L A P R A T I C A d i Gabriele Astolfi Cell. 339-5932607 ...

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L A P R A T I C A

d i

Gabriele Astolfi

Cell. 339-5932607

www.gabrieleastolfi.com

PROLOGO

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Mi presento, sono il narratore.

Ma non un narratore qualsiasi. Uno che quando si mette a

scrivere ha in testa giusto il titolo -sperando che sia anche il

titolo giusto- e poco altro, ed è costretto a farsi raccontare il

resto dai personaggi. Uno che tentenna, tergiversa, prende

tempo, cerca scuse, gira intorno, ammicca o, peggio ancora,

inventa. Il tipo che sa talmente poco di tutta la storia e la

racconta così a rilento da dare in testa anche al miglior lettore

possibile, quello vacanziero. Da costringerlo a un noioso lavoro

di sartoria sinaptica per cucire assieme i pezzi della trama e

farne un abito. Oppure, se a corto di sinapsi, a chiudere il libro.

Niente di tutto questo. Io sono un narratore onnisciente. Con una

certa dose -finora innocua- di mania di grandezza. Quello che sa

tutto di tutto e di tutti. Forse anche di più. Quello che non può

deludere. Che non può deludervi. Basta allungare la mano e

lasciarsi portare.

Lo dico perché non pensiate che questa storia sia inventata, per

intero o nei dettagli. Incisi, tropi e andate a capo comprese. O

che ne sia stata calcata anche la più anoressica sfumatura.

Perché ciò che racconto è vero. Tanto nell’insieme quanto in

ogni suo più asfittico e teleologicamente inutile particolare.

Vero al punto da farmi semplice cronista di sé. Un premuroso

servo di penna. Così autentico da non avere un lieto fine. Ma

neppure un triste fine. Anche il finale è rigorosamente vero.

Vero come sa essere la realtà quando supera la fantasia.

All’inizio era terra e acqua, poi vennero gli animali e

l’uomo. L’uomo prese coscienza di sé e dei suoi simili, scalò le

vette della ragione e scandagliò le profondità della fede. Ma a

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dispetto di tanta fatica ancora stenta a specchiarsi negli altri. A

riconoscere in essi le sue angosce, e a ritrovare le altrui nelle

proprie. Per essere, finalmente, obiettivo. Realizzare che ogni

umana vicenda, la più insignificante cosucola che fa da

inciampo all'ordinario fluire dei terreni eventi non è mai la

stessa per tutti, ma cambia secondo l'umore di chi v'inciampa. In

breve, che tutto è relativo.

Ecco perché la porta dell'ascensore che andava chiudendosi, per

Filo che ci stava dentro era mezza chiusa, mentre per la

sconosciuta che vi correva incontro nella speranza di infilarla

era mezza aperta.

Fu Filo che, sentendo un ticchiettìo in avvicinamento, appurato

che non gli veniva dall'orologio, anticipò con la mano il destino.

Offrì il più veloce dei palmi alla luce fredda della fotocellula,

che ne impressionò la linea della vita. Quando la porta, ormai

quasi chiusa, si convinse a riaprirsi, un lampo scarlatto gli

strapazzò il bene della vista. Il tempo di mettere a fuoco il

cristallino e lo strapazzato vide rosso.

Davanti a lui, in carne e curve, la ticchettatrice. Una rossa

efelidata inguainata in un completo scosciato rosso ciliegia

guarnito con calza nera, scarpa rossa e tacco a spillo.

Filo non avrebbe saputo dire il tempo in cui era rimasto a fissare

quel rutilismo cangiante, quelli che aspettavano l'ascensore ai

piani sì.

"Grazie." rosseggiò lei inforcando la porta.

"S-si figuri" bisbigliò Filo tachicardico. "C-che piano?"

"Qual è il piano della direzione?"

"Q-quello più alto, l-l'ultimo."

"Allora l'ultimo." esclamò lei in un'orgia di “elle”.

"L-l'ultimo." ripeté Filo, ormai tutt'uno con la balbuzie. "L-

l'accompagno", e pigiò il bottone più alto.

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Mentre l'ascensore saliva l’estemporaneo accompagnatore si

accorse di non aver mai trovato così interessanti i numeri dei

piani che si illuminavano uno dopo l'altro, i vetri fumati come le

sue lenti, il nome tantrico della ditta che curava il

funzionamento scivolistico-sciovinista dell'impianto, le unghie

non proprio fresche di taglio delle mani e la punta squadrata

delle scarpe. In compenso la periferia dell'occhio gli correva,

non vista, a farsi un giro non autorizzato su quelle curve al

sangue.

La rossa calzava due guanti attillati di pelle cremisi, che

stringevano l’uno una borsetta, l'altro una cartella. Entrambe del

suo colore preferito. Un cappotto rosso vinato giaceva penzoloni

a cavallo del braccio su cui poggiava la cartella, innaffiando di

rubino il rosso di questa e i rossi di tutto il resto, e accendendo il

profondo decolleté della giacca. Quando si portò uno di quegli

indici incandescenti a due labbra scarlatte e ne addentò

l'estremità, Filo sentì mancargli la gamba d’appoggio.

La rossa passò poi ad addentare a tempo di vamp la punta del

medio e dell'anulare; quindi tirò di colpo la mano, e il guanto le

rimase vizzo fra i denti.

Filo deglutì il grumo di saliva più duro a inghiottirsi di tutta la

sua vita di inghiottitore, mentre lei recuperava il protoplasma di

guanto con le dita rossoungulate della mano rimasta nuda.

"La saluto" occhieggiò la rossa, raggiunto il piano nobile "E...

grazie per avermi aperto."

Sull'"aperto" Filo sentì mancargli l’altra gamba, che si

addormentò di costa a quella già mancata.

"Ah, già che è così gentile, da che parte sta l'ufficio del

direttore?" sfrigolò in preda a un turgore vermiglio.

"D-deve prendere il corridoio a destra. L'ufficio rimane in fondo

a destra. C-comunque ci sono le frecce."

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"Che buffo, anche l'ufficio del mio capo è a destra!" sbottò

carminea, e le ridacchiarono le efelidi.

Gli uffici dei direttori sono sempre a destra, pensò Filo mentre

lei usciva ticchettando. Anche nei palazzi circolari. E dopo aver

guardato sfumare la perfetta pendola di quel didietro a luci

rosse, decise che era ora di tornare coi piedi per terra. Pigiò il

bottone col due e rientrò ai piani bassi.

* *

Di palazzi circolari in città se ne vedono pochi; di palazzi tutti a

vetri anche meno. Di palazzi circolari tutti a vetri uno solo, il

Pallazzo. Un ammasso di vetri ammattonati che è lo specchio

delle intenzioni di chi ci lavora: essere trasparenti per chi sta

fuori e arrotondare sempre gli spigoli.

Visto dall'alto il Pallazzo era come un grande occhio che

scrutava il cielo. Un occhio di vetro. Dal basso invece

somigliava a un'enorme mongolfiera o al figlio illegittimo di un

dirigibile.

Non era la prima volta che Filo accompagnava qualcuno al

piano della direzione. Mai nessuno però con addosso tanto rosso

così ben distribuito. E a tutti dava la stessa indicazione:

“Corridoio a destra; ufficio in fondo a destra.”.

Una volta un sindacalista ci trovò da ridire. "Piuttosto che

andare a destra me lo taglio." rimbeccò a Filo "Grazie per il

passaggio, amico, ma io dal direttore ci vado da sinistra."

Il direttore però, una volta appresa la direzione di marcia, gli

ordinò di tornare indietro e di fare il giro al contrario.

"Questo è un sopruso!" protestò il sindacalista.

"No, questo è andare alla mano!" verbalizzò il primo cittadino

del Pallazzo. "Se non si va alla mano è l'anarchia, il disordine, il

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caos. Perciò...!" e con l'indice delle grandi occasioni gli intimò

il dietro-front.

Il sindacalista, considerato con chi aveva a che fare, girò sui

tacchi e fece il giro dalla parte giusta. Da quel momento girò

dalla parte giusta anche la sua vita lavorativa. Fu cooptato fra i

sindacalisti di corte.

Un'altra volta fu un impiegato a trovarci da ridire. Un certo

Bastiano, contrario per principio a ogni forma di coercizione.

"Perché dal direttore devo andarci di qua?" chiese a Filo che gli

indicava la destra "Io voglio andarci di là."

"Non so." balbettò Filo ammainando l'indice della mano guida,

mentre cercava di trovare in soffitta una risposta articolata ed

esaustiva alla domanda. “Qui è sempre stato così.” disse

soltanto, essendo la domanda senza risposta.

Ma Bastiano seguì il suo istinto, fece il contrario. Il direttore,

per ripicca, si negò. Bastiano allora, capita l'antifona, la volta

dopo negò se stesso: fece il contrario del contrario. Andò per

dove si voleva che andasse. Poi il direttore aveva fatto mettere le

frecce, e la gente girava a destra senza più chiedere.

Se però Filo avesse saputo chi era la rossa e per conto di chi

veniva, avrebbe saputo anche che l’artefice di quel senso

obbligato avrebbe rinnegato sull’istante la sua sindrome

destrorsa, pur di evitare il ciclone che stava per investire il

Pallazzo e i suoi controvoglia destrorsi inquilini coatti.

* *

Ore otto, ventisette primi e rotti. Ovieffe e Fettunta non avevano

messo piede in ufficio che già s'erano scambiate due sbadigli

uguali e contrari, che le portarono dritto al minuto ventotto.

Dopo aver deglutito la coda solida del proprio sbadiglio, si

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miagolarono un “ciao” insalivato, che prese la strada di un

nuovo, prolungato sbadiglio con cui raggiunsero i ventinove.

Quindi sprofondarono sulle girevoli, prostrate da quel primo

approccio al lavoro.

Ovieffe era fatta a uovo di Colombo con due piedini del

trentasei, mentre Fettunta aveva le curve di un'aringa con due

fette del quarantatre. Ciascuna avrebbe voluto il poco di bello

che aveva l'altra, Fettunta i piedini di Ovieffe e Ovieffe il

figurino scarnito di Fettunta, lasciando all'altra il resto. Anche se

ciascuna, con ipocrisia tutta impiegatizia, sminuiva il difetto

della collega, e anzi ne metteva in luce il lato eccentrico.

Dopo una partita a due fra sbadigli deformanti e sguardi

allucinati -una partita finita in parità, senza vincitori né vinti-, le

proprietarie di scrivania a fronte cominciarono a dare segni di

ripresa delle funzioni vitali più complesse. Per gradi, partendo

dalle più semplici.

"Che hai fatto iersera?" chiese Fettunta a Ovieffe.

"Ho guardato alla tivù il film della serie "Donne in graticola".

La storia di una donna che viene picchiata dal marito ogni volta

che apre bocca. A un certo punto lei si stufa, lo lascia, trova un

lavoro, fa carriera e si mette con un altro. Ma non è felice, sente

che le manca qualcosa. Beh, vuoi saperlo?, le mancano le botte

del marito. Torna da lui, che la perdona, dopo averla gonfiata, si

capisce, ed è felice. Ho pianto tanto. Soprattutto alla fine.”

"Anch'io mi sciolgo davanti alle storie a lieto fine"

"Pensa che mio marito non mi tocca con un dito. Neanche quello

piccolo."

"Perché, il mio sì?"

"Cosa chiedo in fondo? Uno schiaffetto ogni tanto, qualche

parolaccia. Una bella litigata. Tanto per mettere un po' di pepe,

farmi sentire che mi ama ancora."

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"I mariti sono tutti uguali. Buoni solo a farsi servire."

"Se non ci fosse la televisione...”

“Bisognerebbe inventarla!” esclamarono in coro, con una risata

per applauso.

“Beh, mettiamoci al lavoro." suggerì ottativa Ovieffe.

"Giusto" convenne seria Fettunta.

E mentre Ovieffe si attaccava al telefono per ordinare la spesa,

Fettunta, ligia a marital consegna, chiamava la suocera per i

convenevoli di rito.

"Già al lavoro?" ammiccò Filo passando di sguincio.

* *

Alla vista della rossa e delle sue parabole di fuoco i legni

pregiati che rivestivano l'ufficio di direzione avevano pensato al

peggio. Tutti tranne uno, il direttore, che l'aveva fatta

accomodare prontamente. In cambio lei l'aveva omaggiato con

un accavallamento di gambe dei suoi. Lui, che pure era astemio,

alla sgambata fu colto da un principio di sbornia, che

maccheronò con un sorriso postumo. Quindi, riacquistata

un’artefatta sobrietà, le disse in tono solenne: “Sono tutto per

lei, signorina. Vuol rendermi edotto dei motivi sottostanti la sua

visita?”

La proprietaria delle parabole lo guardò catalettica. La parola

“edotto” non evocava in lei niente di intellettualmente

commestibile, mentre “sottostante” aveva l’inconfondibile

retrogusto di un funerale. Ma poi, facendo appello alla materia

grigia che giaceva inconsapevole sotto il rosso, intuì di cosa

doveva trattarsi. Spiegare al suo autorevole dirimpettaio la

ragione del suo stargli davanti.

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La rossa era la segretaria favorita dell’harem di partito

dell'onorevole Scaltro. Un politico del posto che, dopo aver

militato in partiti dai colori diversi, aveva finalmente trovato il

colore giusto per farsi eleggere. La favorita era approdata a quei

lidi con l’incarico di esprimere al loro signore il disinteressato

interessamento dell'onorevole alla pratica presentata al Pallazzo

da un certo Malanio, buon amico dello stesso. Oltre che, ma solo

incidentalmente, suo grande elettore. Pratica di cui sembrava

essersi persa ogni traccia. Tanto che al Malanio, che ne aveva

più volte chiesto notizie, qualche inquilino forzato di quei vetri

aveva dato risposte evasive, associando la stessa a termini quali

“imbucata” o “inguattata”.

L’interessato, ovviamente, c’era rimasto male, dal momento che

era la prima pratica della sua vita. E le si era anche affezionato,

pur non avendola mai vista né conosciuta. L’immaginava

racchiusa in una carpetta color rosa tenero, sul davanti le lettere

in nero del suo bel nome, dritta e impettita a fianco delle altre

ma più aggraziata. Al Pallazzo gli avevano detto che se voleva

poteva presentare una pratica nuova, ma lui aveva detto di no.

Voleva la vecchia. O la vecchia o niente.

Bisognava dunque che lui, il supremo nocchiero di tutte le

pratiche, procurasse di trovare quella che aveva, diciamo così,

spezzato il cuore al Malanio, facendola vedere, magari anche

solo per un istante, al cuore infranto, e la portasse a naturale

conclusione. Il suo protetto avrebbe così avuto la certezza che la

sua pratica non era stata buttata nella spazzatura, per finire poi

seppellita in una qualche discarica, ma si trovava viva e vegeta

nei grandi archivi del palazzo di cristallo. L’onorevole, in attesa

di farsi vivo direttamente -al momento un’improvvisa urgenza lo

teneva incollato alla sua dattilografa, che, a sua volta incollata

alla scrivania, ne saggiava sotto dettatura il rigore interiore e

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l’impegno politico (in politica le urgenze urgono più che

altrove)-, l’onorevole avrebbe gradito due parole di risposta.

Una risposta che lei, pur così volubile, aveva il compito di

riportargli con assoluta fedeltà.

Il direttore aveva seguito con profonda attenzione le labbra

scarlatte della rossa, con frequenti scivoloni nella scollatura

della giacca. Aveva perciò messo a fuoco sia la scollatura che il

problema. Poté quindi assicurarle con piena cognizione di causa

che avrebbe dato immediate e precise disposizioni affinché,

riprendendo la metafora malaniana, la pratica che stava a cuore

al Malanio venisse ripescata dal loculo in cui si trovava

seppellita, fosse stato pure quello canonico, e restituita a nuova

vita.

“Tranquillizzi l’onorevole e lo ringrazi per aver perorato sì

nobile causa.” concluse lo scrutatore terminando lo spoglio di

quello scorcio di paradiso dei sensi. Lo scrutinio aveva

soddisfatto in pieno le aspettative. Con un’urna del genere non

c’è votazione che non finisca col massimo dei voti.

“Sono io che ringrazio lei delle belle parole.” disse arrossendo la

rossa, mentre, non vista, si segnava con una penna di colore e

inchiostro in tinta, sul palmo destro, “perorato”. Per riferire a

Scaltro con la fedeltà richiesta dal compito quella parola a lei

sconosciuta.

"D’altra parte nel Pallazzo non si è mai perso niente." proferì il

direttore in modo così perentorio da crederci lui stesso. “E, mi

raccomando, non abbia a peritarsi a ossequiare l’onorevole per

me.” aggiunse come chiusa finale.

“Lo farò.” assicurò lei, segnandosi, sempre di nascosto, sul

palmo ormai a uso taccuino “peritarsi”. L’incarico di riportare

fedelmente le parole di quel soggetto dal parlare strano si stava

rivelando più difficile del previsto. Poi alzò la sua pendola rossa

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e uscì, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti i legni pregiati

che rivestivano l’ufficio di direzione. Direttore compreso.

* *

L’onorevole Scaltro era quanto di peggio potesse capitare tra

quanti, avendone o no titolo, a proposito o meno, solevano talora

intromettersi nel tranquillo tran tran pallazzesco per appoggiare

la pratica di questo o di quello.

L’onorevole era uomo di spicco nello sfocato quadro politico

locale. Uno che a ragione poteva ben dire essersi fatto da solo.

Difatti la doppiezza e l’arrivismo di cui faceva mostra -termini

che il politichese comune traduce liberamente con acume e

passione- non li aveva presi dalla famiglia. Li aveva imparati da

quei famosi partiti colorati che aveva frequentato, apprendendo

da ciascuno in parti uguali.

Una volta Scaltro ricevette in dono un libro. Quando l’aprì e

vide che le pagine erano tutte a cinque zeri, il pensiero corse a

suo padre, integerrimo ingegnere delle ferrovie, che a suo tempo

aveva ricevuto in dono analogo cadeau per far passare sotto

silenzio uno stock di traversine fallate. L’esemplare genitore

aveva chiuso sdegnato quel tomo pagabile al portatore,

proferendo in fiero toscano che certe letture non lo interessavano

punto. L’onorevole figlio, ripensando a cotanto padre, chiuse

sdegnato anch’egli il tomo della lussuria, proferendo in vile

italiano che gli portassero anche gli altri volumi della raccolta.

Punto.

Il direttore, che ne conosceva per sentito dire i passati trascorsi

di paladino dei suoi sostenitori, e ne immaginava per propria

lungimiranza i futuri, sapeva che non si sarebbe mai liberato di

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Scaltro. Almeno finché non avessero ricevuto, lui e il suo ritorto

amico di disgrazia, piena e politica soddisfazione.

Perciò, una volta licenziata la rossa e il riflesso al neon delle sue

curve, il direttore si adombrò. Non c’era tempo da perdere.

Bisognava guardare in ogni cassetto, su ogni scaffale, di sotto, di

dietro, nei quattro punti cardinali di ogni stanza, ogni scrivania,

ogni angolo, ogni buco, ogni fessura. E in tutti i punti diversi da

quei quattro in cui ci fosse da guardare. Bisognava trovare la

pratica smarrita. Immediatamente. Per questo chiamò subito il

responsabile di tutti i controlli, il Nero.

* *

Mentre ticchettava verso l’ascensore con passo da crociera,

l’ambasciatrice del rosso vivo poteva ben dirsi soddisfatta. Per

primo il suo lessico personale si era arricchito di nuovi vocaboli,

per quanto destinati a un rapido oblio. Per secondo aveva

ricevuto dal direttore le assicurazioni che il suo capo voleva,

anche se con parole non tutte comprensibili. Parole però che lei

s’era diligentemente impresse sul palmo della mano, come le

stigmate di una santa. Santa rossana. E che avrebbe riportato

papali papali al suo signore.

Quasi si sorrise dentro l’ascensore, e a lei sorrise la sua

immagine fumata, col dito che pigiava per tornare a terra. Ma la

corsa si interruppe subito, perché l’ascensore si fermò qualche

piano più sotto, per far entrare Toniriccio.

Era questi il re dei cascamorti. Uno che dietro modi alla glassa e

parole di miele nascondeva propositi al pepe nero: fare un

boccone della pastafrolla adocchiata. Da principio Toni aveva

sparso il suo zucchero tra le inquiline coatte del Pallazzo, con

effetti pepati modesti rispetto allo spandimento. Anche se in

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assoluto la legge dei grandi numeri gli dava ragione,

legittimandolo a pensare in grande, e a provarci con quante più

era umanamente possibile. Magari con tutte, per non farsi venire

lo scrupolo di non averci provato proprio con quella che ci

sarebbe stata. Poi, esaurito il miele con le, per lo più asprigne,

compagne di vetri, aveva dirottato la sua attività dolciaria verso

l’esterno.

Il riccio, vedendo una femmina così fatta ma soprattutto così

vestita, la scambiò per una di quelle e azzardò un sorriso

compiacente. Lei, che, pur essendoci portata, una di quelle non

era, gli sorrise per educazione. Toni allora le inviò un sorriso di

prammatica, cui la rossa rispose con uno di convenienza. Lui

passò quindi a un sorriso interlocutorio, che la donna di cuori

rintuzzò con uno interinale. A quel punto il virtuoso

dell’ammiccamento gliene stampò uno a tutti denti, mentre lei si

morsicava un labbro per non fargli vedere i suoi. Arrivarono al

piano terra piegati dal ridere. Quando poi, dopo essersi

presentati, lui si ritrovò col palmo della mano destra sporco di

rosso, prese loro un convulso che li lasciò senza fiato.

“C-che ne dice di un caffè?” le chiese il riccio fra i singhiozzi.

“E’-è un’idea.” rispose l’interpellata rifiatando. “Io-io lo prendo

macchiato.”

Lo sguardo dei due corse alle macchie rossastre stampate sui

loro palmi, prima di scoppiare in una nuova, irrefrenabile scarica

di riso. Uscirono paonazzi, gli occhi in fuori e il collo in piena,

sorreggendosi a vicenda per non cadere sulla gradinata

d’ingresso e rimanere interi. Chi non riuscì a rimanere intero

furono i due lemmi impressi sul palmo della mano di lei, che si

sciolsero fra le lacrime del suo riso dirotto.

* *

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Quella mattina il Nero era più scuro del solito. Al risveglio la

moglie gli aveva sibilato bifida di non fare tardi in ufficio come

faceva sempre, perché la sera avevano a cena i Fasti, vecchie

glorie della città. E nell’uscire aveva trovato sulla porta un

biglietto delle gemelle, che pretendevano l’immediato e

retroattivo adeguamento delle loro paghette al costo della vita.

Un costo che mostrava di crescere molto più velocemente del

suo pur ricco stipendio.

Allorché arrivò in ufficio e sentì l’urlo telefonico del direttore di

presentarsi da lui su due piedi, il Nero seppe che sarebbe stata

una giornata no.

“E’ sparita una pratica!” gli sbatté in faccia il numero uno

appena i suoi piedi gli furono davanti.

“Non è possibile.” sbiancò il Nero. “I passaggi da ufficio a

ufficio sono tutti registrati, i registri controllati, i controlli

computerizzati e i computer ancora in garanzia. Le garanzie

devono essere da qualche parte.”

“Sa dove deve mettersele le sue garanzie?!” gridò tarantolato il

direttore.

“L-lasciarle dove sono, immagino.” balbettò lo sbiancato, prima

di afferrare che sarebbe stato meglio farsi muto.

“Non mi interessano le garanzie!” esplose la tarantola da dentro

l’abito gessato “Deve ritrovarmi la pratica! Domattina a

quest’ora voglio il fascicolo qui, sul tavolo!”

“Sarà fatto, non dubiti.” disse il Nero guardando l’orologio.

“Qual è il nome?”

Al “nome” il direttore si bloccò di colpo. Poi cominciò a

muovere piano, uniche parti del tutto a muoversi, due pupille

colme d’ansia. L’ansia di essere sorpreso da qualcuno con un

nome in bocca. A muoverle, lentamente, prima a destra e poi a

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sinistra -poco, il minimo indispensabile-. Non era prudente fare

nomi. Se qualcuno l’avesse sentito si sarebbe sparsa la voce per

tutto il Pallazzo. E se anche non l’avesse sentito nessuno, la

voce si sarebbe sparsa lo stesso. Non si sa come, ma si sarebbe

sparsa. No, nomi in questi casi non se ne fanno. Non se ne

fanno mai.

“Quando avrà trovato la pratica saprà anche il nome.” rispose il

direttore smorzando la voce ma non il tono “E, mi raccomando,

acqua in bocca.” concluse smorzando anche quello e facendo il

pesce.

Il Nero gli inviò un sorriso all’aglio e uscì. Tornò di bocca

buona solo al pensiero che di lì a due piani avrebbe scaricato

buona parte della bile accumulata sul Grigio. Era questi il suo

vice, con lui da poco, tanto da non averne che un’opinione

sfumata e indistinta. Incolore. Il Pallazzo l’aveva scelto fra una

rosa di raccomandati, sfogliando accuratamente il fiore. Aveva

studiato amministrazione e fumo in quel di Londra, e lasciava

presagire una scialba carriera di burocrate.

Appena il Nero lo vide lo strapazzò come si conviene che un

capo strapazzi un vice. Se poi il capo è stato a sua volta

strapazzato da uno più capo, allora la strapazzata del vice

acquista per il capo strapazzato una funzione risarcitoria della

propria. E, più in generale, di catarsi di tutto il sistema

gerarchico.

Il Grigio sopportò da inglese la sfuriata del Nero, che subito

dopo si sentì meglio. Quindi fu reso partecipe da questi del

compito che li aspettava.

* *

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“Bella giornata, vero?” abbozzò Filo passando di fianco a Ida, la

sorda, detta la sordida perché da quell’orecchio non ci sentiva.

Era così taccagna da risparmiare sulle spese dell’apparecchio

acustico. Al momento l’aveva staccato, per lesinare sulla

ricarica, perciò era senza rete.

“No, non è ancora nata.” disse Ida, con Filo ormai passato.

“Ha detto giornata, non nata.” ribatté Nervesa Lepretta, la sua

compagna di chiacchiere, ribattezzata da Ida Ada. Primo perché

non le era chiaro quale dei due fosse il nome, secondo per

economia di chiacchiera.

Ada era una ligure debole di Nervi, che la dolcezza della riviera

non aveva risparmiato da una risacca di nevrosi. Anche perché

ogni volta che Ida glieli faceva venire con la sua sordità a

intermittenza, lei, per farseli passare, andava a bersi un caffè.

Alla macchina automatica, senza scendere al bar, per sbollire in

privato, lontano da lingue lunghe. La macchina, per questo, era

perfetta. E col caffè tornava, per quanto sbollita, più tirata di

quando era partita.

“E io che detto? Nata.” replicò Ida.

Ada non ci fece caso; a volte l’apparecchio acustico andava per i

fatti suoi. A volte invece era Ida ad andare per i fatti propri.

Quasi che l’intermittenza della sordità fosse collegata a una

corrispondente intermittenza del cervello, ma in modo

asincrono. Quando era sull’acceso l’una, era sullo spento l’altra,

e viceversa.

“A proposito” riprese Ada “Sai che ieri sera ho portato Accio al

pronto soccorso? Era rimasto con un ditino attaccato alla

carlinga dell’aereo che stava costruendo. Lo stava incollando col

Loctite.”

“Anche il mio” disse seria Ida.

“Anche il tuo cosa?”

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“Anche il mio Gepi ha l’otite. Però non sono mica stata a

portarlo al pronto soccorso.”

“Ma Accio non ha l’otite!”

“E allora perché l’hai portato al pronto soccorso?... Ada, tu sei

troppo apprensiva.”

“Ho detto Loctite, non otite! Ci ha lasciato un pezzo di pelle su

quella carlinga.”

“No, mio figlio non lascia niente della meringa.”

“Ho bisogno di un caffè.” sospirò Ada al muro.

“Non è ancora ora.” ribatté Ida.

“Di cosa?”

“Del tè. E’ ancora presto.”

Ada si alzò di scatto, stampò la biro sulla scrivania e andò a farsi

col caffè. A sbollire con la sua nera droga bollente. Tornò con

l’aria scura e l’occhio fisso. Ma dopo un poco l’aria le si schiarì.

“Hai molto lavoro?” domandò affabile a Ida, la lingua secca e la

bocca amara. Alla macchina del caffè lo zucchero era esaurito.

Ada non se l’era presa; anzi, le aveva espresso tutta la sua

solidarietà di esaurita.

“Sì, pure troppo.” rispose la sorda sfogliando “Donna in

carrozza”.

“Ehi, hai risposto a tono stavolta!”

“Ho attaccato l’apparecchio; era staccato. Comunque prima ho

sentito ogni virgola delle cose che hai detto. Anche se tu, mia

cara, fai un bel po’ di confusione a raccontarle.”

“Ho bisogno di un altro caffè.” esalò cianotica la larva di Ada,

avvolta nel bozzolo del proprio fascio di nervi. Poi schizzò alla

macchina automatica.

“Ma sì, tanto finora hai preso solo un tè.” approvò Ida.

Ada e Ida, la coppia tragicomica del teatro stabile del palazzo di

cristallo.

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* *

“Ma è come cercare un vetro nel Pallazzo!” sbottò il Grigio al

Nero. “Qui dentro ci sono più pratiche che particelle di

pulviscolo atmosferico!” continuò guardandosi intorno, quasi a

cercarne una da esibire a riprova. “Come si fa a trovare una

pratica che non si sa come si chiama?”

Già, come si fa?, masticò amaro il Nero, prima di decollare su

un “Lui la vuole! E noi la troveremo!” e lanciarsi su una

girevole imbottita affondandola.

“Ma senza nome è impossibile!”

“La troveremo!” ripeté il kamikaze da camera, sapendo che

senza nome era impossibile.

“In che modo avrà fatto poi a sapere che s’è persa?”

Anche questa è una buona domanda, masticò sempre più amaro

il Nero, con un frizzo di invidia per non averla fatta lui. Doveva

tenerselo caro, quel suo grigio attendente. Il suo acume nelle

cose d’ufficio avrebbe potuto un giorno fargli comodo.

“Gliel’avranno detto quei boccaloni delle informazioni.”

rispose.

All’ufficio informazioni stavano in due, un maschio e una

femmina. Tutt’e due sul bello da spiaggia, per soddisfare

l’occhio di chi andava a informarsi sullo stato di salute delle

pratiche.

Esperti di marketing casereccio avevano messo a punto una

ricetta secondo cui una risposta negativa su una pratica, se data

nei modi dovuti da un bell’esemplare del sesso opposto, era più

facile a digerirsi. Se poi tale esemplare avesse insaporito la

risposta con un tocco di rammarico per il rigetto di quella di cui

andavano chiedendo e una spruzzata di auguri per un felice esito

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della successiva, allora, garantivano gli esperti fatti in casa, era

come se la pratica in questione fosse stata accolta e non respinta.

Digeribilità assoluta.

Da sempre ci stava un certo Mondo, un moro riccioluto che non

ne perdeva una. Nel senso che le colleghe che si succedevano

alle informazioni se le faceva tutte. Almeno così diceva. In ogni

caso ci provava con tutte. E a talune, con quel tenebroso, era

capitato di farci notte. Perciò ultimamente, per evitare sorprese,

gli avevano affiancato una che aveva fama di donna difficile.

Netta, femmina di austera bellezza e monacata sensualità. La

copia vivente della monnalisa del quadro.

Certe signore sull’attempato presentavano apposta le pratiche

non in regola, senza qualche documento. Solo per sentirsi dire

da Mondo, con la sua voce impostata e il sorriso da pubblicità di

dentrifricio al fluoro: ”Siamo spiacenti, signora, la sua pratica

non è stata ammessa. Ma non demorda, provi di nuovo. La

prossima volta sarà più fortunata.” Per poi cinguettargli un:

”Pazienza, sarà per un’altra volta.”, e tornare sui loro passi

salmodiando “Dio, che bell’uomo! Che bella voce! Come lo

dice bene! Se avessi dieci anni di meno!...” Le spudorate, nei

desideri irrealizzabili, mentivano anche a loro stesse sul numero

degli anni da calarsi.

Mondo, che non era un’aquila, faceva lo gnorri, anche se

qualche dubbio l’aveva. Specie vedendo che le pratiche bocciate

erano sempre quelle delle solite frementi signore.

Anche Netta comunque aveva i suoi ammiratori. Tutti signori

molto distinti, che la sognavano fare di tutto vestita di niente.

Uno di questi era il Nero, che Netta aveva sempre mandato in

bianco, e per ciò solo non perdeva occasione per sparlarne.

“Difficile siano stati loro a dirglielo.” inferì il Grigio spremendo

la materia prima omonima. “Quei due hanno rapporti solo col

20

pubblico, non con la direzione. Dev’essere stato qualcun altro.

Qualcuno in alto.”

“Pensiamo a trovare ciò che dobbiamo, ora.” tagliò corto il

Nero, infastidito dal rigoroso argomentare del suo secondo

“Cominceremo dall’ufficio smistamento. Andiamo.” statuì con

piglio da battaglia, nella voce il timbro di chi l’ha appena intinto

nella nera spugna di guerra. Comandare gli dava un senso di

onnipotenza, di voluttà da masticare. Lo stesso che dava a sua

moglie impartirgli un ordine. Difatti in casa non contava nulla.

Meglio l’ufficio, dunque, pur con tutti i suoi problemi, in cui gli

ordini, nove su dieci, era lui a darli.

* *

Per togliersi dagli occhi le gambe nervose della rossa Filo li

aveva chiusi, concentrandosi su un esercizio di consapevolezza.

Col risultato di diventare nervoso anche lui. Fare yoga finora

non gli era servito granché, salvo apprezzare il momento in cui

smetteva.

Ci sono giorni in cui quello che si fa appare più stupido del

solito, pensò Filo schiudendo di colpo le palpebre e puntando il

loro cisposo contenuto sui compagni di stanza. Sempre gli stessi.

Oggi è uno di quelli, concluse scorrendoli faccia per faccia. E ci

sono giorni in cui sembra di vivere in un sogno, pensò ancora in

un accesso di astinenza da castelli in aria, e di muovercisi piano

per paura di svegliarsi.

Aveva sognato prima, in ascensore, o stava sognando ora?

Sarebbe stato bello che il sogno fosse stato questo -sia pure in

forma di incubo, viste le facce da primo mattino della carrellata-

, perché avrebbe voluto dire che la realtà era quell’altra, quella

21

della rossa. Ma era tutta quanta realtà, questa e quella; l’una e

l’altra. Soltanto da sogno la prima, da incubo la seconda.

Sì, nonostante le apparenze quei compagni di concubinato coatto

erano reali. Come Brusco, che non parlava, non rideva, non

sopportava gli uomini, odiava le donne, tollerava a malapena se

stesso, amava la solitudine e il silenzio. Da morto sarebbe stato

benissimo. O come Batta, sempre così sicura di non sbagliare

mai, tanto da disconoscere i propri errori come suoi. L’”io” le si

era gonfiato a tal punto da non riuscire a portarselo dietro senza

sacrificare il resto. A volte era costretta a lasciarlo a casa. O

come Spurgo, che si esprimeva con proprietà di lingua e

d’accento da esteta letterario. Le parole che gli uscivano di

bocca non erano le semplici parti di un discorso, ma le sinuose e

orgasmatiche modelle di una sfilata d’alta moda. Per non avere

dubbi sugli accenti aveva fatto in modo di nascere in Toscana.

O come Frenzi, detta la pasionaria per l’entusiasmo che metteva

nei suoi hobby a tempo: rafting, bird watching, free climbing,

hot dog, tip tap, top ten, eccetera. Solo nomi rigorosamente

inglesi. O come Motto, che trascriveva le massime dei filosofi

per poi citarle a sproposito. O come Picchio, che si chiedeva di

continuo se era meglio vivere di rimpianti o di rimorsi, ma non

riuscendo a decidersi tra l’uno e l’altro viveva di indecisioni. Per

non parlare di Trogola, che aveva una predilezione per i maiali

in generale, compresi quelli a due zampe, e i suoi derivati in

particolare. O di Rolfo, che accumulava i chili ai soldi e i soldi

ai chili. O di Collo, che non c’era mai; era sempre in riunione.

Da solo o in compagnia era costantemente in riunione. Un

impiegato virtuale. O di Clone, che aveva la capacità critica

della gomma pane. Dava sempre ragione a tutti. Nel caso di più

persone presenti in contemporanea dava ragione a quella che

aveva parlato per ultima.

22

Erano reali quei compagni di lavoro, certo. Anche se a guardarli,

ma soprattutto a sentirli, si poteva giurare che la loro

frequentazione abituale era il mondo dei sogni.

E lui, Filo, era reale? O era anche lui la molle appendice di un

sonno?

“Tutto bene?” frivoleggiò spalancando la porta Prillo, il capo

dell’ufficio, compiacendosi della piega inamidata dei pantaloni e

della lucidatura a fuoco delle scarpe.

A Filo saltò la bolla che aveva appena preso piede sulla sua

testa.

* *

Il responsabile di tutti i controlli e il suo tirapiedi fecero

irruzione nell’ufficio smistamento pratiche con passo di

controllo ufficiale. Nel Pallazzo il passo di controllo era di due

tipi: semplice e ufficiale. Quello semplice era un passo poco più

cadenzato del normale, solo con una più sottilmente ostile

battuta del piede. Il passo di controllo ufficiale era invece

d’impronta militaresca. Ottenuto con l’aggiunta di tacchi

metallici posticci, incardinati sotto quelli normali, che davano

alla battuta il suono minaccioso dei tempi bui.

“Qualche problema?” chiese Spiro, l’addetto.

“Iiiiii-spezione!” gridò il Nero color della pece.

“Lo tiri fuori immediatamente!” rincarò il Grigio alludendo

all’incartamento.

Spiro, nell’incertezza, trattenne il fiato.

“I fascicoli non se ne vanno in giro! Le persone vanno i giro, i

fascicoli no! Dunque lo tiri fuori!”

Fugati i dubbi sulla cosa da tirar fuori -le ispezioni personali nel

Pallazzo non erano mai state abolite formalmente, anche se

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ormai non se ne facevano più, tranne quelle senza finalità

ispettive (in pratica quando si pomiciava in ufficio)-, nondimeno

Spiro continuava a trattenere il fiato. Immaginava quello che

cercavano, qualcosa di non smistato o roba del genere, e lui non

l’aveva. Stare zitto era un modo per farglielo capire. Forse non il

più diretto. Di sicuro il meno traumatico.

“Il fascicolo, la documentazione!” incalzò il Nero.

“Il plico, la cartella!” ri-incalzò il Grigio annerendo a vista

d’occhio.

“La pratica!!!” ri-ri-incalzarono i due in un macabro unisono.

Spiro seguitava a trattenere l’aria in corpo.

A quel punto la Lisetta, la collega un po’ frusta di Spiro,

vedendo l’inquisito diventare color delle mammole, frinì: “Mi

scusi, dottor Nero, ma mi sembra che Spiro non stia tanto bene.

E’ diventato viola.”

“Senza permesso non può!” tuonò il Nero “Senza permesso

nessuno può alterare niente!”

“Non può!” echeggiò il Grigio, ormai nero fatto.

Spiro, a dispetto dei due, non dava segno di ripresa delle

funzioni respiratorie.

“Andiamocene.” concluse il Nero “Qui non c’è spirito di

collaborazione.”

“Non c’è spirito.” ripeté il compare.

“Comunque” riprese il responsabile del controllo “Se trovaste

qualcosa chiamatemi a qualunque ora del giorno e della notte.

Mi raccomando, signora Lisa.”

“Lisetta, prego.” si schernì lei.

“Signora Lisetta.” concesse il Nero.

“Sono ancora signorina.” si rischernì.

“Ah... Beh, certo, quando si è lisi... La saluto, signorina Lisetta.”

24

La coppia se ne andò sbattendo tacchi e porta, col morale a terra

per non aver trovato nulla, ma con sottopelle la gioia sottile di

essere stata capace di incutere quel po’ po’ di soggezione a un

sottoposto. Una soggezione così soggeziosa da impedirgli di

respirare. Da rischiare la vita per paura di dare una risposta.

Una gran bella soddisfazione, pensarono in contemporanea i due

santi inquisitori, prima di togliersi dai tacchi quelle lugubri

nacchere. Non sapevano che a fondare il loro potere sulla paura

sono gli stupidi, i pazzi o i criminali. O forse lo sapevano, ma

erano troppo compiaciuti per ricordarsene. Se però fossero

tornati sui loro passi, si sarebbero accorti che l’apnea di Spiro

non era indotta ma voluta. L’ispirato furfante l’aveva usata ad

arte per mettere in pratica il suo nuovo corso di sub, in attesa di

sperimentarla in un ambiente meno pericoloso. In fondo al mare.

* *

“Tutto bene?” chiese di nuovo Prillo, a cui il “sì” spettava di

diritto, per necessaria logica conseguenza di una domanda che

non ammetteva negativa.

“Tutto benone.” rispose enfatico Sotto.

Prillo era il capo più ricco di firme su vestiti ed orpelli di tutta la

scala dir –abbreviazione pallazzesca di “direttiva”-. La scala

prediletta dagli arrampicatori sociali di Pallazzo. Gli altri si

accontentavano di più comode scale mobili, oppure, tolti di

mezzo anche i gradini, di ancor più comodi ascensori. Sotto, che

ne era vice e sottopancia, da buon aspirante dir -“dirigente” in

pallazzese- per meriti ruffianeschi era una sua pura e semplice

appendice. Un’appendice dotata di autonomia intellettiva

marginale e anche meno. Quando Prillo voleva renderlo

partecipe della vita dei capi se lo metteva in pancia, dentro una

25

borsa cutanea aperta in alto tipo marsupio, e da quel momento

Sotto cominciava ad assentire. In tal modo diventavano una sola

persona. Con un solo cervello.

Prillo era specializzato nell’arte più diffusa fra la casta,

prendersi il merito del lavoro altrui senza assumersene anche la

responsabilità. In pratica rubava il lavoro ai poveri, gli

impiegati, per darlo ai ricchi, cioè a lui. Del resto ai poveri non

sarebbe servito ad arricchire, vale a dire a far carriera, dovendo

bastar loro, in una logica eminentemente di scambio, il solo

stipendio. La cosa più volatile dopo l’etere. Il loro lavoro

serviva invece a lui per diventare ancora più ricco. Per salire i

gradi della scala dir e arrivare all'agognato diruno, la vetta più

ambita di tutta la catena. E’ il principio cleptocratico-piramidale

del Pallazzo: il mezzo capo si appropria del lavoro dei sottoposti

con la benedizione del capo intero, che si appropria del lavoro di

tutti.

Il furto diffuso del lavoro altrui era dunque funzionale alle

esigenze del palazzo di vetro, come mezzo per far lavorare tutti

e far far carriera a uno soltanto, il cleptocrate, e come rimedio

contro l’anarchia che si avrebbe nel caso di carriera di molti.

Quanto invece alle responsabilità, Prillo aveva optato per un

concetto etico kantiano: ognuno doveva avere le sue. E doveva

risponderne con ogni suo avere passato, presente e futuro, senza

limiti di tempo, modo e persona del verbo di possesso per

antonomasia.

Sotto, il mezzo capo, era specializzato nell'assentire. Nel dare

ragione incondizionata e assoluta al suo dio, pardon, al suo dir,

che lo dotava di direttiva parola semplicemente impiantandoselo

nel suo marsupio inguinale. Una parola limitata alla particella

affermativa per definizione, estendibile, in casi eccezionali, a

una qualche contenuta variazione sul tema.

26

L’impiantato era l’efficientismo fatto appendice. Un

efficientismo di tipo burocratico, diretto a mantenere il superfluo

e tagliare il necessario. Un modo come un altro per ridurre

all’osso l’essenza del lavoro. L‘ufficio l’aveva battezzato “il

caporale di giornata”, vuoi per le capacità organizzative, da

caserma, vuoi per il quoziente intellettivo, da militare. Anche se

dall’esercito era stato scartato. Tra le altre cose, per reiterato

eccesso di zelo. Troppo anche per dei militari.

Sotto s’era fatto autore di una serie di proposte dirette a

intensificare il lavoro, e di conseguenza la produttività e il

malcontento. Proposte che si elencano di seguito in via

puramente esemplificativa e con beneficio d’indulgenza:

-proposta che prima l’ufficio e poi il Pallazzo tutto imparassero

la stenografia, per ridurre all’osso i tempi di compilazione delle

pratiche. La imparassero la sera, a casa. All’inizio Prillo l'aveva

trovata una grande idea. Poi, quando realizzò che avrebbe

dovuto controllare il lavoro degli stenografi, sia pure solo per

finta, la trovò un'idea del cavolo. La bocciò senza neanche

sottoporla alla direzione;

-proposta di instaurare in via continuativa l'ora solare a

mezzanotte e l'ora legale a mezzogiorno, per lavorare un’ora in

più tutti i giorni; fermo lo stipendio. Era stato picchiato sotto

casa da alcuni incappucciati che, in segno di sfregio, gli avevano

rotto l’orologio. Incappucciati assoldati dai dir più oltranzisti, ai

quali non garbava per niente l’idea di farsi un’ora di lavoro in

più al giorno a gloria dei posteri. Bocciato dalla direzione per

divergenze di fuso orario;

-proposta di applicare un cerotto traspirante su ogni naso

lavorativo, per aumentare il flusso di ossigeno al cervello e

quindi la capacità di concentrazione sul lavoro. Qualcuno

durante le prove aveva avuto una crisi da iperventilazione

27

preimmersiva. Bocciato dalla direzione per mancanza di spazi

dove sistemare eventuali embolizzati;

-proposta di far fare agli inquilini forzati del Pallazzo, appena

entrati in ufficio, trenta minuti di training autogeno, per

rafforzare la motivazione al lavoro. Bocciato dalla direzione

perché sullo schermo dei pensieri ognuno pensava ai fatti suoi;

-proposta di installare nel Pallazzo un etilometro da ufficio, per

misurare lo stato di ebbrezza di chi ogni giorno guidava le

pratiche al loro definitivo accoglimento. Il traguardo naturale di

ciascuna. Bocciato dalla direzione su pressione della lobby degli

alcolisti anonimi, rimasta tuttora sconosciuta.

“Tutto bene?” ripeté ancora una volta Prillo, nel fare le fusa a

una pregiata giacca d’angora. La risposta non gli era giunta forte

e chiara come doveva. In compenso la risposta alle fusa da parte

dell’altezzoso capo di razza si estrinsecò in un’inequivocabile

arricciata di pelo, che lo fece desistere dal continuare. Una

reazione anomala per quel prezioso felino costato una fortuna.

E pagato per addomesticato.

“Tutto benone!” confermò marziale Sotto, presentando il petto.

Almeno quella parte che fuoriusciva dal marsupio, ricoperta da

un vestito di quart’ordine, troppo stretto e fuori moda ma dei

colori di gradimento del capo.

“Bene.” approvò Prillo, prima di congedare quella sua

inelegante appendice e prendere le distanze da quel lunatico

esemplare di gatto rivoltato. E dopo una rapida occhiata in

tondo, appurato che i sottoposti stavano tutti a testa bassa e non

dormivano, uscì soddisfatto e si trasferì nel suo ufficio d’avorio.

Firme e, con le dovute precauzioni, felino compresi. Lo

aspettava una scrivania vuota, ma compiti di complessità tale da

non potersi raccontare senza sprofondare il lettore in uno di quei

sonni sotto vuoto dal risveglio a strappo. Sonni che sono

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l’incubo di ogni narratore che abbia anche solo l’illusione di

avere qualche fan, e pertanto, pur senza cullarsi in tali amache di

sogno, il vostro narratore si guarda bene dal raccontare di quei

compiti. Né saprebbe farlo Prillo stesso, dal momento che non li

conosceva e in ogni caso tramava per sbolognarli.

* *

"Cosa farà ora Amber?" si chiese Filo alzando la testa e facendo

la faccia da cocker. Un cocker con gli occhiali graduati, il pelo

mosso e il tartufo a becco d’aquila.

Amber Liscia era una fresca inquilina del Pallazzo, entrata a

rimorchio di un pezzo grosso venuto da fuori, a cui era legata da

rapporti eminentemente lavorativi: facevano sesso soltanto in

ufficio. Si trattava di un maxi dir in avanzato stato di canizie con

la burbanza di un cattedratico, il curriculum di una squadra di

dir da corsa e le conoscenze nozionizzate di un’enciclopedia

tascabile. Tali e tante da risultare più utili nei quiz televisivi che

alla bisogna.

Amber, agganciata a quel treno accelerato, aveva scalato i primi

gradini di una carriera che prometteva d'esser fulminante.

All’inizio non s’era capito bene quale fosse l’ambito esatto della

sua sfera di competenza all’interno del Pallazzo. In pratica cosa

facesse di preciso. E questo pur avendo un master poligenico in

scatto breve, soluzione al volo di problema, reazione immediata

ad azione istintiva, rimozione di scrupolo e del relativo impulso

di andare a Canossa, ancheggiamento controllato e sorriso da

festa di compleanno. Nondimeno era riuscita a farsi una qualche

fama nel risolvere problemi di una certa levatura -né troppo alti

né troppo bassi. Giusti.- con risatine e corsette. Nel risolverli,

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parafrasando la pubblicità dei detersivi per la casa a proposito

dei risultati in termini di tempo e pulizia, presto e bene.

Quando però quel suo accelerato cambiò stazione, avendone

trovato una che gli dava più della vecchia, senza portarsi dietro

la sua devota compagna di lavoro -la nuova stazione gliene

faceva trovare bell’e pronta una più liscia e più giovane-, la

poverina, fresca d’abbandono, aveva smesso di far carriera.

Aveva avuto lei un bel darsi a risatine e corsette, come e più di

prima, a risolvere problemi, come e anche più di prima, ma la

sua carriera non s'era mossa di un millimetro. Era rimasta

irrimediabilmente ferma, al pari di tutti quelli che, prima di lei,

avevano perso il treno giusto.

E allorché aveva rimarcato la cosa a chi di dovere, i vertici del

Pallazzo ne avevano disposto il confino in un'ala fuori mano, la

fantomatica ala rotta (acronimo di Riconvertita Operatività

ToTale Aggiunta), nel settore dei carrieristi in disarmo. L’unico

spazio dell’ala dotato di uffici con ogni comfort, ma disposti al

loro interno con la scrivania e le sedie in faccia al muro, di

spalle alla porta. Segno che le aspettative di un tempo erano

chiuse per sempre.

"Chissà cosa farà?" si richiese Filo, che per Amber aveva una

simpatia da reflusso. Da principio le era sembrata fredda e

asettica come il gabinetto del medico legale, con la supponenza

di chi cammina a un tanto da terra. La sua caduta gliel’aveva

resa però, oltre che acciaccata, più vicina, più fragile, e anche la

supponenza dei primi tempi sembrava aver fatto spazio a una

nuova, per quanto intricata, remissività. Uno dei possibili

cambiamenti di chi da un giorno all’altro cade in disgrazia.

Tuttavia Amber continuava a mostrare, da certi florilegi facciali

e certi inchinetti speziati che ancora offriva ai papaveri del

Pallazzo e ai papabili tali, un’inguaribile inclinazione verso

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uomini più vecchi di lei. Uomini incanutiti dentro e fuori, con

attributi diversi da quelli che una giovane donna cerca in un

uomo -ma in certi casi, sia pure in una diversa prospettiva,

molto più allettanti-. Attributi quali potere, prestigio, appoggi,

contatti e protezione. Oltre a titoli di ogni sorta e contanti di tutti

i tagli e di tutte le taglie.

Cosa poteva mai offrire Filo a una come Amber? Lui che certi

requisiti non li aveva né era interessato ad averli. Forse niente di

quello che lei avrebbe voluto. Anche se adesso le cose avrebbero

potuto essere diverse. Forse.

Chissà che ci aveva trovato in quella ragazzina secca, con due

occhi troppo scuri, le gambe isteriche, la voce a punta e i ricci

elettrici. Però conciata sempre in modo da apparire carina e

anche di più. Ma soprattutto, come poteva essere stata con quel

trombone magniloquente di quel dir macinacarriere? Quel

pallone gonfiato che l’aveva scaricata quasi fosse zavorra per

salire sempre più in alto. Ma il motivo c'era, Filo lo sapeva. Non

era stupido, Filo. Solo ingenuo, non stupido.

* +

“Che ne dici di sentire da “quelli”?” azzardò il Grigio puntando

gli occhi al soffitto.

“Da “quelli”?” replicò torvo il Nero, alzando a sua volta lo

sguardo. “Piuttosto vado a Lourdes in ginocchio, faccio il bagno

nell’acqua e torno sulle punte. Se torno.”

“Quelli” erano gli angeli, l’ufficio più in alto dopo quello del

direttore.

Gli angeli erano tutti belli, biondi e con gli occhi azzurri.

Almeno all’inizio, perché poi, vista la difficoltà nel reperire gli

esemplari, una circolare aveva disposto che potevano diventare

31

angeli anche i bellocci con gli occhi grigi. Sul biondo dei capelli

invece non era dato transigere.

Nell’ufficio degli angeli si entrava tramite pubblico e

pubblicizzato concorso. All’inizio c’era da sostenere una prova

preliminare. Un esame del protocollo angelico comprendente

sorriso, aspetto, camminata e, ma solo molto dopo, buoni

sentimenti. Poi c’era il concorso vero e proprio, in una località

termale, la stessa tutti gli anni, con tanto di pubblico, fotografi e

mamme angelicate. Ma soprattutto con accurato esame

tricologico del capello in caso di vittoria. Infine si faceva luogo

alla proclamazione di angelo dell’anno, mediante incoronazione

con posa di un’aureola luminosa sul bulbo sancito biondo.

Correva voce però che in mezzo a loro circolasse anche un

ossigenato, raccomandato da un politico alternativo.

Il capo dell’ufficio era uno di Lucca, un certo Ciarli, che aveva

la pretesa di farsi chiamare Charly. Una differenza che non tutti

erano in grado di apprezzare nei particolari. L’importante era

chiamarlo Ciarli dandogli a intendere di chiamarlo Charly.

Tutto per emulare la trasmissione prediletta del vecchio

genitore, “Charlie’s Angels”. Per poterlo chiamare alla Casa di

Correzione dell’Anziano e dirgli che suo figlio era il capo di

quell’ufficio che era tutto un programma. Il programma che

aveva visto lui diventare adulto e il padre diventare vecchio. La

madre aveva fatto le valigie dopo le prime puntate.

Ne aveva fatta di strada, da quando, ragazzino, spacciava sulla

spiaggia di Viareggio tamarindo per “hohahola-holla-

hannuccia”, recuperando al tramonto le “hannucce” usate per il

giorno dopo. Una strada in salita, con qualche tappa in collina da

un faccendiere che aveva in mano il mercato del tamarindo, il

quale ne aveva benedetto le “hannucce” e la “harriera”. E in

mezzo agli angeli Ciarli si sentiva in paradiso.

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La divisa degli angeli era abito grigio, camicia celeste e cravatta

blu. Calzini a piacere. In pratica si distinguevano dagli autisti

d’autobus per i capelli biondi, e dagli autisti biondi per l’abito

firmato.

Gli angeli erano anche gli unici in tutto il Pallazzo ad avere una

colonna sonora, a celebrare la riuscita delle loro alate imprese,

“You’re simply the Best”, alternata a “We are the Champions”.

Una colonna sonora che fungeva da biglietto da visita, oltre che

da promemoria e lasciapassare.

Il loro ufficio era collegato tramite misteriose interessenze -

qualcuno aveva parlato di cimici, ma dopo l’ultima

disinfestazione era difficile. Più probabile una talpa o un corvo-

a quello di tutti gli altri. Bastava perciò che un qualsiasi

impiegato di un qualsivoglia ufficio avesse un qualsisìa

problema di lavoro che non riusciva a risolvere e dicesse “Qui ci

vuole un angelo”, oppure “Questa è roba da angeli”, che uno dei

suddetti appariva per incanto nell’ufficio. Quindi sorrideva

all’impiegato impetratore e, tempo la conta delle dita di una

mano, lo liberava dal problema. Per poi sparire, nuovamente per

incanto, nel tempo della conta delle dita dell’altra. Al punto che

“roba da angeli” era diventato il detto per qualificare le imprese

impossibili.

Talvolta succedeva che gli angeli venissero chiamati senza

volere. Come quando capitava a un qualche inquilino coatto del

Pallazzo di commentare un evento che niente aveva a che vedere

col lavoro, per esempio un avvenimento sportivo, con un “Ma

questa è un’impresa da angeli!”. Al cinque naturalmente

appariva l’angelo liberatore per sollevarlo dal problema. E una

volta appurato che non c’era alcun problema da risolvere, di

fronte alle scuse del malcapitato per averne nominato il nome

33

invano, e averlo per ciò solo fatto comparire inutilmente,

l’angelo proferiva frasi non proprio da coro angelico.

Ecco perché il Grigio aveva pensato di ricorrere, ma senza farne

il nome, a quell’ufficio affascinante e permaloso.

“Anziché chiamare “quelli”, sentiamo invece cosa può fare

Abbio.” suggerì il Nero con un’idea in tasca.

* *

Filo, da pervicace cercatore di se stesso, aveva con le donne uno

strano rapporto. Lo stesso che un musicista può avere con

un’incompiuta. Da sempre sognava di incontrare la donna dei

suoi sogni, ma, sognandone ogni notte una diversa, non era

sicuro che sarebbe riuscito a riconoscerla.

Filo non dispiaceva alle donne, anche se non abbastanza; lo

trovavano finanche spiritoso, però non abbastanza, e perfino

intelligente, ma sempre non abbastanza. A un certo punto ne

aveva avuto abbastanza pure Filo, e aveva deciso che si poteva

vivere anche senza donne.

La mancanza di una donna comportava però la necessaria

privazione di una vita sessuale. E dato che a fare da solo si

sentiva come uno stagnino chiamato a sturare un tubo intasato, e

a far fare a quelle signore che lo fanno di mestiere si sentiva lui

il tubo intasato, erano i sogni che si preoccupavano di riempire

questa mancanza. L’ultima in ordine di tempo che vi si agitava

dentro era quella corsaiola riccioluta filoincanutiti di Amber.

Nel frangente Filo era giù; per di più senza un motivo. E il fatto

di essere giù senza neanche il più piccolo motivo per esserlo lo

faceva sentire ancor più giù. In quel momento di bassa senza

speranza entrò Ria.

34

“Scusa, Filo, avrei dovuto chiamarti l’altro ieri per quella

faccenda, ma ho avuto talmente tante cose per la testa che mi è

passato di mente.” profluì di getto, senza rifiatare.

“Non preoccuparti, non è grave.” la tranquillizzò Filo, sorpreso

di tanto fiato. Dovevano essere quei due polmoni che aveva sul

davanti. “Soprattutto non era urgente.”

“Avevi ragione tu.” sospirò in punta di sorriso, con un tono fra il

grave e il piccato. “E’ il cammello che ha due gobbe, il

dromedario ne ha una sola.”

“Già... Cammello, due gobbe, due emme...” recitò didascalico

Filo “Dromedario...”

“... una gobba, una emme. E’ chiaro, ho capito.” lo interruppe

Ria, stendendogli davanti una fila bianca di denti bagnati appesi

per il colletto a una gengiva prensile. Un sorriso da resa

incondizionata.

Ria, detta la ritardataria. Ovviamente perché arrivava sempre in

ritardo. Era arrivata puntuale una sola volta, al suo matrimonio,

e ancora se ne rammaricava. Da quel giorno le era venuta

un’avversione a pelle per la puntualità. Lei era l’opposto del

marito, non solo perché lui era un uomo, ma perché aveva

l’orologio in testa. Non se lo levava mai, salvo quando faceva

con la moglie quelle cose che di solito si fanno senza niente

addosso. Ma anche lì lei aveva come l’impressione che l’avesse

sempre, visti i tempi dei preliminari, dell’atto e della chiusa

finale. Ogni volta gli stessi. Un cronometro anche senza

orologio. All’inizio furono attratti dalle loro differenze, che li

calamitarono a forza l’una tra le braccia dell’altro. Troppo tardi

scoprirono che col tempo le differenze allontanano. Nondimeno

tiravano avanti, ciascuno con qualche distrazione. Qualche storia

a tempo lui; storie di ritardi lei.

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Filo accompagnò alla porta il sorriso di Ria con occhio

spiroidale. Quando sparì si chiese se lei avrebbe un giorno

voluto saperne di un temporeggiatore professo qual era il

proprietario di quell’occhio. In ogni caso lui non avrebbe mai

fatto la prima mossa. Forse neanche la seconda. Magari la terza.

* *

“Caro Abbio, abbiamo un lavorino per te.” esordì ammiccante il

Nero entrando col Grigio nel cangiante ufficio del mago

riconosciuto dei computer.

“Un specie di gioco... da fare al computer!” rincarò il compare.

Ad Abbio brillò il verde-banconota dei suoi occhi azzurri.

Aveva le lenti a contatto in tinta col contenuto cartaceo del

portafoglio.

“Sono tutt’orecchi.” replicò l’interpellato nel togliersi le cuffie

del walkman.

Abbio era uno pieno di soldi che, lavorando per hobby,

praticava gli hobby come una professione. In particolare i

viaggi, nell’illusione di poter cambiare anima cambiando cielo.

Per l’intanto gli era cambiata la superficie pilifera del cuoio

capelluto, che s’era fatta irregolarmente rada e piana. Tipo una

pista d’atterraggio di fortuna.

Anni prima aveva fatto assieme a certi altri inquilini forzati del

Pallazzo un corso di computer, che gli aveva fatto conoscere la

magica bellezza dell’informatica. Un corso molto proficuo, con

tanto di prova pratica, giudizio finale e diploma virtuale.

Durante la prova Zanco aveva copiato da Fargo, Fargo aveva

copiato da Abbio, Abbio aveva copiato da Ciullo, e tutti

avevano lasciato gli occhi sul culo a mandolino della splendida

insegnante. Un culo da giudizio universale. E il corso aveva dato

36

i suoi frutti. Una foto dell’impareggiabile trofeo, scattata dalla

macchina fotografica in miniatura nascosta nel cappuccio della

biro di Abbio.

“Allora, cosa vuoi, avanzo di scarico industriale?” riccheggiò

l’abbiente al Nero, che esitava a parlare, senza degnare d’uno

sguardo la sua scolorita propaggine.

Abbio dava del “tu” a tutti, compresi i pezzi grossi del Pallazzo.

Un tu infarcito di epiteti da bar dei bassifondi. Il danaro, fra gli

altri, ha il potere di annullare le gerarchie.

Il Nero, restando sul vago e minimizzando ai minimi la cosa, gli

spiegò che forse, non si era ancora sicuri, era andata persa una

pratica. E che per un insignificante fine statistico lui e il Grigio

si erano impegnati a ritrovarla, qualora ovviamente lo

smarrimento avesse assunto una concreta parvenza di certezza.

Per chiedergli infine se c’era modo di sapere dove poteva essere

finita, una volta appurato al di là di ogni dubbio che era stata

smarrita sul serio.

Ad Abbio, che, per quanto ricco, non era stupido, venne più di

un sospetto sul fatto che una pratica in più o in meno, anzi, per

la precisione, in forse, potesse avere un qualche influsso

statistico su quelle che circolavano nel Pallazzo, ma il gusto

della sfida ebbe la meglio sui sospetti. Anche perché sapeva che

lì dentro, per quanto la cosa venisse sottaciuta, non era

impossibile che una pratica sparisse.

“Tranquilli, avanzi di scarti radioattivi, vi farò un programmino

che vi tirerà fuori tutte le pratiche smarrite, sia per certo che in

forse, dai tempi in cui è nato il Pallazzo al millesimo di secondo

esatto di questo istante preciso.” rispose Abbio schiacciando il

pulsante al quarzo del suo cronometro da polso satellitare.

“Bingo!” smagliarono in coro i due avanzi.

37

* *

Toniriccio era rientrato in ufficio, ma con la testa stava ancora

fuori. A ripassare col pensiero la rossa e le sue curve.

Lei non era tipo da sbottonarsi, gli aveva confessato al bar.

Salvo, s’intende, in quelle situazioni in cui sbottonarsi era

fisiologicamente necessario, aveva lampeggiato non richiesta.

Dunque non poteva dirgli che era venuta su incarico di un

politico molto in alto, sceso fra gli uomini per far ritrovare, a

mo’ di pecorella, una pratica smarrita.

Questo aveva detto la rossa a Toni, che non poteva dirgli quello

che carmineamente gli stava dicendo, mentre aspirava con due

cannucce a forma di labbra la crema del suo caffè macchiato. Un

caffè macchiato caldo lei e un cappuccino incandescente lui. A

dire il vero il cappuccino lui l’aveva chiesto tiepido, ma la

barista gliel’aveva fatto come doveva essere, da ustione. Il fatto

è che era meteoropatica, perciò i cappuccini li faceva bollenti

quando aveva freddo, e freddi quando aveva caldo. Quella

mattina di metà dicembre, algida e cupa come certe mattine

invernali di pianura, la vecchia caldaia del locale non aveva

voluto saperne di partire per tempo. E una volta partita non era

riuscita a recuperare il ritardo.

Si dava tuttavia il caso che quello fosse anche il bar più vicino al

Pallazzo, e i suoi inquilini forzati ci andassero ugualmente,

facendo in modo di conciliare la meteoropatia della barista con

le ordinazioni. Magari con l’aiuto delle previsioni del tempo.

Non era dunque vero quanto si diceva fra quei vetri, pensò Toni

prima di perdere la sensibilità della lingua e rabboccare il

cappuccino incandescente con una provvidenziale dose di latte

freddo. Le rotondità della sua confidente avevano avuto

l’obnubilatorio potere di cancellare dalla lavagna dei pensieri

38

che il cappuccino la barista non avrebbe potuto farglielo diverso,

a meno di una miracolosa guarigione della medesima. Non era

vero che nel Pallazzo non si perdeva mai niente, come da

sempre cantava compatto il coro dei dir, diretto a bacchetta dal

suo direttore d’orchestra.

Il riccio però, da bravo gentiluomo da bar, aveva la non troppo

signorile abitudine di vantarsi delle sue conquiste coi compagni

di stanza. Si curava sempre di far sapere loro, anche se non

espressamente richiesto, ma ritenendo suo dovere farglielo

sapere lo stesso, ogni più piccolo particolare della conquista.

Compresi quelli non proprio da gentiluomo. Perciò, mano a

mano che riferiva all’uditorio coatto di quella rossa tuttacurve

che aveva conosciuto in ascensore, raccontò anche, in quanto

particolare della storia, di una certa pratica che era stata smarrita

e che doveva essere ritrovata.

La voce nacque così, senza l’intenzione del suo levatore di farla

nascere. Solo che, una volta nata, iniziò ben presto a diffondersi

in ogni stanza del Pallazzo. A cominciare da quella del riccio.

“Cos’è di preciso che si sarebbe perso?” chiese sul preoccupato

Gigio, l’impiegato da taschino.

“Che vuoi che me ne importi?!” ribatté Toni facendo la ruota “A

me basta sapere di non perdere lei. La rivedrò stasera.” aggiunse

con la faccia da lenza. “Doveva andare a numerare i volumi

della collana rosa della biblioteca di quartiere. E’ una volontaria

del gruppo “Donne impegnate”. Ma stasera salterà.“

“Certo le donne sono proprio delle stupide!” gracidò Pfazzi in

un accesso di femminismo isterico, mentre scacciava con la

mano una mosca che orbitava fastidiosamente attorno alla sua

faccia tonda.

Pfazzi era una ragazza robusta, prima che una spropositata

reazione mangereccia a un amore giovanile non corrisposto la

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spingesse sull’orlo dell’obesità. Da allora aveva messo su il

girovita di un lottatore di sumo. Aveva provato a toglierselo con

sedute di ginnastica mentale e diete dimagranti a base di crema

fritta e cioccolato, ma quell’ingombrante salvagente le era

rimasto appiccicato come una seconda pelle.

“Non sarà colpa mia?” mormorò fra sé l’impiegato da taschino,

alludendo alla pratica scomparsa.

Causa la mancata crescita, Gigio aveva maturato un bisogno

inconscio di autopunizione inversamente proporzionale ai suoi

ingombri. Tanto da ritenere che ogni disgrazia spiegasse un

qualche effetto sul Pallazzo fosse in certa misura riconducibile a

una sua colpa. Per questo in pausa pranzo sceglieva con cura il

panino più duro col prosciutto più rancido, e la minerale gasata

più sgasata. Per finire, caffè basso bevuto a testa alta.

“Delle stupide!” gracidò ancora Pfazzi, la cui mano continuava a

duellare con la mosca orbitante. “Fanno tante le impegnate e poi

escono con certa gente!”

“Dì la verità che ci usciresti anche tu con certa gente!” rimbeccò

Toni.

A Pfazzi saltò la mosca al naso, prima che questa riprendesse la

sua orbita irregolare.

“Tu sei malato, riccio mediterraneo! Malato di gallismo! Mio

marito a me basta e avanza! Mi hai rotto, vado al bar!” e

sollevando la parte bassa della sua vita fatta a piazza uscì di

scena. Dalla platea Toni rise alla battuta, sapendo che, per

quanto riguardava lui, la cosa rispondeva a verità. Non sapeva

invece che non rispondeva a verità per ciò che riguardava lei,

dai cui approcci il marito si teneva prudenzialmente a distanza.

* *

40

Una volta liberatosi del Nero, il direttore aveva preso a girare

intorno alla scrivania per riuscire a digerire la faccenda della

pratica scomparsa, e convincersi con quell’ipnosi peripatetica

che si sarebbe risolta nel migliore dei modi. Dopo un

imprecisato numero di orbite suonò il telefono.

“Personale per lei, signor direttore.” fece una voce lagna

allorché l’ebbe in mano. Era la sua cantilenante segretaria

particolare, colei che filtrava le chiamate in arrivo.

“Chi è?” ruggì il vecchio leone accovacciandosi sulla sedia.

“Spiacente, ma la persona al telefono si è raccomandata di non

dirlo. Vuol farle una sorpresa.” cantò la lagna riattaccando.

Il re del Pallazzo aggrottò la criniera. Aveva fiutato un pericolo.

“Buongiorno, caro direttore, sono Scaltro.” annunciò la cornetta

d’improvviso.

“Ah... è-è lei, onorevole. C-che piacere...” balbettò il leone

formato agnello.

“Come vanno le cose?” chiese amichevole Scaltro.

“B-bene, onorevole.” rispose titubante l’agnello. Finora, pensò

senza dirlo.

“So che ha parlato con la Panna.”

“C-con chi?”

“Con Malga Panna, la mia segretaria.”

“Ah, già.”

“Veramente una delle tante. Però lei si nota più delle altre.

Spicca.”

“Sì, mi è parso.”

“Malga mi ha riportato fedelmente le sue parole.” tranne due che

erano illeggibili, si disse in silenzio. “Ho chiamato per

ringraziarla del suo interessamento. Sa, si tratta di una questione

di principio.”

“C-certo, onorevole.”

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“Lo so che di questa parola ormai non se ne può più. Oggi si fa

una questione di principio per una sciocchezza qualunque. Per

qualsiasi seccatura sfiori anche solo leggermente l’ombra del

nostro opinato diritto. Per cose così da poco che neanche un

bambino viziato si perderebbe a litigarci. E per litigarci sopra

senza doverci vergognare, a queste sciocchezze diamo il nome

di questioni di principio... ”

Dio com’è vero, pensò il direttore nel sciogliere la presa sugli

sfinteri. Poi, considerando il numero delle pratiche andate

smarrite nel Pallazzo e mai ritrovate, quasi senza rendersene

conto sentì partirgli la voce: ”Ma sicuro, onorevole, ha ragione.

Potremmo fin d’ora predisporre per il suo protetto una pratica

nuova. Tanto più bella della vecchia, più curata nei particolari,

nelle finiture. Fatta apposta per lui; su misura, come i vestiti di

una volta. Una di quelle pratiche che facciamo solo a chi se le

può permettere...”

Parlava di corsa, il capo supremo del Pallazzo, e più parlava più

prendeva velocità, più andava veloce più si sentiva sicuro.

Finché, ormai lanciato, andò a sbattere contro un “però”.

“Però...” lo interruppe Scaltro da furbo -il direttore scheletrì, in

testa e nello stomaco la sensazione d’esser finito su qualcosa di

molle e repellente. L’onorevole aveva preso il discorso alla

larga; forse per indurlo capziosamente a esporsi, a trarre una

conclusione affrettata. Ma il discorso non era ancora finito-

“Però il mio amico ne sta facendo una malattia. Era la sua prima

pratica... E la prima è sempre la prima.” sentenziò con la gravità

delle frasi fatte.

“B-beh, certo...”

“Un po’ come il primo amore.” aggiunse Scaltro strizzando

l’occhio alla cornetta. “Capisce, vero?”

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Più di quanto non immagini, rispose muto il direttore, per il

quale il primo amore era stato anche l’ultimo.

“Sì, capisco.” belò l’agnello sacrificale, che ormai l’aveva

capita per davvero. “Le assicuro che il suo protetto rivedrà

molto presto la sua pratica.” recitò coi toni delle ultime volontà

in letto di morte.

“Conto su di lei, e con me i membri della coalizione che

rappresento.”

“Ci conti pure, onorevole.” sospirò il direttore, vedendoseli

schierati di fronte, al pari di un plotone d’esecuzione pronto a

far fuoco.

“A risentirci.”

“A risentirla.”

Il condannato a morte riattaccò serrando forte gli occhi, quasi a

proteggerli da un fascio di luce che li stava accecando. Si

sentiva in mostra, uomo cavia sotto vetro, con davanti il mondo

che lo guardava e aspettava un suo movimento. Un gesto, un

cenno. Uno qualunque. Non ce ne fu nessuno. Rimase immobile

a occhi chiusi, manichino senza vita né futuro.

* *

Pfazzi fumava dal nervoso mentre aspettava l’ascensore.

Quando questo le allargò le braccia ci saltò dentro fra gli sbuffi,

e pigiò terra con quanta rabbia aveva in corpo. Tanto forte da

incastrare il tasto nel suo alveo di metallo. L’ascensore partì,

poi, all’improvviso, come se avesse sentito solo in quel

momento la fitta per il tasto conficcato nell’acciaio, si bloccò

fra il piano di lei e quello di sotto.

Nell’istante in cui Pfazzi realizzò di essere in trappola sbollì di

colpo, e dopo aver pigiato a vuoto qualche altro tasto inconsulto,

43

si mise a chiamare aiuto. Per puro caso, ma forse no, passava di

là la Trebisonda. Colei che, tramite una sfera di cristallo, un

elenco del telefono e una linea interurbana, sapeva tutto di tutti.

“Fa un bel respiro!” le urlò la Trebisonda, memore dei consigli

della rivista “Donna estrema”.

“Non ci riesco!” trillò Pfazzi.

“Fa un bel respiro!”

“Non ci riesco!”

“Fa un bel respiro, ti dico!”

Silenzio.

“Ehi, Pfazzi... Pfazzi, parla!”

Silenzio.

“Pfazzi, che ti è successo? Pfazzi, dì qualcosa, per l’amor del

cielo!”

“Datti una calmata, Tre, sto solo cercando di fare quel dannato

respiro!”

“Stiamo calmi, Pfazzi. Non perdiamo la testa!”

“Cerca di non perderla tu, la testa. Io qua dentro non mi ritrovo

neanche col resto.”

“Ora chiamo qualcuno... Aiuto!” gridò “C’è l’ascensore

bloccato con dentro una donna incinta!”

“Ehi, chi ti ha autorizzato a mettere in piazza le mie cose? E poi

ho solo tre giorni di ritardo.”

“Tutte cominciamo con tre giorni di ritardo. Poi aumentano.“

“Ma non sono neanche sicura!”

“Insomma, vuoi che arrivi qualcuno sì o no?... Aiuto!” gridò di

nuovo “C’è l’ascensore bloccato con dentro una donna che sta

per avere una crisi!”

“Che stai dicendo? Sto benissimo!”

“Non soffrivi di claustrofobia?”

“Mio marito. Io soffro di agorafobia.”

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“Non si vede nessuno. Bastardi! Se ci fosse la Pucci chiusa in

ascensore ci sarebbe la fila!”

La Pucci era la bambola del Pallazzo. Bella, bellissima. Forse

finta.

“Già, solo che io non sono la Pucci.” ammise Pfazzi con un

sospiro, conscia di tradire, sia pure solo col pensiero, l’ideale

femminista.

“L’avete voluto, ora vi sistemo io!” ringhiò la Trebisonda

mostrando i denti al corridoio vuoto.

* *

“Allora, Abbio?” chiese fremente il Nero.

“Niente... Non riesco a trovare niente.” rispose l’abbiente

smanettando sul computer.

“Vuoi dire che non c’è traccia di alcuna pratica scomparsa?”

l’incalzò il Grigio.

Abbio allargò le braccia e scosse piano la sua zucca fatta a uovo

di Pasqua. La sorpresa era che dentro suonava vuota.

In quel momento si udì un boato terrificante, che fece tremare

dalle fondamenta i vetromattoni del Pallazzo. Un fragore

spaventoso, seguito da interminabili secondi di vibrazioni

tellurico-dentarie. Poi tornò il silenzio, spezzato da una raffica

di accidenti. Eppure, pur essendo il Pallazzo in zona sismica,

non uno dei suoi inquilini coatti aveva mosso un capello dalle

scrivanie. E questo non per un attaccamento al lavoro di tipo

giapponese o perché non avevano paura del terremoto, ma

perché sapevano che terremoto non era. Era solo lo

stroboscopico starnuto con effetti speciali di Uto, che tutti ben

conoscevano per esperienza diretta. Nessuna sorpresa, dunque,

ma soprattutto nessuna conseguenza. Tranne una neoassunta al

45

primo giorno di lavoro che si lussò una caviglia cadendo dalle

scale, e una cliente in età avanzata che si ritrovò con la dentiera

in mano.

Uto era un impiegato spiccio di modi e d’aspetto, ma che

conosceva l’essenza del lavoro ben più di altri, affettati di modi

e azzimati d’aspetto. Si diceva che non avesse fatto carriera

proprio per questa sua glottide da baritono al plastico, perché

nelle loro riunioni al cloroformio i dir non gradivano certe mine

vaganti.

“Dannato Uto!” ragliò il Nero “Sparge più microbi di

un’epidemia di influenza!”

“E ora che facciamo?” lo richiamò alla realtà il Grigio.

“Ora avete due possibilità, avanzi di bacilli infetti.” rispose al

posto del Nero Abbio, che dalla faccia dei due aveva capito

come stavano le cose, e cioè che la pratica alla pallazzesca

macchia era stata smarrita non forse, ma di sicuro “O spararvi o

trovare un capro espiatorio qualunque. Magari se la prendono

col capro e voi la passate liscia. Se siete per la prima soluzione

però, fossi in voi aspetterei. Voglio sentire da un mio amico

informatico, fanatico di siti, rete, chat, chip e pappagalli, oltre

che navigatore provetto di password da viaggio. E’ capace di

trovare un ago in un pagliaio. Virtuale, s’intende. Lo vedo

nell’intervallo. Andiamo con altri amici qui vicino, a mangiare

all’australiana.”

* *

“E-c-c-c-olooo!” gorgheggiò in un orgasmo gutturale Segùro

nel varcare la soglia dell’ufficio di Filo. Quasi l’ufficio tutto non

vedesse l’ora che, venendo, la varcasse.

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Segùro era un giovane sindacalista di tendenza, che aveva fatto

fuori la vecchia guardia sindacale con l’accusa di connivenza col

regime pallazzesco. Voci di corridoio e indiscrezioni di

sottoscala la davano talmente immanicata con la direzione da

fare non già l’interesse dei più ma quello dei meno, il loro. Era

lui ora a controllare il regolare svolgimento dei colloqui di

assunzione, chiudendo un occhio sui raccomandati del Pallazzo

e tutt’e due su quelli suoi personali. Aveva finito per ritrovarsi

con un imbarazzante tic agli occhi lui, e un ancor più

imbarazzante numero di esuberi il Pallazzo.

Segùro e il suo sindacato neopositivista erano perciò il nuovo

punto di riferimento degli infaticabili lavoratori sotto vetro e

degli aspiranti tali, in indefessa e mai doma lista d’attesa.

“Con questo…” stornellò Segùro nel distribuire un dattiloscritto

stampato a caratteri cubitali “… chiediamo che tutti i colleghi,

non solo quei due, possano, se vogliono, partecipare ai piani di

sviluppo del Pallazzo.”

Occorre sapere che la direzione, per ottimizzare costi, tempi

morti, sospiri e deiezioni -le donne delle pulizie non avevano

gradito certi arazzi nei gabinetti-, aveva istituito un concorso

con premio finale per il progetto che fosse riuscito a

regolamentare nel migliore dei modi la complessa materia.

Denominandolo, forse per le possibilità di successo che il

disegno aveva sulla carta, Progetto Magia. Erano in ballottaggio

per il premio i progetti -rigorosamente ancora nella loro testa-

delle due punte di diamante di quei vetri. Saimon, detto

Simonmago per la capacità di sparire quando c’era un problema

da risolvere e di riapparire quando era stato risolto, tanto da far

supporre l’esistenza di un nesso causale tra problema e

soluzione, e Gimmi il Fenomeno, conosciuto per il logos

giaculatorio “Che problema c’è?”, recitato alla guascona in

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faccia a ogni problema, dal più piccolo al più grande. Lo disse

per la prima volta a sua moglie quando lei minacciò di piantarlo,

per poi ripeterglielo allorché la suddetta lo piantò per davvero. E

da allora, dato che, almeno con le donne, funzionava, non aveva

più smesso. Mai avrebbe pensato che sarebbe servito anche a far

carriera.

“Tutti devono avere una possibilità.” aggiunse Segùro “Anche i

cretini.”

“Grazie.” replicò Filo storcendo la bocca.

“Prego.” ribatté il sindacalista dall’alto del suo pragmatismo

gnoseologico.

“E’ tutta colpa della plastica.” borbottò Picchio, il dirimpettaio

di scrivania di Filo.

“Di cosa?” chiese il collega a fronte, temendo di aver sentito

giusto.

“Della plastica.” ripeté Picchio “La plastica è più veloce di noi.

Respira l’ossigeno prima che lo respiriamo noi. Ecco perché

vive tanto a lungo. Così noi respiriamo la plastica...” soggiunse,

e scrollò gravemente l’inaccessibile custode dei suoi pensieri.

“Certo, certo” approvò Filo, consapevole che dargli ragione era

molto più semplice che non dargliela. “A proposito” disse a

Segùro “L’hai sentita anche tu la voce che è stata smarrita una

pratica?”

“No.” rispose l’interrogato con sindacale sicumera. “Del resto

nel Pallazzo non si è mai perso niente.” annunciò alzando il

braccio destro, come a benedire.

“Credevo che questo lo dicesse solo la direzione.” replicò secco

Filo.

Il benedicente ritirò il braccio. Gli atei non meritavano

benedizioni.

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“Senti” chiese Frenzi al campione del nuovo sindacalismo,

libero e liberatorio “Ci sta anche il sindacato nella collection per

Acidio?”

* *

“Aiuto, c’è l’ascensore bloccato con dentro la Pucci!” gridò la

Trebisonda strizzando l’occhio a se stessa.

“Ma che stai dicendo, Tre, sei impazzita?!” replicò Pfazzi da

dentro la prigione.

Dagli uffici al piano cominciò a sentirsi dapprima un rumore di

girevoli che giravano, poi uno scalpiccìo di scarpe che

scalpicciavano, prima di vedersi materializzati i primi soccorsi.

“E’ la Pucci?” chiese uno.

“Proprio la Pucci?” chiese un altro.

“La Pucci la Pucci?” chiese un terzo.

“Dalla voce si direbbe lei.” rimbeccò la Trebisonda, la faccia

tirata quanto una maschera della tragedia greca.

Pfazzi, capita l’antifona, si chiuse in un triste e rassegnato

silenzio. Il femminismo si era dissolto, lasciando il posto a un

maschilismo fallocratico di cui avrebbe voluto essere a un tempo

vittima e carnefice. Intanto lungo il corridoio il pucciamento era

diventato torrente, fiume, cascata.

“Ma perché, santalò, se anziché la Pucci ci fosse un’altra lì

dentro non sarebbe lo stesso?!” tuonò all’improvviso il guerriero

Trebisonda sfoderando la giugulare.

“Vuoi dire... moralmente?” eccepì Edo, il narcisista intellettuale,

con l’intento di sollevare il problema etico, oltre che per fare il

punto della questione.

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Edo aveva ereditato da due genitori gordiani un carattere

problematizzante, aperto solo a soluzioni che a loro volta

schiudevano un problema.

“Ma, non saprei...” rispose senza parole la Trebisonda, che

quando si trovava di fronte a una parola in “-mente” aveva

sempre il timore di dover usare la testa.

“Perché se intendi moralmente sarei per darti ragione, ma se

intendi fisicamente mi sentirei di dissentire...” puntualizzò Edo

-qualcuno se la diede a gambe, ma nessuno si meravigliò.

Quando Edo dissentiva i più venivano presi dall’irrefrenabile

impulso di andare in bagno.- “... dissentirei perché una donna

non è mai uguale a un’altra. La bellezza qui non c’entra, sia

chiaro; qui c’entra solo la logica. E la logica dice che se non si è

uguali si è diversi. Perciò distinguerei...” -qualcun altro batté in

ritirata, ma nessuno dei rimasti si meravigliò. Quando Edo

distingueva di solito andavano in bagno quelli che avevano

resistito alla dissenteria. Ovviamente un bagno degli altri piani,

perché quelli al piano erano già occupati dai primi.- “...

distinguerei tra l’una e l’altra. L’una e l’altra in astratto, si

capisce; senza sapere chi è l’una e chi è l’altra. Pertanto

concluderei... -qui la fuga fu pressoché generale, ma i pochi

superstiti non si meravigliarono. Quando Edo arrivava alle

conclusioni, queste erano sempre per pochi intimi “...

concluderei che non è proprio la stessa cosa.”

“Volete decidervi a fare qualcosa?” si sentì da dentro

l’ascensore. “Comincia a mancare l’aria.”

“Ehi, ma questa non è la Pucci.” disse uno degli intimi.

“No.” convenne un altro “Questa è Pfazzi.”

“Ecco perché le manca già l’aria.” commentò un terzo.

“Trattieni il respiro, Pfaz, ora chiamiamo l’assistenza. Ti

tireranno fuori.” disse un altro ancora.

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“Attenta a non scoppiare, però!” concluse sghignazzando

l’ultimo degli intimi. E se ne andarono sull’onda di quello

sghignazzo.

“Hai visto che abbiamo risolto?!” esclamò la Trebisonda

rinfoderando la giugulare.

“Me ne sono accorta. Grazie tante.” ribatté Pfazzi. E il pensiero

le corse ai possibili modi in cui si può uccidere una collega.

* *

“Allora, ci sta o no il sindacato nella collection per Acìdio?”

chiese di nuovo la pasionaria a Segùro, che le stava puntando il

davanzale della camicetta trasparente con occhio a cuspide.

“La colletta.” tradusse Filo, salutando a mano aperta quella

faccia da punta, per richiamarla alla realtà.

Acìdio se n’era andato da due settimane. Andato per sempre;

direttamente dal Pallazzo.

Prima della dipartita era stato notato ritirarsi nella sua stanza da

single, il suo ufficio monocamera, in preda a un attacco di “Se

non ci fossi io qua dentro...!”. Lo sbotto aveva prodotto in chi

l’aveva sentito un borborigmo diffuso di poco raffinate

espressioni verbali, sia in lingua che in vernacolo, accoppiate a

gesti di pari raffinatezza espressiva. Poi la sua vicina di stanza,

Ciozza, una con due gambe da gallina ovaiola e il bargiglio

parlante, nel sentire il di lui telefono che chiamava a vuoto, era

andata a vedere. L’aveva trovato seduto, il busto e la testa

reclinati sulla scrivania, gli occhi chiusi e le braccia a corona.

Apparentemente senza vita.

La Ciozza aveva trillato come mai aveva fatto in vita sua. Al

punto da richiamare l’attenzione di un certo Garp, uno che

voleva a tutti i costi che il mondo andasse a modo suo. Fu quindi

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chiamato qualcuno della direzione, perché avendo il morto, o

almeno presunto tale, omesso di cadere per terra, non era facile

distinguerlo da quelli che lavoravano normalmente. Il dir di

turno, accertata l’assenza di funzioni vitali abbinate a quelle

cerebrali -la sola assenza di queste ultime era condizione

necessaria ma non sufficiente-, ne sanzionò d’autorità, malgrado

la mancata caduta, l’intervenuta morte.

Nessuno aveva mai saputo bene il lavoro che faceva Acìdio, ma

doveva essere così tanto e tanto importante da non poterlo fare

senza fermarsi in ufficio ben oltre l’orario canonico. Una volta

c’era stato un controllo per verificare la necessità di tutto quello

straordinario, e, se del caso, tagliarlo. Ebbene, Acìdio aveva

spiegato con tale dovizia di particolari i suoi incombenti ai

controllori, che questi, temendo che il controllato chiedesse di

fare ancora più ore di quelle che già faceva, avevano avallato le

ore fatte e l’avevano autorizzato a continuare a farne altrettante.

Si dava il caso però che al suo posto il Pallazzo non avesse

messo nessuno, e che anzi, da un giorno all’altro, avesse chiuso

l’ufficio. Forse perché nessuno conosceva il suo lavoro e lui, il

morto, non poteva insegnarlo. O forse perché quel lavoro -

qualunque esso fosse, dal momento che non si aveva idea di

come si esplicasse e in cosa consistesse. Gli stessi controllori,

dopo un interrogatorio durato il tempo della domanda,

confessarono di non aver capito una parola fra quelle che, tutte

assieme, componevano la spiegazione di Acìdio- quel lavoro

forse, dato che nelle ultime due settimane il Pallazzo aveva fatto

a meno di lui senza problemi, era inutile. Da indispensabile a

inutile. Una triste fine, al di là della tragica morte.

“La colletta, ma certo!” prese vita a un tratto Seguro, staccando

lo sguardo dagli occhi in rilievo della camicetta di Frenzi. “Sì,

daremo anche noi il nostro contributo.” disse con la faccia di

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circostanza. “Sono i casi in cui vengono buoni gli aumenti delle

trattenute sindacali in busta paga.”

Filo gli inviò un sorriso inceneritore, che gli lasciò i peli della

barba e quelli del cuoio capelluto più rosso bruciato del solito,

ma del tutto intatti quelli del cuore.

“Qualcuno però potevano anche mettercelo in quell’ufficio.”

grugnì Trogola. “Almeno per rispetto verso il morto. Così

sembra che abbia sempre rubato lo stipendio. No?”

“L’uomo è ciò è.” proferì gravemente Motto, il citaredo dei

filosofi, dispensando all’uditorio coatto la sua sottocultura in

pillole. Delle pillole scadute, senz’altro effetto, benefico o

nocivo, che non fosse la commiserazione dell’uditorio stesso.

“E’ vero.” disse Batta in risposta a Trogola “Per dare un senso

alla sua vita. O alla sua morte.”

“Il sindacato che ne dice?” chiese Filo a Segùro.

Il Segùr-sindacalista, dopo un lungo istante di pensosa

riflessione, tirò su le spalle e allargò le braccia. Poi ripartì a

distribuire il dattiloscritto, a caccia di nuovi proseliti di cui far

valere i diritti.

“Il nulla nulleggia.” citò ancora Motto a beneficio dei colleghi,

quasi a volersi occupare del loro metafisico benessere. Al che

questi, con scarso senso di gratitudine, lo mandarono a occuparsi

di qualcosa di più utile al suo metabolismo espulsivo.

* *

La mattina era stata di una lunghezza senza fine per i tanti che

avrebbero voluto fosse passata con la velocità di un treno in

corsa, mentre era schizzata via in un lampo per i pochi a cui

sarebbe piaciuto centellinarne ogni sorsata, al pari di un liquore

fatto in casa. Come al solito, tutto è relativo.

53

In ogni caso era arrivata l’ora della pausa pranzo, e coloro che

non uscivano in battuta alla ricerca di cibo a pagamento

migravano a branchi verso il punto dove il cibo, pure a

pagamento, avrebbero potuto averlo dentro. Il luogo di ristoro

convenuto, la mensa, posta nella parte bassa della cavità

addominale del Pallazzo. All’altezza dello stomaco.

La mensa era gestita da Prorecco, un ex canottiere, ora

rigorosamente con la maglia della salute, che l’aveva

organizzata uguale al suo vecchio “quattro con”. Ai remi,

ognuna fasciata da una divisa verde acqua, le quattro sorelle

Dalton, in perfetto ordine crescente di altezza. Anche se in non

altrettanto perfetto disordine decrescente di imbellettatura -il

necessaire per il trucco era in comune e l’ultima aveva le braccia

più lunghe delle altre-. E ai posti loro assegnati dal capovoga le

sorelle in scala distribuivano rispettivamente primo, secondo,

contorno e dolce. Prorecco, al timone della cassa, dava il tempo.

“Oh... òh!” partì scandendo forte e chiaro il timoniere nel dare il

via al proprio metronomo interiore, e le quattro donne, quasi

fossero un sol uomo, allungarono i piatti alla fila dei mensaioli:

primo, secondo, contorno e dolce.

“Oh... òh!” altro primo, secondo, contorno e dolce, mentre

Prorecco incassava dal primo.

“Oh... òh!” ancora un giro di portate, con Prorecco che

riscuoteva dal secondo.

Tutto scorreva in modo fluido, senza strappi o cedimenti, con le

otto braccia che sembravano i tentacoli di una macchina di

precisione. Se qualcuno della fila saltava il primo o il secondo,

o prendeva due contorni o due dolci, le Dalton alle postazioni

rispondevano come addestrati automi ai comandi, saltando il

giro o servendo doppio. E anche a chi per dieta o vocazione non

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fruiva della mensa, le sorelle in scala dedicavano un affettuoso

pensiero prima del varo del servizio.

Verso fine percorso poi, con un quarto di fila ancora da servire,

Prorecco, memore dei canottieri tempi, incrementava il ritmo,

per piazzare la volata finale in vista dell’arrivo. Le quattro

donne, le facce trasfigurate dallo sforzo, i nervi delle braccia

tumefatti, i polmoni che ingerivano e scaricavano fagotti di aria

pesante -tanto da rendere non propriamente incontaminata l’aria

circostante-, le quattro atlete assecondavano a fatica gli “oh...

òh!” sempre più ravvicinati del capovoga. Per profondere le

ultime energie nello sprint conclusivo, a pochi piatti dal

traguardo. Il servizio mensa veniva così ammannito a tempo da

finale olimpica, con a fine gara le vogatrici, stremate, piegate in

due sul bancone, e il capovoga, senza fiato, accartocciato sulla

cassa. Una squadra vincente.

Quel giorno in mensa non si fece che parlare della voce che

aveva preso ormai stabile alloggio al centro del Pallazzo,

relegando negli angoli le altre. Di quella pratica che non si

sapeva bene che fine avesse fatto, ma che si sapeva ancor

meglio dovesse essere trovata a ogni costo. Naturalmente la

voce, al pari di tutte quelle che, pur con minore intensità

tensiogena, circolavano nel Pallazzo, andava scrupolosamente

controllata, poiché fra quei vetri non era infrequente che un fiato

qualunque diventasse voce.

Quando però furono visti approdare in mensa il Nero e il Grigio,

più bui di una notte senza luna, consumare a occhi bassi un

tozzo di verdure gualcite, e sciogliere nel bicchiere un antiacido

per digerirle, fu chiaro per tutti che quella voce non era un fiato

qualunque. Anche per uno scettico come Filo.

* *

55

La morte di un inquilino coatto del Pallazzo era sempre un fatto

increscioso. Più per chi continuava a rimanere tale che per chi

smetteva definitivamente di esserlo.

Bisogna sapere che in quell’alveare di cristallo ognuno aveva

una sua precisa funzione. A volte inutile, ma comunque precisa.

Facile o difficile che fosse, importante o meno, ma l’aveva. E

l’abbandono improvviso della stessa da parte di uno che, sia

pure per motivi non strettamente dipendenti dalla sua volontà, si

toglieva di torno una volta per tutte, inguaiava quelli che

restavano. Costringendoli a svolgere, oltre al proprio, anche il

lavoro dell’ex.

Per questo era fortemente sconsigliato agli occupanti del

Pallazzo di tirare le cuoia quando in ufficio c’erano colleghi in

ferie o in malattia. Per non caricare di un ulteriore,

insopportabile fardello quelli che non avevano la fortuna di

essere in ferie e non erano in mutua.

Non che non si potesse morire, beninteso. Nessuno si sarebbe

mai sognato di porre d’autorità un simile veto. Solo che anche

la morte, come tutto quello che succedeva fra quei vetri, andava

regolamentata. Programmata con cura, pianificata per tempo,

concordata coi colleghi. Dopo di che si poteva anche morire.

Ma senza preavviso no, non si poteva. Almeno nei limiti del

possibile, mostrando di aver ceduto solo dopo impari e inutile

lotta.

Andare all’altro mondo senza un minimo di preavviso era segno

di scarsa considerazione verso l’ufficio e i colleghi tutti.

Viceversa andarsene accampando un poco di tempo prima una

qualche forma di malessere, qualcosa da cui i compagni di

lavoro potessero presumere, sia pure vagamente, quale ipotetica

congettura, l’eventualità che chi lo accampava potesse

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defungere, era segno di rispetto verso l’uno e verso gli altri. In

tal caso infatti il Pallazzo aveva la possibilità, per quanto solo

teorica, di sostituire per tempo il morituro. O almeno aveva

modo di aspettarsi che da un giorno all’altro questi potesse

chiudere per sempre i rapporti coi suoi vetri, e fosse perciò

chiamato a sostituirlo in tempi brevi. Il fatto che la morte

sopravvenisse a volte coi caratteri della più inaspettata delle

sorprese, non giustificava il destinatario del ferale evento dal

non averlo in qualche misura previsto.

Parimenti il matrimonio di un inquilino forzato del Pallazzo era

un fatto increscioso. Sempre più per chi continuava a rimanere

tale che per chi rinunciava in perpetuo alla propria libertà. La

doppia settimana di licenza concessa a chi convolava a nozze

ricadeva infatti su quelli che restavano, obbligandoli a sbrigare,

in aggiunta al proprio, pure il lavoro di chi, sebbene solo

provvisoriamente, aveva preso il volo. Anche il matrimonio

dunque, al pari del trapasso, andava regolamentato.

Programmato, pianificato, concordato. Insomma, si doveva

chiedere il permesso. Prima al Pallazzo che alla futura sposa. O

al futuro sposo.

Così allo stesso modo qualunque richiesta di lasciare l’ufficio

anche solo per poche ore, causa imprevisti motivi personali o di

famiglia, andava programmata per tempo. In un certo senso,

prevista in anticipo. Tutto come in una grande, ingombrante

famiglia.

Queste erano le regole non scritte del Pallazzo. Regole a cui

Acìdio s’era volutamente sottratto. O a cui non sembrava aver

ceduto dopo impari e inutile lotta. Nessuno però aveva avuto il

coraggio di aprir bocca. Forse perché la morte aveva osato farsi

viva proprio lì dentro. Meglio fingere che non fosse mai venuta.

Che non fosse successo niente.

57

* *

Uscito indenne dai condimenti della mensa, Filo, prima di

tornare alla base, volle cercare di saperne di più della misteriosa

pratica scomparsa. Decise perciò di raggiungere un ufficio

lontano. Dopo una camminata che ne favorì la digestione, entrò

in un salone dove uno lavorava e gli altri stavano a guardare. Era

l’ufficio del Nardone.

Nardo, detto Nardone; quello che lavorava per dieci. Occhio di

bue, aria da vitellone e forza di toro, con la mansuetudine

propria di tutti i bovini. Nardone era il più gran lavoratore del

Pallazzo, il più veloce, il più continuo. Uno che, in aggiunta al

suo, trovava il tempo di fare anche il lavoro degli altri. Di

aiutare i compagni di stanza che, non avendo voglia di far

niente, con la scusa dell’arretrato ne pietivano l’aiuto.

Ogni tanto Nardone, che pure aveva una fede incrollabile

nell’onestà dell’uomo in generale, e di conseguenza della donna,

sempre in generale -era nel particolare che la fede vacillava-,

ogni tanto Nardone aveva il sospetto d’esser preso per i fondelli

e andava su tutte le furie. Ma un attimo dopo esserci andato

tornava quello di prima e riprendeva a lavorare per dieci.

Non era mai stato promosso; non l’aveva mai chiesto. Pensava

che il suo lavoro avrebbe parlato per lui, e che le promozioni

sarebbero arrivate da sole, senza chiedere. Quel lavoro però era

sempre stato muto, circondato dall’omertà dei suoi interessati

coinquilini e degli ancor più interessati dir, la cui unica

preoccupazione era lasciare le cose come stavano.

Sarebbe bastato andare a lamentarsi da chi contava, minacciare

di fare quello che facevano regolarmente i compagni di

concubinato coatto, pura presenza. O, in alternativa, battere i

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pugni sui tavoli giusti, inscenando crisi isteriche con impulsi

omicidi -i suicidi non avrebbero sortito lo stesso effetto-.

Sarebbe bastato questo e poco altro per avere un minimo

riconoscimento di tanto sudore. Ma lui non era il tipo.

Continuava a credere, nonostante tutto, che un giorno qualcuno

avrebbe riconosciuto tutto quel lavoro, e l’avrebbe ricompensato

secondo giustizia. Se non in questa, in un’altra vita.

Una volta accadde un fatto straordinario, che lasciò increduli gli

stessi vetri del Pallazzo. Un dir sensibile lo propose per una

promozione al consesso dei capi riuniti in conclave. Era uno

fresco di nomina, perciò non ancora assuefatto a quel processo

di desensibilizzazione progressiva che comporta l’ascensione ai

gradi superiori della scala dir.

“Ha chiesto lui di essere promosso?” domandò all’incauto

proponente il capo consesso, corrugando oscenamente la fronte.

“No, ma lui è convinto di meritarlo. Anzi, lui lo merita.”

“E... pensa che il lavoro potrebbe risentirne se non lo

promuovessimo?” azzardò esitante il corrugato.

“Assolutamente no. E’ troppo perbene per smettere di lavorare.

O per lavorare di meno.”

“E allora perché promuoverlo?!” proruppe il capo consesso nel

rilasciare fronte e braccia, mentre il conclave tutto si dava a

compiaciuti gorgoglii di approvazione.

L’autore della proposta ci rimase. Le orecchie non erano sicure

di aver sentito quello che aveva capito il cervello.

“Veda...” proseguì con l’indulgenza del congiuntivo il capo

accolita. “noi non siamo un ente di beneficenza. “Un soldino

risparmiato qua, è un soldino accantonato là”, diceva mia madre

quando mi teneva sulle ginocchia.”

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Il dir sensibile si sforzò di immaginare il bambino che poteva

essere stato quel concentrato di meschinità e tracotanza seduto

sulle gambe di una madre senza volto, ma non ci riuscì.

“Ebbene, questo è anche il nostro motto.” sentenziò.

Il dir sensibile ci rimase, se possibile, più di prima. Stavolta era

il cervello a non essere sicuro di aver capito quello che avevano

sentito le orecchie.

“Si lasci consigliare.” disse il capobranco annusandolo. L’odore

era ancora da “buono”, ma prometteva di cambiare ben presto.

“Lei è fresco del lavoro, della funzione. Deve tirar fuori le palle!

La sensibilità è un sentimento stupendo, nobilissimo; però da

donne. Noi uomini non ce la possiamo permettere; dobbiamo

far carriera. Le donne perché non la fanno? Perché non

hanno...?” suggerì in punta di lingua.

“L-le palle?”

“Le palle, giusto! Salvo quelle che le hanno, s’intende. Le donne

con gli attributi sono peggio degli uomini. Persino più stronze.

Alla larga!” rise ansimando “E ora al lavoro. E, si ricordi, le

palle!”

“Certo, grazie. Me ne ricorderò.” sussurrò il dir ex sensibile.

Quindi, respinto un conato di vomito, andò in bagno a

familiarizzare col suo nuovo promemoria.

E Nardone continuava ad aspettare.

“Ciao, Nardo.” gli sorrise Filo sulla porta.

* *

Il duo in bianco e nero, dopo aver digerito a fatica anche

l’antiacido per lo stomaco, s’avviò a passo di controllo semplice

verso l’ufficio di Abbio.

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L’abbiente aveva l’occhio spento e un accesso di rigurgito

controllato. Era appena tornato dal pranzo con gli amici. Aveva

mangiato bistecche di struzzo all’australiana, servite con

pomodorini e mozzarellina di pecora australiana, salsa verde con

erbette curative maori, pane e vino, pure australiani. Il tutto

condito dal dialetto bolognese e da un pugno di pettegolezzo

iodato su conoscenti scelti con cura fra gli assenti. Il cocktail

aveva cominciato a dare i suoi frutti. Almeno a giudicare dai

flati che emetteva a ritmo da orchestra cubana.

“Allora?” l’interrogò il Nero.

“Ah, sì.” rispose il flatulente con la lingua infarcita di colla,

stando bene attento a non cementare col palato. Rispondere, in

tal caso, sarebbe stato problematico. “Quel mio amico fanatico

di bit, ram, web, sob ...uh!... oltre che di cd e cdrom ...uh!.. si è

collegato in rete a un suo amico solo rom. Solo che la rete si è

rotta ...uh!... O si è smagliata. E’ uno che veste con due lire e si

mette le cose più strane ...uh!... Per farla breve, ha detto che se

una cosa non si trova neanche col computer ...uh!... per scovarla

ci vuole uno skill ...uh!... voglio dire, una capacità tecnica

particolare.

“Sarebbe?”

“Il buco di culo di chi sbanca un casinò ...uh!...!”

I due del controllo lo fissarono a bocca aperta e con gli occhi

spalancati, prima di guardarsi tra loro e fissarlo di nuovo.

“Ehi, avanzi di indigestione escrementizia, cos’è quella faccia?

...uh!... Lo sapevate anche prima che era difficile. Sarò pure il

mago del computer ...uh!... ma non sono un vero mago.”

I due, dopo averlo spedito mentalmente in un posto più consono

ai flati, uscirono.

“Che facciamo?” chiese con una faccia da naufragio il Grigio al

Nero.

61

Quando le cose andavano male, ma così male che peggio non

potevano andare, ci si rivolgeva ai creativi, un ufficio in staffa a

quello degli angeli. Se si doveva trovare una pratica che non si

riusciva a trovare, né dentro la sua carpetta, né infilata per errore

in un’altra, i creativi, con l’aiuto anche di esperti rilegatori

pallazzeschi, carpettieri finiti, ne creavano dal nulla una finta.

Una pratica compiuta, con tutti i crismi. Identica a quella

smarrita. Solo un occhio esperto, avvezzo agli originali, e con

una certa pratica di falsi, avrebbe forse potuto accorgersi della

differenza. Ma senza scommetterci sopra niente di troppo

impegnativo. Un falso certificato vero.

Perché creare una pratica falsa, qualche lettore più sveglio di

altri potrebbe chiedersi. Così come continuava a chiederselo

qualche inquilino forzato del Pallazzo meno intelligente di altri.

Semplicemente per far vedere che fra quei vetri non c’era spazio

per l’errore umano. Nel palazzo di cristallo l’errore perdeva la

sua qualità di inevitabile, connaturata inerenza all’essere primo

del creato e a tutto ciò che gli è proprio, per diventare parte di un

essere diverso. Un essere inferiore, infimo tra gli infimi.

Nessuno lì dentro sbagliava mai. Fuori era possibile, e anzi

probabile, ma lì dentro no. L’errore era una parola sconosciuta

allo scarno vocabolario del Pallazzo. E chi diceva il contrario

diceva eresia.

Non sarebbe stato difficile per i creativi creare una pratica falsa,

anche se c’era la remota possibilità che qualcuno dall’occhio

lungo se ne accorgesse. In ogni caso ci voleva l’autorizzazione

del direttore e il Nero, al momento, non aveva nessuna voglia di

andare a chiedergliela.

“Facciamo così.” fumò il Nero. “Per il momento cerchiamo di

trovare un colpevole con chiamata di Correo. Un colpevole per

un po’ calmerà il direttore. Per la pratica ci verrà un’idea.”

62

Il Grigio gli sgranò un sorriso adorante, che pure non esprimeva

tutta la clandestina venerazione che nutriva per lui.

* *

Nardo, in omaggio al soprannome, era una specie di gigante che

viveva con un cane, un gatto e un canarino, che insieme

facevano compagnia a una moglie orso. Uno di quei giganti

dall’animo gentile, che fanno dire alla gente “buono come il

pane”. Senza contare che anche in mezzo al pane c’è quello

venuto meglio e quello venuto peggio. Nardo era di pasta buona,

la migliore che genitore potesse sfornare. Un buono rassegnato,

convinto che nella vita ognuno ha un ruolo. Il suo era quello, e

se lo doveva tenere. E se di tanto in tanto perdeva le staffe, era

risaputo che bastava un niente perché le ritrovasse.

Di fronte a lui stava accovacciato Pasco, ultima ruota del carro

in seconda. Grado che si era guadagnato in anni di sudata

indolenza e indefesso lavoro scansato, ossia facendo il meno

possibile col massimo impegno. Pasco era orgoglioso della sua

carriera al contrario, che comportava sì la mancanza di stimoli

ma anche la pressoché totale assenza di problemi. Però non

abbastanza. Il suo traguardo era ultima ruota del carro capo,

obiettivo che gli avrebbe valso tranquillità assoluta e

nullafacenza piena.

“Ciao, Filo, come gira?” rispose Nardo al saluto del suo collega

preferito.

“Solito. E a te?”

“A elica.” replicò Nardo nel guardare Pasco che attaccava

all’album dei calciatori le figurine degli eroi della pedata.

Di spalle al campione dell’indolenza, fronte alla parete, c’era

Irto, l’acculturato, che stava decidendo il nuovo viaggio del

63

circolo ricreativo del Pallazzo. Bendato, aveva appena puntato

l’indice sulle Lofoten, dopo che Eusapio l’aveva girato e rigirato

sulla girevole, per accompagnarlo poi a passo di lumaca a una

carta geografica a muro, contro la quale aveva sparato a caso

l’indice delle decisioni.

Irto era l’organizzatore ufficiale dei viaggi del circolo dei vetri

ed Eusapio l’inseparabile assistente. L’ultima volta avevano

fatto da guida a un gruppo di pensionati pallazzeschi in una gita

nella capitale, con visita al giardino zoologico. Sulla via del

ritorno l’acculturato aveva proposto di fare tappa a Recanati.

“C’è la casa del Leopardi.”, aveva esclamato con l’entusiasmo

di chi crede che una notizia del genere mandi in sollucchero le

coronarie. Fu stroncato da un “I leopardi ai avèn bèle vést al

zardén zoològic. Ch’sa vlèn, vaddar totti al bisti ch’ai é in

Italia?!”, e seppellito da una valanga di risate. Un fragore

collettivo di denti diroccati, dentiere pericolanti e gengive

abbandonate. L’acculturato si sgonfiò come un caco a cui

avessero succhiato la polpa. Si consolò al pensiero che certe

cose non sono pane per certi denti.

“Andare alle Lofoten?! Magari a dar la caccia alle balene?”

sbottò Dimmo, che aveva seguito l’indice di Irto da dietro due

lenti sottili quanto il fondo di un bicchiere da osteria. “Voi siete

matti.”

“Portateli a Cuba i pensionati!” esclamò un altro “Cuba fa

miracoli. Specialmente le cubane.”

“L’avete sentita anche voi la voce che gira nel Pallazzo?” chiese

Filo a Nardo.

* *

64

Il direttore, dopo la pausa pranzo, aveva ripreso a ruotare

intorno alla scrivania, però con passo più veloce. Il vortice

podistico del mattino, prima dell’arresto provocato dalla

chiamata di Scaltro, non era riuscito a convincerlo che la storia

della pratica sarebbe finita bene. Soprattutto aveva smesso da un

pezzo di credere nelle favole.

Si ricordò, non senza fastidio, di quando, bambino, correva con

la foga dell’età attorno al tavolino della stanza se qualcuno lo

sgridava. Quasi che quel correre in tondo e a perdifiato potesse

in qualche modo cancellare la sgridata. Anche a scuola aveva

continuato, di nascosto alla famiglia, per eliminare, sempre

senza risultato, qualche brutto voto. Persino all’università,

quando fu buttato fuori all’esame di Direzione Aziendale -ironia

della sorte, lui che da sempre aveva voluto fare il direttore-,

circumnavigò il tavolo di studio fino all’alba. Poi non gli era più

capitato di cadere vittima di quell’ipnosi peripatetica. Buon

segno, aveva pensato, si vede che da allora le cose erano sempre

andate per il verso giusto. Ora però, di fronte a quella stupida

ma apparentemente irrisolvibile difficoltà, quel tic da reazione

ansiosa incontrollata gli aveva ripreso testa e gambe.

Quell’ipnosi peripatetica, però, finora era stata solo peripatetica

e basta. Senza i benefici dell’ipnosi. Forse un passo più spedito

l’avrebbe resa più ipnoticamente convincente. Perciò aveva

aumentato la velocità di passeggio. Quasi s’era messo a correre,

pur con le cautele richieste dagli anni, al pensiero che nella vita

il lieto fine di solito rimane un’illusione.

La scrivania sulla cui asse orbitava il direttore satellite era

affollata di posta, in partenza, in arrivo e stanziale; di documenti

da firmare, alcuni urgenti altri di più; di provvedimenti, ordinari

e straordinari. Una montagna di fogli, nobilitati dal contenuto

scrittografico dei medesimi.

65

Tutti gli altri giorni questa moltitudine di carta ruotava intorno

al direttore, sollecitata dalle abili mani della sua segretaria

particolare, che gli porgeva i documenti da firmare e glieli

toglieva al ritmo sincopato occhiata-firma. Quel giorno invece

era lui a ruotare attorno a questa folla di carta immobile, che

assisteva impotente alla propria inutilità.

Gli effetti dell’orbita circolare del satellite stavano cominciando

a ripercuotersi sui legni pregiati del parquet. Legni che, abituati

com’erano a sopportare il solo peso della nobile aura

direttoriale, e soltanto di rado anche il pur nobile piede, avevano

iniziato a emettere trattenuti scricchiolii di dolore. Quando il

direttore si fermò, andò a sedersi e afferrò il telefono,

mandarono un sospiro di sollievo, stirando nervature e masselli.

“Novità?” chiese minaccioso al Nero.

* *

“Trovare un colpevole con chiamata di Correo?! Questa sì che è

un’idea!” esclamò con affettata ammirazione il Grigio al Nero.

Non prima di aver steso un pietoso velo sulla sua memoria a

breve, per nasconderle che il suggerimento era partito

dall’abbiente per antonomasia. “Lei è un genio!”

“Beh, insomma...” si schernì il Nero, che cominciava a trovare il

Grigio, oltre che acuto, sempre più simpatico. Mostrava di

avere i numeri giusti per puntare a una luminosa carriera.

“Prima però dobbiamo pensare a un colpevole. Uno qualunque.

Poi si chiama Correo.”

Correo era un capro espiatorio da compagnia. Uno il cui lavoro

consisteva unicamente nell’aspettare. Nel far passare il tempo in

attesa di una chiamata. Capitava talvolta che un qualche

inquilino di quei vetri commettesse un atto che andava contro

66

una delle tante regole del Pallazzo. Come mettersi una penna in

tasca, fotocopiare un foglio non squisitamente lavorativo, non

tenere la destra, non rispettare, coi fatti o con parole, il proprio

dir -i pensieri la passavano liscia, ma solo per mancanza di

delatori-, marinare l’ufficio con false malattie, aggravare

malattie non abbastanza gravi da autorizzare la marinata e via

dicendo.

Erano i casi in cui si procedeva alla chiamata di Correo, che si

affiancava così all’autore della malefatta. L’effetto era di

dividere per due il senso di colpa e di vergogna del colpevole, e

favorire in tal modo il reinserimento dello stesso nel tessuto da

groviera del Pallazzo. Correo riceveva per questo un regolare

stipendio, più una speciale gratifica nei casi in cui veniva

chiamato fuori orario o la colpa dell’altro esponeva a pubblico

ludibrio.

La scelta del colpevole si indirizzò ben presto su Frollo, uno

dell’altra sponda, non solo politica. Il colpevole ideale. Restava

la pratica, che nessuno dei due aveva idea di dove andare a

cercare.

Il Nero stava maturando un disegno a tinte fosche. Un disegno

che forse gli avrebbe fatto perdere in un colpo moglie e figlie.

Se già non le aveva perse negli anni passati, quando alle

esigenze della famiglia aveva sempre anteposto quelle del

Pallazzo.

Non rientrare per cena e saltare l’appuntamento coi Fasti

significava probabilmente perdere la consorte, ma non trovare la

pratica significava di sicuro perdere il posto. Di compagne, in

fondo, poteva anche trovarne un’altra, di lavori con uno

stipendio pari a quello no.

“Senta, Grigio, che impegni ha stasera?” chiese al suo vice. Il

suo futuro e, al momento, ignaro compagno d’avventura.

67

Il compare gli stampò in faccia un punto interrogativo gigante,

prima di penzolargli dalle labbra come un frutto maturo

dall’albero.

“Che ne dice di farmi compagnia?”

“Sta-stasera?”

“Stasera, stanotte... Anche fino a domattina, se necessario.”

Il Grigio fu percorso da una scarica ad alto voltaggio, che per un

istante lo rese più trasparente del Pallazzo, lasciandolo esangue

ma vivo. E’ da quando sono qui che aspetto questo momento, si

trovò a pensare ancora caldo, prima di licenziare un fuggevole

cenno d’assenso all’autore della proposta indecente.

“Bene” disse il Nero “Stanotte faremo le ore piccole. Stanotte

troveremo la pratica.”

Il Grigio sbiancò di delusione, per riprendere colore solo

lentamente. Quasi che una parca maldestra gli avesse tranciato il

filo della vita e subito dopo gliel’avesse riannodato. Tanto da

non sentire la chiamata del direttore, che voleva sapere a che

punto erano con le ricerche.

“Siamo sulla buona strada.” rispose il Nero al pensiero di tutta

quella che li aspettava nottetempo. Quindi posò la cornetta e

ritirò il braccio, sudando freddo al pensiero che di lì a un istante

avrebbe dovuto prenderla di nuovo in mano.

* *

“Se abbiamo sentito quella voce?” ripeté la domanda Nardo per

dar nerbo alla risposta “Quella non è una voce, è una corale.

Pare ci sia di mezzo un pezzo grosso.”

“Addirittura?!“ esclamò Pasco chiudendo l’album delle figurine

e pensando a come smaltire le doppie.

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“Un tizio s’è invaghito di una pratica che è sparita. Si sono

offerti di dargli tutte quelle che vuole. Chiare, scure, mulatte, dai

nomi esotici, anche minorenni, persino gratis, ma lui vuole solo

quella. La vuole a tutti i costi.”

“Avete sentito che colpo?!” sboccò un’apparizione vietata ai

minori spalancando la porta dell’ufficio, prima di avanzare

ancheggiando pericolosamente.

Era la Murena, l’inquilina più vorace del Pallazzo, che alludeva

a modo suo alla voce della pratica scomparsa.

La Murena trasudava libidine a ogni sguardo, erotismo a ogni

sospiro, sensualità ad alta gradazione a ogni muto cenno di

labbra. Quando entrava in ufficio le patte intonavano

l’alzabandiera.

“L’abbiamo sentito eccome!” rispose Pasco prendendo

coscienza delle parti basse.

“Altroché!” convenne un altro mentre si sistemava i gioielli di

famiglia.

“Un bel colpo davvero!” ribadì un altro ancora, ringalluzzito nel

punto elle.

“Pazzèsco!” commentò l’apparizione con un’inflessione

lombarda -aveva fatto un po’ di dizione, ma faceva confusione

con gli accenti. Teneva acuti i gravi e gravi gli acuti, dando vita

e forma a un nuovo idioma erotico-padano.- Quindi girò a

compasso le paraboliche e uscì ancheggiando altrettanto

pericolosamente di com’era entrata. Un pericolo incombente per

tutto il traffico del Pallazzo.

Tutti si chiedevano se la Murena era così o ci faceva, e ognuno

dava la sua risposta. Chi diceva che era un’ingenua, chi una finta

ingenua, chi una finta ingenua per finta. In realtà non lo sapeva

nessuno; neanche lei. Era così e basta.

69

“Allora è una cosa seria.” parlò Filo per primo, infrangendo la

bolla a luci rosse che aveva montato la Murena.

“Pare abbiano chiesto ad Abbio, ma gli è andata buca.” replicò

Nardo.

“Almeno si sono accorti che bluff è Abbio. Lui e la sua fama di

mago del computer!”

“Già. Comunque di quella voce ne sentiremo parlare ancora.”

“Questo è sicuro. Ora scappo, torno nel mio loculo. Ti saluto,

e... non lavorare troppo.”

“Stai tranquillo” lo rassicurò Nardo prendendo sottobraccio le

pratiche di Pasco, che intanto s’era messo a leggere “Tex Willer

contro Mefisto”.

Nell’uscire Filo decise di prendere una scorciatoia e di

attraversare l’ala meno frequentata del Pallazzo, l’ala rotta, da

cui non era mai passato, e di cui si raccontavano le cose più

strane, più incredibili.

L’ala rotta era quella parte del palazzo di cristallo che non era

stata ancora bonificata -i lavori per il risanamento delle strutture,

l’ammodernamento degli impianti e il rinnovo degli arredi si

diceva venissero rimandati di anno in anno, in attesa di quello

buono per avere un contributo in danaro dalla capitale. In realtà

si sapeva che quei lavori non sarebbero mai iniziati-. Era

qualcosa di non lontano da una costruzione fantasma, con i vetri

sporchi o rotti, luci e lampade come sopra, attrezzature fatiscenti

e uffici semideserti. E con personale poco raccomandabile a

infestarne i corridoi. Un posto dove neanche gli addetti alla

sicurezza pallazzesca mettevano piede volentieri. Il Bronx del

Pallazzo.

Era l’ala riservata gli inquilini cosiddetti difficili. Coloro che, a

torto o a ragione, ma quasi sempre a torto, non erano più

considerati utili alla causa del Pallazzo e alla sua economia da

70

vetrina. Emarginati per ragioni di salute, fisica o mentale,

mancanza di appoggi e carri giusti. Gente che vantava colpi di

testa, attacchi d’estro, di vittimismo o di autocompiacimento,

oltre a manie varie, di persecuzione come di grandezza. Ma

anche bioritmi truccati, distonie neurovegetative acute e crisi di

astinenza da talk show. Turbe tali da non poter essere

considerati “normali” al pari degli altri abitatori di quei vetri.

Filo frattanto era arrivato nel settore riservato ai carrieristi in

disarmo, l’unico dotato di uffici degni di questo nome, sia pure

con le scrivanie girate contro il muro. All’improvviso da dietro

un angolo del corridoio si sentì rompere gli argini un urlo

disumano, da fiume in piena. Filo rizzò il pelo. Si guardò

intorno; non c’era nessuno. Rallentò il passo, tese tutta la sua

inesistente muscolatura e proseguì in punta di piedi. Arrivato

all’angolo trattene il fiato, inspirò profondamente, contò fino a

tre, poi scattò in avanti con un balzo, in un’improbabile mossa di

lotta giapponese. Si ritrovò di fronte l’espressione assente e i

ricci rappresi di Amber.

* *

Nel momento in cui il Nero riprese in mano la cornetta la sentì

bruciare. Sapeva cosa succedeva in questi casi. Lui che si

scusava con la moglie perché un impegno improvviso lo

costringeva a fermarsi in ufficio, lei che protestava che non era

possibile che dovesse far sempre tardi, che le sue figlie non

avevano un padre né lei un marito; lui che ribatteva che però lo

stipendio le faceva comodo ogniqualvolta, ai cambi di stagione,

lei e le gemelle rinnovavano il guardaroba, lei che gli rispondeva

per le rime; lui che replicava in versi, lei che gli buttava giù il

telefono. Lui che restava con un palmo di cornetta in mano.

71

Questo nei casi in cui la moglie non aveva preso un impegno per

il quale gli aveva fatto giurare e spergiurare che ci sarebbe stato

anche se fosse saltato in aria il Pallazzo, come quella sera.

Già era arrivato tardi alla cena con gli Smàila, i re della pasta

dentifricia, che ne aveva fatto la famiglia più sorridente della

città -non tanto per la pasta in sé quanto per il ritorno in termini

di conquibus che gliene derivava-. Già lì aveva rischiato. Però

era arrivato. In ritardo, ma era arrivato. Quella sera invece stava

per chiamare per dire che non sarebbe arrivato affatto.

Il Nero era sempre tornato a casa tardi. I primi tempi, semplice

impiegato, per far carriera, quando però lo straordinario serviva

alla moglie per far quadrare il conto degli extra. Poi, diventato

dir, per salire i gradi della scala dir, senza però gli straordinari

pagati.

Qualche tempo prima aveva avuto una relazione con una

giovane impiegata del Pallazzo. Una tipa niente di speciale, che

non nascondeva di usare le sue grazie per averne un qualche

vantaggio. Una storia solo di sesso, senza un sorriso, una parola

complice. Un semplice scambio di liquidi. Un baratto, la cui

differenza era data solo dalle proprietà del prodotto finito: fresco

quello di lei, a lunga conservazione quello di lui. Una storia così

deserticamente arida che a volte lui, mentre era con lei, riusciva

ad avere nostalgia della moglie, che a suo modo continuava ad

amare. La relazione finì allorché alla sua ganza del deserto si

offrì l’occasione di un baratto più vantaggioso.

Nel momento in cui il Nero pose mano alla cornetta, dunque,

già sapeva quello che sarebbe successo. Sapeva che la moglie gli

avrebbe gridato che era l’ultima volta, l’ultima che gli avrebbe

organizzato qualcosa per allargare i suoi orizzonti, fargli

conoscere gente che conta. Che non era più il caso che si facesse

72

vedere per i prossimi mesi, e per i mesi a venire dopo di quelli.

Che era finita, finita per sempre.

Questo sapeva che sarebbe successo, e questo puntualmente

successe.

* *

“Senta, la conosce lei questa fotocopiatrice?” chiese Amber con

uno sbotto di stizza.

Filo si sciolse da quella ridicola posizione di burattino

giapponese per assumerne una più normale. Quella di chi sale

per la prima volta su un palcoscenico e non sa dove mettere le

mani, che fare delle gambe e cosa guardare, se lei che sbottava o

il mostro meccanico che la faceva sbottare. Con in più una

domanda nel cassetto, in che modo era potuto uscirle quell’urlo

ferino.

“Scusi, le ho chiesto se conosce questa fotocopiatrice.” lo

incalzò con un’insistenza da televenditrice Amber. Forte, fra gli

altri, di un master polimorfico in abbattimento di tempi quasi

morti, sintesi di frasi fatte e contrazione di gap dialogico-

mentali.

Gli aveva dato del “lei”. Come avrebbe potuto familiarizzarci,

casomai ne avesse avuto il coraggio? Poi si ricordò che al liceo

il suo professore di filosofia dava del “lei” alle femmine e del

“tu” ai maschi. E a chi gli chiedeva il perché rispondeva che il

“lei” era la forma ideale per far nascere una passione d’amore,

mentre il “tu” era troppo fraterno, asessuato. Di un giovanilismo

forzato, che teneva lontano l’amore e la passione. Che avesse

conosciuto anche lei il suo professore di filosofia?

“Mi si è inceppata la carta! Vuole aiutarmi?!” s’incalorì,

vedendo che non riusciva a mettere in pratica il suo master. A

73

che era servito studiare tanto per ottimizzare ogni singolo

aspetto della vita lavorativa, se poi falliva nelle cose più

elementari?

Filo la guardò in viso. Era slavata, senza trucco, gli occhi gonfi e

i ricci secchi. Anche lei doveva essersi inceppata, non meno

della vecchia copiatrice dagli intestini ingrippati.

“Allora, la conosce questa macchina?” brontolò con un rantolo,

la voce ridotta a un rubinetto senz’acqua.

“No.” rispose finalmente Filo. “Però sono tutte uguali. Posso

guardarci.”

Filo armeggiò con tutta la perizia di cui era capace, che era da

numeri negativi, stante l’idiosincrasia innata per il fai-da-te, ma

alla fine raggiunse lo scopo. Riuscì a sbloccare il mostro

meccanico e, dal sorriso di consolazione che sfuggì ad Amber,

ebbe l’impressione di aver sbloccato anche lei.

“E’ vera la voce che si sente in giro?” lampeggiò a un tratto

l’affrancata fonte di quel sorriso con la faccia spiritata.

* *

Toniriccio era appena stato in bagno. Aveva occupato lo

specchio con la sua faccia larga, i capelli neri pettinati

all’indietro e il pizzo spruzzato. L’immagine di quel viso tronfio

e quel busto pieno gli aveva smosso un moto d’orgoglio. Poi

s’era raddrizzato la cravatta e sistemato la giacca. Una fortuna

quella mattina aver messo l’abito blu, che ne metteva in risalto

la pelle chiara e gli occhi scuri. Di certo aveva contribuito a far

colpo sulla rossa. Quindi s’era girato impettito verso la tazza,

aveva sbottonato i pantaloni e dato la stura alla sua acqua. Poi

aveva ripetuto al contrario, ma con movimenti più lenti, quasi

affettati, i gesti dell’andata, ed era rientrato nella sua stanza.

74

“Ancora un’ora e poi...” disse Toni una volta seduto, salutando

l’ufficio prima con la mano e poi con la mente.

Pfazzi lo guardò in silenzio. L’avventura in ascensore le aveva

esaurito l’adrenalina. Anche la mosca non si divertiva più a

girarle intorno, dal momento che la sua mano ora non faceva

niente per allontanarla.

“Dove la porti?” gli chiese Mosso, il dirimpettaio di scrivania.

“E’ importante il primo posto dove porti una donna. Dice tanto

di te, e di quello che vuoi da lei.”

Mosso viveva nel limbo di un esaurimento nervoso che gli era

venuto dopo che la sua compagna l’aveva lasciato. Era uscita

una sera con la scusa delle sigarette e non s’era più fatta vedere.

Per un po’ Mosso l’aveva aspettata, poi, pensando anche al fatto

che lei non fumava, aveva smesso. Se n’era fatto, in certo qual

modo, una ragione. L’esaurimento gli venne quando la rivide

abbracciata a una squinzia con l’ombelico scoperto. La sua “lei”

era diventata un “lui”, con tanto di barba lunga, baffi e àncora

tatuata su un bicipite. A dire il vero lui non la riconobbe; fu lei a

farsi riconoscere mostrandogli le sigarette comprate quella

famosa sera. Tutto il resto era venuto di conseguenza. Al che a

Mosso era parso di capire in tutta la sua pregnanza il messaggio

che stava scritto sul pacchetto: “Nuoce gravemente alla salute”.

E da quell’esaurimento non si era mai ripreso del tutto,

nonostante una serie di psicoterapie brevi, durate più a lungo del

previsto, presso alcuni professionisti iscritti all’albo degli

psicologi nel ramo degli inguaribili ottimisti.

Come la maggior parte dei suoi simili Mosso era una sorgente

zampillante di buoni consigli per il prossimo, ma non era in

grado di darne uno solo al prossimo più vicino che aveva, lui. E

questo per la mancanza di certezze che l’esaurimento gli aveva

lasciato in dote. Un’eredità a cui non aveva avuto la forza di

75

rinunciare. E per superare le paure che a volte gli chiudevano la

gola era solito bisbigliare a se stesso un sommesso “Vai

tranquillo.”, avendo cura che nessuno lo sentisse. La tensione

con cui gli usciva però era tale che lo sentivano tutti.

“Dove la porto?... Ma a ballare, no?!” rispose il riccio

innaffiando di gel i capelli. Il primo passo verso la

trasformazione in animale da discoteca. “Anzi, prima a cena

fuori e poi a ballare.”

“A ballare?! Ma bravo! Non potresti dirle in modo più chiaro

quello che vuoi da lei!” gracchiò sprezzante Prudi, la moralista.

“Piantala, bacchettona! Pensa ai tuoi rododentri!” ribatté Toni in

malo modo.

Prudi ebbe un sobbalzo, poi, dopo averlo fulminato con

un’occhiata al veleno, si addormentò, fulminata a sua volta.

Prudi soffriva di una rara forma di letargia nervosa, che faceva

sì che quando qualcuno la contrariava, lei prima trasaliva, poi

cadeva addormentata. Il suo medico, vista l’inesistenza di un

farmaco specifico, aveva raccomandato al marito di non

innervosirla. Specie in auto, con lei al volante.

Per evitare la narcolessi si era sottoposta a una serie di terapie

sperimentali, prescritte da una psicoterapeuta che non tollerava

d’esser contraddetta neanche dall’orologio. Terapeuta a sua

volta in cura da uno psicanalista che ne portò in luce il

complesso da ora esatta. Queste terapie consistevano nel

prendere la parola in riunioni di condominio di quartieri

malfamati, nel partecipare a discussioni sul calcio in bar di

periferie degradate, e nel trovare da ridire sul prezzo del pesce ai

mercati generali. Tutte senza risultato che non fosse la chiamata

della polizia, a evitare che la svegliassero a suon di sberle.

“Buonanotte.” sussurrò Toni, premuroso quanto la matrigna

delle fiabe.

76

* *

Anche il Grigio doveva telefonare che quella sera non sarebbe

rientrato. Non a una moglie, di cui era sprovvisto, ma alla

madre, di cui, com’è noto, sono tutti provvisti. Almeno alla

nascita. Una mamma che non vedeva l’ora che suo figlio si

trovasse una brava ragazza, facesse un buon matrimonio e

avesse dei bei bambini. Magari anche facendo a meno di

qualche aggettivo. Una mamma che si chiedeva anzi perché mai

quel figliolo non si fosse ancora trovato una fidanzata, dal

momento che era un bel ragazzo e piaceva alle donne. Non

sapeva che erano le donne a non piacere a lui.

Quella sera il Grigio realizzava il sogno che aveva accarezzato

dal giorno in cui aveva messo piede nell’ufficio del controllo:

passare una sera, forse una notte, in compagnia del suo capo.

Non certo a fare le cose che ci faceva con la fantasia, ma a

lavorare, a cercare una stupida pratica che aveva deciso di

sparire nel momento meno opportuno. Una pratica però senza la

quale non avrebbe realizzato quel sogno, almeno quella sera, e

che dunque non avrebbe potuto sparire più opportunamente.

Però doveva essere prudente. Nell’ambiente sarebbe stato molto

pericoloso scoprirsi. Letale, addirittura. Vedere Frollo per

credere.

Frollo, il colpevole designato da affiancare a Correo, era un

inquilino forzato del Pallazzo che percorreva, e dichiarava

apertamente di percorrere, binari, pur paralleli, diversi da quelli

percorsi da tutti gli altri. A differenza di alcuni, che li

percorrevano di nascosto, senza dichiararlo. Binari che lo

portavano a essere attratto dagli uomini e dalle idee di un certo

giacobinismo estremo. Laddove quelli canonici andavano invece

77

verso le rassicuranti idee che nel compasso costituzionale stanno

giusto sotto la sua punta e verso le donne. Non necessariamente

una soltanto. Nel Pallazzo l’adulterio non aveva una

connotazione negativa, salvo quando si faceva del falso

moralismo a beneficio dei suoi occupanti. Farsi un’amante era

anzi il segno di una raggiunta posizione di preminenza e di

successo, a patto di tenerla rigorosamente segreta ai più ma

altrettanto rigorosamente nota ai meno, cioè al gruppo dei pari

che l’aveva e si vantava al suo interno di averla. E magari di

cambiarla a tempo di paso doble. Gruppo che, salvo radi e ben

dotati fusti, era per lo più costituito da dir, i quali sembravano

essere i soli ad avere le qualità richieste da un’amante.

E per questo suo non allineamento al modo di essere come al

modo di pensare che andava per la maggiore nel palazzo di

cristallo, Frollo aveva finito col diventare l’univoco nonché

prediletto bersaglio di qualsivoglia addebito il Pallazzo

muovesse ai suoi inquilini coatti. Di qualsiasi atto contro i suoi

vetri veniva immediatamente sospettato, indagato e accusato

Frollo. Anche se non era mai stato condannato per nessuna delle

accuse di cui era imputato unico ed esclusivo. Era troppo

intelligente per esserlo, e aveva sempre saputo difendersi meglio

di quanto non avesse saputo accusarlo la pubblica accusa

pallazzesca. Frollo gli era simpatico per questo, però non era il

suo tipo. Aveva una punta di eversivo in eccesso per i suoi gusti.

Con una certa patina di insurrezional-popolare che gli faceva il

muso imbronciato dei bambini cattivi, per quanto infinitamente

più inoffensivo di questi. Lui era per tipi più tranquilli, più

inquadrati. Per una “diversità” più “normale”.

Chiamò la vecchia madre. L’aveva avuto tardissimo, dopo

averlo cercato per anni. Così tardi che ormai aveva quasi

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rinunciato a cercarlo. Ecco perché quel figlio era per lei molto

più di un figlio. Era tutta la sua vita.

Le parlò di un impegno di lavoro. Un impegno improvviso,

importante; decisivo per la sua carriera. Le spiegò di qualcosa da

trovare, di una faccenda delicata da risolvere.

Dopo essere stata a sentirlo senza ascoltare, gli sussurrò: ”E’ per

una donna?”

“Sì.” sospirò il Grigio dietro a una pausa, per non deludere le

aspettative materne. In fondo, nella coppia era lui che faceva

l’uomo.

“Come si chiama?” gli chiese con un filo di fiato.

“Nerina.” rispose dopo un poco, e buttò giù il telefono.

* *

“Se è vera la voce che si sente in giro?” ripeté Filo a pappagallo,

con la meraviglia della festa che la notizia fosse arrivata anche

nell’ala rotta.

Non riusciva a capire Filo come le voci riuscissero a prendere il

largo nel Pallazzo, a fare scalo in ogni suo porto e mettervi

radici. Quale vento ne gonfiasse le vele. In un posto del genere,

poi, dove le notizie filtravano dopo mesi, lasciate a se stesse a

mo’ di messaggi in bottiglia. In che modo riuscivano ad arrivarci

in quell’isola selvaggia, senza legge né dio? Quale soffio,

umano o meno, le spingeva? Inutile chiederselo, era così e basta.

Nel Pallazzo le voci si diffondevano più delle malattie infettive

in un asilo di pargoli di virus. Ala rotta compresa.

“Sì” disse spassionato.

“Dài, raccontami!” sprizzò Amber.

Era passata al “tu”, e Filo non sapeva se esserne contento.

Continuava a girargli in testa quella famosa frase del suo

79

professore di filosofia, il mito dei suoi anni verdi. Che però, al

pari di ogni mito che abbia fatto il suo tempo, cominciava a

diventare sempre più ingombrante. A condizionare la sua vita,

già abbastanza condizionata dai periodi ipotetici nelle parole e

da una puntigliosa incertezza nelle azioni. Le omissioni erano

quelle che gli venivano meglio.

Filo le raccontò quel poco che sapeva, condito con quel tanto

che la fantasia gli suggeriva. Le raccontò una storia di servizi

segreti; una trama torbida, ingarbugliata, fatta di nodi e

passioni, rancori e veleni, segreti e segretarie. E mano a mano

che raccontava lei lampeggiava i fari, stormiva le fronde,

allungava i rami, ridacchiava. Alternava i “no!” ai “dài!” con

l’entusiasmo di un marmocchio davanti a uno spettacolo di

burattini. Si era sciolta; era tornata la bambina che Filo, in

fondo, aveva sempre saputo che era. Una bambina che, smessi i

panni della primadonna, era tornata a vestire i suoi.

“Non è vero.” le disse Filo a fine storia.

Lei ci rimase come su un capriccio irrealizzato, prima di

sciogliere la smorfia in un sorriso di rimprovero.

“So solo che stanno cercando una pratica, e che sembra

importante. Ti sei ambientata qui?”

Amber si guardò intorno smarrita persa, per poi riperdersi a

guardare Filo.

“Ma, ci conosciamo noi due?” gli chiese a un tratto lei. Passata

la stizza prima e l’eccitazione poi, si era accorta di avere di

fronte un perfetto sconosciuto.

“Ti ho visto qualche volta con Fanfara (Giro Fanfara, il suo

volatilizzato pigmalione).” mentì lo sconosciuto, sia pure in

maniera tutt’altro che perfetta “Io mi chiamo Filo; lavoro alle

pratiche del secondo piano.”

80

In quel momento dal fondo del corridoio si sentì uno scalpitìo

scomposto. Dalla poca luce che filtrava parve di intravedere

all’attonito duo che stava avanzando qualcuno. Avanzava

lentamente, a un’andatura che gli attoniti non avrebbero saputo

definire, ma che il vostro narratore sa essere di tre passi avanti,

due indietro, uno a destra e mezzo a sinistra. A metà corridoio

balzò fuori da un anfratto un tipo leopardato che scaricò in

faccia a quell’essere dal passo incerto un ruggito strappaorecchi,

facendolo scappare a gambe levate. Senza passi indietro o di

lato. Questa è l’ala rotta, sembrò dire a Filo Amber, senza

riuscire a dire niente per la paura.

“Facciamo colazione insieme domattina?” le chiese Filo,

cavalcando da fantino quella paura. Difficilmente la richiesta

sarebbe riuscita a spaventarla più di quanto già era, opinò,

meravigliandosi lui per primo di tanto repentina intraprendenza

e di ancor più repentino opinare.

Lei gli sorrise piano, prima di far andare su e giù i ricci a tempo

di scampato pericolo.

“Passi tu o passo io?” le chiese di nuovo, per non darle la

possibilità di ripensarci.

Lei gli aprì il sorriso, e lui se lo bevve tutto.

“Ho capito, passo io.”

Filo tornò nel suo ufficio tardissimo, ma Prillo non se n’era

accorto. Era rinchiuso nel suo ufficio d’avorio, la piega dei

pantaloni intatta e il lucido a fuoco delle scarpe intonso. La

giacca d’angora era tornata inoffensiva; dormiva accucciata su

una sedia. Stava parlando da solo, compiacendosi delle cose che

diceva non meno di come le diceva. Sentiva solo la mancanza di

uno specchio, per potersi compiacere anche di chi le diceva. In

compenso se n’era accorto Sotto, ma non era un problema, dato

che era fuori marsupio.

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Filo decise di investire il poco che gli restava da lavorare della

giornata lavorando. Venuta l’ora fatidica uscì, a cavallo dei

compagni di stanza che, a seconda dell’ora di entrata nel

Pallazzo, uscivano a spiccioli. S’avviò per le scale a passo di

trotto -prendere l’ascensore in uscita non gli dava lo stesso

anticipo di libertà che gli dava prendere le scale-. Trotto che

cambiò in galoppo appena i vetri gli annunciarono le luci

dell’autobus in arrivo.

Infilò al volo l’uscita, attraversò la strada a rompicollo e tagliò

di corsa le porte del gigante mobile, un attimo prima che si

chiudessero. Sei mesi prima, su quella stessa strada, sempre di

corsa aveva messo un piede in fallo ed era volato lungo disteso,

facendo una meta non voluta sulla linea del marciapiede. Ma era

più forte di lui, alla vista dell’autobus si metteva a correre, al

pari di un tagliaborse alla vista di un questurino. Gli autisti

ormai lo conoscevano, fingevano di accelerare per poi

aspettarlo. Quand’era a un metro dalle porte riacceleravano,

lasciandolo incredulo di tanta autistica perfidia. Filo però

continuava a correre.

* *

C’era uno strano brusìo in quel tramonto obliquo nell’archivio

sotterraneo del Pallazzo. Circolare come tutto il resto,

sottoarchivi compresi. Le pratiche che ci vivevano erano, per

quanto in apparenza immobili, stranamente eccitate,

insolitamente inquiete per il luogo e l’ora. Alcune di loro intente

a imbellettarsi. A rassodare una pelle che gli anni avevano reso

più dura del cartone da imballaggio; a farsela più liscia di quella

di una pratica appena nata. Altre, più schive, solo a ripulire

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un’immagine sbiadita dalla polvere. Tutte ad aspettare la loro

grande occasione.

Quasi sapesse il popolo delle pratiche che col buio si sarebbe

compiuto un evento, una cosa mai vista: qualcuno sarebbe

venuto in visita ufficiale nel proprio paese. Una visita fatta una

per una, con personale estrazione di ciascuna, lettura ad alta

voce del suo nome davanti a tutte le altre, e risistemazione nel

proprio mini monolocale. Così mini da starci solo dritte e senza

muoversi. Salvo per quella che il Pallazzo andava cercando, che

sarebbe stata assunta ai piani alti con tutti gli onori. Tutte

insomma avrebbero avuto il loro momento di gloria. Magari

breve, ma l’avrebbero avuto. Non come succedeva quando, sia

pur di rado, chi scendeva in archivio a cercare una pratica aveva

già in mano il nome e il numero per trovarla. E anche se ognuna

sperava in cuor suo di essere lei la prescelta, alla fine solo una

era l’eletta. Mai però era successo che per trovare una pratica

dovessero essere chiamate fuori e prese per mano tutte.

Gli addetti all’archivio se n’erano andati. Avevano attaccato ai

chiodi le cuffie degli hi-fi, riposto nei cassetti i lettori con radio

incorporata collegati al mega impianto stereo dell’ufficio, e

ammonticchiato in archivistico ordine sulle scrivanie le cassette

di musica. Materiale necessario a tener loro compagnia in quel

lavoro mefiticamente ripetitivo. Ma sufficiente talora anche a

confondere la loro idea di ordine. A volte capitava infatti che gli

archivisti, nel farsi prendere dalle canzoni, sistemassero le

pratiche non proprio dove dovevano. E anche se non capitava, il

rischio che potesse capitare era nell’ordine naturale delle cose.

Si pensa che le pratiche siano esseri inanimati; e lo sono -anche

se non molto di più di certi ectoplasmi ripieni, perennemente

attaccati al televisore quanto certe piante ai funghi con cui

vivono in simbiosi; però senza televisore-. Almeno nella misura

83

in cui non hanno un’anima. Ma non nel senso che non abbiano

una vita. Certo una vita infinitamente più piatta di quella degli

esseri in carne e ossa che le fanno nascere -anche se, pure qui,

non di tutti. Ci sono certi taccagni al pesto che fanno vite da

lombrichi di clausura, solo in monolocali un po’ più grandi-.

Una vita di cartone, però una vita.

A pensarci non c’è al mondo archivio, sotterraneo, magazzino,

soffitta, cantina, bugigattolo, così come non c’è al mondo casa,

non c’è stanza che nel silenzio della sera non si popoli di piccoli

rumori, sommessi bisbigli, soffocati cigolii. Rumori che escono

dalle cose; le rendono vive, partecipi della vita degli uomini.

Una partecipazione oscura, arcana; eppure sottomessa,

conciliante. Per lo meno di solito. Perché in quel tardo

pomeriggio i rumori erano frastuono, i bisbigli schiamazzi, i

cigolii trambusto. In quel tramonto carico di promesse le

pratiche erano più elettriche di una schiera di debuttanti in attesa

del proverbiale ballo per l’entrata in società. A tendere

l’orecchio le si poteva sentire chiaramente parlare, ridere,

schernirsi. E mentre il Pallazzo stava andando deserto, loro

facevano festa.

* *

Il Nero e il Grigio, da bravi topi d’appartamento, aspettavano

che il palazzo di vetro si svuotasse del tutto. Erano rimasti

dentro solo alcuni dir. I soliti quattro gatti che, volendo farsi

notare, aspettavano che anche gli altri quattro gatti che, come

loro, volevano farsi notare uscissero. Una specie di prova di

forza via pensiero, dal momento che gli uffici dei presenzialisti

in carriera erano ai pallazzeschi antipodi, se non più in là. Però

ognuno di questi sapeva sempre, forse a pelle, forse a invidia da

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olfatto, forse ad antipatia telepatica, quando il primo di quello

sparuto manipolo di ultimi partiva. E un secondo dopo la

partenza del primo partivano anche gli altri. Solo che nessuno

voleva essere il primo.

Quando alla fine si spense anche l’ultima luce al neon, se ne

accesero due a pila, quelle dei due topi. Non volevano rischiare

che una luce potesse insospettire qualcuno da fuori, perciò

usavano quei due ferri del mestiere. Due ferri di un mestiere per

loro inusuale. Decisero che avrebbero acceso, ma solo al

bisogno, unicamente le luci di quegli uffici che non erano

visibili dall’esterno o quelle dei sotterranei.

Passarono in rassegna tutti i piani del Pallazzo. Controllarono

uffici, sale, salette, saloni, ripostigli, servizi, disimpegni. Ogni

qualsivoglia spazio fosse delimitato da un muro e un soffitto.

Non escluso il pavimento, considerato per diritto di assito spazio

a tutti gli effetti. Non trovarono nulla. Poi scesero nei

sotterranei, controllarono l’ufficio degli archivisti, i bagni, tutto

l’archivio circolare, i sottoarchivi, rotanti, a cassetti, scorrevoli,

a scomparsa, quattro stagioni, pensili, a muro, a vista, nascosti.

Li controllarono tutti, estraendo le pratiche, tornate al silenzio,

una a una, leggendo il nome di ciascuna, e di ciascuna

prendendo il numero. Nessuna era fuori posto. I numeri

risultavano in perfetta progressione, senza salti né cadute.

Le prime luci della scollacciata alba petroniana li trovò

schiantati sulle girevoli dell’archivio. Distrutti dalla fatica,

disidratati per la tensione e col morale a picco per non aver

trovato l’ombra di niente.

Il Grigio, da dietro due occhi ridotti a fessure, guatò il mobile

bar degli archivisti. Una bottiglia giallo paglierino gli aveva

fatto l’occhietto di costa a uno sportello. Si tirò su, si avvicinò

alla provocatrice di cristallo senza toglierle le fessure di dosso e,

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reso omaggio all’etichetta, la fece sua. Era calda, rotonda,

inebriante; ci stava che era un piacere. Quando ebbe finito fece

un cenno al Nero e gli passò quell’ambrosia in calore.

Visto che siamo qui, sembrò dire il suo capo senza dirlo, anche

lui con gli occhi ridotti a due mandorle anoressiche, prima di

farla sua anch’egli.

Il Grigio frattanto aveva acceso il mega impianto hify

dell’archivio, e un esercito di watt sfrontatamente nerboruti

aveva cominciato a invadere la stanza, così come i gradi di

piacere liquido il sacco stomatico del Nero. Già alla fine del

primo disco il nettare paglierino era passato, per la legge dei

vasi comunicanti, dalla bottiglia ai due improvvisati fiaschi.

Fiaschi che, forti del loro nuovo contenuto linfatico, avevano

preso a dimenarsi, anche se fuori tempo, al ritmo di una musica

da sballo.

Il Grigio, nel chiudere penzoloni un passo che lo lasciò sbilenco

e retroverso, intravide di sghimbescio un’altra bottiglia

strizzargli l’occhio dal mobile bar. Era una boccia originale di

rum della terra dei pirati. L’estemporaneo avvistatore fischiò la

presenza della nuova ammiccante intrusa al compagno

d’avventura. I due corsari la puntarono con occhi liquidi, si

guardarono, la ripuntarono, e scoppiarono in un incredibilmente

unisonico, per quanto non concertato, “all’arrembaggiooo!!!” -

l’incredibilità dell’unisono stava proprio nella non

concertazione-. Vi si buttarono sopra e si fecero anche quella,

dimentichi di dov’erano, ma soprattutto di chi erano e di cosa

stavano facendo, dimenandosi come tonni alla mattanza al

suono martellante di “Macho Man”. Al primo lento il Grigio si

avvicinò al Nero, l’abbrancò e gli stampò un bacio in bocca.

“Sei bello!” gli disse sotto l’influsso dell’alcol. Il Nero, per

quanto brillo, non se la bevve. Nessuno però gli aveva dato del

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“bello” da tempo immemorabile; nemmeno la tipa con cui

aveva avuto quella asfittica storia di sesso. E mentre si chiedeva

se stava succedendo proprio a lui, abbrancò a sua volta il Grigio

e gli rese il bacio. Rotolarono in mezzo a una pila di pratiche da

archiviare, che si girarono educatamente dall’altra parte.

* *

Si dice che i sogni della gente servano a far parlare i suoi

bisogni. Quelli più urgenti, i più pressanti. Quei bisogni che non

riesce a soddisfare nella vita conscia. Chi ha fame sogna

un’abbuffata senza fine, chi ha freddo di abbracciare un

calorifero, chi ha sete di star sotto una cascata.

Non avendo sottomano niente di così impellente, i riluttanti

inquilini del Pallazzo, in libera dormita al rispettivo domicilio,

davano sfogo alle loro voglie represse. Filo sognava di avere fra

le mani una matassa di ricci da stirare, Batta un uomo che le

dicesse, convincendola, che stava sbagliando, Brusco di vivere

in cima a una montagna, Trogola di trovare il verro dei suoi

sogni, Ria un uomo che ne apprezzasse i ritardi, Gigio di vedere

il mondo dall’alto, Pfazzi di avere il girovita di un’anoressica,

Amber di essere cooptata in un consesso di capi, possibilmente

canuti, e così via.

Qualcuno sognava ma al risveglio non ricordava chi né cosa,

qualcuno non sognava affatto. Non riusciva a farlo a occhi

chiusi. Gli veniva di sognare solo a occhi aperti, e soltanto in

ufficio. Un modo per dare al lavoro un senso che andasse al di là

della semplice busta paga.

A voler mettere assieme il contenuto onirico di tutti i sognatori

pallazzeschi, anche senza considerare quanto del sogno ciascuno

non riusciva a ricordare una volta aperti gli occhi, a raccogliere

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questo guazzabuglio si sarebbe potuto scrivere un trattato di

psicopatologia e un paio di commedie di teatro dell’assurdo.

In ogni caso, per la fredda legge del tempo la notte volò via, e

come la crisalide di una farfalla si trasformò in una rigida

mattina di sole.

Tutti gli inquilini coatti del Pallazzo avevano avuto la loro notte.

Serena, agitata, in bianco, istruttiva, scandalosa, nottambula,

insonne, biascicata, gotica, sonnambolica. Per qualcuno era stata

infinita, per qualcun altro troppo breve. Per certuni non era

neanche passata. Una volta di più, tutto è relativo.

* *

Quando il Nero aprì gli occhi si sentì nudo. Vuoto, quasi nato in

quell’istante. Avrebbe potuto essere chiunque. Uno dei tanti

scampoli di carne umana che ogni giorno schiudono

deliberatamente gli occhi al mondo senza sapere cosa li aspetta.

O un qualunque pezzo finito di materia inanimata, che lo fa

ignaro di farlo ma sapendo benissimo cosa l’aspetta; una

forcina per capelli, un reggilibri, uno spremiagrumi.

Ci mise un po’ per ricordare chi era. Allorché vide il Grigio che

dormiva in posizione fetale a cavallo di tre girevoli, ricordò

anche cos’era successo. E gli montò il panico per quello che

sarebbe potuto succedere.

Non riusciva a credere di aver fatto quello che aveva fatto. Una

cosa abominevole, da depravato per quell’ambiente; e prima

d’ora anche per lui. E temeva che, se risaputa, è esattamente

questo che sarebbe stato considerato, un depravato, un mostro.

Gli avrebbero dato il benservito; si sarebbe dovuto cercare un

altro lavoro. Se mai ci fosse riuscito, con la nomea che il

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Pallazzo gli avrebbe affibbiato. Nella più rosea delle previsioni

l’avrebbero sbattuto a marcire nell’ala rotta.

Una cosa da depravato che però quella notte gli era venuta

naturale. Magari non proprio spontanea; ma naturale sì. E che, in

fondo, non era stata neanche così brutta come certa oleografia la

dipinge. Però aveva bevuto. Eppure, tutte le altre volte in cui

gli era capitato di bere, non l’aveva mai fatto.

E’ anche vero che quando beveva, beveva a casa sua, con sua

moglie, e dunque, dopo aver bevuto, è con lei che lo faceva.

Anzi, ultimamente lo faceva solo dopo aver bevuto. Si chiese

perché, ma non si rispose. Se anziché bere in casa sua, con sua

moglie, avesse bevuto in qualche altro posto e in compagnia di

qualcun altro, hai visto mai con quel fusto rigonfio del vicino di

pianerottolo, un biondo caramellato coi pettorali di una

palestra...

Il pensiero gli morì in testa. Si chiese per quale motivo, fra tutte

le persone femmine a disposizione della sua fantasia per

sceglierne una con cui farci una bevuta virtuale, questa fosse

andata a prendere quella di un maschio, e tra questi proprio il

suo aitante vicino. E anche qui non si rispose. Doveva essere

tutta la faccenda della pratica a renderlo nervoso. A fargli

pensare le cose più strane, le più torbide. Anche se quanto

accaduto quella notte non era stato un pensiero.

Nel guardare l’orologio fece un salto, e con lui tutto quello che

gli bolliva in solaio. Era quasi l’ora di entrata nel Pallazzo.

Diede uno scossone al Grigio e andò in bagno.

Improvvisamente, prima ancora di tirare l’acqua fredda, sentì

freddo dappertutto.

* *

89

Nel preciso momento in cui Edo fece scivolare il cartellino nella

macchina marcatempo, notò che questa era un minuto avanti

rispetto al suo orologio. Orologio regolarmente regolato sul

segnale orario della radio, prudenzialmente controllato con l’ora

esatta del telefono, laicamente verificato coi rintocchi della torre

comunale, definitivamente e conchiusivamente benedetto da

quelli delle campane della chiesa.

Edo rimarcò alla macchina infedele il suo difetto. Le disse che

non aveva senso irrigidirsi su certe posizioni quando il torto era

così evidente, tanto a prima vista quanto, in seconda battuta, agli

altri sensi. Lei non rispose, per non alimentare la polemica. Edo

le inviò allora espressioni di aperto dissenso, quindi la invitò a

ravvedersi finché era in tempo. Dopodiché, esaurito il tempo e

persistendo il silenzio, decise di essere superiore e prenderla

persa. Constatò solo, con una punta di rammarico, che nel

Pallazzo anche il tempo era diventato relativo.

Nel salire in ascensore ebbe come l’impressione che qualcosa

non andasse. Lo sentiva, lo sapeva. Fu però solo in ufficio,

liberandosi di cappello e cappotto, che capì cosa non andava;

faceva freddo. Doveva essersi rotto il riscaldamento, o essersi

fermato, o non essere partito. Se qualcuno non l’aveva spento.

Impossibile, al momento, formulare un’ipotesi. Inutile,

soprattutto.

Prese la cornetta e chiamò il responsabile del fuoco, legandolo

alla sua logica stringente.

“Fa freddo.” gli disse gelido. “E per un rigido principio di causa-

effetto ne consegue che il riscaldamento non funziona. Per lo

stesso principio s’impone la sua presenza qui. Subito.”

“Strano” disse il fuochista pallazzesco, giunto prontamente sul

posto assieme a un allampanato tecnico di “Caldaia calda” che,

avendo passato la notte a spegnere una vecchia fiamma, dormiva

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sui talloni. “Abbiamo testato l’impianto in agosto. Allora

funzionava alla perfezione. I termo bollivano.”

“Ma con l’agosto che abbiamo avuto bollivano anche i muri.”

obiettò l’allampanato dando segno di risveglio. O conoscendo

talmente bene il suo lavoro da farlo pure in dormiveglia. A

piacere.

“Distinguiamo.” attaccò Edo “Bollivano i muri perché faceva

caldo fuori, o era il riscaldamento che andava così forte da far

bollire anche i muri?”

“Edo, non stiamo a cavillare.” replicò il responsabile del fuoco,

mentre il tecnico caldaio, credendo di sognare, si pizzicava un

braccio. La piccola puntura lo lasciò con la mente sveglia e le

orecchie incredule.

“Voglio dire” proseguì Edo “che a scaldare un ambiente già

caldo si fa prima che a scaldarne uno freddo. Ovvero che a

scaldare un posto che sembra caldo non sai il tempo che ci metti

se, anziché essere caldo, è freddo; e quanto il caldo che c’era

prima di scaldarlo, se c’era, influisca o meno, se influisce, con

quello che sta arrivando. E se i due caldi si incontrano, legano e

decidono di stare insieme o se, al contrario, non si incontrano.

Oppure si incontrano ma non legano -i caldi non sono tutti

uguali; ce ne sono certuni, di solito quelli che stanno sopra, che

non solo guardano quelli che stanno sotto dall’alto in basso, ma

rabbrividiscono all’idea di mescolarcisi assieme. Si sentono

superiori, e a volte finiscono per rivolgere loro epiteti di vera e

propria intolleranza caldana-, per cui, se i caldi non legano,

stanno uno da una parte e l’altro dall’altra...”

“Edo, la supplico.”

Mentre il dialettico per definizione metteva alle corde il

fuochista pallazzesco a colpi di proposizioni condizionali,

disgiuntive e copulative, il tecnico di “Caldaia calda” scese nelle

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cantine del Pallazzo. Giunto alle caldaie, girò un interruttore che

nottetempo era saltato e il freddo, suo malgrado, fu costretto ad

andarsene. Dopo un po’ se ne andò anche il tecnico, chiamato al

cellulare per un ritorno di fiamma della sua virago notturna, dal

momento che era il solo a conoscerne l’impianto.

La disfida fra Edo e il responsabile del fuoco invece fu vinta dal

primo, che costrinse alla resa l’avversario con la sua logica

schiacciante.

* *

Filo varcò la soglia del Pallazzo col passo lento e circospetto di

chi la varca per la prima volta. O per l’ultima. Quella mattina

camminare, il movimento più automatico tra quelli che si fanno

fuori casa, richiedeva un risoluto e ben preciso sforzo della

volontà. Una spinta muscolare, voluta e consapevole, a mettere

un piede davanti all’altro. Una presa di coscienza, assorbita e

penetrata, della propria motilità inferiore. Almeno da che aveva

messo piede fra quei vetri.

In mezzo al salone ristette. Girò la testa intorno al suo asse come

la luce di un faro intorno a se stesso, senza illuminare niente di

mobile. Poi s’avviò verso l’ascensore con un’andatura da

granchio, mentre si guardava le spalle quanto un ricercato in

fuga. Raggiunto l’ascensore, dopo una nuova e aggiornata

panoramica del salone, vi entrò al ritmo di un vecchio disco

rallentato, sempre guardandosi le spalle e i loro muscoli

raffermi. Prima di premere il piano tese l’orecchio, in attesa di

un rumore lontano. Un rumore conosciuto, familiare. Un

ticchettìo, per l’esattezza. Niente. Alla fine si dette per vinto e

schiacciò il due. Si rese conto che il miracolo del giorno prima

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non si sarebbe ripetuto. Sarebbe rimasto, per l’appunto, un

miracolo.

Nel salire sentì che c’era un’aria insolita; dava i brividi. Forse

perché era fredda. Un freddo strano, incomprensibile. Un freddo

che faceva il paio con quello che sentiva dentro. Sembrava quasi

che il Pallazzo avesse deciso di affrontare la vicenda della

pratica scomparsa con tutti i suoi vetri spalancati, aperto a

qualsiasi soluzione. Anche la più inclemente.

Filo fece il percorso di tutte le mattine. Passò dall’ufficio di

Ovieffe e Fettunta, già in ballo con le telefonate extralavoro, e

da quello di Ada e Ida, alle prese con l’ennesima incompiuta

discussione su Accio. La sera prima il piccolo ingegnere

aeronautico aveva pensato bene di far sparire una ruotina del

velivolo in corso di costruzione nel buco deputato a far sparire le

merende, facendola poi ricomparire qualche ora dopo dal buco

destinato a espellerle. Poi incrociò Pasco, inspiegabilmente fuori

posto, che ancor più inspiegabilmente stava litigando con

Clone. Il carrierista al contrario gli stava intimando di non dargli

mai più ragione, perché se c’è una cosa che un’ultima ruota del

carro non ha mai è la ragione. Persino quando ce l’ha.

Quando alfine mise piede in ufficio, nel togliersi sciarpa e

giubbotto sentì che faceva freddo sul serio. Fu forse anche per

quello schiaffo gelato a cavallo di una cervicale più sensibile di

una bilancia da orafo, che si accorse che nella tensione per

l’attesa del mancato miracolo si era dimenticato di timbrare il

cartellino. E ricordando che l’unica volta che non l’aveva fatto

era stato ripreso da Prillo, il quale gli aveva rammentato con

l’indice al vento che la forma, in certi casi, è solo l’altra faccia

della sostanza -Prillo amava essere emblematico, anche a costo

di essere incomprensibile-, fece marcia indietro e tornò di sotto.

Allorché timbrò il cartellino e vide Ria in arrivo, si stupì.

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* *

Chi non aveva sentito freddo, neanche per un momento, era

stato il direttore. Direttore che, una volta guadagnata la

superficie calpestabile del suo ufficio da passeggio, aveva

ripreso coi legni del parquet il filo del discorso interrotto il

giorno prima, ricominciando a orbitare intorno a una scrivania

sommersa dalla carta. Per di più a passo di cronometro. I legni, a

loro volta, avevano ripreso a lamentarsi, non essendo abituati a

certi discorsi senza fine.

Il peripatetico guardava l’orologio a intervalli irregolari, ma

sempre più ravvicinati, in attesa dell’ora fatidica, quella in cui il

Nero avrebbe dovuto consegnargli la pratica smarrita. Il

fantomatico trofeo da portare in dono al protettore degli

innamorati particolari. Avrebbe così sistemato le cose con quella

volpe di Scaltro, e magari avviato con lui un certo discorso.

Il direttore era ormai prossimo alla pensione. Gli avevano

appena conferito uno di quei titoli onorifici che nella lettera

richiamano la pompa di grandi imprese a cavallo, nobili gesta e

atti di eroismo. Mentre di fatto sono il corrispettivo che

l’apparato per la messa a riposo dei pezzi grossi riconosce ai

suddetti per meriti altisonanti quanto inconsistenti acquisiti in

vite di lavoro vissute da acquiescenti subalterni al sistema, sia

pure ai massimi livelli. Un corrispettivo che fungeva da ciliegia

sulla torta, già sontuosa, della pensione, e da -non troppo-

larvato invito a togliersi di torno prima possibile e soprattutto

senza cambiare idea. Ora, il pensiero di passare tutti i giorni di

tutti gli anni che il cielo avrebbe avuto la bontà di concedergli

assieme alla legittima consorte gli dava l’ansia, la depressione e

il panico insieme. Una forma di vertigine da crisi di astinenza

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da lusinghe e adulazioni completava il quadro clinico della

sindrome da ritiro.

Il fatto è che nel Pallazzo lo trattavano tutti con la deferenza

inamidata e il rispetto scappellatorio che si devono al suo

numero uno, mentre la moglie lo trattava, semplicemente, da

marito. Un marito qualsiasi, senza numeri di maglia addosso.

Super dir non riusciva a rassegnarsi di perdere i super poteri, di

scendere dal gradino più alto. Di lasciare la poltrona dell’ufficio

per quella di casa, anticamera della morte civile, preludio di

quella effettiva.

L’idea accarezzata era di darsi alla politica, agganciarsi al carro

di Scaltro. Se del caso superarlo, lasciarlo indietro, e fare di lui il

suo avanzo di segreteria. Più sotto ancora di quel fiore di Panna

dal ricettacolo rosso, promuovendo lei e bocciando lui.

In fondo le sue idee non erano molto diverse da quelle di

Scaltro, che tutto sommato erano le idee di tutti. Almeno

considerato il numero di bandiere che aveva battuto prima di

passare all’ultima, la più neutra. Anche se non era facile dire

quali fossero con precisione, stante sempre il numero di

bandiere battute e poi cambiate. In quel momento non ricordava

se era partito da destra e si era spostato a sinistra, o se era

partito da sinistra e si era spostato a destra; se stava in un centro

centro o in un centro che guardava da una parte e strizzava

l’occhio all’altra. O se, in definitiva, era andato a occupare

l’unico posto libero.

In ogni caso Scaltro aveva le conoscenze giuste, sia di qua che

di là. Aveva frequentato gli uni e gli altri, quindi aveva una parte

delle loro idee. Solo le coloriva o le scoloriva a seconda

dell’usta e del momento, della vena inventiva e del ritorno di

utile. Un creativo, un artista; sia pure con i piedi per terra. E

anche lui, da buon neofita, una volta nel giro avrebbe dovuto

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abituarsi a questa commistione fra idee e colori, fra politica e

arte.

A tutto questo e ad altro ancora pensava il gran camminatore,

mentre cercava di annichilire il tempo perpetrando all’infinito il

periplo della scrivania. Con la plantare sensazione di averci

scavato un solco intorno.

* *

Filo s’era stupito nel vedere Ria in arrivo perché quella mattina

non era tardi, laddove invece, di solito, lei era l’ultima a entrare

e la prima a uscire. Così almeno si diceva. E tutti si chiedevano

come riusciva a farla franca da che era stata messa la macchina

marcatempo.

All’inizio s’era pensato che non timbrasse il cartellino, ma nei

tabulati di controllo a campione degli accessi risultava sempre in

regola. S’era pensato allora che avesse un tesserino irregolare,

che andava indietro al mattino e avanti al pomeriggio, o con un

microchip intelligente, o quanto meno bene informato, che

conosceva in anticipo i giorni dei controlli, per sapere quando

doveva timbrare e quando poteva farne a meno. Era poi stata

controllata la funzionalità dell’elaboratore centrale, a cui la

macchina marcatempo era legata da un cordone ombelicale

invisibile. Quindi attivato un sistema di spie, in carne e ossa

prima e tecnologiche poi, con telecamere d’ogni tipo, immobili,

mobili, da passeggio, da taschino, bifocali. Il tutto con costi

enormi per il Pallazzo. Ma quei costi non erano approdati a

nulla. Non avevano chiarito il mistero.

Alla fine il palazzo di vetro s’era arreso. Anche il vecchio

elaboratore aveva avuto un trombo alla sua ipertesa memoria

centrale. Era stato sostituito con uno nuovo, che non aveva

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voluto saperne di prendersi a mano una patata bollente del

genere.

L’effetto pratico era che Ria, nonostante la macchina

marcatempo, continuava ad arrivare per ultima e a uscire per

prima. Tutto nella più assoluta legalità elettronica. La cosa era

anzi diventata normale, non meravigliava più nessuno. Il mistero

era diventato la norma; perciò non più un mistero.

Filo pensò che un qualche dir avrebbe potuto farle notare i

ritardi e obbligarla a recuperarli la sera. Ma nessuno di quegli

impavidi aveva il coraggio di assumersi una tale responsabilità,

posto che dal punto di vista elettronico era tutto in regola.

Quel giorno però Ria era in orario e forse, pensò ancora Filo, la

storia dei suoi ritardi non era che una delle tante voci che

circolavano senza controllo nel Pallazzo.

Entrarono insieme in ascensore. Ria gli sorrise, e nell’aprire gli

automatici della giacca a vento scoprì una maglia pistacchio con

due grosse coppe ripiene. A Filo prese una strana voglia di

leccare, anche se il pistacchio non gli piaceva più di tanto. Le

coppe invece sì. Poi pensò alle appendici ramificate dell’uomo

che ne condivideva i ritardi e li ricambiava in anticipi. Il classico

portatore sano, che sapeva di averle e le portava a testa alta,

senza nasconderle o camuffarle. E gli passò la voglia.

Lasciatosi alle spalle l’ascensore e il suo allettante contenuto

verde pallido, notò che il freddo andava sparendo, e un invitante

calduccio gli stava montando intorno. Che fosse merito del

pistacchio?, si trovò a pensare Filo senza volere, censurando con

un sorriso quel pensiero non autorizzato.

* *

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Nella stanza del riccio erano già arrivati tutti tranne il riccio.

Anche se quei tutti si auguravano che Toni non arrivasse affatto.

In caso contrario, infatti, già conoscevano la commedia che

avrebbe inscenato. Una delle tante repliche di una prima vista e

rivista, logorata da una recitazione, per quanto muta, risaputa e

stantìa.

Sarebbe entrato con incedere molle e smascellato, tra l’ubriaco

all’ultimo stadio e lo scemo di paese, avrebbe esibito il suo

pizzo di bronzo alla pubblica piazza dell’uditorio coatto, e alle

occhiate esplorative del pubblico presente in sala avrebbe

sgranato un ghigno a tutta bocca. Segno che l’obiettivo della

sera prima era stato raggiunto. La pastafrolla di turno era stata

mangiata, questo era il messaggio. Non c’era bisogno di

chiedere. Le prime volte, di fronte alla sua faccia della

domenica, i compagni di stanza chiedevano. Poi avevano

smesso, e anzi ogni volta che si presentava con l’aria della festa,

per dispetto o si giravano dall’altra parte, o abbassavano il capo

in un improbabile attacco di lavoro urgente e improcrastinabile.

Quando Toni entrò in ufficio con la faccia da morto trasalirono.

“Stai poco bene?” azzardò Pfazzi dopo un po’ che s’era seduto,

mostrando una sofferta e contrita preoccupazione. In realtà

preda della curiosità morbosa di sapere com’era andata la sera

prima.

Il riccio scosse piano gli aculei, prima da una parte e poi

dall’altra.

“Sicuro?” continuò Pfazzi, sempre con la speranza di far breccia

nella corazza. Stavolta gli aculei andarono su e giù. Se possibile

ancor più piano.

Nessuno ebbe più il coraggio di chiedere niente. Era chiaro però

che la serata non era andata nel modo che doveva. In breve, che

gli era andata buca.

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Era accaduto che la Malga, fatti con lui due passi su uno di quei

prati vicino a casa dove pascolava da bambina, se l’era portato

all’ovile. Dai suoi genitori, per farglielo conoscere. Questi

l’avevano subito invitato a cena, dandogli l’impressione che

fosse già tutto combinato, escludendo però la possibilità che

quella sera la loro rubizza prataiola potesse uscire di nuovo.

Semmai la sera dopo. Al che lui aveva fatto il classico buon viso

a un gioco, se pur non cattivo, però neanche troppo divertente.

La cena era stata perfetta. Anche se mancavano i termini di

paragone, poiché uno scapolo che vive solo non ha molte

occasioni di fare una mangiata di cui ricordarsi. Almeno finché

il padre non gli chiese se aveva già pensato alla data delle nozze.

Alla domanda Toni accusò un principio di orticaria, con

giramenti prima di testa e poi di qualcos’altro. Quindi,

metabolizzata la richiesta, rispose con un sorriso di cera che non

ci aveva ancora pensato. Che forse era presto per pensarci.

“Non è mai troppo presto.” aveva esclamato il padre, in aperto

dissenso con una certa tradizione scolastico-popolare della

televisione dei primordi. Aveva imparato a scrivere col maestro

Manzi, ma quel suo “Non è mai troppo tardi” non lo poteva

soffrire. Gli faceva pensare a un ciclista che arriva al traguardo

dopo che se ne sono andati tutti.

Uscito che fu di casa, Toni si sentì tradito. Lui, il riccio, scapolo

per vocazione, uccel di bosco per formazione e fornicatore

occasionale di professione, lui, uccellato come un pennuto

qualsiasi. Non si sarebbe mai più fatto vivo con lei, pensava, gli

occhi dei colleghi tutti quanti addosso, quasi fossero zecche

assetate del suo sangue. La rossa però gli piaceva; gli piaceva

più della sua vocazione e degli altri suoi poco nobiliari titoli.

* *

99

Il Nero, dopo una proficua seduta in bagno, era riuscito a

ripulire faccia e intestini. E anche il freddo che l’aveva investito

appena entrato era cambiato in un tiepido calore marmorizzato.

Era perfino riuscito a radersi con un rasoio di fortuna, un

vecchio “usa e getta” che un qualche duro di barba aveva gettato

dopo l’uso.

Fissava davanti allo specchio quell’uomo non lontano dall’età di

mezzo. Non era da buttare, dopotutto, con ancora tutti i capelli,

sia pure ampiamente striati di grigio, e uno stomaco, magari non

proprio piatto, però nemmeno troppo pronunciato. Non era alto,

è vero, ma alto non era mai stato. Non si può perdere con gli

anni quello che non si ha neanche da giovani.

Quel rasoio di fortuna però menava una lama talmente spuntata

che aveva finito per rivoltarglisi contro la barba. Il risultato era

stato un piccolo quanto fastidioso taglio sotto il mento. Niente

rispetto a quello che gli avrebbe fatto il capo supremo del

Pallazzo. Ancora meno rispetto a quello che gli avrebbe fatto

l’ugualmente supremo capo di casa. Si accorse a un tratto di

non valere molto di più di quanto gli diceva suo padre che

valeva da bambino, zero scarabocchio.

Doveva decidere chi dei due chiamare per primo. Per dir loro

cosa, poi? Scusarsi per la cena con la moglie e per la pratica col

direttore? L’avrebbero fatto a pezzi, altro che taglio sotto il

mento. Quello che aveva sarebbe stato il più innocuo e invisibile

di tutti quelli che, fra lui e lei, gli avrebbero procurato una volta

a tiro.

In una notte era riuscito a distruggere tutta la sua vita.

Lavorativa, affettiva; morale. A scombinare il suo, finora

apparentemente irreprensibile, quantunque mortalmente noioso,

equilibrio sessuale. A rovinare lui e la sua famiglia. Stava

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perdendo tutto quello che aveva costruito in anni di fatica, a

forza di acquiescenza e concessioni con la moglie e le gemelle,

di intrighi di corte e processi sommari nel Pallazzo. Tutto in una

notte. Quasi peggio del film omonimo, che aveva visto e di cui

aveva riso, sicuro che a lui non sarebbe mai potuto succedere

niente del genere.

Mentre rincorreva questi pensieri senza riuscire a fermarne uno,

entrò in bagno il Grigio a torso nudo. Aveva un petto ben fatto e

una vita nervosa, e negli occhi lo sguardo diritto del vincitore.

Ma soprattutto quell’altezza che lui non aveva mai avuto.

Nel guardarlo si aspettò di pensare come aveva potuto farci

quello che ci aveva fatto. Invece si scoprì a considerare come

sarebbe riuscito a farlo di nuovo con la moglie, se mai lei avesse

voluto saperne di farlo ancora con lui. Insomma, dopo aver dato

il fattivo contributo a compiere qualcosa di scandalosamente

abominevole, di esecrabilmente depravato, non solo non

mostrava segni di ravvedimento, ma covava l’idea di continuare

a perseguire la strada della depravazione e dello scandalo.

Doveva essere o impazzito del tutto, o guarito all’improvviso da

una malattia che gli aveva ottenebrato mente e sensi.

“Che facciamo?” domandò al Grigio, quasi a cercar riparo sotto

quel tronco asciutto. “Il direttore ci sta aspettando.”

“Prendiamo tempo.” rispose l’asciutto bagnandosi la faccia.

“Intanto incolpiamo Frollo. Ho già avvisato Correo di tenersi

pronto.”

* *

La Trebisonda, dall’alto del suo trafficato terz’ultimo piano -

l’ultimo, quello nobile, aveva la densità di popolazione di una

catacomba o di un museo chiuso; il penultimo una un po’ più

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fitta, quella di un circolo di puristi della lingua ladina-, le

giornate d’inverno in cui la nebbia della pianura concedeva una

tregua, la Trebisonda amava perdersi a guardare le nuvole. Le

forme che prendevano inseguendosi, che perdevano per poi

riprendere. Quel giorno la nebbia non s’era alzata, così il cielo

era un libro aperto. Un libro illustrato, con dipinti su un azzurro

leggero bianchi treni di lanugini in viaggio.

Nel frangente la scrutatrice dell’etere seguiva con occhio

morbosetto un maestoso nuvolone, che rincorreva una leggiadra

nuvoletta con chissà quali idee in testa.

Sorrise pensando a quell’ex nuvolone di suo marito, quando

correva dietro a lei, delicata nuvola in fiore, che dava corda alle

sue voglie fingendo di scappare. Ora erano nient’altro che due

nuvole sfatte, che percorrevano cieli rigorosamente separati. E

nel sorridere abbassò lo sguardo, attratta da tre puntini luminosi

che si accendevano a intermittenza cambiando colore: rosso,

verde e arancio. Il semaforo, pallido anticipo delle luci del

Natale in arrivo.

Il sorriso le si spense allorché notò avvicinarsi al Pallazzo delle

unosimilbianche, da cui sgattaiolarono fuori losche sagome nere

con qualcosa in mano. Dentro ogni macchina uno dei loschi

restava al volante.

“Allarmiiiiii!!!” barrì la Trebisonda mandando in frantumi il

fresco sogno natalizio. “Allarmiii!!! Una rapina! Tutti fuori!”

Nel tempo del barrito il Pallazzo fu percorso da uno stridìo di

sedie che rinculavano, da una scarica di tacchi che scattavano, e

da un rimbombo galoppante di scarpe imbizzarrite che

correvano a rotta di collo lungo i corridoi.

Non si trattava in realtà di una rapina; almeno non in senso

stretto. Si trattava del saccheggio periodico e sistematico dei

giannizzeri più avidi del comune: i vigili.

102

Ultimamente intorno al palazzo di cristallo era stato tutto un

fiorire di cartelli di divieto: di portare i cani ai giardini perché

sporcano -le siringhe che ricoprono il manto verde non

configurano per l’autorità costituita “sporco” in senso tecnico-;

di attaccare le biciclette ai pali dei manifesti su cui poggia la

rassicurante pubblicità del comune, in quanto stornano

l’infusione di tranquillità alla camomilla del messaggio; di

imbrattare i marciapiedi con rifiuti organici -sangue, pezzi di

pelle o altro- in caso di cadute dovute a scippi -dal divieto sono

ovviamente esclusi gli scippatori, che non cadono mai-; di

transitare in auto senza cinture allacciate, mani alle dieci e dieci

sul volante e pensieri men che puliti alla vista di un fischietto in

divisa. Tutti, questi e altri, con un solo scopo, quello di favorire

la solerte polizia comunale nei suoi compiti istituzionali: far

multe a quanto si muovesse, di moto proprio, riflesso o

apparente nel raggio del proprio occhio vigile e implacabile. E

tra questi fiori di città i più folti e appariscenti, di un colore

spinto rosso-sadico, erano i cartelli di divieto di parcheggio.

Il risultato era che in tutta la cerchia del Pallazzo non c’era un

buco in cui la sosta fosse consentita per più di mezz’ora.

Deputate al consenso erano uno stuolo di addette incorruttibili.

Un nugolo di inesorabili macchinette mangiasoldi, assunte con

regolare contratto di posteggio.

Ora, per evitare lo stillicidio di un dentro e fuori ininterrotto di

un fiume umano, che andava e veniva di continuo per portare il

suo tributo in moneta alle mai sazie esattrici meccaniche, i

vertici di quei vetri si erano accordati con quelli del comune

affinché i vigili, passando di là, tirassero dritto. In cambio le

pratiche che il comune presentava al Pallazzo avrebbero goduto

di una corsia preferenziale, con semafori sempre verdi e un

occhio elettronico di riguardo.

103

Succedeva però a volte che un qualche assessore rinnegasse i

propri vertici, e per reperire fondi con cui finanziare corsi di

aggiornamento per dirigenti comunali da tenersi d’inverno nei

paesi caldi, inviasse di propria iniziativa nella precaria cerchia

pallazzesca alcune pattuglie di vigili. Pattuglie al comando di

feroci vigilesse, scelte tra quelle con più ormoni maschili,

garantite più cattive dei maschi.

“Tutti fuori!!! Alle macchine!!!” lanciò la carica il guerriero

Trebisonda, mentre divorava le scale -agli ascensori c’erano già

le file-. E in cuor suo malediceva Toldo.

* *

“Allora?” chiese il direttore al caduco duo del controllo quando

questo gli si materializzò davanti.

Su una sedia di lato alla scrivania, a valle della montagna di

carta che c’era parcheggiata sopra, la faccia di Ciarli

sogghignava dietro due file di denti smaltati. Il Nero, appena lo

vide ebbe uno scatto, che mascherò con un sorriso da esequie.

Una coppia di sedie imbottite, fronte al dir assoluto, aspettavano

lui e il suo secondo, che le accontentarono gonfiandole

prontamente.

“Per l’intanto abbiamo il colpevole.” esordì il Grigio prendendo

i comandi del duo.

“E chi sarebbe?” intervenne strafottente Ciarli.

“Frollo.” disse sempre il Grigio “Uno dell’altra sponda.”

“Non la pensa come noi?” chiese Ciarli.

“Non è neanche come noi.” continuò il provvisorio pilota del

duo scandendo ad arte le parole, e illustrandole con uno sguardo

che era l’espressione della riprovazione con la “erre” maiuscola.

104

Senza il coraggio di girare un muscolo verso l’impietrito

navigatore.

“Ah.” traccheggiò il direttore “E perché l’abbiamo assunto?”

“Ha vinto il concorso.”

“Fortuna che li abbiamo aboliti. Ora solo sane e genuine

raccomandazioni. Magari si assumono degli incapaci, ma

almeno è gente che la pensa uguale a noi. Che è uguale a noi.

Anche se quel nuovo sindacalista vuol costringermi a

ripristinarli. Ma ci metteremo d’accordo, come coi vecchi.”

“In che modo siete venuti a sapere di Frollo?” domandò Ciarli

con la lingua biforcuta.

La coppia del controllo fu presa da un accesso di raschio, gli

occhi dell’uno dentro quelli dell’altro.

“Una spiata.” rispose il Grigio, ritrovate a un tratto le corde

vocali. Anche il Nero, quasi d’incanto, ritrovò le sue, ratificando

a monosillabi l’uscita del suo capo a termine.

“Di chi?” seguitò imperterrito Ciarli, insalivando lingua e denti.

Al pari di ogni serpente velenoso Ciarli sapeva sempre qual era

il momento giusto per mordere.

Ai due riprese un raschio peggio del primo, finché il Grigio,

deglutito un panetto di saliva solida, licenziò a mezza bocca un

provvidenziale “Abbiamo i nostri informatori. Non possiamo

bruciarli.”, che incontrò l’incondizionato appoggio oculare del

Nero.

“Sono sicuri?” insisté ancora la vipera, mentre passava a testare

la sacca del veleno.

“Sicurissimi. Due settimane fa, più o meno quand’è nata la

pratica che s’è persa, Frollo ha trovato da dire col suo capo per

una precedenza di corridoio. Pare gli abbia dato del lacchè di

palazzo.”

105

“E’ un’offesa questa?” chiese con sincero stupore il capo

supremo di quei vetri, per il quale il servilismo era alla base di

un sano rapporto gerarchico.

“Lacchè in senso negativo.” si affrettò a precisare il Grigio.

“Ah bè...”

“Ebbene, Frollo, dopo la litigata, avrebbe minacciato di fargliela

pagare. Sarebbe stato visto anche fargli così con la mano.” disse

il Grigio stendendo il braccio e guardando torvo.

“Addirittura?!” sbottò il supremo a pupille spalancate.

“Quindi sarebbe stato lui a...?” sibilò Ciarli, preparandosi a

mordere.

Il duo annuì prima che finisse la domanda, con una sincronia

che rasentava la perfezione.

“Perciò è inutile controllare all’ufficio personale se quel giorno

Frollo era al lavoro e non da un’altra parte.” disse con un

innocuo tono interrogativo Ciarli, affondando il morso.

I due si guardarono asincroni, i colli marchiati da due piccoli

punti simmetrici, consapevoli che la risposta era una questione

di vita o di morte.

“Meglio esserne certi.” concluse la serpe. E si allungò al

telefono.

* *

Toldo era un ex nostromo avvistatore con alle spalle studi da

baritono, che, per un principio di raucedine dovuta a un mal di

mare virale, aveva definitivamente lasciato il ponte in legno

delle navi per approdare a quello in vetro del Pallazzo.

L’ex uomo di mare era stato assunto, nonostante la raucedine -la

raccomandazione di un ammiraglio con più stellette di una

costellazione aveva avuto il suo peso nelle alte sfere-, con

106

regolare contratto marittimo, sia pure di terra. Assunto per

sventare le periodiche razzie della soldataglia del comune. Per

avvistare a tempo le truppe vigilesche e darne avviso agli

abitatori del Pallazzo con contrattuale urlo di Tarzan. O di

qualcun altro dalla voce non troppo dissimile. Sempre

nonostante la raucedine.

Toldo, quand’era in servizio, stava appollaiato su una specie di

coffa di marinaresca fattura collocata sul tetto di cristallo,

provvisto di binocolo di profondità e pastiglie per la gola,

esposto alle intemperie del tempo e degli uomini.

Quella mattina però il marittimo di terra aveva le corde vocali

più in fiamme del solito, ed era quindi prossimo all’afonia o giù

di lì. E dal momento che afono sarebbe servito a poco, aveva

abbandonato la vedetta ed era sceso in bagno a farsi un fomento

all’eucaliptolo piccante, usando il lavandino come recipiente, e

non poteva accorgersi dell’arrivo dei bravi del comune.

Fortuna che la Trebisonda non aveva perso l’abitudine di

scrutare il cielo e i suoi cirri. In quel momento l’esploratrice

della volta celeste era arrivata alla macchina e, messo in moto,

era partita a tutto gas, affumicando un vigile che accorreva

armato di biro, blocchetto e protervia.

Nel frattempo tutto il Pallazzo motorizzato era corso alle

macchine -esclusi i dir, le cui quattroruote se ne stavano al

calduccio nel parcheggio sotterraneo circolare. Un circolo

esclusivo per auto esclusive-. E salvo alcune, ormai

irrimediabilmente impallinate dalle cartucce dei cacciatori in

divisa, tutte le altre erano riuscite a scappare. Giravano senza

posa intorno al circondario, in attesa che l’esercito vigilesco

levasse le tende. Alla fine i giannizzeri del comune, non avendo

titolo per ghermire le prede in movimento, mollarono l’osso e si

ritirarono con le multe nel sacco. Il blitz era stato respinto, la

107

razzia sventata. L’ingordo assessore della situazione avrebbe

dovuto ricorrere ad altri mezzi per finanziare i corsi di

aggiornamento dei dirigenti del comune nei mesi invernali. Le

possibilità di altri e diversi saccheggi non mancavano, avuto

riguardo alla miriade di balzelli che gli instancabili assessori

proponevano al sindaco, il quale, per non scontentare nessuno,

non ne scartava alcuno.

Gli inquilini coatti del Pallazzo, risistemate le macchine nei

parcheggi a tempo, risalirono alla spicciolata, scambiandosi

gesti di vittoria e pacche sulle spalle. Fra gli spiccioli c’era

anche Filo, il cui sonnecchiare mattutino, una volta messa a

tacere la sveglia, quel giorno l’aveva tradito. S’era

riaddormentato, sia pure per un attimo, sufficiente però a fargli

saltare l’autobus. Così aveva rispolverato il macinone, il vecchio

Golf che l’aveva protetto da quando aveva preso la patente. La

sua personale coperta di Linus.

Prima di rientrare si guardò intorno per vedere se c’era Amber.

La ricerca non diede il frutto sperato.

* *

“Aaahhh!” espirò con voluttà Ciarli nel poggiare la cornetta.

Una folata di piacere che gli stordì papille gustative,

circonvoluzioni cerebrali e i cinque sensi. Il sesto, quello buono,

rimase sulle sue, indifferente al collettivo appagamento.

Aveva appena parlato con Graspa, una dell’ufficio personale che

soffriva di disidrosi diffusa. Le si formavano un po’ dappertutto,

ma soprattutto nelle mani e nelle braccia, delle bolle piene di un

denso siero latteo. Un liquido dal vago sapore di cocco, che

procurava a lei un fastidioso prurito e ai colleghi che, trovandosi

nei paraggi, suo malgrado ne profittavano, un piacevole

108

refrigerio. Era particolarmente richiesto d’estate, per dissetare

gole riarse. Ma anche d’inverno quel latte d’asina aveva non

pochi estimatori. Si diceva che l’effetto dissetante corresse

anche via filo.

Dopo una schioccata di lingua sonora quanto una frustata, Ciarli,

saputo da Graspa quello che voleva sapere, riprese possesso

della cornetta, ancora calda, e chiamò il suo ufficio. Rispose

l’angelo Magìro.

Il magirìta era un impiegato modello. Uno che, oltre alla

normale attività di angelo di Pallazzo, svolgeva fuori orario

anche una duplice meritoria attività di volontariato. Come

accompagnatore di giovani spostati da un posto all’altro per “Il

Convulso”, un’associazione per il recupero dell’identità, quanto

meno linguistica, degli spostati, e come testimone per “La

Benemerita”, una cooperativa di infortunistica senza scopo di

lucro che si offriva, a pagamento, di trovare testimoni a chi

aveva avuto un incidente d’auto senza aver avuto anche

l’accortezza di procurarsene uno. Magari falso o inesistente. La

Benemerita, per risaputa, quantunque non scritta, disposizione

statutaria, trovava tutti testimoni a favore di chi vi si iscriveva

richiedendone i servigi, indipendentemente dalla ragione, dal

torto o dall’incidente. La benemerenza di cui al nome della

cooperativa stava nel far del bene ai sempre più numerosi

iscritti. Il problema erano gli incidenti fra iscritti; l’uso dei

testimoni in tali casi. Nell’ultimo che c’era stato erano venuti

alle mani gli autori dell’incidente, tra loro e coi testimoni, a

favore e contro, e col presidente dell’infortunistica, che s’era

affrettato a sospendere lo statuto e a prendere tempo per

definirne uno nuovo. Stavolta scritto.

109

E mentre il terzetto assisteva in un silenzio carico di nubi,

ognuno con dentro la sua propria tempesta, ai virtuosismi

telefonici di Ciarli, questi chiese all’angelo Magìro di Frollo.

* *

A metà mattina Filo partì per andare a prendere Amber. Dopo

aver attraversato la parte sicura, protetta del Pallazzo, s’inoltrò

per quella oscura. Incrociò un tizio vestito di giallo tuorlo dallo

sguardo bianco albume che cercava la sua padella antiaderente,

un altro che diceva a se stesso che, non essendoci più i

presupposti per un dialogo costruttivo, era meglio che ognuno

andasse per la propria strada, un altro ancora che correva

all’indietro per recuperare il tempo perso, un altro infine che

saltava da un piano all’altro convinto di realizzare economie di

scala. Finalmente, passati questi e altri tizi ancora,

apparentemente più vicini al punto di non ritorno di quanto non

fosse passato loro vicino lui stesso, attraversati corridoi deserti e

uffici abbandonati, con appendiabiti rinsecchiti, carcasse di

macchine da scrivere, computer da rottamare e fotocopiatrici

rotte a tutte le esperienze, Filo raggiunse la compagna di

merenda.

“Ogni promessa è debito.” esordì irrompendole alle spalle nel

suo ufficio rivoltato. Senza nascondersi che l’originalità della

frase era da numeri negativi.

“Filo!” esclamò lei nel girarsi, con un entusiasmo che gliela fece

sentire vicina. Dolce a calda come la cioccolata in tazza.

“Non ti ho visto prima a spostare la macchina.”

Amber aveva una macchina giapponese nuova di spolvero di un

colore indefinibile, però metallizzato. Un modello appena

uscito, uguale ai modelli appena usciti di altre case

110

automobilistiche ma, se possibile, ancora più nuovo. Con un

nome strano, diverso dagli strani nomi che chi costruisce auto

sceglie per i nuovi modelli. Nomi diversi per modelli uguali.

“Non sono venuta in macchina.”

“Ah no?”

“No. Stamattina mi hanno accompagnato.”

“Ah.” incassò Filo, colpito al cuore. In fondo restava sempre una

plurimasterizzata con un’inveterata predisposizione per uomini

canuti, titolati e danarosi. All’improvviso gli era ritornata

lontana. Aspra e fredda come un collutorio per la gola.

“Mi ha accompagnato mio padre.” s’affrettò a spiegare Amber,

con un fremito di piacere che la fece vibrare dai ricci in giù. Filo

camuffò da esperto di yoga un sospiro di sollievo, facendolo

passare da espiro maestro. “Insegna all’università. Filosofia.”

Amber era, per dirla con la psicanalisi, innamorata del padre,

uno dei cervelli più raffinati di tutto il corpo accademico. Un

cervello sormontato da una chioma innevata e puntellato da un

tronco non proprio atletico, ma secco e nodoso quanto quello di

un greco antico. E in ogni uomo che rincorreva era sempre il

genitore che cercava di raggiungere. Qualcuno con un’età

matura, un conto in banca e qualcosa da insegnarle di continuo.

La sua collezione di master le stava stretta, le sembrava non più

di una pozzanghera a confronto del mare di sapere in cui

nuotava quel modello di erudizione.

A Filo parve di intravedere una fessura di luce in quell’oscuro

groviglio che era la mente di Amber.

“Filosofia era la mia materia preferita.” disse Filo, nell’intento

di allargare quella fessura.

“Davvero?! Anch’io volevo farla, ma poi ho fatto economia. E

qualche altra cosetta.”

111

Amber, in conseguenza di quell’innamoramento clandestino

anche a se stessa, per lo meno al suo lato conscio, aveva sempre

temuto il confronto col padre. E piuttosto che affrontare una

strada che comportasse il rischio di un raffronto con lui, anche

solo di sfuggita o alla lontana, aveva preferito prenderne una

diversa. Filosofia la leggeva di nascosto. Da clandestina.

“Un master non è una cosetta.” le sorrise Filo. “Scendiamo al

bar?”

* *

“Due settimane fa Frollo era in ferie.” scandì con malcelata

voluttà Ciarli, calando l’asso vincente. Metaforicamente. Di

fatto soltanto ammainando la cornetta. Dall’espressione si

capiva che il piatto era suo. Non solo per metafora. “Due

settimane fa, quand’è nata la pratica, l’avete detto voi” fece

rivolto allo sbiadito duo del controllo ”Frollo era a una festa in

maschera del gruppo “Tutti unti”, un’associazione per la

liberazione dalle scottature dell’emarginazione. Lui faceva la

maschera.”

Il Nero sbiancò di colpo, poi deglutì un grumo di saliva farcita

mista a bava cotta che gli provocò un principio di occlusione

delle vie respiratorie, mentre il Grigio fumava ostentando

un’aplomb da inglese. In realtà fumava dalla paura.

“Controlliamo i nostri polli anche durante le ferie?” chiese il dir

dei dir, con una punta di compiacimento nello scoprirsi, fra le

altre cose, anche allevatore a tempo pieno.

“Non tutti. Solo quelli che hanno... certi difetti.”

“E perché non l’abbiamo mandato nell’ala rotta?” chiese ancora,

nell’allevatoria ottica di tenere separati gli esemplari conformi ai

modelli canonici da quelli non conformi.

112

“Fa un lavoro che non sa fare nessuno.”

“Lo insegni a un altro.”

“Pare non riesca a impararlo nessuno, è troppo complicato. O

forse, per la stessa ragione, non vuole impararlo nessuno.

Consiste nel calcolo geometrico previsionale delle pratiche

secondo le fasi della luna. Un lavoro che richiede intelligenza. E

fortuna.”

“Che peccato, intelligente e dell’altra sponda.”

“Ce ne sono molti di questi casi, sa?” scappò detto al Grigio, che

appena lo disse avrebbe voluto sparire. Nondimeno si girò a

cercare gli occhi del suo fresco compagno di nottata, per

cogliervi quel consenso che prima non gli avevano fatto

mancare. Stavolta vi colse invece due lampi che lo fulminarono

sul posto.

“E lei come lo sa?” gli cantò Ciarli.

“Le faccio i miei complimenti!” tuonò d’un tratto al Nero il

direttore, più aspro del succo del limone verde, togliendo

inconsapevolmente d’impaccio l’incauto difensore dei “diversi”.

“E anche a lei, naturalmente!” rituonò verso il Grigio.

Il direttore conosceva bene le regole della gerarchia, così,

benché il Nero finora avesse fatto scena muta, era a lui che il

garante di tutte le gerarchie si rivolgeva per primo.

Il Nero guardò il Grigio farsi di sasso, per poi cadere vittima

anch’egli di uguale, paralizzante sortilegio. Erano stati scoperti.

Si sentì perduto, e all’improvviso avvertì sulle spalle tutto il

peso di un mondo ingrato. Un mondo che, dopo aver preso

stabile possesso della sua schiena, si divertiva a schiacciarla e ad

affossarne lo sfibrato contenuto osseo.

“Non solo non avete trovato la pratica, ma avete trovato pure il

colpevole sbagliato!”

113

No, non erano stati scoperti. Il mondo gli stava crollando

addosso, ma non tutto assieme. A pezzi più o meno grandi.

Stava perdendo quello che aveva poco alla volta. La faccia però,

almeno quella, era salva. Per ora.

“Sistemo tutto io.” intervenne Ciarli rialzando la cornetta. La

partita non era ancora finita. “Faccio intervenire Giona.”

* *

Dopo la sventata razzia dei lanzichenecchi in divisa, nel

Pallazzo era tornata una calma di cristallo. Anche nell’ufficio di

Punto e Tacco. Il trillo del telefono la mandò in frantumi.

Punto e Tacco erano due che lavoravano in tandem. Tanto che,

quando uno non c’era, all’altro sembrava di pedalare per due.

Per la velocità sul lavoro Punto aveva soprannominato Tacco

Fulmine, e per la stessa ragione Tacco aveva soprannominato

Punto Fulmine. Con una tale ripetuta, costante e cocciuta

continuità che il soprannome era diventato il nome. Per loro e

per tutto il Pallazzo.

Solo che questa identità di epiteto aveva sollevato problemi di

trasparenza telefonica, dal momento che, via filo, non si sapeva

mai bene con quale Fulmine si stesse parlando. Qualcuno

suggerì loro che uno dei due cambiasse soprannome all’altro,

ma ciascuno trovava che il nomignolo dato al compagno di

pedale fosse talmente calzante da non prendere affatto in

considerazione l’idea di cambiarlo. Al limite, se proprio, per

inderogabili esigenze di trasparenza pallazzesca, si doveva

cambiare, avrebbe dovuto semmai essere l’altro a inventarsene

uno nuovo per il compagno.

I Fulmini facevano tutto di fretta. Compreso il dormire, a tempo

di caduta libera, e il sognare, a tempo da film muto, per poi

114

svegliarsi di soprassalto e affrontare la giornata di corsa. Si

fermavano solo al mare, in vacanza, piantati sotto l’ombrellone,

a fissare impalati gli squilibrati che correvano sulla battigia per

smaltire in dieci giorni le tossine di un anno d’ufficio. Una

mutazione di samsiana memoria, con immediato ritorno alle

origini alla fine della vacanza. E, pur essendo fisicamente

diversi, col tempo avevano finito per somigliarsi come due

gemelli omozigoti. Punto era partito alto e magro, Tacco basso e

tarchiato. S’erano ritrovati entrambi uniformati in una taglia di

mezzo, sul medio standard. Le due classiche gocce d’acqua.

Pensare che Punto era partito Punta, circostanza questa di cui

nemmeno Tacco era a conoscenza. Punto cioè era nato donna,

ma già da bambina aveva dato tanti e tali segni di mascolinità

che, caso unico nella storia dei cambiamenti di sesso, furono i

genitori a pregare i medici che la operassero. Uno per tutti,

quello di spogliare le bambole senza rivestirle, e giocare a far far

loro i lavori di casa coperte solo da un grembiule non più grande

del fazzoletto da taschino di una coccinella.

Le stesse mogli avevano finito per confonderli. Tanto da correr

voce che uno se la facesse con la moglie dell’altro, pensando di

farlo fesso. Ma correva pure voce che fosse l’altro a far fesso il

suo omonimo, filando con la di lui consorte. Nessuna voce però,

per quanto corresse, lo faceva abbastanza da esser certa di

spuntarla sull’altra, stante la somiglianza dei ciclisti su cui la

gara si svolgeva. Sicché anche il vostro narratore, per una volta,

sospende il giudizio, assicurando che potrà essere più preciso

dopo appostamenti mirati sotto casa di uno dei due Fulmini a

caso.

I due avevano finito per diventare amici, e amiche intime le

mogli. Talmente intime da non accorgersi sia di quando

cambiavano Fulmine che di quando non lo cambiavano. E il non

115

sapere se il partner di turno era il proprio o quello dell’altra,

dava al rapporto in generale e all’amplesso in particolare un che

di clandestino e legale insieme, da farle sentire a un tempo fedeli

e adultere, viziose e sante. Così amiche da vestire e atteggiarsi

uguale; pensare, infuriarsi e farsi le pulci uguale, al punto da

finire per somigliarsi anch’esse quanto le classiche gocce

d’acqua e i meno classici Fulmini. Il risultato era che nessuno si

accorgeva più di nulla. Erano diventati tutti fungibili come le

noccioline americane, indistinguibili a loro e agli altri. Le copie

di ciò che erano una volta. Senza più la possibilità di risalire agli

originali.

“Vogliono Fulmine al telefono.” disse Glauco, il terzo incomodo

dell’ufficio, che aveva risposto alla chiamata.

“Chi è?” chiesero i Fulmini.

“Tua moglie.”

Risposero entrambi.

* *

“Un cappuccino.” ordinò Filo alla barista. “Ben caldo.”

Fra il “cappuccino” e il “ben caldo” passò un secondo e

qualcosa in tempo reale -espressione pleonastica, si dirà, ma che

rende l’idea che il tempo, per quanto in apparenza relativo, o,

più propriamente, soggettivo, è uguale per tutti. Sia per chi sta

sotto il trapano del dentista che per chi sta sotto le pelvi di una

pin-up.- Tempo nel quale Filo realizzò che fuori faceva un

freddo da pelare le dita. Un freddo così affilato da infiltrarsi

nella temperatura interna del bar e in quella ancora più interna

della barista. Abbastanza per pretendere dalla meteoropatica il

cappuccino come lo voleva, bollente.

“Io prendo un tè.” ordinò a sua volta Amber “Tiepido.”

116

La donna del meteo la squadrò con un occhio più basso

dell’altro. Poi appoggiò quello sguardo sbieco su Filo, a

chiedergli muta: “Sta con te una così? Una che col freddo che ho

addosso prende una cosa tiepida?”

Amber non era mai scesa al bar. Aveva però in curriculum, fra

gli altri, un master polimerico in lettura di sguardo asimmetrico,

scambio di occhiate con correzione automatica della

punteggiatura e messa a nudo di espressione sottecchi. Afferrò

quindi il problema all’istante.

“Anzi, facciamo caldo.”

La barista assentì compiaciuta, fiera della sua clientela vecchia e

nuova.

“Li prendiamo al tavolo.” disse Filo.

“Accomodatevi pure, ve li porto io.” amicaleggiò la

meteoropatica, ormai definitivamente acclimatata.

“Ci sono novità su quella voce?” chiese Amber una volta seduta.

“Sulla pratica scomparsa? Nessuna.”

“Ma com’è possibile che sia sparita? A me hanno sempre

detto...”

“Che non si perde mai niente?” la interruppe Filo, prima di

scuotere gli occhiali. “Tu non hai idea di quello che si perde là

dentro. Solo che quello che non si trova non viene certo

pubblicato sui giornali. E se qualcuno ha avuto bisogno di

qualcosa che non s’è trovato, o gli s’è dato in cambio

qualcos’altro, o l’ha presa elegantemente in quel posto. Si vede

che stavolta questo qualcuno ha alle spalle qualche pezzo

grosso.”

“Non riesco a crederci.” disse lei, quasi a scrostarsi di dosso le

certezze del passato. Intanto arrivavano le consumazioni da

consumare. Bollenti. “Secondo te dov’è finita?”

Filo le dedicò un’apertura di braccia da nullatenente.

117

“Potrebbe essere dappertutto. Imbucata in mezzo a un’altra,

buttata nella carta da riciclo, gettata via per errore o per gioco,

usata per farci freccette.” rispose “Chissà, magari è sotto chiave

nell’ufficio di Acìdio... Sto scherzando” aggiunse con un

sorriso.

“Non l’hanno più riaperto?”

“Sì, figurati! A parlare di Acìdio gli uomini si toccano e le

donne, non avendo di che toccarsi, si mettono una mano davanti

alla bocca, forse per paura di respirare aria di morte. In ogni

caso cambiano tutti discorso. Hanno svuotato l’ufficio, l’hanno

chiuso e hanno buttato via la chiave. Almeno così hanno detto.”

Amber scosse piano le fronde, prima di abbassarle sulla sua

tazza fumante.

“E’ la morte.” sospirò Filo “La morte non è cosa che riguardi il

Pallazzo. E’ qualcosa da tenere fuori, e se per sbaglio ci è

entrata, da far uscire prima possibile. Lo spettacolo, come si

dice, deve continuare. Anche se è di quelli che non fanno

ridere.” concluse affogando la tristezza della considerazione in

un liquido caldo e forte, succedaneo dell’amniotico ma

dall’inconfondibile sapore di caffellatte.

* *

“E’ fatta.” esclamò Ciarli nel mettere a riposo la cornetta. I tre

penzolarono pericolosamente dalle sue labbra, prima di atterrare

sani e salvi sul suo “Sta arrivando Giona.”

“E chi sarebbe?” chiese il direttore rialzando voce e cresta.

Giona era il fiore all’occhiello dei creativi, l’ufficio

specializzato nel riprodurre per clonazione scribacchino-

amanuense quelle pratiche che per un motivo o per l’altro si

erano volatilizzate. Nel rifarle identiche a quelle involate. Al

118

momento il creativo per eccellenza si trovava in uno dei tanti

uffici periferici del Pallazzo, tutti circolari al pari di quello

centrale ma molto più piccoli.

Giona era il migliore nel suo lavoro, specie nella cura dei

particolari -una cura ossessiva, ai limiti del delirio paranoico-; il

più scrupoloso e testardo nel ricreare lineamenti e sfumature,

ricami e svolazzi, fragranze e umori.

In realtà il novello amanuense non aveva nulla di creativo,

poiché la sua arte copiativa non lasciava niente al caso e, per

l’appunto, alla creatività. Più che un artista, Giona era uno

specialista del doppio, un esperto del clone, uno scienziato del

falso. Un falso d’autore.

La pratica che usciva dalle sue mani non aveva niente in comune

con le altre. Era qualcosa di assolutamente diverso, pur essendo

uguale in tutto e per tutto all’originale. Un capolavoro di abilità

copiativa; un’opera d’arte. Con una fattura da tempo di opera

d’arte. Perché l’ultima cosa che gli si poteva chiedere era la

velocità.

Ecco chi è Giona, aveva concluso con orgoglio Ciarli, dopo

averne cantato le lodi. Colui che avrebbe risuscitato la pratica

scomparsa.

“Quindi lei sostiene che nessuno può accorgersi che la pratica

che esce dalle mani di Giona è una copia?” chiese il capo

supremo del Pallazzo.

“Nessuno.” assicurò il cantore “Indipendentemente dal fatto che

l’abbia vista o meno. Perché c’è qualcuno che la vuol vedere,

no?”

“Certo che c’è qualcuno che la vuol vedere.” rispose sprezzante

il supremo “Altrimenti noi che la cerchiamo a fare?!”

“Già.” convenne Ciarli. “Però occorre la sua firma per

autorizzare la copia di una pratica.”

119

“E chi l’ha detto?”

“Lei, direttore; nell’ordine di servizio contro i falsi... ““Posto

che mai i reggitori del Pallazzo hanno avuto notizia o

cognizione, sia pur flebile, sfumata o fittizia, di pratiche

smarrite...”” prese a declamare l’angelo degli angeli, mostrando

di cavarsela anch’egli nel riprodurre, sia pure solo in sonoro, se

non pratiche, ordini di servizio e circolari “”...si dispone che

ogni richiesta di copia di pratica dovrà essere preventivamente

autorizzata dal signore pro-tempore di tutte le pratiche, e da

questi formalmente licenziata secondo...””

“Basta, basta, ora ricordo.” lo interruppe il signore pro-tempore

“Ehm, una prosa un po’ aulica, forse...”

“Un tantino.” ammise Ciarli, per non dispiacere la direttoriale

osservazione del momento ma nemmeno il sempre direttoriale,

per quanto datato, ordine di servizio.

“E’ che è passato del tempo. E poi è il primo caso di una pratica

che non si trova.” mentì il direttore sapendo di mentire.

Il trio non disse nulla. Il dogma dell’infallibilità di Sua

Dirigenza quando parlava ex cathedra non consentiva di mettere

in discussione il Verbo Pallazzesco.

“Eccole la sua autorizzazione.” disse a Ciarli passandogli un

foglio autografato preso da un cassetto. Alla chiusura di questo

la montagna di carta sulla scrivania ebbe un sussulto, ma non si

mosse. Il pericolo di frane cominciava a essere alto. “E ora

lasciatemi solo.”

Allorché i tre furono usciti il maratoneta da camera si alzò e

riprese a mulinare intorno alla montagna bianca, finché alcune

fitte ai muscoli delle gambe gli consigliarono di risedersi. Fitte

che imputò all’età e alla vita sedentaria figlia del suo lavoro.

Non sapeva, il Fidippide dei direttori, di aver macinato

chilometri da che era partito per il suo scaramantico viaggio

120

rotatorio. Un viaggio della speranza alla ricerca della pratica

perduta.

* *

“Non vuoi che ti accompagni?” chiese Filo ad Amber, una volta

tornati fra i vetri di casa. Vicino al confine fra la parte protetta,

cristallina del Pallazzo, e quella oscura.

“No, grazie.”

“Sicura?”

“Sicura.”

“E’ che nei corridoi ci girano certe facce ...”

“Ma che stai dicendo, Filo?! Io nell’ala rotta ci lavoro, non ci

passo semplicemente.” ribatté con una punta di fastidio, prima di

sgusciargli un sorriso triste “Anche se ora non faccio nulla. Non

ho nulla da fare.”

Nell’ala rotta nessuno faceva niente. Niente che avesse una

qualche parentela, lontana o remota, con una qualsivoglia

attività lavorativa che si svolgeva fra quei vetri. Perché l’unica

cosa che paradossalmente mancava in quel luogo di lavoro, per

quanto bislacco e strampalato fosse, era il lavoro, che il Pallazzo

cosiddetto “normale” si guardava bene dal concedere ai suoi

inquilini “diversi”. In compenso concedeva loro uno stipendio,

sia pure ridotto rispetto a quello degli altri, mettendosi con ciò la

coscienza in pace, e facendo sentire quegli esseri già dipendenti

dalle loro manie, dalle loro tare e dai loro errori, ancora più

dipendenti da quei fantasmi. Il lavoro dunque, ciò che poteva

essere per quegli sfortunati occasione di riscatto e di rivincita,

era loro precluso dalla lungimiranza a scartamento ridotto dei

vertici pallazzeschi.

121

L’ala rotta era una sorta di grande parcheggio; anzi, un grande

dormitorio. Con la differenza che la gente non ci dormiva.

Almeno non nel modo in cui lo fa di notte. Anche se in realtà era

come se dormisse, facendo solo passare il tempo a occhi aperti.

Era l’anticamera della pensione, del licenziamento o della

pazzia. Solo di rado, troppo di rado, della resurrezione.

“E poi, nonostante le facce, non sono pericolosi.” continuò

Amber ”Ieri, è vero, per un attimo ho avuto paura, ma in realtà

sono innocui. Sono molto più pericolosi “quelli”.” aggiunse

puntando il pollice verso la parte sana del Pallazzo.

“Solo due passi.” insisté Filo.

Amber gli sgranò prima una smorfia e poi una moina, e i due si

incamminarono per la parte insana. Appena passato il confine

corse loro incontro il tipo giallovestito dagli occhi bianco

albume, che brandiva una specie di mazza tonda.

“Ehi, voi, venite dentro con me!” crepitò quando fu loro di

fronte, appoggiando per terra l’arma letale. La famosa padella

antiaderente.

“Dentro dove?” azzardò Amber dopo aver guardato Filo.

“Dentro la padella!” ribatté quello dilatando il bianco dell’uovo.

“A fare che?” chiese Filo, quasi che la domanda avesse un

senso, e anche la risposta, di riflesso, dovesse averne uno.

“A friggere!” scoppiettò euforico l’aspirante cuoco “Mancate

solo voi. Qui dentro si sono fritti tutti. L’uomo leopardo, il

deambulante clinico, il solipsista ostile, l’indietrologo, il

saltapiani, il fallocrate, gli andati. Tutti quelli che abitano qui. E’

il battesimo dell’ala. Io sono stato il primo a esserci spedito, e

quando viene qui uno nuovo io lo battezzo entrando con lui nella

padella e friggendo assieme a lui. E dopo il battesimo quello

diventa uno di noi. Solo che da qualche giorno non riuscivo a

trovare la padella.”

122

“Senti” gli sorrise Amber “oggi vado di fretta. Magari un’altra

volta. D’accordo?”

“E tu?” ribatté quella parodia di uovo in rilievo, dirottati gli

occhi acquosi su quelli di Filo.

“Eh?... Ah, s-sì, anch’io... un’altra volta.”

“Okei” assentì l’affittapadelle masticando dolceamaro “Non c’è

problema.” e si allontanò caracollando. Fatti tre passi si girò

verso il duo con la faccia sottosopra. “Ehi, qui ci friggiamo per

finta. Non siamo mica matti!” ed esplose in una risata che

straboccò dal corridoio, prima di filarsela a gambe levate.

“Non sono pericolosi.” sospirò Amber “Hanno solo bisogno

d’amore. E di rendersi utili.”

Filo le inviò uno sguardo carico d’affetto e di altre cose buone.

Alcune lecite, altre meno. Arrivati sulla soglia dell’ufficio di lei,

si salutarono in fretta, dopo essersi dati appuntamento in mensa

per la pausa pranzo. Amber però ebbe il tempo di notare sulle

tempie di Filo un principio di capello bianco. Era un po’ troppo

giovane per i suoi gusti, pur avendo sicuramente qualche anno

più di lei, ma quei capelli promettevano un imbiancamento

veloce, e un po’ tutto in lui lasciava presagire che sarebbe

incanutito prima di quanto si aspettasse.

Filo s’avviò verso il suo desco da lavoro col carico delle

sorprese della mattina. Di fronte all’ufficio, per soddisfare

un’impellenza dirottò verso il bagno, con la pacifica certezza

che quel giorno, per il più scontato calcolo delle probabilità, non

ce ne sarebbero state altre. Si sbagliava, le sorprese non erano

finite.

* *

123

Nell’ufficio del riccio c’era un silenzio da camera ardente. Tutti

stavano seduti a testa china dando a intendere di lavorare, ma in

realtà col fondo nascosto delle pupille guardavano Toni. In

compenso Toni, che sapeva di essere la causa di quel silenzio,

stava seduto anch’egli a testa china facendo finta di sbrigare un

qualche lavoro, ma con la coda dell’occhio sbirciava i colleghi

che lo guardavano sottecchi mentre fingevano di lavorare.

L’unico a non fingere era Capodaglio.

Era questi il principe dei raccomandati. Colui a cui la stessa

fauna del suo stampo guardava come modello da raggiungere;

come esempio di raccomandato ideale, e perciò assoluto.

Quando un collega gli dava un lavoro da fare lui chiamava la

capitale, e subito dopo qualcuno, dalla capitale, chiamava il

malcapitato che gliel’aveva dato perché glielo togliesse. Il

qualcuno in questione era suo padre, massimo esponente delle

pratiche nazionali. Essendo destinato per diritto d’appoggio a far

carriera, ragionava il praticone della capitale, era inutile che il

rampollo fosse costretto anche ad affaticarsi.

Dopo le prime telefonate al Pallazzo avevano mangiato la foglia,

e nessuno s’era più azzardato a dare qualcosa da fare a quella

specie di mosca bianca, che passava pertanto le giornate in un

ozio olimpico. Ecco perché Capodaglio era l’unico che guardava

Toni senza fingere di lavorare.

“Perché non ci racconti? Ti libereresti, staresti meglio.” disse al

riccio il simil-cetaceo -l’ozio lavorativo, sommato a quello

extralavoro, non aveva giovato alla pinguedine di famiglia, che

s’era estesa a quelle fasce del litorale corporeo che non vi

avevano frapposto ostacolo. E al momento ogni sua diga

risultava aver ceduto irreparabilmente-. Capodaglio che, non

sapendo come far passare il tempo, avrebbe trovato carino farlo

passare discettando di disgrazie altrui.

124

Toni si trovò addosso lo sguardo di tutta la stanza, che alle

parole del balenottero aveva alzato la testa, ponendo fine alla

finzione lavorativa. Non aveva fatto eccezione Pfazzi, che

nell’occasione aveva chiuso nel cassetto il suo femminismo da

asporto.

Alzò il suo occhio triste anche Effimero, il turnista. Effimero,

Fintanto, Fugace, Incerto, Casuale, erano tutti nomi di turnisti.

Anzi, per la precisione, nomi da turnista.

In effetti il Pallazzo, per non saper né leggere e né scrivere,

sceglieva i turnisti fra coloro i cui nomi davano maggiori

garanzie di precarietà. Tutto per non essere costretto ad

assumere a fine turno quelli che non avevano le spinte giuste,

pallazzesche o sindacali, per essere assunti.

Nell’alzare lo sguardo Effimero si chiese se dopo il turno

l’avrebbero confermato o se, al pari di tutti quelli senza santi,

sarebbe stato rimpiazzato da altri con più accreditate doti.

Avrebbe interpellato Segùro in merito.

L’ultima ad alzare la testa, pur essendo partita fra i primi, fu la

Zufola, una che faceva le cose a una velocità tale che la vecchia

nonna l’aveva pregata, il giorno che fosse venuta la sua ora, di

andare lei a prenderle la morte. Avrebbe così avuto la certezza di

disporre di una razione di tempo supplementare rispetto a quello

che il destino le aveva riservato.

Toni non rispose. Era lontano, il pensiero preso dalla prima

rossa della sua vita che l’aveva fregato. La prima rossa da cui,

forse, avrebbe voluto farsi fregare.

* *

La sorpresa fu che, quando Filo andò in bagno, ci trovò la carta

igienica. Dopo anni di altalenante latitanza -nel senso che

125

appena arrivava spariva-, nei bagni aveva fatto l’ennesima

ricomparsa il prezioso rotolo bianco. Una ricomparsa che il

distributore cilindrico a muro a cui mostrava d’essere finalmente

ancorato per la vita prometteva stabile e duratura.

Non che in quegli anni la carta igienica, di per sé, avesse dato

segno di soffrire di problemi di estinzione della specie. Il

Pallazzo, anzi, aveva avuto cura che al suo interno crescesse e si

moltiplicasse. La mano dell’uomo però, non meno di quella

della donna, aveva sempre colpito in modo sistematico e

pervicace i pregiati rotoli quando questi arrivavano in massa nei

luoghi di raccolta convenuti, i bagni. In questa sorta di riserva di

caccia, infatti, al riparo da occhi indiscreti, una folla di mani

senza volto ghermiva proditoriamente i candidi involti, al fine di

sfruttarne i morbidi veli per bassi fini personali da assolvere a

domicilio. E più il Pallazzo ne raccoglieva, più i suoi inquilini

coatti ne sottraevano, portandoseli a casa schiacciati in borse,

borselli, tasche, marsupi. Finanche in mezzo ai pantaloni o sotto

cappotti sformati. Col rischio di dover far includere il rotolo

bianco nella lista delle specie protette.

In sostanza la carta da bagno, fra quei vetri, aveva perso la sua

intrinseca funzione di igienico pulimento di quelle certe parti del

corpo, per diventare una voce dello stipendio. Un benefit, sia

pure sui generis, prezioso e ricercato. Per quanto nient’affatto

autorizzato dai regolamenti pallazzeschi.

L’effetto pratico era che nei gabinetti la carta igienica non c’era

mai. Con conseguenze più o meno gravi per i frequentatori

obbligati di quei bagni, a seconda del tipo di urgenza dei

medesimi. Filo, come la maggior parte di questi, si era

organizzato con fazzoletti di carta e salviette alla menta. Il

problema era più serio per gli occasionali ospiti del Pallazzo,

clienti, fornitori o altro. Costoro infatti, ignari della deficitaria

126

situazione cartacea dei servizi igienici, entravano in tutta

tranquillità in gabinetto, si liberavano del superfluo, e non

trovavano poi niente con cui liberarsene definitivamente. Molti

si arrangiavano con mezzi di fortuna, ma non mancava chi

usciva a gambe larghe o camminando sulle uova.

Da tempo era stato proposto che la carta igienica, anziché

impilata in bella vista sulla cassetta della tazza, fosse incardinata

dentro distributori cilindrici a muro, per scoraggiarne, o quanto

meno renderne più difficoltoso, il trafugamento. Ma problemi di

costo dei congegni e, pare, di difficoltà nell’azionarli da parte

del poco avvezzo a srotolare popolo dei vetri che, nell’incertezza

da che parte tirare, tirava da entrambe, l’avevano impedito.

Qualcuno però doveva aver pensato, oltre ai costi e al resto,

anche al risparmio di rotoli e all’intrinseca necessità dei

medesimi in loco, e la situazione, non si sa come né quando, né

interessa più di tanto il saperlo, si era sbloccata. Il risultato stava

lì, davanti agli occhi di Filo; la carta igienica era ritornata. Forse

per sempre.

* *

I tre reduci dell’ufficio sovrano del palazzo di cristallo,

richiusa dietro le spalle la porta in legno pregiato del suo regale

abitatore, si accomiatarono da buoni colleghi. Ciarli salutò i due

controllori gelido come l’inverno polare, prima di riprendere la

strada degli angeli. Il duo rispose a quel saluto di ghiaccio con

uno più freddo, per poi far ritorno nell’ufficio del controllo.

Un ufficio a tempo, visti gli esiti della loro ultima impresa.

Sia di quella ufficiale, di cui erano stati incaricati

d’autorità, che di quella, per così dire, personale, di cui si erano

incaricati da soli. Vi entrarono e si sedettero ciascuno alla

127

propria scrivania, in compagnia unicamente dei rumori delle

cose che facevano muovere o che si muovevano di proprio o

incontrollato moto.

E se si fosse sparsa la voce?, si trovò a rimuginare il Nero,

cercando di scacciare, senza risultato, quel pensiero infido. Non

la voce del suo fallimento professionale, che di sicuro era già

partita, e al cui veleggiare col vento in poppa non sarebbe stato

estraneo il soffio di maestrale di Ciarli, quanto quella della sua

bravata notturna. Quale soffio avrebbe potuto gonfiarne le vele?

Non quello del Grigio, che così avrebbe visto naufragare anche

se stesso. No, quella voce non avrebbe mai potuto mollare gli

ormeggi. Era come se fosse stata chiusa in una cassaforte di cui

soltanto due persone avevano la chiave, e la cassaforte sotterrata

in un angolo di mondo conosciuto solo a quelle.

E se li avesse visti qualcuno? O qualcuno li avesse sentiti? Se

fosse rimasto registrato qualcosa? O qualcosa li avesse traditi? Il

pensiero lo faceva cuocere a fuoco lento, come un arrosto in

casseruola. Più rimuginava e più sentiva aumentare il calore.

La cottura fu interrotta da un trillo. Doveva essere arrivato al

tempo fissato dall’orologio del forno di cucina per essere

mangiato. Al primo trillo ne seguì un secondo. Era il telefono.

Quando il Nero avvicinò la cornetta all’orecchio e sentì la voce

della moglie, avrebbe voluto tornare in quella casseruola dal cui

pensiero era appena uscito. La moglie però aveva una voce

diversa, nel timbro il miele dei primi giorni e l’ardore delle

prime notti.

Era accaduto che la consorte, ripensando al costo delle gemelle

ma soprattutto a quelli suoi propri, fatti due conti su quanto

avrebbe potuto ottenere in caso di divorzio, considerati gli

alimenti, il superfluo, gli extra e tutto il resto, nel timore di non

poter più fare la vita che faceva con lo stipendio del marito, la

128

consorte aveva deciso di sotterrare l’ascia di guerra. Gli disse

che era stata in pena per lui, che era preoccupata, che tornasse a

casa. Lui, pur con le viscere in subbuglio, le disse che stava

bene, che era tutto a posto; le assicurò che sarebbe tornato, le

chiese com’era andata coi Fasti. Lei gli rispose che i Fasti

avevano capito; per quanto nuotassero nell’oro era gente che

sapeva che gli impegni sono impegni, le responsabilità

responsabilità, i sacrifici sacrifici. E le scuse scuse, pensò senza

dirlo. Si salutarono con ritrovato affetto. Tanto da suonare falso.

Il Grigio colse in quel sordo parlottio il segno della sua

sconfitta. Se mai c’era stata battaglia.

* *

Filo lasciò il bagno e raggiunse l’ufficio. Come entrò e vide che

mancava Sotto, sbalordì.

Sbalordì perché Sotto era uno che non mancava mai, nemmeno

se aveva un qualche malanno. Quando Sotto era malato stava

infinitamente meglio di quando Filo era in piena salute. Per lui

la malattia era un concetto vuoto, privo di riscontro nella vita

reale. Qualcosa tipo l’araba fenice o il senno di poi. Gli dissero

che era andato a donare il sangue, e che l’avevano prima

trattenuto e poi ricoverato in ospedale. Strano perché lui era uno

che tornava sempre, magari su una gamba sola o con un braccio

al collo, ma senza mai farci caso o darsene pena. Mentre chi

andava a donare il sangue si prendeva il giorno intero e a volte

anche quello dopo. Ricoverato per accertamenti sul gruppo

sanguigno. Non uno ma due. Forse un effetto collaterale -uno

dei tanti- della sua attività di appendice. Ma in ospedale certe

figure professionali non le conoscevano.

129

Filo decise di approfittare della mancanza del terzo occhio di

Prillo per scendere al piano terra. L’idea era di dare un saluto a

Paddi, un suo ex compagno del liceo, ritrovato per

combinazione fra quei vetri, che s’era appena laureato in scienze

marine.

Lo trovò che stava commentamdo assieme ai compagni di stanza

una carta millimetrata fissata alla parete. Carta su cui si

sviluppavano una serie di linee dall’andamento altalenante o, per

meglio dire, in ossequio alla sua fresca laurea, ondivago. Era

l’umorometro dell’ufficio, una sorta di borsa dell’umore dei

colleghi di concubinato, trasposta su carta e monitorata giorno

per giorno, come il decorso di una delicata malattia. L’umore

era desunto da un breve pensiero scritto da ciascuno su un post-

it, abbinato a un’istantanea fotografica del suo autore effettuata

da Paddi con una vecchia Polaroid, omaggio di un abbonamento

a una rivista sui frutti di mare. Una metodologia sperimentale

per testare l’umore delle risorse umane del Palazzo.

Paddi fungeva da umorista, cioè da soggetto deputato a

registrare sull’umorometro l’umore dei compagni di lavoro.

Ucchio, un cui audace motto di spirito a una collega che passava

per allegra e a cui faceva il filo era stato rimpallato dalla stessa

in malo modo, era stato sospeso per eccesso di ribasso. Sempre

per eccesso, ma stavolta di rialzo, era stato sospeso Anfri, al

settimo cielo per aver battuto a Risiko gli amici la sera prima.

Anfri era uno che godeva di un umore mediamente buono anche

nelle cose d’ufficio, in ragione della singolarità del suo operare.

Lui seguiva solo la parte centrale del lavoro; quella iniziale la

curava un collega e quella finale un altro. Anfri si occupava solo

della parte di mezzo. Il cuore del lavoro, scartata la testa e la

coda. Qualcosa di simile al procedimento per ottenere una buona

grappa.

130

Quanto al morale degli altri, qualcuno galleggiava a fatica sopra

la linea dello zero, qualche altro affogava al di sotto della linea

spartiacque, altri ancora galleggiavano e affogavano a giorni

alterni.

A Paddi, che faceva parte degli stentati emergenti del primo

gruppo, Filo chiese se quella sera andava di uscire con lui. Di

parlare dei vecchi tempi e dei nuovi. Paddi accettò con

entusiasmo, marcando sull’umorometro un sensibile aumento

del proprio umore personale.

* *

“E-c-c-c-olooo!” eiaculò con gutturale gorgheggio Segùro,

penetrando nel funereo silenzio dell’ufficio del riccio e

sbandierando il dattiloscritto in cubitale.

La camera ardente lo accolse come se non fosse entrato. Un

qualunque tipo di insetto avrebbe destato più considerazione.

Quanto meno in un entomologo o in colui intorno al quale

l’astratto insetto in questione si fosse divertito a girare intorno.

“E’ successo qualcosa?” chiese il neosindacalista gnoseologico,

colpito a freddo dall’entusiasmo che aveva scatenato la sua

gorgogliante introduzione.

Toni alzò il raggio laser del suo sguardo, mirò al bersaglio

grosso e sparò, strinando però sempre e solo la peluria esterna.

Senza intaccare minimamente quella del cuore.

“Non c’è Vaina?” continuò lo strinato.

“Lo vedi il suo giaccone?” rispose Pfazzi con la cordialità di uno

spigolo.

“No.”

“E allora vuol dire che non c’è.”

131

Vaina aveva un giaccone cammello ammaestrato, figlio di un

vecchio cappotto del deserto, ora in pensione per esauriti limiti

di chilometraggio, che, a semplice fischio, seguiva la sua

padrona ovunque.

“Che ha fatto?”

“Una colichetta. Torna fra diciassette giorni.”

“Certo che diciassette giorni per una colica!...” esclamò

l’impiegato da taschino muovendo su e giù una testa senza collo.

Un miracolo dell’ingegneria genetica.

Occorre sapere che Segùro e il suo sindacato popolare e

populista avevano introdotto una radicale innovazione nelle

assenze per malattia. Lo scopo era di disincentivare le assenze

brevi, la malattia di un giorno o due, non considerata vera

malattia ma solo il pretesto per riposarsi a pagamento. Assenze i

cui costi falcidiavano le casse del Pallazzo quanto il passaggio

delle cavallette quelle del proprietario di un campo di grano. A

tal fine Segùro aveva disposto che i giorni di mutua dal primo al

sedicesimo venissero penalizzati con una trattenuta in busta

paga. Solo la malattia lunga, l’unica considerata vera malattia,

non dava luogo a trattenute; quella, per l’appunto, di diciassette

giorni. In tal modo il sindacato mostrava di recepire le istanze di

contenimento dei costi provenienti dalla direzione e nel

contempo di non essere superstizioso.

Solo che, dal giorno in cui il vate del nuovo sindacalismo aveva

cambiato le cose, fra quei vetri non s’era mai data malattia di

meno di diciassette giorni. Con un iperbolico aggravio della già

disperata situazione dei costi del personale per le assenze della

specie. In sostanza quelle economie che i vertici del Pallazzo e il

sindacato si prefiggevano di realizzare, scoraggiando i suoi

riluttanti inquilini dallo starsene a casa quando la sera prima

avevano fatto le ore piccole o ecceduto con gli alcolici, quelle

132

vagheggiate economie si erano trasformate in voragini di spesa.

Il rimedio era stato peggiore del male.

“Beh, così almeno non si rischiano ricadute.” disse Segùro, non

senza una punta di vergogna. Lui che da bambino non si

vergognava neanche a ripassare di nascosto le tasche dei suoi,

per investirne il ricavato in bilie e gelati. Fu lì che gli spuntarono

i primi peli sul cuore. Poi, nel crescere, aumentarono.

Fu colpito al volto da una scarica di occhiate che ne minarono la

stabilità verticale e lo consigliarono di riprendere la via della

porta.

“Posso chiedere una cosa?” gli domandò Effimero, alzando

l’indice della mano destra sopra la spalla a cui era attaccato il

braccio che la sosteneva.

* *

Filo lasciò l’ufficio di Paddi con la gioia leggera di averne

sollevato di quel tanto il morale, ma ancor di più di rivederne

quella sera stessa il buffo muso di spugna. Dai tempi del liceo la

faccia non gli era cambiata di un poro. Era rimasto identico,

tanto che a Filo sarebbe bastato chiudere gli occhi per vederlo

commentare, di fianco alla cattedra, il mito dell’auriga, o

vederlo corteggiare, appoggiato al banco, il mito della classe,

Estrella.

Già a scuola Estrella era un tale schianto in erba che i genitori,

per regolamentare il flusso casalingo degli spasimanti -non tutti

altrettanto in erba-, avevano installato, antesignani dei futuri

ipermercati, un imparziale eliminacode. La piccola venere

provvedeva poi a scartare i soggetti non alla sua altezza o non

rispondenti alle attese, e a rimandare a un successivo, più

133

approfondito esame quelli a livello o che alle attese

promettevano di rispondere.

Paddi era uno dei suoi innumerevoli epurati. Quello però la cui

corte a lei era piaciuto far durare più a lungo delle altre, in virtù

delle sue qualità di affabulatore.

Estrella aveva poi sposato un astro della finanza, che la faceva

vivere di luce riflessa del suo lusso ma che non c’era mai. Così

lei, diventata ormai uno schianto conclamato, prigioniera però

dello sconforto e della noia che avevano partorito lusso e

bellezza -non tutti i figli sono all’altezza dei genitori-, aveva

riallacciato coi vecchi inappagati corteggiatori, facendoseli uno

a uno. Talora anche due alla volta, per guadagnare tempo.

Tranne Paddi, che s’era tirato indietro. Aveva preferito

continuare a ricordarla com’era.

Quando chiamò l’ascensore per risalire al due, Filo si accorse di

avere sotto la spalla un cappello scuro. Con più sotto ancora

qualcuno dello stesso colore. Filo abbassò lo sguardo e inviò al

proprietario del copricapo un sorriso neutro, da ascensore, che

gli consentì di fotografarlo. Sotto al cappello, nero, si allungava

-allungava per modo di dire, dato il risicato numero di centimetri

e la loro taglia ristretta- un abito, pure nero, con in mezzo una

faccia da fumetto inframmezzata da baffi e occhiali, sempre

neri. Sotto la giacca spiccava una camicia bianca, listata a lutto

da una cravatta del colore dell’abito. A chiudere due scarpe

color catrame. La mano destra, neroguantata al pari della sorella,

reggeva una borsa di pelle in tinta col tutto.

Forse qualcuno del Pallazzo aveva deciso un omicidio su

commissione e aveva ingaggiato un killer professionista -di

quelli che, senza voler farsi notare, si fanno notare più degli

altri-. In ogni caso era un fatto che ultimamente gli toccavano in

134

sorte solo tizi monocromatici. Un’esclusiva che avrebbe

preferito si fosse fermata al rosso.

“L’ufficio del dottor Ciarli?” chiese a Filo la mascotte dei

menagrami con una faccia senza espressione.

La mascotte aveva un nome: Giona, il re dei creativi.

Ciarli era stato chiaro in proposito. Aveva spiegato al creativo

per antonomasia di non chiedere del suo ufficio, per non

provocare l’intervento angelico da chiamata -lui era il solo a

poterne pronunciare il nome senza scatenare l’automatica

ingerenza degli angeli-, ma di chiedere direttamente di lui.

Giona non aveva capito granché di quello che gli aveva detto

Ciarli. Però, fedele al disposto, con la precisione che ne

contraddistingueva l’agire e l’operare -la differenza tra l’uno e

l’altro consisteva nell’essere fuori o dentro l’ufficio-, aveva fatto

come gli era stato detto di fare.

“E’ al penultimo piano.” rispose Filo, guardandosi bene

dall’offrirsi di accompagnarlo.

“Grazie.” ribatté Giona, la faccia segnata da una smorfia con cui

squadrò il mancato cicerone dalla testa ai piedi.

* *

“Posso chiedere una cosa?” domandò più forte Effimero al

Segùr-sindacalista, che con la scusa di non aver sentito aveva

ormai raggiunto i piedi della porta.

“Sei un iscritto?” replicò il fautore, quanto meno etimologico,

del pensiero positivo, prima di ritornare sui suoi passi.

“Non posso iscrivermi, sono un turnista.”

“Puoi sempre iscriverti a fine turno.”

“Se mi assumono, senz’altro.”

“E... pensi che ti assumano?”

135

“Io faccio del mio meglio. Tu che ne dici, mi assumeranno?”

“Non ne ho idea. Bisogna vedere se vai bene alla direzione.”

ammiccò Segùro, la mente rivolta al numero sempre crescente di

appoggi che occorrevano per andare bene alla direzione.

Avrebbe dovuto prendere in pugno la situazione e moralizzare

l’ambiente. Quanto meno fissare un tetto agli appoggi.

“Tu puoi fare qualcosa?” azzardò Effimero.

“Solo una volta che sei assunto in pianta stabile. Dopo sì.”

“E adesso?”

“Adesso no.” rispose Segùro “Allora, ti iscriverai?”

“Te l’ho detto, se mi assumono sì.”

“Ancora “se”?! ”Se” è una risposta evasiva.”

“Neanche le tue sembrano il massimo della chiarezza.”

“Io non sono evasivo; solo possibilista. Ti iscriverai?”

“E va bene, diciamo che mi iscriverò.” capitolò Effimero

allungando il collo. Come un condannato pronto per la

ghigliottina.

“Allora firma qui.” disse Segùro allungandogli un foglio sfilato

da sotto i dattiloscritti.

“Che cos’è?”

“Un impegno a iscriversi.”

“Se mi assumono?”

“E dàgli!... Non solo.”

“Che vuol dire non solo?”

“Voglio dire non necessariamente. Ci si può iscrivere anche se

non si ha un lavoro fisso.”

“E a che serve essere iscritti e non avere un lavoro fisso?”

“A sostenerci.” spiegò Segùro, mentre calcolava mentalmente

che non era lontano dal record degli iscritti.

“Io pensavo che il sindacato sostenesse chi ha un lavoro stabile.”

“E’ così.”

136

“E allora?”

“Allora che?”

“Che sostegno dà il sindacato a uno con un lavoro precario?”

“Morale.”

“Ah.”

“Morale prima di tutto. Ma anche propulsivo, interinale,

mantecato, introflesso, pervasivo. Perciò anche un po’

materiale. Allora, firmi?”

“Ci penserò.” sospirò Effimero con la sicurezza degli insicuri e

la rabbia repressa dei perdenti.

“A ogni modo, se non dovessero assumerti, ti resta il concorso.”

aggiunse Segùro ritirando il foglio “Che è sempre merito del

sindacato.” rimarcò con un indice esclamativo “Anche se le cose

andranno per le lunghe. Dobbiamo convincere la direzione a

ripristinarli.”

Segùro stava organizzando un concorso da far svolgere non in

loco ma nella capitale. La ragione di accentrare quella strana

specie di gioco a premi nella capitale era dovuta all’esigenza di

ottimizzare la gestione delle raccomandazioni. Di vagliare

attentamente i vantaggi derivanti da ciascuna. Per le

raccomandazioni più alte era prevista la conoscenza anticipata

del titolo del tema, il tema già fatto per quelle altissime.

“In bocca al lupo per il concorso.” concluse Segùro nel

riprendere la via della porta. Quasi a escludere la sua assunzione

a fine turno.

“Crepi.” ribatté Effimero. Tanto al lupo quanto al disinteressato

latore dell’augurio.

* *

137

Il Nero e il Grigio, seduti ciascuno alla propria scrivania,

guardavano in tralice il vuoto dei loro fogli.

Al più chiaro dei due non era sfuggita l’espressione dolcigna e il

sorriso da passata burrasca tenuti al telefono da quello più scuro.

E intuito dalla schiena ricurva di questi e dal timbro di voce

sottile che dall’altra parte del filo c’era la moglie, con

un’espressione e un sorriso che era difficile immaginare diversi,

il Grigio bruciava sui carboni ardenti per non saper cosa dire né

cosa fare. Il fatto poi che dopo la telefonata il Nero avesse

abbassato la cornetta e nello stesso tempo alzato gli occhi al

cielo con un’aria di sollievo anziché di insofferenza, come

faceva di solito, era il segno che stava ricucendo con la moglie.

E se ricuciva con la moglie, scuciva con lui. Ammesso che

avessero mai cucito qualcosa insieme. Qualcosa che potesse

resistere alle avversità degli uomini e delle stagioni. La profferta

al bacio di quella notte era stata una pazzia. Peggio, un errore

imperdonabile. Sentiva il bisogno di parlargli, di spiegarsi, ma

non sapeva bene in che modo. Di scusarsi, ma non aveva idea di

cosa. Di abbracciarlo, ma non trovava il pretesto per farlo. Stava

per schiudere le labbra, quando una bussata alla porta

preannunciò la sua apertura.

“Avete bisogno di me?” chiese una donna con la voce da uomo.

Era Ardea, detta la trans perché veniva da un ufficio un po’

particolare. Un ufficio i cui addetti non svolgevano un lavoro,

diciamo così, normale. Senza con ciò voler entrare nel merito

dei lavori, normali o meno, che trovavano posto nel Pallazzo,

che non è cosa che rilevi ai fini della storia. Vuoi per il

tecnicismo dei suddetti vuoi per la loro ritrosia a rendersi

intelliggibili, talora, agli stessi inquilini pallazzeschi; figurarsi

dunque a chi ne segue con gli occhi e, si augura il vostro

narratore, col cuore le vicende. Un ufficio i cui occupanti

138

eseguivano, incollati a baluginanti e policromi videoterminali,

transazioni dal suono ambiguo e misterioso, l’ufficio dei

transanti.

Il suo capo era il fosco e criptico Svàporat, detto il negromante.

Un boemo dall’aria sgasata che snocciolava i bradicardici,

ostrogoti nomi delle transazioni come il prete le parole in latino

della messa. Prima che cominciassero a dirla in italiano e le

parole, diventate comprensibili, perdessero il fascino oscuro

dell’arcano.

Il transante andava fiero della propria peculiarità lavorativa, che

lo faceva risaltare in mezzo agli altri addetti del Pallazzo, per

così dire, comuni, quanto il cane in mezzo al gregge. La

peculiarità non semplicemente di lavorare, ma di transare. Di

fare cioè qualcosa che stava al lavoro come un elicottero sta a

una libellula, un laboratorio di analisi cliniche al Piccolo

Chimico. Senza avere poi la più pallida idea del significato e

della logica sottostanti le transazioni e i loro astrusi e gutturali

acrostici.

Nondimeno i robottizzati abitatori di quell’ufficio a tenuta

stagna transavano a tempo pieno sotto gli occhi di Svàporat,

digitando senza sosta, in un’aura di coinvolgimento medianico

di gruppo, codici e parole-chiave, acronimi e glosse, rebus e

sciarade. Chiusi in quella stanza ermetica, sembravano

astronauti persi nello spazio che spingevano, ignari, muti bottoni

colorati.

E questa a dir poco bizzarra singolarità operativa era tale da

ripercuotersi sulla complessione psichica del transante, che non

era difficile riconoscere dalla camminata meccanica, la voce

artificiale, l’occhio vitreo e un tic da espunzione di consonanti a

fior di labbra. Oltre che da un odio profondo per i codici fiscali

e le sigle degli enti inutili. Quando i sintomi di quello stress

139

transattivo diventavano intollerabili -specie il tic, che provocava

spiacevoli rumori-, allora si destinava il soggetto colpito dagli

stessi ad altra più tranquilla funzione, dove, col tempo, guariva

completamente.

Ardea faceva parte dei malati professionali di svaporata

provenienza e, sia pur convalescente, era stata mandata a far la

segretaria nell’ufficio del controllo. Una segretaria in comune

fra il Nero e il Grigio, vestita sempre in un pied-de-poul dei due

colori che la rendeva cromaticamente adatta all’uno e all’altro, e

con un corpo asciutto e muscoloso che, parimenti, la rendeva

confacente all’uno e all’altro. Più vicina a una donna mascolina

che a un androgino vero e proprio. Già stava molto meglio da

quando l’avevano trasferita da quell’ufficio policromatico a

quello in bianco e nero del controllo. La voce da uomo l’aveva

anche prima di diventare trans.

“No, grazie.” rispose il Nero, che andava pazzo per quella voce

da tenore e non sapeva perché. Anche se, dopo quella notte, lo

sapeva un po’ di più.

Chi sono?, gridò muto il Nero in un silenzio d’inferno. E

quell’urlo vuoto gli fece vibrare i timpani, quasi ci fosse passato

un treno in mezzo.

Chi è?, gridò ugualmente muto in un silenzio anche peggiore il

Grigio, nel guardare l’oggetto del desiderio che gli stava di

fronte far l’equilibrista fra i due sessi come un trapezista sulla

fune. Una fune senza la rete sotto.

* *

“Sì, avanti.” si strascicò la voce neutra di Ciarli in risposta ai

colpi contro la porta. Tre colpi rapidi e precisi; non troppo forti

ma neanche troppo leggeri. Tre colpi pieni, rotondi, equamente

140

distanziati. I rintocchi di una pendola di precisione. Rintocchi

dal suono altero e supponente, dalla scansione implosiva ed

egocentrica.

“Ah, Giona! Prego, si accomodi.” disse appena si stagliò sulla

porta uno scherzo di sagoma nera incappellata.

Ciarli aveva già avuto modo di conoscere la complessione

ridotta di Giona e il suo amore corrisposto per quel colore cieco.

Tuttavia ogni volta che lo vedeva avvertiva un brivido a pelle.

Lo stesso che aveva provato la prima volta che se l’era trovato

di fronte. Una sorta di oscuro presagio di disgrazia.

Dopo averlo fatto sedere, Ciarli spiegò al citoplasma nerovestito

della pratica smarrita, dell’importanza che questa rivestiva per il

direttore e il Pallazzo tutto, e della fiducia incondizionata che

l’uno e l’altro riponevano in lui. E pur confessando di non

conoscere la questione nei dettagli, non essendone stato posto a

conoscenza dal supremo comandante di quei vetri, c’era il

serissimo rischio, almeno a quanto paventava il supremo, che

contro l’iceberg di quella pratica vagante il transatlantico di

cristallo potesse colare a picco.

“Pensa di farcela?” chiese alfine a Giona, fissatolo nelle lenti

nere -non si toglieva mai gli occhiali da sole, salvo quando

voleva far eccezione alla regola-. E dal momento che non

intravedeva risposta al di là di quella barriera di buio,

immaginatoci dietro un punto interrogativo più grande di lui,

forse perché lo riteneva non altrettanto abile ad afferrare col

cervello quanto a creare con le mani, Ciarli aggiunse un

pleonastico: “A fare una copia della pratica smarrita.”

Per tutta risposta Giona gli stese sotto il naso le braccia coi

palmi guantati girati verso l’alto. Poi cominciò a togliersi i

guanti lentamente, con voluttà da padrino di paese. Finché non

rimase a mani nude. Due mani da bambino.

141

“Le vede queste?” replicò Giona, nella voce una punta di

minaccia, prima di rinfoderare, in via del tutto eccezionale, gli

occhiali e infilarli nel taschino della giacca. Quindi stese di

nuovo il braccio rinfoderatore e rimase a mani aperte, i palmi

come a ricevere l’ostia benedetta e gli occhi come a darla. Ciarli,

non avendo problemi di vista, fu costretto ad assentire. “Ebbene,

con queste posso fare qualsiasi cosa.” sentenziarono due

occhietti di pece mentre si squadravano le preziose propaggini.

“Quindi lei può riprodurre una pratica qualunque anche senza

averla vista?”

“Io posso fare tutto. Da una pratica a un quadro d’autore; da un

francobollo a una cartolina d’auguri. Che l’abbia vista o meno.

Se non l’ho vista me la immagino.”

“Comincerà oggi stesso, dopo pranzo.” approvò soddisfatto

Ciarli “Le abbiamo assegnato l’ufficio più bello del piano.”

“Mi immaginavo anche questo.” disse Giona rimettendosi gli

occhiali, prima di liberare la sedia e Ciarli della sua inquietante

presenza.

* *

Filo stava ancora pensando all’incontro fatto in ascensore. A

quell’essere monocromatico che aveva condiviso con una

smorfia la policromia del suo maglione a righe. Forse odiava i

colori e ne sopportava a fatica la vista, o forse era solo una

smorfia d’espressione, e in tal caso la fatica era tutta di chi ne

condivideva il tetto o qualcosa di più intimo.

Nell’entrare in ufficio scoprì che Sotto era ancora latitante.

L’unico che avrebbe potuto sentirne la mancanza era Prillo, ma

il dir più azzimato del Pallazzo era barricato nel suo ufficio

d’avorio. Stava pensando a come risolvere un problema della

142

massima importanza. Trovare una scusa per convincere la

direzione a installargli in ufficio uno specchio, per soddisfare il

verme solitario del proprio narcisismo.

Probabilmente qualcuno avrebbe dovuto andare a spiegare ai

carcerieri in camice bianco di Sotto le particolarità del ruolo di

appendice. Un ruolo che, stante l’utilizzo in comune di parti

anatomiche appartenenti a colui di cui l’appendice è

complemento, comporta uno sdoppiamento non solo di

personalità ma anche di tutto il resto. Sdoppiamento che forse,

causa il legame simbiotico dir-aspirante dir, era sconosciuto

finanche all’appendice stessa.

In compenso notò che girava per la stanza il questuante.

“Tutti presenti, vero?” gli chiese Filo allorché questi gli fu

davanti.

L’interrogato assentì con una gravità che gli fece somigliare la

faccia a un macigno, gli occhi a due sassi e la bocca a una crepa.

Il questuante, il cui vero nome era Mungo, però pronunciato

all’inglese, era figlio illegittimo di Prillo e di Vago, un dir

dell’ufficio vicino che aveva il vizio di mangiarsi le unghie e le

parole. Una dieta più volte sconsigliata dal suo medico curante.

Le due teste, pensando in contemporanea, avevano partorito una

pensata da capogiro. Avevano istituito fra le due funzioni di cui

erano, in certo qual modo, responsabili una nuova figura

professionale. Una specie di jolly, di tuttofare. Qualcuno che

non avesse un lavoro proprio da svolgere, ma che, in caso di

ferie o malattia di uno o più addetti degli uffici interessati da

quel parto cerebrale, potesse farsi carico delle loro pratiche e

portarle avanti. Ovvero qualcuno che, pur in mancanza di

assenze di un tipo o dell’altro, nell’eventualità di picchi

improvvisi di lavoro in capo a un qualche settore in cui i due

uffici erano distinti per tipo di pratiche, potesse essere d’aiuto

143

nell’appianarli. Una figura che avrebbe dovuto avere un poco

delle conoscenze di tutti; quindi con una certa dotazione di

grigio sotto i capelli.

Quando però non c’era nessuno in ferie o in malattia, ben pochi

di quegli addetti, per così dire, gemellati, dinanzi a imprevisti

aumenti di lavoro, passavano a Mungo una parte di questo.

Preferivano tutti rimboccarsi le maniche, tenendosi strette anche

le pratiche in eccesso, piuttosto che ricorrere al suo aiuto. Il

timore era di perdere in futuro, a fronte di sempre possibili cali

di lavoro, quello extra che gli avessero passato, e magari di venir

poi privati anche del proprio, così da essere costretti a loro volta

a mendicarlo da qualcun altro.

Aveva un bel protestare Mungo che in fondo era un collega, un

impiegato come loro, solo con un ruolo diverso, di rincalzo o di

rinforzo a secondo dei casi, e che aveva l’intrinseco bisogno di

fare qualcosa, di sentirsi impegnato. Se non altro per far passare

il tempo e non pensare di continuo alla poco gratificante

condizione di riserva, sia pur lavorativa. Ma era tutto inutile.

Nessuno voleva saperne di elemosinargli neanche gli spiccioli

di quanto aveva in cantiere. Solo Filo e qualche altro gli

passavano il lavoro in avanzo.

“Tutti presenti.” confermò Mungo, l’espressione cava della

pietra.

“Tieni.” disse Filo allungandogli qualche pratica.

“A buon rendere.” replicò Mungo con un sorriso. E la faccia, da

pietra, ritornò di carne.

* *

Anche quel giorno, come ogni altra giornata passata e da

passare, era venuta l’ora preferita dagli abitatori del Pallazzo.

144

Almeno dopo quella che sanciva, con l’uscita, la fine

temporanea della locazione forzata. Era scoccata l’ora della

pausa pranzo, e gli inquilini pallazzeschi che non andavano a

procacciarsi il pasto fuori da quei vetri migravano in ordine

sparso verso il punto dove il pasto avrebbe potuto averlo al loro

interno. La quotidiana mensa addominale.

Con la differenza che, rispetto al solito, quel giorno in mezzo al

popolo dei migranti ce n’era uno che nessuno aveva mai visto

prima. Un’ombra nera con gli occhiali scuri, unico negativo in

un mondo fatto di pellicole positive.

Il “quattro con” di Prorecco, ai remi le quattro sorelle Dalton,

era in procinto di partire per la consueta gara contro il tempo,

per migliorare di continuo la somministrazione del servizio e

tagliare al massimo i tempi della fila.

Quando fu l’ora Prorecco dette il “via”, e le sorelle in scala

cominciarono a mulinare a pelo di bancone i bracci meccanici,

mentre il timoniere, innescato il proprio metronomo interiore,

iniziava a dare il tempo.

“Oh... òh!” scandiva secco il capovoga, e le quattro vogatrici

tendevano i piatti alla fila dei mensaioli: primo, secondo,

contorno e dolce, con la sincronia di una fabbrica di orologi.

“Oh... òh!” altro primo, secondo, contorno e dolce, mentre il

canottiere incassava dal primo.

“Oh... òh!” ancora un primo, secondo, contorno e dolce, col

canottiere che riscuoteva dal secondo. Tutto come a ogni

partenza.

Fino a metà gara la scialuppa ai comandi di Prorecco, spinta dai

magli delle instancabili vogatrici, corse liscia e veloce,

districandosi con navigata abilità nel mare delle portate, e con

lei tutto il servizio. Finché non fu il turno di Giona.

145

Allorché si presentò alla minore delle Dalton, dinanzi alla scelta

fra tagliatelle al ragù e penne al pomodoro, la piccola sagoma

nera, sfilato il guanto mignon in nero di pelle, allungò in tutta la

sua lunghezza il bianco indicino della mano destra e glielo puntò

contro, esigendo chiarimenti su quanto esposto. Prima sulle

tagliatelle e sulle penne -che grano era: zero, doppio zero, sotto

zero; com’era stato lavorato: se era raffinato, semiraffinato o

ancora da svezzare; se erano indietro di cottura, al dente o da

ospedale-, poi sul ragù -se aveva soffritto a fuoco lento o era

stato fischiato frettolosamente fuori da una pentola a pressione,

se al manzo macinato (a proposito, com’era stato macinato?) era

stata aggiunta la pancetta e al trito di verdure la noce moscata-,

infine sul pomodoro -se ci avevano imbiondito dentro uno

spicchio d’aglio, se l’avevano profumato con un tocco di

origano, se era dell’agricoltura biologica o dell’agricoltura

soltanto-.

La piccola Dalton guardò quell’alieno fumato a bocca aperta, gli

occhi fuori dalle orbite e le orbite fuori dalla testa. Nel

contempo le altre sorelle, soddisfatti in fretta e furia i mensaioli

al bancone, avevano assistito alla scena a mo’ di mummie

insarcofagate, mestoli e forchettoni a mezz’aria. Anche

Prorecco, sfilato l’ultimo pagante prima del blocco della fila,

aveva preso a seguire la sceneggiata, interrompendo per

manifesta inutilità il metronomo intestino, sicuro ormai che quel

giorno la scialuppa pallazzesca non avrebbe ottenuto un gran

tempo.

Giona, poco soddisfatto delle spiegazioni, decise di saltare il

primo e passare al secondo. Puntò allora il pericoloso strumento

da puntamento, sempre il bianco indicino della piccola mano

maestra, alla Dalton numero due, che gli propose balbettando la

scelta tra cotolette alla milanese, arrosto e polpette. Giona

146

viceversa scandì una perentoria richiesta di ragguagli prima

sulle cotolette -se era proprio carrè di vitello o una semplice

fettina; come l’avevano impanata (l’impanatura ideale era di

due parti di pangrattato e una di parmigiano grattugiato)- e poi

sull’arrosto -che taglio era: noce, lombata, filetto, petto, stinco;

se era manzo o vitello; se ci avevano infilato il classico rametto

di rosmarino-. Lo polpette non le prese in considerazione; dava

per scontato che fossero fatte con gli avanzi.

La risposta della Dalton di turno fu un sorriso completamente

ebete, mentre quella di chi aspettava in fila il suo turno fu un

rumorio scomposto e spazientito. I mensaioli in attesa

paventavano il profilarsi di un imprevisto slittamento nei tempi

di distribuzione della quotidiana pietanza, con conseguente

obbligata rimonta sui tempi di consumazione della medesima,

pena la ripresa ritardata del lavoro e il recupero del ritardo in

uscita.

La risposta invece di quelli già ai tavoli, che non avevano il

pieno d’ansia e il vuoto di stomaco dei primi, fu un rumorìo più

sommesso, quasi divertito a quello spettacolo mai andato in

scena prima in quella mensa né forse -ma questo neanche il

vostro narratore può saperlo con certezza- in nessun’altra.

Spettacolo che, in quanto tale sarebbe stato anche divertente, ma

non essendo tale affatto, lo era fino a un certo punto. Fra gli

spettatori seduti a tavola c’erano anche Filo e Amber.

* *

Il Nero era andato a mangiare a casa per festeggiare il fresco

armistizio con la moglie. La consorte e le gemelle l’avevano

ripagato aspettandolo senza iniziare, per cominciare uniti il

primo pranzo della nuova era. Per suggellare col cibo l’alleanza

147

appena nata, e affrontarne insieme, quasi in comunione, le

regole non scritte.

Le gemelle lo tranquillizzarono sul loro futuro di liceali

gaudenti. Gli preannunciarono che sarebbero andate entrambe

all’università, e che colà avrebbero aumentato le ore di studio e

diminuito quelle di gaudenza. La facoltà precisa dovevano

ancora metterla a fuoco, ma l’idea di rinviare a tempo

indeterminato l’entrata nel mondo del lavoro no. Nel modo più

assoluto. Lo studio, avevano realizzato le due maturande

maturate di colpo, era troppo importante per lasciarlo perdere.

Specie quando lo si può affrontare con agi tali da non dover

prenderlo di petto.

La moglie gli inviò un sorriso di una dolcezza disarmante,

mentre gli versava da bere con una devozione da madonna del

rosario. La geisha e il suo samurai, questo sembravano. Era uno

di quei sorrisi che prometteva di partorire qualche pargolo

indesiderato; che precedeva la richiesta di qualcosa. Una

richiesta che però tardava a venir fuori. E che forse, per questo,

era solo una sua paura. Era tornato tutto a posto.

Miracolosamente era ritornato tutto uguale a prima. Un “prima”

che si perdeva nelle pieghe dei ricordi, e che probabilmente non

era mai esistito.

Nondimeno si sentiva come di fronte alla prova della vita, fra

sudori freddi e brividi di caldo. Gli sembrava di star seduto su

una sedia con una bomba a orologeria sotto. E nel guardare tutto

il bucolico dintorno, si aspettava di saltare in aria da un

momento all’altro.

Anche il Grigio era andato a mangiare a casa. Per non essere da

meno del suo capo, ma soprattutto per non esporsi da solo agli

sguardi invasivi della mensa. Sapeva che, in qualche modo,

ormai tutti sapevano. Sia la storia della pratica che quella del

148

loro fallimento. Del loro fallimento come ufficio; del suo

personale fallimento col Nero -fece mente locale mentre

pensava, per essere sicuro di pensare bene- non poteva saperne

niente nessuno. Solo in due erano a conoscenza di quel segreto,

e nessuno dei due aveva interesse a divulgarlo.

La madre lo accolse nel grembo domestico col cuore in festa,

non solo per il vederlo in quel momento quanto per non averlo

visto la sera prima, felice che il suo figliolo avesse finalmente

passato la notte fuori casa con una donna.

“Che mi dici di Nerina?” gli chiese con un sorriso, mentre lui

affondava i colpi nella pastasciutta. Uno sorriso da mamma in

ansia, che spera che il suo unico figlio si confidi e le racconti.

Il Grigio prese a mangiare con più ingordigia. Finché avesse

tenuto la bocca piena non correva il rischio di parlare. Sua

madre forse si sarebbe stancata di aspettare la risposta.

* *

All’inizio Prorecco aveva seguito con partecipata curiosità quel

fuori programma, quel curioso siparietto che gli negava per quel

giorno la possibilità di abbassare i tempi di somministrazione

del servizio, ma gli offriva l’opportunità di farsi due risate. I

tempi avrebbe potuto abbassarli un’altra volta; le risate invece

non erano cosa di tutti i giorni.

Quando però Giona, dopo aver richiesto inutilmente la cartella

clinica dei primi per non averne ritenuto in salute nessuno, passò

ai secondi, il riso gli si spense di colpo. Allorché poi, una volta

richiesto, sempre inutilmente, lo stato di servizio dei secondi,

polpette escluse, quella specie di scarafaggio travestito da

ispettore di cucina si mise a scuotere il cappello, provocando le

urla spazientite della fila in attesa, Prorecco decise che era ora di

149

intervenire. Si alzò dalla cassa, gli andò davanti e gli fece

seccato: “Se è indeciso, si sposti. Almeno lascia passare il resto

della fila.”

“Non sono indeciso.” replicò Giona. “Sto solo facendo il conto

delle calorie delle cotolette e dell’arrosto. Ci tengo alla salute.

Se... queste” aggiunse guardando nero e indicando con

l’indicino da punta la scala Dalton “Se queste mi avessero

risposto, l’avrei già fatto.”

“Senta!” ribatté Prorecco, avvertendo un preoccupante

formicolio nelle braccia. Due braccia da canottiere. “Questa è

una mensa, non un ristorante macrobiotico!”

“L’ha detto, una mensa. E dunque non un negozio di borse. O di

stoffe. O di mobili.”

“Vogliamo muoverci?! Abbiamo fame!” si sentì dalla fila.

“Un attimo di pazienza, signori, sto decidendo.” rispose Giona

con aria di sufficienza. “Sono un po’ carenti nelle spiegazioni le

sue assistenti, sa?” obiettò al canottiere.

“Mi ascolti bene!” ribatté di nuovo Prorecco, sentendo il

formicolio scendergli pericolosamente dalle braccia alle mani

“Io non so chi sia lei, non l’ho mai vista, ma se non si decide a

prendere qualcosa, o si sposta o la sbatto fuori!”

“E se prendessi un contorno?” si chiese Giona, senza degnare

d’uno sguardo il formicolato. “Signorina, come le fate le verdure

alla griglia?” domandò alla Dalton numero tre. “Perché con

l’aglio mi fanno acidità allo stomaco, col sale invece mi alzano

il colesterolo, e io tengo a entrambi. Non vorrei mi restassero

pesanti.”

A quel punto Giona si sentì librare in aria. Forse un giramento di

testa dovuto al fatto di non aver ancora mangiato niente. Eppure

doveva essersi alzato per davvero, dal momento che vedeva i

piedi delle Dalton al di là del bancone. Va bene sentirsi leggero,

150

pensò, ma così era troppo. Anche se quando precipitò a terra

non si sentì leggero per niente.

Era accaduto che il braccio maestro di Prorecco era partito,

aveva afferrato Giona per la collottola e, dopo averlo sollevato

di una spanna, l’aveva fatto volare sul pavimento.

“Tu, brutto scimmione! Energumento dei miei stivali! Te la farò

pagare!” stizzì dalle terre lo straccetto nero, minacciando la

montagna di muscoli con la sua personale scacciacani, il solito

indicino da punta della mano destra.

A quel punto il canottiere si colorò di rosso, si gonfiò come un

gommone di salvataggio a contatto con l’acqua e si buttò sul

braccio che reggeva l’arma giocattolo. L’afferrò e lo fece prima

roteare per aria e poi franare sull’impiantito, assieme al poco che

ci stava attaccato.

Alle urla di Giona intervenne in suo soccorso un nugolo di

inquilini pallazzeschi, che si agganciò ai bicipiti del canottiere

per fermargli i remi impazziti.

“Lascialo!” gli gridò uno che aveva visto uscire Giona

dall’ufficio di Ciarli “Questo sta nella manica dei capi!”

“Meglio!” gridò a sua volta il canottiere “Quando me lo sarò

lavorato potrà stare anche nelle scarpe!” e riafferrato il braccio

destro, glielo spezzò.

* *

Il Nero s’era graziosamente accomiatato dalla sua geisha con un

sorriso a mandorla, dicendole che il caffè l’avrebbe preso fuori.

Magari senza zucchero, pensò senza dirlo, vista l’atmosfera

sdolcinata che s’era sciroppato, e a cui da tempo aveva perso la

bocca. Era entrato dalla meteoropatica e gliel’aveva ordinato.

La vecchia caldaia, per quanto marciasse a tutta forza, esalava

151

solo flebili sbuffi. Stava tirando gli ultimi. In primavera

l’avrebbero di certo messa a riposo per raggiunti limiti di

servizio. Un riposo eterno, non essendo prevista la resurrezione

delle caldaie. Se mai fosse riuscita ad arrivarci, a primavera, con

quella tosse convulsa che ne intasava i condotti e minacciava

tutto il sistema stufo-tracheale. In conseguenza di ciò il locale,

per usare un eufemismo, non era dei più caldi. Per dire invece le

cose come stavano, era dei più freddi. Garanzia questa che il

caffè l’avrebbe avuto come lo voleva, bollente.

Anche il Grigio aveva lasciato la vecchia madre dicendole che

avrebbe preso il caffè fuori. Quello d’orzo fatto in casa l’aveva

educatamente ma altrettanto fermamente rifiutato. Passò pure lui

dalla meteoropatica, e fu lì che ci trovò il suo capo. La sua

Nerina.

I due incrociarono gli sguardi. Il Nero accompagnò all’unico

tavolo libero il suo caffè e, una volta che l’ebbe avuto, anche il

Grigio non trovò di meglio che accompagnare il proprio al

tavolo più libero, o meno occupato, che era rimasto, quello del

suo fresco compagno di nottata. L’incrociatore oculare di un

istante prima. Ripresero a guardarsi in silenzio, assorbendo i

caffè lentamente, quasi senza berli, nel timore di finirli troppo

presto e di essere poi costretti a parlarsi.

Il Nero stava pensando alla sua vita. Fare un bilancio, ecco cosa

serviva. Magari non definitivo, dal momento che si augurava di

godersi ancora qualche lustro in buona salute. Ma provvisorio sì.

Tutti a un certo punto della vita fanno un bilancio; compresi

quelli che dicono di non farne mai. Almeno per sapere come

regolarsi nelle spese. E’ anche vero che c’è gente che non fa

altro tutto il giorno, non conoscendo altro modo di passare il

tempo. Ma soprattutto non avendo la necessità di far quadrare

152

quello del portafoglio per mangiare. Uno ogni tanto però non fa

male, e anzi dicono aiuti a vederci più chiaro. Specie le banche.

E quel bilancio che stava buttando giù mentalmente non gli dava

un gran credito per il futuro, anzi paventava una cospicua

lievitazione di diverse poste del passivo. Tutte dalla parte della

moglie e delle figlie. Era fuori discussione che all’attivo avrebbe

dovuto pensarci lui. Tre contro uno; una lotta impari. Resa

ancor più impari dal fatto che i tre erano donne.

Ripensò al pranzo e alla moglie. Il sorriso della consorte alla

fine aveva partorito il pargolo. Se tale poteva essere chiamato il

frutto di quel parto. I Fasti li avevano invitati, dopo Natale, nella

loro villa in montagna. Sarebbe stato bello prendersi una

vacanza, aveva detto lei; ma io devo lavorare, aveva obiettato

lui; peccato, gli aveva sospirato col volto della delusione; perché

non ci vai tu con le gemelle?, aveva suggerito a un tratto lui; ma,

non saprei, aveva replicato lei con un frizzo d’occhio vispo, a te

non dispiace?; no, andate pure, le aveva risposto, io vi

raggiungerò appena posso; sei un tesoro, gli aveva sussurrato

baciandolo sulle labbra. Poi era uscito sulla via del caffè.

I due osservanti poco ortodossi continuavano a guardarsi muti

anche dopo aver esaurito l’aromatico contenuto delle loro

tazzine.

“Dopo Natale sono libero.” disse all’improvviso il Nero.

Il Grigio lo guardò con un’espressione da bambino, incapace di

emettere suono, sicuro di aver capito male, o travisato il senso, o

non afferrato il nesso. Ma con l’esile speranza di aver sentito

giusto. Fu questo filo sottile che gli fece schiudere le labbra in

un’ombra di sorriso.

* *

153

Quando sentì il piccolo polso spezzarsi, Prorecco, quasi si fosse

spezzato in quel momento qualcosa anche dentro di lui, si fermò

di colpo, come un sonnambulo svegliato da uno schiaffo tirato a

tutto braccio. E allorché, scrollatosi di dosso un numero

imprecisato di pugnaci inquilini pallazzeschi che gli si erano

attaccati alle braccia nella speranza, vana, di disarmarle, allorché

vide sotto di lui quella piccola cartilagine incatramata col

moncherino pendulo, e realizzò di essere stato lui a mettersela

sotto e a rendergli il moncherino tale, lanciò un grido di orrore.

Poi si guardò incredulo le mani assassine, inveì contro di loro e

contro il loro sconsiderato proprietario, e corse a chiudersi in

cucina in preda alla disperazione del coccodrillo. Prontamente

consolato da otto tentacoli affettuosi, quelli delle quattro sorelle

piovra, che appena lo videro ritirarsi in lacrime accorsero con le

braccia del pronto soccorso.

E mentre i mensaioli rimasti a bocca asciutta e stomaco vuoto si

servivano da soli, riempiendo i vassoi al pari di stive di carghi in

partenza, un pugno di anime pie soccorreva quella curiosa

specie di nero uccello parlante. Per lo più quelle che avevano

già mangiato e non avevano impegni durante la pausa.

“Stupido caprone bifolco! Grosso pezzo di zotico! Te la farò

pagare! Ti farò pentire!” gracchiava la cornacchia, tenendosi

l’ala spezzata con quella sana.

“Chiamiamo un’ambulanza.” suggerì uno con i capelli tinti di

castano chiaro. Era Torso, un uomo affascinante dai capelli

brizzolati che, tingendoseli, aveva finito per diventare un tipo

castano chiaro qualunque.

“Sai il tempo che ci mette a venire un’ambulanza?!” replicò

Masolargo, una montagna di carne a forma di uomo.

“Portiamolo noi al pronto soccorso.”

154

“Ci penso io.” disse correndo a prendere la macchina Furio,

detto Cipensoio perché in ufficio pensava a tutto lui. Dal più

piccolo problema al più grande, dal più sciocco al più serio

finanche all’inesistente, bastava rivolgersi al grande accentratore

ed era risolto.

Furio, pur avendo cambiato diversi uffici del Pallazzo, si

vantava di non aver mai subìto un trasferimento -nel senso di

esserne stato soggetto passivo, quasi un pezzo di mobilia che

passa da una stanza all’altra-, ma di essere sempre stato richiesto

negli uffici in cui andava, e non semplicemente trasferito da

quelli che lasciava. La distinzione afferiva a una questione di

lana caprina, quella di spostarsi camminando sulle acque

anziché spostarsi tout court. Ma la sostanza era la stessa; solo

che la forma la faceva più bella.

“Volete decidervi, lucertole dei vetri?! Branco di perditempo!

Vedo le stelle!” continuava a strillare l’uccello del malaugurio,

dimenandosi come un ragno ribaltato.

I due lo portarono a braccia nell’atrio, lo caricarono senza sforzo

nell’auto di Furio, sopraggiunta nel frattempo completa di

autista, e il gruppetto partì in quarta alla volta del pronto

soccorso più vicino. Cipensoio ovviamente guidava, Torso, al

suo fianco, fungeva da navigatore, a indicargli la strada più

breve per raggiungere la meta comune, e la montagna di carne

stava dietro con Giona, aiutandolo a reggere con la sua mano da

montagna il moncherino offeso.

Furio aveva una vecchia macchina francese dal muso a squalo,

con quelle sospensioni che hanno solo le auto di quel tipo.

Sospensioni che a ogni curva provocavano nell’abitacolo un

rollìo da barca a vela in mezzo a un maremoto.

“Presto, lavativi sotto vetro!” inveì con quanta forza aveva in

corpo la tarantola, nel guardare il mucchietto d’ossa della sua ex

155

mano destra che gli pendeva dal polso come un ramo spezzato

da un albero nano. “Ho un male che non ci vedo!”

“Ci penso io.” disse l’omonimo pigiando il gas, pentito di

essersi preso una tale gatta da pelare. Per di più di quel colore

infausto.

Torso tirò fuori di tasca un fazzoletto biancospurio e si mise a

sbandierarlo dal finestrino, per avere quella strada che, pur non

essendo di nessuno, nessuno mostrava di voler dare. Intanto

Furio, attaccato al clacson, continuava ad andare a tavoletta.

Evitarono pedoni, biciclette e motorini. Superarono auto che

andavano per la loro strada, alcune di corsa, qualcuna di passo,

altre a singhiozzo. Correvano all’impazzata fra quelle scatole di

latta, al pari di certe auto della polizia quando sfrecciano a

sirene spiegate per soddisfare un’improvvisa voglia di caffè o di

fidanzata di qualche suo poco paziente occupante.

Per fare prima Torso suggerì di svoltare per una strada

secondaria. Era più lunga ma anche molto meno trafficata.

Avrebbero potuto spingere al massimo e arrivare prima.

Il rollìo nella barca divenne insopportabile. Furio però guidava

da pilota mangiando strada e polvere, e l’ospedale si faceva ogni

istante più vicino. L’auto pareva un bob sciolinato su una pista

di ghiaccio lungo quella strada poco battuta, abbastanza larga

ma piena di curve, e i quattro ballavano quasi fossero manichini

al ritmo virulento delle sterzate di Furio, piegando

irrimediabilmente dalla parte opposta a quella di sterzata. Rollìo

a parte, tutto sembrava andare bene. O almeno secondo le

intenzioni. Finché non incrociarono Lea.

* *

156

La notizia dell’incidente di Giona stava facendo il giro del

Pallazzo alla velocità delle onde radio. Anche se nessuno

all’infuori di Ciarli lo conosceva per nome né di vista, ma solo

come quell’essere nerovestito che era comparso in mensa a mo’

di macchia d’inchiostro su un vestito. E che fortuna, tutto così

bardato a lutto, non dava per niente l’idea di portarne.

In cucina frattanto Prorecco continuava a non darsi pace,

inutilmente consolato dalle sei braccia più due di quella dea kalì

diviso quattro e in scala che erano le Dalton. Gli otto tentacoli

scivolavano sui muscoli ancora gonfi e guizzanti del canottiere

nel tentativo di scioglierli, di allentarne nodi e tensione, ma quei

fasci di fibra grezza restavano più tesi di corde d’archi. Le

sorelle piovra però non si dettero per vinte. Presero a ricoprire

quelle carni rigonfie di nuove, più profonde e sistematiche

frizioni, di affettuose e intense carezze sui lombi, di massaggi

officinali più fitti e più lenti. Il tutto accompagnato a dolci e

sussurrati inviti a recedere da quello stato di prostrazione

comatosa e tornare a dar voce al suo metronomo interiore.

Solo che quella specie di contatti ravvicinati del quarto tipo -uno

per sorella- su quei muscoli ancora freschi di palestra, tonici

quanto quelli di un atleta prima della gara, fecero mutar loro,

poco alla volta, i sospiri di preoccupazione per la poco allegra

condizione psicologica del capovoga, in esclamazioni di

meraviglia per la sua smagliante condizione fisica. A un certo

punto anche il canottiere, da quel poco che poteva udirsi dalla

sala mensa -nessuno, dopo l’incidente, s’era azzardato a mettere

il naso in cucina-, aveva cominciato a cambiare i singulti in

gemiti affannosi e le tirate di naso in mugolìi sommessi. Al

punto da far pensare ai mensaioli rimasti che la crisi seguita al

suo gesto inconsulto fosse stata definitivamente superata. Ma

anche da farli sospettare che il pronto soccorso prestato

157

all’afflitto e, a quanto pare solo apparentemente, inconsolabile

timoniere si fosse trasformato in un massaggio erotico prima e

in un’orgia sfrenata dopo.

In effetti è proprio questo che era successo. Le mani delle

Dalton avevano compiuto il miracolo di trasformare l’acqua in

vino. Non solo erano state capaci di rasserenare l’ombroso

capovoga, ma anche di fargli ritrovare il remo maestro, e di

farglielo mulinare con la gagliardia dei bei tempi. Quel remo

che, superata la boa dell’età di mezzo, il canottiere pensava

essersi ormai messo a riposo.

Il Nero e il Grigio intanto, rientrati nel Pallazzo e apprese le

poco allegre novità su Giona, si precipitarono nell’ufficio del

capo supremo, a renderlo partecipe delle stesse. I due decisero di

entrare fianco a fianco, per morire insieme o salvarsi insieme

dalla raffica di contumelie che li avrebbe investiti una volta

dentro.

Il supremo mostrò invece un inusitato sangue freddo. In realtà

era stato colpito dal più rigido dei rigor mortis verticali.

Nondimeno riuscì ad allungare un braccio alla cornetta e a

chiamare Ciarli, il quale, sopraggiunto di corsa e trafelato,

chiese a bomba, senza rifiatare: “Qual è il braccio rotto?”

“Il destro.” rispose il duo del controllo.

“Siamo salvi!” espirò Ciarli buttando gli occhi al soffitto “Giona

è mancino!”, e nell’esalare un sospiro di sollievo da ultima

spiaggia gonfiò la sedia imbottita più vicina, che gli sbuffò di

seguito. Il sospiro degli altri tre e il soffio liberatorio delle tre

sedie che gonfiarono anch’essi fecero da coro all’espiro.

* *

158

Lea era una vecchia signora, che portava in giro il suo carico

d’anni e gli acciacchi che di quel carico erano fardello con la

nivea leggerezza di un volo d’ovatta. Un carico d’anni che, per

quanto ci fosse chi scommetteva sul loro numero sparando a

caso fra i più alti, nessuno poteva dire di conoscere davvero.

Anche a saperla, però, l’età di una signora -e chi legge sa per

certo che al vostro narratore non è dato ignorarla-, non si addice

spargerla ai quattro venti, ma tenerla chiusa nel magico scrigno

dei segreti. Né saperla, in fondo, è d’interesse in questa storia.

Come ogni mattina Lea s’era alzata col sole alto, s’era lavata a

fatica negli angoli, e aveva trascinato le sue leve fatiscenti nella

stanza al seminterrato dove la generosità dei condòmini le

faceva trovare una calda colazione. O un tiepido pranzo, a

secondo dell’ora in cui lo consumava. Inutile a dirsi, non aveva

più l’autonomia del passato, e senza l’aiuto di qualche buon

vicino -alcuni, perché altri l’avrebbero vista volentieri

raggiungere gli antenati- non sarebbe riuscita a tirare avanti.

Poi, dopo colazione, o dopo pranzo, sempre a secondo dell’ora

in cui consumava quel condominiale conforto e del tempo che ci

metteva a consumarlo, usciva a sgranchire la sua artrite. Tutti i

giorni, con ogni cielo. Talora impensierendo i suddetti vicini,

perché a volte le capitava di far tardi e tornava col buio. Un po’

perché si muoveva lentamente, mettendo assieme i passi che

componevano la camminata quasi fossero i pezzi di un mosaico

senza fine. Un mosaico che solo la sua testardaggine riusciva a

far tornare ogni sera. Un po’ perché talvolta, nel camminare, le

capitava di fermarsi a fissare le cose per un tempo amplificato.

Un po’ perché, infine, non le era difficile perdere

quell’orientamento che da giovane trovava a occhi chiusi. Però

era sempre tornata. Magari a notte fonda, sporca o zuppa

d’acqua, ma era sempre tornata, e i condòmini a cui stava a

159

cuore avevano cominciato a credere che avesse molte più vite

delle sette che le spettavano di diritto.

La ragione di siffatto biblico numero di vite è che Lea era un

gatto. Per la precisione la vecchia gatta condominiale, che

viveva nello scantinato del palazzo che aveva eletto a domicilio.

Anche se non tutti i condòmini stravedevano per quella vecchia

inquilina morosa.

Quel giorno era sereno, e Lea si godeva il debole sole invernale,

nell’ora in cui scaldava di più e faceva meno freddo. Aveva

ancora un invidiabile manto nero, che dopo le spelacchiature

dell’estate era tornato più lucido di quello di una gatta da

salotto. Camminava con passi lenti e strascicati, accorta come

sono i gatti, con in più la prudenza dei vecchi, ma senza le paure

che hanno gli uomini quando invecchiano.

Nel frangente stava incrociando una strada secondaria, poco

battuta ma un po’ troppo larga da attraversare tutta in una volta

per i suoi passi incerti. L’avrebbe presa con calma; in fondo a

casa non l’aspettava nessuna bocca da sfamare.

Allorché però vide sbucare da una curva il muso di una

macchina che dondolava come una bilancia ubriaca e la puntava

senza lasciarle scampo, pensò di essere arrivata alla fine delle

sue vite. Si fermò a pensare a tutti i gatti con cui aveva

miagolato che se n’erano andati, che avevano già raggiunto la

casa del Gran Padre Gatto, sicura che li avrebbe rivisti di lì a un

salto. Pur non avendo ben chiaro il concetto di paradiso, sapeva

con immediata certezza che prima o poi avrebbe incontrato di

nuovo quegli ormai passati compagni di cammino. Pensò che

sarebbe stato bello rivederli, rivangare insieme i vecchi tempi e

farci sopra una bella miagolata. Sapeva che un giorno o l’altro

sarebbe successo; che prima o poi sarebbe venuto il suo

160

momento. Non aveva paura, era pronta. Pensò a tutto questo e

chiuse gli occhi.

* *

La mensa aveva ormai smobilitato. La porta di cucina s’era

riaperta ed era ricomparso Prorecco col sereno in volto. Un

sereno stanco, marcato da due occhiaie parlanti e una capellatura

scomposta sulla maglia della salute. Una maglia che mostrava i

segni inequivocabili d’esser stata tirata da qualsiasi parte poteva

aver avuto una qualche utilità terapeutica il tirarla. Gli facevano

corona le quattro sorelle in scala, ugualmente sul sereno stanco

in viso e sullo stazzonato spinto nella divisa.

Si era sciolto anche un capannello che s’era formato a seguito

del passaggio in mensa di un potente ex diruno del Pallazzo, il

quale, dopo anni da plenipotenziario sotto vetro, comandava ora

un normale palazzo in mattoni. Uno che dovunque andava

puntava solo su certi uomini, geneticamente ruffiani, di rado su

certe donne, sempre geneticamente come sopra, e questi, una

volta scelti, diventavano suoi fidi i primi, e favorite di corte le

seconde. E per questo suo interloquire solo e soltanto con

siffatto codazzo di cortigiani scelti, era inviso a molti e amato da

pochi. Nondimeno la sua visita al castello di vetro aveva

provocato in mensa una processione spontanea degli scudieri e

delle favorite di un tempo, per portargli in dono grazie, rimpianti

e buone parole.

Lui, alla vista di tanta cavalleresca fedeltà, s’era alzato di buon

grado, e per assecondare la loro fame d’inchino aveva

disinnescato il suo personale deus-ex-machina. Un

inginocchiatoio mobile incardinato nella fodera della giacca,

capolavoro dell’artigianato del legno, che si apriva e si chiudeva

161

alla semplice apertura e chiusura del nobile indumento

abbottonatizio. Quindi li aveva fatti inginocchiare uno per uno

benedicendo a voce alta la loro fede, e maledicendo sottovoce i

miscredenti che non erano venuti a riverirlo.

Anche Filo e Amber, dopo l’incidente in mensa, erano usciti. Al

primo accenno di rissa Filo, che le sedeva accanto, era stato il

più lesto ad alzarsi e a correre verso Prorecco. Poi però,

improvvisamente memore dell’iperbolico divario di

complessione tra lui e il suo rissoso obiettivo, aveva rallentato

ad arte la corsa, per far arrivare prima altri, più robusti di lui,

che erano partiti dopo.

Sta di fatto che allorché arrivò a un passo dal canottiere,

incollati ai suoi remi c’era già una ciurma di sei persone a remo.

Attaccarsi a sua volta, a quel punto, era impossibile. A meno che

uno di quelli che gli stavano appesi alle braccia come ninnoli di

Natale a un ramo di quercia gigante non gli avesse ceduto il

posto. Cosa questa a cui nessuno dei ninnoli era disposto, dal

momento che, fatti i conti, erano dodici contro uno, ed era

perciò impossibile che potessero perdere. Nessuno cede mai il

posto quando è sicuro di avere la vittoria in tasca. Non avevano

fatto i conti con i remi d’acciaio di Prorecco.

In ogni caso, che ci si attaccasse anche lui era inutile. Col fisico

che aveva non avrebbe spostato le forze in campo che dei

grammi di una confezione piccola di margarina magra. Un peso

ininfluente ai fini della battaglia finale. Però almeno aveva fatto

il gesto, e anzi essendo stato il primo a farlo, o quanto meno a

fingerlo, provocando così quello degli altri, gli piaceva pensare

d’aver dato un contributo decisivo a bloccare, sia pure fuori

tempo utile a Giona, l’indemoniato capovoga. Quasi a

nascondersi che in realtà l’energumeno s’era fermato da solo,

per lo sgomento di quello che aveva fatto.

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Era tornato verso Amber a braccia larghe e spalle sollevate, a

dirle muto che non ce l’aveva fatta ad agganciare nessuna delle

superaffollate canottiere braccia. Alla fin fine, le sorrise, aveva

partecipato ugualmente al salvataggio dei deboli -sia pure, nella

fattispecie, rompiscatole fino all’inverosimile-, contro i

prepotenti. E come dicono tutti, l’importante non è vincere ma

partecipare. Specie dopo che non si è vinto.

“Facciamo due passi?” propose Amber.

“Fuori fa freddo.” rispose Filo “Facciamoli nell’ala rotta. E’

divertente.”

* *

Quando Furio impressionò con la sua vista telescopica quella

piccola nera creatura ferma sulla strada, con due smeraldi

incastonati in viso che lo fissavano aspettando di essere

immolati sull’altare della velocità e della fretta, per poi chiuderli

un istante prima dell’estremo sacrificio, Furio pensò a

Miciomicio. Era questi un batuffolo grigio con gli occhi gialli,

che la sua bimba dagli occhi azzurri aveva trovato tremante

sotto un marciapiede e non aveva esitato a portare a casa.

Qualche essere senza cuore l’aveva gettato dentro il cassonetto

dell’immondizia. E qualche altro con solo un pezzo, che nel

buttare la spazzatura s’era accorto di quelle due piccole lampade

accese, l’aveva tirato fuori e poi se n’era andato, salvandolo da

una morte orribile ma condannandolo a una più lenta e

consapevole.

“Ci penso io.” mormorò fra sé Furio, ormai a un niente

all’inevitabile.

Fece due sterzate delle vita. Le sterzate più secche che avesse

mai affrontato. Una a destra e una a sinistra. Alla prima Giona

163

fu catapultato contro Masolargo, che accolse in grembo quel

peluche come un canguro il suo piccolo; alla seconda fu la

montagna a franare sul peluche. Con effetti devastanti. Il braccio

sinistro, con cui Giona s’era protetto dall’impatto col Maso alla

prima sterzata, alla seconda era rimasto schiacciato sotto la

montagna. Irrimediabilmente spezzato.

“Tutto a posto?” chiese Furio all’equipaggio di poppa dopo i

due colpi di coda. Ma soprattutto dopo aver guardato dal

retrovisore la strada e avervi scorto il piccolo quattrozampe sano

e salvo.

“Tutto a posto.” assicurò nel rialzarsi da valle la montagna -che

in effetti, come tutte le montagne, quando franano non se ne

accorgono mai. Sono sempre gli altri ad accorgersene-.

Giona frattanto accusava in silenzio un dolore atroce, diverso da

quello che già aveva. Un dolore così acuto da strappargli il fiato;

uno spasmo inenarrabile che gli partiva da una posizione che

non era quella da cui gli partiva prima l’altro. Allorché girò gli

occhiali ciechi verso il punto da cui sentiva nascere quel nuovo

travaglio e vide il piccolo braccio a mancina innaturalmente

ritorto, cominciò a zampillare acqua quanto una fontana di

sorgente. E mentre zampillava decise che non avrebbe rivolto

mai più la parola a soccorritori tanto balordi e maldestri. Anzi,

che non avrebbe più parlato fino a data da destinarsi.

Lea frattanto, riaccesi gli occhi e accortasi con felina meraviglia

di essere tutta intera ma principalmente ancora al mondo, alzò lo

sguardo e pensò che lassù qualcuno l’amava. Le era rimasta

ancora una vita; gli antenati li avrebbe raggiunti un’altra volta. E

dopo un ultimo saluto al cielo, a ringraziare la miagolante

schiera di coloro che un istante prima era sicura di rivedere, e

che, almeno per il momento, non avrebbe rivisto, riprese il suo

164

cammino in terra. Continuò ad attraversare la strada con la

testardaggine di sempre, trascinando lentamente zampe e artriti.

* *

Filo e Amber stavano passeggiando lungo i corridoi dell’ala

rotta discettando sull’accaduto e su quello strano tipo in nero

che l’aveva, in certo qual modo, fatto accadere, quando ad

Amber si accese una lampadina.

“E se fosse venuto qui per la pratica?” chiese a Filo.

Amber aveva, fra gli altri, un master polimerico in gialli

d’annata e neri di seppia, costruzione di alibi su misura con

scarto automatico di quelli posticci, riconoscimento a naso di

indizi scaduti e la fissa di essere più sottile del fiuto di Sherloch

Holmes.

“Non l’ho mai visto nel Pallazzo.” argomentò col mento a punta

e i ricci ingarbugliati.

“Nemmeno io.” replicò il suo dottor Watson. “Comunque, se

anche fosse, in quelle condizioni non so cosa potrebbe fare.”

Lei assentì, lo sguardo perso a rincorrere i pensieri; a dare un

vago senso logico al tutto. A un tratto anche Filo decise di dare

un senso, se non al tutto, a quella parte a cui era più interessato.

“Senti, che ne dici di uscire insieme una sera?” azzardò

rompendo indugi e paure. “Potremmo andare a un cinema o ad

ascoltare un po’ di musica.”

“E’ una vita che non esco la sera.” disse lei con l’amaro in

bocca.

“Neanche quando...?” replicò Filo senza pensare, pentendosi più

di averlo detto che di non aver pensato prima di dirlo.

“No, neanche quando stavo con lui.” gli rispose con la serenità

della tristezza “Non uscivamo mai.”

165

Filo si levò di bocca un sorriso al miele e glielo passò, come per

asciugarle quel pianto senza lacrime.

“D’accordo.” si riprese Amber “Organizzami qualcosa di carino

e ci sarò.”

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta Filo desiderò

stringerla fra le braccia. Un abbraccio innocente, senz’altro fine

che quello di tenerla stretta. Un salto mortale all’indietro nel

mondo incantato dell’infanzia.

L’evocato incanto di quel mondo fu spezzato dall’improvvisa

comparsa in fondo al corridoio di un gruppo multimediale che

avanzava a tempo di vivavoce. Lo capeggiava un piccoletto con

una sporgenza sul davanti, nelle parti basse; una specie di

gobba, frutto dello stivaggio forzato di un numero di fazzoletti

spropositato alla bisogna. Lo chiamavano il Portafortuna e lo

toccavano tutti lì, sulla patta, dove campeggiava in bella mostra

la marca dei pantaloni. Un nome che non lasciava spazio ad

aperture per i suoi toccatori: Closed. Al suo fianco c’era un

francofono con un indice calcificato, risultato di una mal riuscita

doccia gessata a una frattura scomposta del dito indicatore per

eccellenza, che pertanto indicava anche se non c’era niente da

indicare. Dietro ai due Lamàr, con un ghigno da pazzo e una

trousse di coltelli in mano. Uno straccio di cosa qualunque a cui

fare la punta riusciva sempre a trovarla. Di lato a questi Asserto,

uno dal pugno di ferro e il guanto di velluto. Era stato a scuola

dai gesuiti, i quali gli avevano insegnato che le verità di fede

non andavano dimostrate, ma solo mostrate. Stavano in piedi da

sole, come un pugno sul tavolo. E questo, semplificando

artificiosamente ai minimi termini, era quello che faceva. Più

indietro ancora Perri e Melli, due uomini effeminati in perenne

contrasto tra loro, che non si consideravano né solo maschi né

solo femmine, ma l’uno e l’altro a secondo del momento. Il

166

contrasto derivava dal fatto che il momento di essere maschio e

quello di essere femmina non coincideva mai, così i due

facevano coppia fissa.

Il capetto, una volta di fronte ad Amber, la cinse con la fascia di

reginetta dell’ala e le fece un plastico inchino, che estese con

inaspettata generosità anche a Filo. Poi, dopo che Amber

gliel’ebbe reso, girò sui tacchi con tutto il gruppo e sparì

altrettanto improvvisamente di com’era comparso.

Il pensiero di Filo corse ai suoi compagni di stanza, cercando di

trovare in quelli, lavoro a parte, una qualche differenza con

questi. Una differenza di sostanza, che, tenuto conto delle

stravaganze degli uni e degli altri, ne giustificasse la

collocazione nella parte sana del Pallazzo. Ma, pur riconoscendo

più appariscenti e fuori norma le stramberie di questi, non fu in

grado di trovarne. O erano tutti, sotto un certo aspetto, sani,

questi e quelli, o erano tutti pazzi. Senza distinzione. La

mancanza di lavoro nell’ala rotta poi non aiutava i suoi abitatori

a darsi delle regole, e anzi li spingeva a infrangere finanche

quelle che non conoscevano.

Salutò veloce Amber, non prima di averle dato appuntamento al

mattino dopo per colazione e per la presentazione del

programma dell’uscita in tramoggia. Quindi riprese la via

dell’ufficio.

* *

Furio arrivò all’ospedale a tavoletta. Di fronte al pronto

soccorso inchiodò secco, tanto che ai compagni di viaggio uscì

di bocca lo stomaco, per tornar loro dentro come un poco

accetto boomerang. Scese di corsa dalla macchina, puntò una

vetrata con attaccato un residuo purulento di croce rossa e la

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spalancò. Si trovò davanti una fila di barelle che fissavano mute

un tavolo operatorio. Intorno al tavolo stavano seduti quattro tizi

in completa tenuta bianca, alle prese con un caso il cui esame

richiedeva la massima concentrazione e il più assoluto silenzio.

Era lo scopone scientifico del dopo pranzo, con cui i quattro si

giocavano caffè, digestivo e reputazione.

“Presto, qui fuori c’è uno con un braccio rotto!” disse loro Furio

quasi a voce bassa, per non disturbare il silenzio che il caso

esigeva. Quella totale assenza di suoni, però, gli restituì la voce

forte e stentorea quale non era, più temprata di un ordine in

tempo di guerra.

Il quartetto non si mosse, gli occhi fra le carte che aveva in

mano e quelle stese sul tavolo.

“Dovete far presto!” rincarò alzando il volume Furio, a un tratto

memore del soprannome. Ma soprattutto abituato a ben altro

tipo di reazione quando prendeva il comando delle operazioni.

I quattro reagirono nel modo di prima. A un tratto uno si mosse,

ma era solo per tirare una carta. Era quello di mano.

“Si può sapere perché non spiaccicate parola?! Parlo turco?”

esplose a quel punto Cipensoio, mandando in pezzi il silenzio da

gioco del quartetto muto.

“Perché a scopone non si parla, amico.” rispose impassibile uno

dei quattro, senza degnarlo d’uno sguardo. Neanche esistesse.

“Sentite!” tuonò minaccioso il risolviproblema “Se non siete in

servizio chiamate qualcun altro, ma sbrigatevi!”

“Ma noi siamo in servizio. Non li vede i camici?” brontolò l’ex

impassibile. E avuto cura di stendere sul tavolo le carte, ben

coperte, si alzò rassegnato, seguito con pari rassegnazione e

distesa di carte, ugualmente coperte, dagli altri compagni di

bisca. “La partita la continuiamo dopo.” borbottò loro ”E non

freghiamo, eh?!”

168

Il meno rassegnato del tavolo verde andò a prelevare dall’auto

Giona, sempre in silenzio stampa, lo prese in braccio come un

pupazzo di pannolenci e lo portò dentro. In scia i due angeli

custodi del pupazzo.

“Qual è il braccio rotto?” domandò a Furio il portantino che

aveva dato la molla agli altri.

“Il destro.”

“Il destro?!” chiese allungando gli occhi quello che teneva in

braccio Giona, prima di appoggiarli sul moncherino sinistro. “Se

è rotto il destro, il sinistro che ha fatto?” sghignazzò digrignando

una dentatura mobile. Aveva tre ponti, uno più traballante

dell’altro.

Furio si irrigidì, poi si girò a guardare Giona. Allorché vide che i

moncherini penduli di quel burattino triste erano due e non uno,

non credette né alle sue pupille né a quanto stava loro davanti.

“Non è possibile.” sussurrò in fin di voce, interrogando senza la

speranza di una risposta i due compagni di soccorso “Portiamo

in ospedale uno con un braccio rotto e arriviamo che li ha rotti

tutt’e due?”

“Sarà stato quando hai sterzato.” azzardò in replica Masolargo,

con l’aria innocente di chi ha appena ripulito, non visto, una

scatola gigante di cioccolatini, e dopo averla richiusa l’ha

rimessa dove l’aveva presa. Come nuova ma vuota.

“Beh, portiamolo in ambulatorio.” strinse i tempi il portantino

che reggeva l’infermo, depositandolo sulla prima barella della

fila.

All’improvviso fecero irruzione da fuori altri quattro portantini,

che correvano spingendo una lettiga con sopra una pancia a tre

piani. Alla vista del camion da corsa in arrivo, i quattro giocatori

-lo scopone era solo uno dei tanti giochi da lavoro, il più

impegnativo fra quelli sedentari. Tra quelli dinamici invece il

169

gioco più divertente era la corsa con le barelle, meglio se piene.

Il circuito di gara era quello che partiva dall’atrio, si apriva su

un largo corridoio in cui si toccavano velocità elevatissime,

proseguiva alla curva delle acque minerali (così detta perché

colà si trovava la macchina di distribuzione dell’acqua

minerale), dove si arrivava a marce basse dopo una repentina

decelerazione, per finire sul rettilineo che portava al traguardo:

l’accettazione del pronto soccorso-, alla vista dell’avversario in

arrivo, i quattro piloti della barella di Giona, scaldati i motori,

partirono in quarta, per tagliare per primi la linea bianca

dell’accettazione.

Le due barelle sfrecciarono appaiate sul primo rettilineo, ma

sterzando alla curva delle acque minerali i piloti del veicolo più

leggero persero il controllo del mezzo. Il barellato di piccolo

cabotaggio, che nella fretta non era stato assicurato alla lettiga

come avrebbe dovuto, per un istante si ritrovò a volare. Poi

incocciò il muro, trasformando tutta la sua energia cinetica in

lavoro di deformazione del suo naso e, sia pure in misura

infinitamente più impercettibile, del muro, e rovinò sul

pavimento.

* *

“Mi meraviglio di lei!” scandì a Ciarli il direttore nel riprendere

l’orbita ellittica intorno al tavolo, i muscoli della faccia tesi e i

lacci delle scarpe allentati -i piedi erano cotti e la strada da fare

ancora tanta- “Non aver pensato a una protezione per quel

creativo. A una guardia del corpo. Ma soprattutto, non averlo

accompagnato in mensa di persona!” continuò in un crescendo

interiettivo “Avranno immaginato fosse un infiltrato, un

mensarolo!”

170

“Io credevo...” azzardò l’angelo degli angeli.

“Lei non deve credere!” fibrillò imbizzarrito super dir scuotendo

le froge e scrollando la criniera. Una criniera bianca pettinata

con una meticolosa riga a destra. “Per quanto nel suo ufficio la

cosa possa avere un senso, lei non deve credere! Avrebbe

dovuto pensare, invece! Agire!” continuò l’orbitante mentre

allentava il cappio intorno al collo. Il nodo alla cravatta, dopo

una convivenza durata una vita senza mai un problema, gli era

diventato a un tratto insopportabile. “Non mi è mai piaciuto quel

tipo della mensa!”

“Prorecco? Sembra sia stato provocato.” disse a scusante il

nuovo angelo custode dei canottieri.

“Ah, sì?! Allora ha fatto bene! Se uno è un piantagrane o non ci

è simpatico, possiamo tranquillamente ammazzarlo di botte?!”

“Ma no, certo che no.” replicò Ciarli “E poi” tagliò corto

svicolando “io credevo che a questo pensassero loro.” e indicò a

tutto braccio i due del controllo.

Ciarli, da buon dir d’altura, scaltrito da anni di navigazione nei

piani alti, era un esperto nell’arte di scansare le responsabilità e

scaricarle su qualcuno di suo gradimento.

“Pensare a cosa?” chiese cadendo dalle nuvole la coppia additata

colpevole.

“A una scorta.” rispose il navigatore dei piani nobili “Un

servizio d’ordine; una qualche protezione. In fondo l’idea di

Giona è stata mia. A proteggerlo era sottinteso ci pensaste voi.

Giona ha un carattere non facile. E’ introverso, permaloso,

scostante; pignolo fin sotto il cappello. Con gli sbalzi d’umore

dei bambini e l’indole chiusa e selvatica del topo di biblioteca.

Anzi, nel suo caso, del topo di pratica. Era da dire che potesse

succedere qualcosa. Da prevedere.”

171

Nel corso della tirata di Ciarli il direttore aveva cominciato a

rallentare la sua orbita, e a rivolgere sempre più stabilmente le

sue occhiate al veleno da Ciarli ai due del controllo, che già

stavano pensando a dove poter trovare un antidoto.

“Comunque far tragedie ora non serve.” concluse Ciarli,

premurandosi di fare lui da antidoto “In pratica non è successo

niente.” aggiunse a maggior tranquillità degli astanti, senza

pensare che forse Giona non sarebbe stato del tutto d’accordo.

“Il nostro uomo, per fortuna, è mancino. Il braccio destro può

pure perderlo.”

Il suono del telefono costrinse il satellite a interrompere l’orbita.

Atterrò sulla sedia e alzò la cornetta.

“Hanno chiamato dall’ospedale, signor direttore.” cantilenò la

sua segretaria particolare. “Sono arrivati.”

“Bene.” disse super dir riempiendo la cornetta di sicumera a

fiato. “Hanno già ingessato Giona?”

“Un braccio sì, l’altro ancora no.”

Il direttore si piegò in avanti senza fiato, colpito alla bocca dello

stomaco dal maglio di un ariete.

“L-l’altro?” bisbigliò deglutendo.

“Sì, è arrivato in ospedale con le braccia rotte e il setto nasale

fratturato.”

* *

Sulla via dell’ufficio Filo incrociò Melba. Era questa una

ragazza col viso di pesca, i seni a pera e il corpo a forma di

anguria, appesantito da anni di attesa di un uomo a cui piacesse

la frutta.

“Come va?” le chiese a titolo di cortesia. Non aveva alcuna

voglia di fermarsi a chiederglielo, ma dando una scorsa alla sua

172

faccia mesta vi aveva letto una tacita richiesta di sfogo. E lei ne

aveva approfittato; gli aveva raccontato quello che le era

successo il giorno indietro.

Nel comune dove ogni cosa è organizzata nel migliore dei modi

possibili, quello degli organizzatori, Melba era stata chiamata,

come altre prima di lei e altrettante e più dopo, alla visita

oculistica di controllo per l’adibizione all’uso continuato dei

videoterminali. Visita da tenersi presso il più vicino centro

comunale di salute pubblica.

Dapprima le era stata data da compilare una scheda, sulla quale

aveva trascritto dati anagrafici, malattie e operazioni subite,

malattie e operazioni subite dai genitori, stato di salute attuale

suo e dei suddetti.

Poi c’era stata la visita vera e propria, dove un solerte dottore le

aveva chiesto dati anagrafici, malattie e operazioni subite, da lei

e dai genitori, stato di salute suo e loro. Dati che lei era stata ben

felice di snocciolare dopo averli ripassati mentalmente, e non

senza mnemonica fatica, nel momento in cui li aveva messi per

iscritto sulla scheda.

A quel punto il medico, dando prova d’esser vero medico, le

aveva provato la pressione. Del corpo, non dell’occhio, perché,

aveva detto lui, in una visione olistico-tagliaspese, che dalla

pressione del corpo dipendeva quella delle sue parti. Che l’uno

era soggetto all’intero.

“Pressione ottima.” aveva esclamato l’olistico con esperienza di

gommista. “Può accomodarsi.”

“Dall’oculista?” aveva chiesto ingenuamente Melba.

“No, al lavoro. L’oculista sono io, e la sua vista è perfetta.”

“Grazie.” aveva replicato Melba, a cui d’un tratto era parso di

vederci molto meglio di quand’era entrata. Quasi ne rise della

paura che aveva prima di andarci, che le innaffiassero gli occhi

173

con quelle gocce che gonfiano le pupille e fanno vedere le cose

come dietro un vetro bagnato. Avrebbe faticato non poco a

ritrovare la via dell’ufficio e non sarebbe riuscita a lavorare per

alcune ore con davanti quella cortina di aspersa acquerugiola.

Sarebbe stata costretta ad aspettare il ritiro delle acque.

Non sapeva l’illusa che i vertici pallazzeschi si erano accordati

con quelli medical-comunali di guadagnare quelle poche ore di

lavoro gli uni, e di risparmiare sul collirio gli altri, per averne

ognuno un equo ritorno di utile. La visita sarebbe stata meno

efficace per il soggetto da controllare, ma non per le esigenze di

facciata del modello comunale per antonomasia.

“Avanti il prossimo” aveva proferito l’oculista in incognito

spuntando su un tabulato il nome di Melba, abile e arruolata

nello sconfinato esercito degli operatori di videoterminali.

Non tutti, ma specialmente non tutte, avevano avuto una visita

così approfondita. C’era stata chi l’aveva avuta di più. La

Murena era una di queste. L’olistico, dopo averla vista avanzare

a colpi d’anche, abbandonarsi sulla sedia con la sinuosità di

Cleopatra, ostendergli un davanzale da alta collina ed

effondergli un inebriante profumo di muschio selvatico, aveva

immediatamente occultato lo strumento da pressione e,

risucchiato nelle spire dei suoi occhi neri, l’aveva invitata a

spogliarsi. Lei non se l’era fatto ripetere e, pur senza musica,

s’era tolta quanto aveva addosso in un concerto di movenze da

fargli schizzare il battito cardiaco. Dopodiché la pressione

avevano dovuto provarla a lui.

“Tu quando ci vai alla visita?” gli chiese Melba.

“Il più tardi possibile.” rispose Filo.

* *

174

Quando Filo rientrò nel suo ufficio, sempre allegramente vedovo

di Sotto -gli accertamenti sul suo inspiegabile duplice gruppo

sanguigno avevano richiamato in ospedale legioni di specialisti,

che avevano consigliato di ricoverare sine die l’appendice per

studiare il caso a dovere-, Filo ci trovò un paio di tizi addobbati

di blu, provvisto di metro l’uno e di cordella l’altro.

Erano Cappa e Spada, due dell’ufficio tecnico che erano venuti a

prendere le misure di cose e persone. Le cose nel Pallazzo

venivano sempre prima delle persone, per quanto la direzione lo

negasse nel modo più sdegnato e risoluto. La realtà però parlava

da sola; le cose vecchie o fruste venivano puntualmente

sostituite con cose nuove, mentre per le persone la sostituzione

non era altrettanto puntuale né automatica. Misure da prendersi

in vista di un futuro, epocale trasloco dal Pallazzo, ritenuto

ormai non più al passo coi tempi, a un più moderno, e per il

momento ancora sulla carta, Pallovazzo. Un palazzo, sempre di

vetro, però non più tondo ma ovale; una sfera schiacciata verso

il basso, dalla linea allungata, aerodinamica, filante. Una forma

disegnata dalla galleria del vento, così da offrire la minima

resistenza all’aria, con una grande energia propulsiva, i bassi

consumi e la brillante tenuta. Una costruzione che doveva essere

la specchio della nuova struttura organizzativa che i vertici

pallazzeschi intendevano darsi. Una struttura mirata a penetrare

spazi di mercato non ancora fecondati.

Cappa si può dire fosse nato col metro in mano. Figlio di un

falegname che faceva mobili su misura, il metro fu il primo

regalo che gli fece il padre, nell’etologica speranza che un tale

imprinting lo spingesse da grande a seguire le orme paterne.

Quelle orme però si rivelarono ben presto troppo grandi per il

suo piede, e, una volta cresciuto, mise il suo arnese da misura al

servizio dei vetri del Pallazzo. Per quanto il servizio fosse sul

175

punto di prendere congedo, giacché chi lo svolgeva era ormai a

un passo dalla pensione. E anche quel metro che per anni aveva

misurato al millimetro decine di migliaia di chilometri di

carabattole ed ectoplasmi da ufficio, non aveva più lo smalto e

l’infallibile precisione di una volta.

Spada invece era stato assunto di recente per chiamata diretta da

un’agenzia di pompe funebri, per la dote, acquisita con la

pratica, di misurare un uomo a occhio nudo con un margine di

errore sotto il centimetro. Dote che gli aveva consentito di

vincere a ripetizione nel macabro gioco a quiz televisivo “Ci sta

nella fossa?”, poi soppresso dal garante dopo le proteste

dell’associazione vivipara “Meglio verticali”.

“Sapete cosa sembrate?” disse a un tratto Spurgo alla coppia blu

cobalto “Due becchini!” e scoppiò a ridere, seguito a ruota da

un’esplosione di risate.

“Vi manca solo il cappellino con la visiera!” rincarò con gli

occhi umidi Rolfo mentre si dimenava sulla sedia, mettendone a

dura prova l’intelaiatura in metallo.

I due blue’s brothers si toccarono con una mano le parti basse a

tempo di rithm and blues, e con l’altra mandarono a occuparsi

delle loro tutta la platea dei ridaioli.

“Accidenti a voi!” sbottò il più giovane dei due, che aveva

lasciato l’agenzia di pompe funebri proprio per l’incapacità di

reggere il viso di un morto, sia sul lavoro che dentro casa, nel

buio dei suoi incubi.

“Siete voi che avete sgombrato l’ufficio di Acidio?” chiese loro

Filo per associazione di idee, quando si spense l’eco dell’ultima

risata.

La coppia si scambiò uno sguardo di complice avversione, si

ritoccò con la rapidità del pensiero e annuì a pupille sgranate.

176

* *

“E’ arrivato in ospedale con le braccia rotte?” chiese con voce

non sua super dir, insalivando una bocca più secca del Sahara.

Mai avrebbe pensato che gli effetti della desertificazione del

pianeta sarebbero arrivati un giorno fin dentro il suo cavo orale.

“Così mi è stato riferito.” cantò senza tono la voce lagna della

sua segretaria particolare.

“Anche il sinistro?”

“Tutt’e due.” confermò la lagna telefonica, che non capiva come

facesse il direttore a non capire una cosa tanto semplice. Forse

era abituato a capirne di infinitamente più complicate, pensò

atona come parlava, e aveva perso dimestichezza con quelle più

elementari. Le sembrò anzi che tutta la faccenda facesse il paio

con quanto aveva letto sulla sua rivista favorita, “La segretaria

ideale”, che non esistono cose facili o difficili, ma solo cose che

si sanno e cose che non si sanno. Il fatto che i concetti oggetto

del confronto non fossero esattamente i medesimi, non le impedì

di congratularsi con se stessa, per aver trovato un’applicazione

pratica della mitica rivista all’ingrato ruolo di segretaria

particolare di direzione.

“Non è possibile.” mormorò super dir, di colpo senza più super

poteri.

“Oh sì invece.” riconfermò la segretaria aspirante ideale, che

stava cominciando a stancarsi di battere sempre sullo stesso

tasto. “E non dimentichi il naso.”

Il direttore abbassò la cornetta in un tempo interminabile, senza

dire una parola. E mentre dall’altra parte del filo l’ignara

messaggera di sventura masticava fiele per non averle detto il

direttore un “grazie”, un “buongiorno” o un “muori” -avrebbe

consultato il suo vangelo personale per trovarvi un’idea elegante

177

sul modo di fargliela pagare-, i tre, intuito dalla maschera tragica

del telefonista calante che qualcosa di tremendo e indicibile al

tempo stesso era accaduto, non avevano osato fiatare.

“Ha le braccia rotte.” disse al terzetto il direttore, basito quanto

un automa dell’ultima generazione.

“Tutt’e due?” chiese in punta di voce Ciarli, senza riuscire a

credere alle proprie orecchie ma soprattutto alla direttoriale

bocca, dalle cui labbra era solito pendere ciecamente.

Il direttore assentì inebetito, gli occhi fissi e la bocca sbieca.

“Ma com’è possibile? Non s’era rotto il braccio destro?!”

Super dir gli allargò due braccia pesanti come travi, prima di

farle cadere rovinosamente sulla scrivania.

“E ha pure il naso rotto.” aggiunse scuotendo la fitta criniera

scolpita.

Ciarli replicò scrollando la sua. Una brulla distesa di crini

rarefatti.

Il Nero e il Grigio erano rimasti immobili sulle sedie, quasi mute

e assenti suppellettili d’ufficio. Gli stessi legni dell’ufficio di

direzione, scricchiolando con compostezza, davano segno di

maggior vitalità. Di maggior partecipazione al pallazzesco

dramma. Senza le mani di Giona la pratica non avrebbe potuto

risorgere, e loro, che non erano riusciti a trovare l’originale, e

nemmeno avevano saputo proteggere colui che avrebbe potuto

ricrearlo dal nulla, sarebbero rimasti gli unici e soli colpevoli.

“Un’idea... Il mio regno per un’idea.” bisbigliò il direttore

sovrano, sul punto di perdere scettro e corona.

* *

Nelle pupille sgranate e nelle toccate scaramantiche del duo di

Cappa e Spada, Filo ci lesse la conferma di quello che una

178

vocina di serpente gli aveva sibilato prima di fare quella

domanda biforcuta.

Due tizi dall’animo così votato a certi scongiuri tattili, nelle parti

un cui un poco elegante ma consolidato costume vuole che

tengano lontano disgrazie e malattie, incaricati di sgombrare

l’ufficio di un morto stecchito e di metter ordine fra le sue

cianfrusaglie. Di toccare cioè quelle cose che poteva aver

toccato il morto stesso un momento prima della dipartita, se non

nell’attimo della dipartita medesima. Nella migliore delle ipotesi

avrebbero messo ordine nell’intervallo fra una palpata e l’altra.

Quanto tempo era durato lo sgombero, intervalli compresi? No,

non ce li vedeva neanche col binocolo quei due virtuosi dell’arte

scaramantica applicata alle vergogne a riordinare con un minimo

di calma e raziocinio l’ufficio di Acìdio.

Se ne avesse avuto voglia avrebbe potuto parlarne con Archeo,

un collega che vantava la barba lunga dei profeti e la memoria

corta dei giocatori d’azzardo, oltre alla spocchia dei primi della

classe. Spesso succedeva che prima di prendere determinate

decisioni si sentiva cosa ne pensava Archeo, e quello che diceva

veniva preso per oro colato, con l’autorità delle profezie di un

oracolo accreditato. Prima di lui ci si rivolgeva a un certo

Vatìmio, detto Cassandra per le previsioni mai troppo rosee.

Tutte peraltro azzeccatissime. Solo che, dopo una scivolata su

un suo non profetizzato amore finito male, era diventato di un

umore così nero che qualsiasi cosa gli si chiedesse erano tutte

sventure della peggiore specie, e da allora nessuno gli chiedeva

più niente. Archeo era il successore morale di Vatìmio, e

parimenti godeva fama di non andare troppo lontano dal vero

nelle previsioni, ma Filo non aveva voglia di aver a che fare con

quel saccentone.

179

Filo era convinto che quell’ufficio chiuso a chiave nascondesse

un altro cadavere. Un cadavere che, a differenza del primo, non

era stato rimosso.

Quel giorno in mensa era girata una strana voce. Quella che gli

archivisti, al loro arrivo in ufficio, avevano trovato due bottiglie

del loro bar personale prosciugate e le girevoli fuori posto.

Qualcuno doveva essere stato in archivio, e a far cosa se non a

cercare la pratica scomparsa? Ma l’avevano trovata? A giudicare

dall’aria a spilli che continuava a respirarsi fra quei vetri

sembrava di no. E quel tipo vestito da funerale di stato che s’era

presentato in mensa puntando il dito contro tutte le pietanze,

colpevoli solo di offrirsi, dietro prorecchese compenso, alle

urgenze mangerecce dei mensaioli, che parte aveva in tutta la

faccenda? Se ancora l’aveva, o Prorecco non gliel’aveva

definitivamente tolta.

Dopo aver covato in silenzio il suo uovo di serpente, quel

sospetto che sentiva crescergli dentro suo malgrado, Filo chiese

alla coppia al cobalto dei tempi del trasloco al futuro Pallovazzo.

“Prossimi.” risposero a tempo di duo, senza in realtà sapere

tanto né quanto, prima di riprendere a misurare cose e persone.

A occhio nudo l’uno, a metro l’altro. Finito che ebbero, fecero

un saluto blu elettrico e uscirono.

La porta pensò bene di riaprirsi un istante dopo, offrendo alla

stanza e ai suoi occupanti una visione da estasi celeste.

Un’apparizione inaspettata, e perciò tanto più gradita.

* *

Toni aveva seguito le ultime vicende del Pallazzo col

coinvolgimento emotivo di un tampone per timbri. Il suo

cervello, per quanto teoricamente in grado, al pari di tutti i

180

cervelli, di operare, per dirla con l’informatica, in

multipartizione, cioè facendo una cosa e pensando in

contemporanea a un’altra, quel giorno il suo cervello era

occupato in ogni partizione disponibile da un unico colore,

sormontato da colei che l’aveva eretto a suo vessillo. Da

quell’essere unico, dal piumaggio esclusivo, che nel mare degli

omogeneizzati esseri che intrecciano politica e lavoro batteva

orgogliosamente bandiera rossa.

Nella testa del riccio fluttuavano come atomi nel vuoto dieci

numeri impazziti, che ancora non sapeva su quale ruota

sarebbero usciti. I numeri di cellulare dell’infuocato oggetto di

ogni suo pensiero. Sarebbero usciti sulla sua ruota o su quella di

altro più remissivo e accomodante maschio? Farli uscire sulla

sua dipendeva solamente da lui. Bastava giocarli.

Era arrivato a un bivio, lo sapeva. Chiamarla voleva dire

prendere una strada, non chiamarla un’altra. La prima l’avrebbe

portato a passo di promesse in chiesa prima, e fra quattro

indissolubili mura poi, la seconda a tempo di frottole a caccia di

sempre nuove prede. Doveva soltanto aver chiaro cosa voleva

fare, se continuare a cacciare o passare a più tranquilli

passatempi casalinghi.

Se solo se la fosse fatta, pensava Toni a occhi bassi, mentre quei

numeri continuavano a mulinargli in testa come dentro un’urna

in perenne rotazione sul suo asse. Se ci avesse passato la notte,

assieme a quella rossa di sogno, sarebbe stato più semplice

dimenticarla e passare a un’altra. “La prima che rispetti è quella

che ti sposi.”, diceva l’incastrato di turno in un vecchio film che

aveva visto alla tivù. A volte anche la televisione è fonte di

verità.

All’improvviso Toni ebbe un sussulto; alzò la faccia larga, tirò

su il telefono e fece un numero.

181

“Pronto, sono io, perché non ci vediamo stasera?” disse di corsa,

per paura di imbrogliarsi.

Erano i dieci numeri dell’urna, usciti tutti e dieci e nell’ordine

giusto sulla ruota del riccio.

“Perché no?” gli sussurrò una cornetta di velluto, rimandando la

rutilante immagine di lei.

Il cacciatore era caduto nella rete tesa dalla preda cacciata.

* *

La visione estatica, che la porta aveva liberato in tutto il suo

fulgore di estatica visione, era la Pucci, la bambola del Pallazzo.

La Pucci era così offensivamente bella da svuotare di significato

il concetto stesso di bellezza, che riferito a lei suonava confuso e

inadeguato. Ovvero riducibile alle sue fattezze soltanto per

difetto, con le più sentite scuse del concetto astratto al soggetto

empirico, che lo realizzava in misura tanto più completa ed

esaustiva.

I suoi detrattori, ovviamente tutte e solo donne, dicevano che a

essere così bella fuori doveva essere per forza vuota dentro, ma

di questo nessuno dei suoi boy-friends si era mai lamentato.

La cosa strana, a dir poco incredibile per una femmina di quelle

fattezze, era che la Pucci, oltre che di straordinaria bellezza, era

anche non meno straordinariamente alla mano. Non faceva

pesare quel dono per gli occhi come tante altre meno belle di lei,

gratificando così l’interlocutore non solo di una visione

d’incanto, ma anche di un modo di porla che rendeva l’incanto

una favola. Al punto che, appena assunta, per sottrarla agli

sguardi intrusivi degli scrutatori pallazzeschi, era stata dirottata

nell’ufficio matrimoni del Pallazzo, di cui era la testimonial

ideale.

182

Non contenta di tanta smagliante virtù, la Pucci usava

infiorettarla con lussureggianti completi da sera, ricchi di drappi,

nastri e svolazzi, dai colori ora teneri e delicati, ora forti e

violenti. Colori che, esperta di sponsali qual era, accoppiava

sempre alla perfezione, sia fra i due gruppi che all’interno di

ciascuno, col risultato di passare difficilmente inosservata

nell’omologo panorama del Pallazzo.

E per questo suo essere sempre perfetta in tutto, qualcuno aveva

avanzato l’ipotesi che fosse falsa. Ma anche di questo nessuno

dei suoi boy-friends si era mai lamentato.

“Ciao, Filo, ce l’hai tu la pratica Pardo?” sbocciò quel fiore

dopo aver messo le radici davanti alla sua scrivania.

“Sì.” rispose Filo con le labbra secche e il cuore in festa.

Trovarsi faccia a faccia con la Pucci e il suo incarnato non era

cosa da lasciare indifferenti. “Ce l’ho qua.”

“Se non hai niente in contrario la prendo io. Sai, lei deve

partorire; aspetta una bimba.”

“Chi, la moglie di Pardo?”

“No, la sua amante.”

“Ah.”

“Sì, ma la moglie sa tutto.” disse comprensiva la sponsale “L’ha

accettata come una figlia.”

“Chi, la bimba?”

“Ma no, l’amante!”

“Così lei farebbe da nonna?”

“Beh, non proprio. E’ che non poteva avere figli.” ammiccò

stendendogli un mezzo sorriso, metà del quale, da solo, avrebbe

illuminato a giorno un raduno antelucano di cuori infranti.

“La moglie.” azzardò il destinatario di cotanta luce, seguendo il

filo rosso di quel gioco a indovinelli. “Non dirmi che stavolta

183

non ci ho preso.” protestò per scherzo Filo “Potrei non

riprendermi per il resto della giornata.”

“Sì che ci hai preso.” rispose la Pucci sorridendo “Comunque,

visto che la faccenda si è complicata, è meglio che la pratica la

seguiamo noi dell’ufficio matrimoni.”

“E’ tutta tua.” disse Filo, e adagiò l’incartamento su quelle mani

dipinte “Anche se qui mi sembra che il matrimonio c’entri

poco.”

“Il matrimonio c’entra sempre.” ribatté suadente la testimonial

ideale “Grazie.”

E la visione, riassorbita dalla porta, ridiventò chimera.

* *

Nonostante l’estrema vantaggiosità della direttoriale proposta,

nessuno dei tre ospiti dell’ufficio di direzione era stato capace di

farsi venire un’idea da scambiare col fantomatico regno del

direttore sovrano.

Anche se è chiaro che proposte simili, così tanto vantaggiose per

chi le riceve e così poco per chi le propone, usano farsi quando

si ha un assoluto bisogno della cosa che si vuole avere in

cambio. Come capitò a quel re diventato famoso per aver offerto

il proprio regno per un cavallo, allorché lì per lì gli serviva a

tutti i costi un cavallo, e di cavalli all’orizzonte non ce n’erano

neanche a pagarli quanto un castello. Di quello scambio poi,

stante la perdurante mancanza del quadrupede, non se ne fece

nulla, e le cose andarono nel modo che sappiamo. Almeno,

quelli che sanno come andarono. Chi non lo sa, non s’illuda di

impararlo ora, che la storia esige che il vostro narratore non

s’attardi nell’esporla.

184

“Il mio regno per un’idea.” aveva sospirato l’aspirante

scambista. Ma le idee, in quel momento, latitavano. E nemmeno

si intravedeva all’orizzonte una larva di pensiero che potesse

assumerne anche solo la vaga sembianza. Il regno restava

saldamente e ingombrantemente sulle spalle del suo traballante

monarca.

I quattro si guardavano muti, incapaci di articolare voce.

Qualsiasi parola fosse uscita di bocca al quartetto in quel

momento, sarebbe apparsa fuori luogo e inopportuna. O vuota e

inconcludente. O sciocca e presuntuosa. Una stonata

interferenza fuori banda. In quel frangente stare zitti era l’unica

soluzione. Se non altro, la più indolore.

Ma se è vero che il silenzio faceva meno male delle parole, è

anche vero che senza parlare non si è mai risolto un problema.

Parlare diventava dunque, più che un dovere, una necessità.

“A che punto sono le ricerche della pratica?” ruppe eroicamente

il silenzio super dir con una smorfia di dolore. Le parole

facevano male a lui per primo. Anche se lui per primo si rendeva

conto di non poter farne a meno.

“E’ introvabile.” rispose con un sospiro il Nero “Abbiamo

controllato dappertutto, ma non c’è stato verso di trovarla.”

Dopo quella risposta senza speranza il vuoto acustico tornò a

farla da padrone. Le parole erano ritornate inutili.

“Ci aggiorniamo a domattina.” parlò di nuovo il direttore, ormai

avvezzo a rompere silenzi “Alle dieci nel mio ufficio.

Troveremo una soluzione. Dobbiamo trovarla.” chiuse calcando

il “dobbiamo” e chiudendo la seduta.

Quando i tre furono usciti il precario sovrano del Pallazzo chiese

aiuto alle spremute meningi. Pensò ai libri su cui aveva studiato,

a quelli che per lavoro aveva letto. Dicevano tutti che non si dà

problema senza soluzione. Avrebbe voluto averli davanti ora

185

quegli autori, quegli studiosi. A pensarci bene, quasi tutti

americani, così bravi e addentro allo specifico del proprio

campo da dar l’idea, tutti assieme, di aver la soluzione a ogni

questione. Avrebbe voluto parlarci e chieder loro: ”Ecco, questo

è il mio problema. Risolvetelo.” Accidenti a tutti i libri, a chi li

scrive e a chi li legge. Ma, soprattutto, agli americani.

* *

Come ogni altro giorno passato, al pari, è lecito presumere, di

ogni altro giorno futuro, era venuta l’ora più dolce per il poco

avvezzo palato ai dolci dei riluttanti lavoratori da vetrina, quello

della libera uscita dal Pallazzo e dalle sue sbarre di cristallo.

Filo non aveva la fretta del pomeriggio prima, avendo di sotto,

in pronta attesa, il macinone. Poté quindi scendere le scale con

calma, senza dover tenere d’occhio i pallazzeschi vetri ad

annunciargli i fari dell’autobus in arrivo. L’abitudine però era

tale che lo sguardo corse ugualmente, senza volere, su quei vetri

annunciatori. E fu un piccolo piacere, di quelli che danno una

gioia piccola, quasi effimera -che però l’inesistente parco gioie

del Pallazzo rendeva tanto più grande, elevandola così al rango

di gioia vera e propria-, fu una piccola grande soddisfazione

notare le luci dell’autobus in arrivo e non dover accelerare la

discesa per prenderlo.

Gli parve anzi di scorgere l’autista che guardava in alto per

vedere se stava scendendo, per poter accelerare, rallentare

fingendo di aspettarlo e riaccelerare di nuovo. Il divertimento

preferito degli autisti d’autobus repressi; la maggioranza. Ma

forse era solo un’illusione creata dalle lenti ai suoi occhi.

Una volta dentro il macinone si sentì come fra le mura di casa;

libero di dar sfogo ai pensieri. All’improvviso si ricordò che

186

quel giorno Amber era senza macchina. Avrebbe potuto

chiederle se voleva un passaggio, ma non ci aveva pensato nel

momento in cui avrebbe dovuto. Pensò che nelle vesti di

aspirante seduttore valeva poco, anche se, ripensando al colpo di

mano del pomeriggio indietro, con cui l’aveva rapinosamente

invitata a colazione, pensò pure che qualche progresso l’aveva

fatto. Certo di strada doveva ancora farne, ma un primo passo se

l’era messo alle spalle. Doveva solo continuare.

Si scosse al pensiero che, forse, era ancora in tempo a offrirle

quel passaggio. Se già non era uscita. Portò di corsa le

casalinghe lamiere del macinone di fianco al portone illuminato

del Pallazzo, per avere sotto controllo il fisiologico deflusso dei

suoi inquilini forzati e, se la vedeva, richiamarne l’attenzione col

clacson. Avrebbe aspettato solo qualche minuto, perché Amber

non era tipo da attardarsi nelle cose che faceva. Specie ora che

non faceva niente.

Allorché vide sgattaiolare fuori la sua scarna figura

luminescente, attraversare con due salti la strada e salire con un

terzo su un’auto che non finiva più, ci restò. Non quanto però la

vide incollare le labbra alla guancia dell’autista, un tipo nodoso

spazzolato di bianco.

Filo sentì una fitta che gli mozzò il fiato. E mentre si chiedeva

cosa ci aveva trovato in quella ragazzetta secca e dritta, che gli

dispensava empiti di estasi cardiocircolatoria alternati a spasmi

gastrointestinali acuti, mise in moto il macinone, che, dati due

colpi di tosse e schiarita la voce, partì docilmente. Lungo la

strada si sforzò di convincersi che lo spazzolone imbiancato

fosse il padre. Senza però essere convincente come avrebbe

voluto. Ritrovandosi poi a pensare, non senza preoccupazione,

di essere geloso anche di lui.

187

* *

Si dice che i sogni parlino alla gente. Con un linguaggio non

sempre comprensibile. Talora in prima persona talaltra in terza,

a volte con discorsi diretti a volte con astrusi giri di parole. Ma

anche con immagini, suoni, fantasie, enigmi. In ogni caso

parlano, e per ciò solo nessuno dovrebbe gettar via i propri

sogni, quasi fossero qualcosa che non lo riguarda, un corpo

estraneo che non gli appartiene, ma dovrebbe aprirli e guardare

al loro interno. Per cogliervi il fondo della propria natura, e

avere così un’idea di quanto vi si annida dentro.

C’è il sogno che rende giustizia di un torto subito, quello che

rievoca un evento luttuoso, quello che drammatizza un conflitto

agito nella vita conscia, quello che presenta persone rimosse,

quello che fa balenare una vita di fiaba.

Gli inquilini coatti del Pallazzo, in libera dormita al rispettivo

domicilio, avevano optato, sia pur inconsciamente, per

quest’ultimo tipo di sogno, ritenuto dagli stessi, stavolta però

consciamente, più confacente all’esigenza di riscatto dalla

routine del quotidiano. In ogni caso più piacevole da rievocare il

mattino dopo, se il sogno si fa ricordare, o tale da lasciare ben

disposti verso il nuovo giorno senza saperne il motivo, se è di

quelli che non si fanno ricordare.

I sogni parlano dunque. Il vero problema è che nessuno li sta a

sentire. Sono tutti schiavi delle parole e della ragione, e di tutto

quello che serve ad ancorarle a un rigoroso e intransigente senso

compiuto. Salvo scoprire che ognuno coltiva la sua ragione in

proprie serre, chiuse e recintate, incapace di conoscere e

apprezzare i florilegi che offrono le altre. Parole e ragione che

impediscono di ascoltare la voce del corpo e del suo muscolo

più importante ma anche più negletto, il cuore.

188

* *

Quella mattina Filo, nonostante le ore piccole con Paddi, era

riuscito a fare la sua parte. Aveva messo a tacere la sveglia

quando questa era suonata, e non s’era riaddormentato dopo che

l’aveva spenta.

Poté quindi uscire per tempo e prendere l’autobus, lasciando a

dormire in strada il macinone. “Adotta un nonno”, recita la

pubblicità comunale per la prevenzione dell’abbandono degli

anziani. Beh, Filo l’aveva fatto in tempi non sospetti -oggi dietro

l’adozione di certi anziani si nasconde spesso il desiderio di

accudire più la loro pensione che la loro persona-. Aveva

adottato una vecchia auto, e non se n’era pentito. E’ vero che

pativa il freddo, che sotto sotto covava un filo d’asma, una

specie di rantolo che però dopo un po’ spariva, che marciava

con la flemma di chi non deve andare da nessuna parte, che

correva, piano, solo se costretta, e che ai semafori partiva

invariabilmente per ultima, ma una volta partita e superato il

rantolo era sempre di buon umore.

Salito che fu sull’autobus, però, Filo ci mise poco a pentirsi di

non essersi riaddormentato e aver preso il suo fido compagno di

viaggio. Dire che era stipato come un carro bestiame era

un’offesa sia per chi ci stava dentro che per il bestiame, poiché

in realtà era molto peggio. Almeno le mucche o i maiali

mandano tutti lo stesso odore, così da non sentire quello degli

altri. Inoltre mangiano tutti erba o ghiande, di qualità più o meno

identica, e non alcuni formaggi alle erbe pesticide, altri cuori di

cipolla in salsa tartara, altri ancora spicchi d’aglio crudo intinti

nel tabasco. Perché è questo che doveva aver mangiato la sera

prima la maggior parte degli stipati.

189

Intrappolato tra questi fiati allucinogeni e altri miasmi fuori

stagione, per distrarre l’olfatto ma specialmente lo stomaco, che

minacciava di buttar fuori da un momento all’altro quel caffè

che aveva appena fatto entrare, e farli pensare ad altro, Filo si

mise a guardare le pubblicità che facevano da sopracornice ai

finestrini di quella camera a gas mefitico semovente. Una

invitava pubblicamente le donne a toccarsi, sia pure a scopo

terapeutico, in quelle parti del petto rigonfie dove è facile a

scatenarsi tanto la libidine quanto meno accetti corpuscoli

maligni, un’altra a rottamare anziani benestanti in case di riposo

più accoglienti di alberghi a cinque stelle, un’altra a trasformare

i solidi in liquidi -pubblicità buona sia per un banco di pegno

che per una purga (il disegno di fianco alla reclame faceva

propendere per la prima ipotesi)-, un’altra ancora offriva denaro

per oro di qualsiasi origine e provenienza, cavi orali compresi.

Infine, dulcis in fundo, come direbbe un cameriere presentando

il dolce a fine pasto, la pubblicità che invitava a lasciare a casa

l’auto e prendere l’autobus.

Filo, che era salito dalla parte dell’autista e non era riuscito a

muovere un passo verso le porte centrali -in realtà riusciva a

malapena a respirare, sforzandosi anzi di metter dentro meno

aria possibile, per lasciar fuori effluvi malsani e bacilli-, Filo,

facendo propri i mugugni della mandria, disse secco all’autista:

“Dovremmo essere pagati noi per certi servizi, anziché pagare!”

Si aspettava la solita rispostaccia da autista represso in avanzato

stato di decomposizione. Quello invece, forse indottrinato da

acconcia propaganda consorzial-comunale, gli sgranò un sorriso

della migliore tradizione autistica.

“Lo facciamo per voi.” replicò l’indottrinato. “Perché

socializziate. E perché questo comune sia sempre

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all’avanguardia nell’offrire ai suoi cittadini occasioni di svago e

di affiatamento reciproco.”

Filo guardò la racchia gengivosa parcheggiata davanti ai suoi

occhiali, il vecchio sclerotico che gli sgomitava di fianco, e sentì

il vento caldo e nauseabondo del donnone che gli alitava dietro.

Non aveva nessuna voglia di socializzare. Ci si affiatasse lui,

con questo trio.

* *

Quando Edo infilò il tesserino nella macchina marcatempo ci

rimase.

Ci rimase perché l’insaziabile divoratrice di tesserini promiscui

era in perfetto orario col suo orologio, regolarmente regolato coi

suoi punti di riferimento quotidiani.

Edo la fissò nei cristalli liquidi senza parlare, poi la sua

mentalità di logico ebbe il sopravvento. Voleva sapere a tutti i

costi il perché di quel cambiamento senza causa. Almeno in

apparenza. E avendo studiato che senza causa non c’è

cambiamento, decise di indagare. Rivolse così a quella

macchina bifronte una serie di domande dirette ad acclarare quel

perché, ma non ricevendo risposta al di fuori della scansione del

tempo rilevata dai cristalli liquidi, decise di prenderla persa

anche stavolta e tirò dritto.

Ada e Ida, per contro, erano già alle prese con una nuova

commedia del poliedrico cartellone del teatro stabile del

Pallazzo. Protagonista maschile il solito Accio, che la sera prima

aveva cercato di far decollare il famoso aeroplanino senza una

ruota da sopra la sedia su cui era salito, lanciandosi da quella

base improvvisata con l’apparecchietto in mano. Lui aveva

sbattuto contro il pavimento il ginocchio, che in un attimo gli

191

era diventato blu, mentre al piccolo velivolo era andata assai

peggio. Nell’impatto con l’impiantito si era fracassato

irreparabilmente. Ada aveva portato quel cruccio di figliolo al

pronto soccorso, per fargli fare le lastre.

“Per fortuna era solo una botta.” disse a Ida.

“E non si vergogna?” replicò sdegnata la sorda.

“E perché mai dovrebbe vergognarsi?”

“Una cotta alla sua età?!”

“Ho detto botta, non cotta. Una botta al ginocchio.”

“Ah, anche bugiardo!”

“E perché sarebbe un bugiardo adesso?”

“Ma se l’hai detto tu che è come Pinocchio!”

Ada stampò la solita biro sulla scrivania e partì per il primo

caffè della giornata, mentre Ida attaccava l’apparecchio acustico.

In compenso Ovieffe e Fettunta, dopo il miagolio del

buongiorno e un doppio sbadiglio all’aceto balsamico, si

preparavano a una nuova intensa giornata di lavoro.

“Ieri sera ho visto alla tivù il film della serie “Donne in

provetta”.” esordì la pronipote dell’uovo di Colombo storpiato.

“Una donna felicemente sposata si sente attratta da una collega

gay che le fa la corte. Quando scopre che il marito la tradisce lei

lo pianta e va a vivere con questa, per poi scoprire che anche lei

la cornifica. Con un’altra donna. “Se devo farmi tradire da una

donna, tanto vale tornare con mio marito.” proclama con

orgoglio affrontando la fedifraga. Il marito giura sulla testa dei

figli di non tradirla mai più, finché, dopo un incidente d’auto in

cui i figli muoiono e loro restano illesi, ritenendosi sciolto dal

giuramento, non la tradisce un’altra volta. Lei allora lo rilascia, e

affronta a testa alta il suo destino di tradita cronica e

irreversibile. Ho pianto tanto.”

192

“Che peccato, me lo sono perso.” gniccò Fettunta “Io invece ho

guardato il film della serie “Famiglie in prestito”. Pensavo ci

fosse da piangere, invece era un film comico.”

“Beh, mettiamoci al lavoro.” disse Ovieffe.

“Giusto.” convenne Fettunta.

E mentre l’una iniziava un lungo lavoro di trucco alla sua faccia

tonda, l’altra apriva il giornale e controllava i numeri del lotto

delle giocate di famiglia.

* *

Quel giorno Filo oltrepassò il portone del Pallazzo quasi a passo

di carica, senza il cerimoniale di tic e le remore propiziatorie di

quello passato. Camminare gli era ritornato automatico, come il

mangiare quando si è vuoti, il fantasticare quando si è a terra o il

parlar male degli assenti alle cene fra colleghi. Non sentiva più

il bisogno di guardarsi intorno o tendere le orecchie per sapere

che certi incontri a luci rosse non capitano tutti i giorni. Già è

tanto poter dire che capitano. Poté perciò oltrepassare la

lavorativa soglia in tutta dinoccolata disinvoltura, con l’assodata

certezza che non avrebbe fatto quell’incontro che il giorno prima

aveva sperato con tutte le sue forze di fare.

Attraversò il salone e raggiunse l’ascensore. Farsi due piani a

piedi la mattina non era così allettante come farli la sera.

Mancava il nesso con l’anticipo di libertà che gli dava prendere

le scale dopo il lavoro. Pigiando per chiamarlo a terra gli venne

di pensare che non aveva mai incrociato, né in entrata né in

uscita, nessuno di quegli esseri che aveva visto nell’ala rotta.

Esseri che, nonostante tutto, pensò non senza riluttanza, erano

colleghi -dalla riluttanza era ovviamente esclusa Amber-. O

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avevano un accesso tutto loro o in quei locali ci passavano anche

la notte. O forse i mancati incontri erano solo dovuti al caso.

Entrò dentro l’ascensore meccanicamente, premendo il due con

questo pensiero in testa. Quando però mancava un niente a che

la porta si chiudesse, l’udito di Filo fu richiamato da un rumore

di tacchi che vi correvano incontro nella speranza di infilarla.

Il titolare del campo uditivo allertato ebbe una sorta di corto

circuito nell’attenzione. In un attimo gli passò dai reietti dell’ala

a quel miraggio in rosso che due mattine prima aveva reso

incandescente il suo involucro epiteliale e quello dei fortunati

che l’avevano incrociata. La mano corse in avanti, fece scattare

la fotocellula, e il sipario, lentamente, si aprì.

Di fronte a lui, in carne e semicurve, la ticchettatrice. Ria,

ancora una volta in orario. Entrando gli sorrise e anche lui riuscì

a trasformare una smorfia di delusione in un sorriso di plastica.

Non che non avesse anche lei qualche buona freccia al suo arco

di femmina cacciatrice, ma la rossa, semplicemente, era un’altra

cosa. Era la dea della caccia in persona.

Allorché poi Ria, aprendosi la giacca a vento, scoprì le due

solite coppe ripiene, stavolta al gusto di ciliegia, Filo non le

trovò di suo gradimento come in altre occasioni. Non poteva

fare a meno di confrontarle col rosso per antonomasia,

concludendo, secondo il proverbio, che l’abito non fa il monaco.

Giunto al secondo piano salutò quel corpo sodo e compatto, da

donna di una volta, che evocava grandi doti di lavoratrice diurna

ma anche notturna, specie nel corpo a corpo, uscì dall’ascensore

e s’incamminò verso l’ufficio. Lungo la strada notò che tutti i

colleghi di cui l’orecchio percepì i dialoghi parlavano di quella

cosa che doveva essere trovata e che non si trovava.

Se però Filo avesse avuto l’ingombrante dono dell’ubiquità, si

sarebbe accorto che non c’era inquilino del Pallazzo che, varcata

194

quella soglia, non si preoccupasse anzitutto, prima di iniziare il

lavoro, di chiedere, parlare o anche solo rimuginare in silenzio

della Pratica. Sì, avete letto bene, la pratica era diventata la

Pratica.

* *

Amber, quella mattina, aveva deciso. Aveva stabilito che non

aveva senso tenere in vita, improduttiva, un’intera ala di una

struttura lavorativa di quelle dimensioni. Di più, era assurdo; e

forse assurdo non era abbastanza. Solo per tenerci docilmente

segregati inquilini considerati diversi dal normale. Ma cos’era

“normale”? Quand’era in auge, nell’ovattato mondo dei quartieri

alti, lo sapeva bene, ma ora, che da quella specie di empireo era

precipitata negli infimi strati ove si dibatte la profonda bassura

dell’esperienza -si ricordò che queste parole appartenevano a un

qualche filosofo, ma nonostante i suoi master le sfuggiva il

nome (nome che, come già immaginerete, non sfugge invece al

vostro narratore, ma essendo di nessuna rilevanza in questa

storia, se non addirittura di sviamento dal suo scorrere, lo

lascerà libero di sfuggire al suo ricordo)-, ora non sapeva più

cos’era “normale”.

Forse che gli stralunati inquilini dell’ala rotta non erano in grado

di lavorare al pari di tutti gli altri? Di svolgere un’attività

impiegatizia, parcellizzata e ripetitiva? No, non erano loro, i

reclusi dell’ala, a non voler lavorare, o a non esserne capaci. Era

il sistema a paratie stagne del Pallazzo, che escludeva i “diversi”

dal suo ambito, a non volerli dintorno, a impedir loro di darsi da

fare e tenerli in disparte, come deportati in un ghetto.

Sì, quella mattina Amber aveva deciso. Avrebbe cercato qualche

pezzo grosso, qualcuno che contava, e facendo leva sul suo

195

nobile passato -non si nascondeva che anche lei ora era una

“diversa”, col potere contrattuale, compreso quello di farsi

ascoltare, di tutti i “diversi”-, avrebbe cercato qualcuno e gli

avrebbe fatto l’oscena proposta. Quella di riattare l’intera ala

rotta e, udite udite, mettervi al lavoro i suoi inoperosi abitatori.

Ne avrebbero tratto beneficio sia i suddetti che tutta l’economia

del Pallazzo.

Il problema era come riuscire a far digerire l’idea ai lungimiranti

vertici di quei vetri, la qual cosa la preoccupava non poco.

Specie considerata l’esperienza maturata con quel maxi dir che

aveva poi preso il volo e con la sua apertura mentale.

Un’apertura chiusa alle novità che rompevano col pensiero

immobilista a cui si ispirava l’ideale di progresso pallazzesco.

Ma forse bastava solo trovare il momento buono per spiegarla e

farla capire. Forse. O forse no.

* *

Una volta in ufficio, Filo si mise subito al lavoro. Più per

necessità contingente che per intima convinzione.

I primi minuti erano i più pericolosi di tutta la giornata. In tutti i

posti di lavoro c’è sempre qualcuno che in quel labile lasso di

tempo, prima di farsi prendere dalle cose da fare, ti chiede

cos’hai fatto la sera prima, dove sei stato e se ti sei divertito.

Tutto per poterti dire cos’ha fatto lui, dov’è stato e se si è

divertito. Cosa che tu, non essendo minimamente interessato a

sapere, non avevi nessuna intenzione di chiedergli. Che però

riesce a dirti senza che tu gli abbia chiesto niente. Il Pallazzo

non faceva eccezione.

Per scoraggiare simili abbordaggi predatori, configurabili a tutti

gli effetti come aperta violazione occulta della privacy, se non

196

addirittura come atti di pirateria da ufficio bella e buona, Filo

adottava la seguente tattica. Appena messo piede in ufficio e

intravista negli occhi di qualcuno un’intrattenuta brama di

esternazione, si metteva immediatamente a lavorare a testa

bassa, evitando con cura di guardare in faccia il potenziale

esternatore.

Alzò lo sguardo solo quando entrarono le gemelle, due tizie di

un ufficio vicino che facevano tutto insieme. Comprese le cose

che di solito si fanno da sole. Erano Stiria, una malata di

buonismo che stava bene solo se mandava la coscienza in

vacanza, e Lutrizia, detta la samaritana per le intenzioni più che

virtuose -erano le azioni a essere carenti di virtù-, una che, non

avendo niente da dire, parlava di continuo.

Lutrizia raccontava sempre, a mo’ di parabola, di quella volta

che in autobus vide salire una vecchina con una sportona in

mano, che cercava invano un posto a sedere. Lei, che era seduta

di fianco alla porta di entrata, si preoccupò subito di quella

creatura debole e indifesa, esortandola a portarsi più avanti, nei

posti a sedere destinati agli anziani. La vecchina trascinò a

stento le gambe e la sportona fino ai posti riservati, ma anche

quelli erano occupati, sia pure da chi non sfoggiava un’anagrafe

che gli desse il diritto di occuparli. Perciò la poverina, non

avendo il coraggio di chiedere a nessuno degli abusivi di alzarsi,

rimase in piedi. Costoro, in compenso, guardavano da tutte le

parti possibili meno che da quella dell’esile vegliarda, così da

non essere costretti ad accorgersi della sua presenza e lasciarle il

posto, o a sentirsi in colpa se non glielo lasciavano.

Finalmente uno degli usurpatori si alzò, anche se soltanto perché

doveva scendere e non per far sedere chi doveva essere seduta

già da un pezzo, e la vecchina poté finalmente dar riposo alle

gambe. La samaritana fu soddisfatta che l’ordine violato fosse

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stato ristabilito e la giustizia, sia pure in ritardo, avesse trionfato.

E a chi le chiedeva perché non avesse ceduto lei il posto

all’attempata protagonista della parabola, Lutrizia rispondeva

che c’erano i posti a sedere fatti appositamente per gli anziani, e

che era giusto che andasse a occupare quelli. A ognuno il suo

posto. Parola della samaritana

Le gemelle fecero un cenno a Batta, che si alzò senza indugio e

si unì a loro per un caffè plurigemellare alla macchinetta.

* *

Il direttore quel giorno era uscito di casa con un paio di scarpe

da ginnastica, per poter circumnavigare la scrivania senza le fitte

ai piedi che gli procuravano quelle classiche e accollate di tutti i

giorni.

I primi giri di prova gli confermarono la bontà della scelta.

Erano scarpe fatte apposta per camminare, costruite per chi

faceva della marcia la sua professione abituale. Dunque costruite

per lui; almeno finché non si fosse risolta una volta per tutte la

questione della Pratica. Che tale, con la “p” maiuscola, era

diventata anche per il direttore, perché da Lei sembrava

dipendere non solo il suo presente e il suo futuro (per quanto,

lavorativamente parlando, fugacissimo), ma lo stesso passato,

che avrebbe potuto essere messo in discussione se non

addirittura vanificato da quello stupido incidente di percorso.

Anche se quelle scarpe sull’abito gessato ci stavano quanto una

cravatta a fiori su uno smoking, ma l’ultima cosa che lo

preoccupava in quel momento era di essere elegante.

In mezzo alla sua orbita rotatoria intorno a quello che una volta

era il cuore pulsante del Pallazzo, per l’appunto la direttoriale

scrivania in legno pregiato, la montagna bianca che c’era

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cresciuta sopra era aumentata ancora, diventando una delle

montagne da ufficio più alte di tutta la città e, forse, del mondo.

Erano tre giorni che la corrispondenza non veniva aperta né

smistata ai vari uffici, ma giaceva ammassata su quella precaria

vetta di pianura. Un giorno ancora e sarebbe rovinato tutto a

valle.

Il blocco della posta non era passato inosservato agli

impensieriti inquilini pallazzeschi, sempre in attesa di carte e

documenti da loro stessi richiesti per procedere nell’iter

burocratico delle pratiche. Blocco a cui non erano riusciti a dare

spiegazione, dato che le poste, stranamente, non erano in

sciopero. La cosa più probabile, o verosimile, è che, come al

solito, funzionassero male. L’impensierimento dei suddetti

comunque non era di quelli da togliere il sonno, dal momento

che senza documenti le pratiche restavano ferme, il lavoro pure

e loro anche.

All’improvviso il direttore si fermò, alzò gli occhi e li appoggiò

sull’orologio massellato a parete. Il quadrante non aveva ancora

fatto l’abitudine a scandire il tempo dei suoi passi. Le piccole

braccia, sottili e diseguali, che gli partivano dal centro della

faccia piatta stavano per diventare una. Quasi le dieci meno

dieci. Il direttore ritirò gli occhi e si sedette, poi sollevò il

telefono e ricordò acido agli ospiti che aspettava l’appuntamento

fissato il giorno prima. Nessuno di loro se n’era dimenticato, e

anzi aveva vissuto ogni minuto della sera e del mattino come

fosse già quell’ora. Perché quella era l’ora delle decisioni

definitive e improcrastinabili.

* *

199

Quando Batta rientrò dal suo caffè plurigemellare, Filo prese il

trotto del bracco e raggiunse la sua implume paradisea

direttamente nella tana, il famoso ufficio rivoltato. Quindi si

avviarono insieme al bar.

“Non ti ho vista uscire ieri.” sondò il terreno Filo lungo la

strada, fingendo di non sapere “Avevo pensato di darti un

passaggio in macchina.”

“Ieri mi ha accompagnato a casa mio zio.” disse Amber con

riccioluta innocenza.

“Ah, tuo zio.” calcò Filo diffidente.

“Il fratello di mio padre. Sono uguali spiaccicati.”

“Ah.” assentì lui semisoddisfatto “Non è che per caso ha altri

fratelli tuo padre?” aggiunse, a evitare spasmi futuri.

“No, sono solo in due. Perché?”

“Così.” rispose con un sorriso di pace il segugio a due zampe,

consapevole che forse era andato troppo oltre. Ma per fortuna

erano arrivati al bar del tempo.

“Cosa prendete?” chiese loro una meteoropatica decisamente al

bello.

“Un tè, un cappuccino e due brioches.” rispose Amber “Vero,

Filo?... Il tè è possibile averlo tiepido?” le domandò, annuito che

ebbe il compagno di tazza.

Quella mattina la vecchia caldaia stava molto meglio. Era

bastato chiamare la sera prima un pronto intervento delle caldaie

perché un addetto, sostituito un pezzo e stretti due bulloni, la

rimettesse in sesto. Nel frangente stava pompando calore con

l’energia di una stufa nuova di negozio. La sua messa a riposo si

allontanava, e lei si godeva questo nuovo inatteso caldo estivo.

Purché non durasse come l’estate di San Martino.

“Ma sicuro.” concesse la meteoropatica, ormai occupata da un

estemporaneo anticiclone delle Azzorre. “Ve li porto al tavolo.”

200

“Della Pratica si sa qualcosa?” chiese Amber dopo aver

incollato alla sedia due gambe da ballerina meccanica, nervose e

filanti, e averle messe una sull’altra.

“Sì.” replicò Filo, notando la loro tesa sottigliezza. Stava meglio

in pantaloni. “Che ne parla tutto il Pallazzo e che non si trova.”

“Già.” commentò lei, quasi a chiudere il discorso. “Ma secondo

te, dove può essere?” domandò a un tratto. Amber era figlia dei

suoi master, neppure lei sapeva esattamente quanti, e al pari dei

suoi padri putativi riteneva proprio compito prefiggersi con

masterizzata pervicacia di capire sempre quello che gli altri non

capivano, di trovare quello che gli altri non trovavano.

“Secondo me?” ripeté Filo, contento comunque di poter dire la

sua “Te l’ho detto, può essere dappertutto. Però secondo me c’è

un posto dove nessuno è andato a guardare.”

“Davvero?!” chiese Amber scavallando le gambe. L’interpellato

annuì a tutta faccia. “E dove?” chiese di getto.

“Nell’ufficio di Acìdio.”

“Nell’ufficio di Acìdio?!” replicò incredula “Credevo che ieri

scherzassi.”

“Beh, oggi no.”

“E perché sarebbe nell’ufficio di Acìdio?”

“Perché ieri ho visto i due che hanno svuotato il suo ufficio. E,

solo perché qualcuno ha fatto una battuta, non la finivano più di

toccarsi.”

“Una battuta?”

“Sì, su come erano vestiti, e che sembravano due becchini.”

“E allora?”

“Allora avrei voluto vederli quegli esorcisti mancati a

sgombrare l’ufficio di un morto con una mano, e a toccarsi nelle

parti basse con l’altra. Non vorrei che là dentro, da qualche

parte...”

201

“E perché non vai a dirlo a chi la sta cercando?” lo interruppe

Amber.

“Stai scherzando?! E’ solo un’idea.”

“Però potrebbe essere l’idea giusta. Quella che non è venuta a

nessuno.”

“E se poi non è così?” ribatté Filo ricoverando gli occhi nei suoi.

Lei li accolse con un sorriso di mamma, comprensivo ma con

una punta di rimprovero. “Senti, questa storia non è affar mio.

C’è gente, a cercare la Pratica, che prende tante e passa volte più

di quello che prendo io. Almeno che si guadagni quello che

prende, no?”

“Forse hai ragione.” sospirò Amber. “Ma forse dovresti andarlo

a dire.”

Intanto erano arrivate le bevande, ciascuna accoppiata a una

brioche insospettatamente calda. Nell’occasione s’era messa a

funzionare anche la piastra elettrica dove un attimo prima

stavano sdraiate a crogiolarsi. Quel giorno al bar del meteo era

scoppiata l’estate.

* *

Anche nell’ufficio di Toni il tempo era tornato al bello stabile.

Quella mattina il riccio, sempre sotto costante osservazione

degli osservatori di stanza, era entrato in ufficio con la faccia

larga distesa, senza ghigni posticci, maschere apoplettiche o

sguardi postribolari, preludio delle sue mute recite d’ufficio.

Sapeva la banda dei colleghi che il giorno indietro aveva fatto

una telefonata a una donna. Qualcuno di loro, tendendo

deliberatamente l’orecchio, aveva rubato qualche parola, e aveva

esteso quel carpito sapere agli altri, che l’avevano fatto proprio

come polli in batteria. Una telefonata a quella rossa di cui prima

202

aveva celebrato in pubblico le doti, e poi cantato col pensiero il

de profundis.

“Va meglio oggi?” gli chiese Pfazzi, premurosa come un’amica

pronta a dare confidenza. Ma, più di tutto, a riceverla.

Il riccio fece annuire gli aculei, prima di scioglierli in un sorriso

che parlava da solo. Pfazzi lo ricambiò col migliore dei suoi,

pensando che sarebbe stata disposta a contraccambiare ben altro

che un sorriso, se lui gliel’avesse chiesto. Tutto quello che con

suo marito scambiava sempre più di rado -il fardello virtuale in

pancia era il frutto di un unico, frettoloso incontro-, e che lei,

sospettando che lui riservasse a un’altra, era tentata di offrire a

un altro.

Era un bel ragazzo Toni, e se fosse stato meno maschilista,

supponente, donnaiolo, lazzarone e via dicendo, sarebbe stato il

suo tipo ideale. Magari anche solo l’amante ideale. Peccato che

lui, non vedendola neanche, per lei restava solo ideale e basta.

Per quanto Pfazzi non potesse soffrirne i modi da cascamorto di

balera. Anche se nelle ultime ore quel dongiovanni da strapazzo

aveva guadagnato qualche punto nella partita il cui premio era la

sua accettazione interiore. La stessa Prudi, che non perdeva

occasione per trinciare giudizi morali su quanti cadevano sotto

la curva lenticolare del suo occhio bacchettone, quella mattina

gli aveva aperto un caldo sorriso d’asilo.

Era accaduto che Toni, novello San Francesco, aveva rinunciato

alla giovanile inclinazione di scapolo impenitente per

abbracciare i voti di una vita a due. Questo aveva annunciato

alla rossa la sera prima, e lei aveva accolto la sua fresca

vocazione con un bacio di fuoco e la promessa di futuri incontri

del tipo più vietato. In ragione di quel bacio, ma soprattutto di

quella promessa, a Toni rideva la faccia, larga come mai per

effetto di quel riso silenzioso.

203

* *

Filo e Amber, chiusa la parentesi di colazione, erano tornati sui

loro pallazzeschi passi. Stavolta era stata Amber ad

accompagnare Filo in ufficio, non sapendo come ammazzare il

tempo nel suo. Tutto quel niente da fare, diluito in tempi pieni

solo di vuoto, aveva cominciato a farla sentire quasi in assenza

di gravità, prolassata in ogni tessuto connettivo.

Quando Amber vide i compagni di stanza di Filo e ne udì gli

orgastici vaniloqui, si rinsaldò nell’idea che le era venuta in

mattinata. Salutò il compagno di parentesi e gli diede

appuntamento in mensa per la vogata di pranzo. Contro

Prorecco al momento non erano stati presi provvedimenti, nella

convinzione che senza il capovoga a dare il ritmo e tenere la

rotta, l’armo mangereccio del Pallazzo sarebbe miseramente

naufragato. Quindi ritornò all’ascensore.

Una volta dentro, però, anziché scendere a terra per far ritorno

nell’ala di casa, fu presa dall’irresistibile curiosità, una voglia

incontrollata e incontrollabile, di rivedere quei piani alti che un

tempo non lontano erano la sua blasonata dimora. E così, preda

di quella voglia ipnogena, pigiò in trance il tasto più alto.

Uscì su un corridoio intarsiato di pregiati legni scuri, con quadri

austeri alle pareti, librerie da cielo a terra gremite di ben allineati

vetusti volumi, e una cappa di silenzio solido, da tomba

monumentale. Gli stessi legni del parquet accoglievano i suoi

passi soffocati con un cigolio sommesso, ovattato. Anche se

quei passi suonavano di un rumore insopportabile in quel muto

silenzio senza ritorno.

Si chiese cos’era venuta a fare in quel santuario. Forse voleva

risentire il sapore lavorativo di una volta, rivedere i luoghi delle

204

sue passate, aristocratiche frequentazioni, riscoprire le proprie

masterizzate radici. O forse voleva tornare a sentirsi importante,

a respirare l’ottenebrante odore del legno e del potere. Benché

ora ci si sentisse come un’estranea, e quell’odore di cera d’api

profuso a piene mani da autorizzati untori su quei legni di

potere, per mantenerli più vivi e più lucidi dei loro umani

abitatori, quell’odore veemente ora le chiudeva lo stomaco. O

forse voleva solo trovare qualcuno con cui parlare di quell’idea

in cui due ore prima credeva più che in se stessa, ma che ora le

sembrava realizzabile quanto un desiderio espresso guardando

una stella cadente. In realtà non credeva che quel progetto

avrebbe per davvero interessato qualcuno. Nel Pallazzo le cose

erano sempre andate avanti così, e se le cose vanno avanti

sempre allo stesso modo vuol dire che vanno bene. Anche

quando non vanno bene per niente.

Certo se quella proposta fosse partita dall’alto avrebbe potuto, se

non realizzarsi, per lo meno essere presa in considerazione,

discussa, valutata. Ma l’iniziativa partiva da lei, dal basso; anzi,

da chi stava ancora più giù, privata di ogni diritto. Escluso

giusto quello di respirare. Si sentiva fuori posto, stupida e

presuntuosa, là dove, solo ieri, appariva ai suoi e agli altrui

occhi brillante e risoluta.

A tutto questo pensava Amber sotto i ricci, mentre camminava

sulle punte per non far rumore. Finché, nel camminare, non sentì

un brusio soffuso provenire dalla penombra del corridoio. Per la

precisione, da un ufficio che rimaneva in fondo a destra. Una

stanza che conosceva molto bene, per averla frequentata

quand’era la più giovane promessa di quei vetri. La stanza dei

bottoni del Pallazzo, l’ufficio del direttore. La promessa poi non

era stata mantenuta, anche se non da lei, ma da quegli abitatori

dei piani alti che si erano impegnati a mantenerla.

205

Fece per tornare indietro, ma una voce sconosciuta, suadente e

ipnotizzante come un canto di sirena, la spinse avanti. Decise di

lasciarsi spingere, dando della pazza a lei e alla voce. Ma forse

non lo era nessuna delle due, dal momento che, se anche

l’avessero scoperta, più che scaraventarla nell’ala rotta non

potevano. Perciò, visto che nell’ala già c’era, voce o non voce,

in realtà non rischiava nulla.

E mano a mano che avanzava lungo il corridoio il brusio

ingrossava di volume, fino a quando, a pochi passi dalla soglia,

non mutò in frastuono. Fu solo però nel momento in cui giunse

dietro la porta che il frastuono prese la definitiva forma di voci

grosse e male parole. La maggior parte delle quali

inusitatamente inconsulte.

* *

L’ora dell’appuntamento a quattro trovò un terzetto seduto

all’ombra della montagna bianca, fisso e rigido quanto le

statuine del presepe, e un pastore errante che ci girava intorno

senza sosta. Il terzetto ebbe così modo di notare le inusuali

calzature dell’errante, sicuramente adatte per fare quello che ci

stava facendo, ma non altrettanto consone a chiudere con un

minimo di dignità su un abito gessato. Ciarli ebbe anzi un poco

delicato pensiero su quello che poteva essergli accaduto, o

poteva essere sul punto di accadergli, sotto la coltre innevata dei

follicoli piliferi. Forse la questione della Pratica l’aveva scosso

più del dovuto, e la corteccia cerebrale stava pericolosamente

scricchiolando, al pari del parquet dell’ufficio di direzione.

“Signori, siamo qui per risolvere il problema della Pratica.”

disse all’improvviso super dir, quasi a tranquillizzare Ciarli circa

206

la presenza di problemi di corteccia al primo cervello del

Pallazzo. Nonostante le scarpe, era sempre lui.

“Mi sono impegnato di persona a consegnarla nelle mani

dell’onorevole Scaltro.” continuò con fredda lucidità

l’impegnato, senza peraltro interrompere l’orbita intorno alla

montagna da tavolo “E a costo di impastarla con le mie mani,

gliela consegnerò.”

Al nome di Scaltro i tre tesero le labbra allo spasimo e

strabuzzarono gli occhi, prima di sbiancare di colpo.

Conoscevano bene la scaltresca pervicacia dell’uomo politico e

non solo di quello, e ogni parte del corpo dei tre reagiva a modo

suo. Sembrava però che alcune di queste parti si fossero messe

d’accordo per reagire allo stesso modo.

“Perciò mi aspetto che voi” si accinse minacciosamente a

concludere il direttore, tirando la “v” come la corda di un arco e

prendendo la mira, “che siete i miei collaboratori”, pausa prima

di tirare la freccia, “me la portiate perché possa darla a lui.”

La freccia, scagliata dal direttoriale arco, si fece trina, e ognuna

colpì il suo bersaglio nel centro.

I tre bersagli guardarono l’arciere con la stupefazione di chi ha

di fronte un fantasma. Forse non era il direttore ma un suo sosia,

una controfigura. Uno che sembrava non sapere le cose o, più

probabilmente, che aveva dimenticato come stavano in realtà.

Ciarli concluse per la solita involuzione corticale, se non era

vera e propria demenza senile.

“Ehm, chiedo scusa, direttore” azzardò il Nero, preparandosi a

bere l’amaro calice. Sapeva che rimandare certe libagioni non

serviva. “ma la Pratica non si trova. L’abbiamo cercata vetro per

vetro, ma è stato inutile. Abbiamo fatto il possibile.” concluse

abbassando il capo, mentre gli altri due, a seguire, abbassavano

il loro.

207

Super dir si fermò e guardò il terzetto prono. Poi gonfiò

innaturalmente il petto e la faccia d’aria, e li sgonfiò un istante

dopo con un urlo che oltrepassò il muro del suono. I tre

saltarono sulle sedie a mo’ di manichini a molla.

“Il possibile?!” inveì l’urlatore sonico “Il possibile non è

abbastanza! A volte si deve fare l’impossibile! Se necessario

anche di più!”

I manichini sfrigolavano sulle tre piastre incandescenti su cui

stavano scomodamente seduti, quasi rannicchiati per ripararsi

dai lapilli che il direttoriale cratere mandava a valle.

“Siete degli incapaci! Delle nullità! Degli zeri bucati!” continuò

passando ai complimenti il vulcano, in preda a un furore

convulsivo che lo faceva tremare dalla base in su. “Degli

incassatori di stipendio a tradimento! Scommettiamo che se

chiedo a qualcuno del Pallazzo della Pratica, quello è più

informato di voi?! Che se apro la porta dell’ufficio e domando

al primo che incontro se sa dov’è finita, quello me lo dice?!

Scommettiamo?!”

E senza aspettare risposta -una risposta che nessuno dei tre si

sarebbe mai sognato di dare, dal momento che il gioco si stava

facendo rischioso e il direttore, che teneva il banco, mostrava di

avere, come hanno sempre i direttori in questi casi, le carte

migliori-, super dir corse alla porta e l’aprì di slancio. Vi trovò

appesi i ricci secchi e la bocca all’aria di Amber.

* *

Quando rientrò in ufficio con la sua fresca accompagnatrice

pensile, che, dopo aver scrutato tra le fronde i busti che

fuoriuscivano dalle scrivanie aveva infilato la porta, Filo ebbe

modo di accorgersi che le facce di quei busti si guardavano con

208

la muta richiesta di qualcosa. Stavolta però il qualcosa in

questione non era sapere cos’aveva fatto il dirimpettaio di

scrivania la sera prima per potergli raccontare quello che aveva

fatto lui, o chiedersi cosa poteva avere in comune Filo con

quell’avanzo rinsecchito di carriera vestito da salice piangente

che rispondeva al nome di Amber, ma sapere perché in

quell’ufficio, di punto in bianco, non c’era più niente da fare.

Una volta seduto, Filo non tardò a rendersi conto che i compagni

di stanza erano tutti senza lavoro, e lui stesso, dopo la sfuriata

della prim’ora, non sapeva più cosa fare.

Non che non ci fosse un piccolo esercito di pratiche in fremente

attesa dei documenti necessari per poter essere lavorate, e

consentire così a ciascuna di partire per la sua personale

missione nel Pallazzo, ma, semplicemente, quei documenti non

arrivavano. Per cui, evase le poche pratiche complete, anche a

lui, al pari dei colleghi di cella, non era rimasto che incrociare le

braccia. Come gli abitatori dell’ala rotta, pensò riluttante. La

solita riluttanza che provava quando pensava a quegli

strampalati compagni di vetri. Ora era uguale a loro, in tutto e

per tutto. Inattività compresa.

Erano tre giorni ormai che non arrivava un solo documento per

l’esercito di pratiche di stanza nel suo ufficio, e c’era la

serissima possibilità che la cosa valesse anche per gli eserciti di

stanza negli altri. Tre giorni, da quando era nata la voce che era

andata smarrita la Pratica.

E se le due cose fossero state in relazione?, si chiese a un tratto

Filo. Se dall’una fosse dipesa l’altra? Al pensiero si sentì

pervadere da un brivido freddocaldo, che gli partiva dalla prima

delle vertebre cervicali e gli arrivava all’ultima delle coccigee,

per dover infine ammettere che forse aveva ragione Amber.

Forse doveva parlarne con qualcuno di quella sua idea.

209

Ma per quale sconosciuto motivo, ammesso che un motivo vi

fosse, o non fosse piuttosto frutto di una dimenticanza, chi

cercava la Pratica non aveva pensato di andare a guardare in un

posto tanto stupido? Anche se è risaputo che le cose, quando si

perdono, vanno sempre a imbucarsi nei posti più stupidi, e

nessuno pensa mai a cercarle in quelli. Quasi che le cose siano

più intelligenti delle persone.

Sì, doveva parlare con qualcuno. Ma con chi? Sotto continuava

a latitare. Almeno come presenza fisica. Perché una sua foto sul

giornale del mattino lo rendeva presente in forma medianica.

Stava diventando più famoso di un divo del cinema. L’articolo

sotto la foto -quasi un gioco di parole, Sotto che stava sopra-

parlava di un caso clinico unico al mondo, un tizio con due

gruppi sanguigni. Per quanto uno dei due stesse per esaurirsi.

Era quello del suo capo che, non essendoselo impiantato nelle

ultime quarantott’ore, mancava del necessario supporto

nutritivo. Ma ovviamente gli studiosi a cui faceva da cavia non

lo sapevano.

Prillo invece era chiuso nel suo impenetrabile ufficio d’avorio,

impermeabile alle vicissitudini del Pallazzo e dei suoi reggitori.

Nel frangente stava interrogando uno specchio parlante a

grandezza d’uomo, comprato a peso d’oro il giorno prima in un

negozio di vetrofanie da esposizione, e introdotto furtivamente

in ufficio la mattina presto. Allo specchio delle sue brame il lord

Brummel dei dir stava chiedendo, mentre accarezzava una

costosa giacca d’alpaca purissima, chi era il dir più elegante di

tutto il Pallazzo. “Tu, mio signore.” rispose lo specchio facendo

l’inchino, col pregiato ruminante domestico che rispondeva alle

carezze del padrone strusciandogli addosso il morbido pelo.

Da chi poteva andare a parlare Filo di quella sua idea?

210

* *

“Signorina, cosa ci fa dietro la porta?!” sbracò più viola di un

livido super dir davanti alla faccia a strati di Amber. E

sbracando avvicinò pericolosamente la regina delle criniere

bianche a due piccoli occhi neri sporgenti, più indifesi dei

pedoni degli scacchi. Ancora un passo e li avrebbe mangiati. Il

direttore aveva un odio atavico per i giochi di pazienza, ma gli

scacchi facevano eccezione. Anche se ci giocava come alla

guerra, attaccando con regina bianca in campo nero.

“N-niente, di-direttore. P-passavo di qua.” rispose la sua vittima

inciampando nelle parole e facendo un passo indietro per

occhio, salvando entrambi da morte certa. Lo sguardo le cadde

così sulle strane calzature da cui partivano le righe gessate dei

pantaloni, prima di salire a quelle della giacca, e tornare a

guardare quella faccia illividita da orco in crisi di astinenza da

carne umana.

“Ha detto direttore?!” gridò l’orco in un crescendo di escreti

convulsi “Dunque lei non è una del pubblico, una cliente! Lei

lavora qui!”

“S-sì, di-direttore.” balbettò Amber nel far appello a tutta la

disinvoltura di cui era capace in quel momento. Praticamente

pari a zero.

“Bene, si-gno-ri-na!” scandì super dir sospendendo l’attività

escretiva. “Immagino avrà sentito parlare della Pratica!... Non

mi dica di no perché so come girano le voci qua dentro!” la

incalzò cerbereggiando prima che lei potesse imbastire una larva

di risposta. Riuscì solo a schiodare il mento e a farlo andare su e

giù.

211

“Ebbene, dal momento che ne ha sentito parlare” continuò,

sempre trasfigurato in viso e in voce, il mostro dei direttori “si

sarà anche fatta un’idea di dove può essere!”

Amber, che pure aveva, fra gli altri, un master ilermorfico in

presa diretta di scappatoie di fortuna, intuizione a naso di vie di

fuga da situazioni sigillate e uscita per il rotto della cuffia da cul

de sac d’oltralpe, alla domanda Amber rimase muta, incapace di

fronteggiare, nonostante i master, la stringente contingenza.

“Allora?!” mugghiò la fiera furibonda “Se n’è fatta un’idea?!”

“C-credo... credo di sì, direttore.” sussurrò in punta d’occhi.

Al “credo di sì” la belva si risvegliò di colpo da quell’ira tanto

funesta quanto deformante, rinfoderò gli artigli e ritirò la

criniera.

“Cos’ha detto?” chiese super dir, riacquistata una precaria

condizione umana.

“Che-che mi sono fatta u-un’idea di dove può essere la Pratica.”

rispose Amber balbettando ma non troppo. Almeno rispetto al

numero di parole che era riuscita a dire. E continuando a pensare

a come uscire da quella situazione senza uscita.

“Ah sì?” stupì il direttore, rischiarato da una luce bianca. La

trasmutazione sembrava non fermarsi alla riappropriazione della

sua condizione di uomo, per quanto direttorialmente impuro, ma

sembrava tendere a qualcosa di più spirituale. “E dove può

essere, signorina? Dove?”

“Nell’ufficio...” partì Amber dopo un poco, prima di fermarsi

immediatamente dopo essere partita. Le erano tornate in mente

le parole di Filo: “E se poi non è così?”, ma lei aveva fiducia in

quel ragazzo semplice, senza ambizioni, eppure ingegnoso,

simpatico, e forse anche intelligente. Più fiducia di quanta ne

aveva lui stesso. “Nell’ufficio...” si rifermò. Le sembrava di

pugnalarlo alle spalle e seppellirlo con le sue mani, di compiere

212

la più riprovevole delle azioni, perché tale era quello che stava

per fare, rubare l’idea di qualcun altro. Un qualcun altro che

cominciava a esserle tutt’altro che indifferente. Ma al punto in

cui era non poteva più tirarsi indietro; ci avrebbe pensato poi a

chiarire con Filo.

“Dove, signorina? Dove?” la investì il raggio di luce del sommo

inquisitore, ormai quasi puro spirito.

“Nell’ufficio di Acidio.” disse finalmente Amber.

* *

Da chi poteva andare a parlarne di quella malaugurata idea?,

continuava a chiedersi Filo. Di quell’idea che per una qualche

malaugurata disgrazia gli era venuta senza averla cercata.

A un tratto si alzò e uscì. Poco importava se Prillo avesse messo

il naso fuori dalla sua sala degli specchi e non l’avesse trovato

seduto al desco di lavoro. Nessuno faceva niente e, anche

volendo, non c’era nulla da fare. A differenza di Prillo, che,

essendo abituato a non far niente, quando non aveva nulla da

fare stava benissimo, Filo a starsene con le mani in mano

diventava nevrastenico.

Passò dall’ufficio di Ovieffe e Fettunta. Le dirimpettaie di

scrivania, nonostante l’assoluta irreperibilità di pratiche da

sbrigare, si guardavano in silenzio, incapaci sia di raccontarsi il

film visto in tivù la sera prima che di telefonare, imbellettarsi o

altro. Gli ordinari passatempi da ufficio a cui solevano darsi in

abbondanza quando il daffare non mancava. Poi sfilò da quello

di Ada e Ida, che dissertavano, apparentemente senza problemi

di comunicazione, di quell’improvvisa inspiegabile latitanza di

pratiche. Il timore di perdere il posto, per quanto noioso e

ripetitivo fosse il lavoro fra quei vetri, stava facendo emergere la

213

parte migliore di ciascuno. Quell’impiego, nonostante nessuno

dei pallazzeschi inquilini l’avesse mai né detto né pensato, era

più importante di quanto ognuno di loro immaginasse.

Negli altri uffici al piano da cui Filo si trovò a passare, cambiata

la cornice, il quadro era lo stesso. Stavano tutti a braccia

conserte e occhi fissi, incapaci di dare risposta a

quell’improvvisa quanto misteriosa migrazione del lavoro.

Sarebbero stati pronti ad affrontarlo coloro che avevano la

fortuna di trovarsi là dove questo era migrato? Ma soprattutto,

sarebbe ritornato un giorno al nido, magari stabilmente, quella

strana specie di uccello migratore?

Tornò alla base, si sedette e chiamò Nardo. Questi gli disse che

nel suo ufficio non c’erano più pratiche a cui metter mano già

dal pomeriggio prima, e i compagni che prima ne pietivano

l’aiuto adesso gli chiedevano, in camera charitatis, di dar loro

qualcosa da fare. Un qualcosa da fare che ora, però, non c’era

più per nessuno. Aggiunse che era preoccupato per Pasco;

sembrava non provare più alcun piacere nell’attaccare le figurine

dei ciclisti all’album del giro d’Italia né alcun interesse a

sfogliare Capitan Miki, e non capiva perché. In effetti il

carrierista al contrario stava vivendo un senso di totale

frustrazione nei confronti del Pallazzo. A che era servito

impegnarsi tanto duramente a scansare il lavoro, doveva aver

pensato in cuor suo il re dei lavativi, se poi questo se l’era

squagliata, agevolando così la nullacenza di chi non aveva fatto

niente per meritarla.

Nardo chiese a Filo se sapeva qualcosa della faccenda. Gli

rispose di no; spiegarglielo gli avrebbe portato via tempo.

Ammesso che quello che gli frullava in testa fosse stato la

spiegazione della faccenda. Lo salutò col pensiero che aveva in

214

mente prima di chiamarlo, da chi poteva andare a parlare di

quella maledetta idea?

Si tirò su dalla scrivania e andò all’ascensore, ci entrò dentro e

pigiò il tasto più alto.

* *

“Nell’ufficio di Acidio?” sbottò sui sopraccigli il direttore,

ritornato definitivamente membro del consorzio umano.

Amber assentì a ricci bassi.

“E perché dovrebbe essere proprio lì? La stanza è stata svuotata,

non c’è rimasto niente.”

“Perché nell’ufficio di un morto nessuno mette mai piede

volentieri. E se è costretto a mettercelo, ci sta il meno possibile,

e le cose che deve farci dentro non è detto che le faccia nel

modo che dovrebbe.”

Amber non fece in tempo a finire la frase che vide il direttore

rientrare in stanza come un fulmine estivo, e dopo il tempo del

tuono uscirne di corsa tre tizi di cui non faticò a indovinare le

fisionomie, avendole bazzicate in tempi di vacche grasse. Poi

uscì anche lui, stavolta di passo, e con largo e generoso gesto del

braccio le fece segno di entrare. Lei varcò la soglia dell’ufficio

per eccellenza e il suo anfitrione le andò dietro, avendo cura di

lasciare la porta ben aperta. Le notizie che aspettava non si

potevano far aspettare.

“Prego.” disse offrendole la sedia con la cavalleria dell’età.

Quindi girò intorno alla scrivania e andò a sederle di fronte. “Lo

sa, signorina, che la sua faccia non mi è nuova?” le fece dopo

averla squadrata.

“Sono Amber, direttore, Amber Liscia.” rispose lei, e vedendo

l’illustre dirimpettaio stringere interrogativamente gli occhi,

215

aggiunse: ”Sono entrata con Fanfara. Lavoravo in questo piano,

ricorda?”

“Amber!” proruppe il portatore insano di quegli occhi “Ma

sicuro che ricordo! Abbiamo anche lavorato insieme! Ma

dov’era finita?”

“Veramente, quando Fanfara se n’è andato…” senza portarmi

con lui, pensò a ferita ancora aperta, “…sono stata …ehm…

trasferita nell’ala rotta.”

Stava per dire “relegata”, ma trovandosi di fronte al dir dei dir

optò per un termine più diplomatico, che suonasse meno

lamentevole al direttoriale orecchio. Pur non avendo master in

materia, il suo amor proprio le impediva di piangersi addosso, e

le imponeva di affrontare a testa alta la più alta personalità del

piano più alto del Pallazzo.

“Davvero?! Io non ne sapevo niente.” disse l’altissimo

incrociando le gambe -le dita erano in bella vista e non

avrebbero potuto essere incrociate con pari tempestività, a meno

di tradirsi e di tradire così anche il loro incrociatore-. E nel dirlo

allargò paternamente le braccia e si guardò intorno, come a

cercare l’assenso di qualcuno. Un assenso dovuto. Non

essendovi però al momento nessuno che potesse darlo, furono i

legni vivi dell’ufficio a concedere il loro scricchiolio di

approvazione.

“In ogni modo, signorina” riprese il direttore rinfrancato -il

consenso, per quanto dovuto e, il più delle volte, immeritato, era

però sempre circondato da un’alea di incertezza (per quanto

puramente ipotetica, data la capacità di critica dei compiacenti

cortigiani di Pallazzo, di legno o meno che fossero). Consenso

che aveva perciò in chi lo cercava il medesimo rincuorante

effetto che l’applauso ha per l’attore- “se le cose stanno così”

continuò pensando alla Pratica (Amber per un attimo pensò si

216

riferisse alla sua discesa ai pallazzeschi inferi, prima di

realizzare qual era veramente il direttorpensiero) “se la Pratica si

trova davvero nell’ufficio di Acìdio, da domani lavorerà con me,

nella stanza qui a fianco.”

“A dire il vero... io avrei pensato a qualcos’altro.” azzardò

Amber.

In quel momento comparve sulla porta Ciarli con alle spalle i

due corrieri controllori. Stretta nella destra, portava al petto una

carpetta rosata dal poco augurale nome in nero, Malanio. La

Pratica scomparsa.

Il capo degli angeli avanzò seguito dagli altri due magi, e la

portò in dono al signore del Pallazzo come l’oro, l’incenso e la

mirra dei loro lontani avi. Quando il dir dei dir l’ebbe in mano,

licenziato sbrigativamente il trio portapratica, l’accarezzò con

tutto il delirio di onnipotenza di cui era capace, trovandola di

una bellezza tanto sconvolgente quanto inaccessibile. Quasi

fosse il corpo nudo di una vergine.

Il problema è risolto, si disse appagato il direttore mentre

insisteva con mano pruriginosa sul nero del nome, pensando che

in fondo i problemi si risolvono sempre. Proprio come scrivono

gli americani. Alla fine hanno sempre ragione loro. Viva gli

americani, i loro libri e chi li legge.

“Stava dicendo, signorina?…” si scosse il direttore

abbandonando con la mente il paese dove i sogni si avverano più

che nei film. Il suo, in ogni caso, si era avverato; lo stringeva fra

le dita.

La realtà non era all’altezza dei sogni. Sulla porta, rimasta

aperta, era spiccata la figura di Filo.

* *

217

“Scusi, chi è lei?” lo squadrò obliquo il numero uno del

Pallazzo.

“Mi chiamo Filo. Lavoro alle pratiche del secondo piano.”

rispose il numero mille e anta, che appena vide Amber seduta di

fronte a quel sepolcro imbiancato sentì irrigidirsi la nervatura.

“Avrei bisogno di parlarle.”

“Oh, un impiegato.” esclamò con rassegnato stupore il sepolcro,

al pensiero che nel Pallazzo i piani alti non erano più quelli di

una volta, frequentati solo da selezionati dir dotati di altolocato

pedigree e da selezionate segretarie dotate e basta. Ora erano

diventati di pubblico dominio.

“Ciao, Filo.” lo salutò Amber sgusciandogli un sorriso incerto.

“Vi conoscete?” le chiese il direttore quando Filo glielo rese, per

quanto più incerto e titubante di quello che aveva ricevuto.

“Sì.” rispose lei “Abbiamo parlato più volte di dove poteva

essere la Pratica. E’ stato Filo che ha avuto l’idea...”

“Certo, certo, signorina” la interruppe il direttore, per il quale

non aveva nessuna importanza chi aveva avuto l’idea, ma solo

che l’idea fosse stata quella giusta “La Pratica ormai è stata

ritrovata, e lei non dovrà più preoccuparsi del suo futuro.

L’ufficio qui a fianco l’aspetta.”

“A questo proposito...” riprese la parola Amber, sicura che se

non avesse parlato in quel momento non avrebbe parlato più

“vorrei chiederle una cosa. Avrei pensato...”

“Un’altra idea?!” domandò con la più preoccupata delle

meraviglie il suo dirimpettaio, per il quale tante idee in una volta

erano sinonimo di allarme rosso. “Parli pure, signorina.”

concesse paventando il peggio. “Le sono debitore; mi chieda ciò

che vuole.”

“Avrei pensato...” attaccò Amber esitando. Faticava a trovare le

parole ma soprattutto la forza per dirle. “Insomma, io e Filo

218

avremmo deciso. Vero, Filo?” riprese guardando negli occhi il

suo ignaro complice, per cercarvi dentro il coraggio di andare

avanti.

Filo, tirato in ballo, fu costretto a ballare. Assentì con la

convinzione dei finti convinti.

“Abbiamo pensato di introdurre il lavoro nell’ala rotta.”

annunciò finalmente Amber, come liberandosi di un peso.

Il direttore la fissò senza muovere un muscolo, prima di

chiederle immobile, con una bocca da ventriloquo: “Cos’avete

pensato?”

“Di far lavorare l’ala.” ripeté l’annunciatrice improvvisata dopo

aver deglutito quello sguardo di marmo.

“Ah... I-interessante.” maccheronò il ventriloquo con

impercettibile movimento del sopracciglio, rabbrividendo al

pensiero di quello che sarebbe potuto accadere. Far lavorare dei

disadattati. Della gente incattivita, che odiava il Pallazzo per

averla tenuta e continuare a tenerla in cattività, che non

conosceva il lavoro né aveva idea di cosa significava lavorare.

C’era il rischio di far saltare i già fragili equilibri di quei vetri.

“Ha pensato alle conseguenze?” le chiese fra il finto interessato

e il dissuasivo, ma molto di più sul secondo “Come la

prenderanno quelli dell’ala?”

Gli inquilini dell’ala erano “quelli”, pronome dimostrativo di

persona, animale o cosa, lontano sia da chi parla che da chi

ascolta. Nel caso del direttore, lontani anni luce. Anche se, nella

fattispecie, non quanto avrebbe voluto.

“Bene, ne sono convinta. Il lavoro sarà il mezzo per dimostrare

che non sono diversi dagli altri. Magari alcuni non sono proprio

uguali” sorrise “ma lavorare li farà sentire tali. Sarà utile sia a

loro che al Pallazzo.”

“Lei dice? E chi garantirebbe...?”

219

“Io, direttore.” lo interruppe Amber “Mi assumo io la

responsabilità del progetto. Le chiedo solo di assegnarmi Filo.

Ho bisogno di lui.” aggiunse girando un ammicco d’intesa al suo

nuovo bisogno con gli occhiali.

“Quand’è così.” accondiscese il supremo reggitore del Pallazzo

lavandosene pilatescamente le mani e pensando, stavolta con

sollievo, al suo imminente ritiro “Quello che è detto è detto.”

aggiunse, quindi le domandò, a personale chiarimento

“Quest’idea ha detto che è sua, signorina?”

“Non esattamente.” rispose Amber “A dir la verità è di Filo.”

Dal momento che non era riuscita a fargli riconoscere il merito

del ritrovamento della Pratica, che ormai era stato

definitivamente assegnato a lei, per un nobile quanto elementare

principio di compensazione Amber gli attribuiva il merito della

sua idea. Non immaginava che il direttore vedeva quell’idea

come fumo negli occhi, e in quel fumo scorgeva i germi di una

futura rivolta degli affrancati schiavi del Pallazzo, che già

presagiva asservito all’ala rotta e alla sua armata brancaleone.

Ma non c’è master che insegni a leggere nel pensiero.

“Bene, mi compiaccio.” disse a Filo il direttore con un sorriso

carico di promesse. Una peggiore dell’altra.

Filo, che non sapeva leggere nel pensiero e neanche nei sorrisi,

per giunta di direttoriale provenienza, glielo restituì di cuore.

Quasi fosse riuscito a leggere nell’uno e nell’altro. Poi uscì

insieme ad Amber, e mentre l’ascensore li portava a più

tranquilli piani bassi, si sentirono una cosa sola.

EPILOGO

220

Ora Filo ha qualche capello bianco in più e Amber qualche

riccio soffiato in meno. Il tempo che passa per l’uno e l’umido

di pianura per l’altra, ma soprattutto le nuove responsabilità per

entrambi, stanno cambiando i connotati delle loro cime cutanee.

Naturalmente stanno insieme. Forse si sposeranno, anche se la

data del matrimonio non è ancora stata fissata. In realtà non è

stato fissato neanche il matrimonio.

Il più scettico dei due ora è Filo, che dopo aver corteggiato

Amber nei tre giorni della Pratica e in quelli seguenti, da quando

sta con lei continua pericolosamente a sognare la donna dei suoi

sogni. Solo che questa specie di chimera notturna non ha la

faccia né il corpo di colei che popola le sue giornate, dentro e

fuori l’ufficio. Temporeggiare diventa perciò l’unico modo per

non chiudere la porta in faccia ai sogni, lasciando aperta quella

di una realtà che fino a qualche tempo fa era la migliore

possibile, e che oggi è solo una delle possibili realtà. Una volta

di più, per chi ancora avesse qualche dubbio, tutto è relativo.

La verità è che, stando con lei, Filo non è più così sicuro che

Amber sia la donna dei suoi sogni, e perciò della sua vita. E

continua a rimandare sia il matrimonio che l’idea di sposarsi.

Persino di suo padre ha smesso di essere geloso, e la cosa lo

preoccupa più di quanto lo preoccupava prima l’esserlo.

Nondimeno continua a starci insieme.

Non solo, ma ha cominciato anche a lavorarci insieme, dal

momento che nell’ala rotta, pur tra mille problemi, è partito il

lavoro.

Non tutto il popolo dell’ala aveva accolto la buona novella

lavorativa con animo disposto a riceverla. Fra quegli emarginati,

infatti, ce n’erano alcuni che s’erano fatti emarginare di

221

proposito, fingendosi pazzi senza esserlo. Tutto per non

lavorare, per avere uno stipendio senza far niente. O facendo il

minimo, recitando una parte e incassando il prezzo della recita.

Ebbene, questi emarginati di tendenza, al pensiero che il lavoro

avrebbe fatto il suo ingresso nell’ala rotta e di conseguenza

anche nelle loro vite, avevano dato in escandescenze. Senza che,

visto il posto dove si trovavano, nessuno ci avesse dato troppo

peso. Fare i pazzi dunque non serviva più a evitare

l’abbruttimento da lavoro, che si cumulava così al normale

abbruttimento da pazzia. Vera o falsa che fosse.

Perciò, se la maggioranza dell’ala aveva accolto la notizia come

si conviene a una conquista epocale, non era mancato chi

l’aveva presa come la peggiore delle disgrazie, rivestendo quel

poco di gioia che era stato costretto a fingere per non destare

sospetti con un sorriso di latta. Dietro al quale montava però

ogni giorno di più un intento ben preciso, quello di restituire il

lavoro al mittente. Possibilmente senza ritorno.

Consta infatti al vostro narratore che i più irriducibili di questi

finti pazzi -da sempre di gran lunga più pericolosi di quelli veri-

stiano tramando con i servizi segreti deviati del Pallazzo e con la

parte della direzione più vicina, per importanza e vetustà, al suo

supremo vertice. Vertice che, data la situazione, ha pensato bene

di procrastinare la sua dipartita lavorativa, autorinnovandosi di

diritto il mandato pallazzesco. Ebbene, consta che questa triade

stia tramando per boicottare il lavoro nell’ala, e aver poi la scusa

per bandirlo in perpetuo dalla stessa, onde restituirla alla sua

primitiva condizione di, sia pur giocoso e protettivo, campo di

raccolta, rifugio dorato della diversità, garanzia della normalità

di chi è fuori. Il fiore all’occhiello del sistema sociale del

Pallazzo.

222

Il lavoro nell’ala dunque, appena partito sembra già aver i giorni

contati, e la stessa storia di Filo e Amber non dà l’impressione di

poterne contare molti di più. A meno di somministrarle in tempi

brevi e in dosi massicce un preparato unico nel suo genere,

confezionato in forma di discoide e dolcificato per renderne più

appetibile l’assunzione: il sempreverde confetto matrimoniale.

Una cura che non sempre dà gli effetti sperati e non è priva di

controindicazioni.

Pure continuano a stare insieme senza sposarsi e il lavoro

nell’ala a procedere senza incidenti. Il futuro, essendo fra le

stelle, neanche il vostro narratore può saperlo.