La funzione del "realismo" nella satira italiana del Cinquecento

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1 Leonardo Nolé Università degli Studi di Torino Dipartimento di Studi Umanistici LA FUNZIONE DEL «REALISMO» NELLA SATIRA ITALIANA DEL CINQUECENTO: L. Ariosto, E. Bentivoglio e G. A. Caccia 1. La satira e il rapporto tra l’Io e il mondo Per parlare del genere satirico, Hegel fa riferimento, nella sua Estetica, ad una «forma d’arte che assume una forma di prorompente opposizione fra soggettività finita ed esteriorità degenerata» 1 , mettendo immediatamente in luce quanto la satira sia testimone e prova della frattura tra uomo e mondo. Un mondo che, all’occhio del satirico, si è ridotto ad una «realtà senza dei», ad «una esistenza corrotta». Da questa brevissima ma importante definizione emergono con chiarezza alcune delle caratteristiche fondamentali del genere che tradizional- mente si fa nascere con Lucilio. Innanzitutto, si evince che al centro della satira vi è un Io molto ben definito quello che Piero Floriani definisce speaker 2 , di cui ci occuperemo più a lungo in seguito. Si scopre, inoltre, che la satira «ha in sé un’essenziale e irrinunciabile va- lenza di opposizione nei confronti di una determinata realtà, dei valori che questa realtà legit- timano e fondano» 3 . Ma si comprende anche ed è ciò che più ci interessa ai fini del nostro discorso quanto la presenza e il racconto di una realtà definita, di un mondo raccolto con dovizia di particolari, ricoprano un ruolo necessario per l’esistenza stessa del genere, dal mo- mento che «il mondo della satira è dunque un mondo segnato da precise referenze, da una semiosi ordinata e globale […]: un mondo in cui è possibile appropriarsi di un punto di vista, 1 G. W. F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1963, pp. 576-577. 2 Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco, Bulzoni Editore, Roma 1988. 3 U. Jacomuzzi, Il riso della satira, in G. Barberi Squarotti (a cura di), I bersagli della satira, Tirrenia Stampatori, Torino 1987, p. 166.

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Leonardo Nolé

Università degli Studi di Torino

Dipartimento di Studi Umanistici

LA FUNZIONE DEL «REALISMO»

NELLA SATIRA ITALIANA DEL CINQUECENTO:

L. Ariosto, E. Bentivoglio e G. A. Caccia

1. La satira e il rapporto tra l’Io e il mondo

Per parlare del genere satirico, Hegel fa riferimento, nella sua Estetica, ad una «forma

d’arte che assume una forma di prorompente opposizione fra soggettività finita ed esteriorità

degenerata»1, mettendo immediatamente in luce quanto la satira sia testimone e prova della

frattura tra uomo e mondo. Un mondo che, all’occhio del satirico, si è ridotto ad una «realtà

senza dei», ad «una esistenza corrotta». Da questa brevissima ma importante definizione

emergono con chiarezza alcune delle caratteristiche fondamentali del genere che tradizional-

mente si fa nascere con Lucilio. Innanzitutto, si evince che al centro della satira vi è un Io

molto ben definito – quello che Piero Floriani definisce speaker2 –, di cui ci occuperemo più

a lungo in seguito. Si scopre, inoltre, che la satira «ha in sé un’essenziale e irrinunciabile va-

lenza di opposizione nei confronti di una determinata realtà, dei valori che questa realtà legit-

timano e fondano»3. Ma si comprende anche – ed è ciò che più ci interessa ai fini del nostro

discorso – quanto la presenza e il racconto di una realtà definita, di un mondo raccolto con

dovizia di particolari, ricoprano un ruolo necessario per l’esistenza stessa del genere, dal mo-

mento che «il mondo della satira è dunque un mondo segnato da precise referenze, da una

semiosi ordinata e globale […]: un mondo in cui è possibile appropriarsi di un punto di vista,

1 G. W. F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1963, pp. 576-577.

2 Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco, Bulzoni Editore, Roma 1988.

3 U. Jacomuzzi, Il riso della satira, in G. Barberi Squarotti (a cura di), I bersagli della satira, Tirrenia

Stampatori, Torino 1987, p. 166.

2

di una logica che guidi nella lettura del reale, designando, più o meno chiaramente e dichiara-

tamente, gli oggetti da sottoporre al procedimento satirico di cassazione»4. L’uso del reale

assolve genericamente a due compiti: da un lato, rendere manifesta l’alterità dell’Io satirico

rispetto alla realtà corrotta – tanto più evidente perché l’Io è uno dei partecipanti a quella real-

tà –; dall’altro, smascherare la falsità del mondo, portando alla luce ciò che sta sotto5. Secon-

do Giulio Ferroni, infatti, «con l’irrisio e la reprehensio, con diverse dosature e sfumature

dell’una e dell’altra, la satira cerca (o pretende di cercare) la verità dei comportamenti, di in-

dividui o di intere società, di discorsi e di modelli, di abiti e di maschere, rovesciandone le

presunzioni e le sicurezze, contestando il loro equilibrio interno, facendo esplodere ciò che li

tiene in piedi»6.

Come si intuisce sin da ora, è possibile riconoscere una diffusa e generale tendenza al

«realismo» presente nel genere satirico a partire dai suoi esempi più classici7. Questo lavoro si

propone di studiarne le caratteristiche e i limiti in un contesto culturale e sociale specifico,

facendo parlare i testi – spesso ricchi di richiami e riferimenti – di tre dei maggiori poeti sati-

rici dell’Italia del Cinquecento: Ludovico Ariosto, Ercole Bentivoglio e Giovanni Agostino

Caccia.

Al centro del genere satirico, com’è già stato evidenziato, c’è un rapporto, quello tra Io

e mondo, che si esprime attraverso relazioni contrastanti e contraddittorie. La tendenza al

«realismo», tuttavia, sembra emergere con la stessa intensità, sebbene con specificazioni dif-

ferenti, in entrambi gli elementi di questo rapporto, a riprova della sua centralità nella discus-

sione sulla natura della satira.

Per quanto riguarda il primo elemento, l’Io, è utile partire dalla riflessione di Piero Flo-

riani, elaborata nel suo Il modello ariostesco. Per descrivere il soggetto della satira, il «perso-

naggio che dice io», Floriani parla di uno speaker caratterizzato innanzitutto, a partire dai testi

classici, da un «forte tasso di realismo». A differenza di quanto avviene in altri generi letterari

classici, l’Io satirico «è una realtà testuale che si pone come corrispondente perfetto della real-

tà biografica del poeta, che non è puro medium delle Muse, né si maschera e traveste come

4 Ivi, pp. 167-168.

5 «Si tratta piuttosto di segnalare come essa (la satira) agisca appunto in presenza di una verità costituita e

riconosciuta a cui ammiccare in modo rassicurante, e in nome della quale può levare le maschere e mostrare i

volti supposti veri». Ivi, p. 169. 6 G. Ferroni, Le vie della satira nella tradizione italiana, in Aa. Vv., La Satira in Italia dai Latini ai nostri giorni,

Ediars, Pescara 2002, p.36. 7 Hegel, nel suo ragionamento dell’Estetica, nomina infatti Orazio, Persio, Giovenale e Luciano.

3

pastore o contadino»8. Come già dicevamo in precedenza, infatti, il ruolo del satirico è esat-

tamente opposto: non mira a mascherare il sé, ma a smascherare la realtà; non vuole nascon-

dere l’Io, ma sottolinearne il ruolo di soggetto sociale (seppure di una società percepita come

ostile e degenerata). Con il passaggio al sistema letterario volgare – avvicinandosi cioè al pe-

riodo storico e letterario che più ci interessa –, la satira diventa «lo spazio entro il quale lo

speaker assume, al tasso più alto possibile di mimetismo nei confronti del discorso quotidiano

e “realistico”, la tematica del giudizio sull’ambiente storico e sulla cultura del presente»9. Se-

condo Floriani «l’autoidentificazione dello speaker con la personalità storico-empirica del

poeta» si arricchisce «dei rapporti reali che si stabiliscono tra una soggettività che si pretende

concretamente esistente (e addirittura colta in un punto specifico della sua esistenza) e

l’ambiente entro il quale viene collocata»10

. A contare, a questo punto, non è soltanto più l’Io,

unico baluardo di valori non più rintracciabili nella società, ma tutta la fitta rete di relazioni

«reali» che lo legano a quel mondo corrotto di cui si vuole fare distaccato portavoce. Si po-

trebbe dire che il rapporto di dipendenza reciproca tra Io e mondo si è fatto ormai indissolubi-

le. Sebbene verrà esaminato più nel dettaglio in seguito, può essere utile iniziare a presentare

sin d’ora il caso dell’Ariosto, il più importante modello «moderno». Nelle sue Satire la «per-

cezione approfondita e ricca del reale» emerge «non tanto nei punti più aspramente critici,

nelle pur sovente godibilissime figure della sua polemica esplicita, quanto proprio nella raffi-

gurazione del personaggio poeta e nella convocazione dei suoi interlocutori»11

. La prova più

evidente di questa tendenza, di cui l’Ariosto sarà capofila, emerge innanzitutto dalla forma

che molti dei poeti cinquecenteschi adottano per le proprie satire: la forma epistolare o del

colloquio. Fingendo di scrivere quelle che appaiono come vere e proprie lettere, si ricorre ad

un «nuovo modo di garantire al lettore, attraverso la connotazione “cronistica”

dell’interlocutore, la competenza presente del personaggio autore a proposito dei temi affron-

tati»12

. Instaurando un dialogo «reale», cioè, non solo si legittima la concretezza dell’Io, ma si

dà spessore anche a quella degli altri interlocutori – presentati con estrema precisione – e del

mondo – reso spesso nei minimi dettagli, anche «bassi» – nel quale essi si muovono e agisco-

no. Il caso dell’Ariosto, come sostiene Cesare Segre, è esemplare anche a questo proposito:

8 P. Floriani, op. cit., p. 14.

9 Ivi, p. 18.

10 Ivi, p. 19.

11 Ivi, p. 87.

12 Ivi, p. 68.

4

Forma epistolare non significa solo, per l’Ariosto, rivolgersi a corrispondenti diretti – a cui è da

credere che abbia inviato effettivamente le singole satire – e apostrofarli proemialmente. Significa

ribadire, per simmetria con il tu rivolto a parenti e amici, persone non solo reali e contemporanee,

ma appartenenti alla sua cerchia di frequentazione e di conversazione, l’individualità esistenziale

dell’io che parla nelle Satire. L’Ariosto garantisce la referenzialità di io identificando in partenza

tu con persone concrete.13

La referenzialità, in effetti, gioca un ruolo fondamentale come trait d’union tra il primo

e il secondo elemento del rapporto Io-mondo che abbiamo riconosciuto alla base del genere

satirico. E lo stile epistolare, così importante per tratteggiare l’Io, risulta anche utile per deli-

neare una certa maniera di raccontare la realtà. Come sottolineava Segre, infatti, la finzione

epistolare obbliga a far riferimento a situazioni precise, ad una realtà contemporanea speri-

mentata di persona14

, ad «occasioni puntuali»15

. Questa scelta, lungi dall’essere casuale,

«esprime la necessità, umana non meno che poetica, di un posto noto, perciò particolarmente

atto all’osservazione del mondo»16

. È proprio il fatto di riferirsi ad una realtà vicina, cono-

sciuta, vissuta, che permette al poeta di renderla sin nei minimi dettagli e al contempo di di-

sprezzarla. Ma c’è di più: il poeta «àncora la moralità della sua “persona” alla realtà concreta,

rendendone attiva l’azione satirica in una prospettiva tutta terrena ed evitando nel contempo

un inefficace distanziamento magistrale dal lettore»17

. Il ruolo della scrittura satirica, allora, –

soprattutto in Ariosto – «non sarà tanto quello della protesta, dell’urlo, dell’aggressione,

quanto l’altro, più pacatamente riservato, del dibattito, dello scambio di opinioni, della verifi-

ca circostanziale d’una frattura ormai evidente tra Realtà e Valori, colta nella dimensione del-

la cronaca quotidiana»18

. Diventa fondamentale, quindi, perché questa «verifica» sia efficace,

la presenza di una realtà descritta nei dettagli da uno speaker che ne fa parte e che trae a sua

volta da essa la sua carica di «realismo».

13

C. Segre, Premessa a L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987, p. VIII. 14

«Questo dialogo deriva efficacia icastica dall’immediatezza del rapporto con una meditazione a fondo su una

realtà contemporanea sperimentata di persona». Ivi, p. XI. 15

Cfr. Floriani, op. cit., p. 19. Ne parla negli stessi termini, in riferimento alle Satire dell’Ariosto, anche Corrado

Bologna: «Nella dimensione tutta letteraria tipica dell’Ariosto le Satire fanno seguito alla fase dell’utopia,

occupando invece un preciso, ben disegnato luogo: che è quello della contingenza, appunto dell’occasione, del

“qui ed ora” su cui si può scherzare o moraleggiare». C. Bologna, La macchina del «Furioso». Lettura

dell’«Orlando» e delle «Satire», Einaudi, Torino 1998, p. 4. 16

G. M. Veneziano, Le satire dell’Ariosto, ovvero della malinconia, in G. Barberi Squarotti (a cura di), I bersagli

della satira, cit., p. 39. 17

P. Marini, Ariosto magnanimo. Sulla figura dell´io poetico nelle Satire, in «Lettere Italiane», LX, 2008, f. 1, p.

94. 18

C. Bologna, op. cit., pp. 24-25.

5

2. L’esempio dell’Ariosto

Come il lavoro di Floriani, già ampiamente citato, ha messo bene in luce, «la fondazio-

ne del genere satirico volgare porta la data della prima satira ariostesca, il 1517»19

. Anche nel

nostro breve discorso, in effetti, è necessario dedicare al poeta emiliano un’attenzione partico-

lare perché, da un lato, è stato il capofila di un modo nuovo di intendere la satira che sarà imi-

tato e ripreso anche da autori successivi (quali, ad esempio, proprio Ercole Bentivoglio e Gio-

vanni Agostino Caccia), e dall’altro le sue sette Satire hanno saputo approfondire con partico-

lare cura il «panorama umano e sociale del Cinquecento»20

.

Il «modello ariostesco» si definisce innanzitutto a partire dalla forma. Abbiamo già dato

conto della novità del genere epistolare introdotta dall’Ariosto, ma possiamo aggiungere a

questo punto due specificazioni. La prima si riferisce al modello classico di riferimento del

poeta cinquecentesco, riconosciuto dai più nell’Orazio delle Epistulae, rispetto al quale addi-

rittura «l’Ariosto insiste con maggiore decisione nella caratterizzazione epistolare dei suoi

testi»21

. La ricerca di questo modello – non così scontato rispetto, per esempio, ad un ben più

noto Giovenale – testimonia forse un’attenzione particolare dell’Ariosto a questa caratterizza-

zione «realistica» della sua opera. Un esempio evidente da questo punto di vista è fornito dal

primo verso della Satira IV («Il vigesimo giorno di febraio»22

, v.1), in cui addirittura l’Ariosto

riporta la data di «invio» dell’epistola. La seconda specificazione fa invece riferimento al rap-

porto tra soggetto e interlocutore che intercorre nelle Satire. La comunicazione che qui viene

messa in campo è una comunicazione tra pari:

Lo speaker satirico è distinto dallo speaker lirico e da quello epico per il fatto primario che la co-

municazione nella satira è, per così dire, orizzontale, si orienta alla parità perfetta di piano dettata

dalla parità sociale tra io e tu.23

Un rapporto di uguaglianza tanto stretto non può non avere ripercussioni sulla lingua utilizza-

ta nella satira. «Nel regno della comunicazione “diseguale” sono necessariamente assenti le

parole che designano, intorno allo speaker, oggetti “bassi”, realtà fisiche umili e quotidia-

19

P. Floriani, op. cit., p. 63. 20

G. M. Veneziano, op. cit., p. 41. 21

P. Floriani, op. cit., p. 78. Floriani insiste molto anche sul ruolo dell’epistolografia primo cinquecentesca nel

rappresentare non una fonte diretta, ma sicuramente un esempio di grande influenza sulla forma e sulla lingua

ariostesche. 22

L. Ariosto, Satire, Bur, Milano 2010. Tutte le successive citazioni delle Satire ariostesche sono tratte da questa

edizione. 23

P. Floriani, op. cit, p. 20. Ritroveremo questa parità, evidenziata con ancora più forza, nelle Satire di Giovanni

Agostino Caccia, nonostante si rivolga spesso ad interlocutori più influenti ed importanti.

6

ne»24

. Nei testi che abbiamo preso in esame, al contrario, proprio in virtù di quel «realismo»

di cui abbiamo dato conto sin qui, «si possono identificare scelte linguistiche legate

all’esperienza della cronaca quotidiana, e speakers posti in posizioni comunicative puntuali,

determinate dal contesto situazionale»25

. Modello dell’Ariosto per questa «disponibilità alla

rappresentazione “comica” e realistica»26

è il Dante della Commedia, che secondo Segre ren-

de «robusto, persino asprigno, il tono del verso»27

. Anche la lingua utilizzata nelle Satire, al-

lora, sembra rivolgersi in ultima istanza alla generale tensione «realistica» che pervade in ge-

nerale il testo (tra poco porteremo degli esempi).

C’è ancora un aspetto, questa volta tipicamente ariostesco e non riscontrabile negli altri

autori coevi, che sembrerebbe mettere in crisi quanto sostenuto sinora: la presenza degli apo-

loghi. Si tratta di brevi «favolette» che il poeta inserisce all’interno delle satire, per esemplifi-

care e chiarire quanto espresso nell’argomentazione. Apparentemente, l’inserzione di un bra-

no fantastico sembrerebbe spezzare la referenzialità così accentuata di cui abbiamo parlato.

Eppure, a ben guardare, la favola «allontana la struttura corrosiva dal pericolo di un attacco

troppo personale», «serve a chiarire l’oggetto della corrosione, che non è mai un qualche si-

gnore particolare […], ma un mondo che, privo di senno, si affanna inutilmente»28

. Gli apolo-

ghi, allora, che peraltro presentano spesso tanti dettagli realistici (basti pensare all’asino

nell’apologo della Satira I, «ch’ogni osso e nervo / mostrava di magrezza», vv. 247-248), non

solo rendono «ancora più fertile l’urgenza autobiografica»29

, ma avvertono il lettore che il

centro dell’attenzione è, ancora una volta, il mondo, la realtà.

3. Il «realismo» nelle satire di Ariosto, Bentivoglio e Caccia

Messi in luce il contributo fondamentale dell’opera ariostesca e la sempre più profonda

penetrazione del «realismo» nel genere satirico, può essere utile verificare le tendenze eviden-

ziate sinora in tre satire cinquecentesche, diverse ma continuamente intrecciate. A partire dal-

la Satira II dell’Ariosto, infatti, si prenderanno in esame la Satira V del Bentivoglio e la Sati-

24

Ibidem. 25

Ivi, p. 21. 26

G. Ferroni, op. cit., p. 44. Dello stesso avviso anche Floriani, secondo cui l’«espressività media» della

Commedia riporta nelle Satire ad un «soggetto storicamente verosimile, colto nel suo agire la comunicazione

nella società, elementi linguistici caratterizzanti» (P. Floriani, op. cit., p. 22). 27

C. Segre, op. cit., p. VII. 28

G. M. Veneziano, op. cit., p. 43. 29

C. Bologna, op. cit., p. 26.

7

ra I del Caccia, per mostrare come la tendenza «realistica» sopravviva e si modifichi nel tem-

po, mantenendo però un costante rapporto con il «modello ariostesco».

3.1. Ariosto, Satira II: il «realismo» come strumento

Tra le sette Satire dell’Ariosto, la seconda è forse quella in cui emerge con maggior

chiarezza l’elemento «realistico». Confermando la struttura epistolare di cui si è lungamente

discusso, la satira-epistola viene indirizzata «a messer Galasso Ariosto, suo fratello», a cui

Ludovico chiede di preparargli un alloggio per il suo imminente soggiorno a Roma.

L’occasione del viaggio viene spiegata nella seconda sezione della satira (vv. 97-141):

l’Ariosto vuole consolidare il possesso del beneficio ecclesiastico di Sant’Agata di cui è stato

nominato successore, prima che si facciano avanti altri pretendenti. Ma la sezione che è più

interessante per il nostro discorso è senza alcun dubbio la prima (vv. 1-96), in cui il poeta ri-

volge al fratello, in una lunga elencazione, una serie di «semplici» richieste in vista del suo

arrivo.

Innanzitutto, l’Ariosto mette in atto un evidente «abbassamento» dell’Io, includendosi nelle

«quattro bestie» (vv. 13-15) che compiranno il viaggio (il poeta, il servitore Giovanni, il mulo

e un cavallo). Il riferimento, qui, è alla presenza nella satira anche degli oggetti più bassi, pre-

sentati con un linguaggio «quotidiano». Molto dettagliata è, infatti, la descrizione della stanza

desiderata, una «camera o buca» luminosa e in cui sia facile accendere il fuoco (vv. 16-18), e

degli oggetti al suo interno:

Sia per me un mattarazzo, che alle coste

faccia vezzi, o di lana o di cottone,

sì che la notte io non abbia ire all’oste.

Nella terzina appena citata (vv. 22-24) il «realismo» ariostesco si spinge sino alla descrizione

precisa del materiale con cui vorrebbe fosse realizzato il proprio giaciglio, strumentale

all’atteggiamento di esibita semplicità. Seguendo la stessa linea, viene posta una particolare

enfasi – ed è una caratteristica che ritroveremo anche nei due poeti successivi – nell’affrontare

il tema del cibo (vv. 25-27):

Provedimi di legna secche e buone;

di chi cucini, pur così alla grossa,

un poco di vaccina o di montone.

8

Come nei tre versi precedenti, anche in questo caso l’Ariosto decide di dettagliare in maniera

minuziosa la richiesta, specificando quali tipi di carne preferirebbe, tra i tanti poco nobili (e lo

stesso fa anche con gli utensili da cucina, chiarendo che il cuoco deve utilizzare «schidon» e

«tegame», v. 31). L’impressione, arrivati a questo punto, è che il «realismo» ariostesco diven-

ti tanto più intenso quanto più ci sia bisogno di evidenziare la distanza tra i suoi comporta-

menti, semplici e morigerati, e quelli dissennati degli altri. Il bersaglio di questi primi versi è

il «novo camerier» (v. 37), un gentiluomo appena nominato, che ha bisogno di un cuoco che

prepari continuamente pietanze diverse, «or vòl fagiani, or tortorelle, or starne, / che sempre

un cibo usar par che l’annoi» (vv. 41-42), mentre un tempo era abituato solo a sfamarsi con

«pane et aglio» (v. 38). Il poeta è pronto ad accontentarsi di acqua di fiume e poco vino, i si-

gnori ferraresi (nominati uno per uno, con quell’attenzione alla referenzialità sui cui si è tanto

insistito), mangiano «gambaro cotto rosso» (v. 62), «grossi piccioni e capon grassi» (v. 68)

(da notare l’uso dell’aggettivo qualificativo accanto ad ogni nome, per accrescere ancora di

più il tasso di «realismo»). La stessa attenzione descrittiva è presente anche nell’ambito del

vestiario: nella terza sezione della satira (vv. 142-264), si dice che un giovane servo, a testi-

monianza della libertà maggiore di quella del signore, può indossare «un mantello o rosso o

nero o giallo» oppure un «gonnellin leggero» (vv. 175-176). Di nuovo, assistiamo all’uso del

dettaglio realistico per supportare l’argomentazione del poeta.

Un ulteriore esempio di questa tendenza, in una forma però differente, è presente nei vv. 82-

83: «Agora non si puede, et es meiore / che vos torneis a la magnana». Ariosto sceglie, in

questo caso, di utilizzare una lingua diversa dal volgare italiano per riportare la risposta di un

servitore spagnolo. L’effetto che mira ad ottenere è certamente comico. Eppure allo stesso

tempo contribuisce a delineare con maggior chiarezza il profilo dei servitori «reali» dei grandi

prelati, che l’«adulazion spagnola» obbliga a chiamare signori «se ben fosse mozzo da spuo-

la» (v. 79).

Si potrebbero addurre altri esempi sulla stessa linea (come la descrizione della mula al

v. 90), ma non farebbero che confermare le tendenze emerse sino ad ora. Per riassumere la

peculiarità dell’apporto ariostesco, si potrebbe dire che la scelta del poeta è di concentrarsi

sugli oggetti della vita quotidiana, che afferiscono ai bisogni più elementari (cibo, bevande,

vestiti…), spesso presentati sotto forma di lunga elencazione. La più evidente caratteristica di

questo «realismo», inoltre, è il fatto di non essere fine a se stesso, ma di rappresentare uno

9

strumento nelle mani del poeta satirico, utile a rafforzare la propria argomentazione e renderla

più convincente.

3.2. Bentivoglio, Satira V: un «realismo cronachistico cittadino»

Nel prendere in esame le Satire di Ercole Bentivoglio è utile ricordare che «esse nasco-

no (ben prima della loro pubblicazione30

) a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30, solo poco

dopo quelle di Ariosto, e probabilmente dopo una loro revisione e conseguente diffusione ri-

stretta. Risentono dunque di quella temperie, e vi si conformano»31

. La prima prova sta nella

forma epistolare, propria di gran parte del modo burlesco e satirico del tempo. Anche nel Ben-

tivoglio, come già nell’Ariosto, sarà facile individuare con chiarezza l’Io satirico, lo speaker,

e l’interlocutore. Gli elementi di «realismo» che abbiamo appena evidenziato nel poeta del

Furioso, inoltre, si ritrovano in Bentivoglio ancora più evidenziati:

Con ciò non si vuole trascurare il concomitante modello classico di Orazio e Giovenale, che con

tanta più autorevolezza indirizza i satirici nella ricerca mediana della scrittura privata. Ma resta in-

confondibile la matrice comune di un lessico che Ercole, ancor più esclusivamente di Ariosto, fil-

tra attraverso il gioco bernesco realizzando una costante di familiare concretezza. Attraverso quella

selezione assidua e coerente il vocabolario materiale della cucina e dei cibi, delle bestie e delle

suppellettili, è ora elevato nella satira alla dignità di scrittura moralmente significativa.32

Si tratta di un vero e proprio «realismo cronachistico cittadino»33

, che viene esemplificato

molto bene nella Satira V. Il destinatario della satira è Flaminio, personaggio che non può es-

sere identificato con certezza a causa dell’assenza di documenti storici. Si tratta, tuttavia, sen-

za alcun dubbio, di un membro illustre della famiglia dei Flaminii che, nella finzione narrati-

va, domanda al Bentivoglio di presentargli le attività svolte durante la sua giornata. La descri-

zione (che inizia con un tono molto lirico, caratterizzato dai «freschi fior», dalle «matutine

rose» e dalla «bella aurora», vv. 14-15) si colora subito di tinte terrene e quotidiane. Troviamo

la descrizione puntuale dei vestiti (vv. 16-18):

sciolto dal sonno, fuor de l’oziose

piume esco ratto, e vestomi il giubbone

30

La pubblicazione delle Satire et altre rime piacevoli è del 1546, a Venezia. 31

A. Corsaro, Introduzione a E. Bentivoglio, Satire, Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, Ferrara

1987, p. 11. Tutte le successive citazioni delle Satire del Bentivoglio sono tratte da questa edizione. 32

Ivi, p. 14. 33

Ivi, p. 23.

10

e l’altre al corpo necessarie cose.

E poco dopo degli altri oggetti quotidiani (vv. 22-24):

Col pettine di poi scaccio i pidocchi

e lavomi le man con l’acqua pura,

non con le nanfe ch’usano li sciocchi.

Ritorna anche nel Bentivoglio la stessa attenzione minuziosa del Boccaccio per la sfera del

cibo, a partire dagli utensili da cucina («far la suppa nel siruolo», v. 36, dove «siruolo» è una

voce regionale che indica un pentolone, con un peso ancora maggiore di «realismo»), fino

all’elencazione dei tipi di carne di ariostesca memoria (vv. 55-57):

Se volete saper quel che mangiamo

dirovelo: vitel e polli e bue

sera e mattina sul taglier abbiamo

Si nominano poi il vino («un vin che forsi non beveste due / volte il miglior», vv. 58-59), que-

sta volta senza la malcelata reticenza dello speaker ariostesco ma con una accurata descrizio-

ne degli effetti prodotti sull’uomo («che vi fa l’occhio molle / mentre gustate le dolcezze

sue», vv. 59-60), e «gli agli suoi le sue cipolle» (v. 61), che riprendono molto da vicino il v.

38 della Satira II dell’Ariosto: «di pane et aglio uso a sfamarsi»34

. Poco più avanti, per sbef-

feggiare un monastero certosino di Ferrara, vengono citati – con l’ormai nota attenzione anche

agli ingredienti e alle diverse qualità dei prodotti – i cibi offerti dai monaci ad una donna che

rivolge loro le sue attenzioni (vv. 109-111):

a cui mandan le zucche dei bon vini

e le frittate cariche di pepe

e quei formaggi parmeggian divini

Anche il Bentivoglio, infine, nomina chiaramente ciascun personaggio a cui fa riferimento

(mettendo in scena addirittura dei veri e propri dialoghi, vv. 76-87, come prova delle chiac-

chiere quotidiane e dei pettegolezzi), raggiungendo dei picchi di «realismo» e linguaggio bas-

so quando deve provocare e farsi beffe di qualcuno (vv. 28-30):

ché gli usa solamente il cortigiano

34

Parlando dei riferimenti puntuali tra questa satira e la II dell’Ariosto, si può citare un ulteriore esempio. Dice il

Bentivoglio: «Poi l’ora a dispensar nel dolce usato / studio men vado, e lietamente solo / e intento sopra i cari

libri guato» (vv. 31-33), mentre l’Ariosto: «Fa che vi sian de’ libri, con che io passi / quelle ore» (vv. 70-71).

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cui puzza il naso o le ditella o ‘l fiato,

e la sporca puttana e ‘l ruffiano.

Nonostante tutte le corrispondenze che sono state evidenziate tra questo testo e quello

dell’Ariosto, l’impressione generale è che qui la tendenza al «realismo» si realizzi con una

diversa sfumatura. Se è vero che anche il Bentivoglio sfrutta in certi casi le descrizioni più

volgari per screditare e irridere alcuni usi della società, è vero al tempo stesso che il più delle

volte l’attenzione ai gesti e agli oggetti quotidiani sembra rispondere al solo obiettivo di rac-

contare la «realtà», così come essa si presenta.

3.3. Caccia, Satira I: un «realismo» votato all’Io

L’esperienza satirica di Giovanni Agostino Caccia, che pubblica la sua raccolta Satire e

capitoli piacevoli a Milano nel 1549, mostra sempre di più l’influenza che la poesia burlesca

comincia ad avere sul genere satirico. Il processo, già iniziato col Bentivoglio, di distacco dal

modello ariostesco «puro» diventa qui più evidente. A cambiare è, innanzitutto, la forma: se il

Bentivoglio aveva deciso di «costruire una linea discorsiva più compatta e “logica”, riducen-

do così il rischio di un’affabulazione troppo diffusa»35

, Caccia «introduce una strategia testua-

le prossima al modello burlesco, con il frequente ricorso all’incontenibilità e all’irrefrenabile

bizzarria dell’ispirazione che porta spesso a inattese digressioni»36

. Si modifica anche l’Io sa-

tirico: «insistendo sulla mediocritas e sulla “concretezza” del parlante, con un reiterato so-

vraccarico di tratti realistici, sembra portare alle estreme conseguenze l’io minimo ariostesco.

Infatti, lo speaker è un personaggio che vive in un intenso disagio economico, in una situa-

zione di esclusione e subalternità, dettata anche dalla sua condizione di piccolo nobile e lette-

rato di provincia»37

.

Si possono cogliere bene tutte queste novità dall’analisi della Satira I. Il destinatario è

«messer Gioan Battista Piotto Dottor delle Leggi»38

e l’occasione è ancora più «quotidiana»

rispetto a quelle che abbiamo riscontrato in Ariosto e Bentivoglio. Il Caccia, infatti, vuole ri-

35

B. Buono, Introduzione a G. A. Caccia, Satire, e Capitoli piacevoli, Lampi di stampa, Vignate 2013, p. 10.

Tutte le successive citazioni delle Satire del Caccia sono tratte da questa edizione. 36

Ibidem. 37

Ivi, pp. 10-11. 38

Questo esempio fornisce un’ulteriore prova di quel rapporto di uguaglianza che la satira instaura tra speaker e

interlocutore, anche quando, come in questo caso, la posizione sociale del destinatario è ben più elevata di quella

dell’Io.

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spondere a delle chiacchiere che ha sentito pronunciare «a canto ‘l fuoco» (v. 3)39

, riguardo la

sua situazione economica. Ecco che allora lo speaker si lancia in una dettagliata descrizione

delle proprie spese, una vera e propria lista. Per far riferimento alle ristrettezze economiche, si

inizia con precisi riferimenti al vestiario (vv. 34-36):

Ben è ver ch’io non ho ne la scarsella,

o ne la tasca mai più di duo scudi,

e perciò spesso impegno la gonnella.

Dirà poi più avanti, sempre in tema di abiti, «tutti i miei panni son di color bruno» (v. 136).

Come si accennava in precedenza, emerge sin da ora quanto questo resoconto economico sia

«improntato a un forte realismo, volto alla difesa del proprio “onore”, ma teso nella direzione

dell’abbassamento»40

, quasi come aveva fatto l’Ariosto all’inizio della sua Satira II. La prima

importante spesa riguarda la figlia, lasciata in convento, ma che non vuole che si faccia suora

a causa della licenziosità dei monasteri, descritta con estrema chiarezza (vv. 61-63):

Mandate panicelli, e fascie, e culla,

padre in emenda di sì gran oltraggio,

quando partorirà la tua fanciulla!

Per quantificare quanto pesa la fanciulla sull’economia domestica, il Caccia ricorre alla con-

sueta presentazione del cibo: «tre somme di mosto, / due di formento», «or pane, or vino o

arrosto» (vv. 67-69). Dopo l’enumerazione delle altre bocche da sfamare (tra cui «tre cani»,

«due bracchi, / e un levrier, e una gatta, / e ho sette galline senza ‘l gallo», vv. 76-78), si passa

all’elenco preciso di ciò che «al spiedo si coce, e a la pignatta» (v. 81, che mostra anche la

stessa attenzione per gli utensili da cucina che abbiamo già riscontrato sia in Ariosto che in

Bentivoglio), concentrandosi addirittura sulle modalità di cottura (vv. 82-90):

Mangiamo del vitello, arrosto e lesso,

e del manzo sovente, e dei capponi,

quand’è il suo tempo, e dei pollastri spesso.

Mangiam talor qualchi miglior bocconi,

come quaglie sariano, o pernici,

39

L’immagine ricorda molto da vicino quella proposta dall’Ariosto proprio nella Satira II: «Ma sia a un tempo

lor agio di ritrarsi, / e a noi di contemplar sotto il camino / pei dotti libri i saggi detti sparsi», a conferma

dell’influenza imprescindibile ancora esercitata dal «modello». In tema di richiami evidenti al testo ariostesco, si

può aggiungere che il v. 23 di Caccia, «e dietro un servitor mi menerei», riprende i vv. 160-161 della Satira II

dell’Ariosto: «Felicitade istima alcun, che cento / persone te accompagnino a palazzo». 40

B. Buono, op. cit., p. 21.

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ch’a parasiti piacciono e a’ bufoni;

se però mi li donano gli amici,

o mi li piglio io con lo sparviere,

che non diceste poi: «Tu nol mi dici».

E ancora, poco dopo, non parla solo di generico pesce, ma della specifica «truta» (v. 92).

L’ultimo esempio che riportiamo fa riferimento alla sua abitazione, dove «si fan due fochi ‘l

verno, / in sala l’uno, e l’altro in cocina» (vv. 148-149), quasi come la stanza semplice richie-

sta dall’Ariosto nella Satira II.

Dei tre poeti satirici che abbiamo preso in esame, quindi, il Caccia è sicuramente quello

in cui il «realismo» più si evidenzia per il suo uso strumentale. Forse ancora più che

nell’Ariosto, le lunghe elencazioni del poeta novarese (molto più estese e dettagliate) si pie-

gano all’obiettivo principale: puntare l’attenzione sull’Io, sullo speaker. «Nei versi satirici del

Caccia, il dato reale, corporeo, si accampa al centro dell’universo poetico in quanto espressio-

ne di un “io concreto, incapace di assumere una coerente fisionomia ideale”»41

.

4. Conclusioni

È possibile, a questo punto, trarre qualche conclusione.

Il raffronto delle tre satire di Ariosto, Bentivoglio e Caccia ha messo in luce come la

tendenza al «realismo» propria del genere satirico assuma di volta in volta, indirizzata dalla

sensibilità e dagli scopi di ciascun autore, una direzione leggermente diversa. Nel primo caso,

il poeta del Furioso utilizza le descrizioni dettagliate degli oggetti quotidiani per mettere in

luce una società in cui governano la spregiudicatezza e la lascivia. Il Bentivoglio, invece, che

per primo si lascia contaminare dalle influenze burlesche, sembra lasciare alla tendenza «rea-

listica» una maggiore autonomia, costruendo dei quadri precisi ed efficaci della propria vita

quotidiana (seppur con tutte le necessarie specificazioni che abbiamo fatto in precedenza). Il

Caccia, infine, che dei tre è colui che maggiormente si dilunga nelle elencazioni ed enumera-

zioni, non manca mai di collegare ogni singolo dettaglio realistico con la sua persona, per

confermarsi continuamente come «Io concreto».

La lettura ravvicinata dei tre testi, inoltre, ha messo in luce come l’attenzione «realisti-

ca» si esprima soprattutto in alcuni ambiti privilegiati: il cibo, il vestiario, l’ambiente dome-

41

Ivi, p. 42.

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stico. Le citazioni e le riprese presenti nelle satire del Bentivoglio e del Caccia, infine, unite

alla scelta della forma epistolare e alle caratteristiche dello speaker, mostrano con ancor più

evidenza l’importanza e l’influenza del «modello ariostesco» sulla produzione satirica coeva

ed immediatamente successiva.

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BIBLIOGRAFIA

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