 113. 22 Ivi, p. 120. 23 M. Johnston, Dispositional Theories of Values, “Proceedings of the Aristotelian

Society”, Supplement, 1989, p. 147. 24 Ivi, p. 154. 25 Ivi, p. 154. 26 Ivi, p. 162. 27 Ivi, p. 162. 28 Ivi, p. 163. 29 Ivi, p. 164. 30 A.H. Goldman, Red and Right, “The Journal of Philosophy”, 1987, p. 353. 31 Ivi, p. 354. 32 Ivi, p. 355.

Capitolo sesto

Due critiche alla concezione assoluta della realtà

6.1.1. Realismo interno e realismo morale. Il presente capitolo prosegue la discussione degli argomenti contrari alla concezione assoluta della verità iniziata in quello precedente. La discussione riguardante la concezione assoluta della verità qui è più diretta e riguarda due filosofi: Putnam e Nagel. Putnam tenta di mostrare che le critiche antirealiste sono sbagliate, perché da un lato potenziano eccessivamente l’oggettività della scienza, dall’altro lato esagerano le difficoltà dell’affermazione dell’oggettività della morale. Ciò che questa strategia ha in comune con quella che si basa sull’analogia con i colori è il rifiuto della teoria assoluta della conoscenza. Secondo la teoria assoluta della conoscenza, un enunciato può essere ritenuto vero soltanto se trasmette una percezione, o una credenza, che non dipende dalle caratteristiche particolari del soggetto.

La nozione di una concezione assoluta può servire a stabilire efficacemente una distinzione tra ‘il mondo così com’è, indipendentemente dalla nostra esperienza’

e ‘il mondo come ci appare’. La concezione assoluta sarà una concezione del mondo a cui potrebbe pervenire qualsiasi ricercatore, anche se fosse molto diverso da noi.1

Le proprietà morali non soddisfano le richieste di questa definizione di verità, poiché la loro percezione dipende dalla sensibilità particolare dei soggetti.

Il valore, come il colore, fa parte della nostra esperienza dell’arredo del mondo, ma questa parte della nostra esperienza non rappresenta nulla che vi sia nel mondo.2

È questa concezione che Putnam vuole contrastare. Egli rifiuta un approccio alla realtà che possa astrarre dal particolare sistema di valori dei ricercatori. La critica all’oggettività dell’etica fallisce perché la determinazione assoluta della verità empirica è impossibile e, perciò, un tale criterio non può essere neppure imposto al realismo morale. In realtà, i valori sono il presupposto della stessa indagine empirica. Di conseguenza, ad almeno alcuni valori deve essere riconosciuta per lo meno la stessa oggettività riconosciuta ai fatti empirici.

6.1.2. Putnam constata in Verità e etica che le due idee principali del

programma metodologico scientifico sono: a) i metodi della fisica sono gli unici metodi di tutte le scienze; b) qualsiasi cosa possa essere conosciuta può esserlo soltanto facendo uso di questi metodi.3 Il filosofo americano si premura di trovare dei controesempi a questa affermazione, tra i quali l’indicazione di come la traduzione di espressioni anche molto semplici da una lingua all’altra non sia possibile facendo riferimento esclusivo al metodo induttivo. Di fatto, parte del fondamento dell’idea della richiesta rigorosa del metodo scientifico è l’idea della giustificazione della conoscenza come conoscenza pubblica. Questo criterio sostiene che ogni conoscenza deve poter essere giustificata pubblicamente, conducendo ad un consenso dei competenti. Però l’argomento

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non sembra essere molto convincente, poiché una giustificazione di questo tipo può essere valida anche nei riguardi di tentativi che non seguono il metodo scientifico. D’altra parte, se si vuole dare un contenuto più rigoroso al criterio, dicendo che la conoscenza pubblica è la conoscenza delle persone idealmente razionali, il criterio diviene troppo vago e di nessuna utilità.

Il problema principale dei sostenitori rigorosi del metodo scientifico è che diverse forme di conoscenza non possono essere verificate facendo uso esclusivo del metodo scientifico, poiché le capacità che vengono impiegate sono troppo complesse per essere inglobate in un’unica teoria epistemologica. Ciò vale non soltanto per le scienze sociali, ma anche per la stessa fisica. È per questo motivo che Putnam propone di sostituire con il suo programma epistemologico ed ontologico o realismo interno, il programma realista tradizionale o realismo metafisico. Quest’ultimo ritiene che sia possibile raggiungere una conoscenza completa del mondo esterno, che prescinda dai particolari modi di conoscere dei soggetti; l’unica conoscenza valida secondo questa teoria è la conoscenza dal punto di vista dell’Universo, o dell’occhio di Dio. Il realismo interno, invece, ritiene che le conoscenze si fondino sempre sulla prospettiva umana; secondo questa teoria, ha senso chiedersi come sia fatto il mondo soltanto dall’interno di una particolare prospettiva.

Una caratteristica di tale tesi è quella di ritenere che chiedersi di quali oggetti consista il mondo abbia senso soltanto all’interno di una data teoria o descrizione. La ‘verità’ è, secondo una visione internista, una specie di accettabilità razionale (idealizzata).4

A questo punto la discussione entra in una fase di particolare rilevanza per la determinazione dell’oggettività dei valori. La verità viene assimilata da Putnam alla nozione di accettabilità razionale. È vero che qualcosa può non essere vero anche se è accettabile razionalmente, tuttavia, non abbiamo alcun altro modo di pensare che qualcosa sia vero, tranne quello di constatare che è razionalmente accettabile.

Quando qualcuno promette di rivelarci la verità non ci rivela proprio nulla fintanto che ignoriamo quali siano per quella persona i criteri di accettabilità razionale, quale sia secondo lui un modo razionale di svolgere un’indagine, quali i criteri di oggettività, a quale punto ritenga razionale concludere un’indagine, quali le basi che forniscono una buona ragione per accettare un verdetto piuttosto che un altro su qualunque argomento lo interessi e così via.5

Chi rivela i propri criteri di accettabilità razionale, come secondo Putnam è necessario fare affinché si possa dare un contenuto alla verità, rivela quali sono, secondo lui, i valori cognitivi. Ad esempio, egli potrà dire che la sua teoria è vera, perché è coerente, funzionalmente semplice, riesce a spiegare perché debba essere ritenuta affidabile, ecc. Nel giustificare l’accoglimento di queste virtù cognitive, il nostro ricercatore si appellerà, ad esempio, a quello che è un ideale della fioritura cognitiva umana.

Avere un sistema di rappresentazione di questo tipo è parte della nostra idea di fioritura cognitiva umana, e perciò anche parte della nostra idea di fioritura umana totale, di eudemonia.6

Per presupporre l’oggettività della scienza si dovrà perciò presupporre l’oggettività dei valori cognitivi, fino ad ammettere l’oggettività di un ideale di fioritura cognitiva umana. In questo modo è stata mostrata la necessità

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dell’ammissione dell’oggettività di almeno alcuni valori, il che è sufficiente per confutare la dottrina radicale del metodo scientifico.

Una risposta che potrebbe essere a disposizione degli interlocutori di Putnam è che la coerenza, la semplicità, ecc. non sono valori. In Ragione, verità e storia, Putnam sostiene che questo tentativo non è plausibile, poiché le espressioni indicate hanno troppe caratteristiche in comune con espressioni come ‘gentile’ o ‘bello’, dal momento che sono tutte usate come espressioni di lode e figurano in controversie filosofiche durature, al pari delle espressioni etiche ed estetiche. In Realismo dal volto umano sono aggiunte altre ragioni per sostenerne l’identificazione con i valori.

‘Coerente’ e ‘semplice’, al pari dei termini di valore paradigmatici (come ‘coraggioso’, ‘gentile’, ‘onesto’ o ‘buono’), sono usati come termini elogiativi. In verità essi sono termini che guidano l’azione sono ‘ontologicamente sospetti’, come John Mackie insisteva che fossero, ciò nondimeno essi sono indispensabili nell’epistemologia. Inoltre, ogni argomentazione che sia mai stata proposta a favore del non cognitivismo in etica si applica immediatamente e senza il minimo cambiamento a questi predicati epistemologici; esistono disaccordi tra le varie culture (e entro una stessa cultura) su ciò che è o meno coerente o semplice.7

L’analogia tra i valori cognitivi e quelli morali permette a Putnam di estendere la sua argomentazione a favore di questi ultimi. Putnam sostiene, infatti, che valori quelli cognitivi e valori morali sopravvivono o periscono assieme.

Tutti i valori stanno sulla medesima barca; se tali argomentazioni mostrano che i valori etici sono interamente soggettivi, allora la stessa cosa vale per i valori cognitivi.8

Però, Putnam ritiene di aver dimostrato che i valori cognitivi sono oggettivi, per cui lo devono essere pure quelli morali.

Putnam passa in rassegna alcune critiche tradizionali ai valori. La più sofisticata critica dell’oggettivismo morale è quella che accusa le osservazioni morali di non essere osservazioni genuine, bensì proiezioni del soggetto che percepisce sul mondo esterno. Così, quando vediamo delle scene di distruzione provocate da reparti militari a danni di civili, non vediamo una qualità morale dell’azione, bensì proiettiamo sul fatto a cui assistiamo il nostro sentimento di disgusto. Putnam non è però dell’opinione che questa dottrina sia più plausibile dell’oggettivismo morale, poiché rifiuta l’argomento più importante che sta alla base di questa dottrina antirealista. Chi sostiene la dottrina delle proiezioni afferma che la difesa dell’oggettività della morale è antiscientifica. Putnam invece afferma che non vi è nulla di antiscientifico nella pretesa dell’oggettività morale. Questa posizione non si pone in un ruolo antitetico alle descrizioni del mondo date dalla scienza, bensì sostiene semplicemente che vi sono dei concetti che non sono riducibili al discorso scientifico. Putnam, perciò, conclude che

parlare di ‘giustizia’ come del resto di ‘riferimento’ può non essere scientifico, senza tuttavia essere anti-scientifico.9

Un’altra tra le posizioni tradizionali è quella che fa appello a una concezione strumentalistica della razionalità. Secondo questa proposta, i fini non possono essere giudicati né buoni né cattivi, mentre lo possono essere soltanto i mezzi. Secondo Putnam si tratta ancora una volta di una concezione sbagliata del

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rapporto tra ragione e bontà. È come se la ragione fosse il giudice, mentre la bontà si trovasse sul banco degli imputati per essere valutata.

Se la discussione che abbiamo esaminato - e si tratta di una discussione che si protrae ormai da decenni - sembra non portare a alcuna conclusione, ciò dipende forse dal fatto che essa assume spesso una sorta di priorità della razionalità alla bontà. La questione è sempre se vi sia un qualche senso in cui si può chiamare irrazionale il fatto di scegliere un cattivo fine, come se la bontà fosse sul banco degli imputati e la razionalità fosse il giudice.10

Putnam nega alla razionalità questo ruolo privilegiato rispetto ai valori. Allo stesso modo, Putnam sottopone ad analisi critica le proposte che si basano sul valore strumentale della razionalità. In questo caso, la razionalità è assimilata alla razionalità scientifica, la quale trova la propria legittimazione negli importanti risultati pratici ai quali è riuscita e riesce a condurre la scienza. Questa è, però, secondo Putnam, una concezione non valida e incompleta. Innanzi tutto, perché la scienza non ha un valore soltanto in virtù dei risultati pratici che consegue. Ma anche se la scienza avesse un valore soltanto in virtù dei propri risultati pratici, non sarebbe ancora dimostrato che l’intera razionalità debba essere ritenuta un valore sulla base di questo criterio.

È senza dubbio molto importante disporre di uno strumento che ci aiuti a scegliere i mezzi più efficienti per il perseguimento dei nostri numerosi scopi; ma è altrettanto importante sapere quali fini dovremmo perseguire.11

Ci sono stati dei tentavi di mostrare che effettivamente tutti gli scopi della nostre indagini sono scopi pratici, anche quelli apparentemente teorici. Se questa posizione si rivelasse non soltanto un pregiudizio, ma un’affermazione giustificata, la razionalità strumentale si dimostrerebbe una visione altamente plausibile, e, viceversa, fallirebbe il tentativo di Putnam. Si è anche asserito che la razionalità ha sempre e soltanto scopi pratici e che la scienza è soltanto un modo economico per asserire determinati fatti del tipo: ‘se si compiono determinate azioni si otterranno determinate esperienze’. Il sapere, quindi, viene ridotto ad un rapporto strumentale: conoscere delle cose vuol soltanto dire che il compimento di determinate azioni è uno strumento per ottenere determinate esperienze. In questa teoria della conoscenza non c’è posto per l’esistenza di fatti morali. Come dice Putnam, in questa prospettiva non c’è

alcuna ragione che giustifichi l’idea per cui dire che qualcosa è bene equivale a fare la previsione secondo cui se si compiono determinate azioni si otterranno determinate esperienze.12

Tale posizione però non è sostenuta da una sufficiente dose di attendibilità. È per questo che il progetto di tradurre tutte le asserzioni scientifiche in asserzioni su quali esperienze si otterranno in virtù del compimento di determinate azioni è stato abbandonato. Ciò anche in virtù del cosiddetto argomento del ‘linguaggio privato’. Uno dei problemi è che le sensazioni rientrano senza dubbio nel dominio privato. Come si può essere sicuri che una persona associa ad una determinata descrizione sensazioni equivalenti alle nostre? Si è tentato, perciò, di riformulare la teoria parlando di ‘eventi pubblicamente osservabili’ al posto di ‘sensazioni’. Neppure questa mossa, tuttavia, risulta soddisfacente. Innanzi tutto, optando per questa soluzione, si escludono alcune forme di conoscenza, come l’introspezione. Inoltre, questa

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soluzione, proposta tra gli altri da Carnap e Popper, sopravvaluta la possibilità di realizzare osservazioni pubbliche in ambito scientifico. Le osservazioni che hanno importanza nella scienza richiedono l’uso di strumenti che a loro volta pongono la necessità di un notevole addestramento. Si può concludere che la prima delle risposte al problema del perché la razionalità abbia un ruolo privilegiato fallisce: non è vero che la razionalità abbia valore per il motivo che fornisce risposte strumentali al rapporto mezzi-fini (dove l’espressione ‘per il motivo’ sta a indicare una condizione necessaria e sufficiente).

Putnam analizza anche una seconda risposta, quella per la quale la razionalità avrebbe un ruolo privilegiato, poiché seguendola si raggiungerebbe la verità e diversamente no. Si tratta di una risposta che si basa su una motivazione del tutto diversa da quella vista precedentemente. La razionalità non trova più motivazioni nel proprio valore pratico, bensì questa volta, nel proprio valore teorico. Ancora una volta però la razionalità viene identificata con il metodo scientifico. Quest’ultimo, infine, viene identificato con il metodo induttivo. Nuovamente, perciò, l’etica viene esclusa dal dominio della razionalità. Nessuno, infatti, sembra in grado di dire come le verità morali possano essere scoperte seguendo il metodo induttivo.

Ancora una volta, tuttavia, non siamo di fronte ad una risposta soddisfacente. Infatti, affinché un ricercatore possa operare seguendo i suoi canoni, è necessario che disponga anche di una metrica iniziale delle probabilità, ovvero di un insieme di assegnazioni di probabilità ai diversi eventi possibili. Questo indica che non è possibile una ricerca puramente formale e determinata unicamente dal metodo. Affinché la ricerca possa avviarsi è indispensabile che lo scienziato disponga già di alcune credenze sostanziali, appunto quelle che assegnano le rispettive probabilità ai diversi eventi. La conclusione di Putnam è, perciò, che si può scindere la razionalità

in due parti diverse, cioè in una parte formale, che si può schematizzare matematicamente e programmare su un calcolatore, e un’altra parte informale che non si può schematizzare e dipende dalle credenze reali e provvisorie degli scienziati.13

A questo punto, per poter funzionare la dottrina metodologica induttivista avrebbe bisogno della garanzia che, anche se partono da assegnazioni di probabilità diverse, gli scienziati finiranno con il convergere nei risultati delle loro ricerche. Vi sono in questo caso due generi di difficoltà difficilmente eliminabili. La prima è che anche se ci fosse questa possibilità, bisognerebbe che venisse realizzata in tempi ragionevolmente brevi. Una previsione scientifica che non riesce a consolidarsi prima che un fenomeno abbia luogo è vacua. L’altra difficoltà è che non vi è alcuna garanzia che due scienziati che partono da assegnazioni di probabilità molto diverse possano arrivare a conclusioni convergenti.

La conseguenza rilevante di questa discussione è che, non essendovi alcun metodo scientifico puramente formale, non vi è alcun motivo per non pensare che credenze di tipo etico o estetico possano rientrare nella determinazione delle premesse del ragionamento. Si inverte, così, il rapporto al quale si accennava all’inizio. Non è vero che la ragione è un giudice che sta al di sopra dei valori e valuta questi ultimi. È vera una cosa molto diversa, ossia che i valori rientrano nelle premesse di ogni ragionamento. Non si potrà mai

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stabilire quali credenze siano razionali e quali irrazionali, neppure nel processo di una dimostrazione scientifica, se non si determinerà da quali premesse debba procedere la dimostrazione. Per stabilire queste premesse è necessario ricorrere a valutazioni che si appellano ai valori.

6.1.3. Putnam non si arresta nemmeno a questa conclusione, ma cerca

di andare più in profondità attaccando il celebre argomento di Moore. Putnam è infatti convinto che si tratti di un argomento sbagliato. Ciò che la fallacia naturalistica riesce a dimostrare è che non vi è un’identità concettuale tra le proprietà morali e le proprietà naturali. Questo non è ancora sufficiente per mostrare che non vi è un’identità tra i due tipi di proprietà. Delle proprietà possono essere identiche anche senza corrispondere ad un unico concetto. Si pensi all’enunciato ‘l’ordine di grandezza della temperatura è il medesimo dell’ordine di grandezza dell’energia cinetica molecolare media’. Come è possibile che due generi di proprietà siano identici, anche senza che tra i due vi sia un’identità concettuale? La risposta è che è possibile un’identità che non sia stabilita a priori per via concettuale, bensì a posteriori per mezzo di un’analisi empirica. È possibile, in altre parole, un’identità sintetica delle proprietà. Questo fatto ha una conseguenza fatale per l’argomento di Moore. Come si è già visto nei capitoli precedenti, il fatto che la domanda posta da Moore nell’open question argument abbia un senso non è una prova dell’assenza di identità tra le proprietà morali e le proprietà naturali. Nell’argomentazione di Gewirth era così poiché l’identità veniva stabilita non in modo banale, bensì in seguito ad un ragionamento abbastanza lungo. Nell’argomento di Putnam è così, perché l’identità può essere stabilita come risultato di un’indagine empirica e non soltanto in seguito ad un’indagine analitica.

Confutando Moore, Putnam è convinto di aver mostrato che cade anche l’ultima ragione per essere scettici a proposito dei valori. Putnam può con ciò rafforzare la sua convinzione secondo la quale i valori stanno alla base di ogni indagine, poiché ogni determinazione di fatti dipende da un criterio di accettabilità razionale, e questo, a sua volta, dipende da un insieme di valori. I valori, perciò, sono almeno tanto oggettivi quanto lo sono i fatti empirici. Con ciò, Putnam non vuole compiere una reductio ad absurdum delle critiche del realismo morale per dimostrare che i valori hanno un’oggettività assoluta. In altre parole, Putnam non espone un argomento del tipo: l’oggettività della realtà empirica implica l’oggettività dei valori; però, essendo l’oggettività della realtà empirica indubitabile, diviene indubitabile la realtà dei valori. Questo sarebbe un argomento valido per un realista metafisico. Ma Putnam è un sostenitore del realismo interno. Il suo argomento è, perciò, semplicemente che i critici del realismo morale sbagliano perché contrappongono una presunta conoscenza assoluta, quella empirica, a una forma di conoscenza che tale non è in modo genuino, cioè la conoscenza dei valori. Dicendo che questi ultimi hanno tanta oggettività quanta ne hanno le conoscenze empiriche si vuol dire che, essendo la prospettiva umana inscindibile da ogni forma di conoscenza, anche i valori, che dipendono dalla prospettiva umana, sono una forma di conoscenza legittima.

È questo, secondo Putnam, uno dei grandi insegnamenti di Kant. A dire il vero, Putnam rintraccia nel grande filosofo tedesco due posizioni a

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proposito della morale. Da un lato, l’idea che la morale presupponga l’esistenza di Dio, quindi di un mondo in sé, che supera quelli che sono i limiti del realismo interno. Dall’altro lato, però, Kant, affermando l’autonomia morale, avrebbe sostenuto proprio ciò che sta a cuore al realismo interno: la legittimità della prospettiva umana e della conoscenza attraverso particolari schemi concettuali.

Quello che Kant sta dicendo è che noi dobbiamo pensare da soli. Questa è la caratteristica rispetto alla quale siamo tutti uguali. Tutti noi abbiamo la stessa potenzialità di pensare autonomamente alla questione di Come si Debba Vivere.

Se la mia interpretazione è corretta, la comunità ideale di Kant è una comunità i cui soggetti pensano autonomamente, senza sapere che cosa sia L’‘essenza dell’Uomo’, senza sapere che cosa sia l’‘Eudemonia’, e che si rispettano l’un l’altro.14

La dipendenza dei valori morali dagli schemi concettuali, in particolare dalle immagini morali, che sono lo schema ampio nel quale si strutturano i valori morali, non implica, però, il relativismo. È ancora possibile che si possano valutare alcuni schemi morali come preferibili ad altri, ovvero, è possibile stabilire che esistono visioni morali peggiori e visioni morali migliori. Ciò, secondo Putnam, è sufficiente per continuare a parlare di oggettività.

Le nostre credenze morali non sono approssimazioni alle Verità Morali dell’Universo, così come le nostre credenze scientifiche non sono approssimazioni alla Teoria Scientifica dell’Universo. Ma non concludo da questo che la verità è solo una questione di quello che la gente crede nella mia cultura. Ruth Anna Putnam ha scritto che noi ‘costruiamo’ i fatti e che noi ‘costruiamo’ i valori: ma il fatto che li costruiamo non significa che sono arbitrari, o che non possono essere migliori o peggiori.15

Il paragone che Putnam propone a questo proposito è quello degli artefatti. Anche questi sono costruiti da noi. Questo non significa, ancora, che non si possa parlare di artefatti migliori e di artefatti peggiori. I primi sono quelli che soddisfano in maniera più completa necessità reali rispetto ai secondi. A questo punto, può sembrare che Putnam, tutto sommato, abbia stabilito degli standard preesistenti per valutare ciò che è meglio e ciò che è peggio. Invece, non è così. La conclusione sarebbe legittima se esistessero bisogni umani preesistenti. Al contrario, però,

l’umanità si ristruttura costantemente, e noi creiamo i nostri bisogni.16

L’etica, quindi, è oggettiva, ma lo è senza avere un fondamento. L’immagine che Putnam offre è quella di una conoscenza che non viene giustificata da un qualcosa di esterno ai soggetti conoscenti e neppure linearmente, a partire da un fondamento conoscitivo. L’immagine della conoscenza offerta da Putnam è quella di un insieme di credenze che creano uno schema concettuale e che si sostengono o si criticano reciprocamente. Qui c’è pure l’unica possibilità di critica alle credenze morali: stabilire che una visione morale contraddice

ciò che sappiamo, o ciò che pensiamo sia razionale credere, in base ad altri motivi, siano essi logici, metafisici, o empirici.17

6.1.4. In quale modo la proposta di Putnam si inserisce nel problema

del realismo morale? Putnam è un critico dell’antirealismo. Le sue critiche sono

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rivolte sia all’antirealismo a priori, poiché ritiene che non si possa risolvere i problemi metaetici semplicemente appellandosi ad un presunto carattere emotivo del discorso morale, sia all’antirealismo a posteriori, poiché ritiene inaccettabile il fondamento sul quale questo poggia. L’antirealismo a posteriori indica la natura assoluta della verità delle scienze e critica la morale per il mancato raggiungimento di questo ideale epistemologico ed ontologico. Putnam sostiene che l’ideale della verità assoluta è irraggiungibile in entrambi i casi, di conseguenza la critica a posteriori perde di significato. Putnam però non abbraccia neppure una posizione realista, nel senso nel quale il realismo è stato definito nell’Introduzione a questa ricerca. Viene rifiutata la prospettiva filosofica per cui l’ideale di ricerca è la corrispondenza con una realtà esterna

Chiarito tutto ciò, rimane da chiedersi quale sia la validità della proposta di Putnam. Nel supporre che non esista una conoscenza assoluta, Putnam respinge una dicotomia, quella tra realtà e apparenza. È importante vedere in quale senso la dicotomia vada interpretata e in quale senso sia invece respinta da Putnam. L’interpretazione corretta è quella che distingue tra una realtà così come è di per sé ed una realtà come appare ai soggetti in considerazione della loro sensibilità cognitiva. Putnam respinge questa dicotomia: ogni conoscenza è espressione di un particolare modo di conoscere. Non sembra plausibile interpretare Putnam come se respingesse la dicotomia anche nel senso di dire che non si può fare una distinzione tra conoscenza e sogno, o conoscenza e allucinazione. Anche ammettendo che ogni conoscenza dipenda da uno schema concettuale, Putnam sostiene che all’interno di questo è ancora possibile parlare di credenze oggettive e credenze che non lo sono.

Sembra, tuttavia, che siano rintracciabili alcuni difetti nel ragionamento di Putnam. Una parte importante della sua strategia è stata di mostrare che i valori cognitivi stanno alla base di ogni conoscenza. Posti questi valori, diveniva coerente legittimare epistemologicamente anche i valori morali. Eppure non è così. Alcune differenze tra i valori cognitivi ed i valori morali sono innegabili. Ci sono delle ragioni per spiegare perché siano validi i valori cognitivi considerati da Putnam. La coerenza è un valore cognitivo, poiché è in grado di dare almeno una prova negativa della validità delle credenze. Le credenze incoerenti sicuramente non sono valide contemporaneamente; le credenze coerenti hanno la possibilità di esserlo. Ci sono delle spiegazioni anche a proposito del valore cognitivo della semplicità. Le teorie semplici sono più comprensive, e come tali più falsificabili. Se la falsificazione di fatto non avviene, la loro plausibilità è più elevata rispetto a quella delle teorie meno comprensive. Nulla di simile viene esposto da Putnam a proposito delle credenze morali e ciò fa pensare che sia sbagliato sostenere, come fa Putnam, che i valori morali e quelli cognitivi debbano sopravvivere o cadere assieme.

Putnam sostiene che esistono credenze morali migliori e credenze morali peggiori. Perché? Putnam afferma che questa domanda è illegittima se si vuole fornire una risposta dettagliata, mentre tutto ciò che si può offrire è un insieme di metafore.18 La domanda seguente, a questo punto, è: se non si riesce a dare una spiegazione della validità di alcune credenze, come catalogarle in migliori o peggiori? Se la soluzione deve venire soltanto da un esercizio della sensibilità morale, Putnam ha compiuto molta strada per ritornare al punto di partenza. Il pericolo è che tutto il dibattito tra il realismo interno e

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l’emotivismo divenga puramente accademico. La disputa tra il realista metafisico e l’emotivista ha, al contrario, un significato profondo. Per il primo sarà necessario scoprire quale realtà vada studiata e come farlo, mentre per il secondo sarà rilevante coltivare la propria sensibilità. Una differenza analoga può essere stabilita tra l’emotivista e il prescrittivista, per il quale ciò che conta è vedere quali conseguenze seguono dalle proprietà logiche del linguaggio. Non si riesce a vedere quale sia la differenza tra il realista interno e l’emotivista. Per entrambi ciò che conta è soltanto coltivare la sensibilità dei soggetti morali.

Ma le metafore offerte da Putnam sono veramente tutto ciò che si può dire a proposito della validità della morale? Le risposte a posteriori all’antirealismo, che vedremo nel prossimo capitolo, tentano di mostrare che non è così.

6.2. Prospettiva imparziale e prospettiva parziale. Lo sforzo metaetico di

Nagel è di vedere come fondare la morale rendendo conto di due prospettive: una è quella universale e imparziale, che possiamo chiamare ‘prospettiva dal punto di vista dell’universo’ o ‘prospettiva di Dio’. L’altra è quella particolare, quella che ogni individuo o che ogni specie hanno nel percepire la realtà. Per alcuni dati percettivi, ad esempio, si potrebbe dire che la prospettiva parziale è quella caratteristicamente umana, è il nostro modo di percepire la realtà.

La proposta metaetica di Nagel è strettamente vincolata alla sua teoria filosofica generale. La prospettiva imparziale e la prospettiva parziale sono presenti in vari campi di interesse filosofico. Un esempio ne è la teoria della conoscenza. Vi sono delle percezioni specifiche, che non possono essere colte esclusivamente da un punto di vista universale. Un’elaborazione di quest’idea è presentata da Nagel nel suo celebre Che effetto fa essere un pipistrello19. È ampiamente noto che i pipistrelli hanno un modo specifico di cogliere il mondo circostante. Anche se siamo in grado di comprendere e spiegare questa forma di conoscenza, essa rimane di difficile riduzione ad una forma di conoscenza universale. Le conoscenze di un pipistrello sono completamente presenti soltanto ad un pipistrello e ad un essere che abbia la sua stessa struttura cognitiva. Che cosa fare con queste conoscenze? Da un lato, si può dire che volendo ridurre tutta la conoscenza a forme di conoscenza universale viene perso un pezzo di realtà, appunto il pezzo di realtà costituito dalla percezioni di un pipistrello. Dall’altro lato, si può dire che le conoscenze di un pipistrello che non sono condivisibili da altri esseri, sono soltanto apparenze, illusioni e non parti di realtà.

Il dibattito morale si sviluppa in modo analogo, e a sua volta deve fare i conti con due prospettive, quella di particolari individui, o comunità, e quella imparziale, universale, anche se il problema prospettiva parziale/prospettiva universale, seppure vincolato ad analoghi problemi di altre sfere di interesse filosofico, assume una dimensione particolare nel campo dell’etica. Qui il problema non è più quello di identificare il rapporto tra la prospettiva umana e la prospettiva universale dal punto di vista delle conoscenze e della percezione del mondo, bensì si tratta di vedere la relazione tra una motivazione ad agire che derivi dalla prospettiva parziale ed una motivazione ad agire che derivi da una prospettiva imparziale e neutrale. Il problema dell’etica, infatti, non è lo stesso della conoscenza: è il problema della motivazione, ovvero, il problema

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di indicare delle ragioni per agire. Lo sforzo razionalista in etica non è lo sforzo di scoprire la realtà, bensì lo sforzo di trovare un fondamento razionale per una motivazione ad agire.

Io concepisco l’etica come una branca della psicologia. Ciò che intendo porre in discussione sono i fondamenti, o basi motivazionali ultime, di essa. Se i requisiti dell’etica sono requisiti razionali, ne segue che la motivazione, per la quale ci si adegua ad essi, deve essere una motivazione che sarebbe contrario alla ragione ignorare.20

6.2.1. Le due prospettive sono polarizzate e vi sono delle fasi

intermedie. Ad un estremo vi è l’individuo, con la sua costituzione e la sua particolare relazione con il mondo. A partire da questa posizione, vi è una prima oggettivazione, quella nella quale si astrae dalla posizione particolare dell’individuo nel mondo; l’oggettivazione successiva astrae l’individuo dalle caratteristiche che lo distinguono dagli altri esseri umani; l’ultimo livello di oggettivazione astrae dalle forme di conoscenza caratteristiche degli esseri umani. Il punto che alla fine dovrebbe essere raggiunto, e che corrisponde all’ideale dell’oggettività, è quello dal quale si guarda

il mondo non da un punto di vista all’interno di esso, o da una posizione privilegiata che sarebbe quella di un tipo di vita e consapevolezza speciali, ma da

nessun luogo in particolare e da nessuna forma specifica. Lo scopo è quello di arrivare a una comprensione delle cose come sono realmente.21

Tradizionalmente, i filosofi hanno accolto con difficoltà la coesistenza di prospettive diverse. Nell’opposizione tra le due prospettive, ciascuna vuole inglobare l’altra.

Il punto di vista personale ingloba un mondo che include l’individuo e i suoi modi di vedere personali. Il punto di vista personale, d’altra parte, considera i prodotti della riflessione impersonale soltanto come una parte della visione totale che un individuo ha del mondo.22

Eppure in tal modo non si fa che giungere ad un punto morto, poiché ciascun individuo occupa contemporaneamente entrambi i punti. Il punto di vista impersonale, che tende all’oggettività, è un’aspirazione legittima, perché aiuta ad estendere la nostra comprensione del mondo.

Abbiamo ragione di pensare che il perseguimento del distacco dal nostro iniziale punto di vista sia un metodo indispensabile per promuovere la nostra comprensione del mondo e di noi stessi, aumentando la nostra libertà di pensiero e di azione, e diventando migliori.23

Ma le difficoltà compaiono ogni volta che si incontra qualcosa che si rivela soggettivamente, come accade con i valori.

Molto è essenzialmente connesso a un particolare punto di vista, o tipo di punto di vista, e il tentativo di fornire un resoconto completo del mondo in termini oggettivi, staccati da queste prospettive, conduce inevitabilmente a false riduzioni o alla negazione radicale che certi fenomeni, evidentemente reali, esistano.24

È per questo motivo che, nonostante le legittime richieste dell’oggettività, non può essere accolto il progetto di molti filosofi, ossia di ridurre ogni conoscenza al modello di conoscenza offerto dalla fisica, la scienza che più di ogni altra è

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interprete del punto di vista imparziale. Nagel propone di non sopprimere alcuna tra le due prospettive.

La tesi che propongo non è che il quadro oggettivo è incompleto, quanto piuttosto che è, nella sua essenza, soltanto parziale.25

Ossia:

La capacità di vedere il mondo contemporaneamente dal punto di vista della nostra relazione con altri, dal punto di vista della nostra vita che continua nel tempo, dal punto di vista di tutti in una volta, e infine dal punto di vista distaccato spesso descritto come la visione sub specie aeternitatis, è un tratto caratteristico dell’umanità.26

Il raggiungimento della prospettiva imparziale non significa l’annullamento dei dati soggettivi. Nella prospettiva imparziale i dati soggettivi non sono cancellati, come semplici illusioni e come false percezioni della realtà. I dati delle prospettive parziali sono mantenuti come parti di realtà. Perdono però il carattere che hanno dal punto di vista interno dell’individuo, cioè lo status di risultati che derivano da una prospettiva privilegiata, ma vengono inglobati nella prospettiva imparziale come risultati di prospettive che stanno alla pari con altre.

6.2.2.1. La discussione etica è analoga a quella metafisica generale.

Come nella teoria della conoscenza, anche in ambito morale vi è la presenza di due prospettive. Da un lato, l’agente trova delle ragioni che sono di carattere impersonale, lo stimolano ad agire in un certo modo facendolo sentire semplicemente come un individuo tra gli altri, senza alcuna peculiarità. Dall’altro lato, all’individuo si impongono delle ragioni che lo riguardano in quanto lui o lei, in quanto individuo che sta in un rapporto particolare verso altre persone o verso la comunità. In etica la contrapposizione tra prospettiva interna e prospettiva esterna si manifesta nella contrapposizione tra teorie conseguenzialiste (in particolare utilitariste) del giusto e dell’ingiusto e teorie centrate sull’agente. L’utilitarismo è una teoria rappresentante una prospettiva esterna molto esigente. Questa dottrina richiede agli individui di astrarre del tutto dalla propria posizione personale e di vedere se stessi esclusivamente come dei soggetti che possono contribuire al bene generale. In etica il raggiungimento della prospettiva distaccata ha una grande importanza e le sue esigenze non vanno trascurate.

L’oggettività è la forza trainante dell’etica come lo è della scienza: ci consente di sviluppare nuovi moventi quando occupiamo una prospettiva distaccata da quella dei nostri desideri e interessi puramente personali, così come nell’ambito della riflessione ci permette di sviluppare nuove credenze.27

Da un altro lato, è però anche vero che

una teoria etica dovrebbe lasciare a ogni individuo un certo spazio per occuparsi della sua vita senza dover considerare ogni momento come contribuisce a scopi più generali; oppure sottolinea il bisogno di imporre certe restrizioni o requisiti all’azione che non sono giustificati dal loro contributo al bene generale.28

Il problema è di vedere in quale modo si debba realizzare il perseguimento dell’oggettività. Un primo tentativo, come nella metafisica in generale, è quello riduzionistico. L’oggettività viene raggiunta se i dati soggettivi sono ridotti a

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dati oggettivi, o eliminati da questi. Ma questo tentativo ancora una volta viene rifiutato. I valori accolti dagli individui

vengono da due differenti punti di vista, ambedue importanti, ma fondamentalmente irriducibili a una base comune.29

È opinione di Nagel che, anche se trascendere la prospettiva personale è importante ed è probabilmente il più grande motore della storia dell’etica, questa esigenza non può annichilire la dimensione personale, le caratteristiche individuali di una persona, il suo ruolo nel mondo, ecc. L’approccio giusto, ancora una volta, è quello di procedere verso l’oggettività, ma non annichilendo i dati delle prospettive particolari, bensì inglobandoli. Nella prospettiva imparziale i valori di ciascun individuo non saranno cancellati, bensì saranno mantenuti, come valori tra altri. Se è vero che la prospettiva imparziale non riesce di per sé ad identificare dei valori, è anche vero che essa li vede come parte di ciò che accade nel mondo, come qualcosa che sorge dalle diverse prospettive degli individui che compongono il mondo. La posizione di Nagel su come si debba ragionare dalla prospettiva imparziale è illustrata nella seguente citazione.

Stiamo pensando da nessun punto di vista a come considerare un mondo che contenga punti di vista. Ciò che esiste dentro quei punti di vista può essere considerato dall’esterno come dotato di qualche valore semplicemente come parte di quello che accade nel mondo, e il valore assegnato a esso dovrebbe essere quello che esso sembra irresistibilmente avere dall’interno.30

Prendiamo il caso del dolore. Il valore dell’alleviare il dolore deriva soltanto dall’esperienza dei singoli individui che percepiscono il dolore e per i quali è importante riuscire ad alleviarlo. Il valore dell’alleviare il dolore non può provenire da chi non lo prova, quindi è impossibile che provenga da una prospettiva imparziale. Ma dalla prospettiva imparziale è possibile vedere che esiste il valore dell’alleviare il dolore in quanto valore prodotto da chi soffre. Solo che dalla prospettiva imparziale l’alleviamento del dolore di ciascuno avrà un uguale valore, non un valore primario o addirittura esclusivo come avviene dalla prospettiva personale.

Come si arriva dalla prospettiva personale alla prospettiva imparziale? Si può osservarne lo svolgersi come uno sviluppo a stadi. L’origine di questa evoluzione sta nel

desiderio di essere in grado di sottoscrivere o accettare le proprie azioni e le loro giustificazioni da una prospettiva esterna alla nostra situazione particolare.31

Abbiamo un desiderio di vedere che le nostre azioni siano giustificare anche da una prospettiva esterna a noi e non soltanto motivate da un nostro impulso interno. Il risultato iniziale di questo desiderio è il riconoscimento che oggettivamente gli altri hanno un valore uguale a quello che si accorda a se stessi o alle persone alle quali si vuole bene.

Lo stadio successivo è lo stadio etico, nel quale si cerca una soluzione al conflitto che si crea tra le due prospettive, dal punto di vista della prospettiva imparziale. A questo livello si cerca di identificare quali sono i rapporti che si devono instaurare tra gli individui. Ad esempio, nel settore della distribuzione dei beni, Nagel è dell’opinione che dalla prospettiva oggettiva debba seguire una conseguenza radicalmente ugualitaria per quel che riguarda i rapporti tra le

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persone,32 anche se ciò non vuol dire che la società non sia anche vincolata a coltivare l’eccellenza, che si manifesta ad esempio in grandi opere d’arte o in grandi scoperte scientifiche (anche quando sono fini a se stesse e non strumentali).33

Vi è anche un terzo stadio, nel quale viene generata la tolleranza. Anche guardando dall’esterno posso vedere che le ragioni impersonali, anche se pienamente accettate, si scontrano con l’influenza immediata di motivi personali. Non possiamo cioè ignorare la complessità motivazionale degli individui e riteniamo che essa deve essere rispettata, ovvero, concludiamo che a una certa soglia

è irrazionale aspettarsi che gli individui in generale sacrifichino se stessi e coloro con cui hanno stretti legami personali al bene generale.34

Le esigenze del punto di vista imparziale di fatto convivono con il riconoscimento che non si può richiedere agli individui di sacrificare del tutto le proprie motivazioni personali alle richieste dell’oggettività. Per questo è legittima la tolleranza nei conflitti dei valori personali, anche se è difficile, a parere di Nagel, stabilire a quale livello questa tolleranza debba essere accordata.

6.2.2.2. Anche se l’idea dell’oggettività dei valori è stata frequentemente

criticata, Nagel ritiene che tali critiche siano infondate proprio sulla base del resoconto di oggettivazione che ha proposto. Dal punto di vista impersonale sembra che non ci siano valori, ma soltanto persone che esprimono ed attribuiscono valori. L’opinione di Nagel è che siffatte critiche si fondano su un’epistemologia sbagliata. Questa epistemologia assume che la prospettiva oggettiva possa manifestarsi soltanto nell’osservazione e nella descrizione. Invece, quando osserviamo gli agenti dobbiamo vedere che questi sono mossi non soltanto da desideri, ma da desideri che possono fondarsi su ragioni buone o cattive. La prospettiva imparziale perciò ci aiuta a identificare ragioni che sono valide oggettivamente, ovvero la validità oggettiva di aspetti normativi. Non c’è perciò nulla nell’idea di oggettività in quanto tale che escluda i valori dal resoconto oggettivo. A farlo è piuttosto un’idea particolare di oggettività.

La tesi secondo cui la nostra impressione che il mondo ci presenta ragioni per l’azione è un’illusione soggettiva, prodotta dalla proiezione di nostri motivi preesistenti nel mondo, e che non vi è oggettivamente alcuna ragione per noi di fare qualcosa.35

Quest’affermazione però ha bisogno di essere dimostrata, e Nagel si impegna a passare in rassegna gli argomenti che sono stati esposti a sostegno della tesi. Innanzitutto vi è l’argomento di Mackie che è già stato esposto in questo libro: i valori morali, se esistono, esistono come fatti alquanto strani e non riescono ad entrare in alcuna spiegazione causale. L’argomento di Mackie, per Nagel, è sbagliato per il motivo visto poco sopra: i valori non necessariamente devono esistere come fatti oggettivi, bensì come ragioni valide oggettivamente, ovvero come verità normative irriducibili. Il realismo non conduce, a parere di Nagel, ad una forma di platonismo, né, più in generale, lo scopo del realismo morale è di trovare nuovi pezzi di realtà, chiamati ‘valori’. Il realista cerca soltanto di riordinare i valori rendendoli accettabili ad una prospettiva esterna. Si tratta di

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identificare i passi che possono condurre ad uno sviluppo della motivazione umana, che ci aiuti a vivere la vita in modo migliore. Questo fine viene raggiunto riconoscendo valori e ragioni che abbiano forza per ogni individuo che possa essere in grado di vedere il mondo in modo impersonale, come un posto che lo contiene. Non sono quindi fatti strani (poiché non sono fatti) ed evitano l’obiezione dell’inerzia causale in quanto non entrano in spiegazioni causali delle azioni, ma invece nelle spiegazioni normative: non rispondono alla domanda ‘perché A ha fatto p?’, bensì alla domanda: ‘quale azione A dovrebbe compiere?’. In sintesi, si può dire che anche se stabilisce una connessione tra il concetto di oggettività ed il realismo morale, Nagel evita l’obiezione di Mackie, dicendo che il realismo etico è diverso dal realismo relativo ai fatti naturali.

Quello che cerchiamo di scoprire con questo metodo non è un nuovo aspetto del mondo esterno, chiamato valore, ma piuttosto solo la verità su quello che noi e altri dovremmo fare e volere.36

L’altro argomento contro il realismo afferma che nulla ha un valore oggettivo. A questo punto, Nagel può far uso del modo nel quale interpreta l’oggettività morale. La critica al realismo, secondo Nagel, sarebbe vera se i giudizi di valore dovessero emergere soltanto dalla prospettiva distaccata. Ma la prospettiva distaccata ingloba le apparenze, comprese le apparenze di valori a individui con particolari prospettive. Assumere una prospettiva oggettiva non vuol dire negare i risultati delle varie prospettive parziali. I dati presenti nella visione oggettiva includono i valori che provengono dalla singole prospettive.

Partendo dalla semplice idea di una realtà possibile, e da un insieme di apparenze davvero impuro, cerchiamo di riempire l’idea di realtà in modo da dare un senso parziale alle apparenze, usando l’oggettività come metodo. Per sapere com’è il mondo dall’esterno dobbiamo avvicinarlo dall’interno: non c’è da meravigliarsi che lo stesso valga per l’etica.37

L’errore della critica che si sta esaminando deriva dalla tendenza filosofica riduttivista di cui già si è vista l’opposizione di Nagel. Nella discussione riguardante la teoria della conoscenza, si è visto che i dati soggettivi, quali ad esempio le apparenze percettive che dipendono dalla prospettiva di particolari individui o particolari speci, non vanno cancellati dalla prospettiva imparziale. Quest’ultima non ha il compito di cancellare questi dati, ma invece quello di inserirli in una visione nella quale sono dati tra gli altri, e perdono il ruolo di dati privilegiati. Allo stesso modo, i valori di particolari individui non sono cancellati, ma inseriti in una visione del mondo che li vede quali valori tra altri valori di altri individui.

La terza critica al realismo deriva da una considerazione empirica e si basa semplicemente sulla constatazione della grande varietà di valori che sono assunti da diverse persone e da diverse comunità. Nagel ritiene che questo argomento dimostri al massimo che la verità morale è difficilmente raggiungibile, non che non esista. Al contrario, il fatto che vi sia comunque una convergenza verso determinati valori dimostrerebbe proprio che vi è una realtà morale.

6.2.3.1. Ma il concetto di ‘oggettività’ è così privo di problemi. Alcuni

ritengono non sia così. Ad esempio, Jonathan Dancy ritiene che Nagel non sia stato chiaro nella definizione di che cosa intenda con il concetto di oggettività

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e che cosa voglia dire approssimarsi a questo ideale. È opinione di Dancy che nella proposta di Nagel vi siano almeno due diverse interpretazioni di oggettività e di approssimazione ad essa. La prima si manifesta in una concezione che Dancy chiama ‘hegeliana’, ossia nel tentativo di uscire dalla nostra visione iniziale del mondo per formarne una nuova che abbia come oggetto questa visione e la sua relazione con in mondo. Le sue caratteristiche sono le seguenti: a) È lineare e apparentemente infinita. Non sembra esserci alcuna prospettiva

di raggiungere un punto rispetto al quale non sia più possibile progredire. b) In questo processo di approssimazione all’oggettivazione nulla è lasciato

perdere. Ogni fase di sviluppo delle nostre conoscenze è mantenuta, seppure in forma modificata. Per questo motivo si può dire che in questo processo di approssimazione alla realtà cambiamo la nostra visione del mondo.

c) Il processo di approssimazione all’oggettività viene intrapreso per verificare se la nostra visione del mondo corrisponda allo stesso. Se questa corrispondenza non viene verificata, abbiamo già cambiato la nostra visione del mondo e siamo ora nella posizione di poter verificare se vi sia una corrispondenza tra il mondo e questa nuova visione.

d) Non siamo obbligati a intraprendere questo processo di approssimazione alla realtà dall’esigenza di evitare contraddizioni, bensì non riusciamo a evitare di farlo a causa della natura umana

e) Vi sono delle ragioni per intraprendere questo processo di approssimazione all’oggettività, cioè la possibilità di sviluppare la comprensione del rapporto tra la visione del mondo ed il mondo stesso.38

Ci sarebbe nella proposta di Nagel un’altra concezione di oggettività, precisamente quella per la quale l’approssimazione all’oggettività consiste nell’arrivare a conoscere il mondo così come lo si conosce in modo assolutamente privo di peculiarità conoscitive. Questa concezione dell’oggettività viene chiamata ‘assoluta’. Il processo di approssimazione all’oggettività che corrisponde a questo concetto viene descritto nel modo seguente: a) È lineare, ma non infinito, poiché è possibile raggiungere un punto del

tutto oggettivo. b) Molte cose sono lasciate perdere, poiché ad ogni passo si realizza una

distinzione tra ciò che viene chiamato apparenza e ciò che è definito realtà. Soltanto la realtà ha valore, mentre l’apparenza ne è priva.

c) A mano a mano che progredisce il processo di approssimazione all’oggettività nelle nostre conoscenze cambia la natura del mondo.

d) Non siamo condotti ad intraprendere questo processo né dalla nostra natura né dalla necessità di evitare contraddizioni, bensì dal fatto che il processo ci aiuta ad avvicinarci alla verità.

e) Lo scopo di questa oggettivazione è la conoscenza della realtà oggettiva.39 I due modi di intendere il processo di oggettivazione hanno

implicazioni molto diverse. Innanzitutto, quando si dice, come fa Nagel, che il punto di vista morale è più oggettivo di quello personale, ma meno oggettivo di quello della fisica, si può dire che questo è vero per l’oggettività assoluta, ma non per quella hegeliana.

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In secondo luogo, Nagel parla di distacco, come quando dice che la fisica si distacca dalla prospettiva tipicamente umana. Tuttavia il significato di ‘distacco’ varia in relazione alla concezione di oggettività che si assume. Nella concezione hegeliana, distacco vuol dire uscire dalla prospettiva iniziale per osservare questa stessa visione e la sua relazione con il mondo. Nella concezione assoluta, lo scopo del distacco è quello di conoscere il mondo quale è, privo di peculiarità cognitive.

In terzo luogo, Nagel ritiene che l’oggettività sia incompleta in due modi. (i) Possono esserci aspetti del mondo che mai saremo in grado di comprendere. (ii) Vi sono aspetti del mondo che una concezione oggettiva esclude. Queste osservazioni sembrano riguardare la concezione assoluta dell’oggettività, ben più di quella hegeliana, in particolare in riferimento al secondo aspetto.

In quarto luogo, Nagel suggerisce che una visione soggettiva può essere corretta o confermata da una visione più oggettiva. Questa affermazione è vera per motivi diversi in rapporto alle due concezioni. Nell’ambito della concezione hegeliana, l’osservazione della nostra visione del mondo e della sua relazione con il mondo possono portare ad un cambiamento di questa visione. Però è dubbio che i risultati di questa oggettivazione siano più reali della visione soggettiva. Nell’ambito della concezione assoluta, invece, i risultati della visione soggettiva sono rifiutati come apparenze e quindi i risultati dell’oggettivazione sono più reali di questi.

In quinto luogo, anche esseri del tutto diversi da noi possono percepire l’oggettività come è intesa nella concezione assoluta. Non vi è invece alcuna ragione per pensare che esseri diversi da noi possano percepire i risultati dell’oggettivazione nel senso hegeliano.40

Nella critica di Dancy vi è una grande parte di verità. Nagel effettivamente non risulta del tutto soddisfacente nella specificazione di quale concetto di oggettività prenda come punto di riferimento alla propria discussione epistemologica e morale. Da un lato, sembra che il riferimento sia alla concezione assoluta, quando Nagel parla dell’impossibilità di ridurre la prospettiva soggettiva a quella oggettiva e sostiene che quest’ultima da sola non riesce ad inglobare una parte del mondo, precisamente ciò che risulta a partire dalla prospettiva soggettiva (come i valori personali). Dall’altro lato, quando Nagel propone un’oggettivazione, lo fa proprio in conformità alla concezione hegeliana dell’oggettività. Procedere verso l’oggettività non vuol dire rifiutare i risultati della prospettiva personale, bensì inglobarli, ad esempio, reinterpretando i valori personali come valori tra altri e non come valori esclusivi. Questo processo non sarebbe possibile seguendo il concetto assoluto di oggettività, il quale non può ammettere alcun perdurare dei risultati della prospettiva parziale dopo che sono stati interpretati come tali.

Contrariamente a quanto vuole suggerire Dancy, invece, Nagel non sembra vincolato alla concezione assoluta, ma piuttosto appare orientarsi verso la prospettiva hegeliana. Diversamente non si riuscirebbe a comprendere, ad esempio, la risposta di Nagel a chi sostiene che dal punto di vista imparziale non vi sono valori. La discussione di Nagel appare essere una critica della concezione assoluta della realtà, rea di prescindere dalla comprensione di pezzi importanti di realtà. Appunto, la parte di realtà costituita dalle percezioni

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particolari, o, nel caso che ci interessa, dai valori generati dalle prospettive particolari. Il problema allora è quello di vedere come debba essere valutata l’adesione alla concezione hegeliana dal punto di vista della nostra discussione sul realismo morale.

6.2.3.2. Nagel vuole insegnarci a vedere che ciascuno tra noi, in quanto

soggetto che ha valore, è soltanto un soggetto tra altri e che il suo valore è un valore tra altri. È questo il risultato dell’oggettivazione: devo constatare che il mio valore non è esclusivo, che intorno a me ci sono degli individui che hanno un valore uguale al mio. Conseguentemente, i valori che io proclamo (quelli che emergono dal mio desiderio di non soffrire, di vedere realizzati i miei progetti, ecc.) sono soltanto valori tra altri e dal punto di vista oggettivo non possono chiedere alcuna precedenza sugli altri. Due sono i risultati dell’analisi di Nagel: (i) vi sono valori; (ii) il valore di ciascun soggetto ed i valori vincolati a ciascun soggetto (in relazione a quelli degli altri) sono uguali. Quali conseguenze morali normative seguono da questi risultati?

Rudiger Bittner critica la possibilità di estrarre delle conseguenze morali normative dalla proposta di Nagel.41 Formalmente, l’elevazione alla prospettiva oggettiva vuol soltanto dire che l’attribuzione di un valore e di una ragione corrispondente per agire non può riferirsi con una variabile libera all’agente in questione. In altre parole, la ragione che un individuo elevatosi al punto di vista oggettivo identifica per un’azione deve avere un significato in relazione a ciascuno e non soltanto a lui o lei. Ad esempio, dal punto di vista oggettivo, non è ammesso un enunciato come: ‘devo uscire dal cinema a causa dell’incendio’, a meno che non si interpreti l’enunciato come ugualmente ricco di significato per tutti i soggetti rilevanti. Ciò comporta delle conseguenze normative per i soggetti? L’opinione di Bittner è che non sia così. Il problema è di comprendere che cosa esattamente voglia dire ‘applicare un giudizio a se stesso, come a un individuo tra gli altri’. Poiché dal punto di vista oggettivo, tutti gli individui hanno uguale valore, un soggetto che si eleva a questo punto di vista deve vedere se stesso come un soggetto tra gli altri. Qual è l’esatto significato di questa idea? Quest’idea può semplicemente voler dire che ciascuno applica un giudizio a se stesso, riconoscendo che ci sono altri individui attorno a lui; ad esempio, esco da un cinema minacciato da un incendio sapendo che vi sono altri individui per i quali uscire dal cinema ha lo stesso valore che ha per me. Oppure può voler dire che egli applica un giudizio a se stesso in quanto è valido per ciascun altro individuo; soltanto perché vi è un valore universale nell’uscire dal cinema io esco, la mia azione deriva da una regola universale. Soltanto in relazione alla seconda formulazione vi possono essere delle conseguenze etiche; un individuo compie un’azione soltanto perché vi è una ragione universale per farlo, per questo motivo deve avere un rispetto identico a quello che ha per se stesso anche per gli altri soggetti rilevanti. È opinione di Bittner che a ciascun individuo non si possa richiedere più di quanto viene esposto nella prima formulazione.

La critica di Bittner è fondata, poiché Nagel richiede al punto di vista oggettivo più di quanto possa dare. Dal punto di vista oggettivo si riconosce l’esistenza di valori, in quanto prodotti dei singoli punti di vista personali. I valori così identificati non possono avere alcuna forza vincolante per i soggetti,

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se non quella che hanno per chiunque legato al proprio caso specifico. Io riconosco il valore per me di uscire dal cinema minacciato da un incendio. Questo riconoscimento mi dà una buona ragione per cercare di uscire dal cinema. Il modo nel quale Nagel interpreta l’elevazione al punto di vista oggettivo conferma che questo valore non è illusorio; una descrizione completa del mondo raffigurerà la presenza di questo valore. Dal punto di vista oggettivo vi sarà il riconoscimento di tanti altri casi analoghi. Quando mi elevo al punto di vista oggettivo riconosco anch’io tanti altri casi analoghi. Tuttavia, non sono obbligato a riconoscere, ad esempio, dei diritti per gli altri soggetti. Semplicemente constato l’opportunità di passare attraverso la porta per me e per altri soggetti. Non si riesce a capire, però, perché dovrei avere delle ragioni per rispettare la loro esigenza allo stesso modo in cui tengo in considerazione la mia, come Nagel invece vorrebbe che si faccia e come è necessario che sia se si vogliono identificare delle conseguenze etiche normative da ciò che secondo Nagel risulta dal punto di vista oggettivo. È assolutamente indifferente, dal punto di vista oggettivo, se passo attraverso la porta io prima di altre persone. Se i nostri talenti naturali rilevanti sono differenti (scatto, velocità, prontezza di riflessi, ecc.) e sono distribuiti in modo da favorire qualcuno, dal punto di vista oggettivo non ci può essere nulla da obiettare. Il punto di vista oggettivo può soltanto confermare a ciascuno che è valido ciò che sente, cioè di avere una buona ragione per uscire, unita al fatto che questa è una ragione condivisa da tutti. Affinché vi siano delle conseguenze etiche normative sarebbero necessarie delle ragioni aggiuntive per un riconoscimento reciproco di diritti e doveri, oltre al riconoscimento della rispettiva esistenza con i reciproci valori.

1 B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., pp.168-169. 2 D. McNaughton, Moral Vision, Oxford, Blackwell, 1988, p. 77. 3 H. Putnam, Verità e etica, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 85 (Meaning and the Moral

Sciences, London, Routledge and Kegan Paul, 1978). 4 H. Putnam, Ragione, verità e storia, Milano, Il Saggiatore, 1985, p. 57 (Reason, Truth and

History, Cambridge, Cambridge University Press, 1981). 5 Ivi, p. 141. 6 Ivi, p. 146. 7 H. Putnam, Oltre la dicotomia fatto/valore, in Realismo dal volto umano, Bologna, Il

Mulino, 1995, p. 283 (Beyond the Fact/Value Dichotomy, in Realism with a Human Face, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1990).

8 Ivi, p. 285. 9 H. Putnam, Ragione, verità e storia, cit., p. 157. 10 Ivi, p. 189. 11 Ivi, p. 193. 12 Ivi, p. 196. 13 Ivi, p. 206. 14 H. Putnam, La sfida del realismo, Milano, Garzanti, 1991, p. 70 (The Many Faces of

Realism, La Salle, Open Court Publishing Company, 1987). 15 Ivi, p. 105. 16 Ivi, p. 108. 17 Ivi, p. 116. 18 H. Putnam, Come non risolvere i problemi etici, in Realismo dal volto umano, cit., p. 345

(How Not to Solve Ethical Problems, in Realism with a Human Face, cit.). 19 T. Nagel, Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 1986, pp. 162-175 (Mortal Questions,

Cambridge, Cambridge University Press, 1979).

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20 T. Nagel., La possibilità dell’altruismo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 25 (The Possibility of

Altruism, Princeton, Princeton University Press, 1978). 21 T. Nagel, Questioni mortali, cit., p. 201. 22 Ivi., p. 199. 23 T. Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, Milano, Il Saggiatore,1988, p. 7 (A View from

Nowhere, Oxford, Oxford University Press, 1986). 24 Ivi, p. 8. 25 T. Nagel, Questioni mortali, cit., p. 204. 26 Ivi, p. 132. 27 T. Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, cit., p. 9. 28 Ivi, p. 196. 29 T. Nagel, Questioni mortali, cit., p. 132. 30 T. Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, cit., p. 199. 31 Ivi, p. 249. 32 T. Nagel, I paradossi dell’uguaglianza, Milano, Il Saggiatore, 1993, pp. 83-96, 123-150

(Equality and Partiality, Oxford, Oxford University Press, 1991). 33 Ivi, p. 163-174. 34 T. Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, cit., p. 251, 35 Ivi, p. 176-177. 36 Ivi, p. 172. 37 Ivi, p. 181. 38 J. Dancy, Moral Reasons, Oxford, Blackwell, 1994, pp. 147-148 39 Ivi, p. 148. 40 Ivi, pp. 148-150. 41 R. Bittner, What Reason Demands?, Cambridge, Cambridge University Press, 1989,

pp. 34-36. La critica di Bittner è rivolta alla teoria di Nagel come viene esposta nel suo primo libro e non direttamente alla sua teoria esposta nei libri successivi sui quali ci si è soffermati in questo capitolo. L’esposizione di Bittner è perciò riadattata alla presente discussione, nel tentativo di vedere se i suoi argomenti riformulati possano essere validi nei confronti della più recente teoria di Nagel.

Capitolo settimo

Le risposte alle critiche a posteriori al realismo morale

7.1. Inizieremo questo capitolo con le risposte alle questioni sollevate da Harman, che abbiamo presentato nella terza sezione del secondo capitolo. Un tentativo di replica dall’ottica realista è stato proposto da Nicholas Sturgeon.1 Innanzitutto, si devono interpretare con chiarezza le ambizioni di Harman. Egli vuole sostenere (i) delle forti ragioni prima facie a favore dello scetticismo morale; (ii) che l’unica risorsa per evitare lo scetticismo è la riduzione dei concetti morali a concetti naturali. A sostegno della propria proposta antirealista, Harman deve mostrare che i fatti morali non sono in grado di spiegare alcun fatto naturale, comprese le nostre credenze (i fatti morali quindi non sarebbero in grado di dare alcuna spiegazione della nostra credenza che maltrattare gli indifesi è ingiusto) e i nostri comportamenti (l’aiuto che, ad esempio, associazioni di volontariato danno agli anziani non può essere spiegato dalla bontà morale di quest’azione e di quella degli agenti). Negando che l’appello ai fatti morali possa essere incluso nella spiegazione di fatti naturali, Harman non può presupporre soltanto che vi sia una qualunque spiegazione alternativa. Vi è certamente una spiegazione alternativa all’appello ai fatti a proposito di qualsiasi credenza. Le nostre credenze percettive possono essere spiegate ipotizzando l’esistenza di un demone cattivo che ci provoca allucinazioni. Ma per evitare un’argomentazione improntata ad uno scetticismo generale, Harman deve mostrare che l’appello a spiegazioni diverse da quelle rappresentate dall’appello ai fatti morali è non soltanto possibile, ma in ogni occasione più valido ed efficace del tentativo rivale.

Ma vi sono per Sturgeon chiari esempi nei quali si rileva un costante appello a fatti morali per comprendere fatti naturali. Perché Hitler ha fatto uccidere milioni di persone? Perché era una persona moralmente cattiva. Perché nella prima metà del XIX secolo l’opposizione allo schiavismo in America è cresciuta? Perché era divenuto moralmente più condannabile. Perché un giudice sentenzia in un certo modo? Perché così detta la giustizia (anche quella astratta, oltre a quella positiva). Ossia: per giustificare la propria posizione, Harman deve mostrare che tutte queste spiegazioni sono sbagliate, o almeno che vi sono delle buone ragioni per pensarlo. Sturgeon, infatti, ritiene che il peso della dimostrazione sia dalla parte di Harman, poiché per giustificare le nostre credenze dobbiamo partire da queste credenze stesse, per vedere quali di queste credenze debbano essere emendate. Tra le credenze rilevanti in questo procedimento epistemologico ci sono quelle morali, come ad esempio l’opinione che stabilisce una connessione tra l’ordinare lo sterminio di milioni di persone e l’essere moralmente depravato.

L’argomentazione di Harman si basa su un’affermazione di questo tipo:

Se la nostra teoria morale fosse irrimediabilmente falsa, ma tutti i fatti non morali rimanessero esattamente identici a quelli che, di fatto, sono, noi formuleremmo esattamente le stesse conclusioni morali di quelle attuali.2

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I giudizi morali non dipendono dalla realtà esterna, poiché esprimeremmo gli stessi giudizi morali anche se la realtà morale fosse completamente diversa da quale sembra essere. Però, se è così, se i nostri giudizi morali sono del tutto indipendenti dalla realtà esterna, non abbiamo alcun motivo razionale per supporre l’esistenza di una realtà morale. Dobbiamo limitarci a spiegare la fenomenologia morale con ciò che la causa, ovvero con la nostra sensibilità morale.

Sturgeon invece è dell’opinione che nessuna particolare conclusione scettica segua dall’enunciato controfattuale citato sopra. Può essere utile un’analogia con, ad esempio, la fisica. Alcuni fenomeni fisici in seguito all’accoglimento di certe teorie, sono spiegati in base all’esistenza di fenomeni microfisici. Ciò ci induce a credere nell’esistenza di questi fenomeni microfisici. Il giudizio controfattuale equivalente a quello esposto sopra sarebbe il seguente: ‘anche se la teoria con la quale noi proclamiamo l’esistenza di determinati fenomeni microfisici quali spiegazioni per determinati fenomeni fisici fosse completamente falsa (ovvero, ad esempio, anche se non vi fossero, di fatto, fenomeni microfisici), noi continueremmo a seguirla.’ Perché nessuna conclusione scettica segue da questo controfattuale? Per un motivo molto semplice: non c’è nessuna ragione per pensare che la teoria rilevante sia falsa. Ma, allora, nessuna conseguenza scettica segue dagli esempi riguardanti la morale: non c’è nessuna ragione per credere che una persona che abbia fatto tutto ciò che ha fatto Hitler possa non essere moralmente depravata.

Non dobbiamo arrivare ad alcuna conclusione scettica dalle affermazioni di Harman riguardanti i casi morali. È vero, sono disposto a concederlo: se le nostre teorie morali fossero seriamente erronee, ma noi continuassimo a crederle, ed i fatti morali rimanessero fissi, noi continueremmo a formulare i giudizi che formuliamo. Però, questo fatto di per sé non ci dà alcuna ragione per credere che la nostra teoria generale è generalmente sbagliata.3

Per giustificare la propria posizione scettica Harman dovrebbe non soltanto affermare la possibilità che noi continueremmo ad affermare le nostre credenze morali anche se fossero irrimediabilmente false, ma affermare anche che vi sono delle buone ragioni per credere che queste credenze, di fatto, sono false. Sturgeon ritiene che Harman non abbia dato alcuna buona ragione per crederlo. Se non abbiamo alcun motivo per pensare che i nostri giudizi siano radicalmente sbagliati, dobbiamo pensare che siano conformi alla realtà. L’unica strategia che a questo punto può rimanere a Harman è il ricorso a uno scetticismo generale, il che non è desiderabile neppure per lui.

Sturgeon condivide la posizione ontologica generale di Harman, cioè il naturalismo. Ma, contrariamente a Harman, ritiene che ci siano delle buone ragioni prima facie per non escludere i fatti morali a partire da questa prospettiva. In particolare, Sturgeon è convinto di poter giustificare il realismo morale naturalistico anche senza una riduzione quale quella richiesta da Harman. La riduzione, infatti, può essere intesa in un duplice senso. Da un lato, il riduzionismo per il naturalista non può che essere una strategia ovvia; egli sostiene che non esistono fatti morali sui generis, ed afferma che sono tutti fatti naturali. In questo senso, la sua è una riduzione ontologica. Tuttavia, c’è un’altra forma di riduzione più impegnativa, che esige che i termini espressi in un linguaggio (ad esempio, quello morale), siano tradotti nel vocabolario di un

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altro linguaggio (ad esempio, di quello delle scienze sociali, o biologiche, o psicologiche, o altre). Sturgeon pensa che questo secondo genere di riduzione non sia necessario. Harman stesso era disposto ad ammettere la riducibilità ontologica dei colori, ma non quella delle qualità morali. La sua giustificazione era di carattere pratico: l’appello ai colori è utile nei tentativi di spiegazione epistemologica poiché vi sono buone ragioni per attendersi una efficace riduzione ontologica naturalistica, pur se si dispone soltanto di un vocabolario approssimativo per farlo, ovvero anche senza poter realizzare una riduzione linguistica. Tuttavia, può ben replicare Sturgeon, si può vedere che i termini morali vengono invocati nelle spiegazioni di fatti con altrettanta naturalezza dei colori. Di conseguenza, lo stesso argomento se è valido per ammettere la riducibilità (ontologica) dei colori dovrebbe essere valido anche per la riducibilità ontologica delle qualità morali.

Persone attendibili offrono frequentemente spiegazioni di osservazioni mediante credenze morali e molte di queste spiegazioni sembrano sufficientemente plausibili di fronte alle prove, sino al punto di meritare di esser prese con serietà.

Quindi, una risposta rapida a Harman consisterebbe semplicemente nell’accettare la sua concessione e ritenere ciò sufficiente a considerare i fatti morali come (nel peggiore dei casi) riducibili a fatti esplicativi.4

Questo è un argomento che può essere ritenuto valido nella discussione con il primo Harman, il quale ha indebolito il criterio di riduzione per i colori e quindi risulta incoerente nel voler imporre un criterio più rigoroso per i fatti morali. Sulla scia del primo Harman, Sturgeon afferma che non sarebbe un particolare problema per il naturalismo etico non poter disporre attualmente di definizioni riduttive valide. Sturgeon così rimanda la soluzione completa del problema della riduzione a quando si saranno trovate le risposte giuste in ambito normativo. Soltanto dopo aver deciso quale teoria morale accogliere, si potrà soddisfare l’esigenza di una riduzione terminologica, ma questo fatto non costituisce alcun problema.

7.1.2. Ma nella versione più recente della sua teoria Harman dichiara

esplicitamente di non essere disposto ad accogliere una simile posizione. Harman ritiene, infatti, che senza aver fornito una riduzione precisa dei fatti morali a fatti naturali, Sturgeon non riesca a dare una risposta persuasiva ai problemi posti dal realismo morale. In particolare, non è chiaro come la presenza di una qualità morale contribuisca a generare nei soggetti la credenza su questa presenza.5 Il fatto che non vi sia alcuna spiegazione di come una presunta realtà morale possa interagire con il nostro apparato cognitivo è un buon motivo per sospettare che gli enunciati morali non rispecchino la realtà fattuale del mondo. Quindi, conclude Harman, anche se le credenze morali sono molto radicate, non possono essere più che pregiudizi. Sturgeon non è in grado di offrire la spiegazione richiesta, perché il modello di riduzione che espone è troppo vago e non riesce a indicare alcun elemento epistemologicamente rilevante e perspicuo.

Veniamo poi ai due possibili modelli di riduzione. Quello debole, per cui si ha una riduzione semplicemente quando si pensa che i giudizi morali sono ridotti a fatti naturali e quello più rigoroso, per cui per avere una riduzione si pone l’esigenza di disporre di una traduzione da un vocabolario ad

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un altro. Sturgeon ritiene che sia sufficiente soddisfare il primo modello di riduzione e Harman intende precisamente contestargli questa opportunità. Per realizzare una riduzione naturalista è necessaria una teoria sistematica che sia in grado di spiegare perché fatti di un determinato genere vadano ridotti a fatti di un genere diverso. Ma questa riduzione non pare realizzabile in etica, a differenza di quanto accade nelle scienze naturali. Infatti, lo scienziato ha una spiegazione teorica di come i fenomeni microfisici creano i fenomeni che possiamo percepire. Di conseguenza, si trova in una posizione migliore rispetto al filosofo morale che, al contrario, non dispone di una riduzione teorica precisa dei fatti morali a fatti naturali. Mancando di questa opportunità il filosofo morale riuscirà soltanto a fare una ricerca di psicologia morale, a mostrare quali credenze sono accolte dai soggetti morali, ma non a spiegare se esiste una realtà morale.

L’irrilevanza della (presunta) realtà morale nella spiegazione delle credenze diviene evidente se si pensa al fatto che è possibile ammettere l’esistenza di questa realtà e, tuttavia, avere un atteggiamento epifenomenico nei suoi confronti, ovvero, ammettere che anche se esistessero fatti morali, questi non produrrebbero alcun effetto. Infatti, l’epifenomenista può ammettere che le proprietà morali sono sopravvenienti alle proprietà naturali e affermare che il possesso di determinate proprietà morali è spiegato con il possesso di determinate proprietà naturali. Le proprietà naturali sono in grado di spiegare tutto quello che c’è da spiegare e non c’è alcuna necessità di ricorrere ad altre qualità. Per comprenderlo, basti prendere atto della distinzione tra caratteristiche che rendono un atto ingiusto (determinate proprietà naturali) e il fatto di essere ingiusto (la proprietà morale). Il fatto di essere ingiusto è un fatto morale che sopravviene a determinate caratteristiche naturali. Questo fatto, però, non è richiesto in alcun tipo di spiegazione. Non abbiamo difficoltà a concedere che Hitler è moralmente depravato. Sturgeon dice che questo fatto spiega: a) le sue azioni e b) la nostra credenza che egli sia moralmente depravato. L’epifenomista può in effetti rifiutare questo modello esplicativo. Non è la depravazione morale di Hitler a spiegare le sue azioni e la nostra credenza della sua depravazione. Sono i fatti naturali a farlo. Hitler ha agito in un certo modo perché aveva determinate disposizioni psicologiche, non perché era depravato; noi lo giudichiamo depravato per queste depravazioni e per le sue azioni, non per la nostra reazione alla sua depravazione. I presunti fatti morali, ancora una volta, sembrano essere esclusi dal processo esplicativo.

7.1.3. Sturgeon ha tentato di fornire una risposta anche a queste

critiche più recenti di Harman.6 Il punto centrale della discussione è rappresentato dalla condizione che Harman impone alla giustificazione epistemologica ed ontologica delle credenze morali: la possibilità di disporre di una teoria in grado di realizzare una riduzione naturalistica sistematica dei presunti fatti morali a fatti naturali. Sturgeon non crede che questa richiesta sia sostenibile. Per Harman, in mancanza di una teoria sistematica in grado di realizzare una riduzione naturalistica che possa spiegare e fondare un sistema morale, non c’è la possibilità di sostenere che si possa avere accesso a una presunta realtà morale e che essa sia in grado di condizionare le nostre

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credenze morali. Ad esempio, Pietro è convinto che torturare un animale sia moralmente perverso. Paolo pensa che non lo sia. Pietro guarda l’azione di alcuni ragazzi che danno fuoco ad un gatto e condanna moralmente l’azione. Paolo guarda la stessa azione e rimane completamente indifferente. Non c’è nulla nei fatti che possa indurre uno dei due a rivedere i propri giudizi, sino a quando non si dispone di una teoria morale sistematica in grado di operare una riduzione e con ciò una fondazione della morale.

Sturgeon è pronto ad accogliere quanto si può dedurre dall’esempio: non c’è nulla, nelle osservazioni, che possa indurre i soggetti interessati a cambiare la propria credenza. Tuttavia, Sturgeon, non è disposto a concedere che da ciò si possano derivare conseguenze generali per due ordini di ragioni: a) le situazioni alle quali si appella Harman possono presentarsi anche nelle scienze naturali e non soltanto nella filosofia morale; b) queste stesse situazioni non sono tali da compromettere le scienze naturali e quindi neppure una filosofia morale realista. Ad esempio: Pietro vede un fenomeno macrofisico e crede subito che siano avvenuti anche dei fenomeni microfisici correlati. Paolo, invece, è un empirista rigorosissimo ed è scettico a proposito dell’esistenza di fatti non percepibili. Egli spiega la credenza di Pietro, oltre che sulla base della visione dei fatti empirici in questione, anche appellandosi al particolare tipo di percezione dei fatti empirici che Pietro stesso ha acquisito accogliendo una determinata teoria. Tra Pietro e Paolo c’è un disaccordo sulla spiegazione dei fenomeni fisici. Anche in questo caso non c’è nulla nella visione dei fatti che possa portare i due a cambiare i propri giudizi.

Sturgeon, tuttavia, pensa che non tutti i casi importanti siano equivalenti a questo ultimo, e che ciò sia sufficiente per accogliere il realismo nelle scienze naturali. Ma se questo è vero si impone al critico del realismo morale di dimostrare che tutte le situazioni che generano giudizi morali (e non soltanto alcune) siano equivalenti all’esempio presentato sopra. Sturgeon è convinto di disporre di un controesempio che dimostra implausibile un simile tentativo. Immaginiamo che Pietro goda di un grande prestigio morale presso Paolo. A questo punto, Paolo osservando la reazione di Pietro, cambia atteggiamento: se un’azione è giudicata depravata da una così valida autorità, quale è Pietro, essa non può che essere tale. Una testimonianza osservabile è riuscita a far cambiare opinione a Paolo. Perciò in almeno alcuni casi si è mostrato che è possibile che una testimonianza osservativa faccia cambiare un giudizio morale anche senza disporre di una teoria morale sistematica. Il successivo passo consiste nel tentativo di mostrare che Pietro e Paolo credono legittimamente nei propri giudizi morali e che dal fatto che né Pietro né Paolo dispongono di una teoria morale sistematica non segue che le loro credenze siano pregiudizi. Sturgeon pensa che anche non avendo una teoria sistematica, a livello prototeorico si riesca efficacemente a raffigurare connessioni teoricamente efficaci tra fatti morali e fatti naturali. Non è azzardato ritenere che, pur non disponendo di una teoria sistematica, sia Pietro sia Paolo avranno delle intuizioni a proposito di quali caratteristiche rendano delle azioni virtuose oppure viziose. Con queste intuizioni, sia l’uno sia l’altro potranno formulare un codice morale che magari non rappresenterà una teoria sistematica, ma che, non di meno, riuscirà a indicare delle regolarità su come i fatti morali siano inseriti nel mondo. Ad esempio, si potranno trovare delle connessioni costanti

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tra provocare dolore e perversione morale. Ciò dovrebbe essere sufficiente a risolvere, almeno inizialmente, tanto i più urgenti problemi epistemologici, quanto quelli ontologici, che consistono nel trovare una collocazione dei fatti morali nel mondo naturale. Disponendo di una spiegazione prototeorica non si giunge sino al punto di dire esattamente quali siano le connessioni tra fatti morali e fatti naturali, tuttavia, si mostra che ci sono degli indizi favorevoli per la possibilità di una riduzione sistematica. Perciò è possibile sostenere un realismo morale naturalista anche senza disporre attualmente di una teoria riduzionista sistematica. La prototeoria ne sarà la base.

7.1.4. Harman sostiene che è possibile affermare che fatti e credenze

morali sono sopravvenienti a quelli naturali e, tuttavia, ritenerli causalmente e esplicativamente irrilevanti. Ma Sturgeon ritiene che anche l’ipotesi epifenomenista non sia convincente. Per prima cosa è necessario dire che non vi sono ragioni evidenti per cassare la posizione del senso comune che è implicitamente contraria all’epifenomenismo morale. Usualmente, si ritiene che i fatti morali siano causalmente attivi; si pensa che la depravazione di Hitler lo abbia portato a fare quello che ha fatto e si ritiene che noi pensiamo che Hitler sia stato depravato proprio perché lo è stato veramente. Questa testimonianza del senso comune non è ancora sufficiente per sconfiggere l’epifenomenismo morale, tuttavia, secondo Sturgeon, gli impone almeno l’onere della prova. A questo punto, sembra che l’epifenomenista debba sviluppare una teoria con la quale sostenere la propria posizione. Ma ammettere che tutti i fatti sopravvenienti sono epifenomenici – come alcuni filosofi hanno inteso mostrare – ossia che sono causalmente irrilevanti i fatti sociali, biologici e psicologici sembra molto implausibile. Questa posizione, dunque, è tanto indesiderabile per Sturgeon stesso quanto lo è per Harman.

7.1.5. L’argomentazione di Sturgeon è solo parzialmente convincente.

Sembra plausibile la sua idea per cui ogni giustificazione epistemologica deve iniziare dalle credenze che si possiedono, se non c’è alcuna evidenza contro di esse. Il conservatorismo epistemologico, però, può costituire soltanto una giustificazione provvisoria. La giustificazione epistemologica piena può risultare soltanto dalla presenza di alcune prove positive. L’impresa di Sturgeon si arresta di fronte a questo compito. Per questo motivo, sono insoddisfacenti i suoi due argomenti conclusivi nella discussione con Harman.

Il primo argomento di Sturgeon ha la forza quasi di un argumentum crucis. Se esistesse almeno una situazione nella quale sarebbe provato che un’osservazione ha fatto cambiare un’opinione morale, sarebbe dimostrato che è possibile che la realtà morale causi le nostre credenze morali. È fuori di dubbio che nessuna opinione è immutabile e che tali cambiamenti possono avvenire in seguito al riconoscimento dell’autorità di un’altra persona. Ma ciò che Sturgeon riesce a dimostrare è al massimo che questo avviene anche nel pensiero morale. L’argomento avrebbe successo se Pietro cambiasse la sua opinione in seguito all’osservazione della realtà morale. Egli, però, non osserva la realtà morale, bensì la reazione di Paolo. Non si riesce, quindi, a dimostrare nulla a proposito del realismo morale.

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Il secondo argomento di Sturgeon riguarda l’affermazione per cui la conoscenza di alcune relazioni regolari tra fatti morali e fatti naturali rappresenterebbe un’evidenza a favore del realismo morale. Queste testimoniano che il pensiero morale è coerente, il che è certamente una condizione necessaria affinché possa offrire credenze vere. Tuttavia, una piena giustificazione può derivare soltanto da una riduzione teorica simile a quella prospettata da Harman. Solo in questo modo si potrà risolvere il problema ontologico, cioè mostrare quale sia il posto dei fatti morali nel mondo, ed il problema epistemologico, cioè spiegare quali ragioni ci sono per ritenere che le nostre credenze morali possano riguardare questa realtà. Si può dire che l’argomentazione di Sturgeon si sia arrestata proprio sul punto filosoficamente fondamentale.

7.1.6. Esamineremo ora brevemente un’altra risposta alle critiche a

posteriori al realismo morale. Si tratta della replica offerta da Daniel Goldstick,7 che polemizza con Mackie e Harman, mettendo in discussione il cosiddetto ‘argomento causale’. Questo argomento sostiene che l’inefficacia delle spiegazioni epistemologiche che si appellano ai fatti morali deriva dall’assenza di una conoscenza della connessione causale tra la presunta realtà morale e le credenze. Anche se le credenze morali fossero vere, sarebbero puramente casuali, quindi tali da non produrre sapere. Per Goldstick se fossero vere, allora non sarebbero casuali, bensì necessarie.

L’argomento di Goldstick è il seguente. Immaginiamo le credenze morali di un utilitarista. Per lui la produzione di felicità è una condizione sufficiente affinché vi sia bontà morale. Di conseguenza, la bontà morale è una condizione necessaria affinché vi sia la presenza di produzione di felicità (non può esservi alcun mondo possibile nel quale vi sia produzione di felicità senza che vi sia bontà). Secondo l’utilitarista, la presenza della produzione di felicità è una condizione necessaria per credere che sia presente la bontà. In base al principio di transitività, da queste premesse segue che la presenza della bontà morale è una condizione necessaria per credere che vi sia la bontà morale. Sia F = produzione di felicità; B = bontà morale; C = credenza nella presenza della bontà morale:

F è una condizione sufficiente per B B è una condizione necessaria per F (sulla base di 1) F è una condizione necessaria per C B è una condizione necessaria per C (sulla base di 2 e 3). L’argomento è effettivamente persuasivo. Se ci sono fatti morali e se al

soggetto accade di crederci, allora la sua conoscenza non è casuale, bensì necessaria. Però ciò che Goldstick riesce a dimostrare è molto limitato. Per dimostrare che le nostre credenze morali sono vere, c’è ancora da dimostrare che effettivamente esistono fatti morali. Si può perciò concludere che

anche se ogni credenza morale vera (nel significato di Goldstick) fosse accompagnata da un corrispondente fatto morale, quale utilità ne avremmo quando non abbiamo assolutamente alcuna ragione per pensare che essa sia accompagnata da un simile fatto?8

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7.2.1. David Brink offre una replica più sistematica al genere di critiche al realismo morale viste nel secondo capitolo e, in specie, all’antirealismo a posteriori di Mackie, il cui principale argomento è quello che fa leva sulla stranezza epistemologica della facoltà cognitiva che dovrebbe cogliere i fatti morali e sulla stranezza ontologica dei fatti morali stessi. Il primo modo di replicare a Mackie è il seguente. Se si volessero screditare filosoficamente i presunti fatti morali dicendo che sono strani, completamente diversi da tutti gli altri fatti dei quali siamo a conoscenza, bisognerebbe essere in grado di indicare che tutti questi altri fatti, invece, sono omogenei, altrimenti, non ci sarebbe nessuna ragione per discriminare proprio quelli morali. La varietà ontologica sarebbe un dato acquisito e l’argomento che si appella alla stranezza non avrebbe alcun peso. Ma, come già visto per Finnis, per confutare l’argomentazione di Mackie non è sufficiente provare che esistono anche altri fatti strani, ma pure che questi altri fatti possono essere sostituiti nelle descrizioni ontologiche in modo agevole. Tuttavia, per Brink anche se si stabilisse una particolare stranezza dei fatti morali, ciò non sarebbe ancora un argomento conclusivo. Potrebbe darsi che vi siano altri indizi a favore del realismo morale: le testimonianze del senso comune, la sicurezza nell’accoglierli, ecc. Bisognerebbe, cioè, dimostrare che il loro abbandono non causa perdite significative. Brink tenterà di mostrare che altri fatti potrebbero essere intesi come sui generis al pari di quelli morali ed altrettanto soggetti all’eliminativismo ontologico. Questa sarà soltanto una strategia, per così dire, di riserva, perché la sua ambizione principale è un’altra. Brink nega infatti che i giudizi morali siano sui generis e afferma che sono inseribili in un’ontologia materialista. I fatti morali sono fatti naturali.

Sulla base di questa ultima posizione ontologica, anche Brink deve affrontare il problema della fallacia naturalistica. Se il problema denunciato da Moore si rivelasse fondato, i fatti morali non potrebbero che essere sui generis. Come Putnam e Gewirth, anche Brink ritiene che l’argomento di Moore non è valido. La formulazione che Brink dà della fallacia naturalistica è la seguente:

Nessun enunciato morale può essere derivato in modo valido da un insieme compatibile di premesse i cui membri sono tutti enunciati non morali (e viceversa).9

L’interpretazione più classica di questo principio si basa sull’affermazione di carattere semantico di Moore, secondo la quale i termini morali e quelli naturali non sono reciprocamente interdefinibili. Moore, cioè, dice che non c’è alcun rapporto di sinonimia tra i termini o gli enunciati morali e quelli naturali. Una persona quando pensa se un fatto sia giusto o ingiusto non pensa anche necessariamente che, ad esempio, aumenti o diminuisca la quantità generale di piacere. L’argomento di Moore si basa su una teoria tradizionale del significato, secondo la quale il significato di un termine è rappresentato dall’insieme di proprietà che ogni parlante competente associa al termine stesso. Questa teoria del significato, però, va incontro ad almeno due problemi. Essa funziona bene per i significati evidenti, però non riesce ad affrontare il problema dei significati ‘coperti’ o ‘opachi’. In particolare, si preclude la possibilità di scoprire tramite l’analisi semantica nuovi fatti a proposito dei concetti con i quali siamo familiari. Inoltre, questa teoria del significato rende le condizioni di sinonimia troppo restrittive. Questo non appare evidente nei casi delle verità analitiche

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banali. Però, ogni volta che siamo di fronte ad una domanda che merita di essere posta ci troveremmo di fronte al problema indicato da Moore. Sicuramente, nessun rapporto di sinonimia potrà essere stabilito tra termini o enunciati di discipline diverse. Di conseguenza, il problema posto dalla fallacia naturalistica, se viene affrontato come lo è stato da Moore, inaugura grandi difficoltà per numerose discipline di studio. Se si usano criteri troppo restrittivi, l’argomento che si basa sulla presunta stranezza dei fatti morali perde la propria forza. Questi criteri rendono sui generis qualsiasi tipo di fatto. Questa argomentazione, comunque, rappresenta soltanto una strategia di secondaria importanza per Brink. Egli pensa che nel verificare la possibilità di una riduzione naturalistica sia più appropriato un approccio diverso da quello adottato dai seguaci di Moore.

La tesi semantica di Moore, secondo la quale può esserci un’identità tra proprietà soltanto se c’è un rapporto di sinonimia tra i termini che le esprimono, confonde, a parere di Brink, l’identità con l’analiticità. Non c’è alcuna ragione per cui due termini possano esprimere proprietà identiche soltanto se tra loro c’è un’identità analitica. L’identità delle proprietà può essere scoperta anche a posteriori, senza far ricorso all’identità semantica. Di conseguenza, anche se l’indagine linguistica dei significati non è confortante, si può ancora continuare a sostenere il naturalismo ricorrendo all’indagine a posteriori.

Il naturalista può concedere che non c’è sinonimia né implicazione di significato tra i termini morali e i termini non morali, ad esempio, naturali, e continuare ad affermare che i fatti e le proprietà morali sono identici a, o costituiti da, proprietà e fatti naturali e sociali.10

7.2.2. Passiamo ora alla strategia riduzionistica di Brink. Il naturalismo afferma che i fatti morali non sono altro che familiari fatti naturali, tra i quali sono compresi anche quelli sociali, psicologici, economici e biologici. I fatti morali, quindi, sono fatti naturali. A questo punto, va spiegato il significato di questo ‘sono’. Da un lato, il termine può indicare identità (i fatti morali sarebbero identici a fatti naturali); dall’altro lato, il termine potrebbe indicare costituzione (i fatti morali sarebbero costituiti da fatti naturali). Affermare l’identità equivale a dire che i termini morali sono necessariamente identici ai termini naturali. Il modello sarebbe equivalente a quello di quando diciamo ‘acqua = H20’. L’affermazione dell’identità implica quella della costituzione, ma non viceversa. Se i fatti morali sono identici a quelli naturali, allora essi sono costituiti da fatti naturali. Tuttavia, se sono costituiti da fatti naturali, ciò non vuol dire che lo sono necessariamente. Brink preferisce accettare, fra le due, la versione meno esigente. Egli pensa che sebbene i fatti morali sono costituiti da fatti naturali e sono configurazioni organizzate di fatti naturali, non sia così necessariamente. I fatti morali avrebbero potuto anche essere costituiti da fatti soprannaturali, come, ad esempio, vogliono le religioni.

Con il modello di riduzione che propone, dice Brink, non viene posto nulla di metafisicamente strano. I fatti biologici, come la fotosintesi, sono costituiti da eventi fisici e chimici che si trovano in determinate relazioni causali; i fatti sociali di vasta portata sono costituiti da fatti sociali in scala

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minore, o, addirittura, da fatti riguardanti individui. Non c’è nessuna difficoltà di carattere generale nell’affermare che i fatti morali sono costituiti da fatti naturali.

A questo punto, Brink può chiarire il problema della sopravvenienza. I naturalisti morali sostengono che i fatti morali sopravvengono da fatti naturali. La sopravvenienza, secondo Brink,

è una relazione nomologica o simile a un legge tra, diciamo, proprietà, tale che una proprietà F (la proprietà sopravveniente) sopravviene un’altra proprietà o configurazione di proprietà G (la o le proprietà di base) soltanto nei casi nei quali vi è una legge che qualcosa che è G è anche F.11

Ad esempio, secondo una certa concezione della giustizia, consentire, in uno stato di estrema indigenza da parte dei meno abbienti, una distribuzione delle risorse che provoca grandi ineguaglianze rappresenta una politica ingiusta. Ossia, la sopravvenienza per il naturalista è una relazione per niente misteriosa: i fatti morali sopravvengono a quelli naturali perché sono fatti naturali. Se le cose stanno così, allora, ritiene Brink, l’obiezione di Mackie viene semplicemente evitata. E con ciò si spalancano le porte pure alla soluzione del problema epistemologico.

La credenza epistemologica che il realismo morale sia vincolato all’intuizionismo si basa, almeno nel caso di Mackie, sull’assunzione metafisica sbagliata che i

valori morali devono essere sui generis. La verità morale è difficile da raggiungere, però non è né strana né misteriosa.12

Non essendo sui generis, non c’è alcuna necessità di supporre che i fatti morali debbano essere conosciuti da una facoltà cognitiva strana e misteriosa. I fatti morali devono essere conosciuti con quegli stessi strumenti cognitivi con i quali sono conosciuti i fatti naturali ai quali sono assimilati dal realista naturalista.

Vi sono vari modi in cui si può tentare di adempiere a un programma riduzionistico e realistico. Moral Realism and the Sceptical Argument from Disagreement and Queerness si concentra su una possibile soluzione funzionalista. In Moral Realism and the Foundations of Ethics Brink ne individua una utilitarista. Non ci occuperemo di queste proposte di Brink, bensì tenteremo di vedere come si possa realizzare una riduzione naturalistica esaminando ancora una volta la proposta convenzionalistica di Hume.

7.3.1. Tenteremo di derivare dalla teoria morale di Hume la costruzione

teorica che ci serve per completare la riduzione dei fatti morali a fatti naturali. Sicuramente non c’è nel pensiero dello Scozzese né l’origine né la possibilità di una fondazione morale realista, se per realismo morale si intende la possibilità di fondare norme universalmente valide, ossia valide per tutti gli esseri razionali (dove la loro validità sarebbe accessibile o con il solo uso della ragione o di facoltà cognitive sui generis e prescindendo da condizioni empiriche particolari).

È da ritenere, non di meno, che si possa rintracciare in Hume una forma di realismo morale intendendo con ciò la fondazione di leggi morali che sono valide considerata la natura degli esseri umani. Con ciò, si fa assumere a Hume una posizione riduzionista, ma non eliminativista relativamente alle credenze del senso comune. Infatti, il senso comune ha una pretesa di

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obiettività superiore a quella che è possibile concedere all’interno del paradigma humeano. Il senso comune reputa che esistano delle qualità morali indipendenti dalla natura particolare degli esseri umani. Se si chiede ad una persona comune, ad esempio, se sia lecito in un qualsiasi mondo possibile maltrattare un indifeso, chiunque dirà che non lo è mai. Un’affermazione così comprensiva, come abbiamo visto, non è compatibile con il paradigma di Hume. Viceversa, come ci apprestiamo a vedere, è ben compatibile con il pensiero dello Scozzese un’altra forma di realismo morale.

Un’affermazione cruciale per la nostra argomentazione è la seguente:

Sebbene le regole di giustizia siano artificiali, esse non sono arbitrarie..13

Sebbene, quindi, la giustizia e le altre virtù artificiali non siano rintracciabili già confezionate, esse devono essere formulate in base a dei criteri. Questi criteri possono essere immaginati in due modi: come regole di pensiero, oppure come regole dettate dai bisogni della natura umana. Nel primo caso ci troveremmo di fronte a una dichiarazione che si rifà alla teoria della verità come costruzione. Ma questo non è il caso di Hume. Infatti, la giustizia viene creata per rispettare le esigenze della natura umana. Parlando della condizione dell’essere umano, Hume dice:

Solo con la società l’uomo è in grado di supplire alle sue mancanze e di porsi sullo stesso livello degli altri esseri del creato, e anzi di acquisire una superiorità su di essi.14

La società, quindi, è necessaria all’uomo per sopravvivere. Però, per poterla far sussistere e funzionare al meglio, è necessaria altresì una convenzione che garantisca una stabile cooperazione tra i suoi membri. Nella sua psicologia morale, infatti, Hume identifica alcune ragioni per le quali, senza una convenzione che fondi la giustizia, sarebbe impossibile una stabile convivenza sociale. Hume individua un grande pericolo per l’ordine sociale nella naturale tendenza a muoversi verso beni particolari piuttosto che verso il bene generale e verso i beni immediati piuttosto che verso quelli lontani. In breve, la motivazione a seguire le regole della prudenza è molto più debole della motivazione provocata dai desideri immediati. Tutte queste caratteristiche portano gli uomini, in frequenti situazioni, ad optare per decisioni che nuocciono alla convivenza e alla cooperazione sociale. La giustizia ha la funzione di risolvere questo problema. Essa è indispensabile per la sussistenza della società.

Se è così, la giustizia di per sé non è arbitraria, nel senso che instaurarla o meno non deriva da preferenze arbitrarie. In considerazione della natura umana, non saranno nemmeno arbitrari i suoi contenuti; in altre parole, non sono arbitrarie le singole regole che la costituiscono. Ma allora nel dare un pieno resoconto della giustizia è necessario fare un passo ulteriore, rispetto a quelli compiuti da Hume stesso. Prima che le regole di giustizia siano stabilite da una convenzione accolta da una comunità, esistono delle regole della ragione pratica aventi la seguente forma: ‘Poiché gli esseri umani vogliono massimizzare i propri interessi devono convivere seguendo il principio che afferma che a ciascuno deve essere garantito il massimo sistema di libertà compatibile con un identico sistema di libertà degli altri’, dove la prima parte dell’enunciato è il fondamento per affermare la seconda parte.

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Con questo ragionamento abbiamo trovato una soluzione al nostro problema, cioè al problema di identificare una riduzione teorica naturalistica dei fatti morali ai fatti naturali, poiché le regole di giustizia, intese come regole morali, sono proprio questi principi della ragione pratica, mentre le regole stabilite dalla convenzione sono piuttosto assimilabili al diritto positivo, al diritto abitudinario, o semplicemente applicazioni della morale. Infatti, mentre le prescrizioni morali sono dominanti, ossia hanno un valore superiore a tutte le altre, le prescrizioni stabilite dalla convenzione non hanno un tale peso e derivano il proprio valore dalle regole della ragione pratica che abbiamo indicato, le quali hanno valore di fondamento. Un altro passo di Hume ci può aiutare a chiarirlo:

Se non fossero in alcun gioco gli interessi della società, sarebbe tanto incomprensibile perché mai certi suoni articolati che implicano consenso, pronunciati da un altro, debbano mutare la natura delle mie azioni nei riguardi d’un oggetto particolare, quanto sarebbe incomprensibile perché mai la recita d’una formula liturgica da parte d’un prete, con un certo abito ed in un certo atteggiamento, debba dedicare a qualcuno un mucchio di mattoni e di legname e renderlo sacro da quel momento in avanti per tutta l’eternità.15

In breve, le regole di giustizia sono state assimilate a regole prudenziali. Questa riduzione indica che ciascun individuo massimizzerà nel modo ottimale i propri interessi vivendo in una comunità che segue queste regole. Goldman si oppone alla riduzione naturalistica del tipo che qui presentiamo dicendo che non in ogni suo singolo comportamento l’individuo massimizzerà la propria utilità seguendo le regole di giustizia. Questo varrebbe ad impedire una piena riduzione della sfera morale a quella prudenziale.16 In effetti, l’argomento di Goldman indica soltanto che non c’è piena equivalenza tra moralità e prudenza. Ma questa equivalenza non è necessaria per un buon esito della riduzione. Le regole morali corrispondono soltanto a quell’insieme di regole prudenziali che stabiliscono il tipo di cooperazione sociale ottimale. Possono esservi altre regole prudenziali che possono contrastare con queste, ad esempio, le regole di comportamento individuale. Vi sono situazioni in cui ad un individuo, può convenire comportarsi, hic et nunc, in modo discorde dalle regole di giustizia. Ciò non toglie che a quello stesso individuo convenga sempre vivere in una società regolata dai principi di giustizia (con tutto il corrispondente sistema di sanzioni e con un corrispondente sistema di educazione morale) e che quindi la riduzione della moralità alla prudenza sia legittimata. Anche se ogni tanto può convenire trasgredire le regole di giustizia, non conviene mai abolire queste regole come principi supremi di convivenza sociale. La riduzione naturalistica è perciò tutelata.

È necessario però considerare un’altra difficoltà. Non si dovrebbe, piuttosto che ritenere compiuta la dimostrazione realistica dell’obiettività della morale, sostenere che è stato dimostrato che la giustizia non è una virtù morale, bensì una virtù prudenziale? In questo caso si dimostrerebbe la falsità delle credenze morali. Queste sarebbero nel falso ritenendo di cogliere verità morali obiettive. Coglierebbero delle verità prudenziali che erroneamente sono percepite come verità morali. Invece di assistere ad un processo di riduzione teorica naturalistica, avremmo assistito ad un processo eliminativistico.17 Ora, è vero che le regole di giustizia sono state assimilate a regole prudenziali; ma

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bisogna, non di meno, tenere presente che il processo eliminativistico trova realizzazione soltanto in casi particolari. Paul Churchland affronta un problema analogo nella filosofia della mente:

Il materialismo eliminativo è la tesi secondo la quale la concezione che comunemente abbiamo dei fenomeni psicologici costituisce una teoria radicalmente falsa - una teoria così manchevole che sia i suoi principi sia la sua ontologia finiranno per essere soppiantati, invece di essere progressivamente ridotti, una volta che le neuroscienze saranno completamente sviluppate.18

Per giudicare se siamo di fronte ad un processo di riduzione, oppure di eliminazione, dobbiamo considerare quali sono le caratteristiche necessarie delle qualità morali e quali, invece, quelle contingenti. Se la riduzione ha salvato le caratteristiche necessarie abbiamo indicato una riduzione teorica non eliminativistica. La seguente lista può essere considerata come una buona approssimazione a caratteristiche necessarie delle verità morali. Le verità morali sono: (i) supreme, (ii) prescrittive, (iii) indirizzate a tutti, e (iv) richiedono ad ogni soggetto di considerare anche gli interessi degli altri e non soltanto i propri. C’è inoltre una quinta caratteristica delle verità morali ritenuta necessaria da alcuni (ma non da tutti): (v) quella di essere categoriche. Non ci inoltreremo nella discussione se questa ultima sia una delle caratteristiche necessarie, ma tenteremo di mostrare che anche se viene intesa come necessaria, non crea particolari problemi.

Iniziamo quindi proprio dalla categoricità. Si potrebbe in realtà pensare che le leggi prudenziali dovrebbero avere una forma ipotetica, poiché sono prescrizioni condizionate dal desiderio del soggetto di massimizzare la soddisfazione dei propri interessi. Dovrebbero, cioè, avere la seguente forma: ‘Se vuoi massimizzare i tuoi interessi, devi convivere seguendo il principio che afferma che a ciascuno deve essere garantito il massimo sistema di libertà compatibile con un identico sistema di libertà degli altri’. Il problema è però soltanto apparente, poiché la forma ipotetica è riducibile ad una forma categorica.

Le regole di giustizia si applicano a qualsiasi soggetto, qualsiasi siano i suoi interessi. Queste, come vedremo nei capitoli successivi, promuovono gli interessi di ogni soggetto, quali siano le sue finalità specifiche. Si può dire, perciò, che l’antecedente della formulazione ipotetica è necessariamente vero in ogni contesto rilevante per la morale. Le considerazioni morali non possono avere alcun senso nel contesto di soggetti che non abbiano alcun interesse o fine. Ma se l’antecedente è necessario, è necessariamente vero anche il conseguente. La prescrizione che esso contiene quindi è vera per ogni soggetto, indipendentemente dai suoi desideri particolari. Si può perciò concludere che le prescrizioni della ragione pratica siano categoriche. Un’obiezione potrebbe essere che la categoricità degli enunciati morali consiste nel poter provocare una motivazione indipendente dal fatto che i soggetti già abbiano delle motivazioni ad agire o meno. Di conseguenza, le prescrizioni che abbiamo indicato, per poter essere definite categoriche, dovrebbero riguardare anche i soggetti che attualmente non hanno alcun interesse o scopo: esse stesse dovrebbero essere in grado di crearli. Quest’ultima è forse una definizione di categoricità più corretta. Però è molto problematico che possa essere posta tra le condizioni necessarie delle verità morali, poiché seguirebbe da una

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particolare dottrina, certamente non condivisa dalla maggioranza dei filosofi morali: sicuramente non da Hare, sicuramente non da Gewirth (che, anzi, presenta un’argomentazione a favore della categoricità dei giudizi morali che in gran parte viene ricalcata dalla definizione che ora si sta proponendo), né dagli altri filosofi discussi. Anche se la nostra definizione di categoricità dovesse rappresentare soltanto una determinazione vicina a questo concetto, pur tuttavia si può ritenere che rappresenti il massimo che si possa richiedere in modo non problematico agli enunciati morali.

Per le altre caratteristiche, i problemi sono ancora minori. Le regole delle quali parliamo sono supreme, poiché per essere efficaci devono imporsi agli individui al di sopra dei loro interessi immediati; non sarà un comportamento razionale agire per l’interesse immediato rischiando di compromettere l’ordinamento stabilito dai principi di giustizia. Sono indirizzate a tutti in modo uguale per lo stesso motivo per il quale sono categoriche: sono valide per qualsiasi soggetto, indipendentemente dai suoi interessi o fini particolari. Indicano a ciascun soggetto che può massimizzare i propri interessi soltanto all’interno della cooperazione sociale; poiché questa, come si è detto, prevede il rispetto degli interessi degli altri oltre che dei propri, anche questa condizione è soddisfatta. Poiché, inoltre, pongono delle richieste ai soggetti indicando quali azioni devono essere compiute, si può dire che abbiano un contenuto prescrittivo.

Essendo queste caratteristiche connesse in modo necessario al concetto di moralità, mentre tutte le altre che si possono immaginare possono esserlo soltanto in modo problematico, possiamo dire che le regole di giustizia, pur essendo regole prudenziali, sono diverse dalle altre regole prudenziali. In virtù delle caratteristiche elencate, ricalcano esattamente quelle che sono comunemente intese come regole morali.

Che la posizione che abbiamo esposto sia coerente con le premesse di Hume è dimostrato dal fatto che essa è l’unica che può dar senso all’affermazione che le regole di giustizia anche se sono artificiali non sono arbitrarie. L’affermazione non ha alcun senso nel contesto usato da Hume se non si immaginano delle leggi simili a quelle che abbiamo descritto. Perciò, se si compie questo passo, bisogna dire che la giustizia è un artificio soltanto nel senso che non troverebbe attuazione nella società senza appropriate convenzioni che ne consentano la realizzazione. Tuttavia, la giustizia esiste di per sé, come un insieme di prescrizioni corrispondenti a leggi naturali sull’utilità degli esseri umani.

7.3.2. Una domanda ci potrebbe essere posta dal lettore che ha accolto

l’interpretazione di Hume offerta da Mackie: perché non applicare lo stesso ragionamento applicato alle virtù artificiali anche alle virtù naturali? Nell’interpretazione di Mackie, Hume, dopo la prima esposizione della fonte dei valori morali, ne dà una successiva specificazione che si allontana da un’interpretazione palesemente soggettivista, che sembrava ben accordarsi con l’esposizione delle virtù naturali. Se l’impostazione soggettivista della morale fosse vera, il giudizio morale sarebbe indissolubilmente legato al variare delle nostre emozioni e dovrebbe cambiare ogni volta che mutano le emozioni stesse, il che vuol dire molto spesso.

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Quando una qualità o un carattere tende al bene dell’umanità, ce ne rallegriamo e l’approviamo perché ci presenta una viva idea del piacere; questa idea ci influenza per simpatia ed è a sua volta un tipo di piacere. Ma poiché questa simpatia è molto mutevole, si potrebbe pensare che i nostri sentimenti morali debbano tutti essere suscettibili dei medesimi mutamenti. Noi simpatizziamo più con chi ci è vicino che con chi ci è lontano: con i nostri concittadini più che con gli stranieri.19

Invece, lo Scozzese si affretta a negare questa connessione.

Ma nonostante questo mutare della nostra simpatia, si dà alle stesse qualità morali la stessa approvazione, tanto in Cina, quanto in Inghilterra; esse appaiono egualmente virtuose e si accordano egualmente alla stima di un osservatore giudizioso.20

E, ancora:

Il nostro servo, se è diligente e fedele, può suscitare sentimenti di amore e benevolenza più forti che Marco Bruto quale ce lo rappresenta la storia; ma non per questo diciamo che, fra i due caratteri, il primo è più lodevole del secondo.21

Possiamo citare, infine, ancora un passo.

Il giudizio corregge qui le disuguaglianze delle percezioni ed emozioni interne, allo stesso modo che ci impedisce dal cadere in errore quando parecchie variazioni di immagini ci vengono presentate dai sensi esterni. Lo stesso oggetto, ad una distanza doppia, presenta realmente alla vista un’immagine che è grande soltanto la metà; tuttavia, noi immaginiamo che appaia della stessa grandezza in entrambi i casi, perché sappiamo che, se ci avvicinassimo all’oggetto, la sua immagine si presenterebbe ingrandita alla vista e che la differenza non consiste nell’oggetto per se stesso, ma nella nostra posizione rispetto ad esso.22

È lecito chiedersi, a questo punto, perché venga introdotta questa prospettiva imparziale. Il passo precedente non può rappresentare una spiegazione soddisfacente, se ci basiamo su quanto appreso da Hume sino ad ora. La correzione della prospettiva è infatti palesemente necessaria per la percezione degli oggetti fisici, in quanto sappiamo che l’oggetto è invariante e quindi ogni percezione di variazioni è ritenuta una distorsione. Per i valori morali però non è così. Se gli oggetti naturali ricevono valore soltanto in base alla reazione che suscitano, non si capisce bene perché le reazioni provocate da una particolare prospettiva debbano avere maggiore valore di quanto ne abbiano le reazioni da un’altra prospettiva. In altre parole: perché la prospettiva imparziale vale più delle altre prospettive?

Un’ipotesi sembra formulabile a seguire il testo dello stesso Hume. Egli, in alcuni momenti, sembra dire che la prospettiva imparziale deve essere assunta per motivi logici o linguistici.

Ogni singolo uomo ha una particolare posizione rispetto agli altri; e ci sarebbe impossibile riuscire mai a conversare insieme, se ognuno di noi dovesse considerare caratteri e persone unicamente da come ci appaiono dal nostro particolare punto di vista. Quindi, per prevenire queste continue contraddizioni e raggiungere una maggiore stabilità nei nostri giudizi sulle cose, fissiamo certi punti di vista fermi e generali, e sempre nei nostri pensieri, ci riferiamo a essi, quale che sia la nostra situazione attuale.23

Tuttavia, è difficile pensare che le ragioni logiche e linguistiche siano le uniche (o anche quelle fondamentali), che portano Hume a raccomandare la prospettiva imparziale, in quanto ciò ci costringerebbe ad attribuirgli una

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posizione in parte implausibile e in parte palesemente falsa. È, infatti, da un lato, falso che senza la prospettiva imparziale ed universale si arrivi a continue contraddizioni. Giudizi morali particolari, che non si appellano a principi universali, infatti, non possono essere contraddittori nel modo che sarebbe indispensabile all’argomentazione esposta. Se dico ‘Marco è giusto’ e ‘Paolo non è giusto’, riferendomi a persone che compiono un’azione simile, commetto una contraddizione soltanto se il mio giudizio esprime una regola universale, ma non se esprimo sentimenti immediati. Nel secondo caso, infatti, non faccio che esprimere un sentimento immediato di approvazione, il quale può cambiare come cambiano le circostanze. Per quel che riguarda l’aspetto linguistico, invece, la posizione non è palesemente falsa, però è implausibile pensare che si costruiscano sistemi morali soltanto per favorire la comunicazione linguistica. Chi volesse sostenere ciò dovrebbe dire, ad esempio, che il furto viene condannato moralmente per favorire la comunicazione linguistica e che chi ruba va in prigione, per lo stesso motivo. La posizione, non appena ci si sofferma, appare immediatamente assurda.

È da ritenere, invece, che le contraddizioni delle quali parla Hume non vadano interpretate come contraddizioni logiche, bensì come comportamenti incostanti, che in quanto tali non riescono a costituire la base per una stabile cooperazione sociale. Similmente, anche le esigenze linguistiche non vanno interpretate come valide di per sé, bensì come legate alle necessità della socializzazione. L’assunzione della prospettiva imparziale si manifesta, quindi, nell’esigenza di garantire la stabilità della cooperazione. È Hume stesso, del resto, che si riferisce anche esplicitamente a queste esigenze, proprio parlando della prospettiva imparziale.

Oltre al fatto che spesso noi stessi cambiamo la nostra situazione sotto questo rispetto, ci imbattiamo ogni giorno in persone che si trovano in una situazione differente dalla nostra e che non potrebbero mai mettersi in rapporto con noi se noi restassimo costantemente nella posizione e nella prospettiva che ci è peculiare. Perciò l’intreccio di sentimenti che ha luogo nella società e nella conversazione ci fa formare delle regole generali inalterabili con cui possiamo approvare e riprovare le qualità e le azioni.24

Si può quindi a proposito di questo problema accogliere la proposta interpretativa offerta anche da Eugenio Lecaldano.

Hume invece concilia l’accettazione del paradigma dello spettatore con la possibilità di riconoscere sentimenti morali in grado di garantire una certa stabilità, persistenza e autorevolezza alle istituzioni civili e politiche. Proprio il riconoscimento di tali sentimenti morali negli esseri umani consente di non dover concludere per un’ineliminabile frammentarietà e instabilità delle relazioni civili e politiche.25

Tuttavia, se questa è la ragione dell’introduzione della prospettiva imparziale, bisogna rinunciare alle specificità principali delle virtù naturali, in quanto è stata realizzata una riduzione di queste alle virtù artificiali. Infatti, le virtù naturali sono tali in quanto in grado, in ogni loro ricorrenza, di rispondere ad una motivazione naturale presente negli esseri umani. Le virtù artificiali, invece, sono create per soddisfare delle esigenze costanti della natura umana, pur non rispondendo in modo diretto a motivazioni naturali. Quindi, se la prospettiva imparziale è raccomandata per ufficializzare, fissare e rendere pubbliche le

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virtù, esse perdono il loro carattere di immediatezza e l’aspetto particolare di virtù naturali, e divengono tutte virtù artificiali. Tutto il ragionamento sullo status ontologico ed epistemologico delle virtù artificiali sarebbe applicabile pure a quelle naturali.

7.3.3. Passiamo ad un’osservazione che indicherebbe che con la nostra

interpretazione siamo usciti drasticamente dal paradigma di Hume. Parlando di una interpretazione di Hume che può essere assimilata alla nostra, Stroud afferma che in seguito ad essa

sembrerebbe che noi potremmo scoprire anche con il solo ragionamento e

l’osservazione se una particolare azione possiede queste qualità.della virtù o del

vizio26

Con la nostra interpretazione si ammetterebbe, cioè, che le qualità morali sono scopribili soltanto tramite la ragione e si assumerebbe una posizione contraddittoria rispetto all’impostazione fondamentale del paradigma di Hume.

Tuttavia, riteniamo che il pericolo non sia autentico. Abbiamo indicato come la giustizia (caso paradigmatico delle virtù artificiali) sia un insieme di prescrizioni che rispondono ai fondamentali interessi dettati dalla natura umana. Ciò può bastare, in un senso soltanto limitato, per dire che la ragione da sola è sufficiente a fondare la morale, ossia nel senso che non sono richiesti particolari sentimenti di approvazione per determinare le virtù. È sufficiente un ragionamento che individui le correlazioni tra interessi e mezzi per soddisfarli. Tuttavia, in un senso importante, le passioni hanno un ruolo basilare. Gli interessi, per i quali si stabilisce la giustizia, sono interessi a massimizzare la soddisfazione delle passioni. Ma il ruolo delle passioni rimane presente e non viene sminuito. Sono proprio queste a stabilire cos’è virtuoso e cos’è vizioso.

7.3.4. Riprendiamo a questo punto le tre linee programmatiche che

avevamo definito all’inizio di questo lavoro come indispensabili per la definizione del realismo morale e ricapitoliamo la nostra discussione di Hume alla loro luce.

(i) Gli enunciati morali devono essere descrittivi. Questa condizione è soddisfatta dall’esposizione delle virtù artificiali. Le virtù sono state descritte come leggi che indicano la convenienza prudenziale per gli esseri umani. Gli enunciati che le riguardano hanno sicuramente la caratteristica di poter essere veri o falsi. Atteniamoci ancora al caso paradigmatico della giustizia. La giustizia è un insieme di prescrizioni che, qualora ricevano applicazione tramite una convenzione in una comunità, favoriscono gli interessi dei membri della comunità. Gli enunciati sulle varie specificazioni particolari della giustizia non esprimono né un atteggiamento emotivo, né uno prescrittivo nel senso di Hare. Esprimono invece la possibilità di un’indagine empirica che vuole descrivere la realtà, e, ovviamente, può essere vera o falsa. La prima condizione del realismo morale è stata soddisfatta.

(ii) Almeno alcuni degli enunciati morali sono veri. Abbiamo due buone ragioni per ritenere che questa condizione sia soddisfatta. La prima è che la riduzione naturalistica attribuisce alle credenze sulle virtù morali almeno la stessa possibilità di condurre alla verità quanta ne hanno le scienze naturali. La

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seconda ragione è di carattere evolutivo-biologico. Le virtù servono per tutelare gli interessi fondamentali dettati dalla natura umana. Se è così sarebbe estremamente implausibile, dal punto di vista dell’evoluzione biologica e sociale, pensare che non ci sono percezioni corrette delle virtù, poiché è implausibile ritenere che avrebbero potuto sopravvivere le comunità che non abbiano almeno alcune percezioni vere su quelle che sono le soluzioni accettabili ai propri bisogni fondamentali. In questo modo, si riesce a rendere conto di un approccio molto popolare nell’indagine morale, il metodo dell’equilibrio riflessivo che abbiamo già esposto discutendo di Timmons. È fondamentale a questo proposito avere visto che anche le credenze morali del senso comune possiedono un’affidabilità iniziale. Certo, alcune tra queste possono essere sbagliate, ad esempio perché ereditate da condizioni generiche diverse; però il metodo dell’equilibrio riflessivo prevede proprio un accomodamento tra le intuizioni morali ed i principi derivati teoricamente.

(iii) La teoria della verità alla quale ci si riferisce è quella della verità come corrispondenza e non della verità come costruzione. Vale la pena di ribadire che la concezione della verità come corrispondenza può essere applicata alla nostra descrizione delle virtù con maggiore sicurezza che non alle qualità secondarie. Ricordiamoci che le qualità secondarie sono disposizioni a produrre una certa percezione in particolari soggetti. In questo caso, l’apparato percettivo del soggetto ha un ruolo fondamentale. È possibile sostenere che a proposito delle qualità secondarie sia applicabile il concetto di verità come costruzione. Il rosso, ad esempio, sarebbe il prodotto di un apparato percettivo di un certo tipo, non una caratteristica di una parte di realtà. Non ci addentriamo qui a discutere se questa interpretazione delle qualità secondarie sia vera o falsa. Comunque, non è implausibile a prima vista. La descrizione delle virtù che abbiamo esposto non concede una simili opportunità di opzioni.

Piuttosto che a qualità secondarie, le virtù artificiali di Hume sono assimilabili a qualcosa studiato in una parte fondamentale della teoria della percezione di James Gibson, cioè dalla sua teoria delle offerte (theory of affordances). Gibson definisce le offerte come valori e significati offerti a chi li percepisce dalla composizione e dall’estensione degli oggetti. Così, l’acqua offre di essere bevuta, mentre non offre sostegno. Tanto l’offerta del dissetarsi, quanto l’offerta di sostegno sono dei valori per chi ne ha bisogno e, sicuramente, dei valori che sono tali perché congrui alla natura umana. È molto importante notare che le offerte hanno un carattere maggiormente oggettivo rispetto alle qualità secondarie. Il loro carattere di valori non dipende dal modo nel quale vengono percepite, bensì dalla struttura e dalla natura dei soggetti interessati e dalla loro capacità di rispondere alle esigenze di questi soggetti. Come dice Gibson:

La percezione di un’offerta non è un processo di percezione di un oggetto fisico privo di valore al quale il significato è in qualche modo aggiunto in un modo a proposito del quale nessuno è riuscito a trovare un accordo; si tratta del processo di percezione di un oggetto ecologico ricco di valore.27

È vero secondo la teoria delle offerte che queste hanno valore soltanto in quanto soddisfano delle esigenze soggettive. Così, l’acqua ha valore in quanto dissetante, soltanto se qualcuno ha il desiderio di bere. Tuttavia, una volta stabilite queste esigenze, le offerte sono tali relativamente al fatto oggettivo di

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poterle soddisfare e non relativamente alla gioia che la loro vista riesce a suscitare nel soggetto interessato.

Le qualità secondarie, invece, hanno valore solo in quanto sono in grado di suscitare un particolare sentimento di approvazione nel soggetto. Quindi, sembrerebbe che sia proprio la percezione delle stesse con la correlata reazione emotiva ad attribuire loro un valore.

Prima di ritenere che l’analogia con le offerte di Gibson serva a rafforzare l’interpretazione realista delle virtù, dobbiamo vedere se possa avere ragione chi con la teoria delle offerte ha voluto fondare un’epistemologia e un’ontologia antirealista e non un’epistemologia e un’ontologia realista.28 Questa interpretazione può essere valida solo a proposito della fisica e solo in un’interpretazione estrema della teoria delle offerte, che si spinga sino al punto di sostenere che tutto ciò che percepiamo sono le offerte (ciò che ha valore per noi). Ma in tal modo, ci sarebbe soltanto una conoscenza molto parziale del mondo esterno.

A questa posizione si può replicare innanzitutto dicendo che non c’è alcun bisogno di spingersi sino al punto di sostenere che le offerte sono tutto ciò che possiamo percepire. Comunque, anche se fosse così, non si tratterebbe di un problema per chi sostiene il realismo a proposito dei valori. Il problema, infatti, riguarderebbe soltanto la fisica, in quanto rimarrebbe esclusa dalle nostre facoltà conoscitive la realtà che essa aspira a conoscere. Non sarebbe compromesso lo studio dei valori, in quanto la teoria delle offerte (così come lo studio delle virtù di Hume) ci dà, nell’ambito della propria sfera d’interesse, informazioni tendenzialmente precise, tanto a proposito del soggetto che studiamo, quanto a proposito dell’ambiente che lo circonda. La teoria delle offerte (così come quella delle virtù) non esclude, bensì ha l’ambizione di raccogliere conoscenze sia sul soggetto (sulla sua natura e i suoi bisogni), sia su ciò che può avere un valore per lui.

Con ciò possiamo ritenere di aver mostrato che grazie alla riduzione naturalistica che abbiamo esposto la teoria della verità come corrispondenza sia applicabile alle virtù artificiali almeno tanto legittimamente quanto alle conoscenze empiriche. Alla luce delle attuali discussioni sul realismo morale, questo rafforza la posizione realista.

7.3.5. Pensiamo che si possano derivare molti aspetti positivi da questa

proposta naturalista. Innanzitutto, essa riesce a far fronte a parecchie esigenze pratiche della filosofia morale indicando come si può evitare un pericolo profondo, quello del fanatismo, che incombe ogni volta che si vogliono stabilire dei valori morali indipendenti dai bisogni dettati dalla natura umana. I vantaggi dal punto di vista dell’argomento motivazionale-psicologico sono evidenti, in quanto con la nostra ricostruzione Hume non perde nulla di quanto ha ottenuto con questa parte della propria argomentazione. Le virtù morali contribuiscono agli interessi degli individui, e quindi, questi sono motivati a rispettarle.

Un altro merito del paradigma esposto è quello di evitare situazioni imbarazzanti dal punto di vista logico, epistemologico e ontologico. Con la proposta naturalistica, alla luce di quanto detto da Brink e Putnam, viene evitata la fallacia naturalistica. Prima di affermarlo categoricamente,

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considereremo però una critica che nega la legittimità delle riduzione naturalistica teorica a posteriori.29 La riduzione teorica a posteriori richiederebbe dei presupposti che sarebbero assenti nella morale. Innanzitutto, una differenza tra le riduzioni teoriche dei fatti studiati da diverse scienze naturali e quella dei fatti morali ai fatti naturali sarebbe la seguente. Immaginiamo la riduzione teorica di ciò che fenomenologicamente individuiamo come acqua (liquido incolore, ecc.) alla struttura molecolare H20. Gli atomi sono dei concetti teorici, che rappresentano la conclusione di una ricerca. È per questo motivo che in seguito alla loro individuazione si può parlare di riduzione teorica a posteriori: la riduzione è la conclusione di una ricerca. Per quanto riguarda i concetti morali, invece, sembra che essi non siano il risultato di un’indagine teorica, bensì formulazioni del senso comune. Anche una persona del tutto non istruita può protestare contro l’ingiustizia sociale, ovvero far uso dei concetti morali fondamentali.

L’argomento non è però corretto. L’immagine della riduzione della morale a un insieme di fatti naturali che si vuole presentare è equivalente alla descrizione prototeorica che di questo processo offre Sturgeon. In questo caso tutta la morale si basa su intuizioni e le connessioni tra i fatti morali e i fatti naturali non sono il risultato di un’indagine teorica. Però, per ammissione dello stesso Sturgeon, questo rappresenta un processo di ricerca soltanto parziale. Il processo riduttivo completo dovrebbe ricalcare, ad esempio, l’analisi della giustizia che abbiamo effettuato nel caso di Hume. In questo caso, però, la definizione dei concetti morali è il risultato di un’analisi teorica. Per arrivare a identificare la giustizia in maniera analoga alla nostra discussione di Hume bisogna disporre di una dimostrazione del fatto che varie analisi della morale sono sbagliate, e che l’unica analisi corretta è quella che stabilisce che i concetti morali corrispondono alle leggi che determinano quali forme di organizzazione sociale favoriscono meglio gli interessi degli individui. Per arrivare a identificare singole ricorrenze di giustizia (come può esserlo una situazione nella quale per ciascuno è garantito il massimo sistema di libertà compatibile con un identico sistema di libertà per gli altri), è necessario stabilire quali forme di organizzazione sociale massimizzano l’utilità degli individui (ad esempio, bisogna stabilire che l’organizzazione della società che prevede la garanzia per ciascuno del massimo sistema di libertà compatibile con un identico sistema di libertà degli altri contribuisce in modo ottimale al benessere degli individui).

Un altro argomento contro la riduzione teorica a posteriori è il seguente. Per realizzare una riduzione teorica a posteriori è necessario che siano rispettate le condizioni elencate nell’analogo processo prospettato dalla filosofia della mente dove: a) si possono descrivere le proprie sensazioni ed i propri stati mentali anche senza sapere nulla dei processi presenti nel cervello; b) gli enunciati sulla coscienza e gli enunciati sui processi nel cervello si verificano in due modi del tutto diversi; c) non c’è nulla di contraddittorio nel dire ‘X prova dolore, però nulla avviene nel suo cervello’. Nell’analogia, le qualità morali dovrebbero essere equivalenti alle sensazioni, mentre i fatti naturali ai processi presenti nel cervello. In questo caso, (a) non si può valutare con esattezza un’azione senza conoscere tutti i fatti naturali rilevanti; (b) un’affermazione morale può essere verificata soltanto se si verificano i fatti naturali rilevanti per quest’affermazione morale; (c) sembra che ci sia qualcosa

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di contraddittorio nel dire ‘Ha provocato del dolore a degli indifesi, ma non ha fatto nulla di sbagliato’.

Cerchiamo di capire l’insegnamento che deriva dalle condizioni stabilite nell’analisi della riduzione teorica nella filosofia della mente. Quello di importante che possiamo trarre dalle prime due condizioni è che, affinché vi sia una riduzione teorica, è necessario che vi sia una conoscenza prima facie di un fatto distinta dalla sua conoscenza piena, che si ottiene quando si ha il sapere di che cosa ne costituisce la realtà. In questo caso, l’analogia non è tra la sensazione di dolore e le qualità morali, da un lato, e la struttura ed i processi nel cervello ed i fatti naturali, dall’altro, bensì tra la realtà morale come viene percepita intuitivamente e la realtà morale come viene descritta teoricamente. Nel caso della morale la conoscenza prima facie riguarda la percezione del fatto che c’è una connessione tra la presenza dell’ingiustizia e la presenza di alcuni fatti naturali (ad esempio, l’atto di estorcere del denaro ad una persona). La conoscenza completa si ha, se è giusta la teoria della giustizia che abbiamo presentato, quando si scopre che le verità morali sono composte da regole di razionalità che ci dicono quali atti accogliere come leciti (e quali invece dichiarare illeciti) e quale configurazione sociale accogliere come lecita (e quale respingere come illecita) allo scopo di massimizzare l’utilità degli individui. La composizione dei fatti morali quindi viene identificata a posteriori, poiché non viene colta dall’intuizione ed è di carattere teorico, poiché è possibile soltanto dopo una riflessione di questo genere. L’insegnamento della terza condizione è che non deve esserci un’identità logica tra i fatti morali ed i fatti naturali affinché vi sia una riduzione teorica a posteriori. Dimostrare che questa condizione non viene soddisfatta nella morale è molto difficile. Chi vuole farlo dovrà o dimostrare che una domanda del tipo di Moore: ‘Perché il furto è ingiusto?’ ha una risposta banale, oppure trovare un modo non banale per realizzare il passaggio logico da ‘Pietro commette un furto’ a ‘Pietro commette un atto ingiusto’, come ha tentato di fare Gewirth. Entrambe le vie appaiono ardue. Queste considerazioni sembrano ulteriormente indicare la fondatezza di una posizione realista e naturalista in etica. Ciò che rimane da fare è vedere quali contenuti dare alla giustizia. Prima però presenteremo ancora una critica al modello di ragionamento morale esposto in questo capitolo.

1 N.L. Sturgeon, Moral Explanations, in G. Sayre-McCord (a cura di), Moral Realism, cit. 2 Ivi, p. 251. 3 Ivi, p. 253. 4 Ivi, p. 239. 5 G. Harman, Moral Explanations of Natural Facts. Can Moral Claims Be Tested against

Moral Reality?, “The Southern Journal of Philosophy”, Supplement, 1986, p. 62. 6 N.L. Sturgeon, Harman on Moral Explanations of Natural Facts, “The Southern Journal

of Philosophy”, Supplement, 1986, p. 69-78. 7 D. Goldstick, The Causal Argument against Ethical Objectivity, in D. Odegard, Ethics and

Justification, Edmonton, Academic Printing and Publishing, 1988. 8 B. Bercic, Realizam, relativizam, tolerancija, cit., p. 13. 9 D.D., Brink, Moral Realism and the Foundation of Ethics, Cambridge, Cambridge

University Press, 1989, p. 146. 10 Ivi, p. 166. 11 Ivi, p. 160. 12 D.O. Brink, Moral Realism and the Sceptical Argument from Disagreement and Queerness, in

L.P. Pojman, Ethical Theory. Classical and Contemporary Reading, cit., p. 427.

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13 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 513. 14 Ivi, p. 513. 15 D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale, Bari, Laterza, 1978, p.

253 (Enquiry Concerning the Human Understanding and Concerning the Principles of Morals, Oxford, Clarendon Press, 1963).

16 A. Goldman, Moral Knowledge, London, Routledge, 1990, p. 52. 17 B. Bercic, Realizam, relativizam tolerancija, cit., pp. 16-18. 18 P.M., Churchland, La natura della mente e la struttura della scienza, cit., p. 29. 19 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 614. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 615. 22 D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale, cit., p. 288. 23 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 615. 24 D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii generali della morale, cit., p. 288. 25 E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., p. 134; da simili

constazioni, Mackie conclude la necessità di ridurre le virtù morali a quelle artificiali; vedi J.L. Mackie, Hume’s Moral Theory, cit., p. 121-129.

26 B. Stroud, Hume, London, Routledge and Kegan Paul, 19852, p. 182. 27 J.J. Gibson, Ecological Approach to Visual Perception, Boston, Mifflin Company, 1979,

p. 140. 28 S. Prijic, Perché la teoria della percezione di Gibson non è compatibile con il realismo?,

“Zbornik Pedagoškog fakulteta u Rijeci”, 1993, pp. 341-347. 29 B. Bercic, Realizam, relativizam i tolerancija, cit., p. 36-38.

Capitolo ottavo

La comunità e le sue virtù

La teoria che abbiamo esposto nel capitolo precedente assume che vi sia una natura umana comune, a partire dalla quale si potrebbe derivare un coerente sistema di giustizia. Questa idea ha subito notoriamente numerose critiche. Particolarmente viva in questi ultimi anni, è la critica comunitaria. Secondo questo tipo di obiezione non vi sarebbe una natura umana comune, bensì questa si formerebbe, in maniera diversificata, all’interno delle molteplici tradizioni culturali. In questo capitolo presenteremo questa posizione attraverso un suo autorevole rappresentante, MacIntyre. Ci concentreremo sulla sua teoria come viene esposta nelle sue opere maggiori, la prima delle quali è Dopo la virtù del 1980.

8.1.1. L’ipotesi di partenza di MacIntyre è che la morale contemporanea si trova in una condizione di grave disagio.

La caratteristica più singolare dell’espressione morale contemporanea è che una parte così grande di essa è utilizzata per manifestare dissensi; e la caratteristica più singolare dei dibattiti in cui questi dissensi si manifestano è la loro interminabilità. Con ciò non intendo dire solamente che tali dibattiti si trascinano fino alla nausea (benché lo facciano), ma anche che non sembrano poter provare alcuna conclusione legittima. Pare che non vi siano mezzi razionali per garantire l’accordo morale nella nostra cultura.1

Il motivo di tale condizione va ricercato nel fatto che la morale non sarebbe altro che un insieme di frammenti sopravvissuti ad un’autentica catastrofe subita da un sistema morale completo e coerente esistente nei secoli precedenti. Una catastrofe della quale né il senso comune, né l’indagine accademica sarebbero coscienti, ma che sarebbe ricostruibile con un’indagine approfondita della storia dello sviluppo del pensiero morale nel mondo occidentale. L’ipotesi, per essere confermata, dovrebbe rintracciare tre fasi di questa storia. La prima, quella nella quale sarebbe esistito tale sistema morale. Una seconda, nella quale sarebbe avvenuta la catastrofe, ed una terza fase, nella quale la morale sarebbe stata ripristinata, ma in una forma corrotta e disordinata. Per questo motivo, secondo MacIntyre, l’analisi della morale non può essere separata dall’indagine della sua storia. Iniziamo dall’analisi che MacIntyre ci dà dell’Illuminismo, che è considerato paradigma e motore genetico della morale contemporanea. Dopo la presentazione di quest’ultima, passeremo a considerare la morale premoderna.

Gli eroi del progetto illuminista sono per MacIntyre Kant, Hume, e Diderot. Attraverso la loro opera l’Illuminismo avrebbe realizzato la distruzione della morale tradizionale ed avrebbe provocato la sua frammentarietà ed arbitrarietà caratteristica dell’epoca contemporanea. C’è un fatto che accomuna tutti questi pensatori illuministi. Le loro dottrine hanno avuto successo nella loro parte negativa, cioè nella critica delle teorie rivali, ma non in quella positiva. La conseguenza è stata la riduzione della moralità ad una

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scelta arbitraria, il suo abbandono alle preferenze personali. È per questo che il filosofo scozzese sostiene che la frammentarietà e l’arbitrarietà della morale contemporanea sono figlie dell’Illuminismo e che questa epoca viene interpretata come il momento di dissoluzione di una morale coerente preesistente. MacIntyre si impegna a dimostrare che (i) il progetto illuminista è fallito per motivi intrinseci e non per presunti errori contingenti commessi da coloro che tentarono di realizzarlo; (ii) la sua controparte era una morale coerente e non arbitraria sussistente in un’epoca precedente.

Secondo MacIntyre, l’Illuminismo non poteva che fallire in quanto partiva da premesse incoerenti. Da un lato, aveva ereditato le credenze morali della tradizione cristiana. Tutti gli autori da lui discussi accoglievano lo stesso contenuto della morale, ovvero i principi morali, per dirla con MacIntyre, che i virtuosi genitori di Kant hanno tramandato al proprio figlio. Il compito che l’Illuminismo si prefiggeva era di trovare una giustificazione razionale nuova per queste credenze. Tale compito però era irrealizzabile, in quanto la sua soluzione era ricercata senza far uso di tutte le premesse incluse nello schema di giustificazione tradizionale. Questo schema viene identificato nel modello aristotelico, che, pur in diverse forme, riuscì a essere un modello culturale dominare dal XII secolo in poi.

Alla base di questo schema teologico c’è un contrasto fondamentale fra l’uomo come è di fatto e l’uomo come potrebbe essere se realizzasse la sua natura essenziale. L’etica è quella scienza che deve mettere gli uomini in condizione di capire come effettuare il passaggio dal primo stato al secondo. Perciò l’etica, considerata in questo modo, presuppone una qualche dottrina dell’essenza dell’uomo come animale razionale, e in primo luogo una qualche dottrina del telos umano.2

Gli enunciati morali in questo contesto hanno un duplice scopo. Dire che cosa l’uomo deve fare vuol dire affermare quali azioni lo condurranno a realizzare il proprio fine e, ancora, che cosa impone la legge istituita da Dio. Gli enunciati morali quindi possono essere veri o falsi. Va notato che tale schema si basa su una contrapposizione fondamentale: quella tra la natura umana come è di fatto e la natura umana come dovrebbe essere. L’uomo, di fatto, può anche essere corrotto, come emerge ad esempio dalle descrizioni di Hobbes, però la scienza morale deve essere rivolta alla realizzazione del suo fine, che si manifesta, ad esempio, nelle virtù aristoteliche, o in quelle teologali tomistiche.

Accadde, invece, con gli illuministi, che

tutti rifiutano qualsiasi visione teleologica della natura umana, qualsiasi visione che attribuisca all’uomo un’essenza che definisca il suo vero fine. Ma capire questo significa capire perché il loro progetto di trovare un fondamento per la morale dovette fallire.3

Infatti, nei paradigmi precedenti all’Illuminismo, la morale aveva una giustificazione deduttiva plausibile (come per tutte le conclusioni deduttive, a condizione di accettare le premesse del ragionamento): partendo dall’individuazione strutturale della natura umana e del suo fine, si derivano i precetti morali che stabiliscono le azioni necessarie per passare dalla condizione attuale a quella nella quale è raggiunto il telos. Il ragionamento proposto dagli illuministi, invece, mancava di una premessa fondamentale,

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quella riguardante la natura umana quale dovrebbe essere nel momento della realizzazione del proprio fine.

Da una parte abbiamo un certo contenuto della morale: un insieme di ingiunzioni private dal loro contesto teleologico; dall’altra abbiamo una certa visione della natura umana spontanea, così com’è. Poiché originariamente le ingiunzioni morali avevano il loro luogo naturale in uno schema in cui il loro intento era di correggere, migliorare ed educare la natura umana, è evidente che esse non sono tali da poter essere dedotte da posizioni vere sulla natura umana, o da poter essere giustificate in qualsiasi altro modo facendo appello alle sue caratteristiche.4

Il progetto illuminista di fondare la morale sulla natura umana, quindi, non poteva che fallire: da un lato, gli illuministi avevano ereditato dalla tradizione le ingiunzioni morali da realizzare rivolte ad una natura in potenza; dall’altro lato, una concezione della natura umana discordante dall’ideale da raggiungere. Senza l’elemento teleologico, lo schema di ragionamento non poteva che risultare incoerente. Da qui l’arbitrarietà dei sistemi morali caratteristica della nostra epoca.

L’esito principale dell’Illuminismo è rappresentato da due tradizioni morali dominanti nell’epoca moderna: da un lato, il liberalismo, dall’altro lato, Nietzsche. Il liberalismo segue direttamente il tentativo illuminista e cerca principi di giustificazione razionale universali e neutrali rispetto alle diverse tradizioni morali. Ovviamente, per gli stessi motivi che hanno decretato il fallimento del progetto illuminista, fallisce anche la tradizione liberale, che finisce con l’essere doppiamente incoerente.

Per MacIntyre, esistono tradizioni di ricerca e tradizioni politico-sociali. Il liberalismo rappresenta non tanto una tradizione di ricerca quanto una tradizione politico-sociale.

È di primaria importanza ricordare che il progetto di fondare una forma di sistema sociale in cui gli individui si possano emancipare dalla contingenza e dalla particolarità della tradizione facendo appello a norme genuinamente universali, indipendenti dalla tradizione, non era e non è soltanto o principalmente un progetto per filosofi. Era ed è un progetto della moderna società liberale, individualista.5

Questo sistema politico partì con l’idea di fondare una casa comune dove potessero coabitare i portatori dei più disparati sistemi di valori. Tuttavia, nella pratica questo progetto non poteva realizzarsi. Dal condominio vennero esclusi tutti coloro che negavano la possibilità di far convivere valori plurali e in potenziale conflitto. Coloro che, ad esempio, sostengono che il governo deve finanziare anche l’educazione rivolta ad un valore esclusivo possono mantenere questo progetto a livello di intendimento privato, ma non portarlo nella politica pubblica. Ciò significa che il liberalismo stesso ha una propria concezione del bene, quello della convivenza di sistemi di valori diversi, e che impone questa concezione tramite le istituzioni pubbliche. Il liberalismo ha creato e promosso un ordinamento politico-sociale attraverso il quale promuove e tutela i propri valori. Come qualsiasi altra dottrina, per poter continuare ad esistere, anche il liberalismo ha dovuto trasformarsi in una tradizione che impone i propri valori. Questo rappresenta una prima incoerenza, poiché tradisce le premesse iniziali della dottrina, quelle della convivenza in una casa comune di individui che scelgono da soli i propri sistemi di valori. Il liberalismo, però, non ha creato

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una tradizione di ricerca. Ha legittimato diverse tradizioni di ricerca: quella contrattualista, quella utilitarista, quella kantiana, ecc. Tutte queste dottrine dispongono di metodologie per fornire risposte ai propri problemi interni, non però nei confronti di altre dottrine. L’unico accordo generale tra i pensatori liberali è quello di tutelare i disaccordi. È questo un ulteriore motivo per dire che il liberalismo è votato all’incoerenza: non ha creato una tradizione di ricerca, e quindi in quanto tradizione politico-sociale sarà vittima di continue risposte incompatibili tra loro.6

Dall’altro lato, Nietzsche giudica l’arbitrarietà morale contemporanea come l’affermazione dell’autonomia dell’individuo, anzi, addirittura come ciò che ha permesso la nascita del concetto di individuo. La consapevolezza di Nietzsche dell’arbitrarietà morale sfocia infatti nel rifiuto di ogni limite alla creatività individuale.

La struttura logica sottesa alla sua argomentazione è la seguente: se la morale non è altro che una serie di espressioni di volontà, la mia morale può essere soltanto ciò che crea la mia volontà. Non ci può essere posto per finzioni quali i diritti naturali, l’utilità, la massima felicità del maggior numero. Io stesso devo ora condurre all’esistenza ‘nuove tavole dei valori’. ‘Noi vogliamo diventare quelli che

siamo: i nuovi, gli irripetibili, gli inconfrontabili, i-legislatori-di-noi-stessi!’ Perciò, decide Nietzsche, sostituiamo la ragione con la volontà e trasformiamo noi stessi in soggetti morali autonomi mediante qualche atto di volontà titanico ed eroico.7

MacIntyre esprime un’approvazione limitata a quanto sostenuto dal filosofo tedesco, ritenendo che Nietzsche sia riuscito a cogliere la natura della morale contemporanea, una morale divenuta arbitraria e priva di oggettività. Ma Nietzsche pensa che queste caratteristiche siano comuni tanto ai tentativi contemporanei quanto a quelli razionalisti del passato. Secondo Nietzsche, Aristotele, San Tommaso e Kant sono tutti appartenenti ad un’unica tradizione. Invece, per MacIntyre, non è così. L’Illuminismo inaugura una tradizione del tutto nuova ed è in quel periodo che comincia a formarsi la morale contemporanea. Il fatto che essa sia fallita nel tentativo di dotarsi di una giustificazione razionale, non significa che la morale in quanto tale sia destinata all’arbitrarietà. Invece di seguire Nietzsche, MacIntyre propone un ritorno alla tradizione aristotelica.

8.1.2. Dopo la virtù vuole dimostrare che prima dell’Illuminismo c’è stata

una morale non frammentaria e non arbitraria della quale abbiamo già presentato alcune caratteristiche generali. L’inizio di questa tradizione morale risalirebbe addirittura all’epoca omerica. Nelle società omeriche erano predeterminati tanto i valori fondamentali, quanto la posizione di ciascuno nella società. L’uomo omerico sa qual è il suo ruolo nelle strutture sociali e di conseguenza sa pure che cosa gli è dovuto e che cosa gli è richiesto. Per l’uomo omerico non vi è alcuna possibilità di staccarsi dalla propria società. L’unica prospettiva esterna possibile alla società è quella dello straniero. Non che manchino dibattiti etici e dilemmi morali, ma le domande eticamente rilevanti vengono poste dall’interno di tale struttura. La struttura stessa non può venire messa in dubbio, poiché fornisce i criteri ed i contorni dei dibattiti etici.

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Proprio ciò libera la morale dall’arbitrarietà. La conclusione alla quale giunge MacIntyre è che

dalle società eroiche abbiamo da imparare due cose: primo, che ogni morale è sempre legata in qualche misura a una dimensione socialmente locale e particolare, e che le espirazioni della morale della modernità a un’universalità affrancata da qualsiasi particolarità è un’illusione; secondo, che non c’è nessun modo di possedere le virtù se non come parte di una tradizione in cui esse e la nostra comprensione di esse ci vengono tramandate da una serie di predecessori, nella quale le società eroiche occupano il primo posto.8

Il punto più elevato della morale nel mondo antico venne raggiunto, secondo MacIntyre, da Aristotele. Egli stesso non era cosciente di far parte di una lunga tradizione iniziata molto prima di lui, in quanto gli era del tutto estranea la concezione di un’epistemologia che rendesse giustificabile la fondazione di credenze ponendole in contesti di sviluppo storico. Tuttavia,

è la sua interpretazione delle virtù a costituire in misura decisiva la tradizione classica del pensiero morale, stabilendo saldamente molte cose che i suoi predecessori poetici erano riusciti soltanto ad affermare o a suggerire, e facendo della tradizione classica una tradizione razionale, senza abbandonarsi al pessimismo di Platone circa il mondo sociale.9

La filosofia morale di Aristotele poggia su due aspetti fondamentali. Il primo è l’affermazione che le virtù possono manifestarsi soltanto nella comunità che è adatta a farle fiorire; secondo Aristotele, tale comunità non può che essere la polis. Questa, secondo il filosofo greco, costituisce un comunità contraddistinta da un vasto consenso circa la realizzazione del bene umano, il che rende possibile un legame di amicizia tra i concittadini. Questo modo di intendere la comunità si è completamente perso nel mondo contemporaneo, caratterizzato dall’individualismo e che, alla prospettiva aristotelica, non potrebbe apparire che come un’accozzaglia di cittadini associatisi per la loro protezione comune. Il secondo aspetto fondamentale della filosofia morale di Aristotele è che le virtù vengono definite partendo dalla natura specifica dell’uomo, la quale a sua volta, stabilisce il suo telos, che coincide con il suo bene. Il ragionamento morale aristotelico si sviluppa da quattro elementi: l’identificazione del telos; una premessa maggiore che ci dice che fare un tipo di azione permette di raggiungere o allontana dal telos; una premessa minore che dice che una situazione concreta è del tipo rilevante; la conclusione del ragionamento è l’azione. Lo schema è il seguente:

Il fine dell’uomo è P. Facendo A l’uomo raggiunge P. L’azione a1 fa parte dell’insieme di azioni A. S compie a1. Le virtù, in questo ragionamento, hanno una definizione ambigua. Da

un lato, sono ciò che permette all’uomo di raggiungere il proprio fine. Dall’altro lato, poiché ciò che costituisce il bene dell’uomo è una vita vissuta per intera nel modo migliore, l’esercizio delle virtù è parte integrante del raggiungimento del telos umano.

La morale nell’età omerica e quella aristotelica sembrano fornire a MacIntyre proprio ciò di cui andava in cerca: un sistema morale in grado di ovviare all’arbitrarietà. Si tratta di un sistema morale che evita l’arbitrarietà

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indicando precisamente un fine da raggiungere, rapportando la verità dei giudizi morali a questo telos, e basandosi su un vasto consenso sociale. I mezzi che preservano dall’arbitrarietà sono proprio quelli che l’epoca contemporanea non possiede più: un telos (e quindi un insieme di virtù) preconfezionato, contrapposto agli atti di volontà caratteristici dell’età contemporanea; una comunanza d’intenti tra i membri della comunità, che permette di disporre di criteri comuni e che è contrapposto al nostro individualismo.

Riproporre la validità teorica della tradizione aristotelica significa risolvere notevoli difficoltà. Il grande problema cui MacIntyre va incontro è l’eterogeneità delle concezioni delle virtù presenti nei vari periodi dei quali egli parla. Le virtù omeriche sono diverse da quelle ateniesi, a loro volta non del tutto omogenee; la proposta di Aristotele non è equivalente a quella medievale. Ciò che MacIntyre deve fare è mostrare che ci sono sufficienti similarità per parlare di un’unica tradizione. Diversamente, le fonti alle quali si appella presenterebbero la stessa frammentarietà dell’epoca contemporanea ed il loro recupero non porterebbe ad alcun vantaggio. E inoltre, MacIntyre deve riuscire anche a risolvere un problema già presente ai filosofi medievali, cioè mostrare che è possibile riproporre l’etica delle virtù anche astraendo dalla biologia di Aristotele e dall’ambiente della polis greca. MacIntyre stesso ne è consapevole:

Siamo o non siamo in grado di districare da queste tesi antagoniste ed eterogenee una concezione fondamentale unitaria delle virtù, di cui poter dare un’interpretazione più persuasiva di qualsiasi altra fornita sinora? Mi accingo a sostenere che possiamo davvero scoprire una siffatta concezione fondamentale, e che risulterà conferire un’unità concettuale alla tradizione di cui ho scritto la storia.10

Il concetto unitario di virtù che MacIntyre si appresta a fornire si articola in tre momenti: il primo richiede una spiegazione del concetto di ‘pratica’, il secondo una spiegazione del concetto di ‘ordine narrativo di una vita umana’, e il terzo una spiegazione del concetto di ‘tradizione morale’.

8.1.3. Esaminiamo la definizione che MacIntyre dà del concetto di

pratica.

Per ‘pratica’ intenderò qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono. Il risultato è un’estensione sistematica delle facoltà umane di raggiungere l’eccellenza e delle concezioni umane dei fini e dei valori impliciti.11

La pratica è contraddistinta soprattutto dai suoi valori interni. Si tratta di quei valori che possono essere realizzati soltanto con l’esercizio della pratica. Il valore di sconfiggere l’avversario con un gioco rapido, fantasioso, poco falloso e con abili movimenti delle gambe può essere raggiunto soltanto esercitando la pratica del calcio. Viceversa, il valore di raggiungere la ricchezza, la popolarità e l’affetto di vaste masse può essere raggiunto praticando il gioco del calcio, ma anche in altri modi, ad esempio esercitando la pratica della musica. Questi ultimi valori sono chiamati ‘esterni’.

Chi partecipa ad una pratica vuole realizzare primariamente i suoi valori interni. Un calciatore che vince segnando un gol con la mano prova una

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soddisfazione inferiore rispetto a chi vince rispettando le regole del gioco. Partecipare ad una pratica quindi vuol dire seguire i suoi modelli di eccellenza. I modelli di eccellenza ed i valori di una pratica sono strutturati nel tempo e godono del sostegno di chi è reputato un’autorità all’interno della pratica. Si tratta, quindi, di valori e modelli di eccellenza dati e non arbitrari. Ciò consente a MacIntyre di dare una prima definizione del concetto di virtù.

Una virtù è una qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio tende a consentirci di raggiungere quei valori che sono interni alle pratiche, e la cui mancanza ci impedisce di raggiungere qualsiasi valore del genere.12

Il concetto di pratica è essenziale a MacIntyre nel suo progetto, poiché fornisce il telos: valori interni e modelli di eccellenza interni alla pratica, che non sono arbitrari, bensì dati dalla tradizione della pratica stessa. Ciò permette di definire le virtù. Definiremo le virtù richieste ad ogni soggetto, identificando la pratica nella quale è inserito. Con ciò possiamo anche stabilire i relativi meriti dei personaggi impegnati nella pratica e quindi organizzare anche i criteri di distribuzione delle ricompense, ovvero uno schema di giustizia distributiva. Fatto questo sembra si possa disporre di tutto ciò che è necessario per fondare un sistema morale completo.

I problemi che si possono porre a questo punto sono di due generi. Il primo è di carattere storico. La definizione di virtù di MacIntyre può rappresentare veramente una sintesi della tradizione cui egli fa riferimento? Il secondo è di carattere teorico. La proposta di MacIntyre riesce veramente a soddisfare le sue ambizioni? Trascureremo del tutto il primo quesito, mentre passeremo ad occuparci del secondo. MacIntyre è cosciente che l’introduzione del concetto di pratica lascia aperte parecchie questioni. Ad esempio la possibilità di realizzare una definizione delle virtù sufficientemente precisa. Pratiche diverse, esercitate da una stessa persona, possono richiedere virtù diverse. Come potrà scegliere a quali pratiche dare la propria preferenza chi ne esercita più di una? Inoltre, manca lo strumento per dare una specificazione precisa delle virtù. Ad esempio, la pazienza è sicuramente una virtù. Però, fino a quale punto spingerla? Le risposte possono essere date, per MacIntyre, soltanto introducendo il concetto di ‘ordine narrativo di una vita umana’. Tale ordine non è accessibile al pensiero moderno e contemporaneo, a causa della sua prospettiva atomistica nell’interpretare e valutare le azioni. Per disporre di un ordine narrativo è necessario interpretare e valutare ogni azione in quanto facente parte di un contesto. Il contesto, in realtà, è duplice. Immaginiamo l’attività di una persona che trascorre delle ore a palleggiare con una racchetta una palla da tennis contro una parete. L’attività va interpretata e valutata inserendola nel contesto della pratica del tennis. Però pure inserendola nel contesto della vita della persona, poiché la valutazione e l’interpretazione saranno diverse se la persona ha l’ambizione di esercitare il tennis a livello competitivo, oppure se lo interpreta soltanto come un modo per rilassarsi dallo stress provocato da altre attività. Per interpretare e valutare le azioni compiute da una persona è necessario, quindi, avere una visione completa della sua vita, cioè interpretare la sua vita come una narrazione che ha un inizio e una fine. Come ordinare le diverse pratiche nelle quali un soggetto può trovarsi coinvolto e come ordinare, nella propria vita, le diverse virtù che contraddistinguono queste pratiche? Per rispondere ciascuno deve chiarire

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quale tipo di vita è la sua e quale è il fine di questa vita. Le diverse pratiche e le corrispondenti virtù, devono essere valutate e ordinate come momenti di questa narrazione. Inoltre, accanto alle virtù necessarie a reggere i valori interni delle pratiche che costituiscono la nostra vita, andranno evidenziate le virtù che ci aiutano a sviluppare una migliore conoscenza di noi stessi al fine di perfezionare l’ideale di vita che vogliamo perseguire.

MacIntyre è riuscito a fornirci dei suggerimenti importanti. Ci ha descritto il metodo per identificare i criteri per ordinare le pratiche e le virtù in ogni singola vita. Inoltre, ci ha dato delle ragioni per proclamare l’irrinunciabilità di alcune virtù, precisamente di quelle che ci permettono di avere una migliore comprensione di noi stessi al fine di determinare in modo migliore l’ideale di vita più consono a noi.

Ma se si ammettesse che ciascuno esercita la scelta del proprio ideale di vita per conto proprio, si riaffermerebbe l’arbitrarietà propria dell’epoca contemporanea. MacIntyre nega la necessità di questo esito. Secondo il filosofo scozzese, nessun individuo esercita questa scelta in modo indipendente dal proprio contesto sociale. La vita di ciascuno è, in gran parte, determinata dalla tradizione morale alla quale appartiene.

Ciò che sono è dunque in una parte fondamentale ciò che ho ereditato, un passato specifico che è in qualche misura presente nel mio presente. Mi trovo inserito in una storia, il che significa in genere, che mi piaccia o no, che ne sia consapevole o no, che sono uno dei portatori di una tradizione.13

Ciascuno può voler modificare la propria tradizione, migliorarla, farla evolvere, e così via; tuttavia, si può farlo soltanto partendo da questa stessa tradizione, non cercando un punto di vista universale o neutrale. Ossia, il fallimento del progetto post-illuminista non conduce necessariamente a Nietzsche. La morale intesa come congiunzione di pratica e di ordine narrativo stabilisce dei criteri che consentono di identificare le virtù, e sono i criteri determinati dal fine della vita umana. Questo fine, inoltre, non è arbitrario, bensì corrisponde alla concezione del bene per l’uomo che una comunità ha sviluppato nella sua storia. L’arbitrarietà morale va respinta facendo ritorno a degli elementi essenziali presenti nelle società premoderne, cioè all’elemento teleologico e a quello comunitario. Il tutto, come auspicava MacIntyre, senza dover far riferimento alla biologia di Aristotele ed astraendo dall’ambiente della polis.

Se l’arbitrarietà è stata evitata, tuttavia, non è ancora dimostrato che è stato evitato il relativismo. Non c’è arbitrarietà, poiché ciascuno è limitato dalla tradizione alla quale appartiene, che ha definito qual è il fine di una vita umana vissuta bene. Ma come determinare la preferibilità di una tradizione alle altre? Come si potrà decidere che il telos di una tradizione ha maggiore valore, è preferibile a quello di un’altra? Di fatto, nel corso della storia dell’umanità si è sviluppata più di una tradizione. Se è vero che ciascuno è incapsulato all’interno della sua, c’è il rischio di non poter trovare risposte comuni ai problemi morali, laddove convivono appartenenti a tradizioni diverse. La conflittualità e l’insolubilità dei problemi si ripresenteranno. Non ci sarà un progresso autentico rispetto alla condizione denunciata da MacIntyre all’inizio di Dopo la virtù. I più saranno tentati di pensare che la soluzione può essere fornita soltanto da criteri di valutazione neutrali rispetto alle tradizioni contrapposte. Questi criteri dovrebbero svolgere il ruolo di arbitri e proprio

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per questo non possono essere interni a nessuna delle tradizioni contrapposte. Oltre a essere neutrali, si può pensare che debbano anche essere universali, poiché devono valutare imparzialmente i possibili generi di conflitto. Se questa neutralità e questa universalità non è raggiungibile, non si potrà operare neppure alcuna scelta razionale tra le diverse tradizioni e, quindi, l’esito non può che essere, di nuovo, il relativismo.

8.1.4. È compito di Whose Justice? Which Rationality? risolvere questo

problema. In questo libro, MacIntyre ribadisce l’impossibilità di disporre di criteri razionali di valutazione universali e neutrali, in grado di stabilire la superiorità di sistemi morali contrapposti. I modelli di razionalità ed i sistemi morali si presentano congiunti e, per poter adottare un modello di razionalità, è necessario aver adottato un sistema morale, con la corrispondente concezione dell’eccellenza, le corrispondenti virtù e così via; tutto ciò esclude che esistano principi razionali universali in grado di giudicare i sistemi morali da un punto di vista neutrale, poiché è impossibile adottare una prospettiva esterna, essendo quella interna l’unica disponibile.

MacIntyre presenta diversi esempi che hanno lo scopo di confermare la sua teoria. Così, parlando di due diverse concezioni della giustizia contrapposte in età postomerica, il filosofo scozzese vuole mostrare che ciascuna di queste concezioni è unita a un corrispondente modello di razionalità. Dopo aver esposto la prima tra queste dottrine, MacIntyre si esprime così.

Quella che si considera una buona ragione per agire è molto diversa per coloro il cui ragionamento pratico ha come contesto una concezione della vita sociale come uno scenario in cui ogni individuo e ogni gruppo di individui cerca di massimizzare la soddisfazione dei propri bisogni e desideri. Vi sono due razionalità pratiche anziché una soltanto, e perciò a uno stadio successivo insorge inevitabilmente il problema se sia possibile avere buone ragioni per dare a una razionalità pratica la priorità sull’altra.14

Che sia proprio così viene spiegato da MacIntyre nella sua discussione di Aristotele, inserito in questo dibattito sulla giustizia e contrapposto a coloro che vogliono fondarla sulla massimizzazione della soddisfazione di desideri.

Per questi ultimi razionale può essere solo l’azione fondata su un calcolo razionale riguardo a quali mezzi raggiungeremmo col costo più basso, nei termini della soddisfazione dei desideri, i fini loro proposti dai desideri dominanti, quali che siano. Tuttavia, da un punto di vista aristotelico, nessun calcolo di questo genere può essere razionale. Perché non può esserlo?

Per Aristotele, le virtù sono disposizioni ad agire in specifici modi per ragioni specifiche. L’educazione alle virtù comporta la padronanza, la disciplina e la trasformazione di desideri e sentimenti. Questa educazione permette di godere quel genere di vita che è il migliore per gli esseri umani. Anche la conoscenza che permette di comprendere perché questo tipo di vita sia il migliore, si ha soltanto in conseguenza dell’esser diventati una persona virtuosa. Ma senza questa conoscenza il giudizio razionale e l’azione razionale sono impossibili.15

Oltre che per fornire le premesse del ragionamento pratico, l’adozione di un sistema morale è indispensabile anche per l’applicazione dell’argomentazione a casi specifici. Anche sapendo come sviluppare il ragionamento, ciascun soggetto dovrà essere in grado di riconoscere ogni situazione particolare come ricadente sotto una delle premesse dell’argomentazione, il che è ottenibile

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soltanto da chi ha dimestichezza con il sistema morale in questione. Ciò dovrebbe confermare ulteriormente l’impossibilità di disporre di una prospettiva razionale neutrale e la necessità di ragionare dall’interno di determinati sistemi morali. MacIntyre tenta di mostrare che non solo non esistono principi generali condivisi, ma neppure giudizi su situazioni particolari che possano essere condivisi universalmente, poiché anche questi dipendono dalle teorie che li determinano. Gli unici giudizi che possono essere ritenuti neutrali rispetto a diverse tradizioni sono così poveri di contenuto da non poter servire alla fondazione di alcun sistema morale soddisfacente.

MacIntyre deve spiegare però come anche dall’interno della sua dottrina si possa evitare il relativismo. Diviene cruciale imparare a valutare ogni tradizione nella sua storia, per vedere se indica un programma di ricerca in evoluzione, oppure un programma di ricerca in involuzione. Una tradizione vitale di solito conosce tre fasi di sviluppo. Innanzitutto, c’è una prima fase della tradizione, nella quale credenze e fonti di autorità epistemologica vengono accettate incondizionatamente. Questa fase viene superata quando, di norma, si presentano delle incoerenze tra le diverse credenze accolte. Si passa, così, ad una terza fase dello sviluppo della tradizione, nella quale si arriva a riformulazioni della tradizione volte a superare le difficoltà che si presentano. Un primo segno della vitalità di una tradizione è che le fasi successive presuppongono quelle precedenti. Inoltre, affinché ci sia autentico progresso, le fasi successive devono essere in grado di spiegare il perché dello stallo nelle situazioni precedenti e disporre di strumenti di analisi che possono garantire che è stato realizzato un avvicinamento alla verità. Fino a quando una tradizione riesce a seguire l’evoluzione indicata sarà difficilissimo confutarla o proclamare la superiorità di un’altra tradizione nei suoi confronti. Le situazioni nelle quali tale confronto sarà possibile sono quelle chiamate ‘crisi epistemologiche’. Si tratta di situazioni nelle quali il sistema di credenze di un programma di ricerca comincia a risultare inadeguato. Se la tradizione è vitale, riuscirà a superare la crisi continuando il suo processo di sviluppo. Se così non è, una seconda tradizione la rimpiazzerà. Un tale esito confermerà che la seconda tradizione è superiore alla prima. Va notato che un tale giudizio non deriva da una prospettiva neutrale, né è il risultato di una valutazione basata su presunti principi universali della ragione. La conferma della superiorità della seconda tradizione deriva dagli standard stabiliti proprio dalla prima tradizione, che in base ai suoi stessi criteri è venuta a trovarsi in una situazione di crisi. Affinché ciò avvenga, non è necessario che ad accorgersene siano i seguaci della tradizione in crisi.

Una posizione filosofica o teologica può essere organizzata in modo tale, tanto nelle sue strutture intellettuali che nei suoi modi istituzionalizzati di presentazione e di ricerca, che il dibattito con una posizione avversaria riveli che i suoi sostenitori sono sistematicamente incapaci di riconoscere in essa persino i propri errori, quei difetti e quei limiti che dovrebbero esserle riconosciuti come tali alla luce dei loro propri criteri.16

Confutare una tradizione comporta appellarsi alle difficoltà che le sono attribuite dai seguaci del programma rivale, e perché questo accada non è necessario che la coscienza di queste deficienze sia presente ai seguaci della tradizione.

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Con ciò, MacIntyre pensa di aver messo in opera un modello di giustificazione razionale. Che esso possa essere effettivamente operativo è mostrato, per MacIntyre, dal superamento, realizzato da San Tommaso, della crisi creatasi dall’incommensurabilità tra il programma aristotelico e quello agostiniano. Ovviamente, la sua ambizione è quella di applicare il modello anche a discussioni contemporanee, per confermare quanto sosteneva già in Dopo la virtù, cioè la superiorità del progetto aristotelico rispetto alla filosofia illuminista e post-illuminista e per indicare un’identica superiorità nei confronti di un rivale al quale veniva attribuita una minore importanza in questo libro, cioè Nietzsche, che diviene, invece, uno degli interlocutori di primo piano in Three Rival Versions of Moral Enquiry. A dire il vero, in questo libro, come pure in quello precedente, avviene un cambiamento rispetto a Dopo la virtù, seppure non dichiarato esplicitamente. L’eroe principale non è più Aristotele, bensì San Tommaso. Noi non ci soffermeremo sul problema della rilevanza di questo passaggio e parleremo di tradizione aristotelica e di tradizione tomistica in modo interscambiabile, come del resto fa lo stesso MacIntyre. Non ci soffermeremo, inoltre, a considerare analiticamente la discussione di MacIntyre con Nietzsche, bensì ci limiteremo a proseguire nell’analisi della sua discussione con una proposta filosofica assimilabile a quella presentata nel capitolo precedente.

La vittoria della tradizione tomista, come era prevedibile, non poteva risultare che da un fallimento delle proposte avversarie. Il modo fondamentale per mostrare la superiorità di una tradizione su un’altra è la capacità della prima tradizione di spiegare il fallimento della concorrente.

Il tomista afferma così di essere in grado di rendere intelligibili la storia sia della morale moderna, che della filosofia morale moderna, in un modo impossibile a coloro che abitano le strutture concettuali caratteristiche della modernità. Essi non possono sperare di capire sé stessi soltanto nei termini che loro stessi e le loro istituzioni ammettono per poter capire. Le loro teorie, le teorie di chi è imprigionato nella modernità, possono fornire soltanto razionalizzazioni ideologiche.17

Le tradizioni avversarie a quella proposta da MacIntyre sono fallite, perché hanno voluto prescindere da elementi fondamentali a ogni ricerca filosofico-morale: il ricollegamento alla tradizione e il perseguimento di un telos, elementi, invece, centrali nel programma tomistico. In particolare, la filosofia morale post-illuministica è fallita perché ha proclamato il diritto di ciascuno di scegliersi i propri fini e ne ha cercato il fondamento in una presunta prospettiva neutrale, oppure in presunti criteri di razionalità universali. Ciò ha provocato l’insuccesso del liberalismo, perché questo ha dovuto ricorrere a principi privi di fondamento e quindi si è condannato a divenire un programma teorico e pratico incoerente. Per queste ragioni, la filosofia morale post-illuminista non è in grado di rendere conto in alcun modo di eventuali debolezze di programmi rivali. Per capire una tradizione morale è necessario vederla come tradizione, valutarla nel suo contesto storico, e la filosofia post-illuminista non è in grado di adottare questa prospettiva. La superiorità del tomismo, quindi, è duplice. Da un lato, il tomismo è in grado di spiegare il fallimento del progetto post-illuminista e di indicare il modo di superare i problemi nei quali è incorsa questa tradizione. Dall’altro lato, il programma

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post-illuminista non è in grado di dire molte cose utili a proposito della tradizione aristotelico-tomistica.

È nostra ambizione, nel prosieguo di questo testo, mostrare come, contrariamente alle aspirazioni del filosofo scozzese, ci siano delle valide ragioni per pensare che il programma liberale sia superiore al suo. Innanzitutto, mostreremo alcune debolezze nella proposta di MacIntyre. Nel seguente capitolo, invece, si presenteranno delle specificazioni del programma di ricerca alternativo a quello di MacIntyre, per indicare come esso possa sfuggire alle sue critiche.

8.2.1. Iniziamo con alcune critiche presentate da altri autori nei

confronti di MacIntyre. Di John Haldane18 ricorderemo le seguenti osservazioni. La prima accusa MacIntyre di relativismo. Si dice che i modelli di razionalità sono interni alle tradizioni contrapposte. Ciascuno, però, pur non potendo adottare una prospettiva trascendentale, può immaginare di farlo. Immaginerà che da questa prospettiva, proprio come vuole MacIntyre, non ci saranno possibilità di scelta. Con ciò si è mostrato che, da almeno una prospettiva logicamente possibile, l’esito non può che essere il relativismo; si tratta della prospettiva del soggetto esterno alle tradizioni, che non ha alcun modo per effettuare una valutazione dei programmi contrapposti. Da questa situazione non si può uscire neppure dicendo che il soggetto del quale parliamo può ovviare alla mancanza di strumenti filosofici rifacendosi alla ricostruzione storica dei dibattiti filosofici, per valutare quale delle tradizioni contrapposte sono in evoluzione e quali, invece, in involuzione. Per valutare la rilevanza di una data fase del dibattito è necessario disporre di criteri filosofici, come, invece, per ipotesi, non è possibile al nostro soggetto, condannato, perciò, al relativismo.

A questo tipo di obiezione si può rispondere con sufficiente facilità. Come un daltonico non sarà sufficiente a dimostrare la relatività nell’identificazione dei colori, poiché si dispone di una spiegazione della sua inaffidabilità, allo stesso modo, MacIntyre può escludere che il soggetto di Haldane sia una prova del suo relativismo, in quanto privo degli strumenti di giudizio necessari per realizzare la scelta tra i diversi programmi. MacIntyre spiega anche quali siano questi strumenti e come acquisirli: poter giudicare i programmi dall’interno per vedere se riescono a risolvere e spiegare i problemi dei programmi rivali.

La seconda osservazione di Haldane è di carattere storico. MacIntyre sostiene che, rispetto a tutti i programmi contrapposti, quello tomista sembra essere l’unico che ha delle possibilità di sviluppo. Il problema è, allora, quello di spiegare come mai proprio questo programma sia in una situazione di stallo. I tomisti che si rifanno ad una tradizione premoderna, contrapposta a quella moderna o postmoderna, sono da tempo piuttosto interpreti dei classici che prosecutori della tradizione. Per MacIntyre, però, non è necessario sostenere che la tradizione migliore è quella attualmente meglio sostenuta, bensì può bastare individuare quella con le migliori potenzialità. Di fatto, MacIntyre stesso si assume il compito di iniziare la piena attualizzazione delle potenzialità del programma tomista e indica le ragioni della prevalenza di tradizioni

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contrapposte in ragione del loro dominio istituzionale e non a causa dei loro meriti filosofici.

Le due seguenti obiezioni sono state formulate da David Miller.19 La prima distingue due generi di pratiche, confuse invece da MacIntyre. Esistono, secondo Miller, pratiche auto-contenentesi e pratiche propositive. Le prime sono caratterizzate esclusivamente dai propri valori interni, le seconde anche (e soprattutto) dai valori esterni. Così, ad esempio, il gioco degli scacchi, seppure possa essere fonte di valori esterni (gloria e denaro per i campioni), non ha altri scopi tranne il raggiungimento dei propri interni ideali di eccellenza. La medicina, invece, ha il proprio scopo principalmente nei risultati che ottiene. Un modello di interventi chirurgici che fosse spettacolare e esaltasse al massimo la virtuosità degli esecutori avrebbe pochissimo valore se aumentasse i rischi. L’effetto, quindi, appare più importante dell’esaltazione della pratica. Un simile tipo di pratica è propositivo. Secondo Miller, la giustizia stessa va considerata in questo modo. Se è così, però, ci sono delle difficoltà per il programma teorico di MacIntyre. Ciò che egli ha tentato di mostrare è che le virtù vanno identificate facendo riferimento agli ideali di eccellenza interni alle pratiche. Da qui il suo recupero della tradizione aristotelico-tomistica. Se è vero quanto dice Miller, invece, i criteri di valutazione primari sono esterni alle pratiche; quindi è vero esattamente il contrario di quanto vuole MacIntyre.

La seconda obiezione si basa sulla distinzione tra giustizia procedurale e giustizia sostanziale. La giustizia procedurale non fa altro che applicare con imparzialità delle regole già stabilite. La giustizia sostanziale determina i contenuti della morale. Ora, è vero che la giustizia procedurale sostiene le pratiche, però la giustizia sostanziale valuta le pratiche. Sembra quindi che la valutazione delle pratiche derivi da criteri esterni e non da criteri interni.

Si può rispondere a entrambe le obiezioni allo stesso modo. È vero che per MacIntyre, le virtù derivano da considerazioni interne alle pratiche. Però tutte le pratiche vanno valutate dalla prospettiva di un’intera vita vissuta bene, ovvero a partire dal telos umano complessivo stabilito dalla comunità. Lo schema teleologico può continuare a sussistere poiché le considerazioni introdotte da Miller a proposito delle pratiche propositive possono essere ricondotte a considerazioni riguardanti il telos dell’uomo e della comunità, proprio come è sostenuto da MacIntyre. Allo stesso modo, la giustizia sostanziale deriverebbe da queste considerazioni più generali, che possono servire da criteri di valutazione delle pratiche. È vero quindi che per stabilire un codice morale completo non bastano i criteri interni alle pratiche, però questa è una cosa che MacIntyre stesso concede.20

Vi sono, però, alcune altre obiezioni, a nostro parere, decisive. La prima è la seguente. MacIntyre tenta di evitare al suo programma la critica di essere intrinsecamente conservatore. Da questa obiezione viene difeso ad esempio da Charles Taylor.21 Ciascuno appartiene ad una tradizione, ma le tradizioni devono essere intese come fenomeni in evoluzione. Il patrimonio intellettuale ereditato serve come standard di partenza, però, successivamente, può essere modificato, o, addirittura, abbandonato a favore dell’adesione ad un’altra tradizione. A questo punto, si potrebbe obiettare a MacIntyre, come è stato fatto da William Kymlicka, che se si accetta una simile possibilità sfumano le differenze con il liberalismo.

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Se noi possiamo, dopo tutto, porre in questione le giuste attese e gli obblighi dei ruoli e delle condizioni che abitiamo, se possiamo rigettare i valori ed i beni interni a una data pratica, non è più chiaro come la proposta di MacIntyre sia diversa dalla visione liberale individualista che egli propone di rigettare.22

Se la proposta di MacIntyre permette di trasformare una tradizione, oppure di abbandonarla, si perdono le condizioni che egli stesso riteneva fondamentali per assicurare consenso morale ed uniformità di criteri razionali: fini (e, quindi, sistemi di virtù) e ruoli sociali ben determinati. Conseguentemente, si ripresentano tutte le difficoltà che MacIntyre imputava al liberalismo. Le differenze tra la sua dottrina e quella rivale, come dicevamo, sembrano sfumare.

MacIntyre potrebbe tentare di uscire da questa difficoltà dicendo che il liberale può ammettere la riforma delle tradizioni morali, oppure il passaggio da una di queste tradizioni ad un’altra, anche come risultato di scelte arbitrarie, mentre la sua dottrina imporrebbe delle condizioni vincolanti di razionalità. Ciascuno potrebbe riformare la propria tradizione soltanto quando questa incontra dei problemi gravi e facendo riferimento esclusivamente ai mezzi consentiti dalla tradizione, oppure ciascuno potrebbe abbandonare la propria tradizione soltanto quando questa si trova in una condizione di crisi epistemologica irresolvibile. Questo viene rimarcato, ad esempio, da Stephen Mulhall e Adam Swift.

La struttura stessa può essere cambiata, però non tutta in una volta e non in qualsiasi modo piaccia al riformatore; la struttura serve a costituire la pratica ed il suo rifiuto totale costituirebbe l’obliterazione totale della pratica piuttosto che un cambiamento rivoluzionario della sua traiettoria. Pure il critico rivoluzionario deve essere un partecipante.23

Il problema è se un critico, limitato in questo modo, può ancora essere ritenuto un rivoluzionario. Con questi limiti, infatti, ciascuno trova delle forti proibizioni alla propria libertà stabiliti dalla tradizione. Le libertà dei soggetti sono limitate dagli standard ereditati dal passato. È la tradizione che determina quando i cambiamenti sono leciti e quando non lo sono: fino a che punto si possono cambiare i valori interni e gli ideali di eccellenza e, addirittura, se e quando si può abbandonare una tradizione per un’altra. In questo caso, non si riesce a capire come la dottrina di MacIntyre possa non essere definita conservatrice. MacIntyre perciò va incontro a un dilemma. Ammettere che la sua dottrina è conservatrice, oppure lasciar sfumare una differenza importante con il programma rivale. Ovviamente, il dilemma è risolvibile sostenendo che non vi sia nulla di sbagliato nel conservatorismo. L’argomento è, perciò, ad hominem, almeno per ora. Ma è stato MacIntyre stesso ad aver voluto dimostrare che la sua dottrina non è intrinsecamente conservatrice e la nostra argomentazione vuole soltanto mettere in discussione questa sua ambizione.

Nella sua discussione della filosofia di MacIntyre, Gordon Graham sostiene che non è possibile in tutti i casi valutare la progressività e la regressività delle posizioni di una data tradizione.24 Immaginiamo che si discuta lo status delle relazioni prematrimoniali dal punto di vista del cristianesimo. Oggi molti saranno tentati di pensare che, all’interno di questa tradizione, simili relazioni vadano valutate allo stesso modo delle relazioni extraconiugali, ossia come dei comportamenti da condannare. Se si guarda alla tradizione, invece,

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dice Graham, non ci sono seri motivi per farlo. Le relazioni prematrimoniali, in diverse forme, venivano accettate nella tradizione cristiana. Il cambiamento decisivo avvenne quando le famiglie reali vollero avere una garanzia precisa per assicurare le linee dinastiche. A questo punto, si pone la domanda: l’innovazione va interpretata come una deviazione dalla tradizione, oppure come un fenomeno di evoluzione? Graham dice che per poter giudicare è necessario avere dei criteri normativi esterni alla tradizione. Mentre il soggetto di Haldane non disponeva di alcun modello di razionalità, nel caso di Graham, invece, il soggetto dispone dei criteri di razionalità interni alla tradizione, però questi non sono sufficienti.

Per risolvere queste difficoltà, MacIntyre afferma che bisogna guardare l’insieme di credenze già presenti nella tradizione. Le innovazioni dovranno essere coerenti con le idee fondanti della tradizione, in particolare col telos umano che essa identifica. Immaginiamo che tra le idee fondanti della tradizione vi sia il principio che gli esseri umani devono celebrare la vita, vivendo gioiosamente loro stessi e riproducendo la vita stessa. Se è così, non si vede perché si debbano porre limiti matrimoniali all’attività riproduttiva e alla passione amorosa. Ovviamente, tenendo presente che non si devono avere rapporti scorretti con alcuna persona, con il che si pongono le basi per una distinzione tra rapporti prematrimoniali e rapporti extra-coniugali.

Il problema per MacIntyre è che nulla garantisce che una tradizione debba avere delle premesse così semplici e risposte così evidenti, anche in uno schema comunitario-teleologico. Per rafforzare questa impressione, passiamo ad un caso tipico di dilemma morale. David Wong ci ricorda un famoso esempio di Jean Paul Sartre.25 Un giovane, nel corso della seconda guerra mondiale, deve prendere la decisione se rimanere con la madre anziana, che ha bisogno del suo supporto, oppure aggregarsi alla resistenza. Il primo comportamento è quello di un buon figlio, il secondo quello di un buon patriota. Qual è l’obbligo che deve prevalere? Il problema indicato da Wong può presentarsi anche tra persone che accolgono una stessa tradizione. Chi sceglie, ad esempio, una tradizione aristotelica e dice che il telos umano è quello di esaltare le virtù dianoetiche che cosa suggerirà al giovane? E chi, a queste virtù, aggiunge quelle teologali, come San Tommaso e Dante, che cosa suggerirà? Non riusciamo a immaginare le risposte. Non riesce a immaginarle neppure Wong, che quindi si associa a Graham nel dire che anche il metodo proposto da MacIntyre lascia preoccupanti indeterminatezze. In realtà, fino a quando MacIntyre stesso non si impegna ad affrontare simili problemi morali e si limita a discussioni sul metodo, la sua teoria non dispone della dovuta plausibilità e critiche come quelle di Wong e Graham appaiono ben indirizzate.26

Questi problemi si riferiscono a situazioni di indeterminatezza all’interno di un’unica tradizione. Le difficoltà per MacIntyre si accrescono a causa del fatto che pure la scelta tra diverse tradizioni è meno facile con la metodologia proposta di quanto sarebbe desiderabile. Vediamo due esempi molto semplici. Immaginiamo che vi sia una tradizione morale seguace di Oscar Wilde e Gabriele D’Annunzio. Un simile progetto disporrebbe di tutti gli elementi che compongono una tradizione: i testi canonici (Il ritratto di Dorian Gray, Il piacere e altri), i personaggi autorevoli della tradizione (i due scrittori e

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altri), i modelli di eccellenza, ecc. La differenza con la tradizione aristotelico-tomistica sarebbe nel telos umano. Non più l’esercizio delle virtù dianoetiche e teologali, bensì un ideale di bellezza. È difficile immaginare come possa comparire una crisi epistemologica per una tradizione del genere. Il problema, per MacIntyre, è che una simile tradizione può ammettere incoerenze e contraddizioni, anzi queste sono auspicate. Ci si attenderà da ciascuno che sappia proporre dei modelli di vita personali e originali. Il fatto che diverse persone si comportino in modo diverso e contraddittorio non sarà ritenuto un problema, bensì un pregio. L’ideale estetico proposto da Des Esseintes potrà divergere da quello di Andrea Sperelli e, quindi, questa tradizione sarà meno vulnerabile di quella liberale, che ha l’ambizione di dare delle risposte prescrittive coerenti e univoche. Non ci saranno crisi epistemologiche fino a quando la fantasia artistica sarà fertile, e questa ha mostrato nel corso della storia delle arti di esserlo sufficientemente.

Una simile tradizione sarebbe, comunque, abbastanza complessa e sofisticata. Si potrebbero immaginare, però, anche delle dottrine estremamente permissive e quindi semplici. Immaginiamo una qualsiasi dottrina tradizionalista. Per tali dottrine sarebbe difficilissimo entrare in condizioni di crisi epistemologica. Queste, infatti, possono avere un contenuto molto povero, il che implicherebbe pochi problemi e poche possibilità di crisi. Con ciò si vede un altro difetto della proposta di MacIntyre. Non solo riaffiora il pericolo relativista, che è il problema principale di MacIntyre, stante il suo programmatico antirelativismo, ma sembrano favorite dal suo modello, in quanto difficilmente confutabili, le dottrine più povere che pongono un minore numero di problemi. Il favorire a priori le dottrine povere rispetto a quelle sofisticate sembra un problema aggiuntivo al quale MacIntyre sicuramente dovrà trovare una risposta.

Un altro problema della sua proposta è quello di non riuscire a spiegare del tutto perché la sua dottrina morale debba essere considerata vera. Il solo fatto di riuscire a risolvere i problemi posti dagli standard interni non offre una garanzia sufficiente. Il problema è equivalente a quello posto tradizionalmente alle dottrine coerentiste. Anche se un sistema di credenze è internamente coerente non è scontata la sua verità. È necessario mostrare perché sia ragionevole ritenere che le credenze colgano una verità esterna, soprattutto fornendo una spiegazione del meccanismo conoscitivo che conduce alla formazione delle credenze. Ciò viene ammesso dagli stessi epistemologi coerentisti.27 MacIntyre non ci dà alcuna spiegazione di questo tipo. Ciò che è richiesto è o una spiegazione del perché si possa pensare che esista una percezione diretta del telos umano, o spiegare quali sono le conseguenze empiriche della teoria di MacIntyre che possono servire a confermarla. Nulla di questo ci viene dato.28 Questo è un problema autentico per MacIntyre, poiché egli risponde, a chi vuol indicargli la possibilità di salvare la sua dottrina rinunciando all’appello alla verità, che proprio essa rappresenta un punto irremovibile della sua teoria.29

Vi è poi la difficoltà connessa al problema della motivazione morale. Ogni dottrina morale deve fornire delle motivazioni per adottare dei comportamenti che seguano le sue prescrizioni. Per chi accoglie di far parte di una tradizione il problema può non porsi. Uno fa parte di una tradizione, è

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felice così e segue le sue prescrizioni. Il fatto di sentirsi a suo agio nella tradizione è già una motivazione sufficiente. MacIntyre, però, ha delle ambizioni più vaste, ovvero quelle di orientare alla tradizione aristotelico-tomistica anche chi non vi aderisce attualmente. Ma la proposta di MacIntyre non fornisce un supporto sufficiente a questa ambizione. Ciò che egli suggerisce è che il criterio di un sistema morale sia il telos dell’uomo. Ora, perché uno dovrebbe sottoporre la propria vita al raggiungimento del proprio telos? Una simile vita può essere piacevole, ma anche ricca di situazioni impegnative e sgradevoli. Se il telos dell’uomo è, ad esempio, come suggerisce Aristotele, quello di esercitare al massimo livello le virtù intellettuali, una vita dedicata a questo fine può essere ricca di privazioni. Il problema di MacIntyre, a questo punto, è quello di fornire ad ognuno delle motivazioni per vivere una vita ricca di privazioni, ma con un nobile fine, piuttosto che una vita ricca di divertimenti fini a se stessi. Non siamo stati capaci di identificare, nei lavori di MacIntyre alcuna proposta che risponda a questa esigenza. La motivazione che MacIntyre potrebbe offrire è quella di disporre di un sistema morale coerente, in grado di dare le risposte a tutti i quesiti morali fondamentali. È però probabile che neppure questo possa rappresentare una motivazione sufficiente. Che cosa si farà con chi preferisce vivere in mezzo a incoerenze, purché la vita sia piena di piaceri?

L’ultima critica che vogliamo presentare nei confronti della proposta di MacIntyre è la seguente. La constatazione della superiorità di una teoria morale su un’altra sarà possibile soltanto nel tempo, quando una delle teorie sarà entrata in condizione di crisi epistemologica. Intanto, però, come devono comportarsi i seguaci delle tradizioni contrapposte? Visto che non hanno alcuna possibilità di sviluppare una discussione produttrice di risultati importanti, non rimane che l’intolleranza. La proposta liberale offre delle prospettive molto migliori, poiché può essere utile, anche se non dovesse venire accettata definitivamente, almeno come una valida soluzione di tregua fino a quando non si esauriscono le discussioni. Ma noi riteniamo che questa proposta abbia tutte le possibilità di affermarsi come quella più vicina alla verità. Sarà compito del prossimo capitolo spiegare come.

1 A. MacIntyre, Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 13 (After Virtue. A Study in

Moral Theory, Indiana, University of Notre Dame Press, 1981). 2 Ivi, pp. 70-71. 3 Ivi, p. 73. 4 Ivi, p. 73. 5 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità, Milano, Anabasi, 1995, vol. II, p. 156 (Whose

Justice? Which Rationality?, Indiana, University of Notre Dame Press, 1988). 6 Alcuni critici hanno accusato MacIntyre di aver esposto una critica incongruente del

liberalismo, cioè di avergli, da un lato, imputato di essere un sistema privo di strumenti e criteri razionali, quindi, incoerente, in quanto non rappresenterebbe una tradizione di pensiero; dall’altro lato di avergli imputato di rappresentare esso stesso una tradizione, seppure ricca di difetti. Vedi S. Mulhall, Liberalism, Morality and Rationality: MacIntyre, Rawls and Cavell, in J. Horton e S. Mendus (a cura di), After MacIntyre, Cambridge, Polity Press, 1994, pp. 220-224 e A. Mason, MacIntyre on Liberalism and Its Critics: Tradition, Incommensurability and Disagreement, in J. Horton e S. Mendus (a cura di), After MacIntyre, cit., 226-230. Con la distinzione tra due tipi di tradizione, la critica viene evitata.

7 A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 140-141. 8 Ivi, p. 154-155.

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9 Ivi, p. 178. 10 Ivi, p. 224. 11 Ivi, p. 225. 12 Ivi, p. 299. 13 Ivi, p. 264. 14 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità, cit., vol. I, p. 60. 15 Ivi, I vol., pp. 136-137. 16 A. MacIntyre, Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale,

Milano, Editrice Massimo, 1993, pp. 208-209 (Three Rival Versions of Moral Enquiry. Encyclopaedia, Genealogy and Tradition, Indiana, University of Notre Dame Press, 1990).

17 Ivi, p. 272. 18 J. Haldane, MacIntyre’s Tomist Revival: What Next?, in J. Horton e S. Mendus (a cura

di), After MacIntyre, cit. 19 D. Miller, Virtues, Practices and Justice, in J. Horton e S. Mendus ( cura di), After

MacIntyre, cit. 20 MacIntyre stesso presenta le risposte alla serie di critici che abbiamo esposto, nel

citato volume curato da Horton e Mendus. 21 C. Taylor, Justice after Virtue, in J. Horton e S. Mendus (a cura di), After MacIntyre,

cit., p. 34. 22 W. Kymlicka, Liberalism, Community and Culture, Oxford, Oxford University Press,

1989, p. 57. 23 S. Mulhall e A. Swift, Liberals and Communitarians, cit., p. 85. 24 G. Graham, MacIntyre’s Fusion of History and Philosophy, in J. Horton e S. Mendus (a

cura di), After MacIntyre, cit. 25 D. Wong, Moral Relativity, Berkeley, University of California Press, 19862. La

discussione su MacIntyre è presente nelle pagine 121-138. 26 Anche se per l’esempio specifico esposto da Graham probabilmente ci saranno

autori pronti a mostrare che la tradizione cristiano-cattolica dispone già di risposte che indicano il ruolo centrale del matrimonio nell’ambito della dottrina complessiva. Sembra che simili indicazioni possano risultare, ad esempio, da M. Mori, Aborto e morale, Milano, Il Saggiatore, 1996. In questo senso, l’esempio di Wong appare più indicativo di quello di Graham.

27 Vedi, ad es. K. Lehrer, Theory of Knowledge, San Francisco, Westview Press, 1990 e dello stesso autore Self-Trust, Oxford, Oxford University Press, 1997.

28 Da qui, contrariamente ad interpretazioni che ne mettono in risalto le similarità, le differenze con Lakatos. Per una di queste dottrine, vedi N. Murphy, Post-moderni ne-relativizam, “Filozofska istrazivanja”, 1995, pp. 284-288.

29 Il suggerimento, respinto da MacIntyre, si trova in R. Stern, MacIntyre and Historicism, in J. Horton e S. Mendus (a cura di), After MacIntyre, cit.

Capitolo nono

Quale giustizia?

9.1. Questo capitolo sarà dedicato all’individuazione di una teoria della giustizia coerente con la prospettiva realista che abbiamo adottato e che, allo stesso tempo, possa fungere da completamento alla risposta liberale a MacIntyre. Richiamiamo ciò che era emerso alla fine del capitolo dove abbiamo esposto la tesi riduzionistica e naturalistica. Le leggi della giustizia sono quelle leggi che meglio organizzano una stabile cooperazione sociale, promuovendo nel modo migliore gli interessi di ciascuno. Il problema è quello di trovare la formulazione più adeguata di queste leggi. Individuandola, si sarà capaci di replicare a MacIntyre, che imputava al liberalismo l’impossibilità di identificare un punto stabile di consenso morale. I due scopi, perciò, saranno perseguiti parallelamente. Questo capitolo sarà deficitario in alcuni aspetti. Pur rappresentando il necessario completamento di quanto detto fino ad ora, rappresenta anche soltanto il punto di inizio di una nuova ricerca. Si invita a leggerlo quindi in questo modo.

Il fondamento della proposta che esporremo consiste nell’identificazione di alcuni bisogni fondamentali o desideri radicati comuni all’umanità. MacIntyre, come fanno pure molti relativisti, ammette che ve ne possano essere, ma sostiene che il loro contenuto è troppo povero per poterne ricavare una dottrina sostantivamente valida. Vediamo quali bisogni e desideri possano rientrare in questo elenco. Possiamo iniziare, seguendo Thomas Hobbes, con il desiderio di vivere piuttosto che morire e con il desiderio che analoga sorte sia destinata alle persone alle quali si vuole bene. Di conseguenza, possiamo affermare l’esistenza di un bisogno di sicurezza per la vita.1 Da ciò possiamo derivare una preferenza, almeno prima facie, per un sistema di giustizia in grado di assicurare una convivenza sociale pacifica, piuttosto che rapporti sociali conflittuali che possono degenerare in guerre civili. La morte, però, non sopraggiunge soltanto a causa dei conflitti tra gli uomini. Può subentrare a causa di un’inefficace protezione dalle intemperie naturali, oppure da malattia. Di conseguenza, è preferibile prima facie un sistema sociale che sia in grado di assicurare uno sviluppo della scienza e della tecnica che ci permetta di arginare queste fonti di dolore. Ciascuno, qualsiasi siano i suoi fini ed i suoi desideri, ha bisogno della libertà di poterli realizzare. Di conseguenza, sarà preferibile per ciascun individuo, almeno prima facie, un sistema che possa massimizzare le sue libertà. Infine, ciascuno per realizzare i propri fini ha bisogno di un certo benessere. Sarà, quindi, per ciascun individuo preferibile, almeno prima facie, un sistema che massimizzi il suo benessere. Si è usata l’indicazione prima facie per tutte le condizioni sopra esposte, poiché le diverse esigenze possono entrare in conflitto. Il bisogno di pace sociale può contrastare con il bisogno di avere maggiori libertà. In questo caso si dovrebbe rinunciare alla soddisfazione di alcuni desideri.

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Quali indicazioni per la costruzione di una teoria della giustizia possiamo ricavare da queste condizioni? Hobbes ne deriva una teoria della giustizia che dovrebbe assicurare la pace sociale. Questa teorizzazione, però, non dà il dovuto risalto al desiderio di ciascuno di massimizzare le proprie libertà. Contrariamente a quanto sostenuto da Hobbes, si può dire che proprio il fatto di togliere la libertà ad alcuni individui rischia di compromettere l’intero meccanismo della stabilità sociale. Sussiste, infatti, la possibilità che per alcuni individui sia preferibile affrontare i rischi di una guerra civile, piuttosto che tollerare privazioni alla propria libertà. Sembra quindi che uno stato che predilige la tutela della libertà degli individui sarà preferibile tout court e non soltanto prima facie.

Una grande quantità di esperienze suggerisce che hanno maggiori possibilità di garantire la crescita del benessere gli ordinamenti che tutelano la proprietà e favoriscono la libera iniziativa individuale. Sembra quindi preferibile una teoria della giustizia che li tuteli. Però, come è stato lucidamente teorizzato da John Stuart Mill, l’abbandono completo alla libera iniziativa favorisce la nascita di nuove caste: una casta di ricchi destinata a riprodursi e una casta di poveri, destinata a perpetuarsi. L’esito probabile è l’insorgenza di gravi conflitti sociali. Mill identifica precisamente in stratificazioni di questo genere l’origine di alcune rivoluzioni della metà del secolo scorso.2 Si può concludere quindi che una valida teoria della giustizia tuteli la libera iniziativa e la proprietà, ma operi anche delle redistribuzioni che impediscano la creazione di caste in grado di perpetuarsi attraverso le generazioni.

Già da questo abbozzo si vede come da premesse condivisibili universalmente si possano delineare principi di giustizia altrettanto condivisibili. Ciascuno adottandoli evita notevoli rischi e disagi e ottenendo la sicurezza relativa di realizzare una grande parte dei propri desideri. Sembrerebbe quindi razionale sostenere che possa rappresentare la soluzione più ragionevole per tutti. Sembra perciò che non sia vero, contrariamente a quanto sostiene MacIntyre, che gli elementi della natura umana condivisi da tutti siano troppo poveri per fungere da premesse di un ragionamento morale tendenzialmente universale.

9.2. Esporremo ora la teoria che presenta in modo sistematico la

visione descritta nell’abbozzo del paragrafo precedente: si tratta di quella resa celebre da John Rawls.

A prima vista, può sembrare difficile includere un contrattualista come Rawls in una prospettiva realista. Non c’è nel nostro tentativo, però, alcuna contraddizione. Nell’accogliere la proposta di Rawls, ci riferiamo al contenuto della sua teoria della giustizia, precisamente ai suoi principi di giustizia e alle regole di priorità che valgono nei rapporti tra questi principi. Accetteremo, quasi per intero, la teoria della giustizia di Rawls come risposta al nostro problema, che è più generale di quello di Rawls stesso. Il modello del contratto sociale serve a Rawls per strutturare convinzioni implicite nella tradizione politica occidentale, al fine di rispondere al problema fondamentale della giustizia politica in una società democratica:

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qual è la concezione della giustizia più adatta a specificare gli equi termini di una cooperazione sociale, da una generazione all’altra, fra cittadini considerati liberi, uguali e membri pienamente cooperativi della società per tutta la vita?3

A differenza del realismo morale, la proposta di Rawls intende limitare le proprie ambizioni a quelle che egli ritiene essere esigenze specifiche della cultura politica occidentale, dove i presupposti della cooperazione sociale derivano da concezioni particolari dell’uomo e da una visione generale della società nella quale si vuole vivere. Noi tenteremo di esporre alcune ragioni le quali indicano che la giustizia liberale ha un valore universale, mostrando come sia possibile la ricerca di una concezione della giustizia che possa garantire una stabile cooperazione sociale e massimizzare per ciascuno l’utilità che ne deriva facendo riferimento a caratteristiche universali della natura umana. A questo scopo, useremo l’argomentazione contrattualista di Rawls come uno strumento euristico valido per fornire risposte ad un problema più generale del suo, cioè per mostrare che i principi di giustizia di Rawls rappresentano il miglior modello di cooperazione sociale per ciascuno, sulla base di alcune caratteristiche antropologiche che è difficile non considerare universali.

Ovviamente, non intendiamo dire che la società democratica liberale teorizzata da Rawls possa produrre effetti ottimali se trapiantata in un qualsiasi momento in una qualsiasi comunità umana. È difficilmente immaginabile che questo modello possa esibire risultati eccellenti se trasposto, ad esempio, in una comunità arcaica. La società democratica liberale può funzionare soltanto laddove esistono condizioni generali favorevoli alla sua applicazione. Però, in questi casi, essa favorisce le migliori condizioni di vita immaginabili per l’umanità. Un simile approccio è equivalente a quello adottato da Mill nell’affermare che il governo rappresentativo è la migliore forma di governo.4 È ragionevole pensare che in tutta l’Europa siano presenti le condizioni richieste già da qualche secolo. Passiamo quindi a considerare il contenuto della teoria che sosteniamo.

9.3. Lo standard di giustificazione dei principi di giustizia è stabilito da

Rawls nel seguente modo:

L’idea guida è quella che i principi di giustizia per la struttura fondamentale della società sono oggetto dell’accordo originario. Questi sono i principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i termini fondamentali della loro associazione.5

La posizione iniziale corrisponde a ciò che nella tradizione contrattualista è lo stato di natura. L’accordo sui due principi corrisponde al contratto sociale. Il contratto sociale è definitivo, nel senso che una volta stabiliti i principi, questi non possono più essere rivisti. Rawls chiama la propria concezione della giustizia, che è il risultato di una contrattazione di individui liberi ed eguali, giustizia come equità.

La scelta ipotetica dei principi deve essere fatta in un processo di contrattazione tra individui liberi ed eguali.

Sembra ragionevole e generalmente accettabile che nessuno debba risultare avvantaggiato o svantaggiato nella scelta dei principi, a motivo del caso naturale o delle circostanze sociali.6

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Rawls ritiene che la libertà e l’eguaglianza nella situazione iniziale siano tutelate escludendo dalla situazione deliberativa vari elementi di casualità che potrebbero avvantaggiare alcuni individui a danno di altri. Quali sono questi possibili elementi di casualità? Rawls li rintraccia nella distribuzione di vantaggi naturali o posizioni sociali privilegiate. Come eliminare la loro influenza sulla condizione di scelta? Annullando la conoscenza che al loro riguardo hanno gli individui deliberanti. Si impedirà così agli individui avvantaggiati di poter modellare i principi di giustizia in modo da tutelare questi vantaggi e saranno privilegiati i principi generali, non modellati su casi particolari.

Rawls immagina, quindi, che gli individui deliberanti si trovino dietro ad un velo di ignoranza, dove conoscono solo fatti generali, ma non fatti particolari. Sanno, in primo luogo, di trovarsi in quelle che Rawls, seguendo una tradizione humeana alla quale, in questo caso, si richiama esplicitamente, definisce circostanze di giustizia. Si tratta di circostanze caratterizzate tanto da comunanza quanto da divergenza di interessi. La comunanza d’interessi è costituita dal semplice fatto che nessuno può prosperare (e difficilmente può sopravvivere) al di fuori di una società. C’è, però, anche

un conflitto di interessi per il fatto che gli uomini non sono indifferenti al modo in cui vengono ripartiti i maggiori benefici prodotti al modo in cui vengono ripartiti i maggiori benefici prodotti dalla loro collaborazione, e ne preferiscono una quota maggiore piuttosto che una minore per raggiungere i propri obiettivi.7

La conoscenza rilevante è rappresentata dal fatto che gli individui sanno che le risorse delle quali potranno disporre sono limitate e che ciascuno è interessato, in primo luogo, ad accumularne una quantità quanto maggiore possibile per promuovere le proprie finalità. Sanno, inoltre, che non tutti possono disporre di una libertà illimitata, perché la libertà di ciascuno cozza con la libertà degli altri. La conoscenza delle circostanze di giustizia consente alle parti di porre con precisione il problema che devono risolvere: come garantire a se stessi il miglior esito possibile di questa collaborazione.

Quali sono le limitazioni nelle conoscenze delle quali dispongono gli individui deliberanti?

Nessuno conosce il suo posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale, la parte che il caso gli assegna nella suddivisione delle doti naturali, la sua intelligenza, forza e simili. Assumerò anche che le parti contraenti non sanno nulla della propria concezione del bene e delle proprie particolari propensioni psicologiche.8

Su quali principi di giustizia si accorderebbero individui razionali in simili condizioni deliberative? Rawls vede la soluzione nei seguenti principi. Questo è il primo principio:

Ogni persona ha un eguale diritto a un sistema pienamente adeguato di eguali libertà fondamentali che sia compatibile con un simile sistema di libertà per tutti.9

Il secondo principio è, invece, il seguente:

Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità10

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La teoria della giustizia prevede anche delle regole di priorità tra questi principi:

Prima regola di priorità (la priorità della libertà) - I principi di giustizia devono essere ordinati lessicalmente, e quindi la libertà può venire limitata solo in nome della libertà stessa. Vi sono due casi:

a) una libertà meno estesa deve rinforzare il sistema di libertà condiviso da tutti;

b) una libertà inferiore alla eguale libertà deve essere accettabile per coloro che godono di minore libertà.

Seconda regola di priorità (la priorità della giustizia rispetto all’efficienza e al benessere) - Il secondo principio precede lessicalmente il principio di efficienza e quello della massimizzazione della somma dei vantaggi; l’equa opportunità precede il principio di differenza. Vi sono due casi:

a) un’ineguaglianza di opportunità deve accrescere le opportunità di coloro che ne hanno di mano;

b) un tasso di risparmio eccessivo deve, a conti fatti, ridurre l’onere di coloro che per esso sopportano privazioni.11

Citiamo infine anche la concezione generale che ispira questi principi:

Tutti i beni principali - libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sé - devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati.12

Inoltre, va aggiunto che Rawls, nel suo recente scritto Liberalismo politico, specifica che è indispensabile offrire non soltanto un’uguale garanzia per il rispetto di tutti i diritti che si sono citati, ma pure un’uguale valore alle libertà politiche. È possibile, infatti, che mentre sono tutelati i diritti di ciascuno, non tutti abbiano la possibilità di esercitarli. Se è vero che ciascuno può candidarsi per divenire membro del parlamento, può avvenire che qualcuno possa disporre di molti soldi per la campagna elettorale, mentre altri di pochissimi. In questo caso, lo stesso diritto non avrebbe un uguale valore, essendo per alcuni reale, per altri soltanto formale. Secondo Rawls, è necessario assicurare un uguale valore delle libertà politiche per ciascun individuo, perché queste libertà sono fondamentali per la realizzazione di molti altri diritti. È sbagliato, invece, provvedere all’assicurazione di un uguale valore per tutte le libertà, perché ciò comporterebbe un completo egualitarismo, il che vuol dire un sistema poco efficiente e, secondo il ragionamento che fonda il principio di differenza, penalizzante per tutti.13

Riassumendo, si può dire quanto segue. La concezione di Rawls prevede che siano due i principali temi rientranti nella teoria della giustizia: le libertà fondamentali ed il benessere. Le libertà fondamentali sono il più importante tra i beni, cosicché non si possono restringere se non in nome della libertà stessa e, in nessun caso (appena siano superati i livelli di massima indigenza) in nome del benessere. Inoltre, secondo Rawls, è importante concentrarsi non su tutte le libertà, bensì su quelle fondamentali, perché estendendo troppo le libertà da tutelare queste possono entrare in collisione ed hanno quindi bisogno di essere maggiormente regolamentate. Il rischio è quindi che ammettendo troppe libertà fondamentali si finisca con il dover

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restringere quelle fondamentali. Per questo motivo, adeguandosi ad una critica esposta da Herbert Hart14 Rawls non parla, negli scritti più recenti, del «più esteso sistema totale di uguali libertà», bensì di «sistema pienamente adeguato di eguali libertà fondamentali».

Per quel che riguarda la distribuzione del benessere, Rawls offre una concezione tendente all’egualitarismo. Il principio di distribuzione, chiamato principio di differenza, consente a ciascun membro della comunità di migliorare il proprio benessere soltanto se, con ciò, migliora anche le condizioni di quelli che stanno peggio di tutti. Inoltre, le differenze di benessere, in base ad una delle regole di priorità, non devono superare il limite che consente un’equa eguaglianza di opportunità di accesso ai vari ruoli sociali.

Immaginiamo che in una condizione iniziale tutti i membri della società abbiano un’uguale ricchezza e che a ciascuno spetti una somma di beni uguale a 5. Rawls non afferma che questa condizione di uguaglianza debba essere mantenuta ad oltranza. Supponiamo che le ricchezze complessive possano essere aumentate se gli individui componenti la comunità si dividono in due classi sociali, quella dei lavoratori e quella degli imprenditori. Si pone il problema, di giustificare la possibilità di future ineguaglianze. La possibilità è rappresentata dalla situazione nella quale ciascun individuo riuscirebbe a superare la precedente quota di benessere 5. Purché queste ineguaglianze di benessere non compromettano un’equa libertà di accesso alle posizioni privilegiate, le ineguaglianze saranno giustificate se e solo se conducono anche gli individui che stanno peggio di tutti ad un maggior benessere di quanto ne avessero avuto prima dell’immissione delle ineguaglianze.

Possiamo notare subito come i principi della giustizia di Rawls rispondano alle esigenze che abbiamo esposto nel paragrafo introduttivo di questo capitolo. Nel prosieguo cercheremo di spiegare ulteriormente questo fatto, proponendo, però, qualche emendamento alla proposta del filosofo americano. Iniziamo vedendo come Rawls spiega la sua pretesa che proprio i principi di giustizia esposti sarebbero scelti nella posizione originaria.

9.4. Innanzitutto, ricordiamoci che le persone nella condizione

originaria sanno di voler promuovere in primo luogo i propri interessi, il che vuol dire

tentare di proteggere i loro diritti, ampliare le loro opportunità, e moltiplicare i mezzi che favoriscono i loro scopi.15

Poste queste premesse, e tutte le altre che abbiamo elencato in precedenza, perché gli individui razionali opteranno proprio per la concezione della giustizia di Rawls? Il filosofo americano trova la risposta, appellandosi ai modelli della teoria della scelta razionale. Egli vede nella scelta dei due principi della giustizia l’applicazione del modello maximin per la scelta in condizioni di incertezza. La scelta in condizioni di incertezza è una scelta che ha luogo quando gli individui conoscono gli esiti possibili di una scelta, ma non ne conoscono le probabilità. È questo esattamente il tipo di scelta che si ha nella posizione originaria di Rawls. La regola del maximin è la regola che ci consiglia di assumere come criterio rilevante nella scelta gli esiti peggiori delle alternative contrapposte. Immaginiamo che i possibili esiti delle alternative a disposizione

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siano i seguenti: A1: E1(8), E2(3), E3(-5); A2: E1(7), E2(2), E3(-2); A3: E1(5), E2(1), E3(0). Nella prima alternativa, l’individuo può vincere 8, se gli va meno bene vince 3, nel peggiore dei casi può perdere 5. Analogamente, nelle altre due alternative. La regola del maximin ci indica di tralasciare, nella scelta, le considerazioni riguardanti gli esiti migliori (nel nostro esempio gli E1 e gli E2) e di soffermarci unicamente sugli esisti peggiori (gli E3). Secondo questa regola sarà razionale soltanto l’individuo che sceglierà il migliore tra gli esiti peggiori. Nel nostro caso, l’unico individuo razionale sarà quello che sceglierà A3, perché il suo E3 è superiore a quelli delle alternative rivali; nella scelta non ci si cura del fatto che tanto l’E1 quanto l’E2 di A3 sono inferiori agli E1 e agli E2 sia di A1 che di A2.

Il quesito che ci si può porre ora è perché la regola maximin sia preferibile alla altre. In realtà, pare che questa includa un’assunzione psicologica. Sembra che la regola maximin sia vincolata all’assunzione che gli uomini siano avversi ai rischi. L’assunzione non è, però, del tutto giustificata. Perché uno scommettitore audace dovrebbe essere giudicato irrazionale? Non potrebbe obiettare al cauto seguace di Rawls di essere irrazionale, perché si preclude la possibilità di realizzare il miglior risultato? Ma Rawls pensa che la regola maximin, quale modello di scelta in condizioni di incertezza, sia adatta a situazioni particolari. In primo luogo, quando gli individui hanno particolarmente a cuore i beni minimi e non si curano in modo così essenziale di eventuali vantaggi aggiuntivi. In secondo luogo, quando i risultati che non tutelano le sicurezze, seppure minime, sono inaccettabili. La predilezione per il maximin quindi evita le obiezioni più ovvie, perché non ha l’ambizione di rispondere a leggi psicologiche universali, bensì si limita a situazioni nelle quali i possibili guadagni minimi sono gratificanti e le possibili perdite massime sono insopportabili. Chi rifiuta il maximin non è semplicemente un soggetto che ama il rischio; è un soggetto che scommette, rischiando di perdere beni comunque apprezzabili, sapendo in anticipo che potrà trovarsi nella posizione di non poter (o volere) pagare la perdita.

Cerchiamo di comprendere come questa discussione si applichi al procedimento della scelta dei principi di giustizia. In primo luogo, l’applicazione della regola maximin alla scelta di questi principi dà tali garanzie a ciascun individuo ed una sufficiente efficienza al sistema complessivo, da assicurare anche a chi sta peggio dei beni apprezzabili; ciò diminuisce l’impulso alla ricerca dei beni superiori a quelli garantiti. Inoltre, si può dire che la rinuncia ai beni principali porta a un esito che difficilmente qualche individuo potrà trovare tollerabile. Ad esempio, è difficile che qualcuno trovi tollerabili gravi limitazioni alla propria libertà, o una condizione di assoluta indigenza. Questo perché i beni che gli individui deliberanti sceglierebbero, seguendo la regola maximin nella posizione originaria, sono beni fondamentali, nel senso che sono indispensabili a ciascun individuo qualsiasi siano i suoi fini. Di conseguenza, la loro perdita rappresenterebbe per chiunque un’impossibilità assoluta di realizzare il proprio piano di vita. Questo fatto è di particolare importanza. Con l’accettazione di una regola diversa dal maximin si rischia di arrivare a scegliere, già nella posizione originaria, dei principi che si sa che sono intollerabili. Invece di aver stabilito uno schema di collaborazione, si spalancherebbero le porte ad inevitabili conflittualità.

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Può sembrare, quindi, che lo schema proposto da Rawls sia accettabile per tutti, soddisfacendo quella che è la nostra esigenza, ovvero la necessità di disporre di un ordinamento stabile nel quale ciascuno abbia garantiti, nel modo più ragionevole, i propri interessi. Lo schema di Rawls garantisce delle condizioni di benessere minime valide per ciascuno. La garanzia di queste condizioni minime non implica la condanna alla mediocrità, bensì concede la possibilità di migliorare la propria posizione ai membri che danno alla comunità un maggiore contributo. Contrariamente a quanto sostengono alcuni critici16 vengono ricompensati adeguatamente i più meritevoli– coloro che contribuiscono maggiormente al benessere degli altri –, con le loro posizioni. Queste spiegazioni permettono di evitare anche le obiezioni di chi vuole separare le questioni di giustizia e da quelle di stabilità. Secondo questi critici un ordinamento potrebbe essere stabile anche senza essere giusto.17 Oppure, se proprio si vuole accettare l’identità concettuale tra giustizia e stabilità, si può dire che esiste un elevato numero di ordinamenti che possono soddisfare il criterio. Ad esempio, quando un gruppo sociale potente può obbligare con la forza uno più debole ad accettare determinati rapporti sociali. Da quanto abbiamo detto sulla giustizia, invece, segue che nel caso indicato dai critici si può assicurare al massimo un equilibrio instabile, mentre soltanto accogliendo i due principi della giustizia di Rawls si costituisce un ordinamento veramente stabile, poiché nessuno ha un interesse forte a sovvertirlo.

A questo punto diviene importante capire l’esatta dimensione dell’accettazione del principio maximin. La forza della proposta di Rawls dipende da un accoglimento non generale, bensì limitato di questo. Secondo Rawls, esso è valido in particolari circostanze, precisamente quando i beni minimi non solo sono sufficientemente importanti da non rendere impellente l’esigenza di beni superiori, ma sono anche indispensabili, cosicché la loro rinuncia diviene impossibile. Se è così, però, il criterio esatto di scelta non è il maximin, bensì un principio meno generale, che dice «quando i beni minimi sono irrinunciabili e sono, comunque, sufficientemente importanti da non rendere impellente la ricerca di beni superiori, scegli questi beni». Accolto questo cambiamento, ne deriva una conseguenza molto importante: il principio di differenza può essere abbandonato per un principio di giustizia meno rigoroso.

Come ha messo in risalto Stephen Holmes, il principio di differenza è più radicale del classico principio liberale per cui le differenze sono giustificate se vanno a vantaggio di chi contribuisce maggiormente al benessere generale.18 Il principio di differenza richiede che le uniche differenze giustificate siano quelle che vanno a vantaggio di chi sta peggio. In una scala di benessere da 1 a 10, il benessere di ciascuno è giustificato soltanto se favorisce chi si trova alla decima posizione. Se i numeri 1 possono favorire chi si trova al nono posto, non possono godere di alcuna ricompensa. Ad esempio, in una società dove ci sono disoccupati e disoccupati invalidi, l’unico interesse è rivolto al miglioramento delle condizioni di vita di questi ultimi, mentre si può trascurare la posizione dei disoccupati sani. Un imprenditore che volesse aprire delle nuove aziende per dare nuovi posti di lavoro ai disoccupati sani non avrebbe il titolo per farlo. L’accettazione di una simile regola sarebbe un’arbitraria limitazione tanto per i disoccupati sani, quanto per gli imprenditori. Inoltre,

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come dimostrano gli esempi presentati da John Harsanyi19 la scelta di un simile principio di giustizia favorisce i più disagiati in modo, a volte, assai irrazionale, poiché può concedere loro anche scarsissimi e quasi ininfluenti benefici, a scapito di benefici assai rilevanti per altri membri della comunità.

In realtà, il principio di differenza non è accettabile neppure dall’ottica dell’accettazione limitata del maximin che Rawls stesso esibisce. Se lo scopo della scelta dei principi di giustizia è soltanto quello di assicurare a ciascuno delle condizioni di vita accettabili, indispensabili per la sua vita, e tali da non rendergli necessaria la ricerca di beni superiori, un principio meno radicale di quello di differenza sembra sufficiente. In particolare, è sufficiente un ordinamento che combini il principio dell’uguale libertà e dell’equa uguaglianza di opportunità con il principio dell’utilità media, ponendoli in un ordine lessicale che favorisca i primi due, come accade nella teoria di Rawls. Il criterio dell’utilità media, infatti, garantisce l’efficienza ed il fatto che le ricchezze da distribuire siano portate al massimo. Il principio dell’equa eguaglianza di opportunità garantisce una tale redistribuzione da non consentire differenze eccessive, quindi garantisce a tutti condizioni di vita accettabili. Sono mantenuti in modo sufficiente i benefici del maximin per i meno avvantaggiati, mentre si aprono prospettive migliori per tutti quelli che stanno nei gradini superiori all’ultimo nella scala del benessere sociale. Pensiamo che un simile ordinamento di giustizia risponda nel modo migliore tanto agli scopi che si è prefisso Rawls, quanto a quelli che derivano dalla concezione metaetica esposta nel settimo capitolo.

9.5. Possiamo ritenere ai nostri scopi sufficiente quanto detto sui

principi di giustizia riguardanti il benessere. Ci appresteremo a vedere, più dettagliatamente, come Rawls specifica i contenuti del suo principio della libertà. La libertà viene definita da Rawls semplicemente come l’assenza di vincoli per un individuo nel fare o non fare una determinata cosa. Le libertà fondamentali, secondo Rawls, sono le seguenti. Innanzitutto, la libertà di coscienza. Il filosofo americano pensa che le parti nella posizione originaria non possono che scegliere un’uguale libertà di coscienza. Si tratta di un bene troppo prezioso affinché gli individui nella posizione originaria possano lasciarlo all’arbitrio dell’opinione dominante. In seguito a questa scelta, sarà conforme ai principi di giustizia adottare un ordinamento politico che tuteli la libertà morale, di pensiero, di opinione e di pratica religiosa. La libertà di coscienza può essere limitata soltanto da regole d’ordine che servono a rendere possibile l’effettiva realizzazione di una libertà. La libertà di opinione include la libertà di parola. La libertà di parola non ha la propria realizzazione autentica se a ciascuno è consentito di irrompere nei discorsi pubblici degli altri; evidentemente ci vuole una regolamentazione che consenta a ciascuno un’uguale uso di tale libertà. La limitazione di cui parliamo, però, non include assolutamente i contenuti, ma soltanto le modalità. L’altra limitazione consentita è quella di particolari richieste impellenti di ordine pubblico e sicurezza. Queste limitazioni devono corrispondere al minimo indispensabile. La loro giustificazione è possibile nella posizione originaria. In particolari momenti la piena realizzazione del diritto alla libertà potrebbe compromettere la sussistenza di un ordinamento giusto. Di conseguenza, porterebbe anche alla

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perdita di una grande quantità di libertà. Le parziali limitazioni della libertà quindi sono consentite solo quando servono a tutelare il sistema complessivo delle libertà e le parti nella posizione originaria si accorderebbero razionalmente su questa specificazione. Con le parole di Rawls:

L’unico motivo per negare le eguali libertà è quello di evitare un’ingiustizia ancora maggiore, una perdita di libertà ancora più grande.20

Questa regola deve essere rispettata anche nei confronti degli intolleranti. Anche nei loro confronti, la libertà può essere limitata soltanto quando rappresenta un’autentica minaccia per l’ordinamento stabilito da una costituzione giusta.

Un’altra delle libertà fondamentali è quella dell’uguale partecipazione alla determinazione delle leggi che devono valere per la comunità politica. Questa libertà si manifesta con il diritto di voto attivo e passivo, in base al principio ‘un elettore un voto’, tramite elezioni eque, libere, e regolari. Le libertà riconosciute all’interno di questa famiglia sono, ancora, la libertà di parola, di associazione e di riunione, oltre al diritto all’opposizione leale. Anche questa libertà, come le altre, ha bisogno di alcune limitazioni necessarie per la tutela del sistema complessivo delle libertà. Sono particolarmente importanti le limitazioni al principio ‘un elettore un voto’. Queste limitazioni si hanno quando si pone l’esigenza di una maggioranza qualificata per rendere valida una decisione; in altre parole, quando una decisione, per divenire effettiva, ha bisogno, ad esempio, del supporto della maggioranza dei due terzi dei votanti, invece della maggioranza semplice della metà più uno. È chiaro che in questo caso non tutti i voti hanno un uguale peso, in quanto i voti delle minoranze valgono di più. Tuttavia, la misura è giustificata ogni volta che le decisioni da prendere riguardano altre libertà fondamentali tutelate dai principi della giustizia. È chiaro che, ad esempio, dall’ottica dei principi stabiliti nella posizione originaria non è consentito prendere decisioni con le quali una maggioranza limiterebbe la libertà religiosa di una minoranza. In questi casi, l’individuo nella posizione originaria agirebbe razionalmente se accogliesse una limitazione del diritto alla partecipazione politica, poiché questa limitazione comporterebbe una tutela del sistema complessivo delle libertà. Anche in questo caso, la limitazione deve essere ridotta al minimo indispensabile, poiché la libertà di partecipazione, oltre a essere un diritto, ha anche un grande valore in quanto accresce la stima che gli individui hanno di se stessi e li educa agli affari pubblici, rafforzando così ulteriormente la stabilità e la funzionalità dell’ordinamento basato sui principi di giustizia. Infine, Rawls pone tra le libertà fondamentali anche la libertà rispetto all’arresto e al sequestro arbitrario e quella del possesso di proprietà.

9.6.1. Gli argomenti discussi fino ad ora servono a sostenere l’ipotesi

per cui la proposta di Rawls può essere utilizzata come fondamento ad una stabile cooperazione sociale, in quanto corrisponde agli interessi di ognuno. Cercheremo di rafforzare l’argomentazione richiamandoci alla psicologia morale con la quale Rawls supporta la giustizia come equità. La tradizione di psicologia morale alla quale il filosofo americano si appella è quella di Jean-

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Jacques Rousseau, Kant, Mill e Jean Piaget. L’idea principale di questa tradizione è che

quando la capacità di comprensione giunge a maturazione e le persone sono in grado di rendersi conto di quale sia il loro posto nella società e di accettare il punto di vista degli altri, esse riconoscono i reciproci benefici di cui godono stabilendo termini equi di cooperazione sociale.21

Non c’è bisogno, secondo Rawls, di alcuna educazione morale che faccia sorgere una particolare motivazione morale negli individui. La loro motivazione alla giustizia sorgerà spontaneamente nella misura in cui capiranno che la convivenza in una società caratterizzata da equi termini di cooperazione favorisce il loro bene. Lo sviluppo morale del soggetto è il seguente. Dopo la fase infantile di sviluppo, sopravviene la fase della morale associativa. In questa fase, l’individuo si trova a far parte di determinati gruppi e comincia a sviluppare sentimenti di solidarietà, amicizia e fiducia verso gli altri, sentimenti che sono rinforzati se gli altri associati a loro volta non vengono meno ai loro doveri e ai loro obblighi. L’individuo che ha abbracciato una tale morale associativa tende a provare sentimenti di colpa quando è lui a infrangere i doveri e gli obblighi. La moralità associativa è il passo preliminare alla moralità dei principi, quella caratterizzata dal senso di giustizia.

Una volta che si sono sviluppati atteggiamenti di amore e fiducia, e sentimenti di amicizia e di lealtà reciproca, allora la constatazione che noi e coloro che amiamo godiamo dei benefici di una tale costituzione giusta, stabilita su basi durevoli, tende a produrre in noi il corrispondente senso di giustizia.22

Il senso di giustizia (cioè, l’effettivo desiderio di applicare i principi di giustizia e di agire in base a essi) si manifesterà in due modi. Innanzitutto, ci spingerà ad accettare le istituzioni giuste che presentano benefici per noi e per le persone alle quali vogliamo bene. Inoltre, ci solleciterà ad adoperarci a favore delle istituzioni giuste, o almeno a non ostacolarle. I principi di giustizia non sono soltanto l’espressione di un modus vivendi, bensì sono l’espressione del senso di giustizia degli individui.23 Per Rawls, l’aspetto conseguenzialista e l’aspetto deontologico dei principi di giustizia non solo non si escludono, bensì si supportano reciprocamente. L’individuo finisce con l’abbracciare dei principi di giustizia, perché questi ottimizzano le sue possibilità di convivere fruttuosamente in una comunità. L’accoglimento dei principi, però, garantisce tale convivenza, perché questi vengono interiorizzati dagli individui, finendo con il costituire una motivazione efficace di per sé.

9.6.2. Un altro motivo per il quale la giustizia come equità genera

stabilità è il benefico effetto che esercita sull’invidia, la quale, come constata Rawls, è un problema rilevante per la convivenza sociale, in quanto indebolisce la cooperazione e quindi tutto l’assetto politico. L’invidia è definita come

la propensione a vedere in modo ostile il maggior bene degli altri, anche se il fatto che essi sono più fortunati di noi non toglie nulla ai nostri vantaggi.24

Questo sentimento può essere a tal punto dannoso da portare i soggetti invidiosi ad accettare anche una diminuzione dei propri vantaggi, pur di vedere diminuiti anche i vantaggi degli altri. Secondo Rawls, tre condizioni favoriscono l’invidia. La prima è la sfiducia in se stessi. La seconda è

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l’umiliazione che si avverte nel provare questa sfiducia. La terza è la scoperta che la posizione sociale occupata non consente alcuna possibilità di opposizione alle circostanze favorevoli dei più avvantaggiati. Rawls ritiene che la giustizia come equità sia la concezione che meglio di ogni altra riesce a porre le basi sociali per eliminare le cause dell’invidia. Per quel che riguarda la prima condizione, si può constatare che la giustizia come equità dà uguale dignità a ciascun individuo, in quanto li considera tutti come soggetti morali uguali caratterizzati da un senso di giustizia e dalla possibilità di costruirsi un piano di vita razionale. Non c’è, quindi, alcun motivo per provare sfiducia e, di conseguenza, neppure umiliazione. L’antidoto è dato dal fatto che la giustizia come equità riduce le differenze tra i meno avvantaggiati e gli altri e richiede un’equa uguaglianza di opportunità di accesso alle posizioni di maggior rilievo.

9.7. La teoria liberale di Rawls, con l’emendamento che abbiamo

inserito, può fornire, almeno con una sufficiente dose di approssimazione, il contenuto alla proposta metaetica realista che abbiamo adottato. Rimane da rispondere al quesito di MacIntyre: perché continuano a sussistere divergenze a proposito dei principi di giustizia? La teoria di Rawls, infatti, è stata presentata nel 1971, eppure, non c’è ancora un consenso generale nei suoi confronti. Una spiegazione di questa condizione può essere fornita anche rimanendo nell’ambito della teoria metaetica esposta nel settimo capitolo.

Sono almeno tre le fonti di divergenza che si possono identificare. La prima è la diversità degli interessi tra i vari componenti della comunità. La seconda è l’appello alle intuizioni. La terza è che alcuni apparenti contrasti morali sono soltanto differenze su questioni riguardanti l’applicazione migliore di principi morali condivisi. Iniziamo la nostra analisi dall’ultimo caso.

Prendiamo l’esempio della discussione sull’assicurazione sanitaria svoltasi negli USA qualche anno fa. C’era chi sosteneva la necessità di fornire un’assicurazione sociale per ciascun membro della comunità. C’era chi, invece, sosteneva che ciascuno deve provvedere a se stesso anche in questo campo. Sembra di essere di fronte ad un caso radicale di divergenze riguardanti la teoria della giustizia: lo Stato deve realizzare una redistribuzione, aiutando i più disagiati, oppure no? Invece, non è così. Nessuna delle argomentazioni presentate sosteneva che il fatto che ci siano persone estremamente disagiate è moralmente irrilevante, tale da non porre obblighi di solidarietà ai più agiati. Le argomentazioni tipiche di chi rifiuta l’introduzione dell’assicurazione sociale sostengono che questa comprometterebbe lo sviluppo della ricchezza generale. Essi dicono che evitare di introdurre l’assicurazione sociale favorisce la ricchezza, diminuisce la disoccupazione, e così via, permettendo a ciascun membro della comunità di procurarsi da solo il benessere economico sufficiente a provvedere, con oculatezza, anche ad assicurarsi da possibili imprevisti. Come vediamo, il conflitto non riguarda i giudizi morali, bensì le soluzioni tecniche per applicare una concezione della giustizia condivisa.

Affrontiamo ora le differenze di giudizio che nascono da conflitti di interesse. Abbiamo visto che ogni individuo ha un bisogno di sicurezza sociale, di libertà e di benessere. Però ciascuno vuole massimizzare ognuno di questi beni per sé e non per gli altri. Ciascuno vede ristretta la libertà che ha a disposizione, se accresce la libertà degli altri. Un discorso analogo è possibile

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pure a proposito della distribuzione delle risorse economiche. Ciascuno quindi avrà la tendenza a favorire gli interessi propri, o quelli del gruppo al quale appartiene, contrastando gli interessi degli altri in un ragionevole accordo. A chi adotta questa strategia, si può replicare dicendo che in questo modo si danneggiano gli interessi di tutti, anche di quelli che sembrano avvantaggiati. Abbiamo già citato l’analisi di Mill che mostra come una condizione sociale nella quale una parte della popolazione vive in condizioni di estrema indigenza e una analoga irrimediabile sorte sembra attendere le generazioni future, non possa che provocare gravi conflitti. Un discorso analogo si può fare parlando di libertà. I gruppi che subiscono gravi restrizioni della loro libertà sono una continua fonte di instabilità e conflitto. Non a caso soltanto l’accettazione generale della tolleranza religiosa ha potuto porre fine alle guerre di religione.25 Sembra quindi che la fonte di divergenze della quale stiamo parlando possa essere superata da un’argomentazione razionale che sappia indicare quali sono le basi per una ragionevole cooperazione sociale. Quest’argomentazione si baserà sui tentativi delle discipline storiche di interpretare i fenomeni del passato, per estrarne insegnamenti, dell’economia che tenta di trovare soluzioni adeguate per la produzione di ricchezze, della sociologia che studia i fenomeni riguardanti le collettività, e così via. È pensabile che queste e altre discipline siano in grado di assicurare una capacità di risoluzione dei problemi tali da non rendere adeguate le critiche che MacIntyre rivolge alle teorie contemporanee della giustizia.

Un’altra fonte di disaccordo sulla giustizia è l’appello fondazionalistico alle intuizioni. Le intuizioni morali sono credenze fondamentali, che non sono epistemologicamente giustificate da altre credenze. La verità di un’intuizione appare evidente di per sé, oppure non potrà essere provata in alcun modo. Vi sono filosofi morali contemporanei che hanno l’ambizione di fondare la morale basandosi esclusivamente sulle intuizioni. Riteniamo che proprio una simile ambizione sia la fonte della maggior parte dei disaccordi contemporanei nelle discussioni morali. L’appello alle intuizioni non permette di sviluppare il programma di ricerca che abbiamo esposto poco sopra. Ad esempio, Nozick afferma che le intuizioni morali riguardanti la giustizia parlano a favore dell’assoluto diritto alla proprietà, anche se questo diritto può comportare una condizione di estrema indigenza per alcuni membri della comunità ed una condizione di grave conflittualità.26 I diritti sono inviolabili e nulla può limitarli. Le intuizioni servono per scoprire quali diritti esistono. Di conseguenza, se le intuizioni parlano a favore di una determinata teoria della giustizia, nulla può confutarla. Il problema di questa proposta è che le intuizioni morali divergono in ampia misura tra persone diverse. A contrapporsi a Nozick ci sono filosofi (o anche persone comuni) che pensano che il diritto alla proprietà sia inferiore al diritto di ciascuno ad una vita dignitosa. Poiché, come abbiamo detto, le intuizioni hanno l’ambizione di essere evidenti di per sé, nessuna discussione a loro riguardo sarà possibile. Le divergenze a livello di intuizioni saranno spesso irresolubili. Per ridurre la quantità di divergenze irresolubili è indispensabile trovare una fonte di conoscenza morale diversa dalle sole intuizioni.

MacIntyre ritiene che la sua dottrina presenti il vantaggio di spiegare perché l’appello esclusivo alle intuizioni vada evitato. Come abbiamo visto, le intuizioni morali, per MacIntyre, rappresentano resti di precedenti sistemi

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morali alienati dal proprio contesto. Il programma di ricerca che abbiamo proposto dovrebbe mostrare di disporre, a propria volta, di una spiegazione della necessità di evitare l’esclusivo appello alle intuizioni. Ebbene, tali spiegazioni già esistono e le abbiamo esposte tanto nel capitolo sulle critiche a posteriori al realismo morale, dove si è argomentato che l’epistemologia intuizionista non può aver successo, quanto in quello sul realismo morale a posteriori, dove si è accennato (con il riferimento al metodo dell’equilibrio riflessivo) quale debba essere il parziale utilizzo delle intuizioni morali.

Prima di ritenere esaurito il nostro compito, dobbiamo affrontare ancora una difficoltà. Il primo problema posto da MacIntyre riguarda la difficoltà che il liberalismo ha nel produrre consenso su determinate questioni morali e nello spiegare l’origine di questa difficoltà. Fino ad ora ci siamo dedicati al tentativo di mostrare che non è così, almeno per quanto riguarda i principi di giustizia. Ma MacIntyre indica un’altra difficoltà. Il liberalismo sarebbe una dottrina incoerente, poiché partirebbe dall’affermazione per cui esso avrebbe l’intenzione di assicurare una piena neutralità tra le diverse concezioni morali presenti in una comunità, mentre, in realtà, imporrebbe a tutti i membri della comunità la propria visione. Chi sostiene che è lecito organizzare scuole che educano all’integralismo religioso non potrà realizzare questa sua pretesa. Tutte le scuole, in una società liberale, devono essere votate al multiculturalismo ed educare alla tolleranza (che è limitata, però, se riferentesi agli intolleranti). Anche il liberalismo quindi diviene una tradizione che impone i propri canoni.

Dobbiamo chiederci fino a che punto questa critica colpisca la proposta liberale che abbiamo esposto in questo capitolo. Un’implicazione diretta non è presente, poiché la nostra proposta non parte dall’affermazione che la società giusta sia una società che afferma la neutralità tra diverse concezioni morali. Piuttosto sostiene che è giusta quella società che riesce a promuovere nel modo migliore la felicità di ciascun individuo. Però è anche stato detto che questo fine può essere realizzato soltanto se si riesce a stabilire un ampio consenso e quindi un vasto sistema di cooperazione, offrendo a ciascuno delle ragionevoli opportunità per realizzare i propri fini e le proprie concezioni del bene. Sembra, tuttavia, che questo scopo non sia facilmente raggiungibile. Gli integralisti sarebbero esclusi dall’opportunità di realizzare la proprie concezioni e non potrebbero, di conseguenza, offrire il proprio consenso alla società liberale e, quindi, neppure prendere parte al suo sistema di cooperazione. I conflitti sociali continuerebbero a sussistere come in ogni altro tipo di società, conducendo a tutte le note le conseguenze negative che portano altrove.

Eppure, non è così. È vero che la società liberale stabilisce delle istituzioni pubbliche che rafforzano il multiculturalismo, la multietnicità e la tolleranza religiosa. Tuttavia, a differenza degli altri ordinamenti, lascia a ciascuno la libertà di esercitare nella propria sfera privata il tipo di vita che predilige. Un integralista non può ottenere che i suoi figli siano educati a scuola all’intolleranza e all’esclusività, però, a casa, può esercitare questo tipo di educazione, e può anche promuovere pubblicamente le proprie convinzioni. Il liberalismo quindi propone un modello di vita sociale comunque tale da non portare all’esasperazione chi non lo accetta. Questi soggetti anche se non

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offriranno pieno consenso alla società liberale non saranno costretti ad osteggiarla violentemente. Così come dalle guerre di religione si è usciti scoprendo i vantaggi della tolleranza religiosa, ci sono buone ragioni per pensare che questi soggetti, con l’andare del tempo, comprenderanno i vantaggi della società liberale e addirittura inizieranno a darle anche un pieno consenso. L’opposizione violenta sarà limitata soltanto ai gruppi più fanatici. Anche se non può promuovere allo stesso modo tutte le concezioni morali e quindi non può escludere ogni conflitto e garantire un pieno consenso, il liberalismo è il sistema sociale che può offrire a ciascuno (anche agli intolleranti), almeno in una parte rilevante, le condizioni di esercizio delle proprie concezioni del bene, ridurre i conflitti al minimo e stabilire un sistema di cooperazione sociale quanto più comprensivo, tutelando, in questo modo, in misura accettabile gli interessi di ciascuno.

Possiamo continuare a pensare che il liberalismo sia l’ordinamento politico che meglio si adatta alla definizione di giustizia che abbiamo presentato nel settimo capitolo. Prima di affermarlo in modo definitivo esamineremo la critica che viene mossa dal paradigma repubblicano.

1 Su questo bisogno fonda la propria teoria Hobbes. Vedi T. Hobbes, Leviatano,

Roma, Editori Riuniti, 1982 (Leviathan, Harmondsworth, Penguin Books, 1986). 2 J.S. Mill, Vindication of the French Revolution of February 1848, in J.S. Mill, Collected Works

of John Stuart Mill, Toronto, Toronto University Press, 1963 e segg., vol. XX; Principi di economia politica, Torino, UTET, 1983 (Principles of Political Economy, in J.S. Mill, Collected Works of John Stuart Mill, cit., voll. II-III); Chapters on Socialism, in J.S. Mill, Collected Works of John Stuart Mill, cit., vol. V.

3 J. Rawls, Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, p. 23 (Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993).

4 J. S. Mill, Essay on Representative Government, in J.S. Mill, Collected Works of John Stuart Mill, cit.

5 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 27. 6 Ivi, p. 33. 7 Ivi, p. 117-118. 8 Ivi, p. 28. 9 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 244. Il principio, come viene esposto in questa

formulazione rappresenta un emendamento rispetto alla formulazione iniziale del principio di eguale libertà, come presentato in Una teoria della giustizia.

10 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 255. 11 Ivi, p. 255. 12 Ivi, p. 255-256. 13 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 271-276. 14 H.L.A. Hart, Rawls sulla libertà e le sue priorità, in H.L.A. Hart e J. Rawls, Le libertà

fondamentali, Torino, La Rosa, 1994 (Rawls on Liberty and Its Priority, “University of Chicago Law Review”, 1973, pp. 534-555)

15 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 130. 16 P. Marrone, Principio di differenza e molteplicità interpretativa in John Rawls, “Filosofia

politica”, 1990, pp. 141-142. 17 T. Nagel, I paradossi dell’uguaglianza, cit., p. 49-50. 18 S. Holmes, The Gatekeeper. John Rawls and the Limits of Tolerance, “The New Republic”,

October, 1993, pp. 39-47. 19 J. Harsanyi, Una critica alla teoria di John Rawls, in L’utilitarismo, Milano, Il Saggiatore,

1988, pp. 111-116 (Can the Maximin Principle Serve as a Basis for Morality? A Critique of John Rawls’ Theory, “American Political Science Review”).

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20 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 186. 21 Ivi, p. 377. 22 Ivi, p. 388. 23 Per questo aspetto, vedi P. Marrone, Consenso tacito. Modelli etici nel liberalismo filosofico

americano, Torino, La Rosa, 1996, pp. 63-64. 24 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 434. 25 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 12-13. 26 R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, Firenze, Le Monnier, 1981 (Anarchy, State and

Utopia, London, Basic Books, 1974).

Capitolo decimo

Il repubblicanesimo è un’alternativa al liberalismo?

Discuteremo in questo capitolo la critica al liberalismo che Pettit ha recentemente presentato. La proposta di Pettit intende essere un’alternativa sia al liberalismo sia al comunitarismo e intende recuperare in alternativa ad entrambe la tradizione repubblicana. Si tratta di una critica sistematica, che si basa su una teoria della mente. Il tentativo consiste nel sostenere la critica comunitaria all’atomismo liberale, unita all’accettazione di gran parte della concezione della libertà del liberalismo.

10.1. La relazione tra gli individui e la società può essere analizzata da due punti di vista. Il primo è quello che riguarda la domanda: ‘C’è una forza, oppure regolarità, nella società, che compromette l’immagine degli esseri umani quali esseri intenzionali?’ Questa domanda riguarda il dibattito tra individualisti e comunitaristi. L’origine del dibattito è vista da Pettit nella concettualizzazione dello Stato nell’Europa moderna, realizzata da Hegel e dai suoi seguaci, nello sviluppo di nozioni come quella di ‘cultura’ e ‘tradizione’ e, soprattutto, nelle scienze sociali che si sono concentrate sulle regolarità socio-strutturali (come nella sociologia di Emile Durkheim). La crescita di questa ultima tradizione è connessa, come è noto, al crescente uso di strumenti statistici nelle scienze sociali a partire dal XIX secolo. Le analisi statistiche hanno mostrato l’esistenza di regolarità negli insiemi sociali, le quali sono invarianti rispetto ai cambiamenti che riguardano gli individui. Alcuni ne conclusero che le persone fossero guidate nel loro comportamento da forze simili a quella della gravità.

Il secondo punto di vista rilevante riguarda la domanda: ‘Fino a che punto le relazioni sociali che gli individui hanno gli uni con gli altri sono importanti nella loro costituzione in quanto soggetti ed agenti?’ Il problema riguarda il dibattito tra atomisti ed olisti e cominciò ad essere urgente a partire dagli ultimi due secoli. Alcuni contrattualisti, come Hobbes ad esempio, ritennero che fosse possibile vivere al di fuori di una società e tuttavia possedere tutte le abilità umane intellettuali. Gli olisti come Jean-Jacques Rousseau, Giambattista Vico e Johann Herder sostennero, invece, che il pensiero dipende dal linguaggio e che, poiché il secondo è un prodotto sociale, lo è pure il primo. L’olismo può appellarsi anche a prove di genere diverso, però ciò che è comune a tutti gli appartenenti a questo paradigma è l’affermazione che almeno alcune relazioni sociali costituiscono dei prerequisiti per divenire persone complete. Gli olisti non devono necessariamente dire che tali relazioni sono delle condizioni sufficienti per la costituzione del pensiero, né che siano condizioni necessarie. Possono limitarsi a sostenere che si tratta di condizioni indispensabili in modo contingente, cioè non per tutte le situazioni logiche possibili, ma soltanto in virtù della natura umana così come attualmente è. Tuttavia, secondo Pettit, per l’olista non è sufficiente sostenere che c’è una relazione causale tra il vivere in società ed essere una persona

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capace di pensare; in altre parole, non è sufficiente dire che qualcuno ha dovuto avere dei genitori oppure un insegnante che gli avessero insegnato a pensare per essere capace di farlo. La relazione è, piuttosto, di carattere costitutivo: essere membro di una comunità costituisce la capacità di pensare.

La proposta di Pettit accoglie contemporaneamente una posizione individualistica ed una posizione olistica. Non verranno discusse le conclusioni di filosofia della mente proposte da Pettit. Si porrà, invece, in questione la derivazione che Pettit vuol stabilire della dottrina liberale dall’atomismo, la sua stessa interpretazione del liberalismo e la sua formulazione del repubblicanesimo come un’alternativa al liberalismo.

Esaminiamo come Pettit faccia derivare il liberalismo dall’atomismo e il repubblicanesimo dall’olismo. Entrambe le dottrine attribuiscono un ruolo centrale alla libertà negativa, ovvero alla possibilità data agli individui di perseguire i propri fini senza interferenze. Ma per i liberali, la libertà negativa è soltanto l’assenza di coercizione. Ciascuno è libero nella misura in cui dispone di uno spazio nel quale gli altri non interferiscono. Secondo questa impostazione, la situazione di uno schiavo con un padrone tollerante è una situazione di libertà. Per il repubblicano, invece, questa non può essere intesa come una condizione di libertà. Vivere liberi non vuol dire soltanto vivere privi di coercizione. Vuol dire anche vivere in istituzioni libere, ciascuno è libero nella misura in cui è protetto e sicuro da interferenze coercitive.

Per il repubblicano, si è in una condizione di libertà quando si usufruisce di un’assenza sicura o permanente di interferenza; essenzialmente, la libertà consiste nell’avere una tutela che venga dalla legge e dal costume e che protegga contro ogni sorta di interferenza contingente o probabile, anche se non

necessariamente tale da presentarsi di fatto. Per il repubblicano, la libertà corrisponde alla garanzia che essa sarà rispettata.1

Pettit suggerisce che ciò che conta per i liberali è soltanto l’estensione della libertà e ciò che conta per i repubblicani è la qualità della libertà. Questo è il motivo per il quale il repubblicanesimo richiede dai cittadini più di quanto sarà mai richiesto dai liberali: esige dagli individui che siano virtuosi, allo scopo di dare i loro contributi alla permanenza di istituzioni libere.

La cittadinanza offre protezione e costituisce la libertà nella misura in cui la legge è strutturata, rispettata e applicata e soltanto nella misura in cui, quindi, i cittadini sono essi stessi disponibili allo svolgimento di incarichi pubblici e adatti a comportarsi in modo appropriato quando ricoprono tali incarichi. Ciò vuol dire che la cittadinanza corrisponde alla libertà soltanto in una società di virtuosi.2

Perché l’atomismo conduce al liberalismo e l’olismo al repubblicanesimo? L’atomismo accetta la possibilità logica che un individuo sia una persona completa anche quando vive al di fuori della società. Di conseguenza, quando gli atomisti cercano dei valori che possano essere accettabili per tutti gli esseri umani

si concentrano naturalmente su valori che siano realizzabili non soltanto nella vita sociale, ma anche in condizioni di totale isolamento.3

Poiché, secondo l’atomista, i valori che devono essere articolati sono valori che possono essere realizzati tanto al di fuori, quanto all’interno di una società, i valori connessi all’esistenza delle istituzioni libere non possono essere ritenuti

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fondamentali. La presupposizione banale delle istituzioni libere è l’esistenza di una comunità politica. Quindi la libertà come garanzia non può essere un valore fondamentale per gli atomisti. D’altra parte, la libertà come assenza di coercizione può essere goduta al di fuori così come all’interno di una società. E questa è una concezione della libertà compatibile con l’atomismo.

L’olismo sostiene invece l’impossibilità di persone complete al di fuori della società. Di conseguenza, può accettare come basilari i valori che sono adatti anche soltanto alla vita sociale. Uno di questi valori, secondo Pettit quello fondamentale, è la libertà goduta all’interno delle istituzioni politiche; in altre parole, l’ideale repubblicano. Vi sono alcune ragioni che militano a favore di a questa preferenza. La prima consiste nella maggiore attrattiva di questa concezione della libertà rispetto alla concezione liberale. Intuitivamente, noi pensiamo che la condizione di libertà nelle istituzioni libere è preferibile alla libertà che dipende dalla benevolenza di un despota. Quindi, se non riteniamo di dover formulare dei valori politici che siano adatti a casi di individui isolati, dovremo preferire i valori repubblicani a quelli liberali. Un’altra ragione è rappresentata dagli importanti effetti psicologici che seguono all’accettazione del repubblicanesimo. In primo luogo, il senso di sicurezza. In secondo luogo, il senso di disporre di uno spazio di libertà nel quale l’individuo può fare ciò che vuole, senza preoccuparsi della minaccia degli altri. In terzo luogo,

il senso di non dipendere dalla grazia degli altri e di non essere in debito per la concessione di non-interferenza.4

La terza ragione è che la proposta repubblicana si combina bene con le esigenze di una società pluralistica, poiché può assicurare la neutralità tra culture diverse e diversi sistemi di valore. Un’ulteriore ragione, infine, è la coerenza tra l’ideale repubblicano e le nostre intuizioni riguardanti la politica statale in alcune attività, come , ad esempio, l’educazione ed altre.

10.2. In primo luogo, è discutibile la connessione che Pettit stabilisce

tra atomismo e liberalismo. Pettit immagina la possibilità (atomistica) di un essere umano che vive in completo isolamento e usufruisce della libertà in questa condizione.

Formulata in questo modo la libertà negativa è una proprietà non sociale che può essere goduta anche dall’individuo isolato, anche totalmente solitario. Ovviamente, costruita in questo modo, la libertà negativa è goduta nel modo migliore al di fuori della società, dove non c’è nessuno che possa interferire con l’individuo; il suo sviluppo più valido, si potrebbe dire, è nella libertà che si potrebbe godere alla macchia.5

L’argomentazione di Pettit non è però facilmente sostenibile. L’atomismo si esprimerebbe nelle capacità intellettuali degli individui: un individuo potrebbe sviluppare le proprie capacità anche se vivesse in isolamento completo. Si potrebbe dire che è impossibile sopravvivere – per lo meno come un essere umano normale – al di fuori di una qualche forma sociale per motivi biologico-evolutivi. In questo caso, una delle assunzioni fondamentali di Pettit si rivelerebbe infondata. La possibilità di un individuo completamente isolato non sarebbe autentica. Questo argomento, tuttavia, non sembra un pericolo decisivo per l’argomentazione di Pettit. Ci sono esempi di individui che sopravvivono al di fuori della società e probabilmente il massimo che si può

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dire è che è più confortevole vivere in società che non al di fuori di essa, anche se nel secondo caso è comunque possibile sopravvivere.

Un’altra obiezione può essere formulata nel modo seguente. Possiamo accettare l’assunzione di un individuo che vive del tutto esternamente rispetto alla società, ma, allo stesso tempo, sostenere che i valori politici possono essere applicati soltanto alla società. Anche se ritenessimo che fosse possibile per le persone vivere al di fuori della società, potremmo dire che in questi casi non si applicherebbero valori politici. La morale individuale sarebbe applicabile agli individui che vivono in isolamento, ma i valori politici sarebbero applicabili soltanto in circostanze diverse. Il liberalismo non sarebbe perciò connesso con l’atomismo, semplicemente perché l’argomentazione che mostrerebbe questa connessione dovrebbe usare una nozione di valori politici più ampia di quanto sarebbe plausibile. Tuttavia, forse neppure questa obiezione è decisiva contro Pettit. Egli non è obbligato a pensare a una situazione nella quale qualcuno vive su un’isola e applicare i valori politici a questa situazione. Può essere sufficiente immaginare semplicemente la situazione di qualcuno che vive in una comunità politica e che, avendone l’abilità, desidera isolare se stesso in una certa misura, fino al limite di vivere in un bosco vicino al villaggio, come faceva Mel Gibson in Man without Face. Sembra che tutto ciò che sarebbe richiesto da un simile individuo sarebbe la libertà negativa, almeno secondo l’interpretazione che Pettit ne fornisce. Questo isolamento, però, apre la porta ad un nuovo problema. L’obiezione cruciale contro Pettit è nella distinzione tra la possibilità di fare qualcosa e l’opportunità razionale del farlo. Se l’atomismo è vero, è possibile per gli individui isolare se stessi fino ad un punto estremo e così non avere bisogno di nulla tranne che della non interferenza. Però, è razionale per loro essere totalmente disinteressati nei confronti delle istituzioni politiche che li circondano ed essere interessati soltanto alla quantità immediata di libertà della quale godono? La risposta pare essere negativa. Ammettiamo che l’individuo non abbia bisogno di cooperare con altri individui allo scopo di sviluppare le proprie capacità intellettuali. Non di meno, gli altri individui possono rappresentare una minaccia alla sua libertà e alla sua ambizione di sviluppare le proprie capacità nella direzione che desidera. Quindi, se la libertà negativa è il valore fondamentale per lui, sarà anche razionale che egli la renda sicura per sé. Più in generale, possiamo concludere che sarebbe razionale per gli individui primariamente interessati alla propria libertà negativa sacrificarne una parte allo scopo di godere in condizioni di sicurezza della parte rimanente – mentre se non lo facessero, rischierebbero di perderla del tutto –. Riteniamo che questo possa essere mostrato tanto seguendo il criterio maximin, quanto applicando la razionalità bayesiana. Se questo è vero, però, l’argomento di Pettit ha dei difetti. L’accettazione dell’atomismo, del radicalismo e della libertà negativa non sono sufficienti per fondare il liberalismo. È necessario pure aggiungervi la razionalità dell’accoglimento del liberalismo, cioè la dottrina della libertà come non interferenza.

10.3. Fino ad ora si è assunto che l’interpretazione che Pettit dà del

liberalismo sia plausibile e che la sua nozione di repubblicanesimo sia un’alternativa al liberalismo. Cercheremo di mostrare che questo concetto di liberalismo è gravemente incompleto. Ciò che caratterizza il liberalismo

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secondo Pettit è la nozione di libertà come semplice assenza dell’interferenza. Si tratta di una libertà esclusivamente quantitativa: uno è tanto libero quanta è la quantità attuale di libertà della quale gode. Ma almeno alcuni, e molto rappresentativi, seguaci della tradizione liberale sostengono il concetto di libertà come ‘libertà sicura’ come centrale alla loro dottrina e, conseguentemente, si può agevolmente mostrare che la tradizione liberale non si occupa soltanto dei problemi della quantità della libertà, ma anche della sua qualità.

Iniziamo da un precursore del liberalismo generalmente riconosciuto come tale, Locke, e dai suoi Trattati sul governo.6 Locke segue la tradizione contrattualista nella sua filosofia della politica. La società politica prende stabilmente forma quando un contratto viene formulato per stabilire i principi della giustizia che la governeranno. Se Pettit ha ragione nella sua interpretazione del liberalismo questo contratto dovrebbe venire formulato soltanto allo scopo di assicurare ad ogni individuo la non interferenza. È questo vero? Non è così. Le persone che vivono in una società pre-politica sono per Locke molto diverse dall’immagine presentata da Hobbes. La condizione pre-politica non è, infatti, necessariamente una condizione di guerra. Può anche essere una condizione di persone libere; si veda, a questo scopo, il paragrafo 19 del secondo Trattato sul governo. La libertà come non interferenza è non soltanto un diritto come viene detto nel paragrafo 4, che, però, è privo di applicazione. Essa può essere goduta anche nella condizione pre-politica. Il contratto sociale viene stipulato e, conseguentemente la società politica ha origine, allo scopo di rendere la libertà più sicura di quanto sarebbe se ciascuno dovesse occuparsi da solo della tutela dei propri diritti, come viene detto esplicitamente da Locke nel paragrafo 123. Questo è il motivo per il quale non ogni forma di governo viene ritenuta valida. Locke rifiuta lo Stato assoluto, poiché rende la libertà dipendente dall’instabile volontà di una singola persona, come viene detto nei paragrafi 13, 22, 91, 137. È vero che entrare in una società politica può ridurre alcune libertà, poiché l’individuo deve accettare, ad esempio, le decisioni della maggioranza. Tuttavia, il godimento della libertà diviene più sicuro e ciò costituisce la legittimazione della transizione dallo stato di natura alla società politica.

Pettit stesso ammette che Locke a volte parla della libertà intesa come libertà sicura. Si deve dire, invece, che, essendo il contratto sociale un aspetto centrale dell’argomentazione di Locke ed essendo la sicurezza della libertà una delle sue legittimazioni fondamentali, la sicurezza della libertà è un aspetto centrale e non marginale dell’argomentazione del filosofo inglese.

Passiamo ora a Mill. Si tratta di un pensatore che sicuramente è classificabile come liberale. È vero che il problema principale del suo famoso saggio On Liberty7 è la tutela della libertà come non interferenza. Però, non si può leggere questo saggio separatamente dai suoi saggi sulla democrazia, come il Saggio sul governo rappresentativo8 e Sulla ‘Democrazia in America di Tocqueville’.9 Il problema centrale di questi scritti è come rendere la libertà sicura. La ricetta offerta da Mill è di costruire la democrazia come forma sociale assieme alle istituzioni democratiche. Queste istituzioni avrebbero due effetti benefici: una protettiva e l’altra educativa, rendendo le persone sufficientemente virtuose per preoccuparsi delle esigenze della libertà. La possibilità di godere della libertà

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con un despota benevolo non viene mai presa in considerazione da Mill, tranne quando Mill considera le fasi più retrograde dello sviluppo storico di un popolo. Secondo Mill, le istituzioni democratiche sono necessarie per rendere la libertà sicura. Si può concludere, perciò, che Mill non si occupa soltanto della libertà come non interferenza.

Passiamo, infine, a Rawls. È vero che la sua prima formulazione del principio di libertà si concentra sulla quantità della libertà:

Ogni persona ha un eguale diritto al più esteso sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti.10

Tuttavia, come si è precedentemente visto, nella formulazione più recente del principio, Rawls opera un cambiamento di fondamentale importanza per la nostra discussione. Infatti,

Ogni persona ha un eguale diritto a un sistema pienamente adeguato di eguali libertà fondamentali che sia compatibile con un sistema di libertà per tutti.11

Ciò che è certo è che la nuova formulazione implica un interesse primario per la qualità della libertà piuttosto che per la sua quantità. Un sistema di tutela delle libertà è preferibile, non perché protegge una maggiore quantità di libertà, ma perché protegge uno schema adeguato di libertà. Questo non è ancora sufficiente per affermare che il cambiamento implichi uno spostamento di attenzione verso la sicurezza della libertà. Per farlo, però, basta vedere l’elenco delle libertà da tutelare, comprese nel principio di giustizia. Si tratta della libertà di pensiero e della libertà di coscienza; delle libertà politiche e della libertà di associazione, come pure le libertà specificate dalla libertà e dall’integrità della persona: i diritti e le libertà tutelati dal governo della legge (Rule of Law). È importante che le libertà politiche entrino nell’elenco delle libertà fondamentali. Si vede così che per tutelare la libertà non è sufficiente il semplice fatto di goderla attualmente; è importante che sia garantita istituzionalmente, come risulta dalla rilevanza attribuita alle libertà politiche, le quali proprio per questo motivo sono inserite nella lista delle libertà fondamentali. Non si può dire che tale inclusione avvenga per aumentare la quantità complessiva delle libertà, poiché non è questo il criterio stabilito dal primo principio dei giustizia. Vi trovano, piuttosto, posto in virtù della loro propensione ad assicurare le altre libertà degli individui in una comunità politica, anche se la loro presenza, aumentando la sicurezza, finisce con il ridurne la quantità.

Ciò che pensiamo si possa accogliere della proposta di Pettit, alla luce della concezione metaetica esposta nel settimo capitolo, è la sua concezione della libertà: soltanto la libertà sicura può garantire una stabile cooperazione sociale. Questa concezione, però, è già presente in maniera adeguata nella tradizione liberale.

1 P. Pettit, The Common Mind, Oxford, Oxford University Press, 1993, p. 224. 2 Ivi, p. 312. 3 Ivi, p. 223. 4 P. Pettit, Liberalism/Communitarianism: MacIntyre Mesmeric Dichotomy, in J. Horton, e S.

Mendus (a cura di), After MacIntyre, cit., p. 197. 5 P. Pettit, The Common Mind, cit., p. 316.

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6 J. Locke, Trattato sul governo, Roma, Editori Riuniti, 1984 (Two Treatises of Government,

Cambridge, Cambridge University Press, 1960). 7 J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 1981 (On Liberty, in J. S. Mill,

Collected Works of J.S. Mill, cit., vol. XVIII). 8 J. S. Mill, Essay on Representative Government, in J.S. Mill, Collected Works of J.S. Mill, cit. 9 J.S. Mill, Sulla “Democrazia in America” di Tocqueville, Napoli, Guida editore, 1971

(Tocqueville on Democracy in America, in J.S. Mill, Collected Works of J.S. Mill, cit.). 10 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 215. 11 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 244.

Capitolo undicesimo Applicazioni Questo capitolo sarà dedicato ad un tentativo volto a stabilire in quale misura la teoria metaetica presentata, assieme alla teoria della giustizia che si è tentato di derivarne, si applichi ad alcuni dei problemi del dibattito politico corrente. Due unità tematiche saranno affrontate. La prima riguarda uno dei temi tradizionali del pensiero liberale, cioè il decentramento del potere; nel caso specifico si parlerà di decentramento del potere nella forma vincolata agli organi di potere locale. La seconda affronta il problema che riguarda la giustificazione di diritti specifici per le minoranze etniche e culturali.

11.1. Nell’affrontare il primo problema ci riferiremo ad alcuni classici del liberalismo. Secondo alcune definizioni tradizionali, come viene messo in risalto da Holmes, il concetto di ‘democrazia’ assume due significati. Con il primo si indica l’aspetto sociale della democrazia, cioè le sue caratteristiche di ordinamento ispirato all’uguaglianza sociale. Con il secondo si fa riferimento all’aspetto politico, cioè si indica un ordinamento nel quale i governanti sono responsabili di fronte alle maggioranze elettorali.1 È evidente da queste definizioni che nulla implica che la democrazia debba esaltare la libertà. Al contrario, al centro del dibattito liberale classico sulla democrazia c’è l’idea che questa si possa realizzare tanto nella libertà, quanto nell’autoritarismo. La democrazia, nel suo significato politico, è semplicemente il governo del maggior numero. Il maggior numero può decidere di ignorare i diritti fondamentali del minor numero. Può, inoltre, concedere troppo potere agli organi centrali. In questi casi si presenterà il problema della libertà. Il vero problema della democrazia, non appena essa comincia a prendere piede, non è la tutela stessa della democrazia, in quanto non appena comincia a nascere diviene un processo inarrestabile. Come venne notato da Alexis de Tocqueville nel secolo scorso:

La democrazia rassomiglia alla marea che monta: essa non indietreggia se non per ritornare con più forza sui suoi passi, e dopo qualche tempo ci si accorge che tra queste fluttuazioni non ha mai cessato di guadagnare terreno.2

Il problema autentico della democrazia è come farla nascere e crescere nella libertà, piuttosto che nella tirannide. Lo stesso Tocqueville, che riteneva inarrestabile il suo sviluppo, teme la possibilità del sorgere di un nuovo tipo di tirannide nella società democratica.

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria.

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Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite.3

Qual è la medicina contro questi possibili mali della democrazia? A questa domanda hanno voluto rispondere Tocqueville stesso e l’altro grande liberale suo contemporaneo, Mill. La risposta è semplice: esercitando la libertà, ovunque possibile, in particolare educando lo spirito della libertà nelle istituzioni politiche. Questo non sarà possibile in uno Stato centralizzato, che voglia esso stesso occuparsi delle faccende dei propri cittadini, limitare le loro iniziative, controllare le loro ambizioni, e risolvere i loro problemi in nome loro, invece di affidare agli stessi cittadini l’onere di essere guardiani di se stessi.

Con ciò arriviamo al tema di questa sezione. Una delle medicine contro la degenerazione antiliberale dello Stato moderno è offerta, sicuramente, dal decentramento dell’amministrazione, affidando vasti poteri agli organi di potere locale. Diamo ancora una volta, la parola a Tocqueville, che parla dell’importanza che i comuni hanno per l’educazione dei cittadini.

Proprio nel comune risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali sono per la libertà quello che le scuole primarie sono per la scienza: esse la mettono alla portata del popolo e, facendogliene gustare l’uso, l’abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali una nazione può darsi bensì un governo libero, ma non ha ancora lo spirito della libertà. Le passioni passeggere, gli interessi del momento, il caso possono darle le forme esteriori della libertà, ma il dispotismo respinto nell’interno del corpo sociale, ricompare presto e tardi alla superficie.4

Perché un’importanza così ampia è attribuita agli organi locali, intesi come soggetti autentici della politica? La risposta è la seguente. Gli Stati rappresentano comunità politiche molto ampie. In queste comunità, la partecipazione politica, tranne che per pochissimi cittadini, non può che esercitarsi indirettamente, soltanto con il voto attribuito ai rappresentanti parlamentari e, anche così, molto saltuariamente. Con le parole di Mill:

Un atto politico da compiersi solamente una volta in diversi anni, ed al quale il cittadino non sia stato giorno per giorno menomamente preparato, non migliora di certo il suo intelletto e le sue qualità morali; ora, se i cittadini non vengono incoraggiati ad assumersi collettivamente quell’attività sociale prima curata dalle classi favorite, il governo centrale avocherà a sé non solo l’intera amministrazione sociale, ma molti di quei compiti che vengono adempiuti da individui o associazioni.5

Inoltre, le questioni del governo statale sono spesso troppo distanti dagli interessi quotidiani e, in quanto tali, non adatte a sviluppare l’interesse alla partecipazione negli affari pubblici. La partecipazione dei cittadini all’amministrazione locale è possibile in misura ben più larga. Ecco, allora, che la concessione di poteri più vasti a questi organi favorisce una partecipazione politica in grado di elevare la coscienza degli affari comuni, la competenza nella deliberazione politica e la capacità dialettica.

Il governo centrale quale rapporto dovrebbe avere con gli organi locali? Nella maggior parte dei problemi, il governo centrale dovrebbe limitarsi a fornire informazioni, consigli, e stabilire le regole politiche generali (che nello Stato liberale sono soltanto quelle della tutela delle libertà fondamentali e del benessere dei cittadini). L’idea centrale di Mill, a proposito dei rapporti tra

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Stato e organi dell’amministrazione, è: realizzare il massimo decentramento del potere che non danneggi l’efficacia dello Stato e centralizzare soltanto le informazioni che il potere centrale deve raccogliere dalla periferia, per poi diffonderle alla periferia stessa. Un rapporto così concepito tra potere centrale e organi locali favorirà il dialogo tra il governo e cittadini, non più persi in una massa troppo numerosa, ma partecipi in organi intermedi. L’autonomia locale non soltanto incrementa l’educazione liberale dei cittadini, ma li aiuta anche ad assicurare il retto funzionamento dell’aspetto protettivo della democrazia. La democrazia, infatti, ha il suo ruolo principale proprio nella tutela dei diritti dei cittadini (seppure, le garanzie che essa offre non sono assolute, come abbiamo visto).

La democrazia, idealmente, ha il compito di affidare il potere sovrano alla popolazione, in modo che essa non debba subire le prevaricazioni dei governanti. Nella pratica politica, però, questo ideale incontra molte difficoltà. Un motivo è la grande concentrazione di attività svolte dallo Stato, che rende impossibile ai cittadini controllarlo. Un altro motivo è che la comunità politica statale è troppo grande e quindi il peso specifico di ogni cittadino e di organizzazioni che non siano i grandi partiti o le grandi associazioni sindacali è quasi inesistente. Il decentramento del potere statale otterrebbe il doppio effetto di diminuire la portata di entrambe queste difficoltà. Da un lato è più facile, per i cittadini seguire e controllare gli organi di potere locale, a loro più vicini. Dall’altro lato, gli organi locali divengono istituzioni intermedie, ed esse stesse possono porsi nel ruolo di guardiani nei confronti dello Stato. Infine, gli organi di amministrazione locale si possono porre nel ruolo di intermediari tra lo Stato ed i cittadini, altrimenti troppo distanti. Possono, soprattutto, assumere la funzione di portavoce dei problemi dei cittadini nei confronti dello Stato.

Il tema che stiamo indagando in queste sezioni è particolarmente importante. È stato rilevato da molti studiosi del totalitarismo che una caratteristica di questa particolare forma di governo dispotico della società di massa è quella di porre i cittadini in rapporto diretto con la leadership politica. Questo rapporto diretto regala ai cittadini l’illusione di una partecipazione attiva alle decisioni politiche. Li priva, però, della partecipazione attiva stessa. La miglior medicina contro la degenerazione totalitaria della democrazia è l’istituzione di organi intermedi, in grado di mitigare il potere del governo e di servire da supporto ai cittadini nei loro rapporti con lo Stato. L’autonomia locale quindi ha un ruolo protettivo, oltre che educativo. Un’altra funzione che assume è quella di tutela delle differenze. Nelle società contemporanee, le differenze tra gli individui sono notevoli e ritenute rilevanti. Si tratta di differenze sociali, etniche, religiose, biologiche, e differenze nelle concezioni morali che convivono all’interno delle stesse comunità politiche. È ovvio pensare che anche le diverse regioni componenti un qualsiasi Stato siano portatrici di differenze notevoli, spesso trasversali rispetto all’appartenenza etnica e, comunque, dipendenti dalla tradizione, dalla storia e dalle caratteristiche geografiche di ciascuna regione. Come deve agire lo Stato di fronte a queste differenze?

Come accade quasi sempre, anche qui ci troviamo di fronte a due proposte alternative. Si può voler annichilire le differenze, sostenendo che sono portatrici di instabilità e debolezza della comunità politica. Chi

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imboccasse questa direzione potrebbe dire che le differenze religiose, etniche, linguistiche, regionali, provocano continui conflitti, sino ai più tragici, o almeno indeboliscono la comunità politica nel suo insieme. Allora, remota causa, removetur effectus, eliminiamo le differenze e vivremo in pace, comunque, con uno Stato più efficiente!

Questo modo di pensare può avere due motivazioni molto diverse. Una che potremmo definire maligna, che è quella del semplice desiderio di dominio. Il ragionamento esposto non avrebbe il fine di consolidare una pacifica convivenza politica, ma sarebbe soltanto una copertura per ben altre ambizioni: sottomettere (e, alla fine, annichilire) chi non appartiene ad un gruppo particolare. Gli argomenti che si appellano alla pacifica convivenza sarebbero soltanto un inganno. Il ragionamento potrebbe, però, essere anche sincero e animato da buone intenzioni. Si può pensare che, veramente, le differenze provocano conflitti e indeboliscono l’efficacia dello Stato e che quindi bisogna affidare ogni potere ad un potere centrale, affinché esso deliberi sulla religione, sui valori culturali e sulla sfera intellettuale dei cittadini.

Nella replica ai sostenitori del monolitismo ci appelleremo a due tipi di argomenti che fanno parte del tradizionale arsenale del pensiero liberale. Il primo argomento fa ricorso alle vicende storiche dell’Europa occidentale. Come abbiamo già visto discutendo Rawls, se è vero che le differenze religiose, etniche, ecc. possono essere cause di conflitti, è anche vero che proprio il liberalismo possiede i mezzi per affievolirli. L’Europa ha saputo uscire dal periodo tragico delle guerre religiose, soltanto quando ha abbracciato il principio della tolleranza. L’insegnamento che si può trarre da questo fatto è molto importante, poiché dimostra che la sussistenza di differenze in un corpo politico è un fenomeno in gran parte incontrollabile. Volerle sopprimere conduce, molto spesso, soltanto a conflitti irriducibili. L’approccio più valido alle differenze quindi deve essere quello dell’adozione di una politica liberale e tollerante, che unica può affievolire, se non sempre eliminare, i conflitti nella comunità politica.

Questo insegnamento può essere ritenuto valido anche a proposito del tema che più ci interessa in questo capitolo, quello dell’autonomia locale. Possiamo dire, coerentemente con ciò che si è venuto esponendo, che la convivenza in uno Stato che tollera differenze culturali, di tradizioni, ecc. tra le sue diverse regioni, sarà più probabile e quindi sarà anche più probabile la stabilità dello Stato intero, se si rispetteranno le differenze locali in uno spirito di tolleranza. Non si vede come questa tolleranza, indispensabile alla convivenza pacifica, possa essere instaurata senza un sufficiente spazio alle autonomie locali. Private di questa condizione, le regioni periferiche di uno Stato si sentiranno vittime di imposizioni ingiuste e quindi saranno votate all’antipatia verso il governo centrale. La centralizzazione accentuerà i conflitti, invece di indebolirli, e renderà lo Stato meno efficace, invece dell’inverso.

Un altro insieme di argomenti a favore dell’autonomia locale è invocato da coloro che sostengono che le differenze non solo non indeboliscono una comunità politica, bensì hanno proprio la capacità inversa, quella di rafforzarla. Nell’esporli ci riferiremo alla classica trattazione del problema offerta da Mill.6

Le differenze sono, secondo Mill, sempre preziose. Egli si riferisce soprattutto a differenze intellettuali e di opinione. La sua difesa delle differenze

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di opinione è la seguente: 1. L’opinione contestata potrebbe essere vera; di conseguenza, annichilirla vorrebbe dire privare l’umanità di una parte di verità. 2. L’opinione contestata potrebbe essere falsa; però, proprio l’evidenza della sua falsità ci aiuta a percepire la veridicità della nostra opinione, che se non si fosse confrontata con l’opinione falsa sarebbe soltanto un pregiudizio, seppure casualmente raffigurante una verità. 3. La situazione più probabile e più frequente si ha quando ciascuna delle opinioni in conflitto contiene una parte di verità; un progresso nella ricerca della verità sarà raggiunto con la sintesi delle diverse opinioni; questa sintesi però è possibile soltanto se le opinioni possono confrontarsi liberamente.

Come trasporre l’argomento di Mill nella difesa delle autonomie locali? Il presupposto è che regioni diverse siano portatrici di tradizioni diverse quindi di codici culturali diversi. Di regola, è difficile parlare di tradizioni culturali come portatrici di verità. Però possiamo dire che le tradizioni culturali diverse siano portatrici di valori artistici, morali, folcloristici, umani ecc. diversi. Possiamo chiederci, quindi, sulla scia di Mill: come possiamo sapere quali sono i valori in grado di arricchire meglio una vita umana se non permettiamo loro di competere in modo equo? Inoltre, il caso più probabile sarà quello di regioni con tradizioni diverse, ciascuna portatrice di valori diversi, tutti ugualmente importanti per una vita umana più ricca. Soffocare una di queste tradizioni vorrebbe dire per lo Stato privarsi di valori in grado di arricchire se stesso ed i suoi cittadini. È difficile capire, ancora una volta, come questo soffocamento possa essere evitato senza la concessione di una vasta autonomia locale. L’autonomia locale quindi è una fonte di arricchimento culturale per tutto lo Stato.

11.2.1. È una convinzione tradizionale che il liberalismo non riservi

alcuno spazio nella propria costruzione teorica per la tutela dei diritti delle comunità, ma soltanto per quei diritti che vengono intesi come rigorosamente individuali. In questa sezione tenteremo di vedere se sia veramente così. Confronteremo poi la conclusione raggiunta con la teoria della giustizia esposta nei capitoli precedenti. Esporremo la proposta di Kymlicka, al quale si deve un recente tentativo di mostrare che non necessariamente il liberalismo deve essere disinteressato ai diritti delle comunità.

Kymlicka distingue tra due tipi di comunità. La comunità politica è quella nella quale gli individui esercitano i propri diritti ed i propri doveri, come è stabilito da una concezione della giustizia.

Dall’altro lato, c’è la comunità culturale, all’interno della quale gli individui formano e rivedono i propri fini e le proprie ambizioni. Le persone all’interno di una stessa comunità culturale condividono una cultura, un linguaggio ed una storia che definiscono la loro appartenenza culturale.7

Le due comunità possono essere coestensive. La comunità politica corrisponde alla comunità culturale nello Stato nazionale. Non è questo il caso nella maggior parte degli Stati moderni, che sono per lo più multiculturali o multinazionali.

Le domande cruciali a questo punto sono: che cosa vuol dire appartenere a una comunità culturale?; che cosa segue dal fatto che persone diverse appartengono a comunità culturali diverse? All’interno di una dottrina

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liberale si tratta di quesiti cruciali per il problema del rapporto tra il singolo e la comunità. La soluzione non è per nulla semplice. Vi sono casi di comunità minoritarie che sono riuscite a sopravvivere grazie a forme di tutela che sembrano scontrarsi con quella che sembra essere la dottrina liberale dei diritti individuali. A queste comunità è stato concesso di formare delle giurisdizioni particolari, all’interno delle quali sono stati ristretti i diritti alla mobilità, alla proprietà e al voto ai non appartenenti alla comunità. Kymlicka indica esempi di questo tipo in Canada, Nuova Zelanda, Australia, Belgio e Svizzera. In questi paesi i cittadini non sono inglobati negli Stati come individui, bensì consociativamente, come membri dell’una o dell’altra comunità culturale. I liberali potrebbero opporsi a questi provvedimenti, ma un simile atteggiamento non è privo di difficoltà. Proprio simili provvedimenti sono riusciti a tutelare la sussistenza dei gruppi minoritari e a offrire una sufficiente stabilità politica, il che non rende agevole contestarli.

Per risolvere il problema è necessario andare alla sua radice. La difficoltà sembra derivare dal fatto che il liberalismo è una dottrina individualista, una dottrina che attribuisce un uguale diritto morale a ciascun cittadino. Alle comunità in quanto tali non viene attribuito alcun diritto. Le esigenze delle comunità non possono competere in modo serio con i diritti individuali, poiché non possiedono alcun titolo di per sé, ma soltanto titoli derivati. La conseguenza di queste premesse sembra essere che il liberalismo debba attribuire diritti senza differenziare le persone sulla base dell’appartenenza etnica o razziale.

Kymlicka ritiene che la discussione sia condotta in modo sbagliato. Il problema principale sta nel fatto che l’argomentazione viene vista dall’ottica del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi. La prospettiva giusta, invece, è di considerare il problema come un conflitto tra diversi tipi di diritti individuali.

Alle persone si deve rispetto in quanto cittadini e in quanto membri di una comunità culturale. In molte situazioni i due momenti sono perfettamente compatibili e possono coincidere. Ma nelle società culturalmente pluralistiche, una diversità nei diritti alla cittadinanza può essere necessaria per proteggere una comunità culturale.8

Il liberalismo nella maggior parte dei casi ha rivolto l’attenzione a soltanto uno degli aspetti del dilemma: quello che riguarda i diritti dei cittadini. Il risultato di un tale atteggiamento è di danneggiare le comunità minoritarie, con la conseguenza di ridurre l’intera comunità politica ad un’unica appartenenza culturale. È tempo, secondo Kymlicka, di rivedere il ruolo dell’appartenenza culturale all’interno della dottrina liberale.

A questo scopo bisogna dimostrare due cose. La prima è che l’appartenenza culturale ha nel pensiero liberale un ruolo molto più importante di quanto sia riconosciuto esplicitamente. La seconda è che i membri delle comunità minoritarie possono incontrare dei disagi particolari nel tutelare il valore dell’appartenenza culturale. Una volta dimostrate queste due affermazioni, Kymlicka ritiene che sia facile indicare pure che gli stessi argomenti presentati nel paradigma liberale a favore dell’uguaglianza di risorse all’interno dello Stato nazionale possono essere esibiti per garantire una posizione speciale alle minoranze all’interno degli Stati multiculturali.

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Nel paradigma liberale, la libertà ha un ruolo di primo piano, poiché è un mezzo per tutelare la dignità ed il rispetto di sé che hanno i diversi individui. Questo ruolo le viene attribuito in quanto non è solo l’espressione della possibilità degli individui di agire seguendo le proprie motivazioni, ma è anche un prerequisito alla possibilità degli agenti di scegliere un modo di vivere, un insieme di fini e valori, come pure di giudicare quelli che attualmente possiedono. Questa scelta, però, non viene fatta nel vuoto, ma dal punto di vista di una tradizione culturale. In altre parole, l’individuo per esercitare una scelta tra diversi modi di vivere deve già disporre di uno sfondo culturale sulla base del quale forma i propri giudizi. Per un individuo privo di appartenenza culturale la libertà diviene vuota. La conseguenza è che l’importanza dell’appartenenza culturale è tale da attribuirle un posto tra quelli che sono considerati i beni principali, i beni che vanno tutelati da diritti.

L’argomentazione non è ancora sufficiente per fondare la tutela dei diritti specifici per le minoranze culturali. Se è vero che per ciascuno un’appartenenza culturale è indispensabile per poter esercitare la scelta di un modo di vivere, non è stato mostrato che è necessaria l’appartenenza a un particolare contesto culturale. Un appartenente ad una cultura minoritaria potrebbe essere privato della propria cultura originaria e assimilato dalla cultura maggioritaria senza che ciò provochi particolari danni per lui. La nuova cultura costituirebbe lo sfondo delle sue scelte. Parlando degli appartenenti alle culture minoritarie si potrebbe concludere che

noi realizzeremmo i nostri legittimi doveri, rispettando il bene primario dell’appartenenza culturale, facilitando la loro assimilazione in un’altra cultura.9

Il problema è che trasferire l’identità di un individuo da una cultura ad un’altra non è una cosa agevole quanto sarebbe necessario alla plausibilità di questo argomento. Le persone hanno la tendenza a resistere per mantenere la propria appartenenza culturale. Di conseguenza, tutelare l’appartenenza culturale attuale di una persona e facilitarne l’assimilazione in un’altra cultura non sono opzioni di eguale peso. Al contrario, l’esperienza ha rivelato spesso che i tentativi di assimilazione forzata hanno portato a risultati tragici.

Ma perché diviene legittimo favorire i diritti specifici delle minoranze anche quando si scontrano con i diritti di uguale cittadinanza? La domanda può essere formulata anche nel seguente modo: perché, se usualmente si ritiene che tutto vada bene quando si assicura un’equa competizione tra gli individui, non si adotta lo stesso atteggiamento quando si parla dei diritti delle minoranze? Non è forse vero che alle culture minoritarie viene consentito, nell’ambito di una teoria liberale classica, una libera competizione con le altre culture e che, se soccombono, non c’è in questo loro insuccesso nessuna differenza di principio con l’insuccesso di chi ha meno fortuna nella competizione sul mercato? La dottrina liberale è disposta ad accettare le differenze di benessere che si creano tra le persone in seguito alla libera competizione sul mercato; perché dovrebbe rifiutare questa regola generale quando si parla delle culture minoritarie? Kymlicka invita a tenere presente una distinzione che reputa molto importante: quella tra scelte e circostanze. Le differenze tra persone che sorgono in conseguenza alla libera competizione sul mercato sono differenze dovute alle scelte. Chi ha fatto le scelte più oculate è riuscito a trarre i maggiori profitti. Le

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differenze che si stabiliscono tra culture minoritarie e culture maggioritarie sono di un genere diverso. Non dipendono dalle scelte degli appartenenti ai gruppi. Sono predeterminate alle loro scelte, e di conseguenza, non possono essere ritenute eque allo stesso modo in cui lo sono le differenze stabilite dal mercato.

Le differenze che si sviluppano a causa delle circostanze nelle quali si trovano le persone - il loro ambiente sociale o le loro doti naturali - chiaramente non dipendono dalle loro responsabilità. Nessuno sceglie a quale classe oppure a quale razza apparterrà con la propria nascita, oppure con quali talenti nascerà e nessuno merita di essere svantaggiato dalla presenza di questi fatti. 10

I liberali, per essere coerenti con gli assunti generali della propria teoria, devono affermare che sono necessarie delle compensazioni particolari per gli appartenenti alle culture minoritarie, così come lo sono per gli appartenenti alle classi meno abbienti, per chi è svantaggiato nei propri talenti naturali, ecc., in altre parole, come per chiunque si trovi ad essere disagiato nella competizione sociale indipendentemente dai propri meriti o demeriti. Gli appartenenti alle culture minoritarie non si trovano nella propria condizione in seguito alle proprie scelte, bensì come conseguenza delle circostanze.

Essi possono essere superati nella votazione quando si decide sulla distribuzione di risorse che possono essere cruciali alla sopravvivenza della loro comunità, il che è una possibilità che per gli appartenenti alla cultura maggioritaria semplicemente non esiste. Il risultato è che devono spendere le loro risorse nell’assicurare la sussistenza della loro appartenenza culturale, la quale dà senso alla loro vita. Questa sussistenza, per gli appartenenti alla cultura maggioritaria, è data per scontata.11

La richiesta di diritti minoritari non è, quindi, in conflitto con un’uguale protezione della legge garantita a tutti i cittadini.

Prima di concludere che la garanzia di diritti particolari rivolti alla tutela delle minoranze sia legittima all’interno della struttura della giustizia liberale, Kymlicka deve affrontare ancora un problema. È possibile che una comunità sviluppi al proprio interno una struttura di pensiero e di comportamento intolleranti. Ad esempio, una comunità può abbracciare una particolare religione e ritenere che essa sia una parte fondamentale della sua cultura. Si dovrà concedere a questa comunità di esternare una forte dose di intolleranza verso i membri che seguono in modo soltanto approssimativo questa religione, oppure non la seguono affatto? Ad esempio, uno Stato liberale è costretto ad accogliere le forti limitazioni alle libertà delle donne imposte da alcune interpretazioni della religione islamica? Kymlicka non è dell’opinione che questa sia una conseguenza della sua argomentazione. I diritti specifici delle minoranze sono assicurati perché l’appartenenza culturale è il prerequisito alla possibilità di scelta tra diversi valori, fini e modi di vivere. È quest’ultima a costituire il bene fondamentale da tutelare. Se è così, però, la possibilità di scelta deve essere assicurata pure ai singoli membri della comunità, anche a quelli delle comunità minoritarie. Un individuo deve avere il diritto di potersi orientare verso un modo di vivere diverso da quello che ha ereditato. Le minoranze culturali devono essere tutelate dalle possibili sopraffazioni esterne, però devono sottostare ai fenomeni di evoluzione interna, come tutte le altre comunità.

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Kymlicka è convinto di aver mostrato che una tutela specifica dei diritti delle minoranze culturali è coerente con la dottrina liberale. Questa è un’affermazione che contrasta con quanto tradizionalmente sostenuto dai critici del liberalismo, i quali ritengono che per il liberalismo non è possibile individuare alcun ruolo da attribuire all’appartenenza culturale. Kymlicka tenta di ribattere a questa critica rintracciando il motivo per il quale nel liberalismo sono state assenti le considerazioni sulla legittimità dei diritti specifici delle minoranze culturali. Innanzitutto, va chiarito che questa assenza risulta evidente soltanto nel liberalismo più recente, ossia in quello successivo alla seconda guerra mondiale.

Se guardiamo agli scritti dei liberali anteriori, specialmente a Mill, Green, Hobhouse e Dewey, emerge un’immagine del tutto diversa. Da questi autori viene messa in risalto l’importanza dell’appartenenza culturale per l’autonomia individuale.12

Dopo la seconda guerra mondiale, l’attenzione del liberalismo si è andata rivolgendo ai diritti degli individui. Uno dei motivi che ha portato a un disinteresse per i diritti minoritari è l’abuso che ne era stato fatto negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, in particolare per come l’ideologia nazista strumentalizzava i gruppi minoritari tedeschi che vivevano negli altri stati. Un altro motivo è il rapporto tra bianchi e neri negli USA. Il problema principale dei cittadini di colore in America non è la tutela della loro origine culturale, bensì il loro inserimento paritetico nella vita pubblica, di contro alla segregazione razziale. A questo scopo una legislazione che prescinda dalle differenze che derivano dall’appartenenza a gruppi sembra essere la strategia migliore. Le origini della trascuratezza dei diritti minoritari nel liberalismo sono quindi di carattere pratico e storico, e non derivano da quello che è il suo nucleo teorico. Al contrario, come abbiamo visto nell’argomentazione precedente, Kymlicka è dell’opinione che tale nucleo, assieme ad una visione antropologica per cui gli esseri umani, per esercitare una scelta tra diversi modi di vivere, valori e scopi devono appartenere a una comunità culturale, parli proprio a favore dell’inserimento dei diritti minoritari fra i diritti fondamentali da tutelare. L’errore del liberalismo recente non è stato quello di aver favorito i diritti individuali a danno di quelli collettivi. Un simile conflitto non viene presupposto dall’argomentazione a favore dei diritti delle minoranze culturali. L’errore è stato invece considerare l’appartenenza culturale allo stesso modo di come si considera l’appartenenza ad un club. La posizione va riformulata senza modificare la dottrina liberale, ma soltanto abbandonando la dottrina antropologica che si è accompagnata al liberalismo del dopoguerra.

11.2.2. Come si inserisce l’argomento di Kymlicka nella dottrina della

giustizia che abbiamo esposto nei capitoli precedenti? Una connessione tra questa dottrina e l’esposizione di Kymlicka potrebbe essere stabilita nel seguente modo. Accogliamo la tesi di Kymlicka, per cui l’appartenenza culturale è un bene primario, un prerequisito ad ogni possibilità di scelta. Accogliamo pure l’idea per cui ciascuno ha una forte predilezione al mantenimento della propria appartenenza culturale quale sfondo delle scelte di modi di vivere, valori, ecc. In questo caso, il diritto all’appartenenza culturale diviene un diritto importante come il diritto al benessere ed il diritto alla libertà.

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Non ci sarebbe, allora, nessuna difficoltà ad inserirlo nella teoria della giustizia che abbiamo esposto. Tale diritto diverrebbe indispensabile a garantire una proficua convivenza sociale, allo stesso modo degli altri.

Siamo consapevoli che una simile giustificazione dei diritti minoritari non sarebbe soddisfacente per Kymlicka, poiché egli tenta di mostrare che i diritti umani sono giustificati anche senza fare appello a considerazioni prudenziali. Nella discussione metaetica che è stata esposta in questa ricerca, si è tentato di indicare che il tentativo di giustificazione voluto da Kymlicka non riesce ad avere successo. Accogliendo le considerazioni sociologiche ed antropologiche esposte da Kymlicka, si può mostrare, però, che i diritti delle minoranze culturali godono almeno della stessa giustificazione degli altri diritti fondamentali.

1 S. Holmes, Tocqueville and Democracy, in D. Copp, J. Hampton e J.E. Roemer (a cura

di), The Idea of Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 23. 2 A. de Tocqueville, Antologia degli scritti politici, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 48. 3 A. de Tocqueville, Sulla democrazia in America di Tocqueville, Milano, Rizzoli, 1992, p.

48 (De la democratie en Amerique, Parigi, Gallimard, 1986). 4 Ivi, p. 70. 5 J.S. Mill, Sulla “Democrazia in America” di Tocqueville, cit., p. 110. 6 J.S. Mill, Saggio sulla libertà, cit. 7 W. Kymlicka, Liberalism, Community and Culture, cit., p. 135. 8 Ivi, p. 151. 9 Ivi, p. 173. 10 Ivi, p. 186. 11 Ivi, p. 187. 12 Ivi, p. 207.

Conclusione Questo lavoro ha tentato di mostrare che la proposta naturalistica e realistica ha delle buone possibilità di rappresentare la visione metaetica dominante nel futuro dibattito filosofico. La strategia per riabilitare il realismo, di fronte alle posizioni dominanti nel dibattito nel mondo accademico anglo-americano contemporaneo, si fonda sul tentativo di indicare che il principale argomento antirealista non è valido. Non c’è alcuna ragione decisiva per pensare che i fatti morali debbano essere sui generis. In questa conclusione riassumeremo alcune tesi esposte a favore dell’argomentazione morale realista e indicheremo alcuni dei problemi che ancora devono essere affrontati.

Per realizzare pienamente il programma naturalistico, il dibattito sulla morale dovrà avvalersi di risultati realizzati o da realizzare in alcune scienze specifiche. In particolare, per compiere la riduzione morale naturalistica indicata in questa ricerca, sarà indispensabile riuscire a dimostrare che la natura umana presenta almeno alcuni tratti sufficientemente stabili i quali consentono di dire che esiste un insieme di regole morali che riescono a soddisfare in modo ottimale i bisogni che tale natura presenta. Abbiamo visto che anche alcuni filosofi che sostengono che la natura umana non è data, bensì sarebbe tale da costituirsi con lo sviluppo della storia, ammettono, pur tuttavia, che vi sono dei tratti comuni, presenti in ogni società. In realtà, negare che la preferenza di realizzare i propri scopi sia un fenomeno universale appare improbabile; probabilmente questa negazione costituirebbe una violazione di una verità analitica. Negare che la guerra, la fame, la diffusione di mali incurabili siano ritenuti universalmente dei mali, almeno prima facie, appare altrettanto improbabile. Sembra che, similmente, commetterebbe un errore di tipo analitico anche chi volesse negare che sia una caratteristica umana condivisa pure il dolore nella perdita dei propri cari.

L’ammissione di questi tratti comuni della natura umana non costituisce ancora una vittoria definitiva per il realismo morale naturalistico. Il relativista e l’antirealista possono ancora sostenere che questi aspetti universali sono troppo generali per fondare una morale. Con la teoria della giustizia di Rawls abbiamo indicato una proposta che ci sembra particolarmente promettente nel rispondere alle esigenze del programma realista.

Per mostrare che queste promesse non sono ingannevoli, è necessario indicare ancora che la teoria della giustizia di Rawls può partire da pochissime premesse, equivalenti a quelle non problematiche, accolte pure dai relativisti, per arrivare ad un sistema teorico completo. Abbiamo esposto alcuni argomenti che inducono a pensare che la realizzazione di questo tentativo sia possibile, anche se questo compito è ancora lontano dall’essere compiuto e va oltre a quanto lo stesso Rawls richiede alla propria teoria. Secondo Rawls, la sua è una teoria valida per le società occidentali avanzate, le quali accolgono determinate premesse fondamentali, in particolare gli ideali dell’uguaglianza e dell’autonomia degli individui. Rawls stesso non affronta il problema se la sua teoria della giustizia possa avere un’applicazione più ampia, o, addirittura universale. Per poter dare una risposta a questo quesito la filosofia da sola non può bastare. L’appello ai risultati di varie scienze dell’uomo diviene fondamentale. Questo è un compito che in questa ricerca è stato affrontato in

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modo soltanto sommario, in modo da confrontarsi unicamente con le obiezioni più ovvie, mentre un’analisi più completa viene rinviata a lavori futuri.

Un altro problema è se il modello metaetico esposto possa offrire la base per una riflessione morale completa. In questa ricerca ci siamo concentrati principalmente sulla morale pubblica, quella che riguarda le istituzioni fondamentali della comunità (o, in altre parole, ci siamo occupati soprattutto della giustizia). Abbiamo cercato di indicare alcune ragioni per pensare che almeno una proposta possa fondare dei risultati importanti per il realismo morale, ovvero la teoria della giustizia di Rawls. Questa, però, per ammissione dello stesso autore, ha l’ambizione di occuparsi esclusivamente della struttura fondamentale della società.1 Infatti, tutte le prescrizioni che essa indica, e che abbiamo esposto, con una modificazione, in questa ricerca, riguardano questo aspetto della morale. Non abbiamo affrontato il problema se la riduzione metaetica esposta possa fornire un fondamento per un ragionamento morale di più ampia portata.

La proposta metaetica presentata ha ridotto la morale a un insieme di regole che riescono a garantire in modo ottimale una stabile cooperazione sociale, necessaria a ciascun individuo per la massimizzazione dei suoi interessi. È facile vedere la connessione tra questa proposta ed alcune credenze morali comuni che non riguardano la struttura fondamentale della società. La prescrizione di non mentire riguarda anche la morale privata, eppure è abbastanza agevole vedere che è indispensabile per garantire una stabile cooperazione sociale. Altri problemi morali trovano meno facilmente un modello di ragionamento nella proposta metaetica esposta. La liberalizzazione dell’aborto contribuisce o danneggia una stabile cooperazione sociale? E l’eutanasia? Probabilmente tutti i problemi bioetici presentano le stesse difficoltà. Anche una risposta a questi problemi viene rimandata a ricerche future.

L’ambizione di questo lavoro si situa nel tentativo di indicare come le critiche antirealiste, quando sono formulate a livello soltanto metaetico, non riescono a confutare il realismo. Una soluzione più completa non può che avvenire sul terreno della morale sostanziale e riguarda la possibilità di presentare effettivamente una morale completa che abbia un valore universale.

1 Guy Durand indica la possibilità di applicare la proposta di Rawls anche al di fuori

della struttura fondamentale della società. Vedi G. Durand, La bioetica, Milano, Mondadori, 1996, pp. 66-67 (La Bioétique, Paris, Les Editions du Cerf, 1989).

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