La duplicità del realismo

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Mario De Caro insegna filosofia morale all’Università Roma Tre ed è regolarmente Visiting Professor presso la Tufts University. È stato presidente della Società italiana di filosofia analitica. Ha scritto Dal punto di vista dell’interprete, Il libero arbitrio, Azione e curato Naturalism in Question e Naturalism and Normativity. Si occupa di etica, teoria dell’azione e filosofia della mente.

Nel corso della recente discussione pubblica sulla que-stione del realismo, alcuni commentatori, anche assai au-torevoli, hanno sostenuto che tale questione è obsoleta, speciosa e irrilevante, e che sarebbe tempo di smettere di interessarsene. In questo saggio sosterrò che questa tesi è profondamente errata perché la questione del realismo è filosoficamente ineludibile. Discuterò poi due versioni del realismo filosofico oggi particolarmente diffuse, il realismo del senso comune e il realismo scientifico. Si tratta di con-cezioni tendenzialmente egemoniche, e per questo spesso in conflitto tra loro, ma la maggiore sfida per il realismo filosofico dei prossimi anni sarà cercare di armonizzarle.

1. L’ineludibilità del realismo.

Per comprendere la cruciale rilevanza filosofica del pro-blema del realismo, la prima cosa da notare è che, nono-stante ciò che talora si legge, tale problema non ha la forma «tutto o niente». Detto altrimenti: mai nessun filosofo è stato del tutto realista e mai nessuno del tutto antirealista1. Prendiamo per esempio il cavalier Alexius Meinong, forse

1 Uso il termine «antirealismo» per coprire l’insieme delle posizioni avverse al realismo, tra cui nominalismo, idealismo, fenomenismo, convenzionalismo, relativi-smo e scetticismo.

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il piú fervente tra i realisti: nemmeno per lui un quadrato rotondo poteva esistere. O, dall’altro lato, prendiamo il vescovo George Berkeley, un campione dell’antirealismo quando si trattava della materia, che diventava un reali-sta convintissimo per quel concerneva la mente (in parti-colare quella divina).

In realtà, tutti i filosofi, senza eccezioni, si collocano nell’intervallo tra un ipotetico realismo integrale e un altret-tanto ipotetico antirealismo integrale. Come capita spesso in questi casi, il problema del realismo è questione di grado, perché – al di là delle semplificazioni – ogni filosofo è in par-te realista e in parte antirealista: il problema, allora, sta nel determinare quale sia la giusta dose di realismo da adotta-re. E questo non è certo un compito semplice o irrilevante.

Ma cosa intendono precisamente i filosofi quando di-scutono di realismo? La risposta a questa domanda è chia-ra e netta: dipende. Dipende, in particolare, dal tipo di punto di vista che si adotta nel discutere del tema. Il pun-to di vista piú comune è quello ontologico: e in questo caso l’oggetto del contendere è ciò che esiste. Cosí, ci si può domandare se esistono determinate entità, concrete o astratte (per esempio, le menti disincarnate, i numeri, le streghe o i fatti sociali) oppure determinate proprietà (la rossezza, la bontà o il libero arbitrio) oppure determi-nati eventi (il Big Bang oppure la transustanziazione). O ancora, piú radicalmente, ci si può chiedere se esistano il mondo esterno nel suo complesso oppure il tempo (il pas-sato e il futuro sono reali?) In ognuno di questi casi, si può propendere per il realismo oppure per l’antirealismo: e ciò già mostra quanto la questione del realismo sia articolata e complessa. Ma c’è di piú: perché in realtà quando si di-scute di realismo dal punto di vista ontologico ci si posso-no porre due interrogativi distinti. Ci si può chiedere se

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una determinata cosa esista veramente oppure, conceden-do che esista, ci si può domandare se possa esistere indi-pendentemente dalle menti che la pensano. Per esempio, a proposito degli atomi ci si pone in genere la prima do-manda, ovvero ci si chiede se esistano veramente o se non siano solo utili strumenti euristici; mentre a proposito dei colori (entità la cui realtà fenomenologica è indubbia) ci si pone piuttosto la seconda domanda, ovvero se essi go-dano di esistenza indipendente, là fuori nel mondo, o se invece – secondo l’ipotesi di Galileo, Locke e di molti fi-losofi contemporanei – esistano solo nella misura in cui la mente li proietta sul mondo2.

Tuttavia quando si discute di realismo la prospettiva ontologica non è l’unica rilevante, perché occorre conside-rare anche la prospettiva epistemologica e quella semanti-ca. Nel primo caso, la questione fondamentale è se possa-no esistere fatti per noi inconoscibili in linea di principio: i realisti sostengono di sí, gli antirealisti lo negano. Nel caso della prospettiva semantica, invece, ci si interroga sul tema del significato: per i realisti, il significato di un enunciato è dato dalle condizioni in cui esso è vero; per gli antirealisti (come Michael Dummett), il significato di un enunciato è invece dato dalle condizioni in cui i parlanti sono giustificati nell’asserirlo. Questi due punti di vista hanno conseguenze molto diverse: il realista semantico, per esempio, accetta, e l’antirealista rifiuta, il principio di bivalenza (secondo cui ogni enunciato ben formato o è vero o è falso); e anche le rispettive concezioni della veri-tà sono alquanto differenti.

2 Bisogna notare che quando si discute dell’indipendenza di un’entità non ci si pone però la domanda in termini genetici o causali. È ovvio che il computer davanti a me esiste perché qualcuno dotato di mente l’ha costruito; tuttavia, una volta costruito, il computer esiste indipendentemente dalla mente (diverso è il caso di Amleto, che non può avere nessuna esistenza se nessuna mente lo pensa).

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Questi brevissimi cenni possono bastare a mostrare la centralità della questione del realismo per l’intera storia della filosofia, da Platone ai nostri giorni. Ma allora pro-prio non si capisce di cosa parlino gli autorevoli commen-tatori secondo i quali la questione del realismo è obsoleta e filosoficamente irrilevante. Il problema, naturalmente, non è se sia legittimo essere antirealisti: in molti ambiti certamente lo è e, come detto, tutti i filosofi sono in qual-che misura antirealisti. Ciò che però proprio non si può sostenere è che la discussione sul realismo sia in sé obso-leta e irrilevante: essa infatti è sempre stata e sempre sa-rà al centro di un enorme numero di discussioni filosofi-che cruciali. Anzi, si potrebbe immaginare un utile test di competenza filosofica: «Chiunque dichiari, per orale o per iscritto (preferibilmente su un giornale a diffusione nazio-nale), che la questione del realismo è filosoficamente irrile-vante e/o obsoleta e/o speciosa, è ipso facto dichiarato ina-bile alla disciplina». Non mancherebbero vittime illustri.

2. Realismo del senso comune.

Ogni seria discussione sul realismo riguarda dunque le giuste proporzioni che le concezioni filosofiche dovreb-bero mantenere tra le componenti realistiche e quelle antirealistiche: e questo interrogativo può riguardare sia ambiti particolari (come la morale, la matematica o la re-ligione) sia concezioni filosofiche generalissime. Come detto, però, essere realisti significa soltanto avere una predilezione per il realismo, senza che però tale predile-zione possa mai assumere carattere totalizzante: in ogni concezione filosofica sono sempre presenti, infatti, anche elementi di antirealismo.

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Per comprendere meglio il senso di queste osservazio-ni, è utile mettere a confronto due forme di realismo og-gi molto in voga, ma già presenti nella tradizione classica. Queste due posizioni sono il realismo del senso comune, che riconosce come reali le entità postulate dalle nostre pratiche ordinarie, e il realismo scientifico, che riconosce invece come reali le entità contemplate dalle teorie scienti-fiche. Come si vedrà tra breve, si tratta di due concezioni di segno realistico radicalmente alternative, nel senso che (prese nella loro forma piú pura) ognuna delle due è non-realistica rispetto all’ambito in cui l’altra assume invece un atteggiamento saldamente realistico.

Iniziamo dunque a considerare il realismo del senso comune, una concezione che nel corso della storia ha an-noverato tra i suoi difensori buona parte della tradizio-ne aristotelica e poi Thomas Reid, William James, G. E. Moore, P. F. Strawson e John Austin ma anche, per certi aspetti del loro pensiero, Edmund Husserl, Henri Bergson e Ludwig Wittgenstein. Detto semplicemente, secondo il realismo del senso comune la percezione ci mette in con-tatto con il mondo esterno cosí come esso è veramente, in-dipendentemente dal fatto che noi lo percepiamo. A parte casi particolari – come le illusioni ottiche o le situazioni in cui le condizioni percettive non sono ottimali –, gli ogget-ti osservabili hanno veramente le proprietà che, sulla base della percezione, noi tendiamo ad attribuire loro: e ciò va-le sia per le proprietà primarie (come estensione e forma) sia per quelle secondarie (come colore e odore). In proposi-to è importante notare che secondo questa concezione gli oggetti che noi percepiamo e le loro proprietà non sono ontologicamente subordinati alle proprietà fisiche: non ac-cade, insomma, che le proprietà fisiche che costituiscono gli oggetti debbano dare necessariamente conto di tutte le

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altre proprietà che questi oggetti possiedono. Riprenden-do un esempio caro a Hilary Putnam, consideriamo il caso di una sedia: tale oggetto ha certamente proprietà fisiche (come dimensioni e forma) ma ha anche proprietà di tipo diverso, come per esempio le caratteristiche funzionali e il valore estetico. E non c’è alcuna ragione di pensare, no-ta Putnam, che proprietà di questo genere possano essere identificate con le proprietà fisiche o a esse ridotte. Non si vede, insomma, perché una spiegazione che faccia rife-rimento alle proprietà fisiche della sedia possa illustrare le sue caratteristiche funzionali o il suo valore estetico.

I fautori del realismo del senso comune assumono dun-que che la percezione sia una guida affidabile rispetto alla natura degli oggetti che percepiamo nel mondo esterno e alle loro proprietà. Tuttavia, proprio perché attribuisco-no tanta importanza alla percezione, questi filosofi spesso tendono ad assumere un atteggiamento antirealistico nei riguardi della scienza o, piú precisamente, nei riguardi delle entità non osservabili contemplate dalle teorie scientifiche (come gli elettroni, le radiazioni o i buchi neri). D’altra parte, è innegabile che tali entità esibiscano proprietà del tutto incomprensibili dal punto di vista del senso comune. In proposito, per esempio, il famoso fisico Richard Feyn-man, dichiarava con la consueta schiettezza: «Posso dire con tranquillità che nessuno capisce la meccanica quanti-stica [...] Nessuno sa come sia possibile che [la natura si comporti] in questo modo»3.

Un utile esempio di coniugazione del realismo del senso comune con l’antirealismo rispetto alla scienza è offerto dall’«empirismo costruttivo», la concezione sviluppata da Bas van Fraassen, autorevole filosofo olandese trapiantato

3 Cit. in O. Flanagan e S. Martin, Science and the Modest Image of Epistemology, in «Humana Mente», xii (2012), pp. 123-48; cit. a p. 130.

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negli Stati Uniti. Secondo Van Fraassen, le teorie scienti-fiche che presuppongono entità inosservabili non possono essere considerate come descrizioni vere del mondo, ma solo come utili strumenti epistemici: nel senso che tutto ciò che possiamo sostenere è che esse sono in grado di dare conto dell’evidenza osservabile in quanto producono pre-dizioni sufficientemente corrette. (Detto in termini tec-nici: le teorie che fanno riferimento a entità inosservabili sono, tutt’al piú, «empiricamente adeguate», ma non vere).

Van Fraassen è dunque un antirealista rispetto alla scien-za e il suo «empirismo costruttivo» è una forma di stru-mentalismo. Ma differentemente da quanto spesso accade, il suo strumentalismo non deriva dalla visione empiristica tradizionale, secondo la quale la conoscenza del mondo coincide con la conoscenza dei nostri dati di senso. In Van Fraassen, l’antirealismo scientifico è coniugato piuttosto con il realismo del senso comune, ovvero dall’idea che noi abbiamo conoscenza diretta del mondo osservabile:

L’empirismo costruttivo si accorda perfettamente con una for-ma di realismo del senso comune che è rimasta estranea a buona parte della tradizione empiristica [...] [In questa luce] io assumo che il linguaggio faccia riferimento in modo non problematico ad alberi e montagne, persone e libri4.

L’empirismo costruttivo di Van Fraassen rappresenta dunque una delle piú coerenti espressioni della forma piú pura di realismo del senso comune: la sua concezione limi-ta, infatti, l’ambito del conoscibile a ciò che è direttamente osservabile e, coerentemente, assume una posizione anti-realistica rispetto alla scienza nella misura in cui questa fa riferimento a entità inosservabili. Ma certo Van Fraassen

4 B. van Fraassen, From a View of Science to a New Empiricism, in B. Monton (ed.), Images of Empiricism: Essays on Science and Stances, with a Reply from Bas C. van Fraas-sen, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 337-83.

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non è l’unico a proporre la combinazione di realismo del senso comune e antirealismo rispetto alla scienza. Le filosofie di matrice ermeneutica, per esempio, sono spes-so caratterizzate sia da una pregiudiziale antiscientifici-tà, declinata nel senso dello strumentalismo (anche se, in genere, con molto minore competenza epistemologica di quanto non accada con Van Fraassen), sia da una profon-da, anche se non sempre esplicitata, adesione al realismo del senso comune5.

3. Realismo scientifico.

Come detto, nella sua forma piú pura il realismo del senso comune limita l’ambito delle entità esistenti a quelle osservabili e, conseguentemente, tende a delegittimare le pretese ontologiche della scienza reinterpretandole in sen-so strumentalistico. In questo senso, dunque, il realismo del senso comune è, almeno tendenzialmente, una conce-zione egemonica.

Tendenzialmente altrettanto egemonico, ma in modo speculare, è il realismo scientifico. In questo caso, in no-me della realtà dell’ontologia scientifica si tende a negare che gli oggetti ordinari siano veramente come appaiono al senso comune. Nelle sue espressioni piú risolute, il reali-smo scientifico destituisce dunque di fondamento l’atteg-giamento realistico del senso comune, in base all’idea che

5 Lucida e condivisibile è, in questo senso, l’analisi di Claudio Ciancio: «È indubbio che il tema del senso comune giochi nei pensatori di orientamento ermeneutico, o almeno in alcuni di essi, un ruolo importante, anche se nei loro scritti se ne tratta in modo piut-tosto limitato. Ciò che attrae l’ermeneutica verso la problematica del senso comune è il suo orientamento antirazionalistico e antiscientistico volto all’elaborazione di un pen-siero dell’universale concreto» (Il senso comune nel pensiero ermeneutico, in E. Agazzi (a cura di), Valore e limiti del senso comune, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 153-64).

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le uniche entità che esistono sono quelle contemplate dalla scienza, e forse dalla sola fisica (la piú fondamentale del-le scienze). Parafrasando Protagora, il filosofo americano Wilfrid Sellars ha brillantemente compendiato l’ispirazione fondamentale del realismo scientifico: «Per quanto riguar-da la descrizione e la spiegazione del mondo, la scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono»6.

Nella sua pars construens, il realismo scientifico è evi-dentemente in urto con tutte le interpretazioni antireali-stiche della scienza – come strumentalismo, empirismo, operazionalismo, relativismo e convenzionalismo – ovvero a tutte le concezioni secondo cui: a) le entità inosservabi-li presupposte dalle teorie scientifiche non sono reali e b) le teorie scientifiche che contemplano tali entità, sebbene possano apparire verosimili e siano spesso utili dal punto di vista cognitivo, non sono vere in senso proprio.

Contro le interpretazioni antirealistiche della scienza, i realisti scientifici hanno apportato argomenti di vario ge-nere. Tra questi, uno dei piú discussi è «l’argomento del miracolo», proposto da Hilary Putnam7. In breve, l’argo-mento è il seguente. È assolutamente innegabile che la scienza moderna abbia avuto un enorme successo in ter-mini esplicativi e predittivi; ma un simile successo come può essere spiegato? Per i realisti scientifici, la risposta è ovvia: la scienza funziona cosí bene perché racconta la ve-rità su com’è fatto il mondo naturale – o, almeno, essa of-fre una buona approssimazione alla verità rispetto al mon-do naturale. Ma se consideriamo vero ciò che la scienza

6 W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, in Science, Perception and Reality, Routledge and Kegan Paul, London 1963, p. 173.

7 H. Putnam, What Is Mathematical Truth?, in Id., Mathematics, Matter and Method. Philosophical Papers, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1975, pp. 60-78; cit. a p. 73.

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ci dice, siamo tenuti ad accettare come reali le entità che essa postula, anche quando esse non siano direttamente osservabili. E ciò prova che la miglior spiegazione del gran-de successo della scienza moderna è offerta dal realismo scientifico. Se non fosse cosí – se cioè avessero ragione gli antirealisti e la scienza non ci offrisse (almeno con buona approssimazione) la verità sul mondo naturale – allora il fatto che la scienza funzioni cosí bene, che offra predizio-ni cosí precise e spiegazioni tanto esaustive, diventerebbe un mistero inspiegabile; anzi, per dirla con Putnam, sa-rebbe un vero e proprio miracolo. Per fortuna, però, per spiegare il successo della scienza non c’è nessun motivo di ricorrere ai miracoli: la prospettiva realistica offre, infatti, una spiegazione pienamente soddisfacente.

È importante notare che, dal punto di vista formale, l’argomento del miracolo è una «inferenza alla miglior spie-gazione» – ovvero un’istanza della struttura argomenta-tiva che ci chiede di accettare come vera una determinata spiegazione di un determinato fenomeno in quanto essa è la migliore spiegazione di cui disponiamo in proposito: cosí, nel caso specifico, ci viene chiesto di accettare come vera la spiegazione realistica del successo della scienza in quanto essa è la migliore spiegazione di cui disponiamo per spiegare quel fenomeno8.

Non è sorprendente che gli antirealisti abbiano tentato di confutare l’argomento del miracolo in vari modi9. Tra le critiche piú interessanti, vi è quella sviluppata recen-

8 Sull’inferenza alla miglior spiegazione, cfr. P. Lipton, Inference to the Best Ex-planation, Routledge, London 1991. Esempi di ragionamenti di questo genere non si tro-vano solo in filosofia o in scienza. Sherlock Holmes, per citare qualcuno che di buoni ragionamenti ne sapeva, vi ricorreva assai spesso. Inferire, per esempio, che l’assassino è un uomo grasso perché ha lasciato impronte profonde nella neve vuol dire prendere per vera la miglior spiegazione tra quelle disponibili.

9 Cfr. H. Putnam, Perché non disfarsi del realismo scientifico, in La filosofia nell’età della scienza cit., cap. iv.

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temente da Jack Ritchie, un giovane filosofo irlandese10. Ritchie condivide con la gran parte dei realisti scientifici l’idea, di matrice naturalistica, secondo cui dal punto di vi-sta metodologico la filosofia deve modellarsi sulla scienza, nel senso che essa non può utilizzare metodi di indagine che non siano certificati dalla pratica scientifica (per fare un esempio, gli argomenti trascendentali non dovrebbero avere cittadinanza in filosofia perché non ce l’hanno in scienza). Ma allora, sostiene Ritchie, l’inferenza alla miglior spiegazione è metodologicamente inaccettabile, proprio in quanto non ha cittadinanza nella scienza: non accade, in-fatti, che gli scienziati accettino l’esistenza di entità per le quali non abbiamo prove sperimentali dirette: e a so-stegno di questa sua tesi Ritchie afferma che la comunità scientifica iniziò ad accettare l’esistenza degli atomi solo dopo che J. B. Perrin ebbe verificato sperimentalmente le idee di Einstein sul moto browniano11. Ne segue, conclu-de Ritchie, l’inaccettabilità dell’argomento del miracolo, nella misura in cui questo argomento si fonda su un’infe-renza alla miglior spiegazione.

Cruciale nella critica di Ritchie all’argomento del mira-colo è dunque l’idea che tra i metodi accettati dalla scien-za non vi sia quello dell’inferenza alla miglior spiegazione. Questa idea, però, è errata. In primo luogo, sebbene sia vero che – sotto l’influsso di filosofi come Mach e Duhem e di scienziati-filosofi come Poincaré – nei primi decenni del Novecento molti scienziati aderirono allo strumenta-lismo, è anche vero che ce ne furono altri, non meno au-torevoli, come Ludwig Boltzmann e Albert Einstein che accettarono l’esistenza degli atomi ben prima degli espe-

10 J. Ritchie, Understanding Naturalism, Acumen, Durham 2008.11 Su questo punto Ritchie fa riferimento a P. Maddy, Naturalism in Mathematics,

Clarendon Press, Oxford 1997.

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rimenti di Perrin, e proprio sulla base di inferenze alla mi-glior spiegazione: ovvero sulla base del fatto che, accettan-do l’esistenza di queste entità, si poteva spiegare nel modo piú fruttuoso l’evidenza sperimentale12. In secondo luogo, la storia della scienza è piena di casi in cui l’esistenza di entità e fenomeni non osservabili è stata accettata perché essi erano postulati dalle migliori spiegazioni di determi-nati ambiti fenomenici: e in proposito basterà ricordare il caso della scoperta di Nettuno o l’accettazione da parte di Darwin di meccanismi causali che al suo tempo erano del tutto sconosciuti ma la cui esistenza era implicata dai processi ereditari contemplati dalla teoria della selezio-ne naturale (ci volle molto tempo perché la scoperta del Dna mostrasse quali sono i meccanismi causali alla base dell’ereditarietà). Ritchie dunque è in errore quando af-ferma che l’inferenza alla miglior spiegazione non è un metodo incorporato dalla pratica scientifica. E ciò mostra come anche i filosofi di impostazione naturalistica molto radicale siano pienamente giustificati quando difendono il realismo ricorrendo, come fa Putnam, a un’inferenza alla miglior spiegazione13.

Considerando piú da vicino l’articolazione del realismo scientifico, va notato che questa concezione viene decli-nata in vari modi, dotati di diversi gradi di conflittualità nei confronti del senso comune. Una delle versioni piú comuni – e la piú interessante in questa sede proprio per-ché radicalizza l’ispirazione fondamentale di questa con-cezione – è il cosiddetto «fisicalismo», che è poi l’erede intellettuale del vecchio materialismo (o, piú precisamen-

12 E naturalmente tra i molti scienziati che accettarono l’esistenza degli atomi ben prima degli esperimenti di Perrin si potrebbero ricordare anche Galileo, Newton, Avo-gadro e Rutherford.

13 E poi, naturalmente, si può negare che la filosofia debba vincolare.

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te, delle versioni del materialismo che avevano come loro ambito privilegiato le scienze naturali). La ragione per cui oggi si tende a usare il termine «fisicalismo» per denomina-re concezioni che un tempo si sarebbero dette materialisti-che è che nella fisica contemporanea il termine «materia» ha assunto un senso tecnico, molto lontano da quello del linguaggio ordinario, e della fisica classica che quel senso incorporava. La materia delle origini della scienza moder-na (la materia di Galileo, Cartesio e Newton, insomma) era concepita come solida, estesa, isotropica, inerte, impe-netrabile e ubiqua; obbediva a leggi deterministiche, non poteva trasformarsi in qualcosa di diverso ed era la sola componente del mondo naturale; infine si pensava che, per la sua natura euclidea, essa fosse data intuitivamente al nostro intelletto. Oggi si ritiene invece che la materia esista solo in piccola percentuale rispetto all’antimateria, che si trasformi in energia, che non obbedisca a leggi de-terministiche (almeno a livello subatomico), che coabiti nell’universo con i campi gravitazionali, che non sia iso-tropica e che le sue proprietà non ci siano date intuitiva-mente, ma vadano inferite da teorie di grande complessità che incorporano anche geometrie non euclidee. In sostan-za, la materia di cui parla oggi la fisica è ben diversa da quella contemplata dal senso comune. E ciò lascia anche intuire quanto possa essere dirompente, dal punto di vi-sta filosofico, il conflitto tra il realismo del senso comune e il realismo scientifico.

Che tale conflitto insorga in modo abbastanza naturale è peraltro mostrato dal fatto che spesso il contenuto del fisi-calismo è scherzosamente riassunto richiamando uno slogan attribuito a Ernest Rutherford: «C’è la fisica, e poi c’è il collezionismo di francobolli». Si tratta di una boutade, cer-to, ma essa contiene del vero: secondo il fisicalismo, infatti,

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la fisica riconduce a sé, almeno in linea di principio, tutto ciò che le altre scienze e le altre forme conoscitive (come la percezione o il senso comune) possono dirci sul mondo; e in questo modo essa ci dice tutto ciò che c’è da dire sul-la realtà. Né si deve pensare che una concezione tanto ra-dicale sia appannaggio di filosofi di nicchia: Hartry Field, uno tra i piú autorevoli filosofi analitici contemporanei, ha per esempio scritto che «quando ci troviamo di fronte a un complesso teorico [...] che pensiamo non possa avere al-cun fondamento fisico, tendiamo a rigettare quel comples-so teorico»14. Una concezione cosí radicale ha ovviamente conseguenze importanti anche a livello metafilosofico, co-me ci ricorda Huw Price, filosofo australiano ora di stanza a Cambridge: «La filosofia non è un’impresa diversa dalla scienza e quando gli interessi delle due discipline coincidono, la filosofia deve sottomettersi alla scienza»15. Infine come non ricordare Bernard Williams, uno dei maggiori pensa-tori britannici dell’ultimo cinquantennio, secondo il quale l’obiettivo della scienza è di rappresentare la realtà come essa è «indipendentemente dalla nostra esperienza», di at-tingere cioè a una «concezione assoluta del mondo»16, su cui tutti dovremmo convergere perché la possibilità di una convergenza «su come le cose sono (indipendentemente da noi)» è offerta dalla scienza, e solo dalla scienza17.

Non sorprenderà, dunque, che nel panorama del fisica-lismo contemporaneo, fioriscano tentativi di «naturalizza-zione» di tutti gli enti e di tutte le proprietà contemplate

14 H. Field, Physicalism, in J. Earman (ed.), Inference, Explanations, and Other Frustrations. Essays in the Philosophy of Science, University of California Press, Berkeley 1992, pp. 271-91; cit. a p. 271.

15 H. Price, Naturalism without Representationalism, in Naturalism in Question cit., pp. 71-105; cit. a p. 71.

16 B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy, Harvard University Press, Cam-bridge (Mass.) 1985, p. 138.

17 Ibid., pp. 138-39.

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dal senso comune: dai colori alle proprietà morali, dal li-bero arbitrio ai numeri, dalle proprietà modali ai valori. Detto in breve: nella prospettiva del realismo scientifico, o si riesce a mostrare che questi enti e proprietà sono inte-gralmente ed esclusivamente costituiti da entità fisiche, e dunque a esse possono essere completamente ridotti (e in tal modo integralmente spiegati), oppure essi vanno elimi-nati del tutto dal novero del reale18. Il che mostra con chia-rezza come anche il realismo scientifico, nelle sue espres-sioni piú pure, abbia natura intrinsecamente egemonica.

4. Conclusione.

Siamo dunque di fronte a una duplice, complementare unilateralità. Da una parte, il realismo del senso comune prende molto sul serio gli enti e le proprietà della nostra quotidianità ma tende a farlo a detrimento delle entità inosservabili della scienza, che vengono declassate a uti-li finzioni. Dall’altra, il realismo scientifico, accettando soltanto l’ontologia scientifica (e spesso quella della so-la fisica), tende a destituire di fondamento il mondo del senso comune.

Nella loro parte propositiva, entrambe queste conce-zioni sembrano essere nel giusto: possiamo concepire ve-ramente la possibilità che il nostro mondo quotidiano sia una mera illusione oppure una mera collezione di stati su-batomici? E, dall’altra parte, possiamo veramente credere che le nostre migliori teorie scientifiche non descrivano la realtà naturale cosí come essa è, o almeno con un’ottima

18 Per fare un esempio classico, secondo i fisicalisti il mondo esterno è privo di co-lori. Riferimenti bibliografici e osservazioni critiche su questi progetti sono in De Caro e Macarthur (eds.), Naturalism and Normativity cit.

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approssimazione alla verità? Ma l’aspetto insoddisfacen-te di queste due concezioni è nelle loro rispettive compo-nenti negative, che sono dettate dalle relative ideologiche unilateralità: ovvero nel fatto che, di queste due conce-zioni, l’una nega l’ambito della realtà naturale, cosí come ci è mostrato dalla scienza, e l’altra l’ambito del mondo quotidiano, cosí come ci è presentato dal senso comune.

La grande sfida che si presenta al realismo filosofico dei prossimi anni è dunque quella di conciliare le compo-nenti positive del realismo del senso comune e del reali-smo scientifico, depurandole delle rispettive componenti negative, in modo da concepire una realtà inclusiva in cui esistano veramente tanto il mondo ordinario quanto quel-lo della microfisica19. Al di là delle indubbie difficoltà di questo progetto, su cui non ci si può dilungare qua, esso comporta senz’altro un prezzo teorico da pagare: occor-re infatti riconoscere che né il senso comune né la scienza naturale possono, singolarmente presi, descrivere la realtà nella sua interezza. Ma è un prezzo poi cosí alto20?

20 Ringrazio Robert Audi, Maurizio Ferraris, Hilary Putnam e Stephen White per le utili conversazioni sui temi trattati in questo capitolo.

19 Cfr. il saggio di Putnam in questo volume e M. De Caro e A. Voltolini, Is Libe-ral Naturalism Possible?, in De Caro e Macarthur (eds.), Naturalism and Normativity cit., pp. 69-86.