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Introduzione: perché introdurre una forma di reddito minimo?
Il 2010 è stato designato dall’Unione Europea “anno europeo della lotta
alla povertà e all’esclusione sociale”.
Le ragioni di questa scelta sono da rinvenirsi da un lato nell’esigenza
della costruzione di un moderno modello sociale europeo1 che riesca
effettivamente ad assicurare una tutela minima standardizzata in tutta
l’Unione, e dall’altro lato nell’inasprimento delle condizioni di
marginalità ed esclusione, dovuto principalmente alla crisi economica
internazionale tuttora in atto; dalle ultime rilevazioni, infatti, risulta che
il tasso di disoccupazione nell’Unione europea a 27 è aumentato, da
marzo 2008 a dicembre 2009, di circa un punto percentuale, passando
dal nove al dieci per cento2.
La lotta alla povertà ha assunto un ruolo fondamentale nei piani
strategici dell’Unione e, di conseguenza, dei diversi Stati membri: la
transizione dal modello fordista di produzione industriale, che ha fatto
da cornice alla nascita e allo sviluppo degli attuali modelli di welfare
state, al modello post-industriale3 caratterizzato invece dalla
globalizzazione, dalla finanziarizzazione dell’economia e
dall’internazionalizzazione dei mercati ha messo in moto un processo di
decostruzione dei presupposti dei vigenti sistemi di protezione sociale.
1 Sulle difficoltà circa la costruzione di un modello sociale europeo si rinvia a M. Ferrera, “Le trappole del welfare”, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 91 ss., il quale sostiene che “(…) la definizione di un vero welfare state a livello comunitario si profila come un processo lento e accidentato”. 2 Dati del 1/06/2010, fonte Eurostat. 3 Si assiste alla transizione dal “fordismo maturo”, sviluppatosi successivamente alla crisi del Ventinove, all’avvento del cosiddetto “toyotismo” (di chiara matrice giapponese). Tale modello prevede la produzione per piccoli lotti di prodotti differenziati garantendo un’ottima resa qualitativa e allo stesso tempo un contenimento dei costi di produzione.
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Infatti, dopo circa un trentennio di crescita costante, dalla metà degli
anni Settanta in poi si è registrato un drastico calo dei tassi di crescita
annua del Pil e si è assistito al progressivo declino delle strutture di
produzione tipiche della società fordista: ciò ha causato una forte
diminuzione delle retribuzioni e dei redditi, e, parallelamente, la crescita
del divario tra i redditi più bassi e quelli più alti. Inoltre, il calo
demografico e il corrispondente progressivo invecchiamento della
popolazione hanno comportato un cospicuo decremento della domanda
globale e del tasso di occupazione. Sono nate così nuove categorie di
esclusi, i lavoratori poveri, ovvero coloro i quali nonostante lo
svolgimento di un’attività lavorativa restano comunque al di sotto della
soglia di povertà.
In merito ciascuno Stato ha agito diversamente, predisponendo e
attuando una serie di politiche volte a sincronizzare i meccanismi di
protezione con le modificazioni strutturali avvenute negli ultimi quaranta
anni, in modo tale da rispondere in maniera efficace alle mutate esigenze
promananti dal corpo sociale4.
In un simile contesto si inseriscono le politiche di sostegno al reddito
riconducibili alla figura del reddito minimo: sebbene declinato in modo
differente in base al modello di riferimento adottato5, esso ha
4 Cfr. Ponzini G., “Le ragioni del reddito minimo d’inserimento”, in P. Calza Bini, O. Nicolaus, S. Turcio (a cura di), “Reddito minimo d’inserimento. Che fare?”, Roma, Donzelli editore, 2003, pp.155 ss. 5 Si suole ricondurre le forme di reddito minimo a due grandi “famiglie”: quella universalistica, che prevede l’erogazione di una somma di denaro in maniera incondizionata indipendentemente dalle effettive condizioni di bisogno del destinatario, e quella “selettiva”, che, al contrario, si basa su un’erogazione calibrata sulle condizioni di bisogno dei soggetti che richiedono l’accesso alla misura (means testing) e sull’assolvimento di specifici obblighi imposti dall’amministrazione, pena il decadimento dal godimento del beneficio. Cfr. G. Busilacchi, “Redditi di base e misure selettive di attivazione: antitesi o convivenza?” in “Assistenza sociale” n. 3-4
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rappresentato indubbiamente un elemento fondamentale nel contrasto
alla povertà e all’esclusione, tanto che è stato introdotto in quasi tutti gli
Stati dell’Unione Europea.
Attualmente, nell’Europa a 15, gli unici Paesi che ancora non hanno
provveduto all’introduzione di una simile misura sono l’Italia e la
Grecia, palesando così l’assenza di politiche lungimiranti e attente alle
diverse necessità della compagine sociale.
Invero, in Italia, una forma di protezione del reddito, il reddito minimo
d’inserimento, fu introdotta in via sperimentale nel 1998 con il D. lgs. n.
237. Si è trattato indubbiamente di un elemento di assoluta novità nel
panorama delle politiche sociali italiane, in linea per giunta con le
strategie di lotta alla povertà degli altri paesi europei e della stessa
Unione europea. Il dibattito politico e sociale circa l’assoluta importanza
della tutela degli individui in condizione di marginalità aveva così
prodotto l’istituzione di una misura che non rappresentava un mero
sostegno al reddito, ma che, piuttosto, si inseriva in un quadro di
politiche attive volte al reinserimento del soggetto nel tessuto sociale.
Nonostante gli esiti certamente non negativi riportati al termine della
sperimentazione, il reddito minimo d’inserimento fu abbandonato sul
finire del 2003, vanificando il potenziale d’innovazione che aveva
animato il tentativo di riforma, e rendendo più che mai necessario un
ripensamento delle politiche sociali italiane. E’ auspicabile il
superamento dell’eccessiva categorialità e settorialità tipiche di un
radicato sistema corporativo e di una considerazione meramente
risarcitoria dello Stato sociale, anche attraverso l’analisi e lo studio di
(luglio-dicembre) 2002; G. Ponzino, “Le ragioni del reddito minimo d’inserimento”, in P. Calza Bini, O. Nicolaus, S. Turcio (a cura di), “Reddito minimo d’inserimento. Che fare?”, Roma, Donzelli editore, 2003.
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una forma di reddito minimo che possa contribuire alla fuoriuscita di
un’ampia fascia di popolazione dallo stato di indigenza e dalla
condizione di esclusione dalla vita attiva, essendo questi fattori
impedienti per l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali. Oggi
intraprendere un simile percorso di riforme appare oltremodo
improrogabile, considerando che in Italia il tasso di occupazione è
calato, rispetto all’aprile dell’anno scorso, di 0,9% attestandosi al 56,9%,
mentre il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è aumentato,
sempre rispetto allo stesso periodo di riferimento, del 4,5%6.
1 La via italiana verso il reddito minimo: dalla Commissione
Onofri al reddito minimo d’inserimento
Le strutturali modificazioni economiche e sociali degli ultimi quaranta
anni hanno dato vita a un intenso dibattito circa i possibili percorsi di
riforma dei sistemi di protezione sociale.
A livello europeo tale dibattito è stato avviato dalle raccomandazioni 441
e 442 del 1992, attraverso le quali l’Unione Europea preconizzava, in
un’ottica di reinserimento e di valorizzazione dell’individuo,
l’implementazione di forme di reddito minimo nei tessuti normativi dei
diversi Stati membri. In seguito, con il Vertice di Nizza del 2000, la
riforma dei sistemi di protezione sociale è entrata a far parte di un più
generale piano di politiche comunitarie volto a modernizzare il modello
6 Fonte ISTAT, comunicato stampa rilasciato il 01/06/2010 e consultabile al sito http://www.istat.it/.
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sociale europeo, investendo nelle persone e combattendo il fenomeno
dell’esclusione sociale.
Anche l’Italia, in conformità con gli altri Paesi dell’Eurozona, ha dovuto
seguire le indicazioni fornite dall’organo sovranazionale, avviando una
serie di riforme che contenessero l’implementazione di una forma di
protezione di base: il reddito minimo d’inserimento.
La prima tappa di questo percorso è stata segnata dall’istituzione nel
1997 della “Commissione per l’analisi delle compatibilità
macroeconomiche della spesa sociale”, anche nota come “Commissione
Onofri”, dal nome del suo presidente, l’economista Paolo Onofri, alla
quale era stato assegnato il compito di formulare una proposta organica
di riforma dello Stato sociale in virtù dei vincoli macroeconomici
imposti dall’Unione europea per accedere all’unione monetaria, e delle
irreversibili modificazioni strutturali in corso nell’economia mondiale7.
L’analisi della Commissione si incentrava, quindi, sulla concreta
realizzabilità di una sistematica riforma del sistema di protezione sociale
italiano che ne completasse la struttura in un’ottica non più meramente
risarcitoria, bensì di incentivo al lavoro. Occorreva ripensare l’intero
sistema ponendo alla sua base l’universalismo dei diritti in luogo della
settorialità e categorialità tipiche del sistema corporativo, e, allo stesso
tempo, tenere sempre in considerazione la scarsità di risorse economiche
disponibili.
Sulla scorta di tali riflessioni e analisi la Commissione avanzò la
proposta di introdurre una forma di minimo vitale che fosse
effettivamente sganciata dalla logica emergenziale delle politiche sociali
7 Cfr. P. Onofri, “La «commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomi-che della spesa sociale»”, in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la «commissione Onofri»”, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 43 ss.
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fino ad allora attuate, e che sancisse il passaggio da un sussidio di tipo
“caritativo” al riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo di
cittadinanza8.
La concezione di base che doveva sorreggere l’impianto del minimo
vitale così come delineato dalla Commissione Onofri era quella
riconducibile alla figura dell’«universalismo selettivo»9, che solo
apparentemente configurava un ossimoro. Invero, essa rappresentava un
compromesso che avrebbe garantito i vantaggi connessi sia alla
concezione universalistica, sia a quella selettiva: l’universalismo avrebbe
assicurato una tutela estesa alla generalità del corpo sociale ed esente dai
vuoti relativi a un assetto categoriale; la selettività, invece, limitando il
godimento delle prestazioni solo a coloro che ne avevano effettivamente
bisogno, attraverso la cosiddetta “prova dei mezzi”, avrebbe consentito il
contenimento dei costi in ottemperanza ai vincoli macroeconomici di
spesa.
Una simile misura, inoltre, avrebbe dovuto inserirsi nel quadro delle
politiche di incentivo al lavoro mediante l’attivazione del destinatario,
essendo prevista in aggiunta all’erogazione della somma di denaro la
partecipazione obbligatoria del soggetto a specifici programmi di
reinserimento10, quali lo svolgimento di un’attività lavorativa o il
perfezionamento dei curricula scolastici o professionali, affinché potesse
uscire il prima possibile dal circuito assistenziale.
Per rendere effettivo e funzionante uno strumento simile era però
strettamente necessario introdurre anche un sistema di calcolo delle
8 Quelli che Rosanvallon chiama “diritti all’integrazione” e “diritti all’inserimento sociale”. Cfr. P. Rosanvallon, “Il diritto all’inserimento sociale”, in “Assistenza sociale” n. 1 (gennaio-marzo) 1998 9 “Relazione finale”, Documento di base n. 3, p. 88. 10 Cfr. “Relazione finale”, Documento di base n. 3 Allegato I, p. 116.
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disponibilità economiche dei soggetti richiedenti, che fosse tarato in base
alle peculiarità della istituenda misura, poiché i meccanismi di calcolo
precedentemente in uso consideravano come unico metro di valutazione
il solo reddito monetario, e gli eventuali difetti nella misurazione
venivano compensati da aprioristiche scelte categoriali11 (ad esempio
differenziando ex ante il trattamento dei lavoratori autonomi rispetto a
quello dei lavoratori dipendenti). Tale nuovo strumento di calcolo fu
individuato dalla Commissione nell’ISEE – l’indicatore della situazione
economica equivalente – il quale prevedeva tra le componenti
economiche di riferimento non solo il reddito monetario ma anche il
patrimonio, mobiliare o immobiliare; le ragioni di questa scelta erano
presumibilmente legate all’elevato tasso di economia sommersa presente
in Italia, che rendeva molto difficile una valutazione verosimile sulla
scorta dei soli dati relativi al reddito monetario12.
Le indicazioni fornite dalla Commissione Onofri furono recepite dal
Governo Prodi il quale, già a pochi mesi di distanza dalla chiusura dei
lavori, nella legge finanziaria per il 1998 (l. n. 449/1997) aveva previsto
l’introduzione in via sperimentale del reddito minimo d’inserimento13,
previsione poi concretamente trasposta nella realtà con il D. lgs. n.
237/1998. Si trattava di uno strumento destinato a tutti quei soggetti a
rischio di marginalità ed esclusione sociale che non potevano provvedere
a loro stessi o ai loro familiari. Il legislatore delegato aveva previsto che
tale misura seguisse un iter di sperimentazione di due anni prima della
sua definitiva messa a regime, per verificarne l’efficacia in relazione al
11 Si rinvia al saggio di R. Tangorra, “L’Isee: una riforma incompiuta”, in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 137 ss. 12 Cfr. R. Tangorra, op. cit., p. 143. 13 L. n. 449/1997 art. 59 co. 47-48.
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superamento delle condizioni di bisogno nelle quali essa avrebbe
operato, e, inoltre, per valutare la funzionalità dell’ISEE nel selezionare
correttamente i beneficiari.
La titolarità della sperimentazione era dei Comuni, in quanto ritenuti i
livelli istituzionali più direttamente vicini ai cittadini, e quindi
maggiormente agevolati nella organizzazione del funzionamento del
RMI.
Le peculiarità dell’istituto in esame risiedevano innanzitutto nel
coinvolgimento di un’ampia platea di beneficiari: seguendo il principio
dell’«universalismo selettivo» designato dalla Commissione Onofri, il
reddito minimo d’inserimento era destinato a tutti, indipendentemente
dalle appartenenze categoriali o da altri fattori che non riguardassero la
sola ed esclusiva condizione di bisogno del richiedente.
Si prevedeva, perciò, l’erogazione di una somma di denaro per tutti i
cittadini italiani o extracomunitari residenti nel territorio dello Stato da
almeno un anno (tre anni per gli extracomunitari), che percepivano un
reddito inferiore alla soglia di povertà14, e che, allo stesso tempo, non
disponevano di patrimonio mobiliare o immobiliare, fatta eccezione per
l’immobile destinato a uso abitativo.
L’ammontare di tale erogazione non era stabilito in somma fissa ma
come la differenza tra la soglia di povertà predeterminata dal legislatore
e la somma dei redditi riferiti al nucleo familiare composto dal
destinatario, dalle persone con lui conviventi e da quelle risultanti a suo
carico. Inoltre, per evitare che una simile erogazione si trasformasse in
un indebito incentivo al non-lavoro, il legislatore aveva previsto
l’applicazione di una franchigia del 25% sui redditi da lavoro: si
volevano così evitare i presumibili comportamenti opportunistici dei 14 Tale soglia era stata fissata per il 1998 in 500.000 Lire mensili.
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destinatari, i quali avrebbero potuto decidere consapevolmente di
rimanere al di sotto della soglia di povertà, ovvero, nella peggiore delle
ipotesi, avrebbero potuto prestare irregolare attività lavorativa
coniugando il reddito da lavoro “nero” con il reddito assistenziale.
La natura “bidimensionale” della misura in esame si traduceva nella
richiesta ai beneficiari in età lavorativa, non occupati e abili al lavoro,
della disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale o a
essere occupati.
In tal modo la volontà del legislatore si proiettava ben al di là della
singola concessione di denaro, arrivando invece a teorizzare l’effettivo
reinserimento dei beneficiari disoccupati o inoccupati: ciò poneva la
politica del reddito minimo d’inserimento in un generale quadro di
ripensamento del modello economicistico di cittadinanza, a favore
invece di un modello informato all’inclusione sociale in quanto
necessaria pre-condizione all’inserimento lavorativo.
L’organizzazione degli interventi di integrazione previsti dalla normativa
era stata affidata interamente ai Comuni, i quali dovevano redigere degli
specifici piani personalizzati di concerto con i soggetti richiedenti, in
base anche alle caratteristiche familiari e personali di questi ultimi.
Il rispetto dei doveri imposti dalla legge era una condizione necessaria
per il godimento del beneficio, dal momento che una loro eventuale
violazione avrebbe comportato la riduzione o, nei casi più gravi, la
sospensione del beneficio concesso.
Per quanto riguarda il finanziamento, il decreto istitutivo aveva previsto
che esso fosse ripartito tra lo Stato e i Comuni interessati; nella
fattispecie la componente relativa ai trasferimenti monetari doveva
10
essere per il 90% a carico del Fondo nazionale per le politiche sociali15 e
per il restante 10% a carico dei Comuni interessati dalla
sperimentazione.
In questo modo il legislatore intendeva assicurare un’uniformità di
trattamento su tutto il territorio nazionale, al fine di evitare le inevitabili
sperequazioni16 dovute alla diversa disponibilità di risorse economiche e
al diverso costo della vita, entrambi fattori estremamente variabili dal
Nord al Sud del Paese.
In definitiva, quindi, l’introduzione del RMI ha rappresentato un
elemento innovativo nel panorama delle politiche sociali italiane, troppo
spesso finalizzate alla risoluzione di problematiche contingenti e non
orientate invece alla sistematica e strutturale riforma dell’intero impianto
di protezione sociale.
15 L. n. 449/1997 art. 59 comma 44. 16 Peraltro, tali sperequazioni avevano dato luogo, soprattutto in materia assistenziale, a quello che la Commissione Onofri chiamava “federalismo senza principi”, ovvero un sistema viziato dall’assenza di una normativa quadro dello Stato che stabilisca gli standard minimi che Regioni ed Enti locali devono applicare, pure nella varietà delle diverse normative locali.
11
2 I risultati della sperimentazione del reddito minimo
d’inserimento
L’esperienza italiana della sperimentazione del RMI ha avuto una durata
limitata, essa ha dispiegato i suo effetti fino alla fine del 2000 (prima
fase) e, successivamente, la legge n. 388/200017 (legge finanziaria per il
2001) ne ha prorogato i termini per altri due anni, estendendone il campo
d’applicazione dai 39 Comuni iniziali ad altri 268 (seconda fase)18.
Nel frattempo la misura è stata confermata in via legislativa anche dalla
legge n. 328/200019 che, nel riformare il comparto assistenziale italiano,
ha disposto la sua generalizzazione e la sua definitiva implementazione
nel tessuto normativo, sancendone peraltro il carattere di livello
essenziale fra le prestazioni da assicurare sull’intero territorio nazionale.
L’attività di valutazione della sperimentazione è stata commissionata dal
Dipartimento per gli affari sociali a un’associazione temporanea di
impresa costituita da tre istituti di ricerca privati, l’Irs, il Cles e la
fondazione Zancan, ai quali era stato affidato il compito di redigere un
“Rapporto ministeriale di valutazione” sul reddito minimo
d’inserimento al termine del primo biennio di sperimentazione.
Inspiegabilmente però tale rapporto non è mai stato pubblicato né
tantomeno è mai stato presentato davanti al Parlamento, così come
invece prevedeva il decreto istitutivo della misura; ma ancor più
inspiegabile risulta essere l’assoluta mancanza di comunicazione del
17 Cfr. art. 80 l. n. 388/2000. 18 La sperimentazione è stata concretamente attuata con il decreto ministeriale del Dipartimento per gli affari sociali del 5 agosto del 1998, che ha individuato i Comuni partecipanti sulla base di indicatori di disagio forniti dall’Istat. 19 Cfr. art. 23 comma 1 l. n. 328/2000.
12
rapporto agli stessi soggetti coinvolti dalla sperimentazione: i 39
Comuni interessati dalla prima fase infatti non sono stati messi a
conoscenza dei risultati, e di conseguenza non hanno potuto analizzare
gli errori e le distorsioni applicative riscontrate. Per quanto riguarda la
seconda fase il Governo non ha previsto alcuna attività di monitoraggio,
rendendone sostanzialmente “autarchica”20 la gestione.
Questo stato di cose ha costituito un grave vulnus per la successiva
messa a regime della misura, dal momento che un simile corto circuito
comunicativo ha reso de facto inutile l’attività di sperimentazione.
Attualmente, l’unica versione a stampa del “Rapporto ministeriale di
valutazione” è costituita da una stesura sintetica contenuta nel
“Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale” del
2001 pubblicato a cura della Commissione di indagine sull’esclusione
sociale (CIES).
Il primo biennio ha coinvolto 39 Comuni, 24 dei quali localizzati nel
Mezzogiorno, 10 nel Centro Italia e 5 nel Nord Italia: questa
collocazione rifletteva esattamente la distribuzione della povertà in Italia
che, infatti, si concentrava principalmente nel Sud e nelle isole.
Le domande di accesso alla misura presentate nel primo biennio sono
state 55.522, e di queste ne sono state accolte 34.730, ovvero il 62,5%
del totale. Il dato più interessante però è quello relativo al tasso medio di
incidenza delle domande accolte sul totale delle famiglie residenti: a
livello nazionale esso è del 4,2%, ma se lo si analizza relativamente alle
diverse macro-aree del Paese si possono evincere alcune differenze
significative. Infatti, mentre nei Comuni del Centro-Nord esso si
20 Cfr. “I rapporti di AS”, “Il reddito minimo d’inserimento in Italia: la sperimentazione continua di una misura difficile”, in “Assistenza sociale”, 2002, p. 204.
13
aggirava attorno all’1-2%, nei Comuni del Sud e delle isole esso era
destinato a salire, attestandosi al 3-5%.
Ciò metteva in luce uno dei primi problemi connessi all’erogazione del
RMI, ovvero la carenza di controlli e l’inadeguatezza delle
amministrazioni coinvolte nel gestire in maniera corretta l’applicazione
della misura, presumibilmente a causa dell’assenza di una cultura delle
erogazioni means tested e delle sacche di clientelismo e assistenzialismo
radicate soprattutto nel Mezzogiorno.
Per quanto riguarda i programmi di reinserimento previsti dalla
normativa, il dato indicava un’accentuata diffusione dei progetti di
integrazione socio-relazionale e delle attività di cura e sostegno intra-
familiare; meno diffusi, invece, i programmi di reinserimento
specificamente lavorativi, che si fermavano al 14,9%.
Ciò manifestava la natura intrinseca del RMI, che non era stato
programmato come una politica del lavoro, e di certo non poteva
diventare tale nelle more della sua applicazione. L’oggetto
dell’intervento del legislatore non era la disoccupazione tout court, bensì
il rischio soggettivo e familiare di precipitare, anche a causa della
scarsità di risorse monetarie dovuta alla mancanza di un’occupazione, in
una condizione di marginalità sociale21.
In generale gli esiti della sperimentazione sono stati tendenzialmente
positivi, in ragione del fatto che alla fine del biennio considerato le
dimissioni dalla misura segnalavano una quota di uscite che sfiorava il
dieci per cento del totale dei casi complessivamente presi in carico.
21 Così come peraltro si affermava nel “Rapporto ministeriale di valutazione” p. 48, nel quale si sosteneva che “(...) il RMI non è una politica del lavoro e non può sostituirsi a una politica del lavoro”.
14
Un altro fattore sicuramente positivo era quello relativo al
completamento della formazione scolastica e professionale, condicio
sine qua non per un effettivo reinserimento nel circuito della vita attiva:
la partecipazione alla misura aveva consentito a 2.344 persone di
conseguire il diploma di licenza elementare/media, e a 3.588 di
conseguire un attestato di formazione professionale spendibile sul
mercato del lavoro; inoltre, grazie al percepimento della misura, circa
800 famiglie erano rientrate dalle morosità dovute al mancato o ritardato
pagamento del canone di locazione o di utenze, e, in molte grandi città
del Mezzogiorno, la sua erogazione aveva contribuito a generare un
sensibile calo del tasso di micro-criminalità.
I fattori critici rilevati dall’analisi della sperimentazione vertevano
principalmente sui costi e sulle modalità di finanziamento della stessa.
Per quanto riguarda i costi essi ammontavano per i primi due anni a 430
miliardi di Lire. L’analisi ha però messo in luce un’anomalia circa la
ripartizione interna di tale somma: oltre il 90 per cento, infatti, è stato
destinato all’integrazione monetaria dei redditi dei beneficiari del Sud e
delle isole, mentre solo il restante 10 per cento è stato distribuito nei
Comuni del Centro-Nord. Inoltre, in deroga al dettato legislativo del
decreto istitutivo, che stabiliva, all’articolo 5, la ripartizione del
finanziamento del RMI per il 90% a carico del Fondo nazionale per le
politiche sociali, e per il 10% a carico dei Comuni sperimentatori, più del
97% delle risorse erogate è gravato esclusivamente sul Fondo nazionale
per le politiche sociali, mentre le singole amministrazioni comunali
hanno finanziato la misura per il restante 3%. Per di più sono stati ben 14
i Comuni che non hanno minimamente contributo al finanziamento e, al
contrario, solo 5 quelli che hanno rispettato il tetto fissato dal legislatore.
15
Gli istituti valutatori hanno messo in luce le diverse problematiche
relative alla sperimentazione, individuandole principalmente nella
pregressa condizione di arretratezza delle politiche sociali italiane, e in
alcune lacune del dettato legislativo: in primo luogo avrebbero dovuto
essere definiti puntualmente i ruoli di tutti i soggetti che avrebbero
concorso all’erogazione del beneficio, e individuare i livelli istituzionali
di volta in volta più rispondenti alle esigenze dei beneficiari. A tal
proposito era necessario predisporre delle reti di collaborazione con i
soggetti non istituzionali (soprattutto del “terzo settore”), per evitare i
cortocircuiti comunicativi tra le amministrazioni centrali e le diramazioni
periferiche. In secondo luogo era necessario ridefinire i criteri di accesso
alla misura, per contenere e rendere omogenei i margini di
discrezionalità a livello locale: occorreva ridurre il periodo di residenza
indispensabile per l’accesso al beneficio e accordare la prevalenza al
criterio del domicilio rispetto a quello della residenza anagrafica, poiché
era emerso che tale criterio si era rivelato penalizzante per alcune
categorie di soggetti (soprattutto i senza fissa dimora). Per quanto
riguarda il calcolo del reddito, ai fini dell’accesso alla misura, si riteneva
necessario aggiungere al già previsto abbattimento del 25% dei redditi da
lavoro ulteriori detrazioni relative a canoni di locazioni, mutui e altre
spese.
Anche i criteri patrimoniali erano stati ritenuti eccessivamente restrittivi,
tanto che si proponeva di modificarli nel senso di non escludere dal
godimento del beneficio i richiedenti titolari di un patrimonio mobiliare
di modesta entità ovvero proprietari di terreni di modesto valore
commerciale.
La sperimentazione aveva altresì posto l’attenzione sull’importanza di un
efficace sistema di controllo e verifica: troppo spesso l’assenza di una
16
fitta rete di controlli incrociati aveva incentivato un uso clientelare e
opportunistico del RMI. Molti Comuni, peraltro, avevano lamentato la
carenza di collaborazione interistituzionale e la mancanza di un’adeguata
organizzazione che facilitasse le attività di controllo.
Paradigmatico in tal senso il caso del Comune siciliano di Barrafranca,
dove, per ogni visura catastale richiesta e finalizzata al controllo di
attività fraudolente, l’amministrazione comunale si vedeva addebitare
dall’ufficio del Catasto 10.000 Lire!
In definitiva, nonostante le distorsioni testè accennate, la
sperimentazione del RMI aveva fornito delle indicazioni molto
interessanti in vista di una sua generalizzazione: occorreva solo
apportare delle correzioni per rendere lo strumento concretamente
efficace.
Tali interventi correttivi, contenuti nel “Rapporto di valutazione”, non
sono però mai stati effettuati, dato che il legislatore ha, de facto,
abbandonato ogni progetto di inserimento definitivo della misura.
17
3 La transizione dal reddito minimo d’inserimento al reddito di
ultima istanza
L’abbandono del RMI è coinciso con le elezioni politiche del 2001, dalle
quali è emersa una nuova maggioranza di Governo, “(...) con differenti
paradigmi valoriali e politici (...) che hanno comportato “(...) una lettura
critica del Rmi e la sua radicale messa in discussione”22.
Il Governo, appena insediatosi, ha completamente ignorato i risultati
della sperimentazione contenuti nel “Rapporto ministeriale di
valutazione”, sostenendo che i problemi riscontrati durante la prima fase
erano direttamente ascrivibili alle caratteristiche stesse dello strumento.
Questa inversione di tendenza si è manifestata chiaramente già nel
“Patto per l’Italia” del 5 luglio del 2002, nel quale si sottolineava il
sostanziale fallimento della politica del RMI, in quanto essa aveva “(...)
consentito di verificare l’impraticabilità di individuare attraverso la
legge dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di
sicurezza sociale”23.
A distanza di pochi mesi, nel febbraio del 2003, l’orientamento del
Governo fu precisato nel “Libro bianco per il welfare. Proposte per una
società dinamica e solidale”, elaborato dal Ministero del lavoro e delle
politiche sociali, nel quale, oltre a ribadire appunto il fallimento del
RMI, se ne preconizzava la sostituzione con un altro strumento,
denominato reddito di ultima istanza (RUI).
22 E. Ranci Ortigosa, “Il reddito minimo d’inserimento” in L. Guerzoni (a cura di) “La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 445. 23 “Patto per l’Italia”, par. 2.7.
18
Secondo le indicazioni del Governo, tale misura avrebbe dovuto avere le
caratteristiche di una politica a sostegno del reddito caratterizzata da
elementi solidaristici e finanziata dalle singole Regioni con l’apporto del
contributo statale.
Dalle anodine espressioni contenute nel “Libro bianco”, peraltro,
appariva palese l’intento del legislatore di scindere l’applicazione del
RUI dall’obiettivo di reinserimento occupazionale, dal momento che un
simile obiettivo sarebbe stato perseguito attraverso lo sviluppo
economico, il quale, stimolando i consumi e la crescita, avrebbe dovuto
innescare un circolo virtuoso e contribuire all’attenuazione del fenomeno
dell’esclusione sociale24.
La vera e propria formalizzazione giuridica del RUI fu effettuata, però,
solo nel dicembre del 2003 con la legge n. 350 (legge finanziaria per il
2004), nella quale esso veniva previsto come “misura di
accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale”25.
Con questa specifica previsione il legislatore aveva ricomposto il nesso
tra l’erogazione della misura e la funzione di reinserimento sociale, che
invece era stata inizialmente esclusa sia dal “Patto per l’Italia”, sia dal
“Libro bianco”. Ciononostante rimaneva ferma l’intrinseca natura
residuale dell’istituto, così come peraltro testimoniato dalla sua stessa
denominazione di Reddito di ultima istanza.
Dal punto di vista tecnico la misura in esame consisteva nel co-
finanziamento da parte dello Stato, nei limiti preordinati a tale scopo dal
Fondo nazionale per le politiche sociali, delle Regioni che decidevano di
istituire il RUI all’interno del loro ordinamento. Si trattava di
24 Per un’analisi critica si rinvia a F. Pizzolato, “Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi”, Milano, Giuffrè editore, 2004, pp. 141 ss. 25 Cfr. art. 3 commi 101-103 l. n. 350/2003.
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un’erogazione che, a differenza del RMI, aveva perso il suo carattere di
misura generale di contrasto alla povertà secondo la concezione
dell’«universalismo selettivo», per assumere invece le caratteristiche di
“una sorta di sussidio di povertà per le famiglie povere e non protette da
ammortizzatori”26.
I problemi di applicabilità di una misura siffatta non hanno tardato a
manifestarsi, soprattutto in relazione alla sua mancata definizione come
livello essenziale delle prestazioni: una simile mancanza contraddiceva
in primo luogo il dettato della legge n. 328/2000, che aveva definito
come tale il suo predecessore (il RMI), e in secondo luogo la nuova
ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, così come venutasi a
delineare dopo la l. Cost. n. 3/2001 di riforma del titolo V della
Costituzione, che aveva attribuito la competenza in materia assistenziale
alle Regioni e aveva circoscritto la potestà legislativa statale alla
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale”27.
Alla luce della riforma costituzionale, quindi, l’iniziativa di attuare
politiche assistenziali era stata attribuita alla competenza delle Regioni,
le quali però dovevano rispettare i livelli minimi fissati a livello
nazionale; la mancata definizione del RUI tra i livelli minimi, però,
aveva fatto sì che, in assenza di un coordinamento statale, l’iniziativa di
porre in essere misure di ultima istanza fosse sostanzialmente rimessa
alla discrezionalità delle Regioni e alla loro disponibilità interna di
bilancio. Ciononostante la legge n. 350/2003 rinviava per una più
26 Cfr. C. Lagalà – M. D’Onghia, “La sicurezza sociale nel terzo anno di legislatura”, in “Riv. dir. sic. Soc.”, n. 2/2004, p. 749. 27 Cfr. art. 117 lett. m Cost.
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puntuale definizione della disciplina applicativa del RUI a una normativa
statale secondaria28. Delle due l’una quindi: o il RUI era stato previsto
come un livello essenziale “implicito”, e allora occorreva comunque
definirne meglio i contenuti; oppure, se il RUI non era un livello
essenziale delle prestazioni, l’intervento dello Stato costitutiva
un’indebita compressione dei poteri legislativi delle Regioni, e una
violazione del riparto costituzionale di competenze.
Questa ambiguità legislativa è stata successivamente posta all’attenzione
della Consulta che, nella sentenza n. 423/200429, ha negato al Reddito di
ultima istanza la natura di “livello essenziale” delle prestazioni, e ha
dichiarato incostituzionale per violazione del riparto di competenze ex
art. 117 Cost. la relativa legislazione statale. Il giudice delle leggi ha
ritenuto di escludere che l’oggetto della disciplina in esame attenesse
“(...) alla potestà legislativa esclusiva statale di «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»”,
dal momento che il legislatore non aveva posto in essere le necessarie
norme per assicurare un trattamento uniforme su tutto il territorio
nazionale.
Così, a partire dal 2005, nonostante l’intensa stagione di riforme
avviatasi con l’istituzione della Commissione Onofri nel 1998, l’Italia
non disponeva più di una misura universale e generalizzata di contrasto
alla povertà e all’esclusione sociale.
Nel quadro venutosi a delineare, in virtù del nuovo riparto di competenze
tra Stato e Regioni, e nell’attesa della fissazione dei livelli essenziali 28 Si rinviava per la specificazione delle concrete modalità di applicazione della misura a uno o più decreti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze. 29 In “Le Regioni” n. 4 (luglio-agosto) 2005, pp. 642-648 commentata da E. Vivaldi, “Il fondo nazionale per le politiche sociali alla prova della Corte Costituzionale”, pp. 649-663.
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delle prestazioni da parte del legislatore, sono state proprio le singole
Regioni a introdurre nei loro ordinamenti strumenti universali di
contrasto alla povertà, perpetuando la prassi di una tutela assistenziale
fortemente differenziata all’interno del territorio nazionale.
4 Possibili percorsi di riforma del welfare state italiano: la
fiscalizzazione degli oneri sociali e la proposta del salario sociale
Alla luce delle vicissitudini del reddito minimo d’inserimento appare
ancora più evidente la necessità di avviare una compiuta riforma del
sistema di protezione sociale italiano.
Esso infatti non è più in grado di soddisfare le esigenze di una massa
sempre più cospicua di soggetti ben al di sotto di condizioni di vita
accettabili; inoltre, l’internazionalizzazione dei mercati, consentendo il
trasferimento della produzione in Paesi dove il costo del lavoro è più
basso, ha inciso ancora più negativamente sul fenomeno della
disoccupazione e, di conseguenza, dell’esclusione sociale.
È perciò necessaria una “rivoluzione copernicana” del modello sociale
italiano, che prenda le mosse proprio dalle sue modalità di
finanziamento: la vigente configurazione, informata a una logica
contributiva secondo cui l’alea economica connessa al rischio del
verificarsi di una condizione di bisogno viene eliminata grazie
all’apporto dell’assicurato, è diventata anacronistica e insostenibile dal
punto di vista finanziario. Ciò è dovuto principalmente ai problemi
relativi al calo demografico e all’invecchiamento della popolazione nella
società post-industriale. L’Italia rischia addirittura di diventare il primo
22
Paese in cui si potrebbe verificare il sorpasso degli ultra
sessantacinquenni rispetto alla fascia d’età compresa tra i venti e i
sessanta anni: fonti ufficiali affermano che, attualmente, gli over 65 sono
il 20% della popolazione, e che negli ultimi venti anni l’indice di
vecchiaia ha subìto un incremento del 50,3%30.
Tutto ciò è andato a gravare sul già fragile sistema pensionistico, poiché
esso era nato per accompagnare la persona nell’ultimo tratto di vita,
mentre oggi, in molti casi, il periodo attivo e lavorativo è inferiore
rispetto a quello trascorso in pensione.
Tramonta perciò la ormai vetusta “cronologizzazione” delle fasi di vita,
non essendo più riconducibile nel rigido schema studio – lavoro –
pensione.
Appare evidente, quindi, come in un simile contesto il finanziamento
contributivo basato sulla solidarietà intergenerazionale sia destinato a
fallire e a cedere il passo a un modello nuovo, basato invece sul
superamento dell’impostazione mutualistica e sull’affermazione del
principio di solidarietà generale. Tale modello di finanziamento
determinerebbe il coinvolgimento dell’intera collettività nel garantire un
efficace funzionamento dello Stato sociale, dal momento che valorizzare
l’aspetto solidaristico della società renderebbe possibile l’effettivo
godimento dei diritti di cittadinanza e la piena realizzazione del principio
di uguaglianza sostanziale, così come sancito dall’articolo 3 secondo
comma della Costituzione.
La fiscalizzazione degli oneri sociali assume un rilievo significativo
proprio perché permetterebbe il raggiungimento di questo obiettivo
30 “Rapporto Nazionale 2009 sulle Condizioni ed il Pensiero degli Anziani: una società diversa” presentato alla Camera dei deputati l’11 novembre del 2009, consultabile su http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/rapporto_anziani/.
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mediante il loro trasferimento da determinate categorie di soggetti
all’intera collettività, attraverso l’utilizzazione del prelievo fiscale
attuato mediante le imposte.
Le finalità perseguite da una siffatta forma di finanziamento sono
individuabili in primo luogo, da un punto di vista esclusivamente sociale,
nella ripartizione più equa dei sacrifici finanziari derivanti dal
funzionamento del sistema previdenziale, e in secondo luogo, sotto un
profilo meramente economico, nella riduzione dei costi di produzione.
Ciò avrebbe degli effetti benefici per l’intero mercato del lavoro, dato
che la diminuzione dei costi di produzione, e quindi anche del costo del
lavoro che ne rappresenta una parte considerevole, comporterebbe un
aumento della competitività delle aziende nel mercato globale e
internazionalizzato31; inoltre la fiscalizzazione avrebbe anche una
notevole influenza positiva sugli equilibri economici, comportando un
aumento del potere d’acquisto dei lavoratori e, conseguentemente, un
aumento della domanda aggregata del mercato.
Paradossalmente, la fiscalizzazione degli oneri sociali sebbene non sia
stata formalizzata legalmente di fatto è già operante: basti pensare che
attualmente lo Stato ripiana i bilanci dell’Inps, contribuendo alla
formazione di un sistema ibrido, finanziato per due terzi dal prelievo
contributivo e per un terzo dal prelievo fiscale, tanto che nel 2008 il
passivo della gestione dell’Inps “coperto” mediante i trasferimenti da
parte dello Stato ammontava a circa 71 miliardi di Euro32.
Nel quadro di questa globale riforma del welfare state è opportuno un
riferimento al profilo della retribuzione del lavoratore, in quanto 31 Si rinvia per un’analisi dettagliata al saggio di A. Coppini, “La fiscalizzazione degli oneri sociali”, in Dir. Lav., 1965, I, pp. 27 ss. 32 Cfr. “Nucleo di valutazione della spesa previdenziale. Gli andamenti finanziari del sistema pensionistico obbligatorio”, consultabile al sito www.inps.it.
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componente principale del costo del lavoro. Essa costituisce la prima
forma di previdenza: una retribuzione sufficiente ha rappresentato da
sempre la prima e imprescindibile garanzia per il lavoratore33.
In tal senso si richiede una reinterpretazione dei principi costituzionali
che fondano il sistema di protezione sociale italiano, partendo
dall’articolo 36.
La norma in esame, che stabilisce il diritto del lavoratore di percepire
“una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e
in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”, ha fornito lo spunto per una continua
elaborazione del concetto di retribuzione, da considerarsi come elemento
del rapporto di lavoro distinto dal normale rapporto di scambio34;
secondo il dettato costituzionale, i due criteri centrali posti alla base della
determinazione del compenso dei lavoratori sono da un lato la
sufficienza, che assolve la funzione di minimo vitale, ossia di soddisfare
le necessità personali e familiari, e dall’altro lato la proporzionalità, che
invece valorizza le diverse componenti intrinseche dell’attività svolta.
Attualmente, in virtù dei fenomeni descritti in precedenza, anche la
retribuzione equa esclusivamente a carico del datore di lavoro è divenuta
economicamente insostenibile, rendendo perciò necessario un nuovo
approccio ermeneutico all’articolo 36 Cost., che ne contestualizzi il
disposto all’odierna realtà: mediante la fiscalizzazione degli oneri
sociali, la sicurezza sociale potrebbe garantire la retribuzione sufficiente,
33 Cfr. G. Perone, “Tutela della retribuzione del reddito nel diritto del lavoro e nei diritti della previdenza sociale”, in Dir. Lav., 1985, I, pp. 121 ss. 34 A questo proposito un contributo lucido e dettagliato si deve a T. Treu in G. Branca (a cura di), “Commentario alla Costituzione. Rapporti economici”, Bologna, Nicola Zanichelli editore, 1979, pp. 72 ss.
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mentre spetterebbe al datore di lavoro assicurare il criterio della
proporzionalità in base alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Ciò partendo dalla considerazione che nel tipico rapporto sinallagmatico
di lavoro non dovrebbero gravare sul datore le condizioni di vita del
lavoratore e della sua famiglia: il requisito della sufficienza dovrebbe
trovare nel contratto di lavoro solo il suo presupposto.
Un’interpretazione siffatta si fonda sul presupposto che il diritto alla
retribuzione sufficiente rientra nell’alveo dei diritti della persona e, in
quanto tale deve essere lo Stato ad assolvere il compito di rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno
raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini35; né
d'altronde potrebbe essere diversamente, stante la natura stessa del
requisito della sufficienza che crea in capo al prestatore di lavoro dei
diritti difficilmente compatibili con una logica di scambio.
Inoltre un simile contesto esegetico non sembra essere nemmeno in
contrasto con il dettato letterale della disposizione: essa infatti si limita
ad affermare il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione equa e
sufficiente, ma non ne indica le modalità di attuazione.
Secondo la soluzione prospettata quindi la fiscalizzazione degli oneri
sociali sarebbe il naturale prius rispetto alla proposta del salario sociale
derivante dalla rilettura dell’articolo 36 della Costituzione.
Naturalmente imboccare un simile percorso di riforme non sarà affatto
facile in un Paese come l’Italia, caratterizzato da un elevato livello di
economia sommersa, e in cui spesso gli interessi corporativi hanno la
meglio rispetto al bene collettivo. Ma d’altro canto persistere 35 In tal senso cfr. G. Pera, “La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice”, in Mass. Giur. Lav., 1961, p. 417; S. Hernandez, “Nuove forme di retribuzione e attualità dei principi costituzionali”, Quaderni di argomenti di diritti del lavoro, 1998, p. 14.
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nell’attribuire al datore di lavoro competenze che non gli spettano
genererebbe degli effetti nefasti, sia per quanto riguarda il sistema
economico, sia per quanto riguarda in generale la tenuta della rete di
protezione sociale. L’elevato costo del lavoro ha comportato
l’intensificarsi del fenomeno della delocalizzazione, che a sua volta ha
causato la caduta in uno stato d’indigenza di un numero sempre
maggiore di individui, i quali peraltro, non rientrando tra le categorie dei
“meritevoli” di tutela secondo il sistema di protezione sociale così come
modellato dai Padri costituenti, rimangono ai margini della società. Allo
stesso tempo, però, non è certamente immaginabile che la risoluzione di
questo problema sia approntata mediante l’abbassamento del salario
medio dei lavoratori.
Si tratterebbe, in ultima analisi, non di un complessivo superamento del
welfare fondato sul lavoro, ma piuttosto di una sua “rilettura” critica che
lo renda rispondente alle nuove dinamiche sociali ed economiche, in
quanto esse rappresentano il risultato di processi non più reversibili.
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