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Mi presento, sono il narratore.
Ma non un narratore qualsiasi. Uno che quando si mette a
scrivere ha in testa giusto il titolo -sperando che sia anche il
titolo giusto- e poco altro, ed è costretto a farsi raccontare il
resto dai personaggi. Uno che tentenna, tergiversa, prende
tempo, cerca scuse, gira intorno, ammicca o, peggio ancora,
inventa. Il tipo che sa talmente poco di tutta la storia e la
racconta così a rilento da dare in testa anche al miglior lettore
possibile, quello vacanziero. Da costringerlo a un noioso lavoro
di sartoria sinaptica per cucire assieme i pezzi della trama e
farne un abito. Oppure, se a corto di sinapsi, a chiudere il libro.
Niente di tutto questo. Io sono un narratore onnisciente. Con una
certa dose -finora innocua- di mania di grandezza. Quello che sa
tutto di tutto e di tutti. Forse anche di più. Quello che non può
deludere. Che non può deludervi. Basta allungare la mano e
lasciarsi portare.
Lo dico perché non pensiate che questa storia sia inventata, per
intero o nei dettagli. Incisi, tropi e andate a capo comprese. O
che ne sia stata calcata anche la più anoressica sfumatura.
Perché ciò che racconto è vero. Tanto nell’insieme quanto in
ogni suo più asfittico e teleologicamente inutile particolare.
Vero al punto da farmi semplice cronista di sé. Un premuroso
servo di penna. Così autentico da non avere un lieto fine. Ma
neppure un triste fine. Anche il finale è rigorosamente vero.
Vero come sa essere la realtà quando supera la fantasia.
All’inizio era terra e acqua, poi vennero gli animali e
l’uomo. L’uomo prese coscienza di sé e dei suoi simili, scalò le
vette della ragione e scandagliò le profondità della fede. Ma a
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dispetto di tanta fatica ancora stenta a specchiarsi negli altri. A
riconoscere in essi le sue angosce, e a ritrovare le altrui nelle
proprie. Per essere, finalmente, obiettivo. Realizzare che ogni
umana vicenda, la più insignificante cosucola che fa da
inciampo all'ordinario fluire dei terreni eventi non è mai la
stessa per tutti, ma cambia secondo l'umore di chi v'inciampa. In
breve, che tutto è relativo.
Ecco perché la porta dell'ascensore che andava chiudendosi, per
Filo che ci stava dentro era mezza chiusa, mentre per la
sconosciuta che vi correva incontro nella speranza di infilarla
era mezza aperta.
Fu Filo che, sentendo un ticchiettìo in avvicinamento, appurato
che non gli veniva dall'orologio, anticipò con la mano il destino.
Offrì il più veloce dei palmi alla luce fredda della fotocellula,
che ne impressionò la linea della vita. Quando la porta, ormai
quasi chiusa, si convinse a riaprirsi, un lampo scarlatto gli
strapazzò il bene della vista. Il tempo di mettere a fuoco il
cristallino e lo strapazzato vide rosso.
Davanti a lui, in carne e curve, la ticchettatrice. Una rossa
efelidata inguainata in un completo scosciato rosso ciliegia
guarnito con calza nera, scarpa rossa e tacco a spillo.
Filo non avrebbe saputo dire il tempo in cui era rimasto a fissare
quel rutilismo cangiante, quelli che aspettavano l'ascensore ai
piani sì.
"Grazie." rosseggiò lei inforcando la porta.
"S-si figuri" bisbigliò Filo tachicardico. "C-che piano?"
"Qual è il piano della direzione?"
"Q-quello più alto, l-l'ultimo."
"Allora l'ultimo." esclamò lei in un'orgia di “elle”.
"L-l'ultimo." ripeté Filo, ormai tutt'uno con la balbuzie. "L-
l'accompagno", e pigiò il bottone più alto.
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Mentre l'ascensore saliva l’estemporaneo accompagnatore si
accorse di non aver mai trovato così interessanti i numeri dei
piani che si illuminavano uno dopo l'altro, i vetri fumati come le
sue lenti, il nome tantrico della ditta che curava il
funzionamento scivolistico-sciovinista dell'impianto, le unghie
non proprio fresche di taglio delle mani e la punta squadrata
delle scarpe. In compenso la periferia dell'occhio gli correva,
non vista, a farsi un giro non autorizzato su quelle curve al
sangue.
La rossa calzava due guanti attillati di pelle cremisi, che
stringevano l’uno una borsetta, l'altro una cartella. Entrambe del
suo colore preferito. Un cappotto rosso vinato giaceva penzoloni
a cavallo del braccio su cui poggiava la cartella, innaffiando di
rubino il rosso di questa e i rossi di tutto il resto, e accendendo il
profondo decolleté della giacca. Quando si portò uno di quegli
indici incandescenti a due labbra scarlatte e ne addentò
l'estremità, Filo sentì mancargli la gamba d’appoggio.
La rossa passò poi ad addentare a tempo di vamp la punta del
medio e dell'anulare; quindi tirò di colpo la mano, e il guanto le
rimase vizzo fra i denti.
Filo deglutì il grumo di saliva più duro a inghiottirsi di tutta la
sua vita di inghiottitore, mentre lei recuperava il protoplasma di
guanto con le dita rossoungulate della mano rimasta nuda.
"La saluto" occhieggiò la rossa, raggiunto il piano nobile "E...
grazie per avermi aperto."
Sull'"aperto" Filo sentì mancargli l’altra gamba, che si
addormentò di costa a quella già mancata.
"Ah, già che è così gentile, da che parte sta l'ufficio del
direttore?" sfrigolò in preda a un turgore vermiglio.
"D-deve prendere il corridoio a destra. L'ufficio rimane in fondo
a destra. C-comunque ci sono le frecce."
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"Che buffo, anche l'ufficio del mio capo è a destra!" sbottò
carminea, e le ridacchiarono le efelidi.
Gli uffici dei direttori sono sempre a destra, pensò Filo mentre
lei usciva ticchettando. Anche nei palazzi circolari. E dopo aver
guardato sfumare la perfetta pendola di quel didietro a luci
rosse, decise che era ora di tornare coi piedi per terra. Pigiò il
bottone col due e rientrò ai piani bassi.
* *
Di palazzi circolari in città se ne vedono pochi; di palazzi tutti a
vetri anche meno. Di palazzi circolari tutti a vetri uno solo, il
Pallazzo. Un ammasso di vetri ammattonati che è lo specchio
delle intenzioni di chi ci lavora: essere trasparenti per chi sta
fuori e arrotondare sempre gli spigoli.
Visto dall'alto il Pallazzo era come un grande occhio che
scrutava il cielo. Un occhio di vetro. Dal basso invece
somigliava a un'enorme mongolfiera o al figlio illegittimo di un
dirigibile.
Non era la prima volta che Filo accompagnava qualcuno al
piano della direzione. Mai nessuno però con addosso tanto rosso
così ben distribuito. E a tutti dava la stessa indicazione:
“Corridoio a destra; ufficio in fondo a destra.”.
Una volta un sindacalista ci trovò da ridire. "Piuttosto che
andare a destra me lo taglio." rimbeccò a Filo "Grazie per il
passaggio, amico, ma io dal direttore ci vado da sinistra."
Il direttore però, una volta appresa la direzione di marcia, gli
ordinò di tornare indietro e di fare il giro al contrario.
"Questo è un sopruso!" protestò il sindacalista.
"No, questo è andare alla mano!" verbalizzò il primo cittadino
del Pallazzo. "Se non si va alla mano è l'anarchia, il disordine, il
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caos. Perciò...!" e con l'indice delle grandi occasioni gli intimò
il dietro-front.
Il sindacalista, considerato con chi aveva a che fare, girò sui
tacchi e fece il giro dalla parte giusta. Da quel momento girò
dalla parte giusta anche la sua vita lavorativa. Fu cooptato fra i
sindacalisti di corte.
Un'altra volta fu un impiegato a trovarci da ridire. Un certo
Bastiano, contrario per principio a ogni forma di coercizione.
"Perché dal direttore devo andarci di qua?" chiese a Filo che gli
indicava la destra "Io voglio andarci di là."
"Non so." balbettò Filo ammainando l'indice della mano guida,
mentre cercava di trovare in soffitta una risposta articolata ed
esaustiva alla domanda. “Qui è sempre stato così.” disse
soltanto, essendo la domanda senza risposta.
Ma Bastiano seguì il suo istinto, fece il contrario. Il direttore,
per ripicca, si negò. Bastiano allora, capita l'antifona, la volta
dopo negò se stesso: fece il contrario del contrario. Andò per
dove si voleva che andasse. Poi il direttore aveva fatto mettere le
frecce, e la gente girava a destra senza più chiedere.
Se però Filo avesse saputo chi era la rossa e per conto di chi
veniva, avrebbe saputo anche che l’artefice di quel senso
obbligato avrebbe rinnegato sull’istante la sua sindrome
destrorsa, pur di evitare il ciclone che stava per investire il
Pallazzo e i suoi controvoglia destrorsi inquilini coatti.
* *
Ore otto, ventisette primi e rotti. Ovieffe e Fettunta non avevano
messo piede in ufficio che già s'erano scambiate due sbadigli
uguali e contrari, che le portarono dritto al minuto ventotto.
Dopo aver deglutito la coda solida del proprio sbadiglio, si
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miagolarono un “ciao” insalivato, che prese la strada di un
nuovo, prolungato sbadiglio con cui raggiunsero i ventinove.
Quindi sprofondarono sulle girevoli, prostrate da quel primo
approccio al lavoro.
Ovieffe era fatta a uovo di Colombo con due piedini del
trentasei, mentre Fettunta aveva le curve di un'aringa con due
fette del quarantatre. Ciascuna avrebbe voluto il poco di bello
che aveva l'altra, Fettunta i piedini di Ovieffe e Ovieffe il
figurino scarnito di Fettunta, lasciando all'altra il resto. Anche se
ciascuna, con ipocrisia tutta impiegatizia, sminuiva il difetto
della collega, e anzi ne metteva in luce il lato eccentrico.
Dopo una partita a due fra sbadigli deformanti e sguardi
allucinati -una partita finita in parità, senza vincitori né vinti-, le
proprietarie di scrivania a fronte cominciarono a dare segni di
ripresa delle funzioni vitali più complesse. Per gradi, partendo
dalle più semplici.
"Che hai fatto iersera?" chiese Fettunta a Ovieffe.
"Ho guardato alla tivù il film della serie "Donne in graticola".
La storia di una donna che viene picchiata dal marito ogni volta
che apre bocca. A un certo punto lei si stufa, lo lascia, trova un
lavoro, fa carriera e si mette con un altro. Ma non è felice, sente
che le manca qualcosa. Beh, vuoi saperlo?, le mancano le botte
del marito. Torna da lui, che la perdona, dopo averla gonfiata, si
capisce, ed è felice. Ho pianto tanto. Soprattutto alla fine.”
"Anch'io mi sciolgo davanti alle storie a lieto fine"
"Pensa che mio marito non mi tocca con un dito. Neanche quello
piccolo."
"Perché, il mio sì?"
"Cosa chiedo in fondo? Uno schiaffetto ogni tanto, qualche
parolaccia. Una bella litigata. Tanto per mettere un po' di pepe,
farmi sentire che mi ama ancora."
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"I mariti sono tutti uguali. Buoni solo a farsi servire."
"Se non ci fosse la televisione...”
“Bisognerebbe inventarla!” esclamarono in coro, con una risata
per applauso.
“Beh, mettiamoci al lavoro." suggerì ottativa Ovieffe.
"Giusto" convenne seria Fettunta.
E mentre Ovieffe si attaccava al telefono per ordinare la spesa,
Fettunta, ligia a marital consegna, chiamava la suocera per i
convenevoli di rito.
"Già al lavoro?" ammiccò Filo passando di sguincio.
* *
Alla vista della rossa e delle sue parabole di fuoco i legni
pregiati che rivestivano l'ufficio di direzione avevano pensato al
peggio. Tutti tranne uno, il direttore, che l'aveva fatta
accomodare prontamente. In cambio lei l'aveva omaggiato con
un accavallamento di gambe dei suoi. Lui, che pure era astemio,
alla sgambata fu colto da un principio di sbornia, che
maccheronò con un sorriso postumo. Quindi, riacquistata
un’artefatta sobrietà, le disse in tono solenne: “Sono tutto per
lei, signorina. Vuol rendermi edotto dei motivi sottostanti la sua
visita?”
La proprietaria delle parabole lo guardò catalettica. La parola
“edotto” non evocava in lei niente di intellettualmente
commestibile, mentre “sottostante” aveva l’inconfondibile
retrogusto di un funerale. Ma poi, facendo appello alla materia
grigia che giaceva inconsapevole sotto il rosso, intuì di cosa
doveva trattarsi. Spiegare al suo autorevole dirimpettaio la
ragione del suo stargli davanti.
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La rossa era la segretaria favorita dell’harem di partito
dell'onorevole Scaltro. Un politico del posto che, dopo aver
militato in partiti dai colori diversi, aveva finalmente trovato il
colore giusto per farsi eleggere. La favorita era approdata a quei
lidi con l’incarico di esprimere al loro signore il disinteressato
interessamento dell'onorevole alla pratica presentata al Pallazzo
da un certo Malanio, buon amico dello stesso. Oltre che, ma solo
incidentalmente, suo grande elettore. Pratica di cui sembrava
essersi persa ogni traccia. Tanto che al Malanio, che ne aveva
più volte chiesto notizie, qualche inquilino forzato di quei vetri
aveva dato risposte evasive, associando la stessa a termini quali
“imbucata” o “inguattata”.
L’interessato, ovviamente, c’era rimasto male, dal momento che
era la prima pratica della sua vita. E le si era anche affezionato,
pur non avendola mai vista né conosciuta. L’immaginava
racchiusa in una carpetta color rosa tenero, sul davanti le lettere
in nero del suo bel nome, dritta e impettita a fianco delle altre
ma più aggraziata. Al Pallazzo gli avevano detto che se voleva
poteva presentare una pratica nuova, ma lui aveva detto di no.
Voleva la vecchia. O la vecchia o niente.
Bisognava dunque che lui, il supremo nocchiero di tutte le
pratiche, procurasse di trovare quella che aveva, diciamo così,
spezzato il cuore al Malanio, facendola vedere, magari anche
solo per un istante, al cuore infranto, e la portasse a naturale
conclusione. Il suo protetto avrebbe così avuto la certezza che la
sua pratica non era stata buttata nella spazzatura, per finire poi
seppellita in una qualche discarica, ma si trovava viva e vegeta
nei grandi archivi del palazzo di cristallo. L’onorevole, in attesa
di farsi vivo direttamente -al momento un’improvvisa urgenza lo
teneva incollato alla sua dattilografa, che, a sua volta incollata
alla scrivania, ne saggiava sotto dettatura il rigore interiore e
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l’impegno politico (in politica le urgenze urgono più che
altrove)-, l’onorevole avrebbe gradito due parole di risposta.
Una risposta che lei, pur così volubile, aveva il compito di
riportargli con assoluta fedeltà.
Il direttore aveva seguito con profonda attenzione le labbra
scarlatte della rossa, con frequenti scivoloni nella scollatura
della giacca. Aveva perciò messo a fuoco sia la scollatura che il
problema. Poté quindi assicurarle con piena cognizione di causa
che avrebbe dato immediate e precise disposizioni affinché,
riprendendo la metafora malaniana, la pratica che stava a cuore
al Malanio venisse ripescata dal loculo in cui si trovava
seppellita, fosse stato pure quello canonico, e restituita a nuova
vita.
“Tranquillizzi l’onorevole e lo ringrazi per aver perorato sì
nobile causa.” concluse lo scrutatore terminando lo spoglio di
quello scorcio di paradiso dei sensi. Lo scrutinio aveva
soddisfatto in pieno le aspettative. Con un’urna del genere non
c’è votazione che non finisca col massimo dei voti.
“Sono io che ringrazio lei delle belle parole.” disse arrossendo la
rossa, mentre, non vista, si segnava con una penna di colore e
inchiostro in tinta, sul palmo destro, “perorato”. Per riferire a
Scaltro con la fedeltà richiesta dal compito quella parola a lei
sconosciuta.
"D’altra parte nel Pallazzo non si è mai perso niente." proferì il
direttore in modo così perentorio da crederci lui stesso. “E, mi
raccomando, non abbia a peritarsi a ossequiare l’onorevole per
me.” aggiunse come chiusa finale.
“Lo farò.” assicurò lei, segnandosi, sempre di nascosto, sul
palmo ormai a uso taccuino “peritarsi”. L’incarico di riportare
fedelmente le parole di quel soggetto dal parlare strano si stava
rivelando più difficile del previsto. Poi alzò la sua pendola rossa
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e uscì, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti i legni pregiati
che rivestivano l’ufficio di direzione. Direttore compreso.
* *
L’onorevole Scaltro era quanto di peggio potesse capitare tra
quanti, avendone o no titolo, a proposito o meno, solevano talora
intromettersi nel tranquillo tran tran pallazzesco per appoggiare
la pratica di questo o di quello.
L’onorevole era uomo di spicco nello sfocato quadro politico
locale. Uno che a ragione poteva ben dire essersi fatto da solo.
Difatti la doppiezza e l’arrivismo di cui faceva mostra -termini
che il politichese comune traduce liberamente con acume e
passione- non li aveva presi dalla famiglia. Li aveva imparati da
quei famosi partiti colorati che aveva frequentato, apprendendo
da ciascuno in parti uguali.
Una volta Scaltro ricevette in dono un libro. Quando l’aprì e
vide che le pagine erano tutte a cinque zeri, il pensiero corse a
suo padre, integerrimo ingegnere delle ferrovie, che a suo tempo
aveva ricevuto in dono analogo cadeau per far passare sotto
silenzio uno stock di traversine fallate. L’esemplare genitore
aveva chiuso sdegnato quel tomo pagabile al portatore,
proferendo in fiero toscano che certe letture non lo interessavano
punto. L’onorevole figlio, ripensando a cotanto padre, chiuse
sdegnato anch’egli il tomo della lussuria, proferendo in vile
italiano che gli portassero anche gli altri volumi della raccolta.
Punto.
Il direttore, che ne conosceva per sentito dire i passati trascorsi
di paladino dei suoi sostenitori, e ne immaginava per propria
lungimiranza i futuri, sapeva che non si sarebbe mai liberato di
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Scaltro. Almeno finché non avessero ricevuto, lui e il suo ritorto
amico di disgrazia, piena e politica soddisfazione.
Perciò, una volta licenziata la rossa e il riflesso al neon delle sue
curve, il direttore si adombrò. Non c’era tempo da perdere.
Bisognava guardare in ogni cassetto, su ogni scaffale, di sotto, di
dietro, nei quattro punti cardinali di ogni stanza, ogni scrivania,
ogni angolo, ogni buco, ogni fessura. E in tutti i punti diversi da
quei quattro in cui ci fosse da guardare. Bisognava trovare la
pratica smarrita. Immediatamente. Per questo chiamò subito il
responsabile di tutti i controlli, il Nero.
* *
Mentre ticchettava verso l’ascensore con passo da crociera,
l’ambasciatrice del rosso vivo poteva ben dirsi soddisfatta. Per
primo il suo lessico personale si era arricchito di nuovi vocaboli,
per quanto destinati a un rapido oblio. Per secondo aveva
ricevuto dal direttore le assicurazioni che il suo capo voleva,
anche se con parole non tutte comprensibili. Parole però che lei
s’era diligentemente impresse sul palmo della mano, come le
stigmate di una santa. Santa rossana. E che avrebbe riportato
papali papali al suo signore.
Quasi si sorrise dentro l’ascensore, e a lei sorrise la sua
immagine fumata, col dito che pigiava per tornare a terra. Ma la
corsa si interruppe subito, perché l’ascensore si fermò qualche
piano più sotto, per far entrare Toniriccio.
Era questi il re dei cascamorti. Uno che dietro modi alla glassa e
parole di miele nascondeva propositi al pepe nero: fare un
boccone della pastafrolla adocchiata. Da principio Toni aveva
sparso il suo zucchero tra le inquiline coatte del Pallazzo, con
effetti pepati modesti rispetto allo spandimento. Anche se in
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assoluto la legge dei grandi numeri gli dava ragione,
legittimandolo a pensare in grande, e a provarci con quante più
era umanamente possibile. Magari con tutte, per non farsi venire
lo scrupolo di non averci provato proprio con quella che ci
sarebbe stata. Poi, esaurito il miele con le, per lo più asprigne,
compagne di vetri, aveva dirottato la sua attività dolciaria verso
l’esterno.
Il riccio, vedendo una femmina così fatta ma soprattutto così
vestita, la scambiò per una di quelle e azzardò un sorriso
compiacente. Lei, che, pur essendoci portata, una di quelle non
era, gli sorrise per educazione. Toni allora le inviò un sorriso di
prammatica, cui la rossa rispose con uno di convenienza. Lui
passò quindi a un sorriso interlocutorio, che la donna di cuori
rintuzzò con uno interinale. A quel punto il virtuoso
dell’ammiccamento gliene stampò uno a tutti denti, mentre lei si
morsicava un labbro per non fargli vedere i suoi. Arrivarono al
piano terra piegati dal ridere. Quando poi, dopo essersi
presentati, lui si ritrovò col palmo della mano destra sporco di
rosso, prese loro un convulso che li lasciò senza fiato.
“C-che ne dice di un caffè?” le chiese il riccio fra i singhiozzi.
“E’-è un’idea.” rispose l’interpellata rifiatando. “Io-io lo prendo
macchiato.”
Lo sguardo dei due corse alle macchie rossastre stampate sui
loro palmi, prima di scoppiare in una nuova, irrefrenabile scarica
di riso. Uscirono paonazzi, gli occhi in fuori e il collo in piena,
sorreggendosi a vicenda per non cadere sulla gradinata
d’ingresso e rimanere interi. Chi non riuscì a rimanere intero
furono i due lemmi impressi sul palmo della mano di lei, che si
sciolsero fra le lacrime del suo riso dirotto.
* *
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Quella mattina il Nero era più scuro del solito. Al risveglio la
moglie gli aveva sibilato bifida di non fare tardi in ufficio come
faceva sempre, perché la sera avevano a cena i Fasti, vecchie
glorie della città. E nell’uscire aveva trovato sulla porta un
biglietto delle gemelle, che pretendevano l’immediato e
retroattivo adeguamento delle loro paghette al costo della vita.
Un costo che mostrava di crescere molto più velocemente del
suo pur ricco stipendio.
Allorché arrivò in ufficio e sentì l’urlo telefonico del direttore di
presentarsi da lui su due piedi, il Nero seppe che sarebbe stata
una giornata no.
“E’ sparita una pratica!” gli sbatté in faccia il numero uno
appena i suoi piedi gli furono davanti.
“Non è possibile.” sbiancò il Nero. “I passaggi da ufficio a
ufficio sono tutti registrati, i registri controllati, i controlli
computerizzati e i computer ancora in garanzia. Le garanzie
devono essere da qualche parte.”
“Sa dove deve mettersele le sue garanzie?!” gridò tarantolato il
direttore.
“L-lasciarle dove sono, immagino.” balbettò lo sbiancato, prima
di afferrare che sarebbe stato meglio farsi muto.
“Non mi interessano le garanzie!” esplose la tarantola da dentro
l’abito gessato “Deve ritrovarmi la pratica! Domattina a
quest’ora voglio il fascicolo qui, sul tavolo!”
“Sarà fatto, non dubiti.” disse il Nero guardando l’orologio.
“Qual è il nome?”
Al “nome” il direttore si bloccò di colpo. Poi cominciò a
muovere piano, uniche parti del tutto a muoversi, due pupille
colme d’ansia. L’ansia di essere sorpreso da qualcuno con un
nome in bocca. A muoverle, lentamente, prima a destra e poi a
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sinistra -poco, il minimo indispensabile-. Non era prudente fare
nomi. Se qualcuno l’avesse sentito si sarebbe sparsa la voce per
tutto il Pallazzo. E se anche non l’avesse sentito nessuno, la
voce si sarebbe sparsa lo stesso. Non si sa come, ma si sarebbe
sparsa. No, nomi in questi casi non se ne fanno. Non se ne
fanno mai.
“Quando avrà trovato la pratica saprà anche il nome.” rispose il
direttore smorzando la voce ma non il tono “E, mi raccomando,
acqua in bocca.” concluse smorzando anche quello e facendo il
pesce.
Il Nero gli inviò un sorriso all’aglio e uscì. Tornò di bocca
buona solo al pensiero che di lì a due piani avrebbe scaricato
buona parte della bile accumulata sul Grigio. Era questi il suo
vice, con lui da poco, tanto da non averne che un’opinione
sfumata e indistinta. Incolore. Il Pallazzo l’aveva scelto fra una
rosa di raccomandati, sfogliando accuratamente il fiore. Aveva
studiato amministrazione e fumo in quel di Londra, e lasciava
presagire una scialba carriera di burocrate.
Appena il Nero lo vide lo strapazzò come si conviene che un
capo strapazzi un vice. Se poi il capo è stato a sua volta
strapazzato da uno più capo, allora la strapazzata del vice
acquista per il capo strapazzato una funzione risarcitoria della
propria. E, più in generale, di catarsi di tutto il sistema
gerarchico.
Il Grigio sopportò da inglese la sfuriata del Nero, che subito
dopo si sentì meglio. Quindi fu reso partecipe da questi del
compito che li aspettava.
* *
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“Bella giornata, vero?” abbozzò Filo passando di fianco a Ida, la
sorda, detta la sordida perché da quell’orecchio non ci sentiva.
Era così taccagna da risparmiare sulle spese dell’apparecchio
acustico. Al momento l’aveva staccato, per lesinare sulla
ricarica, perciò era senza rete.
“No, non è ancora nata.” disse Ida, con Filo ormai passato.
“Ha detto giornata, non nata.” ribatté Nervesa Lepretta, la sua
compagna di chiacchiere, ribattezzata da Ida Ada. Primo perché
non le era chiaro quale dei due fosse il nome, secondo per
economia di chiacchiera.
Ada era una ligure debole di Nervi, che la dolcezza della riviera
non aveva risparmiato da una risacca di nevrosi. Anche perché
ogni volta che Ida glieli faceva venire con la sua sordità a
intermittenza, lei, per farseli passare, andava a bersi un caffè.
Alla macchina automatica, senza scendere al bar, per sbollire in
privato, lontano da lingue lunghe. La macchina, per questo, era
perfetta. E col caffè tornava, per quanto sbollita, più tirata di
quando era partita.
“E io che detto? Nata.” replicò Ida.
Ada non ci fece caso; a volte l’apparecchio acustico andava per i
fatti suoi. A volte invece era Ida ad andare per i fatti propri.
Quasi che l’intermittenza della sordità fosse collegata a una
corrispondente intermittenza del cervello, ma in modo
asincrono. Quando era sull’acceso l’una, era sullo spento l’altra,
e viceversa.
“A proposito” riprese Ada “Sai che ieri sera ho portato Accio al
pronto soccorso? Era rimasto con un ditino attaccato alla
carlinga dell’aereo che stava costruendo. Lo stava incollando col
Loctite.”
“Anche il mio” disse seria Ida.
“Anche il tuo cosa?”
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“Anche il mio Gepi ha l’otite. Però non sono mica stata a
portarlo al pronto soccorso.”
“Ma Accio non ha l’otite!”
“E allora perché l’hai portato al pronto soccorso?... Ada, tu sei
troppo apprensiva.”
“Ho detto Loctite, non otite! Ci ha lasciato un pezzo di pelle su
quella carlinga.”
“No, mio figlio non lascia niente della meringa.”
“Ho bisogno di un caffè.” sospirò Ada al muro.
“Non è ancora ora.” ribatté Ida.
“Di cosa?”
“Del tè. E’ ancora presto.”
Ada si alzò di scatto, stampò la biro sulla scrivania e andò a farsi
col caffè. A sbollire con la sua nera droga bollente. Tornò con
l’aria scura e l’occhio fisso. Ma dopo un poco l’aria le si schiarì.
“Hai molto lavoro?” domandò affabile a Ida, la lingua secca e la
bocca amara. Alla macchina del caffè lo zucchero era esaurito.
Ada non se l’era presa; anzi, le aveva espresso tutta la sua
solidarietà di esaurita.
“Sì, pure troppo.” rispose la sorda sfogliando “Donna in
carrozza”.
“Ehi, hai risposto a tono stavolta!”
“Ho attaccato l’apparecchio; era staccato. Comunque prima ho
sentito ogni virgola delle cose che hai detto. Anche se tu, mia
cara, fai un bel po’ di confusione a raccontarle.”
“Ho bisogno di un altro caffè.” esalò cianotica la larva di Ada,
avvolta nel bozzolo del proprio fascio di nervi. Poi schizzò alla
macchina automatica.
“Ma sì, tanto finora hai preso solo un tè.” approvò Ida.
Ada e Ida, la coppia tragicomica del teatro stabile del palazzo di
cristallo.
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* *
“Ma è come cercare un vetro nel Pallazzo!” sbottò il Grigio al
Nero. “Qui dentro ci sono più pratiche che particelle di
pulviscolo atmosferico!” continuò guardandosi intorno, quasi a
cercarne una da esibire a riprova. “Come si fa a trovare una
pratica che non si sa come si chiama?”
Già, come si fa?, masticò amaro il Nero, prima di decollare su
un “Lui la vuole! E noi la troveremo!” e lanciarsi su una
girevole imbottita affondandola.
“Ma senza nome è impossibile!”
“La troveremo!” ripeté il kamikaze da camera, sapendo che
senza nome era impossibile.
“In che modo avrà fatto poi a sapere che s’è persa?”
Anche questa è una buona domanda, masticò sempre più amaro
il Nero, con un frizzo di invidia per non averla fatta lui. Doveva
tenerselo caro, quel suo grigio attendente. Il suo acume nelle
cose d’ufficio avrebbe potuto un giorno fargli comodo.
“Gliel’avranno detto quei boccaloni delle informazioni.”
rispose.
All’ufficio informazioni stavano in due, un maschio e una
femmina. Tutt’e due sul bello da spiaggia, per soddisfare
l’occhio di chi andava a informarsi sullo stato di salute delle
pratiche.
Esperti di marketing casereccio avevano messo a punto una
ricetta secondo cui una risposta negativa su una pratica, se data
nei modi dovuti da un bell’esemplare del sesso opposto, era più
facile a digerirsi. Se poi tale esemplare avesse insaporito la
risposta con un tocco di rammarico per il rigetto di quella di cui
andavano chiedendo e una spruzzata di auguri per un felice esito
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della successiva, allora, garantivano gli esperti fatti in casa, era
come se la pratica in questione fosse stata accolta e non respinta.
Digeribilità assoluta.
Da sempre ci stava un certo Mondo, un moro riccioluto che non
ne perdeva una. Nel senso che le colleghe che si succedevano
alle informazioni se le faceva tutte. Almeno così diceva. In ogni
caso ci provava con tutte. E a talune, con quel tenebroso, era
capitato di farci notte. Perciò ultimamente, per evitare sorprese,
gli avevano affiancato una che aveva fama di donna difficile.
Netta, femmina di austera bellezza e monacata sensualità. La
copia vivente della monnalisa del quadro.
Certe signore sull’attempato presentavano apposta le pratiche
non in regola, senza qualche documento. Solo per sentirsi dire
da Mondo, con la sua voce impostata e il sorriso da pubblicità di
dentrifricio al fluoro: ”Siamo spiacenti, signora, la sua pratica
non è stata ammessa. Ma non demorda, provi di nuovo. La
prossima volta sarà più fortunata.” Per poi cinguettargli un:
”Pazienza, sarà per un’altra volta.”, e tornare sui loro passi
salmodiando “Dio, che bell’uomo! Che bella voce! Come lo
dice bene! Se avessi dieci anni di meno!...” Le spudorate, nei
desideri irrealizzabili, mentivano anche a loro stesse sul numero
degli anni da calarsi.
Mondo, che non era un’aquila, faceva lo gnorri, anche se
qualche dubbio l’aveva. Specie vedendo che le pratiche bocciate
erano sempre quelle delle solite frementi signore.
Anche Netta comunque aveva i suoi ammiratori. Tutti signori
molto distinti, che la sognavano fare di tutto vestita di niente.
Uno di questi era il Nero, che Netta aveva sempre mandato in
bianco, e per ciò solo non perdeva occasione per sparlarne.
“Difficile siano stati loro a dirglielo.” inferì il Grigio spremendo
la materia prima omonima. “Quei due hanno rapporti solo col
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pubblico, non con la direzione. Dev’essere stato qualcun altro.
Qualcuno in alto.”
“Pensiamo a trovare ciò che dobbiamo, ora.” tagliò corto il
Nero, infastidito dal rigoroso argomentare del suo secondo
“Cominceremo dall’ufficio smistamento. Andiamo.” statuì con
piglio da battaglia, nella voce il timbro di chi l’ha appena intinto
nella nera spugna di guerra. Comandare gli dava un senso di
onnipotenza, di voluttà da masticare. Lo stesso che dava a sua
moglie impartirgli un ordine. Difatti in casa non contava nulla.
Meglio l’ufficio, dunque, pur con tutti i suoi problemi, in cui gli
ordini, nove su dieci, era lui a darli.
* *
Per togliersi dagli occhi le gambe nervose della rossa Filo li
aveva chiusi, concentrandosi su un esercizio di consapevolezza.
Col risultato di diventare nervoso anche lui. Fare yoga finora
non gli era servito granché, salvo apprezzare il momento in cui
smetteva.
Ci sono giorni in cui quello che si fa appare più stupido del
solito, pensò Filo schiudendo di colpo le palpebre e puntando il
loro cisposo contenuto sui compagni di stanza. Sempre gli stessi.
Oggi è uno di quelli, concluse scorrendoli faccia per faccia. E ci
sono giorni in cui sembra di vivere in un sogno, pensò ancora in
un accesso di astinenza da castelli in aria, e di muovercisi piano
per paura di svegliarsi.
Aveva sognato prima, in ascensore, o stava sognando ora?
Sarebbe stato bello che il sogno fosse stato questo -sia pure in
forma di incubo, viste le facce da primo mattino della carrellata-
, perché avrebbe voluto dire che la realtà era quell’altra, quella
21
della rossa. Ma era tutta quanta realtà, questa e quella; l’una e
l’altra. Soltanto da sogno la prima, da incubo la seconda.
Sì, nonostante le apparenze quei compagni di concubinato coatto
erano reali. Come Brusco, che non parlava, non rideva, non
sopportava gli uomini, odiava le donne, tollerava a malapena se
stesso, amava la solitudine e il silenzio. Da morto sarebbe stato
benissimo. O come Batta, sempre così sicura di non sbagliare
mai, tanto da disconoscere i propri errori come suoi. L’”io” le si
era gonfiato a tal punto da non riuscire a portarselo dietro senza
sacrificare il resto. A volte era costretta a lasciarlo a casa. O
come Spurgo, che si esprimeva con proprietà di lingua e
d’accento da esteta letterario. Le parole che gli uscivano di
bocca non erano le semplici parti di un discorso, ma le sinuose e
orgasmatiche modelle di una sfilata d’alta moda. Per non avere
dubbi sugli accenti aveva fatto in modo di nascere in Toscana.
O come Frenzi, detta la pasionaria per l’entusiasmo che metteva
nei suoi hobby a tempo: rafting, bird watching, free climbing,
hot dog, tip tap, top ten, eccetera. Solo nomi rigorosamente
inglesi. O come Motto, che trascriveva le massime dei filosofi
per poi citarle a sproposito. O come Picchio, che si chiedeva di
continuo se era meglio vivere di rimpianti o di rimorsi, ma non
riuscendo a decidersi tra l’uno e l’altro viveva di indecisioni. Per
non parlare di Trogola, che aveva una predilezione per i maiali
in generale, compresi quelli a due zampe, e i suoi derivati in
particolare. O di Rolfo, che accumulava i chili ai soldi e i soldi
ai chili. O di Collo, che non c’era mai; era sempre in riunione.
Da solo o in compagnia era costantemente in riunione. Un
impiegato virtuale. O di Clone, che aveva la capacità critica
della gomma pane. Dava sempre ragione a tutti. Nel caso di più
persone presenti in contemporanea dava ragione a quella che
aveva parlato per ultima.
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Erano reali quei compagni di lavoro, certo. Anche se a guardarli,
ma soprattutto a sentirli, si poteva giurare che la loro
frequentazione abituale era il mondo dei sogni.
E lui, Filo, era reale? O era anche lui la molle appendice di un
sonno?
“Tutto bene?” frivoleggiò spalancando la porta Prillo, il capo
dell’ufficio, compiacendosi della piega inamidata dei pantaloni e
della lucidatura a fuoco delle scarpe.
A Filo saltò la bolla che aveva appena preso piede sulla sua
testa.
* *
Il responsabile di tutti i controlli e il suo tirapiedi fecero
irruzione nell’ufficio smistamento pratiche con passo di
controllo ufficiale. Nel Pallazzo il passo di controllo era di due
tipi: semplice e ufficiale. Quello semplice era un passo poco più
cadenzato del normale, solo con una più sottilmente ostile
battuta del piede. Il passo di controllo ufficiale era invece
d’impronta militaresca. Ottenuto con l’aggiunta di tacchi
metallici posticci, incardinati sotto quelli normali, che davano
alla battuta il suono minaccioso dei tempi bui.
“Qualche problema?” chiese Spiro, l’addetto.
“Iiiiii-spezione!” gridò il Nero color della pece.
“Lo tiri fuori immediatamente!” rincarò il Grigio alludendo
all’incartamento.
Spiro, nell’incertezza, trattenne il fiato.
“I fascicoli non se ne vanno in giro! Le persone vanno i giro, i
fascicoli no! Dunque lo tiri fuori!”
Fugati i dubbi sulla cosa da tirar fuori -le ispezioni personali nel
Pallazzo non erano mai state abolite formalmente, anche se
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ormai non se ne facevano più, tranne quelle senza finalità
ispettive (in pratica quando si pomiciava in ufficio)-, nondimeno
Spiro continuava a trattenere il fiato. Immaginava quello che
cercavano, qualcosa di non smistato o roba del genere, e lui non
l’aveva. Stare zitto era un modo per farglielo capire. Forse non il
più diretto. Di sicuro il meno traumatico.
“Il fascicolo, la documentazione!” incalzò il Nero.
“Il plico, la cartella!” ri-incalzò il Grigio annerendo a vista
d’occhio.
“La pratica!!!” ri-ri-incalzarono i due in un macabro unisono.
Spiro seguitava a trattenere l’aria in corpo.
A quel punto la Lisetta, la collega un po’ frusta di Spiro,
vedendo l’inquisito diventare color delle mammole, frinì: “Mi
scusi, dottor Nero, ma mi sembra che Spiro non stia tanto bene.
E’ diventato viola.”
“Senza permesso non può!” tuonò il Nero “Senza permesso
nessuno può alterare niente!”
“Non può!” echeggiò il Grigio, ormai nero fatto.
Spiro, a dispetto dei due, non dava segno di ripresa delle
funzioni respiratorie.
“Andiamocene.” concluse il Nero “Qui non c’è spirito di
collaborazione.”
“Non c’è spirito.” ripeté il compare.
“Comunque” riprese il responsabile del controllo “Se trovaste
qualcosa chiamatemi a qualunque ora del giorno e della notte.
Mi raccomando, signora Lisa.”
“Lisetta, prego.” si schernì lei.
“Signora Lisetta.” concesse il Nero.
“Sono ancora signorina.” si rischernì.
“Ah... Beh, certo, quando si è lisi... La saluto, signorina Lisetta.”
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La coppia se ne andò sbattendo tacchi e porta, col morale a terra
per non aver trovato nulla, ma con sottopelle la gioia sottile di
essere stata capace di incutere quel po’ po’ di soggezione a un
sottoposto. Una soggezione così soggeziosa da impedirgli di
respirare. Da rischiare la vita per paura di dare una risposta.
Una gran bella soddisfazione, pensarono in contemporanea i due
santi inquisitori, prima di togliersi dai tacchi quelle lugubri
nacchere. Non sapevano che a fondare il loro potere sulla paura
sono gli stupidi, i pazzi o i criminali. O forse lo sapevano, ma
erano troppo compiaciuti per ricordarsene. Se però fossero
tornati sui loro passi, si sarebbero accorti che l’apnea di Spiro
non era indotta ma voluta. L’ispirato furfante l’aveva usata ad
arte per mettere in pratica il suo nuovo corso di sub, in attesa di
sperimentarla in un ambiente meno pericoloso. In fondo al mare.
* *
“Tutto bene?” chiese di nuovo Prillo, a cui il “sì” spettava di
diritto, per necessaria logica conseguenza di una domanda che
non ammetteva negativa.
“Tutto benone.” rispose enfatico Sotto.
Prillo era il capo più ricco di firme su vestiti ed orpelli di tutta la
scala dir –abbreviazione pallazzesca di “direttiva”-. La scala
prediletta dagli arrampicatori sociali di Pallazzo. Gli altri si
accontentavano di più comode scale mobili, oppure, tolti di
mezzo anche i gradini, di ancor più comodi ascensori. Sotto, che
ne era vice e sottopancia, da buon aspirante dir -“dirigente” in
pallazzese- per meriti ruffianeschi era una sua pura e semplice
appendice. Un’appendice dotata di autonomia intellettiva
marginale e anche meno. Quando Prillo voleva renderlo
partecipe della vita dei capi se lo metteva in pancia, dentro una
25
borsa cutanea aperta in alto tipo marsupio, e da quel momento
Sotto cominciava ad assentire. In tal modo diventavano una sola
persona. Con un solo cervello.
Prillo era specializzato nell’arte più diffusa fra la casta,
prendersi il merito del lavoro altrui senza assumersene anche la
responsabilità. In pratica rubava il lavoro ai poveri, gli
impiegati, per darlo ai ricchi, cioè a lui. Del resto ai poveri non
sarebbe servito ad arricchire, vale a dire a far carriera, dovendo
bastar loro, in una logica eminentemente di scambio, il solo
stipendio. La cosa più volatile dopo l’etere. Il loro lavoro
serviva invece a lui per diventare ancora più ricco. Per salire i
gradi della scala dir e arrivare all'agognato diruno, la vetta più
ambita di tutta la catena. E’ il principio cleptocratico-piramidale
del Pallazzo: il mezzo capo si appropria del lavoro dei sottoposti
con la benedizione del capo intero, che si appropria del lavoro di
tutti.
Il furto diffuso del lavoro altrui era dunque funzionale alle
esigenze del palazzo di vetro, come mezzo per far lavorare tutti
e far far carriera a uno soltanto, il cleptocrate, e come rimedio
contro l’anarchia che si avrebbe nel caso di carriera di molti.
Quanto invece alle responsabilità, Prillo aveva optato per un
concetto etico kantiano: ognuno doveva avere le sue. E doveva
risponderne con ogni suo avere passato, presente e futuro, senza
limiti di tempo, modo e persona del verbo di possesso per
antonomasia.
Sotto, il mezzo capo, era specializzato nell'assentire. Nel dare
ragione incondizionata e assoluta al suo dio, pardon, al suo dir,
che lo dotava di direttiva parola semplicemente impiantandoselo
nel suo marsupio inguinale. Una parola limitata alla particella
affermativa per definizione, estendibile, in casi eccezionali, a
una qualche contenuta variazione sul tema.
26
L’impiantato era l’efficientismo fatto appendice. Un
efficientismo di tipo burocratico, diretto a mantenere il superfluo
e tagliare il necessario. Un modo come un altro per ridurre
all’osso l’essenza del lavoro. L‘ufficio l’aveva battezzato “il
caporale di giornata”, vuoi per le capacità organizzative, da
caserma, vuoi per il quoziente intellettivo, da militare. Anche se
dall’esercito era stato scartato. Tra le altre cose, per reiterato
eccesso di zelo. Troppo anche per dei militari.
Sotto s’era fatto autore di una serie di proposte dirette a
intensificare il lavoro, e di conseguenza la produttività e il
malcontento. Proposte che si elencano di seguito in via
puramente esemplificativa e con beneficio d’indulgenza:
-proposta che prima l’ufficio e poi il Pallazzo tutto imparassero
la stenografia, per ridurre all’osso i tempi di compilazione delle
pratiche. La imparassero la sera, a casa. All’inizio Prillo l'aveva
trovata una grande idea. Poi, quando realizzò che avrebbe
dovuto controllare il lavoro degli stenografi, sia pure solo per
finta, la trovò un'idea del cavolo. La bocciò senza neanche
sottoporla alla direzione;
-proposta di instaurare in via continuativa l'ora solare a
mezzanotte e l'ora legale a mezzogiorno, per lavorare un’ora in
più tutti i giorni; fermo lo stipendio. Era stato picchiato sotto
casa da alcuni incappucciati che, in segno di sfregio, gli avevano
rotto l’orologio. Incappucciati assoldati dai dir più oltranzisti, ai
quali non garbava per niente l’idea di farsi un’ora di lavoro in
più al giorno a gloria dei posteri. Bocciato dalla direzione per
divergenze di fuso orario;
-proposta di applicare un cerotto traspirante su ogni naso
lavorativo, per aumentare il flusso di ossigeno al cervello e
quindi la capacità di concentrazione sul lavoro. Qualcuno
durante le prove aveva avuto una crisi da iperventilazione
27
preimmersiva. Bocciato dalla direzione per mancanza di spazi
dove sistemare eventuali embolizzati;
-proposta di far fare agli inquilini forzati del Pallazzo, appena
entrati in ufficio, trenta minuti di training autogeno, per
rafforzare la motivazione al lavoro. Bocciato dalla direzione
perché sullo schermo dei pensieri ognuno pensava ai fatti suoi;
-proposta di installare nel Pallazzo un etilometro da ufficio, per
misurare lo stato di ebbrezza di chi ogni giorno guidava le
pratiche al loro definitivo accoglimento. Il traguardo naturale di
ciascuna. Bocciato dalla direzione su pressione della lobby degli
alcolisti anonimi, rimasta tuttora sconosciuta.
“Tutto bene?” ripeté ancora una volta Prillo, nel fare le fusa a
una pregiata giacca d’angora. La risposta non gli era giunta forte
e chiara come doveva. In compenso la risposta alle fusa da parte
dell’altezzoso capo di razza si estrinsecò in un’inequivocabile
arricciata di pelo, che lo fece desistere dal continuare. Una
reazione anomala per quel prezioso felino costato una fortuna.
E pagato per addomesticato.
“Tutto benone!” confermò marziale Sotto, presentando il petto.
Almeno quella parte che fuoriusciva dal marsupio, ricoperta da
un vestito di quart’ordine, troppo stretto e fuori moda ma dei
colori di gradimento del capo.
“Bene.” approvò Prillo, prima di congedare quella sua
inelegante appendice e prendere le distanze da quel lunatico
esemplare di gatto rivoltato. E dopo una rapida occhiata in
tondo, appurato che i sottoposti stavano tutti a testa bassa e non
dormivano, uscì soddisfatto e si trasferì nel suo ufficio d’avorio.
Firme e, con le dovute precauzioni, felino compresi. Lo
aspettava una scrivania vuota, ma compiti di complessità tale da
non potersi raccontare senza sprofondare il lettore in uno di quei
sonni sotto vuoto dal risveglio a strappo. Sonni che sono
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l’incubo di ogni narratore che abbia anche solo l’illusione di
avere qualche fan, e pertanto, pur senza cullarsi in tali amache di
sogno, il vostro narratore si guarda bene dal raccontare di quei
compiti. Né saprebbe farlo Prillo stesso, dal momento che non li
conosceva e in ogni caso tramava per sbolognarli.
* *
"Cosa farà ora Amber?" si chiese Filo alzando la testa e facendo
la faccia da cocker. Un cocker con gli occhiali graduati, il pelo
mosso e il tartufo a becco d’aquila.
Amber Liscia era una fresca inquilina del Pallazzo, entrata a
rimorchio di un pezzo grosso venuto da fuori, a cui era legata da
rapporti eminentemente lavorativi: facevano sesso soltanto in
ufficio. Si trattava di un maxi dir in avanzato stato di canizie con
la burbanza di un cattedratico, il curriculum di una squadra di
dir da corsa e le conoscenze nozionizzate di un’enciclopedia
tascabile. Tali e tante da risultare più utili nei quiz televisivi che
alla bisogna.
Amber, agganciata a quel treno accelerato, aveva scalato i primi
gradini di una carriera che prometteva d'esser fulminante.
All’inizio non s’era capito bene quale fosse l’ambito esatto della
sua sfera di competenza all’interno del Pallazzo. In pratica cosa
facesse di preciso. E questo pur avendo un master poligenico in
scatto breve, soluzione al volo di problema, reazione immediata
ad azione istintiva, rimozione di scrupolo e del relativo impulso
di andare a Canossa, ancheggiamento controllato e sorriso da
festa di compleanno. Nondimeno era riuscita a farsi una qualche
fama nel risolvere problemi di una certa levatura -né troppo alti
né troppo bassi. Giusti.- con risatine e corsette. Nel risolverli,
29
parafrasando la pubblicità dei detersivi per la casa a proposito
dei risultati in termini di tempo e pulizia, presto e bene.
Quando però quel suo accelerato cambiò stazione, avendone
trovato una che gli dava più della vecchia, senza portarsi dietro
la sua devota compagna di lavoro -la nuova stazione gliene
faceva trovare bell’e pronta una più liscia e più giovane-, la
poverina, fresca d’abbandono, aveva smesso di far carriera.
Aveva avuto lei un bel darsi a risatine e corsette, come e più di
prima, a risolvere problemi, come e anche più di prima, ma la
sua carriera non s'era mossa di un millimetro. Era rimasta
irrimediabilmente ferma, al pari di tutti quelli che, prima di lei,
avevano perso il treno giusto.
E allorché aveva rimarcato la cosa a chi di dovere, i vertici del
Pallazzo ne avevano disposto il confino in un'ala fuori mano, la
fantomatica ala rotta (acronimo di Riconvertita Operatività
ToTale Aggiunta), nel settore dei carrieristi in disarmo. L’unico
spazio dell’ala dotato di uffici con ogni comfort, ma disposti al
loro interno con la scrivania e le sedie in faccia al muro, di
spalle alla porta. Segno che le aspettative di un tempo erano
chiuse per sempre.
"Chissà cosa farà?" si richiese Filo, che per Amber aveva una
simpatia da reflusso. Da principio le era sembrata fredda e
asettica come il gabinetto del medico legale, con la supponenza
di chi cammina a un tanto da terra. La sua caduta gliel’aveva
resa però, oltre che acciaccata, più vicina, più fragile, e anche la
supponenza dei primi tempi sembrava aver fatto spazio a una
nuova, per quanto intricata, remissività. Uno dei possibili
cambiamenti di chi da un giorno all’altro cade in disgrazia.
Tuttavia Amber continuava a mostrare, da certi florilegi facciali
e certi inchinetti speziati che ancora offriva ai papaveri del
Pallazzo e ai papabili tali, un’inguaribile inclinazione verso
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uomini più vecchi di lei. Uomini incanutiti dentro e fuori, con
attributi diversi da quelli che una giovane donna cerca in un
uomo -ma in certi casi, sia pure in una diversa prospettiva,
molto più allettanti-. Attributi quali potere, prestigio, appoggi,
contatti e protezione. Oltre a titoli di ogni sorta e contanti di tutti
i tagli e di tutte le taglie.
Cosa poteva mai offrire Filo a una come Amber? Lui che certi
requisiti non li aveva né era interessato ad averli. Forse niente di
quello che lei avrebbe voluto. Anche se adesso le cose avrebbero
potuto essere diverse. Forse.
Chissà che ci aveva trovato in quella ragazzina secca, con due
occhi troppo scuri, le gambe isteriche, la voce a punta e i ricci
elettrici. Però conciata sempre in modo da apparire carina e
anche di più. Ma soprattutto, come poteva essere stata con quel
trombone magniloquente di quel dir macinacarriere? Quel
pallone gonfiato che l’aveva scaricata quasi fosse zavorra per
salire sempre più in alto. Ma il motivo c'era, Filo lo sapeva. Non
era stupido, Filo. Solo ingenuo, non stupido.
* +
“Che ne dici di sentire da “quelli”?” azzardò il Grigio puntando
gli occhi al soffitto.
“Da “quelli”?” replicò torvo il Nero, alzando a sua volta lo
sguardo. “Piuttosto vado a Lourdes in ginocchio, faccio il bagno
nell’acqua e torno sulle punte. Se torno.”
“Quelli” erano gli angeli, l’ufficio più in alto dopo quello del
direttore.
Gli angeli erano tutti belli, biondi e con gli occhi azzurri.
Almeno all’inizio, perché poi, vista la difficoltà nel reperire gli
esemplari, una circolare aveva disposto che potevano diventare
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angeli anche i bellocci con gli occhi grigi. Sul biondo dei capelli
invece non era dato transigere.
Nell’ufficio degli angeli si entrava tramite pubblico e
pubblicizzato concorso. All’inizio c’era da sostenere una prova
preliminare. Un esame del protocollo angelico comprendente
sorriso, aspetto, camminata e, ma solo molto dopo, buoni
sentimenti. Poi c’era il concorso vero e proprio, in una località
termale, la stessa tutti gli anni, con tanto di pubblico, fotografi e
mamme angelicate. Ma soprattutto con accurato esame
tricologico del capello in caso di vittoria. Infine si faceva luogo
alla proclamazione di angelo dell’anno, mediante incoronazione
con posa di un’aureola luminosa sul bulbo sancito biondo.
Correva voce però che in mezzo a loro circolasse anche un
ossigenato, raccomandato da un politico alternativo.
Il capo dell’ufficio era uno di Lucca, un certo Ciarli, che aveva
la pretesa di farsi chiamare Charly. Una differenza che non tutti
erano in grado di apprezzare nei particolari. L’importante era
chiamarlo Ciarli dandogli a intendere di chiamarlo Charly.
Tutto per emulare la trasmissione prediletta del vecchio
genitore, “Charlie’s Angels”. Per poterlo chiamare alla Casa di
Correzione dell’Anziano e dirgli che suo figlio era il capo di
quell’ufficio che era tutto un programma. Il programma che
aveva visto lui diventare adulto e il padre diventare vecchio. La
madre aveva fatto le valigie dopo le prime puntate.
Ne aveva fatta di strada, da quando, ragazzino, spacciava sulla
spiaggia di Viareggio tamarindo per “hohahola-holla-
hannuccia”, recuperando al tramonto le “hannucce” usate per il
giorno dopo. Una strada in salita, con qualche tappa in collina da
un faccendiere che aveva in mano il mercato del tamarindo, il
quale ne aveva benedetto le “hannucce” e la “harriera”. E in
mezzo agli angeli Ciarli si sentiva in paradiso.
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La divisa degli angeli era abito grigio, camicia celeste e cravatta
blu. Calzini a piacere. In pratica si distinguevano dagli autisti
d’autobus per i capelli biondi, e dagli autisti biondi per l’abito
firmato.
Gli angeli erano anche gli unici in tutto il Pallazzo ad avere una
colonna sonora, a celebrare la riuscita delle loro alate imprese,
“You’re simply the Best”, alternata a “We are the Champions”.
Una colonna sonora che fungeva da biglietto da visita, oltre che
da promemoria e lasciapassare.
Il loro ufficio era collegato tramite misteriose interessenze -
qualcuno aveva parlato di cimici, ma dopo l’ultima
disinfestazione era difficile. Più probabile una talpa o un corvo-
a quello di tutti gli altri. Bastava perciò che un qualsiasi
impiegato di un qualsivoglia ufficio avesse un qualsisìa
problema di lavoro che non riusciva a risolvere e dicesse “Qui ci
vuole un angelo”, oppure “Questa è roba da angeli”, che uno dei
suddetti appariva per incanto nell’ufficio. Quindi sorrideva
all’impiegato impetratore e, tempo la conta delle dita di una
mano, lo liberava dal problema. Per poi sparire, nuovamente per
incanto, nel tempo della conta delle dita dell’altra. Al punto che
“roba da angeli” era diventato il detto per qualificare le imprese
impossibili.
Talvolta succedeva che gli angeli venissero chiamati senza
volere. Come quando capitava a un qualche inquilino coatto del
Pallazzo di commentare un evento che niente aveva a che vedere
col lavoro, per esempio un avvenimento sportivo, con un “Ma
questa è un’impresa da angeli!”. Al cinque naturalmente
appariva l’angelo liberatore per sollevarlo dal problema. E una
volta appurato che non c’era alcun problema da risolvere, di
fronte alle scuse del malcapitato per averne nominato il nome
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invano, e averlo per ciò solo fatto comparire inutilmente,
l’angelo proferiva frasi non proprio da coro angelico.
Ecco perché il Grigio aveva pensato di ricorrere, ma senza farne
il nome, a quell’ufficio affascinante e permaloso.
“Anziché chiamare “quelli”, sentiamo invece cosa può fare
Abbio.” suggerì il Nero con un’idea in tasca.
* *
Filo, da pervicace cercatore di se stesso, aveva con le donne uno
strano rapporto. Lo stesso che un musicista può avere con
un’incompiuta. Da sempre sognava di incontrare la donna dei
suoi sogni, ma, sognandone ogni notte una diversa, non era
sicuro che sarebbe riuscito a riconoscerla.
Filo non dispiaceva alle donne, anche se non abbastanza; lo
trovavano finanche spiritoso, però non abbastanza, e perfino
intelligente, ma sempre non abbastanza. A un certo punto ne
aveva avuto abbastanza pure Filo, e aveva deciso che si poteva
vivere anche senza donne.
La mancanza di una donna comportava però la necessaria
privazione di una vita sessuale. E dato che a fare da solo si
sentiva come uno stagnino chiamato a sturare un tubo intasato, e
a far fare a quelle signore che lo fanno di mestiere si sentiva lui
il tubo intasato, erano i sogni che si preoccupavano di riempire
questa mancanza. L’ultima in ordine di tempo che vi si agitava
dentro era quella corsaiola riccioluta filoincanutiti di Amber.
Nel frangente Filo era giù; per di più senza un motivo. E il fatto
di essere giù senza neanche il più piccolo motivo per esserlo lo
faceva sentire ancor più giù. In quel momento di bassa senza
speranza entrò Ria.
34
“Scusa, Filo, avrei dovuto chiamarti l’altro ieri per quella
faccenda, ma ho avuto talmente tante cose per la testa che mi è
passato di mente.” profluì di getto, senza rifiatare.
“Non preoccuparti, non è grave.” la tranquillizzò Filo, sorpreso
di tanto fiato. Dovevano essere quei due polmoni che aveva sul
davanti. “Soprattutto non era urgente.”
“Avevi ragione tu.” sospirò in punta di sorriso, con un tono fra il
grave e il piccato. “E’ il cammello che ha due gobbe, il
dromedario ne ha una sola.”
“Già... Cammello, due gobbe, due emme...” recitò didascalico
Filo “Dromedario...”
“... una gobba, una emme. E’ chiaro, ho capito.” lo interruppe
Ria, stendendogli davanti una fila bianca di denti bagnati appesi
per il colletto a una gengiva prensile. Un sorriso da resa
incondizionata.
Ria, detta la ritardataria. Ovviamente perché arrivava sempre in
ritardo. Era arrivata puntuale una sola volta, al suo matrimonio,
e ancora se ne rammaricava. Da quel giorno le era venuta
un’avversione a pelle per la puntualità. Lei era l’opposto del
marito, non solo perché lui era un uomo, ma perché aveva
l’orologio in testa. Non se lo levava mai, salvo quando faceva
con la moglie quelle cose che di solito si fanno senza niente
addosso. Ma anche lì lei aveva come l’impressione che l’avesse
sempre, visti i tempi dei preliminari, dell’atto e della chiusa
finale. Ogni volta gli stessi. Un cronometro anche senza
orologio. All’inizio furono attratti dalle loro differenze, che li
calamitarono a forza l’una tra le braccia dell’altro. Troppo tardi
scoprirono che col tempo le differenze allontanano. Nondimeno
tiravano avanti, ciascuno con qualche distrazione. Qualche storia
a tempo lui; storie di ritardi lei.
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Filo accompagnò alla porta il sorriso di Ria con occhio
spiroidale. Quando sparì si chiese se lei avrebbe un giorno
voluto saperne di un temporeggiatore professo qual era il
proprietario di quell’occhio. In ogni caso lui non avrebbe mai
fatto la prima mossa. Forse neanche la seconda. Magari la terza.
* *
“Caro Abbio, abbiamo un lavorino per te.” esordì ammiccante il
Nero entrando col Grigio nel cangiante ufficio del mago
riconosciuto dei computer.
“Un specie di gioco... da fare al computer!” rincarò il compare.
Ad Abbio brillò il verde-banconota dei suoi occhi azzurri.
Aveva le lenti a contatto in tinta col contenuto cartaceo del
portafoglio.
“Sono tutt’orecchi.” replicò l’interpellato nel togliersi le cuffie
del walkman.
Abbio era uno pieno di soldi che, lavorando per hobby,
praticava gli hobby come una professione. In particolare i
viaggi, nell’illusione di poter cambiare anima cambiando cielo.
Per l’intanto gli era cambiata la superficie pilifera del cuoio
capelluto, che s’era fatta irregolarmente rada e piana. Tipo una
pista d’atterraggio di fortuna.
Anni prima aveva fatto assieme a certi altri inquilini forzati del
Pallazzo un corso di computer, che gli aveva fatto conoscere la
magica bellezza dell’informatica. Un corso molto proficuo, con
tanto di prova pratica, giudizio finale e diploma virtuale.
Durante la prova Zanco aveva copiato da Fargo, Fargo aveva
copiato da Abbio, Abbio aveva copiato da Ciullo, e tutti
avevano lasciato gli occhi sul culo a mandolino della splendida
insegnante. Un culo da giudizio universale. E il corso aveva dato
36
i suoi frutti. Una foto dell’impareggiabile trofeo, scattata dalla
macchina fotografica in miniatura nascosta nel cappuccio della
biro di Abbio.
“Allora, cosa vuoi, avanzo di scarico industriale?” riccheggiò
l’abbiente al Nero, che esitava a parlare, senza degnare d’uno
sguardo la sua scolorita propaggine.
Abbio dava del “tu” a tutti, compresi i pezzi grossi del Pallazzo.
Un tu infarcito di epiteti da bar dei bassifondi. Il danaro, fra gli
altri, ha il potere di annullare le gerarchie.
Il Nero, restando sul vago e minimizzando ai minimi la cosa, gli
spiegò che forse, non si era ancora sicuri, era andata persa una
pratica. E che per un insignificante fine statistico lui e il Grigio
si erano impegnati a ritrovarla, qualora ovviamente lo
smarrimento avesse assunto una concreta parvenza di certezza.
Per chiedergli infine se c’era modo di sapere dove poteva essere
finita, una volta appurato al di là di ogni dubbio che era stata
smarrita sul serio.
Ad Abbio, che, per quanto ricco, non era stupido, venne più di
un sospetto sul fatto che una pratica in più o in meno, anzi, per
la precisione, in forse, potesse avere un qualche influsso
statistico su quelle che circolavano nel Pallazzo, ma il gusto
della sfida ebbe la meglio sui sospetti. Anche perché sapeva che
lì dentro, per quanto la cosa venisse sottaciuta, non era
impossibile che una pratica sparisse.
“Tranquilli, avanzi di scarti radioattivi, vi farò un programmino
che vi tirerà fuori tutte le pratiche smarrite, sia per certo che in
forse, dai tempi in cui è nato il Pallazzo al millesimo di secondo
esatto di questo istante preciso.” rispose Abbio schiacciando il
pulsante al quarzo del suo cronometro da polso satellitare.
“Bingo!” smagliarono in coro i due avanzi.
37
* *
Toniriccio era rientrato in ufficio, ma con la testa stava ancora
fuori. A ripassare col pensiero la rossa e le sue curve.
Lei non era tipo da sbottonarsi, gli aveva confessato al bar.
Salvo, s’intende, in quelle situazioni in cui sbottonarsi era
fisiologicamente necessario, aveva lampeggiato non richiesta.
Dunque non poteva dirgli che era venuta su incarico di un
politico molto in alto, sceso fra gli uomini per far ritrovare, a
mo’ di pecorella, una pratica smarrita.
Questo aveva detto la rossa a Toni, che non poteva dirgli quello
che carmineamente gli stava dicendo, mentre aspirava con due
cannucce a forma di labbra la crema del suo caffè macchiato. Un
caffè macchiato caldo lei e un cappuccino incandescente lui. A
dire il vero il cappuccino lui l’aveva chiesto tiepido, ma la
barista gliel’aveva fatto come doveva essere, da ustione. Il fatto
è che era meteoropatica, perciò i cappuccini li faceva bollenti
quando aveva freddo, e freddi quando aveva caldo. Quella
mattina di metà dicembre, algida e cupa come certe mattine
invernali di pianura, la vecchia caldaia del locale non aveva
voluto saperne di partire per tempo. E una volta partita non era
riuscita a recuperare il ritardo.
Si dava tuttavia il caso che quello fosse anche il bar più vicino al
Pallazzo, e i suoi inquilini forzati ci andassero ugualmente,
facendo in modo di conciliare la meteoropatia della barista con
le ordinazioni. Magari con l’aiuto delle previsioni del tempo.
Non era dunque vero quanto si diceva fra quei vetri, pensò Toni
prima di perdere la sensibilità della lingua e rabboccare il
cappuccino incandescente con una provvidenziale dose di latte
freddo. Le rotondità della sua confidente avevano avuto
l’obnubilatorio potere di cancellare dalla lavagna dei pensieri
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che il cappuccino la barista non avrebbe potuto farglielo diverso,
a meno di una miracolosa guarigione della medesima. Non era
vero che nel Pallazzo non si perdeva mai niente, come da
sempre cantava compatto il coro dei dir, diretto a bacchetta dal
suo direttore d’orchestra.
Il riccio però, da bravo gentiluomo da bar, aveva la non troppo
signorile abitudine di vantarsi delle sue conquiste coi compagni
di stanza. Si curava sempre di far sapere loro, anche se non
espressamente richiesto, ma ritenendo suo dovere farglielo
sapere lo stesso, ogni più piccolo particolare della conquista.
Compresi quelli non proprio da gentiluomo. Perciò, mano a
mano che riferiva all’uditorio coatto di quella rossa tuttacurve
che aveva conosciuto in ascensore, raccontò anche, in quanto
particolare della storia, di una certa pratica che era stata smarrita
e che doveva essere ritrovata.
La voce nacque così, senza l’intenzione del suo levatore di farla
nascere. Solo che, una volta nata, iniziò ben presto a diffondersi
in ogni stanza del Pallazzo. A cominciare da quella del riccio.
“Cos’è di preciso che si sarebbe perso?” chiese sul preoccupato
Gigio, l’impiegato da taschino.
“Che vuoi che me ne importi?!” ribatté Toni facendo la ruota “A
me basta sapere di non perdere lei. La rivedrò stasera.” aggiunse
con la faccia da lenza. “Doveva andare a numerare i volumi
della collana rosa della biblioteca di quartiere. E’ una volontaria
del gruppo “Donne impegnate”. Ma stasera salterà.“
“Certo le donne sono proprio delle stupide!” gracidò Pfazzi in
un accesso di femminismo isterico, mentre scacciava con la
mano una mosca che orbitava fastidiosamente attorno alla sua
faccia tonda.
Pfazzi era una ragazza robusta, prima che una spropositata
reazione mangereccia a un amore giovanile non corrisposto la
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spingesse sull’orlo dell’obesità. Da allora aveva messo su il
girovita di un lottatore di sumo. Aveva provato a toglierselo con
sedute di ginnastica mentale e diete dimagranti a base di crema
fritta e cioccolato, ma quell’ingombrante salvagente le era
rimasto appiccicato come una seconda pelle.
“Non sarà colpa mia?” mormorò fra sé l’impiegato da taschino,
alludendo alla pratica scomparsa.
Causa la mancata crescita, Gigio aveva maturato un bisogno
inconscio di autopunizione inversamente proporzionale ai suoi
ingombri. Tanto da ritenere che ogni disgrazia spiegasse un
qualche effetto sul Pallazzo fosse in certa misura riconducibile a
una sua colpa. Per questo in pausa pranzo sceglieva con cura il
panino più duro col prosciutto più rancido, e la minerale gasata
più sgasata. Per finire, caffè basso bevuto a testa alta.
“Delle stupide!” gracidò ancora Pfazzi, la cui mano continuava a
duellare con la mosca orbitante. “Fanno tante le impegnate e poi
escono con certa gente!”
“Dì la verità che ci usciresti anche tu con certa gente!” rimbeccò
Toni.
A Pfazzi saltò la mosca al naso, prima che questa riprendesse la
sua orbita irregolare.
“Tu sei malato, riccio mediterraneo! Malato di gallismo! Mio
marito a me basta e avanza! Mi hai rotto, vado al bar!” e
sollevando la parte bassa della sua vita fatta a piazza uscì di
scena. Dalla platea Toni rise alla battuta, sapendo che, per
quanto riguardava lui, la cosa rispondeva a verità. Non sapeva
invece che non rispondeva a verità per ciò che riguardava lei,
dai cui approcci il marito si teneva prudenzialmente a distanza.
* *
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Una volta liberatosi del Nero, il direttore aveva preso a girare
intorno alla scrivania per riuscire a digerire la faccenda della
pratica scomparsa, e convincersi con quell’ipnosi peripatetica
che si sarebbe risolta nel migliore dei modi. Dopo un
imprecisato numero di orbite suonò il telefono.
“Personale per lei, signor direttore.” fece una voce lagna
allorché l’ebbe in mano. Era la sua cantilenante segretaria
particolare, colei che filtrava le chiamate in arrivo.
“Chi è?” ruggì il vecchio leone accovacciandosi sulla sedia.
“Spiacente, ma la persona al telefono si è raccomandata di non
dirlo. Vuol farle una sorpresa.” cantò la lagna riattaccando.
Il re del Pallazzo aggrottò la criniera. Aveva fiutato un pericolo.
“Buongiorno, caro direttore, sono Scaltro.” annunciò la cornetta
d’improvviso.
“Ah... è-è lei, onorevole. C-che piacere...” balbettò il leone
formato agnello.
“Come vanno le cose?” chiese amichevole Scaltro.
“B-bene, onorevole.” rispose titubante l’agnello. Finora, pensò
senza dirlo.
“So che ha parlato con la Panna.”
“C-con chi?”
“Con Malga Panna, la mia segretaria.”
“Ah, già.”
“Veramente una delle tante. Però lei si nota più delle altre.
Spicca.”
“Sì, mi è parso.”
“Malga mi ha riportato fedelmente le sue parole.” tranne due che
erano illeggibili, si disse in silenzio. “Ho chiamato per
ringraziarla del suo interessamento. Sa, si tratta di una questione
di principio.”
“C-certo, onorevole.”
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“Lo so che di questa parola ormai non se ne può più. Oggi si fa
una questione di principio per una sciocchezza qualunque. Per
qualsiasi seccatura sfiori anche solo leggermente l’ombra del
nostro opinato diritto. Per cose così da poco che neanche un
bambino viziato si perderebbe a litigarci. E per litigarci sopra
senza doverci vergognare, a queste sciocchezze diamo il nome
di questioni di principio... ”
Dio com’è vero, pensò il direttore nel sciogliere la presa sugli
sfinteri. Poi, considerando il numero delle pratiche andate
smarrite nel Pallazzo e mai ritrovate, quasi senza rendersene
conto sentì partirgli la voce: ”Ma sicuro, onorevole, ha ragione.
Potremmo fin d’ora predisporre per il suo protetto una pratica
nuova. Tanto più bella della vecchia, più curata nei particolari,
nelle finiture. Fatta apposta per lui; su misura, come i vestiti di
una volta. Una di quelle pratiche che facciamo solo a chi se le
può permettere...”
Parlava di corsa, il capo supremo del Pallazzo, e più parlava più
prendeva velocità, più andava veloce più si sentiva sicuro.
Finché, ormai lanciato, andò a sbattere contro un “però”.
“Però...” lo interruppe Scaltro da furbo -il direttore scheletrì, in
testa e nello stomaco la sensazione d’esser finito su qualcosa di
molle e repellente. L’onorevole aveva preso il discorso alla
larga; forse per indurlo capziosamente a esporsi, a trarre una
conclusione affrettata. Ma il discorso non era ancora finito-
“Però il mio amico ne sta facendo una malattia. Era la sua prima
pratica... E la prima è sempre la prima.” sentenziò con la gravità
delle frasi fatte.
“B-beh, certo...”
“Un po’ come il primo amore.” aggiunse Scaltro strizzando
l’occhio alla cornetta. “Capisce, vero?”
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Più di quanto non immagini, rispose muto il direttore, per il
quale il primo amore era stato anche l’ultimo.
“Sì, capisco.” belò l’agnello sacrificale, che ormai l’aveva
capita per davvero. “Le assicuro che il suo protetto rivedrà
molto presto la sua pratica.” recitò coi toni delle ultime volontà
in letto di morte.
“Conto su di lei, e con me i membri della coalizione che
rappresento.”
“Ci conti pure, onorevole.” sospirò il direttore, vedendoseli
schierati di fronte, al pari di un plotone d’esecuzione pronto a
far fuoco.
“A risentirci.”
“A risentirla.”
Il condannato a morte riattaccò serrando forte gli occhi, quasi a
proteggerli da un fascio di luce che li stava accecando. Si
sentiva in mostra, uomo cavia sotto vetro, con davanti il mondo
che lo guardava e aspettava un suo movimento. Un gesto, un
cenno. Uno qualunque. Non ce ne fu nessuno. Rimase immobile
a occhi chiusi, manichino senza vita né futuro.
* *
Pfazzi fumava dal nervoso mentre aspettava l’ascensore.
Quando questo le allargò le braccia ci saltò dentro fra gli sbuffi,
e pigiò terra con quanta rabbia aveva in corpo. Tanto forte da
incastrare il tasto nel suo alveo di metallo. L’ascensore partì,
poi, all’improvviso, come se avesse sentito solo in quel
momento la fitta per il tasto conficcato nell’acciaio, si bloccò
fra il piano di lei e quello di sotto.
Nell’istante in cui Pfazzi realizzò di essere in trappola sbollì di
colpo, e dopo aver pigiato a vuoto qualche altro tasto inconsulto,
43
si mise a chiamare aiuto. Per puro caso, ma forse no, passava di
là la Trebisonda. Colei che, tramite una sfera di cristallo, un
elenco del telefono e una linea interurbana, sapeva tutto di tutti.
“Fa un bel respiro!” le urlò la Trebisonda, memore dei consigli
della rivista “Donna estrema”.
“Non ci riesco!” trillò Pfazzi.
“Fa un bel respiro!”
“Non ci riesco!”
“Fa un bel respiro, ti dico!”
Silenzio.
“Ehi, Pfazzi... Pfazzi, parla!”
Silenzio.
“Pfazzi, che ti è successo? Pfazzi, dì qualcosa, per l’amor del
cielo!”
“Datti una calmata, Tre, sto solo cercando di fare quel dannato
respiro!”
“Stiamo calmi, Pfazzi. Non perdiamo la testa!”
“Cerca di non perderla tu, la testa. Io qua dentro non mi ritrovo
neanche col resto.”
“Ora chiamo qualcuno... Aiuto!” gridò “C’è l’ascensore
bloccato con dentro una donna incinta!”
“Ehi, chi ti ha autorizzato a mettere in piazza le mie cose? E poi
ho solo tre giorni di ritardo.”
“Tutte cominciamo con tre giorni di ritardo. Poi aumentano.“
“Ma non sono neanche sicura!”
“Insomma, vuoi che arrivi qualcuno sì o no?... Aiuto!” gridò di
nuovo “C’è l’ascensore bloccato con dentro una donna che sta
per avere una crisi!”
“Che stai dicendo? Sto benissimo!”
“Non soffrivi di claustrofobia?”
“Mio marito. Io soffro di agorafobia.”
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“Non si vede nessuno. Bastardi! Se ci fosse la Pucci chiusa in
ascensore ci sarebbe la fila!”
La Pucci era la bambola del Pallazzo. Bella, bellissima. Forse
finta.
“Già, solo che io non sono la Pucci.” ammise Pfazzi con un
sospiro, conscia di tradire, sia pure solo col pensiero, l’ideale
femminista.
“L’avete voluto, ora vi sistemo io!” ringhiò la Trebisonda
mostrando i denti al corridoio vuoto.
* *
“Allora, Abbio?” chiese fremente il Nero.
“Niente... Non riesco a trovare niente.” rispose l’abbiente
smanettando sul computer.
“Vuoi dire che non c’è traccia di alcuna pratica scomparsa?”
l’incalzò il Grigio.
Abbio allargò le braccia e scosse piano la sua zucca fatta a uovo
di Pasqua. La sorpresa era che dentro suonava vuota.
In quel momento si udì un boato terrificante, che fece tremare
dalle fondamenta i vetromattoni del Pallazzo. Un fragore
spaventoso, seguito da interminabili secondi di vibrazioni
tellurico-dentarie. Poi tornò il silenzio, spezzato da una raffica
di accidenti. Eppure, pur essendo il Pallazzo in zona sismica,
non uno dei suoi inquilini coatti aveva mosso un capello dalle
scrivanie. E questo non per un attaccamento al lavoro di tipo
giapponese o perché non avevano paura del terremoto, ma
perché sapevano che terremoto non era. Era solo lo
stroboscopico starnuto con effetti speciali di Uto, che tutti ben
conoscevano per esperienza diretta. Nessuna sorpresa, dunque,
ma soprattutto nessuna conseguenza. Tranne una neoassunta al
45
primo giorno di lavoro che si lussò una caviglia cadendo dalle
scale, e una cliente in età avanzata che si ritrovò con la dentiera
in mano.
Uto era un impiegato spiccio di modi e d’aspetto, ma che
conosceva l’essenza del lavoro ben più di altri, affettati di modi
e azzimati d’aspetto. Si diceva che non avesse fatto carriera
proprio per questa sua glottide da baritono al plastico, perché
nelle loro riunioni al cloroformio i dir non gradivano certe mine
vaganti.
“Dannato Uto!” ragliò il Nero “Sparge più microbi di
un’epidemia di influenza!”
“E ora che facciamo?” lo richiamò alla realtà il Grigio.
“Ora avete due possibilità, avanzi di bacilli infetti.” rispose al
posto del Nero Abbio, che dalla faccia dei due aveva capito
come stavano le cose, e cioè che la pratica alla pallazzesca
macchia era stata smarrita non forse, ma di sicuro “O spararvi o
trovare un capro espiatorio qualunque. Magari se la prendono
col capro e voi la passate liscia. Se siete per la prima soluzione
però, fossi in voi aspetterei. Voglio sentire da un mio amico
informatico, fanatico di siti, rete, chat, chip e pappagalli, oltre
che navigatore provetto di password da viaggio. E’ capace di
trovare un ago in un pagliaio. Virtuale, s’intende. Lo vedo
nell’intervallo. Andiamo con altri amici qui vicino, a mangiare
all’australiana.”
* *
“E-c-c-c-olooo!” gorgheggiò in un orgasmo gutturale Segùro
nel varcare la soglia dell’ufficio di Filo. Quasi l’ufficio tutto non
vedesse l’ora che, venendo, la varcasse.
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Segùro era un giovane sindacalista di tendenza, che aveva fatto
fuori la vecchia guardia sindacale con l’accusa di connivenza col
regime pallazzesco. Voci di corridoio e indiscrezioni di
sottoscala la davano talmente immanicata con la direzione da
fare non già l’interesse dei più ma quello dei meno, il loro. Era
lui ora a controllare il regolare svolgimento dei colloqui di
assunzione, chiudendo un occhio sui raccomandati del Pallazzo
e tutt’e due su quelli suoi personali. Aveva finito per ritrovarsi
con un imbarazzante tic agli occhi lui, e un ancor più
imbarazzante numero di esuberi il Pallazzo.
Segùro e il suo sindacato neopositivista erano perciò il nuovo
punto di riferimento degli infaticabili lavoratori sotto vetro e
degli aspiranti tali, in indefessa e mai doma lista d’attesa.
“Con questo…” stornellò Segùro nel distribuire un dattiloscritto
stampato a caratteri cubitali “… chiediamo che tutti i colleghi,
non solo quei due, possano, se vogliono, partecipare ai piani di
sviluppo del Pallazzo.”
Occorre sapere che la direzione, per ottimizzare costi, tempi
morti, sospiri e deiezioni -le donne delle pulizie non avevano
gradito certi arazzi nei gabinetti-, aveva istituito un concorso
con premio finale per il progetto che fosse riuscito a
regolamentare nel migliore dei modi la complessa materia.
Denominandolo, forse per le possibilità di successo che il
disegno aveva sulla carta, Progetto Magia. Erano in ballottaggio
per il premio i progetti -rigorosamente ancora nella loro testa-
delle due punte di diamante di quei vetri. Saimon, detto
Simonmago per la capacità di sparire quando c’era un problema
da risolvere e di riapparire quando era stato risolto, tanto da far
supporre l’esistenza di un nesso causale tra problema e
soluzione, e Gimmi il Fenomeno, conosciuto per il logos
giaculatorio “Che problema c’è?”, recitato alla guascona in
47
faccia a ogni problema, dal più piccolo al più grande. Lo disse
per la prima volta a sua moglie quando lei minacciò di piantarlo,
per poi ripeterglielo allorché la suddetta lo piantò per davvero. E
da allora, dato che, almeno con le donne, funzionava, non aveva
più smesso. Mai avrebbe pensato che sarebbe servito anche a far
carriera.
“Tutti devono avere una possibilità.” aggiunse Segùro “Anche i
cretini.”
“Grazie.” replicò Filo storcendo la bocca.
“Prego.” ribatté il sindacalista dall’alto del suo pragmatismo
gnoseologico.
“E’ tutta colpa della plastica.” borbottò Picchio, il dirimpettaio
di scrivania di Filo.
“Di cosa?” chiese il collega a fronte, temendo di aver sentito
giusto.
“Della plastica.” ripeté Picchio “La plastica è più veloce di noi.
Respira l’ossigeno prima che lo respiriamo noi. Ecco perché
vive tanto a lungo. Così noi respiriamo la plastica...” soggiunse,
e scrollò gravemente l’inaccessibile custode dei suoi pensieri.
“Certo, certo” approvò Filo, consapevole che dargli ragione era
molto più semplice che non dargliela. “A proposito” disse a
Segùro “L’hai sentita anche tu la voce che è stata smarrita una
pratica?”
“No.” rispose l’interrogato con sindacale sicumera. “Del resto
nel Pallazzo non si è mai perso niente.” annunciò alzando il
braccio destro, come a benedire.
“Credevo che questo lo dicesse solo la direzione.” replicò secco
Filo.
Il benedicente ritirò il braccio. Gli atei non meritavano
benedizioni.
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“Senti” chiese Frenzi al campione del nuovo sindacalismo,
libero e liberatorio “Ci sta anche il sindacato nella collection per
Acidio?”
* *
“Aiuto, c’è l’ascensore bloccato con dentro la Pucci!” gridò la
Trebisonda strizzando l’occhio a se stessa.
“Ma che stai dicendo, Tre, sei impazzita?!” replicò Pfazzi da
dentro la prigione.
Dagli uffici al piano cominciò a sentirsi dapprima un rumore di
girevoli che giravano, poi uno scalpiccìo di scarpe che
scalpicciavano, prima di vedersi materializzati i primi soccorsi.
“E’ la Pucci?” chiese uno.
“Proprio la Pucci?” chiese un altro.
“La Pucci la Pucci?” chiese un terzo.
“Dalla voce si direbbe lei.” rimbeccò la Trebisonda, la faccia
tirata quanto una maschera della tragedia greca.
Pfazzi, capita l’antifona, si chiuse in un triste e rassegnato
silenzio. Il femminismo si era dissolto, lasciando il posto a un
maschilismo fallocratico di cui avrebbe voluto essere a un tempo
vittima e carnefice. Intanto lungo il corridoio il pucciamento era
diventato torrente, fiume, cascata.
“Ma perché, santalò, se anziché la Pucci ci fosse un’altra lì
dentro non sarebbe lo stesso?!” tuonò all’improvviso il guerriero
Trebisonda sfoderando la giugulare.
“Vuoi dire... moralmente?” eccepì Edo, il narcisista intellettuale,
con l’intento di sollevare il problema etico, oltre che per fare il
punto della questione.
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Edo aveva ereditato da due genitori gordiani un carattere
problematizzante, aperto solo a soluzioni che a loro volta
schiudevano un problema.
“Ma, non saprei...” rispose senza parole la Trebisonda, che
quando si trovava di fronte a una parola in “-mente” aveva
sempre il timore di dover usare la testa.
“Perché se intendi moralmente sarei per darti ragione, ma se
intendi fisicamente mi sentirei di dissentire...” puntualizzò Edo
-qualcuno se la diede a gambe, ma nessuno si meravigliò.
Quando Edo dissentiva i più venivano presi dall’irrefrenabile
impulso di andare in bagno.- “... dissentirei perché una donna
non è mai uguale a un’altra. La bellezza qui non c’entra, sia
chiaro; qui c’entra solo la logica. E la logica dice che se non si è
uguali si è diversi. Perciò distinguerei...” -qualcun altro batté in
ritirata, ma nessuno dei rimasti si meravigliò. Quando Edo
distingueva di solito andavano in bagno quelli che avevano
resistito alla dissenteria. Ovviamente un bagno degli altri piani,
perché quelli al piano erano già occupati dai primi.- “...
distinguerei tra l’una e l’altra. L’una e l’altra in astratto, si
capisce; senza sapere chi è l’una e chi è l’altra. Pertanto
concluderei... -qui la fuga fu pressoché generale, ma i pochi
superstiti non si meravigliarono. Quando Edo arrivava alle
conclusioni, queste erano sempre per pochi intimi “...
concluderei che non è proprio la stessa cosa.”
“Volete decidervi a fare qualcosa?” si sentì da dentro
l’ascensore. “Comincia a mancare l’aria.”
“Ehi, ma questa non è la Pucci.” disse uno degli intimi.
“No.” convenne un altro “Questa è Pfazzi.”
“Ecco perché le manca già l’aria.” commentò un terzo.
“Trattieni il respiro, Pfaz, ora chiamiamo l’assistenza. Ti
tireranno fuori.” disse un altro ancora.
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“Attenta a non scoppiare, però!” concluse sghignazzando
l’ultimo degli intimi. E se ne andarono sull’onda di quello
sghignazzo.
“Hai visto che abbiamo risolto?!” esclamò la Trebisonda
rinfoderando la giugulare.
“Me ne sono accorta. Grazie tante.” ribatté Pfazzi. E il pensiero
le corse ai possibili modi in cui si può uccidere una collega.
* *
“Allora, ci sta o no il sindacato nella collection per Acìdio?”
chiese di nuovo la pasionaria a Segùro, che le stava puntando il
davanzale della camicetta trasparente con occhio a cuspide.
“La colletta.” tradusse Filo, salutando a mano aperta quella
faccia da punta, per richiamarla alla realtà.
Acìdio se n’era andato da due settimane. Andato per sempre;
direttamente dal Pallazzo.
Prima della dipartita era stato notato ritirarsi nella sua stanza da
single, il suo ufficio monocamera, in preda a un attacco di “Se
non ci fossi io qua dentro...!”. Lo sbotto aveva prodotto in chi
l’aveva sentito un borborigmo diffuso di poco raffinate
espressioni verbali, sia in lingua che in vernacolo, accoppiate a
gesti di pari raffinatezza espressiva. Poi la sua vicina di stanza,
Ciozza, una con due gambe da gallina ovaiola e il bargiglio
parlante, nel sentire il di lui telefono che chiamava a vuoto, era
andata a vedere. L’aveva trovato seduto, il busto e la testa
reclinati sulla scrivania, gli occhi chiusi e le braccia a corona.
Apparentemente senza vita.
La Ciozza aveva trillato come mai aveva fatto in vita sua. Al
punto da richiamare l’attenzione di un certo Garp, uno che
voleva a tutti i costi che il mondo andasse a modo suo. Fu quindi
51
chiamato qualcuno della direzione, perché avendo il morto, o
almeno presunto tale, omesso di cadere per terra, non era facile
distinguerlo da quelli che lavoravano normalmente. Il dir di
turno, accertata l’assenza di funzioni vitali abbinate a quelle
cerebrali -la sola assenza di queste ultime era condizione
necessaria ma non sufficiente-, ne sanzionò d’autorità, malgrado
la mancata caduta, l’intervenuta morte.
Nessuno aveva mai saputo bene il lavoro che faceva Acìdio, ma
doveva essere così tanto e tanto importante da non poterlo fare
senza fermarsi in ufficio ben oltre l’orario canonico. Una volta
c’era stato un controllo per verificare la necessità di tutto quello
straordinario, e, se del caso, tagliarlo. Ebbene, Acìdio aveva
spiegato con tale dovizia di particolari i suoi incombenti ai
controllori, che questi, temendo che il controllato chiedesse di
fare ancora più ore di quelle che già faceva, avevano avallato le
ore fatte e l’avevano autorizzato a continuare a farne altrettante.
Si dava il caso però che al suo posto il Pallazzo non avesse
messo nessuno, e che anzi, da un giorno all’altro, avesse chiuso
l’ufficio. Forse perché nessuno conosceva il suo lavoro e lui, il
morto, non poteva insegnarlo. O forse perché quel lavoro -
qualunque esso fosse, dal momento che non si aveva idea di
come si esplicasse e in cosa consistesse. Gli stessi controllori,
dopo un interrogatorio durato il tempo della domanda,
confessarono di non aver capito una parola fra quelle che, tutte
assieme, componevano la spiegazione di Acìdio- quel lavoro
forse, dato che nelle ultime due settimane il Pallazzo aveva fatto
a meno di lui senza problemi, era inutile. Da indispensabile a
inutile. Una triste fine, al di là della tragica morte.
“La colletta, ma certo!” prese vita a un tratto Seguro, staccando
lo sguardo dagli occhi in rilievo della camicetta di Frenzi. “Sì,
daremo anche noi il nostro contributo.” disse con la faccia di
52
circostanza. “Sono i casi in cui vengono buoni gli aumenti delle
trattenute sindacali in busta paga.”
Filo gli inviò un sorriso inceneritore, che gli lasciò i peli della
barba e quelli del cuoio capelluto più rosso bruciato del solito,
ma del tutto intatti quelli del cuore.
“Qualcuno però potevano anche mettercelo in quell’ufficio.”
grugnì Trogola. “Almeno per rispetto verso il morto. Così
sembra che abbia sempre rubato lo stipendio. No?”
“L’uomo è ciò è.” proferì gravemente Motto, il citaredo dei
filosofi, dispensando all’uditorio coatto la sua sottocultura in
pillole. Delle pillole scadute, senz’altro effetto, benefico o
nocivo, che non fosse la commiserazione dell’uditorio stesso.
“E’ vero.” disse Batta in risposta a Trogola “Per dare un senso
alla sua vita. O alla sua morte.”
“Il sindacato che ne dice?” chiese Filo a Segùro.
Il Segùr-sindacalista, dopo un lungo istante di pensosa
riflessione, tirò su le spalle e allargò le braccia. Poi ripartì a
distribuire il dattiloscritto, a caccia di nuovi proseliti di cui far
valere i diritti.
“Il nulla nulleggia.” citò ancora Motto a beneficio dei colleghi,
quasi a volersi occupare del loro metafisico benessere. Al che
questi, con scarso senso di gratitudine, lo mandarono a occuparsi
di qualcosa di più utile al suo metabolismo espulsivo.
* *
La mattina era stata di una lunghezza senza fine per i tanti che
avrebbero voluto fosse passata con la velocità di un treno in
corsa, mentre era schizzata via in un lampo per i pochi a cui
sarebbe piaciuto centellinarne ogni sorsata, al pari di un liquore
fatto in casa. Come al solito, tutto è relativo.
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In ogni caso era arrivata l’ora della pausa pranzo, e coloro che
non uscivano in battuta alla ricerca di cibo a pagamento
migravano a branchi verso il punto dove il cibo, pure a
pagamento, avrebbero potuto averlo dentro. Il luogo di ristoro
convenuto, la mensa, posta nella parte bassa della cavità
addominale del Pallazzo. All’altezza dello stomaco.
La mensa era gestita da Prorecco, un ex canottiere, ora
rigorosamente con la maglia della salute, che l’aveva
organizzata uguale al suo vecchio “quattro con”. Ai remi,
ognuna fasciata da una divisa verde acqua, le quattro sorelle
Dalton, in perfetto ordine crescente di altezza. Anche se in non
altrettanto perfetto disordine decrescente di imbellettatura -il
necessaire per il trucco era in comune e l’ultima aveva le braccia
più lunghe delle altre-. E ai posti loro assegnati dal capovoga le
sorelle in scala distribuivano rispettivamente primo, secondo,
contorno e dolce. Prorecco, al timone della cassa, dava il tempo.
“Oh... òh!” partì scandendo forte e chiaro il timoniere nel dare il
via al proprio metronomo interiore, e le quattro donne, quasi
fossero un sol uomo, allungarono i piatti alla fila dei mensaioli:
primo, secondo, contorno e dolce.
“Oh... òh!” altro primo, secondo, contorno e dolce, mentre
Prorecco incassava dal primo.
“Oh... òh!” ancora un giro di portate, con Prorecco che
riscuoteva dal secondo.
Tutto scorreva in modo fluido, senza strappi o cedimenti, con le
otto braccia che sembravano i tentacoli di una macchina di
precisione. Se qualcuno della fila saltava il primo o il secondo,
o prendeva due contorni o due dolci, le Dalton alle postazioni
rispondevano come addestrati automi ai comandi, saltando il
giro o servendo doppio. E anche a chi per dieta o vocazione non
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fruiva della mensa, le sorelle in scala dedicavano un affettuoso
pensiero prima del varo del servizio.
Verso fine percorso poi, con un quarto di fila ancora da servire,
Prorecco, memore dei canottieri tempi, incrementava il ritmo,
per piazzare la volata finale in vista dell’arrivo. Le quattro
donne, le facce trasfigurate dallo sforzo, i nervi delle braccia
tumefatti, i polmoni che ingerivano e scaricavano fagotti di aria
pesante -tanto da rendere non propriamente incontaminata l’aria
circostante-, le quattro atlete assecondavano a fatica gli “oh...
òh!” sempre più ravvicinati del capovoga. Per profondere le
ultime energie nello sprint conclusivo, a pochi piatti dal
traguardo. Il servizio mensa veniva così ammannito a tempo da
finale olimpica, con a fine gara le vogatrici, stremate, piegate in
due sul bancone, e il capovoga, senza fiato, accartocciato sulla
cassa. Una squadra vincente.
Quel giorno in mensa non si fece che parlare della voce che
aveva preso ormai stabile alloggio al centro del Pallazzo,
relegando negli angoli le altre. Di quella pratica che non si
sapeva bene che fine avesse fatto, ma che si sapeva ancor
meglio dovesse essere trovata a ogni costo. Naturalmente la
voce, al pari di tutte quelle che, pur con minore intensità
tensiogena, circolavano nel Pallazzo, andava scrupolosamente
controllata, poiché fra quei vetri non era infrequente che un fiato
qualunque diventasse voce.
Quando però furono visti approdare in mensa il Nero e il Grigio,
più bui di una notte senza luna, consumare a occhi bassi un
tozzo di verdure gualcite, e sciogliere nel bicchiere un antiacido
per digerirle, fu chiaro per tutti che quella voce non era un fiato
qualunque. Anche per uno scettico come Filo.
* *
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La morte di un inquilino coatto del Pallazzo era sempre un fatto
increscioso. Più per chi continuava a rimanere tale che per chi
smetteva definitivamente di esserlo.
Bisogna sapere che in quell’alveare di cristallo ognuno aveva
una sua precisa funzione. A volte inutile, ma comunque precisa.
Facile o difficile che fosse, importante o meno, ma l’aveva. E
l’abbandono improvviso della stessa da parte di uno che, sia
pure per motivi non strettamente dipendenti dalla sua volontà, si
toglieva di torno una volta per tutte, inguaiava quelli che
restavano. Costringendoli a svolgere, oltre al proprio, anche il
lavoro dell’ex.
Per questo era fortemente sconsigliato agli occupanti del
Pallazzo di tirare le cuoia quando in ufficio c’erano colleghi in
ferie o in malattia. Per non caricare di un ulteriore,
insopportabile fardello quelli che non avevano la fortuna di
essere in ferie e non erano in mutua.
Non che non si potesse morire, beninteso. Nessuno si sarebbe
mai sognato di porre d’autorità un simile veto. Solo che anche
la morte, come tutto quello che succedeva fra quei vetri, andava
regolamentata. Programmata con cura, pianificata per tempo,
concordata coi colleghi. Dopo di che si poteva anche morire.
Ma senza preavviso no, non si poteva. Almeno nei limiti del
possibile, mostrando di aver ceduto solo dopo impari e inutile
lotta.
Andare all’altro mondo senza un minimo di preavviso era segno
di scarsa considerazione verso l’ufficio e i colleghi tutti.
Viceversa andarsene accampando un poco di tempo prima una
qualche forma di malessere, qualcosa da cui i compagni di
lavoro potessero presumere, sia pure vagamente, quale ipotetica
congettura, l’eventualità che chi lo accampava potesse
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defungere, era segno di rispetto verso l’uno e verso gli altri. In
tal caso infatti il Pallazzo aveva la possibilità, per quanto solo
teorica, di sostituire per tempo il morituro. O almeno aveva
modo di aspettarsi che da un giorno all’altro questi potesse
chiudere per sempre i rapporti coi suoi vetri, e fosse perciò
chiamato a sostituirlo in tempi brevi. Il fatto che la morte
sopravvenisse a volte coi caratteri della più inaspettata delle
sorprese, non giustificava il destinatario del ferale evento dal
non averlo in qualche misura previsto.
Parimenti il matrimonio di un inquilino forzato del Pallazzo era
un fatto increscioso. Sempre più per chi continuava a rimanere
tale che per chi rinunciava in perpetuo alla propria libertà. La
doppia settimana di licenza concessa a chi convolava a nozze
ricadeva infatti su quelli che restavano, obbligandoli a sbrigare,
in aggiunta al proprio, pure il lavoro di chi, sebbene solo
provvisoriamente, aveva preso il volo. Anche il matrimonio
dunque, al pari del trapasso, andava regolamentato.
Programmato, pianificato, concordato. Insomma, si doveva
chiedere il permesso. Prima al Pallazzo che alla futura sposa. O
al futuro sposo.
Così allo stesso modo qualunque richiesta di lasciare l’ufficio
anche solo per poche ore, causa imprevisti motivi personali o di
famiglia, andava programmata per tempo. In un certo senso,
prevista in anticipo. Tutto come in una grande, ingombrante
famiglia.
Queste erano le regole non scritte del Pallazzo. Regole a cui
Acìdio s’era volutamente sottratto. O a cui non sembrava aver
ceduto dopo impari e inutile lotta. Nessuno però aveva avuto il
coraggio di aprir bocca. Forse perché la morte aveva osato farsi
viva proprio lì dentro. Meglio fingere che non fosse mai venuta.
Che non fosse successo niente.
57
* *
Uscito indenne dai condimenti della mensa, Filo, prima di
tornare alla base, volle cercare di saperne di più della misteriosa
pratica scomparsa. Decise perciò di raggiungere un ufficio
lontano. Dopo una camminata che ne favorì la digestione, entrò
in un salone dove uno lavorava e gli altri stavano a guardare. Era
l’ufficio del Nardone.
Nardo, detto Nardone; quello che lavorava per dieci. Occhio di
bue, aria da vitellone e forza di toro, con la mansuetudine
propria di tutti i bovini. Nardone era il più gran lavoratore del
Pallazzo, il più veloce, il più continuo. Uno che, in aggiunta al
suo, trovava il tempo di fare anche il lavoro degli altri. Di
aiutare i compagni di stanza che, non avendo voglia di far
niente, con la scusa dell’arretrato ne pietivano l’aiuto.
Ogni tanto Nardone, che pure aveva una fede incrollabile
nell’onestà dell’uomo in generale, e di conseguenza della donna,
sempre in generale -era nel particolare che la fede vacillava-,
ogni tanto Nardone aveva il sospetto d’esser preso per i fondelli
e andava su tutte le furie. Ma un attimo dopo esserci andato
tornava quello di prima e riprendeva a lavorare per dieci.
Non era mai stato promosso; non l’aveva mai chiesto. Pensava
che il suo lavoro avrebbe parlato per lui, e che le promozioni
sarebbero arrivate da sole, senza chiedere. Quel lavoro però era
sempre stato muto, circondato dall’omertà dei suoi interessati
coinquilini e degli ancor più interessati dir, la cui unica
preoccupazione era lasciare le cose come stavano.
Sarebbe bastato andare a lamentarsi da chi contava, minacciare
di fare quello che facevano regolarmente i compagni di
concubinato coatto, pura presenza. O, in alternativa, battere i
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pugni sui tavoli giusti, inscenando crisi isteriche con impulsi
omicidi -i suicidi non avrebbero sortito lo stesso effetto-.
Sarebbe bastato questo e poco altro per avere un minimo
riconoscimento di tanto sudore. Ma lui non era il tipo.
Continuava a credere, nonostante tutto, che un giorno qualcuno
avrebbe riconosciuto tutto quel lavoro, e l’avrebbe ricompensato
secondo giustizia. Se non in questa, in un’altra vita.
Una volta accadde un fatto straordinario, che lasciò increduli gli
stessi vetri del Pallazzo. Un dir sensibile lo propose per una
promozione al consesso dei capi riuniti in conclave. Era uno
fresco di nomina, perciò non ancora assuefatto a quel processo
di desensibilizzazione progressiva che comporta l’ascensione ai
gradi superiori della scala dir.
“Ha chiesto lui di essere promosso?” domandò all’incauto
proponente il capo consesso, corrugando oscenamente la fronte.
“No, ma lui è convinto di meritarlo. Anzi, lui lo merita.”
“E... pensa che il lavoro potrebbe risentirne se non lo
promuovessimo?” azzardò esitante il corrugato.
“Assolutamente no. E’ troppo perbene per smettere di lavorare.
O per lavorare di meno.”
“E allora perché promuoverlo?!” proruppe il capo consesso nel
rilasciare fronte e braccia, mentre il conclave tutto si dava a
compiaciuti gorgoglii di approvazione.
L’autore della proposta ci rimase. Le orecchie non erano sicure
di aver sentito quello che aveva capito il cervello.
“Veda...” proseguì con l’indulgenza del congiuntivo il capo
accolita. “noi non siamo un ente di beneficenza. “Un soldino
risparmiato qua, è un soldino accantonato là”, diceva mia madre
quando mi teneva sulle ginocchia.”
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Il dir sensibile si sforzò di immaginare il bambino che poteva
essere stato quel concentrato di meschinità e tracotanza seduto
sulle gambe di una madre senza volto, ma non ci riuscì.
“Ebbene, questo è anche il nostro motto.” sentenziò.
Il dir sensibile ci rimase, se possibile, più di prima. Stavolta era
il cervello a non essere sicuro di aver capito quello che avevano
sentito le orecchie.
“Si lasci consigliare.” disse il capobranco annusandolo. L’odore
era ancora da “buono”, ma prometteva di cambiare ben presto.
“Lei è fresco del lavoro, della funzione. Deve tirar fuori le palle!
La sensibilità è un sentimento stupendo, nobilissimo; però da
donne. Noi uomini non ce la possiamo permettere; dobbiamo
far carriera. Le donne perché non la fanno? Perché non
hanno...?” suggerì in punta di lingua.
“L-le palle?”
“Le palle, giusto! Salvo quelle che le hanno, s’intende. Le donne
con gli attributi sono peggio degli uomini. Persino più stronze.
Alla larga!” rise ansimando “E ora al lavoro. E, si ricordi, le
palle!”
“Certo, grazie. Me ne ricorderò.” sussurrò il dir ex sensibile.
Quindi, respinto un conato di vomito, andò in bagno a
familiarizzare col suo nuovo promemoria.
E Nardone continuava ad aspettare.
“Ciao, Nardo.” gli sorrise Filo sulla porta.
* *
Il duo in bianco e nero, dopo aver digerito a fatica anche
l’antiacido per lo stomaco, s’avviò a passo di controllo semplice
verso l’ufficio di Abbio.
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L’abbiente aveva l’occhio spento e un accesso di rigurgito
controllato. Era appena tornato dal pranzo con gli amici. Aveva
mangiato bistecche di struzzo all’australiana, servite con
pomodorini e mozzarellina di pecora australiana, salsa verde con
erbette curative maori, pane e vino, pure australiani. Il tutto
condito dal dialetto bolognese e da un pugno di pettegolezzo
iodato su conoscenti scelti con cura fra gli assenti. Il cocktail
aveva cominciato a dare i suoi frutti. Almeno a giudicare dai
flati che emetteva a ritmo da orchestra cubana.
“Allora?” l’interrogò il Nero.
“Ah, sì.” rispose il flatulente con la lingua infarcita di colla,
stando bene attento a non cementare col palato. Rispondere, in
tal caso, sarebbe stato problematico. “Quel mio amico fanatico
di bit, ram, web, sob ...uh!... oltre che di cd e cdrom ...uh!.. si è
collegato in rete a un suo amico solo rom. Solo che la rete si è
rotta ...uh!... O si è smagliata. E’ uno che veste con due lire e si
mette le cose più strane ...uh!... Per farla breve, ha detto che se
una cosa non si trova neanche col computer ...uh!... per scovarla
ci vuole uno skill ...uh!... voglio dire, una capacità tecnica
particolare.
“Sarebbe?”
“Il buco di culo di chi sbanca un casinò ...uh!...!”
I due del controllo lo fissarono a bocca aperta e con gli occhi
spalancati, prima di guardarsi tra loro e fissarlo di nuovo.
“Ehi, avanzi di indigestione escrementizia, cos’è quella faccia?
...uh!... Lo sapevate anche prima che era difficile. Sarò pure il
mago del computer ...uh!... ma non sono un vero mago.”
I due, dopo averlo spedito mentalmente in un posto più consono
ai flati, uscirono.
“Che facciamo?” chiese con una faccia da naufragio il Grigio al
Nero.
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Quando le cose andavano male, ma così male che peggio non
potevano andare, ci si rivolgeva ai creativi, un ufficio in staffa a
quello degli angeli. Se si doveva trovare una pratica che non si
riusciva a trovare, né dentro la sua carpetta, né infilata per errore
in un’altra, i creativi, con l’aiuto anche di esperti rilegatori
pallazzeschi, carpettieri finiti, ne creavano dal nulla una finta.
Una pratica compiuta, con tutti i crismi. Identica a quella
smarrita. Solo un occhio esperto, avvezzo agli originali, e con
una certa pratica di falsi, avrebbe forse potuto accorgersi della
differenza. Ma senza scommetterci sopra niente di troppo
impegnativo. Un falso certificato vero.
Perché creare una pratica falsa, qualche lettore più sveglio di
altri potrebbe chiedersi. Così come continuava a chiederselo
qualche inquilino forzato del Pallazzo meno intelligente di altri.
Semplicemente per far vedere che fra quei vetri non c’era spazio
per l’errore umano. Nel palazzo di cristallo l’errore perdeva la
sua qualità di inevitabile, connaturata inerenza all’essere primo
del creato e a tutto ciò che gli è proprio, per diventare parte di un
essere diverso. Un essere inferiore, infimo tra gli infimi.
Nessuno lì dentro sbagliava mai. Fuori era possibile, e anzi
probabile, ma lì dentro no. L’errore era una parola sconosciuta
allo scarno vocabolario del Pallazzo. E chi diceva il contrario
diceva eresia.
Non sarebbe stato difficile per i creativi creare una pratica falsa,
anche se c’era la remota possibilità che qualcuno dall’occhio
lungo se ne accorgesse. In ogni caso ci voleva l’autorizzazione
del direttore e il Nero, al momento, non aveva nessuna voglia di
andare a chiedergliela.
“Facciamo così.” fumò il Nero. “Per il momento cerchiamo di
trovare un colpevole con chiamata di Correo. Un colpevole per
un po’ calmerà il direttore. Per la pratica ci verrà un’idea.”
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Il Grigio gli sgranò un sorriso adorante, che pure non esprimeva
tutta la clandestina venerazione che nutriva per lui.
* *
Nardo, in omaggio al soprannome, era una specie di gigante che
viveva con un cane, un gatto e un canarino, che insieme
facevano compagnia a una moglie orso. Uno di quei giganti
dall’animo gentile, che fanno dire alla gente “buono come il
pane”. Senza contare che anche in mezzo al pane c’è quello
venuto meglio e quello venuto peggio. Nardo era di pasta buona,
la migliore che genitore potesse sfornare. Un buono rassegnato,
convinto che nella vita ognuno ha un ruolo. Il suo era quello, e
se lo doveva tenere. E se di tanto in tanto perdeva le staffe, era
risaputo che bastava un niente perché le ritrovasse.
Di fronte a lui stava accovacciato Pasco, ultima ruota del carro
in seconda. Grado che si era guadagnato in anni di sudata
indolenza e indefesso lavoro scansato, ossia facendo il meno
possibile col massimo impegno. Pasco era orgoglioso della sua
carriera al contrario, che comportava sì la mancanza di stimoli
ma anche la pressoché totale assenza di problemi. Però non
abbastanza. Il suo traguardo era ultima ruota del carro capo,
obiettivo che gli avrebbe valso tranquillità assoluta e
nullafacenza piena.
“Ciao, Filo, come gira?” rispose Nardo al saluto del suo collega
preferito.
“Solito. E a te?”
“A elica.” replicò Nardo nel guardare Pasco che attaccava
all’album dei calciatori le figurine degli eroi della pedata.
Di spalle al campione dell’indolenza, fronte alla parete, c’era
Irto, l’acculturato, che stava decidendo il nuovo viaggio del
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circolo ricreativo del Pallazzo. Bendato, aveva appena puntato
l’indice sulle Lofoten, dopo che Eusapio l’aveva girato e rigirato
sulla girevole, per accompagnarlo poi a passo di lumaca a una
carta geografica a muro, contro la quale aveva sparato a caso
l’indice delle decisioni.
Irto era l’organizzatore ufficiale dei viaggi del circolo dei vetri
ed Eusapio l’inseparabile assistente. L’ultima volta avevano
fatto da guida a un gruppo di pensionati pallazzeschi in una gita
nella capitale, con visita al giardino zoologico. Sulla via del
ritorno l’acculturato aveva proposto di fare tappa a Recanati.
“C’è la casa del Leopardi.”, aveva esclamato con l’entusiasmo
di chi crede che una notizia del genere mandi in sollucchero le
coronarie. Fu stroncato da un “I leopardi ai avèn bèle vést al
zardén zoològic. Ch’sa vlèn, vaddar totti al bisti ch’ai é in
Italia?!”, e seppellito da una valanga di risate. Un fragore
collettivo di denti diroccati, dentiere pericolanti e gengive
abbandonate. L’acculturato si sgonfiò come un caco a cui
avessero succhiato la polpa. Si consolò al pensiero che certe
cose non sono pane per certi denti.
“Andare alle Lofoten?! Magari a dar la caccia alle balene?”
sbottò Dimmo, che aveva seguito l’indice di Irto da dietro due
lenti sottili quanto il fondo di un bicchiere da osteria. “Voi siete
matti.”
“Portateli a Cuba i pensionati!” esclamò un altro “Cuba fa
miracoli. Specialmente le cubane.”
“L’avete sentita anche voi la voce che gira nel Pallazzo?” chiese
Filo a Nardo.
* *
64
Il direttore, dopo la pausa pranzo, aveva ripreso a ruotare
intorno alla scrivania, però con passo più veloce. Il vortice
podistico del mattino, prima dell’arresto provocato dalla
chiamata di Scaltro, non era riuscito a convincerlo che la storia
della pratica sarebbe finita bene. Soprattutto aveva smesso da un
pezzo di credere nelle favole.
Si ricordò, non senza fastidio, di quando, bambino, correva con
la foga dell’età attorno al tavolino della stanza se qualcuno lo
sgridava. Quasi che quel correre in tondo e a perdifiato potesse
in qualche modo cancellare la sgridata. Anche a scuola aveva
continuato, di nascosto alla famiglia, per eliminare, sempre
senza risultato, qualche brutto voto. Persino all’università,
quando fu buttato fuori all’esame di Direzione Aziendale -ironia
della sorte, lui che da sempre aveva voluto fare il direttore-,
circumnavigò il tavolo di studio fino all’alba. Poi non gli era più
capitato di cadere vittima di quell’ipnosi peripatetica. Buon
segno, aveva pensato, si vede che da allora le cose erano sempre
andate per il verso giusto. Ora però, di fronte a quella stupida
ma apparentemente irrisolvibile difficoltà, quel tic da reazione
ansiosa incontrollata gli aveva ripreso testa e gambe.
Quell’ipnosi peripatetica, però, finora era stata solo peripatetica
e basta. Senza i benefici dell’ipnosi. Forse un passo più spedito
l’avrebbe resa più ipnoticamente convincente. Perciò aveva
aumentato la velocità di passeggio. Quasi s’era messo a correre,
pur con le cautele richieste dagli anni, al pensiero che nella vita
il lieto fine di solito rimane un’illusione.
La scrivania sulla cui asse orbitava il direttore satellite era
affollata di posta, in partenza, in arrivo e stanziale; di documenti
da firmare, alcuni urgenti altri di più; di provvedimenti, ordinari
e straordinari. Una montagna di fogli, nobilitati dal contenuto
scrittografico dei medesimi.
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Tutti gli altri giorni questa moltitudine di carta ruotava intorno
al direttore, sollecitata dalle abili mani della sua segretaria
particolare, che gli porgeva i documenti da firmare e glieli
toglieva al ritmo sincopato occhiata-firma. Quel giorno invece
era lui a ruotare attorno a questa folla di carta immobile, che
assisteva impotente alla propria inutilità.
Gli effetti dell’orbita circolare del satellite stavano cominciando
a ripercuotersi sui legni pregiati del parquet. Legni che, abituati
com’erano a sopportare il solo peso della nobile aura
direttoriale, e soltanto di rado anche il pur nobile piede, avevano
iniziato a emettere trattenuti scricchiolii di dolore. Quando il
direttore si fermò, andò a sedersi e afferrò il telefono,
mandarono un sospiro di sollievo, stirando nervature e masselli.
“Novità?” chiese minaccioso al Nero.
* *
“Trovare un colpevole con chiamata di Correo?! Questa sì che è
un’idea!” esclamò con affettata ammirazione il Grigio al Nero.
Non prima di aver steso un pietoso velo sulla sua memoria a
breve, per nasconderle che il suggerimento era partito
dall’abbiente per antonomasia. “Lei è un genio!”
“Beh, insomma...” si schernì il Nero, che cominciava a trovare il
Grigio, oltre che acuto, sempre più simpatico. Mostrava di
avere i numeri giusti per puntare a una luminosa carriera.
“Prima però dobbiamo pensare a un colpevole. Uno qualunque.
Poi si chiama Correo.”
Correo era un capro espiatorio da compagnia. Uno il cui lavoro
consisteva unicamente nell’aspettare. Nel far passare il tempo in
attesa di una chiamata. Capitava talvolta che un qualche
inquilino di quei vetri commettesse un atto che andava contro
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una delle tante regole del Pallazzo. Come mettersi una penna in
tasca, fotocopiare un foglio non squisitamente lavorativo, non
tenere la destra, non rispettare, coi fatti o con parole, il proprio
dir -i pensieri la passavano liscia, ma solo per mancanza di
delatori-, marinare l’ufficio con false malattie, aggravare
malattie non abbastanza gravi da autorizzare la marinata e via
dicendo.
Erano i casi in cui si procedeva alla chiamata di Correo, che si
affiancava così all’autore della malefatta. L’effetto era di
dividere per due il senso di colpa e di vergogna del colpevole, e
favorire in tal modo il reinserimento dello stesso nel tessuto da
groviera del Pallazzo. Correo riceveva per questo un regolare
stipendio, più una speciale gratifica nei casi in cui veniva
chiamato fuori orario o la colpa dell’altro esponeva a pubblico
ludibrio.
La scelta del colpevole si indirizzò ben presto su Frollo, uno
dell’altra sponda, non solo politica. Il colpevole ideale. Restava
la pratica, che nessuno dei due aveva idea di dove andare a
cercare.
Il Nero stava maturando un disegno a tinte fosche. Un disegno
che forse gli avrebbe fatto perdere in un colpo moglie e figlie.
Se già non le aveva perse negli anni passati, quando alle
esigenze della famiglia aveva sempre anteposto quelle del
Pallazzo.
Non rientrare per cena e saltare l’appuntamento coi Fasti
significava probabilmente perdere la consorte, ma non trovare la
pratica significava di sicuro perdere il posto. Di compagne, in
fondo, poteva anche trovarne un’altra, di lavori con uno
stipendio pari a quello no.
“Senta, Grigio, che impegni ha stasera?” chiese al suo vice. Il
suo futuro e, al momento, ignaro compagno d’avventura.
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Il compare gli stampò in faccia un punto interrogativo gigante,
prima di penzolargli dalle labbra come un frutto maturo
dall’albero.
“Che ne dice di farmi compagnia?”
“Sta-stasera?”
“Stasera, stanotte... Anche fino a domattina, se necessario.”
Il Grigio fu percorso da una scarica ad alto voltaggio, che per un
istante lo rese più trasparente del Pallazzo, lasciandolo esangue
ma vivo. E’ da quando sono qui che aspetto questo momento, si
trovò a pensare ancora caldo, prima di licenziare un fuggevole
cenno d’assenso all’autore della proposta indecente.
“Bene” disse il Nero “Stanotte faremo le ore piccole. Stanotte
troveremo la pratica.”
Il Grigio sbiancò di delusione, per riprendere colore solo
lentamente. Quasi che una parca maldestra gli avesse tranciato il
filo della vita e subito dopo gliel’avesse riannodato. Tanto da
non sentire la chiamata del direttore, che voleva sapere a che
punto erano con le ricerche.
“Siamo sulla buona strada.” rispose il Nero al pensiero di tutta
quella che li aspettava nottetempo. Quindi posò la cornetta e
ritirò il braccio, sudando freddo al pensiero che di lì a un istante
avrebbe dovuto prenderla di nuovo in mano.
* *
“Se abbiamo sentito quella voce?” ripeté la domanda Nardo per
dar nerbo alla risposta “Quella non è una voce, è una corale.
Pare ci sia di mezzo un pezzo grosso.”
“Addirittura?!“ esclamò Pasco chiudendo l’album delle figurine
e pensando a come smaltire le doppie.
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“Un tizio s’è invaghito di una pratica che è sparita. Si sono
offerti di dargli tutte quelle che vuole. Chiare, scure, mulatte, dai
nomi esotici, anche minorenni, persino gratis, ma lui vuole solo
quella. La vuole a tutti i costi.”
“Avete sentito che colpo?!” sboccò un’apparizione vietata ai
minori spalancando la porta dell’ufficio, prima di avanzare
ancheggiando pericolosamente.
Era la Murena, l’inquilina più vorace del Pallazzo, che alludeva
a modo suo alla voce della pratica scomparsa.
La Murena trasudava libidine a ogni sguardo, erotismo a ogni
sospiro, sensualità ad alta gradazione a ogni muto cenno di
labbra. Quando entrava in ufficio le patte intonavano
l’alzabandiera.
“L’abbiamo sentito eccome!” rispose Pasco prendendo
coscienza delle parti basse.
“Altroché!” convenne un altro mentre si sistemava i gioielli di
famiglia.
“Un bel colpo davvero!” ribadì un altro ancora, ringalluzzito nel
punto elle.
“Pazzèsco!” commentò l’apparizione con un’inflessione
lombarda -aveva fatto un po’ di dizione, ma faceva confusione
con gli accenti. Teneva acuti i gravi e gravi gli acuti, dando vita
e forma a un nuovo idioma erotico-padano.- Quindi girò a
compasso le paraboliche e uscì ancheggiando altrettanto
pericolosamente di com’era entrata. Un pericolo incombente per
tutto il traffico del Pallazzo.
Tutti si chiedevano se la Murena era così o ci faceva, e ognuno
dava la sua risposta. Chi diceva che era un’ingenua, chi una finta
ingenua, chi una finta ingenua per finta. In realtà non lo sapeva
nessuno; neanche lei. Era così e basta.
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“Allora è una cosa seria.” parlò Filo per primo, infrangendo la
bolla a luci rosse che aveva montato la Murena.
“Pare abbiano chiesto ad Abbio, ma gli è andata buca.” replicò
Nardo.
“Almeno si sono accorti che bluff è Abbio. Lui e la sua fama di
mago del computer!”
“Già. Comunque di quella voce ne sentiremo parlare ancora.”
“Questo è sicuro. Ora scappo, torno nel mio loculo. Ti saluto,
e... non lavorare troppo.”
“Stai tranquillo” lo rassicurò Nardo prendendo sottobraccio le
pratiche di Pasco, che intanto s’era messo a leggere “Tex Willer
contro Mefisto”.
Nell’uscire Filo decise di prendere una scorciatoia e di
attraversare l’ala meno frequentata del Pallazzo, l’ala rotta, da
cui non era mai passato, e di cui si raccontavano le cose più
strane, più incredibili.
L’ala rotta era quella parte del palazzo di cristallo che non era
stata ancora bonificata -i lavori per il risanamento delle strutture,
l’ammodernamento degli impianti e il rinnovo degli arredi si
diceva venissero rimandati di anno in anno, in attesa di quello
buono per avere un contributo in danaro dalla capitale. In realtà
si sapeva che quei lavori non sarebbero mai iniziati-. Era
qualcosa di non lontano da una costruzione fantasma, con i vetri
sporchi o rotti, luci e lampade come sopra, attrezzature fatiscenti
e uffici semideserti. E con personale poco raccomandabile a
infestarne i corridoi. Un posto dove neanche gli addetti alla
sicurezza pallazzesca mettevano piede volentieri. Il Bronx del
Pallazzo.
Era l’ala riservata gli inquilini cosiddetti difficili. Coloro che, a
torto o a ragione, ma quasi sempre a torto, non erano più
considerati utili alla causa del Pallazzo e alla sua economia da
70
vetrina. Emarginati per ragioni di salute, fisica o mentale,
mancanza di appoggi e carri giusti. Gente che vantava colpi di
testa, attacchi d’estro, di vittimismo o di autocompiacimento,
oltre a manie varie, di persecuzione come di grandezza. Ma
anche bioritmi truccati, distonie neurovegetative acute e crisi di
astinenza da talk show. Turbe tali da non poter essere
considerati “normali” al pari degli altri abitatori di quei vetri.
Filo frattanto era arrivato nel settore riservato ai carrieristi in
disarmo, l’unico dotato di uffici degni di questo nome, sia pure
con le scrivanie girate contro il muro. All’improvviso da dietro
un angolo del corridoio si sentì rompere gli argini un urlo
disumano, da fiume in piena. Filo rizzò il pelo. Si guardò
intorno; non c’era nessuno. Rallentò il passo, tese tutta la sua
inesistente muscolatura e proseguì in punta di piedi. Arrivato
all’angolo trattene il fiato, inspirò profondamente, contò fino a
tre, poi scattò in avanti con un balzo, in un’improbabile mossa di
lotta giapponese. Si ritrovò di fronte l’espressione assente e i
ricci rappresi di Amber.
* *
Nel momento in cui il Nero riprese in mano la cornetta la sentì
bruciare. Sapeva cosa succedeva in questi casi. Lui che si
scusava con la moglie perché un impegno improvviso lo
costringeva a fermarsi in ufficio, lei che protestava che non era
possibile che dovesse far sempre tardi, che le sue figlie non
avevano un padre né lei un marito; lui che ribatteva che però lo
stipendio le faceva comodo ogniqualvolta, ai cambi di stagione,
lei e le gemelle rinnovavano il guardaroba, lei che gli rispondeva
per le rime; lui che replicava in versi, lei che gli buttava giù il
telefono. Lui che restava con un palmo di cornetta in mano.
71
Questo nei casi in cui la moglie non aveva preso un impegno per
il quale gli aveva fatto giurare e spergiurare che ci sarebbe stato
anche se fosse saltato in aria il Pallazzo, come quella sera.
Già era arrivato tardi alla cena con gli Smàila, i re della pasta
dentifricia, che ne aveva fatto la famiglia più sorridente della
città -non tanto per la pasta in sé quanto per il ritorno in termini
di conquibus che gliene derivava-. Già lì aveva rischiato. Però
era arrivato. In ritardo, ma era arrivato. Quella sera invece stava
per chiamare per dire che non sarebbe arrivato affatto.
Il Nero era sempre tornato a casa tardi. I primi tempi, semplice
impiegato, per far carriera, quando però lo straordinario serviva
alla moglie per far quadrare il conto degli extra. Poi, diventato
dir, per salire i gradi della scala dir, senza però gli straordinari
pagati.
Qualche tempo prima aveva avuto una relazione con una
giovane impiegata del Pallazzo. Una tipa niente di speciale, che
non nascondeva di usare le sue grazie per averne un qualche
vantaggio. Una storia solo di sesso, senza un sorriso, una parola
complice. Un semplice scambio di liquidi. Un baratto, la cui
differenza era data solo dalle proprietà del prodotto finito: fresco
quello di lei, a lunga conservazione quello di lui. Una storia così
deserticamente arida che a volte lui, mentre era con lei, riusciva
ad avere nostalgia della moglie, che a suo modo continuava ad
amare. La relazione finì allorché alla sua ganza del deserto si
offrì l’occasione di un baratto più vantaggioso.
Nel momento in cui il Nero pose mano alla cornetta, dunque,
già sapeva quello che sarebbe successo. Sapeva che la moglie gli
avrebbe gridato che era l’ultima volta, l’ultima che gli avrebbe
organizzato qualcosa per allargare i suoi orizzonti, fargli
conoscere gente che conta. Che non era più il caso che si facesse
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vedere per i prossimi mesi, e per i mesi a venire dopo di quelli.
Che era finita, finita per sempre.
Questo sapeva che sarebbe successo, e questo puntualmente
successe.
* *
“Senta, la conosce lei questa fotocopiatrice?” chiese Amber con
uno sbotto di stizza.
Filo si sciolse da quella ridicola posizione di burattino
giapponese per assumerne una più normale. Quella di chi sale
per la prima volta su un palcoscenico e non sa dove mettere le
mani, che fare delle gambe e cosa guardare, se lei che sbottava o
il mostro meccanico che la faceva sbottare. Con in più una
domanda nel cassetto, in che modo era potuto uscirle quell’urlo
ferino.
“Scusi, le ho chiesto se conosce questa fotocopiatrice.” lo
incalzò con un’insistenza da televenditrice Amber. Forte, fra gli
altri, di un master polimorfico in abbattimento di tempi quasi
morti, sintesi di frasi fatte e contrazione di gap dialogico-
mentali.
Gli aveva dato del “lei”. Come avrebbe potuto familiarizzarci,
casomai ne avesse avuto il coraggio? Poi si ricordò che al liceo
il suo professore di filosofia dava del “lei” alle femmine e del
“tu” ai maschi. E a chi gli chiedeva il perché rispondeva che il
“lei” era la forma ideale per far nascere una passione d’amore,
mentre il “tu” era troppo fraterno, asessuato. Di un giovanilismo
forzato, che teneva lontano l’amore e la passione. Che avesse
conosciuto anche lei il suo professore di filosofia?
“Mi si è inceppata la carta! Vuole aiutarmi?!” s’incalorì,
vedendo che non riusciva a mettere in pratica il suo master. A
73
che era servito studiare tanto per ottimizzare ogni singolo
aspetto della vita lavorativa, se poi falliva nelle cose più
elementari?
Filo la guardò in viso. Era slavata, senza trucco, gli occhi gonfi e
i ricci secchi. Anche lei doveva essersi inceppata, non meno
della vecchia copiatrice dagli intestini ingrippati.
“Allora, la conosce questa macchina?” brontolò con un rantolo,
la voce ridotta a un rubinetto senz’acqua.
“No.” rispose finalmente Filo. “Però sono tutte uguali. Posso
guardarci.”
Filo armeggiò con tutta la perizia di cui era capace, che era da
numeri negativi, stante l’idiosincrasia innata per il fai-da-te, ma
alla fine raggiunse lo scopo. Riuscì a sbloccare il mostro
meccanico e, dal sorriso di consolazione che sfuggì ad Amber,
ebbe l’impressione di aver sbloccato anche lei.
“E’ vera la voce che si sente in giro?” lampeggiò a un tratto
l’affrancata fonte di quel sorriso con la faccia spiritata.
* *
Toniriccio era appena stato in bagno. Aveva occupato lo
specchio con la sua faccia larga, i capelli neri pettinati
all’indietro e il pizzo spruzzato. L’immagine di quel viso tronfio
e quel busto pieno gli aveva smosso un moto d’orgoglio. Poi
s’era raddrizzato la cravatta e sistemato la giacca. Una fortuna
quella mattina aver messo l’abito blu, che ne metteva in risalto
la pelle chiara e gli occhi scuri. Di certo aveva contribuito a far
colpo sulla rossa. Quindi s’era girato impettito verso la tazza,
aveva sbottonato i pantaloni e dato la stura alla sua acqua. Poi
aveva ripetuto al contrario, ma con movimenti più lenti, quasi
affettati, i gesti dell’andata, ed era rientrato nella sua stanza.
74
“Ancora un’ora e poi...” disse Toni una volta seduto, salutando
l’ufficio prima con la mano e poi con la mente.
Pfazzi lo guardò in silenzio. L’avventura in ascensore le aveva
esaurito l’adrenalina. Anche la mosca non si divertiva più a
girarle intorno, dal momento che la sua mano ora non faceva
niente per allontanarla.
“Dove la porti?” gli chiese Mosso, il dirimpettaio di scrivania.
“E’ importante il primo posto dove porti una donna. Dice tanto
di te, e di quello che vuoi da lei.”
Mosso viveva nel limbo di un esaurimento nervoso che gli era
venuto dopo che la sua compagna l’aveva lasciato. Era uscita
una sera con la scusa delle sigarette e non s’era più fatta vedere.
Per un po’ Mosso l’aveva aspettata, poi, pensando anche al fatto
che lei non fumava, aveva smesso. Se n’era fatto, in certo qual
modo, una ragione. L’esaurimento gli venne quando la rivide
abbracciata a una squinzia con l’ombelico scoperto. La sua “lei”
era diventata un “lui”, con tanto di barba lunga, baffi e àncora
tatuata su un bicipite. A dire il vero lui non la riconobbe; fu lei a
farsi riconoscere mostrandogli le sigarette comprate quella
famosa sera. Tutto il resto era venuto di conseguenza. Al che a
Mosso era parso di capire in tutta la sua pregnanza il messaggio
che stava scritto sul pacchetto: “Nuoce gravemente alla salute”.
E da quell’esaurimento non si era mai ripreso del tutto,
nonostante una serie di psicoterapie brevi, durate più a lungo del
previsto, presso alcuni professionisti iscritti all’albo degli
psicologi nel ramo degli inguaribili ottimisti.
Come la maggior parte dei suoi simili Mosso era una sorgente
zampillante di buoni consigli per il prossimo, ma non era in
grado di darne uno solo al prossimo più vicino che aveva, lui. E
questo per la mancanza di certezze che l’esaurimento gli aveva
lasciato in dote. Un’eredità a cui non aveva avuto la forza di
75
rinunciare. E per superare le paure che a volte gli chiudevano la
gola era solito bisbigliare a se stesso un sommesso “Vai
tranquillo.”, avendo cura che nessuno lo sentisse. La tensione
con cui gli usciva però era tale che lo sentivano tutti.
“Dove la porto?... Ma a ballare, no?!” rispose il riccio
innaffiando di gel i capelli. Il primo passo verso la
trasformazione in animale da discoteca. “Anzi, prima a cena
fuori e poi a ballare.”
“A ballare?! Ma bravo! Non potresti dirle in modo più chiaro
quello che vuoi da lei!” gracchiò sprezzante Prudi, la moralista.
“Piantala, bacchettona! Pensa ai tuoi rododentri!” ribatté Toni in
malo modo.
Prudi ebbe un sobbalzo, poi, dopo averlo fulminato con
un’occhiata al veleno, si addormentò, fulminata a sua volta.
Prudi soffriva di una rara forma di letargia nervosa, che faceva
sì che quando qualcuno la contrariava, lei prima trasaliva, poi
cadeva addormentata. Il suo medico, vista l’inesistenza di un
farmaco specifico, aveva raccomandato al marito di non
innervosirla. Specie in auto, con lei al volante.
Per evitare la narcolessi si era sottoposta a una serie di terapie
sperimentali, prescritte da una psicoterapeuta che non tollerava
d’esser contraddetta neanche dall’orologio. Terapeuta a sua
volta in cura da uno psicanalista che ne portò in luce il
complesso da ora esatta. Queste terapie consistevano nel
prendere la parola in riunioni di condominio di quartieri
malfamati, nel partecipare a discussioni sul calcio in bar di
periferie degradate, e nel trovare da ridire sul prezzo del pesce ai
mercati generali. Tutte senza risultato che non fosse la chiamata
della polizia, a evitare che la svegliassero a suon di sberle.
“Buonanotte.” sussurrò Toni, premuroso quanto la matrigna
delle fiabe.
76
* *
Anche il Grigio doveva telefonare che quella sera non sarebbe
rientrato. Non a una moglie, di cui era sprovvisto, ma alla
madre, di cui, com’è noto, sono tutti provvisti. Almeno alla
nascita. Una mamma che non vedeva l’ora che suo figlio si
trovasse una brava ragazza, facesse un buon matrimonio e
avesse dei bei bambini. Magari anche facendo a meno di
qualche aggettivo. Una mamma che si chiedeva anzi perché mai
quel figliolo non si fosse ancora trovato una fidanzata, dal
momento che era un bel ragazzo e piaceva alle donne. Non
sapeva che erano le donne a non piacere a lui.
Quella sera il Grigio realizzava il sogno che aveva accarezzato
dal giorno in cui aveva messo piede nell’ufficio del controllo:
passare una sera, forse una notte, in compagnia del suo capo.
Non certo a fare le cose che ci faceva con la fantasia, ma a
lavorare, a cercare una stupida pratica che aveva deciso di
sparire nel momento meno opportuno. Una pratica però senza la
quale non avrebbe realizzato quel sogno, almeno quella sera, e
che dunque non avrebbe potuto sparire più opportunamente.
Però doveva essere prudente. Nell’ambiente sarebbe stato molto
pericoloso scoprirsi. Letale, addirittura. Vedere Frollo per
credere.
Frollo, il colpevole designato da affiancare a Correo, era un
inquilino forzato del Pallazzo che percorreva, e dichiarava
apertamente di percorrere, binari, pur paralleli, diversi da quelli
percorsi da tutti gli altri. A differenza di alcuni, che li
percorrevano di nascosto, senza dichiararlo. Binari che lo
portavano a essere attratto dagli uomini e dalle idee di un certo
giacobinismo estremo. Laddove quelli canonici andavano invece
77
verso le rassicuranti idee che nel compasso costituzionale stanno
giusto sotto la sua punta e verso le donne. Non necessariamente
una soltanto. Nel Pallazzo l’adulterio non aveva una
connotazione negativa, salvo quando si faceva del falso
moralismo a beneficio dei suoi occupanti. Farsi un’amante era
anzi il segno di una raggiunta posizione di preminenza e di
successo, a patto di tenerla rigorosamente segreta ai più ma
altrettanto rigorosamente nota ai meno, cioè al gruppo dei pari
che l’aveva e si vantava al suo interno di averla. E magari di
cambiarla a tempo di paso doble. Gruppo che, salvo radi e ben
dotati fusti, era per lo più costituito da dir, i quali sembravano
essere i soli ad avere le qualità richieste da un’amante.
E per questo suo non allineamento al modo di essere come al
modo di pensare che andava per la maggiore nel palazzo di
cristallo, Frollo aveva finito col diventare l’univoco nonché
prediletto bersaglio di qualsivoglia addebito il Pallazzo
muovesse ai suoi inquilini coatti. Di qualsiasi atto contro i suoi
vetri veniva immediatamente sospettato, indagato e accusato
Frollo. Anche se non era mai stato condannato per nessuna delle
accuse di cui era imputato unico ed esclusivo. Era troppo
intelligente per esserlo, e aveva sempre saputo difendersi meglio
di quanto non avesse saputo accusarlo la pubblica accusa
pallazzesca. Frollo gli era simpatico per questo, però non era il
suo tipo. Aveva una punta di eversivo in eccesso per i suoi gusti.
Con una certa patina di insurrezional-popolare che gli faceva il
muso imbronciato dei bambini cattivi, per quanto infinitamente
più inoffensivo di questi. Lui era per tipi più tranquilli, più
inquadrati. Per una “diversità” più “normale”.
Chiamò la vecchia madre. L’aveva avuto tardissimo, dopo
averlo cercato per anni. Così tardi che ormai aveva quasi
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rinunciato a cercarlo. Ecco perché quel figlio era per lei molto
più di un figlio. Era tutta la sua vita.
Le parlò di un impegno di lavoro. Un impegno improvviso,
importante; decisivo per la sua carriera. Le spiegò di qualcosa da
trovare, di una faccenda delicata da risolvere.
Dopo essere stata a sentirlo senza ascoltare, gli sussurrò: ”E’ per
una donna?”
“Sì.” sospirò il Grigio dietro a una pausa, per non deludere le
aspettative materne. In fondo, nella coppia era lui che faceva
l’uomo.
“Come si chiama?” gli chiese con un filo di fiato.
“Nerina.” rispose dopo un poco, e buttò giù il telefono.
* *
“Se è vera la voce che si sente in giro?” ripeté Filo a pappagallo,
con la meraviglia della festa che la notizia fosse arrivata anche
nell’ala rotta.
Non riusciva a capire Filo come le voci riuscissero a prendere il
largo nel Pallazzo, a fare scalo in ogni suo porto e mettervi
radici. Quale vento ne gonfiasse le vele. In un posto del genere,
poi, dove le notizie filtravano dopo mesi, lasciate a se stesse a
mo’ di messaggi in bottiglia. In che modo riuscivano ad arrivarci
in quell’isola selvaggia, senza legge né dio? Quale soffio,
umano o meno, le spingeva? Inutile chiederselo, era così e basta.
Nel Pallazzo le voci si diffondevano più delle malattie infettive
in un asilo di pargoli di virus. Ala rotta compresa.
“Sì” disse spassionato.
“Dài, raccontami!” sprizzò Amber.
Era passata al “tu”, e Filo non sapeva se esserne contento.
Continuava a girargli in testa quella famosa frase del suo
79
professore di filosofia, il mito dei suoi anni verdi. Che però, al
pari di ogni mito che abbia fatto il suo tempo, cominciava a
diventare sempre più ingombrante. A condizionare la sua vita,
già abbastanza condizionata dai periodi ipotetici nelle parole e
da una puntigliosa incertezza nelle azioni. Le omissioni erano
quelle che gli venivano meglio.
Filo le raccontò quel poco che sapeva, condito con quel tanto
che la fantasia gli suggeriva. Le raccontò una storia di servizi
segreti; una trama torbida, ingarbugliata, fatta di nodi e
passioni, rancori e veleni, segreti e segretarie. E mano a mano
che raccontava lei lampeggiava i fari, stormiva le fronde,
allungava i rami, ridacchiava. Alternava i “no!” ai “dài!” con
l’entusiasmo di un marmocchio davanti a uno spettacolo di
burattini. Si era sciolta; era tornata la bambina che Filo, in
fondo, aveva sempre saputo che era. Una bambina che, smessi i
panni della primadonna, era tornata a vestire i suoi.
“Non è vero.” le disse Filo a fine storia.
Lei ci rimase come su un capriccio irrealizzato, prima di
sciogliere la smorfia in un sorriso di rimprovero.
“So solo che stanno cercando una pratica, e che sembra
importante. Ti sei ambientata qui?”
Amber si guardò intorno smarrita persa, per poi riperdersi a
guardare Filo.
“Ma, ci conosciamo noi due?” gli chiese a un tratto lei. Passata
la stizza prima e l’eccitazione poi, si era accorta di avere di
fronte un perfetto sconosciuto.
“Ti ho visto qualche volta con Fanfara (Giro Fanfara, il suo
volatilizzato pigmalione).” mentì lo sconosciuto, sia pure in
maniera tutt’altro che perfetta “Io mi chiamo Filo; lavoro alle
pratiche del secondo piano.”
80
In quel momento dal fondo del corridoio si sentì uno scalpitìo
scomposto. Dalla poca luce che filtrava parve di intravedere
all’attonito duo che stava avanzando qualcuno. Avanzava
lentamente, a un’andatura che gli attoniti non avrebbero saputo
definire, ma che il vostro narratore sa essere di tre passi avanti,
due indietro, uno a destra e mezzo a sinistra. A metà corridoio
balzò fuori da un anfratto un tipo leopardato che scaricò in
faccia a quell’essere dal passo incerto un ruggito strappaorecchi,
facendolo scappare a gambe levate. Senza passi indietro o di
lato. Questa è l’ala rotta, sembrò dire a Filo Amber, senza
riuscire a dire niente per la paura.
“Facciamo colazione insieme domattina?” le chiese Filo,
cavalcando da fantino quella paura. Difficilmente la richiesta
sarebbe riuscita a spaventarla più di quanto già era, opinò,
meravigliandosi lui per primo di tanto repentina intraprendenza
e di ancor più repentino opinare.
Lei gli sorrise piano, prima di far andare su e giù i ricci a tempo
di scampato pericolo.
“Passi tu o passo io?” le chiese di nuovo, per non darle la
possibilità di ripensarci.
Lei gli aprì il sorriso, e lui se lo bevve tutto.
“Ho capito, passo io.”
Filo tornò nel suo ufficio tardissimo, ma Prillo non se n’era
accorto. Era rinchiuso nel suo ufficio d’avorio, la piega dei
pantaloni intatta e il lucido a fuoco delle scarpe intonso. La
giacca d’angora era tornata inoffensiva; dormiva accucciata su
una sedia. Stava parlando da solo, compiacendosi delle cose che
diceva non meno di come le diceva. Sentiva solo la mancanza di
uno specchio, per potersi compiacere anche di chi le diceva. In
compenso se n’era accorto Sotto, ma non era un problema, dato
che era fuori marsupio.
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Filo decise di investire il poco che gli restava da lavorare della
giornata lavorando. Venuta l’ora fatidica uscì, a cavallo dei
compagni di stanza che, a seconda dell’ora di entrata nel
Pallazzo, uscivano a spiccioli. S’avviò per le scale a passo di
trotto -prendere l’ascensore in uscita non gli dava lo stesso
anticipo di libertà che gli dava prendere le scale-. Trotto che
cambiò in galoppo appena i vetri gli annunciarono le luci
dell’autobus in arrivo.
Infilò al volo l’uscita, attraversò la strada a rompicollo e tagliò
di corsa le porte del gigante mobile, un attimo prima che si
chiudessero. Sei mesi prima, su quella stessa strada, sempre di
corsa aveva messo un piede in fallo ed era volato lungo disteso,
facendo una meta non voluta sulla linea del marciapiede. Ma era
più forte di lui, alla vista dell’autobus si metteva a correre, al
pari di un tagliaborse alla vista di un questurino. Gli autisti
ormai lo conoscevano, fingevano di accelerare per poi
aspettarlo. Quand’era a un metro dalle porte riacceleravano,
lasciandolo incredulo di tanta autistica perfidia. Filo però
continuava a correre.
* *
C’era uno strano brusìo in quel tramonto obliquo nell’archivio
sotterraneo del Pallazzo. Circolare come tutto il resto,
sottoarchivi compresi. Le pratiche che ci vivevano erano, per
quanto in apparenza immobili, stranamente eccitate,
insolitamente inquiete per il luogo e l’ora. Alcune di loro intente
a imbellettarsi. A rassodare una pelle che gli anni avevano reso
più dura del cartone da imballaggio; a farsela più liscia di quella
di una pratica appena nata. Altre, più schive, solo a ripulire
82
un’immagine sbiadita dalla polvere. Tutte ad aspettare la loro
grande occasione.
Quasi sapesse il popolo delle pratiche che col buio si sarebbe
compiuto un evento, una cosa mai vista: qualcuno sarebbe
venuto in visita ufficiale nel proprio paese. Una visita fatta una
per una, con personale estrazione di ciascuna, lettura ad alta
voce del suo nome davanti a tutte le altre, e risistemazione nel
proprio mini monolocale. Così mini da starci solo dritte e senza
muoversi. Salvo per quella che il Pallazzo andava cercando, che
sarebbe stata assunta ai piani alti con tutti gli onori. Tutte
insomma avrebbero avuto il loro momento di gloria. Magari
breve, ma l’avrebbero avuto. Non come succedeva quando, sia
pur di rado, chi scendeva in archivio a cercare una pratica aveva
già in mano il nome e il numero per trovarla. E anche se ognuna
sperava in cuor suo di essere lei la prescelta, alla fine solo una
era l’eletta. Mai però era successo che per trovare una pratica
dovessero essere chiamate fuori e prese per mano tutte.
Gli addetti all’archivio se n’erano andati. Avevano attaccato ai
chiodi le cuffie degli hi-fi, riposto nei cassetti i lettori con radio
incorporata collegati al mega impianto stereo dell’ufficio, e
ammonticchiato in archivistico ordine sulle scrivanie le cassette
di musica. Materiale necessario a tener loro compagnia in quel
lavoro mefiticamente ripetitivo. Ma sufficiente talora anche a
confondere la loro idea di ordine. A volte capitava infatti che gli
archivisti, nel farsi prendere dalle canzoni, sistemassero le
pratiche non proprio dove dovevano. E anche se non capitava, il
rischio che potesse capitare era nell’ordine naturale delle cose.
Si pensa che le pratiche siano esseri inanimati; e lo sono -anche
se non molto di più di certi ectoplasmi ripieni, perennemente
attaccati al televisore quanto certe piante ai funghi con cui
vivono in simbiosi; però senza televisore-. Almeno nella misura
83
in cui non hanno un’anima. Ma non nel senso che non abbiano
una vita. Certo una vita infinitamente più piatta di quella degli
esseri in carne e ossa che le fanno nascere -anche se, pure qui,
non di tutti. Ci sono certi taccagni al pesto che fanno vite da
lombrichi di clausura, solo in monolocali un po’ più grandi-.
Una vita di cartone, però una vita.
A pensarci non c’è al mondo archivio, sotterraneo, magazzino,
soffitta, cantina, bugigattolo, così come non c’è al mondo casa,
non c’è stanza che nel silenzio della sera non si popoli di piccoli
rumori, sommessi bisbigli, soffocati cigolii. Rumori che escono
dalle cose; le rendono vive, partecipi della vita degli uomini.
Una partecipazione oscura, arcana; eppure sottomessa,
conciliante. Per lo meno di solito. Perché in quel tardo
pomeriggio i rumori erano frastuono, i bisbigli schiamazzi, i
cigolii trambusto. In quel tramonto carico di promesse le
pratiche erano più elettriche di una schiera di debuttanti in attesa
del proverbiale ballo per l’entrata in società. A tendere
l’orecchio le si poteva sentire chiaramente parlare, ridere,
schernirsi. E mentre il Pallazzo stava andando deserto, loro
facevano festa.
* *
Il Nero e il Grigio, da bravi topi d’appartamento, aspettavano
che il palazzo di vetro si svuotasse del tutto. Erano rimasti
dentro solo alcuni dir. I soliti quattro gatti che, volendo farsi
notare, aspettavano che anche gli altri quattro gatti che, come
loro, volevano farsi notare uscissero. Una specie di prova di
forza via pensiero, dal momento che gli uffici dei presenzialisti
in carriera erano ai pallazzeschi antipodi, se non più in là. Però
ognuno di questi sapeva sempre, forse a pelle, forse a invidia da
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olfatto, forse ad antipatia telepatica, quando il primo di quello
sparuto manipolo di ultimi partiva. E un secondo dopo la
partenza del primo partivano anche gli altri. Solo che nessuno
voleva essere il primo.
Quando alla fine si spense anche l’ultima luce al neon, se ne
accesero due a pila, quelle dei due topi. Non volevano rischiare
che una luce potesse insospettire qualcuno da fuori, perciò
usavano quei due ferri del mestiere. Due ferri di un mestiere per
loro inusuale. Decisero che avrebbero acceso, ma solo al
bisogno, unicamente le luci di quegli uffici che non erano
visibili dall’esterno o quelle dei sotterranei.
Passarono in rassegna tutti i piani del Pallazzo. Controllarono
uffici, sale, salette, saloni, ripostigli, servizi, disimpegni. Ogni
qualsivoglia spazio fosse delimitato da un muro e un soffitto.
Non escluso il pavimento, considerato per diritto di assito spazio
a tutti gli effetti. Non trovarono nulla. Poi scesero nei
sotterranei, controllarono l’ufficio degli archivisti, i bagni, tutto
l’archivio circolare, i sottoarchivi, rotanti, a cassetti, scorrevoli,
a scomparsa, quattro stagioni, pensili, a muro, a vista, nascosti.
Li controllarono tutti, estraendo le pratiche, tornate al silenzio,
una a una, leggendo il nome di ciascuna, e di ciascuna
prendendo il numero. Nessuna era fuori posto. I numeri
risultavano in perfetta progressione, senza salti né cadute.
Le prime luci della scollacciata alba petroniana li trovò
schiantati sulle girevoli dell’archivio. Distrutti dalla fatica,
disidratati per la tensione e col morale a picco per non aver
trovato l’ombra di niente.
Il Grigio, da dietro due occhi ridotti a fessure, guatò il mobile
bar degli archivisti. Una bottiglia giallo paglierino gli aveva
fatto l’occhietto di costa a uno sportello. Si tirò su, si avvicinò
alla provocatrice di cristallo senza toglierle le fessure di dosso e,
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reso omaggio all’etichetta, la fece sua. Era calda, rotonda,
inebriante; ci stava che era un piacere. Quando ebbe finito fece
un cenno al Nero e gli passò quell’ambrosia in calore.
Visto che siamo qui, sembrò dire il suo capo senza dirlo, anche
lui con gli occhi ridotti a due mandorle anoressiche, prima di
farla sua anch’egli.
Il Grigio frattanto aveva acceso il mega impianto hify
dell’archivio, e un esercito di watt sfrontatamente nerboruti
aveva cominciato a invadere la stanza, così come i gradi di
piacere liquido il sacco stomatico del Nero. Già alla fine del
primo disco il nettare paglierino era passato, per la legge dei
vasi comunicanti, dalla bottiglia ai due improvvisati fiaschi.
Fiaschi che, forti del loro nuovo contenuto linfatico, avevano
preso a dimenarsi, anche se fuori tempo, al ritmo di una musica
da sballo.
Il Grigio, nel chiudere penzoloni un passo che lo lasciò sbilenco
e retroverso, intravide di sghimbescio un’altra bottiglia
strizzargli l’occhio dal mobile bar. Era una boccia originale di
rum della terra dei pirati. L’estemporaneo avvistatore fischiò la
presenza della nuova ammiccante intrusa al compagno
d’avventura. I due corsari la puntarono con occhi liquidi, si
guardarono, la ripuntarono, e scoppiarono in un incredibilmente
unisonico, per quanto non concertato, “all’arrembaggiooo!!!” -
l’incredibilità dell’unisono stava proprio nella non
concertazione-. Vi si buttarono sopra e si fecero anche quella,
dimentichi di dov’erano, ma soprattutto di chi erano e di cosa
stavano facendo, dimenandosi come tonni alla mattanza al
suono martellante di “Macho Man”. Al primo lento il Grigio si
avvicinò al Nero, l’abbrancò e gli stampò un bacio in bocca.
“Sei bello!” gli disse sotto l’influsso dell’alcol. Il Nero, per
quanto brillo, non se la bevve. Nessuno però gli aveva dato del
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“bello” da tempo immemorabile; nemmeno la tipa con cui
aveva avuto quella asfittica storia di sesso. E mentre si chiedeva
se stava succedendo proprio a lui, abbrancò a sua volta il Grigio
e gli rese il bacio. Rotolarono in mezzo a una pila di pratiche da
archiviare, che si girarono educatamente dall’altra parte.
* *
Si dice che i sogni della gente servano a far parlare i suoi
bisogni. Quelli più urgenti, i più pressanti. Quei bisogni che non
riesce a soddisfare nella vita conscia. Chi ha fame sogna
un’abbuffata senza fine, chi ha freddo di abbracciare un
calorifero, chi ha sete di star sotto una cascata.
Non avendo sottomano niente di così impellente, i riluttanti
inquilini del Pallazzo, in libera dormita al rispettivo domicilio,
davano sfogo alle loro voglie represse. Filo sognava di avere fra
le mani una matassa di ricci da stirare, Batta un uomo che le
dicesse, convincendola, che stava sbagliando, Brusco di vivere
in cima a una montagna, Trogola di trovare il verro dei suoi
sogni, Ria un uomo che ne apprezzasse i ritardi, Gigio di vedere
il mondo dall’alto, Pfazzi di avere il girovita di un’anoressica,
Amber di essere cooptata in un consesso di capi, possibilmente
canuti, e così via.
Qualcuno sognava ma al risveglio non ricordava chi né cosa,
qualcuno non sognava affatto. Non riusciva a farlo a occhi
chiusi. Gli veniva di sognare solo a occhi aperti, e soltanto in
ufficio. Un modo per dare al lavoro un senso che andasse al di là
della semplice busta paga.
A voler mettere assieme il contenuto onirico di tutti i sognatori
pallazzeschi, anche senza considerare quanto del sogno ciascuno
non riusciva a ricordare una volta aperti gli occhi, a raccogliere
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questo guazzabuglio si sarebbe potuto scrivere un trattato di
psicopatologia e un paio di commedie di teatro dell’assurdo.
In ogni caso, per la fredda legge del tempo la notte volò via, e
come la crisalide di una farfalla si trasformò in una rigida
mattina di sole.
Tutti gli inquilini coatti del Pallazzo avevano avuto la loro notte.
Serena, agitata, in bianco, istruttiva, scandalosa, nottambula,
insonne, biascicata, gotica, sonnambolica. Per qualcuno era stata
infinita, per qualcun altro troppo breve. Per certuni non era
neanche passata. Una volta di più, tutto è relativo.
* *
Quando il Nero aprì gli occhi si sentì nudo. Vuoto, quasi nato in
quell’istante. Avrebbe potuto essere chiunque. Uno dei tanti
scampoli di carne umana che ogni giorno schiudono
deliberatamente gli occhi al mondo senza sapere cosa li aspetta.
O un qualunque pezzo finito di materia inanimata, che lo fa
ignaro di farlo ma sapendo benissimo cosa l’aspetta; una
forcina per capelli, un reggilibri, uno spremiagrumi.
Ci mise un po’ per ricordare chi era. Allorché vide il Grigio che
dormiva in posizione fetale a cavallo di tre girevoli, ricordò
anche cos’era successo. E gli montò il panico per quello che
sarebbe potuto succedere.
Non riusciva a credere di aver fatto quello che aveva fatto. Una
cosa abominevole, da depravato per quell’ambiente; e prima
d’ora anche per lui. E temeva che, se risaputa, è esattamente
questo che sarebbe stato considerato, un depravato, un mostro.
Gli avrebbero dato il benservito; si sarebbe dovuto cercare un
altro lavoro. Se mai ci fosse riuscito, con la nomea che il
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Pallazzo gli avrebbe affibbiato. Nella più rosea delle previsioni
l’avrebbero sbattuto a marcire nell’ala rotta.
Una cosa da depravato che però quella notte gli era venuta
naturale. Magari non proprio spontanea; ma naturale sì. E che, in
fondo, non era stata neanche così brutta come certa oleografia la
dipinge. Però aveva bevuto. Eppure, tutte le altre volte in cui
gli era capitato di bere, non l’aveva mai fatto.
E’ anche vero che quando beveva, beveva a casa sua, con sua
moglie, e dunque, dopo aver bevuto, è con lei che lo faceva.
Anzi, ultimamente lo faceva solo dopo aver bevuto. Si chiese
perché, ma non si rispose. Se anziché bere in casa sua, con sua
moglie, avesse bevuto in qualche altro posto e in compagnia di
qualcun altro, hai visto mai con quel fusto rigonfio del vicino di
pianerottolo, un biondo caramellato coi pettorali di una
palestra...
Il pensiero gli morì in testa. Si chiese per quale motivo, fra tutte
le persone femmine a disposizione della sua fantasia per
sceglierne una con cui farci una bevuta virtuale, questa fosse
andata a prendere quella di un maschio, e tra questi proprio il
suo aitante vicino. E anche qui non si rispose. Doveva essere
tutta la faccenda della pratica a renderlo nervoso. A fargli
pensare le cose più strane, le più torbide. Anche se quanto
accaduto quella notte non era stato un pensiero.
Nel guardare l’orologio fece un salto, e con lui tutto quello che
gli bolliva in solaio. Era quasi l’ora di entrata nel Pallazzo.
Diede uno scossone al Grigio e andò in bagno.
Improvvisamente, prima ancora di tirare l’acqua fredda, sentì
freddo dappertutto.
* *
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Nel preciso momento in cui Edo fece scivolare il cartellino nella
macchina marcatempo, notò che questa era un minuto avanti
rispetto al suo orologio. Orologio regolarmente regolato sul
segnale orario della radio, prudenzialmente controllato con l’ora
esatta del telefono, laicamente verificato coi rintocchi della torre
comunale, definitivamente e conchiusivamente benedetto da
quelli delle campane della chiesa.
Edo rimarcò alla macchina infedele il suo difetto. Le disse che
non aveva senso irrigidirsi su certe posizioni quando il torto era
così evidente, tanto a prima vista quanto, in seconda battuta, agli
altri sensi. Lei non rispose, per non alimentare la polemica. Edo
le inviò allora espressioni di aperto dissenso, quindi la invitò a
ravvedersi finché era in tempo. Dopodiché, esaurito il tempo e
persistendo il silenzio, decise di essere superiore e prenderla
persa. Constatò solo, con una punta di rammarico, che nel
Pallazzo anche il tempo era diventato relativo.
Nel salire in ascensore ebbe come l’impressione che qualcosa
non andasse. Lo sentiva, lo sapeva. Fu però solo in ufficio,
liberandosi di cappello e cappotto, che capì cosa non andava;
faceva freddo. Doveva essersi rotto il riscaldamento, o essersi
fermato, o non essere partito. Se qualcuno non l’aveva spento.
Impossibile, al momento, formulare un’ipotesi. Inutile,
soprattutto.
Prese la cornetta e chiamò il responsabile del fuoco, legandolo
alla sua logica stringente.
“Fa freddo.” gli disse gelido. “E per un rigido principio di causa-
effetto ne consegue che il riscaldamento non funziona. Per lo
stesso principio s’impone la sua presenza qui. Subito.”
“Strano” disse il fuochista pallazzesco, giunto prontamente sul
posto assieme a un allampanato tecnico di “Caldaia calda” che,
avendo passato la notte a spegnere una vecchia fiamma, dormiva
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sui talloni. “Abbiamo testato l’impianto in agosto. Allora
funzionava alla perfezione. I termo bollivano.”
“Ma con l’agosto che abbiamo avuto bollivano anche i muri.”
obiettò l’allampanato dando segno di risveglio. O conoscendo
talmente bene il suo lavoro da farlo pure in dormiveglia. A
piacere.
“Distinguiamo.” attaccò Edo “Bollivano i muri perché faceva
caldo fuori, o era il riscaldamento che andava così forte da far
bollire anche i muri?”
“Edo, non stiamo a cavillare.” replicò il responsabile del fuoco,
mentre il tecnico caldaio, credendo di sognare, si pizzicava un
braccio. La piccola puntura lo lasciò con la mente sveglia e le
orecchie incredule.
“Voglio dire” proseguì Edo “che a scaldare un ambiente già
caldo si fa prima che a scaldarne uno freddo. Ovvero che a
scaldare un posto che sembra caldo non sai il tempo che ci metti
se, anziché essere caldo, è freddo; e quanto il caldo che c’era
prima di scaldarlo, se c’era, influisca o meno, se influisce, con
quello che sta arrivando. E se i due caldi si incontrano, legano e
decidono di stare insieme o se, al contrario, non si incontrano.
Oppure si incontrano ma non legano -i caldi non sono tutti
uguali; ce ne sono certuni, di solito quelli che stanno sopra, che
non solo guardano quelli che stanno sotto dall’alto in basso, ma
rabbrividiscono all’idea di mescolarcisi assieme. Si sentono
superiori, e a volte finiscono per rivolgere loro epiteti di vera e
propria intolleranza caldana-, per cui, se i caldi non legano,
stanno uno da una parte e l’altro dall’altra...”
“Edo, la supplico.”
Mentre il dialettico per definizione metteva alle corde il
fuochista pallazzesco a colpi di proposizioni condizionali,
disgiuntive e copulative, il tecnico di “Caldaia calda” scese nelle
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cantine del Pallazzo. Giunto alle caldaie, girò un interruttore che
nottetempo era saltato e il freddo, suo malgrado, fu costretto ad
andarsene. Dopo un po’ se ne andò anche il tecnico, chiamato al
cellulare per un ritorno di fiamma della sua virago notturna, dal
momento che era il solo a conoscerne l’impianto.
La disfida fra Edo e il responsabile del fuoco invece fu vinta dal
primo, che costrinse alla resa l’avversario con la sua logica
schiacciante.
* *
Filo varcò la soglia del Pallazzo col passo lento e circospetto di
chi la varca per la prima volta. O per l’ultima. Quella mattina
camminare, il movimento più automatico tra quelli che si fanno
fuori casa, richiedeva un risoluto e ben preciso sforzo della
volontà. Una spinta muscolare, voluta e consapevole, a mettere
un piede davanti all’altro. Una presa di coscienza, assorbita e
penetrata, della propria motilità inferiore. Almeno da che aveva
messo piede fra quei vetri.
In mezzo al salone ristette. Girò la testa intorno al suo asse come
la luce di un faro intorno a se stesso, senza illuminare niente di
mobile. Poi s’avviò verso l’ascensore con un’andatura da
granchio, mentre si guardava le spalle quanto un ricercato in
fuga. Raggiunto l’ascensore, dopo una nuova e aggiornata
panoramica del salone, vi entrò al ritmo di un vecchio disco
rallentato, sempre guardandosi le spalle e i loro muscoli
raffermi. Prima di premere il piano tese l’orecchio, in attesa di
un rumore lontano. Un rumore conosciuto, familiare. Un
ticchettìo, per l’esattezza. Niente. Alla fine si dette per vinto e
schiacciò il due. Si rese conto che il miracolo del giorno prima
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non si sarebbe ripetuto. Sarebbe rimasto, per l’appunto, un
miracolo.
Nel salire sentì che c’era un’aria insolita; dava i brividi. Forse
perché era fredda. Un freddo strano, incomprensibile. Un freddo
che faceva il paio con quello che sentiva dentro. Sembrava quasi
che il Pallazzo avesse deciso di affrontare la vicenda della
pratica scomparsa con tutti i suoi vetri spalancati, aperto a
qualsiasi soluzione. Anche la più inclemente.
Filo fece il percorso di tutte le mattine. Passò dall’ufficio di
Ovieffe e Fettunta, già in ballo con le telefonate extralavoro, e
da quello di Ada e Ida, alle prese con l’ennesima incompiuta
discussione su Accio. La sera prima il piccolo ingegnere
aeronautico aveva pensato bene di far sparire una ruotina del
velivolo in corso di costruzione nel buco deputato a far sparire le
merende, facendola poi ricomparire qualche ora dopo dal buco
destinato a espellerle. Poi incrociò Pasco, inspiegabilmente fuori
posto, che ancor più inspiegabilmente stava litigando con
Clone. Il carrierista al contrario gli stava intimando di non dargli
mai più ragione, perché se c’è una cosa che un’ultima ruota del
carro non ha mai è la ragione. Persino quando ce l’ha.
Quando alfine mise piede in ufficio, nel togliersi sciarpa e
giubbotto sentì che faceva freddo sul serio. Fu forse anche per
quello schiaffo gelato a cavallo di una cervicale più sensibile di
una bilancia da orafo, che si accorse che nella tensione per
l’attesa del mancato miracolo si era dimenticato di timbrare il
cartellino. E ricordando che l’unica volta che non l’aveva fatto
era stato ripreso da Prillo, il quale gli aveva rammentato con
l’indice al vento che la forma, in certi casi, è solo l’altra faccia
della sostanza -Prillo amava essere emblematico, anche a costo
di essere incomprensibile-, fece marcia indietro e tornò di sotto.
Allorché timbrò il cartellino e vide Ria in arrivo, si stupì.
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* *
Chi non aveva sentito freddo, neanche per un momento, era
stato il direttore. Direttore che, una volta guadagnata la
superficie calpestabile del suo ufficio da passeggio, aveva
ripreso coi legni del parquet il filo del discorso interrotto il
giorno prima, ricominciando a orbitare intorno a una scrivania
sommersa dalla carta. Per di più a passo di cronometro. I legni, a
loro volta, avevano ripreso a lamentarsi, non essendo abituati a
certi discorsi senza fine.
Il peripatetico guardava l’orologio a intervalli irregolari, ma
sempre più ravvicinati, in attesa dell’ora fatidica, quella in cui il
Nero avrebbe dovuto consegnargli la pratica smarrita. Il
fantomatico trofeo da portare in dono al protettore degli
innamorati particolari. Avrebbe così sistemato le cose con quella
volpe di Scaltro, e magari avviato con lui un certo discorso.
Il direttore era ormai prossimo alla pensione. Gli avevano
appena conferito uno di quei titoli onorifici che nella lettera
richiamano la pompa di grandi imprese a cavallo, nobili gesta e
atti di eroismo. Mentre di fatto sono il corrispettivo che
l’apparato per la messa a riposo dei pezzi grossi riconosce ai
suddetti per meriti altisonanti quanto inconsistenti acquisiti in
vite di lavoro vissute da acquiescenti subalterni al sistema, sia
pure ai massimi livelli. Un corrispettivo che fungeva da ciliegia
sulla torta, già sontuosa, della pensione, e da -non troppo-
larvato invito a togliersi di torno prima possibile e soprattutto
senza cambiare idea. Ora, il pensiero di passare tutti i giorni di
tutti gli anni che il cielo avrebbe avuto la bontà di concedergli
assieme alla legittima consorte gli dava l’ansia, la depressione e
il panico insieme. Una forma di vertigine da crisi di astinenza
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da lusinghe e adulazioni completava il quadro clinico della
sindrome da ritiro.
Il fatto è che nel Pallazzo lo trattavano tutti con la deferenza
inamidata e il rispetto scappellatorio che si devono al suo
numero uno, mentre la moglie lo trattava, semplicemente, da
marito. Un marito qualsiasi, senza numeri di maglia addosso.
Super dir non riusciva a rassegnarsi di perdere i super poteri, di
scendere dal gradino più alto. Di lasciare la poltrona dell’ufficio
per quella di casa, anticamera della morte civile, preludio di
quella effettiva.
L’idea accarezzata era di darsi alla politica, agganciarsi al carro
di Scaltro. Se del caso superarlo, lasciarlo indietro, e fare di lui il
suo avanzo di segreteria. Più sotto ancora di quel fiore di Panna
dal ricettacolo rosso, promuovendo lei e bocciando lui.
In fondo le sue idee non erano molto diverse da quelle di
Scaltro, che tutto sommato erano le idee di tutti. Almeno
considerato il numero di bandiere che aveva battuto prima di
passare all’ultima, la più neutra. Anche se non era facile dire
quali fossero con precisione, stante sempre il numero di
bandiere battute e poi cambiate. In quel momento non ricordava
se era partito da destra e si era spostato a sinistra, o se era
partito da sinistra e si era spostato a destra; se stava in un centro
centro o in un centro che guardava da una parte e strizzava
l’occhio all’altra. O se, in definitiva, era andato a occupare
l’unico posto libero.
In ogni caso Scaltro aveva le conoscenze giuste, sia di qua che
di là. Aveva frequentato gli uni e gli altri, quindi aveva una parte
delle loro idee. Solo le coloriva o le scoloriva a seconda
dell’usta e del momento, della vena inventiva e del ritorno di
utile. Un creativo, un artista; sia pure con i piedi per terra. E
anche lui, da buon neofita, una volta nel giro avrebbe dovuto
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abituarsi a questa commistione fra idee e colori, fra politica e
arte.
A tutto questo e ad altro ancora pensava il gran camminatore,
mentre cercava di annichilire il tempo perpetrando all’infinito il
periplo della scrivania. Con la plantare sensazione di averci
scavato un solco intorno.
* *
Filo s’era stupito nel vedere Ria in arrivo perché quella mattina
non era tardi, laddove invece, di solito, lei era l’ultima a entrare
e la prima a uscire. Così almeno si diceva. E tutti si chiedevano
come riusciva a farla franca da che era stata messa la macchina
marcatempo.
All’inizio s’era pensato che non timbrasse il cartellino, ma nei
tabulati di controllo a campione degli accessi risultava sempre in
regola. S’era pensato allora che avesse un tesserino irregolare,
che andava indietro al mattino e avanti al pomeriggio, o con un
microchip intelligente, o quanto meno bene informato, che
conosceva in anticipo i giorni dei controlli, per sapere quando
doveva timbrare e quando poteva farne a meno. Era poi stata
controllata la funzionalità dell’elaboratore centrale, a cui la
macchina marcatempo era legata da un cordone ombelicale
invisibile. Quindi attivato un sistema di spie, in carne e ossa
prima e tecnologiche poi, con telecamere d’ogni tipo, immobili,
mobili, da passeggio, da taschino, bifocali. Il tutto con costi
enormi per il Pallazzo. Ma quei costi non erano approdati a
nulla. Non avevano chiarito il mistero.
Alla fine il palazzo di vetro s’era arreso. Anche il vecchio
elaboratore aveva avuto un trombo alla sua ipertesa memoria
centrale. Era stato sostituito con uno nuovo, che non aveva
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voluto saperne di prendersi a mano una patata bollente del
genere.
L’effetto pratico era che Ria, nonostante la macchina
marcatempo, continuava ad arrivare per ultima e a uscire per
prima. Tutto nella più assoluta legalità elettronica. La cosa era
anzi diventata normale, non meravigliava più nessuno. Il mistero
era diventato la norma; perciò non più un mistero.
Filo pensò che un qualche dir avrebbe potuto farle notare i
ritardi e obbligarla a recuperarli la sera. Ma nessuno di quegli
impavidi aveva il coraggio di assumersi una tale responsabilità,
posto che dal punto di vista elettronico era tutto in regola.
Quel giorno però Ria era in orario e forse, pensò ancora Filo, la
storia dei suoi ritardi non era che una delle tante voci che
circolavano senza controllo nel Pallazzo.
Entrarono insieme in ascensore. Ria gli sorrise, e nell’aprire gli
automatici della giacca a vento scoprì una maglia pistacchio con
due grosse coppe ripiene. A Filo prese una strana voglia di
leccare, anche se il pistacchio non gli piaceva più di tanto. Le
coppe invece sì. Poi pensò alle appendici ramificate dell’uomo
che ne condivideva i ritardi e li ricambiava in anticipi. Il classico
portatore sano, che sapeva di averle e le portava a testa alta,
senza nasconderle o camuffarle. E gli passò la voglia.
Lasciatosi alle spalle l’ascensore e il suo allettante contenuto
verde pallido, notò che il freddo andava sparendo, e un invitante
calduccio gli stava montando intorno. Che fosse merito del
pistacchio?, si trovò a pensare Filo senza volere, censurando con
un sorriso quel pensiero non autorizzato.
* *
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Nella stanza del riccio erano già arrivati tutti tranne il riccio.
Anche se quei tutti si auguravano che Toni non arrivasse affatto.
In caso contrario, infatti, già conoscevano la commedia che
avrebbe inscenato. Una delle tante repliche di una prima vista e
rivista, logorata da una recitazione, per quanto muta, risaputa e
stantìa.
Sarebbe entrato con incedere molle e smascellato, tra l’ubriaco
all’ultimo stadio e lo scemo di paese, avrebbe esibito il suo
pizzo di bronzo alla pubblica piazza dell’uditorio coatto, e alle
occhiate esplorative del pubblico presente in sala avrebbe
sgranato un ghigno a tutta bocca. Segno che l’obiettivo della
sera prima era stato raggiunto. La pastafrolla di turno era stata
mangiata, questo era il messaggio. Non c’era bisogno di
chiedere. Le prime volte, di fronte alla sua faccia della
domenica, i compagni di stanza chiedevano. Poi avevano
smesso, e anzi ogni volta che si presentava con l’aria della festa,
per dispetto o si giravano dall’altra parte, o abbassavano il capo
in un improbabile attacco di lavoro urgente e improcrastinabile.
Quando Toni entrò in ufficio con la faccia da morto trasalirono.
“Stai poco bene?” azzardò Pfazzi dopo un po’ che s’era seduto,
mostrando una sofferta e contrita preoccupazione. In realtà
preda della curiosità morbosa di sapere com’era andata la sera
prima.
Il riccio scosse piano gli aculei, prima da una parte e poi
dall’altra.
“Sicuro?” continuò Pfazzi, sempre con la speranza di far breccia
nella corazza. Stavolta gli aculei andarono su e giù. Se possibile
ancor più piano.
Nessuno ebbe più il coraggio di chiedere niente. Era chiaro però
che la serata non era andata nel modo che doveva. In breve, che
gli era andata buca.
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Era accaduto che la Malga, fatti con lui due passi su uno di quei
prati vicino a casa dove pascolava da bambina, se l’era portato
all’ovile. Dai suoi genitori, per farglielo conoscere. Questi
l’avevano subito invitato a cena, dandogli l’impressione che
fosse già tutto combinato, escludendo però la possibilità che
quella sera la loro rubizza prataiola potesse uscire di nuovo.
Semmai la sera dopo. Al che lui aveva fatto il classico buon viso
a un gioco, se pur non cattivo, però neanche troppo divertente.
La cena era stata perfetta. Anche se mancavano i termini di
paragone, poiché uno scapolo che vive solo non ha molte
occasioni di fare una mangiata di cui ricordarsi. Almeno finché
il padre non gli chiese se aveva già pensato alla data delle nozze.
Alla domanda Toni accusò un principio di orticaria, con
giramenti prima di testa e poi di qualcos’altro. Quindi,
metabolizzata la richiesta, rispose con un sorriso di cera che non
ci aveva ancora pensato. Che forse era presto per pensarci.
“Non è mai troppo presto.” aveva esclamato il padre, in aperto
dissenso con una certa tradizione scolastico-popolare della
televisione dei primordi. Aveva imparato a scrivere col maestro
Manzi, ma quel suo “Non è mai troppo tardi” non lo poteva
soffrire. Gli faceva pensare a un ciclista che arriva al traguardo
dopo che se ne sono andati tutti.
Uscito che fu di casa, Toni si sentì tradito. Lui, il riccio, scapolo
per vocazione, uccel di bosco per formazione e fornicatore
occasionale di professione, lui, uccellato come un pennuto
qualsiasi. Non si sarebbe mai più fatto vivo con lei, pensava, gli
occhi dei colleghi tutti quanti addosso, quasi fossero zecche
assetate del suo sangue. La rossa però gli piaceva; gli piaceva
più della sua vocazione e degli altri suoi poco nobiliari titoli.
* *
99
Il Nero, dopo una proficua seduta in bagno, era riuscito a
ripulire faccia e intestini. E anche il freddo che l’aveva investito
appena entrato era cambiato in un tiepido calore marmorizzato.
Era perfino riuscito a radersi con un rasoio di fortuna, un
vecchio “usa e getta” che un qualche duro di barba aveva gettato
dopo l’uso.
Fissava davanti allo specchio quell’uomo non lontano dall’età di
mezzo. Non era da buttare, dopotutto, con ancora tutti i capelli,
sia pure ampiamente striati di grigio, e uno stomaco, magari non
proprio piatto, però nemmeno troppo pronunciato. Non era alto,
è vero, ma alto non era mai stato. Non si può perdere con gli
anni quello che non si ha neanche da giovani.
Quel rasoio di fortuna però menava una lama talmente spuntata
che aveva finito per rivoltarglisi contro la barba. Il risultato era
stato un piccolo quanto fastidioso taglio sotto il mento. Niente
rispetto a quello che gli avrebbe fatto il capo supremo del
Pallazzo. Ancora meno rispetto a quello che gli avrebbe fatto
l’ugualmente supremo capo di casa. Si accorse a un tratto di
non valere molto di più di quanto gli diceva suo padre che
valeva da bambino, zero scarabocchio.
Doveva decidere chi dei due chiamare per primo. Per dir loro
cosa, poi? Scusarsi per la cena con la moglie e per la pratica col
direttore? L’avrebbero fatto a pezzi, altro che taglio sotto il
mento. Quello che aveva sarebbe stato il più innocuo e invisibile
di tutti quelli che, fra lui e lei, gli avrebbero procurato una volta
a tiro.
In una notte era riuscito a distruggere tutta la sua vita.
Lavorativa, affettiva; morale. A scombinare il suo, finora
apparentemente irreprensibile, quantunque mortalmente noioso,
equilibrio sessuale. A rovinare lui e la sua famiglia. Stava
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perdendo tutto quello che aveva costruito in anni di fatica, a
forza di acquiescenza e concessioni con la moglie e le gemelle,
di intrighi di corte e processi sommari nel Pallazzo. Tutto in una
notte. Quasi peggio del film omonimo, che aveva visto e di cui
aveva riso, sicuro che a lui non sarebbe mai potuto succedere
niente del genere.
Mentre rincorreva questi pensieri senza riuscire a fermarne uno,
entrò in bagno il Grigio a torso nudo. Aveva un petto ben fatto e
una vita nervosa, e negli occhi lo sguardo diritto del vincitore.
Ma soprattutto quell’altezza che lui non aveva mai avuto.
Nel guardarlo si aspettò di pensare come aveva potuto farci
quello che ci aveva fatto. Invece si scoprì a considerare come
sarebbe riuscito a farlo di nuovo con la moglie, se mai lei avesse
voluto saperne di farlo ancora con lui. Insomma, dopo aver dato
il fattivo contributo a compiere qualcosa di scandalosamente
abominevole, di esecrabilmente depravato, non solo non
mostrava segni di ravvedimento, ma covava l’idea di continuare
a perseguire la strada della depravazione e dello scandalo.
Doveva essere o impazzito del tutto, o guarito all’improvviso da
una malattia che gli aveva ottenebrato mente e sensi.
“Che facciamo?” domandò al Grigio, quasi a cercar riparo sotto
quel tronco asciutto. “Il direttore ci sta aspettando.”
“Prendiamo tempo.” rispose l’asciutto bagnandosi la faccia.
“Intanto incolpiamo Frollo. Ho già avvisato Correo di tenersi
pronto.”
* *
La Trebisonda, dall’alto del suo trafficato terz’ultimo piano -
l’ultimo, quello nobile, aveva la densità di popolazione di una
catacomba o di un museo chiuso; il penultimo una un po’ più
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fitta, quella di un circolo di puristi della lingua ladina-, le
giornate d’inverno in cui la nebbia della pianura concedeva una
tregua, la Trebisonda amava perdersi a guardare le nuvole. Le
forme che prendevano inseguendosi, che perdevano per poi
riprendere. Quel giorno la nebbia non s’era alzata, così il cielo
era un libro aperto. Un libro illustrato, con dipinti su un azzurro
leggero bianchi treni di lanugini in viaggio.
Nel frangente la scrutatrice dell’etere seguiva con occhio
morbosetto un maestoso nuvolone, che rincorreva una leggiadra
nuvoletta con chissà quali idee in testa.
Sorrise pensando a quell’ex nuvolone di suo marito, quando
correva dietro a lei, delicata nuvola in fiore, che dava corda alle
sue voglie fingendo di scappare. Ora erano nient’altro che due
nuvole sfatte, che percorrevano cieli rigorosamente separati. E
nel sorridere abbassò lo sguardo, attratta da tre puntini luminosi
che si accendevano a intermittenza cambiando colore: rosso,
verde e arancio. Il semaforo, pallido anticipo delle luci del
Natale in arrivo.
Il sorriso le si spense allorché notò avvicinarsi al Pallazzo delle
unosimilbianche, da cui sgattaiolarono fuori losche sagome nere
con qualcosa in mano. Dentro ogni macchina uno dei loschi
restava al volante.
“Allarmiiiiii!!!” barrì la Trebisonda mandando in frantumi il
fresco sogno natalizio. “Allarmiii!!! Una rapina! Tutti fuori!”
Nel tempo del barrito il Pallazzo fu percorso da uno stridìo di
sedie che rinculavano, da una scarica di tacchi che scattavano, e
da un rimbombo galoppante di scarpe imbizzarrite che
correvano a rotta di collo lungo i corridoi.
Non si trattava in realtà di una rapina; almeno non in senso
stretto. Si trattava del saccheggio periodico e sistematico dei
giannizzeri più avidi del comune: i vigili.
102
Ultimamente intorno al palazzo di cristallo era stato tutto un
fiorire di cartelli di divieto: di portare i cani ai giardini perché
sporcano -le siringhe che ricoprono il manto verde non
configurano per l’autorità costituita “sporco” in senso tecnico-;
di attaccare le biciclette ai pali dei manifesti su cui poggia la
rassicurante pubblicità del comune, in quanto stornano
l’infusione di tranquillità alla camomilla del messaggio; di
imbrattare i marciapiedi con rifiuti organici -sangue, pezzi di
pelle o altro- in caso di cadute dovute a scippi -dal divieto sono
ovviamente esclusi gli scippatori, che non cadono mai-; di
transitare in auto senza cinture allacciate, mani alle dieci e dieci
sul volante e pensieri men che puliti alla vista di un fischietto in
divisa. Tutti, questi e altri, con un solo scopo, quello di favorire
la solerte polizia comunale nei suoi compiti istituzionali: far
multe a quanto si muovesse, di moto proprio, riflesso o
apparente nel raggio del proprio occhio vigile e implacabile. E
tra questi fiori di città i più folti e appariscenti, di un colore
spinto rosso-sadico, erano i cartelli di divieto di parcheggio.
Il risultato era che in tutta la cerchia del Pallazzo non c’era un
buco in cui la sosta fosse consentita per più di mezz’ora.
Deputate al consenso erano uno stuolo di addette incorruttibili.
Un nugolo di inesorabili macchinette mangiasoldi, assunte con
regolare contratto di posteggio.
Ora, per evitare lo stillicidio di un dentro e fuori ininterrotto di
un fiume umano, che andava e veniva di continuo per portare il
suo tributo in moneta alle mai sazie esattrici meccaniche, i
vertici di quei vetri si erano accordati con quelli del comune
affinché i vigili, passando di là, tirassero dritto. In cambio le
pratiche che il comune presentava al Pallazzo avrebbero goduto
di una corsia preferenziale, con semafori sempre verdi e un
occhio elettronico di riguardo.
103
Succedeva però a volte che un qualche assessore rinnegasse i
propri vertici, e per reperire fondi con cui finanziare corsi di
aggiornamento per dirigenti comunali da tenersi d’inverno nei
paesi caldi, inviasse di propria iniziativa nella precaria cerchia
pallazzesca alcune pattuglie di vigili. Pattuglie al comando di
feroci vigilesse, scelte tra quelle con più ormoni maschili,
garantite più cattive dei maschi.
“Tutti fuori!!! Alle macchine!!!” lanciò la carica il guerriero
Trebisonda, mentre divorava le scale -agli ascensori c’erano già
le file-. E in cuor suo malediceva Toldo.
* *
“Allora?” chiese il direttore al caduco duo del controllo quando
questo gli si materializzò davanti.
Su una sedia di lato alla scrivania, a valle della montagna di
carta che c’era parcheggiata sopra, la faccia di Ciarli
sogghignava dietro due file di denti smaltati. Il Nero, appena lo
vide ebbe uno scatto, che mascherò con un sorriso da esequie.
Una coppia di sedie imbottite, fronte al dir assoluto, aspettavano
lui e il suo secondo, che le accontentarono gonfiandole
prontamente.
“Per l’intanto abbiamo il colpevole.” esordì il Grigio prendendo
i comandi del duo.
“E chi sarebbe?” intervenne strafottente Ciarli.
“Frollo.” disse sempre il Grigio “Uno dell’altra sponda.”
“Non la pensa come noi?” chiese Ciarli.
“Non è neanche come noi.” continuò il provvisorio pilota del
duo scandendo ad arte le parole, e illustrandole con uno sguardo
che era l’espressione della riprovazione con la “erre” maiuscola.
104
Senza il coraggio di girare un muscolo verso l’impietrito
navigatore.
“Ah.” traccheggiò il direttore “E perché l’abbiamo assunto?”
“Ha vinto il concorso.”
“Fortuna che li abbiamo aboliti. Ora solo sane e genuine
raccomandazioni. Magari si assumono degli incapaci, ma
almeno è gente che la pensa uguale a noi. Che è uguale a noi.
Anche se quel nuovo sindacalista vuol costringermi a
ripristinarli. Ma ci metteremo d’accordo, come coi vecchi.”
“In che modo siete venuti a sapere di Frollo?” domandò Ciarli
con la lingua biforcuta.
La coppia del controllo fu presa da un accesso di raschio, gli
occhi dell’uno dentro quelli dell’altro.
“Una spiata.” rispose il Grigio, ritrovate a un tratto le corde
vocali. Anche il Nero, quasi d’incanto, ritrovò le sue, ratificando
a monosillabi l’uscita del suo capo a termine.
“Di chi?” seguitò imperterrito Ciarli, insalivando lingua e denti.
Al pari di ogni serpente velenoso Ciarli sapeva sempre qual era
il momento giusto per mordere.
Ai due riprese un raschio peggio del primo, finché il Grigio,
deglutito un panetto di saliva solida, licenziò a mezza bocca un
provvidenziale “Abbiamo i nostri informatori. Non possiamo
bruciarli.”, che incontrò l’incondizionato appoggio oculare del
Nero.
“Sono sicuri?” insisté ancora la vipera, mentre passava a testare
la sacca del veleno.
“Sicurissimi. Due settimane fa, più o meno quand’è nata la
pratica che s’è persa, Frollo ha trovato da dire col suo capo per
una precedenza di corridoio. Pare gli abbia dato del lacchè di
palazzo.”
105
“E’ un’offesa questa?” chiese con sincero stupore il capo
supremo di quei vetri, per il quale il servilismo era alla base di
un sano rapporto gerarchico.
“Lacchè in senso negativo.” si affrettò a precisare il Grigio.
“Ah bè...”
“Ebbene, Frollo, dopo la litigata, avrebbe minacciato di fargliela
pagare. Sarebbe stato visto anche fargli così con la mano.” disse
il Grigio stendendo il braccio e guardando torvo.
“Addirittura?!” sbottò il supremo a pupille spalancate.
“Quindi sarebbe stato lui a...?” sibilò Ciarli, preparandosi a
mordere.
Il duo annuì prima che finisse la domanda, con una sincronia
che rasentava la perfezione.
“Perciò è inutile controllare all’ufficio personale se quel giorno
Frollo era al lavoro e non da un’altra parte.” disse con un
innocuo tono interrogativo Ciarli, affondando il morso.
I due si guardarono asincroni, i colli marchiati da due piccoli
punti simmetrici, consapevoli che la risposta era una questione
di vita o di morte.
“Meglio esserne certi.” concluse la serpe. E si allungò al
telefono.
* *
Toldo era un ex nostromo avvistatore con alle spalle studi da
baritono, che, per un principio di raucedine dovuta a un mal di
mare virale, aveva definitivamente lasciato il ponte in legno
delle navi per approdare a quello in vetro del Pallazzo.
L’ex uomo di mare era stato assunto, nonostante la raucedine -la
raccomandazione di un ammiraglio con più stellette di una
costellazione aveva avuto il suo peso nelle alte sfere-, con
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regolare contratto marittimo, sia pure di terra. Assunto per
sventare le periodiche razzie della soldataglia del comune. Per
avvistare a tempo le truppe vigilesche e darne avviso agli
abitatori del Pallazzo con contrattuale urlo di Tarzan. O di
qualcun altro dalla voce non troppo dissimile. Sempre
nonostante la raucedine.
Toldo, quand’era in servizio, stava appollaiato su una specie di
coffa di marinaresca fattura collocata sul tetto di cristallo,
provvisto di binocolo di profondità e pastiglie per la gola,
esposto alle intemperie del tempo e degli uomini.
Quella mattina però il marittimo di terra aveva le corde vocali
più in fiamme del solito, ed era quindi prossimo all’afonia o giù
di lì. E dal momento che afono sarebbe servito a poco, aveva
abbandonato la vedetta ed era sceso in bagno a farsi un fomento
all’eucaliptolo piccante, usando il lavandino come recipiente, e
non poteva accorgersi dell’arrivo dei bravi del comune.
Fortuna che la Trebisonda non aveva perso l’abitudine di
scrutare il cielo e i suoi cirri. In quel momento l’esploratrice
della volta celeste era arrivata alla macchina e, messo in moto,
era partita a tutto gas, affumicando un vigile che accorreva
armato di biro, blocchetto e protervia.
Nel frattempo tutto il Pallazzo motorizzato era corso alle
macchine -esclusi i dir, le cui quattroruote se ne stavano al
calduccio nel parcheggio sotterraneo circolare. Un circolo
esclusivo per auto esclusive-. E salvo alcune, ormai
irrimediabilmente impallinate dalle cartucce dei cacciatori in
divisa, tutte le altre erano riuscite a scappare. Giravano senza
posa intorno al circondario, in attesa che l’esercito vigilesco
levasse le tende. Alla fine i giannizzeri del comune, non avendo
titolo per ghermire le prede in movimento, mollarono l’osso e si
ritirarono con le multe nel sacco. Il blitz era stato respinto, la
107
razzia sventata. L’ingordo assessore della situazione avrebbe
dovuto ricorrere ad altri mezzi per finanziare i corsi di
aggiornamento dei dirigenti del comune nei mesi invernali. Le
possibilità di altri e diversi saccheggi non mancavano, avuto
riguardo alla miriade di balzelli che gli instancabili assessori
proponevano al sindaco, il quale, per non scontentare nessuno,
non ne scartava alcuno.
Gli inquilini coatti del Pallazzo, risistemate le macchine nei
parcheggi a tempo, risalirono alla spicciolata, scambiandosi
gesti di vittoria e pacche sulle spalle. Fra gli spiccioli c’era
anche Filo, il cui sonnecchiare mattutino, una volta messa a
tacere la sveglia, quel giorno l’aveva tradito. S’era
riaddormentato, sia pure per un attimo, sufficiente però a fargli
saltare l’autobus. Così aveva rispolverato il macinone, il vecchio
Golf che l’aveva protetto da quando aveva preso la patente. La
sua personale coperta di Linus.
Prima di rientrare si guardò intorno per vedere se c’era Amber.
La ricerca non diede il frutto sperato.
* *
“Aaahhh!” espirò con voluttà Ciarli nel poggiare la cornetta.
Una folata di piacere che gli stordì papille gustative,
circonvoluzioni cerebrali e i cinque sensi. Il sesto, quello buono,
rimase sulle sue, indifferente al collettivo appagamento.
Aveva appena parlato con Graspa, una dell’ufficio personale che
soffriva di disidrosi diffusa. Le si formavano un po’ dappertutto,
ma soprattutto nelle mani e nelle braccia, delle bolle piene di un
denso siero latteo. Un liquido dal vago sapore di cocco, che
procurava a lei un fastidioso prurito e ai colleghi che, trovandosi
nei paraggi, suo malgrado ne profittavano, un piacevole
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refrigerio. Era particolarmente richiesto d’estate, per dissetare
gole riarse. Ma anche d’inverno quel latte d’asina aveva non
pochi estimatori. Si diceva che l’effetto dissetante corresse
anche via filo.
Dopo una schioccata di lingua sonora quanto una frustata, Ciarli,
saputo da Graspa quello che voleva sapere, riprese possesso
della cornetta, ancora calda, e chiamò il suo ufficio. Rispose
l’angelo Magìro.
Il magirìta era un impiegato modello. Uno che, oltre alla
normale attività di angelo di Pallazzo, svolgeva fuori orario
anche una duplice meritoria attività di volontariato. Come
accompagnatore di giovani spostati da un posto all’altro per “Il
Convulso”, un’associazione per il recupero dell’identità, quanto
meno linguistica, degli spostati, e come testimone per “La
Benemerita”, una cooperativa di infortunistica senza scopo di
lucro che si offriva, a pagamento, di trovare testimoni a chi
aveva avuto un incidente d’auto senza aver avuto anche
l’accortezza di procurarsene uno. Magari falso o inesistente. La
Benemerita, per risaputa, quantunque non scritta, disposizione
statutaria, trovava tutti testimoni a favore di chi vi si iscriveva
richiedendone i servigi, indipendentemente dalla ragione, dal
torto o dall’incidente. La benemerenza di cui al nome della
cooperativa stava nel far del bene ai sempre più numerosi
iscritti. Il problema erano gli incidenti fra iscritti; l’uso dei
testimoni in tali casi. Nell’ultimo che c’era stato erano venuti
alle mani gli autori dell’incidente, tra loro e coi testimoni, a
favore e contro, e col presidente dell’infortunistica, che s’era
affrettato a sospendere lo statuto e a prendere tempo per
definirne uno nuovo. Stavolta scritto.
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E mentre il terzetto assisteva in un silenzio carico di nubi,
ognuno con dentro la sua propria tempesta, ai virtuosismi
telefonici di Ciarli, questi chiese all’angelo Magìro di Frollo.
* *
A metà mattina Filo partì per andare a prendere Amber. Dopo
aver attraversato la parte sicura, protetta del Pallazzo, s’inoltrò
per quella oscura. Incrociò un tizio vestito di giallo tuorlo dallo
sguardo bianco albume che cercava la sua padella antiaderente,
un altro che diceva a se stesso che, non essendoci più i
presupposti per un dialogo costruttivo, era meglio che ognuno
andasse per la propria strada, un altro ancora che correva
all’indietro per recuperare il tempo perso, un altro infine che
saltava da un piano all’altro convinto di realizzare economie di
scala. Finalmente, passati questi e altri tizi ancora,
apparentemente più vicini al punto di non ritorno di quanto non
fosse passato loro vicino lui stesso, attraversati corridoi deserti e
uffici abbandonati, con appendiabiti rinsecchiti, carcasse di
macchine da scrivere, computer da rottamare e fotocopiatrici
rotte a tutte le esperienze, Filo raggiunse la compagna di
merenda.
“Ogni promessa è debito.” esordì irrompendole alle spalle nel
suo ufficio rivoltato. Senza nascondersi che l’originalità della
frase era da numeri negativi.
“Filo!” esclamò lei nel girarsi, con un entusiasmo che gliela fece
sentire vicina. Dolce a calda come la cioccolata in tazza.
“Non ti ho visto prima a spostare la macchina.”
Amber aveva una macchina giapponese nuova di spolvero di un
colore indefinibile, però metallizzato. Un modello appena
uscito, uguale ai modelli appena usciti di altre case
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automobilistiche ma, se possibile, ancora più nuovo. Con un
nome strano, diverso dagli strani nomi che chi costruisce auto
sceglie per i nuovi modelli. Nomi diversi per modelli uguali.
“Non sono venuta in macchina.”
“Ah no?”
“No. Stamattina mi hanno accompagnato.”
“Ah.” incassò Filo, colpito al cuore. In fondo restava sempre una
plurimasterizzata con un’inveterata predisposizione per uomini
canuti, titolati e danarosi. All’improvviso gli era ritornata
lontana. Aspra e fredda come un collutorio per la gola.
“Mi ha accompagnato mio padre.” s’affrettò a spiegare Amber,
con un fremito di piacere che la fece vibrare dai ricci in giù. Filo
camuffò da esperto di yoga un sospiro di sollievo, facendolo
passare da espiro maestro. “Insegna all’università. Filosofia.”
Amber era, per dirla con la psicanalisi, innamorata del padre,
uno dei cervelli più raffinati di tutto il corpo accademico. Un
cervello sormontato da una chioma innevata e puntellato da un
tronco non proprio atletico, ma secco e nodoso quanto quello di
un greco antico. E in ogni uomo che rincorreva era sempre il
genitore che cercava di raggiungere. Qualcuno con un’età
matura, un conto in banca e qualcosa da insegnarle di continuo.
La sua collezione di master le stava stretta, le sembrava non più
di una pozzanghera a confronto del mare di sapere in cui
nuotava quel modello di erudizione.
A Filo parve di intravedere una fessura di luce in quell’oscuro
groviglio che era la mente di Amber.
“Filosofia era la mia materia preferita.” disse Filo, nell’intento
di allargare quella fessura.
“Davvero?! Anch’io volevo farla, ma poi ho fatto economia. E
qualche altra cosetta.”
111
Amber, in conseguenza di quell’innamoramento clandestino
anche a se stessa, per lo meno al suo lato conscio, aveva sempre
temuto il confronto col padre. E piuttosto che affrontare una
strada che comportasse il rischio di un raffronto con lui, anche
solo di sfuggita o alla lontana, aveva preferito prenderne una
diversa. Filosofia la leggeva di nascosto. Da clandestina.
“Un master non è una cosetta.” le sorrise Filo. “Scendiamo al
bar?”
* *
“Due settimane fa Frollo era in ferie.” scandì con malcelata
voluttà Ciarli, calando l’asso vincente. Metaforicamente. Di
fatto soltanto ammainando la cornetta. Dall’espressione si
capiva che il piatto era suo. Non solo per metafora. “Due
settimane fa, quand’è nata la pratica, l’avete detto voi” fece
rivolto allo sbiadito duo del controllo ”Frollo era a una festa in
maschera del gruppo “Tutti unti”, un’associazione per la
liberazione dalle scottature dell’emarginazione. Lui faceva la
maschera.”
Il Nero sbiancò di colpo, poi deglutì un grumo di saliva farcita
mista a bava cotta che gli provocò un principio di occlusione
delle vie respiratorie, mentre il Grigio fumava ostentando
un’aplomb da inglese. In realtà fumava dalla paura.
“Controlliamo i nostri polli anche durante le ferie?” chiese il dir
dei dir, con una punta di compiacimento nello scoprirsi, fra le
altre cose, anche allevatore a tempo pieno.
“Non tutti. Solo quelli che hanno... certi difetti.”
“E perché non l’abbiamo mandato nell’ala rotta?” chiese ancora,
nell’allevatoria ottica di tenere separati gli esemplari conformi ai
modelli canonici da quelli non conformi.
112
“Fa un lavoro che non sa fare nessuno.”
“Lo insegni a un altro.”
“Pare non riesca a impararlo nessuno, è troppo complicato. O
forse, per la stessa ragione, non vuole impararlo nessuno.
Consiste nel calcolo geometrico previsionale delle pratiche
secondo le fasi della luna. Un lavoro che richiede intelligenza. E
fortuna.”
“Che peccato, intelligente e dell’altra sponda.”
“Ce ne sono molti di questi casi, sa?” scappò detto al Grigio, che
appena lo disse avrebbe voluto sparire. Nondimeno si girò a
cercare gli occhi del suo fresco compagno di nottata, per
cogliervi quel consenso che prima non gli avevano fatto
mancare. Stavolta vi colse invece due lampi che lo fulminarono
sul posto.
“E lei come lo sa?” gli cantò Ciarli.
“Le faccio i miei complimenti!” tuonò d’un tratto al Nero il
direttore, più aspro del succo del limone verde, togliendo
inconsapevolmente d’impaccio l’incauto difensore dei “diversi”.
“E anche a lei, naturalmente!” rituonò verso il Grigio.
Il direttore conosceva bene le regole della gerarchia, così,
benché il Nero finora avesse fatto scena muta, era a lui che il
garante di tutte le gerarchie si rivolgeva per primo.
Il Nero guardò il Grigio farsi di sasso, per poi cadere vittima
anch’egli di uguale, paralizzante sortilegio. Erano stati scoperti.
Si sentì perduto, e all’improvviso avvertì sulle spalle tutto il
peso di un mondo ingrato. Un mondo che, dopo aver preso
stabile possesso della sua schiena, si divertiva a schiacciarla e ad
affossarne lo sfibrato contenuto osseo.
“Non solo non avete trovato la pratica, ma avete trovato pure il
colpevole sbagliato!”
113
No, non erano stati scoperti. Il mondo gli stava crollando
addosso, ma non tutto assieme. A pezzi più o meno grandi.
Stava perdendo quello che aveva poco alla volta. La faccia però,
almeno quella, era salva. Per ora.
“Sistemo tutto io.” intervenne Ciarli rialzando la cornetta. La
partita non era ancora finita. “Faccio intervenire Giona.”
* *
Dopo la sventata razzia dei lanzichenecchi in divisa, nel
Pallazzo era tornata una calma di cristallo. Anche nell’ufficio di
Punto e Tacco. Il trillo del telefono la mandò in frantumi.
Punto e Tacco erano due che lavoravano in tandem. Tanto che,
quando uno non c’era, all’altro sembrava di pedalare per due.
Per la velocità sul lavoro Punto aveva soprannominato Tacco
Fulmine, e per la stessa ragione Tacco aveva soprannominato
Punto Fulmine. Con una tale ripetuta, costante e cocciuta
continuità che il soprannome era diventato il nome. Per loro e
per tutto il Pallazzo.
Solo che questa identità di epiteto aveva sollevato problemi di
trasparenza telefonica, dal momento che, via filo, non si sapeva
mai bene con quale Fulmine si stesse parlando. Qualcuno
suggerì loro che uno dei due cambiasse soprannome all’altro,
ma ciascuno trovava che il nomignolo dato al compagno di
pedale fosse talmente calzante da non prendere affatto in
considerazione l’idea di cambiarlo. Al limite, se proprio, per
inderogabili esigenze di trasparenza pallazzesca, si doveva
cambiare, avrebbe dovuto semmai essere l’altro a inventarsene
uno nuovo per il compagno.
I Fulmini facevano tutto di fretta. Compreso il dormire, a tempo
di caduta libera, e il sognare, a tempo da film muto, per poi
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svegliarsi di soprassalto e affrontare la giornata di corsa. Si
fermavano solo al mare, in vacanza, piantati sotto l’ombrellone,
a fissare impalati gli squilibrati che correvano sulla battigia per
smaltire in dieci giorni le tossine di un anno d’ufficio. Una
mutazione di samsiana memoria, con immediato ritorno alle
origini alla fine della vacanza. E, pur essendo fisicamente
diversi, col tempo avevano finito per somigliarsi come due
gemelli omozigoti. Punto era partito alto e magro, Tacco basso e
tarchiato. S’erano ritrovati entrambi uniformati in una taglia di
mezzo, sul medio standard. Le due classiche gocce d’acqua.
Pensare che Punto era partito Punta, circostanza questa di cui
nemmeno Tacco era a conoscenza. Punto cioè era nato donna,
ma già da bambina aveva dato tanti e tali segni di mascolinità
che, caso unico nella storia dei cambiamenti di sesso, furono i
genitori a pregare i medici che la operassero. Uno per tutti,
quello di spogliare le bambole senza rivestirle, e giocare a far far
loro i lavori di casa coperte solo da un grembiule non più grande
del fazzoletto da taschino di una coccinella.
Le stesse mogli avevano finito per confonderli. Tanto da correr
voce che uno se la facesse con la moglie dell’altro, pensando di
farlo fesso. Ma correva pure voce che fosse l’altro a far fesso il
suo omonimo, filando con la di lui consorte. Nessuna voce però,
per quanto corresse, lo faceva abbastanza da esser certa di
spuntarla sull’altra, stante la somiglianza dei ciclisti su cui la
gara si svolgeva. Sicché anche il vostro narratore, per una volta,
sospende il giudizio, assicurando che potrà essere più preciso
dopo appostamenti mirati sotto casa di uno dei due Fulmini a
caso.
I due avevano finito per diventare amici, e amiche intime le
mogli. Talmente intime da non accorgersi sia di quando
cambiavano Fulmine che di quando non lo cambiavano. E il non
115
sapere se il partner di turno era il proprio o quello dell’altra,
dava al rapporto in generale e all’amplesso in particolare un che
di clandestino e legale insieme, da farle sentire a un tempo fedeli
e adultere, viziose e sante. Così amiche da vestire e atteggiarsi
uguale; pensare, infuriarsi e farsi le pulci uguale, al punto da
finire per somigliarsi anch’esse quanto le classiche gocce
d’acqua e i meno classici Fulmini. Il risultato era che nessuno si
accorgeva più di nulla. Erano diventati tutti fungibili come le
noccioline americane, indistinguibili a loro e agli altri. Le copie
di ciò che erano una volta. Senza più la possibilità di risalire agli
originali.
“Vogliono Fulmine al telefono.” disse Glauco, il terzo incomodo
dell’ufficio, che aveva risposto alla chiamata.
“Chi è?” chiesero i Fulmini.
“Tua moglie.”
Risposero entrambi.
* *
“Un cappuccino.” ordinò Filo alla barista. “Ben caldo.”
Fra il “cappuccino” e il “ben caldo” passò un secondo e
qualcosa in tempo reale -espressione pleonastica, si dirà, ma che
rende l’idea che il tempo, per quanto in apparenza relativo, o,
più propriamente, soggettivo, è uguale per tutti. Sia per chi sta
sotto il trapano del dentista che per chi sta sotto le pelvi di una
pin-up.- Tempo nel quale Filo realizzò che fuori faceva un
freddo da pelare le dita. Un freddo così affilato da infiltrarsi
nella temperatura interna del bar e in quella ancora più interna
della barista. Abbastanza per pretendere dalla meteoropatica il
cappuccino come lo voleva, bollente.
“Io prendo un tè.” ordinò a sua volta Amber “Tiepido.”
116
La donna del meteo la squadrò con un occhio più basso
dell’altro. Poi appoggiò quello sguardo sbieco su Filo, a
chiedergli muta: “Sta con te una così? Una che col freddo che ho
addosso prende una cosa tiepida?”
Amber non era mai scesa al bar. Aveva però in curriculum, fra
gli altri, un master polimerico in lettura di sguardo asimmetrico,
scambio di occhiate con correzione automatica della
punteggiatura e messa a nudo di espressione sottecchi. Afferrò
quindi il problema all’istante.
“Anzi, facciamo caldo.”
La barista assentì compiaciuta, fiera della sua clientela vecchia e
nuova.
“Li prendiamo al tavolo.” disse Filo.
“Accomodatevi pure, ve li porto io.” amicaleggiò la
meteoropatica, ormai definitivamente acclimatata.
“Ci sono novità su quella voce?” chiese Amber una volta seduta.
“Sulla pratica scomparsa? Nessuna.”
“Ma com’è possibile che sia sparita? A me hanno sempre
detto...”
“Che non si perde mai niente?” la interruppe Filo, prima di
scuotere gli occhiali. “Tu non hai idea di quello che si perde là
dentro. Solo che quello che non si trova non viene certo
pubblicato sui giornali. E se qualcuno ha avuto bisogno di
qualcosa che non s’è trovato, o gli s’è dato in cambio
qualcos’altro, o l’ha presa elegantemente in quel posto. Si vede
che stavolta questo qualcuno ha alle spalle qualche pezzo
grosso.”
“Non riesco a crederci.” disse lei, quasi a scrostarsi di dosso le
certezze del passato. Intanto arrivavano le consumazioni da
consumare. Bollenti. “Secondo te dov’è finita?”
Filo le dedicò un’apertura di braccia da nullatenente.
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“Potrebbe essere dappertutto. Imbucata in mezzo a un’altra,
buttata nella carta da riciclo, gettata via per errore o per gioco,
usata per farci freccette.” rispose “Chissà, magari è sotto chiave
nell’ufficio di Acìdio... Sto scherzando” aggiunse con un
sorriso.
“Non l’hanno più riaperto?”
“Sì, figurati! A parlare di Acìdio gli uomini si toccano e le
donne, non avendo di che toccarsi, si mettono una mano davanti
alla bocca, forse per paura di respirare aria di morte. In ogni
caso cambiano tutti discorso. Hanno svuotato l’ufficio, l’hanno
chiuso e hanno buttato via la chiave. Almeno così hanno detto.”
Amber scosse piano le fronde, prima di abbassarle sulla sua
tazza fumante.
“E’ la morte.” sospirò Filo “La morte non è cosa che riguardi il
Pallazzo. E’ qualcosa da tenere fuori, e se per sbaglio ci è
entrata, da far uscire prima possibile. Lo spettacolo, come si
dice, deve continuare. Anche se è di quelli che non fanno
ridere.” concluse affogando la tristezza della considerazione in
un liquido caldo e forte, succedaneo dell’amniotico ma
dall’inconfondibile sapore di caffellatte.
* *
“E’ fatta.” esclamò Ciarli nel mettere a riposo la cornetta. I tre
penzolarono pericolosamente dalle sue labbra, prima di atterrare
sani e salvi sul suo “Sta arrivando Giona.”
“E chi sarebbe?” chiese il direttore rialzando voce e cresta.
Giona era il fiore all’occhiello dei creativi, l’ufficio
specializzato nel riprodurre per clonazione scribacchino-
amanuense quelle pratiche che per un motivo o per l’altro si
erano volatilizzate. Nel rifarle identiche a quelle involate. Al
118
momento il creativo per eccellenza si trovava in uno dei tanti
uffici periferici del Pallazzo, tutti circolari al pari di quello
centrale ma molto più piccoli.
Giona era il migliore nel suo lavoro, specie nella cura dei
particolari -una cura ossessiva, ai limiti del delirio paranoico-; il
più scrupoloso e testardo nel ricreare lineamenti e sfumature,
ricami e svolazzi, fragranze e umori.
In realtà il novello amanuense non aveva nulla di creativo,
poiché la sua arte copiativa non lasciava niente al caso e, per
l’appunto, alla creatività. Più che un artista, Giona era uno
specialista del doppio, un esperto del clone, uno scienziato del
falso. Un falso d’autore.
La pratica che usciva dalle sue mani non aveva niente in comune
con le altre. Era qualcosa di assolutamente diverso, pur essendo
uguale in tutto e per tutto all’originale. Un capolavoro di abilità
copiativa; un’opera d’arte. Con una fattura da tempo di opera
d’arte. Perché l’ultima cosa che gli si poteva chiedere era la
velocità.
Ecco chi è Giona, aveva concluso con orgoglio Ciarli, dopo
averne cantato le lodi. Colui che avrebbe risuscitato la pratica
scomparsa.
“Quindi lei sostiene che nessuno può accorgersi che la pratica
che esce dalle mani di Giona è una copia?” chiese il capo
supremo del Pallazzo.
“Nessuno.” assicurò il cantore “Indipendentemente dal fatto che
l’abbia vista o meno. Perché c’è qualcuno che la vuol vedere,
no?”
“Certo che c’è qualcuno che la vuol vedere.” rispose sprezzante
il supremo “Altrimenti noi che la cerchiamo a fare?!”
“Già.” convenne Ciarli. “Però occorre la sua firma per
autorizzare la copia di una pratica.”
119
“E chi l’ha detto?”
“Lei, direttore; nell’ordine di servizio contro i falsi... ““Posto
che mai i reggitori del Pallazzo hanno avuto notizia o
cognizione, sia pur flebile, sfumata o fittizia, di pratiche
smarrite...”” prese a declamare l’angelo degli angeli, mostrando
di cavarsela anch’egli nel riprodurre, sia pure solo in sonoro, se
non pratiche, ordini di servizio e circolari “”...si dispone che
ogni richiesta di copia di pratica dovrà essere preventivamente
autorizzata dal signore pro-tempore di tutte le pratiche, e da
questi formalmente licenziata secondo...””
“Basta, basta, ora ricordo.” lo interruppe il signore pro-tempore
“Ehm, una prosa un po’ aulica, forse...”
“Un tantino.” ammise Ciarli, per non dispiacere la direttoriale
osservazione del momento ma nemmeno il sempre direttoriale,
per quanto datato, ordine di servizio.
“E’ che è passato del tempo. E poi è il primo caso di una pratica
che non si trova.” mentì il direttore sapendo di mentire.
Il trio non disse nulla. Il dogma dell’infallibilità di Sua
Dirigenza quando parlava ex cathedra non consentiva di mettere
in discussione il Verbo Pallazzesco.
“Eccole la sua autorizzazione.” disse a Ciarli passandogli un
foglio autografato preso da un cassetto. Alla chiusura di questo
la montagna di carta sulla scrivania ebbe un sussulto, ma non si
mosse. Il pericolo di frane cominciava a essere alto. “E ora
lasciatemi solo.”
Allorché i tre furono usciti il maratoneta da camera si alzò e
riprese a mulinare intorno alla montagna bianca, finché alcune
fitte ai muscoli delle gambe gli consigliarono di risedersi. Fitte
che imputò all’età e alla vita sedentaria figlia del suo lavoro.
Non sapeva, il Fidippide dei direttori, di aver macinato
chilometri da che era partito per il suo scaramantico viaggio
120
rotatorio. Un viaggio della speranza alla ricerca della pratica
perduta.
* *
“Non vuoi che ti accompagni?” chiese Filo ad Amber, una volta
tornati fra i vetri di casa. Vicino al confine fra la parte protetta,
cristallina del Pallazzo, e quella oscura.
“No, grazie.”
“Sicura?”
“Sicura.”
“E’ che nei corridoi ci girano certe facce ...”
“Ma che stai dicendo, Filo?! Io nell’ala rotta ci lavoro, non ci
passo semplicemente.” ribatté con una punta di fastidio, prima di
sgusciargli un sorriso triste “Anche se ora non faccio nulla. Non
ho nulla da fare.”
Nell’ala rotta nessuno faceva niente. Niente che avesse una
qualche parentela, lontana o remota, con una qualsivoglia
attività lavorativa che si svolgeva fra quei vetri. Perché l’unica
cosa che paradossalmente mancava in quel luogo di lavoro, per
quanto bislacco e strampalato fosse, era il lavoro, che il Pallazzo
cosiddetto “normale” si guardava bene dal concedere ai suoi
inquilini “diversi”. In compenso concedeva loro uno stipendio,
sia pure ridotto rispetto a quello degli altri, mettendosi con ciò la
coscienza in pace, e facendo sentire quegli esseri già dipendenti
dalle loro manie, dalle loro tare e dai loro errori, ancora più
dipendenti da quei fantasmi. Il lavoro dunque, ciò che poteva
essere per quegli sfortunati occasione di riscatto e di rivincita,
era loro precluso dalla lungimiranza a scartamento ridotto dei
vertici pallazzeschi.
121
L’ala rotta era una sorta di grande parcheggio; anzi, un grande
dormitorio. Con la differenza che la gente non ci dormiva.
Almeno non nel modo in cui lo fa di notte. Anche se in realtà era
come se dormisse, facendo solo passare il tempo a occhi aperti.
Era l’anticamera della pensione, del licenziamento o della
pazzia. Solo di rado, troppo di rado, della resurrezione.
“E poi, nonostante le facce, non sono pericolosi.” continuò
Amber ”Ieri, è vero, per un attimo ho avuto paura, ma in realtà
sono innocui. Sono molto più pericolosi “quelli”.” aggiunse
puntando il pollice verso la parte sana del Pallazzo.
“Solo due passi.” insisté Filo.
Amber gli sgranò prima una smorfia e poi una moina, e i due si
incamminarono per la parte insana. Appena passato il confine
corse loro incontro il tipo giallovestito dagli occhi bianco
albume, che brandiva una specie di mazza tonda.
“Ehi, voi, venite dentro con me!” crepitò quando fu loro di
fronte, appoggiando per terra l’arma letale. La famosa padella
antiaderente.
“Dentro dove?” azzardò Amber dopo aver guardato Filo.
“Dentro la padella!” ribatté quello dilatando il bianco dell’uovo.
“A fare che?” chiese Filo, quasi che la domanda avesse un
senso, e anche la risposta, di riflesso, dovesse averne uno.
“A friggere!” scoppiettò euforico l’aspirante cuoco “Mancate
solo voi. Qui dentro si sono fritti tutti. L’uomo leopardo, il
deambulante clinico, il solipsista ostile, l’indietrologo, il
saltapiani, il fallocrate, gli andati. Tutti quelli che abitano qui. E’
il battesimo dell’ala. Io sono stato il primo a esserci spedito, e
quando viene qui uno nuovo io lo battezzo entrando con lui nella
padella e friggendo assieme a lui. E dopo il battesimo quello
diventa uno di noi. Solo che da qualche giorno non riuscivo a
trovare la padella.”
122
“Senti” gli sorrise Amber “oggi vado di fretta. Magari un’altra
volta. D’accordo?”
“E tu?” ribatté quella parodia di uovo in rilievo, dirottati gli
occhi acquosi su quelli di Filo.
“Eh?... Ah, s-sì, anch’io... un’altra volta.”
“Okei” assentì l’affittapadelle masticando dolceamaro “Non c’è
problema.” e si allontanò caracollando. Fatti tre passi si girò
verso il duo con la faccia sottosopra. “Ehi, qui ci friggiamo per
finta. Non siamo mica matti!” ed esplose in una risata che
straboccò dal corridoio, prima di filarsela a gambe levate.
“Non sono pericolosi.” sospirò Amber “Hanno solo bisogno
d’amore. E di rendersi utili.”
Filo le inviò uno sguardo carico d’affetto e di altre cose buone.
Alcune lecite, altre meno. Arrivati sulla soglia dell’ufficio di lei,
si salutarono in fretta, dopo essersi dati appuntamento in mensa
per la pausa pranzo. Amber però ebbe il tempo di notare sulle
tempie di Filo un principio di capello bianco. Era un po’ troppo
giovane per i suoi gusti, pur avendo sicuramente qualche anno
più di lei, ma quei capelli promettevano un imbiancamento
veloce, e un po’ tutto in lui lasciava presagire che sarebbe
incanutito prima di quanto si aspettasse.
Filo s’avviò verso il suo desco da lavoro col carico delle
sorprese della mattina. Di fronte all’ufficio, per soddisfare
un’impellenza dirottò verso il bagno, con la pacifica certezza
che quel giorno, per il più scontato calcolo delle probabilità, non
ce ne sarebbero state altre. Si sbagliava, le sorprese non erano
finite.
* *
123
Nell’ufficio del riccio c’era un silenzio da camera ardente. Tutti
stavano seduti a testa china dando a intendere di lavorare, ma in
realtà col fondo nascosto delle pupille guardavano Toni. In
compenso Toni, che sapeva di essere la causa di quel silenzio,
stava seduto anch’egli a testa china facendo finta di sbrigare un
qualche lavoro, ma con la coda dell’occhio sbirciava i colleghi
che lo guardavano sottecchi mentre fingevano di lavorare.
L’unico a non fingere era Capodaglio.
Era questi il principe dei raccomandati. Colui a cui la stessa
fauna del suo stampo guardava come modello da raggiungere;
come esempio di raccomandato ideale, e perciò assoluto.
Quando un collega gli dava un lavoro da fare lui chiamava la
capitale, e subito dopo qualcuno, dalla capitale, chiamava il
malcapitato che gliel’aveva dato perché glielo togliesse. Il
qualcuno in questione era suo padre, massimo esponente delle
pratiche nazionali. Essendo destinato per diritto d’appoggio a far
carriera, ragionava il praticone della capitale, era inutile che il
rampollo fosse costretto anche ad affaticarsi.
Dopo le prime telefonate al Pallazzo avevano mangiato la foglia,
e nessuno s’era più azzardato a dare qualcosa da fare a quella
specie di mosca bianca, che passava pertanto le giornate in un
ozio olimpico. Ecco perché Capodaglio era l’unico che guardava
Toni senza fingere di lavorare.
“Perché non ci racconti? Ti libereresti, staresti meglio.” disse al
riccio il simil-cetaceo -l’ozio lavorativo, sommato a quello
extralavoro, non aveva giovato alla pinguedine di famiglia, che
s’era estesa a quelle fasce del litorale corporeo che non vi
avevano frapposto ostacolo. E al momento ogni sua diga
risultava aver ceduto irreparabilmente-. Capodaglio che, non
sapendo come far passare il tempo, avrebbe trovato carino farlo
passare discettando di disgrazie altrui.
124
Toni si trovò addosso lo sguardo di tutta la stanza, che alle
parole del balenottero aveva alzato la testa, ponendo fine alla
finzione lavorativa. Non aveva fatto eccezione Pfazzi, che
nell’occasione aveva chiuso nel cassetto il suo femminismo da
asporto.
Alzò il suo occhio triste anche Effimero, il turnista. Effimero,
Fintanto, Fugace, Incerto, Casuale, erano tutti nomi di turnisti.
Anzi, per la precisione, nomi da turnista.
In effetti il Pallazzo, per non saper né leggere e né scrivere,
sceglieva i turnisti fra coloro i cui nomi davano maggiori
garanzie di precarietà. Tutto per non essere costretto ad
assumere a fine turno quelli che non avevano le spinte giuste,
pallazzesche o sindacali, per essere assunti.
Nell’alzare lo sguardo Effimero si chiese se dopo il turno
l’avrebbero confermato o se, al pari di tutti quelli senza santi,
sarebbe stato rimpiazzato da altri con più accreditate doti.
Avrebbe interpellato Segùro in merito.
L’ultima ad alzare la testa, pur essendo partita fra i primi, fu la
Zufola, una che faceva le cose a una velocità tale che la vecchia
nonna l’aveva pregata, il giorno che fosse venuta la sua ora, di
andare lei a prenderle la morte. Avrebbe così avuto la certezza di
disporre di una razione di tempo supplementare rispetto a quello
che il destino le aveva riservato.
Toni non rispose. Era lontano, il pensiero preso dalla prima
rossa della sua vita che l’aveva fregato. La prima rossa da cui,
forse, avrebbe voluto farsi fregare.
* *
La sorpresa fu che, quando Filo andò in bagno, ci trovò la carta
igienica. Dopo anni di altalenante latitanza -nel senso che
125
appena arrivava spariva-, nei bagni aveva fatto l’ennesima
ricomparsa il prezioso rotolo bianco. Una ricomparsa che il
distributore cilindrico a muro a cui mostrava d’essere finalmente
ancorato per la vita prometteva stabile e duratura.
Non che in quegli anni la carta igienica, di per sé, avesse dato
segno di soffrire di problemi di estinzione della specie. Il
Pallazzo, anzi, aveva avuto cura che al suo interno crescesse e si
moltiplicasse. La mano dell’uomo però, non meno di quella
della donna, aveva sempre colpito in modo sistematico e
pervicace i pregiati rotoli quando questi arrivavano in massa nei
luoghi di raccolta convenuti, i bagni. In questa sorta di riserva di
caccia, infatti, al riparo da occhi indiscreti, una folla di mani
senza volto ghermiva proditoriamente i candidi involti, al fine di
sfruttarne i morbidi veli per bassi fini personali da assolvere a
domicilio. E più il Pallazzo ne raccoglieva, più i suoi inquilini
coatti ne sottraevano, portandoseli a casa schiacciati in borse,
borselli, tasche, marsupi. Finanche in mezzo ai pantaloni o sotto
cappotti sformati. Col rischio di dover far includere il rotolo
bianco nella lista delle specie protette.
In sostanza la carta da bagno, fra quei vetri, aveva perso la sua
intrinseca funzione di igienico pulimento di quelle certe parti del
corpo, per diventare una voce dello stipendio. Un benefit, sia
pure sui generis, prezioso e ricercato. Per quanto nient’affatto
autorizzato dai regolamenti pallazzeschi.
L’effetto pratico era che nei gabinetti la carta igienica non c’era
mai. Con conseguenze più o meno gravi per i frequentatori
obbligati di quei bagni, a seconda del tipo di urgenza dei
medesimi. Filo, come la maggior parte di questi, si era
organizzato con fazzoletti di carta e salviette alla menta. Il
problema era più serio per gli occasionali ospiti del Pallazzo,
clienti, fornitori o altro. Costoro infatti, ignari della deficitaria
126
situazione cartacea dei servizi igienici, entravano in tutta
tranquillità in gabinetto, si liberavano del superfluo, e non
trovavano poi niente con cui liberarsene definitivamente. Molti
si arrangiavano con mezzi di fortuna, ma non mancava chi
usciva a gambe larghe o camminando sulle uova.
Da tempo era stato proposto che la carta igienica, anziché
impilata in bella vista sulla cassetta della tazza, fosse incardinata
dentro distributori cilindrici a muro, per scoraggiarne, o quanto
meno renderne più difficoltoso, il trafugamento. Ma problemi di
costo dei congegni e, pare, di difficoltà nell’azionarli da parte
del poco avvezzo a srotolare popolo dei vetri che, nell’incertezza
da che parte tirare, tirava da entrambe, l’avevano impedito.
Qualcuno però doveva aver pensato, oltre ai costi e al resto,
anche al risparmio di rotoli e all’intrinseca necessità dei
medesimi in loco, e la situazione, non si sa come né quando, né
interessa più di tanto il saperlo, si era sbloccata. Il risultato stava
lì, davanti agli occhi di Filo; la carta igienica era ritornata. Forse
per sempre.
* *
I tre reduci dell’ufficio sovrano del palazzo di cristallo,
richiusa dietro le spalle la porta in legno pregiato del suo regale
abitatore, si accomiatarono da buoni colleghi. Ciarli salutò i due
controllori gelido come l’inverno polare, prima di riprendere la
strada degli angeli. Il duo rispose a quel saluto di ghiaccio con
uno più freddo, per poi far ritorno nell’ufficio del controllo.
Un ufficio a tempo, visti gli esiti della loro ultima impresa.
Sia di quella ufficiale, di cui erano stati incaricati
d’autorità, che di quella, per così dire, personale, di cui si erano
incaricati da soli. Vi entrarono e si sedettero ciascuno alla
127
propria scrivania, in compagnia unicamente dei rumori delle
cose che facevano muovere o che si muovevano di proprio o
incontrollato moto.
E se si fosse sparsa la voce?, si trovò a rimuginare il Nero,
cercando di scacciare, senza risultato, quel pensiero infido. Non
la voce del suo fallimento professionale, che di sicuro era già
partita, e al cui veleggiare col vento in poppa non sarebbe stato
estraneo il soffio di maestrale di Ciarli, quanto quella della sua
bravata notturna. Quale soffio avrebbe potuto gonfiarne le vele?
Non quello del Grigio, che così avrebbe visto naufragare anche
se stesso. No, quella voce non avrebbe mai potuto mollare gli
ormeggi. Era come se fosse stata chiusa in una cassaforte di cui
soltanto due persone avevano la chiave, e la cassaforte sotterrata
in un angolo di mondo conosciuto solo a quelle.
E se li avesse visti qualcuno? O qualcuno li avesse sentiti? Se
fosse rimasto registrato qualcosa? O qualcosa li avesse traditi? Il
pensiero lo faceva cuocere a fuoco lento, come un arrosto in
casseruola. Più rimuginava e più sentiva aumentare il calore.
La cottura fu interrotta da un trillo. Doveva essere arrivato al
tempo fissato dall’orologio del forno di cucina per essere
mangiato. Al primo trillo ne seguì un secondo. Era il telefono.
Quando il Nero avvicinò la cornetta all’orecchio e sentì la voce
della moglie, avrebbe voluto tornare in quella casseruola dal cui
pensiero era appena uscito. La moglie però aveva una voce
diversa, nel timbro il miele dei primi giorni e l’ardore delle
prime notti.
Era accaduto che la consorte, ripensando al costo delle gemelle
ma soprattutto a quelli suoi propri, fatti due conti su quanto
avrebbe potuto ottenere in caso di divorzio, considerati gli
alimenti, il superfluo, gli extra e tutto il resto, nel timore di non
poter più fare la vita che faceva con lo stipendio del marito, la
128
consorte aveva deciso di sotterrare l’ascia di guerra. Gli disse
che era stata in pena per lui, che era preoccupata, che tornasse a
casa. Lui, pur con le viscere in subbuglio, le disse che stava
bene, che era tutto a posto; le assicurò che sarebbe tornato, le
chiese com’era andata coi Fasti. Lei gli rispose che i Fasti
avevano capito; per quanto nuotassero nell’oro era gente che
sapeva che gli impegni sono impegni, le responsabilità
responsabilità, i sacrifici sacrifici. E le scuse scuse, pensò senza
dirlo. Si salutarono con ritrovato affetto. Tanto da suonare falso.
Il Grigio colse in quel sordo parlottio il segno della sua
sconfitta. Se mai c’era stata battaglia.
* *
Filo lasciò il bagno e raggiunse l’ufficio. Come entrò e vide che
mancava Sotto, sbalordì.
Sbalordì perché Sotto era uno che non mancava mai, nemmeno
se aveva un qualche malanno. Quando Sotto era malato stava
infinitamente meglio di quando Filo era in piena salute. Per lui
la malattia era un concetto vuoto, privo di riscontro nella vita
reale. Qualcosa tipo l’araba fenice o il senno di poi. Gli dissero
che era andato a donare il sangue, e che l’avevano prima
trattenuto e poi ricoverato in ospedale. Strano perché lui era uno
che tornava sempre, magari su una gamba sola o con un braccio
al collo, ma senza mai farci caso o darsene pena. Mentre chi
andava a donare il sangue si prendeva il giorno intero e a volte
anche quello dopo. Ricoverato per accertamenti sul gruppo
sanguigno. Non uno ma due. Forse un effetto collaterale -uno
dei tanti- della sua attività di appendice. Ma in ospedale certe
figure professionali non le conoscevano.
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Filo decise di approfittare della mancanza del terzo occhio di
Prillo per scendere al piano terra. L’idea era di dare un saluto a
Paddi, un suo ex compagno del liceo, ritrovato per
combinazione fra quei vetri, che s’era appena laureato in scienze
marine.
Lo trovò che stava commentamdo assieme ai compagni di stanza
una carta millimetrata fissata alla parete. Carta su cui si
sviluppavano una serie di linee dall’andamento altalenante o, per
meglio dire, in ossequio alla sua fresca laurea, ondivago. Era
l’umorometro dell’ufficio, una sorta di borsa dell’umore dei
colleghi di concubinato, trasposta su carta e monitorata giorno
per giorno, come il decorso di una delicata malattia. L’umore
era desunto da un breve pensiero scritto da ciascuno su un post-
it, abbinato a un’istantanea fotografica del suo autore effettuata
da Paddi con una vecchia Polaroid, omaggio di un abbonamento
a una rivista sui frutti di mare. Una metodologia sperimentale
per testare l’umore delle risorse umane del Palazzo.
Paddi fungeva da umorista, cioè da soggetto deputato a
registrare sull’umorometro l’umore dei compagni di lavoro.
Ucchio, un cui audace motto di spirito a una collega che passava
per allegra e a cui faceva il filo era stato rimpallato dalla stessa
in malo modo, era stato sospeso per eccesso di ribasso. Sempre
per eccesso, ma stavolta di rialzo, era stato sospeso Anfri, al
settimo cielo per aver battuto a Risiko gli amici la sera prima.
Anfri era uno che godeva di un umore mediamente buono anche
nelle cose d’ufficio, in ragione della singolarità del suo operare.
Lui seguiva solo la parte centrale del lavoro; quella iniziale la
curava un collega e quella finale un altro. Anfri si occupava solo
della parte di mezzo. Il cuore del lavoro, scartata la testa e la
coda. Qualcosa di simile al procedimento per ottenere una buona
grappa.
130
Quanto al morale degli altri, qualcuno galleggiava a fatica sopra
la linea dello zero, qualche altro affogava al di sotto della linea
spartiacque, altri ancora galleggiavano e affogavano a giorni
alterni.
A Paddi, che faceva parte degli stentati emergenti del primo
gruppo, Filo chiese se quella sera andava di uscire con lui. Di
parlare dei vecchi tempi e dei nuovi. Paddi accettò con
entusiasmo, marcando sull’umorometro un sensibile aumento
del proprio umore personale.
* *
“E-c-c-c-olooo!” eiaculò con gutturale gorgheggio Segùro,
penetrando nel funereo silenzio dell’ufficio del riccio e
sbandierando il dattiloscritto in cubitale.
La camera ardente lo accolse come se non fosse entrato. Un
qualunque tipo di insetto avrebbe destato più considerazione.
Quanto meno in un entomologo o in colui intorno al quale
l’astratto insetto in questione si fosse divertito a girare intorno.
“E’ successo qualcosa?” chiese il neosindacalista gnoseologico,
colpito a freddo dall’entusiasmo che aveva scatenato la sua
gorgogliante introduzione.
Toni alzò il raggio laser del suo sguardo, mirò al bersaglio
grosso e sparò, strinando però sempre e solo la peluria esterna.
Senza intaccare minimamente quella del cuore.
“Non c’è Vaina?” continuò lo strinato.
“Lo vedi il suo giaccone?” rispose Pfazzi con la cordialità di uno
spigolo.
“No.”
“E allora vuol dire che non c’è.”
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Vaina aveva un giaccone cammello ammaestrato, figlio di un
vecchio cappotto del deserto, ora in pensione per esauriti limiti
di chilometraggio, che, a semplice fischio, seguiva la sua
padrona ovunque.
“Che ha fatto?”
“Una colichetta. Torna fra diciassette giorni.”
“Certo che diciassette giorni per una colica!...” esclamò
l’impiegato da taschino muovendo su e giù una testa senza collo.
Un miracolo dell’ingegneria genetica.
Occorre sapere che Segùro e il suo sindacato popolare e
populista avevano introdotto una radicale innovazione nelle
assenze per malattia. Lo scopo era di disincentivare le assenze
brevi, la malattia di un giorno o due, non considerata vera
malattia ma solo il pretesto per riposarsi a pagamento. Assenze i
cui costi falcidiavano le casse del Pallazzo quanto il passaggio
delle cavallette quelle del proprietario di un campo di grano. A
tal fine Segùro aveva disposto che i giorni di mutua dal primo al
sedicesimo venissero penalizzati con una trattenuta in busta
paga. Solo la malattia lunga, l’unica considerata vera malattia,
non dava luogo a trattenute; quella, per l’appunto, di diciassette
giorni. In tal modo il sindacato mostrava di recepire le istanze di
contenimento dei costi provenienti dalla direzione e nel
contempo di non essere superstizioso.
Solo che, dal giorno in cui il vate del nuovo sindacalismo aveva
cambiato le cose, fra quei vetri non s’era mai data malattia di
meno di diciassette giorni. Con un iperbolico aggravio della già
disperata situazione dei costi del personale per le assenze della
specie. In sostanza quelle economie che i vertici del Pallazzo e il
sindacato si prefiggevano di realizzare, scoraggiando i suoi
riluttanti inquilini dallo starsene a casa quando la sera prima
avevano fatto le ore piccole o ecceduto con gli alcolici, quelle
132
vagheggiate economie si erano trasformate in voragini di spesa.
Il rimedio era stato peggiore del male.
“Beh, così almeno non si rischiano ricadute.” disse Segùro, non
senza una punta di vergogna. Lui che da bambino non si
vergognava neanche a ripassare di nascosto le tasche dei suoi,
per investirne il ricavato in bilie e gelati. Fu lì che gli spuntarono
i primi peli sul cuore. Poi, nel crescere, aumentarono.
Fu colpito al volto da una scarica di occhiate che ne minarono la
stabilità verticale e lo consigliarono di riprendere la via della
porta.
“Posso chiedere una cosa?” gli domandò Effimero, alzando
l’indice della mano destra sopra la spalla a cui era attaccato il
braccio che la sosteneva.
* *
Filo lasciò l’ufficio di Paddi con la gioia leggera di averne
sollevato di quel tanto il morale, ma ancor di più di rivederne
quella sera stessa il buffo muso di spugna. Dai tempi del liceo la
faccia non gli era cambiata di un poro. Era rimasto identico,
tanto che a Filo sarebbe bastato chiudere gli occhi per vederlo
commentare, di fianco alla cattedra, il mito dell’auriga, o
vederlo corteggiare, appoggiato al banco, il mito della classe,
Estrella.
Già a scuola Estrella era un tale schianto in erba che i genitori,
per regolamentare il flusso casalingo degli spasimanti -non tutti
altrettanto in erba-, avevano installato, antesignani dei futuri
ipermercati, un imparziale eliminacode. La piccola venere
provvedeva poi a scartare i soggetti non alla sua altezza o non
rispondenti alle attese, e a rimandare a un successivo, più
133
approfondito esame quelli a livello o che alle attese
promettevano di rispondere.
Paddi era uno dei suoi innumerevoli epurati. Quello però la cui
corte a lei era piaciuto far durare più a lungo delle altre, in virtù
delle sue qualità di affabulatore.
Estrella aveva poi sposato un astro della finanza, che la faceva
vivere di luce riflessa del suo lusso ma che non c’era mai. Così
lei, diventata ormai uno schianto conclamato, prigioniera però
dello sconforto e della noia che avevano partorito lusso e
bellezza -non tutti i figli sono all’altezza dei genitori-, aveva
riallacciato coi vecchi inappagati corteggiatori, facendoseli uno
a uno. Talora anche due alla volta, per guadagnare tempo.
Tranne Paddi, che s’era tirato indietro. Aveva preferito
continuare a ricordarla com’era.
Quando chiamò l’ascensore per risalire al due, Filo si accorse di
avere sotto la spalla un cappello scuro. Con più sotto ancora
qualcuno dello stesso colore. Filo abbassò lo sguardo e inviò al
proprietario del copricapo un sorriso neutro, da ascensore, che
gli consentì di fotografarlo. Sotto al cappello, nero, si allungava
-allungava per modo di dire, dato il risicato numero di centimetri
e la loro taglia ristretta- un abito, pure nero, con in mezzo una
faccia da fumetto inframmezzata da baffi e occhiali, sempre
neri. Sotto la giacca spiccava una camicia bianca, listata a lutto
da una cravatta del colore dell’abito. A chiudere due scarpe
color catrame. La mano destra, neroguantata al pari della sorella,
reggeva una borsa di pelle in tinta col tutto.
Forse qualcuno del Pallazzo aveva deciso un omicidio su
commissione e aveva ingaggiato un killer professionista -di
quelli che, senza voler farsi notare, si fanno notare più degli
altri-. In ogni caso era un fatto che ultimamente gli toccavano in
134
sorte solo tizi monocromatici. Un’esclusiva che avrebbe
preferito si fosse fermata al rosso.
“L’ufficio del dottor Ciarli?” chiese a Filo la mascotte dei
menagrami con una faccia senza espressione.
La mascotte aveva un nome: Giona, il re dei creativi.
Ciarli era stato chiaro in proposito. Aveva spiegato al creativo
per antonomasia di non chiedere del suo ufficio, per non
provocare l’intervento angelico da chiamata -lui era il solo a
poterne pronunciare il nome senza scatenare l’automatica
ingerenza degli angeli-, ma di chiedere direttamente di lui.
Giona non aveva capito granché di quello che gli aveva detto
Ciarli. Però, fedele al disposto, con la precisione che ne
contraddistingueva l’agire e l’operare -la differenza tra l’uno e
l’altro consisteva nell’essere fuori o dentro l’ufficio-, aveva fatto
come gli era stato detto di fare.
“E’ al penultimo piano.” rispose Filo, guardandosi bene
dall’offrirsi di accompagnarlo.
“Grazie.” ribatté Giona, la faccia segnata da una smorfia con cui
squadrò il mancato cicerone dalla testa ai piedi.
* *
“Posso chiedere una cosa?” domandò più forte Effimero al
Segùr-sindacalista, che con la scusa di non aver sentito aveva
ormai raggiunto i piedi della porta.
“Sei un iscritto?” replicò il fautore, quanto meno etimologico,
del pensiero positivo, prima di ritornare sui suoi passi.
“Non posso iscrivermi, sono un turnista.”
“Puoi sempre iscriverti a fine turno.”
“Se mi assumono, senz’altro.”
“E... pensi che ti assumano?”
135
“Io faccio del mio meglio. Tu che ne dici, mi assumeranno?”
“Non ne ho idea. Bisogna vedere se vai bene alla direzione.”
ammiccò Segùro, la mente rivolta al numero sempre crescente di
appoggi che occorrevano per andare bene alla direzione.
Avrebbe dovuto prendere in pugno la situazione e moralizzare
l’ambiente. Quanto meno fissare un tetto agli appoggi.
“Tu puoi fare qualcosa?” azzardò Effimero.
“Solo una volta che sei assunto in pianta stabile. Dopo sì.”
“E adesso?”
“Adesso no.” rispose Segùro “Allora, ti iscriverai?”
“Te l’ho detto, se mi assumono sì.”
“Ancora “se”?! ”Se” è una risposta evasiva.”
“Neanche le tue sembrano il massimo della chiarezza.”
“Io non sono evasivo; solo possibilista. Ti iscriverai?”
“E va bene, diciamo che mi iscriverò.” capitolò Effimero
allungando il collo. Come un condannato pronto per la
ghigliottina.
“Allora firma qui.” disse Segùro allungandogli un foglio sfilato
da sotto i dattiloscritti.
“Che cos’è?”
“Un impegno a iscriversi.”
“Se mi assumono?”
“E dàgli!... Non solo.”
“Che vuol dire non solo?”
“Voglio dire non necessariamente. Ci si può iscrivere anche se
non si ha un lavoro fisso.”
“E a che serve essere iscritti e non avere un lavoro fisso?”
“A sostenerci.” spiegò Segùro, mentre calcolava mentalmente
che non era lontano dal record degli iscritti.
“Io pensavo che il sindacato sostenesse chi ha un lavoro stabile.”
“E’ così.”
136
“E allora?”
“Allora che?”
“Che sostegno dà il sindacato a uno con un lavoro precario?”
“Morale.”
“Ah.”
“Morale prima di tutto. Ma anche propulsivo, interinale,
mantecato, introflesso, pervasivo. Perciò anche un po’
materiale. Allora, firmi?”
“Ci penserò.” sospirò Effimero con la sicurezza degli insicuri e
la rabbia repressa dei perdenti.
“A ogni modo, se non dovessero assumerti, ti resta il concorso.”
aggiunse Segùro ritirando il foglio “Che è sempre merito del
sindacato.” rimarcò con un indice esclamativo “Anche se le cose
andranno per le lunghe. Dobbiamo convincere la direzione a
ripristinarli.”
Segùro stava organizzando un concorso da far svolgere non in
loco ma nella capitale. La ragione di accentrare quella strana
specie di gioco a premi nella capitale era dovuta all’esigenza di
ottimizzare la gestione delle raccomandazioni. Di vagliare
attentamente i vantaggi derivanti da ciascuna. Per le
raccomandazioni più alte era prevista la conoscenza anticipata
del titolo del tema, il tema già fatto per quelle altissime.
“In bocca al lupo per il concorso.” concluse Segùro nel
riprendere la via della porta. Quasi a escludere la sua assunzione
a fine turno.
“Crepi.” ribatté Effimero. Tanto al lupo quanto al disinteressato
latore dell’augurio.
* *
137
Il Nero e il Grigio, seduti ciascuno alla propria scrivania,
guardavano in tralice il vuoto dei loro fogli.
Al più chiaro dei due non era sfuggita l’espressione dolcigna e il
sorriso da passata burrasca tenuti al telefono da quello più scuro.
E intuito dalla schiena ricurva di questi e dal timbro di voce
sottile che dall’altra parte del filo c’era la moglie, con
un’espressione e un sorriso che era difficile immaginare diversi,
il Grigio bruciava sui carboni ardenti per non saper cosa dire né
cosa fare. Il fatto poi che dopo la telefonata il Nero avesse
abbassato la cornetta e nello stesso tempo alzato gli occhi al
cielo con un’aria di sollievo anziché di insofferenza, come
faceva di solito, era il segno che stava ricucendo con la moglie.
E se ricuciva con la moglie, scuciva con lui. Ammesso che
avessero mai cucito qualcosa insieme. Qualcosa che potesse
resistere alle avversità degli uomini e delle stagioni. La profferta
al bacio di quella notte era stata una pazzia. Peggio, un errore
imperdonabile. Sentiva il bisogno di parlargli, di spiegarsi, ma
non sapeva bene in che modo. Di scusarsi, ma non aveva idea di
cosa. Di abbracciarlo, ma non trovava il pretesto per farlo. Stava
per schiudere le labbra, quando una bussata alla porta
preannunciò la sua apertura.
“Avete bisogno di me?” chiese una donna con la voce da uomo.
Era Ardea, detta la trans perché veniva da un ufficio un po’
particolare. Un ufficio i cui addetti non svolgevano un lavoro,
diciamo così, normale. Senza con ciò voler entrare nel merito
dei lavori, normali o meno, che trovavano posto nel Pallazzo,
che non è cosa che rilevi ai fini della storia. Vuoi per il
tecnicismo dei suddetti vuoi per la loro ritrosia a rendersi
intelliggibili, talora, agli stessi inquilini pallazzeschi; figurarsi
dunque a chi ne segue con gli occhi e, si augura il vostro
narratore, col cuore le vicende. Un ufficio i cui occupanti
138
eseguivano, incollati a baluginanti e policromi videoterminali,
transazioni dal suono ambiguo e misterioso, l’ufficio dei
transanti.
Il suo capo era il fosco e criptico Svàporat, detto il negromante.
Un boemo dall’aria sgasata che snocciolava i bradicardici,
ostrogoti nomi delle transazioni come il prete le parole in latino
della messa. Prima che cominciassero a dirla in italiano e le
parole, diventate comprensibili, perdessero il fascino oscuro
dell’arcano.
Il transante andava fiero della propria peculiarità lavorativa, che
lo faceva risaltare in mezzo agli altri addetti del Pallazzo, per
così dire, comuni, quanto il cane in mezzo al gregge. La
peculiarità non semplicemente di lavorare, ma di transare. Di
fare cioè qualcosa che stava al lavoro come un elicottero sta a
una libellula, un laboratorio di analisi cliniche al Piccolo
Chimico. Senza avere poi la più pallida idea del significato e
della logica sottostanti le transazioni e i loro astrusi e gutturali
acrostici.
Nondimeno i robottizzati abitatori di quell’ufficio a tenuta
stagna transavano a tempo pieno sotto gli occhi di Svàporat,
digitando senza sosta, in un’aura di coinvolgimento medianico
di gruppo, codici e parole-chiave, acronimi e glosse, rebus e
sciarade. Chiusi in quella stanza ermetica, sembravano
astronauti persi nello spazio che spingevano, ignari, muti bottoni
colorati.
E questa a dir poco bizzarra singolarità operativa era tale da
ripercuotersi sulla complessione psichica del transante, che non
era difficile riconoscere dalla camminata meccanica, la voce
artificiale, l’occhio vitreo e un tic da espunzione di consonanti a
fior di labbra. Oltre che da un odio profondo per i codici fiscali
e le sigle degli enti inutili. Quando i sintomi di quello stress
139
transattivo diventavano intollerabili -specie il tic, che provocava
spiacevoli rumori-, allora si destinava il soggetto colpito dagli
stessi ad altra più tranquilla funzione, dove, col tempo, guariva
completamente.
Ardea faceva parte dei malati professionali di svaporata
provenienza e, sia pur convalescente, era stata mandata a far la
segretaria nell’ufficio del controllo. Una segretaria in comune
fra il Nero e il Grigio, vestita sempre in un pied-de-poul dei due
colori che la rendeva cromaticamente adatta all’uno e all’altro, e
con un corpo asciutto e muscoloso che, parimenti, la rendeva
confacente all’uno e all’altro. Più vicina a una donna mascolina
che a un androgino vero e proprio. Già stava molto meglio da
quando l’avevano trasferita da quell’ufficio policromatico a
quello in bianco e nero del controllo. La voce da uomo l’aveva
anche prima di diventare trans.
“No, grazie.” rispose il Nero, che andava pazzo per quella voce
da tenore e non sapeva perché. Anche se, dopo quella notte, lo
sapeva un po’ di più.
Chi sono?, gridò muto il Nero in un silenzio d’inferno. E
quell’urlo vuoto gli fece vibrare i timpani, quasi ci fosse passato
un treno in mezzo.
Chi è?, gridò ugualmente muto in un silenzio anche peggiore il
Grigio, nel guardare l’oggetto del desiderio che gli stava di
fronte far l’equilibrista fra i due sessi come un trapezista sulla
fune. Una fune senza la rete sotto.
* *
“Sì, avanti.” si strascicò la voce neutra di Ciarli in risposta ai
colpi contro la porta. Tre colpi rapidi e precisi; non troppo forti
ma neanche troppo leggeri. Tre colpi pieni, rotondi, equamente
140
distanziati. I rintocchi di una pendola di precisione. Rintocchi
dal suono altero e supponente, dalla scansione implosiva ed
egocentrica.
“Ah, Giona! Prego, si accomodi.” disse appena si stagliò sulla
porta uno scherzo di sagoma nera incappellata.
Ciarli aveva già avuto modo di conoscere la complessione
ridotta di Giona e il suo amore corrisposto per quel colore cieco.
Tuttavia ogni volta che lo vedeva avvertiva un brivido a pelle.
Lo stesso che aveva provato la prima volta che se l’era trovato
di fronte. Una sorta di oscuro presagio di disgrazia.
Dopo averlo fatto sedere, Ciarli spiegò al citoplasma nerovestito
della pratica smarrita, dell’importanza che questa rivestiva per il
direttore e il Pallazzo tutto, e della fiducia incondizionata che
l’uno e l’altro riponevano in lui. E pur confessando di non
conoscere la questione nei dettagli, non essendone stato posto a
conoscenza dal supremo comandante di quei vetri, c’era il
serissimo rischio, almeno a quanto paventava il supremo, che
contro l’iceberg di quella pratica vagante il transatlantico di
cristallo potesse colare a picco.
“Pensa di farcela?” chiese alfine a Giona, fissatolo nelle lenti
nere -non si toglieva mai gli occhiali da sole, salvo quando
voleva far eccezione alla regola-. E dal momento che non
intravedeva risposta al di là di quella barriera di buio,
immaginatoci dietro un punto interrogativo più grande di lui,
forse perché lo riteneva non altrettanto abile ad afferrare col
cervello quanto a creare con le mani, Ciarli aggiunse un
pleonastico: “A fare una copia della pratica smarrita.”
Per tutta risposta Giona gli stese sotto il naso le braccia coi
palmi guantati girati verso l’alto. Poi cominciò a togliersi i
guanti lentamente, con voluttà da padrino di paese. Finché non
rimase a mani nude. Due mani da bambino.
141
“Le vede queste?” replicò Giona, nella voce una punta di
minaccia, prima di rinfoderare, in via del tutto eccezionale, gli
occhiali e infilarli nel taschino della giacca. Quindi stese di
nuovo il braccio rinfoderatore e rimase a mani aperte, i palmi
come a ricevere l’ostia benedetta e gli occhi come a darla. Ciarli,
non avendo problemi di vista, fu costretto ad assentire. “Ebbene,
con queste posso fare qualsiasi cosa.” sentenziarono due
occhietti di pece mentre si squadravano le preziose propaggini.
“Quindi lei può riprodurre una pratica qualunque anche senza
averla vista?”
“Io posso fare tutto. Da una pratica a un quadro d’autore; da un
francobollo a una cartolina d’auguri. Che l’abbia vista o meno.
Se non l’ho vista me la immagino.”
“Comincerà oggi stesso, dopo pranzo.” approvò soddisfatto
Ciarli “Le abbiamo assegnato l’ufficio più bello del piano.”
“Mi immaginavo anche questo.” disse Giona rimettendosi gli
occhiali, prima di liberare la sedia e Ciarli della sua inquietante
presenza.
* *
Filo stava ancora pensando all’incontro fatto in ascensore. A
quell’essere monocromatico che aveva condiviso con una
smorfia la policromia del suo maglione a righe. Forse odiava i
colori e ne sopportava a fatica la vista, o forse era solo una
smorfia d’espressione, e in tal caso la fatica era tutta di chi ne
condivideva il tetto o qualcosa di più intimo.
Nell’entrare in ufficio scoprì che Sotto era ancora latitante.
L’unico che avrebbe potuto sentirne la mancanza era Prillo, ma
il dir più azzimato del Pallazzo era barricato nel suo ufficio
d’avorio. Stava pensando a come risolvere un problema della
142
massima importanza. Trovare una scusa per convincere la
direzione a installargli in ufficio uno specchio, per soddisfare il
verme solitario del proprio narcisismo.
Probabilmente qualcuno avrebbe dovuto andare a spiegare ai
carcerieri in camice bianco di Sotto le particolarità del ruolo di
appendice. Un ruolo che, stante l’utilizzo in comune di parti
anatomiche appartenenti a colui di cui l’appendice è
complemento, comporta uno sdoppiamento non solo di
personalità ma anche di tutto il resto. Sdoppiamento che forse,
causa il legame simbiotico dir-aspirante dir, era sconosciuto
finanche all’appendice stessa.
In compenso notò che girava per la stanza il questuante.
“Tutti presenti, vero?” gli chiese Filo allorché questi gli fu
davanti.
L’interrogato assentì con una gravità che gli fece somigliare la
faccia a un macigno, gli occhi a due sassi e la bocca a una crepa.
Il questuante, il cui vero nome era Mungo, però pronunciato
all’inglese, era figlio illegittimo di Prillo e di Vago, un dir
dell’ufficio vicino che aveva il vizio di mangiarsi le unghie e le
parole. Una dieta più volte sconsigliata dal suo medico curante.
Le due teste, pensando in contemporanea, avevano partorito una
pensata da capogiro. Avevano istituito fra le due funzioni di cui
erano, in certo qual modo, responsabili una nuova figura
professionale. Una specie di jolly, di tuttofare. Qualcuno che
non avesse un lavoro proprio da svolgere, ma che, in caso di
ferie o malattia di uno o più addetti degli uffici interessati da
quel parto cerebrale, potesse farsi carico delle loro pratiche e
portarle avanti. Ovvero qualcuno che, pur in mancanza di
assenze di un tipo o dell’altro, nell’eventualità di picchi
improvvisi di lavoro in capo a un qualche settore in cui i due
uffici erano distinti per tipo di pratiche, potesse essere d’aiuto
143
nell’appianarli. Una figura che avrebbe dovuto avere un poco
delle conoscenze di tutti; quindi con una certa dotazione di
grigio sotto i capelli.
Quando però non c’era nessuno in ferie o in malattia, ben pochi
di quegli addetti, per così dire, gemellati, dinanzi a imprevisti
aumenti di lavoro, passavano a Mungo una parte di questo.
Preferivano tutti rimboccarsi le maniche, tenendosi strette anche
le pratiche in eccesso, piuttosto che ricorrere al suo aiuto. Il
timore era di perdere in futuro, a fronte di sempre possibili cali
di lavoro, quello extra che gli avessero passato, e magari di venir
poi privati anche del proprio, così da essere costretti a loro volta
a mendicarlo da qualcun altro.
Aveva un bel protestare Mungo che in fondo era un collega, un
impiegato come loro, solo con un ruolo diverso, di rincalzo o di
rinforzo a secondo dei casi, e che aveva l’intrinseco bisogno di
fare qualcosa, di sentirsi impegnato. Se non altro per far passare
il tempo e non pensare di continuo alla poco gratificante
condizione di riserva, sia pur lavorativa. Ma era tutto inutile.
Nessuno voleva saperne di elemosinargli neanche gli spiccioli
di quanto aveva in cantiere. Solo Filo e qualche altro gli
passavano il lavoro in avanzo.
“Tutti presenti.” confermò Mungo, l’espressione cava della
pietra.
“Tieni.” disse Filo allungandogli qualche pratica.
“A buon rendere.” replicò Mungo con un sorriso. E la faccia, da
pietra, ritornò di carne.
* *
Anche quel giorno, come ogni altra giornata passata e da
passare, era venuta l’ora preferita dagli abitatori del Pallazzo.
144
Almeno dopo quella che sanciva, con l’uscita, la fine
temporanea della locazione forzata. Era scoccata l’ora della
pausa pranzo, e gli inquilini pallazzeschi che non andavano a
procacciarsi il pasto fuori da quei vetri migravano in ordine
sparso verso il punto dove il pasto avrebbe potuto averlo al loro
interno. La quotidiana mensa addominale.
Con la differenza che, rispetto al solito, quel giorno in mezzo al
popolo dei migranti ce n’era uno che nessuno aveva mai visto
prima. Un’ombra nera con gli occhiali scuri, unico negativo in
un mondo fatto di pellicole positive.
Il “quattro con” di Prorecco, ai remi le quattro sorelle Dalton,
era in procinto di partire per la consueta gara contro il tempo,
per migliorare di continuo la somministrazione del servizio e
tagliare al massimo i tempi della fila.
Quando fu l’ora Prorecco dette il “via”, e le sorelle in scala
cominciarono a mulinare a pelo di bancone i bracci meccanici,
mentre il timoniere, innescato il proprio metronomo interiore,
iniziava a dare il tempo.
“Oh... òh!” scandiva secco il capovoga, e le quattro vogatrici
tendevano i piatti alla fila dei mensaioli: primo, secondo,
contorno e dolce, con la sincronia di una fabbrica di orologi.
“Oh... òh!” altro primo, secondo, contorno e dolce, mentre il
canottiere incassava dal primo.
“Oh... òh!” ancora un primo, secondo, contorno e dolce, col
canottiere che riscuoteva dal secondo. Tutto come a ogni
partenza.
Fino a metà gara la scialuppa ai comandi di Prorecco, spinta dai
magli delle instancabili vogatrici, corse liscia e veloce,
districandosi con navigata abilità nel mare delle portate, e con
lei tutto il servizio. Finché non fu il turno di Giona.
145
Allorché si presentò alla minore delle Dalton, dinanzi alla scelta
fra tagliatelle al ragù e penne al pomodoro, la piccola sagoma
nera, sfilato il guanto mignon in nero di pelle, allungò in tutta la
sua lunghezza il bianco indicino della mano destra e glielo puntò
contro, esigendo chiarimenti su quanto esposto. Prima sulle
tagliatelle e sulle penne -che grano era: zero, doppio zero, sotto
zero; com’era stato lavorato: se era raffinato, semiraffinato o
ancora da svezzare; se erano indietro di cottura, al dente o da
ospedale-, poi sul ragù -se aveva soffritto a fuoco lento o era
stato fischiato frettolosamente fuori da una pentola a pressione,
se al manzo macinato (a proposito, com’era stato macinato?) era
stata aggiunta la pancetta e al trito di verdure la noce moscata-,
infine sul pomodoro -se ci avevano imbiondito dentro uno
spicchio d’aglio, se l’avevano profumato con un tocco di
origano, se era dell’agricoltura biologica o dell’agricoltura
soltanto-.
La piccola Dalton guardò quell’alieno fumato a bocca aperta, gli
occhi fuori dalle orbite e le orbite fuori dalla testa. Nel
contempo le altre sorelle, soddisfatti in fretta e furia i mensaioli
al bancone, avevano assistito alla scena a mo’ di mummie
insarcofagate, mestoli e forchettoni a mezz’aria. Anche
Prorecco, sfilato l’ultimo pagante prima del blocco della fila,
aveva preso a seguire la sceneggiata, interrompendo per
manifesta inutilità il metronomo intestino, sicuro ormai che quel
giorno la scialuppa pallazzesca non avrebbe ottenuto un gran
tempo.
Giona, poco soddisfatto delle spiegazioni, decise di saltare il
primo e passare al secondo. Puntò allora il pericoloso strumento
da puntamento, sempre il bianco indicino della piccola mano
maestra, alla Dalton numero due, che gli propose balbettando la
scelta tra cotolette alla milanese, arrosto e polpette. Giona
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viceversa scandì una perentoria richiesta di ragguagli prima
sulle cotolette -se era proprio carrè di vitello o una semplice
fettina; come l’avevano impanata (l’impanatura ideale era di
due parti di pangrattato e una di parmigiano grattugiato)- e poi
sull’arrosto -che taglio era: noce, lombata, filetto, petto, stinco;
se era manzo o vitello; se ci avevano infilato il classico rametto
di rosmarino-. Lo polpette non le prese in considerazione; dava
per scontato che fossero fatte con gli avanzi.
La risposta della Dalton di turno fu un sorriso completamente
ebete, mentre quella di chi aspettava in fila il suo turno fu un
rumorio scomposto e spazientito. I mensaioli in attesa
paventavano il profilarsi di un imprevisto slittamento nei tempi
di distribuzione della quotidiana pietanza, con conseguente
obbligata rimonta sui tempi di consumazione della medesima,
pena la ripresa ritardata del lavoro e il recupero del ritardo in
uscita.
La risposta invece di quelli già ai tavoli, che non avevano il
pieno d’ansia e il vuoto di stomaco dei primi, fu un rumorìo più
sommesso, quasi divertito a quello spettacolo mai andato in
scena prima in quella mensa né forse -ma questo neanche il
vostro narratore può saperlo con certezza- in nessun’altra.
Spettacolo che, in quanto tale sarebbe stato anche divertente, ma
non essendo tale affatto, lo era fino a un certo punto. Fra gli
spettatori seduti a tavola c’erano anche Filo e Amber.
* *
Il Nero era andato a mangiare a casa per festeggiare il fresco
armistizio con la moglie. La consorte e le gemelle l’avevano
ripagato aspettandolo senza iniziare, per cominciare uniti il
primo pranzo della nuova era. Per suggellare col cibo l’alleanza
147
appena nata, e affrontarne insieme, quasi in comunione, le
regole non scritte.
Le gemelle lo tranquillizzarono sul loro futuro di liceali
gaudenti. Gli preannunciarono che sarebbero andate entrambe
all’università, e che colà avrebbero aumentato le ore di studio e
diminuito quelle di gaudenza. La facoltà precisa dovevano
ancora metterla a fuoco, ma l’idea di rinviare a tempo
indeterminato l’entrata nel mondo del lavoro no. Nel modo più
assoluto. Lo studio, avevano realizzato le due maturande
maturate di colpo, era troppo importante per lasciarlo perdere.
Specie quando lo si può affrontare con agi tali da non dover
prenderlo di petto.
La moglie gli inviò un sorriso di una dolcezza disarmante,
mentre gli versava da bere con una devozione da madonna del
rosario. La geisha e il suo samurai, questo sembravano. Era uno
di quei sorrisi che prometteva di partorire qualche pargolo
indesiderato; che precedeva la richiesta di qualcosa. Una
richiesta che però tardava a venir fuori. E che forse, per questo,
era solo una sua paura. Era tornato tutto a posto.
Miracolosamente era ritornato tutto uguale a prima. Un “prima”
che si perdeva nelle pieghe dei ricordi, e che probabilmente non
era mai esistito.
Nondimeno si sentiva come di fronte alla prova della vita, fra
sudori freddi e brividi di caldo. Gli sembrava di star seduto su
una sedia con una bomba a orologeria sotto. E nel guardare tutto
il bucolico dintorno, si aspettava di saltare in aria da un
momento all’altro.
Anche il Grigio era andato a mangiare a casa. Per non essere da
meno del suo capo, ma soprattutto per non esporsi da solo agli
sguardi invasivi della mensa. Sapeva che, in qualche modo,
ormai tutti sapevano. Sia la storia della pratica che quella del
148
loro fallimento. Del loro fallimento come ufficio; del suo
personale fallimento col Nero -fece mente locale mentre
pensava, per essere sicuro di pensare bene- non poteva saperne
niente nessuno. Solo in due erano a conoscenza di quel segreto,
e nessuno dei due aveva interesse a divulgarlo.
La madre lo accolse nel grembo domestico col cuore in festa,
non solo per il vederlo in quel momento quanto per non averlo
visto la sera prima, felice che il suo figliolo avesse finalmente
passato la notte fuori casa con una donna.
“Che mi dici di Nerina?” gli chiese con un sorriso, mentre lui
affondava i colpi nella pastasciutta. Uno sorriso da mamma in
ansia, che spera che il suo unico figlio si confidi e le racconti.
Il Grigio prese a mangiare con più ingordigia. Finché avesse
tenuto la bocca piena non correva il rischio di parlare. Sua
madre forse si sarebbe stancata di aspettare la risposta.
* *
All’inizio Prorecco aveva seguito con partecipata curiosità quel
fuori programma, quel curioso siparietto che gli negava per quel
giorno la possibilità di abbassare i tempi di somministrazione
del servizio, ma gli offriva l’opportunità di farsi due risate. I
tempi avrebbe potuto abbassarli un’altra volta; le risate invece
non erano cosa di tutti i giorni.
Quando però Giona, dopo aver richiesto inutilmente la cartella
clinica dei primi per non averne ritenuto in salute nessuno, passò
ai secondi, il riso gli si spense di colpo. Allorché poi, una volta
richiesto, sempre inutilmente, lo stato di servizio dei secondi,
polpette escluse, quella specie di scarafaggio travestito da
ispettore di cucina si mise a scuotere il cappello, provocando le
urla spazientite della fila in attesa, Prorecco decise che era ora di
149
intervenire. Si alzò dalla cassa, gli andò davanti e gli fece
seccato: “Se è indeciso, si sposti. Almeno lascia passare il resto
della fila.”
“Non sono indeciso.” replicò Giona. “Sto solo facendo il conto
delle calorie delle cotolette e dell’arrosto. Ci tengo alla salute.
Se... queste” aggiunse guardando nero e indicando con
l’indicino da punta la scala Dalton “Se queste mi avessero
risposto, l’avrei già fatto.”
“Senta!” ribatté Prorecco, avvertendo un preoccupante
formicolio nelle braccia. Due braccia da canottiere. “Questa è
una mensa, non un ristorante macrobiotico!”
“L’ha detto, una mensa. E dunque non un negozio di borse. O di
stoffe. O di mobili.”
“Vogliamo muoverci?! Abbiamo fame!” si sentì dalla fila.
“Un attimo di pazienza, signori, sto decidendo.” rispose Giona
con aria di sufficienza. “Sono un po’ carenti nelle spiegazioni le
sue assistenti, sa?” obiettò al canottiere.
“Mi ascolti bene!” ribatté di nuovo Prorecco, sentendo il
formicolio scendergli pericolosamente dalle braccia alle mani
“Io non so chi sia lei, non l’ho mai vista, ma se non si decide a
prendere qualcosa, o si sposta o la sbatto fuori!”
“E se prendessi un contorno?” si chiese Giona, senza degnare
d’uno sguardo il formicolato. “Signorina, come le fate le verdure
alla griglia?” domandò alla Dalton numero tre. “Perché con
l’aglio mi fanno acidità allo stomaco, col sale invece mi alzano
il colesterolo, e io tengo a entrambi. Non vorrei mi restassero
pesanti.”
A quel punto Giona si sentì librare in aria. Forse un giramento di
testa dovuto al fatto di non aver ancora mangiato niente. Eppure
doveva essersi alzato per davvero, dal momento che vedeva i
piedi delle Dalton al di là del bancone. Va bene sentirsi leggero,
150
pensò, ma così era troppo. Anche se quando precipitò a terra
non si sentì leggero per niente.
Era accaduto che il braccio maestro di Prorecco era partito,
aveva afferrato Giona per la collottola e, dopo averlo sollevato
di una spanna, l’aveva fatto volare sul pavimento.
“Tu, brutto scimmione! Energumento dei miei stivali! Te la farò
pagare!” stizzì dalle terre lo straccetto nero, minacciando la
montagna di muscoli con la sua personale scacciacani, il solito
indicino da punta della mano destra.
A quel punto il canottiere si colorò di rosso, si gonfiò come un
gommone di salvataggio a contatto con l’acqua e si buttò sul
braccio che reggeva l’arma giocattolo. L’afferrò e lo fece prima
roteare per aria e poi franare sull’impiantito, assieme al poco che
ci stava attaccato.
Alle urla di Giona intervenne in suo soccorso un nugolo di
inquilini pallazzeschi, che si agganciò ai bicipiti del canottiere
per fermargli i remi impazziti.
“Lascialo!” gli gridò uno che aveva visto uscire Giona
dall’ufficio di Ciarli “Questo sta nella manica dei capi!”
“Meglio!” gridò a sua volta il canottiere “Quando me lo sarò
lavorato potrà stare anche nelle scarpe!” e riafferrato il braccio
destro, glielo spezzò.
* *
Il Nero s’era graziosamente accomiatato dalla sua geisha con un
sorriso a mandorla, dicendole che il caffè l’avrebbe preso fuori.
Magari senza zucchero, pensò senza dirlo, vista l’atmosfera
sdolcinata che s’era sciroppato, e a cui da tempo aveva perso la
bocca. Era entrato dalla meteoropatica e gliel’aveva ordinato.
La vecchia caldaia, per quanto marciasse a tutta forza, esalava
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solo flebili sbuffi. Stava tirando gli ultimi. In primavera
l’avrebbero di certo messa a riposo per raggiunti limiti di
servizio. Un riposo eterno, non essendo prevista la resurrezione
delle caldaie. Se mai fosse riuscita ad arrivarci, a primavera, con
quella tosse convulsa che ne intasava i condotti e minacciava
tutto il sistema stufo-tracheale. In conseguenza di ciò il locale,
per usare un eufemismo, non era dei più caldi. Per dire invece le
cose come stavano, era dei più freddi. Garanzia questa che il
caffè l’avrebbe avuto come lo voleva, bollente.
Anche il Grigio aveva lasciato la vecchia madre dicendole che
avrebbe preso il caffè fuori. Quello d’orzo fatto in casa l’aveva
educatamente ma altrettanto fermamente rifiutato. Passò pure lui
dalla meteoropatica, e fu lì che ci trovò il suo capo. La sua
Nerina.
I due incrociarono gli sguardi. Il Nero accompagnò all’unico
tavolo libero il suo caffè e, una volta che l’ebbe avuto, anche il
Grigio non trovò di meglio che accompagnare il proprio al
tavolo più libero, o meno occupato, che era rimasto, quello del
suo fresco compagno di nottata. L’incrociatore oculare di un
istante prima. Ripresero a guardarsi in silenzio, assorbendo i
caffè lentamente, quasi senza berli, nel timore di finirli troppo
presto e di essere poi costretti a parlarsi.
Il Nero stava pensando alla sua vita. Fare un bilancio, ecco cosa
serviva. Magari non definitivo, dal momento che si augurava di
godersi ancora qualche lustro in buona salute. Ma provvisorio sì.
Tutti a un certo punto della vita fanno un bilancio; compresi
quelli che dicono di non farne mai. Almeno per sapere come
regolarsi nelle spese. E’ anche vero che c’è gente che non fa
altro tutto il giorno, non conoscendo altro modo di passare il
tempo. Ma soprattutto non avendo la necessità di far quadrare
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quello del portafoglio per mangiare. Uno ogni tanto però non fa
male, e anzi dicono aiuti a vederci più chiaro. Specie le banche.
E quel bilancio che stava buttando giù mentalmente non gli dava
un gran credito per il futuro, anzi paventava una cospicua
lievitazione di diverse poste del passivo. Tutte dalla parte della
moglie e delle figlie. Era fuori discussione che all’attivo avrebbe
dovuto pensarci lui. Tre contro uno; una lotta impari. Resa
ancor più impari dal fatto che i tre erano donne.
Ripensò al pranzo e alla moglie. Il sorriso della consorte alla
fine aveva partorito il pargolo. Se tale poteva essere chiamato il
frutto di quel parto. I Fasti li avevano invitati, dopo Natale, nella
loro villa in montagna. Sarebbe stato bello prendersi una
vacanza, aveva detto lei; ma io devo lavorare, aveva obiettato
lui; peccato, gli aveva sospirato col volto della delusione; perché
non ci vai tu con le gemelle?, aveva suggerito a un tratto lui; ma,
non saprei, aveva replicato lei con un frizzo d’occhio vispo, a te
non dispiace?; no, andate pure, le aveva risposto, io vi
raggiungerò appena posso; sei un tesoro, gli aveva sussurrato
baciandolo sulle labbra. Poi era uscito sulla via del caffè.
I due osservanti poco ortodossi continuavano a guardarsi muti
anche dopo aver esaurito l’aromatico contenuto delle loro
tazzine.
“Dopo Natale sono libero.” disse all’improvviso il Nero.
Il Grigio lo guardò con un’espressione da bambino, incapace di
emettere suono, sicuro di aver capito male, o travisato il senso, o
non afferrato il nesso. Ma con l’esile speranza di aver sentito
giusto. Fu questo filo sottile che gli fece schiudere le labbra in
un’ombra di sorriso.
* *
153
Quando sentì il piccolo polso spezzarsi, Prorecco, quasi si fosse
spezzato in quel momento qualcosa anche dentro di lui, si fermò
di colpo, come un sonnambulo svegliato da uno schiaffo tirato a
tutto braccio. E allorché, scrollatosi di dosso un numero
imprecisato di pugnaci inquilini pallazzeschi che gli si erano
attaccati alle braccia nella speranza, vana, di disarmarle, allorché
vide sotto di lui quella piccola cartilagine incatramata col
moncherino pendulo, e realizzò di essere stato lui a mettersela
sotto e a rendergli il moncherino tale, lanciò un grido di orrore.
Poi si guardò incredulo le mani assassine, inveì contro di loro e
contro il loro sconsiderato proprietario, e corse a chiudersi in
cucina in preda alla disperazione del coccodrillo. Prontamente
consolato da otto tentacoli affettuosi, quelli delle quattro sorelle
piovra, che appena lo videro ritirarsi in lacrime accorsero con le
braccia del pronto soccorso.
E mentre i mensaioli rimasti a bocca asciutta e stomaco vuoto si
servivano da soli, riempiendo i vassoi al pari di stive di carghi in
partenza, un pugno di anime pie soccorreva quella curiosa
specie di nero uccello parlante. Per lo più quelle che avevano
già mangiato e non avevano impegni durante la pausa.
“Stupido caprone bifolco! Grosso pezzo di zotico! Te la farò
pagare! Ti farò pentire!” gracchiava la cornacchia, tenendosi
l’ala spezzata con quella sana.
“Chiamiamo un’ambulanza.” suggerì uno con i capelli tinti di
castano chiaro. Era Torso, un uomo affascinante dai capelli
brizzolati che, tingendoseli, aveva finito per diventare un tipo
castano chiaro qualunque.
“Sai il tempo che ci mette a venire un’ambulanza?!” replicò
Masolargo, una montagna di carne a forma di uomo.
“Portiamolo noi al pronto soccorso.”
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“Ci penso io.” disse correndo a prendere la macchina Furio,
detto Cipensoio perché in ufficio pensava a tutto lui. Dal più
piccolo problema al più grande, dal più sciocco al più serio
finanche all’inesistente, bastava rivolgersi al grande accentratore
ed era risolto.
Furio, pur avendo cambiato diversi uffici del Pallazzo, si
vantava di non aver mai subìto un trasferimento -nel senso di
esserne stato soggetto passivo, quasi un pezzo di mobilia che
passa da una stanza all’altra-, ma di essere sempre stato richiesto
negli uffici in cui andava, e non semplicemente trasferito da
quelli che lasciava. La distinzione afferiva a una questione di
lana caprina, quella di spostarsi camminando sulle acque
anziché spostarsi tout court. Ma la sostanza era la stessa; solo
che la forma la faceva più bella.
“Volete decidervi, lucertole dei vetri?! Branco di perditempo!
Vedo le stelle!” continuava a strillare l’uccello del malaugurio,
dimenandosi come un ragno ribaltato.
I due lo portarono a braccia nell’atrio, lo caricarono senza sforzo
nell’auto di Furio, sopraggiunta nel frattempo completa di
autista, e il gruppetto partì in quarta alla volta del pronto
soccorso più vicino. Cipensoio ovviamente guidava, Torso, al
suo fianco, fungeva da navigatore, a indicargli la strada più
breve per raggiungere la meta comune, e la montagna di carne
stava dietro con Giona, aiutandolo a reggere con la sua mano da
montagna il moncherino offeso.
Furio aveva una vecchia macchina francese dal muso a squalo,
con quelle sospensioni che hanno solo le auto di quel tipo.
Sospensioni che a ogni curva provocavano nell’abitacolo un
rollìo da barca a vela in mezzo a un maremoto.
“Presto, lavativi sotto vetro!” inveì con quanta forza aveva in
corpo la tarantola, nel guardare il mucchietto d’ossa della sua ex
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mano destra che gli pendeva dal polso come un ramo spezzato
da un albero nano. “Ho un male che non ci vedo!”
“Ci penso io.” disse l’omonimo pigiando il gas, pentito di
essersi preso una tale gatta da pelare. Per di più di quel colore
infausto.
Torso tirò fuori di tasca un fazzoletto biancospurio e si mise a
sbandierarlo dal finestrino, per avere quella strada che, pur non
essendo di nessuno, nessuno mostrava di voler dare. Intanto
Furio, attaccato al clacson, continuava ad andare a tavoletta.
Evitarono pedoni, biciclette e motorini. Superarono auto che
andavano per la loro strada, alcune di corsa, qualcuna di passo,
altre a singhiozzo. Correvano all’impazzata fra quelle scatole di
latta, al pari di certe auto della polizia quando sfrecciano a
sirene spiegate per soddisfare un’improvvisa voglia di caffè o di
fidanzata di qualche suo poco paziente occupante.
Per fare prima Torso suggerì di svoltare per una strada
secondaria. Era più lunga ma anche molto meno trafficata.
Avrebbero potuto spingere al massimo e arrivare prima.
Il rollìo nella barca divenne insopportabile. Furio però guidava
da pilota mangiando strada e polvere, e l’ospedale si faceva ogni
istante più vicino. L’auto pareva un bob sciolinato su una pista
di ghiaccio lungo quella strada poco battuta, abbastanza larga
ma piena di curve, e i quattro ballavano quasi fossero manichini
al ritmo virulento delle sterzate di Furio, piegando
irrimediabilmente dalla parte opposta a quella di sterzata. Rollìo
a parte, tutto sembrava andare bene. O almeno secondo le
intenzioni. Finché non incrociarono Lea.
* *
156
La notizia dell’incidente di Giona stava facendo il giro del
Pallazzo alla velocità delle onde radio. Anche se nessuno
all’infuori di Ciarli lo conosceva per nome né di vista, ma solo
come quell’essere nerovestito che era comparso in mensa a mo’
di macchia d’inchiostro su un vestito. E che fortuna, tutto così
bardato a lutto, non dava per niente l’idea di portarne.
In cucina frattanto Prorecco continuava a non darsi pace,
inutilmente consolato dalle sei braccia più due di quella dea kalì
diviso quattro e in scala che erano le Dalton. Gli otto tentacoli
scivolavano sui muscoli ancora gonfi e guizzanti del canottiere
nel tentativo di scioglierli, di allentarne nodi e tensione, ma quei
fasci di fibra grezza restavano più tesi di corde d’archi. Le
sorelle piovra però non si dettero per vinte. Presero a ricoprire
quelle carni rigonfie di nuove, più profonde e sistematiche
frizioni, di affettuose e intense carezze sui lombi, di massaggi
officinali più fitti e più lenti. Il tutto accompagnato a dolci e
sussurrati inviti a recedere da quello stato di prostrazione
comatosa e tornare a dar voce al suo metronomo interiore.
Solo che quella specie di contatti ravvicinati del quarto tipo -uno
per sorella- su quei muscoli ancora freschi di palestra, tonici
quanto quelli di un atleta prima della gara, fecero mutar loro,
poco alla volta, i sospiri di preoccupazione per la poco allegra
condizione psicologica del capovoga, in esclamazioni di
meraviglia per la sua smagliante condizione fisica. A un certo
punto anche il canottiere, da quel poco che poteva udirsi dalla
sala mensa -nessuno, dopo l’incidente, s’era azzardato a mettere
il naso in cucina-, aveva cominciato a cambiare i singulti in
gemiti affannosi e le tirate di naso in mugolìi sommessi. Al
punto da far pensare ai mensaioli rimasti che la crisi seguita al
suo gesto inconsulto fosse stata definitivamente superata. Ma
anche da farli sospettare che il pronto soccorso prestato
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all’afflitto e, a quanto pare solo apparentemente, inconsolabile
timoniere si fosse trasformato in un massaggio erotico prima e
in un’orgia sfrenata dopo.
In effetti è proprio questo che era successo. Le mani delle
Dalton avevano compiuto il miracolo di trasformare l’acqua in
vino. Non solo erano state capaci di rasserenare l’ombroso
capovoga, ma anche di fargli ritrovare il remo maestro, e di
farglielo mulinare con la gagliardia dei bei tempi. Quel remo
che, superata la boa dell’età di mezzo, il canottiere pensava
essersi ormai messo a riposo.
Il Nero e il Grigio intanto, rientrati nel Pallazzo e apprese le
poco allegre novità su Giona, si precipitarono nell’ufficio del
capo supremo, a renderlo partecipe delle stesse. I due decisero di
entrare fianco a fianco, per morire insieme o salvarsi insieme
dalla raffica di contumelie che li avrebbe investiti una volta
dentro.
Il supremo mostrò invece un inusitato sangue freddo. In realtà
era stato colpito dal più rigido dei rigor mortis verticali.
Nondimeno riuscì ad allungare un braccio alla cornetta e a
chiamare Ciarli, il quale, sopraggiunto di corsa e trafelato,
chiese a bomba, senza rifiatare: “Qual è il braccio rotto?”
“Il destro.” rispose il duo del controllo.
“Siamo salvi!” espirò Ciarli buttando gli occhi al soffitto “Giona
è mancino!”, e nell’esalare un sospiro di sollievo da ultima
spiaggia gonfiò la sedia imbottita più vicina, che gli sbuffò di
seguito. Il sospiro degli altri tre e il soffio liberatorio delle tre
sedie che gonfiarono anch’essi fecero da coro all’espiro.
* *
158
Lea era una vecchia signora, che portava in giro il suo carico
d’anni e gli acciacchi che di quel carico erano fardello con la
nivea leggerezza di un volo d’ovatta. Un carico d’anni che, per
quanto ci fosse chi scommetteva sul loro numero sparando a
caso fra i più alti, nessuno poteva dire di conoscere davvero.
Anche a saperla, però, l’età di una signora -e chi legge sa per
certo che al vostro narratore non è dato ignorarla-, non si addice
spargerla ai quattro venti, ma tenerla chiusa nel magico scrigno
dei segreti. Né saperla, in fondo, è d’interesse in questa storia.
Come ogni mattina Lea s’era alzata col sole alto, s’era lavata a
fatica negli angoli, e aveva trascinato le sue leve fatiscenti nella
stanza al seminterrato dove la generosità dei condòmini le
faceva trovare una calda colazione. O un tiepido pranzo, a
secondo dell’ora in cui lo consumava. Inutile a dirsi, non aveva
più l’autonomia del passato, e senza l’aiuto di qualche buon
vicino -alcuni, perché altri l’avrebbero vista volentieri
raggiungere gli antenati- non sarebbe riuscita a tirare avanti.
Poi, dopo colazione, o dopo pranzo, sempre a secondo dell’ora
in cui consumava quel condominiale conforto e del tempo che ci
metteva a consumarlo, usciva a sgranchire la sua artrite. Tutti i
giorni, con ogni cielo. Talora impensierendo i suddetti vicini,
perché a volte le capitava di far tardi e tornava col buio. Un po’
perché si muoveva lentamente, mettendo assieme i passi che
componevano la camminata quasi fossero i pezzi di un mosaico
senza fine. Un mosaico che solo la sua testardaggine riusciva a
far tornare ogni sera. Un po’ perché talvolta, nel camminare, le
capitava di fermarsi a fissare le cose per un tempo amplificato.
Un po’ perché, infine, non le era difficile perdere
quell’orientamento che da giovane trovava a occhi chiusi. Però
era sempre tornata. Magari a notte fonda, sporca o zuppa
d’acqua, ma era sempre tornata, e i condòmini a cui stava a
159
cuore avevano cominciato a credere che avesse molte più vite
delle sette che le spettavano di diritto.
La ragione di siffatto biblico numero di vite è che Lea era un
gatto. Per la precisione la vecchia gatta condominiale, che
viveva nello scantinato del palazzo che aveva eletto a domicilio.
Anche se non tutti i condòmini stravedevano per quella vecchia
inquilina morosa.
Quel giorno era sereno, e Lea si godeva il debole sole invernale,
nell’ora in cui scaldava di più e faceva meno freddo. Aveva
ancora un invidiabile manto nero, che dopo le spelacchiature
dell’estate era tornato più lucido di quello di una gatta da
salotto. Camminava con passi lenti e strascicati, accorta come
sono i gatti, con in più la prudenza dei vecchi, ma senza le paure
che hanno gli uomini quando invecchiano.
Nel frangente stava incrociando una strada secondaria, poco
battuta ma un po’ troppo larga da attraversare tutta in una volta
per i suoi passi incerti. L’avrebbe presa con calma; in fondo a
casa non l’aspettava nessuna bocca da sfamare.
Allorché però vide sbucare da una curva il muso di una
macchina che dondolava come una bilancia ubriaca e la puntava
senza lasciarle scampo, pensò di essere arrivata alla fine delle
sue vite. Si fermò a pensare a tutti i gatti con cui aveva
miagolato che se n’erano andati, che avevano già raggiunto la
casa del Gran Padre Gatto, sicura che li avrebbe rivisti di lì a un
salto. Pur non avendo ben chiaro il concetto di paradiso, sapeva
con immediata certezza che prima o poi avrebbe incontrato di
nuovo quegli ormai passati compagni di cammino. Pensò che
sarebbe stato bello rivederli, rivangare insieme i vecchi tempi e
farci sopra una bella miagolata. Sapeva che un giorno o l’altro
sarebbe successo; che prima o poi sarebbe venuto il suo
160
momento. Non aveva paura, era pronta. Pensò a tutto questo e
chiuse gli occhi.
* *
La mensa aveva ormai smobilitato. La porta di cucina s’era
riaperta ed era ricomparso Prorecco col sereno in volto. Un
sereno stanco, marcato da due occhiaie parlanti e una capellatura
scomposta sulla maglia della salute. Una maglia che mostrava i
segni inequivocabili d’esser stata tirata da qualsiasi parte poteva
aver avuto una qualche utilità terapeutica il tirarla. Gli facevano
corona le quattro sorelle in scala, ugualmente sul sereno stanco
in viso e sullo stazzonato spinto nella divisa.
Si era sciolto anche un capannello che s’era formato a seguito
del passaggio in mensa di un potente ex diruno del Pallazzo, il
quale, dopo anni da plenipotenziario sotto vetro, comandava ora
un normale palazzo in mattoni. Uno che dovunque andava
puntava solo su certi uomini, geneticamente ruffiani, di rado su
certe donne, sempre geneticamente come sopra, e questi, una
volta scelti, diventavano suoi fidi i primi, e favorite di corte le
seconde. E per questo suo interloquire solo e soltanto con
siffatto codazzo di cortigiani scelti, era inviso a molti e amato da
pochi. Nondimeno la sua visita al castello di vetro aveva
provocato in mensa una processione spontanea degli scudieri e
delle favorite di un tempo, per portargli in dono grazie, rimpianti
e buone parole.
Lui, alla vista di tanta cavalleresca fedeltà, s’era alzato di buon
grado, e per assecondare la loro fame d’inchino aveva
disinnescato il suo personale deus-ex-machina. Un
inginocchiatoio mobile incardinato nella fodera della giacca,
capolavoro dell’artigianato del legno, che si apriva e si chiudeva
161
alla semplice apertura e chiusura del nobile indumento
abbottonatizio. Quindi li aveva fatti inginocchiare uno per uno
benedicendo a voce alta la loro fede, e maledicendo sottovoce i
miscredenti che non erano venuti a riverirlo.
Anche Filo e Amber, dopo l’incidente in mensa, erano usciti. Al
primo accenno di rissa Filo, che le sedeva accanto, era stato il
più lesto ad alzarsi e a correre verso Prorecco. Poi però,
improvvisamente memore dell’iperbolico divario di
complessione tra lui e il suo rissoso obiettivo, aveva rallentato
ad arte la corsa, per far arrivare prima altri, più robusti di lui,
che erano partiti dopo.
Sta di fatto che allorché arrivò a un passo dal canottiere,
incollati ai suoi remi c’era già una ciurma di sei persone a remo.
Attaccarsi a sua volta, a quel punto, era impossibile. A meno che
uno di quelli che gli stavano appesi alle braccia come ninnoli di
Natale a un ramo di quercia gigante non gli avesse ceduto il
posto. Cosa questa a cui nessuno dei ninnoli era disposto, dal
momento che, fatti i conti, erano dodici contro uno, ed era
perciò impossibile che potessero perdere. Nessuno cede mai il
posto quando è sicuro di avere la vittoria in tasca. Non avevano
fatto i conti con i remi d’acciaio di Prorecco.
In ogni caso, che ci si attaccasse anche lui era inutile. Col fisico
che aveva non avrebbe spostato le forze in campo che dei
grammi di una confezione piccola di margarina magra. Un peso
ininfluente ai fini della battaglia finale. Però almeno aveva fatto
il gesto, e anzi essendo stato il primo a farlo, o quanto meno a
fingerlo, provocando così quello degli altri, gli piaceva pensare
d’aver dato un contributo decisivo a bloccare, sia pure fuori
tempo utile a Giona, l’indemoniato capovoga. Quasi a
nascondersi che in realtà l’energumeno s’era fermato da solo,
per lo sgomento di quello che aveva fatto.
162
Era tornato verso Amber a braccia larghe e spalle sollevate, a
dirle muto che non ce l’aveva fatta ad agganciare nessuna delle
superaffollate canottiere braccia. Alla fin fine, le sorrise, aveva
partecipato ugualmente al salvataggio dei deboli -sia pure, nella
fattispecie, rompiscatole fino all’inverosimile-, contro i
prepotenti. E come dicono tutti, l’importante non è vincere ma
partecipare. Specie dopo che non si è vinto.
“Facciamo due passi?” propose Amber.
“Fuori fa freddo.” rispose Filo “Facciamoli nell’ala rotta. E’
divertente.”
* *
Quando Furio impressionò con la sua vista telescopica quella
piccola nera creatura ferma sulla strada, con due smeraldi
incastonati in viso che lo fissavano aspettando di essere
immolati sull’altare della velocità e della fretta, per poi chiuderli
un istante prima dell’estremo sacrificio, Furio pensò a
Miciomicio. Era questi un batuffolo grigio con gli occhi gialli,
che la sua bimba dagli occhi azzurri aveva trovato tremante
sotto un marciapiede e non aveva esitato a portare a casa.
Qualche essere senza cuore l’aveva gettato dentro il cassonetto
dell’immondizia. E qualche altro con solo un pezzo, che nel
buttare la spazzatura s’era accorto di quelle due piccole lampade
accese, l’aveva tirato fuori e poi se n’era andato, salvandolo da
una morte orribile ma condannandolo a una più lenta e
consapevole.
“Ci penso io.” mormorò fra sé Furio, ormai a un niente
all’inevitabile.
Fece due sterzate delle vita. Le sterzate più secche che avesse
mai affrontato. Una a destra e una a sinistra. Alla prima Giona
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fu catapultato contro Masolargo, che accolse in grembo quel
peluche come un canguro il suo piccolo; alla seconda fu la
montagna a franare sul peluche. Con effetti devastanti. Il braccio
sinistro, con cui Giona s’era protetto dall’impatto col Maso alla
prima sterzata, alla seconda era rimasto schiacciato sotto la
montagna. Irrimediabilmente spezzato.
“Tutto a posto?” chiese Furio all’equipaggio di poppa dopo i
due colpi di coda. Ma soprattutto dopo aver guardato dal
retrovisore la strada e avervi scorto il piccolo quattrozampe sano
e salvo.
“Tutto a posto.” assicurò nel rialzarsi da valle la montagna -che
in effetti, come tutte le montagne, quando franano non se ne
accorgono mai. Sono sempre gli altri ad accorgersene-.
Giona frattanto accusava in silenzio un dolore atroce, diverso da
quello che già aveva. Un dolore così acuto da strappargli il fiato;
uno spasmo inenarrabile che gli partiva da una posizione che
non era quella da cui gli partiva prima l’altro. Allorché girò gli
occhiali ciechi verso il punto da cui sentiva nascere quel nuovo
travaglio e vide il piccolo braccio a mancina innaturalmente
ritorto, cominciò a zampillare acqua quanto una fontana di
sorgente. E mentre zampillava decise che non avrebbe rivolto
mai più la parola a soccorritori tanto balordi e maldestri. Anzi,
che non avrebbe più parlato fino a data da destinarsi.
Lea frattanto, riaccesi gli occhi e accortasi con felina meraviglia
di essere tutta intera ma principalmente ancora al mondo, alzò lo
sguardo e pensò che lassù qualcuno l’amava. Le era rimasta
ancora una vita; gli antenati li avrebbe raggiunti un’altra volta. E
dopo un ultimo saluto al cielo, a ringraziare la miagolante
schiera di coloro che un istante prima era sicura di rivedere, e
che, almeno per il momento, non avrebbe rivisto, riprese il suo
164
cammino in terra. Continuò ad attraversare la strada con la
testardaggine di sempre, trascinando lentamente zampe e artriti.
* *
Filo e Amber stavano passeggiando lungo i corridoi dell’ala
rotta discettando sull’accaduto e su quello strano tipo in nero
che l’aveva, in certo qual modo, fatto accadere, quando ad
Amber si accese una lampadina.
“E se fosse venuto qui per la pratica?” chiese a Filo.
Amber aveva, fra gli altri, un master polimerico in gialli
d’annata e neri di seppia, costruzione di alibi su misura con
scarto automatico di quelli posticci, riconoscimento a naso di
indizi scaduti e la fissa di essere più sottile del fiuto di Sherloch
Holmes.
“Non l’ho mai visto nel Pallazzo.” argomentò col mento a punta
e i ricci ingarbugliati.
“Nemmeno io.” replicò il suo dottor Watson. “Comunque, se
anche fosse, in quelle condizioni non so cosa potrebbe fare.”
Lei assentì, lo sguardo perso a rincorrere i pensieri; a dare un
vago senso logico al tutto. A un tratto anche Filo decise di dare
un senso, se non al tutto, a quella parte a cui era più interessato.
“Senti, che ne dici di uscire insieme una sera?” azzardò
rompendo indugi e paure. “Potremmo andare a un cinema o ad
ascoltare un po’ di musica.”
“E’ una vita che non esco la sera.” disse lei con l’amaro in
bocca.
“Neanche quando...?” replicò Filo senza pensare, pentendosi più
di averlo detto che di non aver pensato prima di dirlo.
“No, neanche quando stavo con lui.” gli rispose con la serenità
della tristezza “Non uscivamo mai.”
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Filo si levò di bocca un sorriso al miele e glielo passò, come per
asciugarle quel pianto senza lacrime.
“D’accordo.” si riprese Amber “Organizzami qualcosa di carino
e ci sarò.”
Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta Filo desiderò
stringerla fra le braccia. Un abbraccio innocente, senz’altro fine
che quello di tenerla stretta. Un salto mortale all’indietro nel
mondo incantato dell’infanzia.
L’evocato incanto di quel mondo fu spezzato dall’improvvisa
comparsa in fondo al corridoio di un gruppo multimediale che
avanzava a tempo di vivavoce. Lo capeggiava un piccoletto con
una sporgenza sul davanti, nelle parti basse; una specie di
gobba, frutto dello stivaggio forzato di un numero di fazzoletti
spropositato alla bisogna. Lo chiamavano il Portafortuna e lo
toccavano tutti lì, sulla patta, dove campeggiava in bella mostra
la marca dei pantaloni. Un nome che non lasciava spazio ad
aperture per i suoi toccatori: Closed. Al suo fianco c’era un
francofono con un indice calcificato, risultato di una mal riuscita
doccia gessata a una frattura scomposta del dito indicatore per
eccellenza, che pertanto indicava anche se non c’era niente da
indicare. Dietro ai due Lamàr, con un ghigno da pazzo e una
trousse di coltelli in mano. Uno straccio di cosa qualunque a cui
fare la punta riusciva sempre a trovarla. Di lato a questi Asserto,
uno dal pugno di ferro e il guanto di velluto. Era stato a scuola
dai gesuiti, i quali gli avevano insegnato che le verità di fede
non andavano dimostrate, ma solo mostrate. Stavano in piedi da
sole, come un pugno sul tavolo. E questo, semplificando
artificiosamente ai minimi termini, era quello che faceva. Più
indietro ancora Perri e Melli, due uomini effeminati in perenne
contrasto tra loro, che non si consideravano né solo maschi né
solo femmine, ma l’uno e l’altro a secondo del momento. Il
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contrasto derivava dal fatto che il momento di essere maschio e
quello di essere femmina non coincideva mai, così i due
facevano coppia fissa.
Il capetto, una volta di fronte ad Amber, la cinse con la fascia di
reginetta dell’ala e le fece un plastico inchino, che estese con
inaspettata generosità anche a Filo. Poi, dopo che Amber
gliel’ebbe reso, girò sui tacchi con tutto il gruppo e sparì
altrettanto improvvisamente di com’era comparso.
Il pensiero di Filo corse ai suoi compagni di stanza, cercando di
trovare in quelli, lavoro a parte, una qualche differenza con
questi. Una differenza di sostanza, che, tenuto conto delle
stravaganze degli uni e degli altri, ne giustificasse la
collocazione nella parte sana del Pallazzo. Ma, pur riconoscendo
più appariscenti e fuori norma le stramberie di questi, non fu in
grado di trovarne. O erano tutti, sotto un certo aspetto, sani,
questi e quelli, o erano tutti pazzi. Senza distinzione. La
mancanza di lavoro nell’ala rotta poi non aiutava i suoi abitatori
a darsi delle regole, e anzi li spingeva a infrangere finanche
quelle che non conoscevano.
Salutò veloce Amber, non prima di averle dato appuntamento al
mattino dopo per colazione e per la presentazione del
programma dell’uscita in tramoggia. Quindi riprese la via
dell’ufficio.
* *
Furio arrivò all’ospedale a tavoletta. Di fronte al pronto
soccorso inchiodò secco, tanto che ai compagni di viaggio uscì
di bocca lo stomaco, per tornar loro dentro come un poco
accetto boomerang. Scese di corsa dalla macchina, puntò una
vetrata con attaccato un residuo purulento di croce rossa e la
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spalancò. Si trovò davanti una fila di barelle che fissavano mute
un tavolo operatorio. Intorno al tavolo stavano seduti quattro tizi
in completa tenuta bianca, alle prese con un caso il cui esame
richiedeva la massima concentrazione e il più assoluto silenzio.
Era lo scopone scientifico del dopo pranzo, con cui i quattro si
giocavano caffè, digestivo e reputazione.
“Presto, qui fuori c’è uno con un braccio rotto!” disse loro Furio
quasi a voce bassa, per non disturbare il silenzio che il caso
esigeva. Quella totale assenza di suoni, però, gli restituì la voce
forte e stentorea quale non era, più temprata di un ordine in
tempo di guerra.
Il quartetto non si mosse, gli occhi fra le carte che aveva in
mano e quelle stese sul tavolo.
“Dovete far presto!” rincarò alzando il volume Furio, a un tratto
memore del soprannome. Ma soprattutto abituato a ben altro
tipo di reazione quando prendeva il comando delle operazioni.
I quattro reagirono nel modo di prima. A un tratto uno si mosse,
ma era solo per tirare una carta. Era quello di mano.
“Si può sapere perché non spiaccicate parola?! Parlo turco?”
esplose a quel punto Cipensoio, mandando in pezzi il silenzio da
gioco del quartetto muto.
“Perché a scopone non si parla, amico.” rispose impassibile uno
dei quattro, senza degnarlo d’uno sguardo. Neanche esistesse.
“Sentite!” tuonò minaccioso il risolviproblema “Se non siete in
servizio chiamate qualcun altro, ma sbrigatevi!”
“Ma noi siamo in servizio. Non li vede i camici?” brontolò l’ex
impassibile. E avuto cura di stendere sul tavolo le carte, ben
coperte, si alzò rassegnato, seguito con pari rassegnazione e
distesa di carte, ugualmente coperte, dagli altri compagni di
bisca. “La partita la continuiamo dopo.” borbottò loro ”E non
freghiamo, eh?!”
168
Il meno rassegnato del tavolo verde andò a prelevare dall’auto
Giona, sempre in silenzio stampa, lo prese in braccio come un
pupazzo di pannolenci e lo portò dentro. In scia i due angeli
custodi del pupazzo.
“Qual è il braccio rotto?” domandò a Furio il portantino che
aveva dato la molla agli altri.
“Il destro.”
“Il destro?!” chiese allungando gli occhi quello che teneva in
braccio Giona, prima di appoggiarli sul moncherino sinistro. “Se
è rotto il destro, il sinistro che ha fatto?” sghignazzò digrignando
una dentatura mobile. Aveva tre ponti, uno più traballante
dell’altro.
Furio si irrigidì, poi si girò a guardare Giona. Allorché vide che i
moncherini penduli di quel burattino triste erano due e non uno,
non credette né alle sue pupille né a quanto stava loro davanti.
“Non è possibile.” sussurrò in fin di voce, interrogando senza la
speranza di una risposta i due compagni di soccorso “Portiamo
in ospedale uno con un braccio rotto e arriviamo che li ha rotti
tutt’e due?”
“Sarà stato quando hai sterzato.” azzardò in replica Masolargo,
con l’aria innocente di chi ha appena ripulito, non visto, una
scatola gigante di cioccolatini, e dopo averla richiusa l’ha
rimessa dove l’aveva presa. Come nuova ma vuota.
“Beh, portiamolo in ambulatorio.” strinse i tempi il portantino
che reggeva l’infermo, depositandolo sulla prima barella della
fila.
All’improvviso fecero irruzione da fuori altri quattro portantini,
che correvano spingendo una lettiga con sopra una pancia a tre
piani. Alla vista del camion da corsa in arrivo, i quattro giocatori
-lo scopone era solo uno dei tanti giochi da lavoro, il più
impegnativo fra quelli sedentari. Tra quelli dinamici invece il
169
gioco più divertente era la corsa con le barelle, meglio se piene.
Il circuito di gara era quello che partiva dall’atrio, si apriva su
un largo corridoio in cui si toccavano velocità elevatissime,
proseguiva alla curva delle acque minerali (così detta perché
colà si trovava la macchina di distribuzione dell’acqua
minerale), dove si arrivava a marce basse dopo una repentina
decelerazione, per finire sul rettilineo che portava al traguardo:
l’accettazione del pronto soccorso-, alla vista dell’avversario in
arrivo, i quattro piloti della barella di Giona, scaldati i motori,
partirono in quarta, per tagliare per primi la linea bianca
dell’accettazione.
Le due barelle sfrecciarono appaiate sul primo rettilineo, ma
sterzando alla curva delle acque minerali i piloti del veicolo più
leggero persero il controllo del mezzo. Il barellato di piccolo
cabotaggio, che nella fretta non era stato assicurato alla lettiga
come avrebbe dovuto, per un istante si ritrovò a volare. Poi
incocciò il muro, trasformando tutta la sua energia cinetica in
lavoro di deformazione del suo naso e, sia pure in misura
infinitamente più impercettibile, del muro, e rovinò sul
pavimento.
* *
“Mi meraviglio di lei!” scandì a Ciarli il direttore nel riprendere
l’orbita ellittica intorno al tavolo, i muscoli della faccia tesi e i
lacci delle scarpe allentati -i piedi erano cotti e la strada da fare
ancora tanta- “Non aver pensato a una protezione per quel
creativo. A una guardia del corpo. Ma soprattutto, non averlo
accompagnato in mensa di persona!” continuò in un crescendo
interiettivo “Avranno immaginato fosse un infiltrato, un
mensarolo!”
170
“Io credevo...” azzardò l’angelo degli angeli.
“Lei non deve credere!” fibrillò imbizzarrito super dir scuotendo
le froge e scrollando la criniera. Una criniera bianca pettinata
con una meticolosa riga a destra. “Per quanto nel suo ufficio la
cosa possa avere un senso, lei non deve credere! Avrebbe
dovuto pensare, invece! Agire!” continuò l’orbitante mentre
allentava il cappio intorno al collo. Il nodo alla cravatta, dopo
una convivenza durata una vita senza mai un problema, gli era
diventato a un tratto insopportabile. “Non mi è mai piaciuto quel
tipo della mensa!”
“Prorecco? Sembra sia stato provocato.” disse a scusante il
nuovo angelo custode dei canottieri.
“Ah, sì?! Allora ha fatto bene! Se uno è un piantagrane o non ci
è simpatico, possiamo tranquillamente ammazzarlo di botte?!”
“Ma no, certo che no.” replicò Ciarli “E poi” tagliò corto
svicolando “io credevo che a questo pensassero loro.” e indicò a
tutto braccio i due del controllo.
Ciarli, da buon dir d’altura, scaltrito da anni di navigazione nei
piani alti, era un esperto nell’arte di scansare le responsabilità e
scaricarle su qualcuno di suo gradimento.
“Pensare a cosa?” chiese cadendo dalle nuvole la coppia additata
colpevole.
“A una scorta.” rispose il navigatore dei piani nobili “Un
servizio d’ordine; una qualche protezione. In fondo l’idea di
Giona è stata mia. A proteggerlo era sottinteso ci pensaste voi.
Giona ha un carattere non facile. E’ introverso, permaloso,
scostante; pignolo fin sotto il cappello. Con gli sbalzi d’umore
dei bambini e l’indole chiusa e selvatica del topo di biblioteca.
Anzi, nel suo caso, del topo di pratica. Era da dire che potesse
succedere qualcosa. Da prevedere.”
171
Nel corso della tirata di Ciarli il direttore aveva cominciato a
rallentare la sua orbita, e a rivolgere sempre più stabilmente le
sue occhiate al veleno da Ciarli ai due del controllo, che già
stavano pensando a dove poter trovare un antidoto.
“Comunque far tragedie ora non serve.” concluse Ciarli,
premurandosi di fare lui da antidoto “In pratica non è successo
niente.” aggiunse a maggior tranquillità degli astanti, senza
pensare che forse Giona non sarebbe stato del tutto d’accordo.
“Il nostro uomo, per fortuna, è mancino. Il braccio destro può
pure perderlo.”
Il suono del telefono costrinse il satellite a interrompere l’orbita.
Atterrò sulla sedia e alzò la cornetta.
“Hanno chiamato dall’ospedale, signor direttore.” cantilenò la
sua segretaria particolare. “Sono arrivati.”
“Bene.” disse super dir riempiendo la cornetta di sicumera a
fiato. “Hanno già ingessato Giona?”
“Un braccio sì, l’altro ancora no.”
Il direttore si piegò in avanti senza fiato, colpito alla bocca dello
stomaco dal maglio di un ariete.
“L-l’altro?” bisbigliò deglutendo.
“Sì, è arrivato in ospedale con le braccia rotte e il setto nasale
fratturato.”
* *
Sulla via dell’ufficio Filo incrociò Melba. Era questa una
ragazza col viso di pesca, i seni a pera e il corpo a forma di
anguria, appesantito da anni di attesa di un uomo a cui piacesse
la frutta.
“Come va?” le chiese a titolo di cortesia. Non aveva alcuna
voglia di fermarsi a chiederglielo, ma dando una scorsa alla sua
172
faccia mesta vi aveva letto una tacita richiesta di sfogo. E lei ne
aveva approfittato; gli aveva raccontato quello che le era
successo il giorno indietro.
Nel comune dove ogni cosa è organizzata nel migliore dei modi
possibili, quello degli organizzatori, Melba era stata chiamata,
come altre prima di lei e altrettante e più dopo, alla visita
oculistica di controllo per l’adibizione all’uso continuato dei
videoterminali. Visita da tenersi presso il più vicino centro
comunale di salute pubblica.
Dapprima le era stata data da compilare una scheda, sulla quale
aveva trascritto dati anagrafici, malattie e operazioni subite,
malattie e operazioni subite dai genitori, stato di salute attuale
suo e dei suddetti.
Poi c’era stata la visita vera e propria, dove un solerte dottore le
aveva chiesto dati anagrafici, malattie e operazioni subite, da lei
e dai genitori, stato di salute suo e loro. Dati che lei era stata ben
felice di snocciolare dopo averli ripassati mentalmente, e non
senza mnemonica fatica, nel momento in cui li aveva messi per
iscritto sulla scheda.
A quel punto il medico, dando prova d’esser vero medico, le
aveva provato la pressione. Del corpo, non dell’occhio, perché,
aveva detto lui, in una visione olistico-tagliaspese, che dalla
pressione del corpo dipendeva quella delle sue parti. Che l’uno
era soggetto all’intero.
“Pressione ottima.” aveva esclamato l’olistico con esperienza di
gommista. “Può accomodarsi.”
“Dall’oculista?” aveva chiesto ingenuamente Melba.
“No, al lavoro. L’oculista sono io, e la sua vista è perfetta.”
“Grazie.” aveva replicato Melba, a cui d’un tratto era parso di
vederci molto meglio di quand’era entrata. Quasi ne rise della
paura che aveva prima di andarci, che le innaffiassero gli occhi
173
con quelle gocce che gonfiano le pupille e fanno vedere le cose
come dietro un vetro bagnato. Avrebbe faticato non poco a
ritrovare la via dell’ufficio e non sarebbe riuscita a lavorare per
alcune ore con davanti quella cortina di aspersa acquerugiola.
Sarebbe stata costretta ad aspettare il ritiro delle acque.
Non sapeva l’illusa che i vertici pallazzeschi si erano accordati
con quelli medical-comunali di guadagnare quelle poche ore di
lavoro gli uni, e di risparmiare sul collirio gli altri, per averne
ognuno un equo ritorno di utile. La visita sarebbe stata meno
efficace per il soggetto da controllare, ma non per le esigenze di
facciata del modello comunale per antonomasia.
“Avanti il prossimo” aveva proferito l’oculista in incognito
spuntando su un tabulato il nome di Melba, abile e arruolata
nello sconfinato esercito degli operatori di videoterminali.
Non tutti, ma specialmente non tutte, avevano avuto una visita
così approfondita. C’era stata chi l’aveva avuta di più. La
Murena era una di queste. L’olistico, dopo averla vista avanzare
a colpi d’anche, abbandonarsi sulla sedia con la sinuosità di
Cleopatra, ostendergli un davanzale da alta collina ed
effondergli un inebriante profumo di muschio selvatico, aveva
immediatamente occultato lo strumento da pressione e,
risucchiato nelle spire dei suoi occhi neri, l’aveva invitata a
spogliarsi. Lei non se l’era fatto ripetere e, pur senza musica,
s’era tolta quanto aveva addosso in un concerto di movenze da
fargli schizzare il battito cardiaco. Dopodiché la pressione
avevano dovuto provarla a lui.
“Tu quando ci vai alla visita?” gli chiese Melba.
“Il più tardi possibile.” rispose Filo.
* *
174
Quando Filo rientrò nel suo ufficio, sempre allegramente vedovo
di Sotto -gli accertamenti sul suo inspiegabile duplice gruppo
sanguigno avevano richiamato in ospedale legioni di specialisti,
che avevano consigliato di ricoverare sine die l’appendice per
studiare il caso a dovere-, Filo ci trovò un paio di tizi addobbati
di blu, provvisto di metro l’uno e di cordella l’altro.
Erano Cappa e Spada, due dell’ufficio tecnico che erano venuti a
prendere le misure di cose e persone. Le cose nel Pallazzo
venivano sempre prima delle persone, per quanto la direzione lo
negasse nel modo più sdegnato e risoluto. La realtà però parlava
da sola; le cose vecchie o fruste venivano puntualmente
sostituite con cose nuove, mentre per le persone la sostituzione
non era altrettanto puntuale né automatica. Misure da prendersi
in vista di un futuro, epocale trasloco dal Pallazzo, ritenuto
ormai non più al passo coi tempi, a un più moderno, e per il
momento ancora sulla carta, Pallovazzo. Un palazzo, sempre di
vetro, però non più tondo ma ovale; una sfera schiacciata verso
il basso, dalla linea allungata, aerodinamica, filante. Una forma
disegnata dalla galleria del vento, così da offrire la minima
resistenza all’aria, con una grande energia propulsiva, i bassi
consumi e la brillante tenuta. Una costruzione che doveva essere
la specchio della nuova struttura organizzativa che i vertici
pallazzeschi intendevano darsi. Una struttura mirata a penetrare
spazi di mercato non ancora fecondati.
Cappa si può dire fosse nato col metro in mano. Figlio di un
falegname che faceva mobili su misura, il metro fu il primo
regalo che gli fece il padre, nell’etologica speranza che un tale
imprinting lo spingesse da grande a seguire le orme paterne.
Quelle orme però si rivelarono ben presto troppo grandi per il
suo piede, e, una volta cresciuto, mise il suo arnese da misura al
servizio dei vetri del Pallazzo. Per quanto il servizio fosse sul
175
punto di prendere congedo, giacché chi lo svolgeva era ormai a
un passo dalla pensione. E anche quel metro che per anni aveva
misurato al millimetro decine di migliaia di chilometri di
carabattole ed ectoplasmi da ufficio, non aveva più lo smalto e
l’infallibile precisione di una volta.
Spada invece era stato assunto di recente per chiamata diretta da
un’agenzia di pompe funebri, per la dote, acquisita con la
pratica, di misurare un uomo a occhio nudo con un margine di
errore sotto il centimetro. Dote che gli aveva consentito di
vincere a ripetizione nel macabro gioco a quiz televisivo “Ci sta
nella fossa?”, poi soppresso dal garante dopo le proteste
dell’associazione vivipara “Meglio verticali”.
“Sapete cosa sembrate?” disse a un tratto Spurgo alla coppia blu
cobalto “Due becchini!” e scoppiò a ridere, seguito a ruota da
un’esplosione di risate.
“Vi manca solo il cappellino con la visiera!” rincarò con gli
occhi umidi Rolfo mentre si dimenava sulla sedia, mettendone a
dura prova l’intelaiatura in metallo.
I due blue’s brothers si toccarono con una mano le parti basse a
tempo di rithm and blues, e con l’altra mandarono a occuparsi
delle loro tutta la platea dei ridaioli.
“Accidenti a voi!” sbottò il più giovane dei due, che aveva
lasciato l’agenzia di pompe funebri proprio per l’incapacità di
reggere il viso di un morto, sia sul lavoro che dentro casa, nel
buio dei suoi incubi.
“Siete voi che avete sgombrato l’ufficio di Acidio?” chiese loro
Filo per associazione di idee, quando si spense l’eco dell’ultima
risata.
La coppia si scambiò uno sguardo di complice avversione, si
ritoccò con la rapidità del pensiero e annuì a pupille sgranate.
176
* *
“E’ arrivato in ospedale con le braccia rotte?” chiese con voce
non sua super dir, insalivando una bocca più secca del Sahara.
Mai avrebbe pensato che gli effetti della desertificazione del
pianeta sarebbero arrivati un giorno fin dentro il suo cavo orale.
“Così mi è stato riferito.” cantò senza tono la voce lagna della
sua segretaria particolare.
“Anche il sinistro?”
“Tutt’e due.” confermò la lagna telefonica, che non capiva come
facesse il direttore a non capire una cosa tanto semplice. Forse
era abituato a capirne di infinitamente più complicate, pensò
atona come parlava, e aveva perso dimestichezza con quelle più
elementari. Le sembrò anzi che tutta la faccenda facesse il paio
con quanto aveva letto sulla sua rivista favorita, “La segretaria
ideale”, che non esistono cose facili o difficili, ma solo cose che
si sanno e cose che non si sanno. Il fatto che i concetti oggetto
del confronto non fossero esattamente i medesimi, non le impedì
di congratularsi con se stessa, per aver trovato un’applicazione
pratica della mitica rivista all’ingrato ruolo di segretaria
particolare di direzione.
“Non è possibile.” mormorò super dir, di colpo senza più super
poteri.
“Oh sì invece.” riconfermò la segretaria aspirante ideale, che
stava cominciando a stancarsi di battere sempre sullo stesso
tasto. “E non dimentichi il naso.”
Il direttore abbassò la cornetta in un tempo interminabile, senza
dire una parola. E mentre dall’altra parte del filo l’ignara
messaggera di sventura masticava fiele per non averle detto il
direttore un “grazie”, un “buongiorno” o un “muori” -avrebbe
consultato il suo vangelo personale per trovarvi un’idea elegante
177
sul modo di fargliela pagare-, i tre, intuito dalla maschera tragica
del telefonista calante che qualcosa di tremendo e indicibile al
tempo stesso era accaduto, non avevano osato fiatare.
“Ha le braccia rotte.” disse al terzetto il direttore, basito quanto
un automa dell’ultima generazione.
“Tutt’e due?” chiese in punta di voce Ciarli, senza riuscire a
credere alle proprie orecchie ma soprattutto alla direttoriale
bocca, dalle cui labbra era solito pendere ciecamente.
Il direttore assentì inebetito, gli occhi fissi e la bocca sbieca.
“Ma com’è possibile? Non s’era rotto il braccio destro?!”
Super dir gli allargò due braccia pesanti come travi, prima di
farle cadere rovinosamente sulla scrivania.
“E ha pure il naso rotto.” aggiunse scuotendo la fitta criniera
scolpita.
Ciarli replicò scrollando la sua. Una brulla distesa di crini
rarefatti.
Il Nero e il Grigio erano rimasti immobili sulle sedie, quasi mute
e assenti suppellettili d’ufficio. Gli stessi legni dell’ufficio di
direzione, scricchiolando con compostezza, davano segno di
maggior vitalità. Di maggior partecipazione al pallazzesco
dramma. Senza le mani di Giona la pratica non avrebbe potuto
risorgere, e loro, che non erano riusciti a trovare l’originale, e
nemmeno avevano saputo proteggere colui che avrebbe potuto
ricrearlo dal nulla, sarebbero rimasti gli unici e soli colpevoli.
“Un’idea... Il mio regno per un’idea.” bisbigliò il direttore
sovrano, sul punto di perdere scettro e corona.
* *
Nelle pupille sgranate e nelle toccate scaramantiche del duo di
Cappa e Spada, Filo ci lesse la conferma di quello che una
178
vocina di serpente gli aveva sibilato prima di fare quella
domanda biforcuta.
Due tizi dall’animo così votato a certi scongiuri tattili, nelle parti
un cui un poco elegante ma consolidato costume vuole che
tengano lontano disgrazie e malattie, incaricati di sgombrare
l’ufficio di un morto stecchito e di metter ordine fra le sue
cianfrusaglie. Di toccare cioè quelle cose che poteva aver
toccato il morto stesso un momento prima della dipartita, se non
nell’attimo della dipartita medesima. Nella migliore delle ipotesi
avrebbero messo ordine nell’intervallo fra una palpata e l’altra.
Quanto tempo era durato lo sgombero, intervalli compresi? No,
non ce li vedeva neanche col binocolo quei due virtuosi dell’arte
scaramantica applicata alle vergogne a riordinare con un minimo
di calma e raziocinio l’ufficio di Acìdio.
Se ne avesse avuto voglia avrebbe potuto parlarne con Archeo,
un collega che vantava la barba lunga dei profeti e la memoria
corta dei giocatori d’azzardo, oltre alla spocchia dei primi della
classe. Spesso succedeva che prima di prendere determinate
decisioni si sentiva cosa ne pensava Archeo, e quello che diceva
veniva preso per oro colato, con l’autorità delle profezie di un
oracolo accreditato. Prima di lui ci si rivolgeva a un certo
Vatìmio, detto Cassandra per le previsioni mai troppo rosee.
Tutte peraltro azzeccatissime. Solo che, dopo una scivolata su
un suo non profetizzato amore finito male, era diventato di un
umore così nero che qualsiasi cosa gli si chiedesse erano tutte
sventure della peggiore specie, e da allora nessuno gli chiedeva
più niente. Archeo era il successore morale di Vatìmio, e
parimenti godeva fama di non andare troppo lontano dal vero
nelle previsioni, ma Filo non aveva voglia di aver a che fare con
quel saccentone.
179
Filo era convinto che quell’ufficio chiuso a chiave nascondesse
un altro cadavere. Un cadavere che, a differenza del primo, non
era stato rimosso.
Quel giorno in mensa era girata una strana voce. Quella che gli
archivisti, al loro arrivo in ufficio, avevano trovato due bottiglie
del loro bar personale prosciugate e le girevoli fuori posto.
Qualcuno doveva essere stato in archivio, e a far cosa se non a
cercare la pratica scomparsa? Ma l’avevano trovata? A giudicare
dall’aria a spilli che continuava a respirarsi fra quei vetri
sembrava di no. E quel tipo vestito da funerale di stato che s’era
presentato in mensa puntando il dito contro tutte le pietanze,
colpevoli solo di offrirsi, dietro prorecchese compenso, alle
urgenze mangerecce dei mensaioli, che parte aveva in tutta la
faccenda? Se ancora l’aveva, o Prorecco non gliel’aveva
definitivamente tolta.
Dopo aver covato in silenzio il suo uovo di serpente, quel
sospetto che sentiva crescergli dentro suo malgrado, Filo chiese
alla coppia al cobalto dei tempi del trasloco al futuro Pallovazzo.
“Prossimi.” risposero a tempo di duo, senza in realtà sapere
tanto né quanto, prima di riprendere a misurare cose e persone.
A occhio nudo l’uno, a metro l’altro. Finito che ebbero, fecero
un saluto blu elettrico e uscirono.
La porta pensò bene di riaprirsi un istante dopo, offrendo alla
stanza e ai suoi occupanti una visione da estasi celeste.
Un’apparizione inaspettata, e perciò tanto più gradita.
* *
Toni aveva seguito le ultime vicende del Pallazzo col
coinvolgimento emotivo di un tampone per timbri. Il suo
cervello, per quanto teoricamente in grado, al pari di tutti i
180
cervelli, di operare, per dirla con l’informatica, in
multipartizione, cioè facendo una cosa e pensando in
contemporanea a un’altra, quel giorno il suo cervello era
occupato in ogni partizione disponibile da un unico colore,
sormontato da colei che l’aveva eretto a suo vessillo. Da
quell’essere unico, dal piumaggio esclusivo, che nel mare degli
omogeneizzati esseri che intrecciano politica e lavoro batteva
orgogliosamente bandiera rossa.
Nella testa del riccio fluttuavano come atomi nel vuoto dieci
numeri impazziti, che ancora non sapeva su quale ruota
sarebbero usciti. I numeri di cellulare dell’infuocato oggetto di
ogni suo pensiero. Sarebbero usciti sulla sua ruota o su quella di
altro più remissivo e accomodante maschio? Farli uscire sulla
sua dipendeva solamente da lui. Bastava giocarli.
Era arrivato a un bivio, lo sapeva. Chiamarla voleva dire
prendere una strada, non chiamarla un’altra. La prima l’avrebbe
portato a passo di promesse in chiesa prima, e fra quattro
indissolubili mura poi, la seconda a tempo di frottole a caccia di
sempre nuove prede. Doveva soltanto aver chiaro cosa voleva
fare, se continuare a cacciare o passare a più tranquilli
passatempi casalinghi.
Se solo se la fosse fatta, pensava Toni a occhi bassi, mentre quei
numeri continuavano a mulinargli in testa come dentro un’urna
in perenne rotazione sul suo asse. Se ci avesse passato la notte,
assieme a quella rossa di sogno, sarebbe stato più semplice
dimenticarla e passare a un’altra. “La prima che rispetti è quella
che ti sposi.”, diceva l’incastrato di turno in un vecchio film che
aveva visto alla tivù. A volte anche la televisione è fonte di
verità.
All’improvviso Toni ebbe un sussulto; alzò la faccia larga, tirò
su il telefono e fece un numero.
181
“Pronto, sono io, perché non ci vediamo stasera?” disse di corsa,
per paura di imbrogliarsi.
Erano i dieci numeri dell’urna, usciti tutti e dieci e nell’ordine
giusto sulla ruota del riccio.
“Perché no?” gli sussurrò una cornetta di velluto, rimandando la
rutilante immagine di lei.
Il cacciatore era caduto nella rete tesa dalla preda cacciata.
* *
La visione estatica, che la porta aveva liberato in tutto il suo
fulgore di estatica visione, era la Pucci, la bambola del Pallazzo.
La Pucci era così offensivamente bella da svuotare di significato
il concetto stesso di bellezza, che riferito a lei suonava confuso e
inadeguato. Ovvero riducibile alle sue fattezze soltanto per
difetto, con le più sentite scuse del concetto astratto al soggetto
empirico, che lo realizzava in misura tanto più completa ed
esaustiva.
I suoi detrattori, ovviamente tutte e solo donne, dicevano che a
essere così bella fuori doveva essere per forza vuota dentro, ma
di questo nessuno dei suoi boy-friends si era mai lamentato.
La cosa strana, a dir poco incredibile per una femmina di quelle
fattezze, era che la Pucci, oltre che di straordinaria bellezza, era
anche non meno straordinariamente alla mano. Non faceva
pesare quel dono per gli occhi come tante altre meno belle di lei,
gratificando così l’interlocutore non solo di una visione
d’incanto, ma anche di un modo di porla che rendeva l’incanto
una favola. Al punto che, appena assunta, per sottrarla agli
sguardi intrusivi degli scrutatori pallazzeschi, era stata dirottata
nell’ufficio matrimoni del Pallazzo, di cui era la testimonial
ideale.
182
Non contenta di tanta smagliante virtù, la Pucci usava
infiorettarla con lussureggianti completi da sera, ricchi di drappi,
nastri e svolazzi, dai colori ora teneri e delicati, ora forti e
violenti. Colori che, esperta di sponsali qual era, accoppiava
sempre alla perfezione, sia fra i due gruppi che all’interno di
ciascuno, col risultato di passare difficilmente inosservata
nell’omologo panorama del Pallazzo.
E per questo suo essere sempre perfetta in tutto, qualcuno aveva
avanzato l’ipotesi che fosse falsa. Ma anche di questo nessuno
dei suoi boy-friends si era mai lamentato.
“Ciao, Filo, ce l’hai tu la pratica Pardo?” sbocciò quel fiore
dopo aver messo le radici davanti alla sua scrivania.
“Sì.” rispose Filo con le labbra secche e il cuore in festa.
Trovarsi faccia a faccia con la Pucci e il suo incarnato non era
cosa da lasciare indifferenti. “Ce l’ho qua.”
“Se non hai niente in contrario la prendo io. Sai, lei deve
partorire; aspetta una bimba.”
“Chi, la moglie di Pardo?”
“No, la sua amante.”
“Ah.”
“Sì, ma la moglie sa tutto.” disse comprensiva la sponsale “L’ha
accettata come una figlia.”
“Chi, la bimba?”
“Ma no, l’amante!”
“Così lei farebbe da nonna?”
“Beh, non proprio. E’ che non poteva avere figli.” ammiccò
stendendogli un mezzo sorriso, metà del quale, da solo, avrebbe
illuminato a giorno un raduno antelucano di cuori infranti.
“La moglie.” azzardò il destinatario di cotanta luce, seguendo il
filo rosso di quel gioco a indovinelli. “Non dirmi che stavolta
183
non ci ho preso.” protestò per scherzo Filo “Potrei non
riprendermi per il resto della giornata.”
“Sì che ci hai preso.” rispose la Pucci sorridendo “Comunque,
visto che la faccenda si è complicata, è meglio che la pratica la
seguiamo noi dell’ufficio matrimoni.”
“E’ tutta tua.” disse Filo, e adagiò l’incartamento su quelle mani
dipinte “Anche se qui mi sembra che il matrimonio c’entri
poco.”
“Il matrimonio c’entra sempre.” ribatté suadente la testimonial
ideale “Grazie.”
E la visione, riassorbita dalla porta, ridiventò chimera.
* *
Nonostante l’estrema vantaggiosità della direttoriale proposta,
nessuno dei tre ospiti dell’ufficio di direzione era stato capace di
farsi venire un’idea da scambiare col fantomatico regno del
direttore sovrano.
Anche se è chiaro che proposte simili, così tanto vantaggiose per
chi le riceve e così poco per chi le propone, usano farsi quando
si ha un assoluto bisogno della cosa che si vuole avere in
cambio. Come capitò a quel re diventato famoso per aver offerto
il proprio regno per un cavallo, allorché lì per lì gli serviva a
tutti i costi un cavallo, e di cavalli all’orizzonte non ce n’erano
neanche a pagarli quanto un castello. Di quello scambio poi,
stante la perdurante mancanza del quadrupede, non se ne fece
nulla, e le cose andarono nel modo che sappiamo. Almeno,
quelli che sanno come andarono. Chi non lo sa, non s’illuda di
impararlo ora, che la storia esige che il vostro narratore non
s’attardi nell’esporla.
184
“Il mio regno per un’idea.” aveva sospirato l’aspirante
scambista. Ma le idee, in quel momento, latitavano. E nemmeno
si intravedeva all’orizzonte una larva di pensiero che potesse
assumerne anche solo la vaga sembianza. Il regno restava
saldamente e ingombrantemente sulle spalle del suo traballante
monarca.
I quattro si guardavano muti, incapaci di articolare voce.
Qualsiasi parola fosse uscita di bocca al quartetto in quel
momento, sarebbe apparsa fuori luogo e inopportuna. O vuota e
inconcludente. O sciocca e presuntuosa. Una stonata
interferenza fuori banda. In quel frangente stare zitti era l’unica
soluzione. Se non altro, la più indolore.
Ma se è vero che il silenzio faceva meno male delle parole, è
anche vero che senza parlare non si è mai risolto un problema.
Parlare diventava dunque, più che un dovere, una necessità.
“A che punto sono le ricerche della pratica?” ruppe eroicamente
il silenzio super dir con una smorfia di dolore. Le parole
facevano male a lui per primo. Anche se lui per primo si rendeva
conto di non poter farne a meno.
“E’ introvabile.” rispose con un sospiro il Nero “Abbiamo
controllato dappertutto, ma non c’è stato verso di trovarla.”
Dopo quella risposta senza speranza il vuoto acustico tornò a
farla da padrone. Le parole erano ritornate inutili.
“Ci aggiorniamo a domattina.” parlò di nuovo il direttore, ormai
avvezzo a rompere silenzi “Alle dieci nel mio ufficio.
Troveremo una soluzione. Dobbiamo trovarla.” chiuse calcando
il “dobbiamo” e chiudendo la seduta.
Quando i tre furono usciti il precario sovrano del Pallazzo chiese
aiuto alle spremute meningi. Pensò ai libri su cui aveva studiato,
a quelli che per lavoro aveva letto. Dicevano tutti che non si dà
problema senza soluzione. Avrebbe voluto averli davanti ora
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quegli autori, quegli studiosi. A pensarci bene, quasi tutti
americani, così bravi e addentro allo specifico del proprio
campo da dar l’idea, tutti assieme, di aver la soluzione a ogni
questione. Avrebbe voluto parlarci e chieder loro: ”Ecco, questo
è il mio problema. Risolvetelo.” Accidenti a tutti i libri, a chi li
scrive e a chi li legge. Ma, soprattutto, agli americani.
* *
Come ogni altro giorno passato, al pari, è lecito presumere, di
ogni altro giorno futuro, era venuta l’ora più dolce per il poco
avvezzo palato ai dolci dei riluttanti lavoratori da vetrina, quello
della libera uscita dal Pallazzo e dalle sue sbarre di cristallo.
Filo non aveva la fretta del pomeriggio prima, avendo di sotto,
in pronta attesa, il macinone. Poté quindi scendere le scale con
calma, senza dover tenere d’occhio i pallazzeschi vetri ad
annunciargli i fari dell’autobus in arrivo. L’abitudine però era
tale che lo sguardo corse ugualmente, senza volere, su quei vetri
annunciatori. E fu un piccolo piacere, di quelli che danno una
gioia piccola, quasi effimera -che però l’inesistente parco gioie
del Pallazzo rendeva tanto più grande, elevandola così al rango
di gioia vera e propria-, fu una piccola grande soddisfazione
notare le luci dell’autobus in arrivo e non dover accelerare la
discesa per prenderlo.
Gli parve anzi di scorgere l’autista che guardava in alto per
vedere se stava scendendo, per poter accelerare, rallentare
fingendo di aspettarlo e riaccelerare di nuovo. Il divertimento
preferito degli autisti d’autobus repressi; la maggioranza. Ma
forse era solo un’illusione creata dalle lenti ai suoi occhi.
Una volta dentro il macinone si sentì come fra le mura di casa;
libero di dar sfogo ai pensieri. All’improvviso si ricordò che
186
quel giorno Amber era senza macchina. Avrebbe potuto
chiederle se voleva un passaggio, ma non ci aveva pensato nel
momento in cui avrebbe dovuto. Pensò che nelle vesti di
aspirante seduttore valeva poco, anche se, ripensando al colpo di
mano del pomeriggio indietro, con cui l’aveva rapinosamente
invitata a colazione, pensò pure che qualche progresso l’aveva
fatto. Certo di strada doveva ancora farne, ma un primo passo se
l’era messo alle spalle. Doveva solo continuare.
Si scosse al pensiero che, forse, era ancora in tempo a offrirle
quel passaggio. Se già non era uscita. Portò di corsa le
casalinghe lamiere del macinone di fianco al portone illuminato
del Pallazzo, per avere sotto controllo il fisiologico deflusso dei
suoi inquilini forzati e, se la vedeva, richiamarne l’attenzione col
clacson. Avrebbe aspettato solo qualche minuto, perché Amber
non era tipo da attardarsi nelle cose che faceva. Specie ora che
non faceva niente.
Allorché vide sgattaiolare fuori la sua scarna figura
luminescente, attraversare con due salti la strada e salire con un
terzo su un’auto che non finiva più, ci restò. Non quanto però la
vide incollare le labbra alla guancia dell’autista, un tipo nodoso
spazzolato di bianco.
Filo sentì una fitta che gli mozzò il fiato. E mentre si chiedeva
cosa ci aveva trovato in quella ragazzetta secca e dritta, che gli
dispensava empiti di estasi cardiocircolatoria alternati a spasmi
gastrointestinali acuti, mise in moto il macinone, che, dati due
colpi di tosse e schiarita la voce, partì docilmente. Lungo la
strada si sforzò di convincersi che lo spazzolone imbiancato
fosse il padre. Senza però essere convincente come avrebbe
voluto. Ritrovandosi poi a pensare, non senza preoccupazione,
di essere geloso anche di lui.
187
* *
Si dice che i sogni parlino alla gente. Con un linguaggio non
sempre comprensibile. Talora in prima persona talaltra in terza,
a volte con discorsi diretti a volte con astrusi giri di parole. Ma
anche con immagini, suoni, fantasie, enigmi. In ogni caso
parlano, e per ciò solo nessuno dovrebbe gettar via i propri
sogni, quasi fossero qualcosa che non lo riguarda, un corpo
estraneo che non gli appartiene, ma dovrebbe aprirli e guardare
al loro interno. Per cogliervi il fondo della propria natura, e
avere così un’idea di quanto vi si annida dentro.
C’è il sogno che rende giustizia di un torto subito, quello che
rievoca un evento luttuoso, quello che drammatizza un conflitto
agito nella vita conscia, quello che presenta persone rimosse,
quello che fa balenare una vita di fiaba.
Gli inquilini coatti del Pallazzo, in libera dormita al rispettivo
domicilio, avevano optato, sia pur inconsciamente, per
quest’ultimo tipo di sogno, ritenuto dagli stessi, stavolta però
consciamente, più confacente all’esigenza di riscatto dalla
routine del quotidiano. In ogni caso più piacevole da rievocare il
mattino dopo, se il sogno si fa ricordare, o tale da lasciare ben
disposti verso il nuovo giorno senza saperne il motivo, se è di
quelli che non si fanno ricordare.
I sogni parlano dunque. Il vero problema è che nessuno li sta a
sentire. Sono tutti schiavi delle parole e della ragione, e di tutto
quello che serve ad ancorarle a un rigoroso e intransigente senso
compiuto. Salvo scoprire che ognuno coltiva la sua ragione in
proprie serre, chiuse e recintate, incapace di conoscere e
apprezzare i florilegi che offrono le altre. Parole e ragione che
impediscono di ascoltare la voce del corpo e del suo muscolo
più importante ma anche più negletto, il cuore.
188
* *
Quella mattina Filo, nonostante le ore piccole con Paddi, era
riuscito a fare la sua parte. Aveva messo a tacere la sveglia
quando questa era suonata, e non s’era riaddormentato dopo che
l’aveva spenta.
Poté quindi uscire per tempo e prendere l’autobus, lasciando a
dormire in strada il macinone. “Adotta un nonno”, recita la
pubblicità comunale per la prevenzione dell’abbandono degli
anziani. Beh, Filo l’aveva fatto in tempi non sospetti -oggi dietro
l’adozione di certi anziani si nasconde spesso il desiderio di
accudire più la loro pensione che la loro persona-. Aveva
adottato una vecchia auto, e non se n’era pentito. E’ vero che
pativa il freddo, che sotto sotto covava un filo d’asma, una
specie di rantolo che però dopo un po’ spariva, che marciava
con la flemma di chi non deve andare da nessuna parte, che
correva, piano, solo se costretta, e che ai semafori partiva
invariabilmente per ultima, ma una volta partita e superato il
rantolo era sempre di buon umore.
Salito che fu sull’autobus, però, Filo ci mise poco a pentirsi di
non essersi riaddormentato e aver preso il suo fido compagno di
viaggio. Dire che era stipato come un carro bestiame era
un’offesa sia per chi ci stava dentro che per il bestiame, poiché
in realtà era molto peggio. Almeno le mucche o i maiali
mandano tutti lo stesso odore, così da non sentire quello degli
altri. Inoltre mangiano tutti erba o ghiande, di qualità più o meno
identica, e non alcuni formaggi alle erbe pesticide, altri cuori di
cipolla in salsa tartara, altri ancora spicchi d’aglio crudo intinti
nel tabasco. Perché è questo che doveva aver mangiato la sera
prima la maggior parte degli stipati.
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Intrappolato tra questi fiati allucinogeni e altri miasmi fuori
stagione, per distrarre l’olfatto ma specialmente lo stomaco, che
minacciava di buttar fuori da un momento all’altro quel caffè
che aveva appena fatto entrare, e farli pensare ad altro, Filo si
mise a guardare le pubblicità che facevano da sopracornice ai
finestrini di quella camera a gas mefitico semovente. Una
invitava pubblicamente le donne a toccarsi, sia pure a scopo
terapeutico, in quelle parti del petto rigonfie dove è facile a
scatenarsi tanto la libidine quanto meno accetti corpuscoli
maligni, un’altra a rottamare anziani benestanti in case di riposo
più accoglienti di alberghi a cinque stelle, un’altra a trasformare
i solidi in liquidi -pubblicità buona sia per un banco di pegno
che per una purga (il disegno di fianco alla reclame faceva
propendere per la prima ipotesi)-, un’altra ancora offriva denaro
per oro di qualsiasi origine e provenienza, cavi orali compresi.
Infine, dulcis in fundo, come direbbe un cameriere presentando
il dolce a fine pasto, la pubblicità che invitava a lasciare a casa
l’auto e prendere l’autobus.
Filo, che era salito dalla parte dell’autista e non era riuscito a
muovere un passo verso le porte centrali -in realtà riusciva a
malapena a respirare, sforzandosi anzi di metter dentro meno
aria possibile, per lasciar fuori effluvi malsani e bacilli-, Filo,
facendo propri i mugugni della mandria, disse secco all’autista:
“Dovremmo essere pagati noi per certi servizi, anziché pagare!”
Si aspettava la solita rispostaccia da autista represso in avanzato
stato di decomposizione. Quello invece, forse indottrinato da
acconcia propaganda consorzial-comunale, gli sgranò un sorriso
della migliore tradizione autistica.
“Lo facciamo per voi.” replicò l’indottrinato. “Perché
socializziate. E perché questo comune sia sempre
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all’avanguardia nell’offrire ai suoi cittadini occasioni di svago e
di affiatamento reciproco.”
Filo guardò la racchia gengivosa parcheggiata davanti ai suoi
occhiali, il vecchio sclerotico che gli sgomitava di fianco, e sentì
il vento caldo e nauseabondo del donnone che gli alitava dietro.
Non aveva nessuna voglia di socializzare. Ci si affiatasse lui,
con questo trio.
* *
Quando Edo infilò il tesserino nella macchina marcatempo ci
rimase.
Ci rimase perché l’insaziabile divoratrice di tesserini promiscui
era in perfetto orario col suo orologio, regolarmente regolato coi
suoi punti di riferimento quotidiani.
Edo la fissò nei cristalli liquidi senza parlare, poi la sua
mentalità di logico ebbe il sopravvento. Voleva sapere a tutti i
costi il perché di quel cambiamento senza causa. Almeno in
apparenza. E avendo studiato che senza causa non c’è
cambiamento, decise di indagare. Rivolse così a quella
macchina bifronte una serie di domande dirette ad acclarare quel
perché, ma non ricevendo risposta al di fuori della scansione del
tempo rilevata dai cristalli liquidi, decise di prenderla persa
anche stavolta e tirò dritto.
Ada e Ida, per contro, erano già alle prese con una nuova
commedia del poliedrico cartellone del teatro stabile del
Pallazzo. Protagonista maschile il solito Accio, che la sera prima
aveva cercato di far decollare il famoso aeroplanino senza una
ruota da sopra la sedia su cui era salito, lanciandosi da quella
base improvvisata con l’apparecchietto in mano. Lui aveva
sbattuto contro il pavimento il ginocchio, che in un attimo gli
191
era diventato blu, mentre al piccolo velivolo era andata assai
peggio. Nell’impatto con l’impiantito si era fracassato
irreparabilmente. Ada aveva portato quel cruccio di figliolo al
pronto soccorso, per fargli fare le lastre.
“Per fortuna era solo una botta.” disse a Ida.
“E non si vergogna?” replicò sdegnata la sorda.
“E perché mai dovrebbe vergognarsi?”
“Una cotta alla sua età?!”
“Ho detto botta, non cotta. Una botta al ginocchio.”
“Ah, anche bugiardo!”
“E perché sarebbe un bugiardo adesso?”
“Ma se l’hai detto tu che è come Pinocchio!”
Ada stampò la solita biro sulla scrivania e partì per il primo
caffè della giornata, mentre Ida attaccava l’apparecchio acustico.
In compenso Ovieffe e Fettunta, dopo il miagolio del
buongiorno e un doppio sbadiglio all’aceto balsamico, si
preparavano a una nuova intensa giornata di lavoro.
“Ieri sera ho visto alla tivù il film della serie “Donne in
provetta”.” esordì la pronipote dell’uovo di Colombo storpiato.
“Una donna felicemente sposata si sente attratta da una collega
gay che le fa la corte. Quando scopre che il marito la tradisce lei
lo pianta e va a vivere con questa, per poi scoprire che anche lei
la cornifica. Con un’altra donna. “Se devo farmi tradire da una
donna, tanto vale tornare con mio marito.” proclama con
orgoglio affrontando la fedifraga. Il marito giura sulla testa dei
figli di non tradirla mai più, finché, dopo un incidente d’auto in
cui i figli muoiono e loro restano illesi, ritenendosi sciolto dal
giuramento, non la tradisce un’altra volta. Lei allora lo rilascia, e
affronta a testa alta il suo destino di tradita cronica e
irreversibile. Ho pianto tanto.”
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“Che peccato, me lo sono perso.” gniccò Fettunta “Io invece ho
guardato il film della serie “Famiglie in prestito”. Pensavo ci
fosse da piangere, invece era un film comico.”
“Beh, mettiamoci al lavoro.” disse Ovieffe.
“Giusto.” convenne Fettunta.
E mentre l’una iniziava un lungo lavoro di trucco alla sua faccia
tonda, l’altra apriva il giornale e controllava i numeri del lotto
delle giocate di famiglia.
* *
Quel giorno Filo oltrepassò il portone del Pallazzo quasi a passo
di carica, senza il cerimoniale di tic e le remore propiziatorie di
quello passato. Camminare gli era ritornato automatico, come il
mangiare quando si è vuoti, il fantasticare quando si è a terra o il
parlar male degli assenti alle cene fra colleghi. Non sentiva più
il bisogno di guardarsi intorno o tendere le orecchie per sapere
che certi incontri a luci rosse non capitano tutti i giorni. Già è
tanto poter dire che capitano. Poté perciò oltrepassare la
lavorativa soglia in tutta dinoccolata disinvoltura, con l’assodata
certezza che non avrebbe fatto quell’incontro che il giorno prima
aveva sperato con tutte le sue forze di fare.
Attraversò il salone e raggiunse l’ascensore. Farsi due piani a
piedi la mattina non era così allettante come farli la sera.
Mancava il nesso con l’anticipo di libertà che gli dava prendere
le scale dopo il lavoro. Pigiando per chiamarlo a terra gli venne
di pensare che non aveva mai incrociato, né in entrata né in
uscita, nessuno di quegli esseri che aveva visto nell’ala rotta.
Esseri che, nonostante tutto, pensò non senza riluttanza, erano
colleghi -dalla riluttanza era ovviamente esclusa Amber-. O
193
avevano un accesso tutto loro o in quei locali ci passavano anche
la notte. O forse i mancati incontri erano solo dovuti al caso.
Entrò dentro l’ascensore meccanicamente, premendo il due con
questo pensiero in testa. Quando però mancava un niente a che
la porta si chiudesse, l’udito di Filo fu richiamato da un rumore
di tacchi che vi correvano incontro nella speranza di infilarla.
Il titolare del campo uditivo allertato ebbe una sorta di corto
circuito nell’attenzione. In un attimo gli passò dai reietti dell’ala
a quel miraggio in rosso che due mattine prima aveva reso
incandescente il suo involucro epiteliale e quello dei fortunati
che l’avevano incrociata. La mano corse in avanti, fece scattare
la fotocellula, e il sipario, lentamente, si aprì.
Di fronte a lui, in carne e semicurve, la ticchettatrice. Ria,
ancora una volta in orario. Entrando gli sorrise e anche lui riuscì
a trasformare una smorfia di delusione in un sorriso di plastica.
Non che non avesse anche lei qualche buona freccia al suo arco
di femmina cacciatrice, ma la rossa, semplicemente, era un’altra
cosa. Era la dea della caccia in persona.
Allorché poi Ria, aprendosi la giacca a vento, scoprì le due
solite coppe ripiene, stavolta al gusto di ciliegia, Filo non le
trovò di suo gradimento come in altre occasioni. Non poteva
fare a meno di confrontarle col rosso per antonomasia,
concludendo, secondo il proverbio, che l’abito non fa il monaco.
Giunto al secondo piano salutò quel corpo sodo e compatto, da
donna di una volta, che evocava grandi doti di lavoratrice diurna
ma anche notturna, specie nel corpo a corpo, uscì dall’ascensore
e s’incamminò verso l’ufficio. Lungo la strada notò che tutti i
colleghi di cui l’orecchio percepì i dialoghi parlavano di quella
cosa che doveva essere trovata e che non si trovava.
Se però Filo avesse avuto l’ingombrante dono dell’ubiquità, si
sarebbe accorto che non c’era inquilino del Pallazzo che, varcata
194
quella soglia, non si preoccupasse anzitutto, prima di iniziare il
lavoro, di chiedere, parlare o anche solo rimuginare in silenzio
della Pratica. Sì, avete letto bene, la pratica era diventata la
Pratica.
* *
Amber, quella mattina, aveva deciso. Aveva stabilito che non
aveva senso tenere in vita, improduttiva, un’intera ala di una
struttura lavorativa di quelle dimensioni. Di più, era assurdo; e
forse assurdo non era abbastanza. Solo per tenerci docilmente
segregati inquilini considerati diversi dal normale. Ma cos’era
“normale”? Quand’era in auge, nell’ovattato mondo dei quartieri
alti, lo sapeva bene, ma ora, che da quella specie di empireo era
precipitata negli infimi strati ove si dibatte la profonda bassura
dell’esperienza -si ricordò che queste parole appartenevano a un
qualche filosofo, ma nonostante i suoi master le sfuggiva il
nome (nome che, come già immaginerete, non sfugge invece al
vostro narratore, ma essendo di nessuna rilevanza in questa
storia, se non addirittura di sviamento dal suo scorrere, lo
lascerà libero di sfuggire al suo ricordo)-, ora non sapeva più
cos’era “normale”.
Forse che gli stralunati inquilini dell’ala rotta non erano in grado
di lavorare al pari di tutti gli altri? Di svolgere un’attività
impiegatizia, parcellizzata e ripetitiva? No, non erano loro, i
reclusi dell’ala, a non voler lavorare, o a non esserne capaci. Era
il sistema a paratie stagne del Pallazzo, che escludeva i “diversi”
dal suo ambito, a non volerli dintorno, a impedir loro di darsi da
fare e tenerli in disparte, come deportati in un ghetto.
Sì, quella mattina Amber aveva deciso. Avrebbe cercato qualche
pezzo grosso, qualcuno che contava, e facendo leva sul suo
195
nobile passato -non si nascondeva che anche lei ora era una
“diversa”, col potere contrattuale, compreso quello di farsi
ascoltare, di tutti i “diversi”-, avrebbe cercato qualcuno e gli
avrebbe fatto l’oscena proposta. Quella di riattare l’intera ala
rotta e, udite udite, mettervi al lavoro i suoi inoperosi abitatori.
Ne avrebbero tratto beneficio sia i suddetti che tutta l’economia
del Pallazzo.
Il problema era come riuscire a far digerire l’idea ai lungimiranti
vertici di quei vetri, la qual cosa la preoccupava non poco.
Specie considerata l’esperienza maturata con quel maxi dir che
aveva poi preso il volo e con la sua apertura mentale.
Un’apertura chiusa alle novità che rompevano col pensiero
immobilista a cui si ispirava l’ideale di progresso pallazzesco.
Ma forse bastava solo trovare il momento buono per spiegarla e
farla capire. Forse. O forse no.
* *
Una volta in ufficio, Filo si mise subito al lavoro. Più per
necessità contingente che per intima convinzione.
I primi minuti erano i più pericolosi di tutta la giornata. In tutti i
posti di lavoro c’è sempre qualcuno che in quel labile lasso di
tempo, prima di farsi prendere dalle cose da fare, ti chiede
cos’hai fatto la sera prima, dove sei stato e se ti sei divertito.
Tutto per poterti dire cos’ha fatto lui, dov’è stato e se si è
divertito. Cosa che tu, non essendo minimamente interessato a
sapere, non avevi nessuna intenzione di chiedergli. Che però
riesce a dirti senza che tu gli abbia chiesto niente. Il Pallazzo
non faceva eccezione.
Per scoraggiare simili abbordaggi predatori, configurabili a tutti
gli effetti come aperta violazione occulta della privacy, se non
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addirittura come atti di pirateria da ufficio bella e buona, Filo
adottava la seguente tattica. Appena messo piede in ufficio e
intravista negli occhi di qualcuno un’intrattenuta brama di
esternazione, si metteva immediatamente a lavorare a testa
bassa, evitando con cura di guardare in faccia il potenziale
esternatore.
Alzò lo sguardo solo quando entrarono le gemelle, due tizie di
un ufficio vicino che facevano tutto insieme. Comprese le cose
che di solito si fanno da sole. Erano Stiria, una malata di
buonismo che stava bene solo se mandava la coscienza in
vacanza, e Lutrizia, detta la samaritana per le intenzioni più che
virtuose -erano le azioni a essere carenti di virtù-, una che, non
avendo niente da dire, parlava di continuo.
Lutrizia raccontava sempre, a mo’ di parabola, di quella volta
che in autobus vide salire una vecchina con una sportona in
mano, che cercava invano un posto a sedere. Lei, che era seduta
di fianco alla porta di entrata, si preoccupò subito di quella
creatura debole e indifesa, esortandola a portarsi più avanti, nei
posti a sedere destinati agli anziani. La vecchina trascinò a
stento le gambe e la sportona fino ai posti riservati, ma anche
quelli erano occupati, sia pure da chi non sfoggiava un’anagrafe
che gli desse il diritto di occuparli. Perciò la poverina, non
avendo il coraggio di chiedere a nessuno degli abusivi di alzarsi,
rimase in piedi. Costoro, in compenso, guardavano da tutte le
parti possibili meno che da quella dell’esile vegliarda, così da
non essere costretti ad accorgersi della sua presenza e lasciarle il
posto, o a sentirsi in colpa se non glielo lasciavano.
Finalmente uno degli usurpatori si alzò, anche se soltanto perché
doveva scendere e non per far sedere chi doveva essere seduta
già da un pezzo, e la vecchina poté finalmente dar riposo alle
gambe. La samaritana fu soddisfatta che l’ordine violato fosse
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stato ristabilito e la giustizia, sia pure in ritardo, avesse trionfato.
E a chi le chiedeva perché non avesse ceduto lei il posto
all’attempata protagonista della parabola, Lutrizia rispondeva
che c’erano i posti a sedere fatti appositamente per gli anziani, e
che era giusto che andasse a occupare quelli. A ognuno il suo
posto. Parola della samaritana
Le gemelle fecero un cenno a Batta, che si alzò senza indugio e
si unì a loro per un caffè plurigemellare alla macchinetta.
* *
Il direttore quel giorno era uscito di casa con un paio di scarpe
da ginnastica, per poter circumnavigare la scrivania senza le fitte
ai piedi che gli procuravano quelle classiche e accollate di tutti i
giorni.
I primi giri di prova gli confermarono la bontà della scelta.
Erano scarpe fatte apposta per camminare, costruite per chi
faceva della marcia la sua professione abituale. Dunque costruite
per lui; almeno finché non si fosse risolta una volta per tutte la
questione della Pratica. Che tale, con la “p” maiuscola, era
diventata anche per il direttore, perché da Lei sembrava
dipendere non solo il suo presente e il suo futuro (per quanto,
lavorativamente parlando, fugacissimo), ma lo stesso passato,
che avrebbe potuto essere messo in discussione se non
addirittura vanificato da quello stupido incidente di percorso.
Anche se quelle scarpe sull’abito gessato ci stavano quanto una
cravatta a fiori su uno smoking, ma l’ultima cosa che lo
preoccupava in quel momento era di essere elegante.
In mezzo alla sua orbita rotatoria intorno a quello che una volta
era il cuore pulsante del Pallazzo, per l’appunto la direttoriale
scrivania in legno pregiato, la montagna bianca che c’era
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cresciuta sopra era aumentata ancora, diventando una delle
montagne da ufficio più alte di tutta la città e, forse, del mondo.
Erano tre giorni che la corrispondenza non veniva aperta né
smistata ai vari uffici, ma giaceva ammassata su quella precaria
vetta di pianura. Un giorno ancora e sarebbe rovinato tutto a
valle.
Il blocco della posta non era passato inosservato agli
impensieriti inquilini pallazzeschi, sempre in attesa di carte e
documenti da loro stessi richiesti per procedere nell’iter
burocratico delle pratiche. Blocco a cui non erano riusciti a dare
spiegazione, dato che le poste, stranamente, non erano in
sciopero. La cosa più probabile, o verosimile, è che, come al
solito, funzionassero male. L’impensierimento dei suddetti
comunque non era di quelli da togliere il sonno, dal momento
che senza documenti le pratiche restavano ferme, il lavoro pure
e loro anche.
All’improvviso il direttore si fermò, alzò gli occhi e li appoggiò
sull’orologio massellato a parete. Il quadrante non aveva ancora
fatto l’abitudine a scandire il tempo dei suoi passi. Le piccole
braccia, sottili e diseguali, che gli partivano dal centro della
faccia piatta stavano per diventare una. Quasi le dieci meno
dieci. Il direttore ritirò gli occhi e si sedette, poi sollevò il
telefono e ricordò acido agli ospiti che aspettava l’appuntamento
fissato il giorno prima. Nessuno di loro se n’era dimenticato, e
anzi aveva vissuto ogni minuto della sera e del mattino come
fosse già quell’ora. Perché quella era l’ora delle decisioni
definitive e improcrastinabili.
* *
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Quando Batta rientrò dal suo caffè plurigemellare, Filo prese il
trotto del bracco e raggiunse la sua implume paradisea
direttamente nella tana, il famoso ufficio rivoltato. Quindi si
avviarono insieme al bar.
“Non ti ho vista uscire ieri.” sondò il terreno Filo lungo la
strada, fingendo di non sapere “Avevo pensato di darti un
passaggio in macchina.”
“Ieri mi ha accompagnato a casa mio zio.” disse Amber con
riccioluta innocenza.
“Ah, tuo zio.” calcò Filo diffidente.
“Il fratello di mio padre. Sono uguali spiaccicati.”
“Ah.” assentì lui semisoddisfatto “Non è che per caso ha altri
fratelli tuo padre?” aggiunse, a evitare spasmi futuri.
“No, sono solo in due. Perché?”
“Così.” rispose con un sorriso di pace il segugio a due zampe,
consapevole che forse era andato troppo oltre. Ma per fortuna
erano arrivati al bar del tempo.
“Cosa prendete?” chiese loro una meteoropatica decisamente al
bello.
“Un tè, un cappuccino e due brioches.” rispose Amber “Vero,
Filo?... Il tè è possibile averlo tiepido?” le domandò, annuito che
ebbe il compagno di tazza.
Quella mattina la vecchia caldaia stava molto meglio. Era
bastato chiamare la sera prima un pronto intervento delle caldaie
perché un addetto, sostituito un pezzo e stretti due bulloni, la
rimettesse in sesto. Nel frangente stava pompando calore con
l’energia di una stufa nuova di negozio. La sua messa a riposo si
allontanava, e lei si godeva questo nuovo inatteso caldo estivo.
Purché non durasse come l’estate di San Martino.
“Ma sicuro.” concesse la meteoropatica, ormai occupata da un
estemporaneo anticiclone delle Azzorre. “Ve li porto al tavolo.”
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“Della Pratica si sa qualcosa?” chiese Amber dopo aver
incollato alla sedia due gambe da ballerina meccanica, nervose e
filanti, e averle messe una sull’altra.
“Sì.” replicò Filo, notando la loro tesa sottigliezza. Stava meglio
in pantaloni. “Che ne parla tutto il Pallazzo e che non si trova.”
“Già.” commentò lei, quasi a chiudere il discorso. “Ma secondo
te, dove può essere?” domandò a un tratto. Amber era figlia dei
suoi master, neppure lei sapeva esattamente quanti, e al pari dei
suoi padri putativi riteneva proprio compito prefiggersi con
masterizzata pervicacia di capire sempre quello che gli altri non
capivano, di trovare quello che gli altri non trovavano.
“Secondo me?” ripeté Filo, contento comunque di poter dire la
sua “Te l’ho detto, può essere dappertutto. Però secondo me c’è
un posto dove nessuno è andato a guardare.”
“Davvero?!” chiese Amber scavallando le gambe. L’interpellato
annuì a tutta faccia. “E dove?” chiese di getto.
“Nell’ufficio di Acìdio.”
“Nell’ufficio di Acìdio?!” replicò incredula “Credevo che ieri
scherzassi.”
“Beh, oggi no.”
“E perché sarebbe nell’ufficio di Acìdio?”
“Perché ieri ho visto i due che hanno svuotato il suo ufficio. E,
solo perché qualcuno ha fatto una battuta, non la finivano più di
toccarsi.”
“Una battuta?”
“Sì, su come erano vestiti, e che sembravano due becchini.”
“E allora?”
“Allora avrei voluto vederli quegli esorcisti mancati a
sgombrare l’ufficio di un morto con una mano, e a toccarsi nelle
parti basse con l’altra. Non vorrei che là dentro, da qualche
parte...”
201
“E perché non vai a dirlo a chi la sta cercando?” lo interruppe
Amber.
“Stai scherzando?! E’ solo un’idea.”
“Però potrebbe essere l’idea giusta. Quella che non è venuta a
nessuno.”
“E se poi non è così?” ribatté Filo ricoverando gli occhi nei suoi.
Lei li accolse con un sorriso di mamma, comprensivo ma con
una punta di rimprovero. “Senti, questa storia non è affar mio.
C’è gente, a cercare la Pratica, che prende tante e passa volte più
di quello che prendo io. Almeno che si guadagni quello che
prende, no?”
“Forse hai ragione.” sospirò Amber. “Ma forse dovresti andarlo
a dire.”
Intanto erano arrivate le bevande, ciascuna accoppiata a una
brioche insospettatamente calda. Nell’occasione s’era messa a
funzionare anche la piastra elettrica dove un attimo prima
stavano sdraiate a crogiolarsi. Quel giorno al bar del meteo era
scoppiata l’estate.
* *
Anche nell’ufficio di Toni il tempo era tornato al bello stabile.
Quella mattina il riccio, sempre sotto costante osservazione
degli osservatori di stanza, era entrato in ufficio con la faccia
larga distesa, senza ghigni posticci, maschere apoplettiche o
sguardi postribolari, preludio delle sue mute recite d’ufficio.
Sapeva la banda dei colleghi che il giorno indietro aveva fatto
una telefonata a una donna. Qualcuno di loro, tendendo
deliberatamente l’orecchio, aveva rubato qualche parola, e aveva
esteso quel carpito sapere agli altri, che l’avevano fatto proprio
come polli in batteria. Una telefonata a quella rossa di cui prima
202
aveva celebrato in pubblico le doti, e poi cantato col pensiero il
de profundis.
“Va meglio oggi?” gli chiese Pfazzi, premurosa come un’amica
pronta a dare confidenza. Ma, più di tutto, a riceverla.
Il riccio fece annuire gli aculei, prima di scioglierli in un sorriso
che parlava da solo. Pfazzi lo ricambiò col migliore dei suoi,
pensando che sarebbe stata disposta a contraccambiare ben altro
che un sorriso, se lui gliel’avesse chiesto. Tutto quello che con
suo marito scambiava sempre più di rado -il fardello virtuale in
pancia era il frutto di un unico, frettoloso incontro-, e che lei,
sospettando che lui riservasse a un’altra, era tentata di offrire a
un altro.
Era un bel ragazzo Toni, e se fosse stato meno maschilista,
supponente, donnaiolo, lazzarone e via dicendo, sarebbe stato il
suo tipo ideale. Magari anche solo l’amante ideale. Peccato che
lui, non vedendola neanche, per lei restava solo ideale e basta.
Per quanto Pfazzi non potesse soffrirne i modi da cascamorto di
balera. Anche se nelle ultime ore quel dongiovanni da strapazzo
aveva guadagnato qualche punto nella partita il cui premio era la
sua accettazione interiore. La stessa Prudi, che non perdeva
occasione per trinciare giudizi morali su quanti cadevano sotto
la curva lenticolare del suo occhio bacchettone, quella mattina
gli aveva aperto un caldo sorriso d’asilo.
Era accaduto che Toni, novello San Francesco, aveva rinunciato
alla giovanile inclinazione di scapolo impenitente per
abbracciare i voti di una vita a due. Questo aveva annunciato
alla rossa la sera prima, e lei aveva accolto la sua fresca
vocazione con un bacio di fuoco e la promessa di futuri incontri
del tipo più vietato. In ragione di quel bacio, ma soprattutto di
quella promessa, a Toni rideva la faccia, larga come mai per
effetto di quel riso silenzioso.
203
* *
Filo e Amber, chiusa la parentesi di colazione, erano tornati sui
loro pallazzeschi passi. Stavolta era stata Amber ad
accompagnare Filo in ufficio, non sapendo come ammazzare il
tempo nel suo. Tutto quel niente da fare, diluito in tempi pieni
solo di vuoto, aveva cominciato a farla sentire quasi in assenza
di gravità, prolassata in ogni tessuto connettivo.
Quando Amber vide i compagni di stanza di Filo e ne udì gli
orgastici vaniloqui, si rinsaldò nell’idea che le era venuta in
mattinata. Salutò il compagno di parentesi e gli diede
appuntamento in mensa per la vogata di pranzo. Contro
Prorecco al momento non erano stati presi provvedimenti, nella
convinzione che senza il capovoga a dare il ritmo e tenere la
rotta, l’armo mangereccio del Pallazzo sarebbe miseramente
naufragato. Quindi ritornò all’ascensore.
Una volta dentro, però, anziché scendere a terra per far ritorno
nell’ala di casa, fu presa dall’irresistibile curiosità, una voglia
incontrollata e incontrollabile, di rivedere quei piani alti che un
tempo non lontano erano la sua blasonata dimora. E così, preda
di quella voglia ipnogena, pigiò in trance il tasto più alto.
Uscì su un corridoio intarsiato di pregiati legni scuri, con quadri
austeri alle pareti, librerie da cielo a terra gremite di ben allineati
vetusti volumi, e una cappa di silenzio solido, da tomba
monumentale. Gli stessi legni del parquet accoglievano i suoi
passi soffocati con un cigolio sommesso, ovattato. Anche se
quei passi suonavano di un rumore insopportabile in quel muto
silenzio senza ritorno.
Si chiese cos’era venuta a fare in quel santuario. Forse voleva
risentire il sapore lavorativo di una volta, rivedere i luoghi delle
204
sue passate, aristocratiche frequentazioni, riscoprire le proprie
masterizzate radici. O forse voleva tornare a sentirsi importante,
a respirare l’ottenebrante odore del legno e del potere. Benché
ora ci si sentisse come un’estranea, e quell’odore di cera d’api
profuso a piene mani da autorizzati untori su quei legni di
potere, per mantenerli più vivi e più lucidi dei loro umani
abitatori, quell’odore veemente ora le chiudeva lo stomaco. O
forse voleva solo trovare qualcuno con cui parlare di quell’idea
in cui due ore prima credeva più che in se stessa, ma che ora le
sembrava realizzabile quanto un desiderio espresso guardando
una stella cadente. In realtà non credeva che quel progetto
avrebbe per davvero interessato qualcuno. Nel Pallazzo le cose
erano sempre andate avanti così, e se le cose vanno avanti
sempre allo stesso modo vuol dire che vanno bene. Anche
quando non vanno bene per niente.
Certo se quella proposta fosse partita dall’alto avrebbe potuto, se
non realizzarsi, per lo meno essere presa in considerazione,
discussa, valutata. Ma l’iniziativa partiva da lei, dal basso; anzi,
da chi stava ancora più giù, privata di ogni diritto. Escluso
giusto quello di respirare. Si sentiva fuori posto, stupida e
presuntuosa, là dove, solo ieri, appariva ai suoi e agli altrui
occhi brillante e risoluta.
A tutto questo pensava Amber sotto i ricci, mentre camminava
sulle punte per non far rumore. Finché, nel camminare, non sentì
un brusio soffuso provenire dalla penombra del corridoio. Per la
precisione, da un ufficio che rimaneva in fondo a destra. Una
stanza che conosceva molto bene, per averla frequentata
quand’era la più giovane promessa di quei vetri. La stanza dei
bottoni del Pallazzo, l’ufficio del direttore. La promessa poi non
era stata mantenuta, anche se non da lei, ma da quegli abitatori
dei piani alti che si erano impegnati a mantenerla.
205
Fece per tornare indietro, ma una voce sconosciuta, suadente e
ipnotizzante come un canto di sirena, la spinse avanti. Decise di
lasciarsi spingere, dando della pazza a lei e alla voce. Ma forse
non lo era nessuna delle due, dal momento che, se anche
l’avessero scoperta, più che scaraventarla nell’ala rotta non
potevano. Perciò, visto che nell’ala già c’era, voce o non voce,
in realtà non rischiava nulla.
E mano a mano che avanzava lungo il corridoio il brusio
ingrossava di volume, fino a quando, a pochi passi dalla soglia,
non mutò in frastuono. Fu solo però nel momento in cui giunse
dietro la porta che il frastuono prese la definitiva forma di voci
grosse e male parole. La maggior parte delle quali
inusitatamente inconsulte.
* *
L’ora dell’appuntamento a quattro trovò un terzetto seduto
all’ombra della montagna bianca, fisso e rigido quanto le
statuine del presepe, e un pastore errante che ci girava intorno
senza sosta. Il terzetto ebbe così modo di notare le inusuali
calzature dell’errante, sicuramente adatte per fare quello che ci
stava facendo, ma non altrettanto consone a chiudere con un
minimo di dignità su un abito gessato. Ciarli ebbe anzi un poco
delicato pensiero su quello che poteva essergli accaduto, o
poteva essere sul punto di accadergli, sotto la coltre innevata dei
follicoli piliferi. Forse la questione della Pratica l’aveva scosso
più del dovuto, e la corteccia cerebrale stava pericolosamente
scricchiolando, al pari del parquet dell’ufficio di direzione.
“Signori, siamo qui per risolvere il problema della Pratica.”
disse all’improvviso super dir, quasi a tranquillizzare Ciarli circa
206
la presenza di problemi di corteccia al primo cervello del
Pallazzo. Nonostante le scarpe, era sempre lui.
“Mi sono impegnato di persona a consegnarla nelle mani
dell’onorevole Scaltro.” continuò con fredda lucidità
l’impegnato, senza peraltro interrompere l’orbita intorno alla
montagna da tavolo “E a costo di impastarla con le mie mani,
gliela consegnerò.”
Al nome di Scaltro i tre tesero le labbra allo spasimo e
strabuzzarono gli occhi, prima di sbiancare di colpo.
Conoscevano bene la scaltresca pervicacia dell’uomo politico e
non solo di quello, e ogni parte del corpo dei tre reagiva a modo
suo. Sembrava però che alcune di queste parti si fossero messe
d’accordo per reagire allo stesso modo.
“Perciò mi aspetto che voi” si accinse minacciosamente a
concludere il direttore, tirando la “v” come la corda di un arco e
prendendo la mira, “che siete i miei collaboratori”, pausa prima
di tirare la freccia, “me la portiate perché possa darla a lui.”
La freccia, scagliata dal direttoriale arco, si fece trina, e ognuna
colpì il suo bersaglio nel centro.
I tre bersagli guardarono l’arciere con la stupefazione di chi ha
di fronte un fantasma. Forse non era il direttore ma un suo sosia,
una controfigura. Uno che sembrava non sapere le cose o, più
probabilmente, che aveva dimenticato come stavano in realtà.
Ciarli concluse per la solita involuzione corticale, se non era
vera e propria demenza senile.
“Ehm, chiedo scusa, direttore” azzardò il Nero, preparandosi a
bere l’amaro calice. Sapeva che rimandare certe libagioni non
serviva. “ma la Pratica non si trova. L’abbiamo cercata vetro per
vetro, ma è stato inutile. Abbiamo fatto il possibile.” concluse
abbassando il capo, mentre gli altri due, a seguire, abbassavano
il loro.
207
Super dir si fermò e guardò il terzetto prono. Poi gonfiò
innaturalmente il petto e la faccia d’aria, e li sgonfiò un istante
dopo con un urlo che oltrepassò il muro del suono. I tre
saltarono sulle sedie a mo’ di manichini a molla.
“Il possibile?!” inveì l’urlatore sonico “Il possibile non è
abbastanza! A volte si deve fare l’impossibile! Se necessario
anche di più!”
I manichini sfrigolavano sulle tre piastre incandescenti su cui
stavano scomodamente seduti, quasi rannicchiati per ripararsi
dai lapilli che il direttoriale cratere mandava a valle.
“Siete degli incapaci! Delle nullità! Degli zeri bucati!” continuò
passando ai complimenti il vulcano, in preda a un furore
convulsivo che lo faceva tremare dalla base in su. “Degli
incassatori di stipendio a tradimento! Scommettiamo che se
chiedo a qualcuno del Pallazzo della Pratica, quello è più
informato di voi?! Che se apro la porta dell’ufficio e domando
al primo che incontro se sa dov’è finita, quello me lo dice?!
Scommettiamo?!”
E senza aspettare risposta -una risposta che nessuno dei tre si
sarebbe mai sognato di dare, dal momento che il gioco si stava
facendo rischioso e il direttore, che teneva il banco, mostrava di
avere, come hanno sempre i direttori in questi casi, le carte
migliori-, super dir corse alla porta e l’aprì di slancio. Vi trovò
appesi i ricci secchi e la bocca all’aria di Amber.
* *
Quando rientrò in ufficio con la sua fresca accompagnatrice
pensile, che, dopo aver scrutato tra le fronde i busti che
fuoriuscivano dalle scrivanie aveva infilato la porta, Filo ebbe
modo di accorgersi che le facce di quei busti si guardavano con
208
la muta richiesta di qualcosa. Stavolta però il qualcosa in
questione non era sapere cos’aveva fatto il dirimpettaio di
scrivania la sera prima per potergli raccontare quello che aveva
fatto lui, o chiedersi cosa poteva avere in comune Filo con
quell’avanzo rinsecchito di carriera vestito da salice piangente
che rispondeva al nome di Amber, ma sapere perché in
quell’ufficio, di punto in bianco, non c’era più niente da fare.
Una volta seduto, Filo non tardò a rendersi conto che i compagni
di stanza erano tutti senza lavoro, e lui stesso, dopo la sfuriata
della prim’ora, non sapeva più cosa fare.
Non che non ci fosse un piccolo esercito di pratiche in fremente
attesa dei documenti necessari per poter essere lavorate, e
consentire così a ciascuna di partire per la sua personale
missione nel Pallazzo, ma, semplicemente, quei documenti non
arrivavano. Per cui, evase le poche pratiche complete, anche a
lui, al pari dei colleghi di cella, non era rimasto che incrociare le
braccia. Come gli abitatori dell’ala rotta, pensò riluttante. La
solita riluttanza che provava quando pensava a quegli
strampalati compagni di vetri. Ora era uguale a loro, in tutto e
per tutto. Inattività compresa.
Erano tre giorni ormai che non arrivava un solo documento per
l’esercito di pratiche di stanza nel suo ufficio, e c’era la
serissima possibilità che la cosa valesse anche per gli eserciti di
stanza negli altri. Tre giorni, da quando era nata la voce che era
andata smarrita la Pratica.
E se le due cose fossero state in relazione?, si chiese a un tratto
Filo. Se dall’una fosse dipesa l’altra? Al pensiero si sentì
pervadere da un brivido freddocaldo, che gli partiva dalla prima
delle vertebre cervicali e gli arrivava all’ultima delle coccigee,
per dover infine ammettere che forse aveva ragione Amber.
Forse doveva parlarne con qualcuno di quella sua idea.
209
Ma per quale sconosciuto motivo, ammesso che un motivo vi
fosse, o non fosse piuttosto frutto di una dimenticanza, chi
cercava la Pratica non aveva pensato di andare a guardare in un
posto tanto stupido? Anche se è risaputo che le cose, quando si
perdono, vanno sempre a imbucarsi nei posti più stupidi, e
nessuno pensa mai a cercarle in quelli. Quasi che le cose siano
più intelligenti delle persone.
Sì, doveva parlare con qualcuno. Ma con chi? Sotto continuava
a latitare. Almeno come presenza fisica. Perché una sua foto sul
giornale del mattino lo rendeva presente in forma medianica.
Stava diventando più famoso di un divo del cinema. L’articolo
sotto la foto -quasi un gioco di parole, Sotto che stava sopra-
parlava di un caso clinico unico al mondo, un tizio con due
gruppi sanguigni. Per quanto uno dei due stesse per esaurirsi.
Era quello del suo capo che, non essendoselo impiantato nelle
ultime quarantott’ore, mancava del necessario supporto
nutritivo. Ma ovviamente gli studiosi a cui faceva da cavia non
lo sapevano.
Prillo invece era chiuso nel suo impenetrabile ufficio d’avorio,
impermeabile alle vicissitudini del Pallazzo e dei suoi reggitori.
Nel frangente stava interrogando uno specchio parlante a
grandezza d’uomo, comprato a peso d’oro il giorno prima in un
negozio di vetrofanie da esposizione, e introdotto furtivamente
in ufficio la mattina presto. Allo specchio delle sue brame il lord
Brummel dei dir stava chiedendo, mentre accarezzava una
costosa giacca d’alpaca purissima, chi era il dir più elegante di
tutto il Pallazzo. “Tu, mio signore.” rispose lo specchio facendo
l’inchino, col pregiato ruminante domestico che rispondeva alle
carezze del padrone strusciandogli addosso il morbido pelo.
Da chi poteva andare a parlare Filo di quella sua idea?
210
* *
“Signorina, cosa ci fa dietro la porta?!” sbracò più viola di un
livido super dir davanti alla faccia a strati di Amber. E
sbracando avvicinò pericolosamente la regina delle criniere
bianche a due piccoli occhi neri sporgenti, più indifesi dei
pedoni degli scacchi. Ancora un passo e li avrebbe mangiati. Il
direttore aveva un odio atavico per i giochi di pazienza, ma gli
scacchi facevano eccezione. Anche se ci giocava come alla
guerra, attaccando con regina bianca in campo nero.
“N-niente, di-direttore. P-passavo di qua.” rispose la sua vittima
inciampando nelle parole e facendo un passo indietro per
occhio, salvando entrambi da morte certa. Lo sguardo le cadde
così sulle strane calzature da cui partivano le righe gessate dei
pantaloni, prima di salire a quelle della giacca, e tornare a
guardare quella faccia illividita da orco in crisi di astinenza da
carne umana.
“Ha detto direttore?!” gridò l’orco in un crescendo di escreti
convulsi “Dunque lei non è una del pubblico, una cliente! Lei
lavora qui!”
“S-sì, di-direttore.” balbettò Amber nel far appello a tutta la
disinvoltura di cui era capace in quel momento. Praticamente
pari a zero.
“Bene, si-gno-ri-na!” scandì super dir sospendendo l’attività
escretiva. “Immagino avrà sentito parlare della Pratica!... Non
mi dica di no perché so come girano le voci qua dentro!” la
incalzò cerbereggiando prima che lei potesse imbastire una larva
di risposta. Riuscì solo a schiodare il mento e a farlo andare su e
giù.
211
“Ebbene, dal momento che ne ha sentito parlare” continuò,
sempre trasfigurato in viso e in voce, il mostro dei direttori “si
sarà anche fatta un’idea di dove può essere!”
Amber, che pure aveva, fra gli altri, un master ilermorfico in
presa diretta di scappatoie di fortuna, intuizione a naso di vie di
fuga da situazioni sigillate e uscita per il rotto della cuffia da cul
de sac d’oltralpe, alla domanda Amber rimase muta, incapace di
fronteggiare, nonostante i master, la stringente contingenza.
“Allora?!” mugghiò la fiera furibonda “Se n’è fatta un’idea?!”
“C-credo... credo di sì, direttore.” sussurrò in punta d’occhi.
Al “credo di sì” la belva si risvegliò di colpo da quell’ira tanto
funesta quanto deformante, rinfoderò gli artigli e ritirò la
criniera.
“Cos’ha detto?” chiese super dir, riacquistata una precaria
condizione umana.
“Che-che mi sono fatta u-un’idea di dove può essere la Pratica.”
rispose Amber balbettando ma non troppo. Almeno rispetto al
numero di parole che era riuscita a dire. E continuando a pensare
a come uscire da quella situazione senza uscita.
“Ah sì?” stupì il direttore, rischiarato da una luce bianca. La
trasmutazione sembrava non fermarsi alla riappropriazione della
sua condizione di uomo, per quanto direttorialmente impuro, ma
sembrava tendere a qualcosa di più spirituale. “E dove può
essere, signorina? Dove?”
“Nell’ufficio...” partì Amber dopo un poco, prima di fermarsi
immediatamente dopo essere partita. Le erano tornate in mente
le parole di Filo: “E se poi non è così?”, ma lei aveva fiducia in
quel ragazzo semplice, senza ambizioni, eppure ingegnoso,
simpatico, e forse anche intelligente. Più fiducia di quanta ne
aveva lui stesso. “Nell’ufficio...” si rifermò. Le sembrava di
pugnalarlo alle spalle e seppellirlo con le sue mani, di compiere
212
la più riprovevole delle azioni, perché tale era quello che stava
per fare, rubare l’idea di qualcun altro. Un qualcun altro che
cominciava a esserle tutt’altro che indifferente. Ma al punto in
cui era non poteva più tirarsi indietro; ci avrebbe pensato poi a
chiarire con Filo.
“Dove, signorina? Dove?” la investì il raggio di luce del sommo
inquisitore, ormai quasi puro spirito.
“Nell’ufficio di Acidio.” disse finalmente Amber.
* *
Da chi poteva andare a parlarne di quella malaugurata idea?,
continuava a chiedersi Filo. Di quell’idea che per una qualche
malaugurata disgrazia gli era venuta senza averla cercata.
A un tratto si alzò e uscì. Poco importava se Prillo avesse messo
il naso fuori dalla sua sala degli specchi e non l’avesse trovato
seduto al desco di lavoro. Nessuno faceva niente e, anche
volendo, non c’era nulla da fare. A differenza di Prillo, che,
essendo abituato a non far niente, quando non aveva nulla da
fare stava benissimo, Filo a starsene con le mani in mano
diventava nevrastenico.
Passò dall’ufficio di Ovieffe e Fettunta. Le dirimpettaie di
scrivania, nonostante l’assoluta irreperibilità di pratiche da
sbrigare, si guardavano in silenzio, incapaci sia di raccontarsi il
film visto in tivù la sera prima che di telefonare, imbellettarsi o
altro. Gli ordinari passatempi da ufficio a cui solevano darsi in
abbondanza quando il daffare non mancava. Poi sfilò da quello
di Ada e Ida, che dissertavano, apparentemente senza problemi
di comunicazione, di quell’improvvisa inspiegabile latitanza di
pratiche. Il timore di perdere il posto, per quanto noioso e
ripetitivo fosse il lavoro fra quei vetri, stava facendo emergere la
213
parte migliore di ciascuno. Quell’impiego, nonostante nessuno
dei pallazzeschi inquilini l’avesse mai né detto né pensato, era
più importante di quanto ognuno di loro immaginasse.
Negli altri uffici al piano da cui Filo si trovò a passare, cambiata
la cornice, il quadro era lo stesso. Stavano tutti a braccia
conserte e occhi fissi, incapaci di dare risposta a
quell’improvvisa quanto misteriosa migrazione del lavoro.
Sarebbero stati pronti ad affrontarlo coloro che avevano la
fortuna di trovarsi là dove questo era migrato? Ma soprattutto,
sarebbe ritornato un giorno al nido, magari stabilmente, quella
strana specie di uccello migratore?
Tornò alla base, si sedette e chiamò Nardo. Questi gli disse che
nel suo ufficio non c’erano più pratiche a cui metter mano già
dal pomeriggio prima, e i compagni che prima ne pietivano
l’aiuto adesso gli chiedevano, in camera charitatis, di dar loro
qualcosa da fare. Un qualcosa da fare che ora, però, non c’era
più per nessuno. Aggiunse che era preoccupato per Pasco;
sembrava non provare più alcun piacere nell’attaccare le figurine
dei ciclisti all’album del giro d’Italia né alcun interesse a
sfogliare Capitan Miki, e non capiva perché. In effetti il
carrierista al contrario stava vivendo un senso di totale
frustrazione nei confronti del Pallazzo. A che era servito
impegnarsi tanto duramente a scansare il lavoro, doveva aver
pensato in cuor suo il re dei lavativi, se poi questo se l’era
squagliata, agevolando così la nullacenza di chi non aveva fatto
niente per meritarla.
Nardo chiese a Filo se sapeva qualcosa della faccenda. Gli
rispose di no; spiegarglielo gli avrebbe portato via tempo.
Ammesso che quello che gli frullava in testa fosse stato la
spiegazione della faccenda. Lo salutò col pensiero che aveva in
214
mente prima di chiamarlo, da chi poteva andare a parlare di
quella maledetta idea?
Si tirò su dalla scrivania e andò all’ascensore, ci entrò dentro e
pigiò il tasto più alto.
* *
“Nell’ufficio di Acidio?” sbottò sui sopraccigli il direttore,
ritornato definitivamente membro del consorzio umano.
Amber assentì a ricci bassi.
“E perché dovrebbe essere proprio lì? La stanza è stata svuotata,
non c’è rimasto niente.”
“Perché nell’ufficio di un morto nessuno mette mai piede
volentieri. E se è costretto a mettercelo, ci sta il meno possibile,
e le cose che deve farci dentro non è detto che le faccia nel
modo che dovrebbe.”
Amber non fece in tempo a finire la frase che vide il direttore
rientrare in stanza come un fulmine estivo, e dopo il tempo del
tuono uscirne di corsa tre tizi di cui non faticò a indovinare le
fisionomie, avendole bazzicate in tempi di vacche grasse. Poi
uscì anche lui, stavolta di passo, e con largo e generoso gesto del
braccio le fece segno di entrare. Lei varcò la soglia dell’ufficio
per eccellenza e il suo anfitrione le andò dietro, avendo cura di
lasciare la porta ben aperta. Le notizie che aspettava non si
potevano far aspettare.
“Prego.” disse offrendole la sedia con la cavalleria dell’età.
Quindi girò intorno alla scrivania e andò a sederle di fronte. “Lo
sa, signorina, che la sua faccia non mi è nuova?” le fece dopo
averla squadrata.
“Sono Amber, direttore, Amber Liscia.” rispose lei, e vedendo
l’illustre dirimpettaio stringere interrogativamente gli occhi,
215
aggiunse: ”Sono entrata con Fanfara. Lavoravo in questo piano,
ricorda?”
“Amber!” proruppe il portatore insano di quegli occhi “Ma
sicuro che ricordo! Abbiamo anche lavorato insieme! Ma
dov’era finita?”
“Veramente, quando Fanfara se n’è andato…” senza portarmi
con lui, pensò a ferita ancora aperta, “…sono stata …ehm…
trasferita nell’ala rotta.”
Stava per dire “relegata”, ma trovandosi di fronte al dir dei dir
optò per un termine più diplomatico, che suonasse meno
lamentevole al direttoriale orecchio. Pur non avendo master in
materia, il suo amor proprio le impediva di piangersi addosso, e
le imponeva di affrontare a testa alta la più alta personalità del
piano più alto del Pallazzo.
“Davvero?! Io non ne sapevo niente.” disse l’altissimo
incrociando le gambe -le dita erano in bella vista e non
avrebbero potuto essere incrociate con pari tempestività, a meno
di tradirsi e di tradire così anche il loro incrociatore-. E nel dirlo
allargò paternamente le braccia e si guardò intorno, come a
cercare l’assenso di qualcuno. Un assenso dovuto. Non
essendovi però al momento nessuno che potesse darlo, furono i
legni vivi dell’ufficio a concedere il loro scricchiolio di
approvazione.
“In ogni modo, signorina” riprese il direttore rinfrancato -il
consenso, per quanto dovuto e, il più delle volte, immeritato, era
però sempre circondato da un’alea di incertezza (per quanto
puramente ipotetica, data la capacità di critica dei compiacenti
cortigiani di Pallazzo, di legno o meno che fossero). Consenso
che aveva perciò in chi lo cercava il medesimo rincuorante
effetto che l’applauso ha per l’attore- “se le cose stanno così”
continuò pensando alla Pratica (Amber per un attimo pensò si
216
riferisse alla sua discesa ai pallazzeschi inferi, prima di
realizzare qual era veramente il direttorpensiero) “se la Pratica si
trova davvero nell’ufficio di Acìdio, da domani lavorerà con me,
nella stanza qui a fianco.”
“A dire il vero... io avrei pensato a qualcos’altro.” azzardò
Amber.
In quel momento comparve sulla porta Ciarli con alle spalle i
due corrieri controllori. Stretta nella destra, portava al petto una
carpetta rosata dal poco augurale nome in nero, Malanio. La
Pratica scomparsa.
Il capo degli angeli avanzò seguito dagli altri due magi, e la
portò in dono al signore del Pallazzo come l’oro, l’incenso e la
mirra dei loro lontani avi. Quando il dir dei dir l’ebbe in mano,
licenziato sbrigativamente il trio portapratica, l’accarezzò con
tutto il delirio di onnipotenza di cui era capace, trovandola di
una bellezza tanto sconvolgente quanto inaccessibile. Quasi
fosse il corpo nudo di una vergine.
Il problema è risolto, si disse appagato il direttore mentre
insisteva con mano pruriginosa sul nero del nome, pensando che
in fondo i problemi si risolvono sempre. Proprio come scrivono
gli americani. Alla fine hanno sempre ragione loro. Viva gli
americani, i loro libri e chi li legge.
“Stava dicendo, signorina?…” si scosse il direttore
abbandonando con la mente il paese dove i sogni si avverano più
che nei film. Il suo, in ogni caso, si era avverato; lo stringeva fra
le dita.
La realtà non era all’altezza dei sogni. Sulla porta, rimasta
aperta, era spiccata la figura di Filo.
* *
217
“Scusi, chi è lei?” lo squadrò obliquo il numero uno del
Pallazzo.
“Mi chiamo Filo. Lavoro alle pratiche del secondo piano.”
rispose il numero mille e anta, che appena vide Amber seduta di
fronte a quel sepolcro imbiancato sentì irrigidirsi la nervatura.
“Avrei bisogno di parlarle.”
“Oh, un impiegato.” esclamò con rassegnato stupore il sepolcro,
al pensiero che nel Pallazzo i piani alti non erano più quelli di
una volta, frequentati solo da selezionati dir dotati di altolocato
pedigree e da selezionate segretarie dotate e basta. Ora erano
diventati di pubblico dominio.
“Ciao, Filo.” lo salutò Amber sgusciandogli un sorriso incerto.
“Vi conoscete?” le chiese il direttore quando Filo glielo rese, per
quanto più incerto e titubante di quello che aveva ricevuto.
“Sì.” rispose lei “Abbiamo parlato più volte di dove poteva
essere la Pratica. E’ stato Filo che ha avuto l’idea...”
“Certo, certo, signorina” la interruppe il direttore, per il quale
non aveva nessuna importanza chi aveva avuto l’idea, ma solo
che l’idea fosse stata quella giusta “La Pratica ormai è stata
ritrovata, e lei non dovrà più preoccuparsi del suo futuro.
L’ufficio qui a fianco l’aspetta.”
“A questo proposito...” riprese la parola Amber, sicura che se
non avesse parlato in quel momento non avrebbe parlato più
“vorrei chiederle una cosa. Avrei pensato...”
“Un’altra idea?!” domandò con la più preoccupata delle
meraviglie il suo dirimpettaio, per il quale tante idee in una volta
erano sinonimo di allarme rosso. “Parli pure, signorina.”
concesse paventando il peggio. “Le sono debitore; mi chieda ciò
che vuole.”
“Avrei pensato...” attaccò Amber esitando. Faticava a trovare le
parole ma soprattutto la forza per dirle. “Insomma, io e Filo
218
avremmo deciso. Vero, Filo?” riprese guardando negli occhi il
suo ignaro complice, per cercarvi dentro il coraggio di andare
avanti.
Filo, tirato in ballo, fu costretto a ballare. Assentì con la
convinzione dei finti convinti.
“Abbiamo pensato di introdurre il lavoro nell’ala rotta.”
annunciò finalmente Amber, come liberandosi di un peso.
Il direttore la fissò senza muovere un muscolo, prima di
chiederle immobile, con una bocca da ventriloquo: “Cos’avete
pensato?”
“Di far lavorare l’ala.” ripeté l’annunciatrice improvvisata dopo
aver deglutito quello sguardo di marmo.
“Ah... I-interessante.” maccheronò il ventriloquo con
impercettibile movimento del sopracciglio, rabbrividendo al
pensiero di quello che sarebbe potuto accadere. Far lavorare dei
disadattati. Della gente incattivita, che odiava il Pallazzo per
averla tenuta e continuare a tenerla in cattività, che non
conosceva il lavoro né aveva idea di cosa significava lavorare.
C’era il rischio di far saltare i già fragili equilibri di quei vetri.
“Ha pensato alle conseguenze?” le chiese fra il finto interessato
e il dissuasivo, ma molto di più sul secondo “Come la
prenderanno quelli dell’ala?”
Gli inquilini dell’ala erano “quelli”, pronome dimostrativo di
persona, animale o cosa, lontano sia da chi parla che da chi
ascolta. Nel caso del direttore, lontani anni luce. Anche se, nella
fattispecie, non quanto avrebbe voluto.
“Bene, ne sono convinta. Il lavoro sarà il mezzo per dimostrare
che non sono diversi dagli altri. Magari alcuni non sono proprio
uguali” sorrise “ma lavorare li farà sentire tali. Sarà utile sia a
loro che al Pallazzo.”
“Lei dice? E chi garantirebbe...?”
219
“Io, direttore.” lo interruppe Amber “Mi assumo io la
responsabilità del progetto. Le chiedo solo di assegnarmi Filo.
Ho bisogno di lui.” aggiunse girando un ammicco d’intesa al suo
nuovo bisogno con gli occhiali.
“Quand’è così.” accondiscese il supremo reggitore del Pallazzo
lavandosene pilatescamente le mani e pensando, stavolta con
sollievo, al suo imminente ritiro “Quello che è detto è detto.”
aggiunse, quindi le domandò, a personale chiarimento
“Quest’idea ha detto che è sua, signorina?”
“Non esattamente.” rispose Amber “A dir la verità è di Filo.”
Dal momento che non era riuscita a fargli riconoscere il merito
del ritrovamento della Pratica, che ormai era stato
definitivamente assegnato a lei, per un nobile quanto elementare
principio di compensazione Amber gli attribuiva il merito della
sua idea. Non immaginava che il direttore vedeva quell’idea
come fumo negli occhi, e in quel fumo scorgeva i germi di una
futura rivolta degli affrancati schiavi del Pallazzo, che già
presagiva asservito all’ala rotta e alla sua armata brancaleone.
Ma non c’è master che insegni a leggere nel pensiero.
“Bene, mi compiaccio.” disse a Filo il direttore con un sorriso
carico di promesse. Una peggiore dell’altra.
Filo, che non sapeva leggere nel pensiero e neanche nei sorrisi,
per giunta di direttoriale provenienza, glielo restituì di cuore.
Quasi fosse riuscito a leggere nell’uno e nell’altro. Poi uscì
insieme ad Amber, e mentre l’ascensore li portava a più
tranquilli piani bassi, si sentirono una cosa sola.
EPILOGO
220
Ora Filo ha qualche capello bianco in più e Amber qualche
riccio soffiato in meno. Il tempo che passa per l’uno e l’umido
di pianura per l’altra, ma soprattutto le nuove responsabilità per
entrambi, stanno cambiando i connotati delle loro cime cutanee.
Naturalmente stanno insieme. Forse si sposeranno, anche se la
data del matrimonio non è ancora stata fissata. In realtà non è
stato fissato neanche il matrimonio.
Il più scettico dei due ora è Filo, che dopo aver corteggiato
Amber nei tre giorni della Pratica e in quelli seguenti, da quando
sta con lei continua pericolosamente a sognare la donna dei suoi
sogni. Solo che questa specie di chimera notturna non ha la
faccia né il corpo di colei che popola le sue giornate, dentro e
fuori l’ufficio. Temporeggiare diventa perciò l’unico modo per
non chiudere la porta in faccia ai sogni, lasciando aperta quella
di una realtà che fino a qualche tempo fa era la migliore
possibile, e che oggi è solo una delle possibili realtà. Una volta
di più, per chi ancora avesse qualche dubbio, tutto è relativo.
La verità è che, stando con lei, Filo non è più così sicuro che
Amber sia la donna dei suoi sogni, e perciò della sua vita. E
continua a rimandare sia il matrimonio che l’idea di sposarsi.
Persino di suo padre ha smesso di essere geloso, e la cosa lo
preoccupa più di quanto lo preoccupava prima l’esserlo.
Nondimeno continua a starci insieme.
Non solo, ma ha cominciato anche a lavorarci insieme, dal
momento che nell’ala rotta, pur tra mille problemi, è partito il
lavoro.
Non tutto il popolo dell’ala aveva accolto la buona novella
lavorativa con animo disposto a riceverla. Fra quegli emarginati,
infatti, ce n’erano alcuni che s’erano fatti emarginare di
221
proposito, fingendosi pazzi senza esserlo. Tutto per non
lavorare, per avere uno stipendio senza far niente. O facendo il
minimo, recitando una parte e incassando il prezzo della recita.
Ebbene, questi emarginati di tendenza, al pensiero che il lavoro
avrebbe fatto il suo ingresso nell’ala rotta e di conseguenza
anche nelle loro vite, avevano dato in escandescenze. Senza che,
visto il posto dove si trovavano, nessuno ci avesse dato troppo
peso. Fare i pazzi dunque non serviva più a evitare
l’abbruttimento da lavoro, che si cumulava così al normale
abbruttimento da pazzia. Vera o falsa che fosse.
Perciò, se la maggioranza dell’ala aveva accolto la notizia come
si conviene a una conquista epocale, non era mancato chi
l’aveva presa come la peggiore delle disgrazie, rivestendo quel
poco di gioia che era stato costretto a fingere per non destare
sospetti con un sorriso di latta. Dietro al quale montava però
ogni giorno di più un intento ben preciso, quello di restituire il
lavoro al mittente. Possibilmente senza ritorno.
Consta infatti al vostro narratore che i più irriducibili di questi
finti pazzi -da sempre di gran lunga più pericolosi di quelli veri-
stiano tramando con i servizi segreti deviati del Pallazzo e con la
parte della direzione più vicina, per importanza e vetustà, al suo
supremo vertice. Vertice che, data la situazione, ha pensato bene
di procrastinare la sua dipartita lavorativa, autorinnovandosi di
diritto il mandato pallazzesco. Ebbene, consta che questa triade
stia tramando per boicottare il lavoro nell’ala, e aver poi la scusa
per bandirlo in perpetuo dalla stessa, onde restituirla alla sua
primitiva condizione di, sia pur giocoso e protettivo, campo di
raccolta, rifugio dorato della diversità, garanzia della normalità
di chi è fuori. Il fiore all’occhiello del sistema sociale del
Pallazzo.
222
Il lavoro nell’ala dunque, appena partito sembra già aver i giorni
contati, e la stessa storia di Filo e Amber non dà l’impressione di
poterne contare molti di più. A meno di somministrarle in tempi
brevi e in dosi massicce un preparato unico nel suo genere,
confezionato in forma di discoide e dolcificato per renderne più
appetibile l’assunzione: il sempreverde confetto matrimoniale.
Una cura che non sempre dà gli effetti sperati e non è priva di
controindicazioni.
Pure continuano a stare insieme senza sposarsi e il lavoro
nell’ala a procedere senza incidenti. Il futuro, essendo fra le
stelle, neanche il vostro narratore può saperlo.
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