la famiglia winshaw

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JONATHAN COE, LA FAMIGLIA WINSHAW. Titolo dell'opera originale WHAT A CARVE UP! Traduzione dall'inglese di Alberto Rollo. Copyright Jonathan Coe, 1994. Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano. Prima edizione ne "I Canguri" aprile 1995. Prima edizione nell"'Universale Economica" maggio 1996. Settima edizione gennaio 1999.

Transcript of la famiglia winshaw

 

 

 

 

 

 

                            JONATHAN COE,

                         LA FAMIGLIA WINSHAW.

 

             Titolo dell'opera originale WHAT A CARVE UP!

              Traduzione dall'inglese di Alberto Rollo.

 

 

                    Copyright Jonathan Coe, 1994.

          Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.

              Prima edizione ne "I Canguri" aprile 1995.

       Prima edizione nell"'Universale Economica" maggio 1996.

                    Settima edizione gennaio 1999.

 

 

 

 

 

 

 

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Saga. Documentario. Thriller. Romanzo di memoria. Per La famiglia

Winshaw, ormai tradotto in tutta Europa, si chiamano volentieri

in causa tutte le definizioni care al giornalismo letterario.

Ma la parola chiave è solo e soltanto "romanzo", senza ulteriori

specificazioni. Un grande romanzo, in cui l'io narrante - lo sPaesato

scrittore che risponde al nome di Michael Owen - si muove fra la

propria storia di illusioni e traumi adolescenziali, di ambizioni

azzoppate e di amori frustrati, e quella di una famiglia di rapaci

dominatori, gli Winshaw. Saldamente insediati ai posti di co-mando

della finanza, dell'economia, della comunicazione, della sanità

e della cultura nazionali, i componenti della famiglia Winshaw

incarnano il delirio di potere che ha segnato gli anni di Margaret

Thatcher e ha portato l'Inghilterra allo sfascio. Dosando humour

e senso del dramma, Coe intreccia sussulti della memoria e scene

madri di raro vigore realistico, incrocia destini secondo la lezione

di Italo Calvino, affolla la pagina di personaggi e tutti li guida,

disseminando innumerevoli tracce, verso la resa dei conti, verso

un'eclatante "soluzione finale". Generosissima di invenzioni,

trucchi, incastri, La famiglia Winshaw è un'opera di grande

intrattenimento ma anche un romanzo "di denuncia", una

impietosa rappresentazione della macchina della sopraffazione

e dell'avidità.

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Jonathan Coe è nato a Birmingham nel 1961 e si è laureato a Cambridge

e a Warwick. Ha scritto due biografie Humphrey Bogart e James Stewart)

e i romanzi The Accidental Woman (1985), a Touch of Love (1987) e The

Dead Dwarues, pubblicato in Italia col titolo Questa notte mi ha aperto

gli occhi (Polillo Editore, 1996). La famiglia Winshaw è uscito nella collana

"I Canguri" Feltrinelli nel 1995 e La casa del sonno nella collana

"I Narratori" nel 1998.

 

 

 

 

 

 

Per Janine, 1994.

 

 

Orphée: Enfin, Madame... m'expliquerez-vous?

La Princesse: Rien. Si vous dormez, si vous revez,

acceptez vos reves. C'est le role du dormeur.

 

JEAN COCTEAU, sceneggiatura di Orfeo.

 

 

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"Conoscetemi" disse e fu dimenticato.

"Voletemi bene": ma dell'amore abbiamo paura.

Preferiremmo volare sulla luna

piuttosto che dire le parole giuste quand'è tempo

di dirle.

 

Louis PHILIPPE, Yuri Gagarin.

 

 

 

 

 

 

Prologo,

1942 - 1961.

 

 

1.

 

La tragedia s'era già abbattuta due volte sulla famiglia Win-

shaw ma mai in proporzioni così terribili.

Il primo di questi incidenti ci porta indietro alla notte del no-

vembre 1942, quando Godfrey Winshaw, che aveva solo trentatré

anni, fu abbattuto dalla contraerea tedesca mentre volava sopra

Berlino per una missione segreta. La notizia, che fu portata a

Winshaw Towers nelle prime ore del mattino, bastò a sprofonda-

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re la sorella maggiore, Tabitha, nel gorgo della pazzia, dove sino a

ora è rimasta. Tale fu la violenza della sua follia che si ritenne ad-

dirittura impossibile farla presenziare alla cerimonia ufficiale in

onore del fratello.

Per ironia della sorte quella stessa Tabitha Winshaw, oggi ot-

tantunenne e con non più facoltà mentali di quelle esibite negli

ultimi quarantacinque anni, è la patrocinatrice e la finanziatrice

del libro che tu, mio caro lettore, tieni ora fra le mani. Scrivere

delle sue condizioni risulta compito, per qualche verso, problema-

tico ma ciò non toglie che, alla luce dei fatti, la realtà sia questa:

che dal momento in cui le arrivò la notizia della tragica morte di

Godfrey, Tabitha fu preda di una grottesca fissazione. Per farla

breve, si convinse (mi si passi l'eufemismo) che Godfrey non

era stato colpito dal fuoco tedesco, ma che la sua morte non ac-

cidentale era invece stata opera del fratello Lawrence.

Non voglio soffermarmi vanamente sulle pietose infermità con

cui il destino ha scelto di punire una povera donna svanita, ma la

trattazione di questo tema è funzionale al prosieguo della storia

che concerne la famiglia Winshaw, e pertanto deve ritagliarsi

uno spazio suo nella narrazione. Cercherò almeno di essere breve.

Il lettore deve sapere che Tabitha aveva trentasei anni quando

morì Godfrey e che, non avendo mai manifestato alcuna inclina-

zione per il matrimonio, conduceva una vita da zitella. Non era

del resto sfuggito a parecchi membri della famiglia come al sesso

maschile ella riservasse un atteggiamento di indifferenza se non

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addirittura di aperta avversione: la mancanza di entusiasmo con

cui accoglieva le avances dei suoi rari corteggiatori era speculare

all'appassionato attaccamento e alla devozione nei confronti di

Godfrey che era - come testimoniano alcune voci e qualche foto-

grafia rimasta - di gran lunga il più allegro, il più bello, il più di-

namico e il più umanamente aperto dei cinque fratelli Winshaw.

Conoscendo l'intensità dei sentimenti di Tabitha, la famiglia era

caduta preda di una qualche ansietà allorché Godfrey aveva an-

nunciato il suo fidanzamento, nell'estate del 1940: invece della

violenta gelosia che si era temuta, fra la sorella e la futura cognata

si era subito instaurato un caldo e rispettoso rapporto di amicizia,

e il matrimonio fra Godfrey Winshaw e Mildred, nata Ashby, fu

celebrato con successo nel dicembre di quello stesso anno.

Di contro, Tabitha continuò a riservare al fratello maggiore

Lawrence il verso più affilato del suo spirito critico. Non è facile

spiegare le origini dell'ostilità fra questi due infelici consanguinei.

L'ipotesi più probabile è che essi dovessero fare i conti con una

profonda differenza di temperamento. Come suo padre Mat-

thew, Lawrence era uomo di poche parole non privo di scatti

di impazienza, che, in affari, governava i suoi ampi interessi na-

zionali e internazionali con una determinazione assoluta, da molti

interpretata come mancanza di scrupoli. Quel regno di femminile

dolcezza e delicato sentire in cui si muoveva Tabitha gli era del

tutto estraneo: egli la considerava leggera, ipersensibile, nevrotica

e - per usare un'espressione che ora si può leggere come triste-

mente profetica - "un po' balenga". (E non era, a onor del vero,

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il solo ad avere questa opinione.) Insomma, facevano del loro

meglio per non incrociarsi; e la saggezza implicita in questa linea

di comportamento si può valutare alla luce delle sconvolgenti vi-

cende che seguirono la morte di Godfrey.

Immediatamente prima di imbarcarsi nella sua missione fatale

Godfrey passò qualche giorno di riposo nella tranquilla atmosfera

di Winshaw Towers. Con lui, naturalmente, c'era Mildred, incinta

del loro primo e unico figlio (che sarebbe stato un maschio): era

parecchio avanti con la gravidanza, e fu presumibilmente l'idea di

vedere i membri della famiglia che le erano più cari a far sì che

Tabitha abbandonasse gli agi della sua ben protetta dimora e var-

casse la soglia della casa dell'odiato fratello. Benché Matthew

Winshaw e sua moglie fossero ancora vivi e vegeti, vivevano allora

confinati in una serie di stanze di un'ala indipendente del palazzo,

mentre Lawrence si era eletto unico e vero signore della dimora.

Del resto sarebbe eccessivo affermare che egli fosse, insieme a sua

moglie Beatrice, un ospite all'altezza della situazione. Lawrence

badava, come al solito, ai suoi affari che lo tenevano occupato

ore e ore al telefono nel chiuso del suo ufficio, e, in un'occasione,

gli richiesero un viaggio notturno a Londra (che fece senza dare

spiegazioni o scusarsi con gli ospiti). Nel contempo Beatrice

non si sforzava minimamente di intrattenere i parenti del marito

e li lasciava soli per la più parte del giorno ritirandosi nella sua

stanza da letto e adducendo il pretesto di una ricorrente emicra-

nia. Così, Godfrey, Mildred e Tabitha furono risospinti a compor-

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tarsi come meglio credevano - e forse era proprio ciò che più ave-

vano desiderato - e trascorsero tante piacevoli giornate in compa-

gnia, girovagando per i giardini e godendosi tutte le vaste stanze

di Winshaw Towers, dall'ingresso alla sala da pranzo, dal salotto

al soggiorno.

Il pomeriggio in cui Godfrey dovette partire per il campo d'a-

viazione di Hucknall, che era la prima tappa della sua missione -

ma moglie e sorella ne avevano solo una pallida idea -, egli ebbe

un lungo incontro privato con Lawrence nello studio marrone. I

dettagli della conversazione non li sapremo mai. A seguito della

sua partenza, le due donne finirono col lasciarsi sopraffare dall'a-

gitazione: Mildred dalla naturale ansietà di moglie e prossima ma-

dre col marito esposto ai rischi di un'impresa di una certa impor-

tanza e di incerta riuscita, Tabitha da un'agitazione più violenta e

senza controllo, che si manifestò nell'incattivirsi della sua ostilità

verso Lawrence.

L'irrazionalità del suo comportamento al riguardo ebbe modo

di emergere in occasione di uno stupido malinteso sorto solo po-

chi giorni prima. Entrata come una furia nell'ufficio del fratello di

sera tardi, l'aveva sorpreso durante una delle sue conversazioni

d'affari e gli aveva strappato via il foglio di carta sul quale - stan-

do alla versione dei fatti che diede lei - egli stava trascrivendo

istruzioni riservate ricevute per telefono. Tabitha arrivò ancora

più lontano, affemmando che Lawrence aveva un "fare colpevole"

quando l'aveva interrotto e aveva cercato di riprendersi il pezzo di

carta con la forza. Con ridicola ostinazione, però, lei se l'era tenu-

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to stretto in mano e in un secondo tempo l'aveva riposto fra i pro-

pri documenti personali. Più avanti, uscendosene con la sua fan-

tasiosa accusa contro Lawrence, minacciò di addurlo come "pro-

va". Per fortuna, a quel punto, l'eccellente dottor Quince, medico

di fiducia di Winshaw Towers da più decadi, aveva già fatto la sua

diagnosi - e questa ebbe l'effetto di far prendere, da allora in poi,

ogni dichiarazione di Tabitha solo col più profondo scetticismo.

La storia, sia detto per Inciso, sembra avere convalidato il giudizio

del buon dottore, giacché quando, di recente, alcune reliquie di

Tabitha arrivarono nelle mani di chi scrive, egli vi trovò anche

il conteso pezzo di carta. Ingiallito ormai dal tempo, esso non con-

teneva altro - questo finì col rivelare - che un appunto scribac-

chiato a mano in cui Lawrence chiedeva al cameriere di servirgli

in camera una cena leggera.

Le condizioni di Tabitha peggiorarono ulteriormente dopo la

partenza di Godfrey, e la notte in cui egli era in volo per la sua

ultima missione ebbe luogo un singolare incidente, più serio e

insieme più ridicolo di ogni altro accaduto in precedenza. Esso

prese forma da un'altra delle fissazioni di Tabitha, secondo la

quale il fratello si incontrava segretamente con spie naziste nella

sua camera da letto. Dichiarò più e più volte di essere rimasta

fuori della porta chiusa a chiave della camera da letto e d'aver

colto il lontano mormorio di voci che sembravano impartire or-

dini in un tedesco serrato, autoritario. Da ultimo, quando persi-

no Mildred non seppe prendere sul serio tale asserzione, Tabitha

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mise in atto una prova disperata. Sottratta la chiave (la sola che

c'era dells carnera da letto di Lawrence nel primo pomeriggio,

attese sino all'ora in cui ella era convinta che egli fosse impegna-

to in uno di quei sinistri abboccamenti, poi aprì la porta dall'e-

sterno e corse al piano inferiore, gridando a squarciagola che

aveva sorpreso il fratello nell'atto di tradire la propria patria.

Il cameriere, il personale della cucina, lo chaffeur, il guardaro-

biere, il ragazzo della scuderia e i domestici tutti accorsero im-

mediatamente in aiuto della donna, seguiti dappresso da Mil-

dred e Beatrice; e la compagnia al completo, riunita nella sala

grande dell'ingresso, si preparava a salire le scale e indagare,

quando Lawrence in persona s'appalesò, stecca in mano, dalla

sala del biliardo dove aveva trascorso le ore dopo cena a eserci-

tarsi in alcuni tiri da manuale. Non c'è bisogno di aggiungere che

la camera da letto fu trovata vuota; ma la dimostrazione non die-

de soddisfazione a Tabitha che continuò a sbraitare contro il fra-

tello accusandolo d'ogni sorta di tradimento e sotterfugio, sin-

ché, inevitabilmente, ella non fu presa e condotta nella sua stan-

za nell'ala occidentale, dove la sempre vigile e intraprendente in-

fermiera Garmet le somministrò un sedativo.

Tale era l'atmosfera a Winshaw Towers in quella serata terri-

bile, allorché il silenzio mortale della notte si propagò per tutta la

venerabile dimora; un silenzio che doveva essere rotto alle tre di

mattina dallo squillo del telefono, e con esso dalla notizia della

spaventosa fine di Godfrey.

Alla sciagura s'aggiunse il mancato recupero dei corpi. Né

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Godfrey né il suo co-pilota ebbero mai gli onori di una cristiana

sepoltura. Due settimane dopo, comunque, si tenne una piccola

cerimonia commemorativa nella cappella privata della famiglia

Winshaw. I genitori rimasero seduti con le facce impietrite e cine-

ree per tutta la funzione. Il fratello più giovane, Mortimer, la so-

rella Olivia e suo marito Walter erano venuti nello Yorkshire per

rendere i dovuti omaggi: era assente solo Tabitha, poiché da

quando aveva avuto la ferale notizia aveva dato completamente-

fuori di matto. Fra gli utensili con cui s'era scagliata contro Law-

rence, nei suoi accessi di violenza, spiccano candelieri, ombrelli da

golf, coltelli per il burro, rasoi, frustini, una luffa, una mazza da

golf con la spatola di ferro, un bastone da golf con la testa roton-

da, un corno da battaglia afghano di considerevole interesse ar-

cheologico, un vaso da notte e un bazooka. Il giorno dopo, il dot-

tor Quince firmò subito le carte che autorizzavano il suo immedia-

to internamento in un manicomio delle vicinanze.

Non avrebbe fatto un passo fuori dalle mura dell'istituto per

diciannove anni. Per tutto quel periodo di tempo provò solo rara-

mente a comunicare con altri membri della famiglia, né manifestò

alcun particolare interesse per averli in visita. La sua mente (o

quel poco di cencioso e sbrindellato che di essa restava) continuò

a frequentare, implacabile, le circostanze che erano state contorno

alla morte del fratello e divenne un'ossessiva lettrice di libri, riviste

e periodici relativi alla conduzione della guerra, alla storia della

Royal Air Force, e a ogni argomento connesso, anche solo vaga-

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mente, con l'aviazione. (In questo periodo, per esempio, il suo no-

me appare regolarmente fra gli abbonati di riviste come "Profes-

sional Pilot", "Flypast", "Jane's Military Review" e "Cockpit

Quarterly".) E lì rimase, saggiamente affidata alle cure di una

équipe qualificata e scrupolosa sino al 16 settembre 1961, quando

fu temporaneamente dimessa su richiesta del fratello Mortimer:

una decisione che, per quanto presa per compassione, fu presto

destinata a rivelarsi sfortunata.

Quella notte la morte fece visita a Winshaw Towers un'altra

volta.

 

 

 

 

2.

 

Seduta nel bovindo della camera da letto, lo sguardo rivolto al-

la terrazza est e alla brulla distesa della brughiera che sconfinava

verso l'orizzonte, Rebecca avvertì la mano del marito posarsi deli-

catamente sulla sua spalla.

"Andrà tutto bene," disse lui.

"Lo so."

Egli l'abbracciò forte e poi si volse verso lo specchio, e diede

gli ultimi ritocchi al nodo della cravatta e alla fusciacca di seta.

"E' davvero carino da parte di Lawrence. In realtà sono tutti

molto carini. Non ho mai visto tanta armonia nella mia famiglia."

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Era il cinquantesimo compleanno di Mortimer e per l'occa-

sione Lawrence aveva organizzato una fastosa cenetta alla quale

era stata invitata la famiglia al completo - Tabitha compresa, mal-

grado il suo bando. Era la prima volta che Rebecca, tredici anni

più giovane del marito e ancora dotata di una bellezza infantile,

alquanto vulnerabile, li avrebbe incontrati tutti a una stessa tavola.

"Non sono dei mostri, sai. In fondo non lo sono." Mortimer fe-

ce ruotare il gemello sinistro di quindici gradi, esaminando di

sguincio il polsino con occhi severi. "Mildred ti piace, non è vero?"

"Ma lei non è proprio della famiglia." Rebecca non smise di

guardare fuori della finestra. "Povera Milly. E' una vergogna che

non si sia mai risposata. Temo che Mark sia diventato una terri-

bile testa calda."

"Sono le cattive compagnie, ecco tutto. E' successo anche a me

quand'ero a scuola. Oxford farà presto pulizia nella sua testa."

Rebecca voltò il capo di scatto: un gesto di impazienza.

"Sei sempre pronto a scusarli tu. So che mi odiano. Non ci

hanno mai perdonato di non averli invitati al nostro matrimonio."

"Beh, quella fu una decisione che presi io, non tu. Non volevo

che fossero tutti là a guardarti a bocca aperta."

"Vedi: è così ovvio che anche tu li detesti, e ci deve pur essere

una ra..."

Si sentì bussare con discrezione alla porta, e la solenne maci-

lenta figura del maggiordomo avanzò con deferenza nella stanza.

"Gli aperitivi sono serviti, signore. All'ingresso del salotto."

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"Grazie, Pyles." Girò sui tacchi ed era lì lì per uscire quando

Mortimer lo richiamò. "Pyles?"

"Signore?"

"V¡ riesce di dare un'occhiata ai bambini? Li abbiamo lasciati

nella nursery. Sono con Miss Gannet, ma voi la conoscete... qual-

che volta s'appisola."

"Benissimo, signore." Fece una pausa e aggiunse, prima di ri-

tirarsi: "Se posso, signore, vorrei porgervi da parte di tutto il per-

sonale della casa, le nostre più sincere feiicitazioni e l'augurio di

cento giorni felici come questo".

"Grazie. Molto gentile da parte vostra."

"Non c'è di che, signore."

Fece un'uscita silenziosa. Mortimer avanzò verso la finestra e

si fermò, in piedi, alle spalle della moglie, il cui sguardo era tutto-

ra inchiodato a quello spietato panorama.

"Sarebbe bene che scendessimo."

Rebecca non si mosse.

"I bambini sono a posto. Gli darà lui un'occhiata. E' uomo di

assoluta fiducia, te lo assicuro."

"Spero che non rompano niente. Fanno sempre giochi così

violenti e in tal caso Lawrence ci toglierebbe il fiato."

"Il demonietto è Roddy. Hilary gli va dietro. Lei è così dolce."

"Si portano male tutti e due."

Mortimer cominciò a massaggiarle il collo e avvertì tutto il suo

nervosismo.

"Cara, ma tu stai tremando."

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"Non so cos'ho." Lui le sedette accanto e lei gli si strinse con-

tro il petto come un uccellino in cerca di un rifugio. "Sono così

agitata. Non so se ce la farò ad affrontarli."

"Se è per Tabitha che ti preoccupi..."

"No, non è per lei..."

"... Non hai nulla di che temere. E' completamente cambiata

negli ultimi due anni. Questo pomeriggio ha addirittura parlato

con Lawrence. Penso davvero che abbia dimenticato tutta la sto-

ria di Godfrey: non si ricorda neanche più chi sia. Ha scritto delle

belle letterine a Lawrence dal... dalla casa, e lui ha detto che, per

quanto lo riguarda, tutto è dimenticato e perdonato, dunque non

credo che stasera ci saranno problemi. I dottori dicono che è tor-

nata più o meno alla normalità."

Mortimer percepì la vacuità delle parole che aveva appena

pronunciato e provò un certo disprezzo per se stesso. Proprio

quel pomeriggio aveva avuto la prova del perdurare dell'eccentri-

cità della sorella quando l'aveva sorpresa nel corso di una passeg-

giata nei posti più negletti e remoti della proprietà. Stava uscendo

dal cimitero dei cani per imboccare la strada che portava al campo

di croquet quando aveva colto, sia pur di sfuggita, la presenza di

Tabitha accucciata nel bel mezzo d'un cespuglio, dove la verzura

era più fitta. Mentre le si avvicinava senza far rumore per paura di

metterla in allarme, l'aveva sentita borbottare fra sé e sé e gli era-

no cadute le braccia. Che sconforto: ora gli sembrava di essere sta-

to, dopo tutto, troppo ottimista sulle sue condizioni, e forse trop-

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po precipitoso nel proporre che le fosse consentito di partecipare

alla festa di famiglia. Incapace di discernere alcunché di intelligi-

bile nei sospiri e nei rotti ciangottii, aveva tossito educatamente, al

che Tabitha si era lasciata sfuggire un gridolino di spavento, c'era

stato un gran trapestio nei cespugli da cui ella era sortita qualche

secondo più tardi, spazzolandosi nervosamente con la mano il ve-

stito coperto di spini e ramoscelli, confusa al punto da non riusci-

re a parlare.

"Io... Morty, non avevo idea, io... stavo proprio..."

"Non volevo prenderti di sorpresa, Tabs. E' che..."

"Assolutamente no. Io stavo... ero uscita per fare una passeg-

giata e ho visto... pensavo di esplorare... Santo cielo, che cosa

mai penserai di me? Sono mortificata. Morty-ficata, di fronte a

Morty..."

La voce le smorì in gola e tossì: una tosse forte, ansiosa. Per

alleggerire il peso del silenzio, Mortimer disse:

"Magnifico, vero? Che giardino. Non so come facciano a te-

nerlo così bene." Tirò un respiro profondo. "Che gelsomino. Sen-

ti che profumo."

Tabitha non replicò. Il fratello la prese sotto braccio e la ac-

compagnò verso la terrazza.

Con Rebecca non fece menzione dell'incidente.

"Tabitha non c'entra. E' questa casa, presa nel suo insieme."

Rebecca si voltò verso di lui e per la prima volta, quella sera, lo

guardò dritto negli occhi. "Se mai venissimo a vivere qui, mio ca-

ro, io morirei. Ne sono certa." Fu scossa da un brivido. "C'è qual-

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cosa in questo posto..."

''Perc hé mai dovremmo venire a vivere qui? Che sciocchezza."

"Chi altro subentrerà, morto Lawrence? Lui non ha figli ma-

schi a cui lasciarla e tu sei il solo fratello che ha."

Mortimer se ne uscì con una risata nervosa; era chiaro che

voleva far cadere il discorso. "Dubito moltissimo di sopravvivere

a Lawrence. Lui ha a disposizione ancora tanti begli anni da vi-

vere."

"Temo proprio che tu abbia ragione," disse Rebecca, dopo un

po'. Diede un lungo ultimo sguardo alla brughiera, indi raccolse le

perle dal cassettone e se le chiuse al collo, con studiata perizia.

Fuori i cani chiedevano il cibo ululando forte.

Immobile sulla porta, con la sua piccola mano stretta stretta

dentro quella di Mortimer, Rebecca scoprì di trovarsi di fronte

a una stanza piena di Winshaw. Non ce n'era che una dozzina

ma a lei parve una folla immensa, innumerevole, le cui voci, fra

acute impennate e queruli sgretolii, si fondevano in un unico in-

comprensibile clamore. In pochi secondi lei e il marito furono so-

praffatti, divisi, assorbiti nella calca, toccati, baciati, presi a pacche

sulle spalle, sommersi da saluti di benvenuto e congratulazioni,

costretti a bere continuamente, carpiti di ogni sorta di informazio-

ni che li concernesse, indagati a tappeto sul loro stato di salute.

Rebecca metà delle facce non le riconobbe; di tanto in tanto,

non sapeva neanche con chi stesse parlando, e la memoria di ogni

segmento di conversazione le sarebbe suonata, dopo d'allora,

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sempre confusa e fuori fuoco.

Da parte nostra, nel frattempo, dovremo cogliere l'opportuni-

tà offerta da questa riunione per fare la conoscenza di quattro

membri della famiglia.

Ecco dunque, per primo, Thomas Winshaw: trentacinque an-

ni, scapolo e ancora costretto a render conto a sua madre Olivia,

che tiene in quasi nessuna considerazione lo smagliante successo

da lui ottenuto nel mondo finanziario rispetto ai reiterati fallimen-

ti di dar forma a una famiglia. E' a labbra serrate che lo ascolta

ricamare argomenti a favore del nuovo indirizzo assunto dalla

sua carriera, che - è chiaro - le appare frivolo, che più frivolo non

si può.

"Mamma, al giorno d'oggi, investire nel cinema può dare dei

ritorni immensamente alti. Una volta che si è coinvolti in un film

di successo, in un film che fa saltare i botteghini, non so se mi

spiego, ci si ritrova seduti su una fortuna incalcolabile. Tanta da

compensare una dozzina di fallimenti."

"Se tu lo facessi per denaro avresti la mia benedizione, questo

lo sai," dice Olivia. Il suo accento dello Yorkshire è più forte di

quello dei fratelli e della sorella, ma la sua parlantina ha la stessa

vena di volgarità, la stessa mancanza di umorismo. "Per quello, lo

sa dio, hai dimostrato di essere abbastanza intelligente. Ma Henry

tni ha detto cos'hai in testa, e non provare a negarlo. Attrici. E'

questo a cui miri. Poter dire che gli puoi far avere una parte, è

questo che ti piace."

"Delle volte, mamma, dici cose senza senso. Dovresti sentirti."

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"Non voglio che nessun membro di questa famiglia faccia la

Parte dello scemo, ecco tutto. Quelle lì sono puttane, sono quasi

tutte così, e tu finirai col prenderti qualcosa di veramente antipa-

Ma Thomas, che per la madre prova più o meno quel che sente

Per quasi tutti gli umani - nella fattispecie un disprezzo che rara-

mente li vuole degni d'una risposta - si limita a sorridere. C'è qual-

Cosa dell'ultima osservazione che pare divertirlo e nei suoi occhi si

nchioda un freddo sguardo vitreo di private reminiscenze. Sta in-

fatti pensando che sua madre è completamente fuori strada: il suo

iteresse per le attricette esiste, eccome, ma non arriva al contatto

fisico. A Thomas interessa solo guardare, non toccare, e perciò il

vantaggio principale che egli trae dal nuovo ruolo nell'industria

del cinema è l'opportunità di far visita agli studi ogni volta che

vuole. E' così che egli può presentarsi sul set mentre si girano scene

che sullo schermo saranno innocenti solleticamenti erotici ma in

fase di realizzazione sciorinano perfette occasioni per un voyeur

di razza. Scene in camera da letto, scene in bagno, scene di tinta-

rella, scene in bikini ma senza il pezzo sopra, scene in cui scivola

via del bagno schiuma o cade un asciugamano. Fra gli attori e i

tecnici ha amici, spie, tirapiedi che, quando è in programma una

di quelle scene, lo avvertono in anticipo. Ha persino convinto i

montatori a fargli mettere le mani sulla pellicola scartata, con se-

quenze che si son rivelate troppo esplicite per entrare nel montag-

gio definitivo. (E non a caso Thomas ha cominciato con l'investire

in commedie di modesto budget, spettacoli di sicuro impatto po-

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Polare con star come Sid James, Kenneth Connor, Jimmy Edwards

e Wilfrid Hyde-White.) Da queste ama tagliare le immagini che

predilige e fame diapositive da proiettare a tarda sera, quando tut-

to il personale è tornato a casa, sulla parete del suo ufficio in

Cheapside. E' tanto più pulito, tanto più intimo, e tanto meno ri-

schioso della noia di invitare le attricette a casa, di far loro promes-

se assurde, degli armeggii e della coercizione che tutto ciò si porta

appresso. Dunque Thomas ce l'ha con Henry, non tanto per aver

spifferato dei segreti a sua madre, quanto per aver dato per scon-

tato che i suoi stimoli potessero essere così banali e di bassa lega.

"Non dovresti dar retta a tutto quello che ti dice Henry, sai,"

dice sorridendo gelidamente. "Dopo tutto, è un politico."

Ed ecco Henry, il fratello minore di Thomas, già additato co-

me uno dei più ambiziosi deputati laburisti della sua generazione.

Il loro rapporto va oltre i consueti legami di sangue e copre un

gran numero di comuni interessi d'affari, poiché Henry ha un po-

sto nella direzione di parecchie società generosamente finanziate

dalla banca di Thomas. Se mai qualcuno avesse l'ardire di insinua-

re un conflitto di lealtà fra queste attività e gli ideali socialisti che

egli professa a gran voce alla Camera dei Comuni, Henry ha bell'e

pronta una gran varietà di ben rodate risposte. Alle domande ba-

nali ci ha fatto il callo, ecco perché riesce a ridere quando suo cu-

gino Mark lo squadra malignamente e dice:

"Allora, mi sa che domani mattina ti fionderai subito a Lon-

dra, in tempo per la dimostrazione? Sappiamo tutti che voi labu-

ristoni siete pappa e ciccia con la Cnd per il disarmo nucleare"

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"Alcuni miei colleghi ci saranno, non c'è dubbio. Io no. Il nu-

deare non porta voti. In questo paese la maggior parte della gente

prende gli estremisti per quello che sono: un branco di toccati."

S'interrompe onde far sì che uno dei domestici non lasci vuote

le loro coppe di champagne. "Sai la migliore che ho sentito questo

mese?"

"Bertrand Russell che si cucca sette giorni di galera?"

"Roba, quella, che m'ha strappato solo un sorrisino, devo dire.

E a Chruscev che pensavo. Suppongo tu abbia sentito che ha ri-

cominciato a provare bombe H, lassù nell'Artico o chissà dove?"

"Davvero?"

"Chiedi a Thomas che effetto ha avuto sul mercato azionario

nelle società produttrici di armi un paio di giorni dopo. Hanno

sfondato il tetto. L'hanno fatto saltare. In una notte ci siamo fatti

qualche centinaia di migliaia di dollari. Sta' a sentire: all'inizio di

quest'anno, viene fuori Gagarin, tutti parlano di disgelo. Comin-

ciava a tirare una brutta aria o così pareva. Grazie a Dio si è rive-

lato un fuoco di paglia. Prima vien su il Muro, e ora l'Orso Russo

ricomincia a far fuochi d'artificio. Siamo tomati a fare affari, pa-

re." Beve in un sol sorso il contenuto della coppa e dà un'affettuo-

sa pacca sulla spalla al cugino. "Naturalmente con te posso parla-

re perché siamo in famiglia."

Mark Winshaw manda giù l'informazione in silenzio. Sarà per-

ché non ha mai conosciuto suo padre, Godfrey, ma ha sempre

considerato i cugini come figure paterne e vede in loro una guida.

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(Anche sua madre ha cercato di porsi come guida, naturalmente,

ha provato a inculcargli i propri valori e i propri codici compor-

tamentali, ma lui, sin da giovinetto, si è imposto di ignorarla.) Ha

già molto imparato da Thomas e da Henry, su come far denaro, e

come le divisioni e i conflitti fra uomini inferiori e poco intelligenti

possono essere sfruttati a proprio vantaggio. Fra qualche settima-

na tornerà a Oxford ma ha passato l'estate a lavorare, come pra-

ticante, nel settore amministrativo negli uffici della banca di Tho-

mas a Cheapside.

"E' stato molto gentile da parte tua offrirgli un lavoro," dice

Mildred a Thomas. "Spero proprio che non ti sia stato di peso."

Mark esibisce un'espressione di astio, inequivocabile, ma la

sua occhiata passa inosservata, e non dice verbo.

"Assolutamente no," risponde Thomas. "E' stato molto utile

averlo con noi. E non a caso ha fatto una grande impressione

sui miei colleghi. Proprio una grande impressione."

"Davvero?"

Thomas comincia a raccontare la storia di una discussione

conviviale che ha avuto luogo nella City fra i membri più anziani

della banca un venerdì pomeriggio: a pranzo era stato invitato an-

che Mark. La conversazione era passata alle recenti dimissioni di

uno dei partner per il ruolo assunto dalla banca durante la crisi

del Kuwait. Thomas si sente in dovere di spiegare i dettagli di

quella crisi a Mildred, partendo dal presupposto che, in quanto

donna, può non saperne nulla. Egli dunque le racconta di come,

in giugno, il Kuwait fosse stato dichiarato un emirato indipen-

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dente, e come, solo una settimana dopo, il brigadiere-generale

Kassem avesse annunciato che era sua intenzione annetterlo al

suo paese, dichiarando che, storicamente, esso era sempre stato

"parte integrante dell'Iraq". Le rammenta che il Kuwait s'era ap-

pellato al governo britannico per avere aiuti militari, che erano

stati promessi sia dal Ministro degli esteri, Lord Home, che dal

Lord del Sigillo Privato, Edward Heath; e che, dalla prima setti-

mana di luglio, più di seimila uomini britannici s'erano mossi ver-

so il Kuwait dal Kenya, da Aden, Cipro, dal Regno Unito e dalla

Germania, formando una linea di difesa di cento chilometri a ot-

to chilometri dal confine, pronta a sostenere un attacco da parte

dell'Iraq.

"C'è che quel partner più giovane, Pemberton-Oakes," dice

Thomas, "non riusciva a digerire il fatto che continuassimo a pre-

stare enormi somme di danaro agli iracheni per foraggiare il loro

esercito. Diceva che erano nostri nemici e che, essendo di fatto già

in guerra, non avremmo dovuto fornirgli aiuto alcuno. Diceva

che, per principio, era il Kuwait con cui avremmo dovuto fare af-

fari - 'per principio', credo si sia proprio espresso così - anche se

la loro affidabilità finanziaria era quasi insignificante e la banca,

sui tempi lunghi, non ne avrebbe tratto un grande incremento.

Beh, eravamo tutti presi dalla discussione, con gente che passava

da una opinione all'altra, assumendo i due diversi tagli prospettici

della questione, quando qualcuno ebbe la folgorante idea di chie-

dere al giovane Mark che cosa ne pensasse"

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"E lui che cosa ne pensava?" chiede Mildred, la voce incrinata

da una nota di rassegnazione.

Thomas ridacchia fra sé. "Disse che era assolutamente ovvio,

per come la vedeva lui. Disse che, naturalmente, avremmo dovuto

prestare denaro a entrambe le parti, e se fosse scoppiata la guerra

avremmo dovuto far ancora più prestiti, così che quelli tenessero

duro quanto più possibile, facendo sempre più uso di attrezzature

e perdendo sempre più uomini e dilatando vieppiù il debito con-

tratto con noi. Avresti dovuto vedere che facce! Beh, probabil-

mente quello era ciò che tutti avevano in mente ma lui fu il solo

ad avere il coraggio di spiattellarlo." Si volta verso Mark, il cui

volto è rimasto, per tutta la conversazione, perfettamente impas-

sibile. "Tu andrai lontano negli affari, Mark, vecchio mio. Ne farai

di strada."

Mark sorride. "Oh, non credo che la gestione di una banca

faccia per me, se devo dire la verità. Ho intenzione di stare dove

succedono le cose, semmai. Ma comunque grazie per avermi of-

ferto questa opportunità. Due cosette le ho certamente imparate."

Si gira e attraversa la stanza, consapevole che gli occhi di sua

madre non l'hanno mai abbandonato.

Mortimer s'avvicina a Dorothy Winshaw, l'imperturbabile, ru-

biconda figlia di Lawrence e Beatrice, che è in piedi, sola, in un

angolo della sala, col solito broncio impertinente e feroce che le

spinge le labbra in fuori.

"Allora," dice Mortimer, sforzandosi di mettere una nota di

carineria nella voce. "Come va la mia nipotina prediletta?" (Doro-

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thy è, manco a dirlo, la sua sola nipote, dunque l'uso dell'epiteto

suona artificiale.) "Il felice evento è alle porte. C'è un po' di agi-

tazione nell'aria, oserei dire?"

"Suppongo di sì," dice Dorothy, tutt'altro che eccitata. Mor-

timer si riferisce al fatto che di lì a poco, sposerà, venticinquenne,

George Brunwin, uno degli allevatori più capaci e conosciuti della

contea.

"Dài," disse Mortimer. "Ti devi sentire di sicuro un po'

non so..."

"Provo esattamente quel che ti aspetteresti che provi una don-

na," tagliò corto Dorothy, "una donna che sa d'essere sul punto

di sposare uno degli uomini più cretini che ci siano al mondo."

Mortimer si guarda intorno per vedere se il fidanzato, anche

lui invitato alla festa, possa aver sentito. Dorothy non pare preoc-

cuparsene.

"Cosa vuoi dire, santo Iddio?"

"Dico che se quello non cresce, e presto, e non viene a far

compagnia a noi del ventesimo secolo, lui e io finiremo per non

avere più un penny nel giro di cinque anni."

"Ma se la fattoria di Brunwin è una delle meglio gestite dei

dintorni. Lo sanno tutti."

Dorothy sbadiglia. "Il fatto che abbia frequentato agraria ven-

t'anni fa non vuol dire che George abbia idea di come stia andan-

do avanti il mondo di adesso, il mondo moderno. Non sa neanche

cosa sia un indice di conversione, per amor di Dio."

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"Un indice di conversione?"

"Il rapporto comparativo," spiega Dorothy paziente, come

fosse davanti a un bracciante ottuso, "fra quanto cibo metti den-

tro un animale e quello che ci tiri fuori alla fine, come carne. In

fondo basta leggersi qualche numero di "Farming Express", e tut-

to suona perfettamente chiaro. Hai sentito parlare di Henry Sa-

io, immagino?"

"Non è un politico?"

"Henry Saio è un allevatore di polli americano che sta co-

sruendo un awenire per la casalinga britannica. Ha saputo creare

una nuova razza di galletti buoni da fare alla griglia che raggiun-

gono il chilo e mezzo in nove settimane, con un indice di conver-

sione del mangime di 2 a 3. Usa i metodi intensivi e più all'avan-

guardia." Dorothy si fa tutta animata più animata di come Mor-

timer l'abbia mai vista. Le brillano gli occhi. "E invece ecco qui

George, il povero idiota, che lascia ancora scorazzare all'aria aper-

ta i suoi polli, neanche fossero animali domestici. Non parliamo

poi dei vitelli da carne: li lascia dommire sulla paglia e probabil-

mente fanno più movimento dei suoi maledetti cani. E poi si chie-

de come mai non ne tira fuori della bella carne bianca!"

"Beh, non so..." dice Mortimer. "Forse ha altre cose in mente.

Altre priorità."

"Altre priorità?"

"Sai, il... benessere degli animali. L'atmosfera della fattoria."

"Atmosfera?"

"Talvolta nella vita c'è qualcosa di più che accumulare profitti."

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Lei lo fissa dritto negli occhi. Forse è la furia di sentirsi rivol-

gere di nuovo la parola con quel tono, come molti anni prima - il

tono che adottano gli adulti con un bimbo che pende dalle loro

labbra - che stimola l'insolenza della sua replica.

"Eggià, lo dice sempre papà che tu e zia Tabitha siete gli

strambi della famiglia."

Appoggia il bicchiere, spinge lo zio da una parte e va spedita a

far crocchio in un'altra conversazione dall'altra parte della sala.

Nel frattempo, su nella stanza dei bambini, ci sono due altri

Winshaw che avranno un ruolo nella storia della famiglia. Roddy

e Hilary, di nove e sette anni, si sono stancati del cavallino a don-

dolo, del trenino, del tennis da tavolo, di bambole e marionette. Si

sono anche stancati dei tentativi di svegliare la tata Gannet solleti-

candole il naso con una piuma. (La piuma in questione era appar-

tenuta a una rondine abbattuta da Roddy con la fionda nel primo

pomeriggio.) Sono in procinto di lasciare la stanza e di scendere a

origliare la festa in corso - sebbene, a dire il vero, l'idea di fare quei

lunghi corridoi, quelle scale scarsamente illuminate per certi versi li

terrorizzi - quando Roddy ha un lampo di ispirazione.

"Ecco!" dice, afferrando una piccola automobile a pedale e

pigiandosi a forza dentro il posto di guida. "Io ero Yuri Gagarin,

e questa era la mia astronave, ed ero appena atterrato su Marte."

Sì perché, come ogni altro ragazzino della sua età, Roddy ado-

ra il giovane cosmonauta. All'inizio dell'anno fu persino portato a

vederlo quando visitò la mostra di Earl's Court, e Mortimer l'ave-

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va tenuto sollevato perché potesse stringere davvero la mano al-

l'uomo che aveva viaggiato fra le stelle. Ora, costretto in maniera

ridicola dentro l'auto troppo piccola, comincia a pedalare con tut-

te le sue forze facendo al contempo il gutturale rombo di un mo-

tore. "Gagarin a Controllo Missione. Gagarin a Controllo Missio-

ne. Mi sentite?"

"Beh, e io chi posso essere allora?" dice Hilary.

"Tu eri Laika, il cane russo dello spazio."

"Ma è morta. E morta dentro il razzo. Me l'ha detto zio

Henry."

"Beh, fai finta."

Ecco allora che Hilary comincia a scorrazzare a quattro zam-

pe, ad abbaiare come una matta, ad annusare le pietre di Marte

e a grattare nella polvere. Continua così per due minuti, più o

meno.

"Mi annoio."

"Zitta. Qui è il maggiore Gagarin a Controllo Missione. Sono

atterrato felicemente su Marte e adesso sto cercando segni di vita

intelligente. Sino a ora tutto quel che riesco a vedere sono dei...

hey! e quello che cos'è?"

Un oggetto luminoso sul pavimento della stanza ha catturato il

suo sguardo, e lui ci si avvicina pedalando più veloce che può: ma

Hilary ci arriva prima.

"Una mezza corona!"

La bambina copre la moneta con la mano e gli occhi le brilla-

no trionfanti. Allora il maggiore Gagarin esce dalla sua astronave

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e le si para davanti.

"L'ho vista prima io. Dammela."

"Neanche morta."

Piano, ma di proposito, Roddy mette il suo piede destro sopra

la mano di Hilary e comincia a premere.

"Dammela! "

"No! "

La voce di lei cresce, si fa strillo, mentre Roddy aumenta la

pressione, e infine si sente un crack secco: il suono delle ossa

che si spezzano e si frantumano. Hilary geme forte mentre il fra-

tello alza il piede e raccoglie la moneta, placido e compiaciuto. Sul

pavimento della camera dei bambini c'è del sangue. Hilary lo vede

e le sue urla si fanno ancora più acute e violente: questa volta sono

forti abbastanza per risvegliare la tata Gannet dal tipico torpore

del dopo-cioccolata.

Da basso, la cena è ormai ben avviata. Gli ospiti hanno stimo-

lato l'appetito con una minestra leggera (formaggio piccante e

zucca al vapore) e spazzato le trote (affogate in Martini secco

con salsa d'ortica). In attesa della terza portata, Lawrence, che è

seduto a capotavola, porge le sue scuse e si assenta; al suo ritorno,

si ferma a scambiare qualche parola con Mortimer, l'ospite d'ono-

re, che è seduto al centro. E' sua intenzione indagare con discre-

zione sulle condizioni della sorella.

"Conti che la vecchia lunatica regga bene?" sussurra.

Mortimer sussulta e replica con un tono di rimprovero: "Se

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stai parlando di Tabitha, allora sappi che si sta comportando co-

me si deve. Come del resto ho detto che avrebbe fatto".

"Vi ho visto parlottare oggi pomeriggio vicino al campo di

croquet. Tu avevi un fare piuttosto serio, ecco tutto. Non è che

era successo qualcosa, eh?"

"Ma no, perché? Abbiamo fatto una passeggiatina insieme."

Mortimer coglie al volo l'occasione per cambiare discorso. "I giar-

dini hanno un aspetto magnifico, davvero. Specialmente il tuo gel-

somino: il profumo era quasi intollerabile. Uno di questi giorni

devi rivelarmi il tuo segreto."

Lawrence ride crudele. "Delle volte penso che tu sia toccato

come lei, vecchio mio. Non c'è nessun gelsomino in giardino, te

lo posso garantire. Neanche un ramettino." Un'occhiata di sfuggi-

ta e nota il farsi avanti di un'enorme zuppiera dall'altro capo della

sala da pranzo. "Ciao, ciao, arriva l'altra portata."

Nel mezzo della sua sella di lepre al curry, Rebecca sente un

cauto tossicchiare al suo fianco.

"Che c'è Pyles?"

"Una parola in privato, se posso, Mrs Winshaw. E' questione

di una qualche urgenza."

Si ritirano nel corridoio e un minuto dopo Rebecca rientra in

sala da pranzo pallida in volto.

"Si tratta dei bambini," dice al marito. "C'è stato uno stupido

incidente nella loro stanza. Hilary si è ferita una mano. Vado a

portarla in ospedale."

Mortimer scatta quasi in piedi in preda al panico.

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"E' una cosa seria?"

"Non credo. La bambina è alquanto sconvolta."

"Vengo con te."

"No, tu devi stare qui. Credo di sbrigarmela in un'oretta. Tu

stai e goditi la tua festa."

Ma Mortimer non si gode la sua festa. L'unico aspetto della

faccenda che lo gratificava era, sopra ogni altro, la compagnia

di Rebecca dalla quale, negli ultimi anni, egli è venuto dipenden-

do sempre di più come rifugio e riparo contro l'odiata famiglia.

Ora, in sua assenza, è costretto a passare la maggior parte della

serata a conversare con la sorella Olivia; la rinsecchita, inacidita

Olivia, tanto implacabilmente fedele al pedigree familiare da aver

sposato uno dei suoi cugini, che borbotta sulla conduzione della

proprietà, sull'imminente cavalierato del marito per i servizi resi

all'industria e sul futuro politico del figlio Henry, abbastanza in-

telligente da riconoscere che il Partito laburista è stato l'unico a

offrirgli la prospettiva di un seggio ministeriale all'età di quaran-

t'anni. Mortimer annuisce stancamente durante tutto il monologo,

e, di tanto in tanto, lancia un'occhiata alle altre facce intorno al

tavolo: Dorothy che ingurgita cibo; quell'agnellino del suo fidan-

zato che le siede immusonito al fianco; gli occhi da topo, calcola-

tori, di Mark sempre vigili e inquieti; la dolce, incantata Mildred

che racconta qualche insipido aneddoto a Thomas, il quale ascolta

con tutta la gelida indifferenza di un banchiere sul punto di rifiu-

tare un prestito a un piccolo uomo d'affari. E, naturalmente, ecco

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Tabitha, composta, a busto eretto, che non scambia una parola

con nessuno. Nota che la sorella guarda l'orologio da tasca ogni

due per tre e che più d'una volta chiede a uno dei domestici di

verificare l'ora sull'orologio del nonno nell'ingresso. Altrimenti,

siede perfettamente immobile, con gli occhi puntati su Lawrence.

E come se fosse in attesa di veder succedere qualcosa.

Rebecca torna dall'ospedale prima che sia servito il caffè. Sci-

vola accanto a suo marito e gli stringe forte la mano.

"Si rimetterà presto," dice. "La signora Ganner la sta metten-

do a letto."

Lawrence s'alza in piedi, picchia il cucchiaio da dolce sul tavo-

lo e propone un brindisi.

"A Mortimer!" dice "Salute e felicità per il suo cinquantesimo

compleanno."

Un'eco attutita di "Mortimer" e di "Salute e felicità" risuona

per la stanza mentre gli ospiti scolano quel ch'è rimasto nei loro bic-

chieri. Poi s'ode un sospiro pesante e soddisfatto e qualcuno dice:

"Bene! E' stata una piacevolissima serata".

Tutte le teste si voltano. Ha parlato Tabitha.

"E' così bello uscire e stare in società. Non ne avete idea. So-

lo..." Tabitha s'incupisce in volto e assume una triste espressione

di smarrimento. "Solo... Stavo pensando a come sarebbe stato

bello, se Godfrey fosse stato qui con noi stasera."

C'è una pausa di imbarazzo, rotta infine da Lawrence che

dice, con uno sfarzo di gioviale sincerità: "Proprio così. Proprio

così".

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"Mortimer gli piaceva così tanto. Morty era senza dubbio il

suo fratello prediletto. A me lo ha detto, e più d'una volta. Prefe-

riva di gran lunga Mortimer a Lawrence. Non aveva assolutamen-

te dubbi in proposito." S'incupisce di nuovo e guardando gli

astanti uno dopo l'altro: "Mi domando perché".

Nessuno risponde. Nessuno incrocia il suo sguardo.

"Suppongo sia perché... Suppongo sia perché sapeva... che

Mortimer non aveva nessuna intenzione di ucciderlo."

Guarda in faccia i suoi parenti, come a cercare conferma. Il

loro silenzio è assoluto e attonito d'orrore

Tabitha appoggia il tovagliolo sul tavolo, spinge indietro la se-

dia e si leva in piedi con una smorfia di sofferenza.

"Beh, è ora di andare a letto. Sulla Collina di Legno, verso la

Fiera del Bianco, come soleva dire la mia Nanny." Va verso la

porta della sala da pranzo e non è chiaro se stia parlando ancora

agli ospiti o semplicemente a se stessa. "Su per le lunghe e tortuo-

se scale; su per le scale, a dire le mie preghiere." Si gira, e non v'è

alcun dubbio che la domanda seguente è diretta al fratello.

"Dici ancora le tue preghiere, Lawrence?"

Lui non risponde.

"Io le direi stasera, se fossi in te."

Completamente svuotata emotivamente, Rebecca si stese con

la schiena appoggiata allo spesso strato di cuscini. Divaricò lenta-

mente le gambe e si massaggiò le cosce, alleviandone la sofferenza.

Accanto a lei, col capo pesantemente abbandonato sulla sua spal-

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la, Mortimer stava già scivolando nel sonno. Gli ci erano voluti

quasi quaranta minuti per raggiungere l'orgasmo. Ogni volta ci

metteva sempre di più; e quantunque fosse nel complesso un

amante attento e premuroso, Rebecca stava cominciando a consi-

derare queste maratone una specie di prova. Le doleva la schiena

e aveva la bocca secca, ma non allungò la mano verso il bicchiere

d'acqua della notte temendo di disturbare il marito.

Lui, annebbiato dal sonno, cominciò a mormorare qualcosa di

incoerente.

"... cosa farei senza di te... così dolce... metti le cose a posto

tu... rendi tutto tollerabile..."

"Su, dài," sussurrò lei. "Domani si torna a casa. E' finita."

"... odio tutti... li odio... che farei se non ci fossi tu qui a... a

render tutto più bello... talvolta mi vien voglia di ucciderli... ucci-

derli tutti..."

Rebecca sperò che Hilary riuscisse a prender sonno. Aveva tre

dita della mano spezzate. Non aveva creduto a quella storia del-

l'incidente. Non ci aveva creduto nemmeno un secondo. Non v'e-

ra nulla, allora, di cui non avrebbe incolpato Roddy. Come quelle

fotografie con cui l'aveva sorpreso: che poi era venuto fuori che

gli erano state regalate da Thomas, maledetto...

Mezz'ora dopo, alle due meno un quarto del mattino, Morti-

mer stava russando ritmicamente e Rebecca era ancora completa-

mente sveglia. Fu allora che credette di sentire dei passi nel cor-

ridoio, qualcuno che passava furtivamente davanti alla porta della

loro camera.

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Poi cominciarono i rumori. Colpi e schianti di un inequivoca-

bile corpo a corpo. Due uomini che lottavano, entrambi con tut-

ta la forza di cui disponevano, afferrando qualsiasi arma venisse

loro alla mano. Il grugnito della fatica fisica, un chiamarsi per

nome l'un l'altro, forte, gridando. Rebecca ebbe appena il tempo

di infilarsi la vestaglia e accendere la luce della stanza quando

udì un grido, lungo e terribile, ben più forte di tutti gli altri ru-

mori. Ora le luci si stavano accendendo in tutta Winshaw To-

wers ed ella poté distinguere gente che andava di corsa in dire-

zione del trambusto. Rebecca, però, restò dov'era, paralizzata

dalla paura. Aveva identificato quel grido, anche se non ne aveva

mai sentiti di simili sino ad allora. Era il grido di un uomo che

stava morendo

Due giorni dopo, nel giornale locale apparì il seguente arti-

colo:

 

TENTATO FVRTO CON SCASSO A WINSHAW TOWERS.

Lawrence Winshaw si difende, l'intruso soccombe.

Il drarnma è sceso su Winshaw Towers sabato

notte e una cerimonia famigliare è stata tragicamente

compromessa.

Quattordici ospiti si erano riuniti per celebrare il

cinquantesimo compleanno di Mortimer Winshaw

fratello minore di Lawrence - che ora è il proprieta-

rio della dimora, antica di trecento anni. Dopo che i

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membri della famiglia si erano ritirati per coricarsi,

un uomo è entrato nella casa tentando un'audace

azione criminosa che gli è costata la vita.

Sembra che l'intruso sia entrato attraverso la fine-

stra della-biblioteca che di solito è chiusa con un luc-

chetto. Egli è quindi entrato di forza nella camera da

letto di Lawrence Winshaw, dove è seguito un violen-

to alterco. Infine, reagendo esclusivamente in sua di-

fesa, Mr Winshaw ha avuto la meglio sul suo assalito-

re al quale ha inferto un colpo mortale sul cranio con

la testa d'ottone del grattaschiena che egli tiene sem-

pre accanto al letto. La morte è stata istantanea.

La polizia non è ancora riuscita a identificare l'as-

salitore che non pare un uomo del posto, ma è certa

che il motivo dell'irruzione sia stato il tentativo di fur-

to. Non esistono ragioni, ha aggiunto il portavoce,

per dar corso ad accuse nei confronti di Mr Winshaw

il quale - si dice - è in uno stato di profondo turba-

mento seguito all'incidente.

Le indagini continuano: i lettori di questo giorna-

le saranno tenuti al corrente di ogni sviluppo.

 

 

Domenica mattina, il giorno dopo la festa di compleanno,

Mortimer si scoprì diviso fra due opposte forme di lealtà. Il sen-

timento della famiglia o quel poco che ne rimaneva continuava a

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essere in agguato dentro di lui, lo spronava a restare col fratello

per aiutarlo a riprendersi dalla traversia che aveva passato; ma

al contempo, non poteva trascurare il trepidante desiderio di Re-

becca di lasciare Winshaw Towers e tornare nell'appartamento di

Mayfair il più presto possibile. Non era poi una decisione così ar-

dua da prendere. Alla moglie non aveva mai negato nulla; e del

resto, rimaneva lì un vero esercito di parenti che poteva ben assu-

mersi senza problemi il compito di dare il necessario sostegno a

Lawrence. Alle undici i loro bagagli erano radunati nell'ingresso

in attesa d'essere caricati sulla Bentley argentata, e Mortimer si

stava preparando a porgere i suoi ultimi saluti a Tabitha che

non era ancora uscita dalla sua stanza dopo aver appreso gli scon-

volgenti fatti della notte appena trascorsa.

Mortimer vide Pyles in fondo al corridoio dell'ingresso e gli

fece cenno d'avvicinarsi.

"Il dottor Quince è venuto a visitare Tabitha stamane?" do-

mandò.

"Sì, signore. L'ha visitata piuttosto presto, verso le nove."

"Capisco. Non credo... Spero che nessuno del personale di

servizio pensi che abbia una sia pur minima responsabilità del...

di ciò che è accaduto."

"Non so cosa pensino gli altri domestici, signore."

"Naturalmente. Va da sé. Ebbene, Pyles, se dai un occhio tu ai

nostri bagagli, penso che andrò a scambiare due parole con lei."

"Molto bene, signore. Anche se... credo che abbia un altro vi-

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sitatore in questo momento."

"Un altro visitatore?"

"Un gentiluomo si è presentato circa dieci minuti fa, signore

chiedendo di Miss Tabitha. E' Burrows che ci ha avuto a che fare e

temo proprio che l'abbia fatto salire in stanza."

"Capisco. Penso sia meglio che vada a chiedere."

Mortimer salì rapidamente le molte scale che portavano alle

camere di sua sorella, poi si fermò per un attimo davanti alla por-

ta. Non si sentiva venire nessuna voce da dentro, almeno finché

non bussò e non udì, dopo una pausa considerevole, l"'Avanti"

stridulo, inespressivo di Tabitha.

"Sono venuto a salutarti," si giustificò, scoprendo, infine, che

era sola.

"Addio," disse Tabitha. Stava facendo a maglia qualcosa di

rosso porpora, largo e informe, e una copia della rivista "Spitfi-

re!" era appoggiata, aperta, sulla scrivania che aveva di fianco.

"Dobbiamo vederci più spesso in futuro," continuò lui nervo-

samente. "Magari ci vieni a trovare a Londra, che ne dici?"

"Ho i miei dubbi," disse Tabitha. "Il dottore era qui di nuovo

stamattina, e io so cosa vuol dire 'sta faccenda. Stanno cercando

di incolparmi di quello che è successo stanotte, e mi rinchiuderan-

no ancora." Rise e scrollò le sue spallucce scheletrite. "Beh, se lo

fanno, vuol dire che ho perso la mia grande occasione."

"Perso la tua...?" Mortimer cominciò, ma riuscì a frenarsi. Andò

invece verso la finestra e provò ad adottare un tono indifferente

mentre diceva: "Beh, naturalmente, ci sono delle... delle circostanze

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che devono essere spiegate. La finestra della biblioteca, per esempio.

Pyles giura di averla chiusa come al solito a chiave, e tuttavia que-

st'uomo, questo rapinatore, chiunque fosse, non pare che l'abbia

forzata. Non credo che tu abbia avuto modo di sapere qualcosa..."

Lasciò il discorso in sospeso.

"Ma guarda cosa mi hai fatto fare con le tue chiacchiere," dis-

se Tabitha. "Mi è caduto un punto."

Mortimer si rese conto che stava perdendo tempo.

"Allora, me ne vado," disse.

"Fa' buon viaggio," rispose Tabitha senza guardarlo.

Mortimer si fermò sulla porta per un momento.

"A proposito," disse, "chi è venuto a farti visita?"

Lei lo fissò con uno sguardo assente.

"Visita?"

"Pyles ha detto che è venuto uno a farti visita qualche minuto fa. "

"No, si sbaglia. Decisamente, si sbaglia."

"Capisco." Mortimer tirò un respiro profondo ed era sul pun-

to di andarsene quando qualcosa lo trattenne ancora, si voltò ac-

cigliato. "Me lo sto solo immaginando," disse, "o qui dentro c'è

un odore particolare?"

"E' gelsomino," disse Tabitha, fissandolo radiosa per la prima

volta "Non è delizioso?"

 

 

 

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3.

 

In quei tempi là, Yuri era il mio unico e solo eroe. I miei ge-

nitori mettevano da parte ogni fotografia che trovavano su riviste

e giornali, e io le attaccavo alla parete della mia camera con le

puntine da disegno. Ora su quella parete è stata incollata una nuo-

va carta da parati ma per molti anni, tolte le foto, i segni delle

puntine restarono li, visibili, disseminati, come le stelle di una co-

stellazione, secondo un ordine fantasiosamente dominato dal caso.

Sapevo che era recentemente venuto in visita a Londra: avevo vi-

sto in televisione le scene in cui lui passava in auto per strade fian-

cheggiate da una gran folla che gli dava il benvenuto. Avevo

sentito della sua apparizione alla mostra di Earl's Court, e sapere

che aveva stretto le mani a centinaia di ragazzi fortunati mi faceva

rodere dall'invidia. E tuttavia non mi era venuto in mente di far-

mici portare. La proposta di una gita a Londra sarebbe suonata

agli orecchi dei miei genitori audace e gravosa come un viaggio

sulla luna.

Per il mio nono compleanno, comunque, mio padre propose,

se non proprio un viaggio sulla luna, almeno una specie di lancio

nella stratosfera, vale a dire tutta una giornata fuori, a Weston-su-

per-Mare. Mi furono promesse una visita alla ferrovia in miniatura

appena aperta e all'acquario, e, se il tempo l'avesse consentito,

una nuotata nella piscina scoperta. Era metà settembre: il 17 set-

tembre 1961, per essere precisi. Furono invitati alla gita anche i

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miei nonni Ä ovvero i miei nonni materni, giacché con quelli pa-

terni non avevamo nulla a che fare; tant'è che, per quanto tornassi

indietro con la memoria, non ricordavo d'averne mai sentito par-

lare, anche se in realtà sapevo che erano ancora vivi. Forse mio

padre continuava a mantenere dei contatti in segreto, ma ne du-

bito. Sapere cosa provasse non è mai stato facile, e neanche adesso

saprei dire se ne sentisse la mancanza oppure no. Aveva, in ogni

caso, civili rapporti col nonno e la nonna, e con gli anni era venu-

to costruendo una tranquilla parete difensiva contro l'affabile ma

costante stuzzichio del nonno. Credo sia stata mia madre a invitar-

li, probabilmente senza consultarlo. E del resto, non ci fu traccia

di alcun battibecco. I miei genitori non litigavano mai. Lui si limi-

tò semplicemente a mugugnare qualcosa nella speranza di saperli

seduti di dietro.

Ma furono le donne a sedere di dietro, naturalmente, con me

schiacciato nel mezzo. Il nonno si sistemò nel sedile davanti con

un atlante stradale aperto sulle ginocchia e con quel sorriso faceto

e distante foriero per mio padre di una giornata faticosa. Avevano

già lungamente bisticciato su che macchina prendere. La Volks-

wagen dei nonni era vecchia e inaffidabile, ma il nonno non per-

deva mai occasione per gettare discredito sui modelli inglesi che

mio padre, impiegato in un'azienda automobilistica della zona,

contribuiva, nel suo piccolo, a progettare e che comprava non

certo per lealtà nei confronti dei padroni della sua azienda o

del paese.

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"Dita incrociate," disse il nonno, quando mio padre girò la

chiave dell'avviamento. E quando il motore s'accese al primo col-

po: "I miracoli non finiscono mai".

Mi avevano regalato degli scacchi da viaggio per il mio com-

pleanno, così mia nonna e io giocammo qualche partita lungo il

percorso. Né l'uno né l'altra capivamo bene le regole, ma nessuno

dei due voleva ammetterlo e proseguivamo improvvisando un gio-

co che era una specie di incrocio fra la dama e il football da tavo-

la. Mia madre, distaccata e pensosa come sempre, si limitava a

guardar fuori del finestrino: o forse ascoltava la conversazione

che avveniva nei posti davanti.

"Che c'è?" stava dicendo il nonno. "Stai provando a rispar-

miare benzina o che altro?"

Mio padre non gli diede retta.

"Qui si possono fare cinquanta miglia all'ora, sai?" insisteva.

"C'è il limite di cinquanta miglia."

"Possiamo prendercela comoda. Non abbiamo fretta."

"Intendiamoci, io sono convinto che, se provi a superare i

quarantacinque, 'sto rottame si mette subito a sferragliare. Noi vo-

gliamo arrivare laggiù tutti d'un pezzo, dopo tutto. Però adesso

fatti in là, c'è una bicicletta dietro di noi che chiede il sorpasso."

"Guarda, Michael, delle mucche!" disse mia madre, tentando

una mossa diversiva.

"Dove?"

"Nel campo."

"Ne ha già viste di vacche il ragazzo," disse il nonno. "Lascia-

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lo stare. Non è che per caso sentite un rumore di ferraglia?"

Nessuno lo sentiva.

"Son sicuro di sentire un rumore di ferraglia. Come di una

guarnizione che s'allenta." Si volse verso mio padre. "Qual è il

pezzo dell'auto che hai disegnato tu, Ted? I portacenere, vero?"

"Il piantone dello sterzo," disse mio padre.

"Guarda, Michael, le pecore!"

Parcheggiammo sul lungomare. I ciuffi di nuvole che screzia-

vano il cielo mi fecero venire in mente lo zucchero filato, metten-

do in moto un treno di pensieri che condusse inevitabilmente a

un baracchino lungo il molo, dove i nonni mi comprarono un'e-

norme palla rosa di ambrosia glutinosa e un bastoncino di zuc-

chero candito che misi da parte, per dopo. Solitamente mio pa-

dre avrebbe avuto qualcosa da ridire circa gli effetti deleteri Ä sia

odontoiatrici che psicologici Ä impliciti nell'accordarmi simili fa-

vori, ma dato che era il mio compleanno, lasciò perdere. Mi se-

detti su un muretto che dava sul mare e trangugiai lo zucchero

filato, assaporando la deliziosa tensione fra il dolce così dolce e

la vaga ruvidezza della materia, sinché, giunto a tre quarti del-

l'impresa, cominciai ad averne nausea. Com'era rasserenante sta-

re di fronte al mare. Non prestavo grande attenzione ai passanti,

ma avevo la strana impressione di coppie molto per bene che

passeggiavano a braccetto e d'altra gente più anziana che mi

sfrecciava accanto con passo più determinato, vestita per andare

in chiesa.

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"Spero non sia stato un errore," bisbigliò mia madre, "venire

di domenica. Sarebbe tremendo se fosse tutto chiuso."

Il nonno compensò mio padre con una delle sue più elo-

quenti strizzatine d'occhio, sintesi suprema di maliziosa simpatia

e divertita puntualizzazione di una caratteristica situazione fami-

gliare.

"E come se ti avesse partorito una seconda volta," disse.

"Ebbene, festeggiato," disse mia madre, pulendomi le labbra

con un tovagliolino. "Da dove vuoi cominciare?"

La prima tappa fu l'acquario. Con ogni probabilità si trattava

di un bellissimo acquario, ma io me lo ricordo solo vagamente. A

pensarci suona così strano: la mia famiglia aveva fatto tanti e tali

programmi per garantirmi quegli svaghi, e invece sono le loro pa-

role non premeditate, i gesti e le inflessioni sfuggiti alla griglia del

pensiero, che hanno aderito alla mia memoria come mosche in-

trappolate sulla carta moschicida. Però questo me lo ricordo: il

cielo stava già cominciando ad annuvolarsi quando ne uscimmo,

e una forte brezza marina rese difficile a mia madre godere del

picnic che facemmo sul prato dei Beach Lawns, con le sedie a

sdraio disposte a semicerchio: la vedo ancora avanzare faticosa-

mente alla rincorsa di erranti sacchetti di carta, sforzandosi di di-

stribuire i sandwich in mezzo all'ostinato sbattere della carta olea-

ta in cui erano contenuti. Ci fu un sacco di avanzi che lei finì per

offrire all'uomo venuto a chiedere la mercede per le sedie a

sdraio. (Tratto comune a tutta la loro generazione, i miei genitori

avevano il dono di attaccare discorso con gli estranei senza appa-

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rente difficoltà. Era un dono che io credevo di acquisire un gior-

no, una volta lasciata alle spalle la timidezza dell'infanzia e dell'a-

dolescenza, ma non accadde nulla di tutto ciò. Adesso mi rendo

conto che l'estrema socievolezza che esibivano ovunque andassero

aveva a che fare coi tempi piuttosto che con una particolare ma-

turità di comportamento.)

"Bel tocco di prosciutto, questo," disse l'uomo, dopo un mor-

so di assaggio. "A me mi ci piace sopra un bel po' di senape."

"Anche a noi," disse il nonno. "Ma sua Grazia non l'avrà."

"Ah, come lo vizia," disse la nonna indirizzandomi un sorriso.

"Lo vizia che non c'è più religione."

Io fingevo di non sentire, e stavo con gli occhi incollati all'ul-

tima fetta del dolce al cioccolato che mia madre mi porse senza

dire una parola, un dito sulla bocca in segno di avvertimento,

in un ironico teatro della cospirazione. Era il terzo pezzo di dolce

che ricevevo. L'aveva fatto lei, che non usava mai un comune cioc-

colato per dolci: solo autentico Dairy Milk.

Si stava avvicinando il momento di smaniare per la nuotata

promessa, ma lei mi disse che prima bisognava aspettare la fine

della digestione. Sperando di stornare la mia impazienza, mio pa-

dre mi portò sul mare. C'era la bassa marea: e una grigia distesa di

fanghiglia sabbiosa arrivava sin quasi all'orizzonte e dei bambinet-

ti accompagnati trotterellavano come esploratori in erba, in una

mano la rete per i granchi e nell'altra quella di un riluttante geni-

tore. Noi vagolammo senza meta per circa mezz'ora e infine avem-

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mo il permesso di andare verso la piscina. Non era molto affollata.

C'era della gente distesa o seduta sulle sedie a sdraio, altra a pren-

dere il sole vicino all'acqua: la minoranza che aveva optato per sta-

re in acqua nuotava molto energicamente, in un gran echeggiare

di tonfi e grida. I pezzi orchestrali per acqua erano diffusi da

un impianto di amplificazione ma dovevano competere con varie

radio transistor che suonavano di tutto, da Cliff Richard a Kenny

Ball e i suoi Jazzmen. L'acqua mandava bagliori e riflessi irresisti-

bili. Non riuscivo proprio a capire come la gente preferisse star-

sene sdraiata sulla schiena ad ascoltare la radio quando aveva a di-

sposizione una liquida prospettiva di felicità come quella. Mio pa-

dre e io sbucammo fuori dalle cabine-spogliatoi insieme: quel po-

meriggio mi sembrò l'uomo più forte e più bello della piscina, ma

l'occhio della memoria ora mi restituisce l'immagine dei nostri

corpi smilzi e bianchicci egualmente infantili e vulnerabili. Corsi

avanti a lui e mi fermai sul bordo della piscina, pregustandomi

un breve ma impagabile momento di golosa speranza. Un balzo,

un urlo.

La piscina non era riscaldata. Perché avevamo creduto che lo

fosse? Mi trapassò un dardo di ghiaccio e il colpo mi tramortì, ma

la prima risposta Ä non solo alla sensazione fisica, ma alla ben più

profonda agonia del piacere, pregustato e indi negato Ä fu di

scoppiare in lacrime. Non so quanto durò la lagna. Mio padre de-

ve avermi tirato fuori dell'acqua; mia madre deve essere corsa giù

dalla galleria degli spettatori dove sedeva insieme ai nonni. Le sue

braccia mi cingevano, avevo su di me gli occhi di tutti e cionono-

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stante fui inconsolabile. In seguito mi raccontarono che l'impres-

sione generale era che non avrei mai smesso di piangere. In qual-

che modo, però, mi cambiarono, mi vestirono e mi guidarono in

un mondo esterno che la minaccia d'un acquazzone aveva ora im-

merso nell'ombra.

"E' una disgrazia," stava dicendo la nonna. A un inserviente

della piscina gliele aveva cantate in faccia, cosa da non augurare

a nessuno. "Dovrebbe esserci un avviso, o un cartello che dica

la temperatura dell'acqua. Dovremmo scrivere una lettera di re-

clamo."

"Povero agnellino," diceva la mamma. Io stavo piagnucolando

ancora un po'. "Ted, perché non torni alla macchina a prendere

degli ombrelli? Altrimenti finiremo col prenderci tutti un malan-

no. Ti aspetteremo qui."

"Qui" era una pensilina dell'autobus sul lungomare. Ci se-

demmo tutti e quattro ad ascoltare il martellare della pioggia sulla

tettoia di vetro. Il nonno mugugnò "Povere creature" Ä segno ine-

quivocabile che il giorno stava prendendo, a suo giudizio, una pie-

ga catastrofica Ä che mi diede l'imbeccata per riprendere la lagna

con raddoppiata energia. Quando tornò mio padre, portando due

ombrelli e un foulard di plastica tutto piegato, mia madre lo guar-

dò in silenzio col panico negli occhi, ma evidentemente aveva già

soppesato la situazione e se ne uscì con un ingegnoso suggerimen-

to: "Magari c'è qualcosa di bello al cinema".

La sala più grande e più vicina era l'Odeon, che dava un film

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intitolato Il dubbio con Gary Cooper e Deborah Kerr. I miei ge-

nitori gli diedero un'occhiata veloce e proseguirono spediti, ben-

ché io indugiassi voglioso, attratto dalla prospettiva di quel titolo

vago e inquietante, dal volto dei due protagonisti in locandina, e

affascinato dal cartello che il gestore della sala aveva fatto incolla-

re in posizione strategica sotto il poster: NESSUNO, ASSOLUTAMENTE

NESSUNO, SARA' AMMESSO IN SALA DURANTE GLI ULTIMI TREDICI MINUTI

DEL FILM. SARETE AVVERTITI DA UNA LUCE ROSSA INTERMITTENTE. il non-

no mi prese bruscamente per una mano e mi trascinò via.

"Che ne dite di questo?" domandò mio padre.

Eravamo fermi davanti a un edificio più piccolo e meno ma-

gnioquente che si presentava come "il solo cinema indipendente

di Weston". Mia madre e la nonna si chinarono per studiare più

da vicino i programmi di sala. Le labbra della nonna si contrasse-

ro in una piega dubbiosa e sul volto di mia madre s'incise un de-

licato cipiglio.

"Pensate che sia adatto?"

"Ci sono Sid James e Kenneth Connor. Dovrebbe essere di-

vertente."

Così disse il nonno ma notai che la sua attenzione era attratta

in realtà dall'immagine di Shirley Eaton, una bellissima attrice

bionda che era la terza stella dei film.

"E vietato ai minori," osservò mio padre.

Fu allora che gridai: "Mamma! Mamma!"

I suoi occhi seguirono il mio indice puntato. Avevo trovato un

avviso in cui si diceva che il documentario proiettato prima dei film

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raccontava la storia del programma spaziale russo e si intitolava

Con Gagarjn verso le stelle. Inoltre Ä come vantava l'annuncio Ä

la pellicola era A COLORI, anche se io non avevo certo bisogno di

questo allettamento in più. Mi profusi in un repertorio di occhi

supplicanti, pur avvertendo, mentre prendevo l'abbrivio, che

non era necessario, perché loro, i miei genitori, avevano già deci-

so. Ci mettemmo in fila per i biglietti. Quando la cassiera gettò

un'occhiata perplessa sulla mia persona dal cubicolo in cui era pri-

gioniera e la mia mano, intanto, aumentava ansiosamente la presa

su quella di mio padre, disse: "Sicuri che sia grande abbastanza?"

e immediatamente esperii lo stesso tormentoso precipitare, la stes-

sa nausea emotiva che avevo sentito l'attimo in cui mi ero buttato

nella piscina non riscaldata. Ma il nonno era ben lontano da tutto

ciò. "Ci dia i biglietti, femmina," disse, "e pensi agli affari suoi."

Qualcuno in coda dietro di noi ridacchiò. Un attimo dopo marcia-

vamo in fila dentro la sala buia e io sedevo, sprofondando sempre

più giù, nella mia poltrona, la nonna alla mia sinistra, mio padre

alla destra.

Sei anni dopo Yurj sarebbe morto: il suo Mig-15 precipitò in-

spiegabilmente fuori delle nubi basse e andò a schiantarsi al suolo

durante un atterraggio di fortuna. Allora ero abbastanza grande

per aver assorbito un po' del diffuso sospetto per tutto ciò che sa-

peva di russo, per aver sentito l'obliquo mormorare che si faceva

sul Kgb e del dispiacere a cui il mio eroe doveva essere andato

incontro nel suo paese per aver fatto buon viso alle acclamazioni

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degli occidentali. Forse Yuri si era davvero condannato il giorno

in cui strinse tante mani di ragazzini alla Earl's Court; e tuttavia,

allora, era loro che avrei voluto tutti morti. Quale che sia la spie-

gazione, non riesco più a ricatturare o neanche a immaginare lo

stato di innocenza con cui avevo assistito, quel pomeriggio, all'in-

genua, stentorea celebrazione del suo successo. Vorrei poterlo fa-

re. Vorrei che egli fosse rimasto un oggetto di cieca adorazione,

invece di diventare un altro degli onnipresenti, insolubili misteri

dell'età adulta: una storia senza una vera fine. Di cui avrei presto

fatto la scoperta.

CENTRAL

IL SOLO CINEMA INDIPENDENTE DI WESTON

Domenica, 17 settembre e tutta la settimana

I ragazzi sotto ai 16 anni sono ammessi solo la domenica accompagnati dai

genitori

Domenica, apertura alle 16,15 Nei giorni feriali, ore 13,30

Sidney James Shirley Eaton Kenneth Connor

SETIE ALLEGRI CADAVERI

Nei giorni feriali spettacoli alle ore 15 Ä 17.50 Ä 20.45

in più

CON GAGARIN VERSO LE STELLE

Il film russo ufficiale a COLORI

con il commento di Bob Danvers-Wlakers

Nei giorni feriali spettacoli alle ore 13.40 - 16.30 - 19.25

Proprio mentre le luci s'abbassavano per la seconda volta e

l'appello della censura appariva sullo schermo per annunciare l'i-

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nizio dello spettacolo principale, mia madre si sporse fuori della

sua poltrona e cominciò a bisbigliare sopra la mia testa.

"Ted, sono quasi le sei."

"E allora?"

"Quanto durerà questo film?"

"Non so. Una novantina di minuti, credo."

"Ma poi dobbiamo anche tornare. Arriveremo molto più tardi

di quando lui va a letto."

"Per una volta si può soprassedere. E' il suo compleanno, do-

po tutto."

I titoli avevano cominciato a scorrere e i miei occhi erano fissi

sullo schermo. Il film era in bianco e nero e la musica, benché non

priva di una certa amenità, finì presto con l'annoiarmi.

"E la cena?" bisbigliò mia madre. "Come facciamo per la

cena?"

"Oh, non so. Ci si ferma da qualche parte sulla via del ri-

torno."

"Ma allora arriveremo ancora più tardi."

"Non puoi star seduta e goderti lo spettacolo?"

Per qualche minuto notai che, malgrado tutto, mia madre con-

tinuava a chinarsi per prender luce e gettare rapide occhiatine al

suo orologio da polso. Dopo, non badai più a quel che faceva: ero

troppo preso a concentrarmi sul film.

Narrava la storia di un uomo nervoso ma mite di carattere (in-

terpretato da Kenneth Connor) che di sera tardi, nel suo apparta-

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mento, veniva spaventato dall'arrivo di un sinistro avvocato. L'av-

vocato era venuto a dirgli che un ricco zio era morto di recente e

che doveva recarsi al più presto nello Yorkshire dove si sarebbe

dato seguito alla lettura del testamento nella magione di famiglia,

Blackshow Towers. Kenneth saliva nello Yorkshire in treno in

compagnia di un suo amico, un loquace bookmaker (interpretato

da Sidney James), e scopriva che Blackshow Towers era situata in

fondo alla brughiera, molto lontano dal villaggio più vicino. Non

riuscendo a trovare un taxi, essi accettavano un passaggio su un

carro funebre che li lasciava appiedati nella brughiera in mezzo

a una fitta nebbia.

Quando infine arrivavano alla casa, udivano in lontananza ulu-

lare dei cani.

Sidney disse: "Non è quel che si dice un posto per fare le va-

canze".

Kenneth disse: "C'è qualcosa che fa venire la pelle d'oca in

questo posto".

Il resto della platea pareva trovare il tutto divertente, ma io ero

già completamente terrorizzato. Non ero mai stato portato a vede-

re niente di simile prima d'allora: benché non fosse propriamente

un film dell'orrore, i dettagli erano molto convincenti, e l'atmosfe-

ra cupa, la musica drammatica e la perpetua sensazione che do-

vesse accadere qualcosa di terribile, tutto congiurava per tormen-

tarmi con un misto stranissimo di paura ed esaltazione. Una parte

di me non voleva far altro che scappare fuori del cinema in ciò che

era rimasto della luce del giorno; ma un'altra parte di me era de-

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terminata a restare per scoprire dove la vicenda voleva arrivare.

Kenneth e Sidney entrarono di soppiatto nell'ingresso di

Blackshow Towers e scoprirono che la casa, dentro, era non meno

lugubre di come appariva dal di fuori. Venne loro incontro un ri-

pugnante maggiordomo dall'aspetto macilento che faceva di nome

Fisk e che li condusse di sopra per mostrare le camere che erano

state loro assegnate. Con grande sgomento, Kenneth scopriva non

solo che era stato portato nell'ala orientale, lontano dal suo amico,

ma che gli era stata assegnata la stessa stanza in cui il suo defunto

zio era spirato. Nel corridoio si sentiva una molle, insinuante mu-

sica d'organo. Scesi al piano terra, venivano presentati agli altri

membri della famiglia di Kenneth: i cugini Guy, Janet e Malcolm,

lo zio Edward, e la zia pazza Emily, per la quale il tempo pareva

essersi fermato alla prima guerra mondiale. Appena prima che

l'avvocato cominciasse la lettura del testamento, appariva un'altra

donna: una bellissima giovane donna bionda interpretata dall'at-

trice Shirley Eaton. Era stata infermiera dello zio di Kenneth du-

rante gli ultimi tempi della sua malattia: perciò era presente. In-

torno al tavolo non c'erano abbastanza sedie per tutti e così Ken-

neth dovette stare gomito a gomito con Shirley, cosa che invero

pareva non dispiacergli affatto.

Venne data lettura del testamento dal quale si arguiva che a

nessuno dei parenti era stato lasciato alcunché: erano stati vittime

di una burla ben riuscita. All'ora di ritirarsi nelle loro camere li-

tigarono furiosamente fra di loro. Poi, improvvisamente, saltaro-

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no tutte le luci di casa. Fuori infuriava un tremendo temporale e

Fisk avanzò l'ipotesi che doveva essersi rotto il generatore. Ken-

neth e Sidney s'offrirono di andare con lui a controllare. Quando

raggiunsero il casotto in cui era installato il generatore, scopriro-

no che il macchinario era stato mandato in frantumi. Tornando

verso la casa, restarono basiti nel vedere lo zio Edward seduto su

una sedia a sdraio in mezzo al prato, che si inzuppava di pioggia.

Sidney disse: "Cosa sta a fare seduto li?"

Kenneth rise e disse: "E' incredibile. Farà la fine d'un,.. la fine

d'un..."

Uno starnuto tremendo lo scosse tutto, e intanto lo zio Ed-

ward cadde rigido dalla sedia a sdraio. Era morto.

Kenneth disse: "Sid... dici che è...?"

Sidney disse: "Beh, se non lo è, ha un sonno davvero pesante".

Ci fu un tuono terrificante, e mia madre si sporse verso mio

padre. Gli bisbigliò: "Ted, su, andiamo".

Mio padre rideva. Disse: "E perché mai?"

Mia madre disse: "Non è adatto".

Kenneth disse: "Non possiamo certo lasciarlo qui, no? Senti,

mettiamolo nel ripostiglio per gli attrezzi Ä dev'essere laggiù da

qualche parte".

Le risate del pubblico aumentarono quando Kenneth, Sid e il

maggiordomo provarono a raccogliere il corpo massiccio dello zio

Edward.

Sidney disse: "Senti, sarebbe più semplice se gli mettessimo

sopra il ripostiglio degli attrezzi".

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A quella battuta rise persino la nonna. Ma mia madre guardò

l'orologio un'altra volta e mio padre, immaginando, forse, che fos-

si terrorizzato, mi arruffò i capelli e distese il suo braccio vicino,

onde io potessi afferrarlo e stringermi contro di lui.

Kenneth e Sidney tornarono dentro e raccontarono al resto

della famiglia che lo zio Edward era stato assassinato. Sid cercò

di chiamare la polizia, ma scoprì che la linea era stata tagliata.

Kenneth disse che sarebbe tornato a casa ma l'avvocato gli ram-

mentò che per la brughiera, con quel tempo, era impossibile pas-

sare, e che se partiva adesso, sarebbe stato il primo a essere so-

spettato dell'assassinio di Edward. Raccomandò invece a tutti

che andassero a letto e si chiudessero a chiave nelle loro stanze.

Fisk disse: "E solo l'inizio. Ce ne sarà un altro, io l'ho detto".

Sidney disse: "Buona notte, allegrone".

Kenneth e Sidney tornarono al piano superiore, ma poi, lasciato

a se stesso, Kenneth finì subito per perdersi nella vecchia casa,

enorme e irregolare. Aprì la porta di quella che riteneva fosse la

sua stanza e scoprì che era già occupata da Shirley: la ragazza aveva

addosso solo la sottoveste e stava infilandosi una camicia da notte.

Kenneth disse: "Ma insomma che ci fa nella mia stanza?"

Shirley disse: "Non è la sua stanza, questa. Immagino che

quello non sia neppure il suo bagaglio, o sbaglio?"

Si strinse, pudica, la camicia da notte sul seno.

Kenneth disse: "Accidenti! No. Un momento! Neanche il let-

to è il mio. Devo essermi perduto. Scusi. Via... me ne vado via".

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Girò sui tacchi, ma fece solo pochi passi e si fermò. Si voltò e

vide che Shirley teneva ancora la camicia da notte arricciata sul

seno, incerta sulle intenzioni di lui.

Mia madre si agitò inquieta nella poltrona.

Kenneth disse: "Signorina, non è che per caso sa dov'è la mia

stanza?"

Shirley scosse il capo e disse: "No, temo di no".

Kenneth disse: "Ah," e fece una pausa. "Scusi. Adesso me ne

vado."

Shirley esitò, mentre una risoluzione prendeva forma dentro di

lei: "No. Rimanga". Fece un gesto imperioso con la mano. "Si vol-

ti un attimo."

Kenneth si girò e si scoprì a fissare uno specchio nel quale vide

la propria immagine riflessa, e al di là di quella, l'immagine di

Shirley. Gli dava la schiena e stava liberandosi a fatica della sotto-

veste sfilandosela dalla testa.

Lui disse: "Acc... un attimo, signorina".

Mia madre cercò di attirare l'attenzione di mio padre.

Kenneth inclinò frettolosamente lo specchio girevole, che era

montato su un perno.

Shirley si voltò verso di lui e disse: "Che dolce". Finì di sfilarsi

la sottoveste dalla testa e cominciò a slacciarsi il reggiseno.

Mia madre disse: "Su! Andiamo. E' troppo tardi ormai".

Ma il nonno e mio padre stavano fissando lo schermo stralunati

mentre la bella Shirley Eaton si toglieva il reggiseno dando le spalle

alla macchina da presa e Kenneth cercava eroicamente di resistere

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e non sbirciare nello specchio che gli avrebbe restituito una tanto

preziosa quanto fuggevole visione del corpo di lei. Anch'io, sup-

pongo, ero con gli occhi inchiodati su di lei, e pensavo di non aver

mai visto una donna così stupenda: da quel momento non fu più a

Kenneth che parlò ma a me, al mio io di nove anni, perché ormai

ero io quello che si era perso nel corridoio, ed ero io, sì, io che sta-

vo sullo schermo e mi vedevo là in una stanza insieme alla più bella

donna del mondo, intrappolato in quella vecchia casa buia, in quel

tremendo temporale, in quello squallido cinemino, nella mia came-

retta quella sera e poi nei miei sogni per sempre. Ero io.

Shirley riemerse da dietro la mia testa, il corpo fasciato dalla

corta camicia tagliata al ginocchio, e disse: "Adesso può girarsi".

Mia madre si alzò in piedi e la donna dietro di lei disse: "Stia

seduta, per amor del cielo".

Sullo schermo, mi voltai e la guardai. Dicevo: "Accidenti.

Molto provocante".

Shirley si ravviò i capelli, imbarazzata.

Mia madre mi afferrò la mano e mi strappò fuori della poltro-

na. Mi lasciai sfuggire un mugolio di protesta.

La donna di dietro disse: "Ssh!"

Il nonno disse: "Ma che fai?"

Mia madre disse: "C'è che adesso noi ce ne andiamo. E venite

via anche voi, a meno che vogliate farvi a piedi la strada da qui a

Birmingham".

"Ma il film non è ancora finito."

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Shirley e io sedevamo insieme sul letto a due piazze. Lei disse:

"Ho una proposta da farle".

La nonna disse: "Se si va via, sbrighiamoci. Dobbiamo fermar-

ci da qualche parte per la cena, suppongo".

Sullo schermo dicevo: "Sì?"

Fuori dello schermo dissi: "Mamma, io voglio star qui a vede-

re come va a finire".

"Non si può."

Mio padre disse: "Orbene. Marciamo se marciar bisogna. Gli

ordini sono ordini, pare".

Il nonno disse: "Io resto dove sono. Mi sto divertendo".

La donna dietro di noi disse: "State a sentire, adesso vado a

chiamare il direttore".

Shirley mi venne più accanto. Diceva: "Perché non resta qui

stanotte? Non me la sento di passare la notte da sola: potremmo

farci compagnia".

Mia madre mi prese per le ascelle e mi sfilò dalla poltrona, e per

la seconda volta, quel giorno, scoppiai in lacrime: in parte per au-

tentica sofferenza in parte, non v'è dubbio, per. il mero oltraggio

patito. Non mi si prendeva su in quel modo da quando ero piccolo.

Mia madre si fece largo fra la gente che sedeva nella nostra stessa

fila e cominciò a trascinarmi giù per i gradini verso l'uscita.

Sullo schermo sembravo incerto su come rispondere all'offerta

di Shirley. Borbottai qualcosa, ma in quella confusione non riuscii

a sentire. Vidi la nonna e mio padre che ci seguivano nel corridoio

e il nonno che si alzava riluttante dal suo posto a sedere. Mentre

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mia madre apriva con una spinta la porta che portava alle fredde

scale di cemento e all'aria salmastra, mi voltai e colsi un'ultima im-

magine dello schermo. Stavo uscendo dalla stanza ma Shirley non

se ne accorgeva perché stava trafficando con il letto.

Shirley disse: "Io starò comodissima anche sulla..." Si voltò e

le mancò la parola. Vide che me n'ero andato.

"...sulla poltrona."

La porta si chiuse e la mia famiglia scese vociando giù per le

scale. Io gridavo "Mettimi giù! Mettimi giù!", e quando mia ma-

dre mi lasciò a terra cercai immediatamente di rifare le scale di

corsa e di rientrare nel cinema, ma mio padre mi afferrò e disse:

"Dove credi di andare?" e allora seppi che era tutto finito. Lo

martellai di pugni e cercai persino di graffiarlo sulle guance. Per

la prima e unica volta in vita mia, mio padre imprecò e mi assestò

uno schiaffo, forte, sulla faccia. E a tutti bastò quello per riportare

la calma.

In auto, tornando a casa, fingo di dormire, ma in realtà le mie

palpebre non sono veramente chiuse e riesco a vedere la luce gial-

la dei lampioni illuminare a intermittenza il volto di mia madre.

Luce, ombra. Luce, ombra.

Il nonno dice: "Dunque non sapremo mai cosa succede", e da

dietro la nonna ribatte: "Sta' zitto", e accompagna le parole con

un pugno sulle spalle.

Io non sto più piangendo, non faccio neanche il broncio. Co-

me Yuri, sono stato completamente dimenticato e posso persino

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riandare tranquillamente con la memoria al film che poche ore

prima mi ha così eccitato. E mi vengono solo in mente la paurosa

atmosfera di Blackshow Towers e la scena inesplicabile in cui

quella donna bella, bellissima chiede a Kenneth di passare la notte

con lei e lui scappa via mentre lei non guarda.

Ma perché è scappato via? Per paura?

Guardo mia madre .e sono sul punto di chiedere a lei se ha ca-

pito perché Kenneth va via invece di passare la notte con una

donna che l'avrebbe fatto sentire felice e al sicuro. Ma so che cosa

mi risponderebbe. Direbbe che il film era stupido, che la giornata

è stata lunga e che dovrei andare a dormire e cancellarlo dalla me-

moria. Non si rende conto che non potrò mai cancellarlo dalla

memoria. E così, con questa intima consapevolezza, me ne sto ste-

so e fingo di dormire, con la testa in grembo a mia madre e le pal-

pebre semichiuse così da riuscire a vedere la luce gialla dei lam-

pioni illuminare a intermittenza il suo volto. Luce, ombra. Luce,

ombra. Luce, ombra.

 

 

 

 

 

 

Parte prima,

LONDRA.

 

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AGOSTO 1990.

 

Kenneth disse: "Signorina, non è che per caso sa dov'è la mia

stanza?"

Shirley scosse la testa sconsolata e disse: "No, temo di no".

Kenneth disse: "Ah," e fece una pausa. "Scusi. Adesso me ne

vado."

Shirley esitò, mentre prendeva forma una risoluzione dentro di

lei: "No. Rimanga". Fece un gesto imperioso con la mano. "Si vol-

ti un attimo."

Kenneth si girò e si ritrovò a fissare uno specchio nel quale vi-

de la propria immagine riflessa e, al di là di quella, l'immagine di

Shirley. Gli dava la schiena e stava liberandosi a fatica della sotto-

veste sfilandosela dalla testa.

Lui disse: "Acc... un attimo, signorina".

La mia mano, ferma tra le gambe, si mosse.

Kenneth indinò frettolosamente lo specchio girevole.

Shirley si voltò verso di lui e disse: "Che dolce". Finì di sfilarsi

la sottoveste dalla testa e cominciò a slacciarsi il reggiseno.

La mia mano prese a muoversi, sfregando pigramente sul grez-

zo cotone dei jeans.

Shirley sparì dietro la testa di Kenneth.

Kenneth disse: "Beh, una.., un bel viso non è tutto".

Continuando a tener giù lo specchio, cercò di non guardarci

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dentro ma non seppe resistere a qualche sbirciatina. A ogni sbir-

ciata, il suo volto dichiarava una palese sofferenza fisica. Shirley

indossò la camicia da notte.

Kenneth disse: "Non è tutt'oro quel che luccica".

Ella riemerse da dietro la sua testa, il corpo fasciato dalla corta

camicia tagliata al ginocchio, e disse: "Adesso può girarsi".

Lui si girò e la guardò. Aveva un'aria compiaciuta.

"Accidenti. Molto provocante."

Shirley si ravviò i capelli, imbarazzata.

La mia mano si fermò. Puntai verso il tasto "pause", ma poi

mi venne un'idea migliore.

Kenneth cominciò a far su e giù per la stanza e disse con l'aria

di chi la dice grossa: "Beh, suppongo che lei debba essere piutto-

sto impaurita con tutto quello che è successo qui stasera".

Shirley disse: "Oh no, davvero". Si sedette sul letto a due piaz-

ze dalla pesante struttura in quercia.

Kenneth si mosse velocemente verso di lei. Disse: "Ebbene,

io sì".

Shirley disse: "Ho un'idea," e si protese in avanti.

Kenneth si voltò e ricominciò a fare avanti e indietro nella

stanza. Come fra sé e sé disse: "Sì, una o due ce le ho anch'io".

Shirley disse: "Venga a sedersi qui". Batté il palmo della mano

sul letto, vicino a sé. "Venga." Partì un pezzo orchestrale ma nes-

suno dei due sembrò farci caso. Kenneth le si sedette a fianco. Lei

disse: "Ho una proposta da farle".

Kenneth disse: "Ah sì?"

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Shirley gli si fece più vicino. Disse: "Perché non resta qui sta-

notte? Non me la sento di passare la notte da sola: potremmo far-

ci compagnia".

Così disse Shirley, e Kenneth, voltatosi, si curvò su di lei. Per

un attimo sembrarono sul punto di baciarsi.

Io guardavo.

Kenneth distolse lo sguardo. Disse: "Sì, è... un ottimo pro-

gramma, signorina, ma, io...', si alzò e riprese a trottare avanti e

indietro. "... noi non ci conosciamo così bene..."

Si avviò verso la porta. Shirley forse disse qualcosa, ma fu im-

possibile sentire cosa, indi prese a rivoltare le lenzuola e a spri-

macciare i cuscini. Mentre così faceva, la sua immagine tornò a

riflettersi in uno specchio, questa volta in una specchiera a figura

intera dalla parte opposta del letto. Non fece caso a Kenneth che

era già sulla porta. Lì lui si voltò per darle un'ultima occhiata e poi

svicolò via rattamente.

Ancora intenta a sistemare il letto, Shirley disse: "Io starò co-

modissima anche sulla..." Si voltò e le mancò la parola. Vide che

Kenneth se n'era andato.

"...sulla poltrona."

Schiacciai il tasto "rewind".

Per un attimo Shirley restò immobile sullo schermo: aveva la

bocca aperta e il corpo tutto tremolante. Poi si voltava e rifaceva

il letto, Kenneth tornava nella stanza camminando all'indietro,

Shirley sembrava dire qualcosa, si sedeva sul letto, Kenneth a

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sua volta sembrava dire qualcosa, le si sedeva a fianco e sembra-

vano parlarsi, lui si alzava, indietreggiava e si allontanava rapida-

mente da lei, lei si alzava, Kenneth parlava trottando avanti e in-

dietro, lei si gingillava con i capelli, lui distoglieva lo sguardo da

lei, lei spariva dietro la sua testa e cominciava a sfilarsi la camicia

da notte, il volto di Kenneth si contraeva ripetutamente in smorfie

alzando e abbassando lo specchio girevole, Shirley si metteva il

reggiseno, appariva da dietro la testa di lui, cominciava a infilarsi

la sottoveste dalla testa e diceva qualcosa, Kenneth alzava precipi-

tosamente lo specchio, diceva qualcosa e gettava una fuggevole

occhiata allo specchio, e Shirley prendeva a dimenarsi dentro la

sottoveste.

Pigiai il tasto "pause".

Il volto di Kenneth e la schiena di Shirley erano riflessi nello

specchio. Tremolavano. Ripigiai il tasto "pause". Si mossero ap-

pena. Lo pigiai ancora e poi di nuovo, ripetutamente. Lei si dime-

nava. Si toglieva la sottoveste. Se la sfilava dalla testa. Kenneth

guardava. Sapeva di non dover guardare. La sottoveste era quasi

via. Le braccia di Shirley erano alte sopra la sua testa.

La mia mano, ferma tra le gambe, si mosse.

Kenneth diceva qualcosa, lo si capiva dal lento muoversi delle

labbra. Abbassava lo specchio, fuori della portata dei suoi occhi.

Lo teneva abbassato per non guardarci dentro.

Shirley si girava verso di lui e muoveva le labbra. Diceva qual-

cosa. Due parole soltanto, ma il tempo che impiegò parve molto

più lungo. Lei continuava a togliersi la sottoveste sfilandosela dalla

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testa. Concluse la manovra a scatti, in sette passaggi consecutivi.

Mise le mani dietro la schiena. Le dita armeggiarono intorno al

gancio del reggiseno.

La mia mano prese a muoversi, sfregando contro il grezzo co-

tone dei jeans.

Shirley si voltò. Fece un passo in avanti. Scomparve dietro la

testa di Kenneth.

Le labbra di Kenneth si mossero: stava dicendo qualcosa.

Qualcuno bussò alla porta.

Dissi: "Oh merda!" e schizzai fuori della poltrona. Riavvolsi il

nastro. Lo schermo passò dal bianco e nero al colore e tornò l'au-

dio: una voce maschile, forte e profondissima. C'era un uomo sul-

lo schermo. Teneva un braccio intorno a un bambinetto. Un cine-

giornale. Abbassai il volume e mi accertai che i pantaloni fossero

abbottonati. Diedi un'occhiata all'appartamento. Era molto in di-

sordine. Decisi che ormai era troppo tardi per far qualcosa in pro-

posito e andai verso la porta. Chi poteva mai essere alle dieci me-

no venti di martedì sera?

Aprii la porta e la tenni appena socchiusa. Era una donna.

Aveva degli occhi azzurri penetranti e intelligenti che avreb-

bero certamente inchiodato i miei con la forza e la fissità del loro

sguardo, se io non li avessi deliberatamente evitati, preferendo

soffermarmi sulla sua pallida carnagione leggermente screziata e

sui suoi folti capelli ramati. Mi sorrise, ma fu solo l'accenno di

un sorriso, quanto bastò per indovinare una bella chiostra di

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denti regolari e mettermi nella condizione di restituirglielo, anche

se a fatica. Riuscii a produrre, credo, un mezzo ghigno molto si-

nistro. Insolita ed eccitante era la presenza di una persona davan-

ti alla mia porta, ma quel piacere fu temperato non soltanto dal-

l'inopportuno tempismo dell'interruzione ma anche dalla sensa-

zione, caparbia e inquietante, di avere già visto quella donna: tan-

to che da un momento all'altro avrei potuto riconoscerla e persi-

no rammentarmene il nome. Nella mano sinistra stringeva un

foglio formato A4, piegato a metà; la destra le ciondolava irre-

quieta sul fianco, come se stesse cercando una tasca in cui na-

scondersi.

"Salve," disse.

"Salve."

"Disturbo?"

"Assolutamente no. Stavo guardando la televisione."

"Già... Beh, so che ci conosciamo poco o nulla, ma un favore

pensavo di poterglielo chiedere. Se lei non ha nulla in contrario."

"Non c'è nulla di male. Vuole entrare?"

"Grazie."

Mentre superava la soglia di casa mia cercai di ricordare quan-

d'era stata l'ultima volta che avevo ricevuto una visita, di chicches-

sia. Probabilmente risaliva a quando era venuta mia madre a tro-

varmi, due o tre anni prima. Che poi era stata l'ultima volta in cui

avevo passato straccio e aspirapolvere. Che cosa mai voleva dire

con quel "ci conosciamo poco"? Suonava alquanto strambo.

"Vuoi darmi il soprabito?" chiesi.

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Mi fissò e allora notai che non portava soprabito, ma solo dei

jeans e una larga camicia di cotone. La cosa mi spiazzò ma riuscii

a nascondere l'imbarazzo unendomi alla sua risata nervosa. Fuori,

dopo tutto, faceva caldo ed era ancora chiaro.

"Allora," dissi dopo esserci messi entrambi a sedere. "Come

posso aiutarla?"

"Dunque, la questione è questa." E proprio mentre comincia-

va a spiegare, la mia attenzione fu attratta dalle macchie rosso

brune sul dorso della sua mano, e mi ritrovai a fantasticare su

che età potesse avere, dato che il suo volto, e specialmente i suoi

occhi, possedevano ancora una loro freschezza, una loro curiosità,

una loro giovinezza, qualità secondo le quali non le avrei dato più

di trent'anni, ma poi cominciai a domandarmi se non avesse inve-

ce la mia stessa età, o addirittura qualche anno in più, magari qua-

rant'anni passati da un pezzo, e mentre cercavo di venire a capo

della questione mi resi conto che lei aveva smesso di parlare, che

era in attesa di una mia risposta e io non avevo sentito una sola

parola di quel che aveva detto.

ú Seguì una pausa lunga e difficile. Mi alzai in piedi, infilai le

mani in tasca e mi diressi verso la finestra. A quel punto non potei

far altro che fare marcia indietro e dire, quanto più educatamente

possibile: "Le dispiacerebbe ricapitolare il tutto?"

Lei restò di stucco ma fece del suo meglio per nasconderlo.

"Ma certo," disse e poi riprese a spiegare tutta la faccenda, solo

che questa volta, trovandomi vicino alla finestra, scoprii di avere

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la televisione davanti e gli occhi finirono per incollarsi al sorriden-

te signore dai capelli scuri e bruno di carnagione che, sullo scher-

mo, teneva il braccio intorno al bambinetto e pareva far di tutto

per non dispiacere al ragazzino il quale, da parte sua, se ne stava

rigido sull'attenti fissando il vuoto e tentando di sottrarsi a quella

specie di zio che gli stava a fianco, con tanto di folti baffoni e sor-

riso stampato sulla bocca. Era una scena con un che di così irre-

sistibile, di così esagerato e innaturale che mi rammentai d'essere

lì con quella donna solo quando aveva quasi finito di parlare, e io

mi resi conto di non aver ancora idea di che cosa avesse detto.

Altra pausa. Più lunga e ben più ardua della prima. Prima di

immergermici, pensai con attenzione alla mossa successiva: con fa-

re pensoso e noncurante raggiunsi mollemente l'altro capo della

stanza, indi mi appoggiai con il sedere contro il bordo del tavolo,

onde il busto potesse basculare all'indietro mentre la fronteggiavo

e a quel punto dissi: "Non è che magari, ripetendoli un'altra volta,

i fatti possano guadagnare in chiarezza?"

Lei mi osservò intensamente per qualche secondo. "Spero che

tu non te la prenda, Michael, se te lo chiedo," disse, "ma sei sicu-

ro di sentirti bene?"

Domanda corretta, secondo qualunque metro di giudizio: pec-

cato che io non ne possedessi neanche uno dentro di me per dare

una risposta altrettanto corretta.

"C'entra la mia capacità di concentrazione," dissi. "Non è più

quella di un tempo. Troppa televisione, temo. Se si potesse... an-

cora una volta... 'sta volta sto attento. Davvero."

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Per un po' fu arduo figurarsi che piega avrebbe preso la fac-

cenda. Non m'avrebbe sorpreso se si fosse limitata ad alzarsi e a

uscire dalla stanza. Guardò il suo foglio formato A4 con l'aria di

chi si sta chiedendo se lasciar cadere l'argomento definitivamente

e rinunciare al compito evidentemente ingrato di incanalare la mia

attenzione su quelle poche parolette facili facili. Ma poi, tirato un

lungo respiro, riprese a parlare: adagio, ad alta voce, con cautela.

Quella era Ä va da sé Ä l'ultima possibilità che mi veniva concessa.

E a quel punto avrei anche prestato orecchio alla cosa, oh sì so-

no sicuro che l'avrei fatto, dato che, oltre tutto, s'era accesa la mia

curiosità, ma come fare col cervello in subbuglio, e tutti i sensi che

vorticavano? Mi aveva dato del tu, aveva proferito il mio nome, mi

aveva chiamato col mio nome di battesimo, Michael, aveva detto

"Spero che tu non te la prenda, Michael, se te lo chiedo" e non

so dirvi da quanto non mi succedeva d'essere chiamato per nome,

bisogna risalire a quando era venuta a trovarmi mia madre Ä due,

quasi tre anni prima Ä e il lato intrigante della questione era che se

lei sapeva come mi chiamavo, con ogni probabilità io sapevo come

si chiamava lei, o comunque l'avevo saputo un tempo, o era scon-

tato che lo sapessi, dovevamo esserci presentati una volta o l'altra:

ed ero così preso nel cercare di dare un nome a quel volto, e di col-

locarlo nel giusto contesto, che dimenticai completamente di pre-

stare attenzione al suo discorso lento, articolato, a voce alta, onde

per cui, quando finì, io seppi che eravamo preda di una condizione

che andava molto al di là, molto più al di là, che andava oltre i pur

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già tremendi confini di un'altra lunga e difficile pausa.

"Non hai sentito neanche una parola, vero?"

Feci di no con la testa.

"Ho l'impressione di perdere il mio tempo," disse alzandosi

svelta in piedi.

Mi fissava con occhi accusatori; e non avendo ormai molto da

perdere la fissai anch'io.

"Ti posso chiedere una cosa?"

Si strinse nelle spalle. "Perché no?"

"Chi sei?"

Restò a occhi sbarrati, ma fu come se avesse fatto un passo in-

dietro, pur non essendosi affatto mossa.

"Scusa?"

"Io non so chi sei."

Se ne uscì con un sorriso incredulo, sofferto.

"Sono Fiona."

"Fiona." Il nome cadde senza rimbombo, senza eco, dentro la

mia memoria. "Dovrei conoscerti?"

"Sono la tua vicina di casa," disse Fiona. "Abito sul tuo stesso

pianerottolo, di fronte a dove stai tu. Mi sono presentata qualche

settimana fa. Ci incrociamo sulle scale... tre o quattro volte alla

settimana. E tu mi saluti."

Sgranai gli occhi e le andai un po' più vicino, scrutandola sen-

za alcun pudore. Mi irrigidii tutto nello sforzo immane di stimo-

lare la mia memoria. Fiona... Non riuscivo ancora a ricordarmi

d'aver sentito quel nome, non di recente, certo, e pur avendo la

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sensazione che qualcosa di lei stesse cominciando ad assumere

una vaga familiarità, le origini di questo sentimento erano oscure,

e avevano ben poco a che fare col sapore di quotidiani incontri

sulle scale, semmai rimandavano all'impressione che mi fosse stata

porta la foto di un avo scomparso, nei cui tratti virati in seppia

avevo potuto, forse, ravvisare le tracce di una somiglianza di fami-

glia. Fiona...

ú "Quando ti sei presentata," chiesi, "ho detto qualcosa?"

"Non molto, no. Ho pensato che fossi un tipo poco socievole.

Ma io non rinuncio facilmente, e infatti ho continuato a provare."

"Grazie," dissi e mi sedetti in una poltrona. "Grazie."

Fiona era rimasta in piedi accanto alla porta. "Allora me ne

vado?"

ú "No, ti prego, se riesci a reggermi ancora per un po'. Insieme

potremmo capirci qualcosa. Ti prego, siediti."

Fiona esitò, e prima di arrivare a sedersi sul divano davanti a

me, aprì la porta che dava sul pianerottolo e la lasciò socchiusa.

Finsi di non farci caso. Si inchiodò nel mezzo del divano, con la

ú schiena inarcata e le mani penosamente intrecciate in grembo.

"Cosa stavi dicendo?" chiesi.

"Vuoi che ripeta tutto un'altra volta?"

"Un riassuntino. In due parole."

"Ti chiedevo un finanziamento. Sto preparando una corsa cicli-

stica di beneficenza, per l'ospedale." Mi tese il foglio in formato

ú A4, metà del quale era coperto da un intricato garbuglio di firme.

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In alto, in poche righe, era spiegata la natura dell'evento e la

ragione per cui veniva raccolto il denaro. Lessi velocemente e dis-

si: "Sessanta chilometri non sono una passeggiata. Devi essere

ú molto in forma".

"In verità, non ho mai fatto niente di simile prima d'ora. Ho

pensato che fosse un'occasione per tirarmi un po' fuori."

Piegai il foglio in due, lo riposi e mi abbandonai a un pensiero.

Sentivo che cresceva in me una nuova energia e la tentazione di

ridere, per quanto strana potesse sembrare, fu immensa. "E' comi-

co, sai?" dissi. "Ti dico cosa c'è di comico?"

"Dillo, per favore."

"Questa è la conversazione più lunga che io abbia avuto Ä in

cui io ho parlato di più Ä da due anni a questa parte, più o meno.

Da più di due anni, credo. La più lunga."

Fiona rise incredula. "Ma se abbiamo detto due parole in

croce."

"Ciononostante..."

Rise di nuovo. "Ma è ridicolo. Sei stato su un'isola deserta o in

qualche posto del genere?"

"No. Sono stato qui."

Un confuso agitar di capo. "E allora, perché?"

"Non so: non ne avevo voglia. Senza nessuna consapevole de-

cisione a monte, bada bene. C'è che non mi si è mai presentata

l'occasione. Non è poi così difficile, non c'è di che sorprendersi.

Un tempo con qualcuno bisognava pur parlare: che so, anche solo

per andare a far compere o a sbrigare una commissione. Ma ades-

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so gli acquisti si fanno nei supermercati e per le operazioni ban-

carie basta una macchina. Tutto qui."

Mi venne un pensiero in mente e mi alzai per sollevare la cor-

netta del telefono: la linea era ancora attiva.

"C'è qualcosa di strano nella mia voce? Che impressione fa?"

"Una buona impressione. E' assolutamente normale."

"E questo appartamento? Puzza?"

"Sa un po'... di chiuso, sì."

Raccolsi il telecomando deciso a spegnere il televisore. Il ra-

gazzetto con gli occhi serrati, inespressivi, con la schiena tesa e ri-

gida come quella di Fiona quando si era seduta sul divano, non

era più inquadrato: c'era ancora, invece, quella specie di zio coi

denti in bella mostra e i folti baffi neri che stava ancora muoven-

dosi a passi pesanti, stavolta in uniforme militare e circondato da

uomini d'uguale età, nazionalità e portamento. Lo osservai per un

istante e avvertii altri segmenti di memoria che tornavano a pren-

der forma.

"Io so chi è quello," dissi, facendo schioccare le dita e puntan-

do l'indice verso il televisore. "E' Ä comesichiama Ä il presidente

dell'Iraq..."

"Michael, tutti sanno chi è. E' Saddam Hussein."

"Giusto. Saddam." Indi, prima di spegnere il televisore, chiesi:

"Chi era il ragazzo che era con lui? Quello a cui lui cercava di

mettere il braccio sulle spalle?"

"Ma non hai visto il telegiornale? Era uno degli ostaggi. Li

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metteva in mostra, come fossero vitelli."

La faccenda mi suonava oscura, ma non era il momento per

più dettagliate spiegazioni. Spensi il televisore e dissi, ascoltando

la mia stessa voce con interesse: "Scusa, penserai che sono un ma-

leducato. Vuoi bere qualcosa? Ho del vino, succo d'arancia, birra

e limonata, e persino un pochettino di whisky, credo."

Fiona esitò.

"Se ti fa piacere lasciamo la porta aperta. Non mi fa caldo né

freddo."

Lei sorrise e tornò a sedersi sul divano incrociando le gambe:

"Perché no? Sarebbe carino".

"Vino?"

"Meglio del succo d'arancia, grazie. Ho un terribile mal di go-

la che non riesco a far andar via."

Il cucinino era sempre stata la stanza più pulita dell'apparta-

mento. Non facevo la polvere perché è difficile che un osservatore

casuale ci faccia caso, e comunque si può far finta di niente, ma

non tolleravo la vista di macchie e schizzi di cibo rinsecchito sulle

mie brillanti superfici bianche. Quando, perciò, mi ritirai in cuci-

na, e accesi i due riflettori da cento watt che esplorarono impavidi

ogni sorta di spigoli e cavità coi loro raggi di luce purissima, la fi-

ducia in me stesso ne uscì rinsaldata. Si stava facendo buio, e dal

lavello della cucina la prima cosa che mi balzò agli occhi fu l'im-

magine riflessa della mia faccia, ondeggiante come uno spettro

fuori della finestra del quinto piano. Era la faccia alla quale si

era rivolta Fiona negli ultimi minuti. La squadrai bene e cercai

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di immaginare come era apparsa a lei. Gli occhi erano gonfi per

mancanza di sonno e rossi per la troppa consuetudine con lo

schermo televisivo; agli angoli della bocca cominciavano a farsi

avanti rughe profondamente incise, anche se parzialmente velate

da un'ispida barba di due giorni; il profilo della mascella era ra-

gionevolmente saldo, ma in altri tre o quattro anni non sarei sfug-

gito all'incipiente doppio mento; i capelli, una volta fulvi, erano

ormai striati di grigio e reclamavano disperatamente un taglio e

una sacrosanta pettinata; c'erano tracce d'una riga, ma così confu-

sa e incerta da far subito perdonare chi, guardando, non l'avesse

punto notata. Non era una faccia che attirava simpatia: una volta,

gli occhi, d'un blu profondo e vellutato, avrebbero forse lasciato

immaginare pozzi di possibilità ma ora sembravano piantonati,

chiusi dentro un filo spinato. Eppure, al contempo, era una faccia

che non nascondeva nulla, una faccia di cui ci si poteva fidare.

E a guardare oltre la faccia, cosa si vedeva? Aguzzai la vista

nella luce crepuscolare. Poco o niente. Delle luci si erano accese

qui e là dall'altro lato del cortile, e dalle finestre aperte veniva il

mormorio gentile di televisori e impianti stereo. Era un'afosa sera

d'agosto, uguale a tutte le altre, in una estate che pareva godersi il

malizioso piacere di mettere a dura prova i limiti dei londinesi,

giorno e notte, a bagno nel caldo-umido della città. Guardando

giù, notai un'ombra muoversi nei giardinetti. Due ombre, di cui

una molto piccola. Una vecchia che portava a passeggio il cane,

probabilmente sforzandosi di stargli dietro mentre quello zigzaga-

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va fra cespuglio e cespuglio, trepidante e in fermento nell'eccitata

esplorazione di segreti, notturni piaceri. Rimasi ad ascoltare l'al-

ternarsi dello strusciare e del raspare che faceva, che erano poi i

soli suoni riconoscibili, a parte quello, saltuario, delle sirene,

che spiccavano sopra il monotono, torbido rumore di fondo che

è proprio di Londra.

Mi allontanai dalla finestra, tolsi un cartone di succo d'arancia

dal frigo e frantumai tre o quattro cubetti di ghiaccio in un bic-

chiere. Versai il succo sul ghiaccio a pezzi, godendomi il tintinnare

che facevano, cozzando l'uno contro l'altro, nel salire in superfi-

cie. Indi mi versai della birra in un bicchiere e portai i beveraggi

in salotto.

Mi soffermai per un attimo sulla soglia cercando di guardare la

stanza con la stessa obiettività con cui avevo esaminato la mia fac-

cia e con la stessa volontà di immaginare l'impressione che aveva

fatto a Fiona. Lei mi stava osservando, e perciò non ebbi molto

tempo a disposizione, ma, per quanto rapide, alcune osservazioni

vennero da sé: i tendaggi, trovati così nell'appartamento, e i qua-

dri, comprati molti anni prima, non riflettevano assolutamente il

mio gusto attuale; molte superfici Ä il tavolo, i davanzali, il lato

superiore del televisore, la mensola del camino Ä erano ingombri

di giornali, riviste e videocassette piuttosto che di quei soprammo-

bili che avrebbero conferito alla stanza ordine e personalità; dagli

scaffali della libreria, che avevo montato con le mie mani Ä anche

quella molti anni prima Ä una gran quantità di libri era sparita

(ora erano chiusi in una torre di scatoloni nella camera da letto

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deserta), per far posto ad altre videocassette, ammucchiate sia

orizzontalmente che verticalmente, alcune preregistrate, altre pie-

ne di sequenze di film e programmi registrati dalla tv. Era una

ú stanza, insomma, con un aspetto non molto diverso da quello del-

ú la faccia riflessa nella finestra della cucina: in potenza, era acco-

gliente, ma per il momento sembrava essersi trasformata, attraver-

so una miscela di trascuratezza e disuso, in qualcosa di sgraziato e

di neutro, un po' raccapricciante.

Di chiacchiera in chiacchiera, il discorso cadde sull'apparta-

mento, e Fiona ebbe subito a dire che, secondo lei, aveva bisogno

di qualche piantina da vaso. Cantò le lodi del ciclamino e dell'i-

bisco. S'intenerì liricamente sui meriti della cineraria e della felce

spargina. Della cineraria lei s'era perdutamente innamorata solo

di recente, disse. A me non sarebbe mai venuto in mente di com-

prare una piantina e cercai di immaginarmi come sarebbe stato

dividere la stessa stanza con un organismo vivente e in crescita

e, al contempo, con il vecchio disordine di film e riviste. Mi ver-

sai dell'altra birra e andai a prendere altro succo d'arancia che

questa volta Fiona mi chiese di correggere con della vodka. Si ca-

piva che era una donna calda e affettuosa, giacché quando andai

a sedermi accanto a lei sul divano per riempire il modulo dell'of-

ferta, era contenta che le nostre gambe finissero di tanto in tanto

per toccarsi: non vi fu alcuna reazione di riluttanza, e mentre scri-

ú vevo la cifra e firmavo, sentii toccarsi le nostre cosce, e mi chiesi

com'era accaduto, e se, in realtà, non era stata lei, Fiona, a farsi

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più vicina a me. E, del resto, fu ben presto evidente che non ave-

va gran fretta d'andarsene, e che, per qualche ragione, gradiva la

conversazione Ä con me che avevo così poco da ribattere Ä e per-

ciò ne conclusi che doveva essere letteralmente affamata di com-

pagnia Ä non senza, per questo, venir meno a certa forza d'ani-

mo, dignità e compostezza che la caratterizzavano Ä giacché, a di-

spetto del mio comportamento che, all'inizio, doveva averla spa-

ventata, aveva perseverato, assumendo via via un atteggiamento

sempre più rilassato, e sempre più incline alla parola. Non ricor-

do quanto rimase, o di che cosa parlammo, ma so che mi piacque

ú questa insolita pratica di eloquenza, e che dovette protrarsi per

un bel po', per diversi bicchieri svuotati e riempiti di nuovo, pri-

ma che cominciassi a stancarmi e a non sentirmi più a mio agio.

Non so come mai, inevitabilmente, la cosa finì per prendere que-

sta piega: io, in realtà, mi stavo divertendo. Eppure il desiderio di

rimanere solo con me stesso si palesò con repentina intensità.

Fiona andava avanti a parlare, e forse io continuavo a farle da

spalla, ma la mia attenzione aveva cominciato a prendere altre

strade. Lei, però, la riguadagnò dicendo una cosa che mi sorprese

moltissimo.

"Non puoi spegnermi," disse.

"Scusa?"

"Dico che non puoi spegnermi."

Fece cenno alle mie mani. Mi ero riseduto nella poltrona di

fronte a lei e, senza rendermene conto, avevo raccolto il teleco-

mando del videoregistratore. Che ora era puntato verso di lei e

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il mio dito era andato alla cieca verso il tasto "pause".

"E meglio che io vada, credo," disse, e s'alzò in piedi.

Mentre si avviava verso la porta, con il foglio in mano, buttai

veloce sul piatto un'offerta con l'intento di salvare la situazione:

"Credo che mi comprerò una di quelle pianticine. Questo posto

farà di certo un'altra figura".

Lei si voltò. "C'è un piccolo vivaio sulla strada che faccio tor-

nando dal lavoro," disse con dolcezza. "Te ne comprerò una io, se

ti va. Te la porto domani."

"Grazie. Sei davvero molto gentile."

Se n'era andata. Per qualche secondo, dopo che la porta si era

chiusa alle sue spalle, fui preda d'una sensazione molto particola-

re: mi sentii solo. Era però una solitudine mista al sollievo e, di lì a

poco, il sollievo sopraffece ogni altro sentire, sommergendomi,

placandomi e guidandomi delicatamente alla poltrona e ai miei

due amici, i miei fidati compagni, il telecomando per la televisione

e quello per il videoregistratore, uno di qui l'altro di là sui brac-

cioli della poltrona. Accesi i due apparecchi e pigiai il tasto

"play", e Kenneth disse:

"Beh, una... un bel viso non è tutto, no?"

La mattina seguente mi svegliai con addosso la sensazione che

fosse accaduto qualcosa di importante e al contempo indefinibile.

L'evento, quale che fosse, non tollerava, in quello stadio, alcuna

forma di analisi, ma, allo stesso tempo, non stavo più nella pelle

di trar profitto dal suo sintomo più immediato, che era un'ondata

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di grande energia fisica e mentale, senza precedenti nella mia re-

cente esperienza. Da qualche mese a quella parte s'era affastellata

sul mio orizzonte mentale una manciata di compiti sgradevoli, tor-

bidi e umilianti, che ora però parevano aver perso tutta la loro pe-

santezza e giacevano di fronte a me, privi d'ogni minaccia, addi-

rittura invitanti, come gradini di pietra che mi avrebbero condotto

a un futuro più luminoso. Non persi tempo a crogiolarmi nel let-

to. Mi alzai e feci la doccia, mi preparai qualcosa per colazione,

lavai i due cocci e poi cominciai a passare l'aspirapolvere in tutto

l'appartamento. Fu poi la volta dello strofinaccio con cui mi diedi

da fare dappertutto, scremando via strati di polvere così spessi da

dover scuotere lo straccio alla finestra a ogni passata. Indi, com-

plice un filo di stanchezza, mi dedicai un poco al riordino e alla

riorganizzazione. Ero impaziente, fra l'altro, di verificare che certe

carte fossero ancora là dove le avevo lasciate molti mesi prima,

giacché avevo intenzione di riprenderle in mano e ricominciare

a lavorarci su nel pomeriggio. La ricerca durò forse mezz'ora

ma infine saltarono fuori: le lasciai impilate l'una sull'altra sulla

scrivania fresca di pulito.

Era senza dubbio un giorno straordinario e per provarlo feci

un'altra cosa a dir poco eccezionale. Uscii a fare due passi.

Il mio appartamento era sul retro di un vasto complesso di

edifici che dava su Battersea Park. Quantunque questa fosse stata

una delle ragioni fondamentali che ne aveva determinato l'acqui-

sto, sette o Otto anni prima, mi era raramente capitato di sfruttare

la bella posizione. Talora Ä è vero Ä le circostanze mi obbligavano

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ad attraversare il parco, ma era cosa ben diversa dalla scelta di far-

lo per il puro piacere di una meditabonda passeggiata, e in quelle

ú occasioni non badavo assolutamente a quel che avevo intorno. Il

caso volle che neppure adesso mi predisponessi a godermi il posto

giacché carezzavo la speranza che i due passi mi mettessero so-

prattutto nel giusto stato d'animo per prendere una certa decisio-

ne, la cui risoluzione, come molte altre volte nella mia vita, si stava

trascinando da troppo tempo. Mi pareva, però, che fra le novità

del mio risveglio vi fosse anche la sensazione di opporre meno re-

sistenza del solito al mondo, di non riuscire a ignorarlo, e mi sco-

prii entusiasta di quel parco che Ä sino ad allora non ci avevo mai

fatto caso Ä era uno dei più belli di tutta Londra. L'erba era cu-

rata, le aiuole dissodate e grigie nel sole, ma nondimeno quei co-

lori mi colpirono. Era come li vedessi per la prima volta. Sotto un

cielo d'un azzurro incredibilmente pallido, orde di sfegatati del-

l'abbronzatura si arrendevano al riverbero; i loro corpi rosacei

erano coperti da succinti vestimenti in sgargianti colori primari

e le loro teste fremevano sotto i colpi del sole e dell'esizial pulsare

di ghetto blaster e personal stereos, vale a dire le radio portatili e gli

stereo a tracolla, entrati in voga col rap americano. (L'effetto era

un coacervo di musiche diverse.) I cestini della spazzatura erano

strapieni di bottiglie, lattine e involucri di panini preconfezionati.

C'era una vaga atmosfera da giorno festivo con una lontana trac-

cia di tensione e risentimento Ä forse perché il caldo rasentava, co-

me al solito, l'intollerabile, o semplicemente perché, in fondo a

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noi, sapevamo tutti che quello non era il posto migliore per cer-

care di goderselo. Chissà quanti altri stavano carezzando il deside-

rio di stare in campagna; nella campagna vera di cui il parco era in

realtà poco più di una volgare parodia. Nell'angolo nord-ovest,

non molto distante dal fiume, c'era una specie di giardino cintato,

che, mentre me ne stavo li seduto, mi fece tornare in mente il giar-

dino dietro la fattoria di Mr Nuttail, dove giocavo con Joan. Ma

qui, invece del silenzio incantato che noi davamo come per scon-

tato, udivo il sobbalzare degli autocarri e il saltuario rombo degli

aerei, né v'erano rondini o storni a guardarci dagli alberi, bensì

piccioni metropolitani che zampettavano tronfi e nere cornacchie

grosse come polletti.

E la decisione da prendere? Oh quella era arrivata abbastanza

presto. All'inizio della settimana avevo ricevuto una comunicazio-

ne dalla banca che avevo aperto solo quel mattino: avevo scoper-

to, senza stupirmene troppo, che il conto era pesantemente in ros-

so. Nel qual caso, sarebbe stato necessario far qualcosa della pila

di fogli manoscritti che ora stava sulla scrivania. Con un po' di

fortuna Ä ma forse sarebbe stato meglio parlare di miracolo Ä

ne sarebbe venuto fuori un po' di danaro: avrei, però, dovuto ri-

leggere il tutto il più velocemente possibile, onde decidere come

contattare gli editori adatti.

Mi misi subito all'opera appena tornato a casa e avevo già letto

una settantina di pagine quando, nel tardo pomeriggio, Fiona suo-

nò alla porta. Aveva con sé due grandi sacchetti di carta, da uno

dei quali spuntava del fogliame.

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"Perdinci," disse. "Hai tutto un altro aspetto."

(Adesso mi tornano in mente queste sue assurde esclamazioni.

Una era "perdinci"; l'altra "cribbio".)

"Davvero?"

"Ti devo aver preso in una serata storta, ieri."

"Forse. Mi sento più... a mio agio, stasera."

Appoggiò i sacchetti sul pavimento e disse: "Te li ho portati

subito senza passare da casa. Bisogna rinvasarli. Se posso lasciar-

teli qui, vado a darmi una rinfrescata, sistemo due cosette e vengo

a darti una mano".

Una volta che se ne fu andata diedi una sbirciatina dentro i

sacchetti. In uno c'erano delle piante e nell'altro un paio di vasi

di terracotta di media grandezza, insieme ad altri acquisti e a

un giornale. Era da tantissimo che non vedevo quella testata ma

ricordandomi che era venerdì lo tolsi dal sacchetto e lo sfogliai ra-

pidamente fino a una delle pagine centrali. Quando trovai quel

che cercavo sorrisi dentro di me, e cominciai a leggere: dapprima

con scarso interesse; ma solo dopo qualche riga, ero già indignato

e qualcosa affiorò nella mia memoria. Entrai nella camera degli

ospiti, che usavo come studio (e in cui non andavo mai) e ne uscii

con un grosso schedario pieno di ritagli di giornale. Mentre li

scorrevo ritornò Fiona.

Trasportò i sacchetti in cucina e si dispose a rinvasare le pian-

te. Mi arrivava il rumore di cose che venivano spostate e di rubi-

netti, aperti e chiusi in rapida successione. A un certo punto disse:

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"Devo ammettere che la tua cucina è pulita da far spavento".

"Fra un minuto vengo a darti una mano," dissi io. "Apprezzo

tantissimo quello che stai facendo, sai? Devo anche rimborsarti."

"Non dire stupidaggini."

Avevo trovato il ritaglio e lo avevo tolto dallo schedario con

quell'urletto di trionfo. Si trattava, a parte tutto, d'una bella prova

dei poteri della mia memoria. Stesi il giornale sul tavolo da pran-

zo, lo aprii alla pagina giusta, gli posi il ritaglio vicino e rilessi en-

trarnbi gli articoli con attenzione. Il mio sdegno aumentò. Entrò

Fiona con una pianta fra le mani e disse: "Non mi dispiacerebbe

bere qualcosa".

"Scusa. Ma certo. Stavo solo dando un'occhiata a questo arti-

colo. Che ne fai del giornale?"

Quando vide che stavo leggendo il suo giornale, Fiona si mise

sulla difensiva: "Non l'ho comprato. L'ho raccolto sul metrò".

Buttò uno sguardo alle due foto identiche di Hilary Winshaw in

testa alla pagina e fece una smorfia. "Quel mostro di donna.

Adesso magari mi accusi di essere fra i suoi fan. Spero che tu

non lo faccia."

"Per niente. Interesse professionale, tutto qua. Mentre ti pre-

paro qualcosa, leggili, e poi dimmi che ne pensi."

La rubrica esisteva da più di sei anni e aveva ancora lo stesso

titolo: Il buon senso comune. Neanche la foto era cambiata. Era li

che, ogni venerdì, la grande mogol della televisione, la Signora dei

media, dava appuntamento per esternare il suo personale punto di

vista su qualsiasi argomento stimolasse la sua errabonda fantasia,

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dissertando con eguale convinzione su temi che andavano dallo

stato assistenziale e dalla situazione internazionale all'orlo delle

gonne ostentato dai membri della famiglia reale in certe occasioni

pubbliche. Di anno in anno erano stati migliaia e migliaia i lettori

soggiogati Ä così pareva Ä dal fascino della sua squisita abitudine

di professare una quasi totale ignoranza su ogni tema che ella

sceglieva di discutere Ä era nota, infatti, la determinazione con

cui avanzava le più stridenti opinioni su libri o film in voga am-

mettendo, al contempo, con grande disinvoltura, di non aver

avuto il tempo di leggerli o di andarli a vedere. Altro tratto vin-

cente era la maniera in cui faceva sentire il lettore generosamente

incluso nella ristretta cerchia dei suoi intimi, disponendosi a rac-

contare, con straordinaria profusione di particolari, le avventure

della sua conduzione domestica, e usando toni che finivano per

destare una punta di sacrosanta indignazione ogniqualvolta de-

scriveva i capricci delle maestranze edili, degli idraulici e degli

imbianchini che si succedevano gli uni agli altri e che parevano

in permanenza stabile nella sua enorme casa di Chelsea. E un da-

to di cui pochi sono al corrente, ma nondimeno interessante, che

per il profluvio torrentizio di tanta scempiaggine Ms Winshaw

era pagata con un compenso annuale pari a sei volte il salario

di un insegnante qualificato e Otto volte quello di un'infermiera

diplomata del Servizio sanitario nazionale. Anche di questo ho

prove certe.

I due articoli che avevo messo a confronto vedevano Hilary

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esercitarsi sulla politica. Benché a distanza di quasi quattro anni,

li presento qui come li leggemmo quel giorno Fiona e io: l'uno ac-

canto all'altro.

 

 

Oggi è arrivato sulla mia scri-

vania il bollettino di un gruppo che

si fa chiamare Sostenitori della

democrazia in Iraq, abbreviato in

Sdi.

Essi dichiarano che il presi-

dente Saddam Hussein è un bru-

tale dittatore che tiene le redini

del potere con la tortura e l'intimi-

dazione.

Ebbene, ho da dire due paro-

lette a questo stupido branco di

Sdi: fatevi fatti vostri!

Chi è responsabile dei pro-

grammi di assistenza sociale che

hanno portato così profondi mi-

glioramenti in ogni angolo dell'I-

raq, nei servizi che hanno come

obiettivi la casa, la scuola e la sani-

tà?

Chi ha offerto di recente agli

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iracheni il diritto alla pensione e

un salario minimo garantito?

Chi ha fatto installare nuovi e

più efficienti sistemi di irrigazione

e di drenaggio, chi ha concesso

generosi prestiti ai contadini e

promesso "benessere per tutti" si-

no al Duemila?

Chi ha dimostrato d'essere

una figura così proba da indurre

il presidente Reagan a cancellarne

il nome dalla lista dei leader poli-

tici accusati di reggere il gioco

dei terroristi?

E chi, ancora, fra tutti i leader

del Medio Oriente, si è messo il

contante sulla bocca, proprio li, e

ha chiamato a raccolta così tanti

imprenditori e industriali inglesi

perché lo aiutino a ricostruire il

suo paese?

Esatto! E lui il " brutale", il

"torturatore" Saddam Hussein.

Piantatela, Sdi! Prendetevela

piuttosto con l'abbaiare degli aya-

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tollah. Magari la vita in Iraq non è

perfetta, ma oggi è meglio, molto

meglio di come è stata per troppo,

troppo tempo.

Dunque Saddam lasciatelo per-

dere. Io dico che è un uomo con cui

possiamo stabilire rapporti d'affari.

 

 

Non capita spesso che un pro-

gramma televisivo mi faccia dar di

stomaco, eppure quello di ieri sera

è stato un'eccezione.

C'è forse qualcuno in tutto il

paese a cui non sia venuto da vomi-

tare guardando Saddam Hussein, al

telegiornale delle nove, che metteva

in mostra i cosiddetti ostaggi che

egli perversamente si propone di

usare come scudo umano?

Quella è un'immagine che non

dimenticherò mai, finché avrò vi-

ta: lo spettacolo di un bimbo visi-

bilmente terrorizzato e indifeso,

che veniva toccato e palpato da

uno dei più efferati e spietati dit-

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tatori della terra.

Se mai qualcosa di buono

può venire da un'esibizione così

rivoltante, sarà quella di far rinsa-

vire la lobby dei cosiddetti pacifi-

sti e far loro capire che non pos-

siamo starcene con le mani in ma-

no lasciando che questo "cane

pazzo" del Medio Oriente se la

svigni senza saldare il conto per

i suoi crimini atroci.

Non parlo solo dell'invasione

del Kuwait. Tutti gli undici anni

di presidenza di Saddam Hussein

sono una lunga, stomachevole sto-

ria di tortura, intimidazione, bru-

talità e assassinio. Chi non mi cre-

de sulla parola dia pure un'occhia-

ta a uno degli opuscoli pubblicati

dal Sdi (Sostenitori della democra-

zia in Iraq).

Non ci sono dubbi in proposi-

to: è finito il tempo di stare a

guardare; è tempo di passare all'a-

zione.

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Preghiamo che il presidente

Bush e la signora Thatcher lo ca-

piscano. E preghiamo anche che il

coraggioso, indomito ragazzino

che ieri sera abbiamo visto sugli

schermi televisivi viva abbastanza

per dimenticare il suo incontro

con il malvagio macellaio di Bagh-

dad.

 

 

Fiona finì di leggere e mi guardò per qualche secondo. "Non

sono sicura d'aver capito," disse.

 

 

 

 

 

 

Hilary.

 

Nell'estate del 1969, poco dopo essere andati insieme a Ox-

ford, Hugo Beamish invitò il suo migliore amico Roddy Winshaw

a passare qualche settimana con la sua famiglia, che viveva in una

enorme casa squinternata e alquanto sporca in un quartiere nord-

orientale di Londra. Fu invitata anche la sorella di Roddy, Hilary,

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che aveva quindici anni.

Hilary trovò tutto quanto d'un tedio tormentoso. Sì, forse era

meglio della solita estate in Toscana con i genitori, ma la madre e

il padre di Hugo si rivelarono altrettanto noiosi o quasi: lei era

una scrittrice, lui lavorava alla Bbc, mentre la sorella era una vera

rompiscatole coi denti in fuori e spaventose macchie sulla pelle.

Alan Beamish era una persona sensibile e s'accorse quasi subi-

to di quanto poco Hilary si divertisse. Una sera, mentre sedevano

tutti intorno al tavolo per la cena e Roddy e Hugo discutevano

animatamente sulle loro rispettive possibilità di carriera, lui la os-

servò mentre ammonticchiava sull'orlo del piatto mucchietti di

ú pasta scotta e le chiese a bruciapelo: "E tu cosa pensi che farai

da qui a dieci anni?"

"Oh, non so." Hilary non diede gran peso alla faccenda, dan-

do per scontato (e a ragione, naturalmente) che prima o poi le sa-

rebbe caduto in grembo qualcosa di affascinante e ben pagato.

Inoltre detestava l'idea di condividere le sue aspirazioni con quella

gente. "Magari entrerò in televisione," disse pigramente, buttando

lì la prima cosa che le era venuta in mente.

"E naturalmente sai che Alan è un producer," disse Mrs Bea-

mish.

Hilary non lo sapeva. Pensava fosse un ragioniere impiegato

nel settore amministrativo di qualche società o al massimo, una

specie di ingegnere. Anche messa in questi termini, la cosa la la-

sciò totalmente fredda: ma da quel momento in poi, Alan scelse,

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da parte sua, di prendere Hilary sotto la sua ala protettiva.

"Sai qual'è il segreto del successo in televisione?" le chiese, un

pomeriggio. "E' semplicissimo. Basta guardarla. Tutto qui. Non

bisogna mai smettere di guardarla."

Hilary annuì. Lei la televisione non la guardava mai. Era con-

vinta di essere già troppo brava.

"Ora ti dico cosa faremo noi due," disse Alan.

La cosa che dovevano fare era sin troppo chiara Ä e con che

orrore, per Hilary: si sarebbero seduti davanti al televisore per

un'intera serata, e Alan avrebbe commentato ogni programma,

spiegando com'era costruito, quanto costava, perché era stato

programmato in quella fascia oraria e chi ne era il pubblico.

"La programmazione è tutto," disse. "Se un programma s'im-

pone o faffisce, dipende dal palinsesto. Capito questo, sbaraglierai

tutti gli altri illustri laureati con cui ti troverai a competere."

Cominciarono dal telegiornale della Bbc1 delle sei meno dieci,

seguito da una rubrica dal titolo Città e circondario. Indi cambia-

rono canale sintonizzandosi sulla Itv e guardarono Il santo con

Roger Moore.

"Questo è il genere di spettacolo in cui eccellono le indipen-

denti," disse Alan. "Vendibilissimo sui mercati esteri: persino in

America. Alti costi di produzione, tanto lavoro di set. E vivace

la regia. Per i miei gusti è una cosetta un po' scialba ma non la

toccherei."

Hilary sbadigliò. Alle sette e venticinque guardarono una roba

su un medico scozzese e la sua colf, che a lei parve troppo lenta e

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provinciale. Alan le rammentò che era uno dei programmi più se-

guiti in televisione. Hilary non ne aveva mai sentito parlare.

"Domani mattina di questa puntata si parlerà in tutti i pub,

negli uffici e nelle fabbriche di tutta l'Inghilterra," disse. "E' que-

sta la cosa eccezionale della televisione: essere una delle fibre che

tengono insieme il paese. Fa cadere le barriere di classe e aiuta a

creare un senso di identità nazionale."

Fu ugualmente ispirato parlando dei due programmi a seguire:

un documentario dal titolo Nascita e caduta del Terzo Reich, e un

altro notiziario delle nove, che durava un quarto d'ora.

"La Bbc è stimata in tutto il mondo per la qualità e l'obietti-

vità dell'informazione giornalistica. Grazie al World Service si può

sintonizzare una radio, in quasi ogni parte del globo, ed essere

certi di ascoltare notiziari autorevoli e imparziali, insieme ad altri

programmi più leggeri di musica e di spettacolo, anche quelli di

altissimo livello. E' una delle nostre più grandi conquiste del dopo-

guerra."

Sino ad allora Hilary s'era solo annoiata ma a quel punto le

cose precipitarono rapidamente. Fu costretta a sorbirsi un terribi-

le varietà intitòlato Tira la cinghia, pieno di battute corrive che fa-

ceva echeggiare lo studio di risate volgari, e poi vide Knockout,

una robaccia con una serie di stupidi giochi all'aperto. La rabbia

e l'imbarazzo la tenevano sulle spine. Senza rendersene conto, in-

canalò il nervosismo nelle dita guidandole verso una fruttiera vici-

no al divano da cui spiluccava, uno dopo l'altro, acini d'uva: e a

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questi, prima di infilarli in bocca, toglieva la pelle con le lunghe

unghie ben curate. Aveva ormai un mucchiettino di pellicine sulle

ginocchia.

"Questo non è proprio il genere di spettacolo che mi piace,"

disse Alan. "Ma non lo disprezzo. Bisogna far cose che piacciano

a tutti. Ciascuno ha diritto alla propria fetta di divertimento."

Finirono col girare sulla Bbc2 per vedere una serie intitolata

Ooh La La!, tratta dalle farse di Georges Feydeau, con attori co-

me Donald Sinden e Barbara Windsor. Hilary, a metà program-

ma, si addormentò e si svegliò in tempo per vedere la fine di

una rubrica di astronomia presentata da un tipo strampalato

con addosso un vestito fuori taglia.

"Ecco, adesso sei pronta," disse Alan con orgoglio. "Notiziari,

spettacoli, sceneggiati, documentari e drammi classici in egual mi-

sura. Non c'è nessun altro paese al mondo che possa offrirti un'e-

sperienza come questa." Con quella sua voce gentile e melodiosa,

con quei ciuffetti di capelli grigi, egli stava pian piano assumendo,

agli occhi di Hilary, i modi e le tonalità di un parroco, e della peg-

gior specie. "Ed è tutto nelle mani di gente come te. Giovani di

talento il cui compito sarà, negli anni a venire, quello di farsi ca-

rico della tradizione."

Alla fine della vacanza, Roddy e Hilary fecero ritorno in treno

a casa dei genitori, nel Sussex.

"E io che pensavo che il vecchio Mr Beamish fosse uno zuc-

cherino," disse Roddy, sfilando una sigaretta dal pacchetto. "Inve-

ce Henry salta fuori a dire che è spaventosamente di sinistra." Ac-

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cese la sigaretta. "Non l'ha passata a Hugo, grazie a Dio. Comun-

que, chi l'avrebbe detto, eh?"

Hilary continuò a guardare fuori del finestrino.

 

 

 

 

Da I 10 più promettenti: foto a colori, in "Tatler", ottobre

1976.

La graziosa Hilary Winshaw è una studentessa da

poco laureata a Cambridge che ha intenzione di tuf-

farsi nella sua nuova occupazione: lavorerà in televi-

sione dove farà esperienza come producer. Hilary ha

già una visione molto precisa sul lavoro che l'attende.

"Credo che la televisione sia una delle fibre che ten-

gono saldamente unita la nazione," dice. "E' magnifi-

ca nel far cadere barriere sociali e nel costruire un

senso di identità e di appartenenza. E' insomma

una tradizione che io spero di incoraggiare e salva-

guardare."

In questa foto Hilary è già pronta ad affrontare il

freddo dell'inverno protetta da una mantella Royal

Samink della pellicceria Renée, Dover Street n. 39,

Wi (3.460 sterline), dolce vita in cashmere cammello

di Pringie, Old Bond Street n. 28,W1 (52.50 sterli-

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ne), guanti di lana di cammello, di Herbert Johnson

Ladies Shop, Grosvenor Street n. 80, Wi (14 sterline

e 95) e stivali bassi in cuoio beige, con tacchi sagoma-

ti, di Midas, Hans Crescent n. 36, SW1 (129 sterline).

 

 

Rete*** Estratto di alcuni minuti della Riunione del Comitato

direttivo, 14 novembre 1983. Confidenziale.

E' stato ripetuto più volte che nessuno ha messo in discus-

sione il contributo di Ms Winshaw al successo dei programmi del-

la società negli ultimi sette anni. Purtuttavia, Mr Fisher ha sotto-

lineato che la di lei decisione di acquistare la Tmt, la società di

produzione americana, per 120 milioni di sterline, nel 1981,

non è mai stata sottoposta al Comitato per una verifica vera e pro-

pria. E ha chiesto che sia fatta chiarezza su quattro punti:

1. Era Ms Winshaw consapevole che, al tempo dell'acquisto, la

Tmt aveva perdite di 32 milioni di dollari l'anno?

2. Era consapevole che i suoi voli settimanali a Hollywood, l'ac-

quisto di un appartamento a Los Angeles e le spese di tre auto

a carico della società erano state tutte citate, nell'accertamento

realizzato dai consulenti dell'amministrazione indipendente

Webster Hadfield, come voci di spesa decisive nell'innalzare i

costi della società di un 40% di troppo?

3. Era consapevole che acquistare sceneggiati a basso costo dalla

Tmt e insistere nel rimontarli aggiungendo sequenze preceden-

temente tagliate (con l'obiettivo di dilatare il tempo di ascolto

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Ä spesso anche di trenta minuti Ä e di far fruttare al meglio i

costi di investimento) era stata una politica tale da influenzare

pesantemente il recente giudizio dell'Iba secondo il quale la so-

cietà rischiava di non raggiungere più la soglia di un'accettabile

qualità?

4. Il raddoppio del suo salario a 210.000 sterline, concordato con

il Comitato esecutivo nel febbraio 1982, rispecchiava equa-

mente e verosimilmente il suo accresciuto carico di lavoro dal-

l'acquisizione della Tmt?

Mr Gardner a questo punto ha sottolineato che ci avrebbe

pensato due volte prima di accettare questo lavoro se avesse sapu-

to che stava salendo su una nave in procinto di affondare, e ha

chiesto chi, per primo, avesse avuto l'idea di assumere quella ma-

ledetta femmina.

Mr Fisher ha risposto che Ms Winshaw era entrata a far parte

dell'azienda su raccomandazione di Mr Alan Beamish, il noto pro-

ducer, che aveva precedentemente lavorato alla Bbc.

Mrs Rawson ha fatto l'esplicita richiesta, come mozione d'or-

dine, che Ms Winshaw la smettesse di batter cassa e che non ci si

potevano più permettere perdite in nessun'area delle attività del-

l'azienda...

Alle 16 e 37 si è votato 11 contro 1 per la rescissione imme-

diata del contratto di Ms Winshaw e per una liquidazione forfet-

taria calcolata sulle attuali, realistiche condizioni finanziarie dell'a-

zienda.

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La seduta è stata tolta alle 16 e 41.

 

 

Dal "Guardian", Diario, 26 novembre 1983.

Sorpresa e incredulità alla notizia del recente di-

stacco dalla Rete *** da parte di Hilary Winshaw.

Non tanto per il fatto che sia stata messa alla porta

(la più parte degli osservatori lo prevedeva da tempo)

quanto per la consistenza della liquidazione: la bel-

lezza di 320.000 sterline, se bisogna stare a quanto

si dice in giro. Non male come ricompensa per aver

ridotto nel giro di due anni il gruppo, un tempo ca-

pace di notevoli profitti, a una condizione di semi-

bancarotta.

Tanta generosità senza precedenti non ha forse

qualcosa a che fare con il di lei cugino Thomas Win-

shaw, presidente della Stewards, la banca che possie-

de una ragguardevole quota nella società? E quanto

c'è di vero nella notizia secondo cui la multidotata

Ms Winshaw è prossima a raccogliere una favolosa

offerta come giornalista in un certo quotidiano il

cui proprietario, guarda caso, è uno dei più preziosi

clienti della Stewards? Come si dice, se saran rose...

 

 

La reputazione di Hilary l'aveva preceduta e ben se ne avvide il

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primo giorno di lavoro quando i nuovi colleghi non le riservarono

grandi manifestazioni di benvenuto. Bene, pensò, che vadano a fare

in culo. Sarebbe venuta solo uno o due giorni la settimana. A dir

tanto.

Aveva una sua scrivania col nome sopra in un angolo appar-

tato del vasto open space. Per l'intanto, altro non v'era che una

macchina per scrivere e la pila degli altri quotidiani usciti in gior-

nata. Il titolo della sua rubrica Ä così era stato deciso Ä suonava Il

buon senso comune. Doveva riempire quasi una paginetta, parten-

do con un pezzo piuttosto lungo, molto marcato dal punto di vi-

sta ideologico, seguito da due o tre note più personali, di pette-

golezzi.

Era il marzo 1984. Tirò su il primo giornale che le capitò in

mano e gettò un'occhiata ai titoli. Un paio di minuti dopo, lo mise

da parte e cominciò a battere a macchina.

Scrisse il titolo La politica dell'avidità e poi via di seguito:

La maggior parte di noi, che sta ancora stringen-

do la cinghia per la recessione, sarebbe d'accordo:

non è tempo di andare a bussare alla porta del gover-

no per chiedere altro danaro.

La maggior parte di noi, che ha ancora fresche

nella memoria le immagini del terribile "inverno dello

scontento", sarebbe d'accordo: un'altra serie di scio-

peri è l'ultima cosa di cui il paese ha bisogno.

Ma noi faremmo i conti senza il neomarxista Ar-

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thur Scargill e il suo rapace Sindacato nazionale dei mi-

natori.

Mr Scargill minaccia già una "mobilitazione del-

l'industria" Ä che naturalmente, per chiunque sappia

leggere, vuol dire immobilità, stare con le mani in

mano Ä qualora lui e i suoi compagni non ricevano

una nuova bella scarica di aumenti salariali e gratifi-

che.

Ebbene, dico io, vergogna, Mr Scargili! Proprio

mentre noi tutti ci stringiamo assieme per rimettere

in piedi questo paese, lui, chi si crede d'essere per ri-

cacciarci nelle "buie ere" delle sommosse industriali.

Come osa mettere l'avidità dell'egoismo avanti al-

l'interesse nazionale!

Hilary guardò l'orologio. Per il suo primo pezzo aveva impie-

gato una dozzina di minuti: non male per una principiante. Lo

portò di persona al vicedirettore che cominciò col cassare il titolo

e indi, giusto il tempo d'un rapido esame annoiato, risospinse in-

dietro il foglio facendolo strisciare sulla scrivania sino a lei.

"Non vogliono altro danaro," disse.

"Scusi?"

"I minatori. Non è per quello che scioperano."

Hilary corrugò la fronte. "Sicuro?"

"Sicurissimo."

"Ma io credevo che tutti gli scioperi si facessero per chiedere

danaro in più."

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"Beh, questo qui ha a che fare con la chiusura dei pozzi. il Na-

tional Coal Board si prepara a chiudere dodici pozzi entro l'anno.

Loro scioperano per non perdere il posto di lavoro."

Con un fare per niente convinto, Hilary raccolse il pezzo di

carta.

"Immagino che, allora, io debba cambiare una o due cosette."

"Una o due."

Tornata alla sua scrivania, diede una scorsa più attenta a pa-

recchi altri giornali. Cosa che le prese una mezz'oretta. Indi, pa-

drona del trafiletto, batté a macchina la sua seconda bozza d'arti-

colo, e questa volta in soli sette minuti e mezzo.

Dicono che gli scozzesi una cosa la sanno fare be-

ne: badare al proprio danaro. E Jan MacGregor, pre-

sidente del National Coal Board, è, se non altro, un

accorto vecchio scozzese con tutta una vita alle spalle

di esperienza in affari.

Mr Arthur Scargill, al contrario, ha una ben di-

versa formazione: è agitatore sindacale da una vita,

è un noto marxista e un provocatore a tutto tondo

con una scintilla battagliera nel suo occhietto lustro

lustro.

Vi pongo dunque una domanda: in quale di que-

ste due figure riponete più fiducia per il futuro del-

l'industria mineraria britannica?

Poiché questo è il punto della disputa posta dai

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minatori. Nonostante la retorica allarmistica di Mr

Scargill su lavoro, famiglie e quella che egli chiama

"la comunità", il vero nodo della questione non c'en-

tra con nessuna di queste cose. E' l'efficienza. Se qual-

cosa non rende come deve, la si tagli. Questa è la pri-

ma Ä e la più semplice Ä lezione che impara ogni uo-

mo d'affari.

Peccato che Mr Scargill, dio santo, non sembri

averla ancora imparata.

Ecco perché, quando si parla dei cordoni della bor-

sa dell'industria, io per prima preferisco che li tenga

sotto controllo l'oculato Mr MacGregor.

Il vicedirettore lo lesse due volte e poi levò lo sguardo con

l'ombra di un sorriso.

Disse: "Credo che lei possa diventare piuttosto brava".

 

 

La nomina di Hilary era stata decisa contro il parere del diret-

tore, Peter Eaves, che per diverse settimane la ignorò del tutto.

Un lunedì sera, però, si ritrovarono nell'ufficio alla stessa ora. Hi-

lary stava trascrivendo l'intervista a una vecchia amica di Cam-

bridge, un'attrice che aveva appena pubblicato un libro sulla

sua collezione di orsetti di peluche, mentre Peter e il suo vice con-

frontavano varie prove d'impaginato per la prima pagina del gior-

no dopo. Mentre andava dritta verso la macchina automatica del

caffè, si fermò a dare un'occhiata e il suo parere.

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"Quella certo non mi spingerebbe a comprare il giornale,"

disse.

I due fecero orecchie da mercante.

"Voglio dire, è una noia mortale. Chi è che vuol sentir parlare

ancora di sindacati?"

Faceva notizia un verdetto a sorpresa dell'Alta Corte. In mar-

zo, il Ministro degli esteri Geoffrey Howe aveva ordinato agli im-

piegati statali del Gchq a Cheltenham di rinunciare alla propria

appartenenza al sindacato, sostenendo che ciò era in contrasto

con l'interesse della nazione. I sindacati avevano cercato di rove-

sciare l'interdizione sollevando il problema davanti all'Alta Corte

di giustizia, e quel giorno, con gran sgomento di tutti, il giudice si

era espresso a loro favore. Diceva che le azioni del governo erano

state "contrarie alla giustizia naturale". La prima pagina provviso-

ria giustapponeva foto di Mrs Thatcher e di Mr Justice Glidewell,

sotto il titolo a tutta pagina NON NATURALE, e, in caratteri più pic-

coli, Gli impiegati esultanti inneggiano alla vittoria legale.

"Credo che lei abbia la bontà di riconoscere," disse Peter, mi-

surando il tono, "che è questo l'articolo che ha più peso. Ci ri-

sparmi le sue impressioni in materia, la prego."

"Parlo seriamente," disse Hilary. "Chi ha voglia di leggere se

un branco di impiegati statali fa parte o meno del sindacato? Un

mattone. E soprattutto, perché menarla con una storia che dan-

neggia il governo?"

"Non mi interessa chi danneggiamo," disse Peter, "se noi con-

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tinuiamo a vendere."

"Beh di roba così non ne venderete ancora a lungo." Guardò

l'orologio al polso. "In venti minuti, magari prima ancora, posso

darvi una prima pagina migliore."

"Scusi?"

"La scriverò e vi darò di che illustrarla."

Hilary tornò alla scrivania e fece il numero di casa dell'amica

di Cambridge. Fra le cose di cui avevano parlato dopo l'intervista

c'era una conoscenza comune Ä altra attrice Ä che aveva appena

partorito il terzo figlio. Il suo corpo non era più perfetto, ma

ciò non le aveva impedito, almeno così pareva, di girare alcune

scene di nudo per un film televisivo che sarebbe andato in onda

di li a qualche mese. L'amica di Hilary, che, guarda caso, viveva

con il montatore del film, aveva fatto cenno, di passaggio, alla

possibilità di accedere a degli spezzoni di pellicola, che erano pro-

prio un bel vedere.

"Senti, fa la brava, mi porti subito dei fotogrammi?" disse Hi-

lary. "Ci divertiremo un sacco."

Nel frattempo si mise alla macchina per scrivere e cominciò a

battere sui tasti:

Dei dirigenti birichini della Bbc hanno in serbo

per noi una libidinosa sorpresa autunnale: uno sce-

neggiato così sexy che passerà solo dopo lo spartiac-

que delle nove.

Il torrido dramma ha come protagonista assoluta

"", i cui tre bimbi avranno certo di che stupire

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quando vedranno mammina ruzzare in un furioso ac-

coppiamento a tre con quel bisteccone americano di

Non ci volle molto a buttar giù il resto. Il giorno dopo, l'arti-

colo di Hilary trionfava in apertura, e la decisione dell'Alta Corte

era relegata a un paragrafetto nell'angolo in fondo.

Quella sera stessa, sul tardi, Peter Eaves la invitò fuori a cena.

 

 

Dal Diario di Jenni/er, "Harpers & Queen", dicembre 1984.

UN BEL MATRIMONIO.

Sabato pomeriggio sono stata alla chiesa di St

Paul, Knightsbridge, per il matrimonio di Peter Ea-

ves, il celebre direttore, e Hilary Winshaw, figlia di

Mr e Mrs Mortimer Winshaw. La sposa era bellissi-

ma nel suo delizioso abito di seta color pergamena,

con una tiara di perle e diamanti a reggere il velo

di tulle. Le sue damigelle portavano vestiti di seta co-

lor pesca...

Il ricevimento ha avuto luogo al Savoy Hotel, e si

è concluso in maniera molto spettacolare. Fatti uscire

tutti gli ospiti sulla terrazza sul lungofiume, lo sposo

ha sorpreso la sposa con un dono meraviglioso: un

idroplano a quattro posti, legato con un enorme na-

stro rosa. La felice coppia è entrata nel velivolo che

ha decollato sul Tamigi dando così inizio alla luna

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di miele in grandissimo stile.

 

 

 

 

LE TETTE DELLE DIECI.

 

Il governo non ha fatto a tempo a pubblicare il

suo Libro bianco sul futuro della televisione, che quel-

le lamentose nullità del sistema radiotelevisivo sono

già in armi!

Ci vorrebbero convincere che la deregulation por-

terebbe una televisione di tipo americano (e non si

vede in questo che male ci sia). Ma la verità è che

c'è una parola capace, più d'ogni altra, di terrorizzare

quella banda di liberali di Hampstead.

La parola è "scelta".

E perché mai a loro non piace? Perché sanno che,

avuta l'opportunità, ben pochi di noi sceglierebbero di

vedere la desolante giostra di sceneggiati impagliati e

di agitprop sinistrorsi che ci vorrebbero infliggere.

Quando mai capiranno queste tate non richieste

della mafia radiotelevisiva che il popolo inglése, alla

fine della giornata, vuole solo rilassarsi un po', vuole

solo divertirsi un po': e non essere "educato" da

qualche saccente critico barbuto che presenta tre

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ore di un mimo bulgaro con una sola gamba.

Procedi, deregulation, dico io, se ciò significa più

potere a portata di mano del pubblico e più spettaco-

li a noi graditi con gente come Bruce, Noel e Tarby

(N.B. per la redazione: verificare i nomi).

Nel frattempo, la prossima volta che alla tele ci

sarà solo uno di quei noiosi documentari sui contadi-

ni peruviani, o uno di quegli incomprensibili film

"d'arte" (con tanto di sottotitoli, naturalmente), ri-

cordatevi che c'è sempre un'altra "scelta" che nessu-

no può toglierci.

La scelta di pigiare il tasto "off" e precipitarsi al

videostore più vicino.

Il buon senso comune, novembre 1988.

 

 

"Che cacchio stai guardando adesso?"

"Tardino, eh?"

"Ero a lavorare."

"Ti prego, questa risparmiamela."

"Scusa?"

"Sei, come cazzo dirlo?, la trasparenza fatta persona, mia

cara."

"E comunque t'ho chiesto cos'è quella roba?"

"Che ne so, un gioco a premi. Uno di quegli spettacoli sani e

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terra-terra che ultimamente magnifichi nella tua rubrica."

"Non capisco come si possa stare a guardare quella merda.

Non mi sorprende che tu sia così in sintonia con quel branco

di coglioni che leggono il tuo giornale. Del resto non sei molto

meglio di loro."

"Mi par di riconoscere un po' di irascibilità postcoitale, o sba-

glio?"

"Oh sant'iddio!"

"Non so perché continui a sbatterti Nigel se poi la cosa ti met-

te di cattivo umore."

"Pensarci ti eccita, eh?"

"Eccita tutti al giornale, direi, dato che la discrezione, mi pare,

non è una tua virtù."

"Beh, suona strano detto da te. Devo pensare che fartelo suc-

chiare nel tuo ufficio da una impiegata, e con la porta aperta, devo

pensare che anche questo abbia a che fare con la discrezione?"

"Senti, fammi un favore, va a fare in culo e sparisci."

 

 

Dalla rivista "Hello!", marzo 1990.

HILARY WINSHAW E SIR PETER EAVES

L'affiatato team marito-e-moglie è

felicissimo con la piccola Josephine,

ma "il nostro amore non aveva bisogno

di essere rinsaldato".

Dagli occhi di Hilary Winshaw sprizza amore materno

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mentre solleva in alto la sua sorridente figliola Josephine che

ha solo un mese di vita: siamo nella serra della bella casa della

felice coppia in South Kensington. Hanno atteso a lungo pri-

ma di avere il loro primo figlio Ä Hilary e Sir Peter si sono spo-

sati sei anni fa, dopo essersi conosciuti al giornale che lui con-

tinua a dirigere e per il quale lei scrive una popolare rubrica

settimanale Ä ma, come Hilary ha detto nell'intervista esclusiva

concessa a "Hello!", Josephine valeva ben l'attesa.

Ci dica, Hilary, come si è sentita quando ha visto sua figlia

per la prima volta?

Stanchissima, innanzitutto. Suppongo che secondo i parame-

tri della maggioranza delle persone non sia un'impresa così defa-

tigante, ma io non ho certo intenzione di imbarcarmici di nuovo

troppo presto! Però è bastata un'occhiata aJosephine, e tutto mi

è parso avesse senso e valore. E' stata un'emozione bellissima.

Aveva cominciato a disperare di avere un figlio?

La speranza non ci abbandona mai del tutto, credo. Noi

non abbiamo mai consultato medici né fatto esami o altro, e

forse siamo stati degli sciocchi. Ma quando stai con uno che

ha fiducia in te, quando due persone sono felici di stare insie-

me come Peter e io, allora non si può fare a meno di credere

che i sogni, alla fine, si avvereranno, comunque sia. Noi siamo

un po' sognatori tutti e due.

E Josephine vi ha fatto sentire più vicini?

Sì, è inevitabile. Esito solo a dirlo perché, a dire il vero,

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faccio fatica a vedere in che modo avremmo potuto sentirci

ancora più vicini. Il nostro amore non aveva bisogno di essere

rinsaldato.

Gli occhi della bambina sembrano proprio i suoi, e quello lì

non è il naso degli Winshaw? Un pochettino. So bene com'è fat-

to! Lei ci vede molto di Sir Peter?

Non ancora, no. Io credo che i bambini, crescendo, arrivi-

no spesso a somigliare al genitore. Son sicura che accadrà così.

La nascita di Josephine significa che, per un po', sospenderà

la rubrica?

Non credo. Ovviamente voglio passare quanto più tempo

possibile con Josephine Ä e naturalmente Peter è riuscito a of-

frirmi condizioni eccellenti per il congedo di maternità. Se per

capo una ha il proprio marito, beh dei vantaggi ci sono! Ma

sono restia ad abbandonare i miei lettori. Loro sono così leali,

e poi sono stati tutti così carini a spedirmi biglietti e via dicen-

do. Sono cose che ti ridanno la fiducia nella gente.

Devo dire, come avida lettrice della rubrica, che è una sor-

presa non vedere qui i muratori!

Lo so. Ci insisto su troppo, eh? Recentemente, però, ci sia-

mo dovuti occupare di così tante cose. Questa serra è nuova,

sono nuove tutte le aggiunte esterne, piscina inclusa. C'è voluto

più tempo del previsto perché i vicini sono inferociti con noi. Ci

hanno persino fatto causa per il rumore, roba da non credere.

Comunque adesso hanno traslocato, così tutto è stato risolto

amichevolmente.

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E ora siamo anche sul punto di scoprire Ä ne sono convinta Ä

un'altra faccia del suo talento.

Si, attualmente sto lavorando al mio primo romanzo. Parec-

chi editori mi stanno facendo delle offerte e sono felice di an-

nunciare che il volume sarà in libreria la primavera prossima.

Può dirci di che cosa parla?

Beh, in realtà, non ho ancora cominciato a scrivere, ma so

che sarà eccitante, pieno di mafia e di sentimento, spero. Natu-

ralmente la cosa più bella è che posso scrivere a casa Ä abbiamo

sistemato questo caro studiolo che dà sul giardino Ä così non de-

vo star lontana da Josephine. Meno male! perché adesso non

credo di poter tollerare di separarmi da lei neppure un istante!

 

 

Hilary fissò, maldisposta, la figlia osservandone il faccino tutto

raggrinzito nello sforzo di raccogliere fiato per un nuovo strillo.

"E adesso che c'è?" disse.

"Aria nella pancia, credo," disse la tata.

Hilary si fece vento con il foglio del menù.

"Beh, non è che può portarla fuori per un po'? Ci fa fare brut-

ta figura davanti a tutti."

Uscite che furono tutte e due, Hilary si rivolse all'uomo che le

stava a fianco.

"Scusa, Simon, stavi dicendo?"

"Dicevo che dobbiamo pensare un titolo. Una parola sola,

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preferibilmente. Piacere, Vendetta, Desiderio, o simili."

"Perché non lasciare la palla agli uomini del marketing? Avrò

già il mio daffare a scrivere quella robaccia."

Simon fece cenno di sì. Era un uomo alto e attraente il cui

aspetto esteriore un po' vacuo mascherava un acuto senso degli af-

fari. Era una persona che godeva di grande considerazione: Hilary

l'aveva scelto come agente in una lista di sette o otto, fra i migliori.

"Senti, mi spiace che l'asta sia stata un po' deludente," disse.

"Gli editori, del resto, non vogliono correre rischi al momento.

Qualche anno fa le sei cifre non sarebbero state un problema, as-

solutamente. Comunque non ti è andata troppo male. Recente-

mente ho letto che la stessa gente ha pagato un nuovo scrittore

settecentocinquanta sterline per il suo primo romanzo."

"Non si poteva forzare la mano un po' di più?"

"Non c'è stato verso. Arrivati a ottantacinquemila non si sono

schiodati di lì. Te lo assicuro."

"Oh certo. Non ho dubbi che tu abbia fatto del tuo meglio."

Ordinarono ostriche seguite da aragosta fresca. Mentre il ca-

meriere stava uscendo, Simon disse: "Non dovremmo ordinare

qualcosa anche per Ä come si chiama? Ä Maria?"

"Chi?"

''La tata."

"Oh sì. Penso di sì."

Hilary richiamò il cameriere e ordinò un hamburger.

"E Josephine cosa mangia?" chiese Simon.

"Oh, della porcheria che si prende in bottigliette nei super-

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mercati. Entra da una parte ed esce dall'altra dieci minuti dopo,

e sembra sempre la stessa roba. E' davvero una faccenda disgusto-

sa. E quel coso strilla tutto il tempo. Francamente, se mai comin-

cerò questo libro, dovrò andarmene via per qualche settimana.

Non importa dove Ä magari di nuovo a Bali, o in una di quelle

isole della barriera corallina Ä in qualsiasi buco, ma via. Non pos-

so fare una cosa che sia una con quel mostriciattolo tra i piedi.

Proprio non ci riesco."

Simon appoggiò simpateticamente una mano sul braccio di lei.

Al caffè, disse: "Quando hai chiuso con questo libro, perché

non farne un altro sull'esperienza della maternità? E' un tema ter-

ribilmente popolare di questi tempi".

 

 

Hilary disprezzava le donne considerandole più rivali che al-

leate, e perciò si sentiva sempre a casa propria all'Heartland Club,

l'uggiosa, ingessata associazione di maschi egemoni dove suo cu-

gino Henry amava condurre la più parte dei suoi affari informali.

Henry aveva rotto col Partito laburista subito dopo le secon-

de elezioni generali del 1974 e, quantunque non avesse mai fatto

parte dei conservatori, era stato, per tutti gli anni ottanta, fra i

loro più leali e schietti sostenitori. In quel periodo era diventato

una figura pubblica familiare, coi suoi cespuglietti di capelli

bianchi e la faccia da bulldog (alla quale dava un che di sbaraz-

zino il cravattino a pallini portato come segno di riconoscimen-

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to) che saltava puntualmente fuori nei dibattiti tebevisivi, dove,

forte del vantaggio di essere svincolato dai partiti, aderiva servi-

mente a qualunque cinico cambiamento di linea politica dell'am-

ministrazione in auge. In parte per queste apparizioni, ma anche

Ä cosa ben più importante Ä per la decade di galoppinaggio a cui

si era dedicato in una sequela di comitati esecutivi, fu ricompen-

sato con un titolo nobiliare nella lista d'onore del 1990. La carta

da lettere intestata che Hilary ricevette per l'ultima convocazione

ostentava orgogliosamente il nuovo titolo: Lord Winshaw di

Micklethorpe.

"Non hai mai pensato di tornare in televisione?" le chiese, ver-

sando due brandy da una caraffa di cristallo.

"Mi piacerebbe molto, va da sé," disse Hilary. "Di talento ne

avevo per quel mestiere, a parte tutto il resto."

"Ebbene, ho inteso che presto ci sarà un posto vacante in una

delle società Itv. Se ti va, esamino a fondo la faccenda."

"In cambio di cosa...?" disse Hilary maliziosa, mentre sedeva-

no l'uno di fronte all'altro ai lati di un camino spento. Era una cal-

da sera di fine luglio.

"Oh, una minuzia. Ci chiedevamo se tu e i tuoi amici giorna-

listi potevate cominciare a fare un po' di fuoco e fiamme sulla

Bbc. L'impressione generale è che stiano perdendo il controllo

della situazione."

"Cos'hai in mente: dei servizi? O solo la mia rubrica?"

"Un po' dell'uno e un po' dell'altro: questo è quel che mi è

venuto in mente. Urge che si faccia qualcosa subito, perché, come

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ben sai, la situazione così com'è è inaccettabile. E' un posto che

pullula di marxisti. Cosa di cui non fanno assolutamente mistero.

Non so se hai visto il telegiornale delle nove recentemente: non

fingono neanche più di essere imparziali. In particolare sul Servi-

zio sanitario: il modo in cui hanno gestito l'informazione sulle no-

stre riforme è stato deplorevole. Assolutamente deplorevole. Ci

sono famiglie in ogni parte del paese che sono invase Ä letteral-

mente invase ogni seraÄ da un torrente di menzogne antigoverna-

tive e di propaganda. E intollerabile." Levò un bicchiere di bran-

dy a livello della sua faccia biliosa e sorbì una lunga sorsata, che

parve rinfrancarlo. "Fra parentesi," disse, "il Primo Ministro ha

molto apprezzato la tua prima pagina di martedì."

"LESBICHE LABURISTE UN PO' TOCCATE PROIBISCONO I CLASSICI DEL-

LA LETTERATURA PER RAGAZZI?"

"Quello. Ha riso fino alle lacrime, davvero. Dio solo sa quanto

noi tutti abbiamo bisogno di un po' di sollievo in questi giorni." Il

suo volto si rannuvolò di nuovo. "Si parla di una nuova sfida per la

leadership. Heseltine potrebbe fare la sua mossa. Follia. Pura follia."

"Quel posto vacante di cui parlavi..." lo imbeccò Hilary.

"Oh sì." Henry fece il nome di una delle più grosse società

indipendenti. "Sai bene che c'è stato un rimpasto e che hanno

un nuovo direttore generale. Per fortuna un nostro uomo siamo

stati in grado di mettercelo dentro. Viene dall'ambiente finanzia-

rio, dunque ha il pregio d'essere un eccellente uomo di numeri e,

al contempo, di non saper niente di niente dell'azienda. Uno dei

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suoi primi lavori dovrà essere quello di sbarazzarsi di quel vecchio

rottame fiocomunista di Beamish."

"E così andranno in cerca di un nuovo responsabile per l'at-

tualità."

"Inevitabilmente."

Hilary delibò la buona nuova.

"E' lui che mi ha dato la prima spinta, sai? Tanto tempo fa, a

metà anni settanta."

"Esattamente." Henry svuotò il bicchiere e prese la caraffa.

"Ma neanche il tuo peggior nemico," disse secco, "potrebbe accu-

sarti di essere una sentimentale dal cuore tenero."

 

 

Quando Hilary si presentò per incontrare Alan Beamish fu ac-

compagnata Ä come previsto Ä non nell'ufficio di lui ma in una

impersonale sala riunioni che dava sull'entrata principale.

"Mi dispiace molto per questo," disse lui. "Che seccatura.

Purtroppo da me stanno ritinteggiando il soffitto, o non so che

altro. Me l'hanno detto solo 'sta mattina. Posso offrirti un caffè?"

Non era molto cambiato. Forse i capelli erano un po' più grigi,

i movimenti meno scattanti, e la sua somiglianza con un vecchio

parroco era addirittura più marcata: ma d'altro canto, a Hilary pa-

reva che la terribile serata che lui le aveva inflitto in quella lunga

vacanza avesse avuto luogo ieri piuttosto che venti anni prima.

"Devo dire che sono rimasto di stucco nel ricevere la tua tele-

fonata," disse. "A dire il vero, non credo proprio che noi due

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s'abbia molto da discutere."

"Beh, per esempio, posso essere venuta a chiederti di porger-

mi le tue scuse per avermi chiamata 'barbara' nella tua piccola

diatriba per l' Independent'."

Alan aveva di recente pubblicato un articolo sul declino del

servizio pubblico radiotelevisivo intitolato I barbari alle porte, in

cui Hilary era stata chiamata in causa (con gran sua delizia, biso-

gna dire) come l'esempio di tutto ciò che lui più detestava dell'at-

tuale clima culturale.

"Confermo ogni parola che ho scritto." disse. "E tu sai benis-

simo di rendere pan per focaccia. Hai sacrificato litri di inchiostro

per attaccarmi anno dopo anno Ä se non chiamandomi per nome,

certamente come tipo."

"Ti sei mai pentito di avermi così tanto aiutato," chiese Hilary,

"quando vedi che razza di Furia hai sguinzagliato per il mondo?"

"Prima o poi è là che saresti andata a parare."

Hilary sorseggiò il caffè e si sedette sul davanzale della fine-

stra. il sole splendeva luminoso.

"Il tuo nuovo capo non deve aver digerito quel pezzo," disse lei.

"Non ne ha fatto cenno."

"Come vanno le cose da quando si è insediato?"

"Non sono facili, se proprio lo vuoi sapere," disse Alan. "Van-

no male, in realtà, spaventosamente male."

"Davvero? In che senso?"

"Non c'è danaro per i programmi. E neanche entusiasmo: al-

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meno non quello che io voglio creare. Insomma, non hai idea di

che atteggiamento hanno assunto sulla questione del Kuwait. E'

da mesi che ripeto che dovremmo fare un programma su Saddam

e sul suo apparato militare. Siamo in una situazione che suona così

maledettamente ridicola: negli ultimi anni non abbiamo fatto altro

che vendergli armi e ora cambiamo idea e lo chiamiamo la Bestia

di Babilonia perché s'è messo a usarle per davvero. In qualche

modo l'argomento andava affrontato. Era inevitabile. E infatti è

da qualche settimana che parlo con un film-maker indipendente

che lavora da anni a un documentario su questo tema, con le

sue sole forze e di sua iniziativa. Mi ha fatto vedere del girato dav-

vero superbo. Ma quelli che stanno in alto non vogliono prendersi

quest'impegno. Non vogliono sapere."

"E' davvero un peccato."

Alan gettò un'occhiata all'orologio da polso.

"Senti, Hilary, sono sicuro che non sei venuta qui solo per go-

derti la vista del nostro ingresso, per quanto bella sia. Ti spiace-

rebbe venire al punto?"

"La foto che c'era nel tuo articolo," disse lui distrattamente,

"l'hanno fatta nel tuo ufficio?"

"Si, certo.''

"C'era un Bridget Riley sulla parete?"

''Esatto.''

"L'hai comprato da mio fratello, vero?"

"Tanti rettangoli verdi e neri, tutti di traverso."

"Proprio quello lì. Perché me lo chiedi?"

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"Beh, c'è che fuori mi sembra ci siano due uomini che lo stan-

no caricando su un furgone."

"Ma che cac..."

Alan schizzò in piedi e andò alla finestra. Guardò giù e vide

un furgone per trasbochi parcheggiato accanto ai gradini, e le cose

del suo ufficio ammassate sul catrame caldo di sole: i libri, la pol-

trona girevole, le piante, la cancelleria e i quadri. Hilary sorrise.

"Abbiamo pensato che fosse il modo più carino per dirtelo. E'

meglio sbrigare questo genere di cose alla svelta."

Lui riuscì, non si sa come, a dire solo: "Abbiamo?"

"Se, prima che tu vada, c'è qualcosa di questo lavoro che sa-

rebbe bene io sapessi..." Non seguì alcuna risposta e allora Hilary

aprì la sua valigetta e disse: "Beh, guarda qui c'è il tuo P45, e io ti

ho anche scritto l'indirizzo dell'ufficio di Dss più vicino. E aperto

fino alle tre e mezza oggi: hai ancora un sacco di tempo". Gli por-

se il pezzo di carta, ma lui non lo prese. Appoggiandolo sul davan-

zale della finestra, fece un largo sorriso e scosse il capo. "I barbari

non sono più alle porte, Alan. Disgraziatamente hai lasciato la

porta aperta e così noi siamo sciamati dentro e ci siamo presi i po-

sti migliori e abbiamo messo i piedi sul tavolo. E abbiamo inten-

zione di restare qui per molto, molto tempo."

Hilary chiuse con uno scatto la valigetta e s'avviò verso la

porta.

"Dunque: al tuo ufficio come ci si arriva da qui?"

 

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SETTEMBRE 1990.

 

1.

 

Fu per puro caso che mi ritrovai a scrivere un libro sulla fami-

glia Winshaw. La storia di come ci sono arrivato è complicatissima

e forse può aspettare. Basti dire che non fosse stato per un incon-

tro del tutto fortuito in un viaggio ferroviario da Londra a Shef-

field nel giugno del 1982, non sarei mai diventato il loro storico

ufficiale e la mia vita avrebbe preso una piega ben diversa. Una

buffa vendetta, a pensarci, delle teorie esposte nel mio primo ro-

manzo, Capiterà e sarà per caso. Dubito però che siano in molti a

ricordarsene, tant'è lontano nel tempo.

Gli anni ottanta non sono stati un bel periodo per me, da

tutti i punti di vista. Forse, in primo luogo, era stato un errore

accettare l'offerta Winshaw; avrei dovuto continuare a scrivere

romanzi sperando, un giorno, di poterci campare. Dopo tutto,

il mio secondo romanzo aveva destato una certa attenzione, e

c'era stato anche qualche circostanziato momento di gloria Ä co-

me la settimana in cui ero stato protagonista della rubrica di un

supplemento domenicale, solitamente dedicata a scrittori di ben

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più chiara fama, intitolata La prima storia che ho scritto. (Biso-

gnava consegnare un campione di qualcosa scritto in gioventù,

insieme a una fotografia dell'infanzia. L'effetto era molto grazio-

so nel complesso. Ho ancora il ritaglio da qualche parte.) La mia

situazione finanziaria continuava, però, a essere disperata e il

pubblico continuava a restare insensibile ai prodotti della mia

immaginazione Ä e così avevo dato retta alle ragioni economiche,

vale a dire a Tabitha Winshaw e alla sua offerta singolarmente

generosa.

I termini dell'offerta presero forma come segue. Nella solitu-

dine coatta del suo alloggio di lungodegente all'Istituto Hatch-

jaw-Bassett per malati di mente gravi, pare che Miss Winshaw, al-

lora settantaseienne e, a quanto si diceva, matta più che mai, fosse

arrivata alla conclusione, dentro la sua mente triste e svanita, che

era ormai tempo di squadernare al mondo la storia della sua glo-

riosa famiglia. Giocando allo scoperto, malgrado l'implacabile re-

sistenza opposta dai parenti, e attingendo solo alle sue risorse, per

altro alquanto considerevoli, aveva costituito un fondo fiduciario

destinato allo scopo e s'era affidata ai servizi della Peacock Press,

un'azienda amministrata con prudenza e specializzata nella pub-

blicazione (per modica spesa) di memorie militari, cronache di fa-

miglia e autobiografie di figure pubbliche minori. L'editore, da

parte sua, s'era assunto il compito di trovare uno scrittore adatto,

di valore e di provata esperienza, a cui doveva essere versato un

salario annuale non inferiore alle mille sterline per tutto il periodo

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di ricerca e di scrittura, a condizione che una testimonianza del

lavoro in fieri Ä o di una "porzione significativa" di manoscritto

finito Ä fosse presentato ogni anno all'editore e sottoposto all'esa-

me di Tabitha. Su tempo e denaro, del resto, non faceva discus-

sioni. Lei voleva la storia migliore, la più dettagliata, la più onesta

e la più aggiornata che si potesse compilare. Non c'era una rigida

scadenza per la consegna definitiva.

La storia di come mi fu offerto il lavoro è Ä l'ho già detto Ä

lunga e complicata e deve aspettare il suo turno; ma una volta

che l'offerta fu fatta, la mia esitazione nell'accettarla fu davvero

minima. La prospettiva di un'entrata regolare era di per se stessa

troppo allettante per fare resistenza, e, per di più, non avevo alcu-

na fretta Ä se bisogna essere onesti Ä di metter mano a un nuovo

romanzo. Mi si presentava insomma, o così pareva, una sistema-

zione perfetta. Comprai l'appartamento in Battersea (l'acquisto

di una casa era ancora accessibile allora) e mi misi al lavoro con

un certo entusiasmo. Ispirato dalla novità dell'impresa, scrissi i

primi due terzi del libro in un paio d'anni, scavando nel passato

della famiglia Winshaw e raccogliendo tutto quello che affiorava

dalle mie ricerche con assoluto candore: giacché, per me, era

del tutto ovvio che avevo essenzialmente a che fare con una fami-

glia di criminali, la cui ricchezza, il cui prestigio erano fondati sul

più ampio ventaglio di truffe, contraffazioni, ladrocini, ruberie,

furti, inganni, imbrogli, menzogne, saccheggi, rapine, razzie, di-

struzioni, malversazioni e appropriazioni indebite. Non che le at-

tività dei molti Winshaw fossero apertamente criminali, o che co-

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me tali fossero invero riconosciute dalla buona società: in realtà,

secondo i miei studi, nella famiglia, ci fu un solo briccone che finì

ai ferri. (Mi riferisco, naturalmente, al prozio di Matthew, Joshua

Winshaw, universalmente riconosciuto come il più brillante bor-

saiolo e scassinatore dei tempi suoi Ä dato che la sua impresa

più celebrata, quella che farete ben poca fatica a rammentare,

fu il suo audace colpo nella residenza di campagna della famiglia

rivale, i Kenways di Britterbridge: dove, nel corso di una pubblica

visita guidata, in compagnia di diciassette turisti, gli riuscì di arraf-

fare, senza essere assolutamente notato, un orologio Luigi xv ap-

partenuto al nonno che valeva decine di migliaia di sterline.) Ma

dato che ogni penny della fortuna degli Winshaw Ä che risaliva al

diciassettesimo secolo, quando Alexander Winshaw realizzò il suo

primo affare imboscando una cospicua porzione del fiorente mer-

cato degli schiavi Ä proveniva, in un modo o nell'altro, dallo spu-

dorato sfruttamento di persone più deboli di loro Ä e su questo

non v'è di che dubitare Ä avevo la sensazione che la parola "cri-

minale" andasse loro a pennello, e che portando quella realtà al-

l'attenzione del pubblico rendevo un utile servizio alla società, re-

stando, nondimeno, scrupolosamente entro i confini dell'incarico

assegnatomi.

Giunse tuttavia un momento, verso la metà degli anni ottanta,

in cui mi resi conto di aver perso quasi tutto l'entusiasmo per il

progetto. Ci fu, innanzi tutto, la morte di mio padre. Coi miei

genitori non avevo contatti stretti da un bel po' di anni, ma i

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giorni della mia infanzia Ä una serena, felice infanzia senza turba-

menti di sorta Ä avevano creato fra di noi tali legami di empatia e

affetto da rendere del tutto irrilevante la realtà oggettiva della no-

stra separazione fisica. Mio padre aveva solo sessantun anni

quando morì e la sua perdita mi segnò profondamente. Trascorsi

mesi nelle Midlands facendo tutto quel che era in mio potere per

confortare mia madre, e, quando arrivò il momento, fu con un

inequivocabile senso di disgusto che tornai a Londra e alla fami-

glia Winshaw.

Nel giro di due o tre anni avrei abbandonato definitivamente il

lavoro sul libro, ma prima che ciò accadesse si verificò un signifi-

cativo mutamento nella natura della mia ricerca. Ero arrivato agli

ultimi capitoli, in cui avevo l'onore e l'onere di celebrare i successi

di quei membri della famiglia che avevano ancora la fortuna, co-

me noi, di far parte dei vivi: e fu allora che una seria opposizione

cominciò a farsi sentire, non solo da parte delle mie conoscenze,

ma anche dagli stessi Winshaw. Alcuni di loro, mi duole dirlo, di-

vennero inspiegabilmente schivi di fronte alle mie domande, e co-

minciarono persino a esibire un pudore decisamente fuori luogo

quando li invitavo a discutere i dettagli delle loro strepitose carrie-

re. Fu così che le mie interviste presero l'andazzo d'essere brusca-

mente interrotte nel bel mezzo di scenate d'una sgradevolezza che

meglio non saprei definire. Thomas Winshaw mi cacciò fuori in

strada quando gli chiesi di chiarire la precisa natura del suo coin-

volgimento nel caso della Westland Elicotteri che era venuto alla

luce in occasione delle dimissioni di due ministri di gabinetto nel

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1986. Heniy Winshaw cercò di gettare il mio manoscritto nel fuo-

co allo Heartland Club, quando scoprì che esso metteva in risalto

su certe discrepanze fra il programma socialista sul quale da prin-

cipio egli aveva fondato la sua scalata al potere e il suo successivo

ruolo (per il quale forse lo si ricorderà meglio) come portavoce di

spicco dell'estrema destra e, soprattutto, come una delle figure

chiave dello smantellamento clandestino del Servizio sanitario na-

zionale. E talora mi chiedo Ä me lo chiedo persino adesso Ä se fu

solo una coincidenza quando, a tarda notte, mi successe di essere

aggredito per strada mentre facevo ritorno a piedi al mio appar-

tamento, solo due giorni dopo un incontro con Mark Winshaw

durante il quale l'avevo forzato Ä forse con un po' troppa irruenza

Ä a darmi ulteriori informazioni sulla sua carica di "coordinatore

vendite" per la Vanguard Import e la Export Company, e sulle

vere ragioni delle sue frequenti visite in Medio Oriente negli anni

più cruciali del conflitto Iraq-Iran.

Più vedevo questi Winshaw, sordidi e bugiardi com'erano, la-

dri e profittatori quali erano, meno mi piacevano, e più arduo di-

ventava per me conservare il tono dello storico ufficiale. E meno

riuscivo ad accedere a fatti saldi e dimostrabili, più ero costretto a

piegare il racconto all'immaginazione, rimpolpando eventi che co-

noscevo solo per grandi linee, facendo congetture sulle motivazio-

ni psicologiche, inventando persino delle conversazioni. (Sì, in-

ventando: perché sottrarsi alla parola, perché non dirla, dato

che erano quasi cinque anni che evitavo per l'appunto di inven-

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tare?) E così, dal disprezzo per quella gente, rinacque la mia per-

sonalità letteraria, e da questa rinascita venne un mutamento di

prospettiva, una diversa enfasi, un irreversibile cambiamento nella

natura del mio lavoro, nel suo complesso. Esso cominciò ad assu-

mere la fisionomia di una esplorazione, di un'ardita, coraggiosa

spedizione nei recessi più oscuri della storia della famiglia. Il

che stava a significare, come ben presto mi resi conto sin troppo

bene, che non mi sarei fermato, che mai avrei dato il viaggio per

concluso, finché non avessi risposto a una fondamentale doman-

da: Tabitha Winshaw era matta per davvero, o c'erano vestigia di

verità in quella sua ferma convinzione che Lawrence era stato, in

qualche modo oscuro e obliquo, responsabile della morte del fra-

tello?

Non mi sorprendeva il fatto che questo fosse un altro tema sul

quale la famiglia era riluttante a darmi informazioni d'una qualche

concretezza. All'inizio del 1987, fui piuttosto fortunato nel sentir-

mi concedere un'intervista con Mortimer e Rebecca in un hotel di

Belgravia. Scoprii che erano di gran lunga gli Winshaw più avvi-

cinabili e disponibili, malgrado la salute seriamente compromessa

di Rebecca: è a loro che devo, in gran parte, quel poco che so de-

gli eventi che fanno corona al cinquantesimo compleanno di Mor-

timer. Lawrence era morto un paio d'anni prima e loro, come Re-

becca, una volta, aveva previsto con terrore, si ritrovarono in pos-

sesso di Winshaw Towers, anche se di fatto ci passavano meno

tempo possibile. In ogni caso, morì anche lei, pochi mesi dopo

la mia visita; e poco dopo, ridotto a una larva d'uomo, Mortimer

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si ritirò a vivere i suoi ultimi giorni nella dimora di famiglia che

egli aveva sempre detestato con tutto il cuore.

Le mie ricerche divennero sempre più sporadiche e prive di

metodo, e un giorno, infine, cessarono del tutto. Non ricordo la

data esatta, ma fu lo stesso giorno in cui mia madre era venuta

per stare da me. Arrivò una sera, andammo a cena in un ristorante

cinese di Battersea, dopo di che, la stessa notte, fece immediata-

mente ritorno a casa. Dopo quella serata non uscii, né parlai

con qualcuno per due, forse per tre anni.

 

 

Il sabato mattina ripresi a lavorare sul manoscritto. Come so-

spettavo, la confusione era allarmante. C'erano parti che si legge-

vano come un romanzo e altre che si leggevano come un raccon-

to storico, mentre nelle pagine conclusive si avvertiva un tono di

ostilità nei confrontidella famiglia che non mancava di irritare.

Peggio ancora, non esisteva una vera e propria conclusione: l'o-

pera si interrompeva e basta, con uno stacco improvviso che la-

sciava il lettore a bocca asciutta. Quando infine mi alzai dalla

scrivania, solo allora, nel tardo pomeriggio di quel caldo, sudato

sabato d'estate, gli ostacoli che si frapponevano fra me e il com-

pimento dell'opera mi apparvero almeno con una certa spoglia

chiarezza. Dovevo decidere una volta per tutte se presentarla co-

me opera fondata sulla realtà o come narrativa d'invenzione, e

dovevo rinnovare i miei sforzi per penetrare il mistero della ma-

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lattia di Tabitha.

Il lunedì mattina, feci altri tre decisivi passi in avanti:

Ä Feci due copie del manoscritto e ne inviai uno al responsa-

bile editoriale che un tempo s'era fatto carico della pubblicazione

dei miei romanzi.

Ä L'altra la mandai alla Peacock Press, con la speranza che mi

facesse guadagnare un'altra rata di salario (erano tre anni che non

venivo pagato) o che, di contro, facesse così orrore a Tabitha,

quando l'avesse letta, da indurla a rompere l'accordo e a sciogliere

definitivamente il contratto.

Ä Feci pubblicare il testo che segue nella colonna degli annun-

ci personali dei maggiori quotidiani:

 

SI CERCANO INFORMAZIONI.

Scrittore, compilatore degli annali ufficiali

della famiglia Winshaw dello Yorkshire

cerca informazioni concernenti ogni aspet-

to della storia della famiglia.

In particolare, ascolterebbe chiunque (te-

stimoni, personale in servizio allora, parti

in causa ecc.) possa gettare luce sugli even-

ti del 16 settembre 1961, e sui casi con-

nessi.

SOLO RJSPOSTE DI PROVATA

SERIETA.

Contattare Mr M.Owen, do The Peacock

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Press, Vanity House, 116 Providence

Street, Londra W7.

 

Era tutto quello che potevo fare, per il momento. il mio acces-

so di energia si era rivelato in ogni caso temporaneo, e trascorsi i

pochi giorni seguenti stravaccato davanti alla tv, talora a guardare

Kenneth Connor svignarsela timoroso davanti alla bella Shirley

Eaton, talora a seguire le notizie dei telegiornali. La faccia di Sad-

dam Hussein mi diventò familiare e cominciai a conoscere le ra-

gioni della sua recente notorietà: seppi che aveva resa nota la

sua intenzione di annettersi il Kuwait, dichiarando che, storica-

mente, esso era sempre stato "parte integrante dell'Iraq"; e che

il Kuwait aveva fatto appello alle Nazioni Unite per un aiuto mi-

litare, promesso sia dal presidente americano, Bush, che dalla sua

amica Primo Ministro inglese, Thatcher. Venni a sapere anche de-

gli ostaggi inglesi e americani, altrimenti chiamati "ospiti" che era-

no trattenuti in alberghi dell'Iraq e del Kuwait. Vidi frequenti pas-

saggi della scena in cui Saddam Hussein porta gli ostaggi davanti

alle telecamere e mette il braccio intorno al ragazzino che si tira

indietro riluttante.

Fiona capitò due o tre volte. Bevevamo bibite fresche assieme

e parlavamo, ma qualcosa delle mie maniere doveva averla scorag-

giata, poiché di solito se ne andava via presto. Mi disse che aveva

qualche difficoltà a prender sonno.

Talvolta, nel letto che bruciava per il caldo e mi teneva sveglio

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in piena notte, sentivo i suoi colpi di tosse secca, stizzosa. Le pa-

reti della nostra casa non erano molto spesse.

 

 

 

 

2.

 

All'inizio, la mia strategia parve non dare grandi frutti. Ma poi,

all'improvviso, dopo due o tre settimane, mi chiamarono entrambi

gli editori e riuscii a fissare due appuntamenti per lo stesso giorno:

la Peacock Press nel pomeriggio e, la mattina, l'azienda ben più

prestigiosa che una volta era stata felice di considerarmi uno dei

suoi giovani scrittori più promettenti. (Tanti anni prima.) Era

una piccola ma stimatissima sigla editoriale che, per la maggior

parte del secolo, aveva gestito la propria attività dall'alto di un pa-

lazzetto georgiano a Camden, anche se di recente era stata assor-

bita da una congiomerata americana e le era stata assegnata una

nuova sede al settimo piano di un edificio a torre vicino a Victoria.

Una metà del personale era sopravvissuta alla ristrutturazione: fra i

rimasti c'era l'editor della narrativa, Patrick Mills, quarantun anni,

laureato a Oxford. Feci in modo di incontrarmi con lui poco pri-

ma di pranzo, alle 11 e 30 circa.

Arrivarci era, sulla carta, abbastanza semplice. Prima di tutto

dovevo andare a piedi alla stazione del metrò, vale a dire che do-

vevo attraversare il parco, percorrere l'Albert Bridge, oltrepassare

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il quartiere-fortezza di super-ricchi di Cheyne Walk, risalire la

Royal Hospital Road e ridiscendere in Sloane Square. Mi fermai

una volta sola per prendermi del cioccolato (un Marathon e un

Twix, se non ricordo male). Era Ä tanto per cambiare Ä una mat-

tina di fuoco, e non v'era modo di sfuggire alla spessa cappa nera

di smog che esalava dai tubi di scappamento di auto, camion,

autocarri e mezzi pubblici, e che gravava sospesa nell'aria costrin-

gendomi a trattenere il respiro ogni volta che dovevo attraversare

la strada dove c'era più traffico. Ma poi, quando arrivai alla sta-

zione e scesi di sotto con la scala mobile, mi resi conto, appena

vidi la piattaforma, che era affollata all'inverosimile. Doveva esser-

ci stato qualche guasto e probabilmente non arrivavano treni da

almeno un quarto d'ora. Anche se la linea che passa per Sloane

Square non scorre molto in profondità, il regolare moto discen-

dente della scala mobile mi fece sentire come Orfeo che scende

agli Inferi, messo faccia a faccia con quella moltitudine triste e

pallida, il sole che avevo appena lasciato alle spalle già ridotto a

un lontano ricordo.

- - .perque leves populos simulacraque functa sepulchro. - -

Tempo quattro minuti e arrivò un treno della Disctrict Line,

ogni centimetro di carrozza stipato di corpi sudati, accartocciati,

pigiati in un insieme compatto. Non provai neanche a salire, ma

nel pandemonio di persone che sgomitavano per aprirsi un varco

l'una sull'altra, riuscii a guadagnare la "prima linea" della piatta-

forma e restai in attesa del convoglio seguente. Che arrivò un paio

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di minuti dopo Ä era della Circle Line 'sta volta Ä ma pieno zeppo

come il precedente. Quando le porte si aprirono e qualche pas-

seggero dalla faccia paonazza si fece largo tra la folla in attesa,

mi pigiai dentro e respirai la mia prima boccata d'aria viziata, sta-

gnante: da quella prima zaffata avresti detto che l'aria era già pas-

sata per i polmoni di ciascuno un centinaio di volte. Altra gente

s'ammassò alle mie spalle e io mi ritrovai spiaccicato fra un gio-

vane impiegato della City, alto allampanato Ä smortino di carna-

gione, in un severo completo giacca e pantaloni Ä e il vetro divi-

sorio che ci separava dall'area dei posti a sedere. Normalmente

avrei preferito mettermi col naso pigiato contro il vetro, ma quan-

do mi ci provai scoprii una gran chiazza viscida, proprio ad altez-

za di muso, un accumulo di sudore e di unto lasciato dalla nuca

dei passeggeri che si erano strusciati contro la lastra trasparente,

così non potei far altro che girarmi e fissare, occhi negli occhi,

quell'avvocaticchio, quell'operatore di riporti valutari, quel chis-

sà-cosa che avevo davanti. Quando, al terzo o quarto tentativo,

si chiusero le porte, io e lo spilungone ci ritrovammo pigiati an-

cor più dappresso perché la gente accalcatasi sulla porta senza

riuscire a entrare finì con lo stiparsi dentro insieme a noi, e da

quel momento in poi la sua pelle pallida e foruncolosa si appic-

cicò quasi alla mia, e ci respiravamo aria calda in faccia. Il treno

si mise in moto con uno strappo e metà della gente in piedi per-

se l'equilibrio, compreso un muratore con una canottiera azzur-

ina che s'abbatté come una pressa contro la mia spalla sinistra.

Si scusò per essermi quasi caduto addosso e allungò il braccio

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per reggersi a un sostegno, sicché mi ritrovai col naso dentro

la sua fulva e umida ascella. Quanto più discretamente possibile

portai le dita sulle narici e presi a respirare solo con la bocca. Mi

consolava un pensiero: che in fondo sarei sceso a Victoria, era

solo una fermata, tutto qui, una questione di minuti, dunque

perché prendersela?

E invece il treno rallentava di nuovo, e quando infine si fermò

nel buio pesto del tunnel mi resi conto che aveva fatto sì e no tre-

cento metri. All'arrestarsi del convoglio, si avvertì subito l'atmo-

sfera caricarsi di tensione. Fu questione di un minuto, forse, o

un minuto e mezzo, eppure sembrò un'eternità, e quando il treno

riprese lentamente a muoversi si lesse il sollievo in faccia a tutti.

Ma durò poco. Solo pochi secondi dopo, ecco ancora lo stridio

dei freni; e questa volta, quando il convoglio, tremolando, si bloc-

cò definitivamente, l'impressione, terribile, fu quella di un'immo-

bilità senza scampo. Di colpo Ä così parve Ä la quiete fu immensa.

Si udiva solo, più in là nella vettura, il sibilo di un personal stereo

che aumentò di volume quando il passeggero in questione si tolse

la cuffia per sentire gli annunci. In men che non si dica l'aria era

diventata intollerabilmente calda e viscosa: sentivo le barrette di

cioccolato che non avevo ancora mangiato liquefarsi in tasca.

Sguardi d'ansietà rimbalzavano tutt'intorno negli occhi di ognuno

Ä c'era chi si limitava a ostentare un disperato cipiglio e altri che

s'indignavano o imprecavano sottovoce Ä e chiunque aveva un

giornale o un documento in mano se lo sventolava addosso.

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Cercai di vedere il lato positivo della faccenda. Fossi svenuto

Ä cosa ampiamente possibile Ä non sarei caduto a terra, no, né mi

sarei fatto del male: di spazio per cadere proprio non ce n'era. Al-

lo stesso modo, il pericolo di morire di ipotermia era ridotto al

minimo. Vero è che l'ascella del mio vicino, avrebbe cominciato

a perdere tutto il suo fascino nel giro di un'ora o due: ma a quel

punto, come per un formaggio stagionato, avrebbe avuto la me-

glio la consuetudine. Guardavo gli altri passeggeri e mi domanda-

vo chi sarebbe stato il primo a cedere. C'erano parecchi possibili

candidati: una rinsecchita vecchietta, esile e fragile, che si stringe-

va debolmente a un asta di sostegno; una donna grassottella che

per qualche oscura ragione portava un maglione di lana pesante

ed era già paonazza; un asmatico alto alto con orecchino e Rolex

al polso che si spruzzettava regolarmente le fauci con l'inalatore.

Ribilanciai il peso del corpo, chiusi gli occhi e contai sino a cento,

molto lentamente. Durante l'operazione, sentii che il rumore nella

vettura cresceva percettibilmente: la gente cominciava a rivolgersi

la parola e la donna in maglione di lana aveva preso a gemere tra

sé e sé a bassa voce e ripeteva Dio mio, Dio mio, Dio mio, Dio

mio. All'improvviso andò via la luce e si precipitò nella più totale

oscurità. Una donna poco più in là si lasciò sfuggire un urlo, a cui

fece coda una scarica di invettive e proteste. Faceva paura Ä non

c'è che dire Ä essere ridotti all'immobilità e al contempo non po-

ter vedere alcunché: in compenso, anche questo va detto, non ero

più costretto a fissare i comedoni del terziario avanzato. Ma tut-

t'intorno avvertivo diffondersi la paura, una paura che aveva scal-

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zato fastidio e disagio. La disperazione era nell'aria e prima di

provarne la forza contagiosa, battei in ritirata, più lontano possi-

bile, nel chiuso della mia mente. Per cominciare, cercai di convin-

cermi che la situazione poteva anche essere ben più grave: l'imma-

ginazione però fu sorprendentemente avara di scene che avvalo-

rassero la tesi Ä un ratto di fogna dentro la vettura, forse, o un

suonatore ambulante che si metteva a strimpellare, non richiesto,

la chitarra ammannendoci qualche eccitante strofa di Imagine.

No, avrei dovuto spingermi ben oltre. Provai dunque a costruire

una fantasia erotica, a partire dalla premessa che il corpo contro il

quale ero premuto non apparteneva a un brufoloso agente di bor-

sa ma a Kathleen Turner, con addosso una blusa di seta sottile,

quasi trasparente e una minigonna corta che mio dio, stretta

che mio dio. Ne immaginai petto e natiche dai saldi, generosi con-

torni, gli occhi socchiusi da un desiderio riluttante e segreto, il pu-

be che la passione inconscia invitava a sfregare contro il mio Ä e di

botto, ma con orrore, mi ritrovai con un'erezione in atto: tutto il

mio corpo si tese terrorizzato, come una corda di violino e intanto

cercavo di sottrarmi all'uomo d'affari il cui pacco aderiva già per-

fettamente al mio. Non ci riuscii: anzi, posto che non mi sbaglias-

si, adesso era lui che stava avendo un'erezione, e ciò voleva dire

che o stava ricorrendo anche lui allo stesso stratagemma o che

io gli stavo dando degli erronei segnali e mi sarei presto trovato

in serissimi guai.

Proprio allora, grazie a dio, le luci tornarono, tremolanti, ad

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accendersi e un grido smorzato di sollievo si levò nella vettura.

Anche il sistema di altoparlanti tornò gracidante in vita e si udì

il laconico farfuglio di un funzionario della Metropolitana londi-

nese che, senza scusarsi punto per il ritardo, spiegò che il treno

aveva degli "inconvenienti tecnici" a cui si sarebbe ovviato nel

più breve tempo possibile. Come spiegazione lasciava a desidera-

re, ma almeno non ci sentivamo più irrimediabilmente soli e ab-

bandonati e, se nessuno avesse tentato di indurci alla preghiera

o al canto per tener su il morale, ebbi l'impressione di poter reg-

gere ancora qualche minuto. Il tipo con l'inalatore, invece, aveva

un'aria sempre più preoccupante. Scusate, disse, mentre il respiro

gli si faceva sempre più svelto e convulso, penso proprio di non

farcela più, e l'uomo che aveva vicino prese a fare dei barbottii di

rassicurazione mentre era palpabile il muto risentimento degli altri

passeggeri all'idea di sorbirsi, di lì a poco, la grana di uno sveni-

mento, di un attacco o chissà che. Percepivo però anche qualco-

s'altro, qualcosa di completamente diverso: una specie di robusto

effluvio, acuto e nauseante, che ora cominciava a imporsi vittorio-

so sulla olente competizione fra sudore e odore corporeo. Fu pre-

sto chiaro da dove veniva quando l'allampanato uomo d'affari che

avevo addosso, contorcendosi, aprì la valigetta e ne estrasse un

sacchetto di carta con sopra il logo di una ben nota catena di fast

food. Lo guardai sgomento e pensai, Non lo farà, non può farlo, e

invece sì, con un grugnito di scuse che suonò papale papale "Al-

trimenti diventa freddo", spalancò le fauci che tutte ingombrò

con un boccone immenso di quel molliccio, tiepido cheeseburger

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e prese a masticare avidamente: ogni morso faceva il viscido ru-

more dei pesci schiaffati l'uno contro l'altro sul banco del merca-

to, e una ostinata bava di maionese gli spuntava agli angoli della

bocca. Non c'era verso di distogliere lo sguardo o turare le orec-

chie: dovevo sorbirmi lo spettacolo dei pezzetti di lattuga e dei la-

certi di grasso rimasti infilati fra i denti, e la musica della gommo-

sa mistura di formaggio e pane masticato che, rimasta incollata al

palato, veniva rimossa dalla lingua-sonda. Fu allora che le cose co-

minciarono a confondersi un po', la vettura a sprofondare lenta-

mente nel buio e il pavimento a scivolarmi via da sotto i piedi,

e ci fu qualcuno che disse: Attenti, sviene! L'ultima cosa che ri-

cordo di aver pensato fu: Poveretto, con un'asma così non c'è

di che stupirsi: e poi nulla, di quel che accadde dopo non ho nes-

suna memoria, solo nero e vuoto per non so quanto.

 

 

"Sembri proprio provato," disse Patrick, una volta che ci fum-

mo seduti.

"Beh, era da un pezzo che non uscivo di casa. Mi ero dimen-

ticato com'era."

Pare che il treno si fosse rimesso in moto due o tre minuti do-

po il mio svenimento, e che poi furono l'uomo d'affari, l'asmatico

e la donna col maglione di lana a prendermi e a portarmi al pron-

to soccorso della stazione Vittoria, dove pian piano ripresi co-

scienza con l'aiuto di un sonnellino e di una tazza di caffè forte.

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Arrivai all'ufficio di Patrick che ormai era quasi mezzogiorno.

"Un viaggetto che te lo raccomando, in una giornata come

questa, non credi?" Annuì comprensivo. "Ti farebbe bene bere

qualcosa."

"Adesso che mi ci fai pensare, credo proprio di sì."

"Anche a me. Peccato che il mio budget non me lo permetta.

Se ti va, posso offrirti un bicchiere d'acqua."

Patrick aveva un'aria ancora più depressa di quando l'avevo

visto l'ultima volta, e l'ambiente era perfettamente in carattere.

Era un ufficetto piccolo piccolo, tinteggiato con un beige imper-

sonale, con una finestra di vetri affumicati che offriva una visione

parziale del posteggio auto e d'un muro di mattoni. Mi ero aspet-

tato che ci fossero i manifesti pubblicitari delle ultime uscite e in-

vece le pareti erano assolutamente spoglie, se non si contava un

grande e pacchiano calendario di una casa editrice rivale, appeso

proprio nel centro della parete alle spalle di Patrick. La sua era

sempre stata una faccia lunga e lugubre, ma non gli avevo mai vi-

sto occhi così apatici, o una piega delle labbra così rassegnata e

melanconica. Ciononostante, credo che fosse contentissimo di ve-

dermi, e quando andò a prendere i due bicchierini di plastica pie-

ni d'acqua e li pose sulla scrivania, riuscì a evocare il fantasma di

un sorriso.

"Ebbene, Michael," disse, assumendo una più comoda posi-

zione in poltrona, "dire che in questi ultimi anni non hai fatto

niente per emergere sarebbe sin troppo generoso."

"Beh, ho lavorato," mentii. "Come del resto puoi vedere."

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Convogliammo entrambi lo sguardo sul dattiloscritto che stava

fra noi due, appoggiato sulla scrivania.

"L'hai letto?" chiesi.

"Sì, che l'ho letto," disse Patrick. "L'ho letto, eccome."

Non disse altro.

"E allora?..."

"Dimmi, Michael: ti rammenti l'ultima volta che ci siamo vi-

sti?"

Perfettamente, in ogni dettaglio; ma prima di darmi l'opportu-

nità di rispondere, disse:

"Te lo dico io. Era il 14 aprile 1982".

"Otto anni fa," dissi io. "Pensa un po'."

"Otto anni, nove mesi, sette giorni. E' tanto. Per chiunque."

"Già, è tantissimo."

"Avevamo appena pubblicato il tuo secondo romanzo e le re-

censioni furono eccellenti."

"Davvero?"

"Si parlava di te nelle riviste. Ti intervistavano."

"Ma vendite, zero."

"Oh, le vendite sarebbero venute, Michael. Sarebbero arriva-

te. Se solo tu non avessi..."

"...se non avessi mollato."

"Mollato, esatto." Bevve una lunga sorsata dal suo bicchieri-

no. "Non molto tempo dopo, mi scrivesti una lettera. Non credo

che tu possa ricordarne il contenuto."

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Me lo ricordavo sin troppo bene, ma prima di riuscire a spic-

cicar parola, disse:

"Mi dicevi che per un po' non avresti scritto più romanzi perché

un altro editore ti aveva commissionato un importante libro non

narrativo. Era un editore rivale. Di cui Ä bisogna che lo dica Ä

non facesti mai il nome".

Annuii, in attesa di vedere dove voleva andare a parare.

"Ti scrissi, a un dipresso, due o tre lettere. Non mi hai mai

risposto."

"Beh, sai come vanno le cose, quando sei... immerso capo e

collo in un lavoro."

"Avrei potuto forzare la mano. Starti dietro, soffiarti sul collo.

Avrei potuto piombarti addosso come una tonnellata di mattoni.

Eppure ho scelto di non farlo. Ho deciso di trarmi indietro e di

stare a vedere cosa ne veniva fuori. Prepararsi alla ritirata e aspet-

tare, in attesa di sviluppi, fa parte del mio lavoro. Ci sono volte in

cui senti che è l'istinto a dettarti cosa è meglio fare, solo l'istinto.

In specie quando hai a che fare con uno scrittore nel quale hai in-

vestito personalmente. Uno a cui ti senti affine."

Piombò nel silenzio e mi lanciò un'occhiata che più eloquente

non poteva essere. Non sapendo, però, che cosa intendesse con

quello sguardo, lo ignorai e mi lasciai scivolare un poco sulla pol-

trona.

"Ti sentivo vicinissimo, allora, Michael. Fui io a scoprirti. A

tirarti fuori dal mucchio. In realtà Ä e correggimi se ti sto raccon-

tando balle Ä avevi mille ragioni, in quei tempi, per vedere in me

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l'amico, piuttosto che l'editor."

Non avevo nessuna voglia di correggerlo su quel punto speci-

fico, ma non riuscii neppure a decidere se far cenno di sì o di no

con la testa, ragion per cui restai immobile.

"Michael," disse tendendosi in avanti, "fammi un favore."

"Accordato."

"Lascia che, per un momento, io ti parli da amico, e non da

editor"

Mi strinsi nelle spalle. "Fa' pure."

"Ok, allora. Parlando da amico, e non da editor, e spero che tu

non la prenda per il verso sbagliato, lasciamelo dire Ä e sono pa-

role ispirate da una serena critica costruttiva e da interessamento

personale Ä sei ridotto proprio una merda."

Per tutta risposta lo fissai dritto negli occhi.

"Michael, è come se tu avessi addosso vent'anni di più."

Arrancai alla ricerca di parole. "Ma... vuoi dire che do l'im-

pressione di essere invecchiato?"

"Il fatto è che hai sempre avuto un'aria così giovane. Allora, ti

si davano dieci anni di meno. Adesso sembra che, rispetto all'età

che hai, tu ne abbia dieci di più."

Ci pensai su e mi chiesi se far notare che in tal caso, tenendo

conto degli Otto anni che, nel frattempo, erano passati, avrei do-

vuto avere i connotati di uno che è invecchiato d'una trentina

d'anni. E invece restai seduto li, con la bocca che s'apriva e chiu-

deva, come un pesce fuor d'acqua.

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"Allora cos'è successo?" chiese Patrick. "Cosa sta succe-

dendo?"

"Ma, non so... non saprei da dove cominciare." A questo pun-

to Patrick s'alzò ma io non smisi di parlare. "Gli anni ottanta, tut-

to considerato, non sono stati un bel periodo per me. E suppongo

che la considerazione valga per molti." Lui aveva aperto un arma-

dietto e sembrava fissare l'interno dell'anta. "Mio padre è morto

qualche anno fa, e la cosa mi ha scosso duramente, e poi Ä beh,

probabilmente lo sai, dacché mi sono separato da Verity, non

ho mai avuto molte..."

"E io, ti sembro più vecchio?" chiese Patrick di punto in

bianco. Capii che era uno specchio quello in cui aveva fissato

lo sguardo.

"Cosa? Ma no, davvero."

"Io però mi sento così." Tornò a sedersi, lasciandosi cadere

con esagerato abbandono. "Improvvisamente mi sembra che sia

passato chissà quanto tempo da quando ti sei presentato nel

mio ufficio, pieno di giovani promesse."

"Come stavo dicendo, da allora ne sono successe di cotte e di

crude: prima la morte di mio padre, che fu un colpo notevole, e

poi...',

"Io lo odio questo lavoro, sai? Odio quel che è diventato."

"Mi dispiace sentirtelo dire." Restai in attesa che elaborasse

una risposta, ma al contrario ci fu una lunga pausa di silenzio.

"Comunque, dicevo, come sai, dalla rottura con Verity non ho

avuto quel gran successo che..."

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"Voglio dire, non è più il lavoro di una volta. Non più. La ba-

racca è irriconoscibile. Riceviamo istruzioni dall'America e nessu-

no si sogna di porgere la minima attenzione a quel che dico du-

rante le riunioni di redazione. Della narrativa se ne sbattono il caz-

zo, della vera narrativa intendo; e il solo genere di... valori che tut-

ti hanno in mente è quello che ha a che fare con gli utili nel bilan-

cio di esercizio." Si riempì un altro bicchierino d'acqua e se lo

scolò tutto in una volta, come fosse whisky. "E adesso ecco... ecco

qualcosa che ti farà morire dal ridere. Questa sì che ti farà piegare

in due, questa sì. L'altro giorno ho letto il dattiloscritto di un nuo-

vo romanzo. Indovina di chi era?"

"Avanti, spara."

"Di una tua amica. Una di cui sai un sacco di cose."

"Ci rinuncio."

"Hilary Winshaw."

Ancora una volta mi ritrovai completamente senza parole.

"Oh sì, adesso è a questo che puntano. Non gli basta essere

ricchi da far schifo, mettere le mani su uno dei posti di maggior

potere in televisione e avere due milioni di lettori che ogni settima-

na tirano fuori moneta sonante per scoprire che hanno il battisco-

pa tarlato: questa è gente che vuole Ä e cazzo se la vuole Ä l'immor-

talità! Vogliono che i loro nomi figurino del catalogo della British

Library, vogliono le loro sei copie omaggio, vogliono poter inserire

il bel volume rilegato fra Shakespeare e Tolstoj nella libreria del

salotto. E ci stanno riuscendo. Ci stanno riuscendo perché gente

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come me sa fin troppo bene che, anche qualora trovasse un nuovo

Dostoevskij, non venderebbe metà delle copie che realizzerebbe

una merdata qualsiasi scritta da un pirla qualsiasi che legge le pre-

visioni del tempo alla televisione, televisione del cazzo!"

Le due ultime parole suonarono alte come un grido. Poi si se-

dette e si passò le mani nei capelli.

"E allora com'è? il suo libro, intendo," chiesi dopo che si fu

calmato un pochettino.

"Oh, la solita robaccia. Gente del mondo televisivo, giornali-

stico e pubblicitario, dinamica e spietata. Sesso ogni quaranta pa-

gine. Espedienti di bassa lega, trama meccanica, dialoghi che fan-

no pietà: come l'avesse scritto un computer. Anzi, forse è proprio

un computer che l'ha scritto. Vuoto, senza succo, materialistico,

pomposo. C'è quanto basta per far venire il vomito a gente di

buona cultura." Restò, dolente, a fissare nel vuoto. "E il peggio

è che non hanno neanche accettato la mia offerta. C'è stato qual-

cuno che mi ha battuto di diecimila sterline. Bastardi. Sarà il best

seller di primavera, io lo so."

Era evidente che non sarebbe stato facile rompere il nuovo si-

lenzio. Patrick aveva gli occhi in fuori, come quelli di una rana, e

guardava dritto oltre la mia persona; pareva, anzi, che si fosse to-

talmente dimenticato che fossi li, nella sua stanza.

"Senti," dissi infine, teatralizzando lo sguardo che gettai all'o-

rologio da polso. "Devo proprio andare: ho un altro appuntamen-

to di qui a poco. Se tu potessi darmi qualche suggerimento sulla

roba che ti ho mandato..."

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Gli occhi di Patrick puntarono di nuovo su di me e mi misero

a fuoco. Un mesto sorrisò sognante si diffuse sul suo volto. Non

credo mi avesse sentito.

"E poi magari sono tutte baggianate le mie," disse. "Magari

nel mondo ci sono cose ben più importanti e i miei problemucci

contano come il due di picche. Forse ci sarà la guerra, e noi ci sa-

remo dentro."

"La guerra?"

"Beh, siamo su quella strada li, non ti pare? La Gran Bretagna

e la Francia che mandano altre truppe in Arabia Saudita. Dome-

nica espelliamo quelli dell'ambasciata irachena. E adesso ci si met-

te anche l'Ayatollah proclamando la guerra santa contro gli Stati

Uniti." Rabbrividì. "E' così, ti dico: questa situazione è gravida

di conseguenze che hanno un'aria piuttosto tetra viste da dove

sto seduto io."

"Vuoi dire che, una volta iniziate le ostilità, Israele vi sarà in-

vischiata e in men che non si dica le relazioni in Medio Oriente

precipiteranno? E che a quel punto se le Nazioni Unite cederanno

alla tensione, si ricreeranno le condizioni di una nuova guerra

fredda e potremmo trovarci di fronte all'eventualità di una guerra

nucleare anche se circoscritta?"

Con uno sguardo di compassione, Patrick mise allo scoperto la

mia ingenuità.

"Non è esattamente in questi termini che io la penso," disse.

"Il fatto è che se non usciamo in libreria con una biografia di Sad-

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dam Hussein nei prossimi tre o quattro mesi, tutti gli editori della

città ci pisceranno addosso." Mi guardò di sotto in su con un im-

provviso disperato lucore negli occhi. "Magari ne potresti fare

una tu per noi. Che ne dici? Sei settimane di ricerca, sei settimane

per scrivere. Ventimila di anticipo se conserviamo i diritti per l'e-

stero e i diritti di riproduzione sulla stampa periodica."

"Patrick, non posso credere alle mie orecchie." Mi alzai in pie-

di, feci avanti e indietro per la stanza un paio di volte e infine lo

guardai dritto in faccia. "Non posso credere che tu sia la stessa

persona con la quale ho fatto tutto quel gran parlare otto anni

fa. Tutto quel parlare della... ma sì, della durata della grande let-

teratura, del bisogno di guardare al di là della mera contempora-

neità. Insomma, che ne è di quel Patrick? E' il lavoro che ti riduce

così?"

Avevo finalmente catturato la sua attenzione Ä si vedeva Ä e si

vedeva anche, da come la sua faccia si stava rapidamente afflo-

sciando, che il mio messaggio avrebbe potuto insinuarsi dentro

di lui. Dunque decisi di darci dentro.

"Avevi una tal fiducia nella letteratura, Patrick. Non ho mai

visto una fede così grande. Io mi sedevo su questa poltrona ad

ascoltarti parlare ed era, come dire?, una rivelazione. Tu mi in-

segnavi le verità imperiture. I valori che trascendono generazio-

ni e secoli, e che sono codificati nelle grandi opere di immagi-

nazione di ogni cultura." Stronzate. Erano stronzate che non

avrei potuto reggere ancora per molto. "Mi hai insegnato a fare

a meno delle verità senza domani, delle verità effimere, delle ve-

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rità che oggi sembrano piene di significato e domani non con-

tano più nulla. Mi hai mostrato che esiste una verità nobile, su-

periore a ogni altra verità. La narrazione, Patrick." Picchiettai il

dito sul manoscritto che era rimasto sulla scrivania. "La narra-

zione, quella sì che è importante. Ed è nella narrazione che un

tempo tu e io credevamo. Per questo oggi sono ritornato qui.

Credevo che lo sapessi."

Restò in silenzio per un po' e quando ricominciò a parlare, gli

tremò la voce per l'emozione.

"Hai ragione, Michael. Mi spiace, mi spiace davvero. Tu vieni

qui per avere un'opinione su un tuo scritto, su qualcosa che senti

profondamente e io di cosa ti vengo a parlare? Dei miei proble-

mi." Mi fece cenno di tornare a sedere. "Dài. Siediti. Parliamo

del tuo libro."

Determinato a mantenere il vantaggio acquisito, levai la mano

in un gesto di deprecazione e dissi: "Forse non è il momento adat-

to. Ho quest'altro appuntamento e forse tu devi pensarci su prima

di prendere una decisione, dunque perché non..."

"Ho già preso una decisione sul tuo libro, Michael."

Mi risedetti immediatamente. "Davvero?"

"Sì. Non ti avrei detto di venire qui se non avessi già deciso."

Non proferimmo verbo entrambi per qualche secondo. Poi io

dissi: "Allora?"

Patrick si spinse indietro sulla poltrona e sorrise con fare pro-

vocatorio. "Penso che, prima, faresti meglio a parlarmene un po-

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chettino. Di cosa c'è dietro. Di perché hai scritto un libro sulla

famiglia Winshaw. Di perché hai scritto un libro che sembra par-

tire come una cronaca storica e poi si trasforma in un romanzo.

Da dove è venuta fuori un'idea così?"

Risposi a queste domande raccontando la verità, dettagliata-

mente e andando abbastanza per le lunghe. Dopo di che, restam-

mo di nuovo tutti e due in silenzio per qualche istante. E poi chie-

si: "Allora?"

"Allora.., allora non ho bisogno di dirti che questo libro si

porta appresso un problema serio, Michael. E' patentemente diffa-

matorio."

"Non è un problema, quello," dissi. "Cambierò tutto quel che

c'è da cambiare: nomi, luoghi, date, tutto. Questo è solo un inizio,

capisci? E' semplicemente una base di partenza. Posso coprire le

tracce, rendere tutto quanto praticamente irriconoscibile. Questo

è solo il primo passo."

"Mmh." Patrick congiunse le falangi delle dita e le premette,

pensoso, sulla bocca. "Insomma, a noi che cosa resta esattamente?

Un libro volgare, scandalistico, con toni rivendicativi, scritto Ä va

da sé Ä intingendo la penna in un astioso rancore e, in parte, la-

sciamelo dire, persino un po' superficiale."

Tirai un respiro di sollievo. "Allora lo pubblicherai?"

"Penso di sì. A patto che tu esegua le necessarie revisioni e

che, naturalmente, ci sia una chiusa."

"Certo, sto proprio lavorando a questo ora, e spero di trovare

qualcosa... presto. Prestissimo." Nel mio entusiasmo sentii un im-

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provviso moto di tenerezza amicale nei confronti di Patrick. "Sai,

ero sicuro che questo fosse un libro perfetto per il mercato in que-

sto momento, ma non sai quanto avevo bisogno di sentirmelo dire

da te. E' così diverso dagli altri miei romanzi ed ero preoccupato

che..."

"Oh, non poi così diverso," disse accompagnando le parole

con un gesto della mano.

"Davvero?"

"C'è senz'altro un legame stilistico fra questa roba e il tuo ul-

timo lavoro, per esempio. La tua voce la si riconosce subito. Per

molti versi, questo ha lo stesso vigore espressivo e le..."

"...e le cosa?" domandai, dopo che aveva lasciato cadere il di-

scorso.

"Pardon?"

"Stavi per dire qualcosa. La stessa potenza e...?"

"Oh, non importa. Davvero."

"Le stesse debolezze: è questo che stavi per dire, no? Lo stesso

vigore e le stesse debolezze."

"Beh, se proprio lo vuoi sapere: sì."

"E cosa significa?"

"Oh, dobbiamo metterci a discutere di questo adesso?"

"Avanti, Patrick, di' quel che devi dire."

"Beh..." Si alzò e raggiunse la finestra. Il parcheggio e il muro

di mattoni non sembrarono ispirarlo. "Immagino che non ricorde-

rai, no eh?, ciò di cui abbiamo parlato l'ultima volta che ci siamo

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visti. Fu l'ultima nostra conversazione, tanti tanti anni fa."

Me la ricordavo perfettamente.

"Non ce l'ho presente, no."

"Parlammo a lungo della tua opera. Parlammo molto di quel

che avevi già scritto, del tuo lavoro a venire, e di quello che avevi

in corso, e io mi azzardai a fare delle critiche che Ä così mi parve Ä

ti turbarono non poco. Immagino che non ti rammenti su cosa

vertevano?"

Mi ricordavo tutto, quasi parola per parola.

"Non potrei giurarci, temo."

"Dicevo.., insomma dicevo, in tutta franchezza, che nella tua

scrittura mancava un po' di passionalità. Non te lo ricordi?"

"Non ce l'ho in mente."

"L'accenno di per sé non poteva offenderti, ma io feci di più,

e qui forse fui un po' troppo presuntuoso, suppongo, sostenendo

che quella mancanza si spiegava con la mancanza di una certa pas-

sionalità nella Ä è difficile trovare la parola giusta Ä nella tua vita."

Mi scrutò attentamente: abbastanza attentamente per poter dire:

"Te lo ricordi, vero?"

Mi sottrassi al suo sguardo finché la mia indignazione ebbe la

meglio. "Non so come tu possa dire una cosa così," farfugliai.

"Questo libro è pieno di passione. Pieno di rabbia, comunque.

Se comunica qualcosa è proprio l'odio che io sento per questa

gente, è il male che essi incarnano, è la distruzione che hanno por-

tato con sé, facendo uso dei loro interessi acquisiti e della loro in-

fluenza, dei loro privilegi e del controllo assoluto e paralizzante su

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tutti i centri di potere; è come ci hanno messo tutti nella condizio-

ne di non nuocere, è come si sono divisi fra loro tutto questo ma-

ledetto paese. Tu non sai, Patrick, cos'ha voluto dire dovermi sen-

tire intorno questa famiglia per così tanti anni; giorno dopo giorno

in compagnia degli Winshaw e basta. Perché pensi che il libro sia

diventato quello che è? Perché scriverne, cercare di raccontare la

verità che li concerne, era il solo modo che mi impediva di volerli

uccidere. Cosa che, per altro, qualcuno dovrebbe fare uno di que-

sti giorni."

"Va bene, ma ora lasciami inquadrare la questione da un 'al-

tro..."

"Mi sconcerta che tu te ne esca dicendo che non c'è pas-

sione."

"Forse 'passione' è la parola sbagliata." Ebbe solo un attimo

di esitazione. "In realtà, anche quando abbiamo avuto quella fa-

mosa prima conversazione, non ho usato questa parola. Per par-

lare con assoluta schiettezza, Michael, ti feci notare che nella

tua opera era il sesso che mancava, il sesso sì, fu questa la parola,

adesso che ci penso. E io allora andai più a fondo nella riflessione

chiedendomi se ciò potesse significare Ä 'potesse significare', non

mi spingo al di là del congiuntivo ipotetico Ä che c'era anche,

egualmente, una parallela e... concomitante assenza di... sesso...

nella tua... Insomma, te lo dico in quest'altra maniera: al momento

non c'è nessuna dimensione sessuale in quel che scrivi, Michael, e

mi domandavo solo se questo potesse essere ricondotto al fatto

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che la tua.. .che la tua vita sia priva Ä o che almeno sia povera Ä

di una dimensione sessuale. Ecco qua."

"Capisco." Mi alzai in piedi. "Patrick, sono deluso. Non cre-

devo che tu fossi il genere di editor capace di dire agli autori che

devono mettere del sesso nei loro libri per incentivare le vendite."

"No, non è quello che sto dicendo. Le cose non stanno asso-

lutamente in questi termini. Ti sto dicendo che qui non trova

espressione un aspetto cruciale dell'esperienza dei tuoi personag-

gi. Che lo eviti. Che non ti metti in gioco su questo punto. Se non

ti conoscessi meglio, direi che ne hai paura."

"Non resterò qui ad ascoltare altro," dissi dirigendomi verso

la porta.

"Michael?"

Mi voltai.

"Ti farò avere un contratto stasera, per posta."

"Grazie," dissi e stavo per andarmene, quando qualcosa mi in-

dusse a fermarmi e a dire: "Mi hai toccato un bel nervo, sai, quan-

do hai insistito su.. un elemento che pare manchi nella mia vita".

"Lo so."

"E comunque è difficile scrivere delle belle scene di sesso."

"Lo so."

"Grazie lo stesso." Altro ripensamento. "Presto dobbiamo

uscire a pranzo insieme, come ai vecchi tempi."

"La ditta non mi consente più di offrire il pranzo agli autori,"

disse Patrick. "Ma tuttavia, se c'è da qualche parte un posto che

conosci a buon mercato, possiamo sempre fare alla romana."

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Mentre io me ne andavo, lui si versava un altro goccetto d'ac-

qua.

 

 

 

 

3.

 

Il mio incontro con Patrick era andato per le lunghe, molto più

di quanto avessi preventivato ed ero quasi in ritardo quando arri-

vai alla Vanity House. Avevo sperato di mangiare qualcosa appena

fuori, ma non ce ne fu il tempo: dovetti accontentarmi di un altro

po' di cioccolato. Provai una di quelle nuove barrette, le Twirls:

spirali di cioccolato a scaglie coperto da un ricco e succulento ri-

vestimento cremoso. Non male, a dire il vero, anche se c'era voluta

una bella faccia tosta a darla per "nuova", dato che, per quanto

concerneva l'idea, il debito nei confronti della Ripple era grosso

ed evidentissimo. Questo tipo di barretta di cioccolato, però, pa-

reva, più, come dire?, compatta: più solida e sostanziosa. Avevo

comprato anche un pacchetto di Maltesers ma non avevo voglia

di aprirlo.

Non ne potevo più di arrivare alla Peacock Press, e, almeno

in parte, per una ragione che forse sembrerà stupida. La prima

persona con cui avevo parlato Ä la persona che mi aveva avvici-

nato proponendomi l'idea di un libro sulla famiglia Winshaw Ä

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era stata Alice Hastings con la quale s'era creata immediatamente

un'intesa. Dovrei anche aggiungere che si trattava di una donna

giovane e bellissima, e che buona parte dell'attrattiva del proget-

to risiedeva nell'opportunità, implicita nel lavoro, di ulteriori in-

contri con lei. Ma non andò così. Dopo quel contatto iniziale, fui

passato a una certa Mrs Tonks, donna ben oltre la mezza età,

tutt'altro che affabile e senza peli sulla lingua, che col tempo as-

sunse la piena responsabilità della supervisione del libro. Ella si

calò nel ruolo con molta serietà e fece del suo meglio per darmi

prova delle sue attenzioni nei miei confronti: ogni Natale, per

esempio, mi faceva arrivare un pacco dei suoi libri preferiti del

catalogo annuale, impacchettati in carta da regalo. Fu così che la

mia libreria s'adornò d'articoli di lusso come Grandi idraulici di

Albania, 300 anni di alitosi, uno studio d'avanguardia del reve-

rendo J.W. Pottage, Credi di sapere tutto sui plinti?, e un volume

di memorie veramente indimenticabile Ä benché mi sfugga il no-

me dell'autore Ä intitolato Una vita nell'imballaggio. Frammenti

di un'autobiografia. Volume IX: Gli anni del polistirene. Per quan-

to questa generosità fosse oggetto del mio più profondo apprez-

zamento, non rappresentava una valida sostituzione della con-

templazione di Alice, e nelle rare occasioni (non più di tre o

quattro) in cui ero andato di persona in ufficio, avevo sempre

chiesto di lei. Per mia sfortuna, però, era sempre fuori a pranzo,

oppure era in vacanza, o occupata con un autore. E, tuttavia,

persino ora Ä che assurdità, otto anni dopo il primo incontro

Ä avverti, mentre entravo nell'edificio, una dolce fitta di nostal-

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gia sessuale, e il pensiero di poterla incrociare per un attimo o

addirittura di scambiare due parole con lei impresse alla mia an-

datura un ritmo più scattante e uno svolazzo rotatorio nel movi-

mento del polso quando, nell'ascensore, premetti il pulsante del

nono piano.

Oggi, in ogni caso, persino la schiva efficienza di Mrs Tonks

mi si presentava come una confortante prospettiva: lavorare con

lei sarebbe stata una faccenda beatamente scevra di complicazioni

dopo aver avuto a che fare con Patrick. Quella almeno era la mia

aspettativa, mentre, davanti allo specchio, mi levavo una sbavatura

di cioccolato dal labbro inferiore, e l'ascensore saliva dolcemente

ai piani superiori.

Colsi, però, che c'era nell'aria qualcosa di nuovo quando Mrs

Tonks, invece di farmi attendere nella reception, si affrettò a ve-

nirmi incontro non appena sentì che ero arrivato. Sul suo muso

intrepido, da qui-faccio-tutto-io, c'era qualcosa di più della sua

solita vampa di frenesia e le sue dita giocherellavano nervosamen-

te con i grani della pesante collana di legno che pendeva oltre la

curva del suo flaccido petto.

"Mr Owen," disse. "E' tutta la mattina che cerco di chiamarla.

Speravo di risparmiarle il viaggio."

"Non è riuscita a leggere il manoscritto?" domandai, seguen-

dola dentro un ampio, confortevole ufficio, adorno di alberini

bonsai e di quadri astratti.

"Avevo intenzione di leggerlo oggi, prima che lei arrivasse,"

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disse indicandomi una poltrona. "Ma le circostanze non me l'han-

no consentito. Il fatto è che siamo tutti sottosopra. C'è stato un

piccolo incidente che ha creato gran confusione. Non la voglio te-

nere sulle spine più a lungo: questa notte abbiamo subito un

furto."

Di fronte a dichiarazioni del genere non mi viene mai niente di

intelligente da dire. La mia replica suonò più o meno: "Che cosa

terribile". Seguita da: "Spero che non sia andato perso niente di

prezioso".

"Non è stato rubato nulla," disse Mrs Tonks. "Solo il suo ma-

noscritto."

Rimasi letteralmente ammutolito.

"Era sulla mia scrivania," continuò. "Sembra che il ladro non

ci abbia messo molto a trovarlo. Non l'abbiamo ancora denuncia-

to alla polizia: prima volevo parlarne con lei. Mr Owen, c'è qual-

che ragione perché sia accaduto ora, subito dopo che l'abbiamo

ricevuto? Ha fatto qualcosa, di recente, che possa aver allertato

qualcuno circa la ripresa del lavoro interrotto?"

Ci pensai su un momento e dissi: "Sì". Misurando la stanza a

passi rabbiosi (una rabbia tutta rivolta contro me stesso) raccontai

dell'annuncio sul giornale. "Era pensato, a parte tutto il resto, co-

me una dichiarazione di guerra. Come una sfida in codice. E qual-

cuno mi ha preso in parola."

"Non avrebbe dovuto farlo," disse Mrs Tonks. "Non avrebbe

dovuto dare il nostro recapito, senza consultarci prima. Comun-

que, tutto è possibile a questo punto. Potrebbe essere stato chiun-

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que."

"No, non credo," dissi, mentre un sospetto prendeva forma

dentro di me. "Ci sono dei membri della famiglia che vorrebbero

vedere il libro soppresso: hanno già avuto modo di manifestare un

interesse in tal senso, e non sarei sorpreso se..."

Mrs Tonks non mi stava ascoltando.

"Penso che dovremo informare Mr McGanny," disse lei.

"Vuole seguirmi, per cortesia?"

Mi condusse nella reception e sparì in un altro ufficio, lascian-

domi solo con la segretaria. Cullato dal suo gentile digitare sulla

tastiera del computer, mi abbandonai agli interrogativi che veniva-

no affiorando senza logica alcuna nella mia mente, come chi fosse,

degli Winshaw, ad aver grattato il manoscritto (o, più probabil-

mente, ad aver assunto qualcuno per farlo). Il candidato più ovvio

era Henry: dopo tutto, aveva già tentato di darlo alle fiamme una

volta. Ma in realtà non si poteva escludere del tutto nessuno degli

altri. Chiunque ci fosse dietro, il loro obiettivo non era stato, ve-

rosimilmente, la soppressione del manoscritto: avevano di sicuro

previsto che ne avrei fatte diverse copie. Dunque, volevano sco-

prire sin dove erano arrivate le mie indagini: è questo che avevano

in mente. Decisi di non preoccuparmi della faccenda finché non

avessi avuto qualche dato più sicuro. Ormai il tempo era maturo

per un altro, più urgente interrogativo.

Presi a vagolare lungo la scrivania della segretaria e con fare

noncurante chiesi: "Non è che per caso... Miss Hastings è in uffi-

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cio questo pomeriggio?"

Lei mi squadrò con occhi annoiati, senza espressione.

"Sono qui solo provvisoriamente," disse.

Proprio allora riemerse Mrs Tonks e mi fece cenno di seguirla.

Non avevo mai conosciuto Mr McGanny, il direttore responsabile

della Press, e non avevo idea di cosa aspettarmi. La sontuosità del

suo ufficio mi lasciò di stucco, in particolare per le poltrone in

cuoio e l'enorme finestra panoramica che dava sul parco della zo-

na. Per quanto concerne l'uomo in se stesso, lo collocai oltre la

cinquantina: la sua faccia mi fece pensare a un cavallo Ä un puro-

sangue, forse, ma non molto snello e scattante Ä e invece della ca-

denza scozzese che mi ero immaginato esibiva il birignao di un

perfetto inglese con un curriculum scolastico che andava dalla

scuola pubblica ai due college migliori.

"Si accomodi, Owen, si accomodi." Mi squadrò attraverso la

scrivania. Mrs Tonk era in piedi accanto alla finestra. "Ho avuto

queste brutte novità sul libro degli Winshaw. Cosa ne pensa?"

"Credo che la mia linea di indagine abbia preso un indirizzo un

tantino polemico per alcuni membri della famiglia. Credo che ab-

biano voluto un assaggino di cosa mi proponevo di scrivere."

"Mmh. E' un modo di vedere le cose che suona maledettamente

ambiguo alle mie orecchie, che altro dire?" Si spinse in avanti con il

busto. "Sarò franco con lei, Owen. La polemica non mi piace."

"Capisco."

"Ma ci sono sempre due facce della stessa medaglia. Non sono

stato io a commissionarle questo libro e non me ne frega niente di

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quel che ci mette dentro. Sono affari di Miss Winshaw. Sta a lei

giudicare come viene il libro, e mi pare che le abbia dato, Mr

Owen, una totale libertà d'azione, dato che sappiamo tutti Ä ed

è inutile, adesso, star qui a girarci intorno Ä che alla signora manca

qualche rotella. A essere generosi."

"Esatto."

"Dunque sarò franco con lei, Owen. So che, attraverso i

suoi avvocati, Miss Winshaw ha stabilito delle condizioni vera-

mente vantaggiose per lei."

"E' vero."

"E non c'è alcun male se le dico che lo stesso ha fatto anche

per il sottoscritto. Col che intendo l'azienda." Tossicchiò. "Ragion

per cui io credo non ci sia alcuna fretta di finire il libro. Proprio

non c'è fretta. Anzi, detto in altri termini, più si va avanti meglio

è." Tossì di nuovo. "Allo stesso modo, spero che lei non lasci ca-

dere l'impresa per una intimidazioncina da parte di..."

Dalla scrivania venne il suono di un cicalino.

"Sì?" disse lui, tenendo schiacciato un bottone.

La voce della segretaria: "Ho rintracciato il tenente colonnello

Fortescue, signore. Dice d'essere sicuro d'aver inviato l'assegno

per posta la settimana scorsa."

"Mmh. Gli mandi la solita lettera. E non mi disturbi più, a

meno che non sia davvero urgente."

"Ha telefonato anche sua figlia, signore."

"Immagino per disdire la cena. C'è qualche nuovo boyfriend a

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cui devo cedere il passo."

"Non esattamente: diceva che l'audizione di oggi pomeriggio è

saltata e che sarà qui prima. Anzi, sta già arrivando."

"Ah. Benissimo. Grazie."

Mr McGanny ci pensò su un secondo e poi s'alzò di scatto.

"Allora, Owen, credo di aver detto tutto quello che c'era da

dire a questo punto. Siamo entrambi uomini molto occupati. Co-

me del resto lo è Mrs Tonks. Meglio non traccheggiare quando

c'è un lavoro in ballo."

"La accompagno all'ascensore," disse Mrs Tonks, avanzando

verso di me e prendendomi per il braccio.

"E' stato un piacere conoscerla infine, Mr Owen," disse Mr

McGanny mentre Mrs Tonks mi spingeva verso la porta. "Giù

la testa e diamoci dentro, eh?"

Prima d'avere il tempo di replicare mi ritrovai fuori dell'uf-

ficio.

"Come torna a casa?" chiese Mrs Tonks, che con grande mia

sorpresa mi accompagnò giù in ascensore. "In taxi?"

"Beh, non ci avevo ancora pensato..."

"Gliene chiamo uno," disse; e infatti mi scortò in istrada e in

meno d'un minuto aveva fermato un'auto.

"Non ce n'era alcun bisogno, davvero," dissi, aprendo la por-

tiera con la vaga sensazione che mi avrebbe seguito anche dentro

la vettura.

"Ma si figuri. A noi piace coccolare i nostri autori. Special-

mente," e qui accennò un sorriso affettato, "quelli importanti."

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Il taxi partì e si rifermò quasi subito a un semaforo. Mentre

aspettavamo, notai un altro taxi venire nella direzione opposta,

passarci accanto e accostare davanti all'ingresso principale della

Vanity House. Ne scese una donna e io mi voltai a guardare, im-

maginando che fosse la figlia di Mr McGanny eccitato dalla pigra

curiosità di vedere com'era fatta. Invece no. Con mia somma sor-

presa e una forma del tutto irrazionale di piacere, scoprii che

quella donna altri non era se non Alice Hastings.

"Alice!" gridai fuori del finestrino. "Salve, Alice!"

Lei s'era chinata a pagare e non mi sentì: nel mentre scattò il

verde e il mio taxi si rimise in moto. Dovetti accontentarmi di sa-

pere che almeno lavorava ancora per la casa editrice e che, da

quanto avevo visto, non era cambiata molto in tutti quegli anni.

Qualche minuto dopo il taxista fece scorrere il vetro divisorio

e disse. "Mi scusi, amico, non è che per caso le risulta che qual-

cuno aveva intenzione di seguirla?"

"Di seguire me? Perché?"

"C'è una Citroen 2CV azzurra che ci vien dietro."

Mi voltai per gettare un occhio.

"Con 'sto traffico è difficile dirlo, certo, ma quello li ci sta die-

tro anche dopo aver preso un paio di scorciatoie che so io, e allora

mi chiedevo se..."

"Non è impossibile," dissi sforzandomi di mettere a fuoco il

guidatore.

"Beh, adesso accelero e vediamo che succede." Non disse più

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nulla finché non fummo quasi a Battersea. "No. L'abbiamo per-

duto. Devo essermelo messo in testa."

Tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai sprofondare nel sedile

posteriore. Era stata una lunga giornata. Non volevo altro, ormai,

che passare la serata da solo nel mio appartamento con televisore

e videoregistratore. Avevo fatto il pieno di gente, e per un po' ne

avrei avuto abbastanza. Era spossante. Una volta a casa, neanche

Fiona volevo vedere.

Il taxista, contato il resto, me lo stava allungando attraverso il

finestrino quando una Citroen azzurra arrivò scoppiettando e gua-

dagnò velocità quando ci passò accanto.

"Che mi si inchiappetti su un piede solo," disse con gli occhi

incollati alla Citroen. "Sì che ci seguivano! Lei deve tenere gli oc-

chi aperti, amico: c'è qualcuno che le sta dietro."

"Forse lei ha ragione," mormorai mentre l'auto spariva oltre

l'angolo del mio caseggiato. "Forse ha proprio ragione."

E tuttavia, al contempo, non potei fare a meno di pensare che

cosa mai c'entrasse una vecchia Citroen sgangherata. Possibile che

Henry Winshaw avesse in mente un piano così elusivo?

 

 

 

 

 

 

Henry.

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21 novembre 1942.

Sedici anni oggi! Mater et Pater mi hanno regalato questo fa-

voloso diario rilegato in pelle in cui, a partire da oggi, scriverò i

pensieri più segreti. (nota 1) E poi, naturalmente, altre 200 sterline da

mettere sul libretto di risparmio, anche se quei soldi non li posso

toccare per altri cinque anni, che è una vera disdetta!

Nel pomeriggio hanno organizzato una festa veramente fan-

tastica. C'erano tutti, Binko, Puffy, Meatball e Squidge e anche

una o due rappresentanti del gentil sesso, come la squisita Wen-

dy Carpenter che, ahimè, non s'è degnata di parlare molto con

me. (nota 2) Come sempre, Thomas s'è tenuto sulle sue, distaccato e al-

tezzoso. Ma la vera grande sorpresa è stata quando, inaspettata-

mente, si è presentato lo zio Godfrey, così, come fosse uscito

dal nulla. Pare sia in licenza in questi giorni e che resti a Win-

shaw Towers: ha fatto tutta questa strada per fare una visitina ai

suoi cari! Indossava la divisa dell'aeronautica inglese e faceva

davvero la sua figura. E' salito in camera mia per vedere i model-

lini degli Spitfire e ci siamo immersi in una fitta conversazione a

proposito di el-Alamein e delle iniziative per tenere alto il mo-

rale della truppa. Raccontava di come i suoi compagni non ve-

dessero l'ora di vivere, a guerra finita, le cose belle della vita, e

 

Nota 1:

Nota del curatore (1994): Henry Winshaw mantenne la parola e, anzi, ha i

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titoli per essere considerato uno dei diaristi politici più prolifici

del paese. Il com pito di curare la pubblicazione dei suoi diari, che

contano circa quattro milioni di parole, si è dimostrato arduo,

ciononostante ci si augura che almeno il primo volume sia pronto per la

pubblicazione nei primi mesi dell'anno prossimo. Nell'attesa, questi

pochi e bre vi estratti serviranno ad allettare il lettore.

Nota 2:

2 Pare che questa reticenza sia stata successivamente superata: Miss

Carpenter s posò Henry Winshaw nella primavera del 1953.

 

ha cominciato ad assumere toni sempre più alati parlando di

una "relazione Beaveredge" (nota 3) in cui si afferma che, d'ora

in poi, tutti avranno un miglior tenore di vita, persino gli operai

e gente del genere. Quando se ne è andato, mi ha infilato in ta-

sca una banconota da cinque sterline senza dire una parola. Chi

non vorrebbe avere uno zio così?

 

Nota 3:

"Assicurazione sociale e Servizi paramedici" di William Beveridge

(1879-1963) divenne il programma della legislazione sociale della Gran

Bretagna del dopoguer ra e, in particolare, gettò le fondamenta teoriche

della creazione del Sistema sanitario nazionale ( (si veda sotto,

passim).

 

 

15 dicembre 1942.

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Il giorno più brutto della mia vita, senza dubbio. Scene

spaventose a Winshaw Towers quando siamo andati a rendere

omaggio al povero zio Godfrey. Nessuno riesce veramente a

credere che se ne sia andato: non è trascorso nemmeno un me-

se dalla mia festa di compleanno. (nota 4) La cerimonia di commemo-

razione è stata tremenda, la nonna e il nonno avevano un'aria

così afflitta, la cappella era così fredda, fuori il vento soffiava e

chi più ne ha più ne metta. Ma ancor peggio è andata la sera

precedente, quando sono arrivati i parenti e noi eravamo a ca-

sa. La povera zia Tabs è letteralmente impazzita alla notizia e

ha cominciato ad accusare lo zio Lawrence di aver assassinato

suo fratello! Lo ha aggredito nel corridoio mentre stava scen-

dendo a cena: ha cercato di colpirlo con una mazza da croquet.

Era, così pare, la sesta volta che ci provava. Loro hanno cerca-

to di tenermi all'oscuro di quel che stava accadendo ma, du-

rante la cena, sono arrivati dei dottori e io ho sentito la povera

zia che strillava mentre la portavano via. Ho sentito anche un

furgoncino che s'allontanava e quella è stata l'ultima volta che

l'abbiamo vista. La mamma dice che è stata portata in un po-

sto dove si prenderanno "molta cura di lei". Spero che guari-

sca presto.

Intendiamoci, io so come si sente. il funerale mi ha fatto veni-

re un nodo in gola, e per il resto del pomeriggio ho avuto una tre-

menda malinconia e ho continuato a riflettere, a riflettere, a riflet-

tere sulla futilità della guerra e su tutti i crimini che si porta die-

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tro. Quando mio padre ci ha accompagnato a casa ho cominciato

a improvvisare questo poema:

 

Nota 4:

Godfrey Winshaw (nato nel 1909) era stato ucciso dai tedeschi a Berlino

il 30 novembre 1942. Per un completo, anche se alquanto di parte,

racconto della crisi di famiglia che seguì, si consulti L'eredità

Wtnshaw cronaca di una famiglia di Micha el Owen (Peacock Press 1991).

 

In memoria dello zio Godfrey.

Deh, piangete, piangete, voi uomini in guerra,

ché per sempre, per sempre, un di voi se ne è andato,

Questo vento che soffia sulla mesta cappella,

ogni goccia di pioggia, ogni foglia, il creato,

per il figlio di Matthew ora gemon, che fu

trucidato dal turpe alemanno crudele!

Tu che ancora combatti, ah! preparati tu

a sentire, vincendo, nella gioia quel fiele.

Ci piaceva chiamarlo "zio God": era un dio,

ma or lo Yorkshire lo vuol nella terra sua mite,

destinato non più a vittoria, ad alloro,

ma a far crescere nei prati le pie margherite.(nota 5)

Quando mio padre è venuto a darmi la buona notte, gli ho

detto che non avrei mai potuto sopportare l'idea di andare in

guerra, che il solo pensiero mi terrorizzava e non avrei saputo cosa

fare se mi avessero chiamato. Lui però mi ha detto di non preoc-

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cuparmi aggiungendo qualcosa che mi è suonato misterioso su

certe ruote che muovono altre ruote. Non ho capito esattamente

cosa intendesse dire, ma sono andato a dormire alleggerito da una

strana sensazione di conforto.

 

Nota 5:

Godfrey Winshaw non fu mai rimpatriato dalla Germania. A causa del

grande dolore, il giovane e impressionabile Henry sembra aver

dimenticato questo particolare.

 

 

12 novembre 1946.

Dopo una lezione decisamente pedante con il professor Good-

man, il mio nuovo Ä sebbene in realtà piuttosto decrepito Ä inse-

gnante di statistica, sono andato a fare una passeggiata ai giardini

di Magdalen. Oxford è meravigliosa in questa serata d'autunno.

Comincio a sentirmi più a mio agio qui. Dopo la passeggiata ho

deciso di andare all'incontro della Associazione dei Conservatori.

Mio padre ne sarà molto lieto. (Devo scrivere a casa per dirglielo.)

E ora, caro diario, sto per confidarti informazioni top secret...

il fatto è che credo di essermi innamorato. Sì! Per la prima volta

nella mia vita! Il presidente dell'Associazione è Margaret Roberts

una ragazza di Somerville, e devo dire che è un vero schianto. (nota 6)

Una testa di folti capelli castano chiari.., vorrei solo sprofondarmi-

ci dentro. Non ho fatto altro che tenerle gli occhi addosso per la

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maggior parte del tempo, poi ho trovato il coraggio di avvicinarla

Questo ultimo distico non ha molto senso, sfortunatamente, poiché il corpo di

 

Nota 6:

Margaret Hilda Roberts (nata a Grantham, Lincolnshire, il 13 ottobre

1925), poi Margaret Thatcher, più tardi baronessa Thatcher di Kesteven,

divenne presidente dell'Associazione dei Conservatori della Oxford

University nell'autunno del 1946.

 

per dirle quanto avevo apprezzato la riunione; lei mi ha ringrazia-

to e ha detto che sperava di vedermi tornare. Provate solo a fer-

marmi!

Ha tenuto un discorso brillantissimo e non c'era cosa che di-

ceva che non fosse vera. Era tutto vero. Non ho mai sentito nes-

suno parlare con tanta chiarezza. Il mio cuore e la mia mente sono

tuoi, Margaret, fanne ciò che vuoi.

 

 

11 febbraio 1948.

Oggi è venuto a trovarmi lo zio Lawrence. E' una bella notizia

perché siamo solo a metà dell'anno scolastico ma io sono quasi

completamente al verde, e di solito succede che il vecchio sgancia

sempre qualcosa prima di andarsene. Gillam era in camera mia

quando lo zio è arrivato alle 12.30 circa, così è venuto anche lui

a pranzo con noi. Ho pensato che ci sarebbero stati fuoco e fiam-

me, perché, prima o poi, lui e lo zio avrebbero cominciato a par-

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lare di politica: invece è stata una discussione piuttosto cordiale.

Gillam è un laburista Ä per quanto è stato possibile abbiamo sem-

pre cercato di evitare il discorso, ma da parte mia sono convinto

che dice un sacco di sciocchezze. Comunque, lo zio lo ha ricono-

sciuto subito come un bevaniano incallito/ e ha cominciato a

prenderlo in giro di su e di giù. Gli ha chiesto cosa pensasse del-

l'idea di un Servizio sanitario nazionale e naturalmente Gfflam ne

era entusiasta. Ma poi lo zio ha detto: In questo caso, perché, se-

condo te, tutti i medici sono contrari? Ä Sembra che proprio ieri

l'Ordine dei medici abbia votato (di nuovo) di non collaborare.

Gillam ha detto qualcosa di poco convincente a proposito delle

forze reazionarie che dovevano essere vinte, e poi lo zio lo ha mes-

so di nuovo alle strette quando ha detto che in realtà, come uomo

d'affari, pensava che l'idea di avere un sistema sanitario centraliz-

zato era ragionevole, perché in definitiva poteva essere gestito co-

me un'azienda, con degli azionisti, un consiglio di amministrazio-

ne e un direttore generale, e trattarlo come si tratta un'impresa

commerciale Ä ovvero con l'obiettivo di trarne profitti Ä era il solo

modo sicuro per renderlo efficiente. Tutto questo, naturalmente,

è suonato come un anatema per Gillam. Ma lo zio ormai era tutto

infervorato e ha cominciato a dire che il sistema sanitario, se ge-

stito correttamente, poteva essere l'affare più redditizio di tutti i

tempi, perché l'assistenza sanitaria è, come la prostituzione, qual-

cosa la cui domanda non diminuisce mai: è inesauribile. Ha detto

che se qualcuno avesse potuto nominarsi manager di un sistema

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sanitario privatizzato, questo qualcuno sarebbe diventato l'uomo

più ricco e potente del paese. Gillam ha ribattuto che non era

possibile, perché il bene in questione, la vita umana, non poteva

essere quantificato. La qualità della vita non era cosa su cui poter

mettere il cartellino con il prezzo, e aggiunse: "Checché ne dica

Winshaw per dimostrare il contrario". Era un'allusione piuttosto

lusinghiera a un breve scritto che avevo dato alla Società Pitago-

rica dal titolo La qualità è quantificabile Ä in cui sostenevo (un po'

superficialmente, bisogna ammetterlo) che non esisteva alcuna

condizione, spirituale, metafisica, psicologica o emotiva, che non

potesse essere espressa con una formula matematica. (L'articolo

aveva fatto colpo Ä disse Gillam allo zio incidentalmente Ä tant'è

vero che quel titolo veniva sempre fuori quando si faceva il mio

nome in una conversazione.)

Dopo pranzo lo zio e io abbiamo preso il tè insieme in camera

mia. Mi sono congratulato con lui per come aveva preso Guam

brillantemente per i fondelli, ma lui mi ha assicurato che non in-

tendeva affatto scherzare e che avrei fatto bene a ricordare ciò che

era stato detto sul sistema sanitario. Mi ha chiesto cosa pensavo di

fare, una volta lasciata Oxford e io gli ho risposto che non avevo

ancora deciso, o industria o politica probabilmente. Quando dissi

politica mi chiese da che parte, e io risposi che non lo sapevo, e lui

ribatté che non faceva gran differenza al momento, entrambi i

partiti erano troppo a sinistra, era una reazione contro Hitler.

Poi disse che c'erano numerose società in cui avrebbe potuto si-

stemarmi, se volevo: non aveva senso cominciare dal basso, pote-

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vo puntare direttamente al consiglio di amministrazione. L'ho rin-

graziato e ho detto che avrei fatto tesoro dei suoi consigli. Non

avevo mai badato troppo allo zio Lawrence, ma ora mi sembra

proprio un tipo come si deve. Quando se n'è andato mi ha dato

ottanta sterline in banconote da dieci, denaro che dovrebbe per-

mettermi di vivere comodamente per le prossime settimane.

 

 

A questo punto si verifica un'incresciosa lacuna nei diari. Si può

ipotizzare che Winshaw non abbia scritto nulla tra il 1949 e il 1959 o,

come appare più probabile, che i relativi volumi siano andati

irrimediabilmente persi. Qualunque sia la spiegazione, ci manca

qualsiasi resoconto della sua veloce ascesa a industriale di spicco dopo

essersi laureato a Oxford, della sua nomina come candidato laburista nel

1952, del suo matrimonio l'anno successivo o della sua elezione al

parlamento nel 1955 (in occasione, ironia della sorte, di una disastrosa

sconfitta a livello nazionale per i laburisti). Durante la ricerca di un

qualsiasi documento riguardante l'acume politico del giovane membro del

parlamento, sono riuscito a trovare solo la seguente trascrizione dagli

archivi della Bbc.

 

 

SERVIZIO DI TRASCRIZIONE DELLA BBC.

TITOLO DEL PROGRAMMA: Il tema del giorno.

TX: 18 luglio 1958.

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PRESENTATORE: Alan Beamish.

Nota:

Alan Beamish (1926-): famoso annunciatore che cominciò la sua carriera

come corrispondente politico della Bbc, e pOi Continuò facendosi un nome

come innovativo produttore negli anni sessanta e settanta continuando a

fare delle occasionali e brevi apparizioni davanti alle telecamere. Dopo

un periodo infelice con una televisione indipendente, si ritirò

improvvisamente nel 1990. (fine della nota).

 

BEAmISH: Passiamo ora a una nuova sezione della trasmissione che

abbiamo chiamato Il deputato, e che speriamo diventi un appuntamento

fisso nel programma. Se vogliamo sapere l'opinione del Primo Ministro

su qualsiasi argomento, o... ehm... le opinioni del leader dell'opposizio-

ne, per esempio, sappiamo dove guardare. Le troviamo sul giornale, o le

sentiamo alla radio. Ma che ne è del comune membro del parlamento,

l'uomo che voi avete eletto per meglio rappresentare gli interessi della

vostra comunità? Cosa ne pensa lui del... ehm panorama politico attua-

le? Per aiutarci a scoprirlo, ho il piacere di dare il benvenuto in studio al

nostro primo ospite della serie, Henry... ehm... Winshaw, il parlamenta-

re laburista della circoscrizione di Frithville e Ropsley. Buona sera, si-

gnor Winshaw.

WINSHAW: Buona sera. Dunque. Ciò che questo governo non riesce

a capire...

BEAMISH: Solo un attimo, signor Winshaw. Lasci che io la presenti

facendo un po'... ehm.,. di biografia, così che i nostri telespettatori sap-

piano qualcosa della sua formazione, della sua esperienza...

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WINSHAW: Oh sì, certamente, senz'altro.

BEAMISH: Dunque, lei è nato nello Yorkshire, se non sbaglio, e si è

laureato in matematica alla Ä ehm Ä università di Oxford. Terminata l'u-

niversità, ha lavorato nell'industria ed è stato presidente della Lambert e

Cox e proprio allora ha deciso di candidarsi nel Partito laburista.

WINsHAW: E' esatto, sì.

BEAMISH: E' stato eletto nel 1955 ma ha mantenuto la sua posizio-

ne alla Lambert, e inoltre ha continuato a essere un attivo Ä ehm Ä

membro del consiglio d'amministrazione della Spraggon Textiles e

Daintry Ltd.

WINSHAW: Beh, ritengo molto importante mantenere il contatto

con il processo di... ehm... produzione da una posizione, ... ehm. -.

di rilievo.

BEAMISH: Naturalmente, essendo coinvolto così da vicino... ehm...

nell'industria, avrà senz'altro una precisa opinione sulla recente decisio-

ne del ministro Amory di ridurre la pressione dei crediti.

Nota. io Derick Hearthcoat Amory (1899-1981), successivamente visconte

Amory, membro del parlamento conservatore per Tiverton e Ministro delle

finanze dal 1958 al 1960. (fine nota).

WINsHAW: Sì certamente. E ciò che questo governo non riesce a ca-

pire è che...

BEAMISH: Ma prima di arrivare a quel tema pensavo di considerare

le cose da una prospettiva più... ehm globale, perché, dopo tutto, una è

la questione emersa nelle sedute alla Camera dei Comuni negli ultimi

giorni, e naturalmente mi riferisco alla rivoluzione in... ehm... Iraq.

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Avrà seguito il dibattito con grande attenzione.

Nota: ~ La mattina presto del 14 luglio un annuncio di Radio Baghdad

dichiarava che l'Iraq era stato "liberato dalla dominazione di un gruppo

di corrotti insediati dagli imperialisti". Re Feisal, il principe

ereditario Abdul Ilah e il generale Nuri es-Sadi erano stati assassinati

durante il colpo di stato militare, e veniva proclamato il regime

repubblicano. Su richiesta di re Hussein truppe ausiliarie britanniche

vennero mandate poi in Giordania per difendere la zona. (fine nota).

WINSHAW: Ah. Beh, non sono stato molto in parlamento questa

settimana, non tanto quanto... ehm... avrei voluto. Gli impegni d'affari

Ä d'affari, intendo, che riguardano la circoscrizione naturalmente Ä so-

no stati molto... ehm. . - molto pressanti...

BEAMISH: Ma, per esempio, quale conseguenze avrà, secondo lei, la

rivolta del generale di brigata Kassem sugli equilibri di potere?

WINSHAW: Beh, tutta la questione mediorientale, come si sa, è molto

delicata.

BEAMISH: Assolutamente. Ma credo vada detto che questo è stato

un colpo di stato estremamente sanguinario, persino per quel paese.

WINsHAw: Certo.

BEAMISH: Prevede che Macmillan avrà dei problemi riconoscendo

il nuovo governo?

Nota: Harold Macmillan (1894-1984), più tardi conte di Stockton.

Parlamentare conservatore per Bromley e Primo Ministro dal 1957 al 1963.

(fine nota).

WINSHAW: Oh, sono sicuro che.., ne terrebbe conto, se ne vedesse.

So che ha molta dimistichezza con quella parte del mondo.

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BEAMISH: No, ciò che intendo signor Winshaw... ciò che intendo è

che in certi ambienti c'è una certa preoccupazione per gli effetti che una

violenta imposizione di un regime di sinistra avrà sulle nostre prospettive

commerciali con l'Iraq. E, più in generale, sulle relazioni che vi abbiamo

avviato.

WINSHAw: Relazioni? Io amici in Iraq non ne ho, ma chiunque ne

avesse penso farebbe bene a farli tornare a casa subito. Pare che la situa-

zione sia spaventosa attualmente.

BEAMISH: Lasci che ponga la questione da un altro punto di vista.

La decisione di Macmillan di mandare truppe britanniche nella zona ha

suscitato una grande agitazione in parlamento. Secondo lei ci potremmo

trovare di fronte a un'altra Suez?

WINSHAW: No, non credo e le dirò il perché. Suez, sa, è un canale,

un canale molto grande, da come la vedo io, che attraversa l'Egitto. Ora,

non ci sono canali in Iraq, nemmeno uno. Questo è un elemento essen-

ziale che è stato trascurato dalle persone che hanno cercato di analizzare

la situazione, Quindi, sono convinto che il paragone non regga un atten-

to esame.

BEAMISH: Insomma, signor Winshaw, non è ironico secondo lei che

questo colpo di stato potenzialmente così ostile ai nostri interessi nazio-

nali sia stato compiuto da un esercito addestrato ed equipaggiato dagli

inglesi? Per tradizione inglesi e iracheni hanno collaborato molto stret-

tamente in questa zona. Lei crede che le tradizioni, i legami militari fac-

ciano parte del passato?

WINSHAW: Beh, spero proprio di no. Ho sempre pensato, per esem-

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pio, che la cravatta militare irachena è molto bella e so che molti ufficiali

inglesi la indossano con grande orgoglio. Quindi se ciò dovesse accadere

sarebbe un giorno triste per il nostro paese.

Nota: Gioco di parole intraducibile fondato sull'ambiguità del termine

tie, che significa sia "cravatta" sia "legame". [N.dT.]

BEAMIsH: Bene, vedo che il tempo a nostra disposizione sta per ter-

minare, non ci resta che ringraziare Mr Winshaw per essere stato nostro

ospite. E ora cedo la linea ad Alastair per le notizie locali.

WINSHAW: C'è un bar qui?

BEAMISH: Siamo ancora in onda, credo,

 

 

 

 

5febbraio 1960.

Che shock. Dato che non avevo molto da fare questa mattina

sono andato in parlamento verso le undici. Il programma non era

promettente: seconda lettura del progetto di legge sugli enti pub-

blici dal tema Ammissione della stampa alle riunioni. Doveva esse-

re il primo discorso di un nuovo membro per la circoscrizione di

Fincheley, una certa Margaret Thatcher: accidenti! non vien fuori

che è quella Margaret Roberts che mi aveva letteralmente tramor-

tito all'Associazione dei Conservatori a Oxford? Sono passati

quindici anni, santo cielo! Che bel debutto! Davvero magnifico.

Si sono tutti congratulati e con che effusioni. Anche se devo dire,

e con mia gran vergogna, che ho sentito solo la metà di quello

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che ha detto. Parlava e gli anni scivolavano via, e alla fine ero là

che la fissavo da sopra i seggi Ä temo Ä a bocca aperta, come

un adolescente assetato di sesso. Quei capelli! Quegli occhi!

Quella voce!

Più tardi l'ho avvicinata nel corridoio per vedere se si ricorda-

va di me. Penso di sì, ma non lo ha ammesso. Ora naturalmente è

sposata (con un imprenditore non so di che) e ha figli (due gemel-

li. Come deve essere orgoglioso, quell'uomo. Ne ha tutte le ra-

gioni. Lei doveva uscire di fretta per incontrarsi con lui e abbiamo

parlato solo per pochi minuti. Ho cenato da solo nella Sala dei

membri e poi via!, nella mia camera ammobiliata. Ho telefonato

a Wendy, ma non avevo molto da dirle, sembrava ubriaca.

Che peso opprimente è diventata. Persino il nome, Wendy

Winshaw, anche quello sembra assurdo. Non oso più portarla

fuori in pubblico. Sono passati tre anni e 247 giorni dall'ultimo

coito. (Con lei, sia chiaro.)

Nota: Margaret Roberts aveva sposato Dennis Thatcher, allora

amministratore delegato della Atlas Preservative Co., nel dicembre del

1951. I figli Mark e Canol erano nati due anni dopo. (L'Atlas venne

venduta alla Castnol Oil per 560.000 sterline nel 1965.) (fine nota).

Ho chiesto a Margaret cosa ne pensava di Macmillan e dei

suoi "venti del cambiamento" Non si è sbilanciata molto, ma

credo che la pensiamo allo stesso modo. Solo che, adesso, non

conviene scoprire le carte.

Nota: Il 3 febbraio Macmillan aveva dichiarato con orgoglio al

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parlamento sudafricano a Città del Capo che "il vento del cambiamento

stava soffiando attraverso il continente". Alcuni elementi all'interno

del suo partito considerarono la sua presa di posizione su questa

questione pericolosamente progressista. (fine nota).

Proprio come negli anni passati ma forse con più ragionevo-

lezza, sento che i nostri destini sono uniti inestricabilmente.

 

 

 

 

20 settembre 1961.

 

Inopportuna telefonata da parte del capogruppo parlamen-

tare che in qualche modo ha saputo del piccolo contrattempo

verificatosi a Winshaw Towers durante il fine settimana.

Nota: Il 16 settembre un intruso aveva fatto irruzione nella residenza

di famiglia in circostanze misteriose, ed era rimasto ucciso mentre

aggnediva violentemente Lawrence Winshaw. L'incidente suscitò pochi

commenti all'epoca, sebbene una versione particolarmente vivace del

fatto può essere trovata in M. Owen, op. cit. (fine nota).

Dio sa come, la notizia è arrivata sul giornale locale, ma Law-

rence avrà già provveduto perché non si vada oltre. Al diavolo

'sta maledetta famiglia! Se mai dovessero saltar fuori delle re-

sponsabilità oggettive, beh sarà bene che non si aspettino alcu-

na complicità da parte mia.

Comunque, voleva sapere della zia Tabitha e della sua malat-

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tia, e poi se avevamo altri casi di disturbi mentali che tenevamo

nascosti. Ho fatto del mio meglio per minimizzare ma lui non

mi è sembrato molto convinto. Se si ricomincia a parlare di Gait-

skell (e sono sicuro che accadrà) che cosa ne sarà della mia car-

riera politica?

Nota: Hugh Todd Naylor Gaitskell (nato nel 1906), parlamentare per South

Leeds e leader del Partito laburista dal 1955 fino al suo decesso

improvviso nel 1963. (fine nota).

 

 

 

14 luglio 1962.

Sui giornali molta sacrosanta indignazione per il rimpasto di

Macmfflan. Devo dire che licenziare sette ministri in una notte è

una bella botta. Per quanto mi riguarda, anche se non posso dir-

lo apertamente Ä ovvio Ä ammiro (e piacevolmente mi sorpren-

de) il suo coraggio. Lo dico fuori dei denti: potremmo fare la

stessa cosa nel nostro partito e così ci sbarazzeremmo di quegli

invertebrati di yes-men che hanno permesso ai comunisti di

prender piede, come è dimostrato dai tafferugli di Glasgow,

per esempio. Speravo, a dire il vero, che, con Bevan, si sarebbe

spento il focolaio di tutte quelle scemenze. Che ne sarà di me se

il partito si sposterà sempre più a sinistra? Si dice che Wilson

diventerà il nuovo leader, e sarebbe un vero disastro. Tanto

per dirne una, quell'uomo mi odia e mi disprezza. Al partito o

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in parlamento, non mi saluta mai. Sono rimasto per sette male-

detti anni col sedere appiccicato a questi scranni: voglio vedere

se alla fine non avrò anch'io la mia parte!

 

Note: Il discorso che Gaitskell tenne a Glasgow il 6 maggio era stato

interrotto da sostenitori dell'unilateralismo che accusavano la sezione

giovanile del Partito laburista di infiltrazioni trotzkiste.

 

Harold Wilson (1916-), più tardi barone Wilson di Rivaulx, divenne

veramente leader del partito il 14 febbraio 1963. E' possibile,

comunque, che Winshaw abbia esagerato l'entità della sua acredine. Sono

riuscito a trovare, sulla stampa, solo un'occasione in cui Wilson si

sarebbe riferito a lui, nel corso di un'intervista per il "Times" nel

novembre del 1965. Il nome di Winshaw venne menzionato in relazione

all'abolizione della pena di morte (cui lui si opponeva), e l'allora

Primo Ministro pare avesse chiesto: "Chi?". (fine delle note).

 

 

 

 

8 novembre 1967.

Breve ma umiliante conversazione con Richard Crossman

questo pomeriggio nella sala da tè. S'è fermato a congratularsi

per il mio incarico, ma è stato solo un pretesto: nelle sue pa-

role c'era una vena ironica, l'ho sentita, bastardo. Beh, sotto-

segretario parlamentare: è pur sempre un passo avanti verso

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i seggi che contano, no? Non ha senso raccontarmi delle palle:

fossi stato dall'altra parte, adesso sarei quasi al top della squa-

dra ombra. Sto giocando con gli undici sbagliati: più si va

avanti e più è palese. Wilson e soci non hanno la minima idea

di cosa sia un uomo capace. Non hanno idee. Nessuno le ha.

Nota: Richard Howard Stafford Crossman (1907-1974), parlamentare

laburista per Coventry East, era a quei tempi il leader della Camera dei

Comuni, Stranamente i suoi numerosi diari non contengono alcun

riferimento a questa conversazione. (fine nota).

Va male anche sul fronte finanziario. Sotto questa amministra-

zione così ottusa sta diventando impossibile fare affari, è come

cercare di correre in un pantano. I profitti sono scesi del 16%

alla Amalgamated, del 38% alla Evergreen. Dorothy sembra

non avere problemi, quindi la sua offerta di una posizione

non-dirigenziale comincia a diventare sempre più interessante.

Dovrei ritirarmi alle prossime elezioni e uscire da questa spor-

ca competizione?

In ogni caso non ho nessuna garanzia di essere rieletto. Una

questione molto controversa in questo momento, non c'è che dire.

L'apparizioncella di Wendy sul giornale locale non ha certo aiuta-

to. Scema d'una puttana: con tutto quello che aveva in corpo, le è

andata bene di non essersi rotta l'osso del collo. Avrebbe potuto

restarci.

(Questa è una pericolosa linea di pensiero, Winshaw. Perico-

losissima.)

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19 giugno 1970.

Beh, meritavamo di perdere. Adesso il paese avrà il governo

più duro che si sia visto dai tempi della guerra, ed è anche un be-

ne. La gente ha bisogno d'essere presa per la collottola e tirata

fuori della porcilaia in cui ha continuato a sguazzare.

Nota: Contraddicendo i sondaggi d'opinione, i conservatori ottennero una

maggioran- za complessiva di 31 seggi alla Camera dei Comuni, con il

46,4% dei voti a livello nazionale, Edward Heath (1916-) divenne

Primo Ministro, (fine nota).

Margaret ha finalmente ottenuto un incarico di governo: l'i-

struzione. Sarà magnifica, ne sono sicuro.

Keith Joseph è responsabile del sistema sanitario. Non è che

di lui io sappia granché ma non mi ha fatto una grande impressio-

ne. Ho notato solo una certa luce da maniaco nei suoi occhi, che

mi sconcerta non poco.

Nota: Keith Sinjohn Joseph (1918-), poi barone Joseph di Portsoken.

Segretario di stato per i Servizi sociali (1970-1974) e successivamente

per l'Industria (1970-1981) e Istruzione e Scienza (1981-1986). (fine

nota).

I miei voti sono scesi a 1500. Mi sorprende che siano ancora

così alti, francamente, ma questa gente voterebbe peri! manichi-

no di un sarto se ci fosse scritto sopra "laburista". E' tutta una

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farsa deprimente.

 

 

 

 

27 marzo 1973.

Il dibattito sulle riforme del Sistema sanitario nazionale pro-

poste da Joseph è andato avanti per un altro giorno. Sono i soliti

che fanno le solite obiezioni cretine. Il Nostro Uomo ha fatto una

magra figura con il suo discorso. Non sono rimasto a sentire tutta

la discussione, ho continuato a entrare e uscire per tutto il corso

della giornata. Il disegno di legge non è ancora come dovrebbe

essere, ma è un passo nella giusta direzione: strutture direttive

più efficienti, più esterni (o "interdisciplinari" come li chiama

lui) nei vari consigli Ä e ho idea che abbia in mente degli uomini

d'affari. Credo che potremmo esserci: l'inizio del processo di

smantellamento dei beni. Quindi devo cominciare a preparare la

mia mossa.

Nota: La legge per la riorganizzazione del Servizio sanitario nazionale

(1973), che venne infine approvata dalla maggioranza alla sua terza

lettura alla Camera dei Comuni il 19 giugno con una maggioranza di 11

voti. (fine nota).

Finalmente abbiamo votato alle 10.15. Ho fatto il mio dovere,

come sempre. Dovrò cercare di agganciare Sir Keith uno di questi

giorni, per fargli sapere con chi sto veramente. Sembra il tipo ca-

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pace di mantenere un segreto.

 

 

 

 

3 luglio 1974.

Ho dimenticato di scriverlo quando è successo, ma Wendy è

morta la settimana scorsa. Non è stata una sorpresa per nessuno

veramente, tanto meno per me. Venti aspirine e un bicchierone

pieno di scotch. Non ha mai fatto le cose a metà quella donna.

Questa mattina c'era il funerale, così sono schizzato sull'auto-

strada e sono arrivato appena in tempo. Una cosetta in sordina, e

nessuno della famiglia, grazie a Dio. Sono tornato a Londra in

tempo per sentire la dichiarazione della Castle a proposito dello

sciopero delle infermiere.23 Confermati i miei peggiori timori:

vuole eliminare completamente dal servizio sanitario i posti letto

privati. Pazzia. Sto cominciando a vedere la nostra vittoria elet-

torale (se così la si può chiamare) per ciò che veramente è: un

disastro nazionale. Non può andare avanti così. Wilson non

può governare a lungo senza una maggioranza e quando annun-

cerà le prossime elezioni, io non mi presenterò. Signore, fa che

sia presto.

Nota: Barbara Anne Castle (1910-), poi baronessa Castle di Blackburn:

parlamentare laburista per Blackburn e a quell'epoca Segretaria di stato

per i Servizi sociali. Lo sciopero qui menzionato venne minacciato dallo

staff paramedico del Charing Cross Hospital, che si rifiutava di

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effettuare servizio in quaranta camere nella dependance riservata a

pazienti privati. (fine nota).

 

 

 

 

7-10 ottobre 1975.

Ho partecipato al Convegno dei Conservatori nella mia nuova

veste di giornalista. Il direttore vuole 800-900 parole al giorno, e il

mio compito è stabilire se l'elezione di Margaret porta con sé

una rottura definitiva con la politica conservatrice vecchio stile.

Nota: Margaret Thatcher aveva sconfitto Edward Heath nel ballottaggio

per la leadership e il 10 febbraio 1975 venne eletta la prima donna

leader di uno dei maggiori partiti politici britannici. (fine nota).

Lui ha pensato che era interessante disporre di uno che osservasse

gli eventi con un'ottica di sinistra, ma avrà una bella sorpresa

quando leggerà quel che ho da dire.

Nota: E probabilmente lo fece. L'articolo in questione venne intitolato

Il tramonto di un'epoca d'oro e conteneva ben poco di socialista. (fine

nota).

Tutti qui non fanno altro che sottolineare il contrasto con la

sconfitta laburista a Blackpool. Sembra sia stata una carneficina, il

partito si sta disgregando e Wilson ha messo in guardia circa la pre-

senza di estremisti nelle sedi di circoscrizione, anche se io avrei po-

tuto dirglielo secoli fa. Sono anni che i marxisti si scavano vie sotter-

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ranee Ä chiunque avesse occhi per vedere poteva accorgersene.

Il piatto forte di questa settimana è stato il magnifico discorso

di Joseph. Ha detto che non c'è spazio per una "posizione di cen-

tro" e che l'unico consenso possibile deve essere basato sull'eco-

nomia di mercato. Fra i delegati, alcuni avevano un'aria stranita e

perplessa, ma diamo loro qualche anno e vedranno quanto aveva

ragione.

Sta per cominciare. Lo sento. Ci abbiamo davvero messo così

tanto tempo per arrivarci?

 

 

 

 

18 novembre 1977.

Il partito mi ha trattenuto e frenato per vent'anni. Vent'anni

sprecati. Niente mi darebbe più gioia di vedermelo sgretolarsi da-

vanti agli occhi. L'elezione del nuovo leader è stata una barzellet-

ta, e ora al Numero Dieci abbiamo un nuovo inquilino, che a de-

scriverlo viene solo in mente la definizione di nano politico, uno

che non ha idea di come governare e non ha ricevuto nessun man-

dato da parte degli elettori. Per ogni voto si deve combattere fi-

no alla morte, e inoltre dovrà impiegare la maggior parte del suo

tempo ad ammansire i liberali.

Nota: Winshaw si riferisce aJames Callaghan (1912-), poi barone

Callaghan di Cardiff. I suoi avversari nella lotta per la leadership

furono Michael Foot e Denis Healey. (fine nota).

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Reginald Prentice ha annunciato il suo passaggio ai conser-

vatori. Che stupido. Il vero potere sta nei mass media e nel far po-

litica dietro le quinte: se non ha capito questo dopo tutti questi

anni in parlamento, è più cretino di quanto pensassi. E' ormai ov-

vio che Margaret diverrà Primo Ministro fra un anno o due, e la

cosa importante, ora, è cominciare a dar credito all'attività legisla-

tiva. Una volta arrivati, dovranno muoversi con rapidità.

Nota: Reginald Ernest Prentice (1912-), poi barone Prentice di Daveniry,

giustificò il suo improvviso cambio di fede politica in un ingegnoso

volume intitolato Right Turo. (fine nota).

Il lavoro al disegno di legge sul Servizio sanitario nazionale sta

facendo passi avanti e sono riuscito a convincerli che la prima cosa

da fare è invertire la direzione della linea politica sull'eliminazione

dei posti-letto privati. Misure più radicali dovranno aspettare, ma

non troppo. Abbiamo bisogno di metter dentro gente che venga

dal mondo degli affari, per avere un riscontro autorevole e dimo-

strare che il sistema attuale è una rovina. Se l'amministratore di

una catena di supermercati, per esempio, andasse a vedere come

funziona adesso, probabilmente avrebbe un colpo.

Ho pensato: perché non proporre Lawrence? Credo abbia an-

cora una bella testa (ancora per quanto?), e ci si potrebbe affidare

a lui per arrivare alle giuste conclusioni. Vale la pena tentare, co-

munque.

Adesso la vedo, e le parlo come prima non era mai accaduto.

Sono giorni così felici.

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23 giugno 1982.

Colazione molto piacevole con Thomas, nella sala da pranzo

privata della Stewards. Servono un Porto molto buono, devo

suggerire al club di comprarlo per rimpiazzare lo sciroppo al lam-

pone che servono attualmente. Il fagiano era un po' troppo cotto

e per un pallino quasi ci lascio un dente.

Thomas ha acconsentito a darci una mano nella precipitosa

liquidazione della Telecom. Mi ci è voluto un po' per convin-

cerlo ma infine ha capito che se lui e la sua banca volevano con-

tinuare a prosperare con Margaret al governo, avrebbero dovuto

far sentire i muscoli. Naturalmente ha avuto il suo peso l'accenno

all'entità dei profitti che ne avrebbe potuto cavare. Gli ho anche

anticipato che negli anni a venire ci sarebbero state molte altre

svendite come questa e che se la Stewards voleva accaparrarsi

una bella fetta dell'operazione doveva muoversi, e in fretta. Mi

ha chiesto cos'altro c'era in programma per il futuro e io gli ho

risposto che sul piatto c'era fondamentalmente tutto: acciaio,

gas, ferrovie, telecomunicazioni, elettricità, acqua, tutto insomma.

Sulle ultime due non era sicuro di potermi credere. Aspetta e ve-

drai,, gli ho detto.

E' stata la chiacchierata più lunga che abbiamo mai avuto in

trent'anni. Siamo rimasti a parlare di questo e quello fino alle cin-

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que. Mi ha mostrato il suo nuovo giocattolo, un apparecchio-vi-

deo in cui si infilano dischi che sembrano vecchi settantotto giri

d'argento: ne era esageratamente entusiasta. Non mi pare che pos-

sano aver una gran presa sul mercato, ma non gliel'ho detto. Mi

aveva visto durante la mia ultima apparizione in tv e si è congra-

tulato con me. Gli ho domandato se si era accorto che non avevo

risposto a nessuna delle domande, e mi ha risposto che no, che

non se ne era proprio accorto. Devo dirlo a quelli delle pubbliche

relazioni: ne saranno soddisfatti. Ci hanno fatto un corso intensivo

nelle ultime settimane e devo dire che flmziona. Ho cronometrato

l'intervista registrata trasmessa l'altra sera e sono rimasto colpito

dal fatto che solo 23 secondi dopo la domanda sulla Belgrano,

io stavo già parlando dell'infiltrazione di trotzkisti nel Partito la-

burista. Talvolta sorprendo anche me stesso.

 

 

 

 

18 giugno 1984.

Le riforme procedono ma non certo spedite come avevo spe-

rato. Pare che tutti i membri della commissione abbiano un calen-

dario fittissimo di impegni e oggi è appena la seconda volta che

riusciamo a riunirci da quando è stata annunciata la revisione.

Ciononostante la relazione Griffiths ci fornisce abbastanza ma-

teriale per andare innanzi ed è una buona spinta nella giusta dire-

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zione poiché dà il colpo mortale all'idea di un'amministrazione

"fondata sul consenso". Un membro della commissione, una so-

cialista moderata, credo, contestava questo punto ma l'ho zittita

citando la definizione che Margaret ha dato di "consenso" quali-

ficandolo come "il processo di sospensione di tutte le opinioni, i

principi, i valori e le linee politiche" e "qualcosa in cui nessuno

crede e a cui nessuno obietta". Un punto a favore, mi pare.

Ciò che finiremo per raccomandare, se io avrò voce in capito-

lo, è l'inserimento di amministratori generali a ogni livello retri-

buiti in base al rendimento. Questo è il nodo decisivo. Dobbiamo

sfatare il mito secondo cui le persone sono stimolate da qualcosa

che non sia il denaro. Se finirò col gestire questo show, voglio es-

sere sicuro che le persone alle mie dipendenze diano il loro me-

glio.

Stasera sono salito nella sala tv del club per il telegiornale delle

nove e ho assistito alle scene incresciose che si sono verificate in

non so più che miniera. Una banda organizzata di minatori dal-

l'aria minacciosa stava preparando un'aggressione violenta e in-

giustificata, alcuni lanciavano pietre ai poliziotti in equipaggia-

mento antisommossa e armati solo di manganello. Quando la po-

lizia ha cercato di sfondare, alcuni di questi facinorosi l'hanno de-

liberatamente impedito, gettandosi in mezzo alla strada per con-

fondere i cavalli e facendo barriera al loro passaggio. Mi chiedo,

cosa avrà da dire Kinnock su tutto questo?

 

 

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29 ottobre 1985.

Stasera da Shepherd's Bush, per partecipare a Newsnight, do-

ve vien fuori che il presentatore altri non è che il mio vecchio

"amico" Beamish. A quel punto ho pensato di andarmene, perché

è risaputo che quell'uomo è un comunista della più bell'acqua, al-

tro che storie!, e non ha diritto di condurre un programma fon-

dato sull'imparzialità del dibattito. Comunque, ne sono uscito be-

ne. Per dan voce all"altro punto di vista" hanno tirato fuori una

racchiona, una dottoressa col dente avvelenato contro il Sistema

sanitario nazionale e il cuore a pezzi, che si è molto lamentata e

molto ha blaterato di "buona volontà" e "dell'insufficienza croni-

ca di finanziamenti" finché non l'ho rimessa in riga menzionando

pochi semplici fatti. Credevo che non l'avrei più rivista dopo

quanto avevo detto, e invece, più tardi, è venuta a cercarmi con

fare amichevole, sostenendo che io avevo conosciuto suo padre

a Oxford. Pare si chiamasse Gillam, ma il nome non mi disse nul-

la. Devo dire, anzi, che la faccenda mi è sembrata sospetta, un

trucchetto da telefoni caldi, e poiché, spente le luci dei riflettori,

non era proprio una Gorgone, le ho chiesto se le andava di bere

qualcosa, tanto per dimostrare che non c'era rancore. Niente da

fare: non c'è neanche bisogno di dirlo, inutile a dirsi. Se la prese

a morte e se ne andò su tutte le furie. (Forse era un po' lesbica

adesso che ci penso. La mia solita fortuna.)

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Da Un tarlo in tv: memorie di un presentatore disilluso, di Alan

Beamish (Cape 1993)

Potrei persino citare l'episodio Ä il primo episodio Ä in base

al quale mi son convinto che la qualità del dibattito pubblico in

questo paese aveva cominciato il suo declino inarrestabile. Era

l'ottobre 1985, durante una delle mie apparizioni in qualità di pre-

sentatore di Newsnight: l'ospite era Henry Winshaw (o Lord

Winshaw, come abbiamo dovuto abituarci a chiamarlo un anno

o due prima che morisse) e il tema era il Servizio sanitario nazio-

nale.

Ricorderete che l'argomento era di grande attualità quando il

thatchenismo era al suo apice, e negli ultimi mesi era stata varata

una serie di severi provvedimenti che avevano confuso e disorien-

tato l'ala più liberale dell'elettorato: un taglio netto alle sovvenzio-

ni statali annunciato in giugno, il Consiglio superiore di Londra

abolito in luglio, la Bbc obbligata a rinunciare a un servizio con

interviste ai capi del Sinn Fein, e, più recentemente, l'implacabile

opposizione della Thatcher alle sanzioni contro il Sudafrica, deci-

sione che le ha creato il vuoto intorno alla conferenza dei Primi

Ministri del Commonwealth. Contemporaneamente, il problema

del Servizio sanitario continuava a essere un tema scottante sullo

sfondo. Era stata avviata una sostanziale revisione della linea po-

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litica, e fra i medici montava l'inquietudine: oggetto di tanta pre-

occupazione erano lo scemare delle risorse finanziarie e le "priva-

tizzazioni silenziose". Decidemmo che sarebbe stato istruttivo in-

vitare alla trasmissione uno degli artefici delle riforme del Servizio

sanitario nazionale per metterlo a confronto con qualcuno che

esercitasse la professione medica in prima linea in un ospedale

di Londra.

A questo scopo invitammo Jane Gillam, un giovane medico

che poco tempo prima aveva partecipato a un microfono-aperto

radiofonico dove si era distinta per l'impegno e la padronanza

del tema. Me la ricordo come una donna alta, con capelli color

dell'ebano tagliati molto corti e una montatura dorata che incor-

niciava due occhi castani splendidi e battaglieri. Era tuttavia chia-

ro fin dall'inizio che non avrebbe potuto competere con Win-

shaw. Erano lontani i tempi in cui lo avevo intervistato nella rubri-

ca Il deputato, in cui aveva svagatamente espresso le sue malferme

nozioni di politica estera. Ora era impossibile riconoscere il giova-

ne e nervoso parlamentare di allora in quell'agitatore isterico e in-

viperiito che mi fissava dall'altra parte del tavolo, battendovi il pu-

gno e abbaiando come un cane rabbioso quando rispondeva alle

domande della dottoressa Gillam. O, meglio, quando non rispon-

deva affatto: giacché il suo modo di discutere di politica, a quel

punto della sua carriera, aveva ormai disertato il buon uso della

logica razionale per prendere la strada delle statistiche, citate a

raffica e diluite in un brodo di insulti sparati alla cieca. E così,

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consultando la trascrizione di quel dibattito, quando la dottoressa

Gillam sollevò il tema della deliberata insufficienza di finanzia-

menti come preludio alla privatizzazione, egli rispose:

"17.000.000 in cinque anni il 12,3% del Pil il 4% in più della

Cee il 35% rispetto all'Urss 34.000 medici generici per ogni unità

sanitaria x 19,24 in termini reali 9.586 per ogni Fhsa destagiona-

lizzata 12.900.000+54,67 a 19% compr. Iva che sale al 47% a se-

conda dell'Ipr dell'Ihsm œ 4.52p il Servizio sanitario nazionale al

sicuro nelle nostre mani".

Di contro, la dottoressa Guam disse:

"Non metto in dubbio la verità delle sue cifre, ma non posso

nemmeno mettere in dubbio la verità di quanto vedo con i miei

occhi tutti i giorni. E il problema è che queste due verità si con-

traddicono a vicenda. Ogni giorno vedo il personale lavorare sem-

pre di più, lo stress aumenta e il salario diminuisce, e vedo i pa-

zienti aspettare più a lungo per un trattamento peggiore e in peg-

giori condizioni. Questi sono fatti, temo. Non possono essere con-

futati".

E la seconda risposta di Winshaw alla dottoressa Gillam fu:

"16%! 16,5%! Che diventano 17,5% sotto un Dmu con

54.000 operatori extra con tanto di imposte pagate mediante trat-

tenute sul salario e sistema pensionistico statale calcolato sugli in-

troiti! 64% Prp come promesso nel,~jp e 38.000 sterline Ä

45 .000 dollari + Y 93.000.000 diviso ~451 elevato a 68,7 periodi-

co! 45% Ipr, 73% Nut, 85,999% Cfc e 9 settimane e mezzo in

più rispetto allo scorso governo laburista".

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Di contro, la dottoressa Gillam disse:

"La mia opinione è che non si può rendere più efficiente il Si-

stema sanitario nazionale facendo maggiormente leva sui costi. Se

si fa così, si riducono effettivamente le sue risorse, perché il Ser-

vizio sanitario vive della buona volontà, della buona volontà del

personale e, in condizioni adeguate, questa buona volontà è infi-

nita. Ma se continuate a eroderla, come state facendo oggi, e la

sostituite con una limitata quantità di incentivi finanziari, alla fine

vi ritroverete con un servizio sanitario più costoso, un servizio sa-

nitario meno efficiente e un servizio sanitario che incomberà sem-

pre col suo peso opprimente sul governo".

La terza e ultima risposta di Winshaw alla dottoressa fu:

"60 Cmo, 47 Dha, 32 Tqm, 947 Nahat, 96% in quattro anni,

37,2 in 11 mesi, 78.224 x 295?13e1/4 + 63.5375628374, lasciando

89.000.000 sterline per il Dti, il Dmu, il Dss, il Kls, l'Erm e

l'Nhsta dell'Aegwu. 43% in più, 64% in meno,'23,6% al massi-

mo e 100Ä1 escluso. E questo è tutto quanto ho da dire riguardo

alla questione".

Dopo di che se ne andò con l'aria vittoriosa di un uomo che

finalmente ha conquistato i mass media. E, in un certo senso, cre-

do avesse ragione.

 

 

 

 

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6 ottobre 1987.

Finalmente un altro incontro del consiglio di revisione, il pri-

mo dalla vittoria di Margaret in giugno. il primo Libro bianco

è pronto e ne inizieremo un secondo e un terzo.

Le prossime riforme saranno di maggiore portata. Finalmente

stiamo raggiungendo il nocciolo della questione. Per ricordare a

tutti quali siano le nostre priorità, ho appeso al muro un messag-

gio scritto in grande che dice:

 

LIBERTA'

COMPETIZIONE

SCELTA

 

Ho anche deciso di condurre una severa battaglia contro la pa-

rola "ospedale". Ormai vietata in sede di dibattito, d'ora in poi

sarà sostituita con "unità di distribuzione". Questo perché in fu-

turo il loro unico scopo sarà di distribuire servizi che verranno ac-

quistati dalle autorità sanitarie e dai medici generici dotati di fon-

di, attraverso dei contratti negoziati. L'ospedale diventa un nego-

zio e un'operazione chirurgica una merce, con un sacrosanto pre-

valere delle normali consuetudini in atto nel mondo degli affari:

accumula e poi vendi a buon prezzo. La meravigliosa semplicità

di questa idea mi sbalordisce.

In agenda oggi c'era anche il tema "fonti di reddito". Non ve-

do proprio perché le unità di distribuzione non debbano, per

esempio, far pagare il parcheggio ai visitatori. Inoltre dovrebbero

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essere incoraggiate ad affittare spazi per il commercio al dettaglio.

Non ha senso lasciare quelle corsie vuote quando potrebbero es-

sere trasformate in negozi che vendono fiori, uva, o tutto quel ge-

nere di cose che la gente compra volentieri quando si reca a far

visita a un parente ammalato. Hamburger et similia. Piccoli so-

prammobili e souvenir.

Verso la fine della riunione qualcuno ha sollevato il tema degli

Anni di Vita in Rapporto alla Qualità. E' tra i miei argomenti pre-

feriti, devo dire. L'idea è che si prende il costo di un'operazione e

poi si calcola non solo quanti anni di vita vengono garantiti, ma

anche la qualità di vita che ne consegue. Gli si dà semplicemente

un numero. Poi si può elaborare il rapporto costo-efficacia di ogni

operazione: e così un'operazione come la sostituzione di un'anca

verrebbe a costare 700 sterline per Avrq, mentre un trapianto

di cuore 5.000 sterline e una dialisi condotta interamente in ospe-

dale costerebbe 14.000 sterline per Avrq.

E' da una vita che lo sostengo: la qualità è quantificabile!

La maggior parte del consiglio, comunque, crede che la gente

non sia ancora pronta per questa idea, e potrebbe aver ragione.

Ma ormai non manca molto. Siamo tutti molto soddisfatti dopo

il risultato delle elezioni. Le vendite procedono a un ritmo sor-

prendente: Aerospace, Sealink, i cantieri navali Vickers, la British

Gas l'anno scorso, la British Airways a maggio. Il giorno del Ser-

vizio sanitario non può sicuramente essere lontano.

E' un peccato che Lawrence non abbia vissuto abbastanza per

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veder realizzato tutto questo, ma farò onore alla sua memoria.

Non dobbiamo mai dimenticare che dobbiamo tutto a Marga-

ret. Se il sogno ambizioso diverrà realtà, sarà grazie a lei, e lei sola.

E' magnifica, inarrestabile. Non ho mai visto tanta determinazione

in una donna, un tale coraggio. Si libera dei suoi avversari come se

fossero erbacce che le intralciano il cammino. Li elimina con uno

schiocco di dita. Sembrava così bella quando ha vinto. Come po-

trò mai ripagarla, come si potrà solo cominciare a ripagarla per

tutto ciò che ha fatto?

 

 

 

 

18 novembre 1990.

La telefonata è arrivata alle nove di sera. Non c'era ancora

niente di deciso, ma cominciavano a sondare l'opinione tra i fede-

li. Io fui tra i primi a essere consultato. I sondaggi vanno male:

diventa sempre più impopolare. Anzi, non si tratta più solo di im-

popolarità ora. L'unica verità è che con Margaret come leader, il

partito non può sostenere la corsa alle elezioni.

"Via la puttana," dissi, "e in fretta."

Niente ci deve fermare.

Nota: Margaret Thatcher venne deposta da leader del Partito conservatore

il 22 novembre 1990. Nel 1992 il suo successore, John Major, ha portato

il partito verso la sua quarta vittoria elettorale, evento senza

precedenti, assicurando così una continuità nella politica sanitaria. Ma

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questo fu un trionfo a cui Henry Winshaw non avrebbe potuto prendere

parte. (fine nota).

 

 

 

 

 

 

OTTOBRE 1990.

 

"Il fatto è," disse Fiona "che del mio medico non mi fido. A

quel che vedo, in questi giorni, impiega tutte le sue energie per pa-

reggiare il bilancio e contenere le spese. Ho avuto l'impressione di

non essere presa molto sul serio."

Feci del mio meglio per concentrarmi sulle sue parole, ma il

mio sguardo era calamitato dai clienti che cominciavano ad affol-

lare il ristorante. Mi baluginò l'idea che non fossi vestito in modo

adatto. I maschi erano per lo più senza cravatta ma dai capi che

avevano addosso si avvertiva un gusto non certo a buon mercato,

e la stessa Fiona sembrava aver meglio intuito il tono dell'ambien-

te: portava una giacca a spina di pesce senza collo su una magliet-

ta di cotone nera, e pantaloni di lino color crema, tagliati corti a

mostrare le caviglie. La mia sola speranza era che non avesse no-

tato le toppe consunte sui jeans o le macchie di cioccolato rimaste

incrostate al maglione da chissà quanto.

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"Io non sono certo una che schizza, ansiosa, dal medico ogni

volta che ha un raffreddore," continuò. "Vado avanti così da qua-

si due mesi ormai, con questa specie di influenza. Non posso con-

tinuare a chiedere giorni di malattia, al lavoro."

"Beh, forse il sabato è il suo giorno più pieno. Ha dovuto fare

in fretta."

"Penso solo che mi si debba qualcosa di più di una pacca sulle

spalle e di un po' di antibiotici, tutto qui." Diede un morso a un

cracker ai gamberetti e sorseggiò del vino: tentando, così pareva,

di rilassarsi. "Comunque." Alzò lo sguardo e sorrise. "Comunque,

è stato molto carino da parte tua, Michael. Carino e inaspettato."

Se c'era dell'ironia, non mi sfiorò neppure. Non ero ancora

riuscito a riprendermi dalla meraviglia al pensiero d'essere vera-

mente seduto in un ristorante con un'altra persona Ä una donna,

addirittura Ä a un tavolo per due. Credo che una parte di me, quella

più realistica e persuasiva, avesse semplicemente smesso di credere

all'eventualità della cosa: e invece era stato così facile farla accade-

re. Avevo trascorso la sera prima sdraiato davanti alla televisione,

quasi ubriaco di noia, quantunque fossi partito con le migliori in-

tenzioni. Negli ultimi anni avevo accumulato una pila di videocas-

sette che non ero mai riuscito a guardare, e speravo che questa vol-

ta avrei trovato la forza necessaria per vederne almeno una dal prin-

cipio alla fine. Ma, tanto per cambiare, ero stato di nuovo troppo

ottimista. Avevo guardato la prima metà dell'Orfeo di Cocteau, i

primi trenta minuti de Il lamento sul sentiero di Ray, i primi dieci

minuti de I racconti della luna pallida d'agosto di Mizoguchi, i titoli

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di apertura di Solaris di Tarkovskij e i trailers prima de L'amico

americano di Wenders. Dopo di che avevo mollato ed ero rimasto

seduto di fronte allo schermo muto, bevendo una bottiglia di vino

del supermercato. E' andata avanti così fino alle due del mattino. Ai

vecchi tempi mi sarei versato un ultimo bicchiere e me ne sarei an-

dato a letto, ma ora capivo che non bastava più. Fiona aveva chia-

mato un paio d'ore prima e non avevo risposto nemmeno quando

aveva bussato; aveva visto sicuramente la luce da sotto la porta e

aveva capito che la stavo ignorando. E poi all'improvviso, mentre

me ne stavo li seduto, lasciando che contro l'oscurità combattesse

soltanto il povero muto lampeggio del televisore, mi era sembrato

assolutamente ridicolo che io preferissi queste vuote, indifferenti

immagini alla compagnia di una donna affascinante e intelligente.

Fu più la rabbia che altro a dettarmi l'atto impetuoso ed egoistico

che finii per compiere. Attraversai, sparato, il pianerottolo e suonai

il campanello dell'appartamento di Fiona.

Venne alla porta qualche minuto dopo, con addosso una leg-

gera vestaglia di foggia giapponese. Era rimasta scoperta un'ampia

parte del suo petto lentigginoso imperlato di tante goccioline di

sudore, anche se, a mio avviso, la temperatura era calata notevol-

mente quella sera. "Michael?" disse.

"Sono stato davvero poco gentile negli ultimi giorni," dissi im-

pulsivamente. "Sono venuto a scusarmi."

Era perplessa, naturalmente, ma riuscì a non prendersela.

"Non era necessario."

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"Ci sono delle cose... forse ci sono delle cose di me che devi

sapere." dissi. "Cose che vorrei dirti."

"Bene, è meraviglioso, Michael. Non vedo proprio l'ora." Mi

stava prendendo in giro, era ovvio. "Ma siamo nel bel mezzo della

notte."

"Non intendevo adesso. Pensavo magari a... a cena."

Questo parve sorprenderla davvero. "Mi stai chiedendo di

uscire?"

"Credo di sì."

"Quando?"

"Domani sera?"

"Ok. Dove?"

La domanda mi mise in difficoltà, perché conoscevo solo un

ristorante e non volevo ritornarci. Ma non avevo scelta.

"il Mandarin? Alle nove?"

"Non vedo l'ora."

"Bene, potremmo prendere un taxi da qui, diciamo dieci mi-

nuti prima, oppure si può andare anche a piedi, non è molto di-

stante, e poi, dato che siamo di strada, fermarci..."

Mi accorsi che stavo parlando con una porta chiusa, e ritornai

nel mio appartamento.

Ora Fiona stava spalmando con il cucchiaino la salsa di pru-

gne su una cialda, per poi riempirla di sottili fette di anatra e ce-

triolo. Le sue dita lavoravano con perizia.

"Allora, Michael, quali sono le rivelazioni che morivi dalla vo-

glia di farmi? Sono impaziente."

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Sorrisi. Ero stato nervoso tutto il giorno, pensando alla singo-

lare stranezza di dividere ancora un pasto con qualcuno, ma ora

cominciavo a sentirmi tranquillamente euforico. "Non ci sono ri-

velazioni," dissi.

"Quindi la notte scorsa... è stato solo un subdolo trucco per

vedermi in vestaglia, o cosa?"

"E' stato solo un impulso, tutto qui. il mio comportamento mi si

era parato davanti agli occhi in tutta la sua stramberia. Sai, quel ripie-

garmi tutto su me stesso, quelle mezze risposte che mi escono dalla

bocca quando mi fai delle domande, tutto quel tempo passato davan-

ti alla televisione: ti devi esser chiesta cosa mai bolliva in pentola."

"Non proprio," disse Fiona, dando un morsetto alla cialda pie-

gata in due. "Ti stai nascondendo dal mondo perché ti spaventa. Io

ti spavento. Probabilmente non hai mai imparato a instaurare veri

rapporti con le persone. Credevi che non me ne fossi accorta?"

Imbarazzato cercai di addentare la mia cialda ma, non avendo-

la richiusa con cura, il contenuto sgusciò fuori prima che la infi-

lassi in bocca.

"Su queste cose devi spenderci un po' di energie, questo è il

punto," disse Fiona. "Se è di depressione che si parla, allora ti

dico che ci sono passata. Ma sai... prendi quella corsa in bici

dell'altra settimana. E stata un'agonia. Una maledettissima ago-

nia. Ma almeno ho incontrato delle persone, poi ho bevuto qual-

cosa e ho ricevuto un paio di inviti a cena. Può non sembrarti

granché, ma dopo un po' scopri che non c'è niente di peggio

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che rimanere soli. Niente." Si appoggiò allo schienale della sedia

e si pulì le dita con il tovagliolo. "Beh, è solo un pensiero. Forse

non dovremmo andare giù così pesante in prima serata."

Mi pulii anch'io le dita. Si staccarono tocchi enormi di salsa di

prugne che finirono per imbrattare il tovagliolo di grandi macchie

scure.

"Hai fatto una buona scelta," disse Fiona dando uno sguardo

al ristorante. C'era una bella atmosfera, intima e gaia allo stesso

tempo. "Sei mai stato qui prima?"

"No, no. Ho solo letto il nome da qualche parte."

Questa, com'è ovvio, fu una solenne bugia, visto che eravamo

proprio nel medesimo posto in cui io e mia madre avevamo avuto

l'ultimo esplosivo litigio che aveva incrinato il nostro rapporto. Mi

ero ripromesso di non tornarci, per paura che qualcuno del per-

sonale potesse riconoscermi e fare dei riferimenti imbarazzanti. Sì,

perché, quella volta, avevamo dato un bello spettacolo, ma ora,

pacificato ed elettrizzato dalla compagnia di Fiona, questo timore

sembrava ridicolo. Dopo tutto era uno dei ristoranti più famosi

della zona, e pensando alle migliaia di clienti che dovevano essere

entrati e usciti negli ultimi due o tre anni..., avrei solo lusingato

me stesso pensando che qualcuno avesse potuto ritenere l'inciden-

te così memorabile.

Arrivò un cameriere per portar via i piatti. "Buona sera, signo-

re," disse con un leggero inchino. "Che piacere rivederla dopo

tutto questo tempo. Sua madre sta bene?"

Il cameriere se ne andò e io rimasi in silenzio, senza avere il

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coraggio di guardare Fiona negli occhi, ancora sorridenti malgra-

do l'espressione dolcemente interrogativa che le aveva modellato

le labbra. Poi ammisi: "Eh, sì, una volta sono venuto qui con

mia madre. Abbiamo avuto una lite terribile.., beh, non era pro-

prio cosa di cui volessi parlare".

"Pensavo fossimo qui per questo," disse. "Per parlare."

"Sì, hai ragione. E lo farò. Solo che ci sono certe cose, certi

argomenti..." Non andava niente bene, ed era chiaro che, per ri-

guadagnarmi la sua fiducia, ci voleva un gran gesto. "Su, chiedimi

qualsiasi cosa. Fammi una domanda."

"Va bene, allora: quand'è che hai divorziato?"

Staccai il bicchiere dalle labbra e lo appoggiai sul tavolo rove-

sciando un po' del vino che era rimasto dentro. "Come fai a sa-

perlo?"

"Era sulla copertina del libro che mi hai mostrato."

Vero. Non avevo sprecato tempo nel cercare di fare impressio-

ne su Fiona mostrandole una copia del mio primo romanzo, e la

copertina conteneva queste briciole di dati personali. (Era stata

un'idea di Patrick: diceva che mi rendeva più interessante.)

"E' stato nel 1974, che tu ci creda o no," dissi. A malapena ci

credevo io.

Fiona inarcò le sopraciglia. "Come si chiamava?"

"Verity. Ci eravamo conosciuti a scuola."

"Dovevi essere molto giovane quando ti sei sposato."

"Avevamo tutti e due diciannove anni. Entrambi non aveva-

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mo avuto altre storie. Non sapevamo esattamente cosa stavamo

facendo."

"Hai dei rimpianti?"

"No, credo di no. Mi sembra solo che sia stato uno spreco di

giovinezza, un vero spreco: niente droghe, niente notti passate da

un letto all'altro: forse sarebbe stato più divertente, ma... questa

perversa tendenza al conformismo."

"Non mi è mai piaciuto il nome Verity," disse Fiona decisa.

"Conoscevo una Verity al college. Era così affettata. Dava una

grande importanza alla verità ma credo che non l'abbia mai detta,

nemmeno a se stessa. Capisci quel che voglio dire?"

"Quindi, secondo te i nomi sono importanti?"

"Solo alcuni. Alcune persone finiscono per assomigliare ai loro

nomi, come i cani ai loro padroni. Non possono farne a meno."

"Oggi ne ho scoperto uno strano. Findlay. Findlay Onyx."

Dovetti pronunciare le due parole distintamente prima che

Fiona fosse sicura di aver capito bene. Poi le spiegai perché il no-

me aveva attirato la mia attenzione.

La mattina presto ero andato all'archivio dei quotidiani di Co-

lindale per scovare altri rapporti sull'incidente mortale avvenuto a

Winshaw Towers la notte del cinquantesimo compleanno di Mor-

timer. Forse ricorderete che il giornale locale aveva promesso di

tenere i lettori informati su qualsiasi sviluppo. Ingenuamente,

mi aspettavo di leggere una serie di articoli sul prosieguo dell'in-

dagine, con tutti i particolari del caso. Ma Ä c'è bisogno di dirlo?

Ä avevo fatto i conti senza l'oste: il giornale in questione era pro-

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prietà dei Winshaw, e Lawrence Winshaw era Gran Maestro della

loggia che annoverava anche molti, tra i più potenti, membri della

polizia. Non c'era alcun resoconto sull'indagine in corso o, più

probabilmente, non c'era stata alcuna indagine. C'era solo un dato

interessante, un breve seguito dell'articolo che avevo già visto, ma

confondeva le idee piuttosto che chiarirle. Diceva che non erano

emersi altri elementi, ma che la polizia era ansiosa di interrogare

un investigatore privato, attivo nella zona, il sopra citato signor

Onyx. Qualcuno che rispondeva alla descrizione della vittima

(che non era ancora stata identificata) pareva essere stato visto ce-

nare con l'investigatore in un ristorante di Scarborough la sera del

tentato furto; inoltre, secondo un avvocato del posto che agiva per

conto di Tabitha Winshaw, il signor Onyx le aveva fatto visita ai

primi del mese all'Istituto Hatchjaw-Bassett in almeno tre occasio-

ni diverse, presumibilmente per lavoro. L'articolo diceva anche

che costui era ricercato per rispondere di tre capi di imputazione

per atti osceni secondo l'articolo 13 della Legge sui crimini a sfon-

do sessuale (1956). Dopo di che il misterioso incidente non veniva

più menzionato. La notizia principale nell'edizione successiva ri-

guardava una melanzana di dimensioni eccezionali, coltivata da

un giardiniere della contea.

"Ecco, questo è quanto," dissi mentre ci servivano un piatto

fumante di gamberetti reali ricoperti di zenzero e aglio. "Que-

st'uomo aveva quasi sessant'anni, diceva l'articolo, quindi non è

molto probabile che sia ancora vivo. Il che vuol dire che se una

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pista c'era, ora se ne sono più o meno perse le tracce."

"Ti stai trasformando in un investigatore anche tu, o sbaglio?"

disse Fiona preparandosi un piccolo boccone con il cucchiaino.

"Ma ha un senso tutto questo? Cioè, è veramente importante

quello che è successo trent'anni fa?"

"Qualcuno pensa di sì, ovviamente, se è pronto a fare irruzio-

ne negli uffici del mio editore e a seguire il mio taxi fino a casa."

"Ma è accaduto più di un mese fa."

Scrollai le spalle. "Sono ancora convinto di aver fiutato qual-

cosa. Il nodo della questione è che passo fare adesso."

"Forse ti potrei aiutare," disse Fiona.

"Aiutarmi? E come?"

"Sono abituata a fare ricerche. E' il mio lavoro, in effetti. Rias-

sumo articoli tratti dalla stampa scientifica, che vengono poi ru-

bricati e inseriti in un gigantesco volume di consultazione che

di solito va a finire nelle biblioteche universitarie. Il nome Win-

shaw vien fuori abbastanza spesso, sorpreso? Thomas, per esem-

pio, è tuttora legato a molte industrie petrolchimiche. Poi, natu-

ralmente, c'è Dorothy Brunwin Ä non era una Winshaw prima

di sposarsi? Ogni anno ci sono parecchi articoli su qualche strabi-

liante innovazione che le è venuta in mente, qualche nuovo siste-

ma per trattare disgustose parti anatomiche del pollo e farle pas-

sare per carne. Noi arriviamo, a ritroso, sino ai primi anni cin-

quanta, dunque io potrei verificare tutti i riferimenti del periodo

che li riguardano. Chissà. Potrebbe esserci un indizio nascosto da

qualche parte."

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"Grazie. Potrebbe essere utile," dissi, e poi aggiunsi (altrettan-

to insinceramente):

"Interessante il tuo lavoro. E' da molto che lo fai?"

"Ho cominciato... due anni fa, più o meno. Poche settimane

prima che il mio divorzio diventasse effettivo." Colse il mio sguar-

do e sorrise. "Ah sì, non sei l'unico ad aver fallito su quel fronte."

"Beh, è un sollievo in un certo senso."

"Avete avuto bambini, tu e Verity?"

"Eravamo noi dei bambini, non avevamo bisogno di averne. E

tu?"

"Ne aveva lui. Tre figlie, dal suo primo matrimonio. Ma non

gli era permesso di vederle. Comprensibilmente, penso. Era un

maniaco depressivo e un membro della chiesa evangelica."

Non sapevo proprio come reagire a questa notizia. Un bel pez-

zo di arrosto ricoperto di salsa di ostriche mi cadde dai bastoncini

e atterrò sulla maglietta, il che ci diede modo di allentare la ten-

sione. Poi dissi: "Ovviamente non ti conosco molto bene, ma

qualcosa mi dice che non era il tuo tipo".

"Vero: non mi conosci molto bene. Era il mio tipo. Eccome.

Vedi, sfortunatamente ho un carattere che.., sono una che dà."

"Lo avevo notato."

"Per via di come ti ricopro di piante aromatiche, per esem-

pio.,,

"Per via di come fai la carità ai mendicanti, anche se loro non

la vogliono."

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Pensavo a un vecchio che si era avvicinato a Fiona mentre an-

davamo al ristorante. Non aveva fatto altro che chiedere l'ora, ma

lei, immediatamente, aveva tirato fuori dal borsellino venti penny

e glieli aveva messi in mano. Era sembrato più sorpreso che felice,

e fui io a dirgli che erano le nove meno un quarto, cosa per cui,

andandosene, mi ringraziò.

"Infatti," disse. "Ho la pietà facile."

"Anche quando non è richiesta?"

"Ma nessuno la vuole veramente, no? Per quanto disperati si

possa essere. E' questo che si finisce per capire prima o poi." So-

spirò e accarezzò il suo bicchiere di vino, pensosa. "Non mi spo-

serò più per pietà, questo è sicuro."

"Il suo caso sembra proprio disperato, in ogni modo."

"Dunque, lui e sua moglie erano stati entrambi membri della

chiesa evangelica. Ebbero due bambini ma poi, alla terza materni-

tà, lei soffrì le pene dell'inferno. Risultato: abbandonò la chiesa Ä

con una tempestività addirittura eccessiva Ä e se ne andò portan-

dosi via le bambine. Fede, Speranza e Brenda."

"Quanto tempo è durato?"

"Cosa, il nostro matrimonio? Quasi cinque anni."

"Abbastanza."

"Abbastanza." Prese gli ultimi pezzetti di peperoni verdi e se

li infilò in bocca. "Ci sono persino momenti, momenti di grande

debolezza, devo dire, in cui sento un po' la sua mancanza."

"Davvero?"

"Beh, talvolta è bello avere qualcuno vicino, sai. Quando è

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morta mia madre, la sua presenza mi è stata di grande aiuto.

Era gentile."

"E tuo padre: è... ancora...?

"Vivo? Non ne ho idea. Se ne andò quando avevo dieci anni."

"Fratelli o sorelle?"

Scosse il capo. "Sono figlia unica. Proprio come te."

A quel punto ci ritrovammo a fissare in silenzio i rimasugli del-

la nostra cena. Fiona aveva rimesso a posto ordinatamente i suoi

bastoncini e, a parte qualche granello di riso, la sua metà di tova-

glia era pulita. La mia sembrava l'avesse appena utilizzata Jackson

Pollock come base per una composizione particolarmente brutale,

impiegando, come materiale pittorico, solo autentiche cibarie ci-

nesi. Ordinammo del tè e una ciotola di lychee.

"Beh," disse Fiona. "Dopo tutte quelle promesse, non direi

proprio che mi hai aperto il tuo cuore questa sera. Non mi hai ro-

vesciato sul tavolo la tua anima messa a nudo. Ho solo scoperto

che ti sei sposato a un'età ridicolmente giovane e che preferisci

passare la maggior parte del tuo tempo a guardare dei film piut-

tosto che a parlare con la gente."

"Non è così. Io non guardo i film," dissi, dopo una breve pau-

sa durante la quale ebbi la sensazione di essere sul punto di get-

tarmi in infide acque. "Ne sono ossessionato."

Aspettò che mi spiegassi.

"In realtà è un film solo. E probabilmente non ne hai mai sen-

tito parlare."

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Le dissi il titolo e lei scosse il capo.

"Andai a vederlo con i miei genitori quando ero piccolo.

Uscimmo dal cinema a metà film e da allora ho sempre avuto la

strana sensazione che... che non sia mai finito. Che io lo stia... an-

cora vivendo."

"Di che cosa parla questo film?"

"Oh, è un film stupido. E' la storia di una ricca famiglia i cui

membri si danno convegno in una grande casa di campagna per la

lettura di un testamento, e a uno a uno vengono fatti fuori tutti.

Doveva far ridere, naturalmente, ma non la presi così all'epoca.

Mi spaventai a morte e mi innamorai perdutamente dell'eroina,

che era interpretata da Shirley Eaton, te la ricordi?"

"Vagamente. Non è quella che una volta ha fatto una brutta

fine in un film di James Bond?"

"Sì, in Goldfinger. La ricoprono d'oro e muore soffocata. Ma

in quest'altro film, c'è una scena con Kenneth Connor, in cui lei lo

invita a trascorrere la notte nella sua stanza: lei è bellissima, natu-

ralmente, ma anche disponibile e intelligente; lui ne è attratto,

molto attratto, dunque sarebbe il massimo, da tutti i punti di vi-

sta, e ciononostante Kenneth non combina nulla. Nella casa acca-

dono cose spaventose, c'è un maniaco omicida in giro, e tuttavia

lo spaventa di più il pensiero di stare da solo per una notte con

quella donna bellissima. Non c'è stato oblio capace di cancellare

quella scena dalla memoria: com'è come non è, me la sono portata

dentro per trent'anni."

"Beh~ non è nemmeno difficile da capire, o sbaglio?" disse

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Fiona. "E' la storia della tua vita, ecco perché non l'hai mai dimen-

ticata." Prese l'ultimo lychee dal piatto. "Ti dispiace se lo man-

gio? Sono così freschi."

"Certo che no. Comunque, le mie papille gustative stanno mo-

rendo dalla voglia di cioccolato." Feci segno di portare il conto.

"Forse troviamo un negozio aperto tornando a casa."

 

 

Fuori si avvertì subito uno sbalzo di temperatura, faceva più

freddo e, mentre tornavamo a casa a piedi, notai che Fiona era

addirittura scossa da un leggero tremito. Ci fermammo a un

chiosco aperto fino a tarda notte, dove comprai un Aero e un

Toblerone bianco: le offrii metà dell'Aero ma lo rifiutò e io tirai

un respiro di sollievo. C'era una leggera nebbiolina quando

uscimmo da Battersea Bridge Road e cominciammo a tagliare

per delle vie laterali. Era una zona tranquilla e scarsamente illu-

minata, di squallide e lugubri case, precedute da giardinetti mal-

tenuti, e, a quell'ora di notte, non c'era traccia di vita: solo qual-

che gatto in fuga, che ci tagliava la strada. Sarà stato l'alcol o

l'entusiasmo per la serata riuscita Ä così almeno la vedevo io Ä

ma mi sentii inebriato d'una nuova esaltante atmosfera, foriera

di altri momenti come quelli o persino più belli, e mi venne

spontaneo dar voce, senza per altro lasciarmene sopraffare, al-

l'ottimismo sfrenato che mi aveva invaso.

"Spero che ci capitino altre occasioni come queste," balbet-

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tai. "Non mi divertivo così tanto da ... beh, dall'alba dell'uomo,

diciamo."

"Sì, è stato bello. Molto bello." Ma c'era una sorta di esitazio-

ne nelle parole di Fiona, e non fui sorpreso quando avvertii nella

sua voce il tono caratteristico di chi si prepara a rettificare. "Solo,

non voglio che tu pensi... guarda, non so proprio come dirtelo."

"Continua," dissi vedendola incerta.

"Beh, non me la sento più di salvare le persone. Tutto qui. Vo-

glio solo che ti sia chiaro questo."

Continuammo a camminare in silenzio. Dopo un po' aggiunse:

"Non che io creda veramente che tu debba essere salvato. Forse,

solo un po' scosso".

"Mi sembra giusto," dissi, e proseguii con una domanda bana-

le: "E te la senti di scuotere le persone?"

Sorrise. "Puo darsi. Può darsi e basta."

Sentivo l'incombere di uno di quei momenti decisivi che ti

cambiano la vita: una di quelle svolte in cui o afferri l'opportu-

nità fugace che ti si presenta o la guardi inerme scivolare via dal-

le tue mani e ritornare nel nulla. Dunque sapevo, a parte il resto,

che dovevo continuare a parlare, anche se non avevo più molto

da dire.

"Sai, non ho mai attribuito alla fortuna un valore positivo; ho

sempre pensato che se è la fortuna a dar forma alla nostra esisten-

za, allora tutto è arbitrario e senza senso. Non mi è mai venuto in

mente che ci fosse un nesso tra fortuna e felicità. Ma d'altro canto

se ti ho incontrato lo devo alla fortuna e anche il fatto di abitare

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nello stesso palazzo è fortuna, e ora eccoci qui, due persone

che..."

Fiona si fermò e con il braccio fece fermare anche me. Mi mise

un dito sulle labbra con estrema delicatezza e disse "Ssh." Ero

sbalordito dall'intimità del gesto. Poi fece scivolare la sua mano

nella mia così che le nostre dita si serrarono e riprendemmo a

camminare. Mi si fece accanto con tutto il corpo. Poco più avanti

si avvicinò di più ancora, e le sue labbra finirono per sfiorare lie-

vemente il mio orecchio. Mi irrigidii in dolce attesa delle sue pa-

role.

"Credo che ci stiano seguendo," sussurrò. "Ascolta."

Sprofondato nel silenzio, lasciai cadere la sua mano e mi sfor-

zai di cogliere il rumore di qualcosa che si sovrapponesse, stonato,

ai nostri passi irregolari. E si, qualcosa c'era: una specie di eco che

ci veniva appresso. I nostri movimenti venivano emulati con pre-

cisione.

"Penso che tu abbia ragione," dissi: commento quanto mai

vano.

"Certo che ho ragione. Le donne sviluppano un sesto senso

per queste cose, devono farlo."

"Continua a camminare," dissi. "Proverò a girarmi e a dare

un'occhiata."

La nebbia, però, s'era fatta più fitta, e non riuscivo a vedere a

più di una ventina di metri. Accertarsi che si muovesse davvero

qualcosa dietro la grigia e incostante coltre di nebbia era impossi-

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bile. I passi, tuttavia, erano ancora con noi, sempre più netti, e co-

minciai a tirare Fiona per il braccio finché il ritmo della nostra an-

datura non raddoppiò. Non eravamo lontani da casa e mi venne

in mente di imboccare tempestivamente delle vie traverse per

far perdere le tracce al nostro inseguitore.

"Cosa stai facendo?" disse con un filo di voce dopo che l'ave-

vo trascinata scantonando di punto in bianco verso destra.

"Continua a camminare e stammi vicino," dissi. "In men che

non si dica gli avremo confuso le tracce."

Girai ancora a destra, indi a sinistra e poi giù per un passaggio

pedonale fra le basse palazzine a schiera. Dopo un paio di vie ta-

gliate perpendicolarmente, infilammo un vicoletto che ci condusse

quasi al Battersea Park. Ci fermammo ad ascoltare. Il solito lonta-

no rombo del traffico e, a pochi isolati di distanza, il vociare di

una festa che stava entrando nel vivo. Niente più passi. Tirammo

un sospiro di sollievo e Fiona lasciò la presa della mia mano, quasi

solo allora si fosse resa conto di averla tenuta stretta per dieci mi-

nuti di seguito.

"Forse l'abbiamo seminato", disse.

"Se c'era veramente qualcuno."

"C'era, c'era. So che c'era."

Procedemmo lungo la via principale: il breve tratto di strada

che ci divideva dalla meta non ci era familiare. Al portone del no-

stro caseggiato si arrivava passando per un viottolino circondato

da irregolari cespugli di alloro, ed era qui, proprio prima di infi-

lare la chiave nella toppa, che avevo sperato di offrire a Fiona un

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primo esitante bacio. Ma non c'era più l'atmosfera. Lei era ancora

tesa, teneva la borsetta stretta al petto tra le braccia conserte, e io

ero così nervoso che trafficai a lungo per aprire il portone e quan-

do mi accorsi di aver sbagliato chiave mi parve che fosse già pas-

sata un'eternità. Ebbi infine ragione della porta e stavo per entra-

re, quando Fiona diede improvvisamente in un grido Ä una via di

mezzo tra un respiro mozzato e uno strillo Ä e si fondò nell'an-

drone prima di me ma afferrandomi il braccio come per trascinar-

mi con sé, poi richiuse la porta con violenza e vi si incollò contro

facendo forza con le spalle e respirando a fatica.

"Che c'è? Cosa succede?"

"Era li fuori, l'ho visto. Il suo viso tra i cespugli."

"Chi?"

"Per amor del cielo, non so chi. Era acquattato li, e ci guar-

dava."

Feci per prendere la maniglia della porta.

"E' ridicolo. Vado a dare un'occhiata."

"No, Michael. Per favore, no." Mi fermò facendomi un cenno

di monito con la mano. "L'ho visto bene, e... l'ho riconosciuto."

"Riconosciuto? Chi è allora?"

"Non sono sicura. Non l'ho proprio riconosciuto, ma... io

quella faccia l'ho già vista, ne sono sicura. Michael, non credo stia

seguendo te. Credo che segua me.

Mi divmcolai e dissi: "Bene, sistemeremo subito la faccenda".

Riaprii il portone e scivolai fuori; Fiona mi seguì solo fino allo sca-

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lino dell'ingresso.

Faceva freddo ormai e tutto era molto tranquillo. Dei sottili

strati di nebbia aleggiavano nell'aria e facevano insolita corona

al bagliore lattiginoso dei lampioni. Camminai su e giù per il viot-

tolo, sul prato, e guardai verso l'uno e l'altro lato della strada.

Niente. Poi controllai i cespugli, infilando la testa fra gli arbusti,

sentendo il crepitio dei ramoscelli che si spezzavano sotto i piedi

e piombando a balzi repentini dove diradava il fogliame. Di nuo-

vo, niente.

Tranne...

"Fiona, vieni qui un attimo."

"Neanche per idea."

"Guarda, non c'è nessuno qui. Voglio solo vedere se noti qual-

cosa."

Si accovacciò accanto a me.

"E' questo il cespuglio in cui l'hai visto?"

"Credo di sì."

"Respira profondamente."

Iqspirammo insieme: due lunghe inspirazioni esplorative.

"E' strano," disse, dopo averci riflettuto; e sapevo cosa avreb-

be detto. "Non ci sono gelsomini qui vicino, o sbaglio?"

 

 

 

 

2.

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Una sera, due o tre giorni dopo la nostra cena al Mandarin, io e

Fiona guardammo l'Orfeo. Si era ripresa quasi subito dallo spavento,

e ora ero io che facevo fatica a dormire. Nelle ultime ore prima del-

l'alba mi ritrovavo sveglio ad ascoltare, stanco, la quiete intermitten-

te, che a Londra, comunque, è ciò che più assomiglia al silenzio.

Le silence va plus vite vì reculons. Trois fois..

I miei pensieri erano confusi e incoerenti, una scena vanamen-

te ingombra di conversazioni lasciate a mezzo dalla memoria, di

immagini spiacevoli evocate dal passato e di ansie devastanti.

Una volta che la mente è intrappolata in tali pensieri, non resta

altro da fare che saltar giù dal letto, anche se, in realtà, l'impresa

sembra superiore alle nostre forze. E infatti solo quando avevo la

bocca così secca e acida da non poterla più sopportare trovavo

la forza di alzarmi e andare in cucina a prendere un bicchiere

d'acqua; rotto quel cerchio di angosciosa irresolutezza, sapevo

che finalmente avrei dormito un po'.

Un seul verre d'eau éclaire le monde. Deux fois...

La sveglia era puntata sulle nove, ma, come sempre, mi sarei sve-

gliato prima. Sulla faticosa strada della coscienza vigile, non era il fra-

stuono del traffico o il rombo degli aeroplani che riconoscevo per

primi, bensì il canto insistente di un pettirosso che salutava, dalla ci-

ma degli alberi sotto la mia finestra, la fioca luce del giorno.

L'oiseau chante avec ses doigts. Une fois...

Poi rimanevo a letto, fra veglia e sonno, in attesa dei passi del

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postino sulle scale. Fin da bambino sono sempre stato convinto

che le lettere abbiano il potere di trasformare la mia esistenza.

La semplice vista di una busta sul mio zerbino può ancora riem-

pirmi di vibranti aspettative, per quanto transitorie possano esse-

re. Devo ammettere che le buste gialle raramente sortiscono que-

sto effetto; le buste a finestra mai. Ma poi c'è la busta bianca,

scritta a mano, quel glorioso rettangolo di pura possibilità che

in certe occasioni si è rivelata niente meno che la soglia di un nuo-

vo mondo. E stamattina, quando con occhi speranzosi e ancora

gravi di sonno, ho sbirciato nel corridoio attraverso la porta della

mia stanza semiaperta, una busta è scivolata in silenzio nel mio ap-

partamento, portando con sé quel misterioso vortice di forze ca-

paci sì di involarmi verso un futuro ignoto, ma anche di trascinar-

mi indietro, nel passato, a un momento preciso della mia infanzia,

quando, una trentina di anni fa, le lettere cominciarono a svolgere

un ruolo fondamentale nella mia vita.

 

 

Signori Lampadina, Presa e Spina,

elettricisti dal 1945 (e dalle 19.45, ovvero un quarto alle 8),

Vicolo del Cavo 24,

Borgo del Contatore.

26 luglio 1960

Caro Signor Owen,

Ci scusiamo per il ritardo nell'allacciamento dell'elettricità nel-

la Sua nuova casa, ovvero la seconda stalla a sinistra della fattoria

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del Signor Nuttall.

La verità è che siamo stati intralciati nel nostro lavoro dal fatto

che il nostro ultimo socio, un elemento elettrizzante, se mai ne ho

visto uno, non ha fatto faville sul lavoro. Il risultato è che ci siamo

accorti che Lei è senza elettricità da parecchie settimane, e non

per Sua cattiva conduzione.

Watti a sapere come provvederanno, Lei si domanderà. Le as-

sicuriamo, Signor Owen, che il Suo impianto verrà allacciato.

i.p.p.p.~' Nel frattempo La preghiamo di accettare questo omaggio

in segno della nostra buona volontà: un allacciamento in stringhe

o lacci di liquerizia per un mese (allegato).

Sinceri saluti

RI. Duttore

(Responsabile dei reclami)

* Improvvise possibili procrastmazionl permettendo.

 

 

Una volta bastava una passeggiatina per strade poco frequen-

tate per andare dalla casa dei miei genitori al limitare del bosco.

Abitavamo proprio dove i sobborghi più periferici di Birmingham

diradavano e diventavano campagna, in un quieto angoletto, ap-

partato e rispettabile, appena più pretenzioso e "su" di quanto

mio padre potesse permettersi, e nei fine settimana Ä di solito la

domenica pomeriggio Ä ci mettevamo in marcia tutti e tre verso

il bosco per una di quelle lunghe camminate, dolci e noiose a

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un tempo, che da allora sono state il nucleo dei miei primi e

più felici ricordi. Si potevano prendere diversi sentieri e ciascuno

aveva un nome, descrittivo certo ma anche romantico ed evocati-

vo: "la radura"; "i laghi"; "il sentiero pericoloso". Ma uno era il

mio prediletto e, sebbene lo percorressimo più frequentemente

degli altri, non mancava mai di esercitare (persino allora) il suo

fascino nostalgico. Lo chiamavamo semplicemente "la fattoria".

Ti compariva davanti all'improvviso. Si girava intorno ai mar-

gini del bosco, lungo un sentiero ampio e ben tratteggiato che, pe-

rò, non pareva molto battuto: in ogni caso, la mia memoria fa

coincidere la vista del paradiso con una solitudine e un'intimità

pressoché assolute. Perché un paradiso lo era davvero, che si apri-

va davanti ai nostri occhi quando meno ce lo aspettavamo, dopo

una serie di curve, discese e risalite che parevano condurre sem-

pre più in fondo, nel cuore della foresta: un nido di granai e fab-

bricati in mattoni rossi e, nel mezzo, una fattoria ricoperta di ede-

ra, bella da morire. Un lato della casa era fiancheggiato da un frut-

teto con gli alberi punteggiati dal giallo dei frutti, e più tardi

avremmo scoperto che, al di là di quello, una cinta di mura na-

scondeva un piccolo giardino scandito in quadrati regolari, come

in una scacchiera, da sentieri in ghiaia e da minuscole siepi squa-

drate dalla forbice. Vicino al recinto in fil di ferro che segnava il

confine tra proprietà pubblica e privata, c'era la vera meraviglia:

un piccolo stagno paludoso in cui nuotavano le anatre e talora,

trotterellando, un'oca veniva a dissetarsi. A ogni visita non dimen-

ticavamo mai il sacchetto col pane vecchio che io gettavo nell'ac-

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qua e talvolta, in uno slancio di coraggio, porgevo, attraverso il

recinto, perché le oche si avvicinassero a mangiarlo dalla mia ma-

no tesa.

"Questa deve essere la fattoria che si vede dalla strada," disse

mio padre la prima volta che vi capitammo. "Ci passo vicino

quando vado al lavoro."

"Chissà se hanno uno spaccio," disse mia madre. "Scommetto

che la roba costerebbe meno che al villaggio."

Da quel giorno cominciò ad acquistare alla fattoria uova e

verdura, e l'abitudine assunse presto una connotazione sociale

oltre che pratica. Dimostrando ancora una volta la sua attitu-

dine a stringere amicizia con persone sconosciute, mia madre

si guadagnò presto la fiducia di Mrs Nuttall, la moglie del fat-

tore, ai cui lunghi e coloriti monologhi su gioie e dolori della

vita bucolica andava sacrificata una buona mezz'ora anche per

un'operazione apparentemente priva di complicazioni come

l'acquisto di due patatelle. Alla noia che pativo in queste oc-

casioni fu posto rimedio presentandomi un bracciante di nome

Harry, che mi permise di seguirlo nello svolgimento delle sue

mansioni talora lasciandomi persino dar 'da mangiare ai maiali

o facendomi sedere in alto, al posto di guida della trebbiatri-

ce. E di mese in mese le visite guidate di Harry si fecero sem-

pre più lunghe, frequenti e articolate, finché non divenni una

figura familiare in fattoria, ben noto a tutti quelli che vi lavo-

ravano, compreso lo stesso Mr Nuttall. Fu allora che i miei

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decisero che ero grande abbastanza per girare in bicicletta

nei dintorni senza accompagnatori, e allora divenni un fre-

quentatore ancora più assiduo. A volte mia madre mi prepara-

va dei panini da consumare nel frutteto, o vicino al laghetto,

prima di avventurarmi da solo per tutta la fattoria e senza

mai dimenticare di far visita ai vitelli, che erano i miei animali

preferiti, o di salire sulle balle di fieno ammucchiate dietro il

granaio più grande, dove s'aggiravano a frotte soriani magri

magri e sonnacchiosi. Mi sdraiavo sul fieno con loro, meditan-

do sul profondo mistero delle loro fusa, ipnotizzato da quel-

l'impenetrabile mezzo sorriso per cui li guardavo invidioso

pensando a chissà che sogni facevano, a che sogni meravigliosi

dovevano essere.

 

 

Ero innamorato, a quell'epoca, di Susan Clement, una mia

compagna di banco. Aveva i capelli lunghi e biondi, gli occhi

azzurri e credo, ripensandoci, che le piacessi anch'io, ma con

certezza non lo avrei saputo mai perché, sebbene avessi tra-

scorso molte settimane, forse mesi, a macerarmi di desiderio,

mi sarebbe stato più facile andare sulla luna piuttosto che tro-

vare le parole giuste per dar corpo ai miei sentimenti. Ma la

notte in cui mi svegliai e me la trovai accanto nel letto, oh

quella me la ricordo nitidamente. Dapprincipio le sensazioni

non mi furono del tutto ignote perché quell'anno avevo già di-

viso il mio letto con Joan, quando le nostre famiglie erano an-

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date a far campeggio insieme: ma non avevo mai voluto toccar-

la o essere toccato da lei; anzi, rifuggivo dall'idea. E tuttavia

con Susan, la prima cosa che intesi Ä quasi venendo meno dal-

la gioia di conoscere l'incanto d'una realtà così palpabile Ä fu

che lei mi toccava, che io la toccavo, che i nostri corpi aderi-

vano, si attorcigliavano, si contorcevano l'uno sull'altro come

onirici serpenti. Pareva che ogni parte del mio corpo fosse toc-

cata da ogni parte del corpo di lei, e che da allora in avanti

tutto il mondo sarebbe stato percepito attraverso il tatto, tanto

che, nel fradicio calore del letto, nel buio della camera oscura-

ta dalle tende, non potevamo far altro che dimenarci dolce-

mente, traendo da ogni movimento, da ogni minimo assesta-

mento dei corpi nuove ondate di piacere, finché, da ultimo,

non facemmo altro che oscillare avanti e indietro, proprio co-

me una culla, ma non potendo reggere più a lungo il dondolio

dovetti fermarmi. E non appena mi fermai, mi svegliai ed ero

solo e affranto.

E' questa la memoria più lontana che ho del sesso ed è anche

uno dei tre sogni della mia infanzia che ricordo nei minimi det-

tagli.

 

 

Joan viveva qualche casa più avanti della nostra. Quando le

nostre rispettive madri rimasero incinte, diventarono amiche, e

perciò possiamo dire a ragion veduta di essere cresciuti insieme.

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Frequentavamo la stessa scuola e già allora godevamo della fama

di piccoli intellettuali, altro fattore determinante della nostra

complicità amicale. A quell'epoca non solo avevo già deciso

che, in un modo o nell'altro, il mio destino era di diventare scrit-

tore, ma avevo anche già pubblicato il mio primo libro in edizio-

ne limitata, anzi in copia unica, quella che avevo curato, illustrato

e scritto a mano io stesso. In una prosa punteggiata da allegri

anacronismi, raccontavo episodi tratti dall'archivio di un investi-

gatore vittoriano; il mio eroe assomigliava, senza troppo curarmi

delle leggi del copyright, a un personaggio dei molti fumetti che

costituivano la mia principale lettura in quel periodo. Anche Joan

aveva aspirazioni letterarie: scriveva romanzi storici, imperniati di

solito su una moglie o l'altra di Enrico VIII. Ma a mio giudizio Ä

che, pavido com'ero, mi sono sempre guardato dal comunicarle Ä

il suo lavoro era ancora immaturo. Le caratterizzazioni erano più

deboli delle mie e l'ortografia non era il suo forte. Ciononostante

ci divertivamo a sottoporre l'uno all'altra i parti della nostra fan-

tasia.

Una volta o due, io e Joan andammo insieme alla fattoria di

Mr Nuttall. Che era vicina, a non più di dieci minuti di bicicletta.

C'era un primo tratto di strada davvero fantastico: una discesa,

non troppo ripida, ma quanto bastava per prendere velocità, to-

gliere i piedi dai pedali e lasciarsi trasportare col vento che pun-

geva sulla faccia e fischiava tra le orecchie, e dolci lacrime di ec-

citazione che ruscellavano via dagli angoli degli occhi. Il ritorno,

naturalmente, era tutta un'altra storia. Di solito dovevamo scen-

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dere di sella e spingere. Da bambini coscienziosi quali eravamo

Ä coscienziosi all'eccesso, a ripensarci: quasi dei mostriciattoli Ä

sapevamo che i nostri genitori sarebbero stati in pena se fossimo

rimasti lontani da casa per più di un paio d'ore, e perciò le nostre

visite, all'inizio, si risolvevano in frenetici mordi-e-fuggi. Prende-

vamo libri, penne, carta e cibarie, ma, ogni volta la pigrizia con-

sumava i buoni propositi e si finiva per passare quasi tutto il tem-

po con Harry e i suoi animali. Questo è quanto ricordo, a ogni

modo, di come andavano le cose fra primavera ed estate del

1960, prima che io e Joan compissimo il grande passo mettendo

su casa insieme.

Un chiarimento, a questo punto, è d'obbligo. Per alcune

settimane avevo tenuto d'occhio una stalla vuota che si trovava

in uno degli edifici esterni e che nessuno, per quanto ne sapes-

si, voleva più. Tanta fu la mia insistenza, tanto il tormento a

cui la sottoposi che alla fine mia madre si arrese e andò a chie-

dere, con tutta la delicatezza del caso, se fosse possibile usarla.

"Sta scrivendo un libro," spiegò con schivo orgoglio, "e ha bi-

sogno di un posto in cui trovar pace e tranquillità." Evidente-

mente Mrs Nuttall passò in fretta e furia il messaggio a suo

marito, il quale tanto ne fu colpito da occuparsi personalmente

della faccenda: e quando, la volta dopo, andai alla fattoria e la

pesante porta, girando sui cardini arrugginiti, s'aprì sul buio

della stalla, scoprii che il mio nuovo rifugio era stato attrezzato

con una scrivania (credo fosse un vecchio tavolo da lavoro, in

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realtà) e una seggiolina di legno, e che la lampadina, nuda in

fondo al filo che pendeva dal trave, era stata graziosamente co-

perta con uno sbiadito paralume verde. E quello fu solo il

principio. Nel corso dell'estate traslocai i libri e le suppellettili

a cui ero più legato dalla mia stanza al mio nuovo oscuro ricet-

to; Mrs Nuttall mi diede due vasi che regolarmente guarniva di

iris e crisantemi; e Harry era persino riuscito a fissare un'ama-

ca di fortuna, attaccata al muro in un angolo della stalla con

due possenti chiodi che si presumeva (con qualche sovrastima-

ta approssimazione, devo dire) reggessero, quando mi ci fossi

sdraiato, il peso del mio corpo. In breve, avevo una nuova ca-

sa, e mi pareva che più felice non avrei potuto essere.

E invece, ben presto, scoprii che era possibile. Una mattina,

nei primi giorni di vacanza, arrivai alla stalla e vi trovai una busta

bianca che era stata spinta sotto la porta. Era indirizzata a me e la

scrittura era di mio padre. Era la prima lettera che ricevevo.

 

 

Associazione dei residenti della fattoria Nuttall,

Piazza del Pollame,

Interno Chioccia,

Contea Gran Messe.

19 luglio 1960.

Caro Signor Owen,

Mi permetta solo di dirLe, a nome di tutti i miei co-co-cò-re-

sidenti, quanto siamo lieti del fatto che Lei abbia deciso di pren-

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dere in locazione la stalla vacante del signor Nuttall.

La notizia ha suscitato tripudio generale in fattoria. Ad alcuni

animali è persino venuta la pelle d'oca e muoiono dalla voglia di

venire a dare un'occhiata alla Sua nuova casa, mentre le mucche si

stra-vaccano dal piacere. Per quanto riguarda i cavalli, sono, natu-

ralmente, particolarmente lieti di aver acquisito un nuovo vi-ih-ih-

ih-cino.

A tutta prima penserà, forse, che i volatili più piccoli tendono

a civettare, o addirittura a pavoneggiarsi. Ma Lei ben saprà che le

loro dis-qua-qua-qua-sizioni non sono mai-alate, ma pur sempre

terra-terra. Loro non hanno avuto un'educazione raffinata come

la Sua. Por-ci un rimedio sarà arduo. In breve spero che non

sia stato sparvierato dalle rimostranze che covano in giro.

Non manchi assolutamente di fare un salto per una chicchirichia-

ta ogni volta che lo desidera, dal momento che io e le mie co-co-co-

niugi siamo sempre felici di ricevere visite. Siamo disgustati e stanchi

di essere sri-a-pari quassù, poiché l'atmosfera è del tutto volatile.

Sinceri saluti

Il Gallo della Checca.

 

 

L'altro sogno che ricordo è il più breve dei tre, ma fu così ni-

tido e spaventoso che mi fece strillare con tutto il fiato che avevo

in corpo finché non arrivò di corsa mio padre dalla sua stanza a

tranquillizzarmi. Quando mi chiese cosa era successo, altro non

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seppi dire se non che avevo avuto un incubo in cui un uomo si

curvava sul mio letto, fissandomi con occhi così intenti e risoluti

che ero sicuro volesse uccidermi. Mio padre mi si sedette accanto

e mi accarezzò i capelli. E io mi riaddormentai.

Avevo un'altra cosa da dirgli Ä ma neanch'io, allora, ne avevo

afferrata l'evidenza. Eppure il sogno era stato così terrificante pro-

prio per quello: avevo riconosciuto l'uomo che si piegava sul mio

letto. L'avevo riconosciuto perché ero io. Ero io, da vecchio, che

fissavo il giovane che ero stato e continuavo a essere, e il mio viso

era devastato dal tempo e scavato, come un'antica scultura parie-

tale, ruga per ruga, dal dolore.

 

 

La fotografia era uno degli hobby di mio padre. Aveva una

piccola macchina fotografica dentro una custodia di pelle e un

flash artigianale, e per camera oscura usava il bagno coprendone

le finestre con della carta nera e riempendo la vasca con la solu-

zione di sviluppo. Un giorno, sbagliando il dosaggio, scrostò lo

smalto della vasca e da allora mia madre gli proibì di farne ancora

uso. Prima che ciò accadesse, però, venne alla fattoria di Mr Nut-

tall per fare delle fotografie di me e Joan all'apice della nostra bea-

titudine domestica.

Sì, vivevamo insieme. O, almeno, scrivevamo insieme, poiché

avevo accettato con qualche perplessità di imbarcarmi in una col-

laborazione, in cui il mio investigatore vittoriano veniva trasporta-

to indietro all'epoca dei Tudor per risolvere un misterioso omici-

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dio ordinato da Enrico viii in persona. (L'intera storia, mi sembra

di ricordare, era stata ampiamente ispirata da La macchina del

tempo, che mio padre mi leggeva ad alta voce prima di dormire.)

A questo scopo avevamo ottenuto un'altra sedia da Mr Nuttall, e

ora sedevamo uno di fronte all'altra, scrivendo capitoli alternativa-

mente e passandoceli l'un l'altra sopra il banco da lavoro, fra pau-

se di ricreazione e passeggiate in giardino alla ricerca di ispirazio-

ne. Inutile a dirsi, l'impresa non fu coronata dal successo: non fi-

nimmo mai di scrivere la nostra storia, e, quando ci ritrovammo a

parlarne più di vent'anni dopo, nessuno dei due sapeva che fine

avesse fatto il manoscritto.

Nondimeno la foto che scattò mio padre si riferisce proprio a

questo periodo di collaborazione creativa. Ci colse in pose oltre-

modo significative: Joan sedeva composta e impettita, con tutta

la chiostra dei denti in bella mostra, il viso illuminato da quel sor-

riso fiducioso, io, invece, mi sottraevo quasi all'obiettivo, matita in

bocca e capo chino, come fossi pensosamente piegato su me stes-

so. Mio padre fece due stampe dal negativo, una per ciascuno.

Joan mi ha raccontato di averla custodita per anni in un cassetto

segreto, tenuta in gran rispetto persino fra le cose a cui teneva di

più. Io decisi, invece, di tenerla in bella mostra nella mia stanza; e

presto, come spesso accade con questi tesori infantili, la persi.

 

 

BAU,

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Banca degli Abbaiatori Uniti,

Casa dei Conti,

Via del Lucro,

Contea dello Scellino.

23 luglio 1960.

Caro Signor Owen,

Abbiamo appreso con alto interesse che ha di recente ricevuto

un aumento della Sua mancia della bellezza di 6 penny la settima-

na. Con il Suo nuovo reddito settimanale che ora ammonta a 3

scellini, abbiamo pensato che potesse essere interessato ad alcune

delle nostre nuove opportunità di risparmio.

Possiamo raccomandarLe, per esempio, il nostro Fondo di In-

vestimento Cresci Ben? Questo pacchetto combina minimo inve-

stimento e massima crescita. Non a caso, uno dei nostri clienti,

che ha aperto il conto solo il mese scorso, ha già raggiunto il me-

tro e ottanta.

Altrimenti, in qualità di residente nella fattoria, potrebbe con-

siderare il nostro Conto Porcellino di Coccio. Noi forniamo il

maiale, Lei fornisce il contante, e finirà col metter su qualcosa

di più che una volgare pancetta! Il porcellino è una cavia che ren-

de bene: non facendo altro che depositare sei penny alla settimana

la cavia farà caviale alla fine dell'anno e Lei si ritroverà con una

bella tartina di una sterlina e uno scellino (pari a un Perù, pardon,

a una ghinea). Non potremmo suggerirLe niente di più rapido.

Per inciso, in qualità di uno dei nostri clienti più stimati, Lei

possiede i titoli per entrare nel club della banca, che si riunisce

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ogni martedì Al Marengo d'Oro per una serata di intrattenimento

molto "in" ad alto interesse capitalizzato e cucina di prima classe:

se Le piacciono grana in piccolo taglio, stecche di dobleroni o suc-

culenti bon-bon-ifici, saremo lieti di averLa con noi.

Il Suo roseo

Tocco De Mida,

(direttore).

 

 

C'è un altro sogno che ricordo distintamente, e risale a molti

anni dopo, quando avevo quindici anni. Mercoledì 27 marzo

1968, alle prime ore del mattino, sognai di volare su un piccolo

jet che, improvvisamente e per nessun apparente motivo, comin-

ciava a precipitare. Sento ancora nelle orecchie il cheto ronzio del

motore trasformarsi in un gutturale scoppiettio, e vedo, come fos-

se adesso, un banco di fitta nuvolaglia spuntare dal nulla. Un bot-

to e il finestrino va in frantumi: le schegge di vetro mi arrivano

addosso conficcandosi su braccia e spalle, un potente getto d'aria

mi scaraventa contro la fusoliera, l'impatto è tremendo; a quel

punto sprofondiamo, precipitiamo a una velocità incredibile, e

io sono vuoto, il mio corpo è come una conchiglia sventrata, la

bocca è aperta e tutto quel che era dentro di me è rimasto alle

mie spalle, su in alto nel cielo, e assordante è il rumore, il terribile

lamento del motore e dell'aria tagliata, e tuttavia alle orecchie mi

arriva ancora, più forte di tutto, la mia voce, perché, difatti, non

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faccio che ripetere: "Precipito, precipito, precipito". E poi c'è

l'ultimo grido di metallo, la straziante lacerazione di quando la

fusoliera va in brandelli, e infine, di botto, l'aereo va tutto in

pezzi, e io sono in caduta libera, cado in picchiata, smanigliato,

e non v'è altro che cielo azzurro fra me e la terra, la vedo distin-

tamente salire verso di me, vedo le coste dei continenti, le isole, i

grandi fiumi, le grandi superfici d'acqua. Non soffro più, non ho

più paura, ho già dimenticato il senso di queste emozioni: noto

appena che l'ombra della terra ha cominciato a inghiottire l'az-

zurro delicato del cielo, e il passaggio dall'azzurro al nero è mol-

to graduale e piacevole.

A quel punto mi sveglio, non agitato né madido di sudore né

chiamando mio padre, ma registrando, smontato, quasi deluso, la

fisionomia familiare della mia stanza immersa nel buio e, al di fuo-

ri, la notte indifferente. Mi volto nel letto e giaccio sveglio per

qualche minuto prima di ricadere in un sonno questa volta pellu-

cido e senza sogni.

Due giorni dopo, a colazione Ä era venerdì mattina Ä mio pa-

dre mi passò il giornale, il "Times", e appresi che Yuri Gagarin

era morto, insieme al suo co-pilota, in un incidente a bordo del

loro velivolo-scuola a Kirzhatsk proprio mentre stavo facendo

quel sogno. L'ultima cosa che gli avevano sentito dire era il calmo

annuncio "Precipito" mentre cercava di deviare l'apparecchio da

una zona abitata. Non ci credetti sinché non vidi una foto sul gior-

nale del giorno dopo, che mostrava l'edificio in cui erano esposte

le sue ceneri, lo Stato maggiore dell'esercito sovietico; e intorno a

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esso, aggomitolata nel nero viluppo di strade, una coda di persone

in lutto, in fila per sei, lunga cinque chilometri.

 

 

Si vous dormez, si vous rèvez, acceptez vos rèves. C'est le rdle du

dormeur...

La busta cadde sul pavimento. Immediatamente, risvegliato

dal suo arrivo come null'altro avrebbe potuto fare, saltai giù dal

letto e mi fondai in fondo al corridoio a recuperarla. Era stata af-

francata con un espresso e la busta era indirizzata all' "Egr. Sig.

Owen", la scrittura era fine ed elegante. Troppo impaziente per

andare in cucina a prendere un coltello, usai il poffice come rozzo

tagliacarte, indi la portai in soggiorno e cominciai a leggere le se-

guenti note, mentre il mio stupore cresceva di riga in riga:

 

Caro Signor Owen,

Intendo, con questa breve nota buttata giù frettolosamente,

porgerle le mie scuse e farle una proposta.

Le scuse, innanzitutto. Sono stato, mi permetta di essere io ad

ammetterlo per primo, il responsabile di molti crimini, contro la

sua proprietà e contro la sua persona. La mia unica scusa Ä e la

sola ragione per cui impetro misericordia e perdono Ä è che ho

sempre agito per spirito umanitario. Sono molti anni ormai che

sono interessato al caso della signorina Tabitha Winshaw, la cui

lunga e ingiustificata reclusione ritengo essere una delle ingiustizie

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più spaventose che abbia mai visto nella mia carriera professiona-

le. Di conseguenza, quando ho appreso dalla pagina degli annunci

a pagamento del "Times", che lei era impegnato in un'indagine

relativa a circostanze non del tutto estranee alla materia, si è de-

stata subito la mia curiosità.

Deve perdonare l'eccentricità, signor Owen (o posso chia-

marla Michael, poiché devo ammettere che, dopo aver letto i

suoi due eccellenti romanzi, la sento vicina come un caro e vec-'

chio amico), deve perdonare l'eccentricità, dicevo, di un vecchio

ostinato, che invece di avvicinarla di persona, ha preferito sonda-

re prima il terreno, fedele ai suoi metodi temprati al fuoco del-

l'esperienza. Devo confessarle, Michael, che fui io a irrompere

nell'ufficio del suo editore per sottrarre il manoscritto; fui io a

seguire il suo taxi fino a casa il giorno successivo; fui io che, de-

sideroso di incontrarla personalmente onde rassicurarla circa l'o-

nestà delle mie intenzioni, la avvicinai fuori da un ristorante a

Battersea ed ebbi il privilegio, ma anche la sorpresa, di ricevere

in dono 20 penny dalla sua affascinante compagna (troverà un

assegno per tale somma allegato a questa lettera); e fui io, lo avrà

ormai capito, a seguire entrambi, forzando le mie vecchie gambe

dal ristorante a casa per starvi dietro, e infine, a causa di un de-

plorevole errore di calcolo da parte mia, a procurare alla menzio-

nata compagna uno spiacevolissimo spavento proprio nel mo-

mento in cui Ä come ho ragione di credere, ma mi contraddica

se sbaglio Ä eravate sul punto di fare decisivi progressi nell'am-

bito della più dolce delle intimità.

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Potrà mai perdonare un così triste record di comportamenti

riprovevoli? Posso solo sperare che la mia franchezza attuale mi

redima, almeno in parte.

Ora, Michael, passiamo alla proposta. Mi sembra chiaro che,

pur operando indipendentemente l'uno dall'altro, abbiamo en-

trambi fatto dei progressi nelle nostre indagini. E' arrivato il mo-

mento di unire le nostre forze. Le assicuro che sono in possesso

di molte informazioni che la aiuterebbero nel suo lavoro e che

io sono pronto a dividere con lei. Da parte mia, in cambio, le chie-

do di mostrarmi un'unica cosa: e cioè quel pezzo di carta menzio-

nato nei primi paragrafi della sua affascinante storia, un messaggio

appuntato da Lawrence Winshaw, che Lei descrive, con l'eleganza

e la concisione tipiche, per così dire, di tutta la sua prosa, come

una "nota scarabocchiata per il maggiordomo in cui chiede una

cena leggera da consumare in camera". Ritengo che questo pezzo

di carta, che ho già cercato di recuperare in passato ma senza suc-

cesso, e che ora sembra, per qualche oscuro scherzo del destino,

essere caduto nelle sue mani, sia di vitale importanza per stabilire

l'innocenza e la sanità di mente della signorina Winshaw; in breve,

il messaggio potrebbe contenere un significato o un indizio nasco-

sti che a qualcuno, a cui forse manca la mia ampia e molteplice

esperienza in questo genere di questioni Ä confido nel fatto che

non se ne avrà a male Ä può essere risultato inafferrabile.

Dobbiamo incontrarci, Michael. Non c'è altra soluzione. Dob-

biamo organizzare un incontro e non c'è tempo da perdere. Posso

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dare un maliziosetto suggerimento circa la sede più appropriata

del nostro incontro? Ho notato che giovedì prossimo alla Narcis-

sus Gallery in Cork Street (una proprietà di Roderick Winshaw,

come saprà certamente) vi sarà la presentazione in anteprima di

alcuni nuovi quadri Ä ci potrei giurare Ä senza dubbio insulsi di

un giovane elemento dell'aristocrazia di basso rango. Sono con-

vinto che possiamo confidare nel fatto che il richiamo di una simi-

le occasione per gli esperti di Londra non sarà così forte da non

permettere a due estranei di riconoscersi tra i convenuti che affol-

leranno la sala. Sarò li alle sette e trenta in punto. Non vedo l'ora

di vederla, e, ancora di più, di avviare quella che diventerà Ä sono

sicuro Ä una collaborazione professionale cordiale e fruttuosa.

 

La lettera finiva con un semplice "Cordiali saluti", ed era fir-

mata con uno svolazzo:

Findlay Onyx,

(investigatore).

 

 

 

 

 

 

Roddy

 

1.

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Phoebe stava in un angolo della galleria: era lì, in piedi, da un

quarto d'ora. il bicchiere le si appiccicava alla mano, e il vino era

ormai caldo e sgradevole. Fino ad allora nessuno si era fermato a

parlare con lei, non avevano nemmeno notato la sua presenza. Si

sentiva invisibile.

Del resto tra gli invitati conosceva solo tre persone. Aveva ri-

conosciuto Michael, per esempio, sebbene lo avesse incontrato so-

lo una volta, più di otto anni prima, quando era in procinto di co-

minciare la biografia della famiglia Winshaw. Quanti capelli grigi

aveva in testa adesso. Probabilmente lui non se la ricordava, e

inoltre, pareva immerso in una conversazione fitta fitta con un lo-

quacissimo vecchietto dai capelli bianchi, che, da quando era ar-

rivato, non aveva fatto altro che dire peste e corna sui quadri. E

poi c'era Hilary: tanto meglio così. Loro due non avrebbero avuto

nulla da dirsi.

E, naturalmente, non mancava Roddy. Aveva incrociato più di

una volta il suo sguardo colpevole e lo aveva visto, puntualmente,

voltarsi altrove inquieto, segno che non aveva alcuna intenzione di

far la pace. Non era certo una sorpresa: in effetti, l'unica ragione

per cui era andata alla vernice era metterlo in imbarazzo. Ma era

stata un'ingenua a pensare che avrebbe funzionato. Era lei a sen-

tirsi imbarazzata, invece, mentre lo guardava muoversi spedito fra

amici e colleghi, chiacchierando e spettegolando. Tutti sapevano

di lei Ä ne era sicura Ä e avevano avuto dettagliate informazioni

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sul suo lontano e presunto legame con la galleria. Le guance co-

minciarono a bruciarle al solo pensiero. Ma avrebbe resistito. E

ce l'avrebbe fatta. Avrebbe semplicemente stretto più forte il

suo bicchiere, restando immobile, salda sui suoi piedi.

Dopo tutto, che cosa mai aveva da temere da quella serata do-

po le ondate di umiliazione da cui era stata sommersa quando era

passata per quelle stesse porte più di un anno prima?

Phoebe aveva sempre dipinto Ä per quanto indietro tornasse la

sua memoria si ritrovava puntualmente coi pennelli in mano Ä e,

sin da quando era giovanissima, il suo talento era stato un dato di

fatto per tutti tranne che per lei. Per l'insegnante di educazione

artistica ogni occasione era buona per lanciarsi in lodi sperticate;

ma raramente era stato seguito dai suoi colleghi, che, nel comples-

so, trovavano il rendimento scolastico della ragazza deludente.

Quando finì la scuola non ebbe l'ardire di iscriversi all'istituto

d'arte, e cominciò, invece, un corso per infermiera. Qualche anno

dopo, i suoi amici la persuasero che era stato un errore, e riprese a

studiare per tre anni a Sheffield, dove il suo stile subì rapidissimi

cambiamenti. All'improvviso una serie infinita di possibilità ina-

spettate si era aperta davanti a lei: nello spazio di poche fameliche

settimane scoprì il fauvismo e il cubismo, i futuristi e gli espressio-

nisti astratti. Già abile nei paesaggi e nei ritratti, cominciò a pro-

durre tele dense e sovraccariche, tutte dominate dall'incongruità

del dettaglio e impregnate da una fascinazione per il particolare

fisiologico che la spingevano verso fonti iconografiche insolite,

che andavano dai testi di medicina ai libri ifiustrati di zoologia

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ed entomologia. Cominciava anche, per la prima volta, a leggere

molto, e, in una edizione Penguin di Ovidio, trovò l'ispirazione

per la sua prima serie di dipinti importanti, tutti imperniati su te-

mi quali il continuo mutamento, l'instabilità e il perdurare del

mondo umano e animale. Senza rendersene conto, giacché in quel

periodo non permise ad alcunché di interferire con il suo entusia-

smo creativo, venne via via approssimandosi a territori pericolosi:

puntava verso quello stile sordo alla moda compreso fra l'astratto

e il figurativo; fra decorazione e totale assenza di coordinate de-

scrittive. Stava per diventare invendibile.

Ma anche prima di poter fare questa scoperta, i momenti dif-

ficili non mancarono: una crisi di fiducia, l'abbandono del corso

alla fine del secondo anno, il ritorno alla professione d'infermiera

a tempo pieno. Non dipinse per anni. Quando ricominciò, fu con

rinnovata passione e urgenza creativa. Divideva uno studio a

Leeds (dove ora viveva) e li trascorreva ogni suo momento libero.

Seguirono delle piccole mostre, in biblioteche e centri sociali, e di

tanto in tanto riceveva delle commissioni, nessuna, però, veramen-

te stimolante o tale da impegnare la sua fantasia. Purtuttavia, al-

meno a livello locale, aveva cominciato a godere di una certa fama.

Uno dei suoi vecchi insegnanti di Sheffield, con cui era rimasta

sporadicamente in contatto, la invitò a uscire e le fece capire che

era ora di mettere in mostra i suoi lavori nelle gallerie di Londra.

Per rendere la cosa più semplice, si offrì di raccomandarla perso-

nalmente: ovvero poteva prendere contatti con la Narcissus Gal-

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lery in Cork Street facendo il suo nome. Phoebe lo ringraziò senza

farsi illusioni, poiché nutriva qualche dubbio sulla proposta. L'in-

fluenza che il suo insegnante tanto si vantava di poter esercitare su

Roderick Winshaw Ä un'influenza di cui non esistevano prove Ä

era sempre stata oggetto di battute fra i suoi compagni di scuola.

Lui e Roddy erano stati a scuola insieme, questo era vero, ma non

c'erano tracce di una reale familiarità, né si poteva dire che, nel

frattempo, il grande mercante d'arte avesse fatto qualcosa per

mantenere viva l'antica amicizia. (Una volta, per esempio, era sta-

to invitato a tenere una conferenza a scuola, ma se ne era dimen-

ticato e non s'era presentato.) Tuttavia questa era una vera oppor-

tunità che le veniva offerta con gentilezza, e non doveva respin-

gerla alla leggera. La mattina dopo Phoebe telefonò alla galleria,

parlò con una segretaria gaia e disponibile, e prese appuntamento

per la settimana seguente. Trascorse i giorni successivi a fare una

cernita delle diapositive.

 

 

Quando la porta di vetro si richiuse alle sue spalle, Phoebe si

accorse che il furioso frastuono di Londra si era dileguato d'incan-

to, e che era entrata in una specie di rifugio: tranquillo, asettico ed

esclusivo. Avanzò in punta di piedi. Era una stanza sobria, rettan-

golare, con una scrivania in fondo, dove sedeva una donna bion-

da, bellissima, che dimostrava suppergiù cinque anni in meno di

Phoebe e che la ricevette subito con un sorriso palesemente ostile.

Phoebe farfugliò qualcosa e poi, troppo spaventata per procedere,

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si soffermò a guardare i quadri appesi alle pareti. Si sentì incorag-

giata: erano talmente orrendi. Ciononostante, mentre, tirato un

profondo respiro, si trascinava riluttante verso la scrivania sotto

lo sguardo indagatore e arrogante della segretaria, si fece avanti

un altro pensiero. Quella mattina, fino al momento in cui era do-

vuta uscire per prendere il treno, non aveva fatto altro che risiste-

mare la scelta di diapositive: ora capiva che avrebbe potuto utiliz-

zare quel tempo con più senso dell'utile. Nella fattispecie, avrebbe

dovuto decidere cosa indossare.

"Posso aiutarla?" disse la donna.

"Mi chiamo Phoebe Barton. Sono venuta per sottoporvi dei

miei lavori. Probabilmente mi stavate aspettando."

Phoebe si sedette, quantunque non fosse stata invitata a farlo.

"Vuole dire che ha un appuntamento?" disse la donna, guar-

dando fra le pagine vuote della sua agenda.

''Sì.''

"Quando lo ha preso?"

"La scorsa settimana."

La donna fece una smorfia di disapprovazione. "Io non c'ero

la settimana scorsa. Avrà parlato con Marcia, l'impiegata che vie-

ne saltuariamente. Veramente non è autorizzata a prendere ap-

puntamenti."

"Ma abbiamo fissato l'ora e tutto il resto."

"Mi spiace, ma qui non c'è scritto nulla. Non è che magari vie-

ne da lontano? Voglio dire, mi spiacerebbe se si fosse trascinata

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sin qui da chissà dove, magari da Chiswick o che altro."

"Sono venuta da Leeds," disse Phoebe.

"Ah." La donna annuì. "Sì, naturalmente. L'accento." Chiuse l'a-

genda e sospirò profondamente. "Oh, dunque, suppongo che se ha

fatto tutta questa strada... ha delle diapositive, posso vederle?"

Phoebe tirò fuori i fogli plastificati e stava per passarglieli

quando disse: "Sa, pensavo di doverli mostrare al signor Win-

shaw. E' un amico di un mio vecchio insegnante, e mi era stato

detto che..."

"Roddy è in riunione al momento," disse la donna. Prese le

diapositive, le rivolse verso la luce e le guardò per mezzo minuto,

non di più. "No, temo che non vadano bene."

Le restituì.

Phoebe si sentì agghiacciare. Disprezzava già quella donna, ma

era consapevole della propria completa impotenza.

"Ma se li ha visti a malapena."

"Mi spiace. Non sono affatto quello che stiamo cercando at-

tualmente."

"Allora dica, cosa state cercando?"

"Forse potrebbe provare nelle gallerie minori," disse, evitando

la domanda e sforzandosi di sorridere. "Ce ne sono alcune che af-

fittano spazi per pittori dilettanti. Ma non ho idea di quanto possa

costare."

Proprio allora un bel pezzo d'uomo sui quarant'anni spuntò

da una porta aperta sul retro della galleria e si fece avanti con fare

svagato.

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"Tutto bene, Lucinda?" disse. Ostentava sufficienza e disinte-

resse nei confronti di Phoebe, ma lei era sicura che la stava esami-

nando e valutando.

"Credo ci sia stato un piccolo equivoco. Questa signora, la si-

gnorina Barker, credeva di avere un appuntamento con lei e ha

portato con sé alcuni suoi schizzi."

"Ma certo. Stavo proprio aspettando la signorina Barton," dis-

se tendendo la mano. Phoebe gliela strinse. "Roderick Winshaw.

Ora, perché non porta le sue cose da me così che io possa darvi

un'occhiata." Si girò verso la segretaria. "E' tutto, Lucy. Puoi an-

dare a pranzo."

Nel suo ufficio, Roddy sottopose le diapositive a un esame an-

cora più frettoloso. Aveva già deciso cosa voleva da quella attraen-

te nuova arrivata.

"Harry mi ha parlato del suo lavoro," mentì, dopo un piccolo

sforzo per ricordare il nome di battesimo di quel vecchio cono-

scente che per vent'anni era riuscito a evitare usando ogni stru-

mento in suo potere. "Ma sono lieto di avere l'opportunità di co-

noscerla di persona. Stabilire un rapporto di conoscenza è quanto

mai importante."

E onde dar seguito alla costruzione di quel rapporto, invitò

Phoebe a pranzo. Phoebe fece del suo meglio per far finta di sa-

persi destreggiare con il menù riuscendo persino a evitare di far

commenti sui prezzi, che no, non erano il frutto di un errore di

stampa, come, dapprincipio, aveva pensato. In fin dei conti, era

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lui che pagava.

"Nel mercato attuale, sa," disse Roddy, con la bocca piena di

blinis al salmone affumicato, "è da ingenui pensare che si possa

promuovere il lavoro di un artista a prescindere dalla sua perso-

nalità. Un'immagine ci deve pur essere, qualcosa che si possa ven-

dere ai giornali e alle riviste. Non importa quanto siano meravi-

gliosi i quadri, se poi non si ha niente di interessante da dire su

di sé quando la giornalista dell"Independent" viene a fare un'in-

tervista, allora sì che son guai."

Phoebe ascoltava in silenzio. Già. Perché, malgrado il suo di-

chiarato interesse per la sua personalità, sembrava che Roddy la

volesse proprio così.

"Anche la fotogenia è importante, naturalmente." Sorrise

compiaciuto. "Ma credo che lei, in questo campo, non abbia al-

cun problema."

Roddy sembrava stranamente sulle spine. Era ovvio che stava

cercando di impressionare Phoebe con il suo fascino e le sue pre-

mure, ma il ristorante era pieno di persone che conosceva e il suo

sguardo vagava quasi sempre oltre le spalle di Phoebe a far presa

sugli occhi dei clienti più importanti. Ogni volta che Phoebe co-

minciava a parlare di pittura, interesse che, lei riteneva, dovevano

avere in comune, lui cominciava a parlare di tutt'altro.

Roddy chiese il conto circa quaranta minuti dopo, prima di

avere il tempo di prendere dolce o caffè. Aveva un altro appunta-

mento alle due in punto.

"Una vera seccatura. Un giornalista che sta scrivendo un arti-

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colo sulle giovani promesse: vuole che io gli faccia dei nomi, cre-

do. Lo eviterei se potessi, ma con questa gente si deve collaborare,

sa. Perché si parli della galleria. Non le viene in mente nessuno, o

forse sì?

Phoebe scosse la testa.

"Senta, mi dispiace di essere così di corsa," disse Roddy, ab-

bassando lo sguardo e assumendo un tono di timida sincerità.

"Ho la sensazione di non averla conosciuta affatto."

Phoebe considerò ridicolo il commento, visto che si erano ri-

trovati a corto di argomenti dopo circa cinque minuti, ma si sor-

prese a dire: "Sì, è vero."

"Dove alloggia a Londra?" chiese.

"Torno a casa stasera," disse Phoebe.

"Deve proprio? Stavo proprio pensando che potrebbe rimane-

re nel mio appartamento, se le va. C'è molto spazio."

"E' molto gentile da parte sua," disse Phoebe, subito insospet-

tita. "Ma domani devo lavorare."

"Naturalmente. Ma senta, dobbiamo rivederci. Voglio vedere

veramente i suoi quadri. Voglio che lei me ne parli mentre li

guardo."

"Beh, non vengo giù molto spesso, ho il lavoro, e poi il bigliet-

to del treno..."

"Sì, capisco, deve essere difficile per lei. Ma di tanto in tanto

io vengo a Leeds. La mia famiglia ha una proprietà lassù."

Guardò l'orologio. "Dannato appuntamento. Le dirò io cosa

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faremo, allora, perché non passa ora nel mio appartamento? E'

proprio qui dietro l'angolo, e io potrei raggiungerla fra un'ora cir-

ca. Potremmo... non so, riprendere da dove abbiamo interrotto, e

farebbe in tempo a prendere il treno questa sera."

Phoebe si alzò. "La mossa non è male. Anche se non va trop-

po per il sottile." Si passò la cinghia della borsetta sulla spalla e

disse: "Se avessi saputo che questo era il tipo di conoscenza che

lei aveva in mente, le avrei risparmiato il conto di un pranzo così

costoso. Posso riavere le mie diapositive, per favore?"

"Se vuole, gliele mando per posta," disse Roddy, e la guardò

affascinato mentre lei girava i tacchi e usciva dal ristorante senza

dire una parola. Sarebbe stato più divertente di quanto avesse

pensato.

 

 

"E' stato un verme," disse Phoebe, quella sera stessa, alla sua

compagna di stanza, Kim, bevendo una sconsolata tazza di caffè

in cucina.

"Non lo sono tutti?" disse Kim. "La questione è un'altra: era

un bel verme?"

"Questo non conta," disse Phoebe. (Le seccava ammetterlo,

ma lo aveva trovato alquanto attraente, ma anche troppo consape-

vole di esserlo e di poterci giocare a piacimento.)

Non pensò più a Roddy fino al weekend, quando ricevette una

telefonata entusiasta di suo padre che le chiese se aveva letto il

"Times" di sabato. Phoebe uscì a comprarlo, e scoprì che veniva

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menzionata come una dei giovani le cui carriere sarebbero fiorite

nel prossimo decennio.

"Sono molto cauto nel fare profezie: la storia può facilmente ri-

baltare le migliori previsioni," dice l'importante mercante di Londra

Roderick Winshaw, "ma fra tutti gli artisti che ho visto di recente,

sono rimasto molto impressionato da Phoebe Barton, una giovane

di Leeds che promette grandi cose per il futuro."

Kim pensava che avrebbe dovuto telefonare a Roddy per

ringraziarlo, ma Phoebe, che si sforzava di non lasciar trapelare

la sua contentezza, non se ne curò, anche se la prima cosa che

gli disse quando lui le telefonò, alcune sere più tardi, fu: "Ho

letto cos'ha detto sul giornale. E' stato molto gentile da parte

sua".

"Oh, quella cosuccia," disse Roddy noncurante. "Non le at-

tribuirei grande importanza. Qualcuno mi ha chiesto delle in-

formazioni da quando è uscito l'articolo, ma, tuttavia, è ancora

presto."

Il cuore di Phoebe batteva velocemente. "Informazioni?"

disse.

"Il motivo per cui ho chiamato," disse Roddy, "è sapere se hai

già degli impegni per questo fine settimana. Ho intenzione di an-

dare nella vecchia dimora di famiglia e mi chiedevo se non ti di-

spiaceva accompagnarmi: si potrebbero esaminare i tuoi lavori col

dovuto riguardo. Pensavo che potrei passare a prenderti a Leeds

sabato pomeriggio, e partire da li."

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Phoebe ci pensò su. Un intero fine settimana con Roderick

Winshaw? Dopo che un semplice pranzo era andato com'era an-

dato? Una pessima idea.

"Va bene," disse. "Sarebbe splendido."

 

 

 

 

2.

 

Roddy diede un'occhiata al complesso di case popolari e decise

che per nessun motivo vi avrebbe parcheggiato la sua Mercedes

Sport. Non gli piaceva nemmeno l'idea di parcheggiarla verso la

collina, di fronte a qualcosa che aveva l'aria di una scuola o un

centro sociale: i due giovani malviventi che lo avevano adocchiato

mentre scendeva dalla macchina e chiudeva le portiere sembrava-

no proprio i tipi che avrebbero allegramente rotto i finestrini o bu-

cato le gomme non appena avesse voltato le spalle. Sperava di non

dover aspettare in quel posto dimenticato da Dio un minuto più

del necessario e che Phoebe fosse già pronta per andare.

Una volta di fronte al portone principale del condominio a

torre dove abitava Phoebe, schiacciò il pulsante e si annunciò al

citofono. Non ci fu risposta, solo il brusco ronzio del portone

che si apriva. Roddy si guardò un'ultima volta intorno Ä c'erano

bambini che giocavano chiassosi sotto il sole, nelle aree di ricrea-

zione, giovani madri, appesantite dalle borse della spesa, che spin-

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gevano carrozzine su per la collina tornando dal centro-città Ä e

poi entrò nell'ingresso. Era umido e puzzava, e l'ascensore aveva

addirittura un che di macabro; ma se avesse fatto undici piani a

piedi sarebbe arrivato sudaticcio e senza fiato, e lui aveva tutta

l'intenzione di fare una buona impressione. Così strinse i denti,

si tappò il naso e tirò un sospiro di sollievo nel constatare che

la corsa era stata relativamente breve e indolore. Fu poi la volta

di un tetro corridoio, illuminato solo da una serie di deboli lam-

padine da 40 watt che ben poco avevano a spartire con il lumino-

so sabato pomeriggio che si era lasciato alle spalle; ma proprio

quando era sul punto di darsi per perso, si aprì la porta di uno

degli appartamenti e Phoebe apparve facendogli segno. Subito il

suo umore si risollevò: in contrasto con l'ambiente. Phoebe appa-

riva più incantevole che mai, e i dubbi che lo avevano accompa-

gnato da Londra svaporarono in desiderio.

"Vieni," disse. "Sono quasi pronta. Kim ha appena preparato

del tè."

Roddy la seguì ed entrando fu sorpreso di ritrovarsi in un sog-

giorno luminoso e spazioso. Un giovanotto in maglietta e jeans sfi-

lacciati era sdraiato sul divano e guardava la televisione, cambian-

do canale fra Grandstand e una commedia in bianco e nero sulla

Bbc2. Non si prese il fastidio di sollevare lo sguardo.

"Questo è Darren," disse Phoebe. "Darren, questo è Roderick

Winshaw."

"Piacere," disse Roddy.

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Darren grugnì.

"E' appena arrivato in auto da Londra," disse Phoebe puntan-

do sul pulsante per spegnere il televisore. "Sono sicura che vor-

rebbe rilassarsi."

"Ehi, ma io sto guardando!"

La tv rimase accesa, e Phoebe andò in camera sua per finire di

fare i bagagli. Roddy scivolò in cucina, dove una donnina dai ca-

pelli biondo rossicci stava versando il tè nelle tazze.

"Tu devi essere Roddy," disse mentre gli allungava una tazza.

"Io sono Kim. Io e Phoebe dividiamo l'appartamento. Per i nostri

peccati." Fece un risolino. "Vuoi dello zucchero?"

Roddy fece di no con la testa.

"Siamo tutti così eccitati dall'idea che abbia finalmente qual-

cuno di importante dalla sua parte," disse Kim, servendosi tre

cucchiaini di zucchero. "E proprio il salto di cui ha bisogno."

"Beh, certamente ho intenzione... di fare tutto ciò che posso,"

disse Roddy, confuso.

Phoebe ricomparve dalla sua stanza con una grande cartelletta

sotto il braccio. "C'è posto per questi in macchina?"

Roddy prese fiato. "Potrebbero schiacciarsi."

"Beh..." disse Phoebe incerta. "Avevi detto che desideravi ve-

derli. E' per questo che sei venuto, no?"

"Pensavo fossero tutte diapositive."

"Non tutte." Si illuminò. "Potremmo vederli ora, se vuoi. Ba-

sterebbe un'oretta."

Va da sé: questa era l'ultima cosa che voleva.

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"In realtà, penso che ci stiano. Dovremo solo spostare i sedili

un po' più avanti."

"Grazie." rispose Phoebe fulminandolo con un sorriso. "Pren-

do la borsa."

Darren si intrufolò venendo dal soggiorno. "Dov'è il mio tè?"

"Credevo stessi andando da Sainsbury," disse Kim, girando il

cucchiaino nella tazza.

"E' aperto fino alle sei."

"Sì, ma per allora non ci sarà rimasto nulla."

"La partita sta per cominciare."

"Darren, cosa ci fanno i tuoi pesi in camera mia?" Phoebe era

in piedi nel corridoio, pronta a partire.

"C'è più posto li. Perché? Ti danno fastidio?"

"Certo, mi danno maledettamente fastidio. Li voglio fuori per

quando ritorno, Ok?"

"Ok, se vuoi farne un caso."

"Bene, grazie per il tè," disse Roddy, che non lo aveva nem-

meno toccato. "E' ora di andare, sembra."

"Carina la tua giacca," disse Darren, quando Roddy lo sfiorò

passando per la porta della cucina. "L'hai presa da Next o qual-

cosa del genere, vero?"

La giacca in questione, un capo sportivo di lino color crema,

era stata fatta su misura e costava più di cinquecento sterline.

"L'ho presa da Charles in Jermyn Street," disse Roddy.

"Oh, sì, appunto. Sapevo che si trattava di uno di quei posti."

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Phoebe gli mandò un bacetto di rimprovero, e disse: "Ciao,

Kim. Prima di tornare, ti chiamo".

"Va bene, sta' attenta. Divertiti e non fare nulla.., non far nulla

di cui ti potresti pentire."

Roddy, fortunatamente, era troppo lontano per sentire.

 

 

"E' un idiota quel ragazzo," disse Phoebe, mentre correvano

sulla Al verso Thirsk. "E ormai gira sempre per casa. Questa sto-

ria sta cominciando a deprimermi."

"La tua amica mi è parsa molto carina."

"Non credi, però, che sia tremendo, quando i tuoi amici scel-

gono dei compagni completamente sbagliati?"

Roddy accelerò e arrivò sotto alla macchina che aveva davanti,

abbagliando impazientemente. Fino ad allora non aveva superato

la media dei centoventi orari.

"So esattamente cosa vuoi dire," disse. "Senti questo mio ami-

co cos'ha fatto. Era fidanzato da due anni con una donna, la cu-

gina della Duchessa di *, per essere precisi. Lei non era una bel-

lezza, questo no, ma aveva un giro di conoscenze eccezionale. Lui,

sai, aveva in mente di entrare nel mondo dell'opera. Di punto in

bianco, senza dire una parola, manda tutto a monte e va a convi-

vere con una completa sconosciuta: una maestra, figurati. Una che

nessuno, e dico proprio nessuno, aveva mai sentito nominare. Do-

po di che sentiamo che si sono sposati. A quel che sembra, sono

molto felici, ma io non smetto di pensare che avrebbe dovuto

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stringere i denti e restare con Mariella. Adesso, probabilmente, sa-

rebbe a capo dell'Opera nazionale inglese. Capisci?"

"Non credo che si stia parlando della stessa cosa," disse

Phoebe.

Per qualche minuto proseguirono in silenzio.

"A me sembrava di sì," disse Roddy.

 

 

Erano quasi le sei quando attraversarono Helmsley e poi ripar-

tirono di filato per North York Moors. Il sole splendeva ancora e

Phoebe si accorse che la brughiera, che aveva già visto parecchie

volte prima e che aveva sempre considerato insopportabilmente

tetra, oggi le sembrava briosa e ospitale.

"Che fortuna," disse, "avere una casa qui. E' il posto ideale per

passarvi l'infanzia."

"Oh, da bambino non ci ho passato tanto tempo. Grazie a

Dio. Secondo me, fa orrore. Ancora adesso, se posso evitarlo,

non ci metto piede."

"Allora, chi ci vive ora come ora?"

"Nessuno, veramente. C'è un personale minimo, un paio di

cuochi e giardinieri, e un vecchio maggiordomo che sta con la no-

stra famiglia da cinquecento anni almeno, tutto qui. Quindi la ca-

sa è quasi vuota." Tirò fuori un'altra sigaretta e la diede a Phoebe

per farsela accendere. "Oh, c'è mio padre, naturalmente."

"Non credevo fosse ancora vivo."

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Roddy sorrise. "Beh, vivo per modo di dire."

Non sapendo cos'altro aggiungere, Phoebe disse: "Conosci il

ritratto che John Bellany ha fatto di suo padre? Adoro quel qua-

dro: è così ricco e particolareggiato, ti dice così tanto dell'uomo, e

contemporanemente è fatto con un tale calore e affetto. E' come se

vi fosse dentro una luce".

"Conosco il suo lavoro, sì. Ma non credo che, attualmente, lo

raccomanderei a qualcuno come investimento. Senti," disse, fis-

sando Phoebe fra il lusco e il brusco, "spero tu non abbia l'inten-

zione di parlare di pittura per tutto il weekend. Ne parlo già ab-

bastanza quando sono a Londra."

"E di che cosa dobbiamo parlare allora?"

"Di tutto."

"'Io vivo e respiro arte'," disse Phoebe. "'Quello che le altre

persone chiamano " il mondo reale " mi è sempre parso scialbo e

insipido al confronto'."

"Beh, si, c'è del vero. Ma personalmente ritengo questi atteg-

giamenti piuttosto artefatti."

"Sì, ma le parole non sono mie: sono le tue. 'Observer', aprile

1987."

"Ah. Che vuoi che ti dica? Sono le cose che tutti si aspettano

di sentire, nel mondo che gira intorno all'arte. Si suppone venga-

no prese con un pizzico di buonsenso." Sbuffando nervosamente

fumo, con un tono di voce palesemente più irritato e minaccioso,

disse: "Sai cosa avevo in programma 'stasera? Un invito a cena

dalla Marchesa di *, nel suo appartamento di Knightbridge. E nel-

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la lista degli ospiti c'erano uno dei più potenti impresari teatrali di

Londra, un membro della famiglia reale, e un'attrice americana,

uno schianto, protagonista di un film sugli schermi di tutto il pae-

se e che arriva da Hollywood proprio per l'occasione".

"E allora, cosa vuoi che dica? Probabilmente di questa gente

ne hai fin sopra i capelli, se preferisci passare il tempo con me in

questo posto a casa del diavolo."

"Non necessariamente. Lo ritengo un fine settimana di lavoro.

Dopo tutto, il mio benessere dipende dalla capacità di coltivare

giovani talenti: e ritengo che tu abbia talento." Il complimento,

pensò, era ben calcolato, e gli diede il coraggio di aggiungere:

"Quello che sto dicendo, mia cara, è che da questo weekend mi

aspetto qualcosa di un po' più eccitante di qualche ora trascorsa

in salotto a discutere dell'influenza di Velàzquez su Francis Ba-

con". E poi, prima che Phoebe potesse rispondere, intravide qual-

cosa all'orizzonte. "Eccolo là. Il caro nido, l'avita dimora."

La prima impressione che Phoebe ebbe di Winshaw Towers

non fu incoraggiante. Appollaiata quasi sulla cresta di un'altura va-

sta e impervia, disegnava ombre profonde e scure sui terreni sotto-

stanti. I giardini non si vedevano ancora; ma Phoebe indovinava già

una folta foresta di alberi che nascondevano la vista della casa, e ai

piedi della collina c'era una vasta superficie d'acqua tetra e respin-

gente. L'insieme di torri gotiche, neogotiche, subgotiche e pseudo-

gotiche, che davano il nome alla casa, somigliava a una gigantesca

mano nera, bitorzoluta e deforme: le dita artigliavano il cielo, quasi

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ad afferrare il sole declinante che risplendeva come una moneta

brunita e che ben presto sarebbe finito Ä così pareva Ä nelle sue

grinfie inesorabili.

"Non è proprio un campeggio estivo, no?" disse Roddy.

"Non ci sono altre case qui vicino?"

"C'è un paesino a circa cinque miglia, dall'altra parte della col-

lina. Nient'altro."

"Come si fa a vivere in un posto così solitario?"

"Solo il Signore lo sa. La parte principale della casa fu costrui-

ta nel 1625, così dicono. La mia famiglia ne entrò in possesso do-

po cinquant'anni circa. Uno dei miei avi, Alexander, la acquistò,

lui solo sa il perché, e poi cominciò ad aggiungervi pezzi, ed ecco

perché è rimasto ben poco delle mura originali di mattoni. Ora

questo finto specchio d'acqua, il Laghetto Cavendish," continuò

facendo segno fuori del finestrino, dato che la strada correva or-

mai parallela alla riva, "non è un vero laghetto di montagna, na-

turalmente: è artificiale. Cavendish Winshaw era il mio pro-pro

zio, e lo fece scavare e riempire d'acqua circa centovent'anni fa.

Deve aver carezzato l'idea di ore felici in barca a pescare trote.

Ma basta guardarlo! Prova a star laggiù più di cinque minuti: mo-

riresti certamente di polmonite. Ho sempre sospettato che Caven-

dish, e anche Alexander se è per questo, appartenessero a quel...

beh, al lato eccentrico della famiglia."

"Cosa vuoi dire con questo, esattamente?"

"Oh, non lo sapevi? I Winshaw hanno una lunga e onorata

storia di casi di follia. Che non a caso arriva sino ai giorni nostri."

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"E' affascinante," disse Phoebe. "Qualcuno dovrebbe scrivere

un libro su di voi." C'era un consapevole tono malizioso nella

sua osservazione, che un ascoltatore più attento di Roddy avrebbe

colto.

"C'era qualcuno, adesso che ci penso, che lo stava scrivendo

davvero un libro su di noi," disse allegramente. "L'ho persino in-

contrato una volta: gli ho concesso un'intervista alcuni anni fa. Fu

una specie di interrogatorio di terzo grado, devo dire. A ogni mo-

do, tutto si svolse con molta pacatezza. Un bel lavoro da profes-

sionista."

Arrivarono sul vialone principale. L'auto vi si infilò e imme-

diatamente furono immersi in un tunnel di fronde. In passato, for-

se, il viale doveva essere stato largo abbastanza per farci passare

un veicolo di dimensioni normali, ma ora parabrezza e tetto

dell'auto erano esposti al costante attacco di rampicanti, edere,

liane e rami sporgenti d'ogni forma e dimensione. E quando fi-

nalmente riemersero nell'ultima luce del giorno, la stessa trascu-

ratezza si palesò dovunque: l'erba dei prati era troppo alta e ve-

niva soffocata dalla gramigna, la fisionomia di aiuole e sentierini

si poteva solo immaginare, e la maggior parte dei fabbricati pa-

reva in uno stato di semiabbandono Ä vetri rotti, muri a pezzi,

porte in precario equilibrio su cardini arrugginiti. Roddy pareva

impassibile di fronte a tutto ciò: proseguì, con un unico pensie-

ro in mente, verso l'ingresso, e fermò la macchina sull'acciotto-

lato del cortile anteriore.

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Scesero dalla macchina e Phoebe si guardò intorno, ammuto-

lita dalla soggezione ma anche da una strana e insolita preoccupa-

zione. Si rendeva conto adesso di come Roddy fosse riuscito a tra-

scinarla in una situazione di grande solitudine e vulnerabilità, e

cominciò a tremare. E a quel punto, mentre lui tirava fuori le va-

ligie dal bagagliaio, gettò uno sguardo al secondo piano e colse un

movimento dietro i vetri delle finestre. Lo vide solo per un attimo:

un viso pallido, contratto e deforme, sormontato da un groviglio

di capelli grigi, che fissava i nuovi arrivati con un'aria di lunatica

malevolenza che bastò a gelarle il sangue nelle vene.

 

 

Roddy si lasciò sprofondare sul letto e si passò un fazzoletto di

seta sul viso che ora era del colore di una barbabietola.

"Fffiu. Non me l'aspettavo, devo dire."

"Beh, io mi sono offerta di portarle," disse Phoebe, dirigendo-

si verso il bovindo.

Dopo aver suonato a lungo il campanello e bussato senza ave-

re risposta, Roddy aveva dovuto usare le sue chiavi, e poi aveva

insistito per portare le valigie di entrambi, con i disegni di Phoebe

infilati precariamente sotto il braccio. Lei lo aveva seguito in silen-

zio, colpita dall'atmosfera lugubre e decadente che permeava l'in-

tera casa. Gli arazzi appesi al muro erano consunti e a brandelli; le

pesanti tende di velluto sui pianerottoli, già tirate, non facevano

filtrare neppure un raggio del sole morente; due armature, che

stavano sull'attenti, l'una davanti all'altra, in apposite nicchie, pa-

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revano pronte a cadere in pezzi da un momento all'altro a causa

della ruggine; e persino le teste delle più diverse specie di sfortu-

nati animali selvatici che avevano finito i loro giorni come trofei,

esprimevano lo sconforto più assoluto.

"Pyles c'è, ma sicuramente sarà già ubriaco fradicio," spiegò

Roddy ansimando. "Ecco, vediamo se funziona."

Afferrò la corda del campanello sopra il letto e la tirò violen-

temente per sei o sette volte. Udirono lo scampanellio echeggiare

in lontani antri della casa. "Dovrebbe funzionare," disse Roddy,

ansando rumorosamente sdraiato sul letto, e dopo circa cinque

minuti si udirono dei passi avvicinarsi lungo il corridoio: l'andatu-

ra era irregolare e lenta da non credere, e un passo era più pesante

dell'altro. Man mano che si avvicinavano, erano accompagnati da

un affanno terrificante. I passi si fermarono bruscamente fuori

della porta, ma l'affanno continuò: pochi secondi dopo si sentì

bussare forte.

"Avanti!" disse Roddy. La porta si aprì cigolando e fece il suo

ingresso una figura cadaverica, smunta, i cui occhi, messi in risalto

dal folto cespuglio delle sopracciglia, vagarono sospettosi per tutta

la stanza prima di posarsi su Phoebe che, seduta nel bovindo, ri-

cambiò lo sguardo attonita. Fu sopraffatta dall'odore dell'alcol e

pensò che sarebbe bastato respirarlo per ubriacarsi.

"Signorino Winshaw," gracchiò il maggiordomo con voce rau-

ca e inespressiva, mentre continuava a fissare l'ospite femminile.

"Che piacere riavervi con noi."

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"Hai ricevuto il mio messaggio, suppongo."

"Certo, signore. La vostra stanza è stata preparata questa mat-

tina. Ma, io non sapevo, cioè, non ricordo di essere stato informa-

to che avreste portato... (diede un secco colpo di tosse e si umettò

le labbra) . ..un'ospite."

Roddy si alzò. "Questa è miss Barton, Pyles, una giovane arti-

sta che spero di poter rappresentare professionalmente in un fu-

turo non troppo lontano. Rimarrà per un giorno o due. Penso

che questa sia la stanza più confortevole per lei."

"Come desiderate, signore. Scenderò a dire al cuoco che sare-

te in quattro a cena."

"Quattro? Perché, chi deve arrivare?"

"Ho ricevuto una telefonata questa mattina presto, dalla si-

gnorina Hilary. Arriverà in aereo questa sera, pare, e anche lei in-

tende portare un... (di nuovo schiarendosi la voce e leccandosi gli

angoli screpolati della bocca) ...ospite."

"Capisco." Roddy non era affatto contento della notizia. "Beh,

in questo caso saremo in cinque a cena? Presumo che mio padre

mangerà con noi."

"Temo di no, signore. Vostro padre ha subito una leggera di-

sgrazia questo pomeriggio, e si è già ritirato. Il dottore gli ha con-

sigliato di non sforzarsi ulteriormente oggi."

"Disgrazia? Che disgrazia?"

"Un incidente veramente increscioso, signore. Tutta colpa

mia. Lo stavo portando fuori per la sua passeggiata pomeridiana,

quando Ä imperdonabile negligenza Ä ho perso il controllo della

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sua sedia a rotelle che è sfrecciata giù per una discesa, in fondo

alla quale si è schiantata. Si è schiantata nel pollaio."

"Dio mio, con che...con che conseguenze?"

"Un pollo decapitato, signore."

Roddy lo scrutò più dappresso, quasi cercasse di stabilire se la

battuta era voluta. "Va bene, Pyles," disse infine. "Sono sicuro

che la signorina Barton vorrà rinfrescarsi dopo il viaggio. Puoi di-

re al cuoco che saremo in quattro a cena."

"Molto bene, signore," disse, avviandosi ciondoloni verso la

porta.

"Dunque, cosa ci sarà per cena?"

"Pollo," disse Pyles, senza girarsi.

Phoebe e Roddy rimasero di nuovo soli. Seguì una pausa dif-

ficile, e poi Roddy disse, con un sorriso imbarazzato: "Dovrebbe

essere mandato in pensione. Intendiamoci, non saprei a chi altro

poter affidare un posto come questo".

"Pensi che debba andare a dare un'occhiata a tuo padre? Po-

trei fare qualcosa."

"No, no, il dottore avrà gia fatto tutto il necessario. Meglio

non immischiarsi."

"Il tuo maggiordomo zoppica tremendamente."

"Sì, poverino." Si alzò dal letto e cominciò a girellare per la

stanza. "Bisogna tornare indietro di dieci o quindici anni, non

so, quando mio zio Lawrence viveva ancora qui. Avevano molti

problemi con i bracconieri a quei tempi, e vennero sistemate delle

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trappole per uomini. Sembra che il vecchio Pyles sia rimasto preso

in una di quelle Ä di sera tardi, se non mi sbaglio. Povero diavolo,

non lo trovarono fino al mattino dopo. Il dolore deve essere stato

spaventoso. E' allora che ha cominciato a bere, pare. Si dice per-

sino che l'incidente l'abbia... toccato. Nel senso che non è stato

più lo stesso Ä psichicamente intendo dire."

Phoebe tacque.

"Comunque ti avevo avvertito: il posto è quel che è."

"Devo cambiarmi per cena?" chiese.

"Santo cielo, no. Non per quanto mi riguarda: e sicuramente

non per quanto riguarda la sorellina e il suo cosiddetto ospite. A

proposito: farei meglio a scendere per accendere le luci d'atterrag-

gio. Pyles se ne dimentica sempre. Che ne diresti se tornassi su da

te fra circa dieci minuti e facessimo una breve visita guidata prima

che faccia buio?"

"E tuo padre?"

Il sorriso di Roddy si aprì sul vuoto assoluto.

"Cosa?"

 

 

Era il crepuscolo. Roddy e Phoebe erano in piedi sulla ter-

razza che dava sul Lago Cavendish, e bevevano un Chàteau-La-

fite del 1970, appena portato su dalla cantina. Avevano fatto un

rapido giro della casa, durante il quale Roddy si era dimostrato,

controvoglia, esperto in materia di colonne ioniche e archi moz-

zi, e Phoebe aveva fatto, doverosamente, del suo meglio, per

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ammirare le figure romboidali in mattoni e le chiavi di volta

a filo e le accurate sculture sui pennacchi degli archi. Ora pa-

reva che Roddy avesse in mente altre cose. Mentre Phoebe fis-

sava le due file parallele delle luci d'atterraggio che si allunga-

vano dall'una all'altra parte del lago e sembravano convergere

solo sulla riva più lontana, gli occhi di Roddy studiavano atten-

tamente il suo profilo.

"Sei veramente bellissima," disse finalmente.

"Non vedo proprio," rispose, lentamente e non senza un sor-

riso, "che cosa c'entri."

"E' il motivo per cui sei qui, e lo sappiamo entrambi," disse

Roddy. Scivolò in avanti di qualche centimetro. "Ho un cugino

di nome Thomas, un po' più vecchio di me, ora è sui settanta cre-

do. E un pezzo grosso in città. Quando era giovane, fra la fine de-

gli anni cinquanta e i primi anni sessanta, prestava denaro a delle

case di produzione cinematografiche e conobbe delle persone del

giro. Girava per gli studi, e via dicendo."

"Dove vuoi arrivare?"

"Aspetta, un momento di pazienza. Avevo solo otto o nove an-

ni all'epoca, e Thomas, beh, Thomas era.., sai... un giovanotto,

uno sporcaccioncello. Mi portava quelle fotografie."

"Fotografie?"

"Roba scadente, per lo più. Scene di nudi tratte dai film in cui

era coinvolto finanziariamente, roba così. Ma c'era un fotogram-

ma che conteneva il ritratto, solo il ritratto, testa e spalle, di un'at-

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trice: si chiamava Shirley Eaton. E per un po' ne fui innamorato

cotto. Tenevo quella foto sotto il cuscino, credimi. Naturalmente

ero molto giovane. Ma la cosa buffa è..."

"...che io sono esattamente come lei?"

"Beh, sì, in realtà." Aggrottò la fronte. "Perché, te lo ha già

detto qualcuno?"

"No, ma ho immaginato che saresti andato a parare li. E ora

ho l'onore di aiutarti a vivere le tue fantasie infantili, suppongo."

Roddy non le rispose e lei continuò a fissare davanti a sé, de-

libando il silenzio, finché notò una luce rossa che lampeggiava nel

cielo buio. "Guarda, c'è qualcosa laggiù."

"La sorellina adorata, mi sa che è lei." Lasciò il bicchiere di

vino sulla balaustra, e disse: "Avanti, andiamo al molo a darle

un benvenuto come si deve".

Per scendere al lago bisognava attraversare tre prati d'erba

una volta fine e rasata, ma ormai lasciati nel più completo ab-

bandono e coperti di erba selvatica, congiunti da vialetti in pen-

denza su cui bisognava procedere con attenzione, poiché molti

lastroni erano smossi, o nascondevano crepe abbastanza grandi

da intrappolare un piede incauto. Alla fine, dei gradini di legno

marcio conducevano in riva al lago. Arrivarono giusto in tempo

per vedere l'aeroplano sfiorare la superficie del laghetto illumi-

nato dalla luna, e poi flottare verso di loro, alzando onde schiu-

manti mentre si fermava con grazia, ma non senza un gran ru-

more, accanto al molo. Pochi secondi dopo si aprì la porta e

spuntarono i capelli biondo-cenere della columnist più pagata

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del Regno Unito.

"Roddy?" disse, scrutando nella semioscurità. "Non saresti

così gentile, amore, da prendermi la valigia?"

Gli passò la valigia e si piegò per uscire dallo sportello, seguita

da un tipo abbronzatissimo, tutto muscoli, spalle quadrate e ma-

scelle scolpite che sgusciò fuori dopo di lei e con gesto agile e alle-

tico chiuse lo sportello.

"Conosci Conrad, il mio pilota?"

"Piacere," disse Roddy, rischiando, nello stringergli la mano,

di ritrovarsi con le dita spezzate.

"E io non credo di..." s'affrettò Hilary avendo adocchiato

Phoebe che osservava immersa nell'ombra.

"Phoebe Barton," disse Roddy mentre lei si faceva innanzi ti-

midamente. "Phoebe è mia ospite questo fine settimana. E' una

pittrice di gran talento."

"Ma è naturale." La valutò freddamente. "Lo sono tutte. E' la

prima volta che vieni nella casa degli orrori, mia cara?"

Phoebe intuì che ci si aspettava una risposta intelligente da lei;

ma tutto quello che riuscì a dire fu: "Sì".

"In questo caso, benvenuta," disse Hilary, facendo strada sui

gradini, "a Baskerville Hall. Avanti, muovetevi, sono affamata. Il

viaggio è stato dei più schifosi."

 

 

 

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3.

 

Al tavolo della sala da pranzo avrebbero potuto sedersi como-

damente venti persone. I quattro si erano stretti assieme a un'e-

stremità e, sotto gli archi di quella stanza cupa ed enorme, le loro

voci suonavano fioche e deboli. Non che Phoebe e Conrad aves-

sero molto da dire, del resto: per una ventina di minuti, fratello e

sorella li tagliarono fuori della loro amabile conversazione (nono-

stante tutto lo scredito che Roddy aveva riversato su Hilary prima

del suo arrivo), tutta piccanti pettegolezzi su questo o quell'amico

comune. Dato che, di tanto in tanto, Phoebe leggeva le pagine di

critica dei giornali nazionali o seguiva i programmi televisivi che

trattavano d'arte, ravvisò nei nomi che facevano, la fisionomia

di quella piccola cerchia di autoeletti e fondata sul reciproco

scambio di appoggi che pareva, nel bene o nel male, essere il mo-

tore di ciò che passava come vita culturale londinese. Quello che

non riusciva a capire era la strana, persistente nota di profonda

venerazione che puntellava anche l'aneddoto più insignificante e

inconsistente: aveva la sensazione che Roddy e Hilary attribuissero

davvero reale importanza a ogni gesto e parola di quella gente;

che fossero convinti davvero che dominassero, come dei colossi,

la scena nazionale, quando, invece, Phoebe, interrogando a tutto

raggio, amici, colleghi, pazienti e vicini di casa, non avrebbe otte-

nuto, al citare quei nomi, neanche l'ombra di una sia pur minima

reazione. Nondimeno, la sequela di battute e storielle, incompren-

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sibili a chi fosse tagliato fuori da quel mondo, non sembrava smet-

tere finché Roddy non virò su un tema ben più familiare doman-

dando della salute del cognato.

"Oh Peter s'è fatto un regaletto, è alle Barbados. Non tornerà

prima di martedì."

"Non hai voluto andare con lui?"

"Non me l'ha chiesto, caro. E' andato con quella puttana dei

Servizi Speciali."

Roddy sorrise. "Beh, hai sempre detto di volere un matrimo-

nio aperto."

"Un'espressione interessante, eh? Matrimonio 'aperto'. Come aves-

se a che fare con un canale di scolo o una fogna. Piuttosto appropriato

nel nostro caso, veramente." Pulì, con fare assente, le tracce di rossetto

dall'orlo del suo bicchiere. "Dopo tutto, non è poi quel gran bastardo

che sembra. Mi ha regalato un Matisse per il mio compleanno."

Phoebe non riuscì a contenere il suo stupore. "Possiedi un

Matisse?"

Hilary alzò lo sguardo all'improvviso, e disse: "Oh mio Dio,

ma allora parla". Poi rivolgendosi al fratello: "Il problema è che

stona orribilmente con il verde della stanza da musica. Dovremo

ridipingere tutto di nuovo".

"A proposito di regali," disse Roddy, "lo sai che c'è stato il

compleanno di papà due settimane fa?"

"Oh, merda. Me ne sono completamente dimenticata. E tu?"

"Uscito del tutto di mente."

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"E comunque, perché non è a tavola con noi?"

"Pare abbia avuto un piccolo incidente questo pomeriggio. La

sua sedia a rotelle è sfuggita al controllo."

"Di nuovo Pyles, eh?"

"Insomma." Fece un risolino. "Forse dovremmo allungargli

qualche sterlina per assicurarci che, la prossima volta, faccia bene

il suo lavoro. Credo che, domani, farei bene a porgere i miei

omaggi al vecchio catorcio." Allontanò il piatto mezzo pieno e no-

tò che Conrad si stava ancora dando da fare con il suo. "Non sei

obbligato a finirlo, caro. Non ci offenderemo."

"E' delizioso," disse Conrad.

"No, non è delizioso," disse, con il tono di un adulto che si

rivolge a un bambino ritardato. "Fa schifo."

"Oh," disse lui e appoggiò la forchetta sul tavolo. "Non mi

intendo di cucina," confessò rivolgendosi a tutta la compagnia.

"Conrad è americano," disse Hilary, come se questo spiegasse

tutto.

"Hai molti quadri famosi?" chiese Phoebe.

"Ha un cervello a senso unico, questa qui?" Hilary lasciò ca-

dere il suo commento senza rivolgersi a qualcuno in particolare,

indi posò un dito sul mento nell'ostentato tentativo di ricordare.

"Dunque, fammi pensare. Ho un Klee, un paio di Picasso, e

dei disegni di Turner... più qualche abominevole pugno nell'oc-

chio fatto da qualche protetta di mio fratello..."

"Se pensi che sono così schifosi," domandò Phoebe, "perché

li hai comprati?"

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"Beh, sai, sono una novellina in queste cose. Roddy mi dice

che sono buoni e io gli credo. Siamo tutti alla sua mercé." Ci ri-

fletté sopra un attimo e si piegò leggermente in avanti. "Tranne te,

naturalmente. Dopo tutto, sei una professionista. Ti sarai fatta

un'opinione degli artisti che rappresenta."

"Non vado oltre quel che ho visto la settimana scorsa in gal-

leria."

"E..." Phoebe diede una sbirciata a Roddy e poi si lanciò in

una requisitoria senza ritegno. "E mi sono detta che erano orren-

di. Roba terra terra che in nessuna scuola d'arte appena decente

sarebbe mai passata. Pastelli insulsi, e quegli orribili paesaggi,

con pretese naYf: peccato che, per dirsi naif, non avessero nemme-

no quel po' di... purezza necessaria e sembrassero le improvvisa-

zioni della figlia viziata di qualche pezzo grosso buttati giù per

passare il tempo tra una festa e l'altra. A giudicare dalle foto, pe-

rò, mi pare una bella figliola. Sono sicura che ha fatto colpo all'i-

naugurazione della mostra."

"Si dà il caso che Hermione abbia un grande talento," disse

Roddy indignato. "Sì, è vero che conoscevo suo fratello al Trinity,

ma non tutti quelli che rappresento provengono da quell'ambien-

te, o mi devono essere presentati personalmente. Vado in giro per

le scuole d'arte, sai, per cercare opere nuove. Ho appena scovato

un tale che vive a Brixton. Classe operaia, purissima. E' anche un

affare rischioso: perché mette a soqquadro la tradizione. Prende

delle enormi tele, dà loro una certa angolazione, e poi ci rovescia

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sopra latte intere di colore così che scorra..."

Phoebe sbuffò impaziente. "Quel genere di prodezze ha ri-

scosso interesse per non più di cinque minuti negli anni sessanta.

Siete così facili da abbindolare, voi."

"Non le manda a dire, la creaturina, eh?" disse Hilary.

"Beh, tu capisci, non è mica una questione di poco conto. In

questo modo le reputazioni vengono gonfiate, si promuovono

opere mediocri, e quando poi un buon pittore riesce finalmente

a intrufolarsi nel sistema, avete già spinto i prezzi così in alto

che le gallerie minori non possono permettersi di acquistare nien-

te di suo e tutto finisce nelle collezioni private. In realtà, voi non

fate altro che derubare il paese della sua vera cultura. E' così sem-

plice." Sorseggiò del vino, con qualche imbarazzo.

"Mi chiedo quanto abbia lavorato a questo discorsetto, la ra-

gazza?" disse Hilary.

"Beh, è un'opinione," disse Roddy, "e ha il diritto di averla."

Si voltò verso Conrad sperando di alleggerire l'atmosfera.

"E tu, cosa ne pensi?"

"Non mi intendo molto di arte."

"Bevi un altro goccio, caro," disse Hilary, riempiendogli il bic-

chiere. "Stai andando benissimo."

"Non voglio che la si prenda come una provocazione, o altro,"

disse Phoebe, che, via via, guardava Hilary con crescente sospetto,

"ma avevo l'impressione che tu fossi d'accordo con me al riguar-

do. Credevo che tu avessi bollato l'intera faccenda del collezioni-

smo di arte moderna come forma di snobismo."

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Hilary sgranò gli occhi, incapace di replicare. La sua mano si-

nistra cercò tentoni il cesto della frutta tra i due candelabri d'ar-

gento, staccò un grappolino d'uva, e cominciò a sbucciare un aci-

no, lentamente, passando l'unghia lunghissima fra buccia e polpa.

"Ci siamo già incontrate?" domandò improvvisamente.

"No," disse Phoebe. "No, non credo. Perché?"

"Mi piacerebbe solo sapere," disse, finendo un acino e comin-

ciando a spellarne subito un altro, "cosa ti fa credere di poter in-

tuire le mie opinioni personali."

"Sai cosa ti dico," disse Roddy, tenendo sotto controllo le dita

di sua sorella. "Perché non andiamo tutti in salotto e ci mettiamo

comodi, se vogliamo continuare la nostra chiacchierata?"

"Mi baso semplicemente su quello che ho letto una volta nella

tua rubrica," disse Phoebe. "Ricordo che qualcuno, un uomo

d'affari, credo, aveva appena speso centinaia di migliaia di sterline

per avere un Rothko nella sua collezione privata, e tu prendesti

l'abbrivio per dire che era un vero spreco di soldi, e che, invece,

si sarebbe dovuto investire nella costruzione di scuole e ospedali."

Ci fu una pausa, prima che Hilary dicesse con voce appena

strozzata, "Se ne viene sempre fuori con cose veramente interes-

santi, la ragazza." Poi, rivolgendosi a Phoebe: "E' solo robaccia

per i giornali, capisci? Non scrivo su tavole di pietra. Inoltre,

la mia rubrica è letta da milioni di lettori. Non penserai che divi-

da le mie convinzioni, che divida del mio, con tutta quella marma-

glia, no?"

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"Pensavo fosse proprio a questo che puntassi."

"Fuori c'è qualcosa che si ostinano a chiamare 'realtà'," disse

Hilary. "Ne hai mai sentito parlare?" Non aspettò risposta. "Vedi,

non è che tutti possiamo decidere di fare gli artisti, e vivere in no-

bile clausura, partorendo di tanto in tanto un quadro quando ci

prende l'ispirazione. Alcuni di noi devono lavorare su commissio-

ne e rispettare scadenze, e ottemperare a tante piccole cose di

scarsa importanza come queste. Forse hai solo bisogno che qual-

cuno ti insegni come ci si sente di fronte a una tastiera quando si

devono scrivere due cartelle e i redattori le vogliono nel giro di

trenta minuti."

"Non dipingo per vivere," disse Phoebe. "Faccio l'assisten-

te sanitaria domiciliare. Chiedi a chiunque lavori nel mio setto-

re e scoprirai che sappiamo bene cosa significhi essere sotto

pressione."

"Te ne do un esempio io." Flilary era arrivata ormai al suo

quarto acino. "Essere sotto pressione significa rimanere rintanati

in un albergo del Kent con tre colleghi e un fax, sapendo di dover

mettere insieme un piano di produzione per l'autunno entro il lu-

nedì mattina."

"Forse," disse Phoebe. "Ma si può egualmente dire che si è

sotto pressione quando si hanno venti sterline nel portafoglio sa-

pendo che devono durare fino alla fine della settimana. O quando

ci si ritrova incinte due giorni dopo che tuo marito ha perso il la-

voro. Questi sono i problemi con cui ho a che fare quasi ogni gior-

no, e questa gente non ha nemmeno la consolazione di prendere

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delle decisioni fascinose o destinate a influenzare altra vita che

non sia la loro."

Un ampio sorriso si disegnò sul volto di Hilary, che poi si

volse al fratello. "Ma, caro, questa ragazza è unica. Devo proprio

congratularmi con te. Come hai fatto a trovarla? Ti rendi conto

di cosa abbiamo qui, vero? Ho proprio la sensazione che tu sia

riuscito a scovare una socialista dalla testa ai piedi, in buona fe-

de, fuori moda. Merce spaventosamente rara al giorno d'oggi, lo

sai. Dunque, vecchia volpe, sei riuscito a catturare questa creatu-

ra e a portarla fin qua dentro. E adesso, cosa succede? Speri che

in cattività si accoppierà?"

Roddy balzò in piedi.

"Beh, Hilary: adesso basta. Lasciala in pace."

"Non è un po' tardi per assumere quell'aria cavalleresca?"

"Sei offensiva ora."

"Non te la darà, ciccio. E' così ovvio: io c'ero già arrivata."

Roddy si girò verso gli ospiti. "Mi scuso per mia sorella. Chia-

ramente ha avuto una settimana molto pesante. Il che, però, non

giustifica le sue maniere. Converrete con me che sono state vera-

mente ignobili."

"Non mi intendo molto di maniere," disse Conrad.

Hilary lo abbracciò e lo baciò su una guancia. "Conrad non si

intende di nulla," disse, "tranne che di volare e scopare." Si alzò,

e, prendendogli la mano, lo trasse dolcemente a sé. "Credo sia ora

di mettere alla prova la seconda delle sue abilità. Buona notte a

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tutti e due." E, rivolgendosi a Phoebe, aggiunse: "E' stata proprio

una bella lezione, mia cara. Da non perdere, per nulla al mondo".

Una volta che se ne furono andati, Roddy e Phoebe rimasero

per un po' in silenzio.

"E' stato carino da parte tua," disse Phoebe infine. "Grazie."

Roddy la guardò: probabilmente cercando di capire se c'era

dell'ironia.

"Scusa?"

"Difendermi. Non eri obbligato a farlo."

"Beh, sai... ha oltrepassato i limiti."

"Pare che non abbia una gran bella idea dei motivi per cui tu

mi hai portato qui."

Roddy scrollò le spalle dispiaciuto, e disse: "Forse ha ragione".

"Dunque com'è il contratto?"

"Il contratto?"

"Vengo a letto con te e ottengo... cosa? Una mostra collettiva?

Una personale? Di far parlare la stampa? Delle presentazioni a un

bel manipolo di persone ricche e influenti?"

"Credo che tu stia correndo un po' troppo."

"E sarà questione di una volta sola o la storia andrà avanti con

incontri regolari?"

Roddy si avvicinò al camino elettrico dove i due elementi che

lo componevano facevano, debolmente, del loro meglio per rom-

pere il freddo mortale della stanza. Sembrava sul punto di imbar-

carsi in un discorso.

"Hai proprio ragione, naturalmente." Le parole gli uscirono

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con difficoltà. "Sì, volevo venire a letto con te. Voglio dire, quale

uomo normale non lo desidererebbe? E sapevo che l'unico modo

per... convincerti, era offrirti il mio aiuto per la tua carriera. Cosa

che sono nella posizione di fare. Ma il punto è..." rise goffamente

passandosi la mano fra i capelli, "mi secca ammettere di essere in-

fluenzato da mia sorella, ma sentirla sbraitare in quel modo, mi ha

fatto capire che i miei progetti, persino le mie congetture, erano

stati decisamente... Beh, tutta la faccenda d'un tratto mi sembra

spaventosamente volgare. E sento di doverti delle scuse. Mi di-

spiace veramente di averti portato qui con... illudendoti."

"Devi proprio credere che io sia un'ingenua della più bell'ac-

qua," disse Phoebe, raggiungendolo vicino al camino, "se pensi

che io sia venuta qui senza sospettare nulla."

"E allora perché sei venuta?"

"Eh, bella domanda. Lascia che ti dica due cosette." Si appog-

giò con le spalle alla cappa del camino, girandosi solo di tanto in

tanto per guardarlo negli occhi. "Innanzitutto, anche se sono sin-

ceramente convinta che tu d'arte non capisci quasi niente, che il

potere che eserciti è corrotto, e che i tuoi affari hanno tutta l'aria

di puzzare tanto da far arrivare il marcio in cielo, non ti trovo del

tutto privo di fascino."

Roddy tirò un sospiro di sollievo. "Beh, è già qualcosa, cre-

do."

"Secondo." Phoebe esitò, chiuse gli occhi e disse tutto d'un

fiato. "Non sono mai stata abbastanza coraggiosa per dire queste

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cose a chicchessia, ma, vedi, nel corso degli anni, con gran diffi-

coltà ho costruito una certa... fiducia in me stessa. Nella mia pit-

tura, voglio dire. Anzi, credo di essere arrivata a un livello piutto-

sto buono." Sorrise. "Il che deve suonare molto presuntuoso."

"Per niente."

"Non è sempre stato così. C'è stato un tempo in cui non avevo

alcuna fiducia in me stessa. E' piuttosto... doloroso parlarne, ma,

insomma, è successo quando ero ancora una studentessa. Avevo

smesso di fare l'infermiera per andare alla scuola d'arte, e vivevo

con altre persone Ä dividevamo le spese della casa Ä, quando ven-

ne un tale a stare con noi per qualche giorno. Un ospite. Un gior-

no uscii a far spese, e, quando tornai, lo trovai in camera mia che

guardava un quadro a cui stavo lavorando. Non ero ancora a metà

dell'opera. E fu come se... come se mi avesse vista nuda, credo.

Ma la cosa non finì li: prese a parlare del quadro, ed era così ovvio

che per lui aveva un significato completamente diverso, che qua-

lunque cosa avessi voluto comunicare non c'ero riuscita, e io... Fu

molto strano. Alcuni giorni dopo se ne andò senza dire una paro-

la, senza salutare nessuno. Ci lasciò tutti.., con una sensazione di

vuoto, non so come spiegarlo, e io non ebbi più cuore di rivedere

quei quadri o che li vedesse qualcun altro. Il risultato fu che do-

mandai alla padrona di casa se si poteva accendere un fuoco nel

cortile, e bruciai tutto quello che avevo fatto. Ogni quadro, ogni

disegno. Lasciai la scuola e tornai a fare l'infermiera a tempo pie-

no. E per un po' andò avanti così. Non dipingevo più. Non che

non ci pensassi. Andavo ancora a visitare gallerie, e leggevo tutte

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le riviste, e il resto. Ma c'era questo... spazio vuoto, dentro di me,

che prima si copriva di segni, di pittura, e ora cercavo qualcosa

che lo riempisse: no, non qualcosa, un qualcosa, poiché, in realtà,

non desideravo altro che un quadro, uno qualsiasi, che mi facesse

aprire gli occhi e improvvisamente... mi illuminasse. Conosci que-

sta sensazione? Ma certo: quando incontri un artista le cui opere ti

parlano senza schermi in una lingua segreta ma comune a entram-

bi, dove alla conferma di ciò che fa da sempre parte dei tuoi pen-

sieri s'aggiunge un che di assolutamente inedito, una parola nuo-

va." Roddy era muto, non afferrava. "Non capisci, vero? Non im-

porta. Comunque non è mai accaduto, inutile a dirsi. Accadde, in-

vece, che un paio d'anni dopo ricevetti un pacco da uno dei miei

vecchi insegnanti del college. Avevano fatto un grande repulisti, e

avevano trovato alcuni miei disegni che volevano, evidentemente,

restituirmi. Così aprii il pacco e cominciai a riguardarli. Strano a

dirsi, c'era una prima versione del quadro che, tempo prima, mi

aveva causato così tanti guai, il quadro che quell'uomo aveva to-

talmente frainteso. E rivedendolo, riguardandoli tutti, a dire il ve-

ro, capii quanto si fosse sbagliato: quanto avessi sbagliato io a rea-

gire così intempestivamente. Perché ebbi la certezza, rivedendoli

dopo così tanto tempo, che c'era del buono. Ebbi la certezza di

aver imboccato davvero una strada. Ebbi la certezza che non c'era

in giro nessun altro Ä non dico meglio di me, il mio Io non arriva a

tanto Ä nessun altro che stesse veramente lavorando nella stessa

direzione, o tentando qualcosa di simile... Fu così che tornai ad

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avere fiducia in me stessa, fu così che sentii di aver fatto, in un

modo o nell'altro, qualcosa che almeno mi metteva sullo stesso

piano degli altri pittori, quelli di cui si compravano e si vendevano

le opere, a cui venivano commissionati dei lavori e avevano un po-

sto negli spazi espositivi. E non ho mai perso quella sensazione.

La sensazione di... avere dei meriti. Sappi dunque: sono molto

determinata. Penso che non ci sia nulla, adesso, nulla al mondo

che mi importi di più di trovare un pubblico per le mie opere."

Portò più volte il bicchiere alle labbra e si spostò una ciocca di

capelli dagli occhi. Roddy non proferì verbo per un po'.

"Dunque, domani, non ci resta che dare una scorsa ai tuoi di-

pinti," disse infine, "e vedere cosa si può fare." Phoebe annuì.

"Adesso, è meglio andare a letto." Phoebe levò lo sguardo con

aria interrogativa. "Separatamente," aggiunse Roddy.

"Va bene."

Salirono insieme lo scalone centrale, e all'ingresso del corri-

doio est si diedero un formale bacio della buona notte.

 

 

 

 

4.

 

Phoebe si sentiva piccola piccola nel grande letto a baldacchi-

no. Il materasso era soffice e pieno di protuberanze, e sebbene

avesse deciso di dormire dalla parte più vicina alla finestra si ritro-

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vò sospinta dal peso del corpo dentro a un profondo avvallamento

nel mezzo del letto. Ogni volta che si muoveva il letto cigolava: ma

poi tutta la casa pareva cigolare, o lamentarsi, o sussurrare, o fru-

sciare senza sosta, come se non trovasse pace, e nello sforzo di sot-

trarsi a quell'inquietante colonna sonora, cercò di riflettere sugli

strani eventi della giornata. Era soddisfatta, tutto sommato, di co-

me era andata con Roddy. Ancora prima di arrivare a Winshaw

Towers, aveva preso, riluttante, la decisione di andare a letto

con lui se questa fosse stata una condizione inderogabile per pro-

muovere il suo lavoro, ma era felice di non averlo dovuto fare. Al

contrario, dal loro fine settimana insieme stava prendendo forma

qualcosa di molto più bello e molto più inaspettato: un barlume

di comprensione reciproca. Si accorse persino, con sua grande sor-

presa, che stava cominciando a fidarsi di lui. E nel tiepido bagliore

di questa scoperta, si abbandonò a una fantasia: la stessa fantasia a

cui tutti gli artisti, per quanto buone siano le loro intenzioni, per

quanto saldi siano i loro principi, ricorrono di tanto in tanto. Era

una fantasia di successo; di riconoscimento e acclamazione. Le

ambizioni di Phoebe erano troppo modeste per comprendere ce-

lebrità a livello mondiale o enormi ricchezze, ma sognò, come ave-

va già fatto altre volte, di vedere la propria opera riconosciuta e

apprezzata da altri pittori, di smuovere le esistenze e rinverdire

la sensibilità del pubblico Ä almeno di alcuni visitatori Ä di far mo-

stre, magari nella sua città, così da poter restituire qualcosa alle

persone con cui era cresciuta, e ripagare i genitori della fiducia

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e della pazienza che le avevano sempre garantito e che erano state

così preziose durante i momenti più difficili in cui aveva dubitato

di se stessa. Al pensiero che una parte o persino tutto questo po-

tesse miracolosamente accadere, allungò le gambe sotto le umide

lenzuola grigiastre, aggiungendo un nuovo coro di deliziosi scric-

chiolii alla furtiva concitazione della casa. Ma all'improvviso sentì

anche un altro rumore. Proveniva da dietro la porta, che, per pre-

cauzione, aveva chiuso a chiave prima di andare a letto. Si mise a

sedere con cautela e allungò la mano verso la lampada sul como-

dino, che gettò nella stanza una luce fioca, debolissima. Guardò

verso la porta. All'improvviso, sentendosi come la protagonista

di un filmaccio dell'orrore e, per giunta, affatto originale, ebbe

la netta sensazione che la maniglia stesse girando. C'era qualcuno

nel corridoio che cercava di entrare.

Phoebe balzò giù dal letto e in punta di piedi raggiunse la por-

ta. Indossava una pesante camicia da notte di cotone a righe, mol-

to accollata davanti e lunga quasi fino alle ginocchia.

"Chi è?" domandò impavida, tradita solo da un leggero tre-

molio della voce, all'ennesima pressione sulla maniglia.

"Phoebe? Sei sveglia?" Era la voce di Roddy.

Sospirò esasperata. "Beh, certo che sono sveglia," disse apren-

do la porta e tenendola socchiusa. "Se non lo ero prima, lo sono

certamente ora."

"Posso entrare?"

"Suppongo di sì."

Aprì la porta e Roddy, che indossava un kimono di raso, sci-

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volò lesto dentro e si sedette sul letto.

"Che c'è?"

"Vieni a sederti un attimo."

Si sedette accanto a lui.

"Non riuscivo a dormire," disse.

La giustificazione non pareva avesse seguito.

"Quindi?"

"Quindi ho pensato di venire a vedere come stavi."

"Sto bene. Voglio dire, non ho contratto nessun morbo letale

o altro nell'ultima mezz'ora."

"Volevo dire che sono venuto a verificare che non fossi ancora

troppo sconvolta."

"Sconvolta?"

"Per mia sorella, e... oh, non so, per tutto. Pensavo che forse

era stato troppo per te."

"E' molto gentile da parte tua, ma mi sento bene. Veramente. Ho la

pelle dura, sai." Sorrise. "Sei sicuro di essere venuto solo per questo?"

"Certo che sì. Beh, soprattutto per questo." Si avvicinò ti-

morosamente a lei. "Ero nel mio letto, se lo vuoi sapere, pensan-

do a quella storia che mi hai raccontato. Di quando hai bruciato

tutti i tuoi quadri. Pensavo Ä correggimi se sbaglio Ä che non è il

genere di storia che si racconta a chiunque. Ho pensato che for-

se," (le mise un braccio attorno alle spalle) "comincio a piacerti

un po'."

"Forse," disse Phoebe, scostandosi un pochino da lui.

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"C'è qualcosa tra di noi, vero?" disse Roddy. "Non me lo sto

soltanto immaginando. Giù da basso è cominciato qualcosa."

"Forse," ripeté Phoebe. La sua voce era atona. Si sentiva come

estraniata dalla situazione, e, all'inizio, si accorse appena che Rod-

dy la baciava dolcemente sulla bocca. Al secondo bacio, però, non

restò insensibile: sentì la lingua di lui che le scivolava fra le labbra

umide. Lo allontanò dolcemente e disse: "Senti, non so se questa

è una buona idea".

"No? Ti dirò io qual è una buona idea, allora. Il 13 novem-

bre."

"il 13 novembre?" disse, senza rendersi conto che aveva preso

a sbottonarle la camicia da notte. "Cosa c'è?"

"La vernice della tua mostra, naturalmente." Sbottonò gli ul-

timi tre bottoni.

Phoebe rise. "Parli sul serio?"

"Certo." Roddy le mise a nudo le spalle. La sua pelle, nel debole

bagliore dell'abat-jour, pareva d'oro puro: ocra, quasi. "Ho consul-

tato la mia agenda. E' il più presto possibile."

"Ma non hai ancora visto i miei quadri," disse Phoebe, quan-

do le dita diluì cominciarono a tracciare una linea dal collo alla

clavicola e oltre.

"Significa che dovremo organizzarci," disse Roddy, baciando-

la di nuovo sulle labbra aperte per lo stupore. "Ma chi se ne im-

porta." Aprì ancora la camicia da notte e le sfiorò il seno con la

mano.

Phoebe si sentì spinta indietro verso i cuscini. Sentiva le dita di

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lui accarezzare l'interno delle sue cosce. La sua mente veleggiava

lontano. Non mancava poi molto al 13 novembre. Aveva abba-

stanza quadri per una mostra importante? Quadri di cui fosse

realmente soddisfatta? C'era il tempo necessario per ultimare le

due grandi tele incompiute nel suo studio? L'impeto dell'eccita-

zione la rese debole e confusa. La sua mente era così presa a scio-

mare le diverse possibilità che permettere a Roddy di stendersi su

di lei parve quasi automatico: del kimono s'era già disfatto rivelan-

do forti avambraccia e un petto senza peli, e ora si faceva strada

con le ginocchia fra le sue gambe mentre la lingua lavorava assi-

dua intorno a un capezzolo. Infine riemerse l'impulso di resistere

e il suo corpo si irrigidì.

"Senti, Roddy, dobbiamo parlarne."

"Lo so. Ci sono centinaia di cose di cui dovremmo parlare.

Dei prezzi, per esempio."

A dispetto di sé, rispose al movimento della mano di lui, allar-

gando ancora di più le gambe. "... Prezzi?" disse Phoebe a fatica.

"Dobbiamo alzarli il più presto possibile. Ho dei clienti giap-

ponesi che pagherebbero trenta o quarantamila per una tela gran-

de. Tre metri per quattro, o qualcosa di simile. Quadri astratti,

paesaggi, minimalismo, tutto: a loro non importa. A proposito,

che ne dici? Ti piace?"

"Trenta o quaranta...? Ma io non ho mai dipinto nulla che...

Sì, sì, mi piace."

"Rimani qui un attimo."

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Si tirò su dal letto e prese qualcosa dal cassetto del comodino.

Phoebe sentì il rumore di un pacchetto che veniva aperto e di

qualcosa di gomma che veniva srotolato.

"Dovremo fare una mostra anche a New York, naturalmente,"

disse Roddy, dandole le spalle mentre le sue dita si muovevano

con la destrezza che era frutto di una lunga pratica, "dopo averla

tenuta a Londra per alcune settimane. Ho una specie di accordo

di gemellaggio con una galleria di laggiù, quindi non prevedo al-

cun intoppo." Rimise a posto il pacchetto e si sdraiò sulla schiena.

"Beh, cosa ne pensi?"

"Penso che tu sia matto," disse Phoebe ridendo dalla gioia.

Raccogliendo l'invito dei suoi occhi, Phoebe si sollevò e si sdraiò

su di lui: i suoi capelli gli sfioravano il viso. "Penso anche che que-

sto non dovrei farlo."

Ma lo fece.

Roddy si addormentò subito dopo. Dormiva sul fianco, rivolto

verso la parete, occupando tre quarti del letto. Phoebe si appiso-

lava di tanto in tanto, mentre la sua mente danzava ancora al suo-

no di quelle promesse, inondata dalla visione di future glorie. A

un certo punto fu svegliata da voci provenienti dai campi fuori

della finestra. Spostando le tende vide due figure con delle mazze

da croquet in mano che si rincorrevano sul prato illuminato a

giorno. La risata acuta di Hilary si confuse con il riso più in sor-

dina di Conrad quando questi se ne uscì con il suo "Non mi in-

tendo molto di croquet". Erano entrambi nudi, o così pareva.

Phoebe ritornò a letto, cercò di far spostare Roddy, ma non ci

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riuscì, e non avendo altra scelta, aderì contro la sua schiena. Per

un po' provò a tenere il braccio intorno alle sue spalle: ma se aves-

se abbracciato un blocco di marmo sarebbe stato lo stesso.

 

 

La svegliarono gli alti gemiti che provenivano da una stanza

lontana. Era sola nel letto, e il tempo era grigio e piovigginoso.

Pensò che dovevano essere le nove o le dieci di mattina. Si infilò

frettolosamente camicetta e pantaloni sopra la camicia da notte e,

fatti scivolare i piedi nudi nelle scarpe, uscì nel corridoio a inda-

gare. Pyles passava proprio in quel momento, e portava, zoppi-

cando, un vassoio con sopra quel che rimaneva, ormai congelato,

di una colazione non consumata.

"Buon giorno, signorina Barton," disse senza scomporsi.

"E' successo qualcosa?" chiese lei. "Sembra che qualcuno stia

soffrendo."

"Temo che il signor Winshaw risenta delle conseguenze della

mia disattenzione di ieri. La contusione è più grave di quanto pen-

sassimo."

"Qualcuno è andato a chiamare il dottore?"

"Credo che il dottore preferisca non essere disturbato di do-

menica."

"Allora lo visiterò io."

Le parole di Phoebe furono accolte da un silenzio stupefatto.

"Sono un'infermiera qualificata."

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"Forse esagero ma penso, credetemi, che non sia il caso,"

mormorò il maggiordomo..

"Ma che peccato."

Si affrettò lungo il corridoio, fermandosi davanti alla porta da

cui provenivano i lamenti, poi bussò ed entrò lesta. Mortimer

Winshaw Ä di cui aveva intravisto il viso pallido e malconcio die-

tro la finestra il giorno avanti, appena arrivata Ä era seduto a letto,

con le mani che stringevano il lenzuolo e i denti serrati dal dolore.

Quando Phoebe entrò, schiuse gli occhi e si tirò il copriletto fino

al mento, come se il pudore gli avesse imposto di nascondere le

macchie di uova sul pigiama.

"Chi è lei?" disse.

"Mi chiamo Phoebe," rispose. "Sono un'amica di suo figlio."

Mortimer sbuffò indignato. "Sono anche un'infermiera. L'ho sen-

tita dalla mia camera e ho pensato che avrei potuto fare qualcosa

per aiutarla. Deve stare molto male."

"Come faccio a sapere che è una vera infermiera?" chiese do-

po una pausa.

"Beh, dovrà fidarsi di me."

Gli sguardi si incrociarono.

"Dove le duole?"

"Tutto qui sotto." Mortimer rovesciò il copriletto e abbassò i

pantaloni del pigiama. La coscia destra era gonfia e coperta di

ematomi. "Quel tonto di un maggiordomo. Probabilmente ha cer-

cato di uccidermi."

Phoebe esaminò la contusione, poi, gli sfilò del tutto i panta-

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loni del pigiama.

"Mi dica se le fa male."

Gli sollevò la gamba provando l'ampiezza di movimento del-

l'anca.

"Certo che mi fa male, un male della madonna," disse Morti-

mer.

"Beh, comunque non c'è nulla di rotto. Basterebbero degli an-

tidolorifici."

"Ci sono delle pastiglie in quel cassettone laggiù. A centinaia."

Gli fece prendere due Coproxamol con un bicchiere d'acqua.

"Fra un minuto faremo un impacco di ghiaccio. Dovrebbe

aiutare a sgonfiare. Le dispiace se le tolgo questa fasciatura?"

La fasciatura intorno al polpaccio era lenta lenta e fatta con

una benda ingiallita che avrebbe dovuto essere cambiata da un

pezzo. Sotto c'era una brutta piaga.

"Come mai quell'infida bestia di mio figlio porta quassù delle

infermiere?" disse mentre gli srotolava la fasciatura.

"Dipingo, anche," spiegò Phoebe.

"Ah. E' brava?"

"Non sta a me dirlo."

Prese un batuffolo di cotone dal cassettone, dell'acqua dal lavan-

dino della stanza da bagno adiacente, e prese a nettargli la piaga.

"Ha un tocco delicato," disse Mortimer. "E' pittrice e infer-

miera. Bene, bene. Due cose che richiedono impegno e vocazione,

direi. Ha uno studio suo?"

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"No, uno mio no. Ne divido uno con un'altra donna."

"Non mi pare la soluzione ideale."

"Mi arrangio." Prese una striscia di garza pulita e cominciò ad

avvolgerla attorno alla gamba fragile e ossuta. "Quando è stata

cambiata questa fasciatura l'ultima volta?"

"Il dottore viene due volte alla settimana."

"Dovrebbe essere cambiata quotidianamente. Da quanto tem-

po è sulla sedia a rotelle?"

"Da un anno circa. Ho cominciato con l'artrite: poi sono ve-

nute queste piaghe." La guardò all'opera per qualche minuto, e

disse: "E' carina, sa?" Phoebe sorrise. "Fa tutto un altro effetto

vedere una giovane donna in questo posto."

"A parte sua figlia, vuole dire."

"Cosa, Hilary? Non mi dica che è qui anche lei."

"Non lo sapeva?"

Mortimer serrò i denti. "Lasci che la metta in guardia sulla

mia famiglia," disse infine, "nel caso che non l'abbia già capito

da sola. Sono il branco più abietto, spietato e rapace di bastardi

pitocchi e di infide bisce che abbia mai strisciato sulla faccia della

terra. E includo nel mucchio anche i miei figli."

Phoebe, che stava per fissare la benda, si fermò e lo guardò

sgomenta.

"Ci sono stati solo due membri come si deve nella mia famiglia:

Godfrey, mio fratello, morto in guerra, e mia sorella Tabitha, che

da cinquant'anni loro sono riusciti a tener chiusa in manicomio."

Phoebe quelle cose non voleva assolutamente sentirle, non sa-

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peva bene neanche lei perché. "Andrò a prendere un impacco di

ghiaccio," disse alzandosi in piedi.

"Prima che se ne vada," disse Mortimer, mentre Phoebe si av-

viava verso la porta, "quanto la pagano?"

"Come, prego?"

"All'ospedale, o dovunque lavori."

"Oh, non molto. Proprio non molto."

"Venga a lavorare per me," disse. "Le darò un salario adegua-

to." Ci pensò un attimo e propose una somma a cinque cifre.

"Qui di me non si curano. Non ho nessuno con cui parlare. E

lei potrebbe dipingere. Nessuno usa la metà 'di queste stanze. Po-

trebbe avere un suo studio: molto grande."

Phoebe rise. "E' molto carino da parte sua," disse. "E la cosa buffa

è che se me lo avesse chiesto ieri, probabilmente avrei accettato. Ma

sembra proprio che debba smettere di fare l'infermiera per sempre."

Sogghignando, Mortimer disse ruvido: "Non ci conterei trop-

po". Ma Phoebe se n'era già andata.

 

 

Terminata la sua opera di assistenza, Phoebe si lavò, si vestì e

arrivò in sala da pranzo giusto in tempo per vedere Pyles che spa-

recchiava piatti e zuppiere.

"Speravo di poter fare colazione," disse.

"La colazione è già stata servita," rispose, senza alzare lo

sguardo. "Siete in ritardo."

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"Potrei farmi un toast: se c'è un tostapane da qualche parte."

La fissò come se fosse pazza.

"Temo non sia possibile," disse. "Sono rimasti dei rognoni

freddi. E' tutto. E delle animelle."

"Lasci stare. Sa per caso dov'è Roddy?"

"Il signorino Winshaw, per quanto ne so, è nella biblioteca

della dependance. Con la signorina Hilary."

Diede a Phoebe una serie di complicate istruzioni che, se-

guite alla lettera, finirono per portarla in una specie di lavan-

deria nel seminterrato. Imperterrita, ritornò di sopra e vagò

per i corridoi per una decina di minuti finché non sentì, die-

tro una porta semiaperta, fratello e sorella che parlavano e ri-

devano. Aprì la porta e si ritrovò in una grande stanza che pa-

reva, contemporaneamente, gelida e senz'aria. Roddy e Hilary

avevano i suoi disegni sul tavolo e li stavano sfogliando velo-

cemente: non facevano in tempo a gettare una rapida occhiata

a uno che già passavano al successivo. Hilary alzò lo sguardo

e, vedendo Phoebe in piedi sulla porta, si ricacciò la stridula

risata in gola.

"Bene, bene," disse. "Ecco Florence Nightingale in persona.

Pyles ci ha raccontato della tua opera di misericordia."

"Vuoi che ti parli di qualcuno di questi?" domandò Phoebe

ignorandola, e puntando dritta verso Roddy.

"Sarà bene che vi lasci soli, piccioncini, a programmare il vo-

stro brillante futuro insieme," disse Hilary. "Cocktail in terrazza

fra mezz'ora, ci state?"

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"Facciamo tra un quarto d'ora," disse Roddy. "Non ci vorrà

molto."

Hilary chiuse la porta dietro di sé e lui riprese la sua espressio-

ne di disincantata sufficienza. Guardandolo, Phoebe fu presa da

un tremito d'ansia. Non sapeva cosa la preoccupasse di più: se

il silenzio sui quadri che egli aveva davanti o l'assenza di qualsivo-

glia commento, almeno fino a ora, sugli eventi di quella notte. Era

in piedi accanto a lui e per un attimo gli tenne posata la mano sul

braccio ma avvertì solo la rigidità dell'indifferenza. Al che, Phoe-

be andò a mettersi vicino alla finestra. Qualche minuto dopo,

Roddy chiuse bruscamente la cartelletta. Un quadretto Ä un sem-

plice acquerello di tetti innevati, parte di una serie di illustrazioni

nataljzie che le aveva commissionato un'azienda locale e che lei

aveva accettato di fare con qualche riluttanza Ä giaceva sul tavolo.

Roddy prese il disegno, lo avvicinò al muro e provò a metterlo ad

altezze diverse. Poi lo riappoggiò sul tavolo.

"Per quello, cinquanta," disse.

Phoebe non capì.

"Scusa?"

"Francamente, è anche più di quel che vale. Ma mi sento ge-

neroso questa mattina. Prendere o lasciare."

"Mi stai offrendo di comprare quel quadretto... per cinquanta

sterline?"

"Sì. Coprirebbe perfettamente quella macchia di umidità, non

trovi?"

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"E degli altri, cos'hai intenzione di fare?"

"Gli altri? Beh, per essere onesti, speravo di scoprire qualcosa

di più eccitante. Qui non vedo proprio nulla che giustifichi un in-

vestimento."

Phoebe rifletté un momento.

"Bastardo," disse.

"Non c'è motivo di farne una questione personale," disse

Roddy. "I gusti sono gusti. Alla fin della fiera, è tutto soggettivo."

"Dopo tutto quello che hai detto la notte scorsa."

"Ma non avevo visto ancora niente la notte scorsa. E tu intan-

to ti sbattevi per metterti in mostra."

Phoebe corrugò la fronte e disse con voce sepolcrale: "E' forse

uno scherzo?"

"Mia cara," disse, "la Narcissus Gailery ha una fama interna-

zionale. Credo che chi scherza qui dentro sei tu, se pensi che uno

di quegli... sgorbi da scolaretta possa mai trovarvi posto."

"Capisco." Guardò fuori della finestra coperta da uno spesso

strato di polvere. "Tutto questo daffare per una sveltina? Voglio

dire, non so quali siano i tuoi standard nel settore, ma non credo

che sia stato niente di speciale.

"Beh, naturalmente, ho anche avuto il piacere della tua com-

pagnia per il fine settimana. Bisogna tenerne conto. Rimani per il

pranzo, spero?"

Phoebe inspirò forte e gli si fece dappresso. "Piccolo viscido

pezzo di merda. Chiama un taxi. Immediatamente."

"Come desideri. Gli dirò di aspettare in fondo al vialone d'in-

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gresso, va bene?"

Furono le ultime parole che le disse. Chiuse la porta dietro di

sé, lasciandola sola, ammutolita, piccola piccola dentro quella

stanza enorme. Nelle ore immediatamente seguenti Phoebe riuscì

a contenere la sua rabbia, chiusa in un impietrito silenzio. Nulla

disse all'autista che, portandola alla stazione di York, le rovesciò

addosso una piena di chiacchiere, rumore indecifrabile per la sua

mente in corsa, interferenze, come il gracchiare di una radio. Nul-

la disse agli altri passeggeri sul treno, o sull'autobus che la ricon-

dusse a casa. Fu solo quando rimise piede in camera sua e scoprì

non solo che era ancora occupata dall'equipaggiamento da body

building di Darren, ma che uno dei manubri aveva infranto il ve-

tro della sua preziosa stampa di Kandinskij, fu solo allora che crol-

lò pesantemente sul letto sciogliendosi in lacrime: lacrime brevi,

purificatrici, che sapevano d'odio.

Più tardi quella settimana, telefonò a Mortimer e gli disse che

aveva ripensato alla sua offerta. Ne fu così lieto che le aumentò il

salario di duemila su due piedi.

 

 

Ora, più di un anno dopo, in piedi nell'angolo della galleria,

con un bicchiere appiccicoso in mano, e dentro vino caldo e

svampito, non aveva motivo per rimpiangere la sua decisione.

Era felice di essere fuggita dall'atmosfera sempre più difficile del-

l'appartamento; e sebbene Mortimer si fosse rivelato un paziente

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esigente (incline a esagerare le proprie sofferenze) e una compa-

gnia poco piacevole (incapace di concentrarsi a lungo su altro te-

ma che non fosse l'odio ossessivo e quasi omicida per la sua fami-

glia), doveva trascorrere con lui solo poche ore al giorno. Il resto

del tempo era libera di fare il suo lavoro, e aveva avuto modo di

sistemarsi in una grande stanza ben illuminata al secondo piano

che usava come studio. Era una vita solitaria, ma le era permesso

ricevere amici e prendersi di tanto in tanto un fine settimana libe-

ro. Le mancavano quella stima di sé e quel senso di utilità sociale

che provava quando era assistente sanitaria, ma si consolava al

pensiero che presto sarebbe ritornata a esserlo. Non che pensasse

di abbandonare Mortimer, il quale ormai dipendeva da lei sempre

di più. Ma era ovvio, ormai, che al prossimo aggravarsi della sua

malattia non ci sarebbe stato seguito.

Per quanto ne sapeva, Roddy non era a conoscenza della sua

nuova occupazione: non era stato a Winshaw Towers nemmeno

una volta dal loro weekend insieme. Quando fu di nuovo il com-

pleanno di Mortimer, Roddy assolse il suo dovere di figlio man-

dandogli un biglietto e un invito per l'ultima vernice in galleria,

sapendo perfettamente che suo padre, relegato su una sedia a ro-

telle, non avrebbe potuto prendervi parte. Mortimer aveva passa-

to l'invito a Phoebe con un bieco sorriso, e le aveva dato il per-

messo di andarvi se lo avesse desiderato. E quindi eccola li.

Adesso, stufa di essere ignorata dagli altri ospiti, era sul punto

di farsi avanti e ripresentarsi a Michael quando vide che lui e il

suo amico stavano indossando i soprabiti e si preparavano a usci-

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re. Lasciò il bicchiere mezzo vuoto sul tavolo, si fece largo tra la

folla e li seguì fuori. Erano già avanti, immersi in una fitta conver-

sazione; non c'era motivo di seguirli. Li guardò sparire dietro un

angolo, poi, scossa da un brivido di freddo, si abbottonò per bene

la giacca. Novembre cominciava a farsi sentire. Guardò l'orologio

e realizzò che faceva ancora in tempo a prendere l'ultimo treno

per York.

 

 

 

 

 

 

NOVEMBRE 1990.

 

"Andiamo via da questo squallido convegno," disse Findlay,

prendendomi per il braccio. Faceva segno verso i quadri. "Ghiri-

gori, fronzoli, trastulli squillanti di una società in declino: non of-

fendiamo più i nostri occhi con la loro vista. Il fetore di questa

marcia ricchezza, di tutto questo autocompiacimento mi soffoca.

Non posso sopportare la compagnia di siffatta gente un minuto

di più. Un po' d'aria fresca, per pietà."

Con questo, mi spinse verso la porta, fuori nella fresca sera in-

vernale di Piccadilly. Appena usciti, si appoggiò al muro di peso,

il dorso di una mano sulla fronte e l'altra sventolata davanti al viso

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teso e pallido per farsi aria.

"Quella famiglia," bofonchiò. "Non la reggo per più di pochi

minuti: mi fa venire letteralmente il voltastomaco. Nauseanti."

"Ce ne erano solo due," sottolineai.

"Meglio: altrimenti avrebbero potuto riconoscermi. C'è qual-

che Winshaw che ha la memoria lunga. E questo accade perché

hanno orribili segreti da tener nascosti."

Solo Roddy e Hilary erano alla vernice, ma né l'uno né l'altro,

benché li avessi incontrati in diverse occasioni, si era degnato di

salutarmi. In un qualsiasi altro momento, avrei tentato di farmi

notare, ma stasera ero troppo impegnato a studiare la mia nuova

conoscenza. Era un uomo piccolo, dalle spalle curve e il corpo se-

gnato dal peso dei suoi novant'anni e rotti; ma il gusto con cui im-

pugnava il bastone dalla punta dorata, e la testa spettacolarmente

bianca di capelli scolpiti, riuscivano a nascondere la sua età. Fu

anche impossibile non notare, d'acchito, un intenso profumo di

gelsomino in cui (mi spiegò più tardi) era avvezzo immergersi pri-

ma di mettere piede fuori di casa, quindi almeno uno degli enigmi

su cui mi ero arrovellato nelle ultime settimane era finalmente ri-

solto.

"Dunque, signor Owen" cominciò.

"Michael, la prego."

"Michael. Dobbiamo procedere con i nostri affari. Sento che

mi sto riprendendo. La forza sta ritornando nelle mie deboli ossa.

Posso quasi camminare. Dov'è che preferisci andare?"

"Per me fa lo stesso."

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"Ci sono molti bar qui vicino, naturalmente, dove ai genti-

luomini del mio stampo piace riunirsi. Ma forse non è il mo-

mento adatto. Non vogliamo distrazioni, dopo tutto. La privacy

è di assoluta importanza. Ho la macchina parcheggiata a pochi

isolati da qui, sempre che gli sbirri non l'abbiano rimossa. Non

sono un grande ammiratore dei poliziotti, siamo ai ferri corti da

molti anni; è una delle cose che scoprirai subito su di me. Il mio

appartamento è a Islington. Venti minuti all'incirca. Può an-

dare?"

"Va bene."

"Spero che tu abbia portato la documentazione necessaria,"

disse, quando imboccammo Cork Street.

Si riferiva al pezzo di carta ingiallito, il messaggio scribacchiato

quasi cinquant'anni fa da Lawrence Winshaw, che la sorella Tabi-

tha, nella sua semplicità, riteneva essere prova della colpevolezza

del fratello, ma devo dire che l'insistenza su questo punto suonò

stentorea e arrogante, e mi diede fastidio. In fondo avevo accanto

l'uomo che poco tempo prima aveva rubato il mio manoscritto

dall'ufficio del mio editore, che mi aveva seguito due volte a casa

e aveva spaventato Fiona a morte. A essere giusti, non aveva lesi-

nato in scuse nella sua lettera, ma tuttavia non mi sembrava anco-

ra in una posizione tale da poter dettare condizioni.

"L'ho portata, sì," dissi. "Ma non ho ancora deciso se mo-

strargliela o meno."

"Su, su, Michael," disse Findlay in tono di rimprovero, bac-

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chettandomi sulla gamba col suo bastone. "Ci siamo dentro tutte

e due. Abbiamo lo stesso obiettivo, arrivare alla verità: e ci arrive-

remo più in fretta se cooperiamo. Dunque, i miei metodi sono un

po' fuori delle regole. Lo sono sempre stati. Non si possono cam-

biare le abitudini di una vita: ed è una vita che io lavoro a questo

caso."

"Ce ne saranno stati ben altri?"

"Oh sì, un piccolo recupero di debiti qua, un divorzietto là.

Niente che valga la pena di chiamare indagine. La mia carriera,

sai, è stata... come posso dire... sporadica. La mia attività profes-

sionale è stata frequentemente interrotta per motivi di... beh, di

piacere."

"Piacere?"

"il piacere di Sua Maestà, per essere precisi. Galera. Gatta-

buia. Ho trascorso gran parte della mia vita in prigione, Michael:

infatti, che tu ci creda o no, solo quest'anno ho avuto una so-

spensione condizionale di due mesi. Sto, come si dice, col culo

scoperto." E se ne uscì con una risata malinconica. "Espressione

alquanto ironica, se consideri che tutta questa persecuzione, que-

sta caccia che continuano a darmi da tutta una vita, è il prezzo di

pochi momenti felici rubati di tanto in tanto nell'oscurità di un

bagno pubblico o nella sala d'attesa di una stazione ferroviaria

di periferia. Avresti mai pensato che la nostra società potesse es-

sere così crudele? Punire un uomo per i suoi più naturali desi-

deri, per aver assecondato il bisogno sconsolato e solitario di ac-

compagnarsi a uno sconosciuto di passaggio. Non è colpa nostra

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se non sempre può aver luogo a porte chiuse, se talvolta ci si de-

ve arrangiare un po', andando al sodo senza formalità. Dopo tut-

to non abbiamo scelto noi il posto che ci è stato assegnato sulla

terra." Improvvisamente il suo tono di voce, che stava diventan-

do sempre più rabbioso, si chetò. "A ogni modo, questo c'entra

come i cavoli a merenda. No, questo non è stato il mio unico

caso negli ultimi trent'anni, per rispondere alla tua domanda,

ma è l'unico che non ha avuto esito positivo. Il che non significa

che io non abbia dei sospetti o delle mie personali teorie. Man-

cano solo le prove, purtroppo."

"Capisco. E quali sono esattamente le sue personali teorie?"

"Beh, ci vorrà un po' per spiegarlo. Aspettiamo almeno di sa-

lire in macchina. Fai ginnastica, Michael? Frequenti una palestra,

o qualcosa di simile?"

"No. Perché me lo chiede?"

"E' solo perché hai delle natiche straordinariamente sode. Per

uno scrittore, intendo. E stata la prima cosa che ho notato."

"Grazie," dissi, in mancanza di meglio.

"Se ti accorgi che la mia mano vaga in quella direzione, in

qualsiasi momento della sera, ritieniti libero di farmelo pure nota-

re. Temo di essere un incorreggibile palpeggiatore di questi tempi.

Più divento vecchio, meno riesco a controllare la mia maledetta

libidine. Non bisogna usare le debolezze di un vecchio contro

di lui."

"Certo che no."

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"Sapevo che avresti capito. Eccoci: è la Citroen due cavalli az-

zurra."

Ci volle un po' prima che ci sistemassimo in macchina. Le vec-

chie articolazioni di Findlay gemettero rumorosamente quando si

abbassò per entrare al posto di guida, e poi, mentre trafficava alla

ricerca di un posto adatto per deporre il bastone, perse le chiavi,

che io dovetti recuperare, contorcendomi tutto e quasi stirandomi

un muscolo nell'allungare la mano dietro la leva del cambio. Una

volta acceso il motore, al quarto tentativo, Findlay cercò di partire

in folle e con il freno a mano tirato. Mi lasciai andare contro il

sedile, e mi rassegnai all'idea di un viaggio a strattoni.

"E stato con sommo stupore che ho appreso di questo libro

che stavi scrivendo," disse Findlay mentre ci dirigevamo verso

Oxford Street. "Tu non sai la gioia di poter dire che negli ultimi

dieci anni ho rivolto sì e no un mezzo pensierino a quell'orribile

famiglia. Posso chiederti cosa può aver indotto un giovanotto af-

fascinante e, se non ti dispiace che mi esprima così, bello come te

a lasciarsi immischiare con quella ignobile gentaglia?" Gli raccon-

tai la storia di Tabitha e di come mi aveva offerto quell'incarico

speciale.

"Curioso," disse. "Molto curioso. Ci deve essere una nuova

strategia dietro tutto ciò. Mi chiedo che intenzioni abbia. Hai par-

lato con il suo avvocato?"

"Avvocato?"

"Pensaci, mio caro giovine. Una donna confinata in un istituto

per malattie mentali non è esattamente nella posizione di andare

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in giro a costituire fondi fiduciari a suo piacimento. Ha bisogno

di una persona fidata che agisca per suo conto, proprio come fece

trent'anni fa, quando decise di avvalersi dei servigi di un investi-

gatore privato. Sospetto che continui ad agire tramite lo stesso ti-

po, se è ancora vivo, ovviamente. Si chiamava Proudfoot, un uo-

mo del posto, abbastanza privo di scrupoli da farsi allettare dal

pensiero di tutto quel denaro depositato in conti bancari ad altis-

simo interesse."

"E fu il primo ad avvicinarla: è così che si trovò invischiato co-

gli Winshaw?"

"Dunque, da dove posso cominciare?" Eravamo in attesa a un

semaforo rosso, e Findlay aveva tutta l'aria di uno che sta sprofon-

dando nel labirinto della memoria. Fortunatamente il furioso clac-

son di un'auto dietro di noi lo risvegliò bruscamente. "Sembra co-

sì tanto tempo fa. Mi vedo quasi giovane nel ricordo. Ridicolo.

Avevo già sessant'anni. Pensavo di ritirarmi. Sognavo lunghe gior-

nate di lussuria sotto il sole, in Turchia o in Marocco, o da qual-

che altra parte. Beh, guarda che ne è stato di quella idea... Londra

è il posto più a sud dove sono arrivato.

"E comunque, eccomi là, a Scarborough godo d'un certo pre-

stigio, tiro avanti discretamente, i soldi entrano. Unica nuvola al-

l'orizzonte, come al solito, la tendenza della polizia locale a piom-

barmi addosso ogni volta che rimango coinvolto in qualche inno-

cua birichinata. Anzi, ora che ci penso, su quel fronte le cose an-

davano sempre peggio, perché per un po' di anni avevo beneficia-

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to di un accordo, reciprocamente soddisfacente, con un sergente

che, ahimè, venne trasferito nel nord-ovest. Era una bellezza: Her-

bert, credo si chiamasse... uno e novanta di solidi muscoli e un

fondoschiena che pareva una pesca matura..." Sospirò e tacque

per qualche istante. "Scusa, credo di aver perso il filo."

"Tirava avanti discretamente."

"Esatto. E poi un pomeriggio.., all'inizio del 1961, sì, credo

che fosse allora, si fece vivo questo Proudfoot, l'avvocato. Non

appena fa il nome di Tabitha Winshaw, capisco che non è robetta

da niente quella che il destino mi lascia davanti alla porta di casa.

Tutti sapevano della famiglia Winshaw e della vecchia sorella paz-

za, sa. Non si parlava d'altro da quelle parti. E ora ecco che si pre-

senta questo individuo sudicio e alquanto ripugnante Ä con cui,

sono lieto di poterlo dire, ho continuato, anche in seguito, a ridur-

re i contatti al minimo indispensabile Ä che mi porta un messaggio

da parte di quella donna li. La mia reputazione l'aveva raggiunta,

pare, e aveva un lavoro da assegnarmi. Un lavoretto da niente, un

gioco da bambini, all'inizio. Oh scusa. Soffri il solletico?"

"Un po'," risposi. "E comunque sarebbe meglio che tenesse

tutte e due le mani sul volante quando guida."

"Hai ragione, naturalmente. Dunque, tu sai, credo, che quan-

do l'aereo venne abbattuto, Godfrey non era solo. C'era il secon-

do pilota. E' evidente che Tabitha era tormentata da questo pen-

siero e aveva deciso di rintracciare la famiglia di quell'uomo sfor-

tunato per potere, in qualche modo, riparare finanziariamente,

una specie di ammenda, la considerava, per il tradimento di suo

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fratello. Quindi il mio compito fu trovarla."

"E lo fece?"

"A quei tempi, Michael, ero al massimo delle mie capacità. Fi-

siche e mentali. Un simile incarico non rappresentava una sfida

per un uomo con la mia esperienza e le mie abilità: fu un lavoro

di pochi giorni. Ma feci di più e riuscii a fornire a Tabitha più di

quanto mi avesse chiesto. Trovai l'uomo in persona."

Lo fissai sorpreso. "Intende dire il secondo pilota?" "Eggià.

Lo trovai vivo e vegeto, viveva a Birkenhead, e con una storia

da raccontare estremamente affascinante. Si chiamava Farringdon.

John Farringdon. Ed era l'uomo che Lawrence Winshaw aveva

bastonato a morte nel modo che hai così vividamente descritto nel

tuo manoscritto."

Impiegai qualche secondo a capire. "Ma come è sopravvissuto

all'incidente?"

"Si è salvato paracadutandosi all'ultimo momento."

"Significa che Godfrey è... che Godfrey era ancora vivo?"

"Purtroppo no. Nutrii anch'io questa speranza per un po'. Sa-

rebbe stato un colpo straordinario, ma il signor Farringdon fu

piuttosto fermo su quel punto. Lui stesso aveva visto Godfrey

consumarsi tra le fiamme."

"Ma come diavolo è riuscito a trovarlo?"

"Beh, pare sia stato raccolto dai tedeschi e che sia stato in

prigionia per il resto della guerra. Poi, alla fine del conffitto, ri-

tornò a casa, ansioso di riunirsi alla sua famiglia, ma scoprì che

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era stato dato per morto e che sua madre non era sopravvissuta

alla notizia. Era morta nel giro di una settimana e suo padre si

era risposato circa un anno dopo. A quel punto non ebbe più

il cuore di farlo. Di gettare alle ortiche tutto quel dolore... pri-

vandolo di senso. Tenne per sé la verità, si trasferì in una nuova

città, scelse Farringdon come nuovo nome, e cominciò una lunga

solitaria esistenza senza pace, cercando di ricostruirsi una vita su

quelle fondamenta in rovina. Ma almeno su un membro della sua

famiglia Ä un lontano cugino Ä dovette fare affidamento quando

ebbe bisogno di recuperare dei documenti personali; ed è stato

lui a mettermi sulla pista giusta. Non che fosse esplicito sulla

questione, ma certamente desiderava che io sapessi. Fece un paio

di allusioni, lasciate cadere nel modo e al momento giusto, che

bastarono a farmi partire per la Germania per rintracciare la pi-

sta." Sospirò di nuovo. "Ah, quelli sì che furono tempi felici. Ta-

bitha che pagava le mie spese. La Valle del Reno a primavera. E

il calore, ahi sì breve!, dell'amicizia. Si chiamava Fritz e faceva il

bovaro: una visione di bronzea beltà, la purezza dei declivi bacia-

ti dal sole delle Alpi tedesche. Da allora, se vedo dei lederhosen,

mi batte il cuore, non resisto."

Avevamo raggiunto Islington e svoltò in una strada seconda-

ria. "Bisogna concedere a un vecchio i suoi poveri ricordi, Mi-

chael. Gli anni migliori della mia vita sono passati oramai. Che

c'è oltre la memoria?" Accostò verso il marciapiede, fermandosi

almeno a mezzo metro dal bordo, la parte posteriore della mac-

china alla mercé del traffico. "Bene, eccoci arrivati."

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Eravamo arrivati di fronte a una casa a schiera in una strada

secondaria nella zona meno frequentata di Islington. Findlay mi

fece strada, su per parecchi piani di scale senza passatoia finché

non arrivammo al sottotetto, dove spalancò la porta su una stan-

za che mi lasciò a bocca aperta: era una riproduzione perfetta,

per quanto ne sapessi, dell'appartamento descritto da Conan

Doyle in Il segno dei quattro, quando Sherlock Holmes incontra

per la prima volta il misterioso Thaddeus Sholto. Sulle pareti

spiccavano infatti i drappeggi di tende e arazzi, i più ricchi e vi-

stosi, qui e là aperti su quadri dalle sontuose cornici o vasi orien-

tali. Anche il tappeto, ambrato e nero, era così morbido e folto

che i piedi vi sprofondavano piacevolmente, come in un letto di

muschio. C'erano persino due grandi pelli di tigri stese trasver-

salmente, che enfatizzavano l'impressione di lusso orientale, e,

nell'angolo, sopra un tappetino, un immenso narghilè. Per com-

pletare l'hornage, una lampada d'argento con le sembianze di

una colomba era appesa a un filo dorato quasi invisibile nel cen-

tro della stanza: quando era accesa, diffondeva nell'aria un tenue

profumo aromatico.

"Benvenuto nel mio piccolo nido, Michael," disse Findlay, li-

berandosi dell'impermeabile che teneva sulle spalle. "Scuserai

questo surrogato d'Oriente un po' kitsch. Sono cresciuto con ge-

nitori rozzi, circondato da squallore e austerità. Da allora la mia

vita è stata votata a una causa: liberarmi di quel fardello. Ma

non sono mai stato ricco. Quel che vedi qui è l'espressione della

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mia personalità. Voluttuosità a basso costo. Accomodati pure sul-

l'ottomana mentre vado a preparare del tè. Va bene il Lapsang?"

A uno sguardo più attento, l'ottomana si rivelò essere un diva-

no letto avvolto in consunte coperte pseudo-turche, ma era abba-

stanza comodo. La piccola cucina di Findlay era attigua al sog-

giorno, quindi fu facile proseguire la nostra conversazione mentre

lui armeggiava con bollitore e teiera.

"Ha proprio un appartamento meraviglioso," dissi. "E' da

molto che vive qui?"

"Mi sono trasferito qui negli anni sessanta, immediatamente

dopo il mio primo civettare con la famiglia Winshaw. In parte,

per sviare le attenzioni della polizia, come ho già detto: ma c'era-

no motivi ben più importanti. Dopo così tanti anni, la grettezza, la

meschinità, l'orgoglio piccolo borghese della vita provinciale ave-

vano colmato la misura per un uomo del mio temperamento. Oh,

ma tutta questa zona era diversa allora: aveva un certo stile, prima

che arrivassero gli agenti di borsa e i consulenti aziendali, e tutti

gli altri lacchè del capitale. Dominava uno stile di vita bohémien,

pieno di stimoli, quanto mai eccitante. Pittori, poeti, attori, artisti;

filosofi, finocchi, lesbiche, ballerini; persino uno strano investiga-

tore. Orton e Hailiwell vivevano appena dietro l'angolo, sai. Joe

veniva a trovarmi di tanto in tanto, ma non posso dire di averlo

mai avuto in simpatia. Con lui finiva ancora prima di cominciare.

Non c'era un briciolo di affetto. Tuttavia, la fine che hanno fatto

entrambi è terribile, non la si augura a nessuno. Diedi pure una

mano alle autorità per gettar luce su un paio di dettagli, anche

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se il mio nome non comparve in nessun rapporto ufficiale."

Erano storie davvero interessanti le sue, ma, nondimeno, ero

ansioso di tornare al tema principe della serata.

"Mi stava raccontando di Farringdon, il secondo pilota," sug-

gerii.

"Un uomo pericoloso, Michael. Un uomo disperato." Findlay

ricomparve dalla cucina e mi allungò una tazza sbeccata, di por-

cellana fine, piena di tè fumante. "Non un uomo cattivo, questo

no, assolutamente. Capace di forti sentimenti e di grande lealtà,

direi. Ma un uomo amareggiato; distrutto dalle circostanze. Non

era più riuscito a sistemarsi; da anni girava per il paese, lavorando

in fabbrica, facendo lavori saltuari, avvicinandosi gradualmente al

mondo dove l'impresa privata sfuma nel crimine. E si imponeva

grazie a una singolare combinazione di versatilità e fascino perso-

nale. Perché affascinante lo era: e bello, di una bellezza quasi scul-

torea. I suoi occhi erano come di velluto blu, ricordo, e aveva ci-

glia lunghe e folte: come le tue, se mi permetti un piccolo compli-

mento."

Guardai da un'altra parte, imbarazzato.

"Sono stato quasi tentato di mettere alla prova la mia fortuna,

con lui, ma le sue inclinazioni volgevano sin troppo palesemente

in direzione opposta. Un maschio da monta, senza appello. Dice-

va che qualche cuore l'aveva conquistato, e c'era da credergli. Per

farla corta, una splendida canaglia piena di carisma: un tipo non

fuori del comune nel dopoguerra, solo che lui i suoi bei motivi li

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aveva per ritrovarsi sulla cattiva strada."

"E cosa gli disse precisamente?"

"Beh, prima di tutto gli dissi che agivo per conto della famiglia

del defunto Godfrey Winshaw. Cosa che di per sé sortì un effetto

straordinario. Si sciolse subito e parlò con grande animazione. Era

chiaro che Godfrey gli aveva ispirato alti sentimenti di amicizia, e

che gli era ancora devoto."

"Come pare aver fatto con tutti: Tabitha ne è l'esempio più

eclatante."

"Appunto. Fu così che arrivammo all'incidente aereo e mi si

pose la questione, alquanto delicata, se dovevo o meno parlargli

di Tabitha e della sua eccentrica teoria. Da come si misero le cose,

mi fu impossibile evitarlo, e lo stesso Farringdon non aveva dubbi

in materia. Era convinto che qualcuno avesse fatto una soffiata ai

tedeschi. Disse che l'aereo era stato intercettato prima di raggiun-

gere la destinazione, e molto prima di poter essere captato col ra-

dar. In un modo o nell'altro, il nemico era stato informato in anti-

cipo della loro missione." Findlay vuotò la tazza e fissò pensoso le

foglie del tè, come se potessero offrirgli una lettura del passato.

"Capii immediatamente che non c'era stato giorno negli ultimi di-

ciott'anni della sua vita, in cui quell'uomo non avesse pensato al-

l'incidente, confuso, angosciato e frustrato da quel pensiero. Che

aveva continuato a domandarsi chi fosse il traditore, e cosa avreb-

be fatto di quella canaglia se il destino gliela avesse messa sulla sua

strada." Appoggiò la tazza e scosse la testa. "Un uomo pericoloso,

Michael. Un uomo disperato."

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Findlay era in piedi accanto alla finestra e tirò le tende man-

giucchiate dalle tarme, dopo aver dato un ultimo sguardo fuori,

nella sera ormai fredda e umida di pioggia.

"Si sta facendo molto tardi," disse. "Magari ti converrebbe ri-

manere qui stanotte, e continuiamo domani mattina. Purtroppo

questo appartamento è piccolo e c'è un unico letto, ma..."

"Sono solo le nove meno venti," osservai.

Findlay sorrise dispiaciuto e si sedette di fronte a me con aria

mortificata. "E' inutile, lo so. Sono le astuzie di un vecchio solo e

patetico. Ti disgusto, è naturale. Però cerca di non darlo a vedere,

Michael. E' tutto quel che ti chiedo."

"Non è affatto così..."

"Per favore, niente parole gentili. Sei venuto per una semplice

transazione d'affari, lo capisco. Informazioni: è tutto quello che

vuoi da me. Quando le hai avute, puoi scaricarmi, buttarmi via co-

me uno straccio usato."

"Lungi da me, io..."

"Riassumendo." Mi mise a tacere con un gesto imperioso.

"Non avevo nessuna intenzione di dividere la mia gloria con quel-

l'odioso avvocato, quindi, al mio ritorno nello Yorkshire, chiesi

subito un incontro con Tabitha in persona: cosa che fu debita-

mente organizzata. Ebbi modo di scoprire che, per arrivare al ma-

nicomio, bisognava fare un lungo tragitto in macchina nella bru-

ghiera, e alla sua vista fui colto da malinconia e trepidazione. Pro-

babilmente c'è un solo altro posto altrettanto squallido e desolato

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in tutta la zona. Mi riferisco, naturalmente, a Winshaw Towers.

"Fui condotto nell'appartamento privato di Tabitha, che si

trovava in cima a una delle torri più alte dell'edificio. La mia im-

pressione non fu certo, te lo assicuro, quella di parlare con una

pazza.

"Sicuramente la sua stanza era in uno stato di completo disor-

dine. Ci si muoveva appena tra le pile di riviste, tutte quelle testate

specializzate su aviazione, jet bombardieri e storia militare. Ma la

donna parve essere piuttosto compos mentis. Per farla breve, le

raccontai le mie scoperte, e reagì senza dare in escandescenze.

Disse che aveva bisogno di un po' di tempo per digerire la notizia,

e mi chiese se non mi dispiaceva aspettare una mezz'oretta: avrei

potuto passeggiare in giardino. Trascorsa la mezz'ora, ritornai nel-

la sua stanza e mi diede una lettera, indirizzata al signor Farring-

don. Era tutto. Non feci domande sul contenuto; mi limitai a spe-

dirla, appena tornato in città.

"Finii per conoscere quel tragitto molto bene: l'avrò fatto

quattro o cinque volte dopo d'allora, perché non avevo quasi fatto

in tempo a imbucare la lettera, che Farringdon arrivò a Scarbo-

rough. Dev'essere stato in settembre. Tabitha doveva avergli chie-

sto di poterlo conoscere di persona, e io ero incaricato di scortarlo

fino all'Istituto. Nei giorni seguenti ebbero luogo molti incontri.

Loro discutevano di qualcosa che avrebbe dovuto restare un se-

greto, anche per me. Ogni volta, aspettavo su una panchina nel

giardino, che dava sulla brughiera, e leggevo Proust Ä credo di

aver quasi finito i primi due volumi Ä e ogni giorno, mentre tor-

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navamo a casa, il mio passeggero se ne stava seduto, chiuso in un

silenzio risoluto e impenetrabile, o chiacchierava svogliatamente

di argomenti che non c'entravano assolutamente. Fu solo in occa-

sione della nostra ultima visita che fui riammesso alla presenza di

Tabitha, e per una volta fu Farringdon a dover sopportare l'inglo-

riosa messa al bando.

"Signor Onyx,' disse, 'lei si è dimostrato un uomo di grande

integrità. E' giunta l'ora di confidarle alcuni segreti riguardanti la

mia famiglia, che sono sicura lei terrà solo per sé.' Temo di non

saper rendere la sua voce. Le imitazioni non sono mai state il

mio forte. 'Fra pochi giorni, grazie all'interessamento di mio fra-

tello Mortimer, verrò liberata da questa reclusione per la prima

volta in quasi vent'anni.' Ricordo di essermi congratulato con lei

con qualche goffa frase di circostanza, ma non mi prestò attenzio-

ne. 'Sarà solo una cosa temporanea, ne sono certa. Mio fratello

Lawrence persiste nella sua implacabile opposizione a qualsiasi

proposta di mettermi definitivamente in libertà. Questo perché

è un bugiardo e un assassino.' 'Parole forti,' dissi. 'Niente che

non sia la verità,' rispose. 'Vede, ho una prova scritta della sua

perfidia, e ora è mia intenzione affidarle questa prova per metterla

al sicuro.' Le chiesi in cosa consistesse questa prova, e mi raccontò

del messaggio, la cui natura credo ti sia ben nota. Sperava che

questo messaggio si trovasse ancora nella stanza degli ospiti, in cui

lei aveva sempre alloggiato quando andava a Winshaw Towers,

nella tasca del cardigan che aveva visto per l'ultima volta nell'ul-

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timo cassetto dell'armadio. Si proponeva di recuperarlo il più pre-

sto possibile e di passarlo a me: a questo scopo decidemmo di in-

contrarci, il pomeriggio della festa di compleanno di Mortimer, in

fondo ai giardini, nei pressi di un posto che era consacrato, che lei

mi creda o no, alla sepoltura dei vari cani che avevano avuto la

disgrazia di vivere la loro miserevole vita come membri della fami-

glia Winshaw."

"Naturalmente... e Tabitha la incontrò là, giusto, ma foste in-

terrotti da Mortimer, convinto che la sorella stesse straparlando

da sola fra i cespugli."

"Precisamente. Per fortuna non notò la mia presenza, benché

l'odore di questo mio profumo a buon mercato ma così esotico a

cui sono sempre rimasto fedele Ä eccessivamente fedele, come mi

è stato rimproverato Ä non sfuggì alla sua attenzione. Comunque

la cosa non ebbe nessuna conseguenza, perché io e Tabitha ave-

vamo già conduso il nostro affare, purtroppo senza successo, de-

vo dire. Il messaggio non si trovava più in camera sua, e non ave-

va avuto il tempo di cercarlo da qualche altra parte. Inoltre la

casa è enorme. Avrebbero potuto volerci giorni, o settimane.

Comunque" Ä e a questo punto mi fece l'onore di un gelido sor-

riso Ä "pare che tu sia riuscito dove persino io, il leggendario,

scellerato e temibile Findlay Onyx ha fatto il più inequivocabile

buco nell'acqua. Mi domando se ti dispiacerebbe dirmi come ci

sei riuscito."

"Beh, non c'è quasi nulla da dire, veramente. Sicuramente non

posso prendermi alcun merito. Poco dopo la morte di Godfrey,

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quando Tabitha fu mandata via per la prima volta, pare che Law-

rence abbia trovato i vestiti lasciati nella sua stanza e li abbia messi

in un baule e portati in soffitta. Poi, quando morì, e Mortimer e

Rebecca si trasferirono nella casa, li passarono tutti in rassegna e

trovarono il messaggio, che Mortimer riconobbe subito, natural-

mente. Ricordava ancora tutto il chiasso che, all'epoca, si era fatto

per quel foglietto. Per lui, comunque, valeva quel che valeva, era una

mera curiosità, e perciò, quando ci incontrammo alcuni annj fa e

parlammo del libro che stavo scrivendo, decise di darmelo. E così

che è andata. Banale, no?"

Findlay orchestrò un sospiro di ammirazione.

"Notevole, Michael, notevole. L'economia dei tuoi metodi mi

stupisce. Posso solo sperare che non pensi, alla luce di questa evi-

dente disparità, che io non meriti la tua fiducia. In altre parole,

forse è giunto il momento, a lungo atteso, di dividere con me il

contenuto di quel memorandum enigmatico."

"Ma non ha ancora finito la storia. Cosa successe più tardi

quella notte, quando..."

"Pazienza, Michael. Un po' di pazienza, per favore. Ho soddi-

sfatto la tua curiosità su molti punti: sicuramente ho il diritto a

una stessa, o equivalente, soddisfazione in cambio?"

Acconsentii con un lento moto del capo.

"Giusto. E' nel mio portafoglio, nella tasca della mia giacca.

Vado a prenderlo."

"Sei un gentiluomo, Michael, un uomo della vecchia scuola."

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"Grazie."

"Solo una cosa, prima."

"Sì?" mi fermai nell'atto di alzarmi.

"Suppongo che una cosina veloce, un lavoretto di mano, sia

fuori questione, vero?"

"Temo di sì. Un'altra tazza di tè andrebbe bene, però."

Findlay si ritirò imbarazzato in cucina, e, una volta recuperato

il mio portafoglio, lo raggiunsi.

"Non so cosa si aspetti da questo," dissi, tirando fuori il pic-

colo pezzetto di carta piegato e ripiegato e stirandolo col dorso

della mano sul tavolo della cucina. "Come dico nel libro, è solo

un breve messaggio che Lawrence ha scritto per chiedere che la

cena gli fosse servita in camera. Non prova proprio nulla: tranne

che Tabitha è matta, semmai."

"Lascia giudicare a me, se non ti dispiace," disse Findlay. Prese

un paio di occhiali bifocali dalla tasca della maglia e si curvò per

esaminare la prova cruciale che gli sfuggiva da vent'anni. Mi vergo-

gno ad ammettere che provai un meschino lampo di soddisfazione

quando vidi il disappunto oscurargli il volto di punto in bianco.

"Oh," disse.

"Glielo avevo detto."

Il messaggio di Lawrence era costituito di tre sole parole, sca-

rabocchiate a lettere maiuscole. Erano: BISCOTTO, FORMAGGIO e SE-

DANO.

Il bollitore prese a fischiare. Findlay spense il gas e riempì la

teiera, poi si curvò di nuovo sul tavolo. Fissò il messaggio per qua-

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si un minuto: lo girò e lo rigirò, lo mise in controluce, lo annusò, si

grattò la testa e lo lesse ancora, ripetutamente.

"E' tutto qui?" disse infine.

"E' tutto.''

"Beh, allora possiamo ben dirlo. E' completamente fuori di

testa."

Finì di preparare il tè e tornammo nel soggiorno, dove rima-

nemmo seduti in un silenzio che per me fu carico di aspettative,

e per Findlay di rabbioso tormento interiore. Si alzò un'altra volta

per dare un'occhiata al biglietto, che era rimasto in cucina e tornò

portandolo con sé, ma senza dire una parola. Poco dopo, lo ap-

poggiò sul tavolino vicino con una smorfia, e disse: "Beh, suppon-

go che tu voglia sentire il resto della storia".

"Se non le dispiace."

"Non c'è molto da dire. Avevo fatto in modo di cenare con

Farringdon quella sera. Scarborough non era famosa per la sua

cucina, persino allora, ma c'era un posticino italiano di cui ero sta-

to in passato un frequentatore abituale Ä sarò franco con te, Mi-

chael, li si compivano le mie opere di seduzione Ä e dividemmo

alcune bottiglie di Chianti, proprio mentre a Winshaw Towers

si consumava la tragica cena di famiglia." Scosse il capo tristemen-

te. "Quella sarebbe stata la sua ultima cena. Non ne avevo idea, in

quel momento. Non sapevo nemmeno che lui e Tabitha avessero

ordito una sorta di congiura insieme. Adesso, retrospettivamente,

vedo tutto chiaro, è naturale. Anni di sopito risentimento; confuse

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speranze di vendetta che diventavano improvvisamente concrete;

quei lunghi colloqui segreti nella stanza di Tabitha che dovevano

averlo portato a una frenesia omicida. Posso solo immaginarmeli i

vincoli nati, le promesse scambiate, i solenni giuramenti fra quei

due complici infelici. Era di umore malinconico, come puoi im-

maginare, e non molto incline a parlare, cosa che io, stupido

che sono stato, avevo attribuito alla stanchezza dovuta al viaggio.

Era andato a Birkenhead per alcuni giorni, sai, ed era ritornato

solo quel pomeriggio, e io non riuscivo a capire il senso di quel

viaggio, che, però, verso la fine della serata, fu abbastanza cortese

da spiegarmi.

"Proprio mentre stavamo per lasciare il ristorante, attirò la mia

attenzione su una grande busta di carta grezza che aveva portato

con sé. Evidentemente era per recuperare quella busta che era ri-

tornato a casa. 'Signor Onyx, ho un favore da chiederle,' disse.

'Voglio che lei la custodisca per alcune ore. E mi prometta che

se non sarò nel suo ufficio domani mattina alle nove, la consegne-

rà nelle mani della signorina Tabitha il più presto possibile.' Sem-

brava una richiesta bizzarra, e glielo dissi: ma si rifiutò assoluta-

mente di rivelarmi che cosa avesse intenzione di fare a quella stra-

na ora di notte. 'Almeno mi dica cosa contiene,' chiesi, e fu una

domanda abbastanza ragionevole Ä credo che tu ne convenga.

Dopo un attimo di esitazione, rispose: 'La mia vita'. Alquanto

drammatico, no? Cercai di alleggerire l'atmosfera dicendo che

se la busta conteneva la sua vita, allora non doveva esserci un

granché. Rise con amarezza. 'Certo che non c'è molto. Questo è

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quello che ne è rimasto, grazie al tradimento di un uomo: qualche

documento; qualche ricordo dei giorni nella Raf; una sola fotogra-

fia, l'unica traccia che io sia riuscito a lasciare in questi ultimi ven-

t'anni. Voglio che sia Tabitha ad averli, a ogni modo. Non è paz-

za, signor Onyx, lo so per certo. Non hanno il diritto di tenerla

rinchiusa in quel posto. E' stata commessa una terribile ingiustizia,

e qualsiasi cosa mi succeda, Tabitha è la sola persona che della

mia esistenza terrà vivo il ricordo.'

"Ebbene, presi la busta e ci salutammo. Allora fui certo che si

stava preparando qualcosa di cruciale, ma che non era compito

mio intralciare il... fato, il destino, lo chiami come vuole. Capivo

che le vicende di cui mi ero ritrovato involontariamente testimone

dovevano arrivare a una conclusione. E così andammo ciascuno

per la propria strada: io a letto, e Farringdon, come scoprii suc-

cessivamente, prima a rubare un'automobile a qualche sfortunato

cittadino, cosa non difficile per un uomo della sua esperienza, e

poi dritto a Winshaw Towers, onde fare il suo ingresso dalla fine-

stra della biblioteca che Tabitha, sospetto, avrebbe aperto, e com-

piere il suo disastroso attentato alla vita di Lawrence."

Rimuginai su questo punto. "Da come l'ha descritto lei, non

avrei mai creduto che potesse avere alcuna difficoltà a togliere

di mezzo un ometto smilzo smilzo come Lawrence."

"Forse è così. Ma Lawrence si era fatto molti nemici cogli an-

ni, e probabilmente aveva trovato conveniente imparare a difen-

dersi. Inoltre ho idea che fosse preparato ad avere qualche incon-

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veniente quella notte: sapeva che c'era qualcosa in ballo. L'asso

nella manica di Farringdon sarebbe stato prenderlo di sorpresa,

se possibile, ma scommetto che non resistette alla tentazione di

parlargli. Quei momenti sprecati devono essergli stati fatali."

"E poi, quando non si è fatto vivo nel suo ufficio la mattina

seguente, suppongo che lei si sia diretto subito alla casa?"

"Mi anticipi superbamente, Michael. I tuoi poteri divinatori

hanno dell'incredibile. Erano appena passate le dieci. Anche se

la si vede da molto lontano attraverso la brughiera, probabilmente

sai che Winshaw Towers si raggiunge per una carrozzabile fian-

cheggiata da una fitta boscaglia, e perciò non ho avuto difficoltà

a nascondere la mia macchina a una certa distanza dalla casa e

ad arrivare a piedi senza attirare l'attenzione. A quei tempi Ä e

chissà, forse c'è ancora Ä il governo della dimora era affidato a

un tal Pyles, maggiordomo lugubre e sgradevole alla vista quan-

t'altri mai, e sapevo che, persino nel bailamme che ci doveva es-

sere, non avevo molte speranze di sfuggire al suo controllo. Così

restai in attesa, finché non lo vidi sparire verso i corpi esterni della

casa a sbrigare una qualche commissione, e a quel punto menare

per il naso quel mammalucco del cameriere fu un gioco da ragaz-

zi. Mi presentai, se non ricordo male, come un collega del dottor

Quince."

"Il dottore di famiglia."

"Giusto: quel ciarlatano al quale, ogni tre o quattro anni,

riempivano le tasche per assicurarsi che Tabitha rimanesse al sicu-

ro sotto chiave. Avevo incrociato la sua macchina qualche miglio

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indietro, quindi sapevo che aveva già fatto la sua visita. Dichiarai

che mi era stato chiesto un secondo parere.

"Come darti un'idea dello stato mentale di Tabitha quella

mattina? Mi raccontò quello che era successo senza alcuna conci-

tazione, senza tracce evidenti di traumi o di inquietudine: ma sot-

to la sua compostezza notai i segni d'un tale sconforto, d'una tale

delusione... La sua ultima speranza era svanita, il suo unico sento-

re di libertà dissipato, volato via... Di me tutto si può dire ma non

certo che sono un sentimentale, Michael: i sentimenti femminili

mi sono completamente estranei, e tuttavia quella mattina, anche

se sembra assurdo, il mio cuore quasi si spezzò. Le diedi la busta

di Farringdon; la ripose nell'astuccio senza aprirla; e proprio in

quel momento Mortimer bussò alla porta, era venuto a salutarla.

Ebbi solo pochi istanti per nascondermi: giusto il tempo di infilar-

mi nello spogliatoio e chiudere la porta, mentre Tabitha prendeva

il suo lavoro a maglia e assumeva la sua solita aria assente. La loro

conversazione fu breve. Non appena passato il pericolo uscii, ci

scambiammo solo poche parole. Aveva una considerevole somma

di denaro nel suo borsellino, ricordo, e insistette per pagare tutti i

miei servigi. Poi mi congedai. Sgusciai fuori da una porta sul retro

e feci un tortuoso tragitto per raggiungere la macchina; e quella fu

la fine dei miei contatti con Tabitha Winshaw. E' da allora che non

la vedo."

Findlay guardava nel vuoto. Sembrava fosse stato colto da una

profonda malinconia, e sul momento non mi venne in mente nulla

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da dire.

"Era una mattina piena di luce," riprese all'improvviso. "Il

sole brillava. Il cielo era d'un azzurro intensissimo. Le foglie sta-

vano prendendo il colore dell'oro. Conosci un po' quella zona,

Michael? Ne sento la mancanza talvolta, persino ora. Winshaw

Towers si trova ai confini di Spaunton Moor, e poiché non me

la sentivo di ritornare in città, guidai fino a un posto tranquillo

dove camminai per parecchie ore, riandando col pensiero alle ul-

time insolite settimane, domandandomi cosa significasse e dove

mi portasse tutto ciò. La mia decisione di venire a Londra mise

le prime radici quel giorno, credo. Era domenica, ma in giro

per la campagna non c'era quasi nessuno: avevo, più o meno,

un angolo di natura a mia completa disposizione, e il sole splen-

deva sui miei progetti e sulle mie risoluzioni."

"Le è andata bene," dissi. "Anch'io ricordo quella domenica,

ma pioveva. Almeno nel posto in cui ero io."

"Su, su, Michael, adesso non metterti a romanzare," disse Fin-

dlay, sogghignando incredulo. "Eri solo un bambino a quell'epo-

ca. Come puoi distinguere nei tuoi ricordi un giorno da un altro?"

"Lo ricordo perfettamente. Era il mio nono compleanno, e i

miei genitori mi portarono a Weston-super-Mare: nel pomeriggio

prese a piovere e così andammo al cinema." Questo racconto non

parve interessare molto Findlay, e dato che entrambi correvamo il

rischio di sprofondare in un nostalgico torpore, decisi che era ne-

cessario un brusco cambiamento di tono. "E allora, cosa vuol far-

ne di questo biglietto? Insistere?"

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Lesse di nuovo il messaggio e poi me lo passò. "No, Michael.

Non mi serve più. A ogni modo, l'ho affidato alla mia memoria."

"Ha intenzione di farlo esaminare, o altro? Cercare dell'in-

chiostro simpatico?"

"Che colorite idee hai sull'arte del detective," disse Findlay. "I

miei metodi sembrano molto prosaici al confronto. Devo essere

una delusione per te."

Il suo sarcasmo era più malizioso che freddo, così cercai di en-

trare nello spirito.

"E' vero," dissi. "Sono cresciuto a base di Hercule Poirot e

Sherlock Holmes. Scrivevo persino dei gialli una volta, quando

ero piccolo. Speravo che lei mi lanciasse un'occhiata fredda ed

esperta, che mi guardasse a occhi socchiusi, e dicesse qualcosa

di solenne come, 'Singolare, Owen, molto singolare'."

Sorrise. "Beh, non tutto è perduto, Michael. Abbiamo ancora

del lavoro da fare insieme, strade da esplorare, e inoltre..." La vo-

ce gli si affievolì improvvisamente, e gli passò un lampo di luce

negli occhi. "... e inoltre... il bandolo in mano potresti averlo tu."

"Potrei? Che bandolo?"

"Beh, è singolare, no? Questa è la cosa strana."

"Temo di non seguire."

"La parola 'biscotto', Michael. Dovrebbe essere sicuramente

al plurale. Un biscotto, da mangiare con del formaggio e un gam-

bo di sedano? Non sembra molto sostanzioso, no?, anche solo per

uno spuntino."

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Azzardai una spiegazione, non troppo convincente: "Beh, ac-

cadde durante la guerra. Forse con il razionamento, eccetera..."

Findlay scosse il capo. "Qualcosa mi dice," disse, "che l'eco-

nomia di guerra non doveva aver intaccato molto seriamente il

ménage dei Winshaw. Non mi hanno mai dato l'impressione di es-

sere tra quelli che tirano la cinghia. No, no questo sta diventando

più interessante di quanto supponessi. Bisogna tornarci sopra, ri-

flettere più a fondo."

"E poi c'è un altro mistero, non lo dimentichi."

Findllay restò ad aspettare che io mi spiegassi.

"Non ricorda? Tutta quella storia su Tabitha che pensava di

aver sentito parlare tedesco nella stanza di Lawrence, e su come

lo chiuse dentro a chiave per poi scoprire che era stato tutto il

tempo nella stanza da biliardo."

"Beh, naturalmente c'è una spiegazione perfettamente plausi-

bile per questo. Ma dovremmo fare una visitina alla casa per ve-

rificarlo. Nel frattempo, pensavo che potremmo affrontare il pro-

blema da un'altra angolazione."

"Vale a dire?"

"Vale a dire che c'è una parte della storia, anzi un componen-

te, che spicca come il proverbiale bozzo in fronte. Un personaggio

talmente a disagio in mezzo agli altri che viene spontaneo chieder-

si se non provenga da un altro dramma completamente diverso.

Mi riferisco a te, Michael."

"A me? Cosa c'entro io? Mi sono solo trovato per caso in tutta

questa storia. Avrebbe potuto essere chiunque."

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"Avrebbe potuto essere chiunque, naturalmente. Ma non è an-

data così. Ci sei di mezzo tu. Anche per questo potrebbe esserci

una ragione, e potremmo scoprirla. Dimmi, Michael, non credi

che sia ora di conoscere Tabitha Winshaw di persona? Potrebbe

anche non durare a lungo, dopo tutto."

"Lo so, lo so, ho sempre rimandato. Inoltre, ho sempre avuto

l'impressione che, in qualche modo, i miei editori mi scoraggias-

sero."

"Ah, sì, i tuoi imperscrutabili editori. Una bella combriccola,

devo dire. Sono rimasto molto impressionato dai loro uffici, o da

quello che ho potuto vederne, durante la mia breve visita non uf-

ficiale. Ho persino preso uno dei loro opuscoli, rimarrai di stucco,

ascolta." Allungò la mano verso la scrivania, brandì un costoso ca-

talogo in carta patinata e ne sfogliò le pagine. "La lista è sicura-

mente eclettica," mormorò. "Prendi questo, per esempio: Visita

a sorpresa da Jerry: spensierato resoconto sul bombardamento di

Dresda, di Wing Commander 'Bullseye' Fortescue, VC. Isterico,

non c'è che dire. Come non essere rapiti da quest'altro: Approccio

luterano ai film di Martin e Lewis. O, meglio ancora, I punti dalla

A alla Z, del Reverendo J. W. Pottage Ä 'un inestimabile manuale

di consultazione', dice qui, 'alla sua prima opera di innovatore'.

Bene, bene. Che abbondanza, eh?"

"Non lo dica a me," dissi. "Ogni anno ricevo un pacco di que-

sta roba per Natale."

"Beh, di per sé è alquanto generoso, non credi? Non sembra

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che ci sia penuria di danaro nel loro settore d'affari. Il tipo che sta

a capo della ditta, questo McGanny, se non sbaglio, deve essere

una bella lenza d'operatore. Ho la sensazione che varrebbe la pe-

na di dare una sbirciata ai suoi affari, di rovistarci dentro."

Ero deluso dalla linea investigativa proposta, e non potei trat-

tenermi dal dirlo. "Come ci aiuterà questo a scoprire di cosa si

occupava Lawrence nel 1942?"

"Forse non ci aiuterà, Michael. Ma forse non è quello il vero

mistero."

"Che cosa sta cercando di dire, esattamente?"

Findlay si alzò dalla poltrona e si sedette accanto a me. "Sto

dicendo," disse, appoggiando la sua mano-artiglio sulla mia co-

scia, "che il vero mistero sei tu. E ho intenzione di andare fino

in fondo."

 

 

Kenneth disse: "Signorina, non è che per caso sa dov'è la mia

stanza?"

Shirley scosse, triste, il capo e disse: "No, temo di no".

Kenneth disse: "Ah," e fece una pausa. "Scusi. Adesso me ne

vado."

Pensavo alla descrizione che Findlay aveva fatto di me: "Un

personaggio talmente a disagio in mezzo agli altri che viene spon-

taneo chiedersi se non provenga da un altro dramma completa-

mente diverso". Era un lampo d'intuizione, improvviso, preciso

nel definire come mi sentivo quando pensavo alla famiglia Win-

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shaw. Questa sera, per esempio...

Shirley esitò, mentre una risoluzione prendeva forma dentro di

lei: "No, rimanga". Fece un gesto imperioso con la mano. "Si volti

un attimo."

Kenneth si girò e si scoprì a fissare uno specchio nel quale ve-

deva la propria immagine riflessa, e, al di là di quella, l'immagine

di Shirley. Gli dava la schiena e stava liberandosi a fatica della sot-

toveste sfilandosela dalla testa.

Lui disse: "Acc... un attimo, signorina".

Kenneth inclinò frettolosamente lo specchio girevole, montato

su un perno.

Shirley si girò verso di lui e disse: "Che dolce". Finì di sfilarsi

la sottoveste dalla testa e cominciò a slacciarsi il reggiseno.

Avevano le stesse mie paure, quei tipi assurdi? Provavano

sentimenti che potevo capire? Dire che venivano da un altro lato

dell'esistenza non bastava. Era qualcosa di più estremo, più de-

finitivo di questo: essi appartenevano a un genere di esistenza di-

verso in tutto e per tutto. Un genere che in realtà mi faceva or-

rore...

Shirley sparì dietro la testa di Kenneth.

Kenneth disse: "Beh, una... un bel viso non è tutto, capisce".

Continuando a tenere giù lo specchio, cercò di non guardarci

dentro, ma non seppe resistere a qualche sbirciatina. A ogni sbir-

ciata, il suo volto dichiarava una palese sofferenza fisica. Shirley

indossò la camicia da notte.

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.un genere che, negli ultimi anni, mi aveva quasi fatto perde-

re, me ne rendo conto ora, il senso di come la vita andrebbe vis-

suta. Mi aveva quasi ucciso, infatti, o almeno mi aveva addormen-

tato, portandomi a una paralisi dalla quale avrei potuto non ria-

vermi più se non fosse stato per quel bussare alla mia porta: se

Fiona non avesse bussato e non fosse apparsa a riaccendere il

mondo...

Kenneth disse: "Non è tutt'oro quello che luccica".

Ella riemerse da dietro la sua testa, con il corpo fasciato nella

corta camicia da notte tagliata al ginocchio, e disse: "Adesso può

girarsi".

Lui si girò e la guardò. Aveva un'aria compiaciuta.

"Accidenti. Molto provocante."

Spensi il televisore. Kenneth e Shirley si ridussero a un punti-

no luminoso e andai in cucina a versarmi un altro drink.

Adesso, ogni volta che vi andavo e vedevo la mia immagine ri-

flessa nella finestra, mi ricordavo la prima sera in cui Fiona era

venuta a chiedere la mia firma per la gara ciclistica sponsorizzata

e aveva dovuto ripetere tutto più volte per farsi intendere.

Ed eccola ancora l'immagine. Ma se guardavi oltre, cosa vede-

vi? Non molto. Anche se ero un sognatore, non avevo il potere

dell'Orfeo di Cocteau, che riusciva a passare, attraverso specchi

che si liquefacevano, in mondi inimmaginati. No, io ero più come

Kenneth Connor, e lo sarei sempre stato, mi costringevo a non

guardare nello specchio una realtà magnifica e terrificante che si

rivelava a soli pochi centimetri dalla mia schiena.

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A eccezione di quell'ultima notte, in cui avevo visto una nuova

immagine: solo brevemente, perché avevo dovuto chiudere gli oc-

chi di fronte a tanta bellezza, e tuttavia era così nitida, così reale,

che cercavo persino ora delle tracce, non riuscendo a credere che

la finestra medesima non ne avesse memoria.

Les miroirs feraient bien de réfléchir davantage. Trois fois...

Fiona era passata a trovarmi con una piccola talea di fucsia che

aveva proposto di aggiungere alla crescente foresta verde che ormai

ricopriva tutte le superfici utilizzabili del mio appartamento. Indos-

sava un vecchio maglione e un paio di jeans e non voleva fermarsi

per un drink o una chiacchierata: voleva andare a letto, sebbene

fossero solo le Otto circa. In realtà era stata una lunga giornata di

lavoro e aveva ancora la febbre. Ciononostante, sembrava cercasse

delle scuse per non andarsene subito, facendosi scrupolo di con-

trollare lo stato di salute di tutte le piante, anche se avvertivo che

la sua mente vagava altrove. Avevo l'impressione che volesse dirmi

qualcosa, qualcosa di importante. E infatti quando andammo in cu-

cina, dove la luce era più intensa, e io le domandai se era sicura di

non volere una birra o un gin tonic o una vodka o un'aranciata o

qualcosa d'altro, improvvisamente si appoggiò con le spalle contro

il frigorifero e mi chiese se le facevo un favore.

Dissi che sì, che glielo avrei fatto di sicuro.

Disse: "Mi potresti sentire la gola?"

Dissi: "La gola?"

Piegò indietro la testa e, guardando il soffitto, disse: "Devi so-

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lo toccarla. Toccala e dimmi che ne pensi".

Se questo era l'inizio, pensai, se questo era come sarebbe rico-

minciata tutta la storia, allora non era proprio quello che mi aspet-

tavo. Affatto. Avevo perso il controllo della situazione: mi sentivo

come se stessi precipitando sulla terra, e mi avvicinai a lei con il

passo di un sonnambulo, allungando le dita finché non entrarono

in contatto con la pelle chiara chiara alla base del collo. Da li trac-

ciai lentamente una linea, e, quando toccai i morbidi rilievi della

sua gola, sentii i suoi capelli fini e soffici. Fiona era perfettamente

immobile e perfettamente in silenzio.

"Così?" chiesi.

"Ancora. A sinistra."

E stavolta la trovai quasi subito: una piccola ostruzione, una

palletta dura della dimensioné di un'oliva perfettamente ben allo-

gata sotto la sua pelle. La sfiorai, poi la strinsi con cautela fra il

pollice e l'indice.

"Ti fa male?"

"No."

"Cos'è?"

"Non lo so."

"Cosa ha detto il dottore?"

"Niente. Non sembrava gli interessasse molto."

Ritirai la mano e feci un passo indietro, cercando un indizio

nei suoi occhi azzurro-verdi. Mi fissava con uno sguardo indefini-

bile.

"L'hai sempre avuto?"

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"No. L'ho notato qualche settimana fa."

"S'ingrossa?"

"Non saprei."

"Dovresti tornare dal dottore."

"Non ha dato gran peso alla faccenda."

Non riuscii a dire altro: ero li in piedi, come incollato al pavi-

mento. Fiona mi guardò per un attimo e poi incrociò le braccia e

inarcò le spalle, ritirandosi in se stessa.

"Sono veramente stanca," disse. "Devo andare."

Ma prima che se ne andasse misi la mano di nuovo sul suo col-

lo e scivolammo in un abbraccio che dapprincipio fu goffo Ä ma

che importava? Ä; insistemmo, e finimmo con lo stringerci forte

l'uno contro l'altra: restai aggrappato al suo silenzio e, chiudendo

gli occhi davanti alla nostra immagine riflessa nella finestra della

cucina, intuii distintamente la figura di un nodo, fatto dalle sue

tacite paure e dal mio famelico desiderio, che avrebbe resistito sal-

damente al peggio che il futuro ci avrebbe riservato.

 

 

 

 

 

 

Dorothy.

 

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1.

 

Abbracciare e di rimando essere abbracciati. Di tanto in tanto:

questo è importante. Dalla moglie George Brunwin di abbracci

così non ne aveva mai ricevuti, ed erano anni, ormai, che invece

aveva solo una padrona. Cionondimeno, egli si abbandonava rego-

larmente a lunghi, assorti, teneri abbracci, rubati, ogniqualvolta

poteva, negli angoli più oscuri della fattoria che una volta s'era fre-

giato di chiamare sua. L'ultimo oggetto di desiderio delle sue

avances era un vitellino di nome Herbert.

Contrariamente alle voci che giravano, però, non s'era mai

congiunto carnalmente con animali.

Anche se non l'aveva mai veramente razionalizzata, una delle sue

convizioni più profonde era che una vita priva di effusioni fisiche

quasi non valeva la pena di essere vissuta. Sua madre era stata un

vero talento nel toccare, coccolare, fasciare e vezzeggiare; nello

scompigliare i capelli, nel dar pacche affettuose sul sederino, nel nin-

nare sulle ginocchia. Persino suo padre non era stato insensibile, al-

l'occasione, alla ferma stretta di mano o all'abbraccio virile. George

era cresciuto nella convinzione che queste piacevoli collisioni, que-

ste manifestazioni di spontanea intimità fisica fossero la vera sostan-

za dei rapporti d'amore. Inoltre, il ritmo vitale nella fattoria di suo

padre era scandito, in larga misura, dai cicli riproduttivi degli anima-

li, rispetto ai quali George si era forse rivelato più sensibile del nor-

male e, sin da giovinetto, aveva sviluppato un sano appetito sessuale.

Alla luce di tante premesse, non avrebbe potuto trovare Ä ma nep-

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pure aveva avuto, gran possibilità di scelta Ä una partner meno

adatta di Dorothy Winshaw che sposò nella primavera del 1962.

Avevano trascorso la luna di miele in un hotel del Lake Di-

strict, con vista su Derwent Water: e fu in quello stesso hotel

che, vent'anni dopo, George si ritrovò da solo a bere, in un'appic-

cicosa sera di giugno. Per quanto offuscata dall'alcol, la sua mente

si portava ancora appresso la vivida e spiacevole memoria della lo-

ro prima notte di nozze. Anche se di fatto non l'aveva respinto,

l'imperturbabile passività di Dorothy era stata di per se stessa

una forma di deliberata resistenza, a cui s'era aggiunto, onde

non risparmiare l'umiliazione, un fare visibilmente annoiato ten-

dente allo scherno. A dispetto di quanto George si provò a fare

nei preliminari, il saggiare delle sue dita altro non aveva incontra-

to che asciutta impenetrabilità. Andare oltre in siffatte circostanze

avrebbe significato commettere uno stupro (per il quale, al di là di

tutto, egli non possedeva la forza fisica). Nelle settimane che se-

guirono, ci furono altri tre o quattro tentativi, e poi la questione

Ä e con essa le speranze di George Ä fu lasciata cadere. Adesso

a guardare indietro a quei giorni, attraverso i fumi dell'alcol, tro-

vava assurdo, risibile non aver mai preteso che si consumasse il

matrimonio. Fra lui e Dorothy c'era stata un'assoluta incompatibi-

lità a livello fisico. L'unione sessuale, per loro, sarebbe stata in-

concepibile come adesso lo era per i tacchini malformati che

sua moglie era costretta a far riprodurre con l'inseminazione arti-

ficiale: nel corso degli anni i petti-miniere-di-carne si erano così

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spaventosamente dilatati a forza di iniezioni di sostanze chimiche

e di mangime selezionato che i loro organi sessuali non riuscivano

più a entrare in contatto.

Perché George non odiava sua moglie? Forse perché l'aveva

arricchito (finanziariamente) al di là di ogni più rosea previsione?

O perché forse provava un certo timido orgoglio pensando a co-

me della sua tranquilla, modesta fattoria vecchio-stile a conduzio-

ne familiare lei aveva fatto uno dei più potenti imperi agrochimi-

ci del paese? O forse, più banalmente, l'odio era stato spazzato

via, con gli anni, dalle ondate di whisky a cui quotidianamente

soccombeva senza farne quasi più un mistero? La verità è che

vivevano vite del tutto separate. Nei giorni feriali Dorothy saliva

in macchina e scendeva in città, in uno squallido posto dell'estre-

ma periferia dove incombeva un'enorme struttura a quattro piani

di uffici e laboratori: la sede centrale della Brunwin Holdings

Plc. George non ci metteva più piede da oltre quindici anni. Pri-

vo com'era di senso degli affari, digiuno di scienza e da nient'al-

tro animato se non da sdegno nei confronti dell'infantile gioco

dell'oca azionario che pareva assillare la maggior parte dei diri-

genti, aveva scelto, invece, di ritrarsi entro i confini di una fanta-

stica proiezione del bel tempo andato. C'era una piccola stalla di

mattoni rossi che era sopravvissuta, non si sa come, al program-

ma di espansione di Dorothy (la maggior parte degli edifici ori-

ginari li aveva fatti demolire per far posto alla geometrica seria-

lità di pesanti capannoni per polli e di squallide costruzioni in

acciaio ad ambiente controllato), ed era lì che lui passava gran

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parte della giornata, con la sola compagnia della bottiglia di whi-

sky e di tutti gli animali della fattoria più malconci o indeboliti

che era riuscito a sottrarre alla reclusione nella speranza di sanar-

li: polli, per esempio, le cui zampe non riuscivano più a reggere i

corpi ipertrofici, o vitelli con il dorso sfondato o i fianchi scian-

cati dai mal somministrati ormoni della crescita. Per molto tem-

po, l'esistenza di questo malinconico asilo restò ignota a Doro-

thy, la quale aveva ben altro per la testa che ispezionare gli im-

mobili di sua proprietà: ma quando, per caso, fu scoperto, non

seppe contenere il furibondo disprezzo per il sentimentalismo

del marito.

"Aveva le zampe rotte," disse George, facendo muro davanti

all'ingresso della stalla mentre Herbert si accasciava in un angolo.

"Non tollero di vederlo caricato su un camion insieme agli altri."

"Finirò col rompere le tue di zampe, se non lasci in pace le

mie bestie," strillò Dorothy. "Potrei denunciarti alla polizia per

quel che ti ho sorpreso a fare."

"Lo stavo solo accarezzando, tutto qui."

"Potente iddio! E intanto hai fatto quello che ti ho chiesto?

Hai parlato con la cuoca per la cena di venerdì sera?"

La fissò senza capire. "Che cena c'è venerdì sera?"

"La cena per Thomas e Henry e quelli della Nutrilite." Era co-

stume di Dorothy girare con un frustino in mano: esasperata se lo

batté sulle cosce. "Neanche te ne ricordi, eh? Non ti ricordi mai

di un cazzo! Sei un fradicio, inutile ubriacone che s'è bevuto il

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cervello! Potente iddio!"

Se ne uscì come un turbine dalla stalla e, tutto a un tratto,

mentre vedeva la sua figura che s'allontanava, George si sentì im-

provvisamente e irresistibilmente sobrio.

Gli affiorò subitanea la domanda: Perché mai ho sposato que-

sta donna?

E poi partì per il Lake Discrict a pensarci su.

 

 

Aveva cominciato a bere per far fronte alla solitudine. Non la

solitudine che talora aveva provato quando teneva da solo le redi-

ni della fattoria e spesso si ritrovava a passare giornate intere nel-

l'orgoglioso, regale isolamento della brughiera, insieme a pecore

e vitelli, e nient'altro. Questa era la solitudine che si prova nelle

squallide camere d'albergo di Londra centro: a sera tardi, con la

prospettiva di una notte insonne, e nulla di meglio per tenere la

mente occupata che la Bibbia e l'ultimo numero di "Poultry

News", rivista leader sul pollame d'allevamento. George di notti

così ne aveva passate parecchie subito dopo il matrimonio, quan-

do Dorothy l'aveva persuaso, nel suo interesse, a entrare nel con-

siglio direttivo del Consorzio agrario nazionale. Lui vi aveva fat-

to parte per poco più d'un anno, e aveva scoperto, a lungo an-

dare, di non aver talento alcuno per il lavoro di squadra o di ca-

tegoria, e di non aver nulla in comune con gli altri membri, nes-

suno dei quali condivideva il suo entusiasmo per il tran-tran

quòtidiano della conduzione di una fattoria. (Ebbe l'impressione

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che la maggior parte di loro fosse entrata nel consiglio per sot-

trarsi proprio a quella quotidianità.) E quando lui rinunciò alla

posizione acquisita e fu sostituito da Dorothy, lei ebbe la certez-

za che, a quel punto, non poteva fidarsi di lui e lasciargli, in sua

assenza, la gestione della fattoria. Senza prendersi nemmeno il

disturbo di consultare il marito, fece assumere tramite annuncio

un amministratore a tempo pieno, e George si ritrovò di fatto

estromesso.

Nel frattempo Dorothy aveva il suo daffare. Sfruttando a

pieno i contatti in parlamento del cugino Henry (contatti sia

nell'uno che nell'altro schieramento politico), ella si trasformò

ben presto in una sapiente intrattenitrice degli uomini politici

più influenti dal Ministero del tesoro a quello dell'agricoltura.

A colpi di feste grandiose e cene in ristoranti esclusivi si prodi-

gò a convincere parlamentari e funzionari dello stato che era

necessario sostenere con sussidi sempre più cospicui gli alleva-

tori intenzionati a passare ai nuovi metodi intensivi: fu grazie ai

suoi sforzi (e a quelli di altri come lei) che il governo cominciò

a incrementare il fondo di sovvenzioni e sgravi d'imposta onde

favorire gettate di cemento, costruzione di edifici e acquisti di

impianti e attrezzature. Gli allevatori più piccoli che si oppose-

ro a questi incentivi si ritrovarono nell'impossibilità di compe-

tere con i prezzi offerti al consumatore dai loro rivali sovvenzio-

nati dallo stato.

E non appena circolò la notizia che consistenti somme di da-

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naro pubblico venivano incanalate nell'allevamento e nelle coltu-

re intensivi, le istituzioni finanziarie cominciarono a muoversi

nella stessa direzione. Da questo punto di vista Dorothy partiva

avvantaggiata rispetto ai suoi rivali, dato che Thomas Winshaw

stava per diventare uno degli esponenti più potenti del mondo

bancario. Una volta capito l'indirizzo preso dal governo, egli co-

minciò a investire pesantemente nel suolo agricolo, e fu più che

felice di offrire a Dorothy sostanziosi prestiti Ä con la terra come

garanzia Ä per avviare i diversi programmi di espansione che lei

aveva in mente (e le dimensioni del debito la obbligavano, ogni

anno, a forzare il rendimento produttivo di suolo e bestiame).

Fin dall'inizio, l'obiettivo di Dorothy fu quello di garantire i

profitti controllando ogni stadio della produzione. Cominciò a

comprare per due soldi tutte le fattorie più piccole del paese

e a metterle sotto contratto. Indi, una volta strangolato il mer-

cato dell'approvvigionamento di uova, polli, pancetta e verdura

del Nord-Est inglese, prese a dilatare la sua sfera di operazioni.

Fu creata una serie di divisioni specializzate: la Uova Detto-e-

Fatto (slogan: "Un tuorlo non mente, gente!"), la Tre-Porcellini,

produttrice di pancetta ("Se è maiale, è mica male"), la Verdi

Germogli, produttrice di verdura ("Sicura, signora, che non

ne vuole ancora?") e la Tuttapolpa Polli ("A loro piace starnaz-

zare, e a noi piace spennare"). L'insegna Brunwin era riservata a

quella che, in termini di profitto, era il gioiello della corona

aziendale: la divisione specializzata nella confezione di pasti con-

gelati e dolci istantanei, il cui slogan Ä molto sobrio Ä era

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"Brunwin...fantastico!". Ciascuna di queste società era servita

da centinaia di allevatori e coltivatori sotto contratto in ogni

parte del paese, il cui obiettivo Ä se volevano avere una qualche

possibilità di sopravvivenza economica Ä era far uso indiscrimi-

nato di antibiotici che stimolassero la crescita del bestiame e di

ogni sorta di pesticidi in circolazione che incrementassero il ren-

dimento agricolo, onde ottemperare alle quote di produzione

sempre più severe fissate da Dorothy nella sede centrale della

Brunwin Holdings. Gli allevatori erano anche obbligati a passa-

re tutti gli ordinativi di mangime a una compagnia nota come

Nutrilite (una divisione della Brunwin Holdings) e a integrarlo

con additivi chimici richiesti a un'altra società, la Kemmilite,

una divisione, anch'essa, della Brunwin Holdings.

C'era voluto un bel po' di tempo per costruire l'impero di Do-

rothy. Comunque, ai tempi della gita di George al Lake District,

era all'apice della sua potenza. Per esempio, le cifre del periodo

dicono che la Detto-e-Fatto garantiva alla nazione più di 22 milio-

ni di uova alla settimana, mentre il giro di affari annuale della Tut-

tapolpa superava i 55 milioni. Di polli, naturalmente: non di ster-

lime.

 

 

Un pomeriggio Ä avrò avuto suppergiù vent'anni Ä Verity e io

bisticciammo a casa dei miei e, chiusa la faccenda, uscii a fare una

passeggiata per calmarmi. Lei si era presa gioco, come al solito, del-

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le mie ambizioni di scrittore, e io grondavo tutto di sacrosanta

autocommiserazione mentre mi allontanavo come una furia in di-

rezione del bosco che, da bambino, andavo a esplorare nelle passeg-

giate domenicali. Non avevo dubbi che, nel prendere quella strada,

c'era stata una sorta di premeditazione. Volevo tornare nei luoghi

che erano stati teatro di quelle felici occasioni (e, naturalmente, la

scena dei miei primi tentativi letterari) perché sentivo che in qual-

che modo avrebbero rinsaldato il mio mondo interiore e, con esso,

il tesoro di sensibilità e di ricordi ad alta tensione estetica che vi

era custodito. Mi diressi così verso quella che una volta era stata

la fattoria di Mr Nuttail, dove non ero più andato da dieci anni

e più.

Arrivato davanti al filo spinato e a quegli ignoti edifici credetti,

a tutta prima, che la memoria mi avesse ingannato e fossi finito nel

posto sbagliato. Mi pareva di essere di fronte a una specie di fabbri-

ca. Altro non v'era che una fila di lunghz pratici capannoni di legno,

ciascuno con in fondo un gigantesco cono di metallo rovesciato, so-

stenuto da pali e puntato invasivamente contro il cielo nuvoloso del

pomeriggio. Confuso, strisciai sotto il recinto e andai a dare un 'oc-

chiata più dappresso. I capannoni non avevano finestre: ma salendo

su per uno dei silos, riuscii a guardar dentro attraverso una fessura

aperta fra le tavole di legno.

Per qualche istante, i miei occhi non registrarono altro che oscu-

rità e fui sopraffatto da un sentore di polverosa umidità, da un 'aria

greve di ammoniaca Poi, gradualmente, cominciarono a emergere

delle forme dal buio. Ma quel che vidi è ben difficile da spiegare,

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perché sapeva solo di assurdo, e continua a sapere di assurdo anche

adesso. Avevo l'impressione d'essere davanti alla scena di un film,

uscito dall'immaginazione fantastica di un regista surrealista. Il

mio sguardo stava inquadrando Ä e non saprei come descriverlo di-

versamente Ä un mare di polli, un lungo, ampio tunnel lastricato di

pollame fin dove riuscivo a vedere. Dio solo sa quanti volatili c'era-

no in quel capannone Ä migliaia, o forse anche decine di migliaia.

Nulla si muoveva: i polli erano troppo pigiati l'uno contro l'altro

per poter razzolare o semplicemente girare su se stessi, e io avevo

solo la percezione di una grande totale immobilità. Che infine fu

rotta, non so quanto tempo dopo, dal suono d'una porta che s'apriva

in fondo al tunnel. Nella cornice della porta comparirono due figure

e ci fu subito un gran tramestio e un gran svolazzar di piume.

"Eccolo," disse uno dei due uomini.

"Accidenti!" disse l'altro. Le loro voci mi arrivavano dilatate

dallo spazio.

"Facciamo un po' di luce," disse il primo e accese una lampada a

torcia.

"C'è una bella calca qua dentro."

"Facciamo del nostro meglio." Presi quest'uomo per il proprie-

tario. Non era Mr Nuttail, e mi venne in mente che mia madre ave-

va detto che di recente la fattoria era passata in altre mani.

"Mi dà l'idea che ci sia già abbastanza caldo qui dentro, se vuoi

una mia opinione."

"Non abbastanza, dobbiamo aumentare la temperatura."

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"Quando pensi che si sia rotto, allora?"

"Ieri sera, non so esattamente quando."

"Ed è andata via anche la luce?"

"No, no, il buio è voluto. Questi volatili hanno sei settimane,

capisci? In queste condizioni, se l'ambiente fosse illuminato, non fa-

rebbero che azzuffarsi fra di loro."

"Beh, l'unica cosa che posso fare è verificare il circuito. Il più

delle volte è il sistema di messa a terra che non va."

ma io ne ho fatto mettere uno proprio l'anno scorso. Ne ho

fatto installare uno nuovissimo, perché quello vecchio era fuori uso.

E una notte ci fu anche una vera e propria catastrofe. Tutti gli sfia-

tatoi chiusi sbarrati. La mattina entrai e c'erano novemila polli mor-

ti per terra. Novemila, cazzo. Eravamo in quattro e ci abbiam messo

una mattinata intera per toglierli di mezzo. Li abbiamo spalati fuori

con la vanga."

"Bene, allora dov'è che lo trovo?"

"Dietro la tettoia, vicino alla tramo ggia."

Seguì una breve pausa di silenzio. Poi il secondo disse: "Sì, ma

come ci arrivo?"

"A piedi, no? Perché? cosa credevi?"

"Non posso passare. Non c'è spazio con tutti 'sti pennuti."

"Non ti beccano mica."

"E se li schiaccio?"

"Quello è il meno. Insomma, se ce la fai, non calpestarne troppi.

Ma, qui dentro, ce n'è sempre qualche centinaio che ci resta. Di que-

sto non mi preoccupo."

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"Amico, tu forse stai scherzando."

Il secondo girò sui tacchi e sparì dall'ingresso. Riuscii a vedere

l'allevatore che gli andava appresso.

"Dove vai?"

"Se credi che, per controllare il circuito, io entri lì in mezzo pas-

sando sopra su uno stuolo di maledetti polli..."

"Senti, se c'è un'altra maniera..."

Le voci si allontanarono. Scesi giù dalla pertica e mi spolverai i

vestiti. Mentre tornavo al recinto ai margini del bosco vidi un fur-

gone venir su per la strada d'accesso e posteggiare. Sul fianco delfur-

gone c'era un logo che diceva POLLI TUTFAPOLPA - UNA DIVISIONE DEL

BRUNWIN GROUP. Il nome a quel tempo non mi disse nulla.

 

 

Dorothy credeva fermamente nella ricerca e nello sviluppo, e

nel corso degli anni il Brunwin Group s'era fatto un nome nel set-

tore dell'innovazione tecnologica, in particolare quella applicata

all'allevamento dei polli. Questi furono alcuni dei problemi che

Dorothy si impegnò a risolvere:

1. AGGRESSIVITA': Ai polli di Dorothy, prima di finire in matta-

toio alla settima settimana (appena un cinquantesimo del percorso

del loro arco naturale di vita), veniva assegnato uno spazio di

quindici centimetri quadrati per volatile. Lo spiumaggio a colpi

di becco e il cannibalismo erano all'ordine del giorno fra i pennuti

tenuti in una siffatta condizione di cattività.

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SoLUZIONE: Dopo aver sperimentato speciali occhialetti tinti

di rosso applicati al becco (cosicché, neutralizzando il colore, il

volatile si asteneva dal beccare le creste rosse dei suoi compa-

gni), Dorothy li sostituì con dei paraocchi che impedivano di

vedere dall'una e dall'altra parte. Quando anche questo si di-

mostrò un espediente troppo complesso, si studiò di scoprire

il metodo più efficace di de-becchizzazione. Dapprima fu utiliz-

zata una torcia a fiamma, poi un saldatore. Infine i suoi tecnici

realizzarono una piccola ghigliottina fornita di lame roventi. Era

piuttosto efficace ma se le lame erano troppo infuocate causa-

vano vesciche in bocca; inoltre, dato che bisognava tagliare

quindici becchi al minuto, era difficile agire con estrema accu-

ratezza e c'erano parecchi casi di narici ustionate e mutilazioni

facciali. I nervi danneggiati del becco mozzato tendevano a svi-

lupparsi verso l'interno, avvoltolandosi su se stessi e dando origine

a cronici dolorosi neuromi. Come ultima risorsa, Dorothy fece

in modo di trasmettere musica lenitiva dentro le gabbie e nei

pollai. Manuel e la sua orchestra delle Verdi Valli riscosse un

particolare successo.

2. SECONDO CICLO DI PRODUZIONE-UOVA: Per molti anni, le bat-

terie di galline furono inviate al macello alla fine del ciclo di pro-

duzione di uova, dopo circa quindici mesi: Dorothy, però, era

convinta che ci doveva essere un modo per sollecitare un secondo

ciclo di produzione.

SOLUZIONE: Forzare la muta. Dorothy scoprì che si potevano

abbreviare i tempi del periodo di muta, durante il quale le galline

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non facevano uova, con la tecnica dello shock, sottoponendo i

pennuti a improvvisi cambiamenti nel sistema d'illuminazione o

attraverso un severo programma di deprivazione d'acqua e cibo.

3. I PULCINI MASCHI: i maschi nati nelle batterie di galline pro-

duttrici di uova non sono geneticamente predisposti a ingrassare

per il consumo umano e dunque non hanno alcun valore commer-

ciale. Va da sé che devono essere distrutti Ä appena nati, se pos-

sibile Ä ma come?

SOLUZIONE: Per un po' Dorothy sperimentò una macina capa-

ce di ridurre a carne trita 1000 pulcini ogni due minuti. La polti-

glia così ottenuta si poteva utilizzare sia come mangime che come

concime. Le macine però erano costose da installare. Come pos-

sibile alternativa fu presa in considerazione l'embolia per privazio-

ne d'ossigeno, e così pure l'asfissia con cloroformio e diossido di

carbonio. Ma nulla era veramente più economico Ä così infine fu

deciso Ä del sano vecchio soffocamento. Il metodo più semplice

era quello di stipare migliaia di pulcini l'uno sull'altro e chiuderli

tutti insieme in sacchi. I volatili o soffocavano lentamente o mori-

vano schiacciati.

4. STORDIMENTO PRIMA DELLA MACELLAZIONE: Prima di varare il

metodo standard della scarica elettrica in vasche d'acqua con cor-

rente a bassa tensione, Dorothy aveva cercato di brevettare una

specie di camera a gas attraverso la quale i polli passavano prima

di essere sospinti sul nastro trasportatore. Si verificò, però, che il

disperato sbatter d'ali dentro la camera a gas causava una disper-

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sione di 200 grammi di gas per volatile e il sistema fu bocciato co-

me antieconomico.

Dorothy aveva sempre ritenuto che i metodi di macellazione

basati sull'efficacia dei costi non fossero facili da perseguire. Il di-

spositivo per la scarica elettrica installato nei suoi mattatoi era co-

stoso e lento (naturalmente, se utilizzato con le dovute precauzio-

ni). Qui, e qui soltanto, Dorothy si rivelava una tradizionalista, e

fra sé e sé era convinta che, per abbattere maiali e vitelli, nulla reg-

geva il confronto con un bel colpo d'ascia ben assestato. Conti-

nuava anche a offrire servizi specializzati per la macellazione ritua-

le, malgrado le resistenze che molti ebrei e musulmani avevano co-

minciato a opporre alla pratica: il mercato era ancora là, ribatteva

lei, e bisognava andargli incontro. Era nella macellazione, comun-

que, che si sentiva leggermente in svantaggio rispetto alla concor-

renza, soprattutto perché questa era l'area più manifestamente di-

sertata da George prima che lei assumesse la direzione di tutta l'a-

zienda. Era rimasta basita nello scoprire che lui non aveva quasi

nessuna personale esperienza di soppressione fisica: una volta l'a-

veva trovato in lacrime mentre non sapeva come finire una vacca

afflitta da mastite. La mazza, puntata al centro del cranio, aveva

mancato il bersaglio e s'era confitta in mezzo all'occhio del povero

animale. Mentre la bestia si dibatteva agonizzando, George era ri-

masto immobile in piedi, confuso e tremante. Era toccato allora a

Dorothy andare a prendere un morsetto, stringervi dentro le na-

rici della povera creatura insanguinata per tenerla ferma e abbat-

terla con una potente mazzata, mettendo fine al suo lungo muggi-

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to lamentoso. "Gli uomini!" aveva borbottato sprezzante, ed era

rientrata a cambiarsi onde concedersi prima di cena un gin and

tonic, in poltrona.

 

 

Una sera Ä avevo quasi ventiquattro anni Ä andai a vedere una

serie di film francesi presentati dal cineclub universitario. Il primo

era Le sang des bétes, un breve documentario di Georges Franju

sui mattatoi di Parigi. Alla fine del film, la sala era per metà vuota.

Era il solito pubblico delle proiezioni da cineclub: patiti di film

dell'orrore, in molti casi, per i quali erano molto "in" i film a basso

costo su adolescenti americani fatti a pezzi da psicopatici, o gli incu-

bi fantascientifici pieni di sanguinolenti effetti speciali. Cosa c'era

dunque in questo film, per molti versi così gentile e melanconico,

da indurre le donne a strillare di disgusto e gli uomini a guadagnare

rapidamente le uscite?

Non l'ho più visto da allora, ma molti dettagli mi sono rimasti

saldamente impressi nella memoria. Il bel cavallo bianco da tiro che

si piega sulle ginocchia mentre un puntale gli viene immerso nel col-

lo facendo sprizzare alti schizzi di sangue; vitelli scossi da tremiti

violenti dopo il taglio della gola, lo scuotere violento del capo da cui

sgorgano pentolate di sangue caldo, che si riversa a terra e si disper-

de in rivoli schiumosi, file di pecore senza testa ma con le zampe che

non smettono di scalciare furibonde; vacche con lunghe picche d'ac-

ciaio piantate con forza nei crani, dentro sino al cervello. E poi, qua-

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si a contrappunto, la voce della ragazza che ci presenta le tristi pe-

riferie di Parigi Ä les terrains vagues, jardins des enfants pauvres...

à la limite de la vie des camions et des trains... Gli operai che can-

tano La mer di Trenet mentre fanno a pezzi i corpi degli animali Ä

ses blancs moutons, avec les anges si pures. . - Un gregge di pecore,

piagnucolanti come ostaggi mentre sono condotte al macello dal ca-

pobranco traditore, le trakre, che sa la strada e sa che la sua vita

sarà risparmiata: les autres suivent comme des hommes... Gli ope-

rai che fischiettano, che ridono e scherzano avec la simple bonne

humeur des tueurs, brandendo i martelli, i coltelli, le asce e le man-

naie sans colère, sans haine... senza rabbia, senz'odio.

Non riuscivo a scacciare dalla memoria le immagini di quel film,

e di lì a qualche settimana, durante i momenti di noia in biblioteca,

avevo sfogliato cataloghi di libri di cinema e riviste specializzate per

vedere se era stato scritto qualcosa sull'argomento: sperando, forse,

che l'ascia della critica accademica avesse assestato un colpo mortale

alle immagini che continuavano a torcersi orribilmente nella mia

memoria. Non fu così: anzi, al contrario, dopo una lunga ricerca

mi imbattei in un lungo e brillante saggio di uno scrittore che pare-

va aver liberato il segreto di quella spaventosa veridicità. Finito che

ebbi di leggerlo aprii il quaderno e ricopiai queste parole:

Vuole ricordarci che ciò che è inevitabile può anche essere

spiritualmente intollerabile, che ciò che è giustificabile può

essere atroce...

che, non meno della nostra Matrigna Madre Natura,

anche quel folle Padre che è la Società è, al contempo,

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un consesso di vite e un consesso di morti.

 

 

"Allora," disse Henry, "che c'è di nuovo nella tua azienda?"

"Come al solito," disse Dorothy. "Gli affari non vanno male,

ma andrebbero molto meglio se non dovessimo spendere metà del

nostro tempo a difenderci da quei fanatici ambientalisti. Non ma-

le queste, no?"

Il pronome dimostrativo si riferiva alle fresche uova di quaglia,

avvolte in peperone verde e rosso, che costituivano il loro hors

d'oeuvre. Henry e Dorothy stavano cenando assieme in una sala

privata dell'Heartland Club.

"In parte era di quello che volevo parlarti," continuò Dorothy.

"Arrivano delle storie spaventose dagli Stati Uniti. Hai sentito di

quella droga che chiamano sulfadimidina?"

"No, in verità, non ne so nulla. Che cosa fa?"

"Beh, per quanto concerne l'allevamento di maiali, ha un va-

lore inestimabile. Assolutamente inestimabile. Come sai, abbiamo

fatto enormi passi avanti nei livelli di produzione negli ultimi venti

anni, ma ci sono stati uno o due effetti collaterali controproducen-

ti. Malattie respiratorie, innanzi tutto: ma la sulfadimidina può es-

sere un efficace rimedio contro le forme più acute."

"E allora dov'è il problema?"

"Oh, gli americani l'hanno testata sui topi e sostengono che è

cancerogena. Ora pare che approvino una legge che ne proibisce

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l'uso."

"Mmh. E ci sono altri farmaci disponibili?"

"Niente di così efficace. Cioè, si potrebbe ridurre l'incidenza

della malattia con un allevamento meno intensivo, ma..."

"Oh, che assurdità! Non ha senso mettere a repentaglio la tua

competitività di mercato. Dirò io una parolina al ministro. Sono

sicuro che comprenderà il tuo punto di vista. I test sui topi non

provano nulla, del resto. E inoltre, abbiamo alle spalle una lunga

e onorevole storia di facce di bronzo: sappiamo bene come svin-

colare le raccomandazioni dei nostri consiglieri indipendenti."

Il secondo consisteva in una lonza di maiale glassata, con pa-

tate all'aglio. La carne (come le uova di quaglia) era di Dorothy: i

suo chauffeur l'aveva portata in una ghiacciaia nel portabagagli

dell'auto quel pomeriggio e lei aveva impartito precise istruzioni

allo chef su come cucinarla. Dietro la fattoria teneva un piccolo

stabbio di maiali ruspanti, per suo uso personale. Come Hilary

(che non guardava mai i suoi programmi televisivi), a Dorothy

non passava neanche per la testa di consumare i prodotti che

era così felice di rifilare ai rassegnati compratori.

"Questi ambientalisti ci rompono le scatole non meno che a

voi," disse Henry, ingozzandosi con gusto. "Hanno mandato il

mercato della carne di vitello a carte e quarant'otto, tanto per dir-

ne una."

Era vero: i più grandi produttori inglesi di carne di vitello al

dettaglio avevano recentemente smantellato le loro strette gabbie

d'acciaio e cemento ed erano tornati alla stalla tradizionale. Su

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pressione dell'opinione pubblica, il dirigente aveva ammesso che

il sistema intensivo era stato "moralmente ripugnante".

"Beh, noi continueremo a usare le gabbie," disse Dorothy.

"Dopo tutto, possiamo ancora esportarli. E poi cos'è tutto questo

stupido sentimentalismo sui vitelli? Sono creature così schifose.

Sai cosa fanno se non gli dai da bere per qualche giorno? Comin-

ciano a bere la loro stessa urina."

Henry scosse il capo incredulo davanti alle bizzarrie del regno

animale e tornò a riempire i bicchieri di Sauterne. Intanto Doro-

thy tagliava via il grasso dal suo pezzo di carne e lo sospingeva con

cura verso il bordo del piatto. "E comunque dobbiamo guardarci

dalle lobbies di questi intriganti. Ho il sospetto che Stiano conqui-

stando sempre più voce in capitolo."

"Non hai nulla di che preoccuparti," disse Henry. "I giornali

non si metteranno certo a pubblicare articoli su un tema così

noioso come la produzione degli alimenti, e anche se lo facessero,

al pubblico non interesserebbe, perché sono tutti idioti. Lo sai

tanto quanto me. Mettici pure che la maggior parte delle infor-

mazioni è protetta dalla legge sul segreto d'ufficio. Assurdo, ma

vero. E comunque, qualora uno di 'sti esperti in camice bianco

provasse a far chiasso uscendosene con qualche spifferata, che

ci vuole a bloccarlo mettendo sotto il naso di tutti una sfilza di

numeri che provino l'esatto contrario? I tuoi tecnici son lì per

quello, no?"

Dorothy sorrise. "Hai ragione, naturalmente. Ma, cosa vuoi,

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non sono mica tutti cinici come te..."

"Mi sorprende sentirti parlare così," disse Henry, spingendosi

indietro e allentando la cinta dei pantaloni con una smorfia di piace-

re. "Non sono cinico di natura. Semmai sono un idealista. E del re-

sto, io credo fermamente in gran parte di ciò che i nutrizionisti vanno

dicendo in questo periodo. La differenza è che io tendo a lasciarmi

intenerire piuttosto che allarmare dalle implicazioni sociali."

"Cioè?"

Henry fece una pausa e, quasi sovrappensiero, ripulì con il di-

to il sugo rimasto nel piatto. "Mettila in questi termini: lo sapevi

che nei prossimi cinque anni abbiamo in programma di togliere la

refezjone scolastica a più di mezzo milione di bambini?"

"Non credo che sia una mossa molto popolare."

"Oh, naturalmente ci sarà una grande protesta, ma poi si spe-

gnerà anche quella perché arriverà qualche altro fastidio. La cosa

più importante è che così ci risparmiamo un sacco di soldi e intan-

to un'intera generazione di bambini proletari o di famiglie a basso

reddito non mangeranno altro che patatine fritte e cioccolato,

tutti i giorni. il che vuol dire, in ultima istanza, che cresceranno

con un fisico più debole, e tardi dal punto di vista intellettuale."

Dorothy sgranò gli occhi a quest'ultima affermazione. "Proprio

così," le assicurò lui. "Una dieta ricca di zuccheri rallenta la cre-

scita cerebrale. I nostri esperti l'hanno provato." Sorrise. "Come

sa bene ogni generale che si rispetti, il segreto della vittoria, in

ogni guerra, è saper demoralizzare il nemico."

Il pranzo si chiuse con un pudding alle mele cotogne, affogato

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in una salsa di miele e zenzero. Le mele, come da copione, veni-

vano dal frutteto di Dorothy.

 

 

Ingredienti: Amido, sciroppo di glucosio liofilizzato, sale; esal-

tatore di sapidità: glutammato monosodico, 5-ribonucleotide di

sodio; destrosio, grasso vegetale, pomodoro in polvere, proteina

vegetale idrolizzata, estratto di lievito, coda di bue liofilizzata, ci-

polla in polvere, spezie, aromi vari; coloranti E150, E124, E102;

caseina, tamponante di PH E460, emulsionanti E471, E472(b);

antiossidante E320.

 

 

Una volta Ä avevo all'incirca venticinque anni Ä andai a far vi-

sita ai miei genitori per il fine settimana. Ci furono molti fine set-

timana così durante i miei anni universitari, ma questo spicca sugli

altri perché fu là prima volta in cui mi accorsi di quanto drastica-

mente, da quando ero piccolo, erano cambiate le loro abitudini ali-

mentari. Tutto ebbe inizio, probabilmente, quando, a undici anni,

decisero di mandarmi in una scuola privata. Da allora in poi pareva

che non avessero mai abbastanza denaro. Gli aumenti di stipendio

di mio padre erano rari e di scarsa entità, e penso che egli continuas-

se a rammaricarsi di non aver comprato casa in una zona meno cara.

Mia madre, a quel punto, passò dall'insegnamento part-time al tem-

po pieno. E tuttavia era per lei un vero punto d'onore mettere in

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tavola ogni sera un pasto caldo. Con sempre maggior frequenza quei

pasti cominciarono a uscire da pacchetti preconfezionati, e a metà

anni settanta il processo subì una sensibile accelerazione quando

comprarono un piccolo freezer che fu sistemato in garage. Mio pa-

dre, ben lontano dal dolersene, aveva addirittura sviluppato una

predilezione per questo tipo di alimento, giacché, in parte, gli ricor-

dava quello che consumava ogni giorno a pranzo, insieme ai suoi

colleghi, in mensa. Ricordo di essere tornato a casa quel fine setti-

mana e di aver scoperto che ilfreezer era stipato di scatole Ä più di

venti Ä di una delle più letali creazioni del Brunwin Group: ham-

burger impanati e patatine fritte. Non si doveva far altro che infilare

l'intera vaschetta in forno, e voilà, ecco un piatto appetitoso bell'e

pronto in venti minuti. Tenne a farmi sapere che era un ottimo

espediente quando, due sere alla settimana, la mamma restava a

scuola sino a tardi e lui doveva cucinare da sé. Gli dissi che non

mi pareva un'alimentazione molto bilanciata e lui si giustificò dicen-

do che integrava l'hamburger con due altre prelibatezze della Brun-

win, ossia una zuppa in polvere per cominciare e una crema istanta-

nea al sapore di cioccolato o di fragola, come dolce.

 

Ingredienti: Zucchero, olio vegetale idrogenato, amido; emul-

sionanti E477, E322; aromi, lattosio, caseina, acido fumarico;

agenti di gelificazione E339, E450a; siero in polvere, stabilizzante

E440a; coloranti Elio, E160a; antiossidante E320.

 

In tutti quegli anni, ora lo so, mio padre veniva ostruendo le sue

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arterie di grassi saturi. Sarebbe morto d'infarto, poco oltre il suo ses-

santacinquesimo compleanno.

Devo pensare che è stata Dorothy ad assassinare mio padre?

 

 

Il successo da primato che Dorothy raggiunse nell'allevamento

dei maiali fu addirittura impressionante. C'erano solo alcune dif-

ficoltà che ella riuscì comunque a superare:

1. INETTITUDINE: Non appena cominciò a strappare le scrofe

alla madre-terra, a toglierle dagli stabbi per chiuderle in box di

cemento, scoprì che i loro istinti animali subivano un cambiamen-

to radicale: diventavano inette e spesso si lasciavano cadere sui lo-

ro piccoli mentre poppavano.

SOLUZIONE: Installare una grata dalla quale i piccoli potessero

accedere alle mammelle senza avvicinarsi tanto da essere schiac-

ciati.

2. CANNIBALISMO: Private dell'opportunità di esercitare i propri

istinti profondi, le scrofe cominciarono a mangiare i loro piccoli.

SOLUZIONE: Farle sgravare in angusti gabbiotti, impedite nei

movimenti da uno stratagemma noto come la "vergine di Norim-

berga". I piccoli erano poi indotti a lasciare la madre con la luce a

raggi infrarossi. Questo riduceva il periodo dello svezzamento a

due o tre settimane, invece delle consuete Otto.

3. Murri: Disgraziatamente i piccoli che subivano questo

trattamento erano soggetti a gravi disturbi polmonari che poteva-

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no, ma solo parzialmente, essere arrestati da antibiotici e da rigidi

controlli della temperatura.

Soluzione: Embriotomia. Si scoprì che i porcellini potevano

essere tolti chirurgicamente dal ventre della madre morta in con-

dizioni asettiche onde creare quello che poi venne definito "alle-

vamento a patologia minima".

4. Morso DELLA CODA ED EFFETTO-SELVATICO: I porcellini svezza-

ti, chiusi in recinti densamente popolati, sviluppano presto com-

portamenti aggressivi, come il morso della coda. L' "effetto-selva-

tico" di forte e sgradevole sapore che taluni macellai (in partico-

lare nelle catene di supermercati) asseriscono di rinvenire nella

carne dei maiali maschi.

SOLUZIONE: Taglio della coda e castrazione. Eseguiti, preferi-

bilmente, con un utensile poco affilato, poiché lo strappo a

pressione che ne consegue contribuisce a ridurre il sanguina-

mento.

5. DEFORMITA': Una volta Dorothy fece condurre un'indagine

su 2000 dei suoi maiali allevati su pavimentazioni in cemento, e

scoprì che l'86% soffriva di zoppia e di gravi alterazioni alle

zampe.

SOLUZIONE: Nessuna. Come una volta ebbe occasione di dire

senza peli sulla lingua a un giornalista di "Farmer's Weekly":

"Non sono mica pagata per produrre animali che fanno le belle

statuine".

 

 

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Una sera Ä avrò avuto suppergiù trentasette anni Ä tornai nel

mio appartamento con una busta di plastica in mano, mezza piena

di provviste acquistate nel supermercato di zona. Avevo un litro di

latte, delle lattine di bevande analcoliche, una scatola di biscotti al

cioccolato, quattro barrette di Mars, una pagnotta di pane, e una

porzione di Salsicce e Purè "Inforna e Mangia" del Brunwin Group,

che infilai subito in forno, prima di riporre gli altri acquisti in frigo-

rifero o nella credenza.

Venticinque minuti dopo, quando fu tempo di spegnere il forno,

tiraifuori la scatola della confezione dal secchio dell'immondizia per

verificare se avevo seguito esattamente le istruzioni: e fu allora che

accadde. Fu, suppongo, una specie di epifania. Bisogna che vi ricor-

diate che ero nel periodo in cui non parlavo più con nessuno da più

di un anno: forse stavo diventando matto, ma non credo. Non presi

a ridere istericamente, né feci niente del genere. No. Nondimeno,

esperii quello che potremmo chiamare un raro momento di assoluta

lucidità.- un bagliore dal di dentro, esile e fugace, ma sufficiente a

provocare un duraturo cambiamento, se non nella mia vita, almeno

nella mia dieta.

Non fu tanto per l'immagine pubblicitaria sulla scatola, ma fu

essa a darmi modo di fermarmi a pensare. Rappresentava una fa-

miglia di quattro persone radunate intorno al tavolo da pranzo:

il pater familias tutto buona salute e chiostra di denti bianchissimi,

due bambini dalle guance rosate che fremevano di golosa impazien-

za e la graziosa giovane mamma, col volto acceso da un lucore di

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beatitudine, che serviva l'ultima porzione di Salsicce e Purè nel

piatto del marito, come se quel pasto, il conclusivo trionfo che co-

ronava una giornata di dura fatica e di compiti di sposa solerte,

offrisse l'estrema conferma del suo valore. Non c'è giorno che

non ci rovesci addosso siffatte proiezioni fantastiche e io sono or-

mai immune al loro appello. Sul retro della scatola, però, c'era

una foto a cui non ero preparato. La didascalia recitava: "Come

portarlo in tavola". Mostrava una porzione di Salsicce e Purè sopra

un piatto. Le Salsicce occupavano una metà del piatto, e il Purè

l'altra. Il piatto era su un tavolo.- da una parte c'era un coltello,

dall'altra una forchetta. Tutto qui.

Fissai questa fotografia per qualche tempo, mentre un odioso so-

spetto cominciò a formicolare sotto la mia pelle. Di punto in bianco

ebbi la sensazione che qualcuno, da qualche parte, stesse divertendo-

si mostruosamente a mie spese. E non solo a mie spese, ma alle spe-

se di tutti noi. Vidi improvvisamente in quella fotografia un insulto

rivolto a me e al mondo intero. Tirai fuori la vaschetta di plastica

dal forno e la gettai nel cesto dell'immondizia. Fu l'ultimo pasto

Brunwin che comprai.

Ricordo di aver avuto una gran fame quella notte.

 

 

Sulla via del ritorno dal Lake District, a una quindicina di chi-

lometri dalla fattoria, George si fermò con l'auto sul margine della

strada e restò per un po' in piedi davanti a un cancello a guardare

la brughiera. Era ragionevolmente sobrio, e senza postumi di

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sbronza (non ne aveva mai prese in quei giorni), e ciononostante

si sentiva ancora oppresso da una curiosa pesantezza, da una spe-

cie di presentimento. Come al solito, era agitato all'idea di rivedere

sua moglie; e ad aggravare la faccenda, la sera dopo avrebbero do-

vuto intrattenere gli intollerabili cugini di lei, Henry e Thomas, e

una coppia di dirigenti della Nutrilite, l'azienda che produceva ali-

menti per animali Aveva avuto l'incarico di discutere con la cuoca

un menù provvisorio, ma se ne era completamente dimenticato.

Con ogni probabilità, Dorothy doveva esserè ancora furiosa.

Era via da tre giorni: tre giorni buttati via, perché non era ar-

rivato a nessuna decisione importante circa il suo matrimonio, an-

che se dapprincipio Ä gli veniva in mente ora Ä era stata quella la

ragione principe del viaggio. Almeno adesso s'era convinto che

non avrebbe mai avuto la forza di lasciare Dorothy sapendo che

la fattoria sarebbe restata nelle sue mani; e così stando le cose,

non c'era altro da fare che continuare come prima. C'erano pur

sempre gli animali, naturalmente. E per quanto patetico potesse

sembrare, sentiva che la sua vita non era completamente sprecata

finché fosse riuscito a dare qualche conforto alle creature che ave-

vano patito i più tremendi abusi di sua moglie. Già non vedeva

l'ora di rivederli, di far visita alla stalla e di brindare alla loro sa-

lute dalla bottiglia di whisky che teneva nascosta nel muro, fra i

mattoni smossi.

Era tardo pomeriggio quando arrivò a casa. L'auto di Dorothy

era parcheggiata nel giardino ma lui riuscì a passare oltre, verso le

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cucine, senza essere visto. La cuoca era stravaccata sulla sedia coi

piedi appoggiati sul tavolo, e leggeva una rivista. Quando George

apparve, lei non ebbe alcun sussulto colpevole e si guardò bene

dal rimettersi a trafficare: era già da un bel pezzo (quantunque

lui non ci avesse mai badato) che George non aveva uno straccio

di autorità sul personale.

Chiese se tutto era in ordine per la cena dell'indomani, e lei gli

rispose che sì, era tutto sotto controllo, che avrebbero avuto carne

di vitello, e che era stata Dorothy in persona a scegliere la bestia e

ad abbatterla poco meno di un'ora prima.

George ebbe subito un senso di nausea. Corse verso la stalla e

aprì la porta con un calcio.

Herbert non era morto, non ancora. Era attaccato per le zam-

pe a un gancio e il sangue cadeva gocciolando dalla più sottile del-

le ferite sul collo dentro un secchio lasciato sul pavimento, ormai

pieno per tre quarti. Aveva gli occhi lattiginosi, pallidi, ciechi. E

inoltre, la stalla era vuota.

Ormai in lacrime, George tornò alla fattoria e trovò Dorothy

nel suo ufficio che batteva sulla tastiera di un computer.

"Ciao, caro," disse. "Di già a casa?"

Dato che George non dava alcun segno di risposta, disse: "Mi

spiace molto per il tuo amichetto, caro, ma era proprio il più

asciutto e il più in forma del branco. Toccava a lui".

Fece un giro su se stessa sulla poltrona, lo guardò, sospirò e

uscì dalla stanza. Un minuto dopo rientrò reggendo in mano un

fucile.

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"Per amor di dio," disse, tendendogli l'arma. "Finiscilo, se ci

tieni. Il sapore non sarà più così buono, ma che ci importa? Qual-

siasi cosa pur di non farti soffrire."

George prese il fucile e uscì. Dorothy tornò alla tastiera e

aspettò di sentire lo sparo. In realtà ne risuonarono due. Fra il pri-

mo e il secondo una manciata di secondi.

"Idiota," borbottò. "Non è neanche capace di colpire un vitel-

lo a mezzo metro di distanza."

Dorothy non fu mai in grado di stabilire, con assoluta certez-

za, quale dei suoi dipendenti condì la notizia per il "News of the

World". Finì col licenziare un lavoratore di mezza età, Harold,

che le dava parecchie noie: in realtà fu come prendere due piccio-

ni con una fava, giacché Harold, a forza di aspirare letame spray,

aveva dei polmoni in pessime condizioni e non le era più di gran-

de aiuto. Che fosse stato lui, era molto improbabile. In ogni caso,

l'articolo era ben poca cosa, infilato, com'era, in nona pagina:

qualche scandalistico, faceto paragrafo sotto il titolo Patto suicida

di un allevatore pervertito innamorato di un vitello. I PR di Dorothy

le assicurarono che nessuno aveva preso la cosa molto seriamente,

e invero, pochi mesi dopo, tutti i particolari dell'incidente entra-

rono nel dimenticatoio, senza lasciar traccia.

Questo accadeva nel giugno del 1982.

 

 

 

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GIUGNO 1982

 

La parola esisteva, lo sapevo. Ma non mi veniva.

baldanza... finezza.., stile...

Dovevo prendere il treno delle 3 e 35 ma quella recensione mi

aveva preso più tempo di quanto mi fossi aspettato, e adesso ero

in uno spaventoso ritardo. Stipai alla bell'e meglio vestiti per cin-

que giorni dentro una sacca da viaggio, insieme a un paio di libri e

al block-notes. Avevo sperato di dettare il testo al giornale per te-

lefono prima di partire, ma ormai non c'era più il tempo. L'avrei

fatto una volta arrivato a Sheffield. Era sempre così: sempre quelle

due ultime frasi, il riassunto imparziale, l'ironica frecciata di chiu-

sura, che costavano un dispendio eccessivo di tempo e fatica.

Lasciai un veloce appunto al mio compagno di stanza, chiusi

tutte le porte a chiave, e poi, sacca in mano, salii su per la scala

d'acciaio che riguadagnava il livello stradale. Era un giorno d'esta-

te, caldissimo, senza un alito di vento, ma dato che non avevo

messo piede fuori di casa da più di quarantott'ore Ä il tempo

che mi ci era voluto per leggere il libro e formulare il responso

critico Ä il sole e l'aria pura sembrarono rinvigorirmi sull'istante.

Il nostro appartamento seminterrato stava in una stradina non

lontana dalla Earl's Court Road, a pochi minuti dalla stazione

del metrò. Era una zona molto animata, di palazzi un po' malan-

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dati e con qualche problema di sovrappopolamento; il trambusto

e il brulicare di attività potevano talora sopraffarti, ma quel pome-

riggio mi infusero solo buon umore. Di colpo ebbi l'impressione

che avrei potuto, per la prima volta nella mia vita, dar inizio a una

grande avventura.

Per andare dall'Earl's Court a St Pancras si faceva un noioso

viaggio di venti minuti sulla linea di Piccadilly. Come al solito ave-

vo un libro aperto fra le mani, ma non riuscivo a concentrarmi

nella lettura. Ero percorso da brividi di ansietà e speranza. Joan:

che strano rivedersi. Rivedersi non come accadeva quasi ogni Na-

tale quando entrambi tornavamo a casa dai rispettivi genitori, ma

stare insieme, tornare a frequentarsi. Per telefono la sua voce era

suonata disponibile, sicura, autorevole. L'invito ad andarla a tro-

vare era stato buttato là senza parere, quasi sovrappensiero, e ora

mi veniva in mente che forse non attribuiva all'evento una grande

importanza Ä ero solo un altro ospite da inserire velocemente den-

tro un calendario che pareva fitto di impegni di lavoro Ä mentre

io, al contrario, lo caricavo di aspettative e di gravità: mi si presen-

tava lopportunità di riscoprire l'io ottimistico ed esuberante della

giovinezza, che avevo quasi smarrito durante quell'assurdo matri-

monio, e del quale Joan era allora, di fatto, l'unica testimone so-

pravvissuta.

Questi erano i pensieri che mi passavano per la testa mentre

andavo in metropolitana verso King's Cross; o quantomeno una

fetta di pensieri. A dire il vero, il tempo del tragitto lo impiegai,

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in gran parte, a guardare le donne che c'erano sulla vettura.

Non solo ero divorziato da otto anni ma non facevo l'amore

con una donna da più di nove, e nel frattempo ero diventato

un inveterato scrutatore, esaminatore, soppesatore di possibilità,

gravando ogni sguardo di quella furtiva intensità che è il marchio

del maschio veramente allo stremo (e pericoloso). La presente oc-

casione scremò ben presto non più di due oggetti da prendere in

seria considerazione. Una sedeva sulla mia stessa fila ma più in

fondo, vicino alle porte; minuta, composta, una che spendeva

molto per vestire: il classico tipo Grace Kelly-bionda glaciale.

Era salita a Knightbridge. All'altra estremità della vettura stava

una bruna più alta e dall'aria più ascetica: l'avevo notata sul mar-

ciapiede della stazione di Earl's Court, ma sia allora, sia adesso, mi

riuscì difficile identificarne le fattezze dietro il sipario della sua

splendida chioma nera e del giornale alzato, immersa com'era nel-

la lettura. Tornai a posare lo sguardo sulla bionda, un'occhiata ar-

dita, obliqua che lei Ä se non me l'ero solo immaginato Ä raccolse

e sostenne per un impalpabile istante, rispondendo con occhi in

cui non si leggeva incoraggiamento, ma neppure biasimo. Mi lan-

ciai subito in una fantasia, la mia fantasia prediletta: quella in cui

succedeva, miracolosamente, che lei scendeva alla stessa fermata,

proseguiva verso la stessa stazione, prendeva lo stesso treno, anda-

va nella stessa città in cui andavo io: una serie di coincidenze che

infine ci univano, e mi affrancavano senza sforzo dalla necessità di

prendere in mano le redini degli eventi. E più ci avvicinavamo a

King's Cross, più desideravo che lei restasse sulla vettura. A ogni

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fermata avvertivo la morsa di un vertiginoso, profondo terrore, e

mentre la prospettiva di avviare una conversazione con lei mi pa-

reva vieppiù desiderabile, i suo volto e la sua figura venivano via

via approssimandosi ai vertici della perfezione o quasi. Leicester

Square, Covent Garden, Holborn. Ero sicuro che sarebbe scesa a

Holborn, invece no, aveva semmai l'aria rilassata di chi si gode la

comodità di stare seduto, in una postura di seduttiva languidezza

(eravamo i soli passeggeri rimasti nella nostra metà della vettura e

io mi stavo lasciando completamente trasportare da questa sce-

na.) Due fermate ancora. Se solo.., se solo.., se solo... E infine ec-

co King's Cross: stavamo entrando nella stazione, e quando la

guardai, senza alcuna vergogna questa volta, mi resi conto subito,

quasi fosse ovvio, che lei non sarebbe scesa neanche lì, che non le

passava neppure per la testa: la mia fantasia era sul punto di sbri-

ciolarsi e, per far precipitare la situazione, le diedi un'ultima oc-

chiata furtiva, appena prima che si aprissero le porte, e lei mi ri-

spose con una luce di inquisitiva pigrizia negli occhi, che mitra-

passò, inesorabile, da parte a parte. Mi avviai sul marciapiede

della stazione ma avevo piombo nelle membra; funi emotive mi

tenevano legato al treno, come un elastico impedimento. Ripartì;

mi girai, non riuscii a scorgerla; e per qualche minuto, andando

verso St Pancras, facendo il biglietto e ammazzando il tempo da-

vanti all'edicola, ebbi un vuoto mortale nello stomaco, la sensa-

zione ferita di essere in qualche modo sopravvissuto a un'altra se-

quenza di tragediucole che minacciavano di ripetersi di giorno in

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giorno all'infinito.

Seduto nella vettura del treno per Sheffield, in attesa che si

mettesse in moto, rimuginai sull'umiliante incidente e maledii la

malasorte Ä se di malasorte si trattava Ä che mi aveva marchiato

per sempre come uomo di immaginazione piuttosto che d'azione:

condannato, come Orfeo, a vagare in un Ade di chimere, mentre

il mio eroe, Yuri, non avrebbe esitato a lanciarsi impavido verso le

stelle. Poche parole scelte con cura: tutto qui. Non ci voleva altro,

eppure non mi venivano in mente. Dio santo! Ed ero anche uno

scrittore a cui avevano pubblicato dei libri! Cosa facevo invece?

Restavo inchiodato li a sognare ridicolissime storie: l'ultima delle

quali coinvolgeva l'oggetto della mia attrazione che si rendeva im-

mediatamente conto d'aver perso la fermata, sgusciava fuori a Ca-

ledonian Road, fermava un taxi e arrivava appena in tempo per

balzare sul mio treno mentre già era in moto. Patetico. Chiusi

gli occhi e cercai di pensare a qualcos'altro. A qualcosa di utile,

per una volta. La parola: quello era ciò su cui dovevo concentrar-

mi, la parola che continuava a sfuggirmi... era vitale che tirassi

fuori quella frase finale prima di arrivare a Sheffield.

...il garbo indispensabile.., l'indispensabile entusiasmo... l'esprit...

Questo stratagemma si rivelò sorprendentemente fortunato.

Mi immersi in una tale concentrazione che non sentii il fischio

del capotreno; notai appena che il treno si metteva in moto; ebbi

solo l'oscura percezione dello sportello del vagone che s'apriva e

del salire di qualcuno molto agitato che entrava nello scomparti-

mento senza fiato, lasciandosi cadere su una poltrona a qualche

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fila di distanza dalla mia. Fu solo quando guadagnammo velocità

fra i sobborghi di Londra che registrai la sua presenza, la guardai

e riconobbi in lei la donna dai capelli scuri che stava sul metrò.

L'inevitabile brivido di esaltazione durò solo una frazione di se-

condo. Fu infatti scalzata da qualcosa di molto' più potente: una

fantastica onda d'urto emotiva, fatta di compiacimento, sgomento

e, a tutta prima, di ostinata incredulità. No, non poteva essere ve-

ro, eppure stava proprio leggendo Ä no, non il giornale, ma un li-

bro smilzo, rilegato, con la mia fotografia in quarta di copertina.

E' il sogno di ogni autore, io credo. E dato che accade raraÄ

mente, anche nella vita delle celebrità letterarie, si pensi quanto

prezioso sembrasse a un giovane, ignoto scrittore come me, affa-

mato di prove, quali che fossero, dell'incidenza della sua opera

sulla coscienza del pubblico. Le brevi, rispettose recensioni che

avevo avuto sui giornali e sulle riviste letterarie Ä talune le avevo

addirittura imparate a memoria Ä impallidivano sino a perdere si-

gnificato davanti a quell'inaspettata rivelazione che il vasto mondo

celava qualcosa di totalmente altro, qualcosa di non sospetto, vivo

e arbitrario: un lettore. Questo fu ciò che provai in prima istanza.

Poi, naturalmente, seguì l'inequivocabile consapevolezza che final-

mente era arrivata l'opportunità che da tanto desideravo, la scusa

infallibile, il perfetto accesso alla conversazione: giacché, in simili

circostanze, era sicuramente sconveniente non presentarmi. Resta-

va solo una domanda a cui rispondere: come, e quando, fare la

mia mossa.

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Ero determinato ad andare coi piedi di piombo. Alzarsi con

una scusa, sedersi di fronte a lei e dire una cafonata come "Vedo

che sta leggendo un mio libro" Ä o, peggio ancora, "Le donne che

hanno buon gusto in letteratura hanno tutta la mia ammirazione",

non andava proprio. Molto meglio fare in modo che la scoperta

fosse opera sua. Beh, non doveva essere difficile. Dopo qualche

minuto di esitazione, mi alzai e mi spostai con il mio bagaglio

in una poltrona di fronte alla sua ma sull'altro lato del corridoio

centrale. Questo bastò per attirare la sua attenzione e strapparle

un moto di sorpresa, fors'anche di fastidio. Dissi: "E' per il sole,

ce l'avevo in faccia" Ä una giustificazione inconsistente, a ben ve-

dere, dato che il mio nuovo posto era in pieno sole non meno del-

l'altro. Lei non disse nulla; si limitò a sorridere con qualche fred-

dezza e tornò alla lettura. Mi accorsi che era arrivata più o meno

a pagina cinquanta, a un quarto dell'impresa: a sole poche pagine

da quella che era (o tale l'avevo ritenuta scrivendo) la scena più

sfrenatamente comica di tutto il romanzo. Aderii con la schiena

alla poltrona e la spiai con discrezione, con la coda dell'occhio;

preoccupandomi, al contempo, di mettere bene in vista Ä se

mai si fosse presa il disturbo di gettare un'occhiata Ä il mio pro-

filo, con la stessa angolazione che aveva scelto lo studio fotogra-

fico a cui mi ero rivolto personalmente e con considerevole spesa.

Passarono dieci o dodici pagine, e altrettanti minuti, senza che

accadesse nulla di immediatamente riconoscibile come diverti-

mento: neanche l'eco lontana di un sorriso, lasciamo stare i di-

sperati spasmi di ilarità che il passo Ä come avevo amorosamente

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carezzato nell'immaginazione Ä doveva provocare nel lettore.

Che cosa aveva questa qui? Nell'edizione rilegata i miei libri ave-

vano venduto così poco da far pietà Ä sei o settecento copie, o

giù di li Ä com'è che questa copia era finita nelle mani di una

lettrice così palesemente estranea al tono e ai modi del romanzo?

Questa volta la osservai più attentamente in faccia: notai una to-

tale assenza di humour nel taglio degli occhi e nella linea della

bocca, e le tracce di una ruga solenne che aveva scavato sulla

fronte gualcita una permanente espressione accigliata. Continua-

va a leggere. Attesi altri cinque minuti con crescente impazienza.

Mi lasciai ostentatamente scivolare sulla poltrona, per due volte,

addirittura, mi alzai per prendere la mia sacca dalla reticella per i

bagagli e toglierne aggeggi di nessuna necessità; e infine mi ri-

dussi all'espediente di simulare un violento attacco di tosse,

che durò sinché, lanciandomi un obliquo sguardo di guardinga

apprensione, disse:

"Scusi, sta per caso cercando di attirare la mia attenzione?"

"No, no, assolutamente no," dissi, consapevole del virulento

rossore che prese a infuocare le mie guance.

"Vuole una caramella?"

"No. Sto bene. Davvero."

Lei tornò al libro senza aggiungere verbo, e io ripiombai nella

frustrazione del silenzio, riuscendo a stento a farmi una ragione di

quanto ardua la situazione si stesse rivelando. Una situazione che

era andata oltre l'imbarazzo per precipitare nel regno della stupidità

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senza rimedio. Mi restava solo un'opzione e dissi: "E' vero, lo am-

metto, stavo proprio cercando di attirare la sua attenzione".

Lei sollevò lo sguardo in attesa di una spiegazione.

"E' per... il libro che sta leggendo."

"Che cosa c'entra?"

"Non nota nulla della fotografia sulla quarta di copertina?"

Voltò il volume. "No, non capisco...". Indi passando con gli

occhi da me alla fotografia, dalla fotografia a me, si aprì in un in-

credulo sorriso. "Ma allora..." Quel sorriso le accese il volto inte-

ro; tutto cambiò di punto in bianco e lei si fece immediatamente

disponibile e raggiante. E poi seguì il riso. "Lei che se ne sta se-

duto li... insomma, è incredibile. Io sono una sua grandissima fan,

sa? Ho letto tutti i suoi libri."

"Tutti e due," corressi io.

"Tutti e due, certo. Beh, voglio dire: ho letto il primo e adesso

sto leggendo quest'altro. E mi piace da pazzi."

"Le spiace se..." e feci cenno al posto davanti a lei.

"Se mi spiace? Ma si figuri... cioè, è così eccezionale. E'... in-

somma, è il sogno di tutti i lettori, no?"

"E di tutti gli scrittori," dissi, accostandomi al suo tavolino.

Ci sorridemmo timidamente per un po', incerti su come co-

minciare.

"La stavo guardando, poco fa," dissi. "Lei, se non sbaglio, sta-

va leggendo quella grande scena, quella del matrimonio?"

"il matrimonio, sì, proprio quella. E' tutto un capitolo meravi-

glioso... così "commovente."

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"Ah sì? E' così che la pensa? E io che speravo fosse comico."

"E lo è. Volevo dire che è commovente.., e comico. E' per

quello che suona così acuto e intelligente."

"Non mi sembrava che stesse ridendo. Tutto qui."

"Ma io stavo ridendo. Ridevo dentro di me, davvero. Io, quan-

do leggo, rido ma non lo faccio vedere. E' una cosa che tengo per

me."

"Comunque ha dato un senso alla mia giornata." Ed ecco di

nuovo quel sorriso; e la seduttiva spensieratezza del ravviarsi i ca-

pelli indietro. "A questo punto mi presenterei, naturalmente, se

non fosse che lei sa già chi sono."

Lei raccolse l'imbeccata. "Mi spiace tanto. Avrei dovuto farlo

prima. Io sono Alice. Alice Hastings."

Il treno stava arrivando a Bedford. Alice e io parlavamo da

una buona mezzoretta; ero andato al vagone-bar e le avevo offerto

una tazza di caffè; ci eravamo scambiati opinioni sulla guerra nelle

Falldand e sul valore di diversi autori contemporanei, scoprendo

una sostanziale unità di vedute in entrambi i campi. Lei aveva un

viso delizioso, vagamente equino, un grazioso lungo collo e una

voce rotonda, pastosa, profonda. Era una sensazione meravigliosa

poter godere di nuovo d'una compagnia femminile. Gli ultimi an-

ni erano stati, da quel punto di vista, una vera desolazione: prima

l'impossibile matrimonio con Verity, poi la decisione, a metà degli

anni settanta, di andare all'università, dove, scoprii, malgrado la

designazione ufficiale di studente "maturo", che tutti i miei com-

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pagni di corso non facevano altro Ä o così pareva Ä che passare da

un rapporto fisico all'altro con un talento tale da farmi sentire, al

confronto, un adolescente imbranato. Forse era per questo che la

vita dello scrittore mi era sempre sembrata così allettante: per il

rifugio che offriva di fronte alla fatica dell'inserimento sociale,

per la luminosa legittimazione conferita alla solitudine. Patrick

vi aveva alluso pesantemente quando se n'era uscito con quell'as-

senza di "dimensione sessuale" nella mia opera; ma io scacciai via

quel ricordo. Arrossivo ancora al pensiero di quella conversazio-

ne,né riuscivo a immaginare quando mai sarei stato in grado di

ria.ffrontare Patrick.

"Dunque, dove sei diretto?" chiese Alice; e quando glielo dis-

si: "Ci sta la tua famiglia?"

"No, vado a trovare un'amica che vive li da qualche anno. Fa

l'assistente sociale."

"Capisco. E... allora è la tua ragazza?"

"No, no, assolutamente no. No, Joan e io... è... da quando era-

vamo. Cioè..." Mi venne subito in mente che non era così sempli-

ce ragguagliarla in quattro e quattr'otto sulla situazione. "Hai vi-

sto quel mio profilo un paio di mesi fa in uno dei supplementi do-

menicali: 'La prima storia che ho scritto'?"

"L'ho visto, sì. Era adorabile: quella parodia terribilmente di-

vertente dei racconti polizieschi di quando avevi dodici anni o giù

di li. Devi essere stato davvero un ragazzino precoce."

"Avevo otto anni," dissi con gravità. "E avevo tutta l'intenzio-

ne di essere serio, serissimo. Comunque, Joan era, direi proprio, la

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mia migliore amica in quei tempi là. Abitava quasi a due passi da

casa mia, e andavamo a giocare insieme in una fattoria: la foto che

hanno usato nella rivista, quella in cui siedo a una scrivania con

un'aria seriosa da intellettuale, fu fatta nella stalla dove noi aveva-

mo una specie di covo. Sapevo che era perfetta per l'uso che ne

dovevano fare Ä avrebbero dovuto tagliarla in due per far sì che

lei non comparisse Ä ma avevo perso la mia copia tantissimi anni

prima. Chiamai i miei genitori ma neanche loro non avevano idea

di dove fosse, così, alla fine, telefonai a Joan con la vaga speranza

che lei ne avesse ancora una. Con mia grande sorpresa, ce l'aveva:

per tutto questo tempo non se n'è mai distaccata. Così lei me la

mandò e... devo ammettere che fu dolcissimo, in certo qual modo,

sentirsi di nuovo, perché non avevamo avuto granché da dirci da

quando... non so, dal mio matrimonio, suppongo, che s'era con-

sumato piuttosto velocemente, e dopo d'allora ci siamo sentiti al-

tre volte, e infine mi ha chiesto se volevo andar su da lei e stare

insieme per qualche giorno e io ho pensato... beh, perché no?

Dunque, eccomi qua."

Alice sorrise. "Ti è rimasta appiccicata addosso a quanto pare."

"Chi, Joan? No. Ci conosciamo appena, davvero. Eravamo so-

lo ragazzini."

"Mah, non so: quel tenersi la foto tutti questi anni. Adesso, coi

bei libri che hai pubblicato e tutto quel che segue, devi sembrarle

affascinantissimo."

"No, è per... i vecchi tempi, è perché ci sono rimasti nel

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cuore."

Nonostante stessi facendo di tutto per sdrammatizzare la fac-

cenda, vedevo che il tema-Joan stava mettendo Alice a disagio. Si

trattava forse di un'acuta fitta di incipiente gelosia? Di già? Fu co-

sì, comunque, che decisi di interpretarla, nella mia maligna esalta-

zione, e il sospetto fu immediatamente confermato quando lei get-

tò una fugace occhiata all'orologio e cambiò argomento con spu-

dorata precipitazione.

"Guadagni molto scrivendo, Michael?"

Poteva suonare una domanda sconveniente; ma se Alice aveva

corso un rischio, l'aveva anche valutato con intelligenza: ormai le

avrei detto tutto.

"Non molto, no. In realtà non è per quello che si scrive."

"No, ovviamente. Te l'ho chiesto solo perché, beh, perché an-

ch'io lavoro in editoria e so che cifre girano. So che non deve es-

sere facile per te."

"Lavori in editoria? Per chi?"

"Oh, non li avrai mai sentiti nominare. Temo di lavorare all'e-

stremo margine dello spettro, il meno prestigioso. Due parolette mi-

cidiali che faccio persino fatica a pronunciare." Si protese in avanti e

la sua voce si inabissò in un sospiro melodrammatico: "Vanity

Press",

Sorrisi indulgente. "Beh, se ci pensi, la maggior parte dell'edi-

toria è editoria di vanità. Io, certo, non ci tiro fuori uno stipendio

per vivere, e scrivere mi prende un sacco di tempo che, credo, po-

trei investire in altri tipi di lavoro, dunque si può dire che, in un

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certo qual modo, sono pagato per il privilegio."

"Sì, ma noi pubblichiamo le schifezze più spaventose. Roman-

zi terribili e noiosissime autobiografie... Roba che in u.na libreria

semi decente non arriverà mai."

"Tu fai l'editor per quelli lì?"

"Sì, devo contattare al telefono questi autori balenghi e rassi-

curarli che sì le loro opere sono proprio valide, anche se, ovvia-

mente non lo sono. E talvolta devo trovare degli scrittori, opera-

zione ben più delicata: sai, magari c'è qualcuno che vuole farsi

scrivere un libro Ä che so, la storia della sua famiglia o qualcosa

del genere Ä e noi dobbiamo trovare chi lo scrive, chi si assume

l'incarico. E' quel che sto facendo adesso, in realtà."

"Accidenti, però: che arroganza 'sta gente: presumere che val-

ga la pena di scrivere le storie delle loro famiglie."

"Beh, ci sono anche delle famiglie famose, in realtà. Hai mai

sentito parlare degli Winshaw?"

"Ti riferisci agli Winshaw di Henry Winshaw, quel maniaco

che sta sempre in televisione?"

Lei rise. "Giusto. Ebbene, la... zia di Henry, sì la zia, vuole che

si scriva un libro su di loro. Solo che vuole uno scrittore vero.

Non un negro qualsiasi."

"Dio, bisognerebbe essere degli stakanovisti per accettare un

simile incarico!"

"Suppongo di sì. C'è però anche da dire che sono ricchi sfon-

dati quelli, tutti, e pare che lei sia pronta a pagare una somma che

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ha dell'incredibile."

Ebbi il primo sentore di dove quella conversazione voleva andare

a parare e, mi diedi una pensosa grattatina al mento. "Sai, sembra

quasi... sembra quasi che tu stia cercando di vendere l'idea a me."

Alice rise: parve sinceramente colpita da quell'uscita. "A te?

Sant'iddio, no. Tu sei un vero scrittore, tu sei famoso, non mi sarei

mai sognata che tu..."

"Ma non ti saresti neanche mai sognata di incontrarmi su un

treno, no?"

"No, ma... Oh, insomma, è ridicolo, non vale neppure la pena

di parlarne. Tu devi avere così tanto da fare, la testa piena di così

tante idee per nuovi romanzi..."

"Guarda caso, non ho nessuna idea per nuovi romanzi, al mo-

mento. Ne ho parlato giusto qualche settimana fa col mio editor e

siamo arrivati a un'impasse."

"Ma... senti, non mi starai mica dicendo che sei seriamente in-

teressato alla cosa?"

"Beh, non mi hai ancora detto i termini economici dell'accor-

do."

Me li espose, e io dovetti far forza su me stesso per non guar-

darla a occhi sgranati e a mascella lassa, ma non fu facile. Provai a

ostentare freddezza e sicurezza nei pochi secondi che ci vollero

per realizzare che avrei potuto permettermi di lasciare l'apparta-

mento in Earl's Court, per esempio, e comprarmi una casa di pro-

prietà; o che, con la somma di cui stava parlando, sarei riuscito a

vivere confortevolmente per parecchi anni. Ma c'era qualcos'altro

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che dovevo sapere, qualcosa di ben più importante, prima di far-

mi trascinare giù per quella strada pericolosa.

"E questo libro," dissi, "è il tuo protetto, vero? La tua crea-

tura."

"Oh sì, dici bene, lo è. Noi dovremmo.., insomma, immagino

che dovremmo lavorarci su assieme."

La voce del capotreno arrivò attraverso gli altoparlanti ad an-

nunciare che il treno stava entrando nella stazione di Kettering.

Alice si alzò in piedi.

"Beh, senti, io scendo qui. E stata una gioia conoscerti, e...

Senti, non devi darmi una risposta di circostanza. Non è che ma-

gari ti interesserebbe davvero assumerti questo incarico, che ne

dici?"

"Dico che non è escluso. Che non ho nulla in contrario."

Ricominciò a ridere. "Non posso credere che stia accadendo

veramente. Davvero. Senti, ho un biglietto da visita qui dentro,

da qualche parte..." Frugò dentro la borsetta. "Prendilo e dammi

un colpo di telefono quando avrai avuto un momentino per farci

su un pensiero."

Presi il biglietto da visita e gli gettai un'occhiata. Il nome del-

l'azienda, The Peacock Press, era evidenziato in caratteri rossi, e

sotto si leggeva 'Hortensia Tonks, Senior Editor'.

"Chi è questa?" chiesi, indicando il nome.

"Oh, quella è... il mio capo. Non mi hanno ancora dato un bi-

glietto da visita personale: da un certo punto di vista sono una nuo-

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va arrivata. Ma chissà," e qui .Ä me lo ricordo con nettezza Ä mi

toccò leggermente sulla spalla, "tu potresti essere il mio passapor-

to per una promozione. Voglio vedere che faccia faranno quando

dirò loro di aver coinvolto Michael Owen per il libro sulla fami-

glia Winshaw, voglio vedere." Fece un frego sul nome ignoto e

scrisse il suo, con una calligrafia larga, angolosa. Poi mi prese la

mano e la strinse per un commiato molto formale: "Bene. Per

ora, arrivederci".

Il treno stava per fermarsi. Prima che raggiungesse lo sportello

della vettura, chiesi: "Quanto hai detto che ti fermerai da tua so-

rella?"

Lei si girò, ancora sorridente: "Un paio di giorni. Perché?"

"Viaggi con poco, eh?"

Avevo notato lì per li che non aveva bagaglio; solo una borset-

ta nera.

"Oh, quel che mi occorre me lo tiene lei. E' carino, quasi come

avere una seconda casa."

Spinse lo sportello della vettura e mi lasciò con l'immagine del

suo sorriso soddisfatto, dello sventolio della mano: un'immagine

che doveva lentamente dissolversi nel nulla negli otto lunghi anni

che passarono prima di rivedere, di sfuggita e per l'ultima volta,

Alice Hastings.

 

 

 

 

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2.

 

...l'indispensabile vivacità.., l'indispensabile ar-

dore...

Ci siamo, quasi. Siamo vicinissimi, adesso. Vici-

nissimi.

 

 

Col progredire del viaggio il mio umore continuava a mi-

gliorare. I libri che mi ero portato rimasero chiusi sul tavolino;

mi abbandonai, invece, a una languida contemplazione del pae-

saggio. Appena fuori Derby le fabbriche e i magazzini di mat-

toni rossi che costeggiavano la linea ferroviaria lasciarono il po-

sto al fondo verde della campagna: le vacche olandesi bruca-

vano sui pascoli collinosi punteggiati soltanto da belle fattorie

di pietra arenaria o, di tanto in tanto, da un villaggio, poche

file di casette dai tetti d'ardesia accoccolate dolcemente in

una valletta. Più avanti, cominciarono ad apparire immensi cu-

muli di carbone lungo i binari: Chesterfield annunciò l'ingresso

nell'area mineraria, col suo cielo dominato dapprima dalle gru

e dagli alberi dei pozzi e poi dall'incongruo apparire della cu-

spide curva di una chiesa che mi riempì di colpo di nostalgia,

facendomi tornare indietro di quindici anni e più, ai titoli di

testa di una stupida serie televisiva d'ambientazione clericale

che da adolescente mi aveva molto entusiasmato. Mentre ero

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sprofondato nei ricordi imbucammo gallerie e percorremmo

lunghe trincee di strada ferrata scavate nella roccia. La linea

ferroviaria era così fittamente circondata d'alberi che la stessa

Sheffield mi si parò dinnanzi di sorpresa con la vista di una se-

quenza di casette tutte uguali contro l'azzurro d'un cielo che

faceva pensare al Mediterraneo, in fila, una dietro l'altra, sul

crinale altissimo di una collina. All'improvviso mi si srotolò da-

vanti una spettacolare veduta di città: le acciaierie e le ciminie-

re delle fabbriche lungo la linea ferroviaria quasi svanirono di

fronte al candore dei pendii sui quali la città era stata audace-

mente costruita, con falangi di turriti caseggiati che salivano

gradualmente verso la sommità delle colline. Non ero per nulla

preparato a una tale improvvisa, austera bellezza.

"Austera bellezza": perché usai quell'espressione? Aveva dav-

vero a che fare con la città che stavo descrivendo o non, invece,

col volto di Alice che s'imponeva alla melanconica dignità di que-

gli edifici consegnandoli ai miei occhi incantati in quella veste fa-

scinosa? Di sicuro era ad Alice che stavo pensando quando Joan

emerse dalla folla in attesa alla stazione col suo sorriso di benve-

nuto e il suo ansioso sbracciarsi, e mi gettò di punto in bianco nel-

lo sconforto. Aveva messo su qualche chilo, non portava un filo di

trucco e aveva un fare scialbo e sgraziato. (Osservazioni, queste,

che non mi fanno onore, lo so: ma perché nasconderle?) Dopo

avermi stritolato con un abbraccio e umettato la guancia con un

bacio, mi condusse al parcheggio.

"Non andiamo a casa subito," disse. "Prima voglio farti vede-

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re un pezzo di città."

Sono un midlander di nascita e un londinese di adozione. Non

avendo mai vissuto nel nord dell'Inghilterra l'ho sempre guardato

con un certo distacco, con un misto di paura e attrazione. Mi sem-

brava straordinario, per esempio, di ritrovarmi, dopo due ore e

mezza di treno, in una città che dava l'impressione d'essere così

palpabilmente diversa da Londra e così rasserenante. Non sono

sicuro se la differenza stava nell'architettura o nelle facce della

gente che avevo intorno, o nei vestiti che portavano, o addirittura

nella consapevolezza che a sole poche miglia si aprivano vasti e

ameni tratti di brughiera: forse aveva ragioni più profonde e de-

rivava da un che di fondamentale legato allo spirito del luogo.

Joan mi disse che Sheffield era stata soprannominata "la Repub-

blica socialista dello Yorkshire del sud" e cantò le lodi di David

Blunkett che in quel periodo era a capo dell'amministrazione co-

munale laburista della città. Venendo da Londra, dove l'opposi-

zione a Mrs Thatcher era virulenta ma fatalmente disgregata e di-

sorganica, fui immediatamente sopraffatto dall'invidia al pensiero

di una comunità che riusciva a fare cordone intorno a una causa

comune.

"Non c'è nulla di tutto questo nel Sud," dissi. "Metà dei so-

cialisti che conosco sono passati nelle fila dei socialdemocratici."

Joan rise. "Nelle elezioni locali del mese scorso sono stati bat-

tuti. Persino i liberali hanno preso solo pochi seggi." Qualche mi-

nuto dopo passammo accanto alla cattedrale e lei disse: "Ci sono

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stata di recente per una funzione commemorativa per i morti sulla

Sheffield di Sua Maestà".

"Erano tutti di qui?"

"No, per niente. Ma i cadetti della locale accademia marittima

erano affiliati alla nave, e l'equipaggio veniva sempre a far visita ai

centri per l'infanzia e cose del genere. Eravamo tutti distrutti

quando è affondata. Shiny Sheff, così la chiamavano qui. La fun-

zione era affollatissima: c'erano centinaia di persone rimaste fuori

delle porte della cattedrale. La fila arrivava sino alla York Street."

"Immagino che ci fosse molta rabbia per la guerra."

"Non tutti erano infuriati," disse Joan. "Né tutti erano contra-

ri alla guerra. Ma non era quello il punto. Non so come spiegar-

telo, ma... era come se avessimo perso dei parenti su quella nave."

Mi fece un sorriso. "Questa è una città molto calda, capisci? Non

si può fare a meno di volerle bene, proprio per quella ragione."

Mi sentivo già come un forestiero in terra straniera.

 

 

Joan abitava in una piccola casa a schiera di mattoni scuri non

lontana dall'università. C'erano tre stanze da letto, due delle quali

affittate a studenti, onde avere un contributo per estinguere il mu-

tuo. La cosa non mancò di sorprendermi: mi ero immaginato che

saremmo rimasti da soli per tutta la durata della mia permanenza,

e invece venne fuori che lei aveva deciso di dormire a pianterreno

mentre io avrei occupato la sua stanza, di sopra. Naturalmente

non potevo permettere che si verificasse una cosa del genere e così

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mi ritrovai ad affrontare la prospettiva di cinque notti su un diva-

no del tinello, e d'essere svegliato bruscamente ogni mattina dal-

l'arrivo di Joan e dei suoi inquilini quando fossero passati di li per

entrare in cucina a fare colazione.

Tutti e due gli inquilini, in realtà, andavano all'istituto di Arti

e Mestieri, non all'università. Uno era Graham, che stava seguen-

do una specie di praticantato cinematografico, e l'altra era Phoe-

be, una studentessa d'arte timidissima e taciturna. Ben presto fu

chiaro che evitarli non sarebbe stato cosa facile: Joan era a capo

di una struttura domestica molto disciplinata, e in cucina stava ap-

peso un gran foglio per le comunicazioni interne sul quale erano

segnate, in tre colori diversi, le rotazioni della spesa, delle pulizie e

della preparazione del pasto serale. Mi pareva di essere l'ospite di

un clan famigliare Ä o di qualcosa che gli andava molto vicino Ä e

avevo la sgradevole sensazione che della mia visita si fosse ampia-

mente discusso con molto anticipo. Joan doveva avermi sostenuto

cantando le lodi dell'esotico inviato della letteratura londinese e

cercando di coinvolgere gli altri in un entusiasmo che loro pareva-

no invece riluttanti a condividere.

Furono elementi, questi, che non tardarono ad affiorare quan-

do, quella stessa sera di martedì, cenammo tutti e quattro insieme.

Era il turno di Joan in cucina. Ci fu servito avocado ripieno di pu-

rea di carote e riso integrale, a cui fece seguito farina di rabarbaro.

La cucina era piccola: graziosa avrebbe potuto esserlo ma non era

stato fatto alcun passo in quella direzione. Mangiammo infatti alla

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luce di una nuda lampadina e sotto l'incombente monito di nume-

rosi poster Ä tutti di Graham come ebbi modo di scoprire Ä di

propaganda politica militante o di film in lingua straniera (io ne

riconobbi solo uno: Tout va bien di Godard). Per un bel po' fui

più o meno escluso dalla conversazione imperniata com'era su te-

mi comuni ai miei ospiti come gli ultimissimi caSi di Joan e i pros-

simi giudizi di fine anno al college. Dovetti contentarmi, per così

dire, di ruminare con voluttà il sano cibo di Joan e di versare vino

nei bicchieri vuoti.

"Mi spiace, Michael," disse finalmente Joan. "Gran parte dei

nostri discorsi non ti dirà nulla. Magari, domani, potresti accom-

pagnarmi in una delle mie visite domiciliari, onde farti un'idea di

quel che faccio. Un giorno potrebbe esserti utile e offrirti del ma-

teriale per scrivere."

"Sicuramente," dissi cercando di mimare, senza riuscirci, un

po' d'entusiasmo.

"E invece," disse, evidentemente scoraggiata dalla mia rispo-

sta, "come è probabile, hai del lavoro da fare. Sarebbe odioso

frappormi fra te e la tua musa."

"E cosa sarebbe, un nuovo libro?" chiese Graham servendosi

dell'altro riso.

"Una specie."

"Graham si è messo a leggere il tuo primo romanzo," disse

Joan. "Non è così?"

"L'ho cominciato." Ingurgitò un boccone enorme e lo cacciò

giù con una sorsata di vino. "Però non sono riuscito ad andare

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oltre i primi due capitoli."

"D'accordo," dissi; ma l'orgoglio non mi consentì di lasciar ca-

dere il discorso. "Posso chiederti come mai."

"Beh, se devo essere franco, non capisco proprio perché la

gente si ostini a scrivere romanzi. Non ha senso, voglio dire, è

una faccenda del tutto irrilevante. Lo è da quando è stato inven-

tato il cinema. Oh certo, c'è qualcuno che fa ancora delle cose di

qualche interesse dal punto di vista formale Ä Robbe-Grillet e tut-

ti quelli del nouveau roman Ä ma uno scrittore che si rispetti e che

voglia ancora raccontare dovrebbe lavorare nel cinema. Questa è

la mia obiezione di fondo. Più specificamente, il problema del

romanzo inglese è che non ha alcuna tradizione di impegno poli-

tico. Cioè, è tutto uno sbrodolare dentro i confini fissati dalla mo-

rale borghese, così almeno mi risulta. Non c'è radicalismo. Insom-

ma, al giorno d'oggi e in questo paese, sono sì e no due gli scrit-

tori che meritano attenzione. E temo che tu non sia compreso nel

novero."

Seguì il silenzio dello sconcerto. O almeno, Joan era visibil-

mente sconcertata e Phoebe era in silenzio. Quanto a me, da stu-

dente, di quei discorsi ne avevo sentito così tanti da non lasciarmi

intimidire.

"E chi sarebbero, dunque?" chiesi.

"Beh, per esempio..."

Graham fece un nome. Io sorrisi. Fu un sorrisetto di intima

soddisfazione giacché era proprio il nome che mi aspettavo di sen-

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tire. Adesso la palla era in mio possesso, perché il romanzo che mi

era caduto fra le mani e che avevo dovuto recensire era per l'ap-

punto l'ultima opera di quello scrittore. E avevo anche trovato la

parola. Che esisteva, naturalmente Ä di questo non avevo mai du-

bitato Ä e che, ora, poteva finalmente ricongiungersi alla sua so-

stanza.

Era uno scrittore, una decina d'anni più vecchio di me, i cui

tre scarni romanzetti erano stati ridicolmente ipercelebrati sulla

stampa nazionale. Grazie a personaggi che parlavano dialetti tra-

scritti rozzamente e vivevano in condizioni di improbabile squal-

lore, egli fu salutato come realista sociale; grazie a elementari espe-

dienti narrativi di cui si serviva qui e là, alla maniera Ä ma quanto

debolmente Ä di Sterne e Diderot, fu salutato come scrittore spe-

rimentale; e grazie alla consuetudine di inviare lettere ai giornali,

in cui criticava la politica governativa in termini che mi avevano

sempre colpito per la timidezza del loro estremismo, fu salutato

come un radicale in politica. Ben più fastidiosa di questi meriti

era la reputazione che si era guadagnato per il suo humour. Gli

era infatti stata riconosciuta una giocosa ironia, una satirica legge-

rezza di tocco che mi pareva fossero del tutto assenti dalla sua

opera, caratterizzata semmai da un greve sarcasmo e da occasiona-

li spregevoli tentativi di dar di gomito al lettore con battute sin

troppo marcate. Era per questo aspetto del suo stile che si era

guadagnato il mio definitivo disprezzo. "E' ormai diventato un ob-

bligo," avevo scritto, "lodare Mr * per l'abilità con cui sa combi-

nare arguzia e impegno politico; e ribadire che finalmente abbia-

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mo un ironista morale degno dei tempi spietati in cui viviamo. La

verità, in fondo, è che siamo assetati di romanzi che dispieghino

una reale comprensione dello sbandamento ideologico di cui, da

qualche tempo, il nostro paese è vittima e che sappiano inquadra-

re le sue conseguenze in termini umani e suggeriscano che la ri-

sposta appropriata non sia solamente il lamento e la rabbia ma

una folle, incredula risata. Per molti, pare, è solo questione di

tempo: sarà Mr * a scriverlo, questo romanzo. Io, come lettore,

non ne sono per niente convinto. Al di là di qualsiasi altra qualità

pertinente all'impresa, ho il sospetto, invero, che gli manchi l'in-

dispensabile..."

E qui fu dove la penna mi aveva abbandonato. Cos'era esatta-

mente che gli mancava? La parola che stavo cercando aveva cer-

tamente a che fare un po' con lo stile, un po' col tono. Non era in

debito di comprensione, di intelligenza, di tecnica o di ambizione:

quel che in lui era assente era... era, come dire?, la capacità istin-

tiva di mettere insieme tutte queste cose con prontezza e mano

leggera. C'era di mezzo il coraggio di osare, ma anche un elemen-

to di timidezza, giacché, quella qualità, quale che fosse, sarebbe

parsa veramente naturale e spontanea solo se priva della benché

minima traccia di amor proprio. La parola era li, a solo poche mi-

sure dalla sostanza. Gli mancava l'indispensabile vivacità, l'indi-

spensabile coraggio...

.l'indispensabile brio che è crisma dell'originalità di un

autore.

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Sì, adesso c'ero. Brio. Precisamente. Ormai mi pareva così ov-

vio che non riuscivo a capire perché mi ci era voluto tanto tempo

per arrivarci. Di colpo fui pervaso da una sensazione quasi mistica

della perfezione della parola: ormai non solo ero sicuro di aver

trovato una chiusa perfetta per la recensione, ma sapevo anche,

come se si fosse messo in atto una specie di processo telepatico,

che quella parola descriveva esattamente la qualità, la sola, che

lui, nei suoi più segreti recessi, avrebbe agognato gli fosse ricono-

sciuta. Mi ero insinuato, ero penetrato, avevo confitto le mie inse-

gne dentro di lui: quando, venerdì mattina, la recensione sarebbe

apparsa, l'avrei ferito; l'avrei ferito nel profondo. Ebbi una visione

di allucinogena intensità, sorta metà dall'immaginazione e metà

dal lontano ricordo di un qualche film in bianco e nero, probabil-

mente americano e senza titolo: c'era un uomo che, alle prime luci

dell'alba, in una frenetica città battuta dal vento, comprava il gior-

nale da uno strillone all'angolo d'una strada, entrava in un caffè e

lo sfogliava impaziente sino a trovare una certa pagina; poi, seduto

al banco, addentava a grandi morsi un sandwich ma poi, più pro-

seguiva nella lettura, più il movimento delle mascelle rallentava

sinché del giornale faceva una pallottola e lo buttava disgustato in

un cestino dei rifiuti, uscendo come una furia dal bar, il volto il-

lividito dalla rabbia e dalla delusione. C'era dell'esagerazione nella

scena, ma sapevo Ä non appena mi venne in mente la parola, lo

diedi per certo Ä che venerdì mattina, una volta che fosse uscito

a comprare il giornale o l'avesse raccolto dallo zerbino, o lo avesse

chiamato il suo agente per informarlo della mia tremenda perfor-

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mance, sarebbe andata così. Adesso mi vergogno a ripensare alla

felicità che mi diede quella così nitida fantasia, o a pensare come

fui pronto a prendere per felicità l'avvelenato getto di soddisfazio-

ne che zampillò dentro di me.

A Graham non dissi altro che: "Immaginavo che ti riferissi a

lui".

"A chi sennò, al tuo cucchiaio?" disse e riuscì a far rientrare

anche quell'uscita nella nenia delle mie inadeguatezze.

"Ci sa fare," concessi, e poi lasciai cadere come per caso: "Ho

giusto recensito il suo ultimo romanzo". Mi voltai verso Joan.

"Sai, quella telefonata che ho dovuto fare prima di cena. Stavo

giusto dettando l'articolo a una delle dittafoniste."

Joan arrossì d'orgoglio, e disse ai suoi inquilini: "Pensate...

uno fa una telefonata dal mio povero salottino, le parole arrivano

sino a Londra, e qualche giorno dopo, sono tutte su un giornale".

"Meraviglie della scienza moderna," disse Graham e cominciò

ad ammucchiare i piatti.

 

 

Il giorno dopo, un mercoledì umido e nebbioso, non fu pro-

prio una gran giornata. Decisi di accettare l'invito di Joan e di ac-

compagnarla in qualcuna delle sue visite, ma fu un'esperienza sco-

raggiante. La parte più cospicua del suo lavoro consisteva Ä così

pareva Ä nel presentarsi inattesa in casa delle famiglie e condurre

furtive interviste ai bambini mentre i loro genitori o restavano lì a

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scrutare accorati la scena o battevano goffamente in ritirata rifu-

giandosi in cucina a preparare tazze di tè che non venivano mai

neppure toccate. Dapprima le andai appresso prendendo parte

agli incontri, ma la mia presenza era talmente sgradita che dopo

un paio di visite rinunciai a seguirla e passai il resto della giornata

seduto nell'auto di Joan a leggiucchiare le riviste e i giornali vecchi

impilati sul sedile posteriore, in attesa che lei spuntasse dal porto-

ne di una casa popolare o di un palazzone.

A pranzo andammo in un pub in centro. Joan prese un pastic-

cio di verdure e io un tortino di carne e rognone, che suscitò la

sua ammonitoria riprovazione. La sera, toccò a Graham cucinare.

Non si sa bene se il piatto che preparò avesse o non avesse anche

un nome: sembrava consistere soprattutto di lenticchie e noci con

sotto una nera crosta di bruciato, grattata via dal fondo di una ca-

pace casseruola, e servito con una cucchiaiata di fettuccine di pa-

sta integrale che, per consistenza, facevano venire in mente degli

elastici. Mangiammo, per lo più, assorti nel silenzio.

"Domani dovresti far vedere a Michael qualche tuo lavoro,"

disse Joan a Graham a un certo punto. "Magari ha qualche inte-

ressante commento da fare."

"Mi farebbe piacere," dissi io.

 

 

Graham mi fece sedere sul letto e accese il grande, ingombran-

te televisore che occupava tutto un angolo della stanza. Ci volle

quasi un minuto prima che si scaldasse.

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"Modello anni settanta," spiegò. "Quasi alla sua ultima tappa."

La foschia del giorno prima s'era diradata e la mattina stava

diventando luminosa ma greve d'afa. Non che lì ci arrivasse gran

sole: la stanza di Graham era perennemente in ombra, con una

finestrina piccola piccola con tende di pizzo che dava sul giardi-

netto della casa di Joan e sui giardinetti delle case di fronte. Era-

vamo soli in casa, e alle dieci e mezzo eravamo arrivati alla secon-

da tazza di tè forte, molto zuccherato.

"Ne hai uno anche tu?" chiese Graham, piegandosi a infilare

un nastro Vhs nel lettore video.

"Non me lo posso permettere con quel che guadagno," dissi.

"Aspetto che scendano i prezzi. Dicono che finiranno per crollare."

"Non penserai che sia mia 'sta roba? Non c'è nessuno che si

compri questi aggeggi Ä si prendono in affitto. Pago dieci sterline

al mese, giù a Rumbelows."

Sorseggiai il mio tè e dissi con tono vendicativo: "Quand'ero

studente spendevo il mio danaro in libri".

"Che castroneria." Graham fece segno alle file di nastri che

stavano allineati nel suo guardaroba e sopra il davanzale della fi-

nestra. "Questi sono i miei libri. Questo è il medium del futuro,

per quanto concerne il lavoro cinematografico. Quasi tutto ciò

che facciamo al college lo si realizza su video adesso. Ciascuna

di queste meraviglie contiene tre ore di nastro, capisci? Hai idea

di quanto costerebbero tre ore in sedici millimetri?"

"Capisco il tuo punto di vista."

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"Non siete tanto portati alla praticità, voi letterati, eh? Con voi

è tutta una questione di torre d'avorio."

Questa la ignorai.

"Ha il fermo immagine il tuo video?"

"Sicuro. L'immagine non è molto stabile, ma il suo lavoro lo

fa. E sentiamo, per cosa lo useresti?"

"Oh, sai... E bello avere.., tutte le opzioni."

Con un guizzar di luce lo schermo diede segno di accendersi

proprio quando Graham finì di chiudere le tendine e prese posto

sul letto accanto a me.

"E allora, dài. Questa è la mia prova di fine anno. Vediamo

che ne pensi."

Fu un'esperienza molto meno penosa di quel che mi ero

aspettato. Il film di Graham durava solo dieci minuti e si rivelò

essere un'efficace, anche se non articolata, polemica sul confitto

nelle Falldand: era intitolato La guerra della signora Thatcher. Il

titolo era a doppio senso, perché Graham era riuscito a scovare

una pensionata che si chiamava Mrs Thatcher e viveva a Shef-

field, e le sequenze di navi da guerra che solcavano le acque drit-

te verso la battaglia e gli estratti dei discorsi del Primo Ministro

erano giustapposti, con la tecnica del montaggio incrociato, a

scene di vita quotidiana dell'omonima e meno eminente signora:

scene in cui andava a far la spesa, in cui preparava pasti frugali,

in cui seguiva i notiziari televisivi e così via. Nell'incoerente com-

mento alle immagini, l'anziana signora parlava delle difficoltà di

farcela con la sola pensione e si domandava che ne era stato di

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tutti i soldi versati in tasse durante i suoi anni di vita attiva: il che

offriva il destro a un repentino montaggio di sequenze che mo-

stravano armi terribili e inequivocabilmente costosissime. Il film

si chiudeva con il celebre discorso tenuto dal Primo Ministro al

Partito conservatore di Scozia, nel quale descriveva la guerra co-

me una battaglia fra bene e male e dichiarava che "bisognava far-

la finita", seguito da una tremolante inquadratura dell'altra si-

gnora Thatcher che saliva su per una strada ripida, incombente,

con una borsa stracarica. Indi lo schermo si scuriva e sul nero

comparivano due didascalie: "La signora Emily Thatcher vive

con un'entrata di 43 sterline e 37 centesimi alla settimana"; "Il

costo della guerra nelle Falkland è stato stimato in 700 milioni

di sterline".

Graham fermò il nastro.

"Allora, che ne pensi? Dài, dài, voglio un'opinione la più fran-

ca possibile."

"Mi è piaciuto. E' molto bello."

"Senti, cerca per un minuto di disfarti dei bei modi da piccola

borghesia londinese che hai addosso. Sii più diretto."

"Te l'ho detto, è bello. Potente, centrato e... vero. Dice la ve-

rità su qualcosa."

"Ah, ma lo fa davvero? Perché sai, il cinema è un medium così

saldamente strutturato che anche in un'operina breve come que-

sta, esiste tutta una serie di decisioni da prendere. Quanto deve

durare una sequenza, come dev'essere fatta un'inquadratura, quali

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sequenze devono venire prima, quali dopo. Non è forse un pro-

cesso che nel suo complesso finisce per diventare sospetto quando

devi misurarti con qualcosa che si presenta esplicitamente come

un film politico? Non finisce che lo stesso ruolo dell'autore assu-

me una valenza profondamente problematica, quando poi viene

messo di fronte non tanto alla domanda se quella sia o no la verità

ma all'interrogativo 'E' la verità, ma di chi?'."

"Hai perfettamente ragione, naturalmente. Puoi farmi vedere

come funziona il fermo-immagine?"

"Sicuro." Graham raccolse il telecomando, riavvolse qualche

minuto di nastro e schiacciò il tasto 'play'. "Dunque la mia idea

è che la cosa, nel suo complesso, corra il rischio della manipolazio-

ne, non tanto del pubblico, quanto della materia che tratta. Mrs

Thatcher ha invaso le Falldand e io ho invaso la vita di quella donna

Ä entrambi con lo stesso pretesto: che eravamo tutti e due guidati

dalle migliori intenzioni, nell'interesse di tutti." Pigiò il tasto "pau-

se" e la vecchia si bloccò in una isterica immobilità, nell'atto di

aprire una scatola di zuppa. "In un certo senso l'unica cosa vera-

mente onesta da fare sarebbe rendere esplicito il meccanismo del

mio coinvolgimento: far fare una panoramica alla macchina da pre-

sa che infine s'arresta improvvisamente su di me, il regista, seduto

insieme a lei nella stanza. Forse Godard avrebbe fatto così."

"Si possono eliminare quelle strisce sullo schermo?" chiesi io.

"Talora si può. Se tieni schiacciato il tasto, alla fine vanno

via."

Premette il tasto "pause" un po' di volte.

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"E' un po' offuscata, l'immagine no?"

"La tecnologia farà dei passi avanti. Comunque, non sarebbe

forse stato un mero gesto di autoreferenzialità? Non devo far altro

che rispondere a questa domanda. Sì perché io so bene cosa dirai

adesso: dirai che ogni tentativo di mettere in primo piano la pro-

blematica dell'autore finirebbe per non produrre altro che un ri-

torno al formalismo, una futile strategia per sottolineare il passag-

gio dal significato al significante senza riuscire a modificare il dato

fondamentale: che, alla fin della fiera, tutta la verità è ideologica."

"Questo tasto, ce l'hanno tutti i lettori-video?" chiesi, "O bi-

sogna scegliere fra i prodotti più cari sul mercato?"

"Ce l'hanno tutti," disse lui. "E' il loro punto di forza nella lo-

gica mercantile. Se ci pensi si tratta proprio di un'evoluzione radi-

cale: per la prima volta nella storia, il controllo sul tempo cinema-

tico viene strappato dalle mani dell'autore e consegnato a quelle del

pubblico. Si potrebbe sostenere che è anche il primo vero passo

verso la democratizzazione del processo inerente alla visione. Ben-

ché, naturalmente," Ä spense l'apparecchio e si alzò ad aprire le

tende Ä "sarebbe ingenuo credere che questa sia la vera motivazio-

ne d'acquisto. Al college lo chiamiamo il tasto Dds."

"Dds?"

"La Delizia Dei Segaioli. Tutte le tue dive cinematografiche

senza veli, capisci? Non più scene provocanti in cui la bellona li

lascia cadere per un paio di secondi e poi sparisce dallo schermo:

adesso puoi stare li a guardartela fin quando vuoi. Per un'eternità,

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in teoria. O almeno finché il nastro non si consuma."

Distolsi lo sguardo da lui e fissai la finestra ma senza vederla.

"Sarebbe certamente.., utile in certi casi," dissi.

"Comunque è stato davvero un piacere fare queste due chiac-

chiere," disse Graham. "E' sempre utile avere il parere spassionato

di qualcuno."

Seguì una breve pausa. Infine sgusciai fuori delle mie elucu-

brazioni e di colpo risentii la sua voce. "Molto bene," dissi. "L'ho

trovato interessantissimo."

"Allora, senti, io sto andando giù in città. Devo prenderti

qualcosa?"

 

 

Mi ritrovai da solo in casa per la prima volta. C'è una specie

particolare di quiete che associo a momenti così: più che assoluta,

essa si insinua, mette radici e monta di guardia. Esatto contrario di

un silenzio di morte, essa palpita di possibilità. E' viva del suono

che c'è quando non accade nulla. Un silenzio così a Londra non

esiste: un silenzio che si possa ascoltare, assaporare, in cui ci si pos-

sa avvolgere dentro. Mi sorpresi a girare per casa in punta di piedi,

e i rumori che di tanto in tanto arrivavano da fuori, uno scalpiccio

per strada o lo scoppiettare di un'auto di passaggio, mi parevano

profondamente intrusivi. Provai a mettermi seduto e a leggere il

giornale ma la cosa non durò che pochi minuti. Uscito Graham,

la casa aveva completamente mutato carattere, aveva assunto un

che di magico come fosse un tempio proibito dove ero riuscito,

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non so come, a infiltrarmi, e ora non sapevo sfuggire all'impulso

di esplorarlo.

Feci le scale, sul pianerottolo voltai a destra ed entrai nella

stanza di Joan. Era una stanza graziosa, piena di luce, che dava

sulla strada principale. C'era un letto a due piazze, rifatto con cu-

ra, con un copniletto rosa e diversi cuscini azzurro pallido disposti

contro i guanciali. Nel mezzo stava una figura che emerse da uno

degli angoli più lontani della memoria: Barnaba, un orsetto giallo

tutto spelacchiato che, quand'era piccola, era stato il suo compa-

gno notturno. Notai che gli occhi non andavano più d'accordo:

uno era nero e l'altro azzurro. Doveva essere venuto via di recente

e una repentina affettuosa immagine mi balenò nella mente: quella

di Joan seduta sull'orlo del letto, ago e filo in mano, che cuciva il

bottoncino, pazientemente determinata a ridare la vista a quel po-

vero relitto dell'infanzia. Non lo toccai. Lanciai un'occhiata agli

ordinatissimi scaffali della libreria, alle fotografie di famiglia, alla

scrivania con la sua dotazione di cancelleria e la lampada finto Li-

berty. Nell'angolo c'erano quaderni ad anelli dall'aria più funzio-

nale e una scatola di cartone piena di fogli e appunti. Sul como-

dino non c'era altro che un bicchiere d'acqua mezzo vuoto, un

astuccio di fazzolettini di carta e una rivista, sulla cui copertina

spiccava un'immagine di due bombardieri verdi in volo, con la di-

dascalia "Il Mark I Hurricane, gloria britannica del periodo belli-

co". Mi sfuggì un sorriso e presi la rivista in mano. Era l'inserto

domenicale del giornale uscito un paio di mesi prima dove era

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comparsa la mia giovanile prova narrativa. Mi chiesi se Joan fosse

stata semplicemente troppo presa per riporlo o se invece il fatto

che fosse lì avesse una ragione, e si lasciasse conquistare dal rac-

conto rifettendoci su ogni sera prima di dormire. Non mi avrebbe

sorpreso.

 

 

 

 

Michael Owen (così recitava la presentazione) è nato a Bir-

mingham nel 1952 e ha recentemente avuto grandi riconosci-

menti per i suoi romanzi Capiterà e sarà per caso e Il tocco amo-

roso.

Michael aveva solo otto anni quando inventò il suo primo

personaggio, un detective vittoriano con l'esotico nome di' Jason

Rudd. Egli è stato il protagonista di numerose avventure, la

più lunga ed eccitante delle quali è Il castello del mistero, di

cui qui presentiamo le pagine di apertura. Purtroppo questo

non è precisamente la prima della serie Ä un caso precedente,

in cui era coinvolto un personaggio di nome Thomas Watson

menzionato in questo estratto, è andato perduto Ä ma Michael

ci assicura che essa ci offre una degna presentazione del mondo

di Rudd e del suo assistente Richard Marple, che egli descrive

come "Holmes e Watson rivisitati, con un pizzico salutare di

surrealismo".

 

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IL CASTELLO DEL MISTERO.

Capitolo primo.

Jason Rudd, un celebre detective del diciannovesimo seco-

lo sedeva a un tavolo di legno intagliato davanti all'amico Ri-

chard Marple che era stato al suo fianco in molte delle sue av-

venture.

Jason era di corporatura media e aveva capelli sottili. Era,

più o meno, il più audace dei due, ma anche Richard era estre-

mamente coraggioso. Richard aveva i capelli bruni ed era altis-

simo, ma Jason faceva lavorare il cervello. Non poteva stare

senza Richard.

Voi capite: Richard poteva affrontare vere e proprie atleti-

che prodezze, e Jason no. Erano la combinazione più formida-

bile di tutta l'Inghilterra.

In questo momento comunque erano impegnati in una par-

tita a scacchi. La scacchiera era vecchia e sporca, malgrado gli

sforzi diJason per tenerla pulita. Jason mosse il cavallo e sorrise.

"Scacco," disse.

Ma Richard mosse l'alfiere e mangiò il cavallo di Jason.

"All'inferno!"

Jason assunse una posizione rigida e quasi come se non re-

spirasse. Faceva sempre così quando pensava. Mosse la regina.

"Scacco matto!"

"Hai vinto, ottima partita."

I due si strinsero la mano e tornarono a sedersi.

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"Mi sto annoiando come non hai idea," proclamò Jason.

"Voglio qualcosa che mi faccia pensare. Sì certo gli scacchi so-

no un toccasana, ma mi piacerebbe qualcosa come l'affare

Thomas Watson; a proposito: come sta Thomas?"

Non troppo bene, temo. Il suo braccio non è ancora gua

rito."

"E' in pericolo di morte, o peggio?"

"E' in pericolo di morte."

"Davvero? Peccato. Dobbiamo vederlo. Che ne dici se fis-

siamo per domani o dopodomani?"

"Domani sarebbe meglio."

"Allora staremo fuori tutta la giornata?"

"Sì, se mia moglie è d'accordo. Che ora è, per cortesia?"

"Le dieci e cinque."

"Allora sarà meglio che io vada."

"Bene," disse Jason, "ti accompagno fuori?"

"No grazie."

Jason guardò Richard infilarsi il soprabito. Udì la porta che

si apriva e poi si chiudeva.

Richard uscì. Era a metà strada da casa quando un uomo

sbucò fuori dal buio e gli bloccò la strada.

"Sono Edward Whiter," disse.

Aveva un accento americano, la barba, e i denti gialli.

"Siete Richard Marple?"

''Sì.

"Desidererei vedere voi e Mr Jason Rudd insieme. Ora."

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"Per che ragione?"

"Voglio parlarvi. Circa un affare che mi spaventa molto e

desidero che voi mi aiutate."

"E quando volete che si cominci?"

"Domani."

"Mi spiace, ma è impossibile."

"Dovete farlo."

"Perché?"

"Perché non vogliamo che la nostra gente ci creda."

"Che creda in cosa?"

Edward abbassò la voce e sussurrò "Nella maledizione".

"La maledizione? Che maledizione?"

"La maledizione del castello di Hacrio."

"Bene. Vi condurrò da Jason. Sono certo che lui sarà mol-

to interessato alla faccenda."

"Per fortuna." Adesso parlava con un accento inglese.

Aveva anche un fare più amabile e cortese. Si strappò una bar-

ba posticcia e sorrise.

"Sono molto contento di fare la vostra conoscenza, Mr

Marple," disse. Richard che era rimasto piuttosto sorpreso al-

lungò la mano. Se la strinsero reciprocamente.

"Sono... sono molto contento di fare la vostra conoscenza

Mr... Mr Whiter."

"Ti prego, diamoci del tu, chiamami Edward. E ora, avan-

ti, dove sta la casa di Mr Rudd?"

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"Desidero raccontarvi una storia, Mr Rudd. Dovrebbe in-

teressarvi molto. Comincio?"

"Ma certamente."

"Allora comincio. Era buio. C'era un temporale terribile

che imperversava sul castello di Hacrio. Deboli grida venivano

dall'interno, il Cavaliere Nero stava colpendo a morte Walter

Bimton con una mazza chiodata. Addio Mr Rudd,"

Si alzò e lasciò la stanza. Jason udì la porta aprirsi e richiu-

dersi con un colpo secco.

"Un visitatore alquanto singolare. Mi domando come mai

ci ha lasciato così presto."

"Non so," disse Richard. "Che ne pensi della storia?"

"Era interessantissima. Dobbiamo sapere dove sta il castel-

lo di Hacrio. Sarà alquanto interessante per noi cominciare le

indagini."

"Comunque, al momento mi interessa di più Edward Whi-

ter. Perché se ne è andato così di fretta? Accidenti, non ha fat-

to in tempo a dire due parole che è sparito."

"Proprio così, Jason. Anch'io mi son fatto le stesse doman-

de. Ma forse avremo la risposta più tardi."

"Può darsi. E questo castello di Hacrio... ne hai mai sentito

parlare?"

"No, per niente, e non ho neanche idea di che aspetto abbia."

"Neanch'io," ammise Jason. "Tuttavia non credo che la

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cosa ci sarebbe di molto aiuto."

"Forse hai ragione. Hai idea di che mistero lo circondi?"

"Oh sì, credo di sì."

"Davvero?"

"Sì." Abbassò la voce. "Credo che sia maledetto."

 

 

 

Chiusi la rivista dopo aver dato un'ultima occhiata a quella

sciocca fotografia in cui ostentavo precocità e introspezione nella

stalla di Mr Nuttall, e la riposi sul comodino di Joan. Fu così stra-

no rileggere quella storia; come quando da un registratore si sen-

te una voce che suona poco familiare e ci si ostina a non credere

che possa essere la nostra. La tentazione fu quella di interpretarla

come un altro potenziale ponte verso il passato: una maniera di

tornare sui miei passi onde ritrovarmi faccia a faccia con l'inno-

cente fanciullo di Otto anni che l'aveva scritta, e che ora mi pare-

va solo un estraneo. Ma era sufficientemente ovvio Ä ci arrivavo

persino io Ä che quella storia, in realtà, piuttosto che del bambino

che ero stato parlava delle mie letture di allora: storie di bei bam-

binotti borghesi che passavano le vacanze insieme in strambe

grandi case di campagna, che finivano per rivelarsi piene di tra-

bocchetti e passaggi segreti; avventure gotiche che si svolgevano

in spettrali fumetti, il cui amore per il dettaglio sfidava l'accet-

tazione dei genitori; storie di lontani e invidiabili adolescenti

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americani che si organizzavano in club di detective e sembrava

vivessero sempre incredibilmente vicini a ogni sorta di castelli

infestati di fantasmi, sinistre dimore e isole misteriose. Erano an-

ni che non leggevo uno di quei libri. Mia madre s'era disfatta

della maggior parte dei miei volumi dandoli alla chiesa per le

vendite di beneficienza. Ma una cosa era certa, pensavo: che

ne avrei trovato qualcuno nella libreria di Joan. E avevo proprio

ragione. Allungai la mano verso il dorso coloratissimo di un li-

bro e mi ritrovai a contemplare una copertina illustrata che

mandava il polveroso profumo dei piaceri del passato. Fui ten-

tato di portarmi il libro dabbasso e di cominciare a leggerlo su-

bito, ma un impulso puritano mi bloccò, suggerendomi autore-

volmente che avevo di meglio da fare che lasciarmi inghiottire in

quella specie di nostalgia. Dunque lo riposi sullo scaffale della

libreria, uscii in punta di piedi sul pianerottolo e, riprendendo

in mano le fila del mio' programma di esplorazione (certo non

più nobile del progetto appena cassato), aprii con una spinta

la porta della camera di Phoebe.

Era la stanza più grande delle tre, ma anche la più ingombra,

giacché svolgeva la doppia funzione di camera e di studio. Una

gran varietà di ciotoline di colori, pennelli a bagno in liquidi di-

luenti, vecchi giornali sparsi sul pavimento e stracci rigati di colori

a olio, tutto testimoniava infallibilmente la natura del suo lavoro; e

davanti alla finestra, dove prendeva la luce migliore, c'era un ca-

valletto che reggeva una grande tela, celata alla vista da un lenzuo-

lo bianco-sporco. Devo ammettere che sino a quel momento

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Phoebe non aveva ancora destato in me una eccessiva curiosità:

avevo notato, ma in modo superficiale, che era una ragazza molto

attraente (mi ricordava Ä che strana coincidenza Ä Shirley Eaton,

la cui immagine aveva per tanto tempo informato il mio ideale di

bellezza femminile), ma, probabilmente, l'impatto con lei avrebbe

avuto molto più effetto se non fossi stato immerso nell'incantesi-

mo prodotto dal breve incontro con Alice; e, comunque, dacché

ero arrivato, non aveva detto quasi nulla che fosse stato di qualche

interesse, anzi, se bisogna dirla tutta, non aveva quasi spiccicato

parola. E tuttavia v'era qualcosa di irresistibile nell'idea di spiare

la sua opera in fieri; qualcosa di peccaminosamente analogo, sup-

pongo, al pensiero di sorprenderla per un attimo senza nulla ad-

dosso. Afferrai un lembo del lenzuolo e lo sollevai, una decina di

centimetri, non di più. Si disvelò un'affascinante superficie di

spesso colore grigio-verde. Alzai il lenzuolo ancora un po', finché

non apparve una provocante sottile striscia rosso rame, che corre-

va insinuante lungo l'estremo margine della tela, Era più di quan-

to potessi tollerare, e con un solo gesto Ä repentino e violento Ä

strappai via tutto il lenzuolo, cosicché l'intero dipinto mi si palesò

in tutta la sua gloria incompiuta.

Lo guardai a lungo prima di cominciare a coglierne il senso.

Dapprima vidi solo un intrico casuale di macchie di colore, già ab-

bastanza sensazionale di per sé, ma convulso e disorientante. Poi,

gradualmente, mentre venivo riconoscendo certe curve, certi con-

torni, il dipinto perdeva sempre più l'aspetto di un confuso mosai-

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co per guadagnare invece la fisionomia di un vortice, e io mi sentii

rapito dentro un vertiginoso turbine di movimento ed energia. In-

fine, vennero emergendo anche delle forme, e diedi l'avvio all'in-

gannevole impresa di cercare di dar loro un nome: quel globo,

che occupava, imperioso, la sinistra della tela, e quel che pareva es-

sere un attrezzo munito di rete... non si trattava forse del contorto

rimescolio d'una banale natura morta? Un segmento di terra deso-

lata abbozzata ruvidamente Ä come per esempio l'angolo del giar-

dino di Joan Ä con dentro un pallone e una vecchia racchetta da

tennis? L'interpretazione mi pareva acquistare sempre più credibi-

lità e cominciavo a lasciarmi sopraffare dall'eccitazione, quando...

"Quella non guardarla per favore..."

Phoebe era sulla porta, con un sacchetto di carta stretto al

petto.

Non riuscii a dire altro che: "Mi spiace, io... c'è che ero cu-

rioso".

Lei portò il sacchetto sulla scrivania e ne tirò fuori un album

da disegno e delle matite.

"Non mi interessa se entri qui dentro," disse. "Ma non mi pia-

ce che si guardi il mio lavoro."

"Mi spiace, avrei dovuto.., avrei dovuto chiederti il permesso

o, non so..."

"Non è quello." Ricoprì la tela col lenzuolo e prese a ricom-

porre il mazzo di fiori avvizziti che stava in un barattolo di vetro

sul davanzale della finestra.

"E' bellissimo," dissi. Avvertii subito crescere la sua tensione,

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ma persistetti nel pasticciare goffamente con le parole: "Insomma,

intridere una tela di tanta forza e drammaticità, quando in realtà si

ha a che fare con un paio d'oggetti della vita di tutti i giorni... beh

è eccezionale. Cioè, un pallone e una racchetta da tennis Ä chi l'a-

vrebbe detto...?"

Phoebe si volse verso di me, ma tenendo sempre gli occhi bas-

si e parlando con un filo di voce: "Non ho molta fiducia nelle mie

qualità di pittrice".

"Dovresti averne, invece."

"Questo è l'ultimo di una serie di sei quadri ispirati al mito di

Orfeo."

"E se gli altri sono belli come ques..." la fissai sgomento. "Co-

me?"

"Qui vi sono rappresentate la sua lira e la sua testa che, spic-

cata dal corpo, viene trascinata dalla corrente dell'Ebro."

Mi sedetti sul letto. "Ah."

"Adesso sai perché non mi piace far vedere il mio lavoro alla

gente."

Non c'era modo di metter fine al silenzio che seguì. Io

guardavo intontito a mezza distanza, troppo confuso per far-

mi venire in mente qualcosa che suonasse come una richiesta

di scuse. Phoebe, intanto, si sedette alla scrivania e cominciò

a temperare una delle nuove matite. Ero quasi arrivato alla

conclusione che sarebbe stato meglio alzarsi e andarsene senza

una parola, quando lei, di punto in bianco, disse: "E' molto

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cambiata?"

In un primo tempo, la domanda mi lasciò interdetto.

"Scusa?"

"Joan. E' molto cambiata da quando hai cominciato a frequen-

tarla?"

"No, no. Davvero." Poi ci ripensai. "Beh a essere onesti, non

saprei dire. Cioè, da adulti non ci siamo mai frequentati, solo da

bambini. E' stato un po' come incontrarla per la prima volta."

"Già, l'avevo notato. Siete quasi degli estranei."

Mi strinsi nelle spalle: ma dolorosamente, non con sufficienza.

"Forse non è stata una buona idea venire qui."

"No. Non credo. Lei non vedeva l'ora che arrivassi, da setti-

mane. E poi le piace averti qui, te lo dico io. Da quando ci sei tu, è

così diversa. Ne è convinto anche Graham."

"Diversa, in che senso?"

"Nel senso che è meno... disperata, credo."

La cosa mi suonò malissimo.

"Credo che sia sola quassù, capisci. E inoltre il suo lavoro è

molto impegnativo, talvolta. Noi due facciamo del nostro meglio

per tenerla su. So che l'idea che arrivi l'estate la terrorizza, perché

noi non saremo qui a tenerle compagnia. Non che per noi sia uno

stress o altro," si precipitò ad aggiungere. "Stiamo benissimo in-

sieme, e ci sono solo una o due cose che sembrano.., come dire?,

che sembrano travalicare e rientrare nella sfera del dovere... Come

quando ci costringe a giocare."

"Giocare?"

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"Spessissimo, dopo cena, vuole che si facciano dei giochi da

tavolo. Monopoli. Gioco dell'oca, cose così."

Non dissi nulla; mi corse solo un brivido lungo la schiena,

chissà perché.

"Comunque, non è cosa di cui devi preoccuparti. Non lo farà

finché ci sei tu, questo è poco ma sicuro. Non deve."

 

 

"Allora?... Si fa una partitina svelta svelta a Scarabeo? Chi ci

sta?"

A Joan sfavillavano gli occhi mentre ci squadrava uno per uno

speranzosa, e tutti e tre facemmo del nostro meglio per evitare di

incrociare il suo sguardo. Graham ricorse al vecchio trucco di im-

pilare i piatti, Phoebe si concentrò in una lenta delibazione del

goccetto di vino rimastole nel bicchiere, e io mi scoprii improvvi-

samente impegnato nella traduzione del manifesto del Sindacato

polacco che avevo avuto di fronte per tre sere di seguito. Ma

poi Ä e fu questione di secondi Ä mi resi conto che gli altri due

contavano su di me per la salvezza, e perciò dissi: "In realtà avrei

bisogno di starmene un'ora o due da solo col mio quaderno di ap-

punti, se per voi va bene. Ho avuto idee una dietro l'altra oggi".

Era una spudorata menzogna ma era anche l'unica scusa che

Joan era disposta ad accettare. "E va bene," disse lei, "mi dispia-

cerebbe frappormi fra te e la tua musa. Se però stai lavorando a

un nuovo libro mi devi fare una promessa."

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"Quale?"

"Che sarò la prima persona a leggerlo. Non appena lo avrai

finito, naturalmente."

Sorrisi imbarazzato. "Questo è una specie di progetto a lungo

termine: mi sa che ci vorranno anni prima che veda la luce. Nel

frattempo ho qualcos'altro che mi frulla per la testa. Sto carezzan-

do l'idea di passare alla non-fiction." Era difficile capire dalla sua

espressione seJoan era colpita o sconcertata dalla rivelazione. "Mi

hanno offerto di scrivere la storia di una certa famiglia, molto im-

portante. E' un bel riconoscimento, se proprio vuoi saperlo."

"Oh, e chi sarebbero questi qui?"

Glielo dissi, e Graham se ne uscì con una incredula risata.

"Quel branco di vampiri? Beh, devi essere al verde allora. E

non aggiungo altro." Sparì in cucina, portando con sé i piatti e

gli avanzi dell'eccellente parmigiana di Phoebe. Era già andato

ma lo si sentiva ancora mugugnare: "Gli Winshaw, eh? Buoni

quelli".

Joan non capì e continuò a fissarlo a occhi sbarrati.

"Non capisco proprio cosa intendesse dire con ciò. Che

cos'hanno di tanto speciale questi Winshaw?" Si voltò verso di

me come per chiedere lumi, ma la reazione di Graham mi aveva in-

chiodato a un imbronciato silenzio. "Tu sai di cosa parlava?" chie-

se a Phoebe. "Hai mai sentito parlare di questi Winshaw?"

Phoebe fece cenno di sì. "Ho sentito parlare di Roderick

Winshaw. E un mercante d'arte. Doveva venire a tenere una spe-

cie di lezione qualche settimana fa, su come sopravvivere nel mer-

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cato dell'arte, ma non si è fatto vedere."

"Beh, Michael," disse Joan, "tu sei certamente un cavallo di

razza, Voglio sapere tutto di questa cosa. Insisto."

"Oh, è tutto assolutamente..."

"Non adesso, non adesso." Levò una mano ammonitrice.

"Devi lavorare, ho capito. No, avremo tanto tempo domani per

sentire tutta la storia. Anzi, avremo una giornata intera."

La cosa suonò inquietante. "Davvero?"

"Come? Non te l'avevo detto? Sono riuscita ad avere la giornata

libera, così potremo andare nella valle per un picnic, noi due soli."

"Mmh. Una bella prospettiva."

"E invece di prendere la solita vecchia auto, potremmo andare

in bicicletta."

"Bicicletta?"

"Sì. Graham ha detto che puoi prendere in prestito la sua.

Non è stato gentile?"

Graham, di ritorno al tavolo per raccogliere le posate, mi fui-

minò con un ghigno malizioso.

"Gentilissimo," dissi io. "Gentilissimo davvero. E il tempo sa-

rà abbastanza clemente domani?"

"Beh, è buffo che tu ti preoccupi di questo," disse Joan, "per-

ché sono annunciati temporali per la sera. Ma a noi dovrebbe an-

dare di lusso se ci mettiamo in viaggio per tempo. Potremmo al-

zarci, diciamo... alle sei?"

La volontà di opporre resistenza mi aveva ormai abbandonato.

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"Perché no?" dissi, e porsi a Graham forchetta e bicchiere vuoto.

 

 

Quella notte non mi riuscì proprio di prender sonno. Non

so cosa fosse: forse la calda cappa dell'estate, o forse, più sem-

plicemente, il fatto di dovermi alzare così presto la mattina, ma

sta di fatto che rimasi steso su quel divano per più di un'ora,

cercando posizioni che diventarono sempre più sconfortevoli,

sinché non ebbi altra alternativa che cercare qualcosa da legge-

re; qualcosa che ripulisse la mia mente dalla stanca spirale di

pensieri che sembrava averla intasata. Ma giù di libri non ce

n'erano: solo quelli che avevo portato con me e tre o quattro

volumi di ricette vegetariane in cucina. Non era certo ciò di

cui avevo bisogno. Avevo bisogno di qualcosa da divorare, qual-

cosa di molto leggero, e immediatamente mi ritrovai a pensare

al romanzo del mistero per bambini che avevo riscoperto quello

stesso giorno nella stanza di Joan. Ah se solo l'avessi portato

giù quando ne avevo avuto la possibilità!

Dieci minuti dopo, decisi che l'unica soluzione era quella di

salire di sopra furtivamente e andare a prenderlo.

La fortuna fu dalla mia parte. La porta di Joan era stata lascia-

ta aperta Ä v'era uno spiraglio di pochi centimetri Ä e potei vedere

che le tendine non erano tirate sicché entrava un po' di luce dalla

strada. Dato che la libreria era proprio vicina alla porta, non sa-

rebbe stato difficile infilarsi dentro senza svegliarla. Sostai per

qualche secondo sul pianerottolo in ascolto, poi sospinsi la porta

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dolcemente ed entrai. Era più o meno l'una di mattina.

Joan era distesa sulla schiena e la sua pelle pareva grigia e lu-

minescente nell'argentea luce dei fanali. Non portava camicia da

notte e, nel sonno, s'era liberata di quasi tutta la coperta. Erano

Otto anni che non vedevo un corpo femminile nudo, in carne e

ossa; e, a onor del vero, non ne avevo mai visto uno più bello. Ve-

rity era snella, d'ossatura forte e coi seni piccoli; al confronto

Joan, che riempiva, col suo abbandono senza vergogna, tutta la

calda fissità del mio sguardo, sembrava così esuberante e volut-

tuosa da rasentare l'immoralità. Mi venne in mente la parola "ge-

nerosa": e quello infatti era un corpo generoso, sia per l'onesta

grazia delle sue proporzioni che per la serena facilità con cui si

sottometteva al mio esame. Io ero là, in piedi, paralizzato, e ora

mi pare che quei pochi colpevoli istanti siano stati fra i più stu-

pendi, fra i più sorprendenti, fra i più eccitanti della mia vita. E

tuttavia tutto finì in un baleno. Joan si mosse, si voltò dalla mia

parte, e io mi ritrassi oltre la porta senza fare rumore.

 

 

 

 

3.

 

"Guarda 'ste braccia," disse Joan, sbirciandole con irritazione

e pizzicandone la carne chiara fino ad arrossarla. "Come una

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contadina italiana. Ha a che fare coi miei geni, mi ripeto, e dun-

que è inutile che mi mangi il fegato." Spalmò della marmellata di

lamponi su una fetta di pane integrale e l'addentò, pulendosi poi

la bocca con un fazzolettino di carta. "Sono ingrassata, che ne

dici?"

"Ma no che non lo sei. Il corpo è qualcosa in cui dovremmo

sentirci a nostro agio. Che abbia una forma o l'altra non importa."

La forma del corpo di Joan era molto presente nella mia

mente quel giorno, devo ammetterlo. Era un'altra calda giornata

d'estate e avevamo pedalato quasi due ore per guadagnare l'aper-

ta campagna. Non appena raggiungemmo il posto che Joan valu-

tò più adatto, ci gettammo a terra, e per qualche minuto, malgra-

do la stanchezza, ebbi la netta percezione del pigro piacere con

cui lei si stirava le braccia, del movimento del suo petto che s'al-

zava e si riabbassava al ritmo del respiro, della leggerezza della

maglietta rosa e azzurra che s'era sfilata dai pantaloni e di cui

aveva rimboccato le maniche. Io, da parte mia, ero in un bagno

di sudore e ansimavo forte. Nella prima parte della gita non ero

per niente sicuro di farcela. Joan aveva preso una salita che non

finiva mai, scegliendo 'la strada più ripida ogni volta che arriva-

vamo a un crocicchio: talora la pendenza era così forte da farmi

quasi perdere l'equilibrio, tanto era difficile mantenersi in movi-

mento. (La bicicletta di Graham, bisogna che lo dica, non era

dotata d'un cambio.) Ma poi venni guadagnando una sempre

maggiore dimestichezza e il resto della corsa non fu così proble-

matico. Presto i dislivelli diminuirono e a un certo punto arri-

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vammo su un bel tratto di strada in discesa ma non troppo ripi-

da, quanto bastava per acquistare velocità, alzare i piedi dai pe-

dali e scendere a ruota libera col vento che sferzava la faccia e

fischiava nelle orecchie, facendo scaturire agli angoli degli occhi

dolci lacrime di eccitazione. Per un breve istante sentii scivolar

via gli anni, come un pesante fardello che mi aveva spaccato la

schiena, e fummo di nuovo, Joan e io, i bambini che correvano

giù lungo il viale verso la fattoria di Mr Nuttall. Mi fece notare,

dopo, che avevo lanciato anche un grido di gioia. Di cui, al mo-

mento, non mi ero reso neanche conto.

"Dunque," disse, "è giunta l'ora che mi parli del tuo misterio-

so progetto."

"Non c'è ancora niente di deciso," insistetti, e poi le raccontai

per filo e per segno il mio straordinario incontro in treno.

Joan restò di stucco sentendo che avevo diviso lo scomparti-

mento insieme a una persona immersa nella lettura di uno dei miei

libri. "Ma è sorprendente!" disse. Finito che fu il racconto volle

sapere di più: "Immagino che fosse carina quella Alice, vero?"

"No, non particolarmente." Mi costò moltissimo metterla in

questi termini. Il solo fatto di raccontare la storia aveva ridato ni-

tore alla bellezza di Alice, e Joan tornò a essere scialba e sgraziata

come quando l'avevo vista per la prima volta sul marciapiede della

stazione. Mi opposi strenuamente a questa idea ma non ci fu mo-

do di scacciarla: sentii un brivido di desiderio passarmi addosso

quando mi tornò in mente la risata e il malizioso invito che avevo

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colto negli occhi di Alice.

"Hai freddo?" chiese Joan. "Non credo proprio."

Parlammo un pocolino della famiglia Winshaw e della mia at-

tività di scrittura, e il discorso ci portò, in qualche modo, al tema

delle storie che inventavamo da piccoli.

"Devo ritenere che sia alquanto eccitante," disse Joan, "pen-

sare che un tempo ho collaborato con un famoso scrittore."

Risi. "Jason Rudd e i delitti di Hampton Court. Chissà cosa ne

è stato di quel piccolo capolavoro? Immagino che tu non l'abbia

conservato."

"Sai benissimo che eri tu a possederne la sola copia esistente.

E probabilmente te ne sei disfatto. Eri sempre così impietoso con

quel genere di cose. E infatti, è stato fantastico che tu abbia do-

vuto rivolgerti a me per quella fotografia."

"Non l'ho buttata via, quella foto, l'ho perduta. Te l'ho già

detto."

"Non capisco come abbia potuto andare perduta, proprio

non me ne faccio una ragione. E invece mi ricordo che buttasti

via tutte le tue storie su Jason Rudd quando fu la volta della fan-

tascienza."

"Fantascienza? Io?"

"Ma sì, quando non facevi altro che scrivere e parlare di Yuri

Gagarin e cercasti di farmi leggere quel racconto lunghissimo in

cui lui vola su Venere o non so che pianeta e io non mostrai il

benché minimo interesse."

Il ricordo informe di un antico ma doloroso disaccordo mi

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balzò davanti agli occhi e insinuò un sorriso sulle mie labbra.

Per la prima volta mi resi conto di com'era bello stare di nuovo

con Joan; riuscire a percepire la continuità che in qualche modo

segna la nostra vita, a sentire il passato non come un ignobile se-

greto da chiudere a doppia mandata dentro di sé ma come un

qualcosa carico di stupori e meraviglie, che si poteva condividere.

Era una sensazione calda, naturale. Ma poi Joan, che aveva finito

di mangiare, si girò e si stese davanti ai miei piedi, i gomiti piantati

a terra, il mento chiuso nelle mani a coppa, offrendomi una visio-

ne panoramica dell'incavo dei suoi seni; e mi ritrovai immediata-

mente preda di un garbuglio di impulsi diversi, diviso fra l'urgen-

za di guardare e non guardare. Com'era ovvio, diressi altrove il

mio sguardo e finsi di star li ad ammirare il paesaggio. Ne conse-

guì un lungo e greve silenzio che fu Joan a rompere ponendo la

fatidica domanda: "A cosa pensi?"

"Pensavo alla mia recensione. Adesso lui l'ha letta. Chissà co-

me l'ha presa?"

Joan rotolò sulla schiena, colse un lungo filo d'erba e cominciò

a mordicchiarlo. "Credi davvero che le persone prendano sul se-

rio quel che scrivi di loro?"

"In questo caso," dissi, con gli occhi fissi all'orizzonte, "sì lo

credo."

 

 

Si adunavano nubi temporalesche. Ce n'era un banco nero,

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schierato così minacciosamente nel cielo, a ovest, che verso le

quattro del pomeriggio decidemmo di comune accordo che sareb-

be stato saggio puntare dritti verso casa. Inoltre, quella sera, era il

turno di Joan in cucina. "Non sarebbe giusto tradirli," disse. "Lo-

ro contano su di me."

Quando arrivammo a casa lei andò sparata in cucina e co-

minciò ad affettare verdure. Io, a quel punto, ero così stanco

da non riuscire a reggermi sulle gambe. Chiesi se non le spia-

ceva che mi stendessi per un po' sul suo letto e lei disse che

no, che ovviamente no, ma fissandomi al contempo con un

espressione di così profonda preoccupazione che mi sentii ob-

bligato a dire: "Che giornata. Una giornata eccezionale. Me la

sono proprio gustata".

"Davvero, una gran giornata, eh?" Tornò al suo taglierino e

aggiunse, quasi fra sé: "Sono così contenta che resti fino a dome-

nica. Altri due giorni bellissimi".

Mentre attraversavo il salotto, passai accanto a Graham che

stava leggendo le recensioni cinematografiche sul giornale.

"Bella la gita?" chiese senza staccare gli occhi dalla pagina.

"Bellissima, grazie."

"Siete arrivati appena in tempo, mi pare. Fra un minuto verrà

giù un diluvio."

"Ce n'è tutta l'aria."

"Ho letto il tuo pezzo."

"Sì?"

"Molto enigmatico."

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Rimasi steso sul letto di Joan per una ventina di minuti chie-

dendomi cosa mai volesse dire con quel commento. Enigmatico?

Non c'era nulla di enigmatico in quello che avevo scritto. Mi ero

addirittura sforzato per rendere più chiaro possibile quel che sen-

tivo. Semmai era Graham a essere enigmatico. Sapevo il pezzo a

memoria e lo ripercorsi, frase per frase, per capire se mai ci fosse

qualcosa che aveva potuto davvero portarlo fuori strada. Niente.

Cercai allora di dimenticare tutta la faccenda, ma quella frase, così

particolare, tornò a tormentarmi. Seppi infine che non mi avrebbe

dato tregua, così tornai dabbasso per vedere se fosse possibile ar-

rivare a una spiegazione.

Graham stava guardando il programma di una rete locale sul

televisore di Joan. Raccolsi il foglio che aveva lasciato da parte e

gettai un occhio alla mia recensione, soddisfatto nel vedere che

le avevano conferito una posizione di rilievo in testa alla pagina.

"Non capisco cosa ci sia di enigmatico, a dire il vero," dissi,

rileggendo fra me e me il primo paragrafo e lodando la nota pa-

catamente sarcastica che avevo saputo introdurre nel mero rias-

sunto della trama.

"Senti, non è così importante," disse Graham. "In fondo si

tratta solo di una recensione. Non mi riusciva di capire dove vo-

levi arrivare."

"A me pare così chiaro." Ero arrivato al secondo paragrafo,

dove il tono cominciava a essere più esplicitamente gelido. Mi ve-

devo il poveretto che a quel punto cominciava a bollire di appren-

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sione.

"Senti, è evidente che mi è sfuggito il senso di qualche intel-

ligente metafora o di qualche altra figura retorica," disse Graham.

"I tuoi amici metropolitani l'avranno inteso, ne sono sicuro."

"Non capisco di che parli," dissi. E non potei fare a meno di

sorridere a certe frecciatine del terzo paragrafo; stampate pareva-

no ancor più spietate.

"E allora, esattamente, cosa vuoi dire?" domandò Graham.

"Che quel tipo non scriverà mai un buon romanzo perché non

ha la penna giusta?"

Lo guardai di sguincio. "Cosa?"

"L'ultima frase. Cosa vuol dire?"

"Ma è semplice. E' ovvio che lui vuol scrivere un libro fanta-

stico, divertente, arrabbiato, satirico, ma non ce la farà mai perché

manca di..." Stavo per leggere ad alta voce la parola per confer-

mare quanto andavo dicendo, quando, di colpo, vidi quel che ave-

vano scritto. Raggelai, stupefatto. Era uno di quei momenti in cui

la realtà è, letteralmente, così spaventosa da far vacillare ogni con-

vinzione. Poi appallottolai il giornale e lo lanciai dall'altra parte

della stanza in uno scatto di furia incontrollata. "Quei bastardi!"

Graham mi fissò ad occhi sbarrati. "Che cosa c'è?"

Non riuscii neanche a rispondere. Mi sedetti mordendomi le

unghie. Poi dissi: "Brio. Avevo scritto brio, Che manca di brio".

Lui raccattò il giornale e riesaminò la frase. Un sorriso gli af-

fiorò alle labbra.

"Oh, brio..." Il sorriso si trasformò in un ridacchiare chioccio,

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il ridacchiare chioccio in una risata, e la risata in una scarica di

risate ostinata, assordante, senza freno che fece arrivare Joan, sem-

pre ansiosa di non perdere le battute, trafelata, dalla cucina.

"Che c'è?" disse. "Che c'è di così divertente?"

"Guarda qui," disse Graham, porgendole il giornale e sforzan-

dosi di farsi capire, strozzato com'era dal riso. "Da' un occhio alla

recensione di Michael."

"E allora?" disse divisa fra il cipiglio della concentrazione e

l'anticipazione di un sorriso.

"L'ultima parola," disse Graham, ansimando alla ricerca d'aria

per respirare. "Guarda l'ultima parola."

Joan guardò l'ultima parola, ma non riuscì, nemmeno allora, a

sciogliere il mistero. Guardava me e poi Graham, Graham e poi

me, più che mai confusa dalle nostre diverse reazioni. "Non ho

capito," disse, dopo aver letto la frase un'altra volta. "Insomma,

che c'è di così buffo in una biro?"

 

 

Fu un altro pasto consumato in silenzio. Mangiammo stufato

di fagioli rossi seguito da gelatina di pompelmo; il rumore che fa-

cevamo mangiando sembrò più forte del solito, interrotto di tanto

in tanto solo dai magri sforzi di Joan di avviare una conversazione,

e dagli sporadici accessi di riso che Graham riusciva a contenere Ä

così pareva Ä solo con grandissima difficoltà.

"Beh io continuo a credere che non ci sia molto da ridere,"

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disse Joan dopo quattro o cinque crisi di ilarità. "E sì che un

giornale nazionale come quello dovrebbe avere dei correttori

di bozze professionisti. Se fossi in te, Michael, lunedì mi farei

sentire."

"Oh, a che servirebbe?" dissi facendo fare il giro del piatto a

un fagiolo con indolente meccanicità.

Gli scrosci di pioggia contro la finestra si intensificarono e

mentre Joan ci serviva una seconda porzione di gelatina dardeggiò

un lampo, seguito dal terrificante rombo di un tuono.

"Adoro i temporali," disse lei. "Fanno così atmosfera." Quan-

do fu ovvio che nessuno aveva niente da aggiungere a quell'osser-

vazione, chiese tutta allegra: "Sapete cosa mi piace fare quando

c'è un temporale?"

Evitai di indovinare la risposta che tuttavia si rivelò, in ogni

caso, abbastanza innocua.

"Fare una bella partita a Cluedo. Non se ne può fare a meno."

E questa volta, infatti, la nostra resistenza fu senza effetto. Co-

sì, dopo aver lavato i piatti ci ritrovammo seduti intorno al tavolo

di cucina a bisticciare sull'assegnazione dei diversi ruoli. Finì che

Phoebe fu Miss Scarlet, Joan Mrs Peacock, Graham il reverendo

Green, e io il professor Plum.

"Dunque, adesso dobbiamo immaginare d'essere tutti chiusi

in una grande casa di campagna," disse Joan. "Come in quel film

là, Michael, di cui mi parlavi sempre." Si rivolse agli altri e spiegò:

"Sì, perché, quando Michael era piccolo, vide un film in cui i

membri di una famiglia venivano tutti assassinati durante una not-

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te di tempesta nella loro vecchia casa di campagna, e gli fece un'e-

norme impressione".

"Davvero?" disse Graham, rizzando le sue orecchie di cinéa-

sta. "Com'era intitolatò?"

"Non l'avrai mai sentito nominare," dissi. "Non era sottotito-

lato, e il regista non era un intellettuale marxista."

"Uh, che permaloso!"

Joan andò a prendere un paio di candelieri: uno lo mise sul

tavolo l'altro sulla mensola del caminetto e poi spense la luce.

Non si riusciva a vedere quasi nulla di quel che stavamo facendo

ma, a onor del vero, l'atmosfera era perfetta, spettrale come da co-

pione.

"Allora, tutto a posto?"

Pronti lo eravamo ma, mentre Joan, Graham e Phoebe s'erano

già armati di penne e matite per spuntare i sospetti, io non ne ave-

vo. Non fu un caso che fosse Graham a notarlo.

"Aspettate," disse. "Credo che a Michael manchi qualcosa di

indispensabile: la biro."

Questa volta persino Joan scoppiò a ridere e Phoebe si conces-

se un sorrisetto di scuse che presto, di fronte all'ilarità degli altri,

si trasformò anch'esso in risata. Mi procurai una delle penne co-

lorate che stavano sotto la lavagnetta dei turni in cucina, mi rise-

'detti e attesi compostamente che si placasse tutta quella isteria. Ci

volle un po' di tempo, ma nel frattempo giunsi, dentro di me, a

una risoluzione definitiva: che non avrei più scritto recensioni

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per i giornali.

Facemmo tre partite, tutte piuttosto lunghe perché Graham e

Joan misero in atto alcuni bluff e contro-bluff piuttosto sofisticati.

Quanto a Phoebe, mi parve che non ci stesse molto con la testa.

Neanch'io, in un primo momento: provai a trattarlo come un rom-

picapo matematico, né più né meno, come un esercizio di probabi-

lità e deduzione, ma poi, dopo un po' Ä e ho idea che la cosa sem-

brerà piuttosto infantile Ä la mia immaginazione cominciò a farsi

valere e mi ritrovai completamente assorto nel gioco. Soccorso da-

gli schianti dei tuoni e dal riverbero dei lampi, che a momenti inon-

davano la stanza di abbaglianti contrasti di luce e ombra, non ebbi

alcuna difficoltà a credere che quella fosse una notte in cui ci si po-

tessero aspettare davvero eventi terribili. Nella mia mente il profes-

sor Plum cominciò ad assumere i tratti di Kenneth Connor ed ebbi

ancora una volta l'impressione (impressione che non m'aveva più

abbandonato da quel mio compleanno al cinema di Weston-su-

per-Mare) di essere destinato a sostenere la parte di un piccolo uo-

mo timido, vulnerabile e impacciato coinvolto in una serie di eventi

spaventosi sui quali non avevo il benché minimo controllo. I mani-

festi sulla parete presero la fisionomia di antichi ritratti di famiglia,

da dietro i quali potevano apparire, da un momento all'altro, vigili

occhi, e la casetta diJoan cominciò a dare la sensazione d'essere va-

sta e sinistra come Blackshaw Towers.

Joan vinse la prima partita: l'assassina era Mrs White, il crimi-

ne era avvenuto nello studio, e l'arma era i tubo di piombo. Poi

Graham decise di applicarsi con più rigorosa determinazione e si

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procurò una tavoletta e un grande foglio di carta, sul quale segna-

va scrupolosamente le operazioni che avevano luogo fra i diversi

giocatori. Vinse così la seconda partita (l'assassino era il colonnel-

lo Mustard, il crimine era avvenuto nella sala da biliardo, e l'arma

era il revolver) ma gli fu impedito, all'unanimità, di usare ancora

la stessa tattica. La terza partita si combatté strenuamente. Presto

fu ovvio che il crimine aveva avuto luogo o nel salotto o nella ser-

ra, e che l'assassino aveva usato il pugnale o il candeliere; ma io mi

trovai decisamente in vantaggio quando si trattò di fare il nome

dell'assassino giacché tre delle carte decisive erano in mano mia.

Mentre gli altri stavano ancora dibattendosi fra ipotesi senza fon-

damento sparate fuori alla cieca, io venivo pian piano avvicinan-

domi alla soluzione: il colpevole non era altri che il professor

Plum, cioè io.

Appena ne fui certo, la partita mi suonò di colpo intrinseca-

mente compromessa. Pareva scorretto che per un semplice pro-

cesso di eliminazione ti potessi ritrovare colpevole di un crimine,

mentre non sapevi ancora né dove né quando l'avevi commesso.

Di certo non c'erano precedenti di una siffatta situazione nella vi-

ta reale. Mi chiedevo come sarebbe stato essere presenti allo scio-

glimento di un terribile mistero e poi essere di punto in bianco

messo faccia a faccia con la falsità della tua stessa compiacente im-

magine di osservatore disinteressato: scoprire, di punto in bianco,

d'essere avviluppato nella ingarbugliata ragnatela di moventi e so-

spetti che ti eri prefissato di sbrogliare col distacco glaciale di chi

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si chiama fuori del gioco. Non c'è bisogno di aggiungere che non

riuscivo neppure a immaginare le circostanze in cui una cosa simi-

le avrebbe potuto capitarmi.

In ogni caso fu Graham a prendere il comando della situazio-

ne. Con la sua mossa seguente passò nella serra attraverso il pas-

saggio segreto e puntò il suo dito accusatore verso di me.

"Io dico," sentenziò, "che è stato il professor Plum, nella ser-

ra, con il candeliere."

Aveva ragione; e a quel punto ci dichiarammo battuti. Joan ac-

cese le luci e ci preparò un tazzone di cioccolata, e l'atmosfera

probabilmente si sarebbe infranta se, fuori, il temporale non fosse

continuato, guadagnando, semmai, in ferocia, all'avvicinarsi della

mezzanotte.

 

 

Questa volta non ebbi la scusa di andare a cercare un libro; né

soffrivo per il caldo o per la scomodità. Avrei probabilmente po-

tuto restarmene disteso dov'ero ad ascoltare la pioggia battere

contro la finestra, lo schianto dei tuoni, e prima o dopo mi sarei

arreso al sonno. Invece, solo una mezzoretta dopo, quando ebbi la

certezza che tutti erano andati a letto, sgusciai da sotto le coperte

e salii con passo felpato al primo piano in maglietta e mutande. La

porta che dava nella stanza di Joan era solo accostata, come la vol-

ta precedente. Come allora, le tende, non tirate, lasciavano entrare

un po' di luce dei lampioni. E come allora, lei era sdraiata sulla

schiena, la sua pelle era grigia e luminescente nell'argentea luce

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dei lampioni, che talora virava nel blu quando le abbaglianti un-

ghiate dei lampi striavano il cielo notturno. Benché quella notte

fosse quasi tutta coperta dal chiaro copriletto, la sua visione bastò

a inchiodarmi sul posto, mentre i miei occhi luccicanti e impotenti

la divoravano avidamente, protetti dall'oscurità.

La scrutavo, immobile, quando ben presto mi accorsi Ä e fu una

strana sensazione Ä che i miei occhi erano fissi sul suo volto, quel

volto che, da quattro giorni a quella parte, vedevo ogni giorno,

non sul corpo che mi era stato magicamente offerto nei preziosi,

illeciti momenti di quella apparizione fugace. Forse c'è qualcosa

di più intimo e segreto da scoprire nel volto di una persona addor-

mentata che in un corpo nudo. Abbandonata nel sonno, le labbra

socchiuse e le palpebre serrate che parevano alludere a un atto di

profonda concentrazione su qualche lontano oggetto interiore,

Joan era straordinariamente bella. Ora era impossibile, addirittura

vergognoso, aver pensato di lei che fosse scialba, sgraziata.

La fissavo.

Improvvisamente i suoi occhi si aprirono: rispose al mio sguar-

do con un sorriso.

"Hai deciso di restare li in piedi," disse, "o hai intenzione di

entrare?"

Come sarebbe stata diversa la mia vita, come sarebbe stata di-

versa se fossi entrato nella sua stanza invece di scivolare indietro

nel buio, veloce e silenzioso come un sogno che scivola via al ri-

sveglio.

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Il sabato mattina uscii di casa prima che gli altri si svegliassero

e feci ritorno a Londra. Non avrei più rivisto Joan per molti anni.

I suoi genitori si ritirarono in un paese della costa meridionale,

onde per cui non ci vedemmo più in occasione delle visite natali-

zie alle nostre famiglie. La sola notizia che ebbi di lei fu quando

mia madre mi disse (appena prima di non parlarci più) che si

era trasferita a Birmingham e aveva sposato un uomo d'affari della

città.

 

 

Lunedì mattina, telefonai alla Peacock Press e accettai di scri-

vere il libro sulla famiglia Winshaw che mi era stato commissio-

nato.

Quel pomeriggio stesso, uscii a comprare il mio primo video-

registratore.

 

 

 

 

 

 

Thomas.

 

Sono in pochi a ricordare qualcosa del primo Vcr domestico,

lanciato dalla Philips nel lontano 1972. Il prezzo era alto, la poten-

za di registrazione sfiorava appena l'ora, e finì con l'essere venduto

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principalmente nell'area del commercio e delle istituzioni pubbli-

che. Thomas Winshaw ne acquistò uno comunque, e se lo fece in-

stallare a parete dietro uno dei pannelli di quercia del suo ufficio

alla Stewards. Ma per il momento decise di non fare investimenti

in tal senso. Benché fosse, di suo, eccitato dall'invenzione ed estre-

mamente consapevole delle sue possibilità commerciali, percepì

che non era ancora arrivato il suo tempo. Quasi, ma non del tutto.

Il 1978 vide il primo vero fermento di attività. In aprile la Jvc

presentò il suo Video Home System, venduto a 750 sterline, e solo

tre mesi dopo la Sony lanciò il rivale Betamax. Negli anni imme-

diatamente a seguire i due sistemi dovettero scazzottare nel mer-

cato, con vittoria finale e definitiva del Vhs. Nell'autunno del

1978, quando Thomas Winshaw annunciò che la banca avrebbe

pesantemente investito nella fiorente industria, la prima reazione

dei membri del consiglio di amministrazione fu di spavento. Gli

rarnmentarono che i flirt della Stewards con l'industria cinemato-

grafica nei primi anni sessanta non avevano dato mai buoni esiti e

che dieci anni prima si era persino arrivati a invocare lo stato di

crisi alla Morgan Grenfell, quando un grosso investimento finan-

ziario in un film era finito in un potenziale disastro, parato all'ul-

timo minuto dall'intervento della Banca d'Inghilterra. Thomas

non prese in considerazione questi precedenti. Non stava sugge-

rendo nulla di così rischioso come un investimento nella produ-

zione cinematografica. Proponeva semplicemente di avere una

modesta partecipazione in uno dei maggiori produttori di hard-

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ware; dato che il mercato di software era, come egli stesso avrebbe

ammesso, troppo nuovo, troppo instabile e, a esser franchi, trop-

po squallido. Come al solito, il suo istinto vedeva chiaro. Nei cin-

que anni che seguirono, le importazioni di videoregistratori decu-

plicarono, e, nel 1984, c'era un apparecchio nel 35,74 per cento

delle case inglesi, in contrasto con lo 0,8 per cento del 1979. La

banca ebbe il suo bel profitto. Inoltre nel 1981 diventarono con-

sulenti e gestori di fondi di un'azienda che stava rapidamente con-

quistando una grossa fetta di mercato nell'area della postprodu-

zione, della distribuzione e del riversamento di film. Col sostegno

della Stewards, quella società fece un passo avanti assorbendo una

casa indipendente di duplicazione video e nel giro di pochi anni

più dei tre quarti delle sue entrate vennero dai servizi di duplica-

zione. Ancora una volta la banca raccolse cospicui dividendi. In

una sola occasione Thomas fece fiasco: egli era un sostenitore en-

tusiasta del sistema videodisc della Philips, il Laser-Vision, che fu

messo sul mercato nel maggio del 1982 ma, dopo un anno o poco

più, i dati di vendita davano cifre che s'aggiravano intorno agli

8000 pezzi. La spiegazione più ovvia era che il sistema non com-

prendeva un impianto di registrazione, e quando, pochi mesi do-

po, la Jvc eliminò di punto in bianco il suo disc system, e la Rca

decise di fermare, nel 1984, tutta la produzione di lettori, era chia-

ro persino al meno sofisticato degli analisti industriali che la nuova

tecnologia aveva fallito. Ciononostante, Thomas mantenne attivo

nell'Essex uno stabilimento di stampaggio dischi da 10 milioni

di sterline, che dava perdite enormi.

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I suoi colleghi andavano elucubrando, fra di loro, su questo

curioso punto debole. La somma di danaro compromessa era tra-

scurabile, nella logica della Stewards: ma era, purtuttavia, la sola

volta nei quindici anni di presidenza di Thomas che egli avesse in-

sistito nell'offrire un supporto acritico a un'impresa decisamente

in perdita. E la vera ragione non la indovinarono mai: Thomas

era letteralmente rapito dalla qualità eccezionale dell'immagine e

dai perfetti fermo-immagine offerti dal video-disc, che venivano

mirabilmente incontro ai suoi bisogni e lo riportavano agli esaltan-

ti, inebrianti giorni in cui soleva girare per gli studios a raccogliere

gli scarti di girato con avvenenti giovani attrici in varie scene

déshabillé. Il fermo-immagine, secondo Thomas, era la vera raison

d'ètre del video: era convinto che avrebbe trasformato l'Inghilter-

ra in una nazione di voyeur, e talora, mentre sedeva incantato nel

buio con il televisore acceso, la cerniera dei pantaloni slacciata e la

porta dell'ufficio chiusa a chiave, si immaginava che scene identi-

che avvenissero contemporaneamente su e giù per tutto il paese

nel buio di chissà quante stanze, e avvertiva una strana solidarietà

con la gran massa di uomini comuni dalla cui miseranda esistenza

normalmente si preoccupava soltanto di tenere le distanze.

Solo una volta, accidentalmente, si scordò di chiudere l'ufficio

a chiave. Erano le sette di sera e volle il caso che la sua segretaria,

fermatasi a lavorare sino a tardi, facesse l'errore di entrare senza

bussare. Fu licenziata in tronco. Ma l'episodio ebbe modo di dif-

fondersi in alcuni bar della City, e c'è gente che dice che l'espres-

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sione merchant banker sia entrata in circolazione nella sua versio-

ne slang proprio allora.

 

 

Thomas amava ogni sorta di schermo. Adorava la menzogna

di cui gli schermi erano latori: che il mondo fosse compreso den-

tro i quattro lati di un rettangolo e che lui, lo spettatore, fosse nel-

la condizione di sedere e guardare, senza essere toccato, senza es-

sere osservato. Nella sua vita professionale (anche perché della sua

vita privata ci sarebbe ben poco da dire) era costantemente pre-

occupato di mettere uno schermo fra sé e il mondo, che egli guar-

dava come fosse un film muto da dietro il vetro protettivo di tanti

schermi diversi: il finestrino di una vettura ferroviaria di prima

classe, per esempio, o dell'elicottero di Bob Maxwell (che di tanto

in tanto gli era concesso in prestito), o i vetri affumicati a specchio

della sua limousine privata. La computerizzazione dei mercati va-

lutari, che allarmò alcuni vecchi operatori finanziari, a lui parve

uno sviluppo del tutto logico. Così come l'abbandono della sala

negoziazioni della Borsa nel 1986. Finalmente, con suo sommo

piacere, per gli operatori di Borsa non c'era più bisogno di entrare

in contatto l'uno con l'altro, e ogni transazione veniva ridotta al

lampeggio di impulsi elettrici sullo schermo d'un video. Aveva fat-

to installare una videocamera nella sala negoziazioni della Ste-

wards, collegata a un monitor montato nel suo ufficio, e qui, fis-

sando lo schermo che per tutto il giorno non mostrava altro che

file e file di suoi operatori, anche loro con gli occhi fissi su altri

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schermi, godeva, sino all'eccitazione, di sensazioni parasessuali

di orgoglio e potere. In quei momenti pareva che non avessero

mai fine le barriere di vetro che egli era in grado di frapporre

fra se e la gente (ma questa famosa gente, esisteva davvero?) il

cui danaro formava la base delle sue inebrianti speculazioni quo-

tidiane. Operare in banca, come una volta disse a un intervistatore

televisivo, era diventata la più spirituale di tutte le professioni. Ci-

tava volentieri la sua statistica prediletta: ogni giorno mille miliar-

di di dollari giravano nel mercato finanziario mondiale. Dato che

ciascuna transazione implicava un accordo bilaterale, a doppio

senso, ciò significava che cinquecento miliardi di dollari passavano

da una mano all'altra. Sapeva l'intervistatore quanto di quel dana-

ro veniva da un vero, tangibile commercio in beni e servizi? Una

frazione: il 10 per cento, forse meno. Il resto erano tutte commis-

sioni, interessi, intermediazioni, swaps, contratti a termine, opzio-

ni: non si trattava più neanche di danaro nel senso ordinario del

termine. Che forse non esisteva neppure. In tal caso (ribatté l'in-

tervistatore) tutto il sistema non era altro che un castello costruito

sulla sabbia. Forse, concordò Thomas, sorridendo: che castello

stupendo, però...

Osservando i suoi operatori tutti intenti davanti agli schermi

luminosi, Thomas provava qualcosa di molto simile all'amor pa-

terno. Quelli erano i figli che non aveva mai avuto. Ciò accadeva

nel periodo più felice della sua vita, i primi anni ottanta, quando

Mrs Thatcher aveva rinnovato l'immagine della City e trasformato

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gli speculatori in cambi in eroi nazionali descrivendoli come

"creatori di ricchezza", alchimisti che potevano trarre dall'aria fi-

na fortune inimmaginabili. Il fatto che quelle fortune finissero

dritte in tasca loro, o in quelle dei loro padroni, era un dato tra-

scurabilissimo. La nazione, per un breve, eccitante periodo, ebbe

soggezione di loro.

Le cose non stavano proprio in questi termini quando Thomas

era venuto a lavorare per la Stewards: la City stava ancora ripren-

dendosi dalla prova inflittale dall'organo di vigilanza che, per due

settimane nel dicembre del 1957, aveva reso pubbliche per la pri-

ma volta alcune delle sue operazioni. I deputati laburisti e i gior-

nali popolari avevano gridato allo scandalo davanti alle rivelazioni

di affari per svariati milioni di sterline realizzati con un ammicco o

un cenno del capo nella soffice atmosfera dei club, nei campi da

golf del sabato mattina e nelle uscite di caccia al fagiano il fine set-

timana. Benché tutte le banche d'affari coinvolte fossero state as-

solte dall'accusa di aver agito alla luce di "informazioni confiden-

ziali" sull'aumento del tasso di sconto, un netto sentore di scanda-

lo aleggiava nell'aria, e comunque non si poteva cancellare il fatto

incontestabile che quantità considerevoli di titoli di stato erano

state svendute sul mercato nei giorni (e nelle ore) che precedette-

ro il pronunciamento del Gran Cancelliere. Per Thomas, che era

diventato un dirigente della Stewards nella primavera di quell'an-

no, era stata una iniziazione tale da lasciare il segno: Macmfflan, a

Bedford, poteva ben dichiarare a gran voce che l'economia era

forte e il paese "non ne aveva mai avuta una così sana": gli spe-

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culatori esteri la pensarono diversamente e intrapresero operazio-

ni allo scoperto sulla sterlina, distruggendo milioni di dollari di ri-

serve aurifere e inducendo infine un rialzo del 2 per cento del tas-

so di sconto (che arrivò fino al 7 per cento, il tetto più alto da più

di un secolo).

"Un battesimo del fuoco, non c'è che dire," aveva spiegato

Thomas al giovane cugino Mark che era stato assunto dalla banca

con funzioni non direttive nell'estate del 1961. "Ne siamo usciti,

naturalmente, ma, in tutta franchezza, spero di non vedere un'al-

tra crisi della sterlina come quella finché sarò alla Stewards."

E tuttavia qualcosa di simile si presentò ancora, il 16 settem-

bre 1992 (passato alla storia come il mercoledì nero), quando i

cambisti riuscirono un'altra volta a razziare le riserve aurifere

per miliardi di dollari, e a produrre, per giunta, una svalutazione

della sterlina. Almeno in una cosa Thomas ebbe comunque ragio-

ne: che non lo vide accadere. Infatti, allora, aveva già perso l'uso

della vista.

 

 

Thomas aveva sempre percepito ed esperito il mondo, solo e

soltanto, attraverso gli occhi: ecco perché (fra l'altro) non provò

mai il desiderio di toccare o di essere toccato dalle donne. Tutti

i grandi uomini hanno le loro idiosincrasie e la sua Ä la cosa

non sorprende Ä fu il nevrotico assillo per lo stato della sua vista.

In ufficio aveva un armadietto di medicine privato che conteneva

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un vasto assortimento di colliri, umidificanti, lavande e gocce, e

per trent'anni l'unico appuntamento fisso nella sua agenda fu la

visita settimanale dal suo oculista, alle nove e mezzo di ogni lunedì

mattina. Per il medico in questione c'era forse un che di sfibrante

in quell'impegno continuo, ma l'ossessione di Thomas lo ripagava

con parcelle stratosferiche. Non c'era un solo disturbo citato nei

trattati di cui egli non credesse d'essere stato vittima una volta

o l'altra. Si mise in testa d'avere il morbo di Mikulicz, la sindrome

di Heerfordt, la congiuntivite batterica e la congiuntivite cistica, la

congiuntivite gonococcica metastatica e la congiuntivite scrofolosa

o flittenulare, la distrofia nodulare di Goenouw e la distrofia reti-

colare di Haab; l'embriotoxon e la cornea piana, la megalocornea

e la microcornea, la cornea guttata di Vogt e l'edema primitivo di

Fuchs; l'afachia e l'ectopia congenite, i lenticono e il coloboma,

l'iridite e l'iridociclite, l'oftalmite simpatica e la panoftalmite, il

sarcoma melanotico e i nevi pigmentari, lo strabismo concomitan-

te e lo strabismo divergente. Una volta, dopo una visita in certi

campi di luppolo, si convinse di avere la luppolite (una congiun-

tivite acuta accertata fra i raccoglitori di luppolo, causata dall'irri-

tazione dei filamenti spinali della pianta del luppolo); dopo una

visita a un cantiere navale, che aveva l'occhio dell'arsenale (la che-

ratocongiuntivite epidemica, un'infezione diffusa da fluidi conta-

minati nell'occhio costipato che i presidi di pronto intervento sco-

prirono nei cantieri navali); dopo un viaggio a Nairobi, che aveva

l'occhio di Nairobi (una grave lesione oculare causata dalle secre-

zioni di certi scarafaggi molto comuni a Nairobi). In altra occasio-

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ne, quando sua madre fece l'errore di rivelargli che il nonno, Mat-

thew Winshaw, aveva sofferto di una forma congenita di glauco-

ma, aveva cancellato tutti i suoi impegni di lavoro per tre giorni e

aveva prenotato una serie di appuntamenti specialistici su tutto

l'arco della giornata. Si sottopose agli esami, uno dopo l'altro,

per il glaucoma primario, il glaucoma secondario, il glaucoma

emorragico, il glaucoma infiammatorio, il glaucoma cronico sem-

plice, il glaucoma sintomatico, il glaucoma maligno, il glaucoma

benigno, il glaucoma ad angolo aperto, il glaucoma ad angolo

chiuso, il glaucoma postinfiammatorio, il glaucoma preinfiamma-

torio, il glaucoma infantile e la mixomatosi. Gli occhi di Thomas

furono assicurati (con la compagnia di assicurazioni della Ste-

wards) per una somma che, a seconda delle voci, variava dalle

centomila sterline al milione. In altre parole, non c'era altro orga-

no che egli tenesse in più alta considerazione; compreso quello

verso il quale la sua mano destra talvolta correva spedita, incapace

di governarsi, come avvenne Ä e fu memorabile Ä il giorno in cui

invitò la regina, sorpresa ma educatamente impassibile, e il prin-

cipe Carlo a prendere uno sherry nel suo ufficio appena ricoperto

di nuovi tappeti rossi.

Quando, nell'aprile del 1988, il governo dei conservatori an-

nunciò che sarebbero stati aboliti gli esami della vista gratuiti

del Servizio sanitario nazionale, Thomas chiamò suo fratello Hen-

ry per dirgli che stavano facendo un errore colossale: ci sarebbe

stata una pubblica levata di scudi. Henry gli rispose che stava esa-

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gerando. Dopo il solito brontolio di protesta Ä e ben si sapeva da

dove sarebbe arrivato Ä sarebbe ritornata la calma, come niente

fosse stato.

 

 

"Vedi, che avevo ragione."

"Avrei dovuto inchinarmi al tuo giudizio politico, come sem-

pre."

"Beh, è così semplice, invero." Henry si protese in avanti e

gettò un altro ceppo sul fuoco. Era un freddo, buio pomeriggio

dei primi d'ottobre del 1989, e stavano prendendo tè e muffin

in una delle sale private dell'Heartland Club. "Il trucco è che le

carognate bisogna non smettere di farle. Non dà alcun frutto

far passare dei paragrafi scandalosi a livello legislativo e dare a tut-

ti il tempo di rifletterci su. Bisogna darci dentro, di male in peg-

gio, prima che la gente abbia la possibilità di capire che mazzata

ha ricevuto. La coscienza inglese, sai, è fatta a suo modo: ha una

capienza che arriva si e no alla memoria.., diciamo, di un personal

computer molto primitivo. Può rammentare solo due o tre cose

alla volta."

Thomas annuì e addentò avidamente il suo muffin,

"La disoccupazione, per esempio," continuò Henry. "Quan-

d'è stata l'ultima volta che hai visto un titolo di giornale sulla di-

soccupazione? Non importa un fico secco a nessuno."

"Lo so: e tutto ciò è molto rassicurante, ragazzo mio," disse

Thomas, "ma quel che voglio io è qualche concreta garanzia..."

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"Ma è naturale. E naturale." Henry s'accigliò e focalizzò la sua

attenzione sul tema scottante del giorno, ovvero il caso di Farzad

Bazoft, un giornalista britannico recentemente imprigionato a

Baghdad sotto l'accusa di spionaggio. "Capisco il tuo punto di vi-

sta. Lo capisco benissimo. Tu e Mark volete proteggere i vostri

investimenti: come vuoi che non simpatizzi?"

"Ebbene, non si tratta solo di Mark. 'Oltre alla Vanguard ab-

biamo un sacco di altri clienti che traggono profitto dai servizi resi

a Saddam e alla sua lista della spesa. Ci siamo tutti impegnati fino

al collo."

"Non devi venire a ricordarmelo."

"Si, ma senti: adesso la situazione è delicatissima. Quest'uomo

è un cittadino inglese. Di sicuro quel tale appena entrato al Mini-

stero degli esteri Ä Major, o come diavolo si chiama Ä farà fuoco e

fiamme per liberarlo."

Henry levò le sopracciglia con un fare di finta innocenza. "E

come farà?"

"Beh, con le sanzioni, è ovvio."

"Davvero," disse Henry, ridendo forte. "Mi sorprende che tu

creda che si possa anche solo contemplare una simile via d'uscita.

Con l'Iraq abbiamo un attivo di 700 milioni di sterline. In confi-

denza, ce ne saranno altri quattro o cinquecento che devono an-

cora arrivare nel giro di un mese o due. Se pensi che metteremo a

repentaglio..."

Tagliò corto: non c'era bisogno di chiudere la frase.

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"Va bene, ma che ne sarà della piccola... attività di Mark?"

Questa volta la risata di Henry fu più secca, più intima. "Met-

tila in questo modo: come potremmo mai imporre delle sanzioni

su qualcosa che, in realtà, non stiamo neanche vendendo? Mmh?"

Thomas sorrise. "Hai colto il nocciolo della questione."

"So che Major non è dentro nel giro da molto e siamo tutti un

po' preoccupati che non sappia esattamente qual è il gioco. Ma,

dammi retta, è un bravo ragazzo. Fa quel che gli si dice." Bevve

un sorso di tè. "E inoltre, potrebbe anche fare un ulteriore passo

in avanti."

"Di già?"

"Così sembra. Margaret e Nigel sembrano precipitare verso la

catastrofe definitiva. Abbiamo il sospetto che molto presto ci sarà

un posto vuoto al Numero Undici."

Thomas stipò questa informazione nel fondo della sua mente

per riferimenti futuri. Inquadrarne e valutarne le considerevoli

implicazioni gli avrebbe richiesto tempo e mente sgombra.

"Pensi che lo faranno fuori?" chiese subito dopo.

Henry si strinse nelle spalle. "Beh, a dire il vero, come cancel-

liere si è rivelato un uomo corrotto, ma sarebbe una misura trop-

po drastica."

"No, no. Non Lawson. Intendo il personaggio del giorno.

Quel Bazoft."

"Oh, lui. Temo proprio che lo faranno, si. E' quel che succede

a chi è così stupido da farsi prendere in castagna mentre s'aggira

intorno alle fabbriche di armi di Saddam a ficcare il naso."

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"Ed è così scemo da sollevare un pandemonio."

"Esattamente." Henry rimase immobile per un momento a fis-

sare nel vuoto. "Devo dire, a pensarci bene, che anche qui ci sono

uno o due spioni che non mi dispiacerebbe veder penzolare dalla

forca a Ludgate Hill."

"I ficcanaso."

"Precisamente." Gli si scavò subito sul volto una ruga a metà

fra la malevolenza e la concentrazione. "Chissà cosa ne è stato dello

scrittorucolo che quella balenga di Tabs ci ha messo alle calcagna?"

"Uh, quello! Sant'iddio, mi ha sfibrato. Cosa diavolo s'era

messa in testa di..." Scosse il capo. "Beh, del resto è una povera

vecchia pazza...."

"Tu a quel tipo ci hai parlato, vero?"

"L'ho invitato in ufficio. Gli ho offerto il pranzo. Tutto. E co-

sa ho avuto in compenso? Un sacco di domande impertinenti."

"Tipo?"

"S'era intestardito sulla Westland," disse Thomas. "Voleva sa-

Ä pere perché la Stewards era stata così pronta ad appoggiare l'of-

ferta americana quando sul tavolo ce n'era una europea."

"E magari pensava che tu stessi per saltare in braccio a Mar-

garet con la speranza di una onorificenza o robe del genere."

"Qualcosa anche di più ambiguo, temo. Anche se, ora che lo

dici, mi viene in mente che una promessa c'era stata davvero..."

Henry basculò avanti e indietro sulla poltrona palesemente a

disagio. "Non me lo sono dimenticato, Thomas. Te lo assicuro.

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La vedo domani. Le farò memoria."

"Fatto sta che lui aveva questa assurda teoria secondo la quale

Sikorsky aveva stipulato accordi con gli arabi per un colossale affa-

re di armi, e la sola ragione per cui noi volevamo infilarci nel letto

con loro era quella di accaparrarci una bella fetta della torta."

"Ridicolo."

"Oltraggioso."

"E tu cosa gli hai risposto?"

"L'ho mandato a quel paese," disse Thomas, "con poche pa-

role scelte che un tempo furono dette a me, in un'occasione vera-

mente memorabile, dallo scomparso, grande e rimpianto Sid Ja-

mes."

"Cosa?"

"Gli ho detto Ä e qui cito a memoria Ä 'Facci un favore, ragaz-

zetto: smamma e non farti più vedere'."

E a quel punto, nella povera versione che Thomas provò a

darne, la stanza echeggiò dell'inimitabile risata catarrosa dell'at-

tore.

 

 

Era successo alla fine della primavera del 1961. Thomas arrivò

ai Twickenham Studios verso mezzogiorno e raggiunse il ristoran-

te, dove tenne d'occhio tre facce vagamente familiari a un tavolo

d'angolo. Una era quella di Dennis Price, ancora molto noto per il

ruolo di protagonista in Sangue blu di dodici anni prima; un'altra

apparteneva a quell'eccentrica vecchina rugosa di Esma Cannon,

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che a Thomas ricordava irresistibilmente la folle zia Tabitha, anco-

ra rinchiusa in un manicomio per lungodegenti in fondo alle bru-

ghiere dello Yorkshire; e la terza, non si poteva sbagliare, era quella

di Sid James, una delle star del film attualmente in fase di realizza-

zione Ä un remake in versione comica di una vecchia pellicola con

Boris Karloff, The Ghoul, reintitolato Sette allegri cadaveri.

Thomas andò a prendere un vassoio con una porzione di car-

ne in scatola e un dessert, e attraversò la sala per stare in loro

compagnia.

"Vi spiace se mi siedo qui?" chiese.

"Siamo in un paese libero, amico," disse freddamente Sid Ja-

mes.

Thomas era stato presentato ai tre attori qualche settimana

prima ma era chiaro che non l'avevano riconosciuto, e la conver-

sazione, che era stata sino ad allora piuttosto animata, si spense

non appena lui prese posto fra di loro.

"Ci siamo già conosciuti," disse dopo il primo boccone di

cibo.

Sid fece una specie di grugnito. Dennis Price disse: "Ovvia-

mente," e chiese: "Stai facendo qualcosa in questo periodo?"

"Beh, sì.. .cioè," disse Thomas, sorpreso.

"Cosa?"

"Mali, non so se voi ne avete un'idea. Faccio.., operazioni in

Borsa."

"Operazioni in Borsa, eh?" disse Sid. "Non ne ho mai sentito

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parlare. E roba dei Boultings, vero? Come dire, mettiamo a nudo

la City: lan Carmichael nella parte del giovane bancario innocen-

te, Terry-Thomas che fa il boss connivente. Non male, però. Fa

spettacolo, direi."

"Non esattamente: credo che ci sia stato un piccolo equiv..."

"Stop! Lo sapevo di averti già visto da qualche parte." Sid ora

studiò con attenzione la faccia di Thomas. "Non hai fatto la parte

del vicario in Un alibi (troppo) perfetto?"

"Ma no, stupido, quello era Walter Hudd," disse Dennis pri-

ma che Thomas avesse il tempo di smentire di persona. "Invece

eri sicuramente il poliziotto di Dentista in poltrona?"

"No, no, no," disse Esma. "Quello era Stuart Suanders. Caro

Stuart. Invece non ti ho visto in Guardati le spalle?"

"Ma dài... c'ero io in quel film," disse Sid. "Vuoi che non mi

ricordi? No; adesso ci sono: Seguite quel cavallo. Eri una delle

spie."

"O era Osteria numero guai?"

"O La vita è un circo?"

"O La scuola dei dritti?"

"Mi spiace deludervi," disse Thomas, levando una mano. "Siete

tutti sulla strada sbagliata. Non faccio parte della famiglia degli

attori. Quando ho detto che facevo operazioni in Borsa, inten-

devo proprio la Borsa, i titoli. Lavoro nella City. Sono un ban-

chiere."

"Oh."

Ci fu uno strascico di silenzio, ma poi Esma proruppe giuliva:

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"Che lavoro affascinante".

"Che cosa ti porta," disse Dennis, "a queste ignote plaghe? Se

posso chiedere."

"La banca che io rappresento ha investito pesantemente in

questi studios," disse Thomas. "Di tanto in tanto vogliono che

venga qui a vedere come vanno le cose. Se non sono troppo di

fastidio, pensavo di stare un po' sul set questo pomeriggio."

Dennis e Sid si scambiarono un'occhiata veloce.

"Beh, detesto dovertelo dire," azzardò Sid, "ma credo che tu

ti sia dato la zappa sui piedi, amico. Oggi non si va sul set, è una

giornata di riprese a porte chiuse."

"A porte chiuse?"

"Ci sono solo Ken, Shirl e i tecnici. Girano una scena Ä come

dire? Ä piuttosto intima."

Thomas sorrise fra sé e sé: l'informazione che aveva avuto era

corretta.

"Beh, sono sicuro che a nessuno dispiacerà se per qualche

minuto..."

Ma questa volta sembrava proprio che la fortuna gli avesse

girato le spalle. Quando, qualche minuto dopo, andò bighello-

nando verso il set venne a sapere che nella scena da girare quel

pomeriggio Kenneth Connor finiva nella camera da letto di Shirley

Eaton mentre lei si stava svestendo. La presenza di spettatori, si

affannava a spiegare l'assistente alla regia, non era gradita.

Tutto in subbuglio, Thomas rientrò nell'ombra oltre le lam-

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pade ad arco e meditò sulla mossa successiva. Riusciva a sentire il

regista e i due attori che ripassavano le battute, discutevano la posi-

zione dei segni di riferimento sul pavimento e le angolazioni delle

inquadrature; e subito dopo, ci fu un richiamo al silenzio, l'ordi-

ne ad alta voce "azione! ", e le macchine da ripresa si misero pre-

sumibilmente in moto.

Era insopportabile. Thomas aveva avuto un assaggio della bel-

lezza di Shirley Eaton quando era uscita in vestaglia dal ristorante

e non riusciva a tollerare il pensiero di tanta venustà fra poco pri-

va di vestimenti, lontano dal suo sguardo rapace. Per quanto fosse

un duro e freddo uomo d'affari, per quanto fosse abituato a pre-

siedere impassibilmente alla costruzione e alla distruzione di im-

mense fortune finanziarie, in quella circostanza gli veniva solo vo-

glia di piangere. La situazione era disperata. Bisognava assoluta-

mente fare qualcosa.

Mentre s'aggirava furtivo nella semioscurità ai margini dello

studio, la salvezza gli si presentò sotto forma di una scala appog-

giata contro uno scenario. Appoggiato l'orecchio contro il pannel-

lo gessato, Thomas udì le voci degli attori dall'altra parte mentre

provavano la seconda ripresa della scena in camera da letto. Buttò

una rapida occhiata verso l'alto e notò due puntolini di luce che

trapanavano il legno, proprio dove era appoggiata la scala. Forse

davano direttamente sul set, chissà. (Come poi scoprì, essi erano

ritagliati in un dipinto a olio, un macabro ritratto di famiglia ap-

peso in camera da letto, dietro il quale gli occhi dell'assassino fa-

cevano talora un'agghiacciante apparizione.) Salì sulla scala senza

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fare rumore e scoprì che i buchini corrispondevano perfettamente

alla distanza di due occhi umani. Forse erano stati concepiti per

quello scopo. Dopo essersi adattato all'intensità della luce, Tho-

mas guardò giù scoprendo che ora godeva di una vista senza in-

toppi sulla camera da letto proibita.

Non fu subito evidente che cosa vi stava accadendo, anche se

la scena era chiaramente imperniata su Kenneth, Shirley e uno

specchio. Kenneth dava le spalle a Shirley mentre lei si sbarazzava

dei suoi indumenti, ma lui la poteva vedere riflessa nello specchio,

che era montato su un perno, e che lui faceva del suo meglio per

tenere inclinato, e salvare così la di lei modestia. Shirley stava in

piedi accanto al letto, davanti al ritratto attraverso il quale gli oc-

chi sbarrati di Thomas fissavano immobili e .non visti. Sembrava

che fosse arrivato proprio durante una pausa delle riprese. Ken-

neth discuteva col regista mentre due giovani assistenti corregge-

vano a piccoli tocchi l'angolazione dello specchio secondo le istru-

zioni che l'operatore impartiva sbraitando. Infine il regista urlò:

"Ok, ciascuno al proprio posto!", e Kenneth s'avviò verso la por-

ta per fare la sua entrata. La calma dominava sul set.

Kenneth aprì la porta, entrò, e parve sorpreso nei vedere Shir-

ley, con addosso solo gli slip e sul punto di infilarsi la camicia da

notte.

Disse: "Ma insomma che ci fa nella mia stanza?"

Shirley disse: "Non è la sua stanza, questa. Immagino che

quello non sia neppure il suo bagaglio, o sbaglio?"

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Si strinse, pudica, la camicia da notte sul seno.

Kenneth disse: "Accidenti! No. Un momento! Neanche il let-

to è il mio. Devo essermi perduto. Scusi. Via... me ne vado via".

Girò sui tacchi, ma fece solo pochi passi e si fermò. Si voltò e

vide che Shirley teneva ancora la camicia da notte arricciata sul

seno, incerta sulle intenzioni di lui. Thomas si agitò eccitato in ci-

ma alla scala.

Kenneth disse: "Signorina, non è che per caso sa dov'è la mia

stanza?"

Shirley scosse il capo e disse: "No, temo di no".

Kenneth disse: "Ah," e fece una pausa. "Scusi. Adesso me ne

vado."

Shirley esitò, mentre una risoluzione prendeva forma dentro di

lei: "No. Rimanga". Fece un gesto imperioso con la mano. "Si vol-

ti un attimo."

Kenneth si girò e si ritrovò a fissare uno specchio nel quale vi-

de la propria immagine riflessa, e al di là di quella, l'immagine di

Shirley. Gli dava la schiena e stava liberandosi a fatica della sotto-

veste sfilandosela dalla testa.

Lui disse: "Acc... una.., un attimo, signorina".

Thomas udì qualcosa che si muoveva alle sue spalle.

Kenneth inchinò frettolosamente lo specchio girevole.

Shirley si voltò verso di lui e disse: "Che dolce". Finì di sfilarsi

la sottoveste dalla testa e cominciò a slacciarsi il reggiseno.

Thomas si sentì afferrare improvvisamente alle caviglie da un

paio di mani robuste. Gli mancò il respiro e quasi cadde dalla sca-

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la, poi guardò giù. Si ritrovò dinnanzi la testa brizzolata di Sid Ja-

mes, che lo fulminò con un sorriso di minaccia e sussurrò: "Dài,

giovanotto. Perché non ci facciamo una passeggiatina, io e te?".

Tenendogli forte il braccio bloccato dietro la schiena, Sid lo

spinse dentro a un corridoio ignorando bellamente le ingarbuglia-

te proteste dell'illustre banchiere.

"So che suona male," diceva, "ma stavo verificando la solidità

dei materiali di costruzione. E essenziale, assolutamente, che noi si

sappia come i nostri investimenti sono stati..."

"Senti, amico, sui giornali ne ho lette tante su gente come te.

Ci sono delle parole appropriate per descrivervi, ma, per lo più,

non sono molto carine."

"Forse non è il momento migliore per dirlo," disse Thomas,

"ma sono uno dei suoi fan più accaniti. Non è che magari mi fa

un autografo? No, eh?..."

"Questa volta l'hai fatta grossa e ti è andata male, amico. Al-

lora sappi: Shirley è un amore di ragazza. Tutti le sono affezionati

qui dentro. Ed è pure giovane. Se ti si becca a fare ancora quelle

schifezze, sono guai seri per te."

"Spero proprio di rivederla presto sugli schermi televisivi,"

disse Thomas disperato, sobbalzando di dolore alla pressione

che l'attore esercitava sul suo braccio. "Magari in una nuova serie

di Hancock's HalfHour?"

Avevano raggiunto una porta che dava sul mondo esterno.

Sid la aprì e lasciò andare Thomas, che emise un profondo respi-

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ro di sollievo e cominciò a spolverarsi i pantaloni. Quando si vol-

tò la faccia di Sid era contorta dalla rabbia e Thomas lo guardò

sorpreso.

"Non leggi i giornali, picchiatello ignorante? Io e Tony appar-

teniamo al passato. Finiti. Kaput."

"Mi spiace. Non ne avevo sentito parlare."

E fu allora che Sid James prese fiato, puntò un dito verso Tho-

mas agitandolo forte nell'aria e gli indirizzò le parole di congedo

che erano ancora così vive nella mente dell'uomo ormai vecchio

quasi trent'anni dopo, mentre rideva chioccio sull'incidente con

il fratello Henry accanto al fuoco caldo, intimo, dell'Heartland

Club.

 

 

Ispirato, forse, dalla sua visita ai Twickenham Studios, Tho-

mas aveva fatto installare Ä appena diventato presidente della ban-

ca Ä una gran quantità di spioncini in varie postazioni-chiave degli

uffici della Stewards. Gli piaceva sapere di poter spiare, quando

voleva, gli incontri dei suoi più giovani collaboratori, e sentire

che godeva di una' posizione di vantaggio su chiunque entrasse

o lavorasse nel palazzo. Per l'identica ragione riteneva che lo stes-

so ufficio del presidente fosse un capolavoro di design: poiché la

copertura a pannelli di quercia delle pareti era, a prima vista, uni-

forme, e ogni visitatore che cercasse di lasciare la stanza alla fine

di un infruttuoso colloquio si muoveva nervosamente avanti e in-

dietro alla ricerca della porta prima che Thomas si scomodasse a

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venire in suo aiuto con un'aria di sofferta sufficienza.

Questo espediente era di per se stesso sintomatico dell'alone

di segretezza che abitualmente ammantava tutti gli affari della Ste-

wards. Fu solo negli anni ottanta che l'attività di banca d'affari co-

minciò a perdere la sua immagine nobile e ricreativa per assume-

re, invece, una sorta di fascino che rischiò di destare un barlume

(piccolo sì, ma, agli occhi di Thomas, profondamente dannoso) di

pubblico interesse. In qualche misura fu lui stesso a soffiarci so-

pra. Riconoscendo gli enormi profitti che sarebbero venuti dall'as-

sistere il governo sulla questione delle privatizzazioni, egli fece al-

cuni passi aggressivi per accertarsi che la Stewards si assicurasse

una parte sostanziosa di questo affare ormai diventato di dominio

pubblico. Provava un piacere sconfinato nello strappare queste

enormi società di proprietà statale dalle mani dei contribuenti e

dividerle fra una minoranza di azionisti avidi di profitti: sapere

di essere parte attiva del processo che stava sottraendo la proprie-

tà ai molti per concentrarla nelle mani di pochi lo colmava di un

profondo e rassicurante senso di giustizia. Soddisfaceva quel tanto

di primitivo che c'era in lui. L'unica area in cui Thomas riusciva a

trovare ancora più grande, più duratura soddisfazione, forse, era

quella delle fusioni e delle acquisizioni.

Per un po' la Stewards prese la guida del crescente mercato

delle acquisizioni che dilagò nella City nella prima metà del regno

di Mrs Thatcher. In men che non si dica divenne lampante che se

una banca si dimostrava capace, contro ogni previsione, di aiutare

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i suoi clienti a inghiottire altre più lucrose società (non necessaria-

mente più piccole), allora non c'era limite al tipo di servizi che, in

futuro, sarebbe stata in grado di vender loro. Si intensificò la com-

petizione fra le banche. Nel gergo della City entrarono termini

nuovi come bid fees (commissioni di offerta) e success fees (com-

missioni di successo), e una parte preponderante del lavoro di

Thomas divenne quella di mobilitare bid teams, ovvero "squadre"

in grado di formulare offerte costituite da banchieri, broker, con-

tabili, avvocati, esperti di PR. Furono messi a punto nuovi metodi

per finanziare le pubbliche offerte, usando il danaro della banca,

per esempio, per comprare azioni delle società nel mirino, o per

partecipare a generose offerte per cassa organizzate dai pescecani

anarchici della City, che si autoregolamentavano. Al confronto, la

serie di fusioni, in larga misura incontestate, che Thomas aveva

negoziato a vantaggio di sua cugina Dorothy e del gruppo Brun-

win fra gli anni sessanta e settanta parevano adesso ben poca cosa.

Il processo Guinness, ordito con calcolato tempismo durante

la corsa alle elezioni generali per dimostrare che il governo stava

assumendo una linea più dura rispetto agli illeciti finanziari, mise

un temporaneo freno alle procedure più brutali. Per trovare un

esempio classico dei metodi di Thomas, dunque, bisognerebbe

cercare più indietro, negli anni dell'idillio, all'inizio della decade,

quando i profitti della Stewards provenienti dalla corporatefinance

s'aggiravano intorno ai 25 milioni di sterline e comprendevano da

trenta a quaranta acquisizioni all'anno. Di questi, è rappresentati-

vo, non meno degli altri, il caso della Phocas Motor Services.

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Phocas era un'azienda metalmeccanica prosperosa e tenuta in

grande considerazione che aveva base nelle Midlands, e che forni-

va un'ampia gamma di pezzi di ricambio, progetti e accessori al-

l'industria automobilistica. Costruiva batterie, congegni per la

chiusura centralizzata delle portiere, stereo incorporati, impianti

di riscaldamento e di raffreddamento, ventole e micro-componen-

ti elettrici, e aveva una équipe permanente di ricerca e sviluppo

impegnata a realizzare versioni più sicure e rispondenti di sistemi

di frenaggio e di sterzo già esistenti. All'inizio del 1982 si seppe

che una società multinazionale attiva in un campo affine era inte-

ressata all'acquisto dell'azienda. Non c'era alcun motivo per dubi-

tare che la fusione sarebbe stata amichevole e vantaggiosa: la so-

cietà in questione aveva una bella storia di espansione e buone re-

lazioni industriali.

La loro offerta, comunque, fu contestata da un magnate sbruf-

fone che si rivelò essere uno dei più prestigiosi clienti della Ste-

wards. Ne sapeva pochissimo di industria automobilistica Ä la

maggior parte delle sue holding erano nell'ambito dell'editoria,

della vendita al dettaglio, e dello sport Ä e molti osservatori della

City non riuscivano a capire come mai avesse deciso di buttarcisi

dentro; ma il suo ingresso, se non altro, dava per certo che quella

sarebbe stata l'acquisizione più combattuta dell'anno. Tutte e due

le società erano intenzionate a partecipare all'offerta d'acquisto

per la Phocas attraverso concambi azionari, e così fu compito

dei loro rispettivi banchieri organizzare silenziosamente le opera-

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zioni di levitazione delle rispettive azioni quotate.

Non si sarebbe mai giocato alla pari. Alla Stewards, Thomas

aveva un raggio illimitato di contatti ai quali rivolgersi, sia nell'in-

dustria che nella City; non era intralciato da scrupoli, senza con-

tare il vantaggio non trascurabile d'essere in rapporti di amicizia

con alcuni dei più importanti membri del club degli operatori

specializzati nel settore. Era improbabile che persino le sue tatti-

che più bellicose provocassero reprimenda più dura d'una bene-

vola tirata d'orecchie. Avere dettagli più precisi non è facile, ma

è opinione comune che egli concluse l'affare rivolgendosi a un'al-

tra, più piccola banca d'affari che li persuase a comprare diversi

milioni di azioni del suo cliente; quando il prezzo salì rapidamen-

te negli ultimi giorni dell'offerta, la banca gli disse che loro vo-

levano vendere; e per prevenire il disastro, persuase il suo cliente

a placarli con un deposito, senza interessi, dell'esatto equivalente

in sterline del prezzo corrente delle azioni in un conto non nu-

merato di una banca svizzera. Anche se questa pratica Ä l'uso del

danaro di una società (o, se vogliamo essere pignoli al riguardo,

il danaro di dipendenti e azionisti) per sostenere la sua quotazio-

ne azionaria Ä doveva diventare materia di azione penale sull'on-

da dello scandalo Guinness, Thomas non ci vide mai niente di

irregolare. A lui piaceva menzionare la faccenda come un "crimi-

ne senza vittime". Era una specie di scommessa, certo, ma che,

stando alla sua esperienza, finiva per pagare sempre, e se pur ci

fossero stati dei rischi, come avrebbe potuto vederli? Accecato

dai molti schermi che erano stati frapposti fra sé e il resto del

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mondo, egli non era più certo in una situazione che gli consen-

tisse di vedere, neppure di sfuggita, la gente col cui danaro stava

giocando d'azzardo.

In ogni caso, il cliente di Thomas vinse la battaglia, e poco

dopo furono chiare le ragioni del suo interesse nella Phocas Mo-

tor Services. Oltre alla redditività di lungo termine, la società di-

sponeva di un'altra preziosa risorsa Ä nella fattispecie, un fondo

pensionistico che era stato amministrato così bene e così intelli-

gentemente investito da trovarsi allora in ampio attivo. Prima

della fusione si stava addirittura pensando di offrire ai dipenden-

ti della Phocas Ä l'avessero solo saputo! Ä un anno di sospensio-

ne del pagamento dei contributi pensionistici, ma una delle pri-

me decisioni del magnate, una volta preso il controllo della socie-

tà, fu quella di licenziare l'amministratore di allora e di mettere

al suo posto uno dei suoi uomini; e quando il suo impero edito-

riale, commerciale e sportivo gli crollò intorno come un castello

di carte, poco meno di un anno dopo, i revisori contabili indi-

pendenti chiamati a far ordine nel caos rimasero di stucco di

fronte alla velocità e all'efficienza con cui il fondo pensionistico

era stato svuotato Ä non esaurito ma letteralmente svuotato Ä e il

denaro convogliato tutto e scialacquato in un vano tentativo di

frenare il collasso di diverse sigle editoriali, catene di supermer-

cati, squadre di calcio tutte fallite e una dozzina di altre avven-

ture di nessun valore.

Anche adesso che sono passati tanti anni, sono in atto mano-

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vre legali per aiutare i pensionati a riacquisire il loro danaro. Ma

non si vede soluzione. Thomas Winshaw, la cui banca trattò ogni

aspetto delle finanze di quel tronfio industriale dei miei stivali,

continua a professare stupore di fronte all'entità della frode, e a

trincerarsi dietro sconcerto e ignoranza.

 

 

Non c'è bisogno di dirlo, io non gli credo. E dovrei aggiungere

che nel caso sono coinvolto anch'io, quantunque in piccola misura.

La Phocas Motor Services era l'azienda presso la quale lavorava mio

padre. Ci ha lavorato per trent'anni e si è ritirato qualche mese dopo

che venne alla luce lo scandalo delle pensioni. Il denaro che aveva

messo da parte in tutti quegli anni era svanito, e dovette sopravvi-

vere con una pensioncina statale, integrata dalle poche altre sterline

guadagnate da mia madre che nel frattempo dovette tornare a inse-

gnare a metà tempo. Non era certo la vecchiaia che avevano pro-

grammato.

Io non ho alcun dubbio: lo stress procurato da quella situazione

ha contribuito al suo infarto.

Ne consegue dunque che Thomas è stato complice dell'assassinio

di mio padre?

 

 

 

 

 

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DICEMBRE 1990.

 

1.

 

Ho perso il conto delle volte in cui Fiona e io abbiamo finito

per andare a letto assieme nelle ultime settimane: anche se un pu-

rista, immagino, potrebbe obiettare alla mia precisa interpretazio-

ne della frase "andare a letto". Questo era quello che più o meno

succedeva. Lei tornava a casa dal lavoro Ä stravolta, come avreb-

be potuto andare diversamente? Ä e si metteva subito a letto. Nel

mentre, io, nella mia cucina, preparavo qualche bocconcino sapo-

rito: niente di troppo sostanzioso, perché non aveva mai un gran-

de appetito: delle uova strapazzate o dei bastoncini di pesce di

solito bastavano. Talora mi limitavo a scaldare una zuppa in sca-

tola e la servivo con dei crostini. Poi attraversavo il pianerottolo

che ci divideva con il vassoio in mano, lo portavo nel suo appar-

tamento e glielo appoggiavo, dopo che s'era levata a sedere con-

tro una montagna di cuscini ammucchiati, vicino alle gambe. Io le

sedevo accanto Ä sopra il letto, se si vuol essere precisi, piuttosto

che nel letto Ä e cenavamo assieme, fianco a fianco, proprio come

una coppia-sposata da trent'anni e più. E per finire il quadro Ä a

quel punto l'illusione era completa Ä accendevamo sempre il te-

levisore, e stavamo li seduti a guardare per ore, quasi senza dire

una parola.

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Ho sempre associato la televisione alla malattia. Non la malat-

tia dell'anima, come qualche commentatore sarebbe pronto a stig-

matizzare, ma quella del corpo. Un'associazione che probabilmen-

te risale al periodo in cui mio padre era ricoverato in ospedale,

dopo l'infarto che se lo sarebbe portato via nel giro di due o

tre settimane all'età di soli sessantun anni. Ero venuto su da Lon-

dra non appena avevo avuto la notizia e per la prima volta dopo

anni e anni mi ritrovai a vivere sotto il tetto dei miei genitori. Fu

un'esperienza molto singolare tornare in quella casa nuovamente

sconosciuta, in quella zona suburbana che era metà città e metà

campagna, e molte mattine le passai seduto alla scrivania della

mia stanzetta con davanti agli occhi il panorama che un tempo

era stato la sola misura della mia esperienza e delle mie aspirazio-

ni, mentre mia madre restava giù a cercare qualche lavoro dome-

stico per tenere occupata la mente o riempire con solennità, su ri-

viste o quotidiani, parole crociate su parole crociate, che da allora

furono la sua vera mania. Per i pomeriggi, invece, era previsto un

piccolo rituale, un rituale concepito, suppongo, per tenere a dovu-

ta distanza paura e dolore: ed era allora che il televisore faceva la

sua comparsa.

Benché i miei genitori vivessero alla periferia di Birmingham,

la loro vita aveva sempre fatto perno intorno a una tranquilla cit-

tadina, compresa nei limiti del grazioso, che distava una decina di

chilometri da casa loro. Essa vantava un piccolo ospedale dove era

stato ricoverato mio padre il giorno in cui aveva avuto l'infarto:

l'orario di visita era dalle due e mezza alle tre e mezza del pome-

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riggio, e dalle sei e mezza alle Otto di sera. Ne conseguiva che le

ore fra una visita e l'altra erano le più tese e problematiche della

giornata. Dall'ospedale si usciva direttamente nel parcheggio ri-

servato ai visitatori, nel sole accecante del pomeriggio, e mia ma-

dre, che aveva completamente perduto la capacità (che però non

l'aveva mai abbandonata negli ultimi venticinque anni) di pro-

grammare la spesa con qualche ora d'anticipo, andava dritta al su-

permercato di zona a comprare delle confezioni di cibo congelato

per il nostro pasto serale. Mentre faceva questi acquisti io scende-

vo dall'auto e andavo bighellonando lungo la strada principale

quasi deserta Ä che era, in verità, l'unica strada commerciale del

posto Ä sorpreso e confuso al pensiero che un tempo non riuscivo

a immaginare una metropoli più animata e brulicante di quella.

Diedi uno sguardo al negozio della catena Woolworth dove spen-

devo i miei sudati risparmi in dischi a poco prezzo; l'edicola dove

si poteva comprare Ä anche se all'epoca non ne avevo alcun so-

spetto Ä solo una frazione infinitesimale delle testate che si trova-

no a Londra; e la sola libreria della città, ricavata dentro una no-

vantina di metri quadri scarsamente riforniti, che, tuttavia, per an-

ni mi erano sembrati poco meno di una moderna biblioteca di

Alessandria d'Egitto. Era qui che, verso il finire della mia adole-

scenza, venivo a soffermarmi per ore, lo sguardo incollato alle co-

pertine degli ultimi tascabili mentre Verity smaniava impaziente

fuori del negozio. La visione di quei libri mi ha sempre colmato

di incantato stupore: parevano alludere all'esistenza di un lontano

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mondo popolato da gente meravigliosa, piena di talento e devota

ai più alti ideali letterari (lo stesso mondo in cui il caso un giorno

mi ha permesso di entrare con passo incerto, solo per scoprirlo

freddo e inospitale come la piscina che mi aveva paralizzato in

un bagno di lacrime inconsolabili quel fatale compleanno).

Dopo la spesa, comunque, veniva la parte più importante del

rituale. Tornavamo a casa, ci preparavamo due tazze di caffè

istantaneo, un piatto di biscotti digestivi o Rich Tea e poi, per

mezz'ora, ci sedevamo davanti alla televisione a guardare un quiz:

uno spettacolo di una frivolezza e di una banalità spaventose che

nondimeno seguivamo con adorante concentrazione, come se per-

derne anche solo pochi istanti avesse dovuto privare di significato

l'esperienza nel suo complesso.

Il programma consisteva di due soli elementi: un gioco di ci-

fre, dove i partecipanti dovevano esibirsi in elementari operazioni

aritmetiche (io me la cavavo, mentre mia madre finiva col fare un

gran pasticcio e il tempo scadeva prima che avesse trovato la so-

luzione); e un gioco sul lessico, nel quale i due concorrenti rivaleg-

giavano per vedere chi riusciva a comporre la parola più lunga

con nove lettere dell'alfabeto disposte a caso. Mia madre prende-

va questo gioco molto più seriamente di quanto facessi io e si pre-

murava di avere sempre carta e penna alla mano prima di sedersi

davanti alla tv, e spesso capitava che battesse i concorrenti: ricor-

do bene il suo senso di trionfo quando fece una parola di otto let-

tere, "scrivano", dalle lettere O, C, S, A, T, R, N, I, V, quando

invece il vincitore non era riuscito a superare i sei punti di "cro-

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sta". Restò euforica per ore: fu l'unica volta in quelle settimane in

cui le vidi il volto ammorbidirsi, sgombro delle rughe dell'ansia. E

posso solo pensare che fosse quella la ragione per cui facevamo

tutti gli sforzi possibili per essere ogni giorno davanti alla tv alle

quattro e mezza, al punto che talora, quando la spesa ci prendeva

più tempo del previsto, superavamo i novanta chilometri all'ora

per le strade della cintura urbana, con la paura di perdere le pri-

me battute del gioco o la demente presentazione del conduttore,

insaporita di terribili giochi di parole e condita dai suoi supplican-

ti sorrisi da bambino cresciuto. C'era, però, un'altra ragione per

cui mia madre stava incollata ogni pomeriggio davanti alla tv,

con gli occhi accesi dalla fede del vero apostolo, ed era che viveva

aggrappata alla possibilità d'essere un giorno gratificata da una vi-

sione, da una rivelazione del Santo Graal del quale, per altro, tutti

coloro che seguivano il programma andavano alla ricerca: che da

quelle lettere scelte a caso scaturisse, in tutta la sua perfezione,

una parola di nove lettere. Sarebbe stata la donna più felice del

creato, penso, anche se solo per pochi istanti; e l'ironia del destino

volle che la cosa accadesse davvero ma senza che lei lo sapesse. Le

lettere erano O, L, T, I, T, R, M, I e A, e io la parola la riconobbi

subito, ma né l'uno né l'altro dei concorrenti se ne avvide e anche

mia madre continuava a sforzarsi di ottenere qualcosa ma tutto

quel che tirò fuori, alla fine, fu solo una paroletta di cinque lette-

re, "tarlo". Almeno, questo fu ciò che mi disse allora; ed è solo

ora che mi chiedo se non avesse visto anche lei che da quelle nove

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lettere veniva fuori la parola "mortalità", ma che non ebbe il co-

raggio di scrivere la verità sul retro della lista della spesa del po-

meriggio.

In ogni caso, Fiona e io avevamo cose ben più serie di cui oc-

cuparci, poiché il drammatico cambiamento che la sua malattia

produsse sulle nostre abitudini televisive venne a coincidere con

un periodo di sconvolgimenti politici sia nella sfera nazionale

che in quella internazionale. Alla fine di novembre, proprio pochi

giorni dopo che era stata per la seconda volta a farsi visitare dal

suo medico, la crisi della leadership del partito conservatore arrivò

a una svolta decisiva e Mrs Thatcher fu costretta a rassegnare le

dimissioni. Fu una settimana di intensa, anche se transitoria, esal-

tazione mediologica, e noi arrivammo al punto di rimpinzarci, co-

me in una dieta forzata, di telegiornali uno dietro l'altro, di tavole

rotonde in seconda serata e di servizi speciali. E poi, il giorno in

cui si recò al suo appuntamento ambulatoriale, venimmo a sapere

che Saddam Hussein aveva rigettato la Risoluzione 678 del Con-

siglio di Sicurezza, un ultimatum che autorizzava l'uso di "tutti i

mezzi necessari" se l'Iraq non si fosse ritirato dal Kuwait per il 15

gennaio; presto lo stesso Saddam comparve alla televisione france-

se per dire che, secondo lui, c'era un cinquanta per cento di pro-

babilità di un conflitto armato; e anche se lui ora cominciava a ri-

lasciare gli ostaggi, perché facessero ritorno alle loro case una set-

timana prima di Natale, si avvertiva che i politici e i capi delle for-

ze armate erano decisamente intenzionati a trascinarci in guerra.

La cosa più strana fu che Fiona, persona amante della pace e poco

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versata in politica, traeva una specie di consolazione da tutto ciò, e

io cominciai a sospettare che, come mia madre con il suo quiz te-

levisivo, lei avesse scelto di usare quella strategia come riparo con-

tro la paura che altrimenti l'avrebbe sommersa.

Quella volta il medico l'aveva ascoltata con più attenzione. Le

aveva esaminato il collo quando lei gli disse dell'ingrossamento,

che era più evidente del solito, ella disse, quasi cinque centimetri

in sezione trasversale, e lui prese nota di tutto ciò che lei gli disse

ma ripeté che non c'era nulla di cui preoccuparsi, che le febbri e i

sudori notturni potevano ben derivare da tutt'altro, una qualche

infezione aggressiva ma curabile. Comunque era meglio non cor-

rere dei rischi inutili e la mise in lista per quell'appuntamento am-

bulatoriale della fine di novembre. Le fecero esami del sangue e

radiografia, e le fu detto di tornare tre settimane dopo a ritirare

gli esiti. Nel frattempo doveva riempire una cartella della tempe-

ratura, e così le nostre serate assieme si concludevano sempre con

me che andavo a prendere il termometro, e ogni volta segnavo fi-

ducioso la temperatura prima di spegnere la luce e tornare al mio

appartamento col vassoio e i piatti sporchi o le ciotole di minestra.

Come ho già avuto modo di dire, fra di noi c'era molto, mol-

tissimo silenzio: da parte di Fiona perché parlare le jnfiammava la

gola, da parte mia perché pensavo di non aver mai qualcosa da

dire. Ma una conversazione me la ricordo: ebbe luogo nella mez-

z'ora morta fra le notizie delle nove e il telegiornale delle dieci, e

cominciò quando lei fece un commento del tutto inaspettato.

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Disse: "Non sei tenuto a farlo tutte le sere, lo sai?"

"Lo so."

"Voglio dire che se ci sono altri posti dove vuoi andare, altra

gente con cui vuoi vederti..."

"Sì, lo so."

"Non dev'essere molto divertente per te, stare inchiodato qui

con me tutto questo tempo. Non è come se..."

"Sei un'ottima compagnia. Davvero. Te l'ho già detto." (Ed

era vero.)

"Lo so, ma, quando starò meglio, quando mi sarò liberata di

questa cosa, sarò.., sarà più bello. E poi a quel punto potremo far-

ne venir fuori qualcosa, no? Cercare davvero di riuscirci."

Annuii. "Sì, naturalmente."

"In un certo senso sono rimasta colpita," continuò esitante.

"Voglio dire, non è che tutti gli uomini... Non ce ne sono molti,

di uomini, con cui sentirsi a proprio agio, mentre ti stanno intorno

tutto il tempo e ti vedono inchiodata al letto e cose del genere.

Credo che mi abbia colpito il fatto che... tu non ci abbia provato."

"Beh non ho intenzione di approfittare di te, non mentre sei in

una situazione come questa."

"Certo, ma noi ci conosciamo da un paio di mesi e la maggior

parte della gente, in tanto tempo, avrebbe... Lo so, le circostanze,

nel nostro caso, non ce lo permettono ma, sai... Devi pur averci

pensato."

E naturalmente ci avevo pensato, sedendo, sera dopo sera, sul

letto di Fiona, che talvolta si infilava un maglioncino, talvolta por-

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tava solo la camicia da notte; ci avevo pensato quando toccavo le

 

 

giarrettierenere lacci

calze reggiseno sganciare

orgia brancolare mutande

eretto manette tendersi

tirar giù calze a collant

la cerniera rete

sporgenti togliere succhiare

incavo dei piccanti profilattico

seni

strzp-tease la grana morbido

capezzolo liscia rosa

re

monte leccare umido

cuoio cosce aperte

sondare lingua tenera

culo arcuare gemere

soffice oh dio sì

ti prego non fermartisì

 

 

 

sue braccia nude, quando le toglievo le briciole di dosso, quando

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le toccavo il collo per cercare segni del gonfiore, quando le met-

tevo o le toglievo il termometro dalla bocca, quando l'abbracciavo

per consolarla o le davo il bacio della buonanotte sulla guancia.

Come potevano essere innocenti tutte queste attenzioni, come po-

tevano non contenere un po' di sguardi furtivi ed eccitazione re-

pressa? E' naturale che ci avessi pensato. C'era fra di noi Ä lo sa-

pevamo tutti e due Ä una forte corrente sotterranea di affetto che

per entrambi era arduo ignorare e folle non riconoscere.

Ma io mi limitai a sorridere. "Non preoccuparti," dissi, av-

viandomi verso la cucina a prendere due tazze di cioccolata. "Il

sesso non è mai andato oltre i confini della mia mente."

 

 

Lasciai il contenuto del vassoio non lavato in cucina, poi

tornai alla mia scrivania e ripassai di nuovo la lista. Mi riempì

di apprensione. Da quando avevo avuto quella conversazione

con Patrick, avevo deciso di dimostrarghi che potevo scrivere

di sesso come chiunque altro, che non avrei evitato di trattare

quella materia nel mio libro sulla famiglia Winshaw. E la situa-

zione che avevo scelto di descrivere si era presentata senza trop-

pe difficoltà. Quando incontrai Findlay alla Narcissus Gailery,

mi era capitato di sentir spettegolare su come, una volta, Roddy

- Winshaw aveva sedotto una giovane pittrice invitata nello

Yorkshire a passare un fine settimana, e dato che non sapevo

nulla delle circostanze e avevo deciso che, al fine del libro,

non mi sarei più attenuto al legame fra finzione e realtà, l'even-

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to pareva presentarsi un punto di partenza ideale. Ma ci lavo-

ravo già da più di quattro notti ed era lampante che non stavo

arrivando da nessuna parte.

A dir la verità, di esperienza nel settore ne avevo pochina po-

china. La mia conoscenza di film e romanzi sessualmente espliciti

era scarsa. A dispetto di tutti quegli anni come video-dipendente

alla ricerca di stimoli sessuali, io conservavo, abbastanza sorpren-

dentemente, una sostanziale avversione per la pornografia (un'av-

versione probabilmente fondata su principi morali, se vi stesse a

cuore scrutare nel più lontano passato). Anche nel più volgare

dei film che avevo comprato, preso in affitto o registrato dalla

televisione, di solito c'erano delle vestigia di giustificazione arti-

stica per gli accoppiamenti e le sbiotatture che diventavano rapi-

damente il punto focale del mio interesse. E difatti ero stato so-

lo una volta al cinema a vedere un vero film porno. Fu a metà

anni settanta, durante le ultime orribili fasi del mio matrimonio

con Verity. Da mesi e mesi la nostra vita sessuale era venuta sfi-

brandosi in una lenta, incerta morte, e decidemmo di comune

accordo che una visita al vicino cinema specializzato in film a lu-

ci rosse potesse soccorrerci sulla strada della resurrezione. Il film

che avevamo scelto aveva destato in noi una certa attenzione sul-

la pagina degli spettacoli del giornale della sera perché, nono-

stante fosse stato realizzato da una casa di produzione londinese,

era stato girato interamente in esterni a Birmingham. Ne era con-

seguita un'enorme popolarità fra la gente del posto, e infatti il

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resto del pubblico consisteva soprattutto di coppie di mezza

età Ä alcune delle quali l'avevano chiaramente già visto diverse

volte Ä che avevano la seccante tendenza a interrompere, per

esempio, una scena di sesso orale sul sedile posteriore di un'auto

con commenti del tipo: "Questo è il pezzo in cui si vede la Mini

Morris della nostra Tracy che passa", oppure: "Adesso il negozio

del callista ha un'aria più carina, dopo che gli han dato una ma-

no di tempera, no?" Verity e io uscimmo dal cinema senza sen-

tirci particolarmente eccitati e passammo il resto della serata, mi

sembra di ricordare, a riordinare le foto di un recente viaggio al-

le isole Scilly.

Scacciato quel ricordo dalla mente, tornai ai fogli bianchi che

avevo di fronte e provai a mettere a fuoco la mia intelligenza.

Non era un compito così facile, dato che mancavano solo cinque

giorni a Natale e il giorno appresso Fiona doveva andare a ritirare

gli esiti degli esami in ospedale. L'accordo era che sarei andato con

lei per farle compagnia, ed eravamo entrambi molto agitati. Per

giunta, quel giorno, di mattina presto, avevo ricevuto un'allarmante

telefonata Ä nella fattispecie, da Mrs Tonks. Sembrava ci fosse stata

un'altra irruzione: non negli uffici, questa volta, ma nella casa di Mr

McGanny in St John's Wood. Il ladro era riuscito a forzare la sua

cassaforte ed erano stati sottratti parecchi documenti privati. Che

includevano le lettere di Tabitha Winshaw e,.chissà perché, gli

estratti conti dell'azienda per la dichiarazione delle tasse dell'anno

1981-1982. Ben più stranamente era stato rimosso anche un certo

numero di fotografie da uno degli album di famiglia di McGanny.

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Mrs Tonks mi chiese se riuscivo a gettare un po' di luce sull'acca-

duto. Naturalmente non potevo, e così i soli effetti della nostra con-

versazione furono quelli di lasciare il mistero in una nebbia ancora

più fitta e di rendermi più ardua la concentrazione sul lavoro.

Lasciai da parte la mia lista di parole chiave: si era rivelata più

inibitoria che utile, e il solo modo di superare l'impasse era quello

di affidarsi Ä così decisi Ä a una totale spontaneità. Avrei dovuto

buttar giù qualunque cosa mi fosse venuta in mente; dei dettagli

mi sarei preoccupato solo in una fase successiva. Perciò andai a

prendere una bottiglia di vino bianco in cucina, me ne versai un

bicchierone e scrissi la prima frase.

Ella lo seguì in camera da letto.

Non male come avvio. Niente di troppo complicato. Una sor-

sata di vino, una sfregata di mani. Forse non sarebbe stato così

difficile come avevo pensato. Adesso magari ci voleva un bel paio

di frasi per descrivere la camera da letto, e poi da qualche parte

saremmo arrivati.

Era una

Era una che cosa, però? Non volevo niente di troppo elabora-

to a questo punto, impantanando il lettore nella prolissità delle

descrizioni. Un solo epiteto scelto con attenzione avrebbe fatto

al caso mio. Che dire di...

Era una stanza grande

No: troppo noioso. E se fosse stata una stanza sontuosa? Un

cliché abusato. E una stanza incantevole? Troppo stucchevole.

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Era una stanza grande, incantevole, sontuosa. Era incantevolmen-

te sontuosa. Era ampiamente incantevole. A dire il vero, me ne

sbattevo il cazzo di come dovesse essere la stanza. E, con ogni

probabilità, anche i miei lettori. Meglio liquidare tutta quella roba

e mantenere viva l'azione.

Egli la spinse rudemente verso il letto

No, così no. Non volevo che la cosa suonasse come uno stu-

pro.

Egli la spinse dolcemente verso il letto

Troppo debole.

Egli la trascinò verso il letto

Lui si sedette sul letto e la trasse rudemente a sé.

"Non ti siedi?" disse e indicò dritto il letto.

Guardò dritto verso il letto e aggrottò le sopracciglia di un oc-

chio, con fare provocatorio

e aggrottò le sopracciglia di un occhio, con fare allusivo

Aggrottò le sopracciglia di un occhio solo

Aggrottò le sopracciglia di entrambi gli occhi

Aggrottò le sopracciglia dell'occhio destro, con fare provocatorio

Aggrottò le sopraccciglia dell'occhio sinistro, con fare allusivo

Aggrottando le sopracciglia di entrambi gli occhi Ä uno con fare

provocatorio, l'altro con fare allusivo Ä la sospinse dolcemente dritta

verso il letto

Forse era meglio fare a meno anche di questa sezione. Sapevo

benissimo quale sarebbe stata la critica di Patrick: che mi impego-

lavo in queste sottigliezze preliminari onde evitare di entrare nel

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vivo dell'azione.

Lei indossava una

Cos'è che indossava?

Lei indossava una camicetta

Una camicetta?

Lei indossava una fine camicetta di mussola

Lei indossava una fine camicetta di mussola, attraverso la quale i

suoi

Avanti! Scrivi!

attraverso la quale i suoi capezzoli spiccavano come

Come?

come due ciliegie

come due ciliegie al maraschino

come due ciliegie glacé

come due Fox's Glacier Mints

come due piselli in un baccello

come tre uomini in barca

come susine Vittoria

come le cascate Vittoria

come un chiodo fisso

Che lo volessi o no, lei aveva i capezzoli, e basta. Era perfet-

tamente ovvio. E lui? Non volevo essere accusato di sessismo:

ero obbligato, stando così le cose, a presentare anche il maschio

come un oggetto sessuale. Per esempio, così:

I suoi stretti pantaloni neri contenevano a stento

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O meglio ancora

Il gonfiore nei suoi stretti pantaloni neri non le lasciavano alcun

dubbio su

sul suo desiderio

sulle sue intenzioni

sulla sua dotazione

sui suoi piani

sulla natura delle sue dotazioni

sulla misura della sua virilità

su quanto ce l'aveva lungo

sul volume della sua straripante, pulsante virilità

sullo straripante volume del suo caldo membro pulsante

Dovevo ammetterlo, mi stavo perdendo per strada. Inoltre,

potevo sempre tornarci sopra più tardi e limare questi dettagli de-

scrittivi. Se non arrivavo presto al cuore della materia, avrei perso

lo slancio.

Lui le strappò via la camicetta

No, troppo aggressivo.

Le sbottonò la camicetta e gliela sfilò di dosso come fosse stata

una

come fosse stata

come fosse stata la pelle di una banana matura

Lasciai cadere la penna e mi ritrassi per il disgusto. Ma che

cosa avevo quella sera? Forse era il vino o forse solo il fatto che

ero completamente fuori esercizio in questo genere di cose, ma

nulla sembrava funzionare. Comunque mi muovessi, sbagliavo,

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cadevo a ogni ostacolo, annaspando e brancolando e non comuni-

cando nient'altro che la mia inesperienza.

Egli appoggiò una mano esitante, incerta sui suoi

soffici, bianchi

caldi, lisci

docili, palpitanti

vigili, lenti

gonfi, pieni

grossi, imperiosi

carnosi, diseguali, pesanti, tozzi, gagliardi, enormi, immensi,

mastodontici, massicci, mostruosi, prodigiosi, colossali, giganteschi,

monta gnosi, immani, titanici, erculei

sui suoi piccoli seni sbarazzini

sui suoi seni perfettamente proporzionati

sui suoi seni di proporzioni comuni ma tuttavia sorprendenti

sui suoi seni deformi.

Perfetto. Via tutto. Altro vino. Adesso pensaci attentamente.

Immagina queste due persone giovani e belle, sono sole in una

stanza e non s'aspettano altro che il piacere da trarre dai loro cor-

pi. Dipingiteli nella mente. Ora scegli le parole con sicurezza e

precisione. Avanti, senza timore.

quando lui le affondò la faccia nel petto generoso, lei gli sfilò la

camicia dalle belle spalle

lui si lasciò cadere sulle ginocchia e frugò col naso nell'ombelico

di lei

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caddero sopra il letto e lui le si stese sopra, mentre le loro labbra

penetravano rapacemente le une dentro le altre in un lungo umido

bacio

caddero sopra il letto e lei gli si stese sopra, mentre le loro umide

labbra si incollavano avide in un lungo bacio penetrante

Oh al diavolo

lei ansimava di desiderio

a lui esplodevano i pantaloni

lei era bagnata fra le cosce

lui era bagnato come un pulcino

lei era sul punto di venire

lui non sapeva se andare o venire

E fu al vertice di questa drammatica congiuntura, proprio

quando ero riuscito a entrare in uno stato di eccitazione al-

quanto disperata, che suonò il telefono. Scosso dalla sorpresa

mi drizzai a sedere e guardai l'orologio. Erano le due e mezzo

del mattino. Irrazionalmente, mi sentii obbligato a riordinare la

scrivania e ad assicurarmi che i fogli fossero capovolti prima di

andare a rispondere. Indi alzai il ricevitore e sentii una voce

sconosciuta.

"Mr Owen?" disse.

"Con chi parlo?"

"Mi spiace disturbarla a quest'ora di notte. Spero di non aver-

la svegliata. Mi chiamo Hanrahan. La chiamo per conto di uno dei

miei clienti, un certo Mr Findlay Onyx, che dice di essere un suo

conoscente."

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"E' così."

"Sono il suo avvocato, capisce. Findlay si scusa per non par-

larle di persona, ma è trattenuto presso la stazione di polizia di

Hornsey, e non gli è permesso di fare telefonate. E, comunque,

molto ansioso di incontrarla quanto prima. Mi ha chiesto di dirle

che, domattina, per prima cosa, lei dovrebbe passare dalla stazio-

ne di polizia, se le è possibile."

"Beh... è difficile," dissi io, pensando a Fiona e al suo appun-

tamento all'ambulatorio dell'ospedale. "Se è assolutamente neces-

sario.., insomma, cosa succede? E' nei pasticci?"

"Temo di sì. Penso proprio che sarebbe meglio se lei facesse

questo sforzo."

Gli diedi una vaga assicurazione e lui disse: "Bene. Findlay

può contare su di lei, allora," e appesi. Tutta la conversazione si

era svolta con una tale sveltezza che ebbi a malapena nozione di

quel che era accaduto. Tanto per cominciare non ero neppure riu-

scito a chiedergli perché Findlay fosse stato fermato dalla polizia,

a meno che, ovviamente (e subito questa mi apparve l'unica, ac-

cettabile soluzione), fosse stato lui ad aver fatto irruzione in casa

di Mr McGanny e ad aver rubato i documenti relativi al mio libro.

Andai in camera, mi stesi sul letto e valutai la verosimiglianza della

mia ipotesi. Il furto era avvenuto solo la notte prima: potevano

averlo già preso? Sì, era possibile. In fondo era vecchio e debole,

e poteva ben aver lasciato una pista di prove senza accorgersene.

Ma se le cose stavano davvero così, perché tanta urgenza? Di si-

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curo sarebbe stato rilasciato su cauzione e il nostro incontro sa-

rebbe stato rimandato a quando fosse tornato nella privacy del

suo appartamento. Non c'era modo di saperlo, del resto, e io pas-

sai il resto della notte a rimuginare su questo nuovo sviluppo in

un faticoso dormiveglia che fu rotto, solo poche ore dopo, dai pri-

mi raggi di sole invernale.

 

 

 

 

2.

 

Ebbi l'impressione di averci messo tutta la mattina per arri-

vare alla stazione di polizia in autobus. Fiona, a ogni buon conto,

quel problema non l'ebbe: le avevo prenotato un minitaxi prima

ancora di proporglielo. Avevo fatto così per salvarmi la coscienza

e tutto il resto, perché sembrò immediatamente vulnerabile

quando la lasciai: si era messa in ghingheri, come fa la gente

quando è presa da quello strano senso delle convenienze a cui

è legata la convinzione che, caso mai dovessero andare incontro

alloro destino, almeno sono vestiti come si deve. (Ma questo,

però, infonde in loro anche una specie di forza.) Del resto, aver-

mi accanto non avrebbe poi fatto una gran differenza. Questo fu

ciò che tentai di ficcarmi in testa quando il bus arrivò alla ferma-

ta e poi cominciò la sua miserabile corsa dall'uno all'altro capo

di Londra, avvicinandomi via via allo stadio successivo di un mi-

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stero dal quale, a dir la verità, ero venuto staccandomi sempre di

più. Questa sensazione di distacco aveva avuto effetti benefici:

dopo tutti quegli anni a rompermi la testa e a battagliare coi mi-

steri della famiglia Winshaw, era stata una specie di tonico. Non

avrei mai creduto che, alla fine della mattinata, sarebbe svanita

nel nulla.

Mi fecero aspettare solo qualche minuto accanto alla scrivania

del sergente, e poi fui condotto a una luminosa ma lurida cella a

pian terreno. Findlay sedeva irrigidito su una panca, col soprabito

ancora buttato sulle spalle, i capelli bianchi trasformati in una spe-

cie di alone luminoso dai raggi di sole che penetravano dalla sola

finestrella aperta sulla parete, in alto in alto.

"Michael," disse, prendendo la mia mano tesa. "Che onore mi

fai. Non potevo certo prevedere che il nostro secondo incontro

sarebbe avvenuto in mezzo a tanto squallore e sporcizia. La colpa,

temo, è tutta mia."

"Tutta?"

"Beh, credo che tu possa immaginare come mai sono finito

qua dentro."

"Ne ho una vaga.., diciamo che un sospetto ce l'ho."

"E' naturale, Michael. Un uomo della tua intelligenza, della tua

capacità intuitiva. Tu conosci le debolezze a cui è soggetto un vec-

chio, quando la sua volontà è fragile fragile e i desideri Ä ahimè! Ä

continuano a esser forti. Forti come non sono mai stati." Sospirò.

"Credo di averti accennato alla mia situazione, l'ultima volta che

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ci siamo visti, al fatto che stavo.., a culo scoperto?"

Annuii incerto. A essere onesti, avevo perso il bandolo del di-

scorso.

"Ebbene, ci sono ricaduto. Questo è il triste della faccenda, e

devo prendermela solo con me stesso."

Incominciai a vederci più chiaro. "Intende la sospensione della

sentenza, la condizionale?"

"Esatto. Mi ritrovo ancora una volta messo alle corde dalle esi-

genze di una libido senza pace. Ancora una volta il potere della

carne ha avuto la meglio sullo spirito..."

"Ah, ma allora non è stato lei a far irruzione in casa di Mr

McGanny, l'altra notte?"

Mi fulminò con lo sguardo, mi fece segno di star zitto e sbirciò

guardingo verso la porta. "Per amor del cielo, Michael. Vuoi met-

termi ancor più nei guai di come sono?" E poi, mi sussurrò: "Per-

ché credi che ti abbia fatto venire qui, se non per discutere pro-

prio di quello?"

Gli sedetti accanto sopra la panca e attesi iluminazioni in

merito. Ma dopo un po' mi resi conto che mi stava tenendo il

broncio.

"Scusi," gli dissi per dargli l'imbeccata.

"A parte tutto il resto," disse, "tu contesti la mia competenza

professionale, se pensi che non sia capace di svolgere un compi-

tuccio di pura routine come quello, senza farmi prendere. Sono

scivolato dentro e fuori da quella casa, Michael, con la grazia e

la flessuosa energia di un gatto selvatico, Il grande Raffles mede-

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simo si sarebbe tratto da parte restando senza fiato per l'invidia.'

"E allora cos'è andato storto?"

"Pura perdita di controllo, Michael. Mancanza di volontà e

potere, e nient'altro. Ho trascorso tutta la giornata di ieri a passa-

re al setaccio i documenti che avevo preso in prestito Ä in prestito,

ripeto, perché io ho un sacrosanto rispetto della proprietà Ä e a

sera, ero soddisfattissimo di averci trovato tutto ciò che mi serviva

per dar forma agli anelli mancanti della catena di questa indagine

delicata quant'altre mai. Pensa alla mia esaltazione, Michael. Pen-

sa al getto di adrenalina e all'afflusso di sangue, che correva per le

mie vecchie vene come un torrente di orgoglio ed entusiasmo. Mi

sono sentito di botto come un giovane di trent'anni."

"E allora?"

"Naturalmente sono andato a cercarne uno. I pub erano

chiusi, ormai, ma a pochi isolati da casa mia c'è un bagno pub-

blico che, grazie all'illuminata decisione Ä una volta tanto Ä dei

nostri amministratori comunali, offre asilo a tutte le ore del gior-

no e della notte a chi è in cerca di sollievo, nelle sue forme più

diverse. Ho cercato di stare lontano da quel posto per settimane,

da quando sono stato trascinato di fronte a un giudice e mi è sta-

to detto che al prossimo sgarro mi sarei trovato dietro le sbarre Ä

solo per un paio di mesi, disse, ma chi può dire gli effetti che una

pur breve segregazione possono avere sulla costituzione di un

fragile relitto dal cuore debole come me? La sera scorsa, tuttavia,

la maestà della legge non mi si parò dinnanzi come latrice di ter-

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rori e scoprii di non poter resistere alla tentazione di avvicinarmi

a quei lavabi di deliziosa iniquità. Ero là da pochi secondi quan-

do un uomo (uomo! ma che dico? Ä un'apparizione, Michael, la

fantasia di un perfezionista che prende improvvisamente vita:

Adone in persona, in bomber e jeans azzurro-cielo) sbucò da

uno di quei cubicoli." Findlay scosse il capo, mentre rapimento

e rammarico sgomitavano nei suoi pensieri per avere la prece-

denza. "C'è bisogno di dirlo? E' lui che mi ha messo in braghe

di tela. E viceversa."

"Viceversa?"

"Precisamente: dato che fui io a slacciargli la camicia, a slac-

ciargli i calzoni, a sbottonargli la patta. Non offenderò la tua sen-

sibilità di maschioncello, Michael, con un dettagliato racconto

delle delizie che seguirono, da ciucciarsi Ä se me la passi Ä le di-

ta. Ti chiedo solo di immaginare che shock, che oltraggio, che

sensazione di tradimento ho provato quando lui mi si presenta

come sovrajntendente, niente meno, della polizia metropolitana,

mi fa scattare le manette ai polsi e chiama con un fischio il com-

plice che aspetta sulla porta. E' accaduto tutto così alla svelta."

Abbassò la testa e restammo tutti e due in silenzio. Mi sforzai

di trovare delle parole di conforto ma non ne trovai neanche

una; e quando Findlay infine prese la parola, nella sua voce ci

fu una nuova nota di amarezza. "E' l'ipocrisia di questa gente

che non riesco a tollerare; le bugie che raccontano a se stessi e

al resto del mondo. Quel piccolo pezzo di merda godeva, come

godevo io."

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"Come fa a saperlo?"

"Ti prego, Michael," disse, con un'occhiatina indulgente. "O

è così o per dieci minuti, prima di farmi quello scherzetto, mi son

tenuto fra i denti il suo manganello. Un po' di credito potresti pur

concedermelo nell'interpretazione dei fatti."

Avvilito, attesi un momento e chiesi: "Poi cosa è successo?"

"Sono stato portato qui, e adesso pare che debbano sbattermi

dentro fra un giorno o due. Ecco perché volevo vederti il più pre-

sto possibile."

Dal corridoio fuori venne un rumore di .passi. Findlay attese

finché si dileguò e poi si piegò con aria da cospiratore verso di

me. "Ho fatto," disse a bassa voce, "delle scoperte sconvolgenti.

Sarai molto contento di sentire Ä magari non sorpreso, se ti è nota

la percentuale del mio successo in queste faccende Ä che la mia

intuizione s'è dimostrata pertinente."

"Che intuizione?"

"Torna indietro con la memoria, Michael, alla discussione che

abbiamo avuto l'ultima volta che ci siamo visti. A un certo punto,

mi sembra di ricordare, tu facesti un riferimento al fatto d'essere

stato né più né meno "trascinato dentro" in questo affare, e io mi

azzardai a suggerire che poteva essere anche più complicato di co-

sì. Avevo ragione." Fece una pausa solenne, indi concluse: "Tu sei

stato scelto".

"Scelto? E da chi?"

"Da Tabitha Winshaw, ovviamente. Adesso dammi retta e fa'

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attenzione. Hanrahan ti darà un secondo paio di chiavi del mio

appartamento, e tu troverai tutte le carte che contano nel cassetto

in alto della scrivania. Dovresti andarci prima che puoi e dare una

bella scorsa a quelle carte. La prima che troverai sarà la lettera di

Tabitha alla Peacock Press, datata il 21 maggio 1982, dove viene

avanzata l'idea di un libro sulla sua famiglia. A quel punto ti viene

subito in mente una domanda: come era arrivata a scoprire questa

particolare casa editrice?

"Trovare una risposta non è stato molto difficile, c'è voluta so-

lo la fatica di fare qualche ricerca sulla colorita storia della carriera

imprenditoriale di McGanny. Ho trovato documenti in cui si di-

ceva che era stato coinvolto, negli ultimi trent'anni, nelle forma-

zioni di non meno di diciassette società diverse, la maggior parte

finite in amministrazione controllata, parecchie altre oggetto di

azioni penali da parte della tributaria. Aveva gestito night-club,

ditte farmaceutiche, agenzie matrimoniali, agenzie di assicurazio-

ni, corsi per corrispondenza e infine s'era imposto come agente

letterario: non c'è dubbio che l'idea di fondare la Peacock Press

partì da qui Ä avendo imparato che se c'è un tipo di persona, com-

preso nel novero degli esponenti più ingenui e indifesi della socie-

tà, e guidato dalla sola ambizione d'acquisire, come che sia, una

qualche notorietà di fronte al mondo, questo è l'aspirante scrittore

senza talento. Dunque pare che una delle imprese di McGanny, a

metà anni settanta, fosse una catena di sale da gioco finita nel mi-

rino, fra le altre, delle autorità dello Yorkshire: e chi si assunse

l'incarico di difenderlo in quell'occasione? Niente meno che il no-

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stro vecchio amico Proudfoot Ä avvocato, guarda caso, di Tabitha

Winshaw Ä che continuò a fornirgli la sua consulenza legale sin-

ché non conobbe una fine prematura, così mi risulta, nel 1984.

Ecco dunque la nostra connessione. Tabitha contatta Proudfoot

per chiedergli di identificare un editore adatto, e Proudfoot, mi-

racolosamente, è subito in grado di sottoporle l'uomo.

"Egli doveva anche sapere che la proposta di Tabitha aveva

ottime probabilità di essere accettata, giacché in quel periodo

le finanze della società erano in una condizione pressoché dispe-

rata. Te ne accorgerai da te quando consulterai il rendiconto fi-

nanziario dell'anno, che ho avuto la precauzione di includere

nel ratto. Aggiungi all'instabilità finanziaria la provata disposizio-

ne di McGanny ad avviare transazioni senza scrupoli, e vedrai

che l'ipotesi di rifiutare le generose condizioni di Tabitha suona

pressoché irrealistica. Né egli oppose resistenza, come avrebbero

fatto i più, alla sua singolare conditio sine qua non." Mi lanciò

un'occhiata tagliente da sotto in su. "E tu ben sai a cosa mi rife-

risco, immagino?"

Mi strinsi nelle spalle. "Non ne ho proprio idea."

Findlay si concesse una risatina secca secca. "Ebbene, nella

sua lettera, pare che abbia sostenuto con insistenza Ä con insisten-

za, bada bene Ä che tu fossi il solo in grado di scrivere il libro."

Non aveva senso: qualcosa non tornava.

"Ma è ridicolo. Io non l'ho neanche mai vista Tabitha Win-

shaw. E nel 1982 non eravamo neppure a conoscenza.., l'uno del-

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l'esistenza dell'altro."

"E invece è evidente che della tua lei era a conoscenza."

Findllay s'appoggiò con la schiena al muro esaminandosi le un-

ghie e gustandosi lo sconcerto in cui le sue informazioni mi ave-

vano precipitato. Dopo un po' Ä e, sospetto, più per malizia

che per altro Ä concluse con disinvolta freddezza: "Forse le era

arrivata notizia della tua reputazione letteraria, Michael. Può

ben aver letto una recensione di uno di quei tuoi romanzi così am-

piamente apprezzati, e aver deciso che eri l'uomo dei cui servigi

non avrebbe potuto fare a meno".

Non ebbi, però, modo di porgere granché orecchio a questa

osservazione, poiché la mente era già ingombra di interrogativi

nuovi e per niente rassicuranti.

"Le ho raccontato come mi è stato offerto questo lavoro, no?

Attraverso quella donna, quella Alice Hastings in cui mi ero im-

battuto sul treno, assolutamente per caso."

"Assolutamente per caso, un corno. Era tutto organizzato, co-

me avrai modo di scoprire da te." Findlay aveva tirato fuori da

chissà dove uno stuzzicadenti e ora stava grattando via lo sporco

da sotto l'unghia del pollice.

"Ma non l'avevo mai vista prima."

"E l'hai mai più vista da allora?"

"No, devo dire. Non l'ho vista. Comunque non ci ho più par

lato."

"E' piuttosto curioso, non credi, avendo avuto a che fare con la

sua casa editrice per otto anni di seguito."

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"In effetti," dissi, sulla difensiva, "solo pochi mesi fa l'ho in-

travista, appena fuori degli uffici, mentre scendeva da un taxi."

"Se non ricordo male," disse Findlay puntandomi addosso lo

stuzzicadenti, "quando mi raccontasti questa storia la prima volta,

me l'hai anche sommariamente descritta, quella donna."

"Esatto: lunghi capelli neri, lungo collo sottile..."

"...e una faccia da cavallo."

"Non credo di essermi espresso in questi termini."

"Equina, allora. Quello, comunque, fu il dettaglio che mi ri-

mase più impresso. O piuttosto, quello fu il dettaglio che mi tornò

in mente quando, l'altra notte, ho fatto irruzione in casa di

McGanny e ho visto una fotografia di..." (e intanto spinse lo stuz-

zicadenti più vicino alla mia faccia) "...McGanny in persona."

"Cosa vuoi dire?"

"Lo sapevi che Hastings è il nome da signorina della moglie di

McGanny?"

"No, ovvio che no."

"E che lui ha una figlia, Alice, che fa l'attrice?"

"Sì, questo, in realtà, lo so."

"Sapevi che si chiamava Alice?"

"Sapevo che faceva l'attrice. Gli telefonò in ufficio mentre ero

lì anch'io, qualche mese fa..."

Mi interruppi bruscamente.

"Lo stesso giorno in cui," concluse Findlay, "pensavi d'aver

visto Miss Hastings scendere dal taxi?"

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Non risposi. Mi limitai ad alzarmi e ad andare alla finestra.

"Se il nome di Alice McGanny," continuò Findlay, "non è

molto conosciuto nei circuiti teatrali, è perché la carriera della gio-

vane signora, stando ai frammenti del suo curriculum vitae che ho

potuto mettere assieme, si è ostinatamente rifiutata di decollare.

Ha fatto la sostituta e la sarta, è stata assistente del direttore di

scena, ha fatto comparsate, parti di una sola battuta e parti senza

battute, e fra uno e l'altro di questi trionfi ha continuato a entrare

e uscire dai centri di disintossicazione posando nuda per una delle

riviste più squallide del settore. (Nella cassaforte di McGanny ce

n'era una copia che io sono stato abbastanza diligente da ricupe-

rare nel tuo interesse: a me non ha fatto alcun effetto, sia chiaro,

ma mi dicono che quel genere di roba, delle volte, dà un certo fris-

son a quelli che condividono le tue noiose e alquanto banali incli-

nazioni.) E così non sorprende proprio, tenuto conto di tutto que-

sto, che si sia spesso trovata a chiedere prestiti considerevoli a suo

padre; e lasciami dire che in una di queste occasioni può ben darsi

che, pattuito il giusto prezzo, si sia dimostrata abbastanza volon-

terosa da sostenere, nel suo interesse, una bella particina."

Ero immobile sotto la finestra che era troppo in alto per per-

mettere di vedere qualcosa, ma non importava: la mia memoria

era tutta concentrata su quel nostro incontro ferroviario di tanti

anni prima. Mi rividi la scena più e più volte, in un continuo avan-

ti e indietro veloce. Dovevano aver trovato il mio indirizzo da

qualche parte Ä magari attraverso Patrick, o forse attraverso il di-

rettore della pagina culturale del giornale Ä e poi lei dev'essere ri-

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masta per ore a far la guardia al mio appartamento, forse anche

un giorno o due, mentre io stavo dentro a vergare la mia preziosa

recensione... Mi ha seguito alla stazione del metrò, è scesa a King's

Cross, e poi quella stupida storia sulla visita a sua sorella a Kette-

ring, per cui non aveva bisogno di bagaglio. Come ho potuto ca-

scarci? Cos'è che mi ha appannato la vista?

"Beh, non sei mica tu il primo a cadere in una di queste trap-

pole, sta' tranquillo," disse Findlay, che pareva avermi letto nel

pensiero. "Lei è piuttosto attraente, dopo tutto; lo ammetto per-

sino io. Del resto, a ripensarci, non avevano grandi carte in mano

se le sue grazie erano tutto ciò di cui potevano disporre. Mi sor-

prende che non avessero nient'altro da attaccare all'amo, già che

c'erano."

"Ce l'avevano." Mi voltai, ma, pur avvertendo la sua curiosità,

non riuscii a guardare Findlay in faccia. "Leggeva uno dei miei ro-

manzi. Non mi era mai accaduto prima. Non ebbe neanche biso-

gno di tentare un approccio. Fui io a presentarmi."

"Ah." Findlay annuì pieno di gravità, ma non mi sfuggì il suo

sguardo divertito. "Ovvio. La solita vecchia tecnica. E McGanny

sulla vanità degli autori la sapeva lunghissima. In fondo ci ha co-

struito sopra un'impresa."

"Esatto." Percorrevo nervosamente la cella, ansioso che la

conversazione si esaurisse quanto prima. Aspettavo che Findlay

rompesse il silenzio e quando mi parve un'eternità, incapace di

contenere la mia impazienza, dissi: "Allora?"

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"Allora cosa?"

"Qual è l'anello mancante?"

"Anello mancante?"

"Sì, fra me e Tabitha. Che cosa aveva scoperto su di me? Per-

ché mi ha scelto?"

"Te l'ho già detto, Michael: se non vogliamo prendere in con-

siderazione il fatto che il tuo nome, in quei giorni, era diventato

una parola d'ordine fra i molti squisiti lettori di letteratura con-

temporanea dello Yorkshire, non ne ho la più pallida idea."

"Ma lei è un detective: credevo fosse questo che stesse cercan-

do di scoprire."

"Di scoperte ne ho fatte un subisso," disse Findlay seccato, "e

molte nel tuo interesse e tutto con considerevole rischio persona-

le. Se qualcuna delle mie scoperte ti ha turbato, allora forse hai

molto da imparare dalla tua condotta in questa storia. Ambascia-

tor non porta pena."

Mi risedetti accanto a lui e stavo per scusarmi quando s'aprì la

porta della cella. Un agente infilò la testa dentro, diede un'occhia-

ta in giro e disse: "Ancora un minutino," e, pur limitandosi a que-

sta semplice comunicazione, ci fu qualcosa nelle sue maniere Ä il

senso di una formale cortesia ridotta al minimo Ä che, assieme al

raccapricciante clangore della porta che sbatté alle sue spalle, die-

de fulmineo risalto all'enorme ingiustizia che Findlay si trovava a

patire.

"Come possono farle questo?" balbettai. "E' assurdo che la

schiaffino in prigione. Lei è una persona anziana: cosa credono

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di ottenere?"

Findlay si strinse nelle spalle. "E' da una vita che ricevo que-

sto trattamento, Michael. Tu smetti di fare domande. Grazie a

dio, sono sano di corpo e di mente, e così sopravviverò alla

prova, di questo puoi stare certo. Ma a proposito di sopravvi-

venza," (e qui la voce riprecipitò in un sussurro), "ho sentito

dire che i membri di una certa eminente famiglia si stanno pre-

parando a una tragica perdita. Mortimer si sta spegnendo velo-

cemente."

"Che tristezza. L'unico che mi ha mostrato un po' di cortesia."

"Beh, sento che succederà il finimondo, Michael. Sento odore

di scompiglio generale. Sai quanto me quali fossero i sentimenti di

Mortimer per la sua famiglia. Se lascia un testamento, per loro ci

possono essere dentro solo delle brutte sorprese; e naturalmente,

se ci sarà un funerale, presenzierà Ä si presume Ä anche Tabitha e

li rivedrà tutti quanti per la prima volta, dopo tantissimo tempo.

Dovrai stare all'erta. Può darsi che ci sia materia per un interes-

sante capitolo della tua storiella."

"Grazie," dissi. "Insomma, grazie per tutto l'aiuto che mi ha

dato." Si avvertì subito nell'aria un sentore d'addii e mi ritrovai

a cercare di fare un discorso. "Ne ha passate tante. Io, io spero

che lei ne abbia tirato fuori qualcosa, tutto qui: qualunque cosa

sia...

"Soddisfazione professionale, Michael. Questo è ciò che un

vero detective chiede al proprio lavoro. Questa storia ce l'ho alle

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calcagna da più di trent'anni: ma l'istinto mi dice che presto si

scioglierà, prestissimo. Mi spiace solo che si sia messo di mezzo

il lungo braccio della legge, impedendomi di prendervi parte

con un ruolo attivo." Mi prese la mano stringendola debolmente

ma con convinzione. "Per i prossimi due mesi, Michael, tu sarai i

miei occhi e le mie orecchie. Ricordatelo. Mi affido a te, adesso."

Sorrise coraggioso e feci del mio meglio per restituirgli il sor-

riso.

 

 

 

 

3.

 

Il Natale fu opaco, arido, senza carattere. Mentre stavo alla fi-

nestra del mio appartamento a guardare il parco dall'alto, non po-

tei fare a meno di tornare col pensiero, come, in quel giorno, vi

ritornavo ogni anno, al bianco Natale della mia infanzia, quando

mia madre infiocchettava la casa con le sue decorazioni, mio padre

passava ore per terra a cercare la lampadina saltata che impediva al

nostro albero di accendersi e quando, la vigilia, io stavo accanto

alla finestra tutto il pomeriggio ad aspettare l'arrivo dei nonni

che, come voleva la tradizione, venivano in auto dal sobborgo vi-

cino, a stare con noi sino al primo dell'anno. (Erano i genitori di

mia madre, perché con quelli di mio padre non avevamo nulla a

che fare; da quel che ricordo, in realtà, non se ne avevano neanche

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notizie.) Per qualche giorno l'atmosfera nella nostra casa, di solito

così tranquilla e contemplativa, si vivacizzava, diventava addirittu-

ra frenetica, ed è forse a causa di questo ricordo Ä e del ricordo del

bianco favoloso che in quei giorni puntualmente ammantava il

prato di fronte Ä che un sentore di irrealtà tornava ad avvolgere

anche i grigi, muti Natali ai quali, negli anni più recenti, mi ero

rassegnato con attonita impotenza.

Ma oggi era diverso. Né l'uno né l'altra avremmo tollerato il

pensiero di Otto ore di televisione natalizia, e a metà mattinata era-

vamo già in un'auto presa a nolo diretti verso la costa sud. Non

guidavo da secoli. Fortunatamente Londra sud era più o meno

sgombra di traffico e, a parte il pelo fatto a una Sierra rossa e

un'ammaccatura contro il guardrail di una rotonda appena fuori

Surbiton, riuscimmo a sbucare in campagna senza seri incidenti.

Fiona s'era offerta di prendere il volante, ma io non avevo voluto

sentire ragione. Forse era sciocco da parte mia, anche perché era-

no settimane che non si sentiva così bene (e il suo aspetto ne era

una conferma), e comunque credo d'aver avuto una reazione di

sconcerto ben più forte della sua davanti all'assurda confusione

sugli esiti dei suoi esami all'ospedale, quando s'era presentata al-

l'appuntamento solo per sentirsi dire che era stato disdetto, che

qualcuno doveva pur averglielo comunicato telefonicamente, e

che lo specialista interessato al suo caso era a un'assemblea di pro-

testa contro la decisione dell'amministrazione di chiudere quattro

corsie in chirurgia subito dopo Natale, e che per favore tornasse

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nel giro di una settimana che tutto sarebbe stato chiarito. Non

avevo saputo contenere la mia frustrazione quando m'aveva rac-

contato questa storia, e, senza dubbio, l'impetuosa voglia di met-

termi a urlare e pestare i piedi l'aveva molto più scossa della ner-

vosa corsa in taxi e dei tre quarti d'ora sprecati nell'appiccicosa

calca della sala d'aspetto. Suppongo che non fossi pronto a regge-

re il peso di una crisi, che invece sopraggiunse. Comunque lei si

riprese Ä ci riprendemmo entrambi Ä ed eccoci lì, rapiti dalla vi-

sione di siepi spennacchiate, di fattorie convertite, dell'esitante sa-

liscendi di campi bigi e opachi, come due bambini di un ghetto

incuneato dentro la città che non avessero mai visto prima un lem-

bo di campagna.

Arrivammo a Eastbourne verso le dodici. La nostra era la sola

auto parcheggiata sul lungomare, e per qualche minuto restammo

seduti in silenzio ad ascoltare lo sciabordio delle onde contro la

grigia spiaggia di ciottoli.

"E' così tranquillo qui," disse Fiona; e quando uscimmo dal-

l'auto, il cigolio e lo schianto delle portiere aperte e subito richiuse

parvero sbriciolarsi ed essere assorbiti anch'essi dalla pace che

avevamo intorno: e mi fecero pensare Ä chissà perché Ä a segni

di punteggiatura abbandonati sul bianco di un foglio vuoto.

Mentre scendevamo verso l'oceano risuonava lo scricchiolio

dei nostri passi; ma, a stare bene in ascolto, si poteva anche udire

il sussurro della brezza, che andava e veniva come un sibilo irre-

golare. Fiona spiegò una stuoia sui sassi e ci sedemmo al confine

della battigia, spalla a spalla, l'uno contro l'altra. Faceva un freddo

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tremendo.

Dopo un po' Fiona disse: "Dove andiamo a mangiare?"

Io: "Ci deve essere senz'altro un albergo o un pub o non so

che altro".

Lei: "Sì, ma è Natale. Sarà tutto prenotato".

Qualche minuto dopo, quella specie di silenzio imperfetto fu

rotto dagli schiocchi metallici e dal frullio di una bicicletta che

s'avvicinava. Ci guardammo intorno e vedemmo un uomo anziano

e corpulento che appoggiava la bicicletta contro il muro, scendeva

gli scalini e si dirigeva verso il mare, lo zaino sulle spalle e un fare

risoluto stampato in faccia. Quando fu a pochi metri da noi, si

sgravò dello zaino e cominciò a togliersi i vestiti di dosso. Cercam-

mo di non guardare via via che affiorava il suo corpaccione rosa e

possente. Invece delle mutande portava dei calzoncini da bagno e,

con nostro sollievo, a quelli si fermò, poi ripiegò i vestiti metten-

doli uno sopra l'altro in una pila ordinata, prese un asciugamano

dallo zaino e lo allargò scuotendolo forte. Indi si aprì la strada ver-

so l'acqua, fermandosi solo per gettare uno sguardo verso di noi e

dire: "Buon giorno". Aveva ancora l'orologio al polso e dopo

qualche passo si fermò, lo guardò e rifece la strada al contrario

e rettificò l'augurio con "Avrei dovuto dire pomeriggio". Poi altro

ripensamento: "Non vi dispiacerebbe dare un occhio alle mie co-

se? Se restate ancora un minuto o due". Aveva un accento del

nord: di Manchester, probabilmente.

Fiona disse: "Certo che non ci dispiace".

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"Quanti anni pensi che abbia?" chiesi sottovoce, mentre lo ve-

devamo avanzare, senza un tremito, nell'acqua bassa e gelida:

"Settanta? Ottanta?"

Un momento dopo era già scomparso tra i flutti e tutto quello

che riuscivamo a vedere era la zucca rubiconda che si immergeva

e riaffiorava. Non restò dentro a lungo, circa cinque minuti, prima

procedendo a rana con scioltezza, poi passando a un vigoroso

crawl, su e giù lungo lo stesso tratto d'acqua per almeno dieci o

dodici volte, sinché non si voltò sulla schiena godendosi un rilas-

sato ritorno alla spiaggia. Quando arrivò ai ciottoli, ruotò su se

stesso e si tirò su a fatica, fregandosi forte le mani l'una contro

l'altra e battendosi la pelle floscia delle braccia per riattivare la cir-

colazione.

"Freddino oggi, eh?" disse passandoci a fianco. "Tuttavia guai

a saltare una volta. Non posso fare a meno della mia nuotatina

igienica."

"Vuol dire che la fa tutti i giorni?" chiese Fiona.

"Ogni giorno, da trent'anni a questa parte," disse lui, tornando

alla sua pila di vestiti e cominciando ad asciugarsi con l'asciugama-

no. "E' la prima cosa che faccio, la mattina, come regola. Beh, certo,

oggi è diverso: è Natale e via dicendo. Abbiamo la casa piena di ni-

poti, e sono scappato prima che ho potuto, del resto che fare con

tutti quei regali da scartare?" Fiona distolse lo sguardo quando lui

cominciò la tortuosa operazione di togliersi i pantaloncini tenendo-

si, al contempo, l'asciugamano stretto ai fianchi. "Siete di queste

parti?" chiese. "O siete venuti giù per l'occasione?"

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"Veniamo da Londra," disse Fiona.

"Capisco. Mollar tutto e squagliarsela. E perché no. Tutta una

giornata di ragazzini è troppo, e aggiungiamoci pure la nonna che

si fa saltare i denti con le noci."

"Qualcosa del genere."

"Non posso certo biasimarvi. E' una pazzia, da stamattina da

noi non se ne può più." Tirò su la sua possente pancia di qualche

centimetro e s'allacciò la cintura. "Sapete, è per la moglie che mi

dispiace. Tacchino, patate arrosto, ripieno e verdura per quattor-

dici persone. E' troppo per qualunque donna, no?"

Fiona domandò se poteva raccomandarci un posto per pran-

zare, e lui fece il nome d'un pub. "E' pieno zeppo, sa, ma il padro-

ne è un amico mio, perciò se fate il mio nome magari vi trova un

angoletto. Ditegli che vi manda Norman. Non perderei altro tem-

po, se fossi in voi. Venite che vi mostro la direzione giusta."

Lo ringraziammo e, quando finì di rivestirsi e di ripiegare ac-

curatamente l'asciugamano nello zaino, lo seguimmo in strada.

"Accidenti, che bella bici," disse Fiona, quando la vide più da

vicino. "E una Cannondale, vero?"

"Le piace? Questo è il suo viaggio di nozze. E un regalo del

mio figlio maggiore: mi hanno fatto la sorpresa stamattina. Ne so

qualcosa di biciclette Ä dato che è una vita che vado in bici Ä e

secondo me questa ha tutta l'aria d'essere una bellezza. Pesa qua-

si la metà della mia vecchia Raleigh: guardi qui, riesco a sollevar-

la con una mano sola."

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"Come si comporta in strada?"

"Oh, non è la meraviglia che credevo, buffo, eh? Sto appena

fuori città e in mezzo c'è una salitina. Beh, ho fatto fatica."

"Molto strano." Fiona si piegò e prese a esaminare la ruota di

dietro. Io osservavo, divertito.

"Lei pensa che con un cambio a sette marce non dovrei avere

alcun problema, no?"

Fiona osservò con ancor più attenzione un intrico di ruote

dentate e cricchetti dall'aria molto intimidatoria al centro della

ruota. "Sa, è probabile che lei abbia su la cassetta sbagliata," dis-

se. "Se questo è un modello da corsa allora i rapporti possono es-

sere troppo alti per lei. E' tutta una questione di ritmo. Questo è

un modello da novanta giri circa al minuto e lei probabilmente

s'avvicina solo ai settantacinque."

Norman osservò preoccupato. "E' una cosa seria, allora?"

"No, davvero. Lei è fortunato, perché in questa bici i roc-

chetti sono rimpiazzabili individualmente. Con le ganasce per

staccare la catena e la chiave per allentare gli anelli di bloccaggio

lo può fare anche da solo." Si alzò in piedi. "Beh, è solo un'im-

pressione."

"Può andarci se vuole," disse Norman. "Per sapere cosa ne

pensa."

"Posso? Accidenti, questo sì che sarebbe un regalo!" Girò in-

torno alla bicicletta e si lanciò sulla sella. "Andrò solo fino alla ro-

tonda e ritorno, va bene?"

"Tutto ciò che vuole."

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Restammo a guardarla insieme mentre pedalava via, dapprima

con qualche incertezza, poi guadagnando velocità e sicurezza.

S'allontanò sin quasi a sparire ma la sua scia di capelli ramati si

continuava a vedere distintamente, scompigliata dal vento, in lon-

tananza.

"Sta prendendo velocità, eh?" disse Norman.

"Ha una certa esperienza," commentai, sorpreso dell'orgoglio

con cui glielo dissi. "Ha partecipato a una corsa sponsorizzata di

cinquanta chilometri un paio di mesi fa."

"Beh," ammiccò lui con l'aria di introdurmi a una sorta di vi-

rile intesa, "lei è un tipo fortunato, non c'è altro da dire. Non mi

meraviglia che non l'abbia voluta dividere con nessun altro in un

giorno come questo. E' un fenomeno di ragazza."

"In realtà non è per quello che siamo qui."

"Ah, no?"

"No. Siamo venuti qui... beh, per ragioni di salute, immagi-

no che lei si esprimerebbe così." L'urgenza di confidarmi con

qualcuno si rivelò, all'improvviso, fortissima. "Sono così preoc-

cupato, prima non potevo dirlo. Stiamo cercando di cavar fuori

qualcosa dai medici, ma la cosa va avanti da mesi: febbri, sudori

notturni, spaventosi mal di gola. Ho pensato che un cambia-

mento d'aria potesse farle bene Ä sa, l'aria di mare e tutto quel

che segue. Lei non ne parlerebbe mai, ma questa situazione ci

sta riducendo come due stracci; e se venisse fuori qualcosa di

serio, non so proprio come affronterei la faccenda, davvero

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non so."

"Ahi, ahi, ahi." Sospirò Norman, guardando altrove e strasci-

cando i piedi per l'imbarazzo. "Non volevo dir nulla, ma adesso

che ne ha fatto menzione, beh lei, amico, ha proprio un aspetto

terribile." E appena prima che Fiona arrivasse a tiro d'orecchio,

aggiunse: "Speriamo che la signora non le faccia venire un esau-

rimento, eh?"

 

 

Provammo ad andare al pub che ci era stato raccomandato.

L'area in cui si mangiava era surriscaldata, affollatissima e quasi

non ci si respirava, ma quando menzionammo il nome di Norman,

il padrone fece di tutto per trovarci un tavolo d'angolo, incastrato

dietro una tavolata familiare di otto persone, tutti turbolenti al

massimo a eccezione di un adolescente allampanato con un tre-

mendo raffreddore. Non riusciva mai ad arrivare in tempo a pren-

dere il fazzoletto e ogni volta che starnutiva si vedevano le goccio-

line di muco schizzare dalla nostra parte. Saltammo la prima por-

tata e passammo direttamente al tacchino, che era secco, tagliato

così sottile che le fette parevano trasparenti, e servito con un muc-

chietto di verdure acquose.

"E allora? Com'è che sai tutte quelle cose sulle biciclette?"

chiesi a Fiona mentre faceva la sua prima coraggiosa incursione

dentro quella scoraggiante pietanza. "E' venuto fuori che sei una

vera esperta."

Aveva la bocca piena di tacchino e cavolini di Bruxelles, e tar-

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dò a rispondere.

"Giusto un paio di settimane fa, ho riassunto degli articoli

che trattavano la meccanica dei nuovi cambi," disse, e poi mise

alla prova le mandibole con una seria masticazione. "Ho buona

memoria per quel genere di argomenti, ma non chiedermi per-

ché."

"Non credevo che potesse rientrare nelle tue competenze."

"Il ventaglio delle nostre competenze è molto ampio. Non è

un periodico specializzato, il nostro: ci occupiamo di tanti soggetti

diversi. Ciclismo, cibernetica, malattie trasmesse attraverso rap-

porti sessuali, viaggi nello spazio..."

"Viaggi nello spazio?"

Fiona notò subito il destarsi del mio interesse.

"Accidenti, siamo arrivati a un'altra ossessioncella che ti sei

coltivato quatto quatto?"

"Beh, lo è stata, credo. Quand'ero piccolo volevo diventare un

astronauta da grande. So che probabilmente succede a tutti i ra-

gazzini ma quegli entusiasmi non ti abbandonano mai del tutto."

"Strano," disse. "Non ti ho mai visto come un macho."

"Macho?"

"Beh, il simbolismo di tutti quei razzi non è poi così difficile

da interpretare, che ne dici? Son sicura che per il maschio tipo è il

massimo della lusinga: ficcarsi dritti sparati dentro lo spazio pro-

fondo..."

"No, non era così per me. Forse ti suonerà strano, ma era

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la..." Mi guardai in giro cercando la parola, non riuscii a trovarla

e mi accontentai di: "liricità della faccenda, credo, che mi attrae-

va". Fiona non mi parve molto convinta. "Yuri Gagarin era il mio

grande eroe. Non hai mai letto la sua descrizione di quel che vedeva

dal razzo in orbita? E quasi come una poesia."

Lei rise incredula. "E adesso me la reciterai, non è così?"

"Aspetta un momento." Chiusi gli occhi. Erano anni che

non provavo a ripetere quelle parole. "Era chiaramente visibile

la parte illuminata della terra," cominciai, e poi recitai a memo-

ria lentamente: "Le coste dei continenti, le isole, i grandi fiumi,

le vaste superfici d'acqua... Durante il volo vidi per la prima vol-

ta coi miei occhi la forma sferica della terra. La sua curvatura la

si vede guardando l'orizzonte. La vista dell'orizzonte è unica e

bellissima. Si vede il netto cambio di colore dalla superficie illu-

minata della terra al nero totale del cielo in cui brillano le stelle.

Questa linea divisoria è sottilissima, una pellicola che cinge tutta

la sfera della terra. E d'un azzurro delicato, e questa transizione

dall'azzurro al nero è molto graduale, e incantevole".

Mentre parlavo, Fiona aveva posato coltello e forchetta e ora

mi ascoltava col mento raccolto nel palmo della mano.

"Avevo attaccato sue fotografie su tutte le pareti della mia ca-

mera. Scrivevo persino delle storie su di lui. E poi venne la notte

in cui morì in un incidente aereo," risi nervosamente, "e tu puoi

anche non crederci se vuoi, ma la notte in cui morì, mi sognai di

lui. Sognai di essere lui, mentre precipitavo sulla terra nell'appa-

recchio in fiamme. E da allora sono anni che non penso più a

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lui." Dalla vacua espressione stampata sulla faccia di Fiona, de-

dussi che era piuttosto scettica circa quest'ultima rivelazione. Con-

clusi dunque, giustificandomi: "Devo dire che allora la cosa mi fe-

ce una grandissima impressione".

"No, no. Ti credo," disse. "Stavo solo cercando di ricorda-

re una cosa." S'appoggiò alla spalliera dellasedia e guardò ver-

so la finestra, che ora era punteggiata di goccioline di pioggia.

"Una volta l'anno scorso, dovevo riassumere un pezzo apparso

in un giornale. Parlava di quell'incidente; era la teoria di non

so chi su come fosse potuto accadere, ma fondata su nuove in-

formazioni. Il dopo-glasnost, sai, e tutto quello che ne è venuto

fuori."

"Cosa diceva?"

"Il grosso me lo sono dimenticata; ma nel complesso era pa-

recchio inconcludente, credo. Si faceva cenno a un altro aereo,

un aereo molto più grande, che aveva attraversato il suo tracciato

di volo e aveva creato molta turbolenza mentre Gagarin stava

uscendo da un banco di nubi. Facendolo cadere, ovviamente."

Scossi il capo. "La mia teoria è molto meglio. E del resto è

condivisa da un sacco di altra gente. L'idea è che le autorità sovie-

tiche lo fecero fuori, perché aveva visto un po' troppo Occidente,

gli era piaciuto e probabilmente stava per lasciare il paese."

Fiona sorrise: un sorriso affettuoso ma di sfida.

"Credi di poter sempre ridurre tutto in politica, vero, Mi-

chael? Ti rende la vita così semplice."

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"Non capisco di quale semplicità parli?"

"Ma certo, la politica può essere complicata, lo so. Ma penso

anche che ci sia sempre qualcosa di ingannevole in quell'approc-

cio alle cose. In quella propensione a credere che ci sia sempre

una spiegazione per tutto, in una maniera o nell'altra, se solo ci

si prepara a non guardar troppo per il sottile. E' questo che ti in-

teressa, no? Far quadrare i fatti e via."

"Che alternativa c'è?"

"No, non è quello il punto. Dico invece che ci sono ben altre

possibilità da prendere in considerazione. Persino più grandi."

"Per esempio."

"Per esempio... beh, supponi che sia morto davvero per un in-

cidente. Supponi che siano state le circostanze a ucciderlo: niente

di più, niente di meno. Non sarebbe forse un fatto ben più spaven-

toso con cui fare i conti della tua misera teoria cospirativa? O sup-

porre che sia stato un suicidio. Aveva visto cose che non aveva visto

nessun altro, dopo tutto, cose incredibilmente belle, da come le

racconta. Forse non era più tornato alla realtà, e quello fu il culmi-

ne di qualcosa di irrazionale, una specie di follia che ardeva dentro

di lui, qualcosa di ben lontano dalla tua portata e dalla portata della

tua politica. Non credo che ti piacciano queste ipotesi: né l'una né

l'altra sono in sintonia col tuo modo di pensare."

"Beh, se vuoi proprio metterla sul sentimentale..."

Fiona si strinse nelle spalle. "Forse io sono sentimentale. Ma

anche a essere troppo schematici è pericoloso. Vedere tutto in

bianco e nero." A questo non seppi rispondere, e mi concentrai,

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invece, sul tentativo di impalare un terzetto di spugnosi piselli sui

denti della forchetta. La sua domanda successiva mi prese di sor-

presa. "Quando ti deciderai a dirmi perché hai litigato con tua

madre in quel ristorante cinese?"

Sollevai lo sguardo e dissi: "Che brusco cambiamento di tema".

"Il tema non è per niente cambiato."

"Non ti seguo," brontolai, ritornando al cibo.

"Sono mesi che prometti di raccontarmelo. E evidente che

vuoi dirmelo." Dato che non seguì alcuna risposta, continuò pen-

sando ad alta voce: "Cosa può averti detto, per farti così male?

Così male da spaccarti in due. La metà che rifiuta di perdonarla

perché continua a vedere le cose in bianco e nero, e l'altra metà,

quella che cerchi di reprimere da quando è accaduto." Non dissi

alcunché; mi limitai a far girare un pezzo di tacchino per il piatto,

gravandolo d'una salsa spessa e unta. "Sai forse dov'è questo po-

meriggio? Cosa starà facendo?"

"Se ne starà seduta in casa, mi sa."

"Da sola?"

"Probabilmente." Mi stancai e spinsi il piatto da parte. "Senti,

tornare indietro non si può. Era mio padre che ci teneva assieme,

del resto. Una volta morto lui... Ecco come stanno le cose."

"Ma avete continuato a vedervi dopo che è morto. Non è suc-

cesso per quella ragione."

Glielo volevo dire, questo è lo strano della faccenda. Glielo

volevo dire, eccome. Ma doveva essermi strappato fuori un pezzo

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alla volta, ed eravamo soltanto all'inizio. Non è che volessi fare il

prezioso: non è che volessi suonare volutamente enigmatico. Però

questo fu tutto ciò che mi venne fuori.

Dissi: "Si può morire più di una volta".

Fiona mi fissò negli occhi. Disse: "Perché non saltiamo il pud-

ding e ce ne andiamo?"

 

 

Fu una specie di bisticcio, anche se nessuno dei due era certo

di poter dire come fosse cominciato. Uscimmo dal pub in silenzio

e, in auto, sulla via del ritorno, fummo di pochissime parole. Non

volendo perdere l'ultima mezz'ora di luce, proposi di fermare

l'auto e fare una passeggiatina svelta svelta sulle Colline del

Sud. Sepolti senza più farvi cenno i nostri contrasti, quali che fos-

sero, passeggiammo a braccetto in un panorama che avrebbe po-

tuto essere stupendo in un giorno di sole ma che ora, vuoi per il

freddo o per l'incombente oscurità, pareva nudo e minaccioso.

Fiona aveva un'aria stanchissima.

Ero sorpreso, difatti, che fosse riuscita a resistere così a lungo,

e non mi sorprese vedere la sua testa ciondolare nel sonno, non

appena riprendemmo il viaggio. Guardai il suo volto tranquillo

e mi venne in mente l'intimità e la sensazione di privilegio della

notte in cui ero strisciato nella stanza di Joan ed ero rimasto a

guardarla per qualche minuto mentre dormiva. Ma questa sovrap-

posizione era ingannevole, falsa, perché guardare Fiona non era

scrutare il passato: semmai il contrario. Sì, perché a ogni sguardo

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che riuscivo a rubare alla strada (sulla quale cercavo di tenere in-

collati gli occhi) sentivo che mi si offriva il miraggio di qualcosa di

nuovo e impensabile, di qualcosa che mi ero vanamente negato

per così tanti anni: un futuro.

Ci fermammo solo una volta, a una stazione di servizio dove

mi comperai degli Smarties e una tavoletta di cioccolato. Quando

tornai in macchina lei era profondamente addormentata.

E invece, solo sei giorni dopo...

Chi ci crederebbe?

E invece, solo sei giorni dopo.

Non so se riuscirò a farmene una ragione.

 

 

 

 

4.

 

Il giorno dopo Santo Stefano arrivò il mio pacchetto di libri dal-

la Peacock Press. Era accompagnato da un biglietto di Mrs Tonks,

in cui si scusava per averlo mandato più tardi del solito. Non riuscii

a concepire un motivo valido per dare un'occhiata al contenuto o

persino per scartare la confezione. Nel pomeriggio mi recai con

la prudenza del caso all'appartamento di Findlay per vedere le car-

te che aveva rubato. Non mi dissero granché di nuovo. Altro che

sentirmi intrigato, confuso o preoccupato dalla lettera di Tabitha

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e dalla prova inequivocabile che una volta aveva scritto all'editore

scongiurandolo di garantirsi la mia penna quando io non sapevo

neanche che lei esistesse: ebbi appena il pungolo di un vago interes-

se. La famiglia Winshaw e le vite dei suoi membri spietati, fantastici,

assetati di potere non mi erano mai sembrate così distanti. E per

quel che concerne la cartelletta che presumibilmente conteneva le

fotografie incriminanti di Alice, neanche l'aprii.

Adesso Fiona era tutto per me.

Per il giorno seguente aveva fissato il nuovo appuntamento in

clinica e questa volta ero deciso ad accompagnarla. Per qualche

motivo, si sentiva molto peggio del giorno che avevamo passato

al mare. Io avevo pensato che le avrebbe portato qualche miglio-

ramento. Invece era ritornata la tosse, più insistente di prima, e

inoltre le si era accorciato il respiro: la sera prima, facendo le sca-

le, aveva dovuto fermarsi a prender fiato a ogni pianerottolo.

L'appuntamento era per le undici e mezza. Passammo secoli

ad aspettare l'autobus che ci fece arrivare con qualche minuto

di ritardo all'ospedale, un mostro vittoriano di mattoni neri che,

a ben guardare, faceva venire in mente la carcerazione di criminali

condannati a vita piuttosto che la cura dei malati. Del resto, che

importanza poteva avere in quel momento? Era passato da un bel

po' mezzogiorno quando Fiona fu chiamata in ambulatorio. Io

aspettai fuori, sforzandomi di mantenere una qualche vestigia di

ottimismo alla faccia della demoralizzante tetraggine della scena

che mi circondava: l'arredo d'un giallo slavato, stomachevole, la

macilenta macchina del caffè che ci aveva già rubato 60 penny,

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il capriccioso impianto di riscaldamento (un enorme calorifero

di ghisa andava a tutta manetta, l'altro era gelido; e ogni due

per tre i tubi gorgogliavano, sputtacchiavano acqua e vibravano

visibilmente contro la parete, facendo cadere pezzi di intonaco).

Ressi solo per cinque minuti e stavo per uscire quando tornò Fio-

na, agitata e rossa in viso.

"Già fuori?" dissi. "Hai fatto presto."

"Non trovano il mio fascicolo," disse, passandomi accanto e

puntando dritta verso l'uscita.

Mi affrettai a seguirla.

"Cosa?"

Eravamo di nuovo all'aperto. Faceva un freddo tremendo.

"Cosa vuoi dire, esattamente?"

"Che non trovano il fascicolo relativo al mio caso. Lo hanno

cercato stamattina, senza trovarlo. Probabilmente lo ha preso

una segretaria. Persi nel sistema, insomma. Hanno dato la colpa

alle vacanze."

"E allora cos'hanno deciso di fare?"

"Mi hanno dato un altro appuntamento per la prossima set-

timana."

Una giustificata frustrazione montava, a ondate successive,

dentro di me.

"Fiona, non possono continuare a trattarti così. Sei malata, dio

santo. Non puoi lasciare che la tua salute sia messa a repentaglio

da questo branco di idioti. Non lo tollereremo più oltre."

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Fu una sparata bell'e buona, e lo sapevamo tutti e due.

"Smettila, Michael." Tossì furiosamente per mezzo minuto,

piegata in due contro le mura dell'ospedale, poi si ricompose.

"Su. Andiamo a casa."

 

 

Era la sera di Capodanno.

L'idea originaria era quella di tornare al Mandarin. Avevo te-

lefonato verso mezzogiorno ed ero riuscito con qualche insistenza

a prenotare un tavolo per due; ma in prima serata era già ovvio

che Fiona non era in condizioni di uscire, così promisi di cucinare

io la cena. Era rimasto aperto un grande negozio di prodotti me-

diterranei in King's Road: comprai pesce, formaggio, pasta e gam-

beroni in scatola, con la speranza di improvvisare delle lasagne al-

la marinara. Presi del vino e delle candele. Ero determinato a tra-

sformare la faccenda in un avvenimento in piena regola. Andai a

dare un'occhiata a Fiona verso le sette e lei stava seduta nel letto,

pallida pallida e col fiato corto. La febbre era alta. Non aveva mol-

ta fame, ma quando le raccontai della cena che avevo in mente l'i-

dea le piacque. Sembrava che la rallegrasse un po'.

"Vuoi che mi vesta in gran pompa?" disse.

"Ma è naturale. Se lo trovo, magari mi metto anch'io il mio

vecchio vestito da sera."

Sorrise. "Non vedo l'ora di vedertici."

"Verrò a prenderti alle nove? Che te ne pare?"

Il vestito da sera sapeva di vecchio e di muffa, e il collo della

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camicia era troppo stretto, ma me lo misi comunque. Alle nove le

lasagne erano quasi cotte, la tavola era preparata, e il vino freddo

come doveva. Entrai nell'appartamento di Fiona. Nel salotto non

c'era e quando la chiamai non ebbi risposta. Un repentino presen-

timento mi guidò in camera da letto.

Fiona era a terra piegata sulle ginocchia davanti all'armadio

aperto. Aveva indosso un vestito lungo di cotone azzurro con la

cerniera ancora aperta sulla schiena. Si dondolava piano avanti

e indietro e faceva fatica a respirare. Mi inginocchiai accanto a

lei e le chiesi cosa era successo. Disse che mentre cercava di vestir-

si aveva avvertito crescere una profonda stanchezza, e che, cercan-

do un paio di giarrettiere nel cassetto più in basso dell'armadio, le

era mancato il respiro. Le misi la mano sulla fronte che scottava

ed era imperlata di sudore. Le chiesi se poteva respirare. Rispose

che sì, poteva, ma pensava di non riuscire ancora ad alzarsi in pie-

di. Le dissi che avrei chiamato il medico. Fece di sì con la testa. Le

chiesi dove fosse il numero. Fra un respiro e l'altro, sempre più

corti, riuscì a dire: "Telefono".

C'era una guida vicino al telefono, nell'ingresso. Per rammen-

tarmj il nome del medico mi ci volle un minuto o due.

"Dottor Campion?" dissi, quando sentii di avere la comunica-

zione, ma mi accorsi che stavo parlando a una segreteria telefoni-

ca. Il messaggio registrato diceva di fare un altro numero. Questa

volta incappai in un servizio di segreteria. L'uomo all'altro capo

del telefono mi chiese quale fosse il medico con cui cercavo di

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mettermi in contatto, e se era per un'emergenza. Quando gli for-

nii i dettagli della situazione mi disse che il medico sostituto

avrebbe richiamato appena possibile.

Il telefono suonò quattro minuti dopo. Cominciai a spiegare al

medico cosa non andava. Volevo essere rapido e chiaro il più pos-

sibile, per tornare presto da Fiona, ma non fu facile. Dato che non

aveva sentito mai parlare di lei, non l'aveva mai visitata, non ne

aveva mai letto la cartella clinica, non gli avevano parlato del

suo caso, avrei dovuto spiegargli, io, tutto dall'inizio. Indi mi chie-

se se ritenevo che fosse una cosa seria. Gli risposi che era serissi-

ma, ma non mi credette, era palese. Pensava che gli stessi parlan-

do di qualcuno con un brutto raffreddore. Gli dissi che doveva

assolutamente venire a vederla. Disse che aveva due altri pazienti

prima Ä casi urgenti, sottolineò Ä ma che sarebbe arrivato prima

possibile.

Aiutai Fiona a tornare a letto. Il respiro pareva un pochettino

meglio, adesso. Ritornai nel mio appartamento: spensi forno e

candele, indi mi cambiai d'abito e tornai a sedermi accanto a lei.

Pareva così bella, così.

 

 

Il medico arrivò verso le dieci e un quarto. Cercai di fargli sen-

tire che ero infuriato per la quantità di tempo che aveva impiegato

ad arrivare, ma lui fu talmente cordiale ed efficiente da stornare i

miei propositi. Non fece poi molto: auscultò il petto, le prese il

polso e mi pose qualche domanda. Che fosse malata se ne rendeva

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conto benissimo.

Disse: "Credo sia meglio portarla al pronto soccorso".

Era l'ultima cosa che mi aspettavo.

"Il pronto soccorso? Pensavo ci si andasse solo in caso di in-

cidente."

"E' aperto a tutte le emergenze," disse. Strappò una pagina del

suo ricettario, ci scribacchiò sopra qualcosa e poi la infilò in una

busta che aveva tolto dalla valigetta. Durante questa operazione

parve affannoso e marcato anche il suo respiro. "Portate con voi

questa lettera. E' per il medico di guardia. Avete una macchina?"

Feci di no con la testa.

"Mi sa che dovrete aspettare a lungo per un taxi, stasera. E'

meglio che vi porti io. Sono di strada."

Preparammo Fiona per il trasbordo aiutandola a infilarsi due

pesanti maglioni sopra il vestito, dei calzerotti di lana e gli stivali.

Quando finimmo la vestizione, lei aveva un'aria vagamente ridico-

la. La accompagnai giù per le scale, un po' di peso, un po' aiutan-

dola a camminare e in pochi minuti ci ritrovammo sulla Renault

azzurra del dottore. Cercavo di star calmo ma finii con lo scoprire

di aver appallottolato la busta nel palmo della mano. Appena ar-

rivati mi arrabattai per stirarla alla meglio.

 

 

Il pronto soccorso, benché non fosse malandato come l'ambu-

latorio, riusciva nondimeno ad apparire affollato e desolato nello

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stesso tempo. C'era un'atmosfera frenetica. Sui marciapiedi s'era

formato un sottile strato di ghiaccio e diverse persone si erano

presentate esibendo esiti di cadute e scivoloni; ed essendo la notte

di Capodanno c'erano già due o tre vittime delle scazzottature da

pub che si facevano curare occhi pesti e ferite alla testa. Se ne

aspettavano ben altri nel corso della nottata. Ciò non toglieva

che ci fosse nell'aria una vaga atmosfera di festa e di disperata leg-

gerezza. Logore decorazioni adornavano le pareti ed ebbi l'im-

pressione che ci fosse in corso una qualche festa del personale

ospedaliero in una sala lontana. Qualcuna delle infermiere che

correvano avanti e indietro aveva in testa degli stupidi cappellucci

dai colori vivaci, e la donna alla reception aveva una radio sul ban-

co, sintonizzata su Radio 2. Le consegnai l'appunto del medico e

indicai Fiona seduta su una panca, ma non parve molto impressio-

nata dalla faccenda. A quel punto mi resi conto che il dottore non

era stato poi così efficiente come avevo creduto, dato che aveva

scordato di telefonare per annunciare il nostro arrivo. Ci disse

di aspettare e che sarebbe arrivata subito un'infermiera a prender

nota di tutti i particolari. Aspettammo venti minuti ma l'infermie-

ra non comparve. Fiona mi tremava fra le braccia. Né io né lei

spiccicammo parola. Allora mi avvicinai di nuovo al banco della

reception per chiedere che succedeva. La segretaria disse, scusan-

dosi, che non avremmo atteso ancora a lungo.

Dieci minuti dopo si palesò un'infermiera che prese a fare

domande una dietro l'altra alle quali risposi, per lo più, io: Fiona

non ce la faceva. L'infermiera segnò le risposte su un taccuino.

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Parve arrivare prestissimo a una risoluzione e disse: "Seguitemi,

per favore". Mentre ci faceva da guida lungo un corridoio azzar-

dai una debole protesta: "Non mi sembra che ci siano molti me-

dici in giro".

Erano già passate le undici.

"C'è solo un medico di guardia, stasera. Deve farsi gravi e

non gravi, e perciò ha un sacco da fare. Ha cominciato con un

paziente in pessime condizioni. Una sfortuna boia, la notte di Ca-

podanno."

Non si capiva bene se la "sfortuna boia" fosse del paziente o

del personale sanitario, dunque non seppi come replicare.

Ci fece entrare in un cubicolo piccolo piccolo e senza finestre,

dove c'era un letto con le ruote e poco altro e andò a prendere

una camicia da notte per Fiona.

"Ecco cara. Riesci a mettertela su?"

"Forse è meglio che io esca," dissi.

"Lui può restare," disse Fiona all'infermiera.

Quando lei si tolse i vestiti per infilarsi il camicione, io mi vol-

tai verso la parete: non l'avevo mai vista nuda.

L'infermiera le prese la temperatura, il polso, e la pressione

sanguigna. Poi sparì. Un quarto d'ora dopo si presentò il medico

di guardia, un tipo dall'aria infastidita che tagliò corto con le pre-

sentazioni e appoggiò subito lo stetoscopio sul petto di Fiona.

"Di allarmante non c'è nulla," disse. Dopo di che le prese il

polso e buttò un occhio ad alcuni numeri segnati sulla cartella la-

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sciata a fianco del letto. "Mmh. Una brutta infezione polmonare,

a quel che vedo. Sarà bene che stia in ospedale per qualche gior-

no. Per il ricovero sento io l'équipe amministrativa; intanto vedia-

mo se si riesce ad avere una radiografia per stasera stessa: speran-

do che non ci sia una fila troppo lunga."

"Ha già fatto una radiografia," dissi io. Mi guardò con aria in-

terrogativa. "Non oggi, naturalmente. Qualche settimana fa. Il suo

medico Ä il dottor Campion Ä l'aveva mandata qui per fare una

radiografia."

"Chi era lo specialista?"

Io non me lo ricordavo.

"Il dottor Searle," disse Fiona.

"Cosa diceva la radiografia?"

"Non lo sappiamo. La prima volta che è tornata per gli esiti lui

non si presentò e la volta successiva Ä un paio di giorni fa Ä non

riuscivano a trovare la cartella clinica. Dicevano che era andata

perduta."

"Beh, magari adesso è di nuovo negli schedari, ma stasera non

possiamo metterci mano." Riappoggiò la cartella clinica sul letto.

"Do subito un cicalino all'assistente medico: sarà lei a mettersi in

contatto con il dottor Bishop per voi. E' il nostro nuovo interno, di

fresca nomina," spiegò a Fiona. "Sarà giù fra pochi minuti."

Detto questo, sparì, chiudendosi la tenda alle spalle. Fiona ed

io ci guardammo. Lei sorrise, coraggiosa.

"Oh, bene," disse. "Almeno pare che sul petto non ci sia nulla

da ridire."

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"Non ho mai pensato che ci fosse qualcosa da ridire sul tuo

petto," dissi. Non chiedetemi perché: so che la gente è incline a di-

re battutacce nei momenti critici, ma sicuramente non così stupide.

Eppure lei fece del suo meglio per ridere, e forse fu, in un certo

senso, una specie di svolta: un'ammissione finalmente esibita del-

l'attrazione fisica a cui mi ero sottratto in quelle ultime settimane.

Il momento passò presto.

Il dottor Bishop non tardò ad arrivare. Era giovane e squinter-

nato con pesanti borse sotto gli occhi e un'allarmante espressione

da suonato, da psicotico. Mi parve uno che non dormiva da trenta

ore o più.

"Ok. Ci siamo scambiati due chiacchiere, di sopra, con la so-

rellina," disse, "e abbiamo deciso che la cosa migliore sarebbe tro-

vare un letto il più presto possibile. Questa notte c'è il pieno e nel

pronto soccorso avremo bisogno di tutti i buchi disponibili, dun-

que quella sarà la soluzione migliore, per noi, e per voi pure. Ra-

diologia è intasata al momento; la radiografia la faremo domattina.

Sarà la prima cosa che faremo. Comunque, non appena sarà in

corsia, avrà la sua prima dose di antibiotici."

"Il fatto, però," dissi, "è che c'è questo gonfiore sul collo. Ci

chiedevamo se non si poteva avere qualcosa..."

"La cosa più importante da avere è un letto," disse il dottor

Bishop. "Quello sì che è difficile. Se troviamo un letto, siamo a

cavallo."

"Ci vorrà molto? E' da un po' che aspet..."

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"In questo posto e in questo momento, siamo in mano alla for-

tuna."

E con questo sconcertante commento, sparì. Un paio di minu-

ti dopo l'infermiera scostò la tenda e infilò dentro la testa.

"Tutto bene qui?"

Fiona annuì.

"Il personale sta festeggiando di sopra. Si beve qualcosa. Bibi-

te, naturalmente. Giusto per salutare l'Anno Nuovo. Mi chiedevo

se gradivate qualcosa."

Fiona ci pensò. "Un succo di frutta mi farebbe molto piacere.

Un succo d'arancia. Quel che c'è."

"Non mi pare che abbiamo molto succo d'arancia," disse dub-

biosa l'infermiera. "Vedo quel che posso fare. Una Fanta andreb-

be bene lo stesso?"

Le demmo a intendere che anche la Fanta andava bene, e poi

restammo di nuovo soli, e questa volta per un bel po'. Continuavo

a chiedere a Fiona come si sentiva: non mi veniva altro da dire.

Lei diceva che era stanca. Si lamentava solo di quello, che si sen-

tiva stanca. Non voleva muoversi, o mettersi a sedere: stava sdraia-

ta sul lettuccio, e mi teneva la mano. La stringeva forte. Pareva

terrorizzata.

"Perché ci mettono tanto?" Questa era l'altra opera di cesello

del mio repertorio conversativo. Poco prima di mezzanotte uscii

nel corridoio a vedere se stava succedendo qualcosa. Guardando-

mi intorno alla ricerca di una faccia già nota, scorsi in lontananza

il medico di guardia. Stava andando di gran carriera verso la re-

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ception. Lo rincorsi gridando "Scusi", ma a quel punto s'imbatté

in una squadra di infermiere che spingevano un lettino con sopra

un paziente privo di coscienza. Rimasi ad aspettare a debita di-

stanza mentre lui le interrogava. Risultava che il paziente, trovato

mezzo morto in un'auto, era stato appena portato in ospedale.

Sentii parlare di intossicazione da monossido di carbonio; poi ci

fu un rapido scambio di convinte osservazioni a bassa voce sulle

sue possibilità di sopravvivenza. Non avrei prestato grande atten-

zione a questa scena se, al passaggio del lettino, non avessi intra-

visto il volto del paziente notandovi dei tratti, non so come, fami-

liari. Per un attimo fui assolutamente certo d'aver già visto quel-

l'uomo da qualche parte. Ma poteva ben essere una sensazione er-

ratica Ä magari era qualcuno di cui, qualche volta, avevo incrocia-

to lo sguardo per strada Ä e presto me ne dimenticai, ma proprio

allora mi sentii battere sulla spalla e mi ritrovai dinanzi alla faccia

raggiante dell'infermiera che diceva: "Mr Owen? Ho buone noti-

zie per lei".

Dapprima non intesi il senso di quelle parole, ma non appena

la mia mente tornò gradualmente a mettere a fuoco la situazione

tornando a Fiona e all'urgente ricerca di un letto, mi lasciai andare

anch'io a un disarmato sorriso di sollievo. Che però si contrasse

subito in una rigida smorfia quando mi resi conto che l'infermiera

stava soltanto cercando di piazzare nelle mie mani tese due bic-

chierini di plastica.

"Ebbene sì, c'era ancora del succo d'arancia," disse. "E adesso

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stia a sentire." Dalla radio appoggiata sul banco della reception

veniva il rintocco delle campane del Big Ben che annunciavano

l'ora. "E' mezzanotte. Felice anno nuovo a lei, Mr Owen. Buona

fortuna."

 

 

 

 

 

 

Mark.

 

31 dicembre 1990.

 

Quando il conflitto armato con Saddam Hussein si profilò ine-

vitabile, Mark Winshaw decise di festeggiare l'avvenimento dan-

do, l'ultimo dell'anno, una festa con tutti i crismi. Di suo, amici

non ne aveva, ma riuscì lo stesso a calamitare più di un centinaio

di persone, in parte attratte dalla promessa di pavoneggiarsi gli

uni con gli altri e in parte dai racconti che giravano sulla bizzarra

forma di ospitalità per cui la casa di Mark a Mayfair andava famo-

sa. C'era un manipolo di politici, un po' di gente del giro dei me-

dia (compresi i cugini Henry e Hilary), e qualche celebrità, ma il

grosso della lista degli invitati era costituito da uomini di mezza

età che per grigiore, grevità e panze in bella mostra nessuno

avrebbe detto fossero fra i più ricchi e potenti capitani d'industria

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e di commercio. Mark vagava fra i capannelli di persone, ferman-

dosi di tanto in tanto a salutare, talora persino a scambiare due

parole, ma per lo più se ne stava discosto e imperscrutabile come

sempre. Nel frattempo la sua giovane e affascinante moglie tede-

sca (si era risposato da poco) era così presa a intrattenere gli ospiti

che non la si vide parlare col marito neppure una volta in tutta la

serata. L'atmosfera era giocosa, ma Mark non partecipò di quella

diffusa ilarità. Bevve pochissimo; ballò una volta sola; e anche

quando sorprese un gruppo di modelle fare a turno nel gettarsi

l'un l'altra dentro la piscina del seminterrato, si limitò a guardarle

da lontano, senza scomporsi un pelo.

Non c'era nulla di insolito in tutto ciò: chi conosceva Mark era

abituato a questa sua riservatezza. Non si stava divertendo, questo

era poco ma sicuro; del resto è probabile che non avesse imparato

mai a divertirsi, e di certo non si sarebbe mai e poi mai lasciato an-

dare. Stare sempre all'erta era una delle condizioni della sua ric-

chezza. Alle dieci e mezza, per pura routine, salì al piano superiore

a controllare gli impianti di sicurezza. Accanto all'unico letto della

stanza da letto padronale (letto a una piazza, sia detto per inciso),

s'apriva una porta che dava in una stanzetta senza finestre con una

parete di schermi televisivi e una consolle di comandi. Accese pa-

zientemente i monitor, uno alla volta, e andò alla ricerca di eventua-

li irregolarità. La sala da pranzo, le cucine, la serra, la piscina, le ca-

mere da letto, gli ascensori. Lo studio.

Se di fronte a quanto vide nello studio ebbe un soprassalto o

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entrò in stato di agitazione, non furono certo i suoi occhi a rivelarlo.

Guardò più da vicino, semmai avesse mal interpretato il senso del-

l'immagine. No. Era proprio così: un uomo in smoking bianco era

chino sulla scrivania. In qualche modo era riuscito a forzare la ser-

ratura, e ora una gran quantità di documenti occupava, distesa, tut-

ta la larghezza della scrivania; l'uomo aveva con sé una videocame-

ra e stava facendo una lenta panoramica su tutta la scrivania, im-

pressionando il contenuto di ciascun documento.

Quando ebbe finito, rimise gli incartamenti dov'erano e infilò la

minicamera dentro la gamba dei pantaloni. Si guardò intorno con

fare furtivo, poi verso l'alto, ma non s'accorse della telecamera, na-

scosta dietro una lampada a muro, che stava seguendo ogni suo

movimento. Fu allora che Mark lo riconobbe. Era Packard.

Mark uscì dalla sala monitor e scese con l'ascensore, a pianter-

reno vagliando, fra sé e sé, impassibile, la novità. Era in collera, ma

non sorpreso. Si aspettava che succedesse qualcosa del genere: ci si

aspetta sempre che succeda una cosa così. E in un certo senso, qua-

drava tutto: Mark se ne convinse quando si rammentò d'un piccolo

dettaglio: la prima volta che lo aveva visto, Packard aveva una vi-

deocamera in mano.

 

 

 

1983-1990.

 

Graham era uscito dal college con i suoj ideali intatti, ma sette

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anni dopo, il suo radicalismo di studente era, alla prova dei fatti,

una cosa del passato: occupava infatti una posizione dirigenziale

in seno alla Midland Ironmaster, un'azienda che produceva utensi-

leria metalmeccanica di precisione per il mercato internazionale e

aveva sede appena fuori Birmingham. Aveva una casa di proprietà,

una moglie e un'auto della società; passava una buona parte del-

l'anno all'estero a spese dei propri padroni ed era tenuto in gran

considerazione da alcuni degli imprenditori e uomini d'affari più

influenti d'Inghilterra. La sua carriera aveva tutta l'aria d'essere

ben programmata e ancor meglio avviata; ma se i colleghi del con-

siglio d'amministrazione avessero saputo da cosa era segretamente

ispirata, sarebbero certamente rimasti di stucco.

Subito dopo la laurea era venuto a Birmingham per assumere la

responsabilità della programmazione di un piccolo cinema d'essai

che fallì pochi mesi dopo il suo arrivo, nel bel mezzo d'un ciclo de-

dicato a John Cassavetes. Graham firmò per il sussidio di disoccu-

pazione e restò senza lavoro per diversi mesi, finché uno dei suoi

nuovi compagni di stanza non si sposò e gli chiese se voleva realiz-

zare un video del matrimonio. Il prodotto fu considerato di così al-

to valore professionale che Graham decise di metter su un'impre-

sina autonoma sfruttando il programma thatcheriano di facilitazio-

ni fiscali, dapprima solo nell'ambito dei matrimoni, poi aprendo ai

video promozionali. L'immagine di visionario sovversivo che Gra-

ham aveva di sé era seriamente compromessa ma il danaro faceva

comodo e la coscienza la salvava lavorando gratis per il Partito la-

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burista e per cooperative, sindacato e gruppi femminili della zona.

Passava le serate immerso fra copie e copie di riviste cinematogra-

fiche come "Screen", "Tribune", "Sight and Sound" e "The Mor-

nirig Star", e sognava il documentario che un giorno avrebbe rea-

lizzato: un capolavoro che avrebbe messo a frutto le più strabilianti

risorse del cinema per mettere a nudo una volta per tutte e senza

pietà le trame del capitalismo mondiale. Sognava, più in particola-

re, di fare un film sul mercato delle armi, un tema che richiedeva un

taglio politico alla Ken Loach o alla Frederick Wiseman ma con un

plot scoppiettante e la trascinante semplicità di una pellicola di Ja-

mes Bond.

Pareva tutto così lontano; e invece Graham avrebbe avuto la

sua occasione molto prima di quanto immaginasse, e attraverso

circostanze inaspettate. La Packard Promos Ä così si presentava

ora la società individuale di Graham Ä fu contattata dalla Midland

Ironmaster nella primavera del 1986. Fu il contratto più impor-

tante che gli fosse mai stato offerto: volevano un video di trenta

minuti che illustrasse tutte le fasi del loro processo di produzione.

Il budget era, al confronto coi precedenti, cospicuo e Graham sta-

va girando con un nastro ad alta definizione e suono stereofonico.

Graham seguì la scaletta meticolosamente e quando presentò un

premontaggio del film ai dirigenti dell'azienda gli fu riservata

un'entusiastica accoglienza. Seguì un'animata discussione che lo

vide bersagliato di domande sulla confezione e sulla distribuzione

del prodotto finito. Erano alla ricerca di idee. Ebbe presto la netta

sensazione di avere a che fare con dei principianti, che parevano

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fin troppo impressionati dalle proposte di routine che egli veniva

facendo. Il giorno dopo, il direttore generale, un tal Mr Riley, lo

invitò nel suo ufficio per offrirgli di entrare a far parte dell'azien-

da come responsabile dell'area marketing. Graham non aveva al-

cuna intenzione di fare un passo in quella direzione e, con molto

garbo, rifiutò l'offerta.

Due giorni più avanti accadde qualcosa che lo indusse a cam-

biare atteggiamento. In vista del montaggio definitivo stava girando

alcune sequenze integrative degli interni della fabbrica, quando ap-

parve Mr Riley in compagnia di un elegante signore con la faccia da

topo che pareva esser li per una visita guidata agli ultimi macchina-

ri. Quando videro Graham con videocamera alla mano, gli si avvi-

cinarono e Mr Riley gli chiese se non gli dispiaceva sospendere il

suo lavoro per qualche tempo: dietro personale sollecitazione Ä

era chiaro Ä del suo ospite. Fu allora che, da vicino, Graham lo ri-

conobbe, nonostante fossero passati alcuni anni da quando lo ave-

va visto in fotografia su una rivista dove si parlava del traffico ille-

gale d'armi in Sudafrica.

"Va bene," disse rimettendo il tappo salva-lenti sull'obiettivo.

Quindi stese la mano. "Graham Packard della Packard Promos."

Quel tale gli prese la mano e gliela strinse, ma senza convinzio-

ne. "Mark Winshaw, della Vanguard Import Export."

"Molto piacere di conoscerla." Si voltò verso Mr Riley. "Un

nuovo contratto in vista?" chiese blandamente.

Mr Riley gonfiò il petto e disse, con un misto di orgoglio e os-

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sequio: "Il principio di un lungo e prosperoso rapporto, spero".

In quel preciso istante Graham prese molto rapidamente diver-

se decisioni. Se la Ironmaster stava facendo affari con Mark Win-

shaw, voleva solo dire che stava per mettere le sue macchine,

consapevolmente o meno, al servizio della produzione di armi,

magari in Iraq dove la militarizzazione faceva passi da gigante,

più che in qualsiasi altro paese del Medio Oriente. Stando all'ac-

cenno di Mr Riley, il contratto suonava corposo e a lungo termi-

ne. Se lui avesse avuto un posto in quella società, avrebbe avuto

modo di seguire gli sviluppi della collaborazione, e magari di co-

minciare a stabilire dei contatti: insomma, sarebbe stato in grado

di penetrare dentro quella rete d'affari che era, di fatto, il tema

principe del suo film, e che sino ad allora gli era sembrata com-

pletamente inaccessibile.

E così, quella sera, prima di tornare a casa, chiese di vedere Mr

Riley e gli disse, fra la sorpresa e il piacere di quest'ultimo, che ave-

va riconsiderato l'offerta e avrebbe volentieri accettato il posto nel-

l'area marketing. E nel giro di due anni si rivelò un membro così

entusiasta della squadra da guadagnarsi velocemente una promo-

zione e nuove responsabilità, indi il passaggio dal marketing alla

programmazione, dalla programmazione all'espansione, e, nel

1989 (poco dopo il suo matrimonio) raggiunse l'apice della sua car-

riera alla Ironmaster quando fu invitato a rappresentare l'azienda

alla prima Fiera internazionale dell'industria bellica a Baghdad,

aperta nell'aprile di quell'anno, il giorno del compleanno di Sad-

dam Hussein.

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Nel frattempo, non appena Mr Riley e Mark Winshaw lasciaro-

no le officine, lui prese la macchina da presa e salì di corsa al primo

piano, nella sala riunioni, da cui si godeva un'ampia vista sul par-

cheggio auto e sul cortile d'ingresso. Fortunatamente era vuota.

Si accucciò in modo tale da non essere visto e, col solo obiettivo

puntato a scrutare oltre il davanzale della finestra, zoomò sui due

uomini, cogliendoli nell'atto di parlottare e di stringersi la mano ac-

canto alla Bmw rossa di Mark.

Aveva già cominciato a lavorare al suo capolavoro.

 

 

 

 

1990.

 

"La base di Qalat Sale!,," diceva Graham, "conteneva dodici

hangar sotterranei di cemento armato tali da ospitare almeno due

dozzine di aeroplani, che decollavano da una rampa sotterranea, afre-

ni tirati e bruciatori accesi."

A sentirla uscire dai microfoni, la sua voce gli parve fiacca e

molto poco convincente. Del resto si trattava solo di un commento

di prova, per consentirgli di sincronizzare parole e immagini. A

film finito, avrebbe impiegato un attore, uno noto per le sue sim-

patie di sinistra, e dalla voce stentorea, autorevole. Magari Alan

Rickman, o Antony Sher. Cosa che, ovviamente, sarebbe stata pos-

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sibile solo se fosse riuscito a convogliare sul progetto consistenti

somme di danaro, ma su quel fronte cominciava a nutrire un certo

qual ottimismo. I colloqui preliminari con Alan Beamish, responsa-

bile dell'attualità presso una della più grosse compagnie televisive

indipendenti, erano stati incoraggianti: finché avesse avuto un po-

sto, aveva detto Beamish, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo po-

tere per sostenere quel film.

Stava facendo buio. Graham accese la luce e tirò le tende. La

sala di montaggio Ä sistemata nella camera da letto di servizio della

casa di Edgbaston Ä era proprio sopra la cucina e da li sentiva Joan

che si muoveva a pian terreno, dando gli ultimi tocchi alla cena.

"La pista di decollo di tre chilometri," diceva la voce registrata,

"era praticamente invisibile, costruita com'era dietro terrapieni di

sabbia argillosa del deserto, e si riusciva a distinguere solo a distanza

ravvicinata."

 

 

 

 

Aprile 1987.

 

Mentre la jeep li portava da Qalat Saleh al sito dell'esercitazio-

ne, il generale iracheno aveva chiesto a Mark cosa ne pensava.

"Non male," disse Mark. "Anche se gli acquartieramenti dell'e-

quipaggio mi sono sembrati piuttosto vulnerabili."

Il generale alzò le spalle. "Non si può avere tutto. Gli uomini si

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rimpiazzano più facilmente delle macchine."

"Crede che quelle porte di sicurezza siano sicure?"

"Pensiamo di sì," disse il generale. Rise cingendo Mark con un

braccio. "Eh lo so, lei voleva che le comprassimo dagli inglesi per-

ché erano molto più care."

"Per carità. C'è che io sono un patriota. Tutto qui."

Il generale rise di nuovo, più forte ancora. Con gli anni era ve-

nuto apprezzando il senso dell'umorismo di Mark. "Lei ragiona al-

l'antica," lo stuzzicò. "Questi son tempi all'insegna dell'internazio-

nalismo. E queste basi lo testimoniano. Camere di compressione

svizzere, generatori tedeschi, porte italiane, sistemi di comunicazio-

ne inglesi, hangar francesi. Cosa c'è di più cosmopolita?"

Mark non rispose. Gli occhi erano nascosti dietro occhiali da

sole a specchio che riflettevano solo deserto.

"Un patriota!" disse il generale ridacchiando ancora della bat-

tuta.

L'esercitazione fu rumorosa ma gratificante. Stavano a guardare

da un bunker scavato nella sabbia mentre l'obiettivo, a cui era stata

conferita la forma approssimativa di una fila di carri armati iraniani,

saltava in aria con assordanti esplosioni di proiettili lanciati dai 155

Gct posti a più di venti chilometri di distanza. I cannoni stavano

dando prova di una precisione superiore alle sue stesse aspettative e

quando vide negli occhi del generale veri lampi d'entusiasmo, capì

che la contrattazione sarebbe stata una passeggiata. Erano entrambi

d'umore eccellente mentre l'autista li riportava a Baghdad.

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"Sa, non è che il nostro leader non apprezzi il vostro paese," dis-

se il generale tornando al tema del patriottismo di Mark. "C'è che

fate di tutto per impedirgli di avere piena fiducia in voi. Ne

vien fuori una specie di amore-odio, una cosa così. Il nostro eser-

cito studia ancora sui manuali della vostra scuola militare. Conti-

nuiamo a mandare i nostri uomini a formarsi nelle vostre basi aero-

nautiche, e ad affidarci all'esperienza del vostro Special Air Service.

Non c'è scuola militare che batta quella inglese. Lo posso ben dire

io stesso: ero a Sandhurst. Al genio militare dovrebbero però ac-

compagnarsi intenzioni onorevoli a livello diplomatico."

Prima di far ritorno al centro di Baghdad, deviarono al labora-

torio chimico di Diyala a Salman Pak, dove era stato aperto uno sta-

bilimento per la produzione di gas nervino che passava però come

un centro di ricerca universitaria. Mark era alla sua terza o quarta

visita, ma al passare per le entrate, sorvegliatissime, fu, una volta

di più, sopraffatto dalle dimensioni e dall'efficienza dell'operazione.

"L'ingegneria tedesca è la migliore del mondo, non ci sono

dubbi," disse il generale. "E sa perché? Perché non sono una na-

zione di opportunisti. Ci sono persone in Germania che credono

veramente in ciò che stiamo cercando di fare in Iraq. E' una lezione

di cui gli inglesi dovrebbero tener conto. Lei e io non siamo abba-

stanza vecchi per rammentarci come andavano le cose prima del

1958, quando quasi tutti gli armamenti venivano dall'Inghilterra,

ma per un accordo di tal fatta si può ben provare della nostalgia.

Quando gli affari si giocano clandestinamente, a porte chiuse, è

la dignità che vien meno. Noi vogliamo degli alleati, mi spiego? Vo-

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gliamo dei rapporti aperti. E invece voi non avete in mente altro

che il fatturato."

Mentre procedevano nella visita, il generale spiegò a Mark co-

me mai l'aveva riportato al laboratorio. Preoccupati per gli effetti

collaterali delle sostanze altamente volatili, volevano trovare un for-

nitore che installasse un nuovo impianto di depurazione.

'Mi fa molto piacere sapere che avete una così alta considera-

zione della protezione ambientale," disse Mark.

L'amico parve gradire questa battuta più ancora di quella sul

patriottismo.

"Beh, dobbiamo offrire ai nostri tecnici le migliori condizioni di

lavoro possibili," disse. "Dopo tutto, stanno facendo ricerche im-

portantissime nell'ambito della scienza veterinaria."

Tornando all'automezzo, come a illustrare il punto, fece passa-

re Mark accanto alla casa degli animali. Per qualche tempo la con-

versazione fu sommersa dall'ululare dei cani che sarebbero stati uti-

lizzati per sperimentare l'efficacia dei componenti del gas nervino.

Un deposito di rifiuti lì vicino era strapieno dei cadaveri dei loro

predecessori.

 

 

 

 

Maggio 1987.

 

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Mark non dovette fare grandi ricerche per trovare l'impian-

to di depurazione. Si rivolse a un vecchio industriale tedesco

che aveva già mandato delle attrezzature al laboratorio di Sal-

man Pak e s'era rivelato un fornitore affidabile e tempestivo.

A Mark era sempre piaciuto fargli visita nella sua casa nella val-

le del Reno, dove i contratti venivano firmati in uno studio son-

tuoso sotto un immenso ritratto di Hitler in cornice dorata, e il

tè veniva servito dalla giovane bellissima figlia. Quel giorno,

l'industriale aprì un armadietto chiuso a chiave che conteneva

un registratore a nastro, collegato a un altoparlante montato

dentro un mobile-radio degli anni trenta, e, come segno di spe-

ciale favore, offrì a Mark un intrattenimento in più. Era una vo-

ce familiare quella che, partito il nastro, si udì tutt'intorno: per

dieci minuti buoni il Fùhrer in persona tuonò, nel più tronfio

stile oratorio, attraverso i bovindo, oltre i verdi prati estivi,

giù sino alla luminosa riva del fiume.

"Mi ricordo ancora dov'ero il giorno in cui ascoltai questo di-

scorso," disse l'industriale, quando finì il nastro. "Sedevo nella cu-

cina di mia madre. Le finestre erano aperte. La luce giocava sul ta-

volo. L'aria era piena di speranza ed energia. Un periodo favoloso.

Ebbene, perché, di tanto in tanto, non concedere a un vecchio l'op-

portunità di immalinconirsi un po' pensando alla giovinezza? C'è

gente a cui fa quell'effetto una poesiola romantica o una canzone

sentimentale. A me lo farà sempre quella voce meravigliosa." Ri-

chiuse l'anta dell'armadietto, con cura e a chiave. "Saddam Hus-

sein è una brava persona," disse. "Mi fa sentire ancora giovane.

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E' un onore dargli una mano. Ma non credo che lei possa capire:

lei è nato in un'epoca in cui i principi hanno cominciato a non con-

tare più nulla."

"Se con ciò abbiamo concluso il nostro affare, Herr..."

"Lei è un mistero per me, Mr Winshaw. Per me e per molti altri

che, per età, hanno servito il Reich e conoscono bene il nome della

sua famiglia da molto prima che lei comparisse alla nostra porta."

Mark si alzò in piedi e prese la sua valigetta. Sembrava poco in-

teressato all'argomento.

"So benissimo che cosa sta facendo Saddam Hussein in quel

cosiddetto centro di ricerca. So anche che il suo primo obiettivo sa-

rà Israele. Ed è proprio per questo che lo sostengo, come può im-

maginare. Ridarà corso a un processo di purificazione che ci hanno

impedito di portare a termine. Lei mi intende, Mr Winshaw, non è

vero?'

"E' mjo costume," disse Mark, "non fare domande sugli usi

che..."

"Suvvia, non faccia la mammola. Non ce n'è bisogno. Lei è un

ingegnere specializzato: un ingegnere chimico. So benissimo che lei

ha dato un decisivo contributo a una delle più grosse aziende del

settore per fornire all'Iraq grosse quantità di Zyklon B, per esem-

pio. Il processo di purificazione di cui parlavo dipende dalla libera

circolazione di queste merci, e invece le nostre leggi, poste sotto as-

surdi vincoli internazionali, ci proibiscono di esportarle. E così, iro-

nia del destino, è attraverso uomini come voi Ä cacciatori di taglie Ä

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che manteniamo vivi i nostri ideali." S'aspettò una reazione da par-

te di Mark, ma il volto di quest'ultimo restò impassibile. "Lei sa,

vero, dove è prodotto lo Zyklon B?"

"E' naturale," disse Mark, che aveva visitato la fabbrica più d'u-

na volta.

"Mi domando se le è familiare la storia della fabbrica. Ha ri-

schiato di essere distrutta dai bombardamenti alleati nel 1942.

Un aereo inglese fu inviato in ricognizione sul posto: la missione

era segreta ma la Luftwaffe fu allertata e lo sfortunato pilota e il

suo compagno furono abbattuti. Le dice niente tutto ciò?"

"Temo di no. Lei dimentica che è accaduto molto tempo fa.

Prima che nascessi."

Il vecchio lo squadrò negli occhi ancora per un po' e poi tirò la

fune del campanello dietro la porta.

"Proprio così, Mr Winshaw. Ma come ho detto, per noi lei re-

sta un mistero." Mark stava già per andarsene quando aggiunse:

"Se desidera vederla, mia figlia è in biblioteca".

 

 

 

Dicembre 1961.

 

Per sua madre, Mark era diventato un mistero molto prima. Ri-

solverlo non avrebbe portato a nulla, perciò non aveva opposto al-

cuna resistenza quando lui le aveva comunicato Ä parecchie setti-

mane dopo essere passato ai fatti Ä che aveva deciso di abbandona-

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re il corso di laurea in legge per passare a ingegneria chimica. La

lettera in cui gliene dava notizia fu una delle ultime che ricevette

da lui. Continuare a fingere che madre e figlio avessero ancora

qualcosa da dirsi l'un l'altra era ormai diventato una recita priva

di senso: e nel giro di un paio d'anni la distanza fisica avrebbe sca-

vato ancor più in profondità l'abisso dell'incomprensione e dell'in-

differenza.

L'invito al cinquantesimo compleanno di Mortimer era stata

per Mildred una delle rare occasioni in cui gettare un rapido sguar-

do dentro il benessere della famiglia Winshaw. Per la più parte de-

gli anni della sua lunga vedovanza la famiglia parve averla dimen-

ticata e, al di là delle tasse scolastiche e universitarie di Mark,

non s'era certo sprecata sul fronte degli aiuti finanziari. Era quasi

arrivata ai cinquant'anni e si dava ancora da fare per sopravvivere

con le modeste entrate del suo impiego come segretaria di un com-

merciante di vini americano con sede a Londra. Un giorno lui le

annunciò la sua intenzione di lasciare gli affari e tornare in Florida,

e lei si preparò, rassegnata, alla prospettiva di tante tristi settimane

in giro per agenzie di collocamento, quando lui la lasciò letteral-

mente di stucco chiedendole se voleva seguirlo in America, non

in qualità di segretaria, ma come moglie. Le ci vollero tre giorni

per riprendersi dallo shock; e infine accettò.

Vissero senza farsi mancare nulla in una casa sulla spiaggia ap-

pena fuori da Sarasota fino alla morte. Che li colse entrambi sere-

namente, a due mesi di distanza l'uno dall'altro, nell'inverno del

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1986. Dopo aver lasciato l'Inghilterra Mildred non aveva mai più

scambiato una parola con il figlio. Ebbero la loro ultima conversa-

zione a Oxford, a colazione, e anche allora fu difficile per tutti e

due mantenere un tono civile. Lei aveva finito con l'accusare Mark

di disprezzarla.

"Disprezzo' mi pare un po' eccessivo," disse lui. "C'è che pro-

prio non riesco a farmi una ragione di quella specie di vita che con-

duci."

Era un commento che di tanto in tanto le tornava alla memoria:

magari mentre sedeva col marito in veranda, dopo cena, guardando

l'oceano e non riuscendo a immaginare un posto in cui vivere mi-

gliore di quello.

 

 

 

1976.

 

Dopo che sua madre partì per l'America, non si parlarono

più, ma Mark una volta Ä questo sì Ä la vide. Fu quando egli co-

minciò i suoi traffici con l'Iraq, al tempo del suo primo incontro

con un uomo ruvido, molto orso, di nome Hussein che rappre-

sentava il "Ministro dell'industria" e pareva avere molta fretta

di procurarsi attrezzature specializzate per la costruzione di una

grande fabbrica di pesticidi. Mark esaminò le sue esigenze e s'av-

vide subito che diversi composti che quello intendeva produrre Ä

compresi Demeton, Paraoxon e Parathion Ä si potevano facil-

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mente trasformare in gas nervino. Ciononostante non aveva nulla

in contrario a far sì che il progetto fosse presentato a dei poten-

ziali fornitori come parte di un programma agricolo, e promise di

mettere Hussein in contatto con un'azienda americana in grado

di fornirgli le enormi vasche a prova di corrosione necessarie

per miscelare i prodotti chimici.

Furono inviati a Baghdad dei rappresentanti della società a cui

fu imbastita una storia convincente sulle pessime condizioni in cui

versavano i coltivatori iracheni, impotenti di fronte al flagello delle

locuste del deserto. Costoro tornarono a Miami e si accinsero a

stendere progetti grafici di un impianto pilota grazie al quale i la-

voratori iracheni Ä che non avevano alcuna esperienza in quel pe-

ricoloso settore Ä potessero acquisire la competenza necessaria a

trattare sostanze tossiche. Ma prima di avere il tempo di completa-

re i progetti ricevettero, attraverso Mark, la notizia che Hussein

non aveva alcuna intenzione di installare un impianto pilota. Vole-

va, invece, avviare subito una produzione a pieno ritmo. La cosa

suonò inaccettabile alle orecchie degli americani, zelantissimi a

proposito di sicurezza, e Mark, a cui spettavano sei milioni di dol-

lari di commissione sull'affare nel suo complesso, fu costretto a in-

tervenire e a preparare un incontro fra le due parti in una sala con-

ferenze dell'Hilton di Miami.

L'incontro si rivelò fallimentare. Mark era in piedi accanto

a una finestra e guardava giù verso la spiaggia ascoltando in

silenzio il franare dei negoziati fra accuse di propositi occulti

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da una parte e di eccessiva remissione alle norme dall'altra.

Senza mai sollevare lo sguardo dalla stessa striscia di sabbia

argentata, udì gli americani chiudere uno dopo l'altro le loro

cartellette e andarsene. Udì Hussein brontolare e lamentarsi

che "Quelli lì hanno bisogno di una visita psichiatrica. Hanno

buttato via l'occasione di fare un sacco di soldi". Mark non

replicò. Era il solo, nella sala, a non aver perso le staffe. Il da-

naro gli avrebbe fatto comodo, ma non voleva scompigli.

Avrebbe provato coi tedeschi.

Il giorno prima era andato in macchina verso il Golfo passando

per le Everglades. Una mattinata di guida l'aveva fatto arrivare a

Naples, lungo il Tamiami Trail con i suoi villaggi indiani ricostruiti

come attrazione turistica, le gite in idroscivolante e i caffè ai mar-

gini delle strade dove servivano zampe di rospo e panini con carne

d'alligatore. Da li prese l'autostrada verso nord passando per Boni-

ta Springs e Fort Myers, e arrivò nei dintorni di Sarasota nel tardo

pomeriggio. Quantunque non l'avesse mai utilizzato per inviare

missive, l'indirizzo di sua madre l'aveva mandato a memoria. Ma

neanche in questa occasione voleva parlarle. Non voleva neppure

porsi la domanda di come mai fosse arrivato in quel posto. Una vol-

ta che ebbe trovato la casa, fece altri ottocento metri lungo la strada

oceanica e prese una stradina sterrata che portava alla spiaggia.

Parcheggiò in fondo alla strada, da dove la casa si vedeva piuttosto

bene.

Quel pomeriggio il marito era a far spese in città, ma il caso

volle che Mildred fosse in giardino. Aveva in mente di sedersi

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fuori a leggere una rivista, o magari a cominciare una lettera

per la nipote che stava a Vancouver, ma poi vide che il giardinie-

re, a cui era stato affidato il compito di strappare le erbacce, ave-

va fatto, come al solito, un pessimo lavoro e perciò si ritrovò pre-

sto in ginocchio a strappare dalle radici gli esemplari più tenaci.

Quasi subito notò l'uomo appoggiato al cofano dell'auto che la

fissava. Si rialzò e lo guardò, riparandosi gli occhi con la mano

tesa. Lo riconobbe, ma non si mosse, non fece un gesto, non

lo chiamò per nome; si limitò a rimandargli un eguale sguardo

impassibile. Dove avrebbero dovuto esserci gli occhi, c'erano co-

me della cavità, profonde, vuote. Più da vicino, si sarebbe resa

conto che lui portava degli occhiali da sole a specchio che riflet-

tevano solo l'azzurro intenso del cielo. Ma Mildred restò dov'era,

e dopo un minuto o due tornò a inginocchiarsi riprendendo a

strappare erbacce. Quando tornò a sollevare lo sguardo, l'uomo

non c'era più.

 

 

 

Settembre 1988.

 

Mentre le ricerche di Graham progredivano, egli sentì il biso-

gno di sapere qualcosa sul background famigliare di Mark, e si ri-

cordò che c'era qualcuno che forse avrebbe potuto dargli una ma-

no. il nome di Michael Owen era scomparso dalle pagine culturali

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dei giornali negli ultimi anni, i suoi romanzi, ormai, non si trovava-

no più nelle librerie, e il suo libro sulla famiglia Winshaw non era

stato ancora pubblicato. Forse di quel progetto non aveva fatto più

nulla; ma era anche possibile Ä così ragionò Graham Ä che ci stesse

ancora lavorando, e se le cose stavano davvero così, era probabile

che egli avesse avuto accesso a una gran quantità di informazioni

riservate (certo, senza sapere che farne, dato che, persino in quei

pochi scambi di battute che avevano avuto, era emersa abbastanza

chiaramente la sua totale sprovvedutezza politica). In ultima anali-

si, valeva pur la pena di fare una telefonata.

Innanzitutto chiamò Joan. Non erano più in contatto da due o

tre anni, e non era neanche sicuro che lei vivesse ancora a Sheffield:

rispose al terzo trillo e con una voce indubbiamente felice dell'im-

provvisata. Sì, faceva ancora lo stesso lavoro. No, non affittava più

camere a studenti. No, non s'era sposata e non aveva messo su fa-

miglia, niente di tutto ciò. Sì, poteva certamente metterlo in contat-

to con Michael, anche se non aveva il suo attuale indirizzo. Era buf-

fo: stava proprio pensando di chiamare Graham, nel giro d'una set-

timana o due, perché, alla fine del mese, ci sarebbe stata una con-

ferenza a Birmingham e si domandava se a lui avrebbe fatto piacere

rivedersi per una bevutina o che altro. In memoria dei bei tempi

andati. Graham rispose che sì, gli andava. Perché no? In memoria

dei bei tempi andati.

Era strano però, come entrambi ebbero modo di constatare do-

po, che in tutti quei "bei tempi andati" in memoria dei quali ave-

vano concordato di reincontrarsi non c'era stata una sola sera finita,

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chini in avanti, a baciarsi attraverso il tavolo o sdraiati sul divano,

avvinghiati, a slinguare l'uno nella bocca dell'altro o rovesciati sul

letto a far l'amore come null'altro contasse di più al mondo. E tut-

tavia tutto ciò accadde, in sequenza, quando Joan venne a trovarlo

a Birmingham. E accaduto che fu, Joan si scoprì curiosamente re-

stia a partire e a tornare alla sua casa, al suo lavoro, alla sua vita so-

litaria di Sheffield. E benché ci fosse infine tornata, dopo qualche

giorno di assenza non pagata (passati quasi tutti a letto con Gra-

ham), la prima cosa che fece fu di mettere la casa in vendita. Al con-

tempo cominciò a cercar lavoro nelle Midllands. Ci volle un po' di

tempo, perché non era facile trovar lavoro, neppure per una perso-

na con l'esperienza e le competenze diJoan, ma entro l'anno nuovo

riuscì a ottenere un posto come responsabile di un ricovero per

donne disagiate a Harborne, e andò a vivere da Graham, e un gior-

no di febbraio si presero delle ore di permesso per andare in comu-

ne, e così eccoli sposati: lui che aveva sempre creduto di essere il

tipo che non l'avrebbe mai fatto e lei che aveva cominciato a pen-

sare che fosse ormai troppo tardi per trovare qualcuno che la spo-

sasse.

E così la telefonata iniziale di Graham non era andata assoluta-

mente sprecata, anche se poi non riuscì mai a mettersi in contatto

con Michael. Pareva che fosse partito per una lunga vacanza: o for-

se non rispondeva più al telefono.

 

 

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1981.

 

Il matrimonio di Mark Winshaw e Lady Frances Carfax nella

cappella del St John's College, a Oxford, era stato un grande avve-

nimento, all'insegna dello sfarzo. La morsa della recessione attana-

gliava l'Inghilterra, ma pareva che ciò toccasse ben poco quei pri-

vilegiati membri dell'aristocrazia e del mondo commerciale che

parteciparono alla cerimonia e indi si ritrovarono nella residenza

di campagna della famiglia Carfax per una sontuosa festa che con-

tinuò alla grande (stando almeno alla cronaca mondana dei giorna-

li) sino alle quattro del pomeriggio successivo.

In realtà, la festa durò più a lungo del matrimonio.

Mark e Lady Frances avevano abbandonato i festeggiamenti in

prima serata ed erano volati a Nizza: da li arrivarono in taxi alla villa

di Mark in Riviera, dove cominciarono la loro luna di miele. Vi

giunsero poco dopo mezzanotte e dormirono fino all'ora di pranzo

del giorno seguente, quando Lady Frances prese in prestito una

delle auto di Mark per andare nel paese più vicino a comprare delle

sigarette. Non aveva fatto che poche centinaia di metri quando ci fu

una grande esplosione e la macchina prese fuoco, finendo fuori

strada e schiantandosi contro la roccia della montagna. La giovane

sposa morì sul colpo.

Mark era letteralmente disperato per la perdita. L'auto era una

Morgan Plus 8 decappotabile a quattro posti del 1962, blu notte,

una delle tre o quattro ancora in circolazione in tutto il mondo, e

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sarebbe stato impossibile rimpiazzarla. Si mise in contatto col cugi-

no Henry, il quale incaricò i servizi segreti di scoprire i responsabili,

ma non dovette attendere i risultati dell'indagine. Tre settimane

dopo un diplomatico iracheno lo contattò per organizzare un ren-

dez-vous in Cavendish Square. Da li si spostarono in una casa iso-

lata nella campagna del Kent. Una La Salle berlina convertibile,

biancastra, in ottime condizioni, era parcheggiata davanti all'in-

gresso

"E' sua," disse il diplomatico.

E gli spiegò che c'era stato un comico qui pro quo. Erano tutti a

conoscenza dei rapporti d'affari che Mark intratteneva sia con loro

che con gli iraniani: da un serio imprenditore se lo aspettavano. Ma

un informatore mal informato aveva riferito che Mark aveva ulte-

riormente sfruttato la sua posizione per far commercio di segreti

militari. Saddam era andato su tutte le furie quando era venuto a

saperlo e aveva ordinato un'immediata azione punitiva. L'informa-

zione s'era rivelata falsa: il vero colpevole era stato identificato e

prontamente eliminato. Loro potevano solo ringraziare il cielo Ä

disse Ä che il caso fosse intervenuto a risparmiare la vita di un uomo

innocente e di un amico del popolo iracheno che era tenuto nella

massima considerazione. Erano naturalmente consapevoli del dan-

no inferto alla proprietà e speravano che egli avrebbe accettato il

dono dell'auto come una testimonianza della loro intatta professio-

ne d'affetto e di stima.

Le formali espressioni di gratitudine di Mark adombrarono il

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ben più autentico fastidio che gli aveva procurato l'incidente. Il

matrimonio con Lady Frances gli sarebbe stato utilissimo. Aveva

una qual certa aspettativa circa il versante sessuale della faccenda

Ä anche se, a dire il vero, la poverina, in termini di immaginazione

e atleticità, non avrebbe retto il confronto con le prostitute dei cui

servizi veniva puntualmente omaggiato durante i suoi viaggi a

Baghdad Ä ma, cosa ben più importante, il padre di lei aveva ampi

contatti molto influenti nel mercato sudamericano, in cui egli era

ansioso di mettere radici. Con ogni probabilità li avrebbe potuti

utilizzare comunque, ma con la giovane moglie al fianco, prodiga

di sé e del suo fascino, sarebbe stato tutto più facile.

Soprattutto Mark trovava inaccettabile che qualcuno fosse

andato propalando menzogne sul suo conto ed era determinato

a prendersi la sua vendetta. Dopo parecchi mesi di sporadiche

ricerche era emerso che la spia era un fisico egiziano di punta

entrato da poco a far parte del programma nucleare iracheno.

Impaziente di ingraziarsi i suoi nuovi padroni, aveva ripetuto

quel misero pettegolezzo colto durante una conversazione fra

due colleghi; ma non s'era dato la pena di verificare se fosse

fondato o meno. Quantunque lo scoprire di essere stati mal in-

dirizzati avesse scatenato l'ira degli iracheni, il fisico era troppo

prezioso per essere soppresso, e la cosa fu messa a tacere.

Mark, però, era d'altro avviso. Sapeva che gli israeliani sarebbe-

ro stati più che soddisfatti se fosse stata offerta loro l'opportu-

nità di frustrare le ambizioni militari di Saddam, e qualche pa-

roletta sussurrata all'orecchio di una fidata conoscenza del

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Mossad bastarono a segnare l'infelice destino dell'egiziano.

Che si compì a Parigi, en route dal centro di ricerche sperimen-

tali a Saclay, dove i tecnici iracheni venivano usualmente prepa-

rati sotto il patrocinio di un programma di cooperazione nu-

cleare con la Francia. Si ritirò presto nella sua camera d'albergo

e la mattina dopo la femme de chambre trovò il suo corpo ai

piedi del letto straziato di percosse. Bastonare un uomo a morte

è un'operazione che richiede tempo, fa rumore e non si risolve

facilmente, e Mark restò sorpreso che avessero scelto quel me-

todo. Ciononostante, si concesse un sorriso interiore di soddi-

sfazione quando la sera dopo fu data la notizia alla radio israe-

liana; e quando udì il giornalista aggiungere che "i progetti ira-

cheni di acquisire una bomba atomica avrebbero subito un ar-

resto di due anni", sorrise di nuovo, giacché le sue fortune, do-

po tutto, non ne avrebbero verosimilmente sofferto.

 

 

 

Ottobre 1986.

 

"Allora raccontami qualcosa su questo Hussein," disse Henry.

Sedevano, lui e Mark, in uno stato di semicollasso postprandiale, ai

lati del camino dalla bella fiamma vivace in una sala privata del-

l'Heartland Club. Liquidate le due chiacchiere sulla famiglia

(non si andava mai per le lunghe con gli Winshaw) i due consangui-

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nei s'erano accesi due grossi sigari Avana.

"Cosa vuoi sapere?" domandò Mark.

"So che l'hai conosciuto di persona. Che hai fatto degli affari

con lui, e via dicendo. Che tipo è?"

Mark sbuffò meditabondo. "E' difficile dirlo, sai? Non si sbilan-

cia.

"Sì, però dammi retta," disse Henry piegandosi in avanti. "Ci

stiamo incamminando su un terreno molto delicato. Lui ci sta of-

frendo un assegno in bianco, a quel che vedo. Cannoni, aerei,

missili, bombe, proiettili: basta che dici una cosa e lui la vuole, e

se noi non saremo pronti a vendere, quello passerà ai francesi o ai

tedeschi, agli americani o ai cinesi. Non possiamo lasciarci sfug-

gire un'opportunità come questa. Non possiamo permettercelo.

Nelle esportazioni i conti continuano a non tornare, persino dopo

aver rabberciato alla meglio la baracca. Ma, sai, ci può essere

qualcuno pronto a puntare il dito se entriamo in contatti troppo

amichevoli con uno che si diverte a sparare scariche da duemila

volt sui prigionieri politici. Cosa che fa con molta disinvoltura, mi

pare."

"Voci maligne," disse Mark, disperdendo nell'aria il fumo del

sigaro con la mano. "Non ho visto nulla che le comprovi."

"Da' un'occhiata a 'sta roba, per esempio," disse Henry,

estraendo un opuscolo stazzonato dalla tasca del soprabito. "Ce

l'ha mandato" (lesse il nome sulla prima pagina) "il Sodi, è così

che si fa chiamare questa gente. I sostenitori della democrazia in

Iraq. Se vuoi saperlo, non è stata una gradevole lettura. Come ti re-

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goli con 'sta roba?"

Mark sbirciò l'opuscolo, a palpebre socchiuse. I dettagli gli era-

no per lo più familiari. Sapeva tutto sugli arresti arbitrari, sui raid

notturni, sulle roboanti accuse di dissidenza e di sovversione, di ap-

partenere all'organizzazione sbagliata o di partecipare alle assem-

blee sbagliate, di rifiutare l'iscrizione al partito Ba'ath o di aderire

all'ala sbagliata del Ba'ath. Era perfettamente a conoscenza delle

incredibili efferatezze che avevano luogo nel Dipartimento di pub-

blica sicurezza di Baghdad, dove i detenuti erano tenuti in isola-

mento per mesi o venivano fatti sdraiare sul pavimento di una cella

insieme ad altri cinquanta o sessanta prigionieri ad ascoltare, di

notte, le urla registrate dei torturati e, di giorno, quelle dal vivo.

E sapeva tutto anche sulla tortura: di come uomini e donne fossero

scorticati, bruciati, pestati e sodomizzati con manganelli e bottiglie;

di come fossero ustionati con ferri da stiro, o gli fossero tagliati via

occhi, orecchie, nasi e seni, o subissero scosse elettriche da fili ap-

plicati a dita, genitali e narici; e di come i torturatori si mettessero

maschere animali e svolgessero le loro mansioni con registrazioni di

bestie feroci; e di come i bambini fossero torturati dinanzi alle ma-

dri, e fossero infilati in sacchi chiusi pieni di insetti o gatti affamati;

di come uomini e donne fossero distesi a terra con i piedi appog-

giati a ceppi di legno e poi colpiti a manganellate sulle piante dei

piedi e costretti a camminare o correre su pavimenti bagnati di ac-

qua salata bollente. A Mark era già arrivato tutto alle orecchie: ra-

gion per cui si limitò a sbirciare l'opuscolo da sotto le palpebre soc-

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chiuse prima di restituirlo al cugino.

"Se vuoi che te lo dica, è tutta una esagerazione," disse. "Questi

gruppuscoli vogliono far proseliti: non si può prendere tutto quel

che dicono per oro colato."

"Dunque non credi che Hussein abbia a che fare con questa ro-

ba?"

"Beh, è un uomo di polso, perché negarlo?" disse Mark, mor-

dicchiandosi le labbra. "Di polso ma giusto: è così che lo descrive-

rei io."

"Un diamante grezzo, insomma?"

"Un diamante grezzo. Esatto."

"E cos'ha intenzione di fare con tutte 'ste armi?" chiese Henry.

"Dopo aver rimesso l'Iran al suo posto, intendo."

Mark rise, esasperato. "Henry, che cosa ci interessa quel che ha

intenzione di farci? Casomai ci sembrasse intenzionato a nuocere

sul serio, troviamo una scusa per attaccarlo e gli spazzoliamo via

tutto l'arsenale. E poi ricominciamo a vendere."

Henry soppesò la logica dell'argomentazione e trovò che non

faceva una grinza.

"Lasciamelo dire," continuò Mark, "non è da te perderti in so-

praffine sottigliezze in questioni come queste."

"Oh, io non c'entro," disse Henry. "E' il Ministero degli esteri

che ci preoccupa, e quel pappamolla di Howe. E lui che pesta i pie-

di e non vuol vendere niente di tutto questo ben di dio."

"E allora cosa succederà?"

"Beh, sulla base di quanto mi hai detto tu," disse Henry,

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sprofondando dentro la poltrona, "direi che per adesso ha vinto

il Ministero industria e commercio. Consiglierò che mandino

qualcuno a Baghdad entro i prossimi due mesi e che offrano

agli iracheni un accordo sostanzioso. Quanto gli han dato gli

americani?"

"Parecchi miliardi di dollari, credo: che però valgono solo per

cereali e consimili. Ufficialmente."

"Mmh. Io avrei pensato che potremmo arrivare a sette o otto-

cento milioni di sterline. Che te ne pare?"

"Mi pare bene. Torneranno utilissime."

"Presumo," disse Henry, spingendosi in avanti e guardando

Mark fisso negli occhi, "che Hussein possa verosimilmente mettere

le mani su questo danaro stasera stessa. Insomma la fiducia c'è, ma

noi vogliamo sapere che alla fine lui pagherà."

Mark ponderò attentamente la risposta: "L'Iraq ha delle buone

risorse naturali. E' ovvio che il danaro si volatilizza se lui continua a

spendere a questo ritmo: ma non dimenticare che ha anche un ric-

co vicino. Un ricco e vulnerabile vicino."

"Il Kuwait?"

Mark annuì.

"Credi che lo invaderebbe?"

"Non esiterebbe un secondo." Sorrise lasciando a Henry il tem-

po di assimilare l'informazione. "Ma siamo ancora lontani da que-

sta ipotesi," disse. "Chi è il fortunato che porterà la buona nuova a

Baghdad?"

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"Clark, probabilmente. Lo conosci?"

"Vagamente. Sembra un tipo decente."

"Un filo ad alta tensione, altroché," disse Henry. "Non siamo

per niente sicuri di cosa farne. Ma sta decisamente dalla nostra par-

te su questa robaccia." Appallottolò l'opuscolo lentamente. "Beh,

meglio darlo alle fiamme," disse e si protese verso il focolare.

"O altrimenti," disse Mark fermandolo appena in tempo,

"puoi passarlo a Hilary. Falle fare una delle sue celebri stronca-

ture."

Henry ebbe un attimo di esitazione.

"Buona idea," disse e se lo rinfilò in tasca.

 

 

20 gennaio 1988.

 

Erano quasi le sei di sera e tutti erano andati a casa, ma Gra-

ham era ancora seduto nel suo ufficio plumbeo e parcamente

ammobiliato alla Midland Ironmaster, in attesa che suonasse il

telefono. Al ricevitore era applicata una pulce. Negli ultimi

due anni aveva registrato una cinquantina d'ore di conversazioni

telefoniche, ma sapeva che non avrebbe potuto cavarne fuori più

di due minuti buoni, e, anche quelli, non era ancora riuscito a

montarli. Era cosa che andava fatta al più presto. Era già consa-

pevole di un inquietante squilibrio nel materiale che aveva rac-

colto per il suo film: troppo sonoro, troppe immagini fotografi-

che, pochissimo girato. Forse era tempo che cominciasse a ri-

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schiare davvero.

Stava aspettando una telefonata da un collega con una posizio-

ne di rilievo nell'industria metalmeccanica, che quel giorno aveva

partecipato a un incontro, a Londra, e aveva promesso di chiamar-

lo per fargli sapere com'era andata. L'incontro, con un funzionario

del Ministero industria e commercio, verteva sulla concessione del-

le licenze di esportazione.

I produttori di macchine utensili che volevano esportare in Iraq

avevano subito seri intralci da parte del Ministero degli esteri. Pro-

prio di recente Geoffrey Howe aveva ordinato che il Consiglio dei

ministri imponesse ulteriori restrizioni e la cosa era bastata per far

saltare i nervi ai membri dell'industria metalmeccanica della Asso-

ciazione confindustriale, ormai divenuta una voce potente nella

lobby inglese sostenitrice dell'Iraq (uno degli esponenti, Matrix

Churchill, era stato comprato dagli iracheni per assicurarsi un pun-

to d'appoggio produttivo in Inghilterra). Al Ministero industria e

commercio erano state avanzate formali richieste di chiarimento,

e quell'incontro ne era per l'appunto l'esito. Doveva uscirne una

chiara indicazione circa la direzione che la politica del governo sta-

va prendendo.

Per la chiamata non era stata fissata un'ora precisa. Graham era

rimasto seduto accanto al telefono tutta la giornata. Aveva una fa-

me da morire e il cielo, a cui aveva tenuto ancorato lo sguardo, era

passato dalla fresca purezza dell'azzurro al nero.

Il telefono suonò alle sei e dieci.

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Più tardi, tornando a casa, riascoltò il nastro registrato sull'au-

toradio stereo:

Ä Graham. Mi spiace d'averti fatto aspettare tanto.

Ä Va bene, va bene.

Ä Siamo usciti a pranzo, ed è andata per le lunghe, temo.

Ä Non importa, davvero. Avevi da festeggiare qualcosa, allora, no?

Ä E' stato un incontro riuscito. Molto positivo.

Ä In che senso...?

Ä Via libera. Ci hanno dato via libera.

Ä Vuoi dire che...

Ä E' tutto a posto. Non ci sono difficoltà. Siamo una garanzia per

il paese, stando a quello che dicono. Nel dare un impulso decisivo al-

l'esportazione, e a quel che segue.

Ä Ma le restrizioni...

Ä Oh beh, vuol dire che dobbiamo solo stare un po' attenti, tutto

qui.

Ä Attenti? Come credi...?

Ä Beh, sai, ci hanno consigliato di minimizza re l'uso... l'uso mi-

litare delle macchine. Dobbiamo stare un po' attenti nel dire a cosa

servono, e così via.

Ä In che senso? Come macchine...

Ä Macchine, in genere. Senza specificare. O semmai enfatizzan-

done l'uso a scopi.. pacifici applicazioni pacifiche, e poi sottolineare

tutta la manfrina del perché e del percome abbiamo preso questo in-

dirizzo.

Ä Ma loro.., loro ovviamente sanno...

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Ä Oh sì, loro sanno tutto, sì.

Ä Voglio dire, è ovvio che noi... vendiamo proprio quello.

Ä Beh come abbiamo detto, non è che si metteranno a fare molte

automobili nel bel mezzo di una guerra, no?

Ä Gli avete detto così? A loro?

Ä No, no. Dopo. E venuta fuori questa frase.

Ä Ma a loro, ma a loro non importa?

Ä Oh, non gliene frega niente a nessuno. Sono tutti così.

Ä Dunque hanno dato l'ok a...

Ä Non gliene sbatte il cazzo di che cosa vendiamo. Questo è il da-

to fondamentale.

Ä Allora posso dirlo al capo. Sarà...

Ä Sarà arcicontento, io...

Ä Scommetto che sono arcicontenti tutti.

Ä Beh, noi ci stiamo dando dentro, qui. Tu dovresti stappare

qualche bottiglia lì da te.

Ä Credo che lo farò. Perché no?

Ä Senti, adesso devo andare.

Ä Allora grazie per aver trovato il tempo di... chiamare. Ci siamo

tolti un bel peso. Sai, sono delle cose di cui mi posso disfare, che mi

sono sempre sembrate un po'...

Ä Adesso devo andare, ok? Ci faremo un'altra chiacchierata.

Ä Ok. Sentiamoci fra qualche giorno.

Ä Fra qualche giorno, ok.

Ä Perfetto. Grazie per la premura.

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Ä Ok. Tutto per il meglio, allora.

Ä Tutto per il meglio. Ciao.

Graham pigiò il tasto eject e si riaccese la radio. Era la Brmp e

suonavano una vecchia canzone di Huey Lewis. Che non era una

delle sue preferite.

 

 

 

28 aprile 1989.

 

"Vedo che fa un sacco di foto. Istantanee da portare a casa a

moglie e figli?"

Graham piroettò su se stesso, credendo di trovarsi di fronte a

una guardia in uniforme, e invece scoprì che il suo interlocutore

era un ometto basso e grasso, nero di capelli, con un gommoso sor-

riso che gli conferiva le parvenze di un folletto. Si presentò: si chia-

mava Louis ed era un venditore belga. Porse a Graham un biglietto

da visita.

"C'è tanto da vedere," disse Graham, "Voglio potermi ricorda-

re di tutto quanto."

"Ha ragione: è un bello spettacolo, eh? Il compleanno di Sad-

dam Hussein è sempre una gran giornata a Baghdad. Gli autobus

circolano tutti inghirlandati di fiori, e nelle scuole i bambini canta-

no particolari canzoni augurali. Quest'anno, però, ha fatto davvero

le cose in grande."

La prima Fiera internazionale di materiale bellico di Baghdad

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era davvero stata all'altezza delle aspettative. Vi erano rappresenta-

ti ventotto paesi e più di centocinquanta società avevano allestito

stand e tendoni: dalle piccole aziende come l'Ironmaster e la Ma-

trix Churchill ai colossi internazionali Ä la Thomson-Csf, la Con-

strucciones Aeronàuticas e la British Aerospace. Le star, veri fiori

all'occhiello della mostra, erano tutte presenti: il designer cane

sciolto Gerald Bull presentava un modello in scala del suo super-

cannone allo stand dell'Astra Holdings, il commerciante francese

Hugues de l'Estoile era impegnato in un'amichevole competizione

con l'assistente capo di Alan Clark, David Hastie, per chi si sarebbe

assicurato il contratto per il Progetto Fao Ä un programma aerospa-

ziale a lunga scadenza per aiutare l'Iraq a installare una propria ba-

se di industria aeronautica Ä mentre Serge Dessault, figlio del gran-

de Marcel Dessault che aveva creato praticamente da solo l'indu-

stria aeronautica militare francese, fu accolto dagli iracheni con

una vera ovazione Ä quasi da pubblico di una pop star Ä quando

raggiunse le tribune.

"Pensavo ci sarebbero state più restrizioni," disse Graham, a

cui aveva dato qualche apprensione portarsi appresso la macchina

fotografica e che ora invece si malediceva all'idea di non aver preso

la videocamera.

Louis pareva sorpreso. "Ma perché? Non è mica una riunione

segreta. Anzi, è semmai vero il contrario: bisogna scoprirsi, mostra-

re con orgoglio quel che si è conseguito, i risultati più alti. Ci sono

giornalisti da tutto il mondo. Non abbiamo nulla da nascondere.

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Nessuno fa niente di illegale. Crediamo tutti nella deterrenza, e

nel diritto di autodifesa di ogni nazione. Non è d'accordo?"

"Beh, certo..."

"E' naturale che lo sia. Altrimenti perché mai la sua società la

manderebbe a esporre quei pezzi stupendi di moderna tecnologia.

Le dispiacerebbe illustrarmeli nei dettagli?"

Louis era evidentemente rimasto molto colpito da quel che

aveva visto all'Ironmaster, che certamente faceva la sua figura a

confronto delle misere macchine utensili anni sessanta che offri-

vano gli espositori polacchi, ungheresi e rumeni. Lasciò cadere

qualche accenno al fatto che sarebbe riuscito a piazzare alcuni

pezzi con dei compratori iraniani: ma la cosa restò nel vago.

Nel frattempo pareva aver preso Graham in simpatia e svolse

il ruolo di sua guida non ufficiale nei giorni seguenti. Lo portò

sulla tribuna delle celebrità a vedere i piloti iracheni esibirsi in

acrobazie da far rizzare i capelli coi loro Mig-29, che talora vo-

lavano così bassi da indurre gli spettatori a gettarsi stesi a terra.

(Solo una di queste dimostrazioni ebbe serissime conseguenze,

quando un pilota egiziano volò per errore sopra il palazzo pre-

sidenziale e fu subito abbattuto dalla polizia repubblicana, an-

dandosi a schiantare col suo Alphajet in una zona residenziale

di Baghdad e provocando così la morte di una ventina di civili.)

Condusse Graham a conoscere il colonnello Hussein Kamil Ha-

san al-Majid, una vera stella del partito Ba'ath e ospite d'onore

dell'occasione, che riceveva i suoi visitatori in un immenso pa-

diglione concepito come un accampamento nel deserto. Ed era

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sempre pronto a presentarlo a figure molto influenti come Chri-

stopher Drogoul e Paul Van Wedel, i banchieri americani di

Atlanta che avevano offerto all'Iraq almeno quattro miliardi

di dollari in prestiti a lungo termine.

"Ha notato gli orologi?" chiese Louis.

"I loro orologi?"

"La prossima volta che le capita dia un'occhiata ai loro orologi.

Confezione speciale: prodotti in Svizzera. Davanti hanno la faccia

di Saddam Hussein. Sono stati omaggi adpersonam: un onore gran-

dissimo, credo. Qui sono in pochi Ä tre o quattro al massimo Ä ad

aver avuto l'onore. Monsieur de l'Estoile, naturalmente. E, na va

sans dire, il vostro Mr Winshaw."

Graham cercò di contenere il destarsi repentino della sua curio-

sità. "Mark Winshaw della Vanguard?"

"Lei, immagino, ha qualche contatto con Mr Winshaw. Vi è ca-

pitato di fare affari insieme in talune occasioni."

"Una volta o due, sì. Ma adesso è qui?"

"Sì, si, è qui, può starne certo. Ma a lui non piace comparire,

come sa. Fatto sta, comunque, che cenerò con lui questa sera. Devo

portarle i suoi saluti?"

"La prego," disse Graham; poi con qualche esitazione lasciò

cadere, distrattamente, la domanda: "Un incontro d'affari, sup-

pongo?"

"Per modo di dire," rispose Louis. "Apparteniamo tutti e due a

una organizazzione: una specie di club alquanto elitario. Vi si trat-

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tano questioni tecniche, in verità. Ci riuniamo regolarmente per di-

scutere problemi di sicurezza nella produzione e nella distribuzione

delle nostre armi."

Graham sapeva bene di che organizzazione stava parlando: la

Aesop, l'associazione europea per la sicurezza in fatto di ordigni

d'artiglieria e cariche di lancio. L'aveva, però, sorpreso sapere

che Mark ne faceva parte. Non avrebbe mai pensato che avesse

tempo per siffatti interessi.

"Comunque," disse Louis, "non credo che si parlerà d'affari

stasera. Mi sa che sarà piuttosto un'occasione per stare insieme.

Dovrebbe venire, Mr Packard. Sarebbe davvero il benvenuto."

Graham accettò.

 

 

Era stata riservata una piccola sala privata sul retro di un tran-

quillo ristorante di lusso nel centro di Baghdad. C'erano solo cin-

que convitati: Mark, Louis, Graham, un olandese dalla faccia se-

vera e un tedesco chiassoso. Il cibo era francese (erano tutti con-

cordi nel condannare la cucina medio-orientale); lo champagne di

marca (Roederer Cristal 77) e copioso. Ogni convitato godeva

delle attenzioni di una sua piccola graziosa cameriera filppina,

che ridacchiava simulando riconoscente soddisfazione quando

sentiva una mano infilarsi su per la minigonna o le venivano gio-

cosamente palpeggiati i seni mentre cercava di servire le pietanze.

La cameriera di Graham rispondeva al nome di Lucila: da quanto

capiva, a nessuna delle altre era stato chiesto come si chiamasse.

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Era seduto fra Louis e Mark, che pareva decisamente meno con-

tratto e guardingo che in altre precedenti occasioni. Chiacchiera-

va liberamente del lavoro e della fiera di Baghdad e delle ambi-

zioni militari di Saddam ormai così evidenti per chiunque avesse

occhi per vedere. Graham stava registrando la conversazione su

un registratore piatto infilato nella tasca interna della giacca: do-

veva solo badare alla durata del nastro e scivolare alla toilette a

girarlo (ne aveva portati due da novanta minuti) prima che si sen-

tisse il clik dell'apparecchio.

Per ragioni private, in ogni caso, aveva cancellato i nastri dopo

essere tornato a casa.

Louis era stato il primo a sparire ai piani superiori insieme alla

sua camerierina, fra la prima e la seconda portata; restarono di so-

pra per una mezz'oretta. Quando tornarono, fu la volta dell'olan-

dese. La festa procedeva in questo modo e Graham contò otto bot-

tiglie di champagne vuote. Avvertiva anche lo stupore di Lucila:

non si stava certo comportando verso di lei come avrebbero fatto

i suoi compagni. Era diversa dalle altre; anche la sua bellezza non

era convenzionale. La pelle, su cui erano rimaste lievissime tracce

d'una febbre vaiolosa, non era perfetta, e non sapeva nascondere

la sua tristezza dietro una facciata di vacua gaiezza. Era nervosa

e, durante il servizio a tavola, capitava che le cadessero delle cose.

Graham sapeva che se fosse stato più rilassato l'avrebbe aiutata a

mettersi a suo agio, ma era troppo impegnato a cercare, e con

che fatica, di mantenersi sobrio.

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Stava per essere servito il secondo Ä una spalla di vitello Ä quan-

do Mark gli si rivolse e disse: "Spero di non apparire troppo sgar-

bato, Mr Packard, ma a questo punto dobbiamo discutere di qual-

cosa in privato. Penso che potrebbe essere il momento giusto di ri-

tirarsi".

"Ritirarsi?"

Mark fece segno verso Lucila e ammiccò con gli occhi. Graham

annuì e s'alzò da tavola.

Salirono in una sconfortevole camera da letto dove troneggia-

va un letto sfatto e lasciato in disordine dall'uso recente. La stanza

era pulita ma poco illuminata e squallida. Sul tappeto c'erano del-

le macchie di sangue, che parevano esser li chissà da quanto tem-

po. Chiusa la porta, Lucila cominciò a svestirsi. Quando Graham

le chiese di fermarsi lei lo guardò sconvolta. Lui le spiegò che non

voleva far l'amore con lei perché era sposato e perché riteneva che

alle donne non fosse giusto imporre di andare a letto con degli

sconosciuti. Lei annuì e si sedette sul letto. Graham le si sedette

al fianco e si sorrisero. Aveva l'impressione che lei fosse, al con-

tempo, sollevata e offesa. Provò a domandarle da dove veniva e

cosa faceva in Iraq, ma l'inglese di Lucila era molto povero e so-

prattutto pareva indispettita da quell'interrogatorio. Entrambi

erano consapevoli del ragionevole intervallo di tempo che avrebbe

dovuto passare prima di far ritorno dabbasso. A quel punto Lu-

cila ebbe un'idea e, aprendo uno dei cassetti del comò, tirò fuori

un mazzo di carte. Né l'uno né l'altra conoscevano dei veri giochi,

così finirono col fare qualche mano a rubamazzetto. Sul comodino

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c'era una bottiglia con dentro ancora dello champagne, che bastò

a scatenare in entrambi, nel giro di poco tempo, una sfrenata ri-

darella. Dopo tutti quei sotterfugi, dopo tutto quello stare in guar-

dia, dopo la costante tensione degli ultimi giorni, Graham si sentì

di punto in bianco leggerissimo: nulla in terra gli pareva più bello

di stare a giocare quella stupida partita a carte con un'adorabile

fanciulla brilla in una stanza sconosciuta, e all'improvviso avvertì

un'ondata di desiderio che Lucila riconobbe subito quando lo

guardò negli occhi. Volse lo sguardo altrove. Quando la partita

si chiuse erano più sereni e tranquilli ed era tempo di far ritorno al

ristorante.

Trovò Mark e i suoi amici che si insultavano l'un l'altro, vocian-

do molto, ma con un fare che sapeva di burla e intanto tracciavano

un tot di cerchi a matita su tovaglia e tovaglioli. Ogni cerchio era

diviso in quattro segmenti diseguali, in ciascuno dei quali erano in-

scritte le lettere GB, D, NL e B. Con un po' di fatica, Graham riuscì

a estorcere a Louis una spiegazione dettata dall'alcol: e più avanti

poté confermare i dettagli con altre autonome ricerche. L'Aesop

non aveva proprio niente a che vedere con la ricerca di speciali mi-

sure di sicurezza. Era Ä questo emerse infine Ä un cartello informale

di commercianti di armi ordito per affrontare uno dei problemi più

grossi posti dalle esigenze militari dell'Iraq: comé potevano le so-

cietà fornitrici di materiale bellico rispondere a una domanda così

enorme senza far crescere le quote di produzione sino al punto di

destare i sospetti del governo? La risposta era l'Aesop: un foro do-

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ve i fornitori leader delle nazioni che ne facevano parte potessero

riunirsi e dividere equamente il lavoro fra i loro diversi industriali.

"Abbiamo deciso che queste sono le cifre," disse Louis, por-

gendogli un tovagliolo e indicando il cerchio suddiviso in segmenti,

"che corrisponderanno alle nostre commissioni. Alle commissioni

dell'anno prossimo."

"Ma, sommate, non fanno cento," disse Graham.

Louis rise sgangheratamente.

"Queste non sono mica percentuali," disse, con gli occhi che gli

brillavano. "Sono milioni di dollari!" Rise ancora più forte di fron-

te al genuino stupore di Graham, e tutto il suo corpo tremolava

mentre allungava il braccio in un largo gesto che comprendeva la

stanza, le cameriere, i suoi tre amici e la vuota carcassa del vitello

sul piatto d'argento. "Che bella torta, eh, Mr Packard? Che bella

torta!"

Nella mezz'ora seguente, l'atmosfera intorno al tavolo divenne

sempre più vivace, e Graham cominciò ad avere la netta sensazione

di sembrare patentemente fuori posto.

"La disapprovazione gliela si legge sulle labbra contratte," sot-

tolineò Mark Winshaw a un certo punto. "Non vedo perché. Ho

appena assicurato alla sua società una fetta considerevole del mer-

cato iracheno per l'immediato futuro."

"Sono solo un po' stanco, tutto qui," disse Graham. "Troppo

in troppo poco tempo."

"O forse lei trova, come me, che quest'orgia di festeggiamenti

sia alquanto scomposta e volgare."

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"Forse."

"E tuttavia io so che lei era una giovane testa calda all'universi-

tà, Mr Packard."

Graham restò con la tazza del caffè immobile davanti alle lab-

bra.

"Chi gliel'ha detto?"

"Oh, ho fatto fare qualche piccola indagine di routine, come

avrebbe fatto qualsiasi accorto uomo d'affari. Lei è molto maturato

negli ultimi anni, parrebbe."

"In che senso?"

"Politicamente. Mi lasci ricordare: chi l'ha avuta come tesorie-

re, i Lavoratori socialisti o i Comunisti rivoluzionari?"

Graham ostentò un impavido sorriso anche se si sentiva venir

meno. "I Lavoratori socialisti."

"Ne ha fatta di strada allora, no?, da quel focolaio di rivoluzio-

ne a questo ristorante di Baghdad?"

"Come ha detto lei," rispose Graham, "sono maturato molto."

"Lo spero, Mr Packard. Qui la posta in gioco è altissima, dopo

tutto. Mi piacerebbe che lei fosse un uomo di cui potermi fidare:

un uomo, per esempio, col sangue freddo in situazioni difficili."

"Penso di averlo," disse Graham. "Credo di averglielo già di-

mostrato."

Mark prese una delle camerierine per l'orlo della minigonna e la

tirò verso di sé.

"Mele," disse. "Abbiamo bisogno di cinque mele."

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"E alza quella musica!" le gridò dietro Louis. "Volume! Volu-

me!"

Quando lei ritornò, Mark fece disporre le cinque cameriere

contro una parete.

"Oh, si gioca!" disse Louis, battendo le mani dal piacere.

"Adoro questo gioco!"

Mark fissò una mela sulla testa di ciascuna cameriera, indi infilò

la mano dentro la giacca e ne tolse un revolver.

"Chi è il primo?" chiese.

Benché ubriachi, gli altri si rivelarono eccellenti tiratori Ä solo

Louis mancò il colpo di quasi un metro mandando in frantumi

una lampada a muro. Le donne urlavano e piagnucolavano, ma

non si muovevano, neanche dopo che le loro mele erano state cen-

trate.

Fu infine la volta di Graham. Non aveva neppure la minima

idea di che impressione facesse tenere in mano una pistola, ma sa-

peva che Mark Winshaw lo stava mettendo alla prova, una prova

mostruosa, e che se si fosse tirato indietro, se avesse ceduto emoti-

vamente, allora la sua copertura sarebbe saltata e, di li a poco, que-

stione di settimane se non addirittura di giorni, sarebbe stata in pe-

ricolo la sua stessa vita. Levò la pistola in alto e la puntò contro Lu-

cila. La ragazza aveva il volto coperto di lacrime e nei suoi occhi

terrorizzati si leggeva anche lo sgomento di chi non riesce a capire:

un'eco implorante delle risate e dell'intimità condivise nella stanza

di sopra. Gli tremava la mano. Doveva essere rimasto in quella po-

stura per un po' di tempo, giacché udì Mark che diceva, "A suo

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comodo, Mr Packard," e gli altri che battevano le mani e comincia-

vano a intonare l'ouverture di Guglielmo Tell, facendo dei versi con

le labbra che parevano una sequela di scoregge. Al primo compul-

sivo singhiozzo di Lucia, ci riuscì. In contemporanea. Riuscì a fare

ciò per cui avrebbe continuato a odiarsi, ogni volta che si sarebbe

dovuto svegliare nel cuore della notte con quell'immagine davanti

agli occhi; ogni volta che avrebbe dovuto lasciare una stanza tron-

cando una conversazione a mezzo, o avrebbe dovuto accostare di

punto in bianco sulla corsia d'emergenza d'una autostrada, il cuore

in gola dinanzi all'inattesa evidenza del ricordo. Riuscì a tirare il

grilletto.

Graham perse quasi subito la nozione di sé, perciò non vide che

il suo proiettile tagliò in due i picciuolo della mela e andò a con-

ficcarsi nella parete dietro Lucia, né vide la ragazza che cadeva sul-

le ginocchia e vomitava sul parquet tirato a lucido. Continuò ad

avere la netta percezione della musica a tutto volume e delle voci,

della gente che gli dava pacche sulle spalle e gli faceva bere altro

caffè, ma non tornò davvero in sé fino a quando si ritrovò seduto

in bagno, la testa fra le mani e i pantaloni intorno alle caviglie, l'aria

pregna dell'odore della sua diarrea, e lo stanzino senza finestre im-

merso nel silenzio, non fosse stato per la robotica intonazione d'u-

na sola parola ripetuta meccanicamente, senza partecipazione.

Joan. Joan. Joan.

 

 

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31 dicembre 1990.

 

Graham s'era guadagnato il rispetto di Mark Winshaw. Che si

manifestò in venti mesi di silenzio, seguiti da un invito alla festa di

Capodanno nella sua casa a Mayfair.

Graham ritenne che le undici fossero un'ora decente per poter

porgere educatamente le sue scuse e andarsene. A Mark disse che

doveva guidare sino a Birmingham quella notte, per far ritorno dal-

la moglie e dalla figlia di otto mesi.

"Ma non l'ho ancora presentata a Helke," protestò Mark.

"Qualche paroletta gliela deve pur dire prima di andare. La mac-

china è parcheggiata qui vicino?"

Lo era. Mark prese le chiavi e le diede a uno dei suoi autisti in-

sieme all'ordine di portarla subito davanti all'ingresso. Nel frattem-

po, Graham ottemperò all'obbligo di scambiare qualche battutella

scherzosa con la nuova signora Winshaw, che si rivelò una donna

sorprendentemente affascinante, tanto da sentirsi quasi imbarazza-

to. S'era imposto di guardarla con avversione Ä sapendo che era la

figlia di un ricco industriale, noto simpatizzante dei nazisti Ä ma la

sua pallida venustà e i suoi modi singolarmente seduttivi incrinaro-

no tanta determinazione, sia pur nello spazio d'un così breve incon-

tro.

Qualche minuto dopo, mentre si lasciava cadere nel sedile del-

l'auto, Graham emise un sospiro di sollievo. Era madido di sudore.

Proprio allora un colpo sulla nuca lo ridusse all'incoscienza.

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Fu condotto in un garage a Ciapham. Il guidatore lo tirò fuori

dall'auto senza spegnere il motore, e lo stese a terra vicino al tubo

di scappamento. Gli riempì la faccia di calci e gliene assestò uno

solo nello stomaco. Gli fece a pezzi i pantaloni, gli prese la video-

camera, e gli saltò più volte sulle gambe. Poi uscì dal garage chiu-

dendosi la doppia anta alle spalle.

Quel calcio nello stomaco era stato un errore, giacché Graham,

colpito in una parte così delicata, recuperò uno stato di semico-

scienza. Per un bel po', tuttavia, non riuscì a muoversi, e benché

cominciassero a tornargli le forze si sentiva sempre più intontito

dalla mancanza di ossigeno. Infine, con uno sforzo tremendo, si

trascinò verso il posto di guida, inserì la marcia indietro proiettan-

do la macchina contro le porte del garage. Ma non bastò a farne

saltare la serratura. Ci provò ancora. Ma senza effetto. Più di così

non poteva fare.

Il frastuono aveva però attirato l'attenzione di un gruppo di

passanti ubriachi che riuscirono a forzare le porte e a far uscire

la macchina in strada. Uno di loro corse a cercare una cabina tele-

fonica.

Graham era steso sul marciapiede, circondato da estranei.

Poi stava in un'ambulanza. Le luci lampeggiavano e aveva una

mascherina sulla faccia.

Adesso era in un ospedale. Faceva un gran freddo.

Il Big Ben batteva i dodici colpi della mezzanotte.

 

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GENNAIO 1991.

 

Presi i bicchieri di carta col succo d'arancia e li portai nella

stanzetta. Fiona bevve il suo sorbendolo con riconoscente lentez-

za: bevve anche metà del mio. Disse che parevo un po' sovrappen-

siero e mi chiese cos'era accaduto.

"Hanno portato dentro un tizio. Ha perso conoscenza ed è in

uno stato terribile. Mi ha un po' scioccato."

Fiona disse: "Mi spiace. Che brutto modo di cominciare l'anno

nuovo".

Io dissi: "Non dire sciocchezze".

Stava diventando sempre più debole: si vedeva. Dopo aver be-

vuto tornò a distendersi sul lettino a rotelle e non cercò più di par-

lare finché non riapparve l'infermiera.

"Buone notizie: le cose procedono," disse tutta sorridente. "La

suora sta cercando un letto, e non appena ne avremo uno, lei potrà

proseguire in sala medica e i dottor Bishop le darà degli antibiotici.

La dottoressa Gillam, la nostra specialista tirocinante, è molto pre-

sa al momento, e perciò verrà a visitarla domani mattina."

Non mi pareva che si fossero fatti molti progressi, in realtà.

"Ma stanno cercando un letto da più di mezz'ora. Che proble-

ma c'è?"

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"Siamo alle strette," disse. "Proprio prima di Natale hanno

chiuso dei reparti di chirurgia, cosa che ha prodotto un effetto a

catena. Vale a dire che moltissimi pazienti di chirurgia sono stati

trasferiti in medicina. Noi abbiamo una cartella di tutti i letti dispo-

nibili ma adesso va aggiornata continuamente. Pensavamo di aver

trovato un letto per lei, perciò abbiamo mandato la suora a control-

lare, ma il letto era già occupato. Comunque non dovrebbe volerci

molto."

"Bene," dissi io, vagamente sardonico.

"Però un problema c'è, effettivamente."

"Ma va?"

Ci fu una pausa di silenzio. Avrei giurato che fosse qualcosa che

la faceva sentire a disagio.

"C'è che abbiamo bisogno di questa stanzetta. Temo che do-

vremo spostarci."

"Spostarci? Ma a me pareva che di posti non ce ne fossero."

Li avevano. Li avevano. Spinsero il lettino di Fiona nel corri-

doio, presero una sedia perché mi ci sedessi a fianco e ci lasciarono

li. Ci vollero altri novanta minuti prima di trovare il letto. E in quel

lasso di tempo non avemmo il privilegio di vedere l'ombra d'un

medico: il medico interno di fresca qualifica ela sfuggente dotto-

ressa Gillam erano presissimi, così dedussi, col nuovo arrivato,

l'uomo che avevo semiriconosciuto, che erano riusciti Ä così pareva

ma chissà come Ä a riportare in vita. Erano quasi le due quando le

infermiere vennero a portar via Fiona: un'aria di disperazione e

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spavento le si impresse subito in volto. Io le strinsi forte la mano

e la baciai sulle labbra. Erano freddissime. Poi rimasi a guardare

mentre la spingevano via lungo il corridoio.

 

 

Il personale sanitario aveva insistito che andassi a casa a ripo-

sarmi, ma io riuscii a ottemperare solo alla prima metà della rac-

comandazione. Dal punto di vista fisico ero esausto, non foss'altro

perché ero tornato a casa dall'ospedale a piedi, riuscendo a entra-

re nel mio appartamento solo dopo le quattro. Ma l'ultima cosa

che avevo in mente era dormire, sapendo che in una buia corsia

a una mezza dozzina di chilometri di distanza anche Fiona giaceva

insonne, lo sguardo fisso nel vuoto rivolto verso i soffitto. Com'è

che ci avevano messo così tanto per portarla là? Dopo averla ritro-

vata in ginocchio davanti all'armadio, erano passate più di cinque

ore prima di saperla sistemata finalmente in un letto, ore in cui le

sue condizioni erano visibilmente peggiorate. Eppure, stando a

quello che avevo visto io, nessuno aveva agito con negligenza: si

era colta l'atmosfera di una frenetica, risoluta efficienza messa sot-

to pressione. Dunque come mai ci avevano messo così tanto?

Mi stesi vestito sul letto, con le tende delle finestre aperte. Un

letto appartiene alla categoria delle cose più semplici, o almeno così

avevo sempre pensato. Per quel che riuscivo a ricordare, in tutta la

mia vita, le notti in cui non avevo dormito in un letto erano state, in

questo o quel posto, una dozzina o poco più. E gli ospedali sono

pieni diletti. Anzi gli ospedali si riducono in fondo a quel dato

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di fatto: che sono, in realtà, stanze piene diletti. Vero è che non

avevo mai avuto troppa fiducia nella scienza medica. Sapevo che

c'erano malattie di fronte alle quali si era impotenti, ma non mi sa-

rebbe mai venuto in mente che un mucchio di medici e paramedici

superspecializzati potesse trovarsi in difficoltà di fronte al semplice

trasferimento di un paziente da un posto a un altro: da un cubicolo

a un letto. Mi domandavo chi fosse responsabile di questo stato di

cose (sì, Fiona, credevo ancora ai complotti), che interessi stessero

dietro a questo rendere l'esistenza della gente ancor più dura di

quanto già non fosse.

Mi avevano detto di chiamare in ospedale verso le dieci di mat-

tina. C'era qualcun altro con cui potevo mettermi in contatto nel

frattempo? Mi alzai e andai nell'appartamento di Fiona a sfogliare

la sua agenda. Era piena di nomi a cui non aveva mai fatto cenno, e

in fondo c'era anche una lettera datata marzo 1984 piegata dentro

la sovracoperta. Probabilmente la maggior parte di tutta quella

gente non aveva sue notizie da anni e anni. Uno, magari, era l'ex

marito, l'evangelico. Da quel che sapevo non si parlavano dai tempi

del divorzio, dunque perché stare a coinvolgerlo? Parlava invece,

con notevole trasporto, dei suoi colleghi di lavoro: loro sì avrei do-

vuto chiamarli, ma non sarebbero rientrati in sede prima di un paio

di giorni.

Era sola, dunque: solissima. Eravamo tutti e due soli.

Il tavolo del mio salotto era ancora imbandito per la nostra

cena a lume di candela: tolsi via ogni cosa e mi misi a guardare

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i primo giorno dell'anno che albeggiava debolmente sopra Bat-

tersea. Quando fu chiaro, presi in considerazione l'ipotesi di fare

una doccia ma optai, invece, per due tazze di caffè forte. La pro-

spettiva di aspettare altre tre ore mi faceva impazzire. Pensai a

mia madre, a come era riuscita a colmare il vuoto dei giorni du-

rante la degenza di mio padre in ospedale. C'erano vecchi gior-

nali sparsi dappertutto in casa mia: li raccolsi e cominciai a fare

parole crociate. Di quelle facili ne riempii una mezza dozzina in

un battibaleno, ma poi restai inchiodato a una di quelle formato

gigante, particolarmente ardua, che richiese l'uso di vocabolari e

guide enciclopediche e d'un dizionario di sinonimi. Non ebbe la

facoltà di scacciare i pensieri che albergavano nella mia mente,

ma era meglio che stravaccarmi qua e là senza posa. Mi tenne

occupato fino alle dieci meno venti, quando finalmente chiamai

l'ospedale.

Mi passarono un'infermiera che mi disse come Fiona avesse

ancora un'aria "sbattutella". Disse anche che, se volevo, potevo

andare a trovarla. Buttai giù la cornetta con violenza senza neppu-

re ringraziarla e, fiondandomi giù per le scale, quasi mi ruppi una

gamba.

 

 

Il reparto era zeppo di degenti ma c'era silenzio: piuttosto che

gravemente malati i pazienti parevano, per lo più, annoiati. Fiona

era in un letto vicino alla sala-infermieri. A tutta prima non la ri-

conobbi, perché una maschera a ossigeno le copriva naso e bocca.

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Al braccio aveva attaccata una flebo. Dovetti batterle ripetuta-

mente la mano sulla spalla prima che si rendesse conto che c'ero.

"Ciao," dissi. "Non sapevo cosa portarti, allora ho preso dell'u-

va. Banale, eh?"

Lei si tolse la maschera e sorrise. Le labbra le si stavano scuren-

do: erano quasi blu.

"E senza semi," aggiunsi.

"Dopo l'assaggio, magari."

Le presi la mano che era di ghiaccio e attesi che riprendesse fia-

to respirando dalla maschera.

Fiona disse: "Mi spostano da qui. In un altro reparto".

Io dissi: "Come mai?"

Lei rispose: "Terapia intensiva".

Cercai di arginare il panico, che non mi si leggesse in faccia.

Lei disse: "Mi hanno fatto di tutto stamattina. E' stata un'ora

di tormento".

Io dissi: "Che cosa esattamente?"

Lei disse: "Prima ho visto la dottoressa Gillam. La tirocinante.

E' stata gentilissima ma aveva un'aria irritata come qualcosa fosse

andato storto. Ha ordinato che mi facessero subito delle radiogra-

fie. Mi hanno messa a sedere sul letto con una lastra dietro la schie-

na. Io dovevo respirarci contro. E stato tremendo. Poi hanno volu-

to fare un esame del sangue, e allora, ago in mano, hanno provato a

cercarmi un'arteria. Guarda". Mi mostrò il polso, costellato di

ematomi. "Credo sia difficile trovarla al primo colpo."

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Dissi: "Quando ti trasferiscono?"

Lei disse: "Presto, credo. Non so come mai ci stiano mettendo

tanto".

Io dissi: "Ti hanno detto cosa non va?"

Fece di no con la testa.

La dottoressa Gillam mi prese da parte in una sala privata. Pri-

ma di tutto mi chiese se ero un parente e io risposi che no, che ero

solo un amico. Poi da quanto conoscevo Fiona Ä da non più di

quattro mesi Ä se Fiona aveva una famiglia Ä no, non ne aveva, a

parte degli zii e dei cugini di cui non sapevo granché. A quel punto

fui io a interrogarla: la malattia di Fiona aveva subito un brusco

peggioramento, perché? Lei mi disse tutto per filo e per segno co-

minciando dalla polmonite. Aveva contratto una polmonite virale e

il suo corpo non stava reagendo come doveva. Come mai? Lo si leg-

geva nelle radiografie (e, naturalmente, nelle note cliniche dello

specialista, rimaste chiuse in qualche schedario dell'ospedale) che

mettevano in risalto una massa scura in mezzo al petto: un linfoma.

La parola mi disse ben poco e la dottoressa Guam spiegò che si

trattava di una forma di cancro con metastasi avanzata.

"Quanto avanzata?" chiesi. "Voglio dire, è troppo tardi per in-

tervenire?"

La dottoressa Gillam era una donna alta con capelli corvini ta-

gliati a spazzola e due occhi castani, fieri e combattivi, incorniciati

dalla montatura d'oro degli occhiali. Prima di rispondere rifletté a

lungo.

"Se fossimo intervenuti solo un po' prima, una possibilità l'a-

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vremmo avuta." Era come avesse dell'altro da dire, a quel punto,

e si contenesse. Avvertivo, come Fiona, una rabbia rigidamente

sorvegliata. "A dir la verità," disse, "il livello di ossigeno nel sangue

è sceso moltissimo. La sola cosa che possiamo fare è trasferirla in

terapia intensiva e tenerla in stretta osservazione."

"E allora, cosa state aspettando?"

"Beh, non è così semplice. Lei capisce, prima di tutto..."

Sapevo cosa avrebbe detto a quel punto.

"...dobbiamo trovare un letto."

Rimasi in ospedale finché il letto fu trovato. Questa volta ci vol-

le solo un'altra mezz'oretta. Il buon esito della vicenda richiese, pe-

rò, una serie di telefonate e, in ultima analisi, conseguì da una mo-

dalità quantomai assurda: trovare un paziente e il suo letto in fondo

alla catena dei ricoverati, cacciarlo dal reparto e lasciarlo in attesa in

infermeria sinché non fosse dimesso ufficialmente. A quel punto

Fiona venne portata via e a me non restò altro da fare che tornare

a casa.

Libri di medicina non ne avevo, ma sul tavolo c'erano ancora i

dizionari che avevo utilizzato per le parole crociate. Cercai la voce

'linfoma": la definizione si limitava a dire: "tumore della ghiandola

linfatica". Messa così, non suonava spaventosa, ma in realtà la cau-

sa di tutti quei mesi di febbre e mal di gola era li, e così pure l'al-

terazione del sistema immunitario e la capitolazione al manifestarsi

della prima infezione. Rimasi con gli occhi fissi su quella parola, la

fissai così a lungo che perse qualsiasi significato e finì col sembrare

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un confuso garbuglio di lettere. Com'era possibile che qualcosa di

così minuto e casuale come quella stupida paroletta portasse in sé

tanto male? Come poteva (no, non sarebbe successo) distruggere

una persona?

Non sarebbe accaduto.

Disgustato alla vista delle parole crociate non finite, che pareva-

no volgari e offensive, appallottolai, furioso, il giornale e, nel farlo,

rovesciai il freddo rimasuglio del mio secondo caffè. Dopo aver

cercato un panno e aver asciugato la macchia, fui preso da una tre-

meda smania di far pulizia. Lustrai il tavolo, spolverai gli scaffali e

presi d'assalto il battiscopa. Misi detergenti e smacchiatori in fila

uno dopo l'altro: Cif, Vetril, Viacal, Lisoform. Mi misi all'opera

con tanta furia che finii con l'intaccare la vernice degli infissi delle

finestre e l'impiallacciatura del tavolino. Eppure non ne ebbi abba-

stanza. Accatastai tutta la mobilia in corridoio e tirai l'aspirapolvere

sulla moquette. Pulii il pavimento del bagno e lucidai i rubinetti, le

guarnizioni della doccia e gli specchi. Feci ritornare nuovo il lavan-

dino. Poi mi aggirai per l'appartamento con due grandi sacchetti di

plastica della pattumiera, gettandovi dentro le riviste vecchie, i pac-

chi di carta di giornale ingiallita, i fogli scartati e i ritagli di giornale:

tutto. Non presi fiato sinché non mi imbattei in un pacco postale

ancora chiuso, che conteneva il mio annuale omaggio di libri della

Peacock Press: allora, preso da un'assurda, quasi isterica curiosità,

lo scartai e guardai i tre volumi. Volevo vedere qualcosa che mi fa-

cesse scoppiare in una risata.

C'era un agile opuscolo intitolato Le bellezze dell'architettura a

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Croydon, che vantava, stando al risvolto di copertina, "tre illustra-

zioni in bianco e nero". Plinti!Plinti!Plinti!, del reverendo J.W

Pottage, prometteva di essere "l'opera più accessibile e intelligente

uscita ancora una volta dalla penna di un autore ormai riconosciuto

internazionalmente come un'autorità nel settore". Il terzo volume

aveva tutta l'aria di essere l'ennesimo volume di memorie di guerra,

con un titolo vagamente enigmatico che suonava: Io ero "Sedano".

Ancor prima di potergli affibbiare un qualche significato, suo-

nò il telefono. Mi liberai subito del volume e andai a rispondere.

Era l'ospedale. Fiona sarebbe stata attaccata a un respiratore e se

volevo parlarle, avrei dovuto recarmici immediatamente.

"C'è stato un collasso circolatorio," disse la dottoressa Gillam.

"Abbiamo continuato a somministrarle alte concentrazioni di os-

sigeno, ma il livello nel sangue è ancora bassissimo. Dunque è ne-

cessario tentare con il respiratore. Una volta che comincia il trat-

tamento, la signora non potrà più parlare. Pensavo che lei l'avreb-

be vista volentieri, prima."

Già adesso non nusciva quasi a parlare.

Disse: "Non capisco".

E: "Grazie per essere venuto".

E: "Hai l'aria stanca".

E: "Che ne è stato delle lasagne?"

Io dissi: "Andrà tutto per il meglio".

E: "Ti senti a tuo agio?"

E: "I dottori sono ottimi".

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E: "Andrà tutto per il meglio".

Niente di speciale, come conversazione. Forse nessuna delle

nostre conversazioni era mai stata speciale. Particolarmente specia-

le, stavo per scrivere. Penso che andrò in pezzi.

 

 

Dissero che ci sarebbero voluti novanta minuti per montare il

respiratore e sistemare flebo e cannule necessarie, e dopo potevo

vederla di nuovo. Per qualche minuto indugiai nella stanza riser-

vata ai parenti, una sala d'attesa abbastanza funzionale con qual-

che sedia di duro vinile nero e una scelta di riviste e giornali che

sembravano d'un livello un po' più alto del solito. Poi andai a

prendermi una tazza di caffè, in uno spaccio che pareva concepito

più per il personale che per i visitatori, ma dove nessuno ebbe

nulla da obiettare quando mi sedetti a un tavolo. Ero li da qualche

tempo a bere caffè nero e a finire la terza tavoletta di Fruit and

Nut, quando qualcuno si fermò al mio tavolo e mi salutò.

Alzai lo sguardo. Era l'infermiera che s'era presa cura di Fiona

quella mattina.

"Come sta adesso?" chiese.

"Mah, in questo momento la stanno attaccando al respiratore,"

dissi. "Ho idea, perciò, che sia molto grave."

Lei rispose stando sul vago. "Dopo vedrà come starà meglio."

"E lei, come sta?"

Non ci avevo neanche pensato. Due secondi dopo mi sorpresi a

dire: "Non so. Sono arrabbiato, su questo non ho dubbi".

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"Non con il dottor Bishop, spero."

"No, non con qualcuno in particolare. Col destino, direi, ma il fatto

è che non credo al destino. Con quella singolare catena di circo-

stanze che ha condotto..." e a quel punto mi resi conto di non aver

capito il suo accenno. "Perché dovrei essere arrabbiato con il dot-

tor Bishop?"

"Beh, forse sarebbe andata altrimenti se le avessero sommini-

strato gli antibiotici la notte scorsa," disse lei titubante. "Almeno,

così, si sarebbe sentita un po' meglio. Non che sarebbe cambiato

qualcosa, a lungo andare..."

"Un momento," dissi. "Io pensavo che glieli avessero dati, gli

antibiotici. Perché così mi avevano detto."

Vidi chiaramente dall'espressione che aveva stampata in faccia

che da lei non avrei saputo altro. Doveva aver pensato che io fossi

già stato messo al corrente di tutta la storia.

"Senta," disse. "Dovrei tornare in reparto..."

La seguii nel corridoio e, quantunque continuassi a interrogar-

la, lei non rispondeva più. Abbandonai l'inseguimento quando in-

travidi la dottoressa Gillam nel parcheggio, in guanti e trench, tutta

bardata contro il freddo. Andai di corsa verso l'ingresso principale

e la raggiunsi proprio mentre si stava frugando in tasca alla ricerca

delle chiavi dell'auto.

"Posso scambiare due parole con lei?" chiesi.

"Ma certo."

"Non voglio trattenerla, se ha finito la sua giornata..."

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"Non si preoccupi. C'è qualcosa che voleva sapere?"

"Sì, c'è." Esitai, ma non v'era modo di affrontare la questione

senza prenderla di petto. "E' vero che, l'altra notte, il dottor Bishop

ha dimenticato di somministrare gli antibiotici a Fiona?"

"Dove l'ha sentito dire?" chiese.

"E' per quello che lei era così in collera stamattina?" dissi io.

E lei: "E se andassimo a prenderci un caffè? Sarebbe una buona

idea".

Quasi fosse stato un giorno di festa e pieno pomeriggio, tutti i

pub erano chiusi. Eravamo in una melanconica zona senza vita del

sud-ovest di Londra. Alla fine, non trovammo nulla di meglio di

uno squallido baretto che alla desolazione aggiungeva il cattivo gu-

sto d'essere stato rifatto, per prendere per il naso i clienti più inge-

nui, a imitazione di una notissima catena di fast food. Si chiamava

Nantucket Fried Chicken.

Annuii con fare depresso, e lei si sedette nella sedia davanti a

me.

"Credo che questo sia il caffè," disse la dottoressa Gillam,

dopo aver portato la tazza di carta alle labbra. Ci scambiammo

le tazze.

"No, questo è il tè," dissi io, assaggiandolo con circospezione.

Ma non ce le scambiammo di nuovo. Non pareva fondamentale.

"Avete passato le pene dell'inferno, l'altra notte," cominciò, di

li a poco. "A dire il vero, quel che avete passato è inaccettabile. Ma

temo di non poter nemmeno porgerle delle scuse, perché capita

sempre così, e sarebbe successo da qualunque altra parte."

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"Non era proprio quel che io... mi sarei aspettato," dissi senza

sapere dove il discorso andasse a parare.

"Questo è il mio ultimo mese come medico," annunciò di pun-

to in bianco.

Annuii, più confuso che mai.

"Farò un bambino."

"Congratulazioni."

"No, non sono incinta. Voglio dire che adesso posso anche ave-

re un bambino, mentre cerco di decidere cosa fare in seguito. Il fat-

to è che questo lavoro non lo posso più reggere. Mi deprime trop-

po.

"Allora perché ha fatto il medico," chiesi, "se la sofferenza la

deprime?"

"La malattia è solo una delle cose contro cui si combatte."

"E le altre? Cosa sono?"

Soppesò la risposta. "Ingerenza' sarebbe la parola più accon-

cia, credo." Con un moto di rabbia troncò il discorso appena co-

minciato. "Scusi, non vedo perché girarla in politica. Stavamo par-

lando di Fiona."

"O del dottor Bishop," dissi io. E riformulai la domanda: "E'

vero?"

"Il fatto è," disse, protendendosi in avanti, "che è inutile cerca-

re dei capri espiatori. E' stato di guardia per ventisei ore di seguito.

E gli altri hanno trovato il letto prima che hanno potuto. Ero orri-

pilata quando me l'hanno detto, stamattina, ma non so perché. Co-

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me ho detto, succede sempre così."

Cercai di dare per buona questa affermazione. "E allora.., che

effetto ha avuto tutto ciò?"

"Non è facile dirlo. Credo che la polmonite non si sarebbe ag-

gravata come di fatto è successo."

"Senta, se lei mi sta dicendo che la vita di Fiona," non era que-

sto che volevo dire ma nel dirlo avvertii il pericolo di dargli una

consistenza di realtà, "che la sua vita è stata messa in pericolo dalla

negligenza di qualcuno..."

"Non sto parlando di negligenza. Parlo di gente che cerca di

lavorare in condizioni che stanno diventando impossibili."

"Qualcuno le ha pur create queste condizioni!"

"La decisione di chiudere i reparti è dei dirigenti."

"Sì, ma su che basi?"

Sospirò. "Questa non è gente coinvolta personalmente con l'o-

spedale. Li hanno messi li, presi da chissà dove, con contratti a breve

termine per far quadrare i conti. Se alla fine dell'anno finanziario fan-

no tornare i conti del bilancio, ottengono la loro gratifica. Semplice."

"E di chi è questa luminosa idea?"

"Chi lo sa? Di qualche ministro, di qualche funzionario statale,

di qualche guru accademico con un posto nel comitato di elabora-

zione delle linee operative."

Nella mia mente lampeggiò un nome: Henry.

Dissi: "Ma allora sono solo le considerazioni finanziarie che

dettano legge?"

"Non sempre." La dottoressa Gillam sorrise amaramente.

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"Qualche giorno fa è stato chiuso un altro reparto. Vuol sapere

perché?"

"Avanti, mi dica."

"Feriti di guerra."

"Ma non siamo in guerra," dissi io, che non sapevo neppure se

avevo capito bene o no.

"Beh c'è qualcuno che ovviamente pensa che ci saremo dentro

presto, a meno che Saddam tolga il dito dal grilletto. E questo è

uno degli ospedali a cui è stato ordinato di far spazio per i nostri

prodi che tornano a casa dal fronte."

Le credetti, quantunque la cosa avesse dell'incredibile: non ave-

vo alternativa. Ma detestai il modo in cui ci veniva imposto di dare

quel conflitto per scontato: da dove era venuta quella baldanzosa

presunzione di inevitabilità? In ogni caso, non avrebbe dovuto aver

nulla a che fare con me Ä erano cose che succedevano a migliaia di

chilometri di distanza, dall'altra parte del mondo: dall'altra parte

(che era più lontano ancora) dello schermo televisivo. Dunque co-

me potevo accettare che quel conflitto fosse una delle forze che sta-

va cospirando contro Fiona, che era già strisciato dentro la sua vita

senza macchia? Era come se lo schermo avesse cominciato a coprir-

si di crepe e ne sgorgasse fuori quella realtà orribile: o come se la

stessa barriera di vetro si fosse magicamente liquefatta e senza sa-

perlo io fossi scivolato oltre lo spartiacque, come un Orfeo perduto

nel sogno.

Per tutta la vita avevo cercato la strada per arrivare dall'altra

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parte dello schermo: sin da quella volta al cinema di Weston-su-

per-Mare. C'ero infine riuscito? Era questo il senso di quanto mi

stava accadendo?

 

 

La dottoressa Gillam mi preparò all'impatto con il respiratore.

Mi disse di non allarmarmi davanti a quel che avrei visto. Una in-

fermiera ciarliera ed efficiente mi condusse in corsia e, come pri-

ma, mi colpì il contrasto con il resto dell'ospedale. Qui tutto pa-

reva tranquillo, moderno, asettico. Accanto a ogni letto c'erano

macchine indubbiamente costose. Le luci lampeggiavano e pulsa-

vano, e, a livello subliminale, avvertivo un impalpabile ronzio elet-

trico che produceva un effetto sedativo, molto particolare. Cam-

minai lungo la doppia fila diletti senza guardare né dall'una né

dall'altra parte. Avevo l'impressione che uno sguardo posato su

qualunque altro paziente sarebbe stato invasivo.

Era davvero Fiona la donna che vidi quella sera? Non c'era

niente di lei che mi ricordasse la donna che, sette giorni prima,

era venuta con me a Eastbourne, e neanche quella che aveva sorri-

so, levandosi a sedere sul letto, di fronte alla prospettiva della no-

stra cenetta a due di fine d'anno. Pareva, invece, una vittima sull'al-

tare del sacrificio. Sembrava fosse assalita da un nugolo di serpi.

Aveva addosso:

una cannula per l'ossigeno che le usciva di bocca diramando in

due tubi snodabili che davano forma a una specie di lettera T;

una cannula infilata in una vena del collo;

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una cannula confitta in un'arteria del polso;

un catetere che le usciva dalla vescica;

una sonda per la temperatura sul dito;

una flebo per i liquidi;

una flebo per gli antibiotici;

un groviglio di cavi, tubicini, pompe, staffe, sostegni, nastri e fili

elettrici, tutti collegati a una macchina, tozza come una scatola, pie-

na di quadranti e manopole.

Fiona era sotto sedativi e giaceva immobile. Aveva gli occhi

aperti ma non era molto cosciente.

Le domandai se riusciva a sentirmi. Dietro ai suoi occhi indo-

vinai un impercettibile movimento. O forse me l'ero solo imma-

ginato.

Dissi: "Non hai nulla di che preoccuparti, Fiona. La dottoressa

Gillam mi ha spiegato tutto e adesso so. Fatto sta che avevo ragione

io. Avevo ragione io e tu avevi torto. Non credo più nel caso. C'è

una spiegazione per tutto: e c'è sempre un colpevole. Adesso so

perché tu sei qui. Sei qui per colpa di Henry Winshaw. Strano,

eh? Eppure lui vuole che tu sia qui perché si rifiuta di pensare

che il suo danaro o il danaro della gente come lui si possa usare

per impedire che accadano cose come queste. Lapalissiano. E' così

semplice, come nei romanzi gialli. Un caso aperto e chiuso. Non ci

resta altro da fare che mettere le mani sull'assassino e portarlo da-

vanti alla giustizia. E già che ci siamo, portarci anche tutto il resto

della famiglia. Hanno tutti le mani sporche di sangue. Ce l'hanno

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scritto in faccia. La gente morta a causa di Mark e del suo osceno

commercio è tanta, tanta, tanta. E' stata Dorothy ad ammazzare mio

padre, rimpinzandolo di tutta quella porcheria; e Thomas ha rigi-

rato il coltello nella piaga facendo volatilizzare il suo danaro pro-

prio quando ne aveva bisogno. E anche Roddy e Hilary hanno fatto

la loro parte. Se l'immaginazione è la linfa vitale del popolo e il pen-

siero il nostro ossigeno, allora sta di fatto che lui ha ostruito la cir-

colazione sanguigna e lei ha fatto in modo che fossimo tutti morti

dal collo in su. E così loro stanno tranquilli nelle loro case a rimpin-

guare i profitti, e noi siamo tutti qui. I nostri affari sono un falli-

mento, i posti di lavoro si assottigliano, gli ospedali vanno a pezzi,

le campagne sono allo stremo, le nostre case confiscate, i nostri cor-

pi avvelenati, le nostre menti all'ammasso, tutto lo spirito vitale del

paese è straziato, ridotto all'ultimo respiro. Odio gli Winshaw, Fio-

na. Guarda come ci hanno ridotti. Guarda cosa ti hanno fatto".

Forse non dissi nulla di tutto ciò. Anche ricordare non è più co-

sì semplice.

 

 

Ero seduto sulla seggiola di vinile nero nella sala d'aspetto e

cercavo di leggere un giornale, ma dovevo essere stanchissimo e

mi assopii. Feci uno strano sogno in cui l'ospedale diventava la

scena d'un film e io sedevo nella buia sala d'un cinema e mi vede-

vo sullo schermo mentre tenevo la mano di Fiona e le parlavo. Io

non ho una gran passione per scene di quel tipo, non mi prendo-

no; perciò, dopo un po' mi alzai e andai in cerca del bar dove mi

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servì da bere la dottoressa Gillam. Bevvi tutto d'un fiato e poi mi

sedetti su una seggiola di vinile nero in un angoletto del bar e mi

assopii. Un poco più tardi mi svegliai, sollevai lo sguardo e scoprii

che Joan mi stava scrutando e, riconosciutomi, sorrideva. Mi ci

volle qualche istante per connettere e capire che non faceva parte

del mio sogno. Era proprio Joan: davanti ai miei occhi, nella sala

d'aspetto.

"Che cosa ci fai qui?" chiesi.

"Oh Michael." Si mise in ginocchio e mi abbracciò forte. "Che

bello vederti. Erano secoli. Erano anni."

Mi raccontò di aver sposato Graham e che Graham era il pa-

ziente portato in ospedale privo di sensi la notte prima. Grazie alle

attenzioni che aveva ricevuto dalla dottoressa Gillam e dal dottor

Bishop, adesso era fuori pericolo e contavano di poterlo dimettere

presto. Forse avrei dovuto restare di stucco di fronte a queste rive-

lazioni ma le mie condizioni erano tali che non potei essere all'altez-

za della situazione: anche quando mi raccontò che Graham era sta-

to quasi ucciso mentre cercava di realizzare un documentario su

Mark Winshaw, la cosa non mi provocò né riso né scandalo. Mi li-

mitai a segnarmi mentalmente l'episodio come un altro punto a ca-

rico della famiglia, da aggiungere al punteggio già alto. Io le raccon-

tai di Fiona e le vennero le lacrime agli occhi. Riprese a stringermi

forte e mi disse quanto le dispiaceva, ma era come se io non sentissi

nulla. Dovevo far sì che tutto restasse com'era dentro di me, ancora

per un po'. Così presi a farle domande su come stava e su cosa stava

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facendo. Faceva ancora lo stesso tipo di lavoro ma era tornata a vi-

vere a Birmingham. La casa in cui abitava adesso con Graham non

era molto distante da dove eravamo cresciuti assieme. Ascoltavo

senza prestare attenzione e nessuna di queste informazioni attecchì

veramente dentro di me, tanto che mi uscì una domanda stupida: le

chiesi come mai non avesse mai cercato di mettersi in contatto con

me.

"Michael," disse, "abbiamo fatto tutto quello che si poteva ma

era come se tu ti fossi dato alla macchia. Prima ho provato io, poi

Graham. Non hai mai risposto alle lettere, non hai mai sollevato il

ricevitore del telefono. Cosa potevamo fare? E quando ho parlato

con tua madre, mi ha detto che eri diventato un po' strano e ho

avuto la netta impressione che non vi vedeste da un bel pezzo."

Dissi: "Vedi mia madre?"

"Di tanto in tanto. Non così spesso come vorrei."

"Quanto spesso?"

"A casa la vedo proprio raramente," disse Joan con un sospiro.

"E' davvero stupido, se pensi che abitiamo così vicini. Ma natural-

mente, sono stata insieme a lei un paio di giorni fa. Siamo stati tutti

e due con lei."

"Tutti e due? Come mai?"

"E' venuta dai miei genitori per Natale. Lo sai benissimo, Mi-

chael, non far finta di niente. Sei stato invitato, come al solito,

ma naturalmente non ti sei fatto vedere."

Non c'è bisogno di dirlo: non ne sapevo proprio un bel niente.

"E lei che giustificazioni ha dato?"

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"Non ne ha date proprio." Joan cercò i miei occhi per farmi

sentire la benevola accusa che c'era nei suoi. "Senti, io so perché

non hai voluto vedermi. C'entra quel che è successo a Sheffield, ve-

ro? Ma ormai è preistoria, Michael. Possiamo dimenticarcene en-

trambi."

Capivo che Joan desiderava solo consolarmi e rassicurarmi, e

non aveva colpa se la sua presenza in ospedale stava avendo l'effet-

to esattamente contrario: di fronte a quell'impossibile, strambo svi-

luppo, mi sentii più disorientato che mai. Non era per niente invec-

chiata in quegli ultimi otto anni: la stessa faccia tonda, aperta, fidu-

ciosa; lo stesso accenno di opulenza che lei per altro portava con

così tanta leggerezza; la stessa intima, stuzzicante ingenuità pronta

a rivelarsi in un sorriso. Erano, queste, cose che avevo perduto per

sempre.

"C'è stato qualcosa che ti ha fatto soffrire, Michael?" chiese.

"Sei cambiato, sai. Sembri tanto più vecchio. Spero che non ti

dia fastidio se te lo dico, ma è vero. Ti ho riconosciuto a stento.

Dapprincipio non stavo nemmeno per salutarti: non ero sicura

che fossi tu. C'è qualcosa che ti ha fatto soffrire? Mi è tanto spia-

ciuto quando ho saputo di tuo padre. So quanto ti era caro. Stavo

per scriverti una lettera, volevo fare qualcosa. Dev'essere stato ter-

ribile per te. E' qualcosa che ha a che fare con lui? Eh, Michael? E'

quello che ti ha fatto soffrire?"

 

 

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Joan aveva centrato il bersaglio. Quella era la verità e non v'e-

ra modo di sfuggirla: ero invecchiato e si vedeva. Anche Patrick

l'aveva notato. Forse mi ero compiaciuto di me stesso la sera in

cui Fiona mi aveva fatto visita la prima volta ed ero rimasto a ri-

mirare la mia immagine nella finestra della cucina cercando di im-

maginare come le sarei apparso. O forse gli eventi delle ultime

ventiquattr'ore avevano preso una piega spaventosa. Non so per-

ché, ma, quella notte, quando, più tardi, mi guardai nello specchio

del bagno, feci fatica ad accettare la realtà di ciò che vidi. Era la

faccia che una volta, più di trent'anni prima, mi era apparsa in un

incubo: la faccia di un vecchio, scavata dall'età e incisa dallo scal-

pello del dolore come un'antica scultura.

 

 

Erano le due quando venne l'infermiera a svegliarmi nella sala

d'aspetto. Ero profondamente addormentato. Lei non disse nulla

e io non le chiesi perché fosse venuta. Mi limitai a seguirla per tut-

to il corridoio. Quando arrivammo davanti all'ingresso della corsia

lei fece un segno, ma non ricordo che cosa volesse comunicarmi.

Ebbe un attimo di esitazione prima di aprire la porta e disse:

"Dormiva profondamente, vero?"

E dato che io non risposi: "Le porto una tazza di caffè?"

E dato che io non risposi: "Bello carico?"

Solo allora spinse la porta e mi fece entrare nel cinema. C'era una

gran quiete là dentro. Il resto del pubblico pareva dormisse. Seguii il

raggio di luce della torcia elettrica, che ora puntava verso il basso ora

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verso l'alto, e presi posto in prima fila. L'infermiera se ne andò.

L'immagine sullo schermo non era cambiata. C'era ancora

quella donna, Fiona, stesa fra cannule, flebo e congegni vari. Guar-

dava dritto davanti a sé, a occhi spalancati, immobile. Le sedeva a

fianco Michael, l'amante, l'amico o come diavolo gli piaceva consi-

derarsi. Le teneva la mano. Per un bel po' né l'uno né l'altro apri-

rono bocca.

Poi lui disse: "Immagino che adesso mi pianterai in asso".

Lo disse con estrema serenità. In realtà non sono così sicuro che

lo disse. E comunque è una frase che suona alquanto bizzarra.

Ci fu un altro lungo silenzio. Cominciai ad agitarmi sulla poltro-

na. Speravo non diventasse una noia mortale. Di regola, non mi

piacciono le scene al capezzale del morto.

Poi lui disse: "Mi senti?"

Altra pausa.

E disse ancora: "Credo che io debba ringraziarti e che questa

sia la cosa più importante da dire. Sei stata così gentile con me".

La vicenda precipitava nel patetico. La voce gli vacillò e cominciò

a esprimersi in modo incoerente. C'erano cose che proprio non riu-

scii ad afferrare, e a quel punto cominciò a far riferimento a un

qualche segreto che le aveva tenuto nascosto, una certa storia che

aveva a che fare con un ristorante cinese che lui non le aveva mai

raccontato per intero.

Disse: "Non è troppo tardi per dirtela, vero? Vorresti ancora

saperla?"

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Secondo me, lei non lo sentiva già più a quel punto. Questa è la

mia teoria. E invece lui andò avanti comunque. Era uno di quelli

che hanno la testa dura.

Disse: "Era un venerdì sera. Avevamo prenotato un tavolo per

due, per le otto. La mamma era arrivata alle cinque. Aveva un'aria

nervosa, tesa, e non sapevo perché. Beh, certo era stata al volante

per un bel tragitto, ma non era questo: c'era dell'altro. Dunque

le chiesi se c'era qualcosa che non andava e lei rispose che sì, che

doveva farmi partecipe di certe cose, e non sapeva come l'avrei pre-

sa. Io chiesi di che si trattava e lei rispose che era meglio aspettare

quando fossimo stati al ristorante. E così fece.

"Beh, tu sai quanto lavora il Mandarin, soprattutto al venerdì

sera. Era quasi tutto pieno. Tardavano a servirci ma lei preferì

aspettare il secondo prima di dirmi quel che aveva da dire. Stava

diventando nervosa. E io pure. Infine tirò un gran respiro e mi dis-

se che c'era qualcosa su mio padre che io dovevo assolutamente sa-

pere. Qualcosa che, da quando lui era morto, avrebbe voluto dirmi,

ma non aveva mai avuto il coraggio perché sapeva quanto io lo ado-

rassi e che, fra loro due, era sempre stato lui il mio preferito. Io la

contraddissi, naturalmente, ma era vero. Lui mi scriveva quelle let-

tere quand'ero piccolo. Lettere per finta, piene di battute e giochi

di parole. Furono le prime lettere. Mia madre non avrebbe fatto

mai una cosa simile. E dunque, sì, era vero: lui era il mio preferito.

Lo era sempre stato.

"E poi prese a raccontarmi come si erano conosciuti, che ave-

vano fatto parte dello stesso 'badminton club', che lui l'aveva cor-

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teggiata per mesi e che aveva continuato a chiedere di sposarlo e

che lei aveva sempre rifiutato. La sapevo già quasi tutta, quella sto-

ria. Quel che non sapevo, però, era il motivo per cui infine lei aveva

accettato, ovvero perché era incinta. Incinta di un altro. Era fra il

terzo e quarto mese allora, e lei gli chiese se voleva sposarla e tirar

grande il bambino. Lui disse di sì.

"E allora io dissi: mi stai dicendo che la persona che ho chiama-

to papà per tutti questi anni non è mio padre? Che non ha nulla a

che fare con me?

"E lei rispose: Sì.

"E allora io: Chi è che lo sapeva? Lo sapevano tutti? I suoi

genitori lo sapevano? E' per questo che non hanno mai voluto par-

larci?

"E lei: Si, tutti lo sapevano, e sì, era per quel motivo che i suoi

genitori non avevano mai voluto parlarci.

"A quel punto smettemmo entrambi di mangiare, come puoi

ben immaginare. Mia madre piangeva. Il mio volume di voce s'al-

zava. Non so da dove venisse tutta quella rabbia: forse era più facile

affrontare la rabbia che le emozioni che avrei dovuto provare. Co-

munque, le dissi che, a quel punto, poteva ben dirmi il mio vero

padre chi fosse, se non domandavo troppo. E lei disse che era

Jim Fenchurch, e che l'aveva incontrato solo due volte, una a casa

di sua madre a Norfield e un'altra volta dieci anni dopo. Faceva il

commesso viaggiatore. Lei era da sola in casa di sua madre e lui

venne per vendere un aspirapolvere: dopo un po' erano saliti di so-

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pra e fu allora che accadde quel che doveva accadere."

Tornò l'infermiera. Toccò Michael sulla spalla e appoggiò la

tazza di caffè sul tavolino vicino al letto, ma lui non sembrò farci

caso e andò avanti a parlare con quel suo tono di voce basso, mo-

notono. La stretta intorno alla mano di Fiona era aumentata. L'in-

fermiera non se ne andò, fece qualche passo indietro e restò a os-

servare nell'ombra, guardinga.

"Fu allora che cominciai a perdere il controllo. Presi a dar pu-

gni sul tavolo e feci volar via almeno un paio di bastoncini per il

cibo. Dissi: Sei andata a letto con un commesso viaggiatore? Sei an-

data a letto con uno che era venuto a venderti un aspirapolvere?

Perché l'hai fatto, perché? E lei disse che non lo sapeva, che lui

era affascinante, carino nei modi, e anche bello. Che aveva degli oc-

chi stupendi. Come i tuoi, disse. A questa uscita non ressi più. Gri-

dai: No! Io non ho i suoi occhi! Io ho gli occhi di mio padre! E lei:

Proprio così, hai gli occhi di tuo padre. E allora io mi alzai e mi av-

viai verso l'uscita e tu sai bene come, al Mandarin, i tavoli siano ap-

piccicati l'uno all'altro, e io ero furioso e avevo fretta, e così andai a

sbattere contro il tavolo di una coppia facendo rovesciare la loro

teiera, ma non mi fermai neppure un secondo. Uscii in strada senza

stare a guardare se mia madre mi seguisse o meno. Mi misi in mar-

cia e tornai a casa solo dopo ore e ore, che era passata mezzanotte.

Mia madre se n'era già andata. La sua auto non c'era più ma mi ave-

va lasciato un messaggio che non lessi mai, e qualche settimana do-

po mi mandò una lettera che non aprii mai e da allora non ho più

avuto sue notizie. Dopo quella serata sono rimasto chiuso nel mio

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appartamento senza più uscire o parlare con qualcuno per quasi tre

anni di seguito."

Fece una pausa. Indi la sua voce si fece più dolce: "Finché non

arrivasti tu".

E poi, sempre più dolce: "Così ora sai".

A quel punto si fece avanti l'infermiera che gli pose una mano

sulla spalla. Gli sussurrò: "Temo che sia morta," e Michael fece di

no con la testa e la chinò, le mani fra i capelli arruffati. Forse pian-

geva, ma io credo che fosse solo stanco, stanchissimo.

Restò così per almeno cinque minuti. Poi l'infermiera liberò la

mano di Fiona dalla sua stretta e disse: "Credo che sia meglio che

venga con me". Lui si levò in piedi adagio adagio, le prese il braccio

e uscirono dallo schermo insieme, da sinistra. E fu così che lui

scomparve.

Io invece restai seduto nella mia poltrona. Da lì non mi sarei

mosso sinché non l'avesse fatto anche Fiona. Che senso aveva usci-

re dal cinema, questa volta?

 

 

 

 

 

 

 

 

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Parte seconda.

UN CONSESSO DI MORTI.

 

Capitolo primo.

FINCHE' C'E' VITA.

 

Il breve pomeriggio di gennaio stava spegnendosi in un prema-

turo crepuscolo. Cadeva tetra una pioggia sottile, silenziosa. S'era

alzata dal fiume una nebbia umida e vischiosa che avanzava stri-

sciando, furtiva, sulla città. Dietro quella cappa grigia il familiare

rombo del traffico londinese penetrava, insistente, ma con un lu-

gubre effetto attutito.

Michael lasciò la finestra e si sedette davanti allo schermo del

televisore che tremolava muto. La stanza era al buio, ma egli non

si diede la pena di accendere la luce. Raccolse il telecomando e

passò pigramente da un canale all'altro, fermandosi infine su un

telegiornale che guardò per qualche minuto con annoiata disatten-

zione, oscuramente consapevole che gli si stavano abbassando le

palpebre. I caloriferi erano al massimo, l'aria spessa e pesante e

in men che non si dica scivolò in un leggero sonno agitato.

Nelle due settimane che seguirono la morte di Fiona era di-

ventato suo costume non chiudere a chiave la porta d'ingresso la-

sciandola appena socchiusa. Aveva maturato il proposito di avere

rapporti più stretti con gli altri inquilini, e questo gesto era con-

cepito per dar forma al personaggio di un vicino amico e disponi-

bile. Quel giorno, però, esso ebbe un altro effetto, poiché quando

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alla soglia di Michael arrivò un vecchio vestito completamente di

nero da capo a piedi e il suo bussare non diede alcuna risposta, lo

sconosciuto poté spingere la porta senza fare alcun rumore e

avanzare, non visto, nel buio del corridoio. Entrò nel soggiorno

e, fermatosj accanto al televisore, restò per un po' a contemplare,

impassibile, il quadro di Michael abbandonato sulla poltrona,

sprofondato nel sonno. Visto tutto quello che voleva vedere, diede

due secchi colpi di tosse, forte e in rapida successione.

Michael si svegliò bruscamente, mise a fuoco i suoi occhi as-

sonnati e si trovò di fronte a una faccia che avrebbe fatto sobbal-

zare dal terrore anche un uomo più coraggioso. Scavata, deforme

e dall'aria malsana, lasciava immediatamente indovinare uno spi-

rito rozzo, una intelligenza tarda e, cosa da far davvero gelare il

sangue nelle vene, un'assoluta obliquità. Era una faccia da cui il

male aveva cancellato ogni traccia d'amore, di compassione, ogni

vestigia di quei sentimenti più dolci, insomma, in assenza dei quali

non c'è personalità che possa chiudere il cerchio della propria

umanità. In essa veniva spontaneo ravvisare un che di folle. Era

una faccia su cui si leggeva uno scarno tremendo messaggio: la-

sciate ogni speranza voi che la guardate. Abbandonate ogni pen-

siero di salvezza, ogni progetto di fuga. Da me non aspettatevi

nulla.

Con un brivido di disgusto Michael spense il televisore e il

presidente Bush sparì dallo schermo. Indi accese una vicina lam-

pada da tavolo e guardò il visitatore per la prima volta.

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Non era un uomo d'aspetto repellente: l'austerità del vestire e

la fermezza dello sguardo lo rendevano più severo che sinistro.

Era vicino ai sessant'anni Ä così Michael congetturò Ä e parlava

senza enfasi (l'accento era dello Yorkshire) con una voce profon-

da, fredda, monocorde.

"Lei vorrà scusarmi per essermi introdotto, senza farmi an-

nunciare, nella sua intimità domestica," disse, "ma la porta era

socchiusa..."

"Va bene, va bene," rispose Michael. "In che cosa posso aiu-

tarla?"

"Lei è Mr Owen, presumo?"

"Sì, sono io."

"Io mi chiamo Sloane. Everett Sloane, avvocato, della Sloane,

Sloane, Quigley e Sloane. Ecco il mio biglietto da visita."

Michael si sforzò di assumere una posizione eretta, prese il

documento che gli era prodotto e lo esaminò con ostentata ne-

gligenza.

"Sono qui su istruzioni del mio cliente," disse l'avvocato, "il

compianto Mr Mortimer Winshaw, di Winshaw Towers."

"Compianto?" chiese Michael. "Vuol dire che è morto?"

"Questo," disse Mr Sloane, "è precisamente ciò che volevo di-

re. Mr Winshaw è passato a miglior vita ieri. Del tutto serenamen-

te, se bisogna dar credito alle voci."

Michael accolse la notizia in silenzio.

"Non vuole sedersi?" disse infine, rammentandosi del visita-

tore.

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Grazie, ma non ci vorrà molto per portare a termine il mio

incarico. Devo solo informarla che domani sera è richiesta la

sua presenza a Winshaw Towers per la lettura del testamento."

"La mia presenza?..." gli fece eco Michael. "Non capisco per-

ché. L'ho incontrato solo una volta. Che ragione avrebbe avuto

per lasciarmi qualcosa?"

"Naturalmente," disse Mr Sloane, "io non ho licenza di discu-

tere il contenuto del documento finché tutte le parti in causa non

saranno riunite, a ora e luogo convenuti."

"Certo," disse Michael. "Capisco."

"Posso dunque contare sulla sua presenza?"

"La ringrazio." Mr Sloane si voltò ed era già prossimo ad an-

darsene quando aggiunse: "Va da sé che lei passerà la notte a

Winshaw Towers. Le consiglierei di portare qualcosa di pesante.

E' un posto freddo e desolato, e il tempo, in questo periodo del-

l'anno, può essere oltremodo inclemente."

"Grazie. Me ne ricorderò."

"Allora a domani, Mr Owen. E non si scomodi: trovo la strada

da solo."

 

 

il giorno dopo c'era nell'aria uno strano sentore d'attesa che

nulla aveva a che fare col prossimo viaggio di Michael nello

Yorkshire. Era il 16 gennaio e, alle cinque di mattina, era scaduto

l'ultimatum delle Nazioni Unite per il ritiro dell'Iraq dal Kuwait.

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L'attacco alleato contro Saddam Hussein poteva essere sferrato da

un momento all'altro e, ogni volta che accendeva radio o televisio-

ne, Michael era mezzo convinto di sentire che era scoppiata la

guerra.

Salendo sul treno alla stazione di King's Cross nel tardo pome-

riggio, intravide delle facce note fra gli altri passeggeri: Henry Win-

shaw e il fratello Thomas stavano prendendo posto tutti e due su

una vettura di prima classe insieme al giovane cugino Roderick, il

mercante d'arte, e lo stesso Mr Sloane. Michael, non c'è bisogno

di dirlo, viaggiava in seconda classe. Il treno però non era affollato

ed egli ebbe modo di abbandonare, con la coscienza tranquilla, cap-

potto e valigia su un paio di sedili, dopo aver preso un quaderno su

cui provò a riportare i passaggi più importanti da un volume che

aveva tutta l'aria d'essere stato già molto compulsato.

Io ero "Sedano", pubblicato dalla Peacock Press alla fine del

1990, si era rivelato essere il diario di un ufficiale a riposo dell'Air

Intelligence, che aveva lavorato come agente segreto per M15 du-

rante la seconda guerra mondiale. Benché non offrisse alcuna in-

formazione diretta sulla catastrofica missione di Godfrey Win-

shaw, il volume spiegava almeno il senso della nota di Lawrence:

Biscotto, Formaggio e SEDANO, così pareva, erano stati tutti no-

mi in codice di agenti segreti alle dipendenze e sotto il controllo di

un Comitato dei Venti Ä così era stato chiamato Ä istituito nel gen-

naio del 1941 dal War Office, dal Ghq Home Forces, dall'M15,

dal M16 e altri, come organizzazione supplettiva di mutua coope-

razione. Lawrence aveva fatto parte del comitato? Molto proba-

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bilmente. E chissà, forse aveva anche mantenuto segreti contatti

radio con i tedeschi, fornendo loro non solo i nomi e l'identità

dei suddetti agenti segreti, ma anche informazioni sui piani mili-

tari britannici, come il proposto bombardamento delle fabbriche

di armi. Cinquant'anni dopo gli eventi, sarebbe difficile dimo-

strarlo, ma quella testimonianza cominciava a far pensare che le

gravissime accuse di Tabitha contro il fratello per il suo tradimen-

to durante la guerra non fossero poi così lontane dal vero.

Mentre il treno correva velocemente attraverso il grigio pae-

saggio velato di nebbia, per Michael diventò sempre più arduo

cercare di concentrarsi su un simile puzzle. Lasciò il libro e restò

a fissare nel vuoto fuori del finestrino. Il tempo non era granché

cambiato nelle due ultime settimane. Era un pomeriggio così quel-

lo in cui, una decina di giorni prima, era stato cremato il corpo di

Fiona nel tetro e squallido scenario di un'agenzia di pompe fune-

bri della periferia. Non c'era stato gran concorso di gente alla ce-

rimonia. Erano venuti solo Michael, uno zio e una zia, di cui s'era

persa memoria, che vivevano nel sud-ovest del paese, e un mani-

polo di colleghi di lavoro. Gli inni cantati furono un intollerabile

pio-pio di vocette e il tentativo di darsi convegno in un pub dopo

la cerimonia era stato un azzardo. Michael era rimasto solo pochi

minuti. Era ritornato al suo appartamento a prendere il necessario

per la notte e aveva preso un treno per Birmingham.

Anche la riconciliazione con sua madre non diede i risultati

sperati. Passarono una tremenda serata insieme in un ristorante

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vicino. Michael s'era immaginato, piuttosto ingenuamente, che il

solo fatto d'essersi rifatto vivo l'avrebbe colmata di gioia, tanto

da compensare il dolore inflittole dalla rottura dei rapporti pro-

trattasi così a lungo. Al contrario, si sentì in dovere di giustificare

la sua condotta, cosa che fece con fatica in una successione di di-

scorsi smozzicati e con poco costrutto. Proclamò che, in realtà,

suo padre era morto due volte: e la seconda morte, ben più deva-

stante, era avvenuta quando aveva appreso la verità sulla propria

origine. Dunque era convinto che il suo conseguente ritiro di qua-

si tre anni dal mondo lo si poteva interpretare come un periodo di

lutto prolungato, una teoria sostenuta, se mai di sostegno c'era bi-

sogno, dal saggio di Freud sul tema Lutto e melancolia. Sua madre

non si lasciò convincere da questo appello all'autorità scientifica,

ma dato che la sera si trascinava lenta e riconosceva la sincerità

della contrizione del figlio, il clima nondimeno cominciò a scio-

gliersi. Dopo che, arrivati a casa, si furono fatti due tazze di Hor-

lick, Michael si sentì incoraggiato a fare alcune domande sul suo

genitore perduto.

"E dopo quell'unica volta, dopo quel giorno là, non l'hai più

visto?"

"Te l'ho detto Michael. L'ho visto solo un'altra volta, dieci an-

ni dopo. L'hai visto anche tu. Te l'ho già detto."

"Cosa vuoI dire che l'ho visto io? Io non l'ho mai visto."

Sua madre bevve un'altra sorsata di Horlick e prese il largo

con la storia.

"Era una mattina di un giorno feriale ed ero in città a far com-

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pere. Avevo voglia di fare una piccola sosta e così andai da Rackh-

man, nella sala bar, a ordinarmi una tazza di tè. Era tutta piena,

ricordo, e restai in piedi per un po' col vassoio in mano a chieder-

mi dove andare a sedere. C'era un signore che sedeva da solo, con

un'aria triste triste, e mi domandai se non era il caso di dividere il

tavolo con lui. E in quel momento capii che era lui. Era invecchia-

to, ma ero sicura che fosse lui. L'avrei riconosciuto dovunque. Mi

diedi un minuto per pensarci e poi mi avvicinai al tavolo e dissi:

'Jim?' e lui alzò lo sguardo senza riconoscermi; e così dissi: 'Sei

Jim, vero?', ma per tutta risposta egli replicò solo 'Mi spiace,

ma credo che si stia sbagliando.' E allora dissi: 'Sono io, Helen,'

e vidi un barlume di memoria accenderglisi in volto. Dissi: 'Ti ri-

cordi, no?' e lui rispose che sì si ricordava, e allora mi sedetti e

cominciammo a parlare.

"Fu una pena quella conversazione: era l'ombra dell'uomo che

avevo conosciuto. Pareva molto in collera con se stesso per non

aver mai messo radici, per non aver trovato nessuno con cui met-

ter su casa e fare famiglia. Sembrava essersi fissato che era ormai

troppo tardi per far qualcosa del genere. Così quando presi a par-

lare di me, era come se non avessi scelta: dovevo dirgli di te. Forse

pensavo che saperlo gli avrebbe fatto bene. E naturalmente lui

non ne aveva la più pallida idea. Restò a bocca aperta. Volle sape-

re tutto di te, quand'eri nato, che faccia avevi, come andavi a

scuola, tutto di tutto. E più raccontavo più voleva sapere, finché

non mi chiese se poteva venire a vederti. Una volta sola. Ci pensai

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su e a dire il vero l'idea non mi piacque affatto, ma infine dissi che

sì, si poteva fare, ma che l'avrei chiesto a mio marito, supponendo

naturalmente che mi avrebbe risposto di no, e che in quel modo si

sarebbe chiusa la questione. Ma tu sai com'era Ted, non negava

niente a nessuno, e quando, la sera, tornai a casa e glielo doman-

dai davvero e lui disse sì, che non gli importava, e pensava che il

pover'uomo almeno quello se lo meritasse. Fu così che più tardi,

quella notte, dopo che tu eri andato a letto, fece un salto a casa

nostra e io lo condussi su nella tua stanza dove egli rimase a guar-

darti per quasi cinque minuti, finché tu non ti svegliasti, lo vedesti

e cominciasti a urlare così forte da scoperchiare il tetto."

"Ma quello era un sogno," disse Michael: "Io ebbi un incubo

così. Sognai di fissare la mia stessa faccia."

"Ebbene, non stavi sognando," disse lei. "Era la faccia di tuo

padre."

Michael rimase muto per un po'. Era troppo sconvolto per

parlare, sinché, di punto in bianco, riuscì a chiedere: "E poi?"

"Poi niente," disse sua madre. "Se ne andò via e nessuno di

noi l'ha più rivisto. O avuto sue notizie." Sul punto di avvicinare

la tazza alle labbra, esitò. "Eccetto il fatto che..."

"Sì?"

"Chiese se poteva avere una fotografia. Ricordo ancora come

ti descrisse Ä 'l'unica traccia di me stesso che sono riuscito a la-

sciare negli ultimi vent'anni' Ä e quando gli sentii dire così, seppi

che non potevo rifiutargliela. Così gli diedi la prima che trovai.

Era quella che tu tenevi sempre in mostra, quella di te e Joan

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mentre scrivete i vostri libri insieme."

Michael alzò lo sguardo lentamente. "Gli hai dato quella foto-

grafia? Allora io non l'ho mai perduta?"

Fece di no col capo. "Volevo dirtelo, ma non potevo. Non riu-

scivo a trovare la maniera per dirtelo."

Di fronte a tante rivelazioni la sua capacità di assorbimento

s'era quasi esaurita, ma non del tutto. "Quand'è stato?" fece Mi-

chael. "Quando è successo?"

"Dunque," disse sua madre, "fu in primavera. Questo è certo.

E fu prima del tuo compleanno, quando ti portammo a Weston.

Non fosti più lo stesso da quel giorno in poi. Perciò suppongo che

doveva essere il... 1961. Doveva essere la primavera del 1961."

 

 

Era già scuro quando Michael scese dal treno a York. I tre

Winshaw e Mr Sloane, senza notarlo, salirono subito in un taxi

che sparì nel traffico cittadino. Stabilito che, tolte le settanta ster-

line della corsa, gli sarebbe rimasto ben poco in tasca, Michael de-

cise che avrebbe dovuto fare a meno di quel mezzo di trasporto, e

aspettò un autobus, la cui partenza era prevista di li a quaranta-

cinque minuti. Passò il tempo consumando due pacchetti di Re-

vels e un Curly-Wurly, nella sala d'aspetto della stazione.

Il viaggio in pullman durò più di un'ora e per quasi metà tra-

gitto, mentre lo stanco, boccheggiante automezzo prendeva strade

sempre più scure e strette, sempre più sconnesse e tortuose, Mi-

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chael fu l'unico passeggero. Secondo una stima approssimativa,

una volta sceso dal pullman, era ancora a sette o otto miglia dalla

destinazione. Dapprincipio i soli rumori furono lo sconsolato be-

lare delle pecore, il crescere del gemito gentile del vento, e il ca-

dere di una fitta pioggia che pareva destinata a sciogliersi, di lì a

poco, in un bell'acquazzone. Le sole luci che si vedevano erano

quelle delle finestre di poche case isolate, sparpagliate e distanti.

Michael s'abbottonò il soprabito per difendersi dalla pioggia e

prese a camminare, ma qualche minuto dopo udi il lontano rom-

bo di un motore e girandosi vide, a non più di cinquecento metri,

i lampi gemelli dei fari anteriori di un'automobile che avanzava

nella sua direzione. Posò la valigia a terra e, quando il veicolo s'av-

vicinò, sfoderò un malinconico pollice. La macchina frenò.

"Va dalle parti di Winshaw Towers?" domandò, mentre il fi-

nestrino del guidatore s'abbassava svelando un uomo bruno dalla

faccia rasata di fresco, che portava un cappello a larga tesa e un

Barbour verde.

"Arrivo a un miglio dalla proprietà e non farò un metro di

più," disse l'uomo. "Salga."

Viaggiarono per diversi minuti in silenzio.

"E' una brutta serata per uno che non è di qui," disse infine il

guidatore, "perdersi nella brughiera."

"Credevo che il pullman mi portasse più vicino," disse Mi-

chael. "Il servizio mi pare un po' irregolare da queste parti."

"La deregulation," disse il guidatore. "E' un crimine." Tirò su

col naso. "Intendiamoci, per gli altri io non voterei proprio."

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Lasciò Michael a un incrocio e filò via, abbandonandolo di

nuovo alla mercé di vento e pioggia, che pareva aver raddoppiato

in intensità. Nell'oscurità che lo circondava non si vedeva altro

che l'accjdentata strada di pietrisco che gli si svolgeva davanti, or-

lata su entrambi i lati da una stretta striscia di brughiera che di

tanto in tanto lasciava il posto a nuda torba nera, erica rada e pie-

tre impilate in strane forme inquietanti; nient'altro per almeno

dieci minuti di cammino, finché Michael ebbe la netta percezione

che la strada aveva cominciato a correre lungo una specie di lago

artificiale, ifiuminato, in fondo, da file parallele di luci che richia-

mavano alla mente la pista d'atterraggio d'un aeroporto. Riuscì

anche a distinguere il profilo di un piccolo idrovolante parcheg-

giato in acqua in prossimità della riva. Subito dopo, arrivò a

una zona di terreno boscoso, circondato da un lungo muro di

mattoni che si interrompeva a un cancello in ferro battuto. I bat-

tenti cigolarono sui cardini appena li toccò e Michael immaginò

d'essere arrivato alla fine del suo viaggio.

Quando emerse dal tunnel di tenebra apparentemente senza

fine, impantanato e fitto di vegetazione abbandonata a se stessa,

che costituiva il viale d'accesso, i riquadri dorati di luce che irrag-

giavano dalle finestre di Winshaw Towers ebbero quasi l'aria di

dargli il benvenuto. Tale impressione, però, smorì alla prima oc-

chiata fugace che egli gettò alla mole della tozza, arcigna dimora.

Un brivido corse per il corpo di Michael mentre s'avvicinava al

portico dell'ingresso e udiva lo spettrale ululato di protesta dei ca-

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ni, confinati in qualche invisibile capanno. Con un moto di sor-

presa si ritrovò a borbottare fra sé "Non è quel che si dice un po-

sto per farci le vacanze".

La battuta era di Sid, naturalmente, ma non c'era nessun Sid a

tenergli compagnia allora. Per il momento avrebbe dovuto prose-

guire il dialogo da solo.

 

 

 

 

Capitolo secondo.

PER UN PELO NON FINISCE MALE.

 

Non appena Michael provò a sollevare l'enorme batacchio ar-

rugginito, scoprì che la porta si apriva spontaneamente. Entrò e

si guardò intorno. Era in un immenso tetro salone lastricato in

pietra, illuminato solo da quattro o cinque lampade montate in

alto, sui pannelli di legno delle pareti, con tappezzerie logore e

dipinti a olio che aumentavano l'impressione crepuscolare del-

l'insieme. C'erano porte che s'aprivano su entrambi i lati, e da-

vanti aveva un ampio scalone di quercia. Vide della luce venire

da sotto una delle porte alla sua sinistra e dalla stessa direzione

giunsero, appena udibili, delle voci, l'andare e venire di una con-

versazione senza capo né coda. Dopo una breve esitazione, ap-

poggiò la valigia ai piedi dello scalone, si scrollò il bagnato di

dosso, si liberò la fronte dai capelli, li calcò indietro alla bell'e

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meglio e avanzò impettito.

La porta dava in un grande e gaio salotto, dove ardeva allegro

un fuoco di legna a ciocchi, gettando grottesche ombre ballerine

sulle pareti. In una poltrona accanto al camino sedeva una vec-

chiettina ingobbita, avvolta in uno scialle, lo sguardo incrociato

a seguire, coi suoi occhi intenti da uccelletto, i ferri da calza

che ella manovrava sapiente con dita mobilissime. Quella, imma-

ginò Michael, è Tabitha Winshaw: la sua rassomiglianza con zia

Emily, la vecchia zitella squilibrata interpretata da Esma Cannon

nel film Sette allegri cadaveri, era lampante. Di fronte a lei, su un

divano, lo sguardo perduto flemmaticamente nel vuoto, un bic-

chiere di whisky in mano, c'era Thomas Winshaw, il banchiere,

mentre nel lato più lontano della sala, vicino alla finestra rigata

di pioggia, davanti a un tavolo, Hilary Winshaw batteva veloce

sulla tastiera di un computer portatile, in piena tranquillità. Giun-

ta quasi alla fine di un paragrafo e volgendo lo sguardo intorno

nella stanza alla ricerca di ispirazione, fu la prima a notare l'appa-

rizione di Michael.

"Salve, questo chi è?" disse. "Uno sconosciuto nella notte,

uno stranger in the night, ma chi ne ha mai visto uno?"

"Sconosciuto non del tutto," disse Michael, e fu sul punto di

presentarsi quando Thomas intervenne sbottando: "Accidenti,

cristo santo, lei sta sgocciolando sul tappeto. Chiamate il maggior-

domo, qualcuno, e fategli togliere quel soprabito".

Hilary si levò in piedi, tirò un cordone e poi venne a dare

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un'occhiata più da vicino al nuovo arrivato.

"Sapete, io l'ho già visto da qualche parte," disse. Indi rivol-

gendosi a Michael direttamente: "Non è che lei va a sciare ad

Aspen, per caso?"

"Mi chiamo Michael. Michael Owen," rispose, "e faccio lo

scrittore. Fra le mie opere incompiute c'è una storia della vostra

famiglia: parte della quale lei deve persino aver letto."

"Oh, ma bene! Mr Owen!" gridò Tabitha, lasciando i ferri

e battendo le mani per la contentezza quando udì la notizia.

"Mi chiedevo proprio se ce l'avrebbe fatta a venire. Non vede-

vo l'ora di conoscerla. Naturalmente io l'ho letto il suo libro Ä

il suo editore lo mandava a me, come lei ben sa Ä e l'ho letto,

devo dire, con il più vivo interesse. Dobbiamo sederci qui in-

sieme e parlarne. Ah sì, dobbiamo proprio fare una bella chiac-

chierata."

Thomas a quel punto si alzò e puntò il dito accusatore contro

Michael.

"Mi ricordo di lei. Lei è quel maledetto scrittorucolo senza

scrupoli. Un giorno si presenta in banca e comincia a farmi un

sacco di domande incredibili. Fui costretto a metterla alla porta,

se non mi sbaglio."

"Non si sbaglia, non si sbaglia," disse Michael, tendendo la

mano che Thomas si rifiutò di stringere.

"Ebbene che diavolo pensa di fare qui, arrivando nel bel mez-

zo di una riunione di famiglia? Questo è l'equivalente di un furto

con scasso. Potrebbe ritrovarsi in guai serissimi."

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"Sono qui per la stessa ragione che ha portato lei," disse Mi-

chael tranquillo. "Sono qui per la lettura del testamento, su invito

del defunto suo zio."

"Fesserie, porca miseria, tutte fesserie! Se lei si aspetta che noi

beviamo una storia del genere..."

"Credo proprio che avrete modo di scoprire che Mr Owen sta

dicendo la verità," disse una voce dall'ingresso.

Si voltarono all'unisono e videro che Mr Sloane aveva fatto il

suo ingresso in salotto. Portava ancora il suo completo nero con

panciotto e aveva con sé una smilza borsa, saldamente chiusa nella

mano destra.

"E stato Mortimer Winshaw a fare esplicita richiesta che egli

fosse presente qui stasera," continuò, avvicinandosi al fuoco per

scaldarsi. "La ragione non la sapremo sino a quando il testamento

non sarà letto. Se Mr Owen salisse subito di sopra per darsi una

sistemata, si potrebbe accelerare il felice evento."

"Mi sembra giusto," disse Michael.

"Ed ecco qui il suo taxi," disse Hilary, allorché comparì, stra-

scicando i piedi, il vetusto simulacro di Pyles, il maggiordomo.

Michael e Pyles seguitarono lentamente insieme su per lo sca-

lone. Non avendo molta esperienza di come si parla alla servitù,

Michael lasciò passare qualche tempo prima di osare una sortita.

"Beh, non posso dire di avere una grande opinione del clima

che c'è da queste parti," disse con un sorrisetto nervoso. "La

prossima volta, credo che mi porterò degli stivali di gomma e

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un cappello di tela cerata."

"Il peggio deve ancora venire," tagliò corto Pyles.

Michael meditò sulla frase.

"Vi riferite al tempo, suppongo."

"Ci sarà tempesta stanotte," mormorò. "Tuoni, saette e piog-

gia a catinelle, quanto basta per inzuppare i morti nelle loro tom-

be." Fece una breve pausa e poi aggiunse: "Ma per rispondere al-

la vostra domanda, dirò che non mi riferivo al tempo, no".

"No, eh?"

Pyles appoggiò la valigia nel mezzo del corridoio e tamburellò

con la mano sul petto di Michael.

"E' da quasi trent'anni che la famiglia non si riunisce tutta in

questa casa," disse. "Allora ci fecero visita la tragedia e il delitto,

e così faranno anche stanotte!"

Michael fece un passo indietro, sottraendosi delicatamente allo

stretto contatto con l'aura alcolica del maggiordomo.

"Che cosa.., cioè... a che cosa pensate esattamente?" chiese,

riprendendosi lui la valigia e procedendo lungo il corridoio.

"Quel che so," disse Pyles, zoppicandogli dietro, "è che qui

stanotte succederanno cose spaventose. Cose terribili accadranno.

Possiamo dirci fortunati se domani mattina ci sveglieremo vivi nel

nostro letto."

Si fermarono davanti a una porta.

"Questa è la vostra camera," disse, sospingendo la porta. "Te-

mo che la serratura sia rotta da parecchio tempo."

Le pareti e il soffitto della camera di Michael erano coperti da

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pannelli di quercia scura e c'era una piccola stufetta elettrica che

non aveva ancora avuto il tempo di asciugare l'umidità. Nonostante

la luce emanata dalla stufetta e un paio di candele accese sulla tolet-

ta, ogni angolo della stanza era immerso in una fosca tenebra.

Anche l'aria della stanza era d'una qualità particolare: sapeva di

decomposizione in atto, di quel muffo freddo e umido che si sente

nei sotterranei. L'unica finestra alta e stretta sbatteva incessante-

mente, agitata dal vento di tempesta, al punto che il vetro pareva

dovesse andare in frantumi. Mentre Michael disfaceva la valigia e

disponeva pettine, rasoio e busta di spugna sulla toletta, fu preso

da un crescente senso di inquietudine. Quantunque ridicole, le

parole del maggiordomo avevano lasciato in lui il seme di una infor-

me, irrazionale paura, ed egli cominciò a pensare ansiosamente al

salotto a pianterreno con il suo camino acceso e la sua promessa

di umana compagnia (detto e non concesso che una stanza piena

di Winshaw potesse offrire davvero beni di tal fatta). Si cambiò

più in fretta che poté i vestiti bagnati, indi chiuse la porta della

stanza dietro di sé con un sospiro di sollievo, e si precipitò lungo

il cammino appena percorso.

Cosa, quest'ultima, più facile a dirsi che a farsi. Il piano supe-

riore della casa, infatti, era un vero labirinto di corridoi, e Michael

Ä ora se ne rese conto Ä era stato così distratto dalle profezie del

maggiordomo che non aveva fissato bene nella memoria tutte le

giravolte del percorso. Dopo essere andato su e giù per qualche

tempo lungo gli oscuri corridoi coperti d'una sottile passatoia, il

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suo disagio aveva cominciato a montare in qualcosa di simile al

panico. Ebbe anche l'impressione Ä un'impressione ridicola, lo

sapeva bene Ä di non essere solo in quella parte della casa. Poteva

giurare d'aver udito porte che s'erano aperte e chiuse furtiva-

mente, e persino d'aver colto, una volta o due, la fuggevole imma-

gine di qualcosa che si muoveva nell'angolo più buio di uno dei

pianerottoli. Tale impressione non svanì neppure quando arrivò

(e fu proprio quando meno se lo aspettava) allo scalone. Lì si con-

cesse una sosta, mettendosi per un attimo fra due armature arrug-

ginite, l'una composta nell'atto di brandire un'ascia, l'altra una

mazza.

Ordunque: era pronto ad affrontare la famiglia? Si aggiustò i

capelli col palmo della mano, si stirò la giacca e controllò che la

patta dei pantaloni non fosse rimasta aperta. Infine notando il

laccio lento di una scarpa, si piegò su un ginocchio a rifare il

nodo.

Era in quella posizione quando udì lo strillo di una voce di

donna alle sue spalle.

"Attenzione! Per l'amor di Dio, attenzione!"

Roteò su se stesso e vide che l'armatura che brandiva l'ascia

stava rovesciandosi lentamente sopra di lui. Con un grido d'allar-

me si buttò in avanti, proprio un attimo prima che la lama della

venerabile arma si conficcasse con un colpo sordo nel posto esatto

in cui si era messo in ginocchio.

"Sta bene?" disse la donna correndo al suo fianco,

"Credo di sì," disse Michael che in realtà aveva battuto la testa

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contro la balaustra. Cercò di riguadagnare la posizione eretta ma

non ci riuscì. Avendo notato quell'attimo di difficoltà, la donna

sedette sul primo gradino dello scalone e lo invitò a poggiare la

testa sul suo grembo.

"Ha visto qualcuno?" chiese Michael. "Qualcuno deve averla

spinta."

Proprio allora, come avesse intuito il momento giusto, un gat-

tone nero sgattaiolò fuori dell'edicola in cui stava l'armatura, e poi

schizzò giù per le scale con un miao molto colpevole.

"Torquil!" disse la donna, con un tono di rimprovero. "Cosa

fai fuori della cucina?" sorrise. "Beh, quello è il suo assassino,

suppongo."

"Cos'era quel rumore?"

"Cosa succede qui?"

Due uomini che Michael riconobbe come Roderick e Mark

Winshaw, stavano sollevando l'armatura per rimetterla a posto,

mentre Tabitha si piegò su di lui e chiese: "Non è mica morto,

vero?"

"Oh, non credo. S'è preso una botta in testa, tutto qui."

Michael stava pian piano tornando in sé e si ritrovò a scru-

tare dal basso in alto la sua salvatrice, una donna di poco più di

trent'anni, molto bella e dall'aria intelligente, con lunghi capelli

biondi e un sorriso dolcissimo; la guardò e si ritrovò immedia-

tamente con gli occhi sgranati per lo stupore. Li chiuse e li ria-

prì almeno tre quattro volte di seguito. Quella donna, lui la co-

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nosceva. L'aveva già vista prima. Dapprima pensò che fosse

Shirley Eaton. Poi, dopo un ennesimo battere delle palpebre,

una lontana, più elusiva memoria affiorò in superficie. Aveva

qualcosa a che fare con Joan.... con Sheffield. Con... Sì! Era

la pittrice. La pittrice in casa di Joan. Ma non poteva essere.

Che cosa ci faceva lì?

 

 

"Penso che devo essere ammattito," disse Michael.

Tabitha, a queste parole, rise istericamente.

"Che divertente!" gridò. "Così siamo in due."

E dopo questa illuminante osservazione si mise avanti a tutti e

li guidò al piano di sotto.

Sicuro che va tutto bene? chiese Phoebe, vedendolo cam

biare espressione. "Ha un'aria un po' strana."

 

 

 

 

Capitolo terzo.

NIENTE PANICO!

 

-Il testamento di Mortimer Winshaw," disse Everett Sloane,

gettando un severo sguardo intorno al tavolo, "si presenta come

una breve dichiarazione, che egli ha vergato solo pochi giorni fa.

Se nessuno ha qualcosa da obiettare, lo leggerò nella sua comple-

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tezza."

Prima di poter procedere, la scarica d'un tuono fece vibrare i

vetri delle finestre e tintinnare i candelieri sopra la mensola del ca-

mino. Fu seguito quasi subito da un lampo che per un attimo,

brevissimo e allucinatorio, diede agli intenti musi di falco della fa-

miglia in attesa una fisionomia pallida e spettrale.

"Io, Mortimer Winshaw," cominciò l'avvocato, "scrivo queste

ultime parole per i membri tuttora in vita della mia famiglia, con

la inequivocabile certezza che saranno tutti presenti ad ascoltare.

Devo dunque cominciare col dare il più caldo benvenuto ai miei

nipoti, Thomas ed Henry, a mia nipote Dorothy, al mio nipote

più piccolo, Mark (figlio del caro e defunto Godfrey), e da ultimo

ma non certo perché li ritenga agli altri inferiori, a Hilary e Rode-

rick, frutto Ä quantunque quasi mi vergogni di ammetterlo Ä dei

miei lombi.

"Agli altri tre ospiti, della cui presenza non sono del tutto si-

curo, porgo più incerti saluti. Spero e prego che, almeno per una

notte, la mia cara sorella Tabitha sia sottratta al suo ingiusto iso-

lamento onde sia presente a quella che promette di essere una

straordinaria e, oserei dire, irripetibile riunione di famiglia. Spero

anche che abbia al suo fianco la mia infermiera più leale e disin-

teressata, Miss Phoebe Barton, la grazia, il fascino e la gentilezza

della quale sono stati per me ragione di grande conforto nell'ulti-

mo anno della mia vita. E infine confido nel fatto che lo sfortuna-

to biografo della famiglia, Mr Michael Owen, sia a disposizione

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per redigere una cronaca esaustiva di una sera che offrirà, ripeto,

una degna e pertinente conclusione alla sua storia, attesa con im-

pazienza.

"Le seguenti note, del resto, sono indirizzate non a questo trio

di spettatori, ma ai sei parenti sunnominati, la cui presenza, stase-

ra, intorno a questo tavolo è di per sé una scontata conclusione. E

tuttavia, potreste chiedere, come essere certi che il pronostico

s'avveri? Che motivazione potrebbe verosimilmente spingere sei

persone, la cui esistenza è ancorata così fittamente e gloriosamente

al palcoscenico del mondo, ad abbandonare i loro impegni quasi

senza preavviso, di punto in bianco, e venire qui in questo posto

desolato e dimenticato da Dio, un posto, vorrei aggiungere, che

non ebbero alcuna difficoltà a disertare mentre era vivo il suo pro-

prietario? La risposta è semplice: essi saranno spinti dalla stessa

identica forza che li ha sempre, e solamente, guidati in tutta la

conduzione delle loro carriere professionali. Mi riferisco Ä va da

sé Ä all'avidità: la nuda, brutale, rapace avidità. Non cale che sta-

sera, intorno a questo tavolo, si siano radunate sei delle persone

più ricche del paese. Non cale che esse sappiano per certo che

la mia personale fortuna ammonta a una frazione infinitesimale

della loro. L'avidità è così radicata in questa gente, è diventato

un così saldo costume mentale, da lasciarmi credere che non po-

tranno resistere alla tentazione di affrontare il viaggio, non foss'al-

tro che per grattar via gli avanzi, quali che siano, dalla marcia bot-

te che è tutto ciò che resta della mia proprietà."

"C'è la stoffa del poeta d'altri tempi, no?" disse Dorothy, ap-

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parentemente non sconcertata dal tono del documento.

"Se non fosse incline a sovrapporre le metafore," disse Hilary.

"E il fondo delle botti che si gratta. E non si dice, delle botti, che

sono marce solo se dentro c'è una mela marcia?"

"Posso continuare?" chiese Mr Sloane. "Manca solo un para-

grafo."

Cadde il silenzio.

"E dunque mi dà non poco piacere annunciare a questi paras-

siti Ä questi vermi con sembianze umane Ä che hanno malriposto

le loro speranze. Muoio in una condizione di povertà tale che la

loro immaginazione faticherà a comprendere. Per tutti i lunghi fe-

lici anni del nostro matrimonio, Rebecca e io non abbiamo vissuto

giudiziosamente. Il denaro che avevamo, lo spendavamo. E invece

avremmo dovuto darci da fare ad accumularlo, a investirlo, a farlo

girare, o dedicare tutte le nostre energie a fiutarlo e a metterci le

mani sopra. Ma quella non era, temo, la nostra filosofia. Decidem-

mo di godercela, col risultato di trovarci pieni di debiti, debiti che

a tutt'oggi non sono stati onorati. Debiti così grossi che persino la

vendita di questa maledetta residenza Ä dato e non concesso che si

trovi l'allocco disposto a comprarla Ä non sarebbe sufficiente a co-

prirli. Lascio dunque questi debiti ai sei sopramenzionati membri

della mia famiglia, con l'istruzione che essi siano equamente divisi

fra loro. Un prospetto dettagliato è allegato in appendice a questo

documento. Non mi rimane che augurarvi di passare una sana e

piacevole serata insieme sotto questo tetto.

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"Datato undici di gennaio, dell'anno millenovecentonovantu-

no. Firmato, Mortimer Winshaw."

Ci fu un altro tuono. Era più vicino, questo, e lasciò uno stra-

scico di cupi brontolii. Quando infine si spensero, Mark disse: "E'

ovvio che, dal punto di vista legale, non può mica cavarsela così.

Ne siete tutti consapevoli, immagino. Non abbiamo alcun obbligo

di soccorrerlo presso i suoi creditori".

"Hai ragione," disse Thomas, alzandosi in piedi e dirigendosi

verso la caraffa di whisky. "Ma non è questo il punto. Il punto,

immagino, era ordire una maledetta burla a nostre spese: e da

questo punto di vista, direi che ci è riuscito benissimo."

"Beh, almeno la cosa dimostra che il vecchietto aveva ancora

dello spirito," disse Hilary.

"Quanto ti pagava?" abbaiò Henry, girandosi di scatto verso

Phoebe.

"Prego?"

"Il vecchio dice che non aveva soldi, allora come faceva a per-

mettersi un'infermiera privata?"

"Vostro zio pagava Miss Barton," disse l'avvocato, versando

l'olio del garbo sulle acque agitate, "attingendo alla somma avuta

dall'ipoteca su questa proprietà." Sorrise ai volti rabbiosi schierati

contro di lui. "Era davvero un uomo poverissimo."

"Beh, non so gli altri," disse Hilary alzandosi e tirando il cor-

done del campanello, "ma ho voglia di mangiare qualcosuccia do-

po essere rimasta seduta così a lungo. Sono le dieci passate e non

tocco cibo da stamattina. Vediamo Pyles che cosa ci prepara."

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"Non male come idea," disse Roddy, mentre anche lui pren-

deva la strada del whisky. "E assicurati, intanto che c'è, che scen-

da in cantina per i vini."

"Maledizione," disse Dorothy. "Non facesse il tempo che fa

avrei potuto tornarmene in auto alla fattoria prima di mezzanotte:

ma non conviene rischiare di mettersi per strada stanotte."

"Già: pare proprio che siamo qui tutti ad aspettare che fini-

sca," concordò Thomas.

Tabitha si alzò faticosamente dalla sedia.

"Spero che nessuno ne abbia a male," disse, "se ritorno al mio

posto di prima. Quella poltrona è così comoda e voi non avete

idea di che sollievo sia sedersi accanto a un vero fuoco. La mia

stanza all'Istituto è gelata, sapete, anche d'estate. Vuol venire a se-

dere con me, Mr Owen? E' da così tanto che non sto in compa-

gnia d'un vero uomo di lettere."

Michael non aveva ancora avuto l'occasione di parlare a Phoe-

be ed era stato sul punto di ripresentarsi onde verificare se lei

rammentava l'incontro di tanto tempo prima; ma non sapendo co-

me rifiutare con garbo l'invito della sua mecenate non ebbe altra

chance che avviarsi verso il focolare. Mentre si sedeva, gettò

un'occhiata in alto al ritratto appeso sopra il camino, chiedendosi

se dietro non ci fossero due occhi intenti a guardare. Ma questo,

dovette ammettere, era improbabile: era un Picasso e gli occhi

erano stati dipinti sullo stesso lato della faccia.

"Dunque mi dica," cominciò Tabitha, appoggiandogli una

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manina esile esile sul ginocchio. "Ha pubblicato altri di quei suoi

affascinanti romanzi?"

"Temo di doverle dire di no," rispose lui. "Pare che l'ispira-

zione mi abbia abbandonato da qualche tempo a questa parte."

"Oh che vergogna. Ma non importa; sono sicura che tornerà.

Spero almeno che abbia ormai un saldo posto nel mondo lettera-

rio.

"Beh, è un bel po' di anni, vede, che..."

"Per esempio, il gruppo di Bloomsbury: immagino che loro la

conoscano bene."

Michael aggrottò le ciglia. "Il... di Bloomsbury?"

"E da qualche anno che non ci scriviamo più, con mio grande

rincrescimento, ma Virginia e io siamo state molto amiche una

volta. E naturalmente anche il caro Winifred. Winifred Holtby.

Lei conosce le sue opere, non è vero?"

''Sì, io...''

"Sa, se in qualche modo fosse utile per la sua carriera, io po-

trei facilmente procurarle un bel po' di presentazioni. Ho una cer-

ta influenza su Mr Eliot. In realtà, mi hanno detto, se lei è capace

di tenere un segreto," (e qui ridusse il volume della voce a un sus-

surro), "che ha una cotta per me."

"Lei sta parlando... di T.S. Eliot?" Michael esitò. "L'autore di

Terra desolata?"

Tabitha se ne uscì con una risata sonora, musicale.

"Macché, stupidino!" disse lei. "E' da anni che è morto. Non

gliel'hanno detto?"

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Lui si unì alla risata con qualche incertezza. "Ma sì, natural-

mente."

"Spero che lei non si stia prendendo gioco di un'anziana si-

gnora," disse, conficcandogli per gioco nelle costole un ferro

per fare la maglia.

"Chi, io? Ma no, ma no, certo che no."

"Io mi riferivo," spiegò con gli occhi che le brillavano ancora

per lo scherzo, "a Mr George Eliot. L'autore di Middlemarch e del

Mulino sulla Floss."

Tabitha raccolse il gomitolo di lana e ricominciò ad agucchia-

re, con un sorriso di benevolenza stampato in faccia. Fu in grado

di por fine allo stupito silenzio di Michael con un repentino cam-

biamento di soggetto.

"Ha mai volato su un Tornado?"

 

 

La cena di quella sera a Winshaw Towers non fu un pasto fe-

stoso, afflitto come fu da affettati, sottaceti, formaggio e un Chablis

insapore. Erano solo otto a tavola: Henry e Mark scelsero di restare

in una stanza di sopra a guardare il notiziario in televisione. En-

trambi parevano convinti che dovesse essere imminente l'annuncio

dell'attacco americano contro Saddam Hussein. Tutti gli altri si se-

dettero da una parte sola del grande tavolo della sala da pranzo, che

era inospitale e piena di spifferi. I caloriferi, per qualche ragione,

non funzionavano e sui candelieri elettrici mancavano parecchie

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lampadine. Per un po' mangiarono in un silenzio quasi assoluto.

In quelle circostanze Michael non se la sentiva di avviare una con-

versazione privata con Phoebe, e pareva che gli stessi Winshaw non

avessero da dirsi granché. Contemporaneamente, il costante ulula-

re del vento e il martellare della pioggia contro le finestre non con-

tribuivano a destare buon umore in nessuno.

La monotonia fu, al fine, rotta dal rumore di un vigoroso bus-

sare alla porta d'ingresso. Subito dopo si udì, con l'aprirsi della

porta, un vociare nel salone d'entrata. Pyles si trascinò nella sala

da pranzo e informò l'assemblea al completo: "C'è un gentiluomo

fuori, dice che è un poliziotto".

Michael lo interpretò come un annuncio alquanto drammati-

co, ma gli altri lo accolsero senza grande interesse. Fu Dorothy,

la più vicina alla porta, che infine si alzò e disse: "Immagino

che sia meglio parlargli".

Michael la seguì nell'ingresso dove s'imbatterono in Mark che

scendeva dallo scalone.

"E adesso cosa c'è?" disse.

Una figura d'età incerta con folta barba e irsute sopracciglia,

l'uniforme zuppa di pioggia, si presentò come sergente Kendall

del corpo di polizia del villaggio.

"Corpo d'un crimine!" esclamò, in un accento locale oscuris-

simo alle orecchie di Michael. "E' una notte che sarebbe meglio

starsene tappati al sicuro in casa, e non avere rogne da andare

in giro".

"Cosa possiamo fare per lei, sergente?" chiese Dorothy.

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"Beh, non è che voglio allarmarvi, signora," disse il poliziotto,

"ma pensavo che era meglio mettervi in guardia."

"Metterci in guardia? Da che?"

"Sta qui con voi, credo, una certa Miss Tabitha Winshaw sta-

sera."

"Certo. E dov'è il pericolo?"

"Voi sapete bene, suppongo, che al... che nell'ospedale dove

Miss Winshaw usualmente risiede, ci sono un bel po' di casi molto

pericolosi Ä alienati mentali, voi capite Ä che sono tenuti in con-

dizioni di assoluta sicurezza."

"E allora?"

"Sembra che ci sia stata una fuga questo pomeriggio, e uno di

questi pazienti è scappato, nientemeno che un criminale assassino:

uno che uccide senza alcuna pietà, senza alcun rimorso. Corpo d'un

crimine! La vita d'un uomo tanto sfortunato da incrociare il suo

cammino in una notte così non varrebbe un centesimo bucato."

"Ma, sergente, l'Istituto è a più di trenta chilometri da qui.

Non vedo perché l'incidente, per quanto inquietante possa essere,

debba riguardarci. "

"Temo invece che vi riguardi. Vedete, il veicolo usato per la

fuga, è la stessa macchina su cui ha viaggiato Miss Winshaw per

venire qui stasera. Quel dritto deve essersi nascosto nel bagagliaio.

Il che significa, con tutta probabilità, che dev'essere ancora qui,

nei dintorni. Non può andare molto lontano, con 'sto tempo."

"Mi faccia capire, sergente," disse Mark Winshaw. "Lei ci sta

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dicendo, in realtà, che c'è un maniaco omicida che gira libero nei

campi?"

"Le cose stanno così, signore."

"E magari ha dei consigli su come adattarci a questo increscio-

so stato di cose?"

"Ebbene, direi di non lasciarsi prendere dal panico, signore.

Questo è il mio primo consiglio. Niente panico, qualsiasi cosa fac-

ciate. Prendete la semplice precauzione di chiudere a chiave tut-

te le porte di accesso alla casa Ä sprangatele se potete Ä liberate

dei cani nei giardini, munitevi di tutte le pistole e armi da fuo-

co che avete in giro e abbiate la precauzione di tenere accesa la

luce in tutte le stanze. Queste creature hanno un sesto senso

per la paura, sapete. La usmano." Dopo averli così rassicurati,

si calcò il berretto in testa e s'avviò verso la porta. "E' meglio

che vada, adesso, se non vi spiace. C'è fuori il mio collega

che sta aspettando in macchina, e abbiamo ancora diverse case

a cui far visita stasera."

Dopo averlo accompagnato alla porta Ä e aver lasciato entrare,

durante l'operazione, un torrente di pioggia e foglie vorticanti Ä

Mark, Dorothy e Michael fecero ritorno nella sala da pranzo

per comunicare agli altri quelle inaudite novità.

"Bene, era proprio quello che mancava per una piacevole se-

rata," disse Hilary. "Sembra dunque che ci tocchi di passare la

notte in compagnia di Norman Bates, o mi sbaglio?"

"Ci sarebbe ancora il tempo per andarsene," borbottò Mr

Sloane "se qualcuno avesse voglia di provarci."

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"Come non darle ragione!" disse Dorothy.

"Non posso credere che uno dei miei vicini possa fare cose co-

sì brutte," disse Tabitha, quasi parlasse con se stessa. "Sembrano

tutti persone così tranquille e di buon carattere."

Un'uscita che la maggior parte dei parenti accolse sbuffando.

"Incidentalmente, potrebbe anche essere non lontana dal ve-

ro," commentò Michael, girandosi verso Hilary. "Norman Bates

non so, ma naturalmente ci sono film dove accadono cose di que-

sto genere."

"Per esempio?"

"Per esempio in Il gatto e il canarino. C'è qualcuno che l'ha

visto?"

"Io lo conosco," disse Thomas. "Bob Hope e Paulette God-

dard."

"Giusto. Tutti i membri di una famiglia sono chiamati in una

vecchia casa isolata per la lettura di un testamento. C'è un terribile

temporale. E un ufficiale di polizia si presenta ad avvisarli che un

killer s'aggira nella zona."

"E ai membri della famiglia cosa accade?" chiese Phoebe, ri-

volgendosi a Michael per la prima volta.

"Vengono assassinati," disse lui con naturalezza. "Uno per

uno."

Lo schianto del tuono che seguì questa dichiarazione fu più

forte del solito. Gli succedette una lunga pausa. Le parole di Mi-

chael sembrarono aver avuto un considerevole effetto: solo Hilary

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restò pervicacemente non impressionata.

"Beh, a dire il vero, non vedo di cosa dobbiamo preoccuparci.

Dopo tutto, lei è il solo ad aver subito un'aggressione sino a ora."

"Suvvia," disse Michael. "Sappiamo tutti che è stato un inci-

dente. Davvero non state pensando..."

"Permette?" si intromise Roddy di punto in bianco. "Comin-

cio a ritenere che il tenore della conversazione sia insapore, senza

gusto, come questo detestabile formaggio Stilton."

Allontanò il piatto con disgusto.

"E tu, sul gusto, sai tutto quel che bisogna sapere, natural-

mente," disse Phoebe.

Questo commento fu accompagnato da un'occhiata molto si-

gnificativa, che lo indusse a puntare il dito su di lei e a farfugliare

furiosamente: "Hai del bel pelo sullo stomaco, sai, a star qui. Un

solo weekend passato in questa casa ti è bastato per allungare i

tuoi artigli su mio padre. Quanti soldi gli hai spremuto, eh? Vo-

glio sapere solo questo. E tanto per essere più precisi, di che cosa

è morto? Nessuno ha ancora detto niente in proposito".

"Non lo so con esattezza;" disse Phoebe sulla difensiva. "Non

c'ero quando è successo."

"Dammi retta, stiamo perdendo tempo qua dentro," disse Do-

rothy. "Qualcuno vada a cercare Henry e lo metta al corrente di

quel che sta succedendo."

L'idea parve a tutti quanti molto sensata.

"Dov'è, però?"

"Su nella vecchia camera della signora Gannet, a guardare la

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televisione."

"E dove diavolo è? C'è qualcuno che sa come girare in questa

maledetta casa?"

"Lo so io," disse Phoebe. "Vado a prenderlo io."

Michael non ebbe la prontezza di spirito per opporsi a questa

risoluzione, poiché era stato depistato e intrigato dall'improvvisa

esplosione di animosità fra Roddy e Phoebe, e cominciava a chie-

dersi se dietro non ci fosse una qualche storia. Ma non appena si

rese conto che lei era partita per una missione che avrebbe potuto

rivelarsi rischiosa, si volse a rimproverare gli altri.

"Non dovrebbe andare in giro da sola," protestò. "Avete sen-

tito cos'ha detto il sergente. Potrebbe esserci un killer in casa."

"Che sciocchezze," lo derise Dorothy. "Non siamo mica in un

film, sa."

"Questo lo crede lei," disse Michael e uscì di corsa all'insegui-

mento di Phoebe.

Ma una volta di più ebbe modo di maledire l'architettura in-

fernalmente involuta dell'edificio. Arrivato in cima dello scalone,

scoprì di non avere alcuna idea della direzione da prendere, e

sprecò minuti preziosi ansando su e giù per tortuosi corridoi

che finivano per tornare a incrociarsi fra di loro finché all'improv-

viso girò un angolo e s'imbatté proprio in Phoebe.

"Cosa ci fa lei qui?" disse lei.

"La cercavo, naturalmente. L'ha trovato?"

"Henry? No, non c'è più in quella stanza. Forse è tornato

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giù.

"Probabilmente. E tuttavia diamo un'altra occhiata, non si sa

mai."

Phoebe lo condusse oltre l'angolo, su per una scala di pochi

gradini, e poi lungo tre o quattro stretti passaggi oscuri.

"Ssh! Ascolta!" disse Michael appoggiandole una mano sul

braccio. "Sento delle voci."

"Non preoccuparti, è la televisione accesa."

Lei aprì una porta su una stanza vuota, dove c'erano solo un

divano, un tavolo, e un televisore portatile in bianco e nero, sin-

tonizzato sul telegiornale della notte. Jeremy Paxman, fuori cam-

po, stava intervistando un rappresentante del Ministero della dife-

sa dall'aria infastidita.

"Visto?" disse Phoebe. "Qui non c'è nessuno."

"Sarebbe errato vedere nell'ultimatum delle Nazioni Unite un

semplice grilletto pronto a sparare," diceva il ministro. "Saddam

ora sa che noi abbiamo il diritto di intraprendere un'azione mili-

tare. Decidere quando e se esercitare quel diritto, è tutta un'altra

questione."

"Ma sono trascorse quasi diciannove ore da quando è scaduto

l'ultimatum," insistette Paxman. "Vuol dire che non avete ancora

informazioni su quando..."

"Oh mio Dio."

Michael aveva notato qualcosa: un rivolo di sangue che correva

giù dal fianco del divano e gocciolava sul pavimento. Sbirciò cau-

tamente oltre la spalliera del divano e vide che Henry giaceva a fac-

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cia in giù con un trinciante che gli spuntava fuori della schiena in

mezzo alle scapole. Phoebe gli andò appresso e restò senza fiato.

Fissarono a lungo il cadavere senza dire una parola; infine si resero

conto che una terza persona era entrata nella stanza, s'era infilata

fra loro due, e guardava giù verso il morto con totale indifferenza.

"Colpito alla schiena," disse Hilary, ruvida. "Appropriato,

non c'è che dire. Che sia Mrs Thatcher in persona ad aggirarsi

per la casa?"

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO QUARTO.

NON SMETTETE DI GRIDARE.

 

Michael, Phoebe, Thomas, Hilary, Roddy, Mark e Dorothy

erano disposti solennemente a cerchio e contemplavano il corpo.

Avevano sistemato Henry in una posizione seduta e ora lui li fis-

sava di rimando con quella stessa espressione di risentita incredu-

lità che era stata il tratto caratteristico delle sue apparizioni

pubbliche.

"Quando credete che sia accaduto?" domandò Roddy.

Nessuno rispose.

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"Sarà meglio che scendiamo," disse Hilary. "Propongo che si

trovino Tabitha e Mr Sloane e ci si faccia su una bella chiacchie-

rata tutti assieme."

"Lo lasciamo qui così?" domandò Thomas mentre gli altri si

avviavano alla porta.

"Lo... posso mettere un po' in ordine, se volete," disse Phoe-

be. "Devo avere qualcosa in valigia."

"Starò qui ad aiutarti," si offrì Dorothy. "Ho una certa espe-

rienza con le carcasse."

Il resto del gruppo prese la strada del pianterreno in silenziosa

processione e si radunò in sala da pranzo dove Tabitha era ancora

placidamente intenta a far la maglia e Mr Sloane le sedeva a fian-

co, con uno sguardo di sommo terrore stampato in volto.

"Ebbene," disse Hilary, dato che nessun altro dava segni di

voler avviare la conversazione, "pare che Norman abbia reclamato

la sua prima vittima."

"Così parrebbe."

"Ma a dire il vero le apparenze possono essere ingannevoli,"

disse Michael.

Thomas gli girò intorno.

"Di che cosa blatera, adesso? Sappiamo che c'è un pazzo in

libertà. VuoL dire che non lo ritiene responsabile di quanto è ac-

caduto?"

"E' una valida teoria, una fra le tante. Niente di più."

"Va bene. In tal caso, forse sarà così cortese da dirci quali so-

no le altre."

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"Giusto. Sputa, avanti," disse Mark. "Chi altro potrebbe aver-

lo ucciso."

"Diamine, uno di noi, naturalmente."

"Cretinate!" disse Thomas. "Come avrebbe potuto farlo uno

di noi, se eravamo tutti qui a cenare."

"Nessuno ha più visto Henry da quando è stato letto il testa-

mento," sottolineò Michael. "Fra allora e la cena, siamo stati, pri-

ma o dopo, chi più chi meno, tutti da soli. Nessuno escluso."

"Tu dici delle gran fregnacce," disse Mark. "Può essere stato

ucciso solo pochi minuti fa. Dimentichi che per un po' sono stato

a guardare la televisione con lui, mentre voi eravate tutti quaggiù a

mangiare."

"Appunto, questa è la storia come la racconta lei," disse Mi-

chael senza batter ciglio.

"Mi stai dando del bugiardo? Cos'altro credi che stessi facen-

do?"

"Qualsiasi cosa, per quel che ne so. Forse era al telefono col

suo amico Saddam, per trarlo d'impaccio con un ordine dell'ulti-

mo minuto."

"Brutto porco, ritira quel che hai detto."

"Temo che quell'intrigante ipotesi sia da scartare," disse Rod-

dy, che era sgusciato fuori ed era ritornato dal salone d'ingresso

con un telefono in mano. Il filo era stato strappato in maLo modo

con la forza. "Come potete vedere, il servizio pare essere stato tem-

poraneamente sospeso. L'ho trovato in questo stato perché, a dif-

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ferenza di tutti, mi era venuto in mente di chiamare la polizia."

"Beh, siamo ancora in tempo," disse Hilary. "C'è un telefono

anche nella mia stanza. Forza, se ci sbrighiamo, possiamo andare a

prenderlo prima che ci pensi lui."

Mark ostentò un sorriso di superiorità mentre gli altri si pre-

cipitavano fuori della stanza.

"Sono sorpreso che la gente conti ancora su questi metodi pri-

mitivi di comunicazione," disse. "Thomas, hai portato il tuo tele-

fono cellulare, non è vero?"

L'anziano banchiere, sorpreso, s'illuminò. "E' vero: ovvio che

ce l'ho. Non sto mai senza. Possibile che non ci abbia pensato

prima?"

"Ti ricordi dove l'hai lasciato?"

"Nella sala da biliardo, credo. Ho tirato qualche stecca con

Roddy prima che voi arrivaste."

"Vado a prenderlo. Avremmo potuto levarci dai piedi questa

bega in un batter d'occhio."

Mark se ne andò lemme lemme lasciando Michael e Thomas a

guardarsi in cagnesco. Nel frattempo Mr Sloane cominciò a fare

avanti e indietro nella stanza, mentre Tabitha continuava imper-

territa a far la maglia come niente fosse accaduto. Era da un

po' che si canticchiava, beata, un motivetto a bocca chiusa, un

motivo identificabile a fatica, dopo qualche battuta, come il tema

conduttore di Quei temerari sulle macchine volanti.

"Qualcuno ha visto Pyles?" chiese Thomas, stanco di quella

solfa.

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Mr Sloane fece di no con la testa.

"Beh, non sarebbe bene che qualcuno lo trovasse? Lui, questo

è poco ma sicuro, non è stato sempre con noi in sala da pranzo.

Che ne dice, Owen? Riusciremo a catturarlo?"

Michael s'era perduto in un pensiero e non sembrò aver sen-

tito la domanda.

"Allora benissimo, vado a scovaRLo io."

"E adesso siamo a tre," disse Tabitha tutta contenta, una volta

che Thomas se ne fu andato. "Non ho mai visto tanto andare e

venire. Che confusione!"

"Che faccia lunga, Michael!" esclamò Tabitha dopo aver can-

tarellato un altro po'. "Fa fatica a entrare nello spirito della festa?

O forse sta cominciando ad avere qualche idea sulla fine del suo

libro?"

"C'era qualcosa di strano in quelle armature in cima alle sca-

le," disse Michael, senza far caso alla battuta e seguendo il filo dei

suoi pensieri. "C'era qualcosa di cambiato, quando ci siamo pas-

sati davanti poco fa. Potrei scommetterci."

Senza aggiungere altro, s'alzò e prese la via del salone d'ingresso.

Era lì li per salire lo scalone quando vide Pyles venire dalla cucina

reggendo sul braccio, in precario equilibrio, un vassoio d'argento.

"La permanenza è di vostro gusto, Mr Owen?" chiese.

"Thomas la stava cercando. Non l'ha visto?"

"No."

"Le hanno detto cos'è successo?"

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"Sì. Ed è solo l'inizio. L'ho sempre saputo, sapete: questa casa

è dannata e dannati sono anche tutti quelli che ci stanno!"

Michael gli amministrò degli affettuosi colpetti sulla schiena.

"Continui pure il suo lavoro."

Quando arrivò in cima alle scale, esaminò dettagliatamente

tutte e due le armature. Erano ancora nella stessa posizione: nulla

sembrava patentemente fuori posto. E tuttavia Ä ne era sicuro Ä

una qualche lieve alterazione c'era stata... Michael aveva come

l'impressione di non riuscire a capire e che la sua ottusità gli im-

pedisse di vedere qualcosa di importante che aveva li, chiaro, da-

vanti agli occhi. Osservò ancora.

E allora vide. Di colpo fu sopraffatto da un tremendo so-

spetto.

Dalla sala da biliardo giunse un rumore, fortissimo, di roba

che andava in frantumi. Michael corse giù per le scale e andò qua-

si a sbattere contro Mr Sloane arrivato nel salone d'ingresso. In-

sieme, si diressero velocemente verso la fonte del rumore, si pre-

cipitarono dentro la stanza e vi trovarono Pyles accasciato su una

sedia, il vassoio rovesciato sul pavimento.

"Sono venuto a ritirare i bicchieri vuoti," disse. "E allora ho

visto..."

I loro occhi seguirono la traiettoria del suo dito tremolante.

Mark Winshaw era immobile, abbandonato contro la parete.

Dapprima Michael credette avesse le mani legate dietro la schiena:

poi si rese conto che il corpo era stato orrendamente mutilato.

L'ascia che mancava dall'armatura era stata lasciata, con la lama

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rossa e collosa, sopra il tappeto del biliardo: dalle due buche sulla

linea -d'acchito spuntavano, ripugnanti, gli arti recisi di Mark. Per

completare il macabro gioco, era stato lasciato un messaggio sca-

rabocchiato col sangue sulla parete che diceva: ADDIO ALLE ARMI!

 

 

 

 

CAPITOLO QUINTO.

LA SIGNORA NON SI TROVA.

 

"Ora, per tutti noi è fondamentale," disse Thomas, "restare

calmi, e civili."

Erano ancora radunati nella sala da pranzo, seduti fra gli avan-

zi della cena. Avevano facce smunte, bianche come cenci. I più,

almeno. Tabitha era l'unica beatamente immemore degli ultimi

sconcertanti eventi, mentre Pyles, che s'era unito alla tavolata,

portava in faccia un obliquo e fatal sorriso, dopo essersi sgravato

della generosa opinione "Ce n'è ancora in serbo prima che la not-

te sia finita! Ce n'è ancora!". L'unico membro (ancora vivo) della

famiglia, assente all'appello, era Dorothy, che, per il momento,

non si riusciva a trovare da nessuna parte. Fuori la tempesta sem-

brava promettere una tregua.

"Consiglio di restare ancorati all'ipotesi," continuò Thomas,

"secondo la quale in questa casa s'aggira un folle incline al casuale

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massacro di chiunque gli capiti a tiro."

Michael emise un sospiro lamentoso. "Non l'ha capita, eh?"

Gli altri lo guardarono con l'aria di esigere spiegazioni.

"Non c'è proprio nulla di casuale sino a ora in queste uccisio-

ni," disse.

"Le dispiacerebbe spiegarsi meglio?"

Si volse verso Hilary. "Allora, avanti: quali sono state le prime

parole che lei ha usato quando ha visto che Henry era stato accol-

tellato alla schiena?"

"Non ricordo, non so," disse Hilary, stringendosi nelle spalle

con sufficienza.

"Furono: 'Appropriato, non c'è che dire'. Mi sono suonate

piuttosto curiose anche lì al momento. Cosa voleva dire, esatta-

mente?"

"Beh..." Hilary sbottò in una risata colpevole. "Sappiamo tutti

che la lealtà personale non era il tratto caratteristico più evidente

della carriera politica di Henry. E certamente non lo è stato verso

la fine."

"Direi proprio di no. Era un voltagabbana, e, invero, anche

uno che pugnalava alla schiena. Su questo, credo, siamo tutti d'ac-

cordo."

Dal silenzio che seguì, era chiaro che lo erano.

"E per quanto concerne Mark, credo sia il caso di non farsi

illusioni su ciò che macchinava in Medio Oriente. Da qui, imma-

gino, il messaggio scritto sulla parete, sopra il suo corpo."

"La sua teoria, se bene intendo," disse Roddy, "sembra allu-

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dere al fatto che ciascuno di noi è sul punto non solo di essere

ucciso, ma di essere ucciso in una maniera.., appropriata, appro-

priata, per così dire, alle nostre attività professionali."

''Giusto."

"Beh, allora è una teoria ridicola, se non le spiace. Sa di sce-

neggiatura di film horror di bassissimo livello."

"Interessante quel che dice," disse Michael. "Forse qualcuno

di voi ha visto un film del 1973 intitolato Oscar insanguinato."

Mr Sloane ebbe un severo scatto di impazienza. "Insomma,

non meniamo il can per l'aia, credo che stiamo andando fuori te-

ma qua dentro."

"Assolutamente no. Vincent Price fa la parte di un vecchio at-

tore che decide di vendicarsi dei suoi critici e li ammazza uno per

uno usando metodi ispirati ad alcune grandi scene di tragedie sha-

kespeariane."

Roddy s'alzò in piedi. "Non foss'altro che per noia mi sento

costretto a suggerire di abbandonare questa uggiosa linea di inda-

gine e di imboccare una strada operativa, qualunque essa sia. So-

no preoccupato per Dorothy. Credo che dovremmo dividerci e

andare a cercarla."

"Un momento," disse Thomas. "Mi piacerebbe, se me lo con-

sentite, mettere alla prova il nostro esperto di cinema sul suo stes-

so terreno di gioco." Si lasciò scivolare contro lo schienale della

sedia e guardò Michael con un lampo di sfida negli occhi.

"Non c'è un film dove un rompiscatole Ä poi vien fuori che è

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un giudice Ä invita un bel po' di persone in una casa isolata e

le fa fuori tutte? Sì, perché hanno tutti dei misteriosi reati da tener

nascosti, e lui si vive come il loro boia, una sorta di angelo giusti-

ziere."

"La trama è quella di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie.

Ci sono tre diverse versioni cinematografiche. A quale allude?"

"Quella che ho visto io era ambientata sulle Alpi austriache.

Con Wilfrid Hyde-White e Dennis Price."

"Sì certo. E se non sbaglio c'era anche Shirley Eaton."

Mentre diceva così, Michael lanciò una furtiva occhiata a

Phoebe e s'accorse, facendolo, che anche Roddy la stava guar-

dando."

"Ebbene," disse Thomas, "non è forse vero che quella messa

in scena ha considerevoli punti in comune con quel che sembra

stia accadendo qui stasera?"

"Mi par proprio di sì."

"Ottimo, Ora mi ascolti: come si chiamava il tipo che li faceva

fuori? Quello che aveva organizzato tutto quell'imbroglio? Non se

lo ricorda? Allora glielo dico io."

Si protese in avanti sul tavolo, appoggiandosi sui gomiti.

"Si chiamava Owen. Mr U. N. Owen." Thomas fece una pau-

sa di trionfo. "Allora: cos'ha da dire in proposito?"

Michael si sentì preso in contropiede. "Mi sta accusando?"

"Certo che lo sto facendo, accidenti! Abbiamo letto tutti dei

pezzi di quel suo odioso libriccino. Sappiamo tutti cosa pensa

di noi. Non mi sorprenderebbe che lei ci abbia attirati qui come

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parte di un suo folle piano."

"Attirati qui? E come avrei fatto? O forse lei mi sta anche ac-

cusando di aver organizzato la morte di Mortimer?"

Thomas strizzò gli occhi e si volse verso Phoebe. "Beh, forse a

quel punto entra in gioco Miss Barton."

Phoebe rise a denti stretti e disse: "Lei sta scherzando".

"E invece a me suona verosimile," disse Roddy. "So per certo

che ha del rancore contro la famiglia. E poi tenete conto di que-

sto: lei e Owen vanno insieme di sopra a cercare Henry, e cinque

minuti dopo lui è morto. Cosa che, secondo me, fa di loro i so-

spetti per eccellenza. Che ne pensi, Hilary?"

"Concordo pienamente. E inoltre, lasciando stare il resto, ave-

te notato come hanno continuato a guardarsi per tutta la sera? Un

andare e venire di tante piccole occhiate significative. Io non cre-

do proprio che sia la prima volta che si vedono. Penso che si co-

noscano da un bel pezzo."

"Allora, è vero?" disse Thomas. "Vi siete già conosciuti pri-

ma?"

Phoebe fissò Michael disorientata prima di ammettere: "Ebbe-

ne sì... Ci siamo visti una volta. Tanti anni fa. Il che non significa..."

"Ah, ecco! Così vien fuori tutto!"

"E io ho un'altra cosa da aggiungere," disse Roddy. "Owen si

è già condannato da sé, con le sue stesse parole. Hilary e io era-

vamo tutti e due di sopra a cercare Pyles quando fu trovato Mark:

così pure Dorothy, e anche tu, Thomas. Ora, Owen dice che è sta-

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to tutto il tempo a guardare le armature in cima allo scalone. Dun-

que se qualcuno di noi avesse cercato di uscire dalla sala da biliar-

do avrebbe dovuto passargli davanti e lui ci avrebbe visto, no? Ma

lui dice che non è passato nessuno!"

Thomas si fregò le mani. "Perfetto," disse a Michael. "Vedia-

mo come se la cava, stavolta!"

"La spiegazione è semplice, trasparente," rispose lui. "L'assas-

sino non è entrato e non è uscito passando per la porta della sala

da biliardo. C'è un passaggio segreto da quella stanza. Porta a una

delle camere di sopra."

"Ma di che diavolo parla, porca miseria?" tuonò Thomas.

"E' così. Chiedetelo a Tabitha: lei lo sa. Lo sa perché Lawrence

era solito usarlo, quel passaggio, durante la guerra."

"Fesserie!" Si volse verso la zia che era rimasta ad ascoltare la

conversazione con l'aria di divertirsi molto. "Hai sentito, zia Tabi-

tha?"

"Certo che ho sentito. Ho sentito tutto."

"E allora, che ne pensi?"

"Penso che sia stato il colonnello Mustard, in cucina, con il

candeliere."

"Oh, cristo santo," disse Hilary. "Stiamo perdendo tempo

prezioso. E' da mezz'ora e più che Dorothy non torna: dobbiamo

cercare di trovarla."

"Giusto," disse Thomas, alzandosi in piedi. "Ma questi due

qui non vengono con noi."

I tendaggi della sala da pranzo si potevano aprire e chiude-

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re grazie a una spessa corda di cotone. Thomas ne tagliò via

due pezzi e legò stretti Michael e Phoebe alle loro sedie. A cu-

stodire i prigionieri fu lasciato Mr Sloane (e Tabitha, per quel

che valeva). Roddy, Hilary, Thomas e Pyles decisero di setac-

ciare la casa, dandosi appuntamento nella sala da pranzo dopo

venti minuti.

La prima a tornare fu Hilary, seguita dappresso dal maggior-

domo.

"Com'è andata?" gli chiese.

Pyles scosse il capo. "Non la vedrete più," disse nel suo tono

più lugubre. "Almeno non da questa parte della tomba."

Roddy sopraggiunse con notizie ben peggiori.

"Sono uscito a dare un'occhiata nei garage. M'era venuto in

mente che se ne fosse andata senza dircelo."

"E allora?"

"Beh, la sua auto è ancora là, ma non le sarebbe, comunque,

di alcuna utilità. Ci è caduto sopra uno di quegli enormi faggi e il

passo carraio è del tutto ostruito. Adesso sì che siamo a posto e

definitivamente incastrati."

Michael rise. "Cosa vi aspettavate?" disse. Era ancora legato

alla sedia e non certo del suo umore migliore. "Noi psicopatici

pensiamo a tutto."

Roddy lo ignorò. "Mi è venuta un'idea, sorellina: non possia-

mo filar via con il tuo aeroplano?"

"Io non so pilotarlo, quel coso," disse Hilary. "E il mio pilota

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si è fermato nel villaggio questa notte. Tornerà solo domani mat-

tina."

"Sta parlando di Conrad?" chiese Phoebe maligna. "Mi piace-

rebbe rivederlo."

Hilary le lanciò un'occhiata furiosa e Roddy non poté tratte-

nersi dal chiosare con un sorrisetto compiaciuto: "Conrad ha avu-

to il benservito qualche mese fa, su ordine di Sir Peter. Quello che

l'ha rimpiazzato non gli pulisce neanche le scarpe".

"Pensate che, eventualmente, mi possa far fare un volo, quan-

do torna qui domani?" strillò Tabitha con gli occhi accesi di spe-

ranza. "Adoro gli aeroplani, sapete. Che aereo è?"

"Un Buccaneer," disse Hilary.

"Il LA-4-200 da lago, suppongo? Con il motore a quattro ci-

lindri Avco Lycoming?"

"Ah, 'sta zitta, vecchia scema."

Hilary prese un acino d'uva dal vassoio della frutta e cominciò

a passarlo nervosamente dall'una all'altra mano.

"Non c'è bisogno di alterarsi, birboncella," disse Tabitha.

"Una parola gentile e un bel sorriso non costano granché, no?

Guarda sempre dalla parte in cui c'è luce, dico io. Le cose posso-

no facilmente volgere verso il peggio."

"Zietta," disse Hilary centellinando le parole. "Siamo intrap-

polati in una casa isolata, con un maniaco omicida, nel pieno di

un temporale. Tutte le linee telefoniche sono state tagliate, non

abbiamo modo di fuggire, due di noi sono stati assassinati e un'al-

tra non si trova più. Potrebbe andar peggio di così?"

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Proprio allora saltarono le luci e la casa piombò nell'oscurità.

"Oh mio Dio," disse Roddy. "Cos'è successo?"

Il buio a cui erano stati consegnati era assoluto. I pesanti ten-

daggi della sala da pranzo erano chiusi e in quella fitta, impenetra-

bile oscurità non si riusciva a vedere neanche a cinque centimetri

di distanza. Alla lugubre stranezza della situazione si aggiunga

l'impressione, avvertita da tutta la compagnia, che, perduto il po-

tere della vista, il volume dell'infuriare del maltempo fosse aumen-

tato di almeno dieci volte.

"Dev'essere un fusibile," disse Pyles. "Il contatore è in canti-

na. Andrò subito a vedere."

"Bravo," disse Roddy.

Il successo della sua missione parve subito messo in discussio-

ne, giacché il suo avanzare verso la porta fu scandito da ogni spe-

cie di rumore Ä uno sbattere sordo, un cadere in frantumi, schian-

ti e tintinnii Ä ovvero dalle sue pesanti collisioni con i diversi og-

getti, d'arredamento o di servizio, disseminati per la stanza. Ma

infine ce la fece: la porta s'aprì scricchiolando sui cardini e si ri-

chiuse sbattendo, e si sentirono echeggiare debolmente i passi

che si allontanavano mentre egli attraversava esitante il salone

d'ingresso in tutta la sua ampiezza.

Indi riprese il ticchettio dei ferri di Tabitha che cominciò a

canterellare a bocca chiusa un altro motivo. Questa volta era la

Dumbusters' March,

"Per amor di Dio, zietta," disse Roddy. "Come fai a far la ma-

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glia in questo buio? E se desistessi dal cantare quelle intollerabili

canzoncine? Sarebbe proprio gentile da parte tua."

"Devo dire, Mr Owen, che la sua ingenuità desta ammirazio-

ne," disse Hilary; e suo fratello poté riconoscere nella sua voce

una forzata, fragile cordialità, segno sicuro della violenta agitazio-

ne che ne turbava l'equilibrio interiore. "Non posso fare a meno

di chiedermi che fine ha in mente per quelli di noi che sono an-

cora qui."

"A dire il vero, non ho pensato nulla," disse Michael, "Tutta

la faccenda è più o meno improvvisata."

"Si sì, certo, ma qualche idea la deve pur avere. La schiena di

Henry; le braccia di Mark. E Thomas? A che parte della sua ana-

tomia pensava di mirare'?"

"Dov'è Thomas, però?" disse Roddy. "Sarebbe dovuto torna-

re da secoli. L'ultima volta che l'ho visto..."

"Ssh! "fece Hilary zittendolo nel mezzo del discorso. L'atmo-

sfera nella stanza si fece subito tesa. "Chi è che si sta muovendo?"

Tutti forzarono l'udito per sentire. Era un passo noto? C'era

qualcuno (o qualcosa) nella stanza insieme a loro, una guardinga,

furtiva presenza, che strisciava fra le ombre nere Ä e ora vicinissi-

ma, tangibile? Era il rumore di qualcosa sul tavolo Ä intorno al

quale tutti erano seduti, irrigiditi dall'attesa Ä che veniva mosso

in tutta tranquillità ma con estrema circospezione?

"Chi è là?" disse Hilary. "Avanti, di' qualcosa!"

Nessuno fiatò.

"Ô l'immaginazione," disse Roddy, un minuto dopo.

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"Io le cose non le immagino," rispose Hilary, indignata. Ma

ormai la tensione era scomparsa.

"Beh, la paura fa degli strani scherzi," disse il fratello.

"Senti: io non ho paura".

Lui se ne uscì con una risatina sprezzante. "Se hai paura? Tu

sei terrorizzata fradicia, vecchia mia."

"Non so che cosa te lo faccia pensare."

"Dopo tutti questi anni, cara, riesco a leggerti neanche fossi

un libro stampato. Sei sconvolta, chiunque può dirtelo. Cominci

col pasticciare gli acini d'uva."

"Gli acini d'uva? Cosa vorresti dire?"

"Cominci a giocherellarci. Poi li sbucci. Gli tiri via la pellicina.

Lo facevi sin da piccola."

"Può darsi che lo facessi da bambina ma non lo sto facendo

stasera, te lo assicuro."

"Oh, smettila. Ne ho preso uno in mano adesso."

Roddy passò il frutto fra pollice e indice Ä senza pelle era mol-

le e viscido al tatto Ä e poi se lo schizzò in bocca. Lo prese fra i

denti e gli diede un piccolo morso, ma invece del previsto scio-

gliersi sulla lingua del fresco, stuzzicante sciroppo, sentì un gom-

moso spiaccichio, e la bocca invasa d'un sapore disgustoso, l'inde-

scrivibile virulenza del quale non aveva mai conosciuto prima.

"Cristo!" gridò, e sputò quell'affare. Dopo di che fu scosso da

violenti conati di vomito.

Proprio allora tornò la luce. Abbacinato dall'improvviso chia-

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rore, gli ci volle qualche secondo per identificare l'oggetto che

aveva sputato fuori e che ora era sul tavolo di fronte a lui. Era

un bulbo oculare mezzo masticato: l'occhio insanguinato di Tho-

mas Winshaw, schiuso per sempre nel suo ultimo, impassibile,

freddo sguardo fisso.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO SESTO.

L'ULTIMO TOCCO.

 

"Dovresti dormire adesso," disse Phoebe mentre Roddy si la-

sciava scivolare sul cuscino, col respiro che prendeva gradualmen-

te un ritmo più lento e regolare. Gli tolse il bicchiere di mano con

delicatezza, lo appoggiò sul comodino e ripose in borsa la boccet-

ta delle pillole.

Hilary squadrò il fratello con fredda neutralità. "E' sempre sta-

to delicatino di stomaco," disse. "Tuttavia non l'ho mai visto fare

scene del genere. Credi che si riprenderà?"

"Ho idea che sia in stato di shock. Qualche ora di riposo do-

vrebbe bastare per rimetterlo in sesto."

"Ne avremmo bisogno tutti." Hilary ispezionò la stanza a ra-

pide occhiate e andò ad assicurarsi che la finestra fosse ben chiu-

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sa. "Immagino che qui sia al sicuro, che ne dici? A che scopo la-

sciarlo qui a dormire come un bambino se poi, appena voltate le

spalle, il nostro maniaco di casa è già pronto a insinuarsi dentro e

a farlo fuori?"

Decisero che la cosa migliore era chiuderlo dentro a chiave.

Phoebe era convinta che prima dell'indomani mattina non si sa-

rebbe svegliato, e anche se fosse successo, l'inconveniente tempo-

raneo di ritrovarsi imprigionato era sicuramente trascurabile se

confrontato con la sua sicurezza personale.

"Penso che sia meglio che la chiave la tenga io," disse Phoebe,

facendola scivolare nella tasca dei jeans mentre procedevano insie-

me lungo il corridoio.

"E perché?"

"Pensavo fosse ovvio. Michael e io eravamo legati quando

Thomas è stato ucciso. La qual cosa fa cadere tutti i sospetti avan-

zati contro di noi. O no?"

"Credo di sì," disse Hilary senz'altro aggiungere, dopo averci

pensato un attimo. "In ogni caso, le mie congratulazioni a chiun-

que abbia messo in piedi tutta questa roba. Non c'è stratagemma

a cui non abbia pensato. Staccare le linee telefoniche, per esem-

pio. Potrei perdonare quasi tutto, credo, ma quello no."

"Impedirci di chiamare la polizia: è questo che vuol dire?"

"C'è di peggio: non posso usare neanche il mio modem. E' la

prima volta in sei anni che non rispetto una consegna. Avevo an-

che un pezzo strabiliante per loro. Sui pacifisti del Partito laburi-

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sta e i tappeti che gli iracheni stenderebbero volentieri ai loro pie-

di. Peccato." Sospirò. "Per questa volta dovrà aspettare."

Si diressero di nuovo verso il salotto, dove Tabitha era seduta

ancora accanto al fuoco, ora non più intenta a far la maglia ma a

leggere scrupolosamente un grosso paperback che, a un esame

ravvicinato, si rivelò essere il quarto volume del Manuale del pilota

aeronautico. Quando entrarono Hilary e Phoebe, ella alzò lo

sguardo e disse: "Accidenti, eccovi qua! Cominciavo a pensare

che non sareste più tornate".

"E Michael e Mr Sloane?" chiese Phoebe, "Sono ancora

fuori?"

"Suppongo di sì," disse Tabitha. "A dire il vero, faccio molta

fatica a tener il conto di tutto il vostro andare e venire."

"E non c'è traccia di Dorothy, immagino?" osò chiedere Hilary.

"L'unica persona che ho visto," disse la vecchia, "è tuo padre.

Mi ha fatto una visitina qualche minuto fa. E stata proprio una

bella chiacchierata."

Phoebe e Hilary si scambiarono delle occhiate di ansiosa com-

miserazione. Hilary si inginocchiò di fianco alla zia e cominciò a

parlare spiccicando lentamente parola per parola.

"Zietta, Mortimer non è più tra noi. E' morto, l'altroieri. E' per

questa ragione che siamo tutti qui, ti ricordi? Siamo venuti per la

lettura del testamento."

Tabitha corrugò le ciglia. "No, io credo che tu sia assoluta-

mente in errore, cara. Sono sicura che era Morty. Devo ammet-

tere che non aveva una bella cera Ä aveva l'aria stanca e ansi-

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mava, e c'era, adesso mi viene in mente, del sangue sui suoi ve-

stiti Ä ma non era morto. Neanche un pochettino. Non come

Henry, o Mark o Thomas." All'ultimo nome sorrise e scosse

il capo con grande partecipazione. "Ecco per me quello sì

che è un morto."

S'udirono passi fuòri della stanza e ricomparve Michael, segui-

to a rimorchio da Pyles e Mr Sloane. Hilary si levò da terra e prese

Michael in disparte per informarlo sull'ultima sequenza di eventi.

"Attenzione alla matta," disse sussurrando. "La vecchia pette-

gola è andata completamente fuori di testa."

"Perché, cos'è successo?"

"Dice che ha parlato con mio padre."

"Capisco." Michael fece avanti e indietro per un po', immerso

in un pensiero. Poi levò lo sguardo. "Beh... chi ci dice che non stia

dicendo la verità? Insomma, mi pare che Mortimer non l'ha visto

nessuno morire?"

"Io no," disse Phoebe. "Come ho detto, non ero qui quando è

successo. Ero tornata a Leeds per un paio di giorni."

"E' stata un'idea tua?"

"Non propriamente. Fu lui che, più o meno, mi indusse a far-

lo. Mi disse che gli parevo un po' giù e insistette perché mi pren-

dessi una vacanzina."

"E tu, Pyles? Hai visto il corpo di Mortimer?"

"No," disse il maggiordomo, grattandosi la testa. "Il dottor

Quince, il dottor Quince giovane cioè, venne giù e si limitò a dir-

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mi che il padrone era passato a miglior vita. E poi si offrì molto

gentilmente di prendere lui stesso i contatti con il direttore delle

pompe funebri. Io non ci sono entrato per nulla."

"Ma mio padre non poteva mica andare in giro ad ammazzar gen-

te," protestò Hilary. "Era confinato su una sedia a rotelle, sant'iddio."

"Questa era l'impressione che voleva dare," disse Phoebe.

"Ma io l'ho visto alzarsi e camminare almeno due o tre volte,

quando credeva che nessuno lo vedesse. Non era così malato co-

me amava far pensare."

"Non posso proprio crederlo," continuò l'avvocato, "che Mr

Winshaw sia ancora vivo, che sia da qualche parte in questa casa,

e sia responsabile di tutti questi orrendi delitti."

"Ma è anche l'unica soluzione possibile," disse Michael. "L'ho

sempre saputo."

Hilary inarcò le ciglia.

"Questa è un'affermazione piuttosto singolare," disse. "Da

quando lo sa, esattamente?"

"Beh.,, da quando è stato ucciso Henry," disse Michael; poi ci

ripensò. "No, da prima: da quando sono arrivato qui. No, da pri-

ma ancora: da quando, ieri, Mr Sloane si è palesato nel mio appar-

tamento. Oppure... oh, non so. Da quando sono stato contattato

per la prima volta da Tabitha perché cominciassi a scrivere questo

maledetto libro su di voi. Non so. Proprio non so. Forse da prima

ancora. Forse tutto risale al mio compleanno."

"Il suo compleanno?" disse Hilary. "Ma di cosa diavolo sta

parlando?"

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Michael si sedette prendendosi la testa fra le mani. Parlò fati-

cosamente, senza partecipazione.

"Tanti anni fa, il giorno del mio nono compleanno, mi porta-

rono a vedere un film, Era ambientato in una casa quasi come

questa, ed era su una famiglia, che somigliava alla vostra. Ero

un ragazzino ipersensibile e non avrebbero dovuto farmelo vede-

re, ma tutto lasciava pensare che fosse una commedia e i miei ge-

nitori ritennero che non ci fosse nulla di male. Non fu colpa loro.

Non avrebbero mai potuto prevedere l'effetto che quel film

avrebbe avuto. So che si fa fatica a crederci, ma fu... insomma,

fu proprio la cosa più eccitante che mi sia mai successa. Non ave-

vo mai visto nulla di simile, prima d'allora. E a metà spettacolo Ä

ma forse era a meno di metà Ä mia madre ci fece alzare e uscire.

Disse che dovevamo andare a casa. E così ce ne andammo: ce ne

andammo e io non seppi mai come andava a finire. Per anni, d'al-

lora in poi, non ho fatto altro che domandarmelo."

"Incantevoli questi ricordi d'infanzia, non c'è che dire," lo in-

terruppe Hilary, "ma non posso fare a meno di pensare che lei

abbia scelto uno strano momento per mettercene a parte."

"Poi, naturalmente, l'ho visto, il film," disse Michael, come se

non l'avesse neppure sentita. "Ce l'ho in video. So come va avanti

la storia: è così che so che Mortimer è ancora vivo. Ma non è que-

sto il punto. Vederlo, poterlo vedere a piacimento, non è bastato:

per la semplice ragione che io non guardavo, quel giorno; io lo

stavo vivendo: questa era la condizione interiore che credevo

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non sarebbe tornata, quella che mi aspettavo di ricatturare. Sta ac-

cadendo adesso. Ha cominciato ad accadere. Voi," e fece un largo

gesto rotatorio che comprese tutti i volti intenti ad ascoltare, "sie-

te i personaggi del mio film, capite? Che lo capiate o no, le cose

stanno così."

"Proprio come Alice e il sogno del Re Rosso," si intromise Ta-

bitha.

"Esattamente."

"Se posso dare un consiglio, Michael," disse Hilary, con un to-

no di voce dolce che si fece agro in un batter d'occhio, "perché

non si ritira con la zia Tabitha in un angolino tranquillo a fare

una seduta privata della Lega Svitati Anonimi, mentre noi altri

ci dedichiamo alla futile faccenduola di come passare il resto della

notte senza finire tagliuzzati a pezzettini?"

"Senti, senti," disse Mr Sloane.

"Sembriamo esserci dimenticati, al di là di tutto, che secondo

la polizia del posto c'è un assassino in libertà da queste parti. Mi si

perdoni il tono prosaico, ma non posso fare a meno di pensare

che, nella nostra imbrogliata situazione, questo abbia un peso ben

più decisivo delle storielle invero divertenti che Mr Owen ci va

ammannendo."

"Quella storia del poliziotto è servita solo a depistarci," disse

Michael.

"E questa, cos'è? Un'altra teoria? Accidenti, quest'uomo è

davvero un mago! Cosa c'è dietro 'sta volta, Michael? Piano Nove

dallo spazio profondo? Abbott e Cosiello e l'uomo lupo?"

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"Mr Sloane e io siamo stati a controllare il passo carraio," dis-

se Michael. "E' coperto di fango, per cui se ci fossero delle tracce

di pneumatici si vedrebbero subito. Ma ci potete ancora vedere

solo le mie orme: le tracce più recenti che vi sono rimaste impres-

se. Dacché sono arrivato qui, non c'è stata alcuna auto della po-

lizia."

Hilary parve momentaneamente messa alle strette. "Ma lei ha

visto questo poliziotto, e lo hanno visto anche Mark e Dorothy.

Era un impostore, secondo lei?"

"Io ritengo che fosse Mortimer in persona. Io, vostro padre,

l'ho visto una volta sola, e perciò non posso averne la certezza. Lo-

ro, naturalmente, non lo vedevano da anni. Questo, però, è ciò che

accade nel film. L'uomo che viene dato per morto riappare in scena

fingendo di essere un poliziotto, per confondere le tracce."

"Non so voi altri, ma io ho la testa che comincia a girare con

tutto questo teorizzare," disse Mr Sloane, rompendo l'inquieto si-

lenzio seguito a questo cambio di rotta. "Io propongo di andare

nelle nostre stanze, chiuderci dentro a chiave e starci finché la

tempesta si quieta."

"Ma che splendida idea!" disse Tabitha. "Sono stanchissima,

devo ammetterlo. Mi domando se qualcuno sarà così gentile da

riempirmi una boule d'acqua calda, prima di ritirarsi. Questa casa

ha l'aria di essere spaventosamente gelida stanotte."

Phoebe disse che se ne sarebbe occupata lei, mentre Michael,

Pyles e Mr Sloane decisero di fare un ultimo sopralluogo in casa,

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per vedere se c'era traccia di Dorothy.

"Non abbiamo ancora parlato del suo libro, Michael," gli ram-

mentò Tabitha mentre lui era sul piede di partenza. "Non mi de-

luda domani, mi raccomando, E' da tanto che non vedevo l'ora di

farlo. Da tanto, da tantissimo. Sarà come parlare di nuovo con suo

padre."

A quelle parole Michael si fermò di scatto, Non era sicuro di

aver sentito bene.

"Le somiglia parecchio, sa? Proprio come mi aspettavo. Gli

stessi occhi. Esattamente gli stessi occhi."

"Andiamo," disse Mr Sloane, tirando Michael per la manica.

E aggiunse sussurrando: "Non è in sé, povera creatura. Non ci

faccia caso. E' meglio non confonderla ancora di più".

Hilary fu lasciata sola con la zia. Rimase per un po' in piedi

accanto al fuoco, mordendosi le unghie e facendo del suo meglio

per cavare un significato dall'ultima sconcertante idea di Michael.

"Zietta," disse, dopo un minuto o due. "Sei proprio sicura che

fosse mio padre quello con cui stavi parlando?"

"Sicurissima," disse Tabitha. Richiuse il libro e lo ripose nella

borsa del lavoro a maglia. "Sai, non è facile avere le idee chiare

sentendo, prima, uno che lo dice vivo, e un minuto dopo un altro

che lo dice morto. Come si fa? Eppure un sistema c'è per avere la

certezza assoluta."

"Davvero? Come potrei fare?"

"Come? Ma è ovvio: potresti scendere nella cripta, e vedere se

il corpo è dentro la bara o no."

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A Hilary il coraggio non era mai mancato, e pensò che valeva

la pena mettere in azione il piano; peccato che il viaggio in que-

stione non fosse dei più gradevoli. Era determinata a sbrigare la

faccenda il più presto possibile, e così non s'attardò a prendere

l'impermeabile prima di disserrare la porta d'ingresso e gettarsi

dentro l'acqua e il vento del temporale, che ormai continuava

da due ore o forse più. Malgrado le spesse lame di pioggia che

quasi le offuscavano la vista, e lo schiaffeggiare delle folate di

vento che parevano rapirla in volo, s'aprì a forza la strada nella

corte davanti all'ingresso e si diresse verso la possente struttura

della cappella di famiglia, che era situata in una piccola radura

vicino al punto in cui cominciava la strada padronale, fiancheg-

giata da un bosco finissimo. Gli alberi tutt'intorno davano in ge-

miti, scricchiolii e in un grande stormir di fronde sotto la sferza

d'un vento fortissimo, discontinuo, a raffiche capricciose e vio-

lente. Con sua grande sorpresa scoprì che la porta della cappella

era aperta: dentro tremolava una luce. Quella di due candele ac-

cese sull'altare. Erano state accese da poco, anche se la cappella

aveva tutta l'aria di essere assolutamente deserta. Tremando vio-

lentemente Ä un po' per il freddo, un po' per l'ansia Ä percorse

celermente da capo a fondo la navata laterale e aprì una porticina

di quercia che immetteva a una ripida rampa di gradini di pietra.

Erano i gradini che portavano giù alla cripta di famiglia, dove

erano state seppellite generazioni e generazioni di Winshaw e do-

ve una tomba vuota ma finemente incisa testimoniava la memoria

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di Godfrey, l'eroe di guerra, il cui corpo non era stato mai ritro-

vato sul suolo nemico.

Hilary discese i gradini nella più totale oscurità, ma nell'avvi-

cinarsi all'entrata della cripta, vide una sottile striscia di luce veni-

re da sotto la porta. Terrorizzata sospinse, con mano esitante, la

porta: e vide...

...è vide una cassa da morto vuota sopra un'alta predella nel

mezzo della stanza, il coperchio rimosso e accanto a quest'ultimo

suo padre, Mortimer Winshaw, che se ne stava lì con un'aria sba-

razzina guardando verso di lei con un sorriso cordiale e affettuoso.

"Vieni avanti, figlia carissima," disse. "Vieni dentro, e ti sarà

tutto spiegato."

Quando Hilary avanzò aprendo la porta in tutta la sua ampiez-

za, udì un frullo improvviso sopra la sua testa. Gettò uno sguardo

in su, le sfuggì un grido e, in una frazione di secondo, ebbe l'im-

pressione di un immenso pacco appeso a una corda che le cadeva

addosso: un pacco composto Ä ma lei non l'avrebbe mai saputo Ä

di tutti i giornali per i quali aveva scritto articoli negli ultimi sei

anni. Ma prima che ella potesse capire che cosa l'aveva colpita,

Hilary era già morta: spiaccicata dal peso delle sue opinioni, e

sbattuta a terra, non meno tramortita dei lettori frastornati e sog-

giogati dal suo vorticoso torrente di parole iperpagate.

 

 

 

 

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CAPITOLO SETTIMO.

CINQUE ORE D'ORO.

 

Tutto era tranquillo a Winshaw Towers. Fuori, il vento comin-

ciava a placarsi e la pioggia s'era ridotta a un tenue picchiettio con-

tro i vetri delle finestre. Dentro, non si udiva altro che il lamentoso

scricchiolio delle scale: era Michael che, terminata l'ispezione della

casa, tornava al piano superiore.

Forse fu semplicemente per stanchezza o forse per la confusio-

ne prodotta dagli eventi sconcertanti delle ultime ore, ma Michael

si fece sopraffare ancora una volta dal labirinto di corridoi, e

quando entrò in quella che credeva fosse la sua camera, la prima

cosa che vide fu un grande mobile di cui non aveva memoria: un

armadio di mogano con una grande specchiera su una delle ante

aperte. Phoebe dava le spalle allo specchio e vi si rifletteva nell'at-

to di chinarsi e sfilarsi i jeans.

"Che ci fai nella mia stanza?" disse Michael mettendola con-

fusamente a fuoco.

Phoebe si girò di scatto e disse: "Non è la tua stanza," e indicò

le spazzole e i cosmetici sulla toletta. "Queste non sono cose tue,

mi pare."

"No, certo che no," disse Michael. "Mi dispiace, non riesco

proprio a orientarmi in questo posto. Non volevo disturbarti."

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"Non importa." Phoebe si rinfilò i pantaloni e si sedette sul

letto. "In ogni caso sarebbe ora che noi due facessimo una chiac-

chierata,"

Michael non se lo fece dire due volte ed entrò.

"E' tutta la sera, in verità, che volevo parlarti" disse. "Ma non

si è mai presentata l'occasione."

Phoebe prese quell'uscita come se lui volesse minimizzare la

faccenda.

"Eggià," disse con una voce dal tono lievemente sarcastico.

"Vuoi mettere un omicidio di massa? E' tutto così coinvolgente."

Ci fu un imbarazzato silenzio che Michael ruppe con improvvisa

veemenza: "Ma tu cosa ci fai qui? Come sei finita dentro a questo

guazzabuglio?"

"Per via di Roddy, naturalmente. L'ho conosciuto giusto un

anno fa: si offrì di esporre alcuni miei lavori alla galleria, e io come

una scema gli ho creduto, poi, ancora più scema, ci sono andata a

letto: avuto quel che voleva, mi ha mollata. Ma mentre ero qui co-

nobbi Mortimer. Non chiedermi perché, ma mi prese in simpatia

e mi offrì questo lavoro."

"E tu lo hai accettato? Perché?"

"Secondo te, perché? Perché avevo bisogno di soldi. E non fa-

re quella faccia: tu perché hai accettato di lavorare al libro? Inte-

grità artistica?"

Una bella domanda.

"Ti dispiace se mi siedo qui?" disse Michael indicando l'ango-

lo del letto accanto a lei.

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Phoebe fece di no con la testa. Aveva l'aria stanca e si passò la

mano fra i capelli.

"E tu, invece, dove sei finito? Non ho più visto tuoi romanzi."

"Ho smesso di scrivere. Ero a secco di idee."

"Ô un peccato."

"E tu, dipingi ancora?"

"Di tanto in tanto. Non vedo, però, grandi prospettive per il

futuro. Almeno fino a quando i Roddy Winshaw di questo mondo

continueranno a fare i propri comodi."

"Di questo passo, ce ne sarà uno in meno domani mattina."

Non volendo soffermarsi su questa macabra prospettiva, Michael

aggiunse: "Comunque, tu non devi smettere. Eri brava. Lo capiva

chiunque".

"Chiunque?" ripeté Phoebe.

Michael non fece caso alla domanda e continuò: "Ricordi

quella volta in cui entrai nella tua stanza e vidi il dipinto a cui stavi

lavorando?" Prese a ridacchiare. "E io pensavo fosse una natura

morta, mentre in realtà era un ritratto di Orfeo agli inferi o giù

di lì?"

"Sì," disse Phoebe tranquillamente. "Ricordo." Michael si illu-

minò e disse: "Posso comprare quel quadro? Sarebbe bello avere

una sorta di... ricordo".

"Mi dispiace ma l'ho distrutto. Poco tempo dopo."

Phoebe si alzò e si sedette alla toletta dove cominciò a spazzo-

larsi i capelli.

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"Non vorrai dire... non per quello che dissi io, vero?"

Non rispose.

"Ma fu solo uno stupido errore."

"Certe persone si offendono facilmente, Michael." Si girò. Era

arrossita. "Ora non mi accade più. Ma allora ero giovane e insicura.

Comunque ho dimenticato tutto, adesso, E' stato tanto tempo fa."

"Sì, ma non pensavo... Davvero."

"Perdonato," disse Phoebe, e cercò di risollevare subito la si-

tuazione chiedendo: "Sono cambiata molto da allora?"

"Per niente. Ti avrei riconosciuta ovunque."

Decise di tacere il fatto che un paio di mesi prima, alla mostra

privata della Narcissus Gallery, non l'aveva affatto riconosciuta.

"Sei ancora in contatto con Joan?"

"Sì, ci siamo visti. Ci siamo visti proprio di recente, per caso.

Ha sposato Graham."

"Non mi meraviglia." Phoebe si sedette di nuovo sul letto. "E

stanno bene tutti e due, vero?"

"Bene, sì, bene, In verità l'ultima volta che l'ho visto, Graham

era mezzo morto, ma penso che si sia ripreso ormai."

A quel punto fu necessario dare delle spiegazioni, e Michael le

raccontò tutto ciò che sapeva a proposito del documentario di

Graham e del fallito tentato omicidio di Mark,

"Dunque anche lui si è impegolato con gli Winshaw," disse

Phoebe, "Sembra avere mani dappertutto, questa famiglia, vero?"

"Certo che le ha. Detto questo, detto tutto."

Pensò un po' alla storia che lui le aveva raccontato e poi chie-

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se: "Come mai ti trovavi in quell'ospedale a Capodanno?"

"Ero andato a trovare qualcuno. Un'amica. S'era sentita male

all'improvviso."

Phoebe notò il repentino cambiamento di tono di voce. "In-

tendi dire... la tua ragazza?"

"Più o meno."

Michael tacque e Phoebe si rese conto d'aver fatto delle do-

mande invadenti e inutili.

"Mi dispiace, non volevo impicciarmi... cioè non sono affari

miei."

"Non ti preoccupare, davvero."

Sul suo viso comparve un sorriso forzato.

"E' morta, vero?" chiese Phoebe.

Michael annuì.

"Mi dispiace." Per un istante posò, imbarazzata, la mano sul

suo ginocchio, poi la ritirò. "Vuoi... pensi che parlarne ti aiutereb-

be?"

"No, penso proprio di no." Le strinse forte la mano per dimo-

strarle che aveva apprezzato il gesto. "E' stupido, lo so, la conosce-

vo solo da pochi mesi. Non abbiamo neanche dormito insieme.

Mai. Ma in un modo o nell'altro, avevo.., investito su di lei." Stro-

picciandosi gli occhi aggiunse: "Sembra quasi che io stia parlando

di un'azienda, non credi? Comincio a parlare come Thomas,"

"Di che cosa è morta?"

"Della stessa cosa di cui muoiono tutti, alla fine: per una serie

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di circostanze. Aveva un linfoma che poteva essere curato, ma del-

la gente ha fatto in modo che questo non accadesse. Avevo inten-

zione di parlarne con Henry mentre stavo qui ma... adesso è inu-

tile, adesso che... Non c'è più nulla da fare." La sua voce si spense

e cominciò a fissare il vuoto, e così restò Ä o gli parve di restare Ä

per molto, molto tempo. Infine aggiunse ancora una parola, detta

a bassa voce ma con energia: "Merda". Poi crollò e si sdraiò sul

letto, rannicchiato su se stesso, dando le spalle a Phoebe.

Di li a poco lei gli toccò le spalle e disse: "Michael, perché non

stai qui stanotte? Non mi va di star sola: ci faremo compagnia".

Michael disse: "Va bene, grazie". E rimase immobile.

"Sarebbe meglio se tu ti spogliassi."

Rimasto in mutande e maglietta, Michael si infilò fra le lenzuo-

la e si addormentò quasi di botto, non prima d'aver detto sotto-

voce: "Una volta Joan mi chiese di rimanere da lei a dormire e

io scappai, non so perché".

"Credo che tu le piacessi molto," disse Phoebe.

"Sono stato così stupido."

Phoebe indossò la camicia da notte, si sdraiò accanto a lui e

spense la luce. Si davano le spalle, ma solo pochi centimetri li se-

paravano.

Michael sognò Fiona come faceva ogni notte da due settimane a

questa parte. Sognò di starle accanto mentre giaceva nel letto del-

l'ospedale, di tenerle la mano e di parlarle. Lei ascoltava e gli sor-

rideva. Poi, nel sogno, ricordò che era morta e cominciò a piangere.

Indi sognò che allungava una mano nel letto e finiva col toccare il

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corpo caldo di una donna. Nel sogno Phoebe si girava verso di lui

per abbracciarlo e accarezzargli la testa. Sognò che la baciava sulle

labbra e che lei lo ricambiava, con la bocca aperta, le labbra mor-

bide e calde. Avvertì il caldo profumo dei suoi capelli e, quando le

toccò la schiena, il levigato tepore della pelle. Cercò di ricordare

l'ultima volta che aveva fatto quel sogno, quel sogno in cui si sve-

gliava e scopriva che aveva accanto una donna bellissima, che lei lo

toccava, che lui la toccava, che i loro corpi si univano, si intreccia-

vano, s'attorcigliavano l'uno sull'altro come irreali serpenti. Quel

sogno in cui gli pareva che ogni parte del suo corpo fosse toccata da

ogni parte del corpo di lei, e che da allora in avanti tutto il mondo

sarebbe stato percepito attraverso il tatto, tanto che, nel fradicio ca-

lore del letto, nel buio della camera oscurata dalle tende, essi non

potessero far altro che dimenarsi dolcemente, traendo da ogni mo-

vimento, da ogni minimo assestamento dei corpi nuove ondate di

piacere. Michael attendeva con terrore il momento in cui il sogno

sarebbe finito, quando cioè si sarebbe svegliato solo nel letto, op-

pure temeva di sprofondare in un sonno più profondo e di preci-

pitare in un altro sogno di vuoto e solitudine. Ma non accadde.

Il loro amore fu lungo, lento e confuso con il sonno, e sebbene

vi fossero momenti in cui giacevano semplicemente l'uno accanto

all'altra, assopiti, questi intervalli di condivisa immobilità erano

parte di un unico movimento, destinato a perpetuarsi senza artifi-

cio, durante il quale scivolavano ritmicamente dentro e fuori del

sonno. La pendola nel corridoio suonò le cinque; Michael ritornò

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alla dimensione reale del tempo, si girò e vide gli occhi di Phoebe

che gli sorridevano nel buio.

"Kenneth," disse "non saprai mai quello che ti sei perso."

"Non mi chiamo Kenneth," disse Phoebe. Rise mentre fruga-

va tra le lenzuola stropicciate in cerca della sua camicia da notte,

poi se la infilò. "Non dirmi che hai pensato tutto il tempo a qual-

cuno di nome Kenneth. Quantunque, in tal caso, si spiegherebbe

come mai tu e Joan non vi siete mai messi insieme."

Uscì dal letto e si diresse verso la porta. Michael si sollevò, la

sua mente era ancora offuscata dal sonno e disse: "Dove hai inten-

zione di andare adesso?"

"In bagno, se me lo consenti."

"No, intendo dire... quando tutto questo sarà finito."

Phoebe scrollò le spalle. "Non lo so: a Leeds forse. Qui, di

certo, non posso stare."

"Vieni a vivere con me a Londra."

Lei non disse nulla in un primo momento, e Michael non riu-

scì a capire come avesse reagito alla proposta.

"Sto parlando seriamente," aggiunse.

"Lo so."

"So di piacerti altrimenti..."

"Non credo che questo sia il momento migliore per parlarne.

E certamente non è il posto più adatto." Aprì la porta. Lui ne av-

vertì l'esitazione prima di uscire. "Adagio, Michael," disse dolce-

mente, "nessuno dei due è in grado di fare progetti."

Pochi minuti dopo ritornò e si rinfilò nel letto. Si tennero per

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mano sotto le lenzuola.

"Sapevo che mi avresti chiesto di stare qui stanotte," disse Mi-

chael riemergendo da chissà quale sequenza di pensieri.

"Le donne ti trovano irresistibile, vero?"

"No, ma nel film sì. La situazione era quasi la stessa. Ma pro-

prio allora dovetti uscire dalla sala. E ora che è successo veramen-

te, è come se l'incantesimo si fosse rotto."

"Non ci stai mettendo troppo fatalismo? Allora vuoi dire che

non avevo scelta?"

"Un film c'è davvero, sai?" insistette Michael. "Non lo stavo

inventando, checché ne pensi Hilary."

"Ti credo," disse Phoebe. "Comunque, ne avevo già sentito

parlare."

"Veramente, quando?"

"Ne parlò una volta Joan, non lo ricordi? La notte in cui ci

fece giocare a Cluedo e ci fu un temporale terrjbile."

All'improvviso la memoria restituì a Michael ogni minimo det-

taglio. Loro quattro seduti attorno al tavolo nel soggiorno di

Joan... Graham che lo prendeva in giro per via del refuso nella

sua recensione e la sensazione che aveva avuto... Ä come dire?

una premonizione Ä quando aveva scoperto che il suo personag-

gio, il professor Plum, era l'assassino, e non gli era stato più pos-

sibile pensarsi distaccato e disinteressato.., trovarsi improvvisa-

mente al centro delle cose...

A un tratto gli vennero in mente le ultime enigmatiche parole

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di Tabitha e luce fu.

"Pensavo di essere io a scrivere questa storia," disse, "ma non

è vero o almeno non più. Sono parte di essa."

Phoebe lo fissava: "Cosa?"

Michael balzò in piedi dicendo: "Dio che stupido che sono stato.

Ma certo che ne sono parte... ecco perché Tabitha mi ha scelto".

"Non riesco a capire cosa vuoi dire."

"Ha detto che avevo i suoi occhi, gli occhi di mio padre. Po-

teva riferirsi solo a una persona. Mia madre disse la stessa cosa,

ecco cosa mi fece così arrabbiare al ristorante. Lo notò persino

Findlay. Disse che erano come di velluto blu o qualcosa di simile,

e io pensai che lo facesse per cercare di portarmi a letto."

"Aspetta, Michael, non ti seguo più. Chi diavolo è Findlay?"

"E' un investigatore. Lo ha assunto Tabitha anni fa. Ascolta." Fece

sedere Phoebe e cominciò a spiegare: "Tabitha aveva un fratello

di nome Godfrey, che venne abbattuto in guerra dai tedeschi".

"Questo lo so, e c'era anche un altro fratello, Lawrence, che

lei odiava, e quando diventò pazza cominciò ad accusarlo di omi-

cidio, credo."

"Ô vero, e aveva anche ragione: fu lui a far la soffiata ai tede-

schi sulla missione di Godfrey, ed ecco perché venne ucciso. Ne

sono quasi sicuro. Ma c'era anche un co-pilota, che si salvò. Ven-

ne rinchiuso in un campo di prigionieri di guerra e alla fine della

guerra ritornò in patria. Girò in lungo e in largo non senza lasciare

un po' del suo seme in giro, e fece tutti i lavori possibili cambian-

do nome, John Farringdon per esempio, o Jim Fenchurch."

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"Sì, e allora, che c'entra costui?"

"Credo di essere suo figlio."

Phoebe spalancò gli occhi increduli.

"Cosa sei?"

Michael confermò quanto detto e Phoebe si lasciò sfuggire un

mugolio di esasperazione. "Beh, non credi che avresti dovuto ren-

derci partecipi di tutto questo un po' prima?"

"Ma l'ho capito solo ora. Anzi, adesso voglio andare a chieder-

lo a Tabitha." Si alzò, accese la luce e cominciò a vestirsi quanto

più rapidamente possibile.

"Michael, sono le cinque di mattina. Starà dormendo."

"Non importa. E' urgente." Forzò goffamente i piedi dentro le

scarpe. "Sai cosa penso? Che Tabitha non sia affatto matta. Penso

che il gioco a cui sta giocando sia estremamente sottile." Aprendo

la porta concluse con gran senso della scena: "A meno che mi sba-

gli di grosso, quella ha la testa a posto quanto me".

"Più a posto, forse," disse Phoebe. Ma non abbastanza forte

da essere sentita.

 

 

 

 

CAPITOLO OTTAVO.

L'UOMO DELLA STANZA DEI BOTTONI.

 

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Michael non dovette preoccuparsi di interrompere il sonno di

Tabitha. Dalla sua stanza veniva una luce, la porta non era stata

chiusa a chiave e lei era a letto, seduta, che sferruzzava e ascoltava

una radio a transistor che stava sul comodino.

"Accidenti, Michael," strillò. "Lei è arrivato molto più presto

di quanto pensassi! E' già l'ora della nostra chiacchieratina?"

"John Farringdon," disse lui, venendo subito al sodo. "Era

mio padre, vero?"

"Dunque, ci è arrivato, eh? Bravo, Michael. Bravissimo! An-

che se, in tutta franchezza, mi aspettavo che ci arrivasse prima.

Quanto gli ci è voluto? Quasi nove anni, se non sbaglio. E pensare

che leggendo i suoi libri mi ero fatta l'idea che lei fosse un uomo

veramente intelligente."

Michael trascinò una sedia accanto al letto. "Perfetto," disse.

"So che lei adesso si sta prendendo gioco di me. Si è sempre presa

gioco di me?"

"Prendersi gioco di lei, Michael? Sono accuse da fare, queste?

Non è niente carino, Io l'ho aiutata. Ho sempre voluto aiutarla. E'

sempre stato questo il mio unico pensiero."

"Senta... Non ho ricevuto alcun aiuto da lei: proprio nessuno.

Non mi ha mai neanche contattato in tutto questo tempo."

"Le ho fatto avere un bel po' di danaro, se non altro. Non le è

stato di nessuna utilità?"

"Sì, naturalmente." Michael arrossì vergognandosi di essersi

fatto ricordare che non l'aveva mai ringraziata per la sua genero-

sità. "Lo è stato, eccome. Ma come potevo.., cioè, non fosse stato

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per Findlay, non mi sarei neanche avvicinato alla verità."

"Findllay? Non mi dica che sta parlando di Mr Onyx? Mr Fin-

dlay Onyx, il detective? E ancora vivo, Michael?"

"Eccome. Vivo e in galera."

"E credo di sapere per cosa!" disse Tabitha, ridendo allegra-

mente. "Oh, era un ometto talmente strano. Proprio strano dav-

vero. Ma anche un professionista eccezionale. Devo ammetterlo.

Fu Mr Onyx che riuscì a trovare suo padre per mio conto. Glielo

deve aver detto, immagino."

"Sì, lo ha fatto."

"Dunque lei sa che fu Lawrence a uccidere suo padre, in que-

sta stessa casa? La notte della festa di compleanno di Morty?"

Michael annuì.

"Rimasi molto delusa, devo ammetterlo," disse Tabitha. "Ero

convinta che Mr Farningdon non avrebbe avuto alcuna difficoltà a

far fuori mio fratello. Ma evidentemente non si può mai dare nulla

per scontato in questo genere di cose. Ero molto depressa quando

Mr Onyx venne a trovarmi la mattina dopo." Scosse la testa sor-

ridendo. "Era un uomo estremamente coscienzioso. Molto affida-

bile. Venne Ä rischiando di persona, devo dire Ä a portarmi un

pacchetto con dentro degli effetti personali di Mr Farringdon.

Fra i quali, trovai..."

"...una fotografia."

"Esattamente, Michael! Una fotografia. Forse lei non è così

tardo come pensavo. Una fotografia di lei che scrive, seduto a

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una scrivania. Deve aver avuto, diciamo... otto anni? Nella foto

c'era anche una ragazzina. Non molto carina, mi pare. Con tutti

quei denti in fuori. Mr Farringdon era molto attaccato a quella fo-

tografia. Me ne aveva parlato in lungo e in largo durante una delle

nostre lunghe conversazioni in istituto, dove era stato così gentile

da venirmi a trovare parecchie volte. Oh sì, erano pomeriggi così

piacevoli, quelli. Non c'era argomento che non toccassimo. Un

giorno, mi ricordo, facemmo una lunga e stimolantissima discus-

sione sul Lockheed Hudson. E sempre stata per me fonte di pre-

occupazione la grande quantità di lega di magnesio utilizzata per la

sua costruzione. Mi sembrava che rendesse l'aereo vulnerabilissi-

mo sotto il profilo dell'infiammabilità, soprattutto in caso di esplo-

sione dei serbatoi di carburante. Dunque, benché Mr Farningdon

non ne avesse mai pilotato uno..." S'era persa dietro a un pensiero

e il suo sguardo si fece opaco, indifferente. Si volse verso Michael

con fare smarrito. "Scusi, caro, cosa stavo dicendo?"

"Della fotografia."

"Ah sì, la fotografia. Ebbene, io la conservai gelosamente, co-

me del resto mi aveva chiesto di fare, benché la foto, purtroppo,

non mi offrisse alcun elemento per risalire fino a lei, e Mr Farning-

don s'era scordato di dirmi il nome, il suo. Forse non lo sapeva

neppure. Poi, un giorno Ä deve essere stato, oh, almeno vent'anni

dopo Ä accadde una cosa assolutamente straordinaria. Uno dei dot-

tori venne in camera mia e mi portò una rivista. Non fu gentile da

parte sua? Tutta l'équipe medica sapeva della mia passioncella, sa,

e questa era una rivista a colori con un articolo lungo lungo, tutto

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sul Mank I Hurricane. Devo ammettere, in verità, che lasciava

molto a desiderare: rimasi delusissima. L'autore dimenticava, sal-

tava a pie' pari parecchi punti importanti; non faceva neppure

menzione, roba da non credere, della sua unica vera superiorità

sullo Spitfire, che, come lei saprà, era lo spessore delle ali, Io, al-

lora, scrissi una lettera di protesta al direttore, ma non fu mai

pubblicata. Chissà perché..."

Seguì un silenzio troppo lungo per non allarmarsi e Michael

comprese che aveva perso il filo un'altra volta.

"Dunque, la rivista."

"Scusi. Tendo a distrarmi, talvolta. La rivista. Precisamente.

Ebbene, dopo aver letto quell'articolo, cominciai a dare un'oc-

chiata ad alcuni degli altri pezzi, e s'immagini la mia sorpresa, Mi-

chael Ä cerchi di immaginare il piacere e lo sgomento Ä quando

scoprii, in fondo in fondo, un delizioso raccontino su un castello

e un detective, e sopra, quella stessa foto che Mr Farningdon mi

aveva dato tanti anni prima. Una foto di lei, Michael! Di lei da

ragazzino! Il destino l'aveva infine messa sulla mia strada, e oltre

tutto Ä che notizia Ä' lei era diventato uno scrittore. Era tutto per-

fetto, troppo perfetto! Cominciai a concepire un piccolo piano

che mi avrebbe consentito di riparare, almeno dal punto di vista

finanziario, a ciò che la mia famiglia le aveva fatto Ä sapevo che lei

era a corto di danaro, ma questo era ovvio: tutti gli scrittori sono a

corto di danaro Ä e che, al contempo, l'avrebbe condotta inevita-

bilmente alla scoperta della verità su suo padre e sulla sua morte.

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Ma così lei avrebbe anche scoperto la verità sulla mia famiglia e

l'avrebbe consegnata al mondo, sotto forma di libro. E che libro

sarebbe stato! Me lo vedevo.., un libro tremendo, un libro senza

precedenti, fatto in parte di memorie private, in parte di cronaca

sociale, tutto mescolato insieme in una miscela letale e devastan-

te."

"Suona stupendo," disse Michael. "Avrei dovuto assumerla

per scrivere la fascetta pubblicitaria."

"Col senno di poi, credo di averla sopravvalutata," disse Tabi-

tha. "Più mi arrivavano sotto gli occhi i passi che mi mandavano e

più crescevano le mie speranze. Mi rendo conto adesso che lei

non era assolutamente adeguato all'impresa. Lei mancava di...

slancio, di... ardimento, di... qual è la parola giusta?"

"Brio?"

"Forse, Michael. Forse è proprio quello che le mancava, in fin

dei conti." Sospirò. "Ma allora chi potrebbe far veramente giusti-

zia della mia famiglia? Un branco di bugiardi, imbroglioni, truffa-

tori, ipocriti. E Lawrence era il peggiore. Di gran lunga il peggio-

re. Tradire la propria patria per denaro è già abbastanza orrendo,

ma mandare a morte il proprio fratello... Solo la mia famiglia po-

teva fare una cosa simile. Quando ciò accadde, mi resi conto per

la prima volta di che pasta erano fatti: e d'allora in poi che peso

poteva mai avere il fatto d'essere rinchiusa? Di quel che sarebbe

stato di me, non m'importava nulla." Sospirò di nuovo, più pro-

fondamente. "Ha totalmente rovinato la mia guerra."

"Lo dice quasi come se ci avesse preso parte," disse Michael.

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"Ma è ovvio che vi ho preso parte," disse Tabitha, sorridendo.

"Partecipavamo tutti. I giovani fanno fatica a capirlo, lo so, ma

non c'è come una guerra giusta per ricompattare una nazione.

Per un po' ci fu una cordialità così bella nella gente. Tutto ciò

che era stato ragione di divisione sembrò improvvisamente insi-

gnificante e illogico. Le cose son cambiate da allora. Sono spaven-

tosamente cambiate. E in peggio. Eravamo così educati, allora, ca-

pisce? C'era un gusto per le cose, un gusto a cui tenevamo mol-

tissimo. Mortimer, per esempio... Non si sarebbe mai comportato

così come ha fatto andando in giro per casa a squartare la famiglia

con asce e coltelli o che altro. In quei tempi là, non gli sarebbe

neanche passato per la testa."

"Penso di no," disse Michael. "Tuttavia, non capiterà più, non

credo proprio."

"Che cos'è che non capiterà più, caro?"

"Una guerra come quella."

"Ma adesso siamo in guerra," disse Tabitha. "Non l'ha senti-

to?"

Michael drizzò lo sguardo. "Siamo entrati in guerra?"

"Ma è ovvio. I primi caccia sono stati mandati poco prima di

mezzanotte. L'ho sentito alla radio."

Michael era sgomento. Persino dopo lo scadere dell'ultimatum

delle Nazioni Unite aveva continuato a credere che non sarebbe

accaduto. "Ma è terribile," balbettò. "E' un disastro."

"Non del tutto, non del tutto," disse Tabitha tutta contenta.

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"Gli alleati non avranno nessuna difficoltà a imporre la propria

superiorità. Il Nighthawk F-117A è un apparecchio molto sofisti-

cato. Il sistema di navigazione, sa, comprende un Inas con sensori

infrarossi davanti e sotto, e può portare un carico di quasi venti

tonnellate di esplosivo a una velocità di 550 miglia all'ora. Gli ira-

cheni non hanno niente di simile. E poi ci sono gli F- 111: il colon-

nello Geddhafi ne sa qualcosa. Con i Raven EF- 11 lA che acceca-

no i radar del nemico, essi possono volare lungo un corridoio d'at-

tacco a più di 1500 miglia orarie. La stiva porta sino a 14 tonnel-

late di materiale..."

Michael aveva già perduto ogni interesse. C'erano questioni

ben più urgenti di cui occuparsi. "Dunque lei pensa che sia Mor-

timer?" chiese.

"Ma naturalmente," disse Tabitha. "Chi altro potrebbe esse-

re?"

"Solo che questi assassinii... è ovvio che li ha maturati qualcu-

no che sa tutto di tutti i membri della famiglia. Che sa cos'hanno

fatto in questi anni. E Mortimer, invece, è da tantissimo che non li

frequentava. Come poteva sapere tutto di tutti?"

"Ma è semplicissimo!" disse Tabitha. "Mortimer ha letto il

suo libro. Ecco. Tutte le volte che mi mandava una parte del

suo manoscritto, io gliene facevo avere subito una copia. Lo tro-

vava molto, molto interessante. Così, in un certo senso, Michael,

lei è responsabile di tutto ciò. Dovrebbe sentirsi molto orgoglioso

di se stesso."

Tabitha riprese a sferruzzare, mentre Michael rimuginava, sul

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ruolo che ora riconosceva di aver avuto in quella bizzarra storia.

Tutto si sentiva, ma non certo orgoglioso.

"E dov'è adesso?" chiese.

"Morty? Non è facile dirlo, temo. Si nasconde da qualche par-

te, è poco ma sicuro, ma questa casa è piena di passaggi segreti. E'

una vera e propria garenna. L'ho scoperto la notte in cui chiusi

Lawrence nella sua stanza. Pochi minuti dopo, era dabbasso

che giocava a biliardo: dunque ci deve essere qualche connessione

invisibile fra le due stanze."

"Perfetto. Lei l'aveva sentito parlare in tedesco nella sua stan-

za, non è così?" Tutto cominciava a chiarirsi. "Magari parlava in

un apparecchio radio, non crede?"

"Certo."

Michael sobbalzò. "Che stanza era?"

"Quella in fondo al corridoio. Quella dove sta il giovane Ro-

derick."

Corse fuori nel corridoio per raggiungere Phoebe: esisteva una

chiave sola e sapeva che l'aveva lei. Phoebe però non era più nel

suo letto. L'ansia lo prese allo stomaco: si voltò di scatto e lei era

lì, dietro di lui, nel vano della porta, che lo guardava severa.

"Svelta," disse. "Dobbiamo entrare nella stanza di Roddy."

"Troppo tardi. E da lì che vengo." Le tremava la voce. "Vieni

a dare un'occhiata."

Non fu un bel vedere. Roddy era steso sul letto, nudo e immo-

bile. Era stato coperto dalla testa ai piedi di vernice dorata e do-

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veva esser morto due o tre ore prima.

"Per soffocamento, presumo," disse Phoebe. "Pittato a morte:

suppongo che avremmo dovuto aspettarcelo." La fronte si corru-

gò in un pensiero. "Non è un film anche questo?"

"Shirley Eaton in Goldfinger," disse Michael. "Mortimer ha si-

curamente fatto i compiti a casa."

"E tuttavia ancora non capisco come abbia potuto entrare. La

chiave è rimasta nella tasca dei miei pantaloni tutta la notte. A me-

no che lui ne avesse un'altra copia, naturalmente."

"Questa è stata la stanza di Lawrence," disse Michael. "Il che

significa che ci deve essere una porta segreta da qualche parte, e un

passaggio che porta a pian terreno. Forza, vediamo se riusciamo a

trovarla."

Fecero il giro di tutta la stanza, battendo con le nocche delle

dita su ciascun pannello per verificare se ce n'era uno che rispon-

deva a vuoto. Quando l'operazione si concluse con un nulla di fat-

to, Michael aprì l'armadio a muro a due ante e vi sbirciò dentro.

"E questo cos'è?" gridò.

Phoebe gli fu subito alle spalle. "L'hai trovata?"

"Qualcosa ho trovato di certo."

Infilò le mani nell'armadio e ne trasse due indumenti Ä una

giacca e dei pantaloni blu. Esaminandoli più da vicino apparvero

per quello che erano: una divisa da sergente di polizia.

"Che t'avevo detto? Quello non era un poliziotto. E guarda

qui: c'è il resto."

Porse a Phoebe un berretto a punta, e, prendendolo, venne al-

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la luce una boccettina di vetro lasciata dietro il cappello sullo

stesso scaffale.

"Cloruro di potassio," lesse lentamente, esaminando l'etichet-

ta. "Ne hai mai sentito parlare?"

"E' un veleno," disse Phoebe. "Mortimer ne teneva sempre

nella sua cassetta del pronto soccorso, L'ultima volta che l'ho vi-

sta, era piena."

Indicò il livello del liquido che ora arrivava solo a un quarto

della boccettina.

"E' mortale?"

Phoebe annuì. "Adesso mi viene in mente... il giorno in cui mi

ha fatto andare via, appena prima che partissi, mi chiese dove sta-

vano le siringhe. Al momento non diedi importanza alla cosa. E

invece potrebbe esserci una relazione."

"Può darsi."

"Aspetta qui, allora...Vado a vedere se ci sono ancora."

Uscì frettolosamente in direzione di quella che era stata la

stanza del paziente, dove le ci volle ben poco a stabilire che dalla

cassetta del pronto soccorso mancava almeno una siringa. Ma

quando tornò per dare la notizia a Michael, l'aspettava una sor-

presa. Il cadavere nudo di Roddy era ancora lì, sul letto, ma la

stanza era vuota. Michael era svanito nel nulla.

Più che altro era stato l'istinto a spingerlo verso la specchiera

dalla raffinata cornice dorata appesa alla parete della stanza. Era

uno specchio ad aprire la strada verso gli inferi: ora Michael l'a-

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veva imparato, e così gli ci vollero pochi secondi per far scivolare

le dita dietro la cornice e sentirla staccarsi facilmente dalla parete.

La specchiera girò su dei cardini fissati al muro e s'aprì per intero

svelando una nera cavità rettangolare; e non appena egli avanzò

nel buio, essa si chiuse senza il minimo rumore alle sue spalle. Mi-

chael cercò subito di spingere e riaprirla. Invano. Per il momento,

non c'era altro da fare Ä lo sapeva bene Ä che andare avanti. Non

si vedeva né si sentiva nulla ma l'aria era pregna d'un odore di

muffa e di stantio, e le pareti di mattoni erano asciutte asciutte

e tendevano a sfaldarsi sotto le dita. Procedette con molta tituban-

za mettendo un piede davanti all'altro e si rese immediatamente

conto di trovarsi in cima a una scala; ma dopo tre gradini appena

il pavimento sotto di lui tornò orizzontale ed ebbe la netta sensa-

zione d'essere entrato in uno spazio molto più grande. Fece sei

passi a destra tenton tentoni e toccò un muro che questa volta

era liscio e intonacato. Prese a seguire quel muro per tutta la

sua estensione e dopo aver cambiato direzione due volte e aver

incespicato in qualcosa di pesante Ä un tavolo, forse Ä le sue mani

riconobbero al tatto la cosa che più d'ogni altra egli sperava di

trovare: un interruttore della luce. E, miracolo!, funzionava.

Michael era in una camera strettissima ma dal soffitto altissimo

che pareva essere stata costruita dentro lo spessore di una parete.

Accanto ai pochi gradini per i quali era sceso c'era anche un pic-

colo pertugio aperto sulla sinistra. Contro una delle pareti, ma

grande abbastanza per prendersi la maggior parte dello spazio di-

sponibile, c'era una scrivania, e su di essa, un apparecchio rice-

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trasmittente, pesante e poco maneggevole. Scrivania e apparec-

chio radio erano coperti da uno spesso strato di polvere, e nelle

quattro o cinque decadi (tante ne azzardò Michael) in cui non era-

no stati più toccati, intere dinastie di ragni avevano avuto tempo e

modo per tessere coltri su coltni di fini impalpabili ragnatele. La

stanza era priva di finestre, ma si vedeva una traccia di fili aerei

che correva su per la parete e poi attraverso un buco nel soffitto,

che presumibilmente arrivava fin sul tetto della casa.

"Dunque è qui che l'hai fatto, cane maledetto," mormorò Mi-

chael. "Un autentico omino della stanza dei bottoni!"

S'aprì un varco con le mani impazienti fra polvere e ragnate-

le. La radio pareva funzionare a batterie e non si sorprese quan-

do, premendo tasti diversi alla rinfusa, essa non diede alcun cen-

no di vita. Fu ben più gratificante un veloce esame nei cassetti

della scrivania. C'erano mappe, almanacchi e orari ferroviari

del 1940, e inoltre un dizionario tedesco-inglese e quel che si ri-

velò subito un'agenda di indirizzi. Sfogliandola, Michael s'imbat-

té non soltanto in BISCOttO, FORMAGGIO e SEDANO ma anche nei

nomi in codice di altri agenti segreti Ä CAROTA, DOLCEZZA, IVIENTA,

NEVE, LIBELLULA Ä ciascuno con scritti accanto indirizzo e numero

telefonico. Erano state trascritte anche le note personali di molte

figure di spicco dell'esercito, del Ministero della guerra e del go-

verno di coalizione. Un libro contabile rilegato in cuoio era pie-

no di file parallele di cifre in sterline e marchi tedeschi, con una

pagina in fondo che riportava nomi e riferimenti di conti bancari

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inglesi e tedeschi. In più c'erano anche dei fogli volanti e uno in

particolare attirò la sua attenzione. Era intestato così:

L9265 Ä 53 Sqn.

Quello era stato Ä Michael lo sapeva Ä il numero dell'aereo e

della squadriglia di Godfrey. La maggior parte delle cifre che se-

guivano gli risultò incomprensibile, anche se 30/11 era evidente-

mente una indicazione di data, e certi altri numeri potevano vero-

similmente riferirsi a' posizioni di latitudine e longitudine. Una co-

sa era certa: Michael aveva messo le mani sulle prove dell'azione

proditoria di Lawrence, del premeditato tradimento di Godfrey

per profitto.

Michael era diviso fra due impulsi contrastanti: ritornare da

Phoebe (ammesso di riuscirvi) e raccontarle della sua scoperta,

o affidarsi alla fortuna imboccando l'altra porta e continuare l'e-

splorazione. Per una volta ebbe la meglio il suo spirito d'avven-

tura.

La seconda uscita portava direttamente a un'altra scala, molto

più ripida e irregolare della precedente. Lasciando aperta la porta

della stanzetta, Michael scoprì di aver abbastanza luce per illumi-

nare il suo cammino, e quando, di lì a poco, ritenne di esser sceso

al livello del pianterreno, i gradini finirono. Ora si trovava all'in-

gresso di un passaggio stretto stretto dove l'oscurità cominciava a

prevalere.

Non aveva fatto che pochi passi quando, sulla parete del pas-

saggio, si palesò una porta di legno. In cima era sprangata, ma il

meccanismo era ben oliato e pareva essere stato usato di recente.

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L'aprì con qualche difficoltà e sbucò, come del resto s'era aspet-

tato, nella sala del biliardo. L'alba non sarebbe sorta che fra

un'ora o due, ma c'era del chiarore lunare che faceva breccia

fra i tendaggi e nel gioco d'ombre riuscì a distinguere il cadavere

di Mark, ora coperto con un lenzuolo macchiato di sangue. I

suoi arti recisi spuntavano ancora, con grottesco effetto, dalle bu-

che del biliardo come orridi totem. Michael rabbrividì e fu sul

punto di ritrarsi quando notò un riflesso metallico sul bordo

del tavolo da biliardo, Era l'accendino di Mark. Era, questo,

un elemento troppo utile per permettersi di trascurarlo, e perciò

schizzò attraverso la stanza e lo afferrò prima di battere sollevato

in ritirata dentro il tunnel, il cui ingresso, privo di giunture visi-

bili, era celato dietro una rastrelliera di stecche da biliardo fissata

ai pannelli di quercia.

Michael non s'era spinto molto in là che soffitto e pareti del

passaggio cominciarono a restningersi, rendendo più difficile il

movimento. Per un certo tratto dovette quasi andar gattoni stri-

sciando su mani e ginocchia ed ebbe la netta sensazione che il pa-

vimento cominciasse a piegare ripido verso il basso. Un paio di

volte, due luminose capocchie di spillo gli fecero presagire la pre-

senza di un ratto guardingo che scappava via al suo avvicinarsi. Il

tunnel, però, continuava a restare asciutto, e talora, strusciandoci

contro, la calce gli si sbriciolava addosso, tanto che, a un certo

punto, non fu senza meraviglia che udì distintamente l'irregolare

ma insistente rumore d'uno sgocciolio.

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Plip. Plip. Plip.

Contemporaneamente apparve una luce tremolante che si fa-

ceva sempre più forte, mentre lo spazio fra le pareti cominciava

a dilatarsi. Improvvisamente il passaggio si aprì in una sorta di

stanza. Delle travi di legno sostenevano il soffitto di pietra, e le

quattro pareti formavano un quadrato d'una mezza dozzina di

metri fra un muro e l'altro.

Plip. Plip.

Non fece fatica a individuare da dove veniva lo sgocciolio. Per

prima cosa Michael vide un'ombra straordinariamente dilatata

che ballava incerta sul soffitto alla luce di un candeliere. Era l'om-

bra d'un corpo, legato stretto stretto e appeso per le caviglie a un

uncino da macelleria avvitato dentro una delle travi. Sul collo le

era stata fatta una piccola incisione dalla quale il sangue colava,

con flusso costante, lungo la faccia, per il garbuglio dei capelli in-

crostati, e indi dentro un pesante secchio d'acciaio che era già

quasi pieno.

Plip. Plip. Plip.

Era il corpo di Dorothy Winshaw; accanto a esso, seduto su

uno sgabello a tre gambe, stava suo zio Mortimer. Il quale, appe-

na Michael spuntò dal tunnel, lo guardò in faccia, ma era impos-

sibile dire chi dei due avesse gli occhi più stanchi e muti: se Mor-

timer o il gelido cadavere che girava lentamente su se stesso.

Plip.

"E' morta?" disse infine Michael,

"Direi di sì," rispose il vecchio. "Ma non mi sbilancerei trop-

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po. C'è voluto molto più tempo di quanto pensassi."

"Che terribile modo di uccidere una persona."

Mortimer ci pensò su un momento.

"Sì," ammise.

Plip. Plip.

"Mr Owen," continuò Mortimer, esprimendosi con grande fa-

tica. "Spero proprio che lei non voglia sprecare della pietà per i

membri della mia famiglia. Non se la meritano. Lo dovrebbe sa-

pere meglio di chiunque altro."

"Sì, ma nonostante tutto..."

"Adesso è troppo tardi. In ogni caso. Quel che è fatto è fatto."

Plip. Plip. Plip.

"Qui siamo proprio sotto il salotto, nel caso se lo stia chieden-

do," disse Mortimer. "Se sopra ci fosse qualcuno, lo sentiremmo.

Ero qui qualche ora fa, e ho sentito tutto il putiferio che hanno

fatto quando Sloane ha dato lettura del testamento e loro hanno

capito che da me non avrebbero cavato un centesimo. Uno scher-

zo infantile, suppongo." Fece una smorfia. "Stupido. Vano. Come

ogni altra cosa."

Plip.

Mortimer chiuse gli occhi, come sopraffatto da un dolore.

"La mia è stata una vita senza scopo, Mr Owen. Una vita quasi

tutta sprecata. Sono nato coi soldi, e come tutto il resto della mia

famiglia ero troppo egoista per trarne qualcosa di buono. Diver-

samente da loro, almeno, non ho mai fatto del male a nessuno.

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Pensavo però di potermi redimere un po' facendo, prima di mo-

rire, un piccolo favore al genere umano. Togliere dalla faccia della

terra un manipolo di vermi."

Plip. Plip.

"E' stato lei, Mr Owen, che infine mi ha convinto. Quel suo

libro. Mi ha fatto venire l'idea e mi ha suggerito uno o due possi-

bili approcci. Ora che è tutto finito, comunque, devo ammettere

che, all'allentarsi della tensione, s'accompagna, non so, un senso

di vuoto."

Mentre diceva queste parole, Mortimer giocherellava con una

grossa siringa piena di liquido trasparente che teneva nella mano

destra. Notò che Michael lo guardava con una certa apprensione.

"Oh, non deve preoccuparsi," disse. "Non ho proprio inten-

zione di ucciderla. E neanche Miss Barton." Il suo volto parve ad-

dolcirsi un po' menzionando quel nome. "Lei avrà cura di lei, ve-

ro Michael? E' stata così buona con me. E vedo che lei le piace. Mi

renderebbe così felice pensare che,,."

"Certo che lo farò. E anche Tabitha."

"Tabitha?"

"Le assicuro che in quel posto non ce la riporteranno. Non so

come, ma... Farò in modo che non succeda."

Plip.

"Ma che è matta lei lo sa, naturalmente?" disse Mortimer.

Michael lo fissò negli occhi.

"Oh sì," proseguì sorridendo distrattamente. "Matta, matta

col botto."

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"Però le ho appena parlato e pareva assolutamente..."

"C'è una vena di follia in famiglia, capisce? Siamo tutti matti

da legare, fuori di testa, bacati nella cocuzza. Tutti. Perché arriva

il momento, Michael," e qui si chinò innanzi puntandogli addosso

la siringa, "arriva il momento in cui rapacità e follia diventano

praticamente indistinguibili l'una dall'altra. Si potrebbe quasi dire

che diventano una e una sola cosa. E poi arriva un altro momento

in cui anche tollerare la rapacità, e viverci fianco a fianco, o addi-

rittura prendersene carico, diventa una sorta di follia. La follia

non ha mai fine. Almeno per..." (la sua voce si assottigliò in

uno spettrale sussurro) "...per chi continua a vivere."

Plip. Plip.

"Prenda Miss Barton, per esempio." Mortimer stava comin-

ciando a imbrogliarsi nel parlare. "Una così cara ragazza. Così de-

gna di fiducia. Eppure io l'ho sempre ingannata. Le mie gambe

erano ragionevolmente in forma. Qualche ulcera qui e là, ma nulla

che mi impedisse di camminare. C'è che mi piaceva, lei mi capirà,

avere intorno qualcuno che si dava da fare per me."

Pli". Pli". Plip.

"Sono così stanco, Michael. Ironia del destino. Una sola cosa

c'era di cui soffrivo davvero e di quella non ho mai fatto menzione

a Miss Barton. Non ne ha neppure una vaga idea. Riesce a imma-

ginare di cosa si tratta?"

Michael scosse il capo.

"Insonnia. Non riesco a dormire, Proprio per niente. Un'ora o

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due ogni tanto. Tre, quando va bene. Da quando è morta Rebec-

Ca.

Plip.

"Che notte! E stato troppo. Troppo. Lo sforzo. Pensavo di

non riuscirci, se devo esser franco." Si lasciò scivolare in avanti

con la testa fra le mani. "Vorrei tanto dormire, Michael. Lei mi

aiuterà, vero?"

Michael prese la siringa dalla mano tesa di lui e guardò Mor-

timer che si arrotolava la manica della camicia:

"Non penso di aver più forza nelle dita, purtroppo. Mi metta

a dormire, Michael, le chiedo solo questo."

Michael lo guardò, incerto.

"Per il suo buon cuore. La prego."

Michael prese la mano di Mortimer. La pelle gli pendeva grin-

zosa dal braccio. Aveva gli occhi di un cagnolotto implorante.

Plip. Plip.

"Non si addormentano anche i cani, quando sono vecchi e

malati?"

E si convinse che, messa così, la faccenda non suonasse poi co-

sì tremenda.

 

 

 

 

Capitolo NONO.

CON GAGARIN VERSO LE STELLE.

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"Niente spiegazioni," disse Michael. "Se dormi, se sogni, i tuoi

sogni li devi accettare per quel che sono. Questo è il ruolo di chi

sogna."

Phoebe si fece scudo davanti agli occhi con le mani per difen-

dersi dalla luce. "C'è del vero. Ma cosa significa?"

"Pensavo: da bambino ho fatto tre sogni che mi ricordo per-

fettamente. Ora due si sono più o meno trasformati in realtà."

"Solo due? E il terzo?"

Michael si strinse nelle spalle. "Non si può avere tutto."

Erano sulla terrazza di Winshaw Towers e guardavano verso i

prati, i giardini, il laghetto e la stupenda distesa di brughiera che

si apriva in lontananza. Il temporale aveva lasciato spazio a un sole

sfolgorante, anche se dovunque v'erano alberi abbattuti, tegole ca-

dute e detriti portati dal vento a testimoniare la potenza degli ele-

menti.

Era quasi mezzogiorno: la fine di una lunga, snervante matti-

nata durante la quale pareva non avessero fatto altro che rendere

dichiarazioni agli agenti che avevano sciamato per la casa dacché

Phoebe era andata a piedi al villaggio a dare l'allarme. Poco dopo

le dieci erano arrivati i primi giornalisti e i fotografi. Sino ad allora

la polizia era riuscita a tenerli a bada, ma ancora adesso erano li,

sparpagliati sulla strada come un esercito pronto all'imboscata: la

casa ingombra di un intero arsenale di teleobiettivi, e loro seduti

con aria truce in auto, in attesa di piombare su chiunque avesse

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osato avventurarsi sul viale d'accesso.

"Chissà se le cose potranno mai tornare alla normalità?" fece

Michael. Si rivolse a Phoebe con ansiosa perentorietà. "Verrai

presto a Londra a trovarmi, vero?"

"Ma certo: appena posso. Domani. O magari dopodomani."

"Non so cos'avrei fatto se non ci fossi stata tu." Sorrise. "Ogni

Kenneth ha bisogno del suo Sid, dopo tutto."

"E che ne dici di: 'Ogni Orfeo ha bisogno della sua Euridice'?

Giusto per non far confusione."

L'analogia, però, parve intnistire Michael. "Non me lo perdo-

nerò mai. La storia di quel quadro, e come è andata a finire."

"Senti, Michael, lascia che ti dica una cosa. Non arriveremo

mai da nessuna parte, noi due, se restiamo appiccicati al passato.

Il passato è un casino, sia per me che per te. Dobbiamo lasciarcelo

alle spalle. D'accordo?"

"D'accordo."

"Benissimo. Allora ripeti con me: NON VOLTARTI INDIETRO."

"Non voltarti indietro."

"Bene."

Era sul punto di premiarlo con un bacio quando furono

raggiunti sulla terrazza dal pilota di Hilary, Tadeusz, arrivato

anche lui in mattinata. Costui era Ä va detto Ä tutt'altro uomo

rispetto al precedente detentore di quella desiderabile posizio-

ne: arrivava a stento al metro e settanta, aveva più di sessan-

t'anni e, essendosi stabilito solo da poco nel paese dopo aver

lasciato la natia Polonia, non spiccicava una parola d'inglese.

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Fece un brusco cenno del capo in direzione di Michael e

Phoebe, e rimase poi a una certa distanza da loro, appoggiato

alla balaustra.

"Credo che il marito di Hilary abbia proprio puntato i piedi,"

sussurrò Phoebe. "Il pilota precedente era un dio in terra. Una

volta vennero qua e ruzzarono nudi sul prato di croquet per tutto

un fine settimana. Questo proprio non ce lo vedo."

"Oh, basta che sappia come pilotare un aeroplano," disse Mi-

chael. "Mi deve riportare in città questo pomeriggio."

 

 

Un'oretta più tardi, Michael era pronto, valigia alla mano, per

la partenza. Phoebe, che aveva in mente di prendere un treno del

pomeriggio per Leeds in compagnia di Mr Sloane, passeggiava

con lui lungo la sponda del laghetto. Quantunque l'avessero cer-

cato per tutta la casa, non erano riusciti a trovare Tadeusz, ma l'o-

ra concordata per la partenza era l'una e Michael fu sollevato nel

vedere la diminutiva figura del pilota già chiusa nella cabina. Era

vestito di tutto punto per la parte: un costume che pareva proprio

quello di un asso dei cieli della prima guerra mondiale, con tanto

di occhialoni scuri e casco di cuoio.

"Sant'iddio, ma è il Barone Rosso," disse Phoebe.

"Spero che 'sto tipo sappia quel che fa."

"Andrà tutto bene."

Lasciò la valigia a terra e l'abbracciò forte.

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"Arrivederci a presto, allora."

Phoebe annuì, si levò in punta di piedi, e lo baciò sulla bocca.

Lui le si strinse contro con passione. Fu un bacio lungo, prima

furioso, caotico, poi languido e tenero. Michael assaporò la sensa-

zione dei capelli di lei che il vento gli soffiava sulla faccia, il freddo

della sua guancia.

Con molta riluttanza s'avviò verso la cabina dell'aereo.

"Dunque, ci siamo. Stasera ti chiamerò. Faremo dei proget-

ti." Era sul punto di chiudere lo sportello, ma fu preso da un'e-

sitazione. Pareva che qualcosa gli ingombrasse la mente. La

guardò ancora un momento e disse: "Sai, ho un'idea su quel

quadro. Io me lo ricordo benissimo: dunque pensavo che se

ci mettessimo lì insieme e io te lo descnivessi, e tu trovassi i tuoi

primi schizzi, forse potresti... Per fare almeno qualcosa che gli

somigli".

"Che cosa ti ho detto sulla terrazza?" disse Phoebe, severa.

Michael fece di sì con la testa. "Hai ragione. Non voltarti in-

dietro."

Phoebe agitò, alta, la mano mentre l'aereo flottava in posizione

di decollo e mandò ancora un bacio mentre esso guadagnava ve-

locità e sfiorava la superficie dell'acqua alzandosi dolcemente in

aria. Continuò a seguirlo con gli occhi finché non fu un puntino

nero contro l'azzurro del cielo. Poi tornò sui suoi passi e s'avviò

verso la casa.

Vaghi presentimenti le pesavano sul cuore. Era preoccupata

per Michael: preoccupata che lui si aspettasse troppo da lei, pre-

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occupata che quell'attaccamento al passato fosse per certi versi

ossessivo; o quantomeno infantile. Talora non era facile rammen-

tarsi che lui aveva sette o otto anni più di lei. Era preoccupata

che il loro rapporto potesse correre troppo in fretta, prendendo

direzioni poi ingovernabili. Era preoccupata di non trovare in sé

alcuna buona ragione Ä a essere onesta con se stessa Ä che giu-

stificasse di aver preso lei, per prima, l'iniziativa. Era accaduto

tutto così in fretta, e aveva finito per agire in base a sollecitazioni

fuorvianti: aveva avuto pena di lui e lei stessa aveva provato pau-

ra e il bisogno d'essere confortata. E del resto, che speranza ave-

vano di dimenticare le orribili circostanze in cui s'erano trovati

l'uno accanto all'altra? E da un simile inizio cosa poteva sortire

di buono?

Salì nella sua camera, fece la valigia e poi si guardò attorno

per controllare se aveva dimenticato qualcosa. Sì, c'era l'astuc-

cio del pronto-soccorso Ä ora le venne in mente Ä che forse era

rimasto nella stanza dove era stato trovato il corpo di Henry.

Ci voleva solo un minuto per recuperarlo e tuttavia la sola pro-

spettiva di farlo la colmò di inquietudine. Lungo i corridoi sco-

prì che stava tremando tutta e, mentre saliva al secondo piano,

ebbe l'improvvisa, presaga sensazione di aver cominciato a ri-

vivere gli eventi della notte appena trascorsa: un'impressione

che prese forza all'ultimo svoltare del corridoio quando udì

il rumore di un televisore acceso, sintonizzato sul telegiornale

della una.

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Aprì la porta. Il presidente Bush parlava a una stanza vuota.

Era una replica del suo discorso agli americani, mandato in onda

poco dopo l'invio dei primi bombardieri su Baghdad.

Proprio due ore fa, forze aeree alleate hanno sferrato un attacco

contro obiettivi militari in Iraq e Kuwait. Mentre parlo gli attacchi

continuano.

Phoebe notò qualcosa: un rivolo di sangue che scorreva giù

dal divano e sgocciolava sul pavimento.

I ventotto paesi con forze militari nell'area del Golfo hanno

esaurito tutti i ragionevoli sforzi per raggiungere una soluzione pa-

cifica e non hanno altra scelta che scacciare Saddam dal Kuwait con

la forza. Non falliremo il colpo.

Sbirciò con cautela da sopra lo schienale e vide un uomo che

giaceva sul divano a faccia in giù con un trinciante piantato fra le

scapole.

Qualcuno magari si domanda: Perché adesso? Perché non aspet-

tare? La risposta è semplice: il mondo non poteva aspettare più a

lungo.

Rivoltò il corpo dell'uomo e restò col fiato in gola. Era Ta-

deusz.

Questo è un momento storico.

Bussarono alla porta, e uno degli agenti di polizia in servizio

infilò dentro la testa dando uno sguardo in giro.

"Non si è vista Miss Tabitha?" chiese. "Non si trova da nes-

suna parte, pare."

Le nostre operazioni sono concepite per proteggere al meglio le

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vite di tutte le forze di coalizione puntando sul vasto arsenale mili-

tare di Saddam. Non abbiamo nulla contro il popolo iracheno. Al

contrario, prego per la salvezza degli innocenti travolti in questo

conflitto.

La follia avrebbe avuto mai fine?

 

 

Michael siede nella cabina dell'idrovolante e si protende in

avanti per vedere il panorama dello Yorkshire del sud svolgersi

sotto di lui.

Il pilota, che gli sta seduto ritto davanti, comincia a cantic-

chiare un motivo: Rema, rema, rema dolcemente, rema seguendo

la corrente. La voce del pilota sembra insolitamente acuta e mu-

sicale.

Il mondo non poteva aspettare più a lungo.

L'aereo s'impenna e sale alto. Michael non comprende il mo-

tivo dell'evoluzione e si irrigidisce nel suo posto a sedere. Pensa

che fra un secondo o due l'apparecchio riguadagnerà la posizione

orizzontale, non ha dubbi. E invece l'ascesa si inasprisce, si fa

sempre più ripida, sinché non si trovano tutto d'un botto in ver-

ticale, e poi a testa in giù, e poi, ancora, prima che Michael abbia

la possibilità di gridare, hanno fatto un giro completo su se stessi

riguadagnando la posizione originaria.

"Che diavolo sta facendo?" grida forte, chiudendo le mani a

tenaglia sulle spalle del pilota. Ma il pilota è scosso dalle risa Ä risa

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isteriche che non riesce a fermare Ä e urla di gioia.

Oh che gaudio, oh che felicità

"Ho detto: che diavolo sta mai facendo?" ripete Michael.

Noi non ce l'abbiamo con gli iracheni.

"E' diventato pazzo?"

Al che la risata del pilota si fa ancora più isterica, e strappati

via occhialoni e casco di cuoio ecco che salta fuori Tabitha Win-

shaw e dice: "Sa, Michael, è proprio come pensavo: una volta che

ci si prende la mano, si va via lisci come l'olio."

Rema rema rema dolcemente, rema seguendo la corrente

oh che gaudio oh che felicità

la vita è solo un sogno, è tutta qua.

"Dov'è Tadeusz, per amor di Dio?" urla Michael.

Il nostro obiettivo non è la conquista dell'Iraq. E' la liberazione

del Kuwait.

"Vuole che le mostri com'è fatto?" dice Tabitha.

Michael la scuote rudemente avanti e indietro.

"Sa come far atterrare 'sto coso? Mi dica questo, non altro."

"Vede questo quadrante?" dice Tabitha indicando uno degli

strumenti di volo. "E' l'indicatore della velocità. Verde sta per nor-

male, giallo per pericolo. Vede qui dove dice Vno? Vuol dire che

siamo entro i limiti di una normale velocità di crociera."

Al contrario, io prego per la salvezza degli innocenti travolti in

questo conflitto.

Michael ha gli occhi incollati al quadrante quando la lancetta

comincia a spingersi fuori dello spicchio verde e a entrare in quel-

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lo giallo. L'accelerazione gli fa venire la nausea. La lancetta è ora

alla fine dello spicchio giallo, arriva a un punto contrassegnato

dalla sigla Vne.

"E questo cosa vuol dire?" dice lui. -

"Che non bisogna mai andare oltre," sbraita Tabitha che quasi

balza fuori dal suo posto dall'eccitazione.

"Per amor di Dio, Tabitha, rallenti. E' pericoloso."

Lei si volta di nuovo e dice con un'aria di rimprovero: "Volare

non è mai pericoloso, Michael".

"Davvero?"

"Davvero. E' schiantarsi che è pericoloso."

E poi, con una risata alta e stridula, spinge la cloche in avanti,

fino in fondo, l'aereo si piega verso il basso ed essi precipitano

giù, lanciati a un'incredibile velocità, e Michael è vuoto, il suo cor-

po è come una conchiglia sventrata, la bocca è aperta e tutto quel

che era dentro di lui è rimasto alle sue spalle, su in alto nel cielo...

Precipito, precipito, precipito.

Stasera, mentre le nostre forze combattono, loro e le loro fami-

glie sono nelle nostre preghiere.

Rema, rema, rema dolcemente, rema seguendo la corrente.

Assordante è il rumore, il terribile lamento del motore e del-

l'aria tagliata, e tuttavia alle sue orecchie arriva ancora, più forte

di tutto, la folle risata di Tabitha: la spaventosa risata senza fine

di una donna irrimediabilmente pazza...

Ah che gaudio, ah che felicità.

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Nessun presidente manda in guerra i propri figli a cuor leggero.

Precipito, precipito.

Che Dio li benedica tutti uno per uno,

Precipito...

Questo è un momento storico.

Finché arriva il momento...

Ah che gaudio.

il momento in cui l'avidità...

Ah che felicità.

il momento in cui l'avidità e la follia...

E poi c'è l'ultimo grido di metallo, la straziante lacerazione

della fusoliera che va in brandelli, e infine, di botto, l'aereo va tut-

to in pezzi, e lui è in caduta libera, cade in picchiata, smanigliato,

e non v'è altro che cielo azzurro fra Michael e la terra, lui la vede

distintamente salire verso di sé, vede le coste dei continenti, le iso-

le, i grandi fiumi, le grandi superfici d'acqua...

Ah che gaudio, ah che felicità.

Non soffro più...

La vita è solo un sogno,

Non ho più paura...,

La vita è solo un sogno, è tutta qua.

ú . perché arriva il momento in cui avidità e follia non si posso-

no più dire separate. La linea divisoria è sottilissima, quasi come

un nastro, una pellicola che circondi la sfera della terra. E' d'un

azzurro delicato, e il passaggio dall'azzurro al nero è molto gra-

duale e piacevole.

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Il mondo non poteva aspettare più a lungo.

 

 

 

 

 

 

PREFAZIONE,

di Hortensia Tonks, Dottore in Lettere, Università di Cambridge.

 

Il signor Italo Calvino, uno scrittore italiano tenuto in grande

considerazione fra gli esperti di letteratura, una volta sottolineò

Ä molto felicemente, a mio avviso Ä che non v'è nulla di più in-

tenso di un libro lasciato incompiuto dal suo autore. Tali opere

inconcluse, secondo l'opinione di questo nobile signore, sono

come "le rovine di ambiziosi progetti, che nondimeno rivelano

tracce dello splendore e della cura meticolosa con cui sono stati

concepiti".

Suona pertinente e dolcemente ironico il fatto che il signor

Calvino abbia sentito il bisogno di dar conto di questo sublime

sentimento nel corso di una serie di saggi che sarebbero stati a lo-

ro volta lasciati incompiuti col sopraggiungere della sua morte! E

come pare appropriata ora quella frase se applicata al presente vo-

lume, l'opera tronca di un autore abbattuto all'apice della sua car-

riera letteraria, che già rivela una scrittura matura, ai vertici delle

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sue possibilità (e che forse sarà riconosciuta, per tempo, come il

suo capolavoro)!

Ho conosciuto bene Michael Owen, e nei confronti del suo li-

bro mi sento come un genitore imbesuito di fronte a un figlio pre-

diletto, giacché esso fiorì e prese forma sotto la mia benigna egida.

E perciò, quando alla Paecock Press giunse l'amara notizia della

sua morte, il colpo e lo sgomento iniziali furono attutiti dalla con-

sapevolezza che avremmo reso giustizia a lui e alla sua memoria

pubblicando subito la sua ultima opera. E' per questa ragione sol-

tanto (a dispetto delle malevole allusioni lasciate cadere in diversi

settori della stampa) che la pubblichiamo così presto, dopo i sen-

sazionali eventi che hanno recentemente destato tanto profondo

interesse per la famiglia Winshaw e per tutto il suo operato.

Si potrebbe avere da ridire sull'intensità di tale interesse; ma

ignorarlo sarebbe, d'altro canto, una follia. Mi sono perciò presa

la libertà di inserire, a mo' di introduzione alla storia di Michael,

un completo e dettagliato resoconto degli atroci assassinii che

hanno avuto luogo a Winshaw Towers la notte del 16 gennaio

del corrente anno. La scrittura del capitolo Ä compilato sulla base

di documenti e fotografie, autentici, della polizia (ben più violenti

e penosi, mi han detto, di tutti quelli che, in tutta la sua lunga car-

riera, sono passati davanti agli occhi del patologo che li ha forniti)

Ä non mi ha dato alcun piacere; ma il pubblico ha assolutamente

diritto di accedere anche ai più sgradevoli particolari di una vicen-

da di tali dimensioni. Ne facciamo una ragione di principio, un

principio, questo, che noi, come editori, siamo orgogliosi di aver

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sempre osservato.

Preparando il volume per la stampa, ho anche avuto modo di

pensare che la presenza, nel manoscritto di Michael, di taluni pas-

saggi dal tono così lodevolmente accademico, così rigorosi dal

punto di vista della prospettiva storica, avrebbe potuto rivelarsi

un tantino scoraggiante per quei lettori che fossero attratti dal li-

bro quasi esclusivamente per una naturale e sana curiosità di sa-

perne di più sul massacro di gennaio. A tali lettori posso dire

che possono ignorare, senza nulla perdere, il corpo principale

del racconto, giacché la mia intenzione nel resto di questa prefazio-

ne è, per l'appunto, quella di sunteggiare concisamente, in poche

vivide pagine, l'intera storia della famiglia il cui gran nome Ä una

volta simbolo di quanto vi era di più prestigioso e influente nella

vita britannica Ä è ora diventato sinonimo di tragedia.

La tragedia s'era già abbattuta due volte sulla famiglia Win-

shaw, ma mai in proporzioni così terribili.

 

 

 

 

 

 

Nota dell'autore.

 

Vorrei ringraziare Monty Berman, coproduttore del film Sette

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allegri cadaveri, per avermi gentilmente concesso di citare dalla

sceneggiatura (scritta da Ray Cooney e Tony Hilton).

Ringrazio anche Louis Philippe per il permesso di citare la sua

canzone Yuri Gagarin (parole e musica di Louis Philippe, pubblica-

ta da Complete Music, copyright ¸ 1989); Raymond Durgnat, dal

cui meraviglioso saggio, Le sang des bètes (compreso in Fra nju, pub-

blicato da Studio Vista, 1967), ho tratto una citazione utilizzata nel

capitolo su Dorothy nonché il titolo della Parte seconda; ringrazio

inoltre la International Music Publication Ltd. per il permesso di

riprodurre il testo completo di La mer di Charles Louis Augustine

Trenet, copyright ¸ 1939 Brenton (Belgio) Editions Raou, ammi-

nistrata da T.B. Harms Co., Warner Chappell Music Ltd. Londra.

Il mio romanzo ha un debito sotterraneo con le opere di Frank

King, autore di The Ghoul (1928), dal quale prende semplicemen-

te spunto il film Sette allegri cadaveri. Il paragrafo 1 del capitolo

Finché c'è vita è copiato dal primo capitolo di The Ghoul (con

una sola parola cambiata), e nella Parte Seconda ci sono parecchi

piccoli esempi di quelli che Alasdair Gray ha chiamato implags

(imbedded plags: plagi incastonati) sia da The Ghoul che da Terror

at Staups House, romanzo non meno bello del primo. Non essen-

do riuscito a rintracciare informazione alcuna su Mr King, posso

solo ripagarlo raccomandando ai lettori di fare il possibile per sco-

vare questi e altri romanzi suoi (What Price Doubloons!, per esem-

pio, o This Doli is Dan gerous) reclamandone una ristampa.

Fra quant'altri mi hanno dato una mano nei modi più diversi

ci sono Harri Jenkins e Monica Whittle, che hanno messo gene-

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rosamente a disposizione il loro tempo per rendermi edotto sulle

regole del Servizio sanitario e sulle procedure ospedaliere; An-

drew Hodgkiss e Stephanie May, che mi hanno garantito il back-

ground medico; Jeremy Gregg, per il linguaggio informatico; Mi-

chèle O'Leary, per la consulenza legale; Paul Daintry, per la firma

di Findlay e per il suo indiscriminato incoraggiamento; Tim Rad-

ford, per la gagarinologia; e ancora Russeil Levinson, Ralph Pite,

Salli Randi, Peter Singer, Paul Hodges, Anne Grebby e Steve

Hyam. Sono particolarmente grato a tutti quelli che alla Viking

Press hanno duramente lavorato per il libro, e ai preziosissimi To-

ny Peake, Jon Riley e Koukla MacLehose, i cui sforzi a favore del

libro sono stati inesauribili.

Per quanto concerne le fonti dirette, il capitolo su Mark è ba-

sato ampiamente su informazioni spigolate da The Death Lobby di

Kenneth Timmerman (Fourth Estate, 1992) Ä di certo il miglior

volume mai scritto sul mercato delle armi Ä che, fra le altre cose

mi ha dato l'idea dei "cani morti" e del "tiro alla mela". I dettagli

delle torture praticate in Iraq sono tratte dalle pubblicazioni di

Amnesty International e del Cardri (la Campagna contro la re-

pressione e per i diritti democratici in Iraq); il Sodi è un'organiz-

zazione inventata. Il capitolo su Dorothy attinge al pionierismo di

Ruth Harrison così come ella ne parla nel volume Animal Machz~

nes (Vincent Stuart, 1964), a cui vanno aggiunti Assauit and Bat-

tery di Mark Gold (Pluto, 1983), The Politics of Food di Geoffrey

Cannon (Century 1987) e Our Food, Our Land di Richard Body

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(Rider, 1991). Dei molti volumi consultati per il capitolo su Tho-

mas, quelli di gran lunga più leggibili e ricchi di informazioni sono

i due di Paul Ferris: The City (Gollancz, 1960) e Gentiemen o!

Fortune (Weidenfeld, 1984). I dati sul Servizio sanitario nazionale

son tratti da The New National Health Service: Organizzation and

Management (Oxford 1991) di Chris Ham. I nomi in codice del

periodo bellico li ho appresi dall'affascinante volume di Sir John

Cedil Masterman, The Double System in the War of 1939 to 1945

(Yale 1972).

Il romanzo, infine, deve la sua esistenza a Janine McKeown, e

non solo perché mi ha sostenuto finanziariamente mentre lo scri-

vevo. Per questa e altre ragioni, è a lei che lo dedico con amore e

gratitudine.

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