Introduzione: perché introdurre una forma di reddito minimo

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1 Introduzione: perché introdurre una forma di reddito minimo? Il 2010 è stato designato dall’Unione Europea “anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale”. Le ragioni di questa scelta sono da rinvenirsi da un lato nell’esigenza della costruzione di un moderno modello sociale europeo 1 che riesca effettivamente ad assicurare una tutela minima standardizzata in tutta l’Unione, e dall’altro lato nell’inasprimento delle condizioni di marginalità ed esclusione, dovuto principalmente alla crisi economica internazionale tuttora in atto; dalle ultime rilevazioni, infatti, risulta che il tasso di disoccupazione nell’Unione europea a 27 è aumentato, da marzo 2008 a dicembre 2009, di circa un punto percentuale, passando dal nove al dieci per cento 2 . La lotta alla povertà ha assunto un ruolo fondamentale nei piani strategici dell’Unione e, di conseguenza, dei diversi Stati membri: la transizione dal modello fordista di produzione industriale, che ha fatto da cornice alla nascita e allo sviluppo degli attuali modelli di welfare state, al modello post-industriale 3 caratterizzato invece dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione dell’economia e dall’internazionalizzazione dei mercati ha messo in moto un processo di decostruzione dei presupposti dei vigenti sistemi di protezione sociale. 1 Sulle difficoltà circa la costruzione di un modello sociale europeo si rinvia a M. Ferrera, “Le trappole del welfare”, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 91 ss., il quale sostiene che “(…) la definizione di un vero welfare state a livello comunitario si profila come un processo lento e accidentato”. 2 Dati del 1/06/2010, fonte Eurostat. 3 Si assiste alla transizione dal “fordismo maturo”, sviluppatosi successivamente alla crisi del Ventinove, all’avvento del cosiddetto “toyotismo” (di chiara matrice giapponese). Tale modello prevede la produzione per piccoli lotti di prodotti differenziati garantendo un’ottima resa qualitativa e allo stesso tempo un contenimento dei costi di produzione.

Transcript of Introduzione: perché introdurre una forma di reddito minimo

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Introduzione: perché introdurre una forma di reddito minimo?

Il 2010 è stato designato dall’Unione Europea “anno europeo della lotta

alla povertà e all’esclusione sociale”.

Le ragioni di questa scelta sono da rinvenirsi da un lato nell’esigenza

della costruzione di un moderno modello sociale europeo1 che riesca

effettivamente ad assicurare una tutela minima standardizzata in tutta

l’Unione, e dall’altro lato nell’inasprimento delle condizioni di

marginalità ed esclusione, dovuto principalmente alla crisi economica

internazionale tuttora in atto; dalle ultime rilevazioni, infatti, risulta che

il tasso di disoccupazione nell’Unione europea a 27 è aumentato, da

marzo 2008 a dicembre 2009, di circa un punto percentuale, passando

dal nove al dieci per cento2.

La lotta alla povertà ha assunto un ruolo fondamentale nei piani

strategici dell’Unione e, di conseguenza, dei diversi Stati membri: la

transizione dal modello fordista di produzione industriale, che ha fatto

da cornice alla nascita e allo sviluppo degli attuali modelli di welfare

state, al modello post-industriale3 caratterizzato invece dalla

globalizzazione, dalla finanziarizzazione dell’economia e

dall’internazionalizzazione dei mercati ha messo in moto un processo di

decostruzione dei presupposti dei vigenti sistemi di protezione sociale.

1 Sulle difficoltà circa la costruzione di un modello sociale europeo si rinvia a M. Ferrera, “Le trappole del welfare”, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 91 ss., il quale sostiene che “(…) la definizione di un vero welfare state a livello comunitario si profila come un processo lento e accidentato”. 2 Dati del 1/06/2010, fonte Eurostat. 3 Si assiste alla transizione dal “fordismo maturo”, sviluppatosi successivamente alla crisi del Ventinove, all’avvento del cosiddetto “toyotismo” (di chiara matrice giapponese). Tale modello prevede la produzione per piccoli lotti di prodotti differenziati garantendo un’ottima resa qualitativa e allo stesso tempo un contenimento dei costi di produzione.

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Infatti, dopo circa un trentennio di crescita costante, dalla metà degli

anni Settanta in poi si è registrato un drastico calo dei tassi di crescita

annua del Pil e si è assistito al progressivo declino delle strutture di

produzione tipiche della società fordista: ciò ha causato una forte

diminuzione delle retribuzioni e dei redditi, e, parallelamente, la crescita

del divario tra i redditi più bassi e quelli più alti. Inoltre, il calo

demografico e il corrispondente progressivo invecchiamento della

popolazione hanno comportato un cospicuo decremento della domanda

globale e del tasso di occupazione. Sono nate così nuove categorie di

esclusi, i lavoratori poveri, ovvero coloro i quali nonostante lo

svolgimento di un’attività lavorativa restano comunque al di sotto della

soglia di povertà.

In merito ciascuno Stato ha agito diversamente, predisponendo e

attuando una serie di politiche volte a sincronizzare i meccanismi di

protezione con le modificazioni strutturali avvenute negli ultimi quaranta

anni, in modo tale da rispondere in maniera efficace alle mutate esigenze

promananti dal corpo sociale4.

In un simile contesto si inseriscono le politiche di sostegno al reddito

riconducibili alla figura del reddito minimo: sebbene declinato in modo

differente in base al modello di riferimento adottato5, esso ha

4 Cfr. Ponzini G., “Le ragioni del reddito minimo d’inserimento”, in P. Calza Bini, O. Nicolaus, S. Turcio (a cura di), “Reddito minimo d’inserimento. Che fare?”, Roma, Donzelli editore, 2003, pp.155 ss. 5 Si suole ricondurre le forme di reddito minimo a due grandi “famiglie”: quella universalistica, che prevede l’erogazione di una somma di denaro in maniera incondizionata indipendentemente dalle effettive condizioni di bisogno del destinatario, e quella “selettiva”, che, al contrario, si basa su un’erogazione calibrata sulle condizioni di bisogno dei soggetti che richiedono l’accesso alla misura (means testing) e sull’assolvimento di specifici obblighi imposti dall’amministrazione, pena il decadimento dal godimento del beneficio. Cfr. G. Busilacchi, “Redditi di base e misure selettive di attivazione: antitesi o convivenza?” in “Assistenza sociale” n. 3-4

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rappresentato indubbiamente un elemento fondamentale nel contrasto

alla povertà e all’esclusione, tanto che è stato introdotto in quasi tutti gli

Stati dell’Unione Europea.

Attualmente, nell’Europa a 15, gli unici Paesi che ancora non hanno

provveduto all’introduzione di una simile misura sono l’Italia e la

Grecia, palesando così l’assenza di politiche lungimiranti e attente alle

diverse necessità della compagine sociale.

Invero, in Italia, una forma di protezione del reddito, il reddito minimo

d’inserimento, fu introdotta in via sperimentale nel 1998 con il D. lgs. n.

237. Si è trattato indubbiamente di un elemento di assoluta novità nel

panorama delle politiche sociali italiane, in linea per giunta con le

strategie di lotta alla povertà degli altri paesi europei e della stessa

Unione europea. Il dibattito politico e sociale circa l’assoluta importanza

della tutela degli individui in condizione di marginalità aveva così

prodotto l’istituzione di una misura che non rappresentava un mero

sostegno al reddito, ma che, piuttosto, si inseriva in un quadro di

politiche attive volte al reinserimento del soggetto nel tessuto sociale.

Nonostante gli esiti certamente non negativi riportati al termine della

sperimentazione, il reddito minimo d’inserimento fu abbandonato sul

finire del 2003, vanificando il potenziale d’innovazione che aveva

animato il tentativo di riforma, e rendendo più che mai necessario un

ripensamento delle politiche sociali italiane. E’ auspicabile il

superamento dell’eccessiva categorialità e settorialità tipiche di un

radicato sistema corporativo e di una considerazione meramente

risarcitoria dello Stato sociale, anche attraverso l’analisi e lo studio di

(luglio-dicembre) 2002; G. Ponzino, “Le ragioni del reddito minimo d’inserimento”, in P. Calza Bini, O. Nicolaus, S. Turcio (a cura di), “Reddito minimo d’inserimento. Che fare?”, Roma, Donzelli editore, 2003.

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una forma di reddito minimo che possa contribuire alla fuoriuscita di

un’ampia fascia di popolazione dallo stato di indigenza e dalla

condizione di esclusione dalla vita attiva, essendo questi fattori

impedienti per l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali. Oggi

intraprendere un simile percorso di riforme appare oltremodo

improrogabile, considerando che in Italia il tasso di occupazione è

calato, rispetto all’aprile dell’anno scorso, di 0,9% attestandosi al 56,9%,

mentre il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è aumentato,

sempre rispetto allo stesso periodo di riferimento, del 4,5%6.

1 La via italiana verso il reddito minimo: dalla Commissione

Onofri al reddito minimo d’inserimento

Le strutturali modificazioni economiche e sociali degli ultimi quaranta

anni hanno dato vita a un intenso dibattito circa i possibili percorsi di

riforma dei sistemi di protezione sociale.

A livello europeo tale dibattito è stato avviato dalle raccomandazioni 441

e 442 del 1992, attraverso le quali l’Unione Europea preconizzava, in

un’ottica di reinserimento e di valorizzazione dell’individuo,

l’implementazione di forme di reddito minimo nei tessuti normativi dei

diversi Stati membri. In seguito, con il Vertice di Nizza del 2000, la

riforma dei sistemi di protezione sociale è entrata a far parte di un più

generale piano di politiche comunitarie volto a modernizzare il modello

6 Fonte ISTAT, comunicato stampa rilasciato il 01/06/2010 e consultabile al sito http://www.istat.it/.

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sociale europeo, investendo nelle persone e combattendo il fenomeno

dell’esclusione sociale.

Anche l’Italia, in conformità con gli altri Paesi dell’Eurozona, ha dovuto

seguire le indicazioni fornite dall’organo sovranazionale, avviando una

serie di riforme che contenessero l’implementazione di una forma di

protezione di base: il reddito minimo d’inserimento.

La prima tappa di questo percorso è stata segnata dall’istituzione nel

1997 della “Commissione per l’analisi delle compatibilità

macroeconomiche della spesa sociale”, anche nota come “Commissione

Onofri”, dal nome del suo presidente, l’economista Paolo Onofri, alla

quale era stato assegnato il compito di formulare una proposta organica

di riforma dello Stato sociale in virtù dei vincoli macroeconomici

imposti dall’Unione europea per accedere all’unione monetaria, e delle

irreversibili modificazioni strutturali in corso nell’economia mondiale7.

L’analisi della Commissione si incentrava, quindi, sulla concreta

realizzabilità di una sistematica riforma del sistema di protezione sociale

italiano che ne completasse la struttura in un’ottica non più meramente

risarcitoria, bensì di incentivo al lavoro. Occorreva ripensare l’intero

sistema ponendo alla sua base l’universalismo dei diritti in luogo della

settorialità e categorialità tipiche del sistema corporativo, e, allo stesso

tempo, tenere sempre in considerazione la scarsità di risorse economiche

disponibili.

Sulla scorta di tali riflessioni e analisi la Commissione avanzò la

proposta di introdurre una forma di minimo vitale che fosse

effettivamente sganciata dalla logica emergenziale delle politiche sociali

7 Cfr. P. Onofri, “La «commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomi-che della spesa sociale»”, in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la «commissione Onofri»”, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 43 ss.

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fino ad allora attuate, e che sancisse il passaggio da un sussidio di tipo

“caritativo” al riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo di

cittadinanza8.

La concezione di base che doveva sorreggere l’impianto del minimo

vitale così come delineato dalla Commissione Onofri era quella

riconducibile alla figura dell’«universalismo selettivo»9, che solo

apparentemente configurava un ossimoro. Invero, essa rappresentava un

compromesso che avrebbe garantito i vantaggi connessi sia alla

concezione universalistica, sia a quella selettiva: l’universalismo avrebbe

assicurato una tutela estesa alla generalità del corpo sociale ed esente dai

vuoti relativi a un assetto categoriale; la selettività, invece, limitando il

godimento delle prestazioni solo a coloro che ne avevano effettivamente

bisogno, attraverso la cosiddetta “prova dei mezzi”, avrebbe consentito il

contenimento dei costi in ottemperanza ai vincoli macroeconomici di

spesa.

Una simile misura, inoltre, avrebbe dovuto inserirsi nel quadro delle

politiche di incentivo al lavoro mediante l’attivazione del destinatario,

essendo prevista in aggiunta all’erogazione della somma di denaro la

partecipazione obbligatoria del soggetto a specifici programmi di

reinserimento10, quali lo svolgimento di un’attività lavorativa o il

perfezionamento dei curricula scolastici o professionali, affinché potesse

uscire il prima possibile dal circuito assistenziale.

Per rendere effettivo e funzionante uno strumento simile era però

strettamente necessario introdurre anche un sistema di calcolo delle

8 Quelli che Rosanvallon chiama “diritti all’integrazione” e “diritti all’inserimento sociale”. Cfr. P. Rosanvallon, “Il diritto all’inserimento sociale”, in “Assistenza sociale” n. 1 (gennaio-marzo) 1998 9 “Relazione finale”, Documento di base n. 3, p. 88. 10 Cfr. “Relazione finale”, Documento di base n. 3 Allegato I, p. 116.

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disponibilità economiche dei soggetti richiedenti, che fosse tarato in base

alle peculiarità della istituenda misura, poiché i meccanismi di calcolo

precedentemente in uso consideravano come unico metro di valutazione

il solo reddito monetario, e gli eventuali difetti nella misurazione

venivano compensati da aprioristiche scelte categoriali11 (ad esempio

differenziando ex ante il trattamento dei lavoratori autonomi rispetto a

quello dei lavoratori dipendenti). Tale nuovo strumento di calcolo fu

individuato dalla Commissione nell’ISEE – l’indicatore della situazione

economica equivalente – il quale prevedeva tra le componenti

economiche di riferimento non solo il reddito monetario ma anche il

patrimonio, mobiliare o immobiliare; le ragioni di questa scelta erano

presumibilmente legate all’elevato tasso di economia sommersa presente

in Italia, che rendeva molto difficile una valutazione verosimile sulla

scorta dei soli dati relativi al reddito monetario12.

Le indicazioni fornite dalla Commissione Onofri furono recepite dal

Governo Prodi il quale, già a pochi mesi di distanza dalla chiusura dei

lavori, nella legge finanziaria per il 1998 (l. n. 449/1997) aveva previsto

l’introduzione in via sperimentale del reddito minimo d’inserimento13,

previsione poi concretamente trasposta nella realtà con il D. lgs. n.

237/1998. Si trattava di uno strumento destinato a tutti quei soggetti a

rischio di marginalità ed esclusione sociale che non potevano provvedere

a loro stessi o ai loro familiari. Il legislatore delegato aveva previsto che

tale misura seguisse un iter di sperimentazione di due anni prima della

sua definitiva messa a regime, per verificarne l’efficacia in relazione al

11 Si rinvia al saggio di R. Tangorra, “L’Isee: una riforma incompiuta”, in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 137 ss. 12 Cfr. R. Tangorra, op. cit., p. 143. 13 L. n. 449/1997 art. 59 co. 47-48.

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superamento delle condizioni di bisogno nelle quali essa avrebbe

operato, e, inoltre, per valutare la funzionalità dell’ISEE nel selezionare

correttamente i beneficiari.

La titolarità della sperimentazione era dei Comuni, in quanto ritenuti i

livelli istituzionali più direttamente vicini ai cittadini, e quindi

maggiormente agevolati nella organizzazione del funzionamento del

RMI.

Le peculiarità dell’istituto in esame risiedevano innanzitutto nel

coinvolgimento di un’ampia platea di beneficiari: seguendo il principio

dell’«universalismo selettivo» designato dalla Commissione Onofri, il

reddito minimo d’inserimento era destinato a tutti, indipendentemente

dalle appartenenze categoriali o da altri fattori che non riguardassero la

sola ed esclusiva condizione di bisogno del richiedente.

Si prevedeva, perciò, l’erogazione di una somma di denaro per tutti i

cittadini italiani o extracomunitari residenti nel territorio dello Stato da

almeno un anno (tre anni per gli extracomunitari), che percepivano un

reddito inferiore alla soglia di povertà14, e che, allo stesso tempo, non

disponevano di patrimonio mobiliare o immobiliare, fatta eccezione per

l’immobile destinato a uso abitativo.

L’ammontare di tale erogazione non era stabilito in somma fissa ma

come la differenza tra la soglia di povertà predeterminata dal legislatore

e la somma dei redditi riferiti al nucleo familiare composto dal

destinatario, dalle persone con lui conviventi e da quelle risultanti a suo

carico. Inoltre, per evitare che una simile erogazione si trasformasse in

un indebito incentivo al non-lavoro, il legislatore aveva previsto

l’applicazione di una franchigia del 25% sui redditi da lavoro: si

volevano così evitare i presumibili comportamenti opportunistici dei 14 Tale soglia era stata fissata per il 1998 in 500.000 Lire mensili.

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destinatari, i quali avrebbero potuto decidere consapevolmente di

rimanere al di sotto della soglia di povertà, ovvero, nella peggiore delle

ipotesi, avrebbero potuto prestare irregolare attività lavorativa

coniugando il reddito da lavoro “nero” con il reddito assistenziale.

La natura “bidimensionale” della misura in esame si traduceva nella

richiesta ai beneficiari in età lavorativa, non occupati e abili al lavoro,

della disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale o a

essere occupati.

In tal modo la volontà del legislatore si proiettava ben al di là della

singola concessione di denaro, arrivando invece a teorizzare l’effettivo

reinserimento dei beneficiari disoccupati o inoccupati: ciò poneva la

politica del reddito minimo d’inserimento in un generale quadro di

ripensamento del modello economicistico di cittadinanza, a favore

invece di un modello informato all’inclusione sociale in quanto

necessaria pre-condizione all’inserimento lavorativo.

L’organizzazione degli interventi di integrazione previsti dalla normativa

era stata affidata interamente ai Comuni, i quali dovevano redigere degli

specifici piani personalizzati di concerto con i soggetti richiedenti, in

base anche alle caratteristiche familiari e personali di questi ultimi.

Il rispetto dei doveri imposti dalla legge era una condizione necessaria

per il godimento del beneficio, dal momento che una loro eventuale

violazione avrebbe comportato la riduzione o, nei casi più gravi, la

sospensione del beneficio concesso.

Per quanto riguarda il finanziamento, il decreto istitutivo aveva previsto

che esso fosse ripartito tra lo Stato e i Comuni interessati; nella

fattispecie la componente relativa ai trasferimenti monetari doveva

10

essere per il 90% a carico del Fondo nazionale per le politiche sociali15 e

per il restante 10% a carico dei Comuni interessati dalla

sperimentazione.

In questo modo il legislatore intendeva assicurare un’uniformità di

trattamento su tutto il territorio nazionale, al fine di evitare le inevitabili

sperequazioni16 dovute alla diversa disponibilità di risorse economiche e

al diverso costo della vita, entrambi fattori estremamente variabili dal

Nord al Sud del Paese.

In definitiva, quindi, l’introduzione del RMI ha rappresentato un

elemento innovativo nel panorama delle politiche sociali italiane, troppo

spesso finalizzate alla risoluzione di problematiche contingenti e non

orientate invece alla sistematica e strutturale riforma dell’intero impianto

di protezione sociale.

15 L. n. 449/1997 art. 59 comma 44. 16 Peraltro, tali sperequazioni avevano dato luogo, soprattutto in materia assistenziale, a quello che la Commissione Onofri chiamava “federalismo senza principi”, ovvero un sistema viziato dall’assenza di una normativa quadro dello Stato che stabilisca gli standard minimi che Regioni ed Enti locali devono applicare, pure nella varietà delle diverse normative locali.

11

2 I risultati della sperimentazione del reddito minimo

d’inserimento

L’esperienza italiana della sperimentazione del RMI ha avuto una durata

limitata, essa ha dispiegato i suo effetti fino alla fine del 2000 (prima

fase) e, successivamente, la legge n. 388/200017 (legge finanziaria per il

2001) ne ha prorogato i termini per altri due anni, estendendone il campo

d’applicazione dai 39 Comuni iniziali ad altri 268 (seconda fase)18.

Nel frattempo la misura è stata confermata in via legislativa anche dalla

legge n. 328/200019 che, nel riformare il comparto assistenziale italiano,

ha disposto la sua generalizzazione e la sua definitiva implementazione

nel tessuto normativo, sancendone peraltro il carattere di livello

essenziale fra le prestazioni da assicurare sull’intero territorio nazionale.

L’attività di valutazione della sperimentazione è stata commissionata dal

Dipartimento per gli affari sociali a un’associazione temporanea di

impresa costituita da tre istituti di ricerca privati, l’Irs, il Cles e la

fondazione Zancan, ai quali era stato affidato il compito di redigere un

“Rapporto ministeriale di valutazione” sul reddito minimo

d’inserimento al termine del primo biennio di sperimentazione.

Inspiegabilmente però tale rapporto non è mai stato pubblicato né

tantomeno è mai stato presentato davanti al Parlamento, così come

invece prevedeva il decreto istitutivo della misura; ma ancor più

inspiegabile risulta essere l’assoluta mancanza di comunicazione del

17 Cfr. art. 80 l. n. 388/2000. 18 La sperimentazione è stata concretamente attuata con il decreto ministeriale del Dipartimento per gli affari sociali del 5 agosto del 1998, che ha individuato i Comuni partecipanti sulla base di indicatori di disagio forniti dall’Istat. 19 Cfr. art. 23 comma 1 l. n. 328/2000.

12

rapporto agli stessi soggetti coinvolti dalla sperimentazione: i 39

Comuni interessati dalla prima fase infatti non sono stati messi a

conoscenza dei risultati, e di conseguenza non hanno potuto analizzare

gli errori e le distorsioni applicative riscontrate. Per quanto riguarda la

seconda fase il Governo non ha previsto alcuna attività di monitoraggio,

rendendone sostanzialmente “autarchica”20 la gestione.

Questo stato di cose ha costituito un grave vulnus per la successiva

messa a regime della misura, dal momento che un simile corto circuito

comunicativo ha reso de facto inutile l’attività di sperimentazione.

Attualmente, l’unica versione a stampa del “Rapporto ministeriale di

valutazione” è costituita da una stesura sintetica contenuta nel

“Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale” del

2001 pubblicato a cura della Commissione di indagine sull’esclusione

sociale (CIES).

Il primo biennio ha coinvolto 39 Comuni, 24 dei quali localizzati nel

Mezzogiorno, 10 nel Centro Italia e 5 nel Nord Italia: questa

collocazione rifletteva esattamente la distribuzione della povertà in Italia

che, infatti, si concentrava principalmente nel Sud e nelle isole.

Le domande di accesso alla misura presentate nel primo biennio sono

state 55.522, e di queste ne sono state accolte 34.730, ovvero il 62,5%

del totale. Il dato più interessante però è quello relativo al tasso medio di

incidenza delle domande accolte sul totale delle famiglie residenti: a

livello nazionale esso è del 4,2%, ma se lo si analizza relativamente alle

diverse macro-aree del Paese si possono evincere alcune differenze

significative. Infatti, mentre nei Comuni del Centro-Nord esso si

20 Cfr. “I rapporti di AS”, “Il reddito minimo d’inserimento in Italia: la sperimentazione continua di una misura difficile”, in “Assistenza sociale”, 2002, p. 204.

13

aggirava attorno all’1-2%, nei Comuni del Sud e delle isole esso era

destinato a salire, attestandosi al 3-5%.

Ciò metteva in luce uno dei primi problemi connessi all’erogazione del

RMI, ovvero la carenza di controlli e l’inadeguatezza delle

amministrazioni coinvolte nel gestire in maniera corretta l’applicazione

della misura, presumibilmente a causa dell’assenza di una cultura delle

erogazioni means tested e delle sacche di clientelismo e assistenzialismo

radicate soprattutto nel Mezzogiorno.

Per quanto riguarda i programmi di reinserimento previsti dalla

normativa, il dato indicava un’accentuata diffusione dei progetti di

integrazione socio-relazionale e delle attività di cura e sostegno intra-

familiare; meno diffusi, invece, i programmi di reinserimento

specificamente lavorativi, che si fermavano al 14,9%.

Ciò manifestava la natura intrinseca del RMI, che non era stato

programmato come una politica del lavoro, e di certo non poteva

diventare tale nelle more della sua applicazione. L’oggetto

dell’intervento del legislatore non era la disoccupazione tout court, bensì

il rischio soggettivo e familiare di precipitare, anche a causa della

scarsità di risorse monetarie dovuta alla mancanza di un’occupazione, in

una condizione di marginalità sociale21.

In generale gli esiti della sperimentazione sono stati tendenzialmente

positivi, in ragione del fatto che alla fine del biennio considerato le

dimissioni dalla misura segnalavano una quota di uscite che sfiorava il

dieci per cento del totale dei casi complessivamente presi in carico.

21 Così come peraltro si affermava nel “Rapporto ministeriale di valutazione” p. 48, nel quale si sosteneva che “(...) il RMI non è una politica del lavoro e non può sostituirsi a una politica del lavoro”.

14

Un altro fattore sicuramente positivo era quello relativo al

completamento della formazione scolastica e professionale, condicio

sine qua non per un effettivo reinserimento nel circuito della vita attiva:

la partecipazione alla misura aveva consentito a 2.344 persone di

conseguire il diploma di licenza elementare/media, e a 3.588 di

conseguire un attestato di formazione professionale spendibile sul

mercato del lavoro; inoltre, grazie al percepimento della misura, circa

800 famiglie erano rientrate dalle morosità dovute al mancato o ritardato

pagamento del canone di locazione o di utenze, e, in molte grandi città

del Mezzogiorno, la sua erogazione aveva contribuito a generare un

sensibile calo del tasso di micro-criminalità.

I fattori critici rilevati dall’analisi della sperimentazione vertevano

principalmente sui costi e sulle modalità di finanziamento della stessa.

Per quanto riguarda i costi essi ammontavano per i primi due anni a 430

miliardi di Lire. L’analisi ha però messo in luce un’anomalia circa la

ripartizione interna di tale somma: oltre il 90 per cento, infatti, è stato

destinato all’integrazione monetaria dei redditi dei beneficiari del Sud e

delle isole, mentre solo il restante 10 per cento è stato distribuito nei

Comuni del Centro-Nord. Inoltre, in deroga al dettato legislativo del

decreto istitutivo, che stabiliva, all’articolo 5, la ripartizione del

finanziamento del RMI per il 90% a carico del Fondo nazionale per le

politiche sociali, e per il 10% a carico dei Comuni sperimentatori, più del

97% delle risorse erogate è gravato esclusivamente sul Fondo nazionale

per le politiche sociali, mentre le singole amministrazioni comunali

hanno finanziato la misura per il restante 3%. Per di più sono stati ben 14

i Comuni che non hanno minimamente contributo al finanziamento e, al

contrario, solo 5 quelli che hanno rispettato il tetto fissato dal legislatore.

15

Gli istituti valutatori hanno messo in luce le diverse problematiche

relative alla sperimentazione, individuandole principalmente nella

pregressa condizione di arretratezza delle politiche sociali italiane, e in

alcune lacune del dettato legislativo: in primo luogo avrebbero dovuto

essere definiti puntualmente i ruoli di tutti i soggetti che avrebbero

concorso all’erogazione del beneficio, e individuare i livelli istituzionali

di volta in volta più rispondenti alle esigenze dei beneficiari. A tal

proposito era necessario predisporre delle reti di collaborazione con i

soggetti non istituzionali (soprattutto del “terzo settore”), per evitare i

cortocircuiti comunicativi tra le amministrazioni centrali e le diramazioni

periferiche. In secondo luogo era necessario ridefinire i criteri di accesso

alla misura, per contenere e rendere omogenei i margini di

discrezionalità a livello locale: occorreva ridurre il periodo di residenza

indispensabile per l’accesso al beneficio e accordare la prevalenza al

criterio del domicilio rispetto a quello della residenza anagrafica, poiché

era emerso che tale criterio si era rivelato penalizzante per alcune

categorie di soggetti (soprattutto i senza fissa dimora). Per quanto

riguarda il calcolo del reddito, ai fini dell’accesso alla misura, si riteneva

necessario aggiungere al già previsto abbattimento del 25% dei redditi da

lavoro ulteriori detrazioni relative a canoni di locazioni, mutui e altre

spese.

Anche i criteri patrimoniali erano stati ritenuti eccessivamente restrittivi,

tanto che si proponeva di modificarli nel senso di non escludere dal

godimento del beneficio i richiedenti titolari di un patrimonio mobiliare

di modesta entità ovvero proprietari di terreni di modesto valore

commerciale.

La sperimentazione aveva altresì posto l’attenzione sull’importanza di un

efficace sistema di controllo e verifica: troppo spesso l’assenza di una

16

fitta rete di controlli incrociati aveva incentivato un uso clientelare e

opportunistico del RMI. Molti Comuni, peraltro, avevano lamentato la

carenza di collaborazione interistituzionale e la mancanza di un’adeguata

organizzazione che facilitasse le attività di controllo.

Paradigmatico in tal senso il caso del Comune siciliano di Barrafranca,

dove, per ogni visura catastale richiesta e finalizzata al controllo di

attività fraudolente, l’amministrazione comunale si vedeva addebitare

dall’ufficio del Catasto 10.000 Lire!

In definitiva, nonostante le distorsioni testè accennate, la

sperimentazione del RMI aveva fornito delle indicazioni molto

interessanti in vista di una sua generalizzazione: occorreva solo

apportare delle correzioni per rendere lo strumento concretamente

efficace.

Tali interventi correttivi, contenuti nel “Rapporto di valutazione”, non

sono però mai stati effettuati, dato che il legislatore ha, de facto,

abbandonato ogni progetto di inserimento definitivo della misura.

17

3 La transizione dal reddito minimo d’inserimento al reddito di

ultima istanza

L’abbandono del RMI è coinciso con le elezioni politiche del 2001, dalle

quali è emersa una nuova maggioranza di Governo, “(...) con differenti

paradigmi valoriali e politici (...) che hanno comportato “(...) una lettura

critica del Rmi e la sua radicale messa in discussione”22.

Il Governo, appena insediatosi, ha completamente ignorato i risultati

della sperimentazione contenuti nel “Rapporto ministeriale di

valutazione”, sostenendo che i problemi riscontrati durante la prima fase

erano direttamente ascrivibili alle caratteristiche stesse dello strumento.

Questa inversione di tendenza si è manifestata chiaramente già nel

“Patto per l’Italia” del 5 luglio del 2002, nel quale si sottolineava il

sostanziale fallimento della politica del RMI, in quanto essa aveva “(...)

consentito di verificare l’impraticabilità di individuare attraverso la

legge dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di

sicurezza sociale”23.

A distanza di pochi mesi, nel febbraio del 2003, l’orientamento del

Governo fu precisato nel “Libro bianco per il welfare. Proposte per una

società dinamica e solidale”, elaborato dal Ministero del lavoro e delle

politiche sociali, nel quale, oltre a ribadire appunto il fallimento del

RMI, se ne preconizzava la sostituzione con un altro strumento,

denominato reddito di ultima istanza (RUI).

22 E. Ranci Ortigosa, “Il reddito minimo d’inserimento” in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 445. 23 “Patto per l’Italia”, par. 2.7.

18

Secondo le indicazioni del Governo, tale misura avrebbe dovuto avere le

caratteristiche di una politica a sostegno del reddito caratterizzata da

elementi solidaristici e finanziata dalle singole Regioni con l’apporto del

contributo statale.

Dalle anodine espressioni contenute nel “Libro bianco”, peraltro,

appariva palese l’intento del legislatore di scindere l’applicazione del

RUI dall’obiettivo di reinserimento occupazionale, dal momento che un

simile obiettivo sarebbe stato perseguito attraverso lo sviluppo

economico, il quale, stimolando i consumi e la crescita, avrebbe dovuto

innescare un circolo virtuoso e contribuire all’attenuazione del fenomeno

dell’esclusione sociale24.

La vera e propria formalizzazione giuridica del RUI fu effettuata, però,

solo nel dicembre del 2003 con la legge n. 350 (legge finanziaria per il

2004), nella quale esso veniva previsto come “misura di

accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale”25.

Con questa specifica previsione il legislatore aveva ricomposto il nesso

tra l’erogazione della misura e la funzione di reinserimento sociale, che

invece era stata inizialmente esclusa sia dal “Patto per l’Italia”, sia dal

“Libro bianco”. Ciononostante rimaneva ferma l’intrinseca natura

residuale dell’istituto, così come peraltro testimoniato dalla sua stessa

denominazione di Reddito di ultima istanza.

Dal punto di vista tecnico la misura in esame consisteva nel co-

finanziamento da parte dello Stato, nei limiti preordinati a tale scopo dal

Fondo nazionale per le politiche sociali, delle Regioni che decidevano di

istituire il RUI all’interno del loro ordinamento. Si trattava di

24 Per un’analisi critica si rinvia a F. Pizzolato, “Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi”, Milano, Giuffrè editore, 2004, pp. 141 ss. 25 Cfr. art. 3 commi 101-103 l. n. 350/2003.

19

un’erogazione che, a differenza del RMI, aveva perso il suo carattere di

misura generale di contrasto alla povertà secondo la concezione

dell’«universalismo selettivo», per assumere invece le caratteristiche di

“una sorta di sussidio di povertà per le famiglie povere e non protette da

ammortizzatori”26.

I problemi di applicabilità di una misura siffatta non hanno tardato a

manifestarsi, soprattutto in relazione alla sua mancata definizione come

livello essenziale delle prestazioni: una simile mancanza contraddiceva

in primo luogo il dettato della legge n. 328/2000, che aveva definito

come tale il suo predecessore (il RMI), e in secondo luogo la nuova

ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, così come venutasi a

delineare dopo la l. Cost. n. 3/2001 di riforma del titolo V della

Costituzione, che aveva attribuito la competenza in materia assistenziale

alle Regioni e aveva circoscritto la potestà legislativa statale alla

“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i

diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio

nazionale”27.

Alla luce della riforma costituzionale, quindi, l’iniziativa di attuare

politiche assistenziali era stata attribuita alla competenza delle Regioni,

le quali però dovevano rispettare i livelli minimi fissati a livello

nazionale; la mancata definizione del RUI tra i livelli minimi, però,

aveva fatto sì che, in assenza di un coordinamento statale, l’iniziativa di

porre in essere misure di ultima istanza fosse sostanzialmente rimessa

alla discrezionalità delle Regioni e alla loro disponibilità interna di

bilancio. Ciononostante la legge n. 350/2003 rinviava per una più

26 Cfr. C. Lagalà – M. D’Onghia, “La sicurezza sociale nel terzo anno di legislatura”, in “Riv. dir. sic. Soc.”, n. 2/2004, p. 749. 27 Cfr. art. 117 lett. m Cost.

20

puntuale definizione della disciplina applicativa del RUI a una normativa

statale secondaria28. Delle due l’una quindi: o il RUI era stato previsto

come un livello essenziale “implicito”, e allora occorreva comunque

definirne meglio i contenuti; oppure, se il RUI non era un livello

essenziale delle prestazioni, l’intervento dello Stato costitutiva

un’indebita compressione dei poteri legislativi delle Regioni, e una

violazione del riparto costituzionale di competenze.

Questa ambiguità legislativa è stata successivamente posta all’attenzione

della Consulta che, nella sentenza n. 423/200429, ha negato al Reddito di

ultima istanza la natura di “livello essenziale” delle prestazioni, e ha

dichiarato incostituzionale per violazione del riparto di competenze ex

art. 117 Cost. la relativa legislazione statale. Il giudice delle leggi ha

ritenuto di escludere che l’oggetto della disciplina in esame attenesse

“(...) alla potestà legislativa esclusiva statale di «determinazione dei

livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»”,

dal momento che il legislatore non aveva posto in essere le necessarie

norme per assicurare un trattamento uniforme su tutto il territorio

nazionale.

Così, a partire dal 2005, nonostante l’intensa stagione di riforme

avviatasi con l’istituzione della Commissione Onofri nel 1998, l’Italia

non disponeva più di una misura universale e generalizzata di contrasto

alla povertà e all’esclusione sociale.

Nel quadro venutosi a delineare, in virtù del nuovo riparto di competenze

tra Stato e Regioni, e nell’attesa della fissazione dei livelli essenziali 28 Si rinviava per la specificazione delle concrete modalità di applicazione della misura a uno o più decreti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze. 29 In “Le Regioni” n. 4 (luglio-agosto) 2005, pp. 642-648 commentata da E. Vivaldi, “Il fondo nazionale per le politiche sociali alla prova della Corte Costituzionale”, pp. 649-663.

21

delle prestazioni da parte del legislatore, sono state proprio le singole

Regioni a introdurre nei loro ordinamenti strumenti universali di

contrasto alla povertà, perpetuando la prassi di una tutela assistenziale

fortemente differenziata all’interno del territorio nazionale.

4 Possibili percorsi di riforma del welfare state italiano: la

fiscalizzazione degli oneri sociali e la proposta del salario sociale

Alla luce delle vicissitudini del reddito minimo d’inserimento appare

ancora più evidente la necessità di avviare una compiuta riforma del

sistema di protezione sociale italiano.

Esso infatti non è più in grado di soddisfare le esigenze di una massa

sempre più cospicua di soggetti ben al di sotto di condizioni di vita

accettabili; inoltre, l’internazionalizzazione dei mercati, consentendo il

trasferimento della produzione in Paesi dove il costo del lavoro è più

basso, ha inciso ancora più negativamente sul fenomeno della

disoccupazione e, di conseguenza, dell’esclusione sociale.

È perciò necessaria una “rivoluzione copernicana” del modello sociale

italiano, che prenda le mosse proprio dalle sue modalità di

finanziamento: la vigente configurazione, informata a una logica

contributiva secondo cui l’alea economica connessa al rischio del

verificarsi di una condizione di bisogno viene eliminata grazie

all’apporto dell’assicurato, è diventata anacronistica e insostenibile dal

punto di vista finanziario. Ciò è dovuto principalmente ai problemi

relativi al calo demografico e all’invecchiamento della popolazione nella

società post-industriale. L’Italia rischia addirittura di diventare il primo

22

Paese in cui si potrebbe verificare il sorpasso degli ultra

sessantacinquenni rispetto alla fascia d’età compresa tra i venti e i

sessanta anni: fonti ufficiali affermano che, attualmente, gli over 65 sono

il 20% della popolazione, e che negli ultimi venti anni l’indice di

vecchiaia ha subìto un incremento del 50,3%30.

Tutto ciò è andato a gravare sul già fragile sistema pensionistico, poiché

esso era nato per accompagnare la persona nell’ultimo tratto di vita,

mentre oggi, in molti casi, il periodo attivo e lavorativo è inferiore

rispetto a quello trascorso in pensione.

Tramonta perciò la ormai vetusta “cronologizzazione” delle fasi di vita,

non essendo più riconducibile nel rigido schema studio – lavoro –

pensione.

Appare evidente, quindi, come in un simile contesto il finanziamento

contributivo basato sulla solidarietà intergenerazionale sia destinato a

fallire e a cedere il passo a un modello nuovo, basato invece sul

superamento dell’impostazione mutualistica e sull’affermazione del

principio di solidarietà generale. Tale modello di finanziamento

determinerebbe il coinvolgimento dell’intera collettività nel garantire un

efficace funzionamento dello Stato sociale, dal momento che valorizzare

l’aspetto solidaristico della società renderebbe possibile l’effettivo

godimento dei diritti di cittadinanza e la piena realizzazione del principio

di uguaglianza sostanziale, così come sancito dall’articolo 3 secondo

comma della Costituzione.

La fiscalizzazione degli oneri sociali assume un rilievo significativo

proprio perché permetterebbe il raggiungimento di questo obiettivo

30 “Rapporto Nazionale 2009 sulle Condizioni ed il Pensiero degli Anziani: una società diversa” presentato alla Camera dei deputati l’11 novembre del 2009, consultabile su http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/rapporto_anziani/.

23

mediante il loro trasferimento da determinate categorie di soggetti

all’intera collettività, attraverso l’utilizzazione del prelievo fiscale

attuato mediante le imposte.

Le finalità perseguite da una siffatta forma di finanziamento sono

individuabili in primo luogo, da un punto di vista esclusivamente sociale,

nella ripartizione più equa dei sacrifici finanziari derivanti dal

funzionamento del sistema previdenziale, e in secondo luogo, sotto un

profilo meramente economico, nella riduzione dei costi di produzione.

Ciò avrebbe degli effetti benefici per l’intero mercato del lavoro, dato

che la diminuzione dei costi di produzione, e quindi anche del costo del

lavoro che ne rappresenta una parte considerevole, comporterebbe un

aumento della competitività delle aziende nel mercato globale e

internazionalizzato31; inoltre la fiscalizzazione avrebbe anche una

notevole influenza positiva sugli equilibri economici, comportando un

aumento del potere d’acquisto dei lavoratori e, conseguentemente, un

aumento della domanda aggregata del mercato.

Paradossalmente, la fiscalizzazione degli oneri sociali sebbene non sia

stata formalizzata legalmente di fatto è già operante: basti pensare che

attualmente lo Stato ripiana i bilanci dell’Inps, contribuendo alla

formazione di un sistema ibrido, finanziato per due terzi dal prelievo

contributivo e per un terzo dal prelievo fiscale, tanto che nel 2008 il

passivo della gestione dell’Inps “coperto” mediante i trasferimenti da

parte dello Stato ammontava a circa 71 miliardi di Euro32.

Nel quadro di questa globale riforma del welfare state è opportuno un

riferimento al profilo della retribuzione del lavoratore, in quanto 31 Si rinvia per un’analisi dettagliata al saggio di A. Coppini, “La fiscalizzazione degli oneri sociali”, in Dir. Lav., 1965, I, pp. 27 ss. 32 Cfr. “Nucleo di valutazione della spesa previdenziale. Gli andamenti finanziari del sistema pensionistico obbligatorio”, consultabile al sito www.inps.it.

24

componente principale del costo del lavoro. Essa costituisce la prima

forma di previdenza: una retribuzione sufficiente ha rappresentato da

sempre la prima e imprescindibile garanzia per il lavoratore33.

In tal senso si richiede una reinterpretazione dei principi costituzionali

che fondano il sistema di protezione sociale italiano, partendo

dall’articolo 36.

La norma in esame, che stabilisce il diritto del lavoratore di percepire

“una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e

in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia

un’esistenza libera e dignitosa”, ha fornito lo spunto per una continua

elaborazione del concetto di retribuzione, da considerarsi come elemento

del rapporto di lavoro distinto dal normale rapporto di scambio34;

secondo il dettato costituzionale, i due criteri centrali posti alla base della

determinazione del compenso dei lavoratori sono da un lato la

sufficienza, che assolve la funzione di minimo vitale, ossia di soddisfare

le necessità personali e familiari, e dall’altro lato la proporzionalità, che

invece valorizza le diverse componenti intrinseche dell’attività svolta.

Attualmente, in virtù dei fenomeni descritti in precedenza, anche la

retribuzione equa esclusivamente a carico del datore di lavoro è divenuta

economicamente insostenibile, rendendo perciò necessario un nuovo

approccio ermeneutico all’articolo 36 Cost., che ne contestualizzi il

disposto all’odierna realtà: mediante la fiscalizzazione degli oneri

sociali, la sicurezza sociale potrebbe garantire la retribuzione sufficiente,

33 Cfr. G. Perone, “Tutela della retribuzione del reddito nel diritto del lavoro e nei diritti della previdenza sociale”, in Dir. Lav., 1985, I, pp. 121 ss. 34 A questo proposito un contributo lucido e dettagliato si deve a T. Treu in G. Branca (a cura di), “Commentario alla Costituzione. Rapporti economici”, Bologna, Nicola Zanichelli editore, 1979, pp. 72 ss.

25

mentre spetterebbe al datore di lavoro assicurare il criterio della

proporzionalità in base alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Ciò partendo dalla considerazione che nel tipico rapporto sinallagmatico

di lavoro non dovrebbero gravare sul datore le condizioni di vita del

lavoratore e della sua famiglia: il requisito della sufficienza dovrebbe

trovare nel contratto di lavoro solo il suo presupposto.

Un’interpretazione siffatta si fonda sul presupposto che il diritto alla

retribuzione sufficiente rientra nell’alveo dei diritti della persona e, in

quanto tale deve essere lo Stato ad assolvere il compito di rimuovere gli

ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno

raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini35; né

d'altronde potrebbe essere diversamente, stante la natura stessa del

requisito della sufficienza che crea in capo al prestatore di lavoro dei

diritti difficilmente compatibili con una logica di scambio.

Inoltre un simile contesto esegetico non sembra essere nemmeno in

contrasto con il dettato letterale della disposizione: essa infatti si limita

ad affermare il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione equa e

sufficiente, ma non ne indica le modalità di attuazione.

Secondo la soluzione prospettata quindi la fiscalizzazione degli oneri

sociali sarebbe il naturale prius rispetto alla proposta del salario sociale

derivante dalla rilettura dell’articolo 36 della Costituzione.

Naturalmente imboccare un simile percorso di riforme non sarà affatto

facile in un Paese come l’Italia, caratterizzato da un elevato livello di

economia sommersa, e in cui spesso gli interessi corporativi hanno la

meglio rispetto al bene collettivo. Ma d’altro canto persistere 35 In tal senso cfr. G. Pera, “La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice”, in Mass. Giur. Lav., 1961, p. 417; S. Hernandez, “Nuove forme di retribuzione e attualità dei principi costituzionali”, Quaderni di argomenti di diritti del lavoro, 1998, p. 14.

26

nell’attribuire al datore di lavoro competenze che non gli spettano

genererebbe degli effetti nefasti, sia per quanto riguarda il sistema

economico, sia per quanto riguarda in generale la tenuta della rete di

protezione sociale. L’elevato costo del lavoro ha comportato

l’intensificarsi del fenomeno della delocalizzazione, che a sua volta ha

causato la caduta in uno stato d’indigenza di un numero sempre

maggiore di individui, i quali peraltro, non rientrando tra le categorie dei

“meritevoli” di tutela secondo il sistema di protezione sociale così come

modellato dai Padri costituenti, rimangono ai margini della società. Allo

stesso tempo, però, non è certamente immaginabile che la risoluzione di

questo problema sia approntata mediante l’abbassamento del salario

medio dei lavoratori.

Si tratterebbe, in ultima analisi, non di un complessivo superamento del

welfare fondato sul lavoro, ma piuttosto di una sua “rilettura” critica che

lo renda rispondente alle nuove dinamiche sociali ed economiche, in

quanto esse rappresentano il risultato di processi non più reversibili.