INDICE INTRODUZIONE 3

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Diritto Naturale e Diritto Positivo nell’Antigone di Sofocle Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione Corso di laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali Cattedra di Storia delle Dottrine Politiche Candidato Chiara Mastrodicasa n° matricola 1086928 Relatore Maria Cristina Laurenti A/A 2011/2012

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Diritto Naturale e Diritto Positivo nell’Antigone di Sofocle Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione Corso di laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali Cattedra di Storia delle Dottrine Politiche Candidato Chiara Mastrodicasa n° matricola 1086928 Relatore Maria Cristina Laurenti A/A 2011/2012

!!!!

A mia madre,

alla Donna più importante della mia vita,

Domy Pustizzi

Con la speranza che in qualunque posto adesso ti trovi

Tu possa essere fiera di me

E che questo momento ti possa ripagare almeno un pò

Per tutti i sacrifici che hai dovuto fare.

Ti voglio bene !

1

INDICE

INTRODUZIONE 3

CAPITOLO 1

ALLE ORIGINI DELLA QUESTIONE: I DUE VOLTI DEL DIRITTO 5

1.1 Il Giusnaturalismo: aspetti teorici principali 5

1.1.1 Il Giusnaturalismo nell'antichità 7

1.1.2 I Presocratici 7

1.1.3 I Sofisti 9

1.2 Il diritto naturale, definizione e funzione 12

1.3 Il diritto positivo 14

1.4 Il Positivismo giuridico 15

1.5 Origine della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo 17

1.6 Il Giusnaturalismo e Positivismo giuridico nei loro reciproci rapporti 19

CAPITOLO 2

IL MITO DI ANTIGONE TRA LEGGE ETICA E LEGGE DELLO STATO 22

2.1 Antigone di Sofocle 22

2.1.1 Sofocle, accenni sulla personalità 24

2.1.2 Perché Antigone 25

2

2.2 Il nomos di Antigone 29

2.3 Creonte e le sue ragioni 30

2.4 Problematica del contrasto 34

CAPITOLO 3

LA POLIS ED I SUOI CITTADINI 38

3.1 Etica e legalità 38

3.2 Il pensiero politico greco 40

3.3 Riferimenti al mondo antico 42

3.3.1 La polis 43

3.3.2 La libertà della polis 46

3.3.3 La cittadinanza 48

3.3.4 Religione, uguaglianza e forza 52

CAPITOLO 4 54

ANTIGONE PER PARLARE DEL PRESENTE 54

4.1 Proposta di attualizzazione 54

4.2 Oggi, la legge 56

4.3 La penultima risposta 57

4.4 Attualità del diritto naturale 58

ABSTRACT 60

BIBLIOGRAFIA 62

3

INTRODUZIONE

Quando ho deciso di partire per questo viaggio attraverso il mito di Antigone, ancora

non sapevo dove mi avrebbe condotta il percorso. E’ stata una scelta dettata, per lo

più, dalla voglia di scoprire la civiltà dell’antica Grecia, epoca molto cara al Prof. re

Gian Franco Lami, il quale è stato mia fonte di ispirazione, per la sua grande

personalità ed umanità.

L’argomento scelto è, ovviamente, molto vasto e suscettibile di poter essere

“indagato” da molteplici punti di vista nelle diverse epoche storiche; Pertanto ho

dovuto limitare il campo della mia ricerca solo ad alcuni aspetti, mantenendo come

riferimento storico il V sec. a. C.

Così sono partita per questo cammino, e ciò che mi ha attratto di Antigone è stata la

sua ribellione, il suo coraggio, i suoi fermi ideali ed il suo non fermarsi di fronte a chi

detiene le leve del potere. Il resto è tutto da scoprire.

Prima di addentrarmi nei meandri della vicenda narrata da Sofocle, nel primo

capitolo, enuncerò le nozioni dei concetti presi in esame. Ho rivolto, così,

l’attenzione alla forte presenza e dicotomia tra diritto naturale, come complesso di

norme non scritte e che fanno dunque parte del patrimonio etico-razionale-religioso

di ogni individuo; e diritto positivo, ossia il diritto vigente in un determinato ambito

politico-territoriale in un determinato spazio di tempo, posto dal potere sovrano dello

Stato mediante norme generali ed astratte contenute dalle "leggi".

Logicamente, non avrei potuto prescindere dallo studio delle due correnti di pensiero

che derivano da queste opposte concezioni del diritto: il giusnaturalismo ed il

positivismo giuridico. Come vedremo, in merito al primo è stato sviluppato un

4

piccolo excursus storico che ci permetterà di vedere come si “disegnò” tale dottrina,

secondo la quale, l’uomo è soggetto a delle regole insite nella propria natura.

Il positivismo giuridico ( o giuspositismo), invece, è la dottrina che considera come

unico possibile il diritto positivo, vale a dire quello concretamente osservato nei fatti.

Anche in questo caso, come per i due diritti, verrà lasciato spazio alla trattazione dei

reciproci rapporti tra le due dottrine.

Nel secondo capitolo si procederà all’illustrazione, potendone comprendere a questo

punto il significato estrinseco, della vicenda di Antigone narrata da Sofocle,

cominciata per aver contraddetto il divieto posto dal nuovo re di Tebe, Creonte, di

seppellire le spoglie di Polinice, colpevole di aver tradito la patria scatenando contro

di essa una guerra. La ragazza sarà poi condannata ad essere sepolta viva in una

caverna in cui lei stessa si impiccherà.

E’ proprio qui che si evidenza il nucleo centrale della questione presa in esame: così

come vi è un forte contrasto tra le due concezioni del diritto, parimenti, possiamo

avvertire lo scontro tra i due protagonisti del mito di Sofocle, ognuno

“rappresentante” una diversa visione del diritto. Antigone, sente di dover dare voce

alla legge della morale dando una degna sepoltura al fratello, mentre Creonte è fedele

alle leggi positive della polis, da lui stesso emanate.

Cercheremo, quindi, di cogliere il messaggio di Antigone, capire le sue ragioni e

approfondire i valori del contesto socio-culturale in cui visse, quali la cittadinanza,

alla luce dei quali il suo gesto può essere visto come una grande trasgressione.

Infine, con un salto temporale ci avviciniamo ai nostri tempi.

L’ultimo capitolo avrà il compito di stabilire un’attualizzazione dell’Antigone

facendo capire perché Antigone oggi, dopo venticinque secoli, ancora non è

invecchiata. Si cercherà di dimostrare che, in fin dei conti, la situazione non sia

cambiata molto dal V secolo a. C. e dottrine come quella inerente al diritto naturale,

siano oggi più vive che mai.

Vorrei sottolineare che quest’analisi, questo viaggio attraverso Antigone, è del tutto

personale, senza pretese di esaustività né di univocità.

Non ci resta che iniziare.

5

CAPITOLO 1

ALLE ORIGINI DELLA QUESTIONE: I DUE VOLTI DEL DIRITTO

L’Antigone di Sofocle può essere analizzata sotto diversi punti di vista. Per questo,

prima di inoltrarci nel vivo della materia, ritengo opportuno fare riferimento ad

alcune teorie, che rappresentano le colonne portanti per la comprensione

dell’Antigone di Sofocle, in merito alla chiave di lettura della tragedia scelta per

questa tesi.

Nel paragrafo 1.1 si esamina il Giusnaturalismo nel pensiero antico, nella sua

accezione terminologica e contenutistica, con la relativa definizione e funzione di

diritto naturale (1.2). Nel paragrafo 1.3 è presentata la nozione del concetto di diritto

positivo, con la conseguente teoria del positivismo giuridico (1.4). È poi descritto il

contrasto fra le due specie di diritto (1.5) e, infine il rapporto conflittuale tra

Giusnaturalismo e positivismo giuridico.

1.1 IL GIUSNATURALISMO: ASPETTI TEORICI PRINCIPALI

Con il termine giusnaturalismo - che deriva dal latino “ius”, diritto e natura - si

indicano tutte quelle teorie che sostengono l’esistenza di un diritto naturale,

antecedente e dunque al di sopra del diritto positivo, cioè il diritto positum (posto da

una volontà), posto dal legislatore. L'uomo sarebbe quindi soggetto a delle regole,

insite nella propria natura, precedenti ad ogni forma giuridica positiva.

6

Per diritto naturale si intende un insieme di valori che ogni diritto positivo dovrebbe

rispettare per potersi considerare autentico diritto, cioè di un insieme di norme di

comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano. Come afferma

C.S. Nino, il diritto naturale è superiore in quanto espressione di “un insieme di

principi morali e di giustizia validi e universali1”e tale validità e universalità

derivano dal fatto che il diritto naturale esprime principi morali oggettivi. Oltre alle

leggi prodotte dalla volontà di chi comanda, vi sono anche leggi naturali, che sono

superiori alle prime e da cui, anzi, queste ultime dovrebbero discendere. Tali leggi

per natura sono designate dai Greci con l’espressione !"#!$%& '%µ%&, ovvero

“leggi non scritte”.

I presupposti del Giusnaturalismo si fondano sull'ipotesi di uno "stato di natura", vale

a dire la condizione originaria dell'uomo, antecedente a qualsiasi tipo di istituzione

sociale e organizzazione regolata. Tale società è il frutto dell'ipotesi razionale di una

situazione antecedente alle trasformazioni ed alle divisioni che hanno caratterizzato

le diverse culture, una sorta di sostrato comune a tutte le società, in cui l'uomo viveva

in condizione naturale. Lo stato di natura, quindi, è una forma di vita associata nella

quale sono già presenti alcuni diritti originari inalienabili (ad esempio, la vita, la

libertà, la proprietà). Tuttavia, mancando un'autorità politica esterna, la tutela di

questi diritti e la loro continuità non è garantita. Pertanto è opportuno che la società

esca da tale condizione primitiva, e per far questo diviene necessaria l'istituzione di

un potere volto a garantire la convivenza civile e la sicurezza dei diritti naturali,

istituendo leggi e sanzioni per i trasgressori. Lo Stato è istituito per svolgere una

funzione ben precisa, garantire i diritti di ciascuno ed è in vista di tale scopo che gli

uomini rinunciano alla libertà incondizionata dello stato naturale e accettano di

essere reciprocamente limitati.

Il diritto naturale rappresenta l’elemento comune, distintivo delle varie concezioni

giusnaturalistiche, le quali possono apparire in maniera diversa, a seconda del modo

in cui il diritto naturale viene rappresentato. L'importanza del giusnaturalismo sotto il

profilo storico sta nell'aver messo in discussione la sacralità del potere politico e

nell'aver dato fondamento al governo del sovrano.

1 Carlos Santiago Nino, Introduzione all'analisi del diritto, Torino, G. Giappichelli, 1996

7

1.1.1 IL GIUSNATURALISMO NELL'ANTICHITA'

Il diritto - come anche gli altri aspetti della realtà, sia naturale, sia creata dall'uomo -

non fu, per le civiltà che precedettero quella greca, oggetto di riflessione filosofica. I

primi a tentare di dare una risposta critica, consapevole, non fantastica e mitologica,

alle domande fondamentali che l'esperienza pone all'uomo – e perciò anche a quelle

postegli dall'esperienza della vita giuridica – furono i Greci. E’ soprattutto per

questo, oltre che per le loro creazioni negli altri campi dell'attività umana, che noi

riconosciamo nei Greci i padri e i maestri della nostra civiltà, fondata appunto sui

valori della razionalità intesa come l'essenza vera dell'uomo; Infatti, l'uomo oggi, se

vuole conoscere veramente se stesso, e se deve perciò ripercorrere il cammino della

storia che l'ha reso quale egli è ora, non può cominciare questo cammino che con lo

studio del pensiero greco: di qualsiasi aspetto di quella che noi chiamiamo civiltà.

Per una migliore comprensione del contesto e del tema centrale di questa tesi, si

procederà ora ad un piccolo “excursus storico” riguardo alla nascita ed un primo

sviluppo del giusnaturalismo nell'antichità, dando rilievo al V secolo, periodo in cui

- come vedremo - si delinea per la prima volta la dottrina giusnaturalistica, che

scorge il diritto vero in un diritto che può esser diverso da quello positivo.

!

1.1.2 I PRESOCRATICI

Il pensiero giuridico greco non è una disciplina autonoma, con teorici specializzati e

monografie dedicate al diritto. Questioni come l’origine e il fondamento dello stato,

il rapporto della legge con qualche modello superiore, si ricavano da opere letterarie

o filosofiche. Possiamo notare che da Omero si apprende la primitiva concezione del

diritto dei Greci: la legge come thèmis (giustizia), cioè come decreto di carattere

sacrale rivelato ai re dagli dei per mezzo di sogni o di oracoli.

È una concezione caratteristica di società a struttura aristocratica, nelle quali la

legislazione è intesa come espressione di una volontà soprannaturale, ed è custodita

8

da una classe superiore. Con il passaggio da società patriarcali e guerriere a società

agricole, alla legislazione d’ispirazione divina subentra una legislazione umana: alla

themis si sostituisce la díke, cioè la giustizia come prodotto della ragione e

dell’esperienza umane, dove predomina l’idea razionale dell’uguaglianza. Nel V

secolo a.C., epoca della formazione delle città, con la parola nomos viene indicato il

diritto, il quale rappresenta la legge della città (costituzione) ed è prodotto dai

legislatori e dalle assemblee del popolo.

I presocratici Eraclito, Talete, Pitagora, Parmenide ed Empedocle si avvalgono

dell’idea di dike anche nel campo che interessa loro in maniera prevalente, ovvero i

problemi del mondo fisico e della natura. In un frammento di Eraclito ,che ha della

legge un concetto altissimo appare accennata per la prima volta nella storia del

pensiero, l'idea di un fondamento assoluto delle leggi positive, l'idea di ciò che sarà

poi chiamato “ diritto naturale “, il cui svolgersi costituisce gran parte della storia

della filosofia del diritto. Per Eraclito questa legge divina che è la prima e vera legge

non può essere che il Lògos, la Ragione universale, sostanza e principio (archè) di

tutta la realtà, alla quale l'uomo perviene grazie alla filosofia, “passando dal sonno

alla veglia”.2

Nel V secolo a.C. notevole è l'etica di Democrito, per il quale il fine dell'uomo non è

il piacere dei sensi, ma la serenità dell'animo (euthymìa) e il benessere spirituale

(euestò); e ciò si ha quando si osservino la giustizia e le leggi. Della legge, talvolta

Democrito sembra avere il concetto tradizionale nell'età più antica, che intravede in

essa un valore morale e la considera per sé stessa opera di saggezza, perché saggezza

e virtù sono proprie dei legislatori e governanti. Altre volte, però, egli le attribuisce

una funzione puramente tecnica di strumento di pacifica convivenza sociale. Per

Democrito, la legge giuridica non è altro che un tentativo di limitare gli effetti della

condotta di chi non osserva spontaneamente la legge morale: non vi sarebbe bisogno

di quella costrizione che è il diritto se l'uomo obbedisse alla propria coscienza. Si ha,

infatti, in Democrito uno dei primi accenni a una distinzione tra una condotta

determinata dal timore della legge e della sanzione e una condotta liberamente

seguita per obbedire ad un comando della coscienza.

2 Thomas Alan Sinclair, Il pensiero politico classico, Roma, Laterza, 1993

9

E’ Sofocle, uno dei grandi tragici greci, colui che per primo ha rappresentato uno dei

problemi fondamentali della filosofia del diritto, ovvero il contrasto le leggi positive

istituite dallo Stato e le norme di condotta che l’individuo ritrova dentro di sé, le

norme di “diritto naturale”. Questo, come vedremo più avanti, è il motivo centrale

della tragedia di Antigone: nella figura di una giovane donna, che accetta la morte

per non disobbedire alle leggi non scritte divine, Sofocle “ha impersonato un dramma

eterno, il dramma di chi è combattuto tra il comando della coscienza morale e quello

dell'autorità politica: dramma la cui intensità si avverte soprattutto in tempi di

dispotismo e di tirannia, ma che in realtà il diritto dello Stato potenzialmente

comporta sempre.”3

Dal V secolo a.C. fino ai nostri giorni, si disputerà circa l'esistenza, e poi circa il

carattere e il valore di queste norme; delle quali spesso sarà negata la validità, e

ancora più spesso saranno contrapposte al diritto positivo, al diritto dello Stato, come

più valide e più obbligatorie di esso. Ne nascerà il problema del comportamento di

chi, cittadino o giudice, ritiene il diritto positivo contrastante con il diritto naturale:

problema giuridico perché in esso viene messa in discussione la validità delle leggi;

ma anche morale, perché si pone all'intima coscienza dell'uomo, e politico, perché

riguarda i limiti del potere dello Stato.

!

1.1.3 I SOFISTI

Come anticipato, a parte il precedente letterario di Sofocle, la prima concezione

giusnaturalistica si può far risalire ai Sofisti (V secolo a.C.) e fa riferimento alla

natura considerata come qualcosa avente leggi e scopi suoi propri che l’uomo non

può modificare e che anzi incombono su di lui. Tale versione del diritto naturale,

comune a tutta l’antichità classica, concepisce il principio di condotta come esterno

all’uomo. Essi posero per la prima volta, in termini filosofici, il problema nascente

dal possibile contrasto fra le “leggi non scritte” e le leggi dello Stato. Portati a porre

3 Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol.1 Antichità e Medioevo - Bologna, Il Mulino, 1966

10

in discussione tutti gli istituti tradizionali, i Sofisti non hanno, infatti, per le leggi

dello Stato, il rispetto che prestavano a esse i tradizionalisti e i conservatori.

Evidenziarono che le leggi positive non sempre corrispondono alle tendenze naturali

e alle esigenze razionali dell'uomo, e distinsero così un “giusto per natura”, che

corrisponde a queste esigenze e tendenze, da un “giusto per legge” che non ha altra

fonte ed altra giustificazione se non la volontà, autorità, la forza del legislatore, ossia

dello Stato.

Questa natura, intesa come universo fisico, e che per gli uomini è istinto, è la physis.

Nella cultura dell'epoca è diffusa l'idea di un'antitesi fra ciò che, essendo

indipendente dalla volontà e dall'azione dell'uomo, ha valore universale e

permanente. Quest’antitesi s’inserì perfettamente nel campo etico-giuridico, dove il

nòmos (costume o legge che sia) è per eccellenza opera della volontà e dell'azione

umana. Possiamo ora affermare che al giusto per nòmos viene così contrapposto un

giusto per physis, che è la giustizia vera.

Dalla distinzione fra physis e nomos il sofista Callicle - nel dialogo di Platone Gorgia

- giunge alla rappresentazione del diritto di natura come istinto naturale, ed è

identificato con la forza: se la natura mostra che il migliore prevale sul peggiore e il

più capace sul meno capace, allora il criterio della giustizia è questo, il dominio e la

supremazia del più dotato sul più debole. Per Callicle lo Stato e le leggi positive sono

un mezzo utilizzato dai deboli e dai mediocri coalizzati insieme per neutralizzare ed

avere la meglio su coloro che, superiori per natura, hanno giustamente il comando.

Tali istituzioni e leggi, poiché contrarie alla natura, sono ingiuste; sono solo

espressione di invidia e gelosia . La concezione del “giusto per natura” enunciata da

Callicle è la versione che può dirsi naturalistica in senso stretto: cioè quella che

concepisce il diritto naturale come istinto, comune a tutti gli esseri animati, senza

riguardo a quel specifico aspetto della “natura” dell'uomo che è l'esser dotato di

ragione. Per essa, il diritto naturale è un principio di condotta esterno all'uomo, che

gli viene imposto dal di fuori, da una realtà estranea al soggetto e che il soggetto

subisce passivamente. Secondo Callicle, la volontà del più forte sarebbe il giusto per

natura, mentre la legge, opera della lega dei deboli, è contraria alla vera giustizia.

Un orientamento maggiormente razionalistico ha il giusnaturalismo di Antifonte e

Ippia, per i quali le leggi positive, prodotto artificiale degli uomini, spesso non

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corrispondono alle tendenze naturali dell’uomo. In particolare, le leggi sono un

impedimento alla naturale tendenza dell’individuo a perseguire il proprio interesse,

mentre il modo migliore di vivere è proprio seguire la natura, perseguendo il proprio

interesse anche in maniera incontrollata e antisociale.

Non è immorale la trasgressione delle norme giuridiche, poiché sono mere

convenzioni; basta che non si venga colti sul fatto. La violazione delle leggi di

natura, invece, fa incorrere inevitabilmente in sanzioni (naturali); dove per natura si

intende l’organismo dell’uomo, i suoi sensi, il piacere e il dolore. Gli uomini

orientano spontanemante il loro comportamento in direzione dell’utile; mentre le

leggi sospingono l’uomo verso obiettivi contrari al proprio piacere, ai propri obiettivi

naturali, e dunque lo costringono ad un piacere minore di quanto sarebbe alla sua

portata.

Il sofista Ippia afferma che, mentre per natura tutti gli uomini sono “consanguinei”,

per legge questo non avviene.

Il Sofista Antifonte sostiene che la maggior parte di ciò che è giusto secondo la legge

è contrario alla natura; e l'argomento principale che reca a sostegno della sua tesi è

che per natura l'individuo perseguirebbe ciò che gli giova personalmente, mentre le

leggi - che egli considera prodotto di un accordo artificiale fra gli uomini – sono un

impedimento a questa naturale tendenza.

L'astrattismo di cui gli uomini alle volte peccano è una conseguenza del loro

razionalismo. Ed in effetti la concezione del “giusto per natura” di Ippia e di

Antifonte è del tutto opposta a quella di Callicle non soltanto per il contenuto del

diritto naturale quale è inteso da essi rispetto a quello risultante dall'identificazione

del diritto con la forza; ma anche, e soprattutto, perché concepito da essi come

espressione della ragione. Il diritto naturale non è più, come per Callicle, una norma

che si impone all'uomo dal di fuori, ma è una norma che l'uomo da a se stesso , una

norma che è data all'uomo dalla sua natura – nel senso di essenza - di uomo.

Vediamo così tracciate, secondo la tripartizione di Guido Fassò4, nel V secolo a.C. le

tre fondamentali versioni del giusnaturalismo, tra le quali si ridurranno sempre ad

una tutte le teorie giusnaturalistiche dei secoli successivi. La prima interpretazione è

quella secondo la quale la legge è giusta, assolutamente valida, superiore alle leggi

4 Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol.1 Antichità e Medioevo - Bologna, Il Mulino, 1966

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positive umane perché dettata da una volontà superiore a quella umana, come nel

caso delle divine “leggi non scritte” dell'Antigone di Sofocle; e la possiamo chiamare

giusnaturalismo volontaristico. Una seconda è quella della legge di natura come

istinto comune a tutti gli animali, sostenuta da Callicle nel Gorgia di Platone, e si può

chiamare giusnaturalismo naturalistico. La terza è quella che abbiamo appena visto,

della legge che è di “natura” in quanto dettata dalla ragione, essenziale natura umana

– giusnaturalismo razionalistico.

1.2 IL DIRITTO NATURALE, DEFINIZIONE E FUNZIONE

Non è possibile ricondurre ad una rigorosa e positiva unità di significato l'espressione

“diritto naturale”: nella storia plurisecolare del pensiero giuridico e politico

occidentale essa è stata usata secondo prospettive talmente diversificate, da rendere

difficile ogni tentativo di riduzione ad uno del concetto. Come disse Guido Fassò, è

adoperata in sensi talmente diversi da provocare non piccole, e non inutili,

confusioni5 .

L'unico modo, forse, per fornire alla nostra espressione unitarietà è quello di

conferirle una valenza polemica e negativa6: postulare l'esistenza di un diritto

naturale in questa chiave, significherebbe, affermare che la dimensione della

giuridicità non coincide nel suo principio con quella del diritto posto dal legislatore

all'interno della comunità politica alla quale egli è preposto.

È evidente che una simile definizione in negativo del diritto naturale, anche se di

certo non scorretta, può lasciare insoddisfatti sia sul piano storico che su quello

teoretico. Sul piano storico, perché per definire il diritto naturale si ricorre ad una

nozione, quale quella di diritto positivo, che è anch'essa tutt'altro che priva di

ambiguità storiche e semantiche e che comunque solo a partire dalla metà del secolo

scorso (dall'epoca in cui ha cominciato ad affermarsi il positivismo giuridico) è

5 Guido Fassò, Che cosa intendiamo con “ diritto naturale”?, estratto dalla rivista trimestrale di Diritto e Procedura Civile – Fasc.1 - 1961 6 Francesco D’Agostino, Diritto naturale in filosofia del diritto (capitolo IV – Il Diritto naturale), Giappichelli 1996

13

decisamente emersa come metodologicamente antagonistica rispetto a quella di

diritto naturale.

E’ insoddisfacente anche teoreticamente, perché quando si definisce in negativo il

diritto naturale, si evita ogni confronto col punto cruciale della questione

giusnaturalistica, ossia quello della definizione della natura e della sua forza creatrice

di diritto. Per quanto inadeguata, questa espressione ha comunque, un doppio merito:

quello di evidenziare la funzione storica prevalente del giusnaturalismo, cioè

l'assidua critica del volontarismo giuridico, e quello di mettere tra parentesi la

questione del suo fondamento, ritenuta da larghissima parte della cultura

contemporanea deformata da pregiudizi metafisici e di conseguenza mal-posta e

irresolubile.

L'autentico rilievo della dottrina del diritto naturale, insomma, andrebbe ritenuto non

teoretico, ma pratico; essa non ci fornirebbe nessuna reale e obiettiva indicazione

antropologica, o sui supremi principi di giustizia, ma ci indicherebbe un principio

essenziale per l'azione sociale, e quindi per la dinamica della politica: il principio

secondo cui va sottratta al diritto (positivo) vigente, e quindi all'operato del

legislatore, ogni connotazione di sacralità. Il diritto naturale rappresenterebbe cioè

l'autentica misura critica del diritto positivo . In ogni caso, avrebbe la valenza di

ricordare agli uomini che il riconoscimento della loro dignità e dei loro diritti

fondamentali non è una benevola concessione fatta nei loro confronti da parte di chi

detiene il potere, ma il presupposto per ogni legittimo agire politico del potere stesso.

Celebre, ad esempio, è la prospettiva di Hobbes, nella quale il richiamo alla legge di

natura serve a fondare filosoficamente la necessarietà della subordinazione dei

consociati alla volontà del Leviatano.

Altre volte, invece, si osserva che, l'appello al diritto naturale è apparso funzionale

alla mera lotta ideologico-politica, più che alla difesa dei valori umani: ad esempio è

indiscutibile che in certe correnti del pensiero politico cattolico dell'Ottocento il

richiamo giusnaturalistico è stato spesso utilizzato in chiave reazionaria come

strumento di contestazione della nuova struttura liberale e costituzionale dello Stato e

a favore della sua tradizionale legittimazione paternalistica.

Non è difficile però obiettare a queste osservazioni (in se stesse pienamente fondate)

che la sua vera forza storica, la dottrina del diritto naturale, l'ha manifestata ogni

14

volta che è stata utilizzata come supremo appello contro e non a fondamento del

potere: l'immagine, nell'omonima tragedia di Sofocle, di Antigone, definita con

molta enfasi ma non scorrettamente "l'eroina del diritto naturale7" resta, sotto questo

profilo, assolutamente emblematica. Come già posto in evidenza, Antigone non

agisce "contro il potere" perché lo ritenga delegittimato, cioè perché auspichi che al

posto di Creonte salga al trono un altro sovrano, né perché ritenga il potere malvagio

in se stesso; essa rifiuta l'ubbidienza pur avendo la certezza che la morte sarà il

prezzo del suo rifiuto, perché non ritiene si possa superare altrimenti la scissione tra

la volontà degli uomini e quella degli dèi, o, per usare un'espressione più moderna,

tra due mondi, quello che si manifesta nell'intimo della coscienza e quello che si

manifesta nell'ordine estrinseco del sociale.

Come avremo modo di mettere in risalto, in questa frattura è posta in gioco il senso

ultimo della stessa esistenza di Antigone: negarla o banalizzarla equivarebbe alla

perdita della propria identità. Il rifiuto che essa oppone a Creonte e alle sue leggi

possiede quindi una valenza archetipica: negare il problema del diritto naturale e

della sua forza coercitiva significa svuotare di senso la realtà, complessa e spesso

tragica, della stessa coesistenza umana.

1.3 IL DIRITTO POSITIVO

Il Diritto positivo (jus in civitate positum) è il diritto vigente in un determinato

ambito politico-territoriale in un determinato spazio di tempo, posto dal potere

sovrano dello Stato mediante norme generali ed astratte contenute dalle "leggi”,

nonché disposizioni concrete ed individuate di carattere "regolamentare-

amministrativo".

La spinta verso la preminenza dell'attività di legislazione (e cioè la produzione di

leggi) rispetto a quella data dalla normazione di natura amministrativa è un

movimento storico universale ed irreversibile, legato immediatamente alla

7 Felicetto Gabrielli, I fondamenti dei diritti dell’uomo nel pensiero giuridico di Jacques Maritain, Sovera Edizioni, 2000

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formazione dello "Stato di diritto" che, appunto, viene a sancire la preminenza della

legge (formata dal Parlamento), rispetto agli atti emanati dal Potere esecutivo.

Questa spinta nasce dall'esigenza di:

• salvaguardare il cittadino, soprattutto nei suoi diritti pubblici soggettivi, dai

possibili arbìtri del Potere esecutivo, con il sottordinare l'efficacia degli atti di

quest'ultimo a quelli emananti da un organo rappresentativo quale il

Parlamento.

• dare un ordinamento razionale e certo alla società attraverso norme generali,

coerenti e fra loro gerarchicamente coordinate.

• trasformare la società tramite le leggi che la governano.

Nelle società antecedenti alla formazione dello Stato moderno (dunque fino agli inizi

del XIX secolo) le fonti di produzione giuridica erano molteplici e non esistendo un

preciso sistema delle fonti, una controversia, a discapito del principio di certezza del

diritto, poteva essere indifferentemente giudicata a seconda delle disposizioni del

diritto romano, del diritto canonico, del diritto feudale, della “lex mercatorum”, degli

Statuti locali, delle leggi, delle consuetudini, della giurisprudenza e dell'equità. In

tale assetto, il giudice, spesso, non era ancora un vero e proprio funzionario dello

Stato, ma un professionista assunto a svolgere le sue funzioni dalla Città o dalla

specifica corporazione. Con il formarsi dello Stato moderno, il giudice diviene un

vero e proprio dipendente dello Stato che, a seguito delle riforme dell'assetto

giuridico di modello napoleonico, giunge ad attribuirsi il ruolo di unica fonte del

diritto, o almeno di quella dotata di maggiore effettività e, quindi, di posizione

gerarchicamente predominante rispetto a tutte le altre.

1.4 IL POSITIVISMO GIURIDICO

Il positivismo giuridico è una teoria monistica, che riconosce un solo diritto, quello

positivo, rispetto al quale quello naturale è una morale o, nella migliore delle ipotesi,

una filosofia della giustizia.

Il rischio che si corre è di equivocare sull’oggetto di indagine, dato che quando si

16

parla di positivismo giuridico si ha a che fare con tre concetti differenti:

1) chi si dice giuspositivista, lo può anzitutto fare per evidenziare il metodo con cui

si accosta al fenomeno giuridico: più precisamente, il positivismo giuridico è il modo

di avvicinarsi allo studio del diritto come fatto (reale) e non come valore (ideale). In

questo senso, il giuspositivista mira a qualcosa che non è la giustizia in sé e per sé,

gli interessa piuttosto il diritto com’è e non come deve essere. Egli muove dunque

dalle leggi concrete, in aperta polemica con il giusnaturalismo. Al tempo stesso, per

positivismo giuridico si può intendere una concezione che, almeno in apparenza, è

opposta a quella che abbiamo appena delineato: il giuspositivista è colui che guarda

al diritto inteso come meri fatti, cercando di restare fedele alla “avalutatività”

(Wertfreiheit) della quale parlava Max Weber.

2) Il giuspositivista muove dalla convinzione che il diritto positivo, per il fatto che è

emanazione di una volontà ordinatrice, sia giusto: non è necessario essere anarchici

per intuire come dietro questa posizione vi sia una ben precisa ideologia, quella del

mantenimento dell’ordine vigente e dello status quo. Tuttavia, possiamo notare che

anche il positivismo giuridico può fare (e spesso fa) riferimento ai valori: con la

differenza che, rispetto al giusnaturalismo e alla sua bivalenza (può essere, ed è stato,

tanto rivoluzionario quanto conservatore), il positivismo giuridico è tendenzialmente

conservatore e amico dello status quo. Ciò non significa che tutti i giuspositivisti

siano conservatori: vi sono, infatti, anche critici della tradizione, sebbene non vi

possano in alcun caso essere giuspositivisti rivoluzionari e anarchici, alla luce del

fatto che per il positivismo giuridico la fonte del diritto è il potere.

Queste due concezioni del positivismo giuridico sembrano escludersi a vicenda: ma

non è in esse che dev’essere rintracciato il vero nucleo del positivismo. Tale nucleo,

infatti, risiede nel terzo ed ultimo concetto:

3) il positivismo giuridico è una teoria del diritto che afferma l’esclusività del diritto

positivo in relazione al carattere specifico che questo ha e che è il carattere della

coattività. Più specificamente, si tratta di una teoria “statalistica” del diritto, la quale

connette tra loro il diritto e lo Stato: e ciò già ci spiega perché una compiuta teoria

del diritto positivo non l’abbiano avuta né i Greci, né i Romani, né i Medievali, i

17

quali non conobbero lo Stato, che si forma a partire dal XIV secolo d.C. e giunge

all’apice nel XIX secolo. Questa dottrina poggia su molteplici presupposti: a lungo,

nella storia delle società antiche, il diritto era un’attività di tipo giudiziario; era cioè il

detentore del potere a emettere sentenze, risolvendo i casi conflittuali. Egli non di

rado agiva in base al proprio arbitrio, che era certamente temperato dalla tradizione

ma comportava anche un ampio margine di discrezionalità. La teoria del diritto in

senso moderno nasce quando sorge uno Stato che formalizza le sentenze,

sottraendole alla discrezionalità dell’arbitrio dell’individuo: con lo Stato, viene a

formalizzarsi un complesso di regole che dà vita al diritto e che non presentano

lacune né conflitti di norme.

Per quel che riguarda la definizione della norma, il positivismo giuridico adotta la

cosiddetta “teoria imperativistica”: le norme giuridiche non sono dettami della retta

ragione sui quali si può discutere, sono piuttosto comandi a cui si deve obbedire. Il

terzo carattere distintivo del positivismo giuridico riguarda le fonti del diritto: è

teorizzata la supremazia della legge, la quale è una norma generale e astratta alla

quale si fa ricorso per dirimere le controversie.

1.5 ORIGINE DELLA DISTINZIONE FRA DIRITTO NATURALE E

DIRITTO POSITIVO

La storia del pensiero giuridico occidentale, dai Greci sino a oggi, è dominata dalla

distinzione fra due specie di diritto: il diritto naturale e il diritto positivo. Da questa

distinzione traggono il nome le rispettive scuole o dottrine del giusnaturalismo e del

positivismo giuridico (o giuspositivismo).Il diritto naturale, contrapposto al diritto

positivo, riceve il suo significato – come abbiamo visto - dal termine 'natura', intesa

originariamente e prevalentemente come l'insieme degli enti che hanno in se stessi,

secondo la definizione di Aristotele, il principio del loro movimento, nascono, si

sviluppano, in conformità a leggi non poste né modificabili dall'uomo.

A questi si contrappongono gli enti prodotti dal fare dell'uomo. Così si

18

contrappongono le cose naturali alle cose artificiali prodotte dall'arte o dalla tecnica.

Ma tra le cose artificiali ci sono anche i costumi e le regole sociali, che infatti

cambiano secondo i tempi e i luoghi. Quando i Greci si posero il problema del diritto,

come anche quello del linguaggio, lo posero in questi termini: il diritto è per natura o

per convenzione? La risposta fu che il diritto è tanto naturale quanto convenzionale.

Da questa risposta è nata la grande dicotomia che, pur attraverso mille peripezie,

interpretazioni molteplici e controverse, rapporti reciproci ora pacifici ora

antagonistici, è arrivata sino a noi. All'inizio dell'età moderna, quando per natura si

intende l'universo regolato da leggi universali nella loro estensione spaziale e

temporale, e necessarie, quindi immodificabili dall'uomo, il diritto naturale viene

interpretato come l'insieme delle regole di condotta che possono venir dedotte da

quest'ordine e sono conoscibili attraverso la ragione. In conclusione, dopo il diritto

naturale-consuetudinario degli antichi; dopo il diritto naturale-divino degli scrittori

medievali, nell'età moderna il diritto naturale-razionale rappresenta la nuova

raffigurazione di un diritto non prodotto dall'uomo, e che, proprio per la pretesa di

essere sottratto ai mutamenti della storia, pretende anch'esso di avere validità

universale e quindi maggiore dignità del diritto positivo.

I diversi criteri di distinzione fra i due diritti, che si possono rilevare da un excursus

storico che va da Aristotele a Ugo Grozio, passando quindi anche per il

cristianesimo, si possono fissare nei seguenti punti:

1) rispetto al soggetto o all'autore dell'uno o dell'altro, il diritto naturale deriva da Dio

o dalla natura, mentre il diritto positivo deriva da un legislatore umano;

2) rispetto al fondamento il primo è razionale, il secondo è volontario, onde l'uno

viene conosciuto attraverso la ragione, il secondo empiricamente attraverso le

dichiarazioni espresse da un'autorità costituita oppure attraverso il manifestarsi di

una volontà tacita;

3) riguardo al contenuto, ossia ai comportamenti dall'uno e dall'altro regolati, quelli

regolati dal diritto naturale sono buoni o cattivi in se stessi, quelli regolati dal diritto

positivo sono buoni poiché comandati, cattivi poiché proibiti;

19

4) rispetto alla loro estensione, il diritto naturale è universale nello spazio e

immutabile nel tempo, mentre il diritto positivo vale in uno spazio circoscritto e muta

nel tempo.

Questi criteri di distinzione sono cumulativi, non si escludono a vicenda. È

conveniente considerarli nel loro insieme, anche se non è detto che siano parimenti

accolti da tutti gli autori.

1.6 GIUSNATURALISMO E POSITIVISMO GIURIDICO NEI

LORO RECIPROCI RAPPORTI

Dal contrasto fra le due specie di diritto, che ho appena esposto, deriva il contrasto

fra le dottrine che hanno preso il nome di giusnaturalismo e positivismo giuridico,

tanto che Norberto Bobbio le ha chiamate "i due fratelli nemici". 8 La differenza

consiste nel fatto che:

• Il giuspositivismo è una concezione monista del diritto, che ritiene che il

diritto positivo sia l'unico diritto degno di questo nome;

• Il giusnaturalismo è una concezione dualista: sostiene cioè l'esistenza di due

ordini di diritto:

1. un diritto naturale: insieme di principi eterni e universali;

2. un diritto positivo che si trova in relazione subordinata: prodotto storico che

promana dalla volontà del legislatore.

Osserviamo l'asimmetria delle due definizioni: mentre il giusnaturalismo afferma

l'esistenza di entrambi i diritti ma insieme la differenza di grado, il positivismo

giuridico afferma, non la superiorità, del diritto positivo rispetto al diritto naturale ma

la esclusività. Il giusnaturalismo è dualistico, il positivismo giuridico è monistico.

Nella contrapposizione tra i due diritti non entra soltanto, come si è visto sinora, la

differenza dei due aggettivi, naturale e positivo, ma anche il diverso significato che

ha nelle due espressioni il termine 'diritto'. La definizione che ne dà il 8Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, Ed. Comunità 1965

20

giusnaturalismo è una definizione persuasiva, ovvero una definizione che contiene un

giudizio di valore, per cui 'diritto' è l'insieme delle norme buone o giuste che

regolano, o dovrebbero regolare, la convivenza degli uomini, e se non sono tali non

meritano il nome di diritto. Secondo il positivismo giuridico, invece, è diritto

l'insieme delle norme che regolano di fatto, indipendentemente dalla loro qualità

morale, una determinata società storica. Un termine di valore come 'buono' o 'giusto'

non è in questo caso un elemento della definizione. Ciò che fa essere diritto l'insieme

delle norme che regolano di fatto una determinata società è la sua validità, la

conformità di queste norme a una costituzione, scritta o non scritta, la quale a sua

volta trae il proprio fondamento ultimo dall'essere abitualmente ubbidita e, quindi,

efficace.Questa precisazione serve a spiegare le ragioni principali del contrasto

perenne tra giusnaturalisti e positivisti, contrasto particolarmente intenso nei

momenti di trapasso da un vecchio a un nuovo ordinamento, per cui, da un lato, è

empiricamente osservabile che il nuovo diritto nasce da un fatto, dall'altro, il vecchio

viene delegittimato pur avendo avuto anch'esso in un fatto precedente la causa ultima

della propria legittimità.

Questa legittimazione, puramente fattuale, condurrebbe a insanabili difficoltà di

ragionamento che, secondo i giusnaturalisti, possono essere risolte soltanto attraverso

una concezione del diritto per cui non basta, che sia valido ed efficace, ma è

necessario anche che sia giusto. Pertanto può accadere che il vecchio ordinamento,

pur essendo stato abitualmente ubbidito e considerato per un certo periodo valido ed

efficace, non possa più essere considerato tale in tutti quei casi in cui i principî

universali del diritto naturale non siano stati rispettati.

Da questo punto di vista il vecchio diritto può essere considerato non più diritto, così

come il nuovo può essere considerato non ancora diritto, in attesa che la

legittimazione secondo il fatto sia in qualche modo corroborata da una legittimazione

secondo il valore. Tuttavia, dalla parte dei positivisti, si controbatte sostenendo che

una cosa è il giudizio morale, altra cosa il giudizio di stretto diritto, e che, se è vero

che l'uno non esclude l'altro, è altrettanto vero che la definizione persuasiva di diritto

propria del giusnaturalismo conduce ad aporie altrettanto gravi, come quella di non

rispecchiare ciò che avviene di fatto nella pratica dei tribunali dove il giudice dello

Stato moderno giudica secondo il diritto che è, non secondo quello che deve

21

essere.La definizione asettica di diritto, propria dei positivisti, serve poi a spiegare

che cosa si intende dire quando si afferma che il positivismo giuridico è quella

concezione del diritto per cui esiste soltanto il diritto positivo. S'intende dire che per

il positivismo giuridico è diritto, nel senso proprio della parola, soltanto l'insieme

delle norme di un ordinamento valido ed efficace. Di conseguenza il diritto naturale,

secondo questa definizione, può essere ritenuto al massimo come l'esigenza di un

diritto che sarebbe bene diventasse valido ed efficace. Possiamo quindi concludere

affermando che, ciò che secondo un positivista manca al diritto naturale è

l'effettività, e il diritto naturale non è effettivo perché è disarmato. Ma nel momento

in cui viene armato, vale a dire viene a far parte di un ordinamento in cui può essere

fatto valere mediante la coazione, diventa diritto positivo.

In virtù di quanto finora esposto, intrecciando il problema etico e quello politico, sarà

possibile nei prossimi capitoli configurare Antigone come figura della diversità e del

conflitto rispetto alla prassi rappresentata dalle leggi dello Stato.

22

CAPITOLO 2

Il MITO DI ANTIGONE TRA LEGGE ETICA E LEGGE DELLO STATO

La nostra civiltà giuridica, erede della tradizione ellenica, trova i suoi elementi

fondativi nella riflessione che Sofocle impone nella sua opera, forse, più

significativa: Antigone.

Questa tragedia, che veniva rappresentata nella polis ateniese e che come tutta la

tragedia greca aveva, tra l’altro, un fine pedagogico nei confronti di una cittadinanza

che, prima nella storia, si avvicinava al tema della democrazia, è, come vedremo, una

riflessione drammatica sulla legge e sul diritto e, più precisamente, sul conflitto tra

legge e diritto.

Vedremo inoltre in questo capitolo, la specularità di valori e personaggi: la libertà di

Antigone viene a scontrarsi con l’autorità politica, con l’autorità di Creonte,

2.1 ANTIGONE DI SOFOCLE

La vicenda è abbastanza nota.

Si tratta di uno dei più antichi drammi di Sofocle e risale, forse, al 442 a.C. L'azione

del dramma si svolge a Tebe, appena liberata dall'attacco dei sette principi argivi. I

due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, si sono uccisi a vicenda in duello. Il reggente

della città, che è ora Creonte (succeduto al padre, morto in duello contro Polinice), ha

emanato un editto secondo il quale il corpo di Eteocle, morto in difesa della propria

terra, dovrà ricevere tutti gli onori funebri, mentre quello di Polinice, venuto in armi

23

contro la patria, dovrà essere lasciato insepolto. Contemporaneamente, è stata

decretata la pena di morte per chiunque tenti di violare il decreto. Ci sono, inoltre,

delle guardie che vegliano sul cadavere abbandonato in pianura per impedire che

qualcuno si avvicini ad esso.

Antigone, l'eroica figlia di Edipo, rende partecipe sua sorella Ismene dell'intenzione

di affrontare il divieto emessa dal re Creonte, anche a costo di essere lapidata dal

popolo tebano, per portare a compimento i riti funebri sul corpo del fratello Polinice.

Ma pur riconoscendo la correttezza morale del gesto, Ismene rifiuta di seguirla in

questa impresa. Così, dando una pietosa sepoltura alla salma del fratello Polinice,

trasgredisce gli ordini del re Creonte e va coraggiosamente incontro alla morte,

sostenendo che non è tenuta a seguire l’editto, non essendo stato proclamato da Zeus,

poiché le eterne leggi divine sono superiori a quelle umane. Antigone, infatti, dice:

«Giove certo non fu, chi me le impose, né la Giustizia agl’Inferi compagna codeste

leggi fissò mai fra gli uomini. Io non pensai che tanta forza avessero gli ordini tuoi,

da rendere un mortale capace di varcare i sacri limiti delle leggi non scritte e non

mutabili. Non son d’ieri né d’oggi, ma da sempre vivono: e quando diedero di sé

rivelazione è ignoto.».9

Quando la guardia informa il re della violazione del suo decreto, Creonte si infuria e,

in un primo momento, accusa la guardia di essere l’autore del reato minacciando di

infliggerle terribili torture se non gli avesse portato rapidamente un colpevole per

discolparsi. La guardia torna, così, accompagnata da Antigone, sorpresa in flagrante

e lo scontro è immediato; la giovane donna afferma l’illegittimità dell’editto,

appellandosi alle leggi divine, non scritte ed eterne e giustifica, inoltre, la sua lotta

dovuta all’amore fraterno, esponendo così le sue motivazioni fondamentali: « Morto

uno sposo, un altro avrei potuto riceverne, ed avere da un altr’uomo, per un figlio

perduto, un altro figlio. Ma se riposa la madre nell’Ade ed il padre con lei, non c’è

fratello che possa più dal nostro ceppo crescere. Per questo colpevole a Creonte e

audace parvi di tremende audacie, fratello mio! ».10

La povera fine di Antigone, che sarà condannata ad essere sepolta viva in una

caverna in cui lei stessa, alla fine, si impiccherà, determina il suicidio di Emone, suo

promesso sposo e figlio di Creonte. Per finire, anche la moglie di Creonte, Euridice, 9 Sofocle, Antigone, vv. 560-569 ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) 10 Sofocle, Antigone, vv. 1128- 1137

24

dopo aver saputo della morte del figlio, si toglie la vita. Così Creonte, annientato da

questa serie di «disastri venuti dai miei stessi piani» , non desidera altro che una

morte rapida.

2.1.1 SOFOCLE, ACCENNI SULLA PERSONALITA’

La vita di Sofocle accompagna la grandezza e il declino dell'Atene del V° secolo:

conobbe la potenza ateniese al suo massimo splendore e la democrazia istituita da

Pericle.

Di ricca famiglia, figlio di Sophillos un fabbricante di scudi, prese parte alla vita

politica di Atene: percettore dei tributi versati ad Atene dai suoi alleati nel 443,

collaborò ad una revisione del tributo pagato dagli alleati della città. Stratega nel

442, partecipò, con Pericle, alla spedizione di Samo. Fu più tardi Stratega a fianco di

Nicia e, nel 491, uno dei dieci probuli membro ossia di una sorta di comitato

ristretto di salute pubblica di Atene. Svolse anche funzioni religiose come sacerdote

di Asclepio.

Tuttavia, l’attività principale di Sofocle restò la composizione di tragedie. Gli si

attribuiscono 130 drammi ma possediamo soltanto sette tragedie complete: Aiace,

Elettra, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, Trachinie, Filottete ed alcuni

frammenti di due drammi satireschi, I Segugi e l'Inaco. Gli antichi gli attribuirono

alcune innovazioni tecniche della tragedia quali l’introduzione del terzo attore che

permette di ampliare dialoghi e battute , l’aumento degli elementi del coro da dodici

a quindici ed il perfezionamenti dei costumi teatrali.

Mentre i tragediografi suoi contemporanei, Eschilo e Euripide, si erano entrambi

domandati se gli dei che mandano all’uomo il dolore sono giusti, Sofocle non ebbe

mai dubbi: gli dei sono sempre giusti e misericordiosi.

Per quanto riguarda la grandezza della sua poesia, Sofocle nasce dal dilemma in cui

l’uomo viene a trovarsi. Esistono come due piani distinti e tuttavia complementari: il

piano del tempo, in cui l’uomo vive, e quello dell’eterno, che dà pace e gloria. Per la

subordinazione del tempo all’eterno, tutto quello che l’eroe subisce nel tempo, è

25

inevitabile, perché il dolore provvidenziale è la prova per cui egli si svela degno

degli dei. Infatti conquista l’eternità solo chi soffre con magnanimità la propria pena

quotidiana, anche la più grande. Gli dei, proprio quando sembrano più avversi, sono

in realtà più misericordiosi, perché il dolore che impongono all’uomo è solo lo

strumento del loro amore.

Sofocle, in una certa misura, ha inventato l'eroe tragico: delle sette tragedie

conservate, una sola, scritta tra il 430 e 410 a.C., è intitolata al modo tradizionale,

secondo la composizione del coro: Le Trachinie. Tutte le altre portano i nomi degli

eroi e delle eroine, investite ormai del privilegio se non di dirigere, almeno di

orientare e condurre l'azione drammatica. Troviamo così la figura dell'eroe tragico,

né completamente uomo poiché possiede qualità più che umane, né completamente

dio dato che resta sottoposto alla volontà divina. Ma, tra l'uomo ed il dio, l'eroe

tragico, rifiuta il destino, si rivolta o, se si sottomette, preferisce morire.

Sofocle, sebbene fosse buon cittadino, amò i ribelli, e il tema della giusta rivolta che

un essere umano promuove contro la ragione di Stato, come abbiamo potuto vedere

nell’Antigone, è al centro della sua opera.

2.1.2 PERCHE’ ANTIGONE

Chi è Antigone ? E’ una eroina del mito greco famosa come personaggio

dell’omonima tragedia di Sofocle, di cui vi sono numerose interpretazioni . Come

personaggio “tragico”, nella finzione del teatro, Antigone interpreta il problema

politico scottante della sua epoca , il V secolo a.C ,il secolo della fondazione della

democrazia, nella “città “per eccellenza, Atene. Antigone, come avremo modo di

vedere in maniera più approfondita, muore per non contraddire la “sua” legge

rispetto l’imposizione di una legge “altra “ ,proveniente da una fonte che lei non

sente di dover rispettare. La domanda a questo punto, che si pone per Antigone e per

la cultura nella quale si consuma quel dramma tra privato e pubblico si consuma

,riguarda dunque la definizione di legge , del nomos .

26

Cosa rende “legge “ ,legittima gli innumerevoli nomoi , le leggi circostanziali che

appaiono in quell’epoca? Che cosa è il nomos, è ancora la domanda essenziale che la tragedia sofoclea

sottointende in modo implicito e profondo.

Antigone fa appello ad una legge assoluta che dovrebbe essere condivisa da tutti per

giustificare l’opposizione ad un editto; parla in una città , Tebe ,presentata come città

del mito.

La Tebe di Antigone non è –né può essere una polis - ma quanto accade in quello

spazio tempo inattuale, nella Tebe mitica,è problema attuale per la polis per

eccellenza, l’Atene di V secolo a.C e riguarda la democrazia. L’Antigone conosciuta,

fulcro della nostra indagine, sulla quale ed intorno alla quale si è esercitata la lunga

riflessione della cultura occidentale, è anzitutto un personaggio mitico catapultato

nella contemporaneità della storia per scelta politica .

Antigone è condannata per aver violato una legge della città, una delle tante leggi

scritte che regolavano le modalità di vita nelle città greche e nei santuari ,leggi che

conosciamo direttamente anche attraverso la documentazione epigrafica che diviene

abbondante proprio a partire dal V secolo a.C.

Antigone definisce la legge di Creonte un “kerygma” ,un comando . Si tratta infatti

di un editto mirato di immediata applicazione nella situazione di disordine seguente

la lotta fratricida che aveva visto opposti i due figli maschi di Edipo. L’editto di

Creonte, come abbiamo visto, vieta la sepoltura di un nemico della città di Tebe,

Polinice, ed è il suo cadavere che la città deve lasciare insepolto. Antigone rifiuta di

obbedire a questa normativa scritta e invoca il rispetto di leggi più alte ,non le leggi

del signore della città ma leggi non scritte degli dei , leggi che non possono mutare,

ed è per questo non hanno bisogno della scrittura. Così dice Antigone.

La figura di Antigone ricorre frequentemente nell’arte e nel pensiero dell’Occidente.

Verosimiglianze e continuità della vicenda di Antigone si possono trovare in molte

opere dei grandi, da Hegel – come vedremo nel prossimo paragrafo - ad altri più

recenti.

Dal momento che la vicenda racconta del suo gesto irrispettoso che viola l’editto di

Creonte, questa viene spesso citata come termine di confronto per la riflessione

politica sulla possibilità d’azione del singolo in opposizione al potere, sulla

27

definizione della giustizia e sulla questione femminile.

Antigone diviene così il simbolo di una serie di contraddizioni che affliggono l’uomo

da quando hanno iniziato a sorgere problemi di contrasto fra la legge di una comunità

particolare e l’ordine della giustizia universale, fra chi detiene il potere e chi

dovrebbe, ma non vuole subirlo, preferendo una giustizia diversa, e, ancora, fra

individuo da una parte e autorità dall’altra.

Di "Antigone” affascina proprio la predisposizione a riflettere sui meccanismi di

funzionamento della città-polis denunciandoli. Lo spettatore, o il lettore, si trova

davanti ad una civiltà che sembra conoscere bene i principi ordinatori che presiedono

alla polis e la sua stessa fragilità. Il contenuto dell’Antigone, con il suo carico di

interpretazioni, continua a rappresentare una sfida per il pensiero, per l’impossibilità

di trovare una risposta univoca agli interrogativi formulati. Il carisma di Antigone, la

pressione che il mito ha esercitato sulla poetica e sulla politica sono inseparabili dalla

presenza di Creonte. Antigone stessa, infatti, è assente da gran parte della tragedia

sofoclea, poiché dopo la sua uscita nella notte, il dramma è di Creonte. I due

antagonisti, simmetrici e contrapposti, dunque, sono necessari l’uno all’altra poiché

non ci sarebbe il mito di Antigone senza un editto da violare, quindi senza la

specularità dei due personaggi centrali.

L’Antigone mostra come entrambi, Creonte ed Antigone, abbiano una visione

univoca e unilaterale della polis; come coltivino un’idea che non esaurisce la

ricchezza della polis stessa.

Tuttavia, la preferenza dei lettori va ad Antigone, perché? Il filosofo francese Paul

Ricoeur tentò di dare qualche risposta: come la commozione che suscita la

vulnerabilità femminile, o la stima per un atteggiamento non violento davanti al

potere, o l’affermazione del “valore della sorellanza come nuova philia”11, così

come la validità del rito della sepoltura.

La filosofa francese Martha Nussbaum, inoltre, ha operato un’analisi originale ed ha

recato risposte convincenti: innanzi tutto la legge non scritta cui Antigone fa

riferimento ha una forza maggiore rispetto al decreto di un governante e soprattutto

dimostra una maggiore comprensione della comunità e dei suoi valori; in secondo

luogo Antigone ricerca la virtù in se stessa e non fa violenza al mondo; infine

11 Francesca Brezzi, Antigone e la philia, le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, 2007

28

riconosce la vulnerabilità della virtù, vulnerabilità femminile: “La complessità della

sua virtù permette ad Antigone un genuino sacrificio all’interno della difesa della

pietà. Muore senza ritrattare nulla, ma è straziata da un conflitto”12 , da qui la

maggiore umanità e ricchezza che si riconosce ad Antigone rispetto al suo

antagonista.

Possiamo dunque affermare che Antigone è profondamente devota e legata ai propri

familiari. A causa di questo suo modo di essere e a causa dei dolorosi avvenimenti

avviene in lei una sofferta maturazione che la spinge a sentire le leggi divine e morali

come l’unica verità che può guidare il cammino dell’uomo. Questo processo di

cambiamento risiede il fascino del suo personaggio, che accetta la morte da persona

coraggiosa, ossia avendone timore, ma sapendo anche che ogni persona deve

affrontarla. Ciò rende il suo personaggio affascinante: ha paura di morire, ma la

ragione e il desiderio di giustizia le fanno superare anche quest’inquietudine.

Il suo unico canone di vita non è l’odio, ma l’amore “ Nacqui a legami d’amore, non

d’odio”13, e in virtù di quest’ultimo agisce e si oppone alle leggi che la sua coscienza

non approva e che a suo parere gli dei non apprezzano. Il fascino di Antigone è

accresciuto quindi dalla sua solitudine, dovuta alla sua inflessibilità.

Da tali caratteristiche proprie della giovane donna, emergono alcune considerazioni

sull’attualità e sulla modernità del personaggio. Infatti, la sua necessità di agire

secondo quella che si definisce “coscienza” e “morale” che porta la giovane ad

opporsi al tiranno è un bisogno dell’uomo di qualsiasi epoca. Non sarà difficile

accorgerci che il rispetto della volontà degli dei è ancora un tema attualissimo , che

ha radici profonde nell’animo umano ed ancora oggi è presente.

12 M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna 1986, cit., p. 156-157 13 Sofocle, Antigone, v. 651 ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966)

29

2.2 IL NOMOS DI ANTIGONE

Antigone è certamente il personaggio centrale dell’opera. Fin nel prologo appare

impegnata nell’azione da compiere, coraggiosa e libera: “ sepoltura a lui io darò.

Bello, in quest’atto, morire. Io, cara a lui che m’è caro, riposerò dopo il santo

delitto.”14; convinta del suo dovere di pietà contro una legge, la cui autorità non

riconosce: “ Non ha diritto di sottrarmi ai miei”15.

Fin dalla prima parte della tragedia quindi, Antigone si mostra a noi come figura

della contrapposizione; per lei sembra non esserci altra scelta, mentre Creonte è

impegnato sul piano politico, disegnando un ritorno ai valori civici consueti.

Il nucleo centrale di tutta la tragedia è rappresentato dai celebri, già citati, versi 560 e

seguenti, in cui Francesca Brezzi rileva che Antigone pone “due apiretiche

contrapposizioni”16 che vanno evidenziate: l’esistenza di due leggi diverse che la

lingua greca indica con grande precisione. Se finora, nel testo, le leggi erano state

chiamate nomoi, ora Antigone distingue tra kerygmata e agrapta, da cui deriva poi la

distinzione tra Divinità della polis e Divinità dell’Ade; da questo momento il

conflitto politico e il conflitto religioso sono profondamente intrecciati, e termini

come themis, dike e nomos si aprono a nuove dimensioni.

E’ questo, dunque, il conflitto forse inspiegabile della tragedia e, da sempre il cuore

stesso dei problemi politici, giuridici.

Al “se la tua mano aiuterà la mia a portare quel corpo a sepoltura ”17 di Antigone, la

sorella Ismene risponde quasi con un grido “ E’ l’assurdo che desideri (…) e il

seguire l’assurdo non è bene”18 . Dunque, se Ismene è rinunciataria di fronte al

potere, Antigone avverte il dilemma e decide di scegliere, dove la sorella non trova

alternativa.

Anche se i termini del conflitto che oppone Antigone e Creonte ci possano sembrare

oggi sfocati, dobbiamo renderci conto del significato fondamentale della sepoltura e

degli onori funebri resi al defunto. In tutte le culture mediterranee, tale significato era

posto a fondamento della vita, ed anche le battaglie si interrompevano, affinché gli

14 Sofocle, Antigone. ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) vv. 94-97 15 Sofocle, Antigone. v. 65 16 Francesca Brezzi, Antigone e la philia, le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, 2007, pag. 82 17 Sofocle, op. cit vv. 59-60 18 Sofocle, op. cit v. 118 e 120

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eserciti potessero seppellire i propri morti. La sepoltura era un atto di pietà dovuto ai

morti e i parenti di sangue ne portavano il dovere primario. Il seppellimento dei

propri cari consentiva alle future generazioni di rivendicare la propria appartenenza a

una stirpe, di vantare una genealogia. Antigone, sorella del defunto Polinice, è fedele

alla legge della pietà verso i propri morti e agisce di conseguenza, fino alle estreme

conseguenze, sfidando l’ordine tassativo di Creonte, il re. In effetti, non si trattava di

un cadavere come tanti altri ma del corpo di un traditore che aveva preso le armi

contro la sua patria; per usare le parole di Creonte, si trattava di couli che “ ritornò

per ardere la terra ch’era sua, con i templi degli iddii che eran suoi, dissetandosi d’un

sangue ch’era il suo sangue, a trascinare schiavi i cittadini”19. Che cosa accadrebbe

della città se il traditore venisse onorato allo stesso modo di chi è caduto facendo il

suo dovere? chiede Creonte, il quale vuol essere fedele alla legge della città.

Antigone è altrettanto certa di non peccare, obbedendo a un’altra legge, non posta in

essere dall’uomo. Quella che esprime non è affatto la voce della pura coscienza,

ribelle all’ingiustizia. Antigone non contrappone la sua morale individuale alla legge,

non pretende di porre sopra la legge positiva la sovranità dell’individuo come

soggetto morale che sfida l’ordine costituito. Antigone, infatti, non è legge a se stessa

ma è irrimediabilmente soggetta a una legge che la vincola oggettivamente, la legge

dei legami familiari, assai più cogente della stessa legge occasionale, imposta dal

potere nella città.

Ecco, secondo me, perché l’Antigone.

2.3 CREONTE E LE SUE RAGIONI

Il Creonte di Sofocle è una figura complessa ed articolata, che avanza le sue

motivazioni e con esse una sfera di valori, quelli del potere. Le sue parole, infatti,

sono parole di guerra, in cui le sfumature sono eliminate, come possiamo vedere nei

19 Sofocle, Antigone, ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) vv. 252 – 256

31

versi: “ E’ decreto: per me, per te, per tutti. Niente indugi.”20.

Sofocle, volutamente, delinea un personaggio che è al tempo stesso un potente

regnante, un orgoglioso ed ironico padre ed un severo giudice.

Se nelle varie riscritture che sono state compiute dell’Antigone si possono

intravedere Creonti odiosi detentori del potere, quello di Sofocle è ricco di sfumature

psicologiche; in lui troviamo un misto di male e di bene.

Nel corso della tragedia, sono molti gli interrogativi continuamente posti e riproposti.

Francesca Brezzi ne individua innanzitutto due: Qual’è la fonte di legittimità delle

leggi? Gli dei, il popolo, il sovrano o la tradizione?; e in secondo luogo: il sovrano è

libero di innalzare a legge ciò che a lui sembra il bene e il giusto, oppure deve

subordinare la sua decisione ad una regola superiore?21

Circa il primo problema, la risposta per Creonte è lampante, egli non riconosce al

popolo tale autorità, che porterebbe altrimenti all’ingovernabilità. Dobbiamo,

dunque, sottolineare il valore politico dell’ordine di Creonte e la logica del potere da

lui impersonificata: Creonte parla da re e, nella Grecia del tempo, il sovrano può

permettersi di emanare editti . Anche per la riflessione politica odierna sono

importanti i principi a cui egli si riferisce: innanzi tutto distingue tra amici e nemici

della città (distinzione basilare per la virtù morale e politica dei Greci).

Inoltre, Creonte rifiuta ogni richiamo ai legami più intimi, contro la politica del

genos egli oppone l’uguaglianza di tutti davanti alla legge.

Emerge, infine, il valore e il coraggio, quasi, di un governante che mette in pratica

ciò che ritiene giusto, rifiutando ogni demagogia, negando ogni alternativa,

rifiutando ogni contestazione alla sua autorità.

In maniera speculare, pertanto, le ragioni politiche di Creonte si riflettono su principi

che assumono valore etico, come per esempio dire e fare ciò che si ritiene giusto,

quale che sia la conseguenza, in ciò con impensabile vicinanza rispetto ad Antigone;

o ispirare i suoi atti al bene pubblico, all’interesse della città, laddove, come

vedremo, Antigone, che parla di valori familiari, sembra richiamarsi ad un ordine di

riferimento più ristretto.

In altri termini, il suo decreto appare quale applicazione logica di questi principi, che

permettono di distinguere i buoni e i cattivi cittadini: il sovrano, comprendendo il 20 Sofocle, Antigone (op. cit.) vv. 715- 716 21 Francesca Brezzi, Antigone e la philia, le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, 2007

32

pericolo rappresentato dal gesto e dalle parole di Antigone per la polis, rappresenta la

ragion di Stato, che porta a preferire un’ingiustizia ad un disordine, sacrificando

l’esercizio dei diritti individuali alla salvezza di una collettività. Creonte quindi non è

un malfattore o un criminale. Contrariamente alla diffusa opinione, non è affatto il

tiranno, preda del delirio d’ onnipotenza,ma la sua sembra più la figura dolente di chi

è consapevole dei prezzi morali che la “ragion di Stato” chiede di pagare a chi è

investito di compiti di governo, che non quella del despota arrogante che pretende

che il suo arbitrio sia legge. Creonte mette così in scena gli inderogabili doveri

dell’uomo di stato e le rinunce personali che essi comportano. A suo modo, è una

figura dotata di una sua etica.

Tuttavia, la parabola umana di Creonte ha un andamento inatteso, il sovrano deciso,

forte e potente si trasforma nel corso della tragedia in un uomo, accecato dal potere

che non sa ascoltare, e tale incapacità emerge drammaticamente nei tre scontri: con

Antigone, con Emone e con Tiresia.

Abbiamo prima accennato all’impensabile vicinanza con Antigone e questo aspetto

corre quasi nascosto lungo tutta la tragedia per uscire fuori al termine :” Creonte è la

controparte commisurata di Antigone. Il problema consiste nella vera natura della

loro parità dialettica”22, così Stainer sottolinea come i caratteri dei due protagonisti

presentino gli stessi spigoli taglienti.

Tale simmetria e parallelismi nelle antitesi, si leggono al termine, nelle parole di

Creonte che sembra quasi ripetere, nel richiamo a leggi eterne, il linguaggio di

Antigone; ne emerge la solitudine del re e la sua essenza di personaggio tragico ma si

deve trovare il contrasto fondamentale tra la follia dell’autosacrificio da un lato e la

follia sregolata dell’illegittimo rancore.

Possiamo adesso mostrare la sua colpa, che lungo tutto il testo non è apparsa in

maniera esplicita: Creonte ha sempre dichiarato di agire seguendo la giustizia, ma

non ha ascoltato i comandamenti degli dei, un fraintendimento o la confusione lo ha

portato alla rovina e la solitudine finale pesa in maniera significativa.

La figura di Creonte, così ricca di umana drammaticità, è stata oggetto, nei secoli, di

interpretazioni diverse. Espressi magistralmente dall’arte di Sofocle, risultano

evidenti dalla psicologia di questo personaggio, innanzi tutto i suoi grandi difetti di 22 George Steiner, Le Antigoni, un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’Occidente, Garzanti Editore 1990

33

carattere: l’orgoglio smisurato, l’arroganza, il comportamento presuntuoso. Non

ammette né i suoi torti né i suoi difetti. Non è disposto a riconoscere a nessuno il suo

diritto ad opporsi al suo volere di tiranno.

Quando emana il famoso “decreto”, Creonte è convinto di agire secondo giustizia;

quel bando , per lui, è più che legittimo: è sacro, perché voluto dagli dei come giusta

punizione da infliggere a Polinice. Per questo motivo, non riesce a capire come

Antigone vi si opponga. E’ lei, dunque, la sacrilega,colei che offende la volontà degli

dei, della quale egli è l’unico custode. Da qui l’odio per la fanciulla, odio che si

allarga a macchia d’olio, non tanto per il fatto in sé degli onori resi alla salma di

Polinice, quanto perché Antigone vuole arrogarsi il diritto di difendere una legge

divina che egli crede di rappresentare.

Ma Antigone, non costituisce solo un’offesa al suo io, ma rappresenta anche

l’antitesi ideale di ciò che egli vorrebbe essere e sente di non poter essere. Nella

ribellione di Antigone, Creonte sente una grandezza morale che lo impressiona e lo

scuote, vede in quell’eroina una potenza ed una virtù che a lui mancano.

Al verso 168 Creonte dichiara apertamente come egli intenda la responsabilità del

governo: “è impossibile penetrare a fondo anima intelligenza e carattere di un uomo,

se costui non ha rivelato se stesso nell’esercizio del potere e delle leggi. Per me che

governa lo stato senza attenersi alle decisioni più giuste, ma tiene la bocca chiusa per

qualche paura, non da ora io lo stimo un essere spregevole; e parimenti non ho

nessuna considerazione per chi tiene un amico in maggior conto della propria

patria”23.

E dopo aver spiegato perchè Polinice deve rimanere insepolto, nei già citati vv 252-

256, conclude dicendo: “Il mio volere è questo: mai da me i malvagi riceveranno più

onore degli uomini giusti; ma io onorerò chi è devoto a questa città, da vivo e da

morto”24.

23 Sofocle, Antigone ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) vv. 225-234 24 Sofocle, Antigone ( op. cit.) vv. 262-265

34

2.4 PROBLEMATICA DEL CONTRASTO

Come abbiamo detto nei precedenti paragrafi, lo scontro tra Antigone e Creonte, che

si riferisce al contrasto tra leggi divine e leggi umane, è espresso tramite

l’incomunicabilità tra le diverse concezioni politiche dei due personaggi; non si

riesce infatti a trovare un punto di accordo tra i cosiddetti "agràpta nòmima", ossia

l’insieme di leggi consuetudinarie, ritenute di origine divina e il "nomos", il

complesso delle leggi della polis di stampo democratico. Il divieto di Creonte è

l'espressione di una volontà tirannica, basata sulla legge sovrana, egli infatti pone tali

leggi democratiche al di sopra dell’uomo e del divino. In questo senso Creonte

assume la figura del despota chiuso nelle sue idee, attento alla propria immagine e

timoroso di apparire debole di fronte una donna. Quanto ad Antigone, il principale

punto di forza del suo ragionamento si fonda sul sostenere che un decreto umano.

Il conflitto tra Creonte ed Antigone non è una disputa familiare ma, nell’Atene di

quegli anni, traduce bene il problema che Sofocle vuole rappresentare agli ateniesi.

Da un lato vi è una donna, che combatte contro il potere assoluto del re in nome

dello’ius’, un diritto arcaico, ‘naturale’, che discende dagli dei, che trova legittimità

nei legami di sangue con il fratello. Una donna coraggiosa che viola il

comandamento di Creonte per onorare un componente della sua famiglia, anche se

questi è caduto combattendo contro la propria patria.

Da un lato, potremmo dire, le radici antiche della città, lo ‘ius’ non scritto che trova

forza nel culto dei morti, nel rispetto della tradizione, nei legami famigliari e nella

fedeltà degli affetti, di cui l’elemento femminile è depositario. Uno ‘ius’ che, in

nome del ‘diritto naturale’, contesta la legittimità della legge positiva.

Dal lato opposto, la forza di una città-stato che sta vedendo la luce, che vuole darsi

una sua struttura giuridica, la bozza di una legislazione che si affacciava sulla scena

politica per la prima volta e che era fortemente contestata, una città che tende a

divenire egemone nel panorama geopolitico di quel secolo, che vuole darsi una sua

organizzazione statutaria e che, attraverso la legge scritta, la ‘lex’, spezza,

inevitabilmente potremmo aggiungere, l’unità dei legami e dei favori personali e

famigliari, ‘lex’ che travolge amore paterno e fraterno e che, dunque, ignora i vincoli

del sangue e ‘stravolge’ lo ‘ius’, così come era oralmente tramandato a quel tempo.

Legge che, come tale, non può che essere ‘erga omnes’ e che è garantita dal re,

35

unico e supremo legislatore.

La tragedia termina con la morte dei due protagonisti. Morte fisica per Antigone e

morte ‘spirituale’ per Creonte, rifiutato dai suoi concittadini e dalla sua stessa

famiglia.

Ma al di là di come Sofocle termina la tragedia, rimane il dilemma di fondo:

Antigone rappresenta davvero il simbolo del diritto e della giustizia? E Creonte è sul

serio l’archetipo della legge?

Nell’Antigone di Sofocle è così rappresentato il dualismo del Diritto contro la

Legge. Antigone è il Diritto, Creonte è la Legge. Ciò che Antigone contesta a

Creonte non è tanto la facoltà di legiferare ma la legittimità della sua legge, che

Antigone non riconosce perché la trova in conflitto con il diritto ‘naturale’.

Si tratta di uno scontro politico che contrappone due esseri, le cui forze sono

diseguali, e sottolineo l’aggettivo “politico”, perché anche quella di Antigone è

un’azione pubblica che coinvolge l’identità politica dei due protagonisti: alla

distinzione amico-nemico, lei contrappone l’uguaglianza dei morti, e se in tal modo

sembra far leva sui sentimenti, sulle emozioni, sulla pietà e sulla paura della fine, il

suo gesto non è un atto privato.

La vicenda della tragedia evidenzia anche uno scontro etico, dove la posta in gioco

per entrambi i protagonisti è la giustizia

Il contrasto di Antigone con Creonte può essere ulteriormente letto anche come

inconciliabilità di piani: l’uno parla ed agisce nella temporalità, l’altra a partire

dall’eternità .

Possiamo concludere dicendo che Sofocle non dà risposte, anzi la tragedia

estremizza il contrasto, i personaggi sono saldi nelle loro opposte concezioni, ciechi

entrambi, e forse il compito pedagogico del racconto tragico è proprio quello di

mettere i scena la transazione dai vecchi ai nuovi valori.

Come già più volte abbiamo notato, la complessa ambiguità della questione è

difficilmente risolvibile: se prendiamo la distinzione tra norme e principi, Antigone,

con il suo richiamo alle leggi non scritte, sembra aprire orizzonti e dimensioni nuove

anche per la nostra riflessione.

Quindi, il conflitto delineato da Sofocle mantiene la sua continua attualità proprio nel

mostrare lo scontro tra codici arcaici da un lato e una nuova razionalità dall’altro.

36

La tragedia non consiste nello scontro tra l’individuo e la totalità, e neanche nel

tentativo di una legge illegittima, quella di Creonte, di sostituire l’unica legge

legittima, quella di Antigone. E’ integralmente nello scontro tra le due leggi che

hanno entrambe la loro ragion d’essere: l’una, quella di Antigone, è inconsapevole,

inespressa, oscura, legata al mondo del passato, cioè alla tradizione; l’altra, quella di

Creonte, è consapevole, chiara, promulgata alla luce del sole, legata alle ragioni del

presente. E’, in sostanza, lo scontro di due legittimità. La donna non è in nessun

modo autrice del diritto cui ubbidisce, ne è plasmata. L’uomo, a sua volta, ubbidisce

a un compito, il governo della città, che non può rinnegare, ritirandosi per motivi

sentimentali quali l’amore verso i familiari, la legge che egli stesso ha posto

nell’interesse della città.

Creonte e Antigone seguono rigorosamente, fino alla loro fine, la legge che li

riguarda e, per questo, entrambi sono figure morali, senza cedimenti. Antigone

muore; Creonte ha un destino, sotto certi aspetti, ancora peggiore: non può morire

perché deve continuare a governare, perché è soggetto a un dovere pubblico al quale

non può sottrarsi con un atto di volontà personale, come il suicidio. Possiamo

affermare che questa è l’essenza della tragedia.

Se si segue l’andamento dell’azione tragica e, in particolare, il mutamento di

posizioni espresse dal coro (il coro rappresenta la voce della città, in certo senso al di

sopra delle parti sulla scena), si comprende il senso della lezione civile che si voleva

impartire ai cittadini di Atene: la legge di Creonte e il diritto di Antigone sono due

lati della realtà che devono convivere. L’invito alla moderazione e alla saggezza che

conclude la tragedia e l’invito a considerare l’essere umano e ogni sua cosa da

entrambi i lati nel caso nostro, considerare il diritto anche dal punto di vista della

legge, e la legge anche dal punto di vista del diritto. L’intera tragedia può essere

interpretata come l’intransigenza delle due parti e l’incomunicabilità tra le rispettive

ragioni77. La stessa Antigone dice: “Lo sai pure: di tutte le parole tue, non una piace

a me, né potrebbe mai piacermi. E allo stesso modo a te dispiacciono le mie”25.

Per parte sua Creonte espone la ragione del diritto positivo, della disposizione di

legge, e verso il figlio venuto a perorare la causa di Antigone ha queste parole: «

Ubbidire, ubbidire, e nel molto e nel poco, nel giusto e nell'ingiusto, sempre e

25 Sofocle, Antigone, ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) vv. 619- 621

37

comunque, all'uomo che sia posto al timone dello Stato. È l'anarchia il pessimo dei

mali: distrugge le città e sconvolge le case, mette in fuga e fa a pezzi gli eserciti in

battaglia. Ma è l'ubbidienza, l'ubbidienza ai capi la fonte di salvezza e di vittoria. Noi

dobbiamo ubbidire alle leggi, alle leggi scritte». Così posta, non è meno vera la

preoccupazione di Creonte.

Creonte ed Antigone cercano di portare, nel loro braccio di ferro, le divinità dalla

loro parte. Ciascuno dà ai suoi principi, il diritto del genos per Antigone che esige di

compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni

con gli dei, contro il diritto della polis attestato da Creonte che esige che le decisioni

dell'autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica, un valore

assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti .

La colpa interiore tragica che prova Antigone nasce appunto dal contrasto e dalla

consapevolezza di sentire che la propria legge interiore, connaturata in lei come in

tutti noi, che ci riporta alla legge "naturale" non scritta, è prevaricata da un'altra

legge, questa volta imposta dagli uomini, e inoltre dalla domanda spontanea che ci

facciamo quando qualcosa che sentiamo come giusto nel profondo stride e si scontra

con quello che ci proviene dall'esterno.

38

CAPITOLO 3

LA POLIS ED I SUOI CITTADINI “Non ti vergogni d’avere pensieri così lontani da quelli degli altri?”26.

E’ in questi versi di Creonte, che ritengo si possa dedurre quell’insieme di valori,

quel a priori che non possiamo tralasciare nel nostro viaggio alla scoperta

dell’Antigone, poiché rappresentano gli ideali della cultura, della civiltà dov’è

inserita la nostra protagonista.

Credo, inoltre, che sia solamente in virtù di alcuni concetti fondamentali, che

caratterizzarono il mondo antico, che ci sarà possibile comprendere le azioni dei

personaggi della tragedia di Sofocle.

3.1 ETICA E LEGALITA’ Il rapporto fra legge etica e giuridica si è strutturato e articolato nei secoli, nei

momenti di maggior crisi ed inquietudine, di tensioni, di leggi e tradizioni che si

incontrano e scontrano, tanto che l’Antigone si conferma da sempre, oltre che

tragedia, punto fra i più alti della letteratura greca, paradigma e spunto di riflessione

di una rivoluzione morale e antropologica. La legge e la sua storia non sono altro che

il prodotto del rapporto lex- ius.

E non sembra essere mai stata così attuale come nel XXI secolo, in cui la sacralità

del diritto è stata rimpiazzata dall’esteriorità ingombrante della legge.

Lo Stato è una macchina legislatoria, le leggi hanno travolto ogni ambito umano, 26 Sofocle, Antigone, ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966) vv. 635-636

39

pubblico, ma anche privato.

In questo celebre canto corale, cui peraltro fa seguito l'episodio centrale del dramma,

ossia lo scontro tra Antigone e Creonte, Sofocle sviluppa una intensa riflessione sulla

condizione dell'uomo, in cui si intrecciano problematiche di natura etica e politica.

Notevole, in particolare, è la forza dei versi iniziali, nei quali il coro esprime la

meraviglia e lo sgomento dell'uomo di fronte al mistero del suo stesso essere.

Sofocle insiste sulla follia e l'assurdità della intransigenza di Antigone, ribelle alla

legge; il suo comportamento è, agli occhi del Coro, più colpevole di quello di

Creonte. Sofocle tuttavia, implicitamente, parteggia per Antigone e così - si può

supporre - anche i suoi concittadini, partecipi dell'azione tragica, si schierano dalla

sua parte. Si conosce comunque abbastanza dell'Atene del V secolo per comprendere

che dietro il contrasto tra il diritto di Antigone e la legge di Creonte stava un conflitto

tra resistenze arcaicizzanti e tensioni modernizzanti nel governo della città.

La lotta mortale di Antigone e Creonte metteva i cittadini di Atene, riuniti nella

rappresentazione teatrale, di fronte al non risolto contrasto politico di cui abbiamo

fatto cenno nel capitolo precedente che, a quel tempo, divideva gli animi e le fazioni.

Da una parte, le radici tradizionali della città, lo ius "non scritto e non mutabile, non

è d’ieri né d’oggi, ma da sempre vive: e quando diede di sé rivelazione, è ignoto27".

Lo ius, che vale per le cerchie umane vincolate da comunanza di sangue e che ha al

suo centro la famiglia, è radicato nei legami vitali e quindi anche nel culto dei morti.

E’, inoltre, unito dal senso dell'onore e della fedeltà, di cui è depositario l'elemento

femminile della società.

Dall'altra parte, la forza innovatrice di una società-stato proiettata a divenire potenza

dominante del mondo greco, fondata su leggi che devono valere universalmente. Ma

si tratta di leggi che esigono ubbidienza uniforme e incondizionata, che spezzano

l'unità dei legami interpersonali e familiari, travolgono eros, amore coniugale,

sentimento paterno, fraterno e filiale, ignorano la contiguità del sangue e sono

garantite dall'elemento maschile della società, il re, unico e supremo legislatore.

Antigone, la giovane dall'innocente fede nella santità dei vincoli di sangue, che vìola

il bando di Creonte, non è però propriamente l'eroina della giustizia, della coerenza

morale assoluta e della ribellione al sopruso.

27 Sofocle, Antigone, vv. 566-569 ( cit. trad. Einaudi, Torino, 1966)

40

Si prenda come esempio la frase pronunciata da Antigone nel momento in cui

ammette davanti a Creonte il proprio misfatto: “Io lo confermo, si, non nego il

fatto”28

Nella prima battuta della sua risposta, Antigone compie un’affermazione, cioè un

riconoscimento dell’autorità che Creonte, colui che ha posto la domanda, esercita su

di lei. Nella seconda battuta Antigone si rifiuta di compiere una negazione,

aggravando la sua situazione, dal momento che non si limita a disobbedire all’editto,

ma ripete il suo atto criminale rifiutando di negare di essere stata lei a commetterlo.

Il linguaggio di Antigone, attraverso questa ulteriore insubordinazione, si appropria

così della retorica e delle possibilità d’azione dello stesso Creonte e assume gli stessi

toni della legge a cui si oppone: la sua non diventa la politica della purezza e

dell’opposizione, ma quella di chi è impuro.

Possono sorgere diversi dubbi in merito: se la legge morale fosse assoluta, cioè se

fosse qualcosa dentro di noi, non ci sarebbe opposizione tra legge positiva e

coscienza morale e, quindi, potremmo riuscire a stilare leggi positive che non siano

in contrasto con questa legge morale assoluta. Il dramma dell’esistenza umana è che

ciascuno di noi percepisce, un comandamento, in maniera diversa non soltanto nelle

diverse culture o epoche, ma anche fra i diversi esseri umani.

Nel caso specifico, l’elemento tragico dell’Antigone sta proprio qui. Se fosse soltanto

che Antigone si trovi nel giusto e Creonte nel torto, non sarebbe una tragedia ma una

favola con uno scopo educativo. La tragedia, perciò, la troviamo nella non

risolubilità del conflitto tra assoluti: l’assolutezza della legge positiva e l’assolutezza

della legge morale.

3.2 IL PENSIERO POLITICO GRECO Nella Grecia del V e del IV secolo, demokratia è una parola polemica e di "lotta" che

esprime il carattere aggressivo di questa forma di governo che viene intesa come

kràtos, cioè come dominio esclusivo ed anche violento di una parte (il popolo)

28 Sofocle, Antigone, v. 552 (op. cit.)

41

sull’altra, sui propri avversari. Il significato attuale ha perso completamente ogni

connotazione di tale genere ed esprime valori del tutto assenti dalla nozione greca ed,

anzi, opposti ad essa.

Oggi con la parola democrazia, si intende far riferimento ad un sistema politico

caratterizzato dalla tolleranza e cioè da una situazione in cui posizioni differenti si

scontrano, ma senza violenza e prevaricazione e con reciproca accettazione. Sarebbe

quindi errato, allorché si intende indicare la nozione greca di democrazia, il far

riferimento al significato attualmente attribuito a tale espressione.

Mentre nel quinto secolo la democrazia era innanzitutto "politica" e cioè si esplicava

essenzialmente sul piano politico e non solo sul piano economico, nel quarto secolo

emerse la contrapposizione tra il ceto popolare, in quanto privo di ricchezze e il ceto

di chi aveva le proprietà e la ricchezza.

Nella seconda metà del IV secolo la democrazia, oltre a colpire sul terreno

dell’economia diviene "totalizzante" poiché coinvolge tutte le attività del cittadino

che esercita il suo kràtos sia come uomo politico che come giudice e, comunque, in

modo molto ampio addirittura utilizzando un’azione di censura e di intervento

nell’elaborazione artistica, determinando ciò che i comici devono dire ed esprimere.

Va evidenziato che non esiste una teoria della democrazia greca elaborata da chi

sosteneva tale istituto e che le uniche teorie in proposito possono essere ricavate da

ciò che ne hanno detto i suoi avversari.

Il pensiero politico greco tenta di superare questo contrasto nella concezione di

democrazia, introducendo un concetto correttivo valido per ciascuna forma

costituzionale, prevedendo una forma buona ed una cattiva per ognuna di esse e,

quindi, una buona ed una cattiva democrazia, un buona ed una cattiva oligarchia, una

buona ed una attiva monarchia (tirannide). Ciò significa che ogni forma

costituzionale presenta delle possibilità positive e delle possibilità negative che

permettono di esprimere, in ogni situazione della gente che difende i propri beni.

Ciò si realizza soprattutto nel IV secolo ed è caratterizzata dal costante scontro,

soprattutto sulla ricchezza connessa con l’iniziativa del popolo volta

all’appropriazione di essa. La politeia per Aristotele è una forma ideale di

costituzione mista, in cui convivono in armonia un po’ di monarchia, un po’ di

oligarchia e un po’ di democrazia.

42

Inoltre va evidenziato il limite preciso della riflessione politica greca, costituito dal

fatto che essa non ha approfondito a sufficienza e risolto il problema fondamentale

sulla natura del regime che si instaura quando il demo esercita il kràtos :questo è un

regime di democrazia e di libertà o di oligarchia e tirannide?

La democrazia ateniese caratterizzata dall’esercizio del kràtos e, quindi, anche dalla

legge imposta dal demo senza il consenso generale, è stata effetto di varie critiche. In

particolare i sofisti hanno evidenziato la contrapposizione tra la legge così imposta e

la natura, poiché quella è spesso in contrasto con i principi fondamentali della natura.

Per natura tutti gli uomini sono uguali e devono essere trattati allo stesso modo: la

legge, al contrario, introduce spesso situazioni di disuguaglianza e di prevaricazione,

ad esempio prevedendo categorie di uomini liberi e di uomini schiavi in contrasto

con l’uguaglianza naturale. Questa teoria è, evidentemente, critica verso il regime

democratico di Atene, che è fondato proprio sulla disuguaglianza e sulla

prevaricazione di chi fa parte del demo nei confronti di chi ne è escluso.

3.3 RIFERIMENTI AL MONDO ANTICO Il più antico regime democratico prevede la partecipazione all’Assemblea

esclusivamente di coloro che godono della cittadinanza. Di fondamentale rilevanza è,

quindi, l’accertare chi godesse di essa nella città antica. In Atene potevano essere

cittadini i soli maschi adulti, figli di padre e madre ateniesi liberi dalla nascita, in

grado di combattere e, quindi possidenti, poiché solo chi aveva ricchezza poteva

sostenere i costi per l’acquisto delle armi. Di conseguenza una grande parte della

popolazione, cioè i nullatenenti ed i figli di un solo genitore libero, erano esclusi

dalle funzioni politiche cittadine.

Il Pericle tucidideo, descrivendo il sistema politico ateniese, pone una

contrapposizione tra democrazia e libertà. Nella polis, sembra prevalere la violenza,

tanto da assumere le caratteristiche proprie della tirannide, prima fra tutte la

rivendicazione da parte del popolo del diritto di essere al di sopra della legge,

rivendicazione questa che è propria anche del tiranno. Per altro, nel linguaggio

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politico ateniese si afferma anche il ben diverso concetto che colloca, da un lato la

democrazia e la libertà e, dall’altro, l’oligarchia e la tirannide. Il che significa

contrapporre, alla libertà democratica, la non libertà della tirannide e dell’oligarchia.

Verosimilmente tali contrastanti teorizzazioni della democrazia sono connesse con il

fatto che, in concreto, la democrazia, nella Grecia classica, è sorta da un

compromesso tra popolo e signori ai quali il popolo affida il governo della città

democratica, signori che ritengono tale regime accettabile perché depurato da ogni

residuo tirannico.

Altri pensatori greci, approfondendo il problema, si orientano nel suddividere ogni

forma politica in due sottotipi, quello buono e quello cattivo e Aristotele, addirittura,

usa due termini parlando di politeia per la democrazia buona e di demokratia per la

democrazia irrispettosa della libertà. Emerge anche il concetto per il quale ogni

forma politico/costituzionale degenera nella sua faccia deteriore e, in tal modo, da

una costituzione si passa ad un’altra.

3.3.1 LA POLIS Principalmente nel periodo della polis (VI-III secolo a.C.) la religione ebbe una forte

impronta sociale. La polis si definiva soprattutto come comunità culturale; segni

distintivi della municipalità erano i templi, che fungevano anche da archivio e da

tesoro. Le assemblee popolari e i processi si svolgevano in luoghi purificati con

sacrifici di maiale. Tra le funzioni principali dei magistrati rientrava la celebrazione

di importanti culti e anche la guerra era inserita in una cornice rituale, dai sacrifici

che precedevano la partenza dell'esercito ai festeggiamenti per la vittoria e all'offerta

del bottino alla divinità. All'ambito culturale appartenevano anche i giochi sportivi e

gli agoni drammatici inseriti nel quadro delle feste religiose. Alla celebrazione del

sacro partecipava l'intera comunità; la molteplicità dei culti e delle occasioni festive

faceva sì che tutti i membri del gruppo, uomini e donne, vecchi e giovani, liberi e

schiavi, potessero recitarvi un ruolo. Per l'assenza di un vero e proprio ceto

sacerdotale toccava ai poeti l'elaborazione e la trasmissione dei racconti teogonici e

44

cosmogonici. La religione greca fu dunque caratterizzata da un politeismo creato

dalla tradizione poetica, da Omero ed Esiodo in particolare.

La polis è un prodotto naturale nel senso che cresce in virtù delle dinamiche interne

ai suoi stessi componenti, ed altrettanto naturale è la configurazione dell'uomo quale

“zoon politikon”29. Chi è senza una polis di naturale riferimento, non per semplice

sventura ma per sua scelta, è certamente una persona malvagia oppure è un essere

superiore. L'uomo munito di una polis possiede anche ciò che gli farà dire e

distinguere il giusto e l'ingiusto, il bene e il male.

Questo gli consente di vedere la famiglia e la polis, anteposta alla sua esistenza,

come avviene per il tutto rispetto alla singola parte. Quando non si riesce a entrare in

comunità, o non si avverte il bisogno di farlo, la propria natura decade a livello della

bestia oppure s'innalza a livello della divinità. Individuo può perciò indirizzarsi ai

fini opposti. Ma la vera giustizia, che non a caso è attribuita all'assetto politico,

consiste nell'esprimere la propria rettitudine e giustezza a regola della comunità e

farne motivo ispiratore del giusto vivere.

Se la polis è composta di famiglie, non deve meravigliare che si parta dal modello

familiare di economia e dalle implicazioni presenti nei suoi rapporti basilari. In tale

modello, si confondono le figure del despota, dell'uomo politico e del re, nel senso

che tutte sono indotte a occuparsi dei beni in una dimensione domestica.

Dalla parola polis deriva politeia, la cui traduzione italiana costituzione, non

corrisponde al significato in cui era usata dagli scrittori greci: infatti con la parola

costituzione indichiamo il sistema delle norme giuridiche che garantiscono i diritti

dei cittadini, che regolano la procedura di formazione della legge e che istituiscono

gli organi che amministrano il potere sovrano.

Per il greco, invece, il significato della parola politeia comprendeva non solo il

complesso delle istituzioni più propriamente politiche, ma anche tutte le altre

istituzioni mediante cui si organizza la vita della polis, con diretto riferimento al

costume, consuetudini, morale, religione e alle forme di culto. Politeia significa, più

propriamente, modo d'essere della polis30, considerata come un tutto organico.

Per la civiltà greca la politica non si realizza solamente in questo, ma deve

29 G. F. Lami, Socrate Platone Aristotele. Una filosofia della polis da Politeia a Politika, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 30 Mario D’Addio, Storia delle dottrine politiche, Genova, ECIG, 2002

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completarsi nel pensiero, nella comprensione razionale della polis. In questa

prospettiva, politica significa la capacità dell'uomo di razionalizzare i rapporti che

istituisce con i suoi simili, gli scopi che si propone di conseguire ed i comportamenti

idonei a conseguirli.

La politica implica, nella concezione greca, il primato del logos. Logos significa

parola e ragione: la parola, che riesce ad esprimere le nostre sensazioni, sentimenti,

passioni, si essenzializza quando scopre la sua connessione con la ragione, con la

conoscenza e quindi con il discorso, infine con la dimostrazione pratica scientifica: la

parola è la manifestazione del logos in quanto ragione.

Essa costituisce l'origine della polis e quindi della politica: la parola, infatti, libera

l'uomo dal flusso continuo di impressioni, di sensazioni che ricevere dal mondo

esterno, le fissa, le stabilizza, e ne fa un oggetto di conoscenza. Mediante la parola

l'uomo da un nome alle cose, le fa esistere nel suo mondo e proprio perché le ha

determinate, può servirsene.

L'intimo nesso che la civiltà greca stabilisce fra il logos e la politica intende

esprimere l'esigenza per l'uomo, di pervenire ad una comprensione razionale della

polis e quindi ad una disciplina nazionale di tutti comportamenti che sono indirizzati

all'esistenza della polis. La politica diventa quindi la forma di conoscenza che ha

come oggetto la polis, una conoscenza che può assurgere al rango della scienza. Da

questo punto di vista, il contributo della civiltà greca al pensiero politico è veramente

essenziale: ha affermato e dimostrato la intrinseca razionalità della politica, ha

individuato gli ideali , i concetti fondamentali che ci consentono di concepire

l'attività politica in modo organico e sistematico, e quindi di fare politica.

Nella relazione che si instaura tra uomo e donna, alla guida dell'economia domestica,

il comportamento di entrambi suscita un richiamo analogico nel governo della città,

quando a governare è un uomo politico in cerca del favore popolare. Nella relazione

tra padre e figli, invece, sembra di essere alla presenza di un re, il quale attende alla

loro educazione in modo autorevole. In entrambi i casi, occorre dare rispetto a chi

detiene il rango primario: l'uomo.

46

3.3.2 LA LIBERTA’ DELLA POLIS Nelle guerre persiane si espresse la profonda aspirazione alla libertà del popolo

greco, che si coalizzò per far fronte alla comune minaccia di un'invasione persiana.

Ma questo stesso impulso verso la libertà grazie al quale i Greci riuscirono a

difendersi dal dominio straniero, sul fronte interno si presentava come desiderio di

ogni singola polis a preservare la propria libertà, la propria autonomia. Questo fu il

motivo che impedì la formazione di un organismo statale.

In seguito alla vittoria greca nelle guerre persiane, per evitare una vendetta da parte

del re, fu stretta un'alleanza fra gli Ateniesi e gli Ioni: un'alleanza che, inizialmente

piuttosto elastica, si trasformò in predominio della città di Atene. Non fu possibile

per Pericle istituire un diritto di cittadinanza comune, perché a fondamento

della polis vi era l'esercizio personale del diritto di voto da parte di ogni cittadino,

cosa possibile in territori limitati.

L'abbattimento, nel 404 a.C., delle Lunghe Mura di Atene, atto terminale della guerra

del Peloponneso e fine dell'egemonia ateniese, fu salutato come "inizio della libertà"

per la Grecia. Ma proprio la polis spartana, uscita vittoriosa da questa guerra, assunse

il ruolo che la rivale era stata costretta ad abbandonare. L'avversione del popolo

greco ad ogni legame e subordinazione provocò una reazione antispartana, che portò

alla costituzione di una lega guidata da Atene, ma da allora le

parole autonomia e eleutheria indicarono la piena parità fra gli aderenti ad

un'alleanza.

Il senso greco di libertà si manifestò ancora una volta contro Filippo il Macedone,

che però riuscì a vincere le forze elleniche e a costringere tutte le città ad associarsi

in una confederazione sotto al suo dominio. Ma questa unificazione dell'intera Ellade

realizzatasi nella lega di Corinto avvenne solo per pressioni esterne e il dominio della

Macedonia, uno stato comunque affine alla Grecia, era interpretato come signoria

straniera e privazione della libertà.

Eguaglianza e libertà sono le basi della democrazia ateniese. Nell’epitaffio di Pericle,

lo storico Tucidide spiega il suo ideale politico e lo fa con un costante raffronto fra la

sua città, Atene, e Sparta. Per tutte le stirpi greche, la libertà era un bene supremo;

così era anche per Sparta, ma ai singoli abitanti bastava l’indipendenza della patria.

Anche gli Ateniesi avevano una spiccata sensibilità statale e disposizione al

47

sacrificio, ma per loro non era tollerabile trascorrere la vita soggetti alla coercizione

dello stato.

Al totalitario stato spartano Pericle antepone la concezione statale ateniese. Ad Atene

la sfera privata è separata dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare ogni ingerenza

e di lasciare ad ogni cittadino la possibilità di strutturare liberamente la propria vita.

Il simbolo della democrazia per gli Ateniesi era l’invito dell’araldo, che chiedeva se

qualcuno volesse prendere la parola. Secondo Pericle, poi, ogni cittadino è in grado

sia di occuparsi degli affari privati sia di formulare il proprio giudizio in merito a

quelli pubblici.

L’opposizione fra le forme statali in vigore a Sparta e a Atene deriva da una diversa

volontà politica, alla quale contribuisce il diverso peso che viene dato nelle

due polis alla personalità individuale. Anche a Sparta, come nelle altre città greche,

si formarono uomini di notevole levatura, ma essi rappresentavano soltanto il loro

mondo: non si ponevano come individui singoli e il loro valore non scaturiva da

sorgenti interiori. Per primo fu l’ateniese Temistocle ad essere apprezzato come

l’uomo che aveva salvato la Grecia con le sue doti personali. Per la prima volta

Tucidide lo indica come individuo che ha messo il suo genio a servizio della

collettività.

E’ lo stesso Pericle a precisare che uguaglianza indica, nel diritto privato, l’essere

tutti uguali davanti alla legge, mentre in ambito politico l’abolizione di privilegi di

nascita e censo, ma non lo stesso grado di influenza sulla collettività.

Senza la concezione periclea di libertà e uguaglianza, non potremmo conoscere il

liberalismo moderno, che però nasce da una mentalità individualistica, mentre per

Pericle l’individuo deve sì essere socialmente libero, ma sopra di lui è la polis che

obbedisce a leggi proprie. Lo stato ha la priorità perché è la sola comunità di

formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal benessere della quale

dipende quello del singolo. Di conseguenza l’individuo poteva usufruire della sua

libertà subordinatamente agli interessi della società. La valutazione della persona,

comunque, andava oltre al semplice concetto di democrazia e aprì un nuovo

momento nel pensiero politico greco.

La politeia, come stato democratico, era per i Greci non una costituzione scritta, ma

la forma di vita creata da un popolo in base alla sua natura e alla sua indole. Gli

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avversatori di questa forma attaccavano in modo violento la parole uguaglianza e

libertà: all’uguaglianza "aritmetica" veniva contrapposta un’uguaglianza

"geometrica", che non concedesse uguali diritti a uomini non uguali ma che li

graduasse in base ai meriti, e la libertà democratica diveniva sinonimo di sfrenatezza

e arroganza. In effetti sull’ideale democratico di libertà – per sfuggire al servilismo

nei confronti di un despota – ricadeva il rischio della sfrenatezza assoluta, un rischio

che lo stesso Pericle vide. Egli afferma che, se nella vita privata ognuno è totalmente

libero di compiere ciò che più gli piace, in quella pubblica evita, per timore, di tenere

una condotta illegale. Il timore di cui parla lo statista ateniese è un timore etico, è

paura di violare i limiti che i doveri verso la società impongono alla libertà

individuale. Pericle, rifiutando la coercizione spartana ma ritenendo che il timore

etico sia innato in tutti popoli, sostiene che è necessaria l’ubbidienza volontaria, ma

più che altro la intende come esigenza ideale.

Possiamo definire la libertà come fattore creativo nella vita culturale, poiché è su

questa base culturale si svilupparono grandi personalità che aprirono nuove vie su

tutti i fronti. La libertà permise il progresso dell’indagine scientifica. La libertà

spirituale di uomini come Eschilo, Sofocle e Euripide permise loro di creare opere

ispirate alla loro personale concezione della vita. Autonomia e libertà caratterizzano

lo spirito di costoro, anche se ciò non implica soggettivo arbitrio perché per i Greci

l’elemento creativo nell’arte non significa libera fantasia, bensì imitazione di una

realtà oggettiva. Nella tragedia quanto più scompare la divinità, tanto più si afferma

l’uomo nella sua tragicità individuale. Nella scultura emerge lo sforzo di ritrarre la

figura umana. Questo nuovo spirito non si prefigge di rinnegare gli antichi canoni:

rappresenta non un declino ma uno sviluppo. La centralità dell’uomo espresso

nell’arte si trasferì anche al pensiero.

3.3.3 LA CITTADINANZA La cittadinanza antica è intesa come partecipazione alle sorti, anche militari, della

comunità, e quando, nel V secolo, la flotta diventò la componente principale della

49

potenza militare di Atene, si getteranno le basi per un ulteriore ampliamento della

cittadinanza. Nel concetto antico della condizione di cittadino è inclusa la

partecipazione diretta alle decisioni comuni, sia che si tratti di confraternite, che sono

in vincolo primario di solidarietà o philia nelle società aristocratiche arcaiche sia che

si tratti, successivamente, della città nel suo complesso.

La cittadinanza, anche quando viene allargata, è qualcosa di esclusivo: è

generalmente cittadino a pieno diritto solo chi è figlio di madre cittadina. Le donne,

che giuridicamente restano minorenni per tutta la vita, sono peraltro escluse “de

iure” dall'esercizio della cittadinanza, così come avviene “de facto” per chi deve

lavorare per vivere. Schiavi e stranieri sono esclusi anche dalla titolarità della

cittadinanza: perfino nelle fasi più democratiche, le poleis greche sono in

realtà governate da una minoranza. Anche per questo, quasi tutti i protagonisti della

vita politica ateniese sono ricchi e aristocratici.

Come ci ha più volte spiegato il Prof. Gian Franco Lami, la cittadinanza è un

modello filosofico che si crea in congiunzione dell'individuo, dell'uomo che vive

nella sua città e quindi si deve capire cosa significa per l'individuo vivere in una

comunità di individui, di condividere con i simili le possibilità e difficoltà che

presenta una vita comune.

L'aspetto positivo di questa vita comune è il vivere in comunità, poiché oltre ad

essere inevitabile, è irrinunciabile ed è il miglior modo di vivere questa nostra

esperienza mondana. La città rappresenta una categoria e quindi la cittadinanza

intesa come rapporti tra simili all'interno di un’organizzazione sociale, simboleggia

un'altra categoria che dura da quando c'è memoria dell'uomo sulla terra. Platone usa

la metafora del “macro-antopos”, l'uomo in grande , per dire che tra l'uomo e la città

vi sia un rapporto di simbiosi per cui tanto meglio si sviluppa l'uomo, tanto meglio si

sviluppa una città. Definisce la città come macro, sottolineando ancora di più il

rapporto di simbiosi tra città e uomo, il quale è una città in piccolo. Il rapporto uomo

città non è scindibile, anzi, l'uomo per conoscere se stesso deve conoscere a fondo la

città in cui vive.

Per l'uomo antico, cittadino di un universo coinvolgente fino al punto di non rendere

capaci di vedere al di fuori di esso, perdere la qualità di cittadino, per acquisire quella

di straniero presso un'altra città, era peggio che morire. Non è solo una questione di

50

linguaggio, o della sgradevolezza di avvertirsi in terra straniera, era che nella

mancanza del linguaggio non si poteva instaurare un dialogo e quindi un confronto.

Ciò non era possibile, non solo della differenza di linguaggio ma per il fatto che

dietro le lingue via era una cultura, preparazione, progresso e memoria diversa.

Questo stesso concetto, lo troviamo in uno dei testi31 del Prof. Lami, dove si evince

che un'alternativa al cittadino è il barbaro, perché? Il barbaro era lo straniero, che non

parlando la lingua greca ( la sola allora conosciuta), la balbettano. Farfugliano la

lingua grazie alla quale si può intessere un discorso, il logos, e quindi non sa

nemmeno pensare alla maniera greca e neanche crescere reciprocamente nel contesto

di una realtà civile.

Nella mentalità greca l'uomo è parte di un tutto: se il cittadino è felice la città è

felice; se il cittadino è prudente la città è prudente; se l'uomo cittadino, la città è il

suo universo.

Nell'intenzione dell'individuo di partecipare, insieme con i suoi simili, c'è tutto il

significato di quel "zoon politikon", di quel vivere in una realtà che è politica, nella

quale si incentra l'intera esistenza dell'uomo, il quale da solo non si salva.

Parlare del cittadino come micro-polis è l'elemento imprescindibile senza il quale

l'uomo non può entrare in simbiosi con la natura. Questo elemento mediatore, però,

non è qualcosa di dato ma è soggetto, come l'uomo, ad una crescita naturale, che

diventa l'uomo, il quale deve far si che le proprie qualità dinamiche si trasformano,

alla fine in questo processo migliorativo, in qualità energetiche che a loro volta

devono essere trasferite alla città, la quale solo a questo punto, da macro-antropos

diverrà macro-aner ( dove con "antropos" intendiamo l'uomo biologicamente inteso,

che per assurdo potrebbe vivere isolato; "aner" è l'uomo che realizza la propria

natura, arriva al moto energetico e ciò è possibile solo in un contesto cittadino. La

sua partecipazione alla vita della città fa si che possa far prevalere l'istinto di

conservazione della specie sugli istinti di conservazione individuali).

Questo processo che caratterizza la crescita umana, non solo non può verificarsi se

non all'interno di una città ma nemmeno senza ripercuotersi sulla città. La città è un

elemento di mediazione sia un beneficiario. Quindi, parlare della polis come macro- 31 G. F. Lami, Socrate Platone Aristotele. Una filosofia della polis da Politeia a Politika, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005

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antropos significa:

• l'uomo non può essere tale se non in un contesto cittadino.

• tale contesto può svolgere la sua funzione di aiutare l'uomo a realizzare la propria

natura.

• nonostante tutto ciò l'individuo decide di agire a beneficio e all'interno di questa

città.

Se non opera questa decisione, il suo moto è al di fuori dell'universo, e ha un verso

diverso da quello naturale. Solo a questo punto abbiamo che i moti naturali hanno

compiuto la loro evoluzione e quindi l'uomo, insieme alla città di cui è parte, sono

arrivati a costruire il moto energetico.

Anche la specie umana ha una sua natura che si rende conforme alla natura cosmica,

la quale ha una sua qualità dinamica, cinetica ed energetica.

Secondo la mentalità classica e antica, un uomo non poteva essere che un cittadino,

cioè un abitante della comunità, risultante dall'ordine sociale, imposto al caso sociale,

così come l'ordine degli astri impone un ordine al caos cosmico e per entrare in

sintonia con la natura cosmica, la città e l'uomo tentano di accordarsi con questo

circuito del moto cosmico per facilitare, attraverso il recupero del senso cosmico del

moto, anche recupero della propria stessa natura.

L'uomo risponde di sé alla città, quindi il suo rapporto naturale con la città deve

esprimersi in termini connaturati con il cosmo. Così, la natura umana presenta una

sua inclinazione, caratterizzazione dinamica, cinetica ed energetica. Il cosmo,

attraverso l'uomo cittadino è un uomo che non vive se non in città, è un uomo che

sopravvive in quanto cittadino. Nella sua natura di base si esprime attraverso la vita

con i suoi simili che sono i cittadini.

Bisogna ammettere che la felicità cittadina è contagiosa: tutti ne rimangono

coinvolti, sia che si apprezzi maggiormente la ricchezza, o la vita virtuosa, o la più

umile sudditanza. L'alternativa è, tra un'esistenza partecipativa o meno. Aristotele

non ha il minimo dubbio che la felicità individuale stia dalla parte della

partecipazione.

Si potrebbe chiedere allora se la città migliore è quella in cui partecipa la totalità, o la

maggioranza dei cittadini, ma sarebbe fraintendere il senso stesso della felicità

comune, se la si facesse dipendere dal numero di coloro che contribuiscono alla sua

52

realizzazione. Quel che conta è consentire all'intera cittadinanza di goderne.

Il potere non è gestito sempre in maniera giusta, nemmeno quando è conforme

all'accordo che lo sottende, figurarsi poi quando è ritenuto inutile o, addirittura,

dannoso, da parte dei suoi destinatari. Di certo non può essere invocata la guerra a

correggere la finalità della politica, almeno con abusata frequenza. Ragione per cui,

il legislatore prudente deve considerare anche la qualità dei popoli confinanti, nel

tentativo di evitare eccessi conflittuali, che trasformerebbero in dispotica

un'amministrazione consapevole.

A ogni buon conto, non è corretto far intendere che sia perciò meglio astenersi

dall'azione e abbandonare il fronte delle responsabilità: felicità è, innanzi tutto, agire.

Sono proprio le azioni degli uomini giusti e prudenti che raggiungono i risultati

attesi. Fondare una città richiede molte e variegate cose: tanto l'uomo politico, quanto

il legislatore non possono passare la loro attività sulla pura teoria, ma abbisognano di

spazi concreti, di numeri che compongono maggioranze e minoranze.

3.3.4 RELIGIONE, UGUAGLIANZA E FORZA La logica della polis comporta delle gravi ambiguità: religione e morale vengono

politicizzate e particolarizzate, proprio come abbiamo avuto modo di vedere nella

tragedia Antigone, dove nulla assicura che il nomos cittadino sia identico alla legge

divina. Infine, la costituzione di uno spazio neutrale non mette di per sé al riparo

dalle pretese competitive di chi aderisce a un'etica aristocratica. Esse, anzi,

rimanendo oltre questo spazio, restano intatte, e si ripresentano puntualmente, sulla

bocca di aristocratici e sofisti, in tutti i periodi di crisi. Per di più, il luogo

dell'uguaglianza è un'isola in un mondo in cui dominano i rapporti di forza: basti

pensare alle relazioni disuguali fra uomini e donne, padri e figli, padroni e schiavi, e

alla continua lotta per l'egemonia che caratterizza le relazioni fra le città, e interrotta

temporaneamente solo a causa della minaccia persiana. Di questa logica è

testimonianza è l'argomentazione che lo storico Tucidide mette in bocca ai

rappresentanti ateniesi, nel loro negoziato con l'isola di Melo.

53

Politicamente divisi e geograficamente dispersi, i Greci erano però consapevoli di

costituire una civiltà unitaria. Avevano quindi una cultura comune, che consisteva in

una condivisione di credenze religiose e pratiche culturali, stessi costumi e

atteggiamenti morali, miti e racconti trasmessi a voce. Per quanto riguarda la pratica

religiosa, questa era basata sul culto degli Dei, che come gli uomini derivavano dal

Caos però a differenza di quest’ultimi, erano immortali. Essi difendevano l’ordine

del mondo, mantengono l’ordine della natura. Ognuno ha un compito ben definito.

Inizialmente gli dei erano la proiezione di una comunità aristocratica inseguito il

capo Zeus ebbe il compito di custodire la giustizia e punire i malvagi. Le divinità

greche erano divinità politiche, il loro culto si fondava sulla fede collettiva legata ad

una serie di atti pubblici. Ogni polis aveva i suoi dei protettori per i quali si

celebravano feste religiose e civili. Non si formò una classe sacerdotale e quindi non

ci fu nessun potere religioso contrapposto a quello politico. Il tempio era l’abitazione

delle divinità. Era permesso l’ingresso solo ai supplici, i fedeli dovevano fere i loro

sacrifici all’esterno.

54

CAPITOLO 4

ANTIGONE PER PARLARE DEL PRESENTE Alla fine del mio lavoro, ritengo sia opportuno operare una piccola attualizzazione

degli argomenti trattati con riferimento alla figura dell’Antigone di Sofocle.

Nella contemporaneità, infatti, è urgente il dibattito sulla crisi dell’esercizio del

potere, sull’uso degli strumenti adoperati, di fronte a gruppi dominanti che non

curandosi della democrazia e delle regole, violano l’una e le altre.

Se il diritto mette l’accento sulla responsabilità del soggetto colpevole, il gesto

“ribelle” di Antigone mostra un’altra dimensione dell’essere umano, quella di essere

fonte di diritto, non perché ne inventa il contenuto, ma perché manifesta con un atto

un altro ordine, più giusto dell’ordine primitivo.32

4.1 PROPOSTA DI ATTUALIZZAZIONE Anche Antigone, come ogni opera che definiamo “classico”, può essere attualizzata

ed applicata alla nostra moderna quotidianità.

Pensiamo alla legislazione attuale. Ad esempio, consente l’aborto, ma per

molte persone credenti, o facenti riferimento alla corrente di pensiero cattolica,

l’aborto è qualcosa di sbagliato secondo la legge “morale”. Per un cattolico, dunque,

la legge positiva vigente è sbagliata, poiché non condanna l’aborto come omicidio.

Vi è, dunque, una discrepanza tra la legge morale e la legge umana nella nostra

società, così come l’abbiamo incontrata nell’Atene del V sec. a.C. 32 Francesca Brezzi, Antigone e la philia, le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, 2007

55

In una collettività come la nostra, che si avvia a diventare cosmopolita e multietnica,

possiamo porci una domanda di profonda importanza: poiché ogni religione, ogni

popolo, ha una propria legge morale, che spesso diverge dalle leggi morali di altre

culture, quale base comune si può proporre, dunque, affinché la società civile possa

condividere le norme?

Anche ai giorni nostri, quando la giustizia legale, la legge fatta dagli uomini, appare

ingiusta, ci si appella alla legge “obiettiva” della natura. Per opporsi a numerosi

dilemmi, ci si appella alla neutralità della natura che può dispensare certezze etiche

in un mondo che tende a nascondersi dietro i panni accattivanti della tolleranza.

Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza, che

ci permette di dire: “non dipende da me, dipende dalla natura”.

Certamente, le norme sono alla base della convivenza civile, poiché senza un patto

sociale non esisterebbe alcuna società, e in tale patto sociale ognuno deve rinunciare

a qualche prerogativa per il benessere di tutti i consociati; ma allora, a cosa puntare,

dunque, affinché la convivenza civile possa fondarsi sulla base di regole condivise e

rispettate da tutti?

E’ una domanda a cui è difficilissimo dare una risposta, ma è un interrogativo con

cui siamo chiamati a scontrarci personalmente.

Una strada “potrebbe” essere quella di ricavare tra le molte religioni e le

molte culture che ci circondano (senza amalgamarsi veramente) i punti in comune, e

di unirli sotto un'unica possibilità di dialogo. Ognuno poi, partendo da queste

congruenze, potrà percepire valorizzare e infine condividere anche le proprie

peculiarità. Solo in questo modo si eviteranno appiattimenti e rinunce da parte di

alcune culture alla propria specificità, perché tutti si sentano accolti e valorizzati in

pienezza come persone e come portatori di quei sintagmi culturali propri che ogni

cultura ha in sé. E’ davvero possibile tutto questo, o rappresenta solo un’utopia?

Personalmente, ritengo che la nostra bussola non possa essere la natura, benigna o

maligna che sia, ma la giustizia o, meglio, il rifiuto dell’ingiustizia, il rispetto dei

diritti inalienabili dell’uomo che, alcune volte, possono significare, di fronte alla

natura che premia i più forti e punisce i più deboli, agire contro la natura stessa.

La ‘legge naturale’, poiché soggetta ad diverse interpretazioni e distorsioni, non può

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essere l’unico parametro di riferimento, l’architrave del diritto.

Non c’e lo permette un mondo complesso, multietnico e multiculturale come il

nostro. Non c’e lo permette l’esigenza di rispondere a domande la cui risposta sta

solo nella nostra cultura e nella nostra coscienza di donne ed uomini contemporanei.

Da Antigone all’interculturalità, dunque in viaggio che va dal V secolo a.C al XXI

secolo d.C., siamo passati attraverso la legalità e le possibilità di leggi giuste e

moralmente valide che mettano d’accordo attorno ad un tavolo comune le culture

umane nel reciproco rispetto.

4.2 OGGI, LA LEGGE Oggi, la parabola sembra conclusa con il totale rovesciamento dei punti di partenza.

Conosciamo solo più leggi scritte e mutevoli, che sono di ieri, di oggi e certamente

non più di domani; sappiamo chi e quando le ha proclamate, in quali circostanze, per

quali interessi e con quali propositi. La sacralità del diritto è stata soppiantata dalla

esteriorità della legge.

La legislazione ha invaso tutti gli ambiti dell’esistenza umana, perfino i più privati e

per lungo tempo refrattari a norme esteriori di regolamentazione, come quelli delle

relazioni affettive tra le persone: la famiglia, la convivenza, i rapporti tra genitori e

figli.

In generale si può affermare che il diritto è una pretesa che un soggetto vuol far

valere nei confronti di un altro o nei confronti di un bene.

Per ciò che attiene i diritti naturali e quelli fondamentali in particolare vi è da dire

che essi storicamente si sono affermati nel corso della lunga evoluzione del rapporto

fra Autorità e Libertà, cioè, fra i singoli (più tardi cittadini) ed il Potere Pubblico.

Oggi, tutte le costituzioni delle più avanzate democrazie “ riconoscono” i diritti

fondamentali dei cittadini, dove nell’uso del verbo “riconoscere” si conferma

l’implicita ammissione che i diritti preesistono alla costituzione stessa

dell’ordinamento e l’autorità si limita, per così dire, al loro riconoscimento e non alla

loro creazione; il che equivale ad affermare che lo statuto giuridico dell’individuo

57

con il suo carico di autonomia, libertà, uguaglianza e dignità è meritevole di tutela

indipendentemente e nonostante la volontà del Potere Pubblico, che può stabilire la

misura di quella tutela nei limiti in cui non ne intacchi il nucleo fondamentale.

4.3 LA PENULTIMA RISPOSTA La lex, la legge, è uno straordinario strumento di controllo sociale: può essere

arbitrario, utilizzato al fine di costruire regimi dittatoriali e oppressivi, sistemi privi

dei diritti elementari, ignari dei diritti umani, capaci di ‘legittimare’ tortura,

sterminio, assassinio . Nello stesso tempo, può anche essere strumento di liberazione,

di giustizia, in grado, se non di eliminare, di ridurre diseguaglianze e povertà.

Il diritto, lo ius, a sua volta, può essere strumento di valori irrazionali, istintivi, e

nello stesso tempo, può essere visto come strumento di richiamo a patrimoni ideali e

civili, come fattore di stabilizzazione sociale, come strumento emancipatore della

società e come garanzia contro gli abusi della legge.

Rimane la domanda: sono sufficienti le Costituzioni ad impedire che qualcuno le

violi, le sospenda, le modifichi? Su quale autorità possiamo contare per difenderci

dal potere?

Domanda legittima ma senza risposta perché le Costituzioni, come il diritto, come la

legge, possono costituire sì una garanzia ma non l’ultima, solo la penultima. L’ultima

garanzia è la coscienza di un popolo e la sua sovranità.

Le Costituzioni possono far molto nella difesa dall’arbitrio del potere e nella tutela

dei diritti inalienabili dell’uomo, ma non possono fare tutto.

Antigone ce lo dice: senza ius la lex diventa fragile e, al tempo stesso, può diventare

tirannica. La scommessa delle Costituzioni sta tutta qui: nella loro capacità di essere

‘lex’ ma, nello stesso tempo, di recepire lo spirito dello ‘ius’.

Se riusciamo a farla divenire bandiera di un comune sentire sociale e politico, diffuso

in tutte le pieghe della società, se riusciamo a diffonderla come ius fondamentale,

come ‘diritto’ che sta a fondamento, allora saremo riusciti a creare il vaccino più

potente contro le malattie e i rischi della democrazia e delle società contemporanee.

58

Si pone a questo punto la domanda se i diritti inviolabili, di cui si parla nell’art.2

della Costituzione siano solo quelli elencati nella Costituzione stessa o se

l’espressione ricomprenda ulteriori diritti oltre quelli elencati nel testo stesso.

In verità si è ritenuto – e a ragione – che l’art.2, nel fare riferimento ai diritti

inviolabili dell’uomo, abbia inteso riferirsi non già solo a quelli espressamente

elencati negli articoli seguenti ma a tutti i diritti che la coscienza sociale e le

indicazioni stesse dell’ordinamento inducono a ritenere meritevole dell’aggettivo

inviolabili, tali cioè che si contrappongono all’emanazione di qualunque atto

autoritativo (leggi, provvedimenti, sentenze) che tendesse ad intaccarne il nucleo

fondamentale.

Invocare il diritto naturale altro non è che un appello ad una libera, rigorosa e onesta

indagine razionale sul bene globale dell’uomo.

4.4 ATTUALITA’ DEL DIRITTO NATURALE La distinzione tra diritto positivo e diritto naturale, oggi come nel V secolo a.C., mira

a segnalare la tensione tra l'ordinamento giuridico vigente e vincolante in una società

determinata (diritto positivo) e gli ideali di giustizia che si assumono permanenti e

universali (diritto naturale).

Secondo una concezione laica del diritto neanche il diritto naturale è immutabile nel

tempo e nello spazio. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata nel

1948 dall'Organizzazione delle Nazioni (ONU) non contiene norme di diritto

positivo ma è una sorta di manifesto che promuove nel mondo il riconoscimento e la

tutela dei diritti naturali. Essa esprime una grande forza etica e sociale; rappresenta la

risposta a chi evocava il primato del diritto naturale di fronte alle macerie materiali e

morali della guerra.

Oggi, la tensione tra diritto positivo e diritto naturale si manifesta anche attraverso

l'elaborazione del concetto di resistenza, che prefigura nella teoria e nella pratica il

diritto (soggettivo) di disapplicare una norma di diritto positivo (oggettivo) quando

questa è in contrasto con l'affermazione di valori radicati nella coscienza individuale

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e collettiva.

Il principio di legalità, che è storicamente legato all'affermazione del diritto positivo,

e il principio di eticità del diritto che è alla base delle moderne concezioni

giusnaturalistiche, risultano spesso invocati in un medesimo contesto sociale e

temporale poiché sono entrambi espressione di esigenze profonde e a volte

confliggenti della vita sociale del nostro tempo.

Al giurista spetta il compito di verificarne la genuinità e di individuarne il punto di

equilibrio.

Per individuare i valori da porre alla base delle norme giuridiche, il metodo che si è

affermato è quello democratico, basato sul principio di maggioranza.

Questo metodo, per valutare le leggi, è ritenuto più che sufficiente dalla dottrina del

positivismo giuridico, secondo la quale – ci tengo a ricordarlo - una legge

formalmente corretta è sempre "valida e giusta", anche se emanata in un regime non

democratico.

La storia ha smentito la convinzione che il rispetto di tali forme sia sufficiente ad

assicurare il rispetto dell'uomo, allora, oltre che un metodo, serve un fondamento.

La ricerca di un tale fondamento ai valori e alle leggi conduce inevitabilmente a

guardare sia alla legge naturale (intesa come insieme di princìpî e valori oggettivi)

sia – soprattutto - al diritto naturale (inteso come insieme di norme giuridiche

vincolanti che regolano la vita sociale, nonché come sistema per la produzione delle

norme stesse). Il diritto naturale è indipendente - e preesistente - rispetto alle leggi di

ciascuno Stato, perché conforme alla natura umana e comune a tutta l'umanità. E' un

diritto che, ovviamente, non si sostituisce al consenso democratico; però legittima la

democrazia, e le dà anche un'anima per evitarne le degenerazioni.

La necessità di riconoscere una verità dei rapporti sociali e giuridici, e di ancorarla in

particolare al diritto naturale, emerge in maniera più evidente nel momento in cui si

tratta di trovare una legittimazione per i diritti umani fondamentali, affinché siano

sottratti all’arbìtrio o alla prevaricazione, anche quando questi siano rivestiti delle

forme della legalità o siano espressione della volontà di una maggioranza.

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ABSTRACT

The topic chosen for this graduation thesis is, of course, very rich and it can be

considered from multiple points of view and in different historical eras; so I had to

limit the scope of my research only to some aspects, keeping the fifth century b.C. as

a historical landmark.

The main thing that drew to me Antigone was her rebellion, her courage, her ideals

and the fact that she does not stop in front of those who hold the levers of power.

Before getting into the intricacies of the story told by Sophocles, I paid attention to

the strong dichotomy between natural law, as a set of unwritten rules and that are

therefore part of the rational-ethical and religious heritage of every person, and

positive law , or rather the law in force in a given territorial space, placed by the

sovereign power of the state through general and abstract contained in the "laws".

Logically, I couldn't have studied the two conceptions of law without considering the

two currents of thought that flow from it: natural law and legal positivism.

To explain the first one, a short historical digression has been developed that allows

to see how the doctrine "drawn" according to which , any person is subject to the

rules inherent in its nature.

Legal positivism, on the contrary, is the doctrine which regards the only possible

law, the positive law, that is what we can observe in concrete deeds. Even in this

case, as for the two rights, discussion of the mutual relations between the two

doctrines has given way. As regards the myth of Antigone, which we can understand

the basics now, the story is fairly well known: Set in Thebes in 442 b. C. and

Antigone, the heroic daughter of Oedipus, is determined to contradict the prohibition

of Creon, new king of Thebes, to bury the mortal remains of Polynices, guilty of

having betrayed his country by unleashing a war against it.

The tragic death of Antigone, being condemned to be buried alive in a cave in which,

in the end, she hangs herself. It is here the evident core of the issue taken under

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consideration: just as there is a strong contrast between the two conceptions of law,

equally, we can feel the collision between the two protagonists of the myth of

Sophocles, each "representative "a different vision of law. Antigone feels compelled

to give voice to the moral law and by giving her brother a proper burial, but Creon is

faithful to the positive laws of the polis, which he issued. Therefore, I tried to get the

point of Antigone’s message, understand her

reasons and deepen the values of the socio-cultural context in which she lived, such

as citizenship, against which her action may be seen as a major transgression.

Finally, the last chapter has had the function of establishing an updating of the myth,

trying to explain why today, after twenty-five centuries, Antigone still has not aged. I

tried to show that, after all, the situation has not changed so much since the fifth

century b.C. and doctrines such as those relating to natural law, are now living longer

than ever.

This analysis was entirely personal, with no claim to completeness or uniqueness.

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[13] Steiner George, Le Antigoni, un grande mito classico nell’arte e nella

letteratura dell’Occidente, Garzanti Editore 1990

Desidero innanzitutto ringraziare la Prof.ssa Laurenti e la Prof.ssa Innocenzi per la grande disponibilità e cortesia dimostratemi e per tutto l’aiuto fornito

durante la stesura. Un ringraziamento va a mio padre per avermi dato la fiducia e la possibilità di raggiungere questo traguardo e per aver compreso le difficoltà incontrate senza

mettermi pressione. Desidero, inoltre, ringraziare la nonna Lina per avermi detto sempre una parola

di conforto al momento giusto. A Giuseppe va un ringraziamento particolare per avermi“trascinata” ogni volta a sostenere gli esami, per il suo sostegno e per avermi offerto sempre una spalla su cui

piangere. Senza il suo aiuto, oggi non sarei qui a discutere la mia tesi. Un ringraziamento va alle amiche di sempre, Stefania e Martina, i pilastri della mia vita che nessun terremoto potrà mai far crollare, per aver camminato al mio

fianco senza sosta. Colgo l’occasione per scusarmi con loro per la mia forte assenza, soprattutto in quest’ultimo periodo.

Un ringraziamento va a tutte le persone conosciute durante questo percorso, fatto di momenti felici e difficili, con le quali ho stretto amicizie più o meno durature ma

il cui aiuto è stato fondamentale: grazie a Giulia, Alessandro, Clelia, Matteo, Sara, Dario e Lucrezia.

Un ultimo ringraziamento, ma non per importanza, va a mia cugina Anna, senza la quale non sarei mai riuscita a realizzare l’abstract di questa tesi.

Grazie a tutti