Impresari del marmo ticinesi e lombardi. Carriere e dinastie

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Impresari del marmo ticinesi e lombardi. Carriere e dinastie ChIARA lANZI, MARIA fRANCeSCA PAlMIeRO, AleSSIA RIZZO* gli Aprile da Carona la presenza di esponenti della famiglia Aprile, dediti ad attività costruttive, nella capi- tale del ducato sabaudo è rintracciabile a partire dai primi decenni del XVII secolo: già nel 1626, infatti, dieci anni prima della costruzione della cappella della «Compagnia de signori architetti, capimastri da muro luganesi e del stato di Millano, come anche taglia- pietra et stucadori et fornasari», eretta nella chiesa di San francesco d’Assisi a Torino, i documenti registrano il nome di un Aprile, capomastro, che avrebbe finanziato l’esecu- zione di un quadro rappresentante sant’Anna da destinare al culto, in occasione della ri- correnza della festa patronale 1 . È solo però a partire dal settimo decennio del secolo, che un ramo della famiglia con questo cognome, proveniente dal paese di Carona, sembra stabilire a Torino la sede della propria attività lavorativa e dar vita ad una discendenza costantemente impegnata in opere legate alla lavorazione di marmi e di pietre, sia nella capitale sia in alcune aree del territorio piemontese, come il Cuneese ed il Saluzzese 2 . Nel 1661, Carlo Alessandro interviene nella realizzazione di «puttini arpie et altro per li forneli e sala delle dignità di Palazzo Reale», collaborando con giovanni Antonio Ca- sella, sempre di Carona, ed inaugurando un sodalizio lavorativo e famigliare che non verrà meno con il passare dei decenni e delle generazioni 3 . Negli anni seguenti, infatti, l’attività professionale di Carlo Alessandro si intreccia con quella di un altro Casella, giovanni battista, e di un altro caronese, Mattia Solaro, chia- mati ad intervenire nelle opere in pietra del grande cantiere della Cappella della SS. Sin- done nel duomo torinese: i tre marmorari danno vita, a partire dal 1663, ad una vera e propria associazione di impresa, aggiudicandosi, in data 27 agosto, il partito vincente per l’approvvigionamento e la lavorazione «de marmi neri per la Capella sudetta del Santissimo Sudario», in sostituzione dei capimastri luganesi Andrea Aglio e Carlo bus- so, che fino a quelle date avevano lavorato sulla base delle indicazioni di bernardino Quadri 4 . gli interventi di Aprile, Casella e Solaro proseguono a partire da quell’anno, con l’esecuzione dei 34 scalini destinati alla «scala di marmo foresto per ascender dal duomo alla Capella»; due anni più tardi, il 2 gennaio 1665, con «[…] altre forniture di marmi neri destinati a monumenti funebri da porsi sopra le due scale»; e continuano i- ninterrottamente ben oltre il 1667, anno dell’avvicendamento nella direzione del cantie- re tra il Castellamonte e guarino guarini, rispondendo alle esigenze della complessa ar- chitettura immaginata da quest’ultimo per la cupola della Cappella 5 . Punto di forza di 131 * Il capitolo gli Aprile da Carona si deve a Maria Francesca Palmiero; Chiara Lanzi è autrice dei capitoli I Piazzoli da Montronio e I giudice da Viggiù: ai vertici dell’intaglio lapideo torinese; ad Alessia Rizzo si deve il capitolo I giudice nel Piemonte nordoccidentale. 1 M. dI MACCO, La cappella di Sant’Anna dei Luganesi. Un repertorio di modelli dell’arte, in V. COMOlI MANdRACCI (a cura di), Luganensium Artistarum Uni- versitas. L’archivio e i luoghi della Com- pagnia di Sant’Anna tra Lugano e Tori- no, lugano 1992, pp. 21-22. 2 Il ramo degli Aprile proveniente da Carona, uno dei casati più antichi della cittadina insieme ai Casella, agli Scala ed ai Solaro (A. gIlI, Le famiglie d’arte di «Nazione Luganese» a Torino e in Piemonte dal Seicento all’Ottocento, in V. COMOlI MANdRACCI [a cura di], 1992, p. 50), non esaurisce la molte- plicità dei personaggi attivi nello Sta- to sabaudo con questo cognome: ne- gli anni Quaranta del Settecento, in- fatti, numerosissimi documenti legati ai cantieri aperti per la ristrutturazio- ne delle mura e apparati difensivi delle città e dei forti ricordano la pre- senza di capi mastri ed impresari A- prile originari di un altro paese luga- nese: figino. Vedi i documenti relati- vi in Archivio di Stato di Torino (in seguito: ASTo), guerra, Contratti For- tificazioni, voll. 40, 1743 e 42, 1745; voll. 38 e 40-42, 1742-1745 e 44-46, 1747-1749. Vedi anche g. dARdANel- lO, C. lANZI e M. f. PAlMIeRO, L’attività delle maestranze dei laghi lombardi nel Piemonte Sabaudo (1690-1750), in «la Valle Intelvi», Quaderno n. 10/2005, pp. 137-172 e Tabella a p. 233 e sgg. Per una prima ricostruzione dell’atti- vità degli Aprile da Carona, vedi f. MONeTTI e A. CIfANI, Gli Aprile, lapici- di, in Frammenti d’arte. Studi e ricerche in Piemonte (secc. XV-XIX), Torino 1987, pp. 49-54. 3 A. bAUdI dI VeSMe, Schede Vesme. L’arte in Piemonte dal XV al XVIII seco- lo, Torino 1963-1982, vol. I, p. 281. la collaborazione tra le famiglie Aprile e Casella, che prende avvio dallo stret- to legame tra giovanni battista e Car- lo Alessandro (già segnalata da g. dARdANellO, Cantieri di corte ed impre- se decorative a Torino, in g. ROMANO [a cura di], Figure del barocco in Piemonte. La corte, la città, i cantieri, le province, Torino 1988, pp. 167-168), sarà co- stante fino alla metà del XVIII secolo per tutte le generazioni, rafforzata da più di una unione matrimoniale e dal fatto di dividere la stessa abitazione. Nel 1705, il censimento della popola- zione di Torino (ASTo, Camerale, Art. 530, Consegne di famiglie del Terri- torio di Torino e altri, mazzo 2) ricorda come nella stessa casa risiedano francesco Aprile, con i due figli, e al- tri due nuclei famigliari strettamente legati a loro dalla comune origine ca- ronese: i Casella, con Secondo, assen- te, di anni 66 ed il figlio Antonio, di anni 20 e giovanni battista Solaro, piccapietre di anni 50; unitamente ad un’altra famiglia luganese composta da giovanni Rosso, piccapietre di an- ni 40, dalla moglie Orsola e dai figli Marsello, Carlo e Anna. Il censimento è pubblicato in g. MeRlO, C. RAVIZZA, A. CIfANI e f. MONeTTI, Gli artisti a To- rino dai censimenti 1705-1806, Caval- lermaggiore 1996, in particolare p. 30. 4 Per tutta la vicenda relativa agli in- terventi nella Cappella della Sindone: N. CARbONeRI, Vicenda delle cappelle per la Santa Sindone, in «bollettino della Società Piemontese di Archeologia e di belle Arti», XVIII, 1964, pp. 95-109; g. dARdANellO, 1988, pp. 167-168, p. 189; IdeM, La cappella della Sindone, in h.A. MIllON (a cura di), I Trionfi del Barocco. Architettura in Europa 1600- 1750, catalogo della mostra di Stupi- nigi, Montreal, Washington, Marsi- glia, Milano 1999, pp. 461-466 e bi- bliografia precedente. Il documento è in ASTo, Camerale, Art. 179, Fabbri- che di Sua Altezza, vol. 8a, c. 49v. 5 I pagamenti all’impresa Aprile, Ca- sella, Solaro sono registrati, dal 1663 agli anni Novanta, in ASTo, Camera- le, Art. 179, Fabbriche di Sua Altezza, voll. 8a-8b; Art. 195, Fabbriche di Sua Altezza: Sessioni, atti, scritture del Con- siglio di Finanze, mazzo 1, vol. 1 bis; Art. 182, Conti Tesoreria Fabbriche e Fortificazioni, voll. 16-32. Inoltre, l. TAMbURINI, Le chiese di Torino dal Rina- scimento al Barocco, Torino 1968, pp. 224-225; g. dARdANellO, La scena urba- na, in g. ROMANO (a cura di), Torino

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Impresari del marmo ticinesi e lombardi.Carriere e dinastieChIArA lANzI, mArIA frANCeSCA PAlmIero, AleSSIA rIzzo*

gli Aprile da Carona

la presenza di esponenti della famiglia Aprile, dediti ad attività costruttive, nella capi-tale del ducato sabaudo è rintracciabile a partire dai primi decenni del XVII secolo: giànel 1626, infatti, dieci anni prima della costruzione della cappella della «Compagnia designori architetti, capimastri da muro luganesi e del stato di millano, come anche taglia-pietra et stucadori et fornasari», eretta nella chiesa di San francesco d’Assisi a Torino, idocumenti registrano il nome di un Aprile, capomastro, che avrebbe finanziato l’esecu-zione di un quadro rappresentante sant’Anna da destinare al culto, in occasione della ri-correnza della festa patronale1. È solo però a partire dal settimo decennio del secolo, cheun ramo della famiglia con questo cognome, proveniente dal paese di Carona, sembrastabilire a Torino la sede della propria attività lavorativa e dar vita ad una discendenzacostantemente impegnata in opere legate alla lavorazione di marmi e di pietre, sia nellacapitale sia in alcune aree del territorio piemontese, come il Cuneese ed il Saluzzese2.Nel 1661, Carlo Alessandro interviene nella realizzazione di «puttini arpie et altro per liforneli e sala delle dignità di Palazzo reale», collaborando con giovanni Antonio Ca-sella, sempre di Carona, ed inaugurando un sodalizio lavorativo e famigliare che nonverrà meno con il passare dei decenni e delle generazioni3. Negli anni seguenti, infatti, l’attività professionale di Carlo Alessandro si intreccia conquella di un altro Casella, giovanni battista, e di un altro caronese, mattia Solaro, chia-mati ad intervenire nelle opere in pietra del grande cantiere della Cappella della SS. Sin-done nel duomo torinese: i tre marmorari danno vita, a partire dal 1663, ad una vera epropria associazione di impresa, aggiudicandosi, in data 27 agosto, il partito vincenteper l’approvvigionamento e la lavorazione «de marmi neri per la Capella sudetta delSantissimo Sudario», in sostituzione dei capimastri luganesi Andrea Aglio e Carlo bus-so, che fino a quelle date avevano lavorato sulla base delle indicazioni di bernardinoQuadri4. gli interventi di Aprile, Casella e Solaro proseguono a partire da quell’anno,con l’esecuzione dei 34 scalini destinati alla «scala di marmo foresto per ascender dalduomo alla Capella»; due anni più tardi, il 2 gennaio 1665, con «[…] altre forniture dimarmi neri destinati a monumenti funebri da porsi sopra le due scale»; e continuano i-ninterrottamente ben oltre il 1667, anno dell’avvicendamento nella direzione del cantie-re tra il Castellamonte e guarino guarini, rispondendo alle esigenze della complessa ar-chitettura immaginata da quest’ultimo per la cupola della Cappella5. Punto di forza di

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* Il capitolo gli Aprile da Caronasi deve a Maria Francesca Palmiero;Chiara Lanzi è autrice dei capitoli I Piazzoli da montronio e I giudiceda Viggiù: ai vertici dell’intaglio lapideo torinese; ad Alessia Rizzo si deve il capitolo I giudice nel Piemonte nordoccidentale.

1 m. dI mACCo, La cappella di Sant’Annadei Luganesi. Un repertorio di modellidell’arte, in V. ComolI mANdrACCI (acura di), Luganensium Artistarum Uni-versitas. L’archivio e i luoghi della Com-pagnia di Sant’Anna tra Lugano e Tori-no, lugano 1992, pp. 21-22.2 Il ramo degli Aprile proveniente daCarona, uno dei casati più antichidella cittadina insieme ai Casella, agliScala ed ai Solaro (A. gIlI, Le famiglied’arte di «Nazione Luganese» a Torino ein Piemonte dal Seicento all’Ottocento,in V. ComolI mANdrACCI [a cura di],1992, p. 50), non esaurisce la molte-plicità dei personaggi attivi nello Sta-to sabaudo con questo cognome: ne-gli anni Quaranta del Settecento, in-fatti, numerosissimi documenti legatiai cantieri aperti per la ristrutturazio-ne delle mura e apparati difensividelle città e dei forti ricordano la pre-senza di capi mastri ed impresari A-prile originari di un altro paese luga-nese: figino. Vedi i documenti relati-vi in Archivio di Stato di Torino (inseguito: ASTo), guerra, Contratti For-tificazioni, voll. 40, 1743 e 42, 1745;voll. 38 e 40-42, 1742-1745 e 44-46,1747-1749. Vedi anche g. dArdANel-lo, C. lANzI e m. f. PAlmIero, L’attivitàdelle maestranze dei laghi lombardi nelPiemonte Sabaudo (1690-1750), in «laValle Intelvi», Quaderno n. 10/2005,pp. 137-172 e Tabella a p. 233 e sgg.Per una prima ricostruzione dell’atti-vità degli Aprile da Carona, vedi f.moNeTTI e A. CIfANI, Gli Aprile, lapici-di, in Frammenti d’arte. Studi e ricerchein Piemonte (secc. XV-XIX), Torino1987, pp. 49-54.3 A. bAudI dI VeSme, Schede Vesme.L’arte in Piemonte dal XV al XVIII seco-lo, Torino 1963-1982, vol. I, p. 281. lacollaborazione tra le famiglie Aprile eCasella, che prende avvio dallo stret-to legame tra giovanni battista e Car-lo Alessandro (già segnalata da g.dArdANello, Cantieri di corte ed impre-se decorative a Torino, in g. romANo [acura di], Figure del barocco in Piemonte.La corte, la città, i cantieri, le province,Torino 1988, pp. 167-168), sarà co-stante fino alla metà del XVIII secoloper tutte le generazioni, rafforzata dapiù di una unione matrimoniale e dalfatto di dividere la stessa abitazione.

Nel 1705, il censimento della popola-zione di Torino (ASTo, Camerale,Art. 530, Consegne di famiglie del Terri-torio di Torino e altri, mazzo 2) ricordacome nella stessa casa risiedanofrancesco Aprile, con i due figli, e al-tri due nuclei famigliari strettamentelegati a loro dalla comune origine ca-ronese: i Casella, con Secondo, assen-te, di anni 66 ed il figlio Antonio, dianni 20 e giovanni battista Solaro,piccapietre di anni 50; unitamente adun’altra famiglia luganese compostada giovanni rosso, piccapietre di an-ni 40, dalla moglie orsola e dai figlimarsello, Carlo e Anna. Il censimentoè pubblicato in g. merlo, C. rAVIzzA,

A. CIfANI e f. moNeTTI, Gli artisti a To-rino dai censimenti 1705-1806, Caval-lermaggiore 1996, in particolare p. 30.4 Per tutta la vicenda relativa agli in-terventi nella Cappella della Sindone:N. CArboNerI, Vicenda delle cappelle perla Santa Sindone, in «bollettino dellaSocietà Piemontese di Archeologia edi belle Arti», XVIII, 1964, pp. 95-109;g. dArdANello, 1988, pp. 167-168, p.189; Idem, La cappella della Sindone, inh.A. mIlloN (a cura di), I Trionfi delBarocco. Architettura in Europa 1600-1750, catalogo della mostra di Stupi-nigi, montreal, Washington, marsi-glia, milano 1999, pp. 461-466 e bi-

bliografia precedente. Il documento èin ASTo, Camerale, Art. 179, Fabbri-che di Sua Altezza, vol. 8a, c. 49v.5 I pagamenti all’impresa Aprile, Ca-sella, Solaro sono registrati, dal 1663agli anni Novanta, in ASTo, Camera-le, Art. 179, Fabbriche di Sua Altezza,voll. 8a-8b; Art. 195, Fabbriche di SuaAltezza: Sessioni, atti, scritture del Con-siglio di Finanze, mazzo 1, vol. 1 bis;Art. 182, Conti Tesoreria Fabbriche eFortificazioni, voll. 16-32. Inoltre, l.TAmburINI, Le chiese di Torino dal Rina-scimento al Barocco, Torino 1968, pp.224-225; g. dArdANello, La scena urba-na, in g. romANo (a cura di), Torino

questa maestranza era proprio l’organizzazione in gruppo, scelta strategica che, se ogginon facilita il compito di individuare e distinguere la mano delle singole figure dei col-laboratori nascoste dietro l’operato del capofamiglia impresario, allora consentiva di ge-stire non soltanto il complesso ed articolato lavoro nel cantiere in città, ma garantiva lapossibilità di alternarsi nel seguire i lavori nei luoghi delle cave, dove veniva estratto esbozzato il marmo necessario. della presenza in prima persona di giovanni battista Ca-sella e di Carlo Alessandro Aprile nelle cave di frabosa, da cui veniva estratto il marmobigio e nero per la Cappella del duomo torinese, siamo informati da una relazione del-l’Intendente della Provincia di mondovì, il Corvesy, che ricorda due iscrizioni incise nelmarmo sopra ad un piccolo edificio nei pressi della cava, da lui lette nel 1753: in essecomparivano i nomi dei due come impresari e costruttori sia della casetta, eretta nel1669, sia della piccola cappella annessa, del 16646. Non soltanto: il sodalizio lavorativo,grazie alla rotazione degli impresari, garantiva la possibilità di far ritorno stagional-mente nelle terre di origine, la gestione in contemporanea di più di un cantiere – ricor-diamo l’intervento registrato nel 1671 da parte di Aprile e Casella per la realizzazionedi un camino in marmo nero, destinato alla reggia della Venaria reale7 – e la prosecu-zione dell’attività professionale anche nel caso di decesso di un socio di impresa. Nel1679, alla morte di giovanni battista Casella, la continuità lavorativa nel cantiere dellaSindone è garantita dai figli giovanni battista, giuseppe e Secondo, ma anche dallostesso Carlo Alessandro, a cui spetta l’onere dell’organizzazione del lavoro e la tutela diAntonio, il quarto figlio del Casella, ancora minorenne8. Carlo Alessandro dovette gua-dagnarsi la fiducia di guarini, il quale nel 1685 lo impegnò anche per la provvigione ela lavorazione di parte dei marmi della Cappella della SS. Annunziata nella sua chiesadi San lorenzo9.A partire dai primi anni Novanta del secolo, il cantiere della Cappella della SS. Sindo-ne vede anche l’avvicendamento generazionale della famiglia Aprile: nel 1693, accanto

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1675-1699. Strategie e conflitti del Ba-rocco, Torino 1993, pp. 15-120; j. bel-doN SCoTT, Architectur for the Shroud:Relic and Ritual in Turin, Chicago-londra 2003, pp. 87-216 e bibliogra-fia precedente.6 la relazione (Torino, bibliotecareale, Storia Patria n. 853, p. 160 esgg.) è parzialmente trascritta da g.dArdANello, 1988, p. 167, nota 19.7 C. bArellI e S. ghISoTTI, Decorazione earredo in un cantiere del Seicento: Vena-ria Reale, in g. romANo (a cura di),1988, p. 143, nota 12.8 Per il testamento di giovanni batti-sta Casella del fu ercole di Caronavedi g. dArdANello, 1988, p. 168. Aqueste date risulta già scomparso an-che il Solaro.9 A CIfANI e f. moNeTTI, Nuovi contri-buti per Guarino Guarini. Documenti i-nediti per la Cappella della SS. Annun-ziata nella chiesa di S. Lorenzo in Tori-no, in «Palladio», n. s. V, luglio-di-cembre 1992, n. 10, pp. 45-54.

Impresa di Carlo AlessandroAprile, giovanni battista Casellae mattia Solaro, su disegno di guarino guarini, Conchigliein marmo di frabosa. Torino, Cappella della SS. Sindone, Coronamento del primo ordine,circa 1670.

ai pagamenti registrati per l’impresa di Carlo Alessandro Aprile e fratelli Casella, com-pare per la prima volta il nome di francesco, figlio di Carlo Alessandro, che firma incollaborazione ancora una volta con un Casella, Secondo, il contratto per l’esecuzionedi alcuni lavori di «nettamento, e politura della predetta Capella del Sant.mo Sudario»,seguito da quello per la messa in opera dello «sternito di marmo à comparti […] con in-fission delle stelle di bronzo fatta sopra il ripiano del Choretto» e altri per numerosi la-vori in pietra tra il 1694 e il 169510. l’attività lavorativa nel cantiere della cappella delduomo torinese sembra assorbire totalmente francesco Aprile, che non appare impe-gnato, almeno in questo stretto giro di anni, in altre imprese costruttive e decorative. lalettura dei documenti, in particolare di quelli prodotti dall’amministrazione delle «fab-briche e fortificazioni», fa emergere come per Aprile – e per il socio Casella, con cui lacollaborazione è pressoché continua – sia molto difficile aggiudicarsi i partiti per altrilavori superati dal più competitivo collega francesco Piazzoli, vincitore di molte gared’appalto a loro discapito11. Nell’ambito della committenza per edifici religiosi, è solo a partire dagli ultimi anni delXVII secolo che, scomparso ormai Carlo Alessandro, francesco si ritaglia un propriospazio: nel 1698, in data 9 maggio, l’accordo per l’esecuzione dell’altare maggiore della

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10 Si tratta dei pavimenti tempestatidi stelle di ottone, secondo il proget-to di Antonio bertola: ASTo, Camera-le, Art. 182, Conti Tesoreria Fabbriche eFortificazioni, vol. 30, 1693, cc. 65v,68v, 71v; 1694, cc. 145v, 147v; inoltrej. beldoN SCoTT, 2003, p. 137. 11 ricordiamo quanto accade nel1693, quando Aprile e Casella tenta-no di aggiudicarsi la realizzazionedell’Arma da apporre sulla Porta diSoccorso, che si apriva nella mura to-rinesi, ma vengono superati al ribas-so dal Piazzoli; ancora, il 23 luglio1697, quando non riescono ad ottene-re il partito vincente per l’esecuzionedella nuova porta in pietra di Chia-nocco del Palazzo di Città progettatadal guibert, superati ancora una vol-ta dal Piazzoli o, pochi mesi più tardi,esclusi per l’impresa di trasporto dipietre, basi di colonne e capitelli, de-positati nei pressi dei giardini reali edestinati all’Accademia. Vedi i docu-menti in ASTo, Camerale, Art. 193,Contratti seguiti avanti il Consiglio delleFabbriche e Fortificazioni, 1663, vol. 13,cc. 25r-26v; 1697, vol. 17, cc. 57r-62r edocumento dell’11 novembre a cc.89r-90v. Per la nutrita attività delPiazzoli di questi anni, vedi il testo diChiara lanzi in questo stesso capitolo.

francesco Aprile, su disegno di giovanni Valle, Altare della Santissima Trinità a Torino, 1699-1703.

chiesa dello Spirito Santo a Torino attesta l’inedita collaborazione proprio tra il Piazzo-li e francesco Aprile, già intervenuto qualche anno prima, insieme all’inseparabile Se-condo Casella, nella realizzazione della balaustra in marmo. Tale prova gli garantisce lavisibilità necessaria a farlo scegliere, l’anno seguente, dalla Confraternita della SS. Tri-nità di Torino, per la realizzazione dell’altar maggiore della propria chiesa, che l’Aprilelavora in piena autonomia, su disegno dell’intagliatore e progettista di altari giovanniValle, utilizzando marmi pregiati, quali il nero di Como, la pietra d’Arzo e il rosso difrancia per alcuni inserti nelle specchiature della mensa12. Nel 1704, a conferma del-l’autorevolezza e della stima di cui ormai godeva nell’ambito lavorativo, viene coinvol-to in qualità di esperto, probabilmente dallo stesso Valle che ne aveva curato anche inquesta occasione il disegno ed il modello ligneo, nella visita di collaudo del sontuoso al-tare in marmo realizzato nella Cappella dell’Immacolata Concezione nella chiesa tori-nese di San francesco d’Assisi. l’opera spettava all’impresa di scalpellini luganesi for-mata da giovanni battista Quadrone, giacomo Vanello, Pietro Antonio busso e gio-vanni Pietro Nolcino, che vi aveva posto mano a partire dal 169513. Il Censimento della popolazione di Torino dell’anno 1705 individua in casa Castelli, situatanell’isolato di Sant’elena, la residenza di francesco Aprile, luganese, di anni 48, dei fi-gli francesco, assente, di anni 18 e giuseppe, dodicenne, e del mastro lavorante giaco-mo Cappa14. Questa, stando almeno a quanto emerso dalle ricerche documentarie finqui condotte, rappresenta l’ultima notizia certa sulla figura del capomastro «piccapie-tre», scomparso con buona probabilità appena qualche anno più tardi15. Ad ereditarel’attività lavorativa e la bottega è proprio il primogenito francesco, la figura di maggio-re spicco nell’attività costruttiva e decorativa di questa famiglia. I suoi esordi e l’interaattività lavorativa sono indissolubilmente legati sia alla figura di Antonio Casella, figliodi Secondo, sia a quella del cugino Antonio, figlio di Alessandro – anch’esso mastroscalpellino, autore di opere di secondo piano nei cantieri ducali16 – , con il quale già apartire dal 1710, aveva fondato una «società» per la gestione del lavoro, che serviva atutelare gli interessi comuni e a distribuirne, in maniera equa, i profitti17. dal documen-to di «Quittanza reciproca» del 1735, emerge una collaborazione solida e costante tra idue, che però non trova altro riscontro documentario: il nome di Antonio non comparemai negli atti relativi alle trattative ed alle prese di incarico per i lavori torinesi di que-sti primi anni, tutte a favore di francesco – gli scalini per la «Scala del gran Padiglione»della reggia della Venaria (1712), alcuni pannelli marmorei per la chiesa di San rocco(1712), le cinquanta colonne con relativi capitelli, basi, zoccoli e piedestalli su disegno dimichelangelo garove per il Palazzo dell’università (1712 e 1713), la preparazione deigradini in pietra per lo scalone (1715-1716) e delle balaustre, su prescrizione di filippojuvarra, per il loggiato superiore del cortile dello stesso edificio18 – e mai per incarichimaturati in autonomia. Tuttavia, il suo ruolo di buon collaboratore, anche se seconda-rio, come emerge dalle parole dello stesso francesco in occasione della stesura del suotestamento del 1722, non dovette mai venir meno e fu semplicemente il suo nome ad es-sere sottaciuto nell’ombra della figura più affermata del cugino, capo impresario e verocoordinatore di tutte le imprese lavorative19. occorre attendere il 1724 e un luogo abba-stanza lontano dalla capitale torinese, Saluzzo, affinché Antonio faccia la sua esplicitacomparsa: in occasione dei lavori di proseguimento dell’altar maggiore del duomo, giàrealizzato in una prima tranche da francesco su disegno ed istruzione dell’ingegner gio-vanni Antonio Sevalle, i due cugini firmano il contratto per la «Continuazione, e perfe-tione dell’Altare», impegnandosi a realizzarne l’alzata incurvata e a colonne libere ed ilfinimento dell’edicola, successivamente arricchite dalle statue in legno imbiancato diCarlo giuseppe Plura20. e ancora a Cuneo, nel 1727, durante gli accordi maturati con laCompagnia di gesù, per l’esecuzione dell’altar maggiore della chiesa intitolata oggi aSanta maria della Pieve (già chiesa del Santo Nome di gesù), il loro contributo si fa an-cora più significativo: in una scelta di marmi, in cui dominano ancora il rosso di fran-cia ed il nero ad incorniciare la pala di bartolomeo Caravoglia, francesco Aprile, coa-diuvato da Antonio, e matteo buzzi, non soltanto si occupano di allestirlo entro lo stes-so anno, ma intervengono con delle varianti sul progetto elaborato solo due anni primadall’architetto francesco gallo21.

12 l’accordo con la Confraternita, ra-tificato in data 31 dicembre 1699, im-pegnava l’Aprile ad eseguire l’altaresecondo «il dissegno esistente nellemani del sig.r giovanni Valle Inta-gliatore et parimente conforme l’In-strutione stabilita da detta Compa-gnia sotto li otto setembre correnteanno […] mediante la Soma di livreundeci milla seicento d’argento soldiventi caduna» (ASTo, Archivio del-l’Insinuazione, tappa di Torino, 1700,libro 2, cc. 626v-628r). l’altare vennecollaudato dall’ingegnere rocco An-tonio rubatti, dallo stesso Valle e damichelangelo garove il 4 aprile 1703.l. TAmburINI, 1968, pp. 95-96; g. dAr-dANello, Altari piemontesi: prima e do-po l’arrivo di Juvarra, in A. grISerI e g.romANo (a cura di), Filippo Juvarra aTorino. Nuovi progetti per la città, Tori-no 1989, pp. 173, nota 60-175. 13 Per l’altare e l’attività di giovanniValle: Ibidem, pp. 172-175; Idem, Altariin marmo nel Piemonte meridionale, ing. romANo e g. SPIoNe (a cura di), Unagloriosa sfida. Opere d’arte a Fossano,Saluzzo, Savigliano, 1550-1750, Cuneo2004, pp. 329, 337 e 340-341. A raffor-zare l’idea che, intorno all’inizio delnuovo secolo, l’Aprile avesse ormaiconsolidato la sua condizione profes-sionale, vi sono anche indizi docu-mentari marginali: citiamo, come e-sempio, la richiesta promossa da A-prile, dal compagno Casella e dalPiazzoli nel 1700 di potersi spartire«delle pietre da luoro preparate pergli ochi proffilli delle porte e piedestali» da destinare alla «piccola gale-ria di S.A.r», non impiegate, «per va-lersene in altre opere», accordata atutti e tre in parti uguali (ASTo, Ca-merale, Art. 193, Contratti seguiti a-vanti il Consiglio delle Fabbriche e Forti-ficazioni, vol. 20, 12 maggio 1700, cc.16r-17v) e i numerosi documenti incui partecipa come fideiussore a ga-ranzia del lavoro di colleghi.14 Vedi nota 3. 15 I documenti relativi alla figura delfiglio lo ricordano morto già nel 1712.16 Alessandro Aprile, figlio anch’essodi Carlo Alessandro, è documentatoa Torino nel 1698, quando firma l’im-pegno ad eseguire alcuni zoccoli inmarmo di San martino e di Venasca,«per sostegno alle Cassie e Vasi» deigiardini reali di Torino e, l’anno se-guente, come partitante per l’esecu-zione delle logge del Palazzo delgovernatore, aggiudicata dal Piazzo-li (ASTo, Camerale, Art. 193, Contrat-ti seguiti avanti il Consiglio delle Fab-briche e Fortificazioni, 1698, vol. 18, cc.141r-143r, e 1699, vol. 19, cc. 72r-75r).

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A lui, il piccapietre giovanni battistaCasella, dovendosi allontanare perlungo tempo da Torino per far ritor-no in patria, affida i suoi affari «etnegotij», ASTo, Archivio dell’Insi-nuazione, tappa di Torino, 1696, li-bro 10, cc. 291r-292v.17 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1735, libro 2, cc.869r-870v. Il documento notarile si ri-ferisce ad una quietanza reciprocaper un «regolamento di conti» tra idue cugini a proposito del loro «ne-gotjo di Piccapietre»: francesco daqualche anno, infatti, è accusato dinon aver pagato i giusti compensi adAntonio e decide di rimettersi al «co-mun consenso […] delli Sig.ri giobattista Parodi Carlo francesco betti-no e Carlo francesco Pizoni», i qualifissano la ricompensa in «lire quatromilla cinquecento».18 Per i lavori nella reggia della Ve-naria: ASTo, guerra, Contratti Fortifi-cazioni, vol. corrispondente agli anni1711-1713, cc. 125r-126r; alle cinquan-ta «colonne con capitelli, basi, zoccolie piedestalli in pietra di gassino e Sa-rizzo» destinate al piano terra e aquello nobile del Palazzo dell’uni-versità di Torino e realizzate in colla-borazione con bartolomeo Quadronee Antonio Casella (Ibidem, cc. 235r-237v; l’istruzione di garove a cc.238r-241v), se ne aggiungono altredue commissionategli l’anno seguen-te (Ibidem, vol. corrispondente all’an-no 1714, c. 88r). Per la realizzazionedei gradini, portata avanti con CarloSolaro, g. battista masoni e quelladelle balaustre del loggiato superio-re, g. grITellA, Juvarra. L’architettura,modena 1992, vol. I, pp. 319, 322 note2 e 5; g. dArdANello, Il Palazzo dell’U-niversità e lo studio dell’architettura aTorino nella prima metà del Settecento,in A. QuAzzA e g. romANo (a cura di),Il Palazzo dell’Università di Torino e lesue collezioni, Torino 2004, pp. 24-25.Per l’intervento nella chiesa di Sanrocco, a Torino, di francesco Aprileed Antonio Casella: l. TAmburINI,1968, pp. 192-193, nota 21. Il Vesme(1963-1982, vol. I, 1963, p. 38) ricorda,inoltre, nel 1715, l’esecuzione dell’al-tare in marmo della chiesa di San Pie-tro dipendente dall’abbazia di SantoStefano di Ivrea e il relativo approv-vigionamento di marmi, ad opera delsolo francesco.19 Nel 1722, probabilmente in occasio-ne di una malattia, poi superata, fran-cesco fa testamento, legando «Ad An-tonio Aprile suo cugino consanguineoin considerazione delli suoi buonicomportamenti assistenza et obbe-dienza sempre avuta verso lui testato-

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re la somma di scudi cento». ASTo,Archivio dell’Insinuazione, tappa diTorino, 1722, libro 5, cc.171r-172v.20 Per la costruzione dell’altare mar-moreo, con il primo contratto firmatodal solo francesco il 23 luglio 1721,ed il secondo del 13 gennaio 1724,che vide la partecipazione di Anto-

nio, vedi g. dArdANello, Altari inmarmo, 2004, pp. 343-345. 21 g. VACCheTTA, I Gesuiti a Cuneo. Lachiesa e il Collegio. Il Palazzo municipa-le. L’istituzione ed i vecchi edufici occu-pati, in «bollettino regio deputazio-ne Subalpina di Storia Patria sez. Cu-neo», giugno 1936, pp. 7-34; N. CAr-

boNerI, L’architetto Francesco Gallo,Torino 1954, p. 136; C. CASTIglIoNI,Cuneo. Chiesa parrocchiale di Santa Ma-ria, in V. ComolI e l. PAlmuCCI (a curadi), Francesco Gallo 1672-1750. Un ar-chitetto ingegnere tra Stato e Provincia,Torino 2000, pp. 252-253; S. SArTorI, IlSettecento a Cuneo, in g. romANo e g.SPIoNe (a cura di), Cantieri e documen-

francesco Aprile e compagni, su disegno di michelangelogarove, Colonnato del secondoordine, 1712-1713. Torino,Palazzo dell’università degli Studi.

gli anni Venti e Trenta del Settecento rappresentano anche il momento più fortunato eprolifico per l’impresa lavorativa di francesco Aprile, sia come marmorario e diretto e-secutore, sia come vero e proprio impresario: gli incarichi si avvicendano in modo con-tinuo e l’incalzare delle sue «grandi aziende» non gli lascia nemmeno il tempo di se-guire personalmente la riscossione dei crediti contratti con alcuni debitori22. Sono glianni dell’attività al seguito di juvarra, per il quale si impegna nella realizzazione di unnutrito numero di opere nel cantiere della chiesa reale di Superga: con la realizzazionedi «zoccoli, basi, lezzene, et altri travagli di pietra di gassino», insieme al compagnoAntonio Casella e ad Alessandro e Carlo Piazzoli, bartolomeo Quadrone e Andrea mar-chese (1719); con l’approvvigionamento e la lavorazione di pannelli in alabastro di bu-sca destinati ai piedistalli delle colonne in marmo bigio di frabosa (1723); con l’esecu-zione delle armi del re in mischio di francia da apporre sulla facciata della basilica(1730), fino ad un ultimo intervento relativo ad opere di rifinitura documentato nel1736. Ancora su disegno di juvarra lavora un lavamano ed il fonte battesimale per laCappella della Cura regia nel Palazzo reale a Torino e quello per la Cappella diSant’uberto della Venaria reale (1730)23. Negli stessi anni e sempre al seguito dell’ar-chitetto messinese, Aprile è coinvolto anche negli interventi di ammodernamento e didecorazione negli appartamenti dei sovrani in Palazzo reale a Torino, con la posa in o-pera, nel 1731, di un camino in marmo bigio di frabosa, mischio di francia e giallo di

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ti del barocco. Cuneo e le sue Valli, Savi-gliano 2003, p. 95. l’esecuzione delprogetto dell’altare richiesto nel 1725a francesco gallo venne affidata aimarmisti matteo buzzi e Antoniomaria Conza, che non lo realizzaronomai; il progetto iniziale dell’architet-to monregalese è documentato dadue disegni: la pianta pubblicata inN. CArboNerI, 1954, p. 58 e l’alzato inANd. grISerI, P. dell’AQuIlA e ANg.grISerI, Un Cantiere dopo la Guerra delSale. Francesco Gallo 1672-1750, Carrù1995, fig. 49.22 È del 1731 la sua scelta di un pro-curatore, un altro francesco Aprile fi-glio di giacomo luiggi e residente adronero, che si occupasse di riscuote-re il denaro dagli eredi di giovanniAntonio Piazzoli, «non potendosi luitrasferire in esso luogo di dronero at-tese le sue grandi aziende per poteresiggere detti suoi crediti». ASTo, Ar-chivio dell’Insinuazione, tappa di To-rino, 1731, libro 6, cc. 161r-162v.23 Per gli interventi a Superga: N. CAr-boNerI, La Reale Chiesa di Superga diFilippo Juvarra 1715-1735, Torino1979, pp. 136, 160, 171, 182 e 212. l’8maggio 1730 l’Aprile firma il contrat-to per l’esecuzione del fonte da desti-nare alla cappella in Palazzo reale aTorino (ASTo, guerra, Contratti Forti-ficazioni, vol. 19, cc. 157r-157v), se-guendo l’Istruzione dettagliatissimadi juvarra (ibidem, cc. 159r-159v) e il 2ottobre dell’anno seguente quello perla «provisione di due benedetini, etun lavamano» di pietra di gassino dasistemare nello stesso luogo (ASTo,Corte, miscellanea Quirinale, Minuta-ri Contratti Fabbriche e Fortificazioni,mazzo 53, vol. 1, 1731, cc. 135r-136r.Per gli interventi nella cappella dellaVenaria reale vedi A. bAudI dI VeSme,1963-1982, vol. I, 1963, p. 38, e g. grI-TellA, 1992, vol. I, p. 351 e vol. II, pp.23-24.

filippo juvarra,«Instruzione per il lavamano nella Capella della Chiesa di Corte»,1731. Torino, Archivio di Stato (Corte, minutaricontratti, 1731, c. 136r).

Tav.53

24 Ibidem, pp. 347-352; vedi anche P.VeNTurolI, La Galleria Beaumont 1732-1832. Un cantiere ininterrotto da CarloEmanuele III a Carlo Alberto, Torino2002, pp. 13-14.25 devo a Valentina mussini la se-gnalazione di come, nel 1737, l’Apri-le e Parodi vengano pagati per «varijmarmi provisti per servizio del nuo-vo Altare» di San giuseppe in SantaTeresa (ASTo, Camerale, Art. 183,Conto Tesoreria Fabbriche e Fortificazio-ni, vol. 4, 1737, cap. 157, c. 77). Perl’altare in San rocco: l. TAmburINI,1968, p. 193, nota 21.

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Verona nell’appartamento d’inverno di Carlo emanuele III e, l’anno seguente, con l’ap-provvigionamento e la lavorazione di blocchi di marmo di persighino e di seravezza,destinati ad ornare le pareti interne della galleria della regina, poi detta del beaumontsecondo l’iniziale progetto di juvarra, ed impiegati, in parte, solo più tardi nelle opereattuate sotto la direzione di benedetto Alfieri, per il quale prosegue il lavoro dell’Apri-le24.l’analisi della fruttuosa produzione torinese di questo periodo mette in luce il caratte-re estremamente specialistico degli oggetti realizzati, manufatti che sembrano quasi me-no impegnativi rispetto all’allestimento di altari o all’esecuzione di opere più comples-se. A partire dal quarto decennio del secolo, infatti, l’Aprile si trova a dover fare i con-ti con il collega genovese giovanni battista Parodi, attivo nella capitale sabauda proprioin questi anni, che gli viene preferito in molte occasioni. Se, ancora nel 1735, l’altare diSan giuseppe nella chiesa di Santa Teresa, costruito su disegno di juvarra per voleredella regina Polissena d’Assia rheinfels, attesta una collaborazione tra i due marmora-ri nell’approvvigionamento e lavorazione dei marmi, negli anni Quaranta del secolo è ilParodi il protagonista indiscusso (ne è esempio l’altar maggiore della chiesa della Con-fraternita di San rocco, di cui si aggiudica l’appalto al ribasso nel 1745)25. occorre, an-cora una volta, attendere committenze legate ad edifici religiosi ubicati fuori Torino,perché l’Aprile si sleghi dall’esecuzione quasi seriale di colonne – sono del 1740 quelle

benedetto Alfieri, disegno per le colonne nello scalone del Palazzo delle regieSegreterie di Stato, 1740. Torino, Archivio di Stato (Corte, minutari contratti, 1740, c. 175r).

Tav.54

in marmo bardiglio di Valdieri per lo scalone progettato da benedetto Alfieri nelle re-gie Segreterie26 – e ottenga incarichi di un certo spessore: il 20 luglio 1741 rilascia quit-tanza alla Compagnia del SS. rosario per l’esecuzione di un altare in marmo per laCappella nella parrocchiale di Santa maria maddalena a Villafranca Piemonte e, l’annoseguente, con il cugino Antonio, sottoscrive l’impegno ad eseguire l’altare maggioredella Confraternita dei SS. rocco e Sebastiano a giaveno; nella stessa chiesa, nel 1753,esegue la balaustra dell’altar maggiore27. Siamo ormai oltre la metà del secolo e tale im-presa costituisce una delle ultime incombenze accettate dal capo mastro caronese e por-tate a compimento dai suoi collaboratori. I documenti ci informano di come, già nel no-vembre del 1752, infatti, la sua «avanzata ettà» lo costringa a delegare il figlio giovan-ni gerolamo nella riscossione di crediti contratti in relazione alla sua attività a Torino elo stesso gerolamo a ricevere il saldo per l’esecuzione della balaustra dell’altare dellaConfraternita di giaveno nel 175528. Nei documenti notarili non esiste traccia di un te-stamento redatto poco prima della morte e le notizie relative alla sua figura cessanocompletamente dopo il 1754, anno in cui acquista insieme a giovanni battista Parodi unterreno nei pressi della porta di borgo Po; nel 1756, in un atto di vendita dell’erede ge-rolamo, risulta già morto29.Il quadro fin qui tracciato ci porta ad elaborare alcune considerazioni: all’interno delcomplesso organismo del cantiere e nel modo di lavorare di queste maestranze è evi-

26 ASTo, Corte, miscellanea Quirina-le, Minutari Contratti Fabbriche e Forti-ficazioni, mazzo 54, 1740, vol. 7, cc.170r-172v e, a seguire, l’Istruzionedell’Alfieri e il disegno (c. 175). VediP. VeNTurolI (a cura di), Il Restaurodello Scalone di Benedetto Alfieri, Tori-no 1999, pp. 23, 46; i documenti sonointeramente trascritti da g. SPIoNe, ibi-dem, pp. 173-174. 27 f. moNeTTI e A. CIfANI, 1987, pp. 51-52. Il saldo per l’altare del SS. rosario,oggi non più esistente, è pagato adAntonio il 20 agosto 1741, mentre ipagamenti per l’altare della Confra-ternita si protraggono fino al 1747. ri-cordiamo anche l’esecuzione dell’ar-ma di Savoia, sul portale della Certo-sa di Collegno, che fu pagata a fran-cesco Aprile nel 1739: ASTo, Camera-le, Art. 183, Conto Tesoreria Fabbriche eFortificazioni, vol. 6, 1739, c. 132.28 l. Tamburini (1968, p. 111) ricordacome uno degli ultimi incarichi sotto-scritti da francesco Aprile l’esecuzio-ne dell’altare della cappella di SanCarlo nella chiesa del Corpus dominia Torino; vedi anche g. dArdANello,La fabbrica del Corpus Domini. La co-struzione di una identità di pietra, in g.dArdANello, r. SAVArINo e l. TAmbu-rINI, La Basilica urbana del Corpus Do-mini. Il miracolo di Torino, Torino2004, pp. 53-67. Per la procura affida-ta al figlio giovanni gerolamo: A-STo, Archivio dell’Insinuazione, tap-pa di Torino, 1752, libro 11, cc. 669r-670r; il saldo per il lavoro di giavenoin A. CIfANI e f. moNeTTI, 1987, p. 54.29 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1754, libro 6, cc.306r-307v; 1756, libro 4, cc. 606v-610r.

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francesco Aprile, Armi reali,1739. Collegno, Portale della Certosa.

dente una stabilità e una continuità nel rapporto di collaborazione tra pochi nuclei fa-miliari, gli Aprile con i Casella e, anche se in maniera minore, i Solaro. già avviato inoccasione dei lavori per la Cappella della Sindone perdura per tutte e tre le generazio-ni, sfilacciandosi solo a partire dagli anni Trenta del Settecento, quando francesco A-prile, ormai affermato e conosciuto, si trova a lavorare in solitaria al seguito di filippojuvarra o a collaborare, occasionalmente, con altri lavoratori specializzati, come ad e-sempio matteo buzzi. Via via con lo scorrere degli anni, tale associazione di impresaentra in competizione con altre maestranze di origine luganese o lario-intelvese specia-lizzate nella lavorazione di marmi e pietre, guidate da figure come francesco Piazzolio giovanni battista Parodi, come testimoniato dalle numerose gare di appalto di questianni e dalle gare al «ribasso» per aggiudicarsi il lavoro; rare e limitate a pochi inter-venti risultano le collaborazioni. l’attività degli Aprile è legata principalmente ad unruolo di esecutori, duttili sia nel rispondere ad esigenze formali di architetti di variasensibilità – da bernardino Quadri al guarini, da bertola a juvarra, a gallo, fino all’Al-fieri – sia nel lavorare una gamma di opere che va dalla fattura di colonne e di elemen-ti strutturali destinati agli edifici in costruzione, ad opere maggiormente decorative, co-me gli altari e i fonti battesimali. Per altro verso, i «piccapietre» non assumono quasimai responsabilità progettuali; quando lo fanno è in seconda battuta per interventi dimodifica a progetti già esistenti, come nel caso dell’altare realizzato per la chiesa che fudei padri gesuiti a Cuneo, negli anni Trenta del Settecento. la geografia di attività per le prime due generazioni prese in esame, da Carlo Alessan-dro Aprile al figlio francesco, copre in particolar modo la capitale sabauda e paesi li-mitrofi: le opere realizzate in questi anni sono tutte frutto della committenza torinese ela presenza di membri della famiglia in altre aree del territorio è legata esclusivamentealla gestione in prima persona di alcune cave di marmo (come quelle dei marmi nero ebigio a frabosa, nel cuneese, per il cantiere della Cappella della Sindone). Solo a parti-re dalla terza generazione si osserva un allargamento del campo d’azione anche a zonedel Piemonte meridionale, in particolare al Cuneese ed al Saluzzese.

I Piazzoli da montroniofrancesco Piazzoli era a Torino almeno dall’estate del 1675, nel gruppo di lavoro mes-so insieme da giuseppe maria Carlone per realizzare – secondo il progetto di Amedeodi Castellamonte – basi, piedistalli e capitelli in pietra bianca di San martino per le 166colonne in pietra d’Arzo della grande galleria di Palazzo reale30. All’incirca ventenne,

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30 ASTo, Camerale, Art. 195, Fabbrichedi Sua Altezza: Sessioni, atti scritturedel Consiglio di Finanze, mazzo 2, vol.3, cc. 203v-206r e 206v-210v.

giuseppe maria Carlone e francesco Piazzoli, su disegnodi rocco Antonio rubatti.ghirlanda intorno a una colonna, 1685-1686. Torino, Corpus domini, Cappella di San giuseppe.

proveniva da montronio, un piccolo paese della Val d’Intelvi, soggetto al ducato di mi-lano e compreso nella diocesi di Como; probabilmente il suo arrivo a Torino era stato inparte preparato dal cognato Carlo ferretti, anch’egli intelvese e «piccapietre», attivo inquegli anni in società con il viggiutese Carlo busso. l’impressione è però che il giovanePiazzoli avesse sufficiente intraprendenza e oculatezza per scegliere le occasioni e i con-tatti necessari ad imparare il mestiere e ad inserirsi con agio nell’ambiente dei marmo-rari torinesi: nei conti relativi al contratto del 1675 il suo nome veniva sottaciuto sotto lagenerica qualifica di «compagno», ma nel 1681 egli doveva ormai godere di una conso-lidata condizione professionale ed economica, poiché fu nominato «statuario et mastroPiccapietra» e richiesto come fideiussore dal più anziano collega giuseppe Sala «di lu-ghano», che lo aveva voluto accanto a sé negli ultimi anni della sua attività31. Nel frat-tempo, oltre a questo sodalizio, Piazzoli curava un’altra società lavorativa – contraddi-stinta da scelte di grande prestigio e visibilità – in coppia proprio con quel giuseppemaria Carlone che proveniva da una collaudatissima carriera di committenze per altaridi Torino e provincia: assieme, il 16 marzo 1685, firmarono la convenzione per la fac-ciata in marmi colorati della Cappella di San giuseppe nella chiesa del Corpus domini,

31 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1681, libro 8, vol. II,cc. 673r-675v. Il Sala, anch’egli nell’im-presa delle pietre di San martino perla grande galleria, lavorò col Piazzolia Torino tra 1680 e 1683, alla fabbricadi Palazzo Carignano – in particolareper il portale in pietra di gassino – ein quella dell’ospedale di San gio-vanni battista; sempre con Piazzoli fuincaricato della realizzazione delle co-lonne in «vechia machia d’Arso» perla Cappella del beato Amedeo nelduomo di Vercelli (ASTo, Camerale,Art. 193, Contratti seguiti avanti il Con-siglio delle Fabbriche e Fortificazioni,1683, vol. IV, cc. 31r-32r). Noto per larealizzazione dell’altare della chiesadi Santa Teresa, morì probabilmentealla fine del 1683 (g. dArdANello,1989, p. 160; A. CIfANI e f. moNeTTI, Ar-te e artisti nel Piemonte del ’600. Nuovescoperte e nuovi orientamenti, Cavaller-maggiore 1990, pp. 140-144).

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francesco Piazzoli, su disegno di giovanni francescobaroncelli. Portale dell’ospedalemaggiore di San giovannibattista a Torino, circa 1698.

facendosi così interpreti delle ricerche cromatiche dell’ingegner rocco Antonio rubat-ti che, con l’invenzione delle ghirlande «scolpite con fogliami al naturale», mostrò – co-me ha sottolineato dardanello – un raro segnale di attenzione alle suggestioni colori-stiche guariniane32; sempre assieme, tra 1687 e 1688, su progetto del garove, costruiro-no l’altar maggiore della vecchia chiesa parrocchiale dei Santi giovanni battista e re-migio a Carignano e nel 1689 si impegnarono per l’altare della beata margherita di Sa-voia nella chiesa del monastero di Santa maria maddalena ad Alba33. Intanto Piazzolisi ritagliava anche lo spazio per lavori in autonomia, poiché nel 1684 stipulò da solo ilcontratto per l’altare di san francesco di Sales, disegnato da francesco lanfranchi, nelconvento della Visitazione di Torino34.Questo intenso inizio di carriera gli spianò la strada, garantendogli dalla fine degli an-ni ottanta e sino ai primissimi anni del XVIII secolo una serie ininterrotta di incarichi:lavorò alla Certosa di Collegno, nella chiesa dello Spirito Santo, presso i cantieri di Pa-lazzo Provana druent e dell’ospedale maggiore di San giovanni battista a Torino e –giustificando l’indicazione di «statuario» con cui lo si trova spesso citato nei documen-ti – eseguì i busti in marmo di alcuni benefattori di quest’ultima istituzione35.

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32 g. dArdANello, La fabbrica del Cor-pus Domini, 2004, pp. 60-61, dove siricorda che nel 1702, dopo una pausadi ben quindici anni, fu sempre ilPiazzoli, questa volta assieme a fran-cesco Aprile, ad occuparsi della de-corazione marmorea della cappelladi San Carlo, prospiciente quella diSan giuseppe. Sulla figura di giu-seppe maria Carlone si veda g. dAr-dANello, 1989, p. 160, nota 29; sullasua famiglia, m. bArToleTTI e l. dA-mIANI CAbrINI, I Carlone di Rovio, lu-gano 1997.33 entrambi gli altari sono stati se-gnalati da g. dArdANello 1989, p.160, nota 29. I marmi dell’altare diCarignano, vennero riutilizzati dal-l’architetto carignanese giovannibattista galletto nel 1771 per l’altarmaggiore della chiesa di Santa mariadelle grazie (g. geNTIle, I Conventi ele loro chiese, in Carignano. Appunti peruna lettura della città, Pinerolo, 1973-1980, vol. III, Note sul ’600 e ’700 inCarignano, p. 75).34 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1684, libro 8, vol. II,cc. 483r-485v. Probabilmente l’inter-vento del Piazzoli fu ancora uno stra-scico della progettazione lanfranchia-na avviata negli anni Sessanta.35 Sugli interventi alla Certosa di Col-legno, ASTo, Archivio dell’Insinua-zione, tappa di Torino, 1690, libro 9,cc. 351r-353v; per la chiesa dello Spi-rito Santo vedi l. TAmburINI, 1968, p.403 e m. f. PAlmIero in questo capito-lo; per il lavoro a Palazzo Provana, C.moSSeTTI, Un committente della nobiltàdi corte: Ottavio Provana di Druent, ing. romANo (a cura di), 1993, p. 306.dei busti si trova notizia in A. PAolI-No, Benefattori «insigni» e committenzeartistiche dell’Ospedale maggiore di SanGiovanni Battista della Città di Torino1678-1900, in «Studi Piemontesi»,1994, vol. XXIII, fasc. I, p. 136.

giuseppe Sala e francescoPiazzoli, su disegno di guarino guarini. Portale di Palazzo Carignano a Torino,1680-1682.

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Il suo operato in città doveva comunque essere più esteso e rilevante di quanto ogginon diano ad intendere le fonti archivistiche, poiché sappiamo che egli nel 1701 ricoprìuna carica di primaria importanza nell’ambiente artistico torinese: in qualità di «sculto-re», venne infatti eletto «priore» della Compagnia di San luca36.fuori dalla capitale, nei primi anni Novanta, si impegnò per due importanti commit-tenze ecclesiastiche: la realizzazione dell’altare marmoreo, poi smantellato, della Com-pagnia di San giovenale nella cattedrale di fossano, secondo le istruzioni del lanfran-chi e del rubatti, e di quello della chiesa dei Santi Andrea e Ponzio a dronero, che an-cora sopravvive. Nel progetto di quest’ultimo vengono esplicitamente citati gli altari to-rinesi di San francesco da Paola, Santa Teresa e San francesco d’Assisi, con un richia-mo, confermato dal cupo accostamento dei marmi, alle scelte stilistiche diffuse dallacorte sabauda. ma la struttura – con le colonne rigate, l’oculo e il profilo incurvato – di-mostra che vi fu interesse anche per l’innovativo altare costruito nel 1675 da giuseppemaria e giovanni domenico Carlone per la chiesa francescana di Nostra donna a mon-dovì37. Accanto alle committenze dei privati, Piazzoli fu poi costantemente coinvolto dall’uffi-cio delle fabbriche e fortificazioni, che gestiva l’edilizia dei cantieri ducali: l’analisi deicontratti firmati per queste istituzioni, conservati presso l’Archivio di Stato di Torino, èdi grande interesse poiché ci mostra che egli svolse non solo lavori strettamente legatialla sua formazione di marmorario, ma anche attività meno specializzate, fino ad «a-dattarsi» – negli anni dell’assedio torinese, quando gli uffici non commissionavano senon opere di difesa – al più umile lavoro di «cavaterra». eppure Piazzoli, sin dagli esordi nelle cave della Val San martino, doveva essere dav-vero ben integrato nel mestiere di «piccapietre», tanto da possedere una cava a gassino,nella regione denominata «del rocco», con un magazzino rifornito di tutte le attrezza-ture necessarie allo scavo e alla sbozzatura, mentre in Torino era proprietario di un de-posito di pietre «tanto lavorate, che rustiche, e lustre pure con tutta la ferramenta, bo-scami, corde e mischij di qualunque sorte». Poco prima di morire lasciò l’una e l’altro ainipoti Alessandro e Carlo che facevano il suo stesso mestiere e che, a loro volta, forseper urgenza di denaro, vendettero la cava nel 1729 a giovan battista Parodi38. Sappia-mo poi che un altro suo nipote, giorgio ferretti, aveva (probabilmente perché ereditatidal padre Carlo) alcuni terreni con una cava nella zona di Chianocco, in Valle di Susa,sui quali Piazzoli esercitò saltuariamente la potestà come procuratore39. Non si può poinon interpretare come una scelta oculata il matrimonio tra la prima figlia di Piazzoli,domenica Caterina, e il misuratore di gassino michele Antonio brica che lavorava peril Consiglio delle fabbriche e fortificazioni e che, nel 1705, viveva assieme al suoceronella casa di Torino40. Questa casa, attigua al Palazzo dell’Accademia, sulla piazza delCastello, fu l’abitazione di Piazzoli dal primo decennio del XVIII secolo fino alla suamorte: doveva essere costituita da alcune stanze al di sopra della bottega, posta al livel-lo della strada; un’ubicazione di grande rilievo, che si può leggere come indice del cre-dito goduto dal «piccapietre» e scultore agli occhi delle autorità41. I contratti lavorativi incominciarono a diradarsi nei primi anni del XVIII secolo, quandoPiazzoli, alla soglia dei cinquant’anni – forse per convenienza economica, o per concor-renza, oppure, più semplicemente, per raggiunti limiti d’età in un mestiere che dovevaessere davvero provante per il fisico – scelse di ritirarsi lentamente dalle scene dell’im-prenditoria edile. d’ora in avanti, se si eccettua un esiguo numero di lavori dilazionatinel tempo, egli sembra prediligere un’altra strada di guadagno, quella del prestito e del-la riscossione di denaro: indagando tra gli atti notarili scopriamo che il marmorario nefece quasi un secondo mestiere, divenendo un punto di riferimento per chi era in diffi-coltà economica, tanto da prestar denaro non solo a colleghi e connazionali, ma a per-sone di rango della capitale e addirittura ad istituzioni quali l’ospedale della Carità diTorino e la Comunità di rivalba, «minaciata da nemici francesi d’incendio delle case»42.l’ininterrotta serie delle citazioni documentarie e le notizie che riguardano i familiaridanno l’impressione che Piazzoli abbia passato gran parte della sua esistenza a Torino;ma – a leggere alcuni atti di procura e i testamenti – si capisce che i legami materiali espirituali con il luogo d’origine erano ancora ben vivi. Aveva a cuore la formazione dei

36 A. bAudI dI VeSme, 1963-1982, vol.IV, 1982, p. 1965.37 le convenzioni per i due altari siconservano in ASTo, Archivio del-l’Insinuazione, tappa di Torino, 1693,libro 8, vol. II, cc. 521r-523v e 1694,libro 4, cc. 327r-330v. l’altare di dro-nero era già stato segnalato da g.dArdANello, Altari in marmo, 2004, p.326. Per l’altare di mondovì, oggi aroccadebaldi, g. dArdANello, 1989,p. 161. Per un’indagine complessivasulla presenza degli artigiani lom-bardo-ticinesi nei cantieri ducali siveda g. dArdANello, C. lANzI e m. f.PAlmIero, 2005, pp. 137-172 e 233 esgg. In questo contesto lavorativoPiazzoli sembra avere un consolida-to gruppo di colleghi, tutti originaridella zona dei laghi: Pietro Sardi dimorcote, domenico Parraca dellaValsolda, giovanni battista Quadro-ne, probabilmente della Val d’Intel-vi, i fratelli menafoglio di marzio,giovanni domenico Vanone di Ca-vagnano. 38 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1719, libro 6, vol. II,cc. 619r-619v; e 1729, libro 1, cc. 753r-758v. Va ricordato che la stragrandemaggioranza dei contratti firmati daPiazzoli prevede l’uso del calcare digassino, peraltro diffusissimo nell’e-dilizia torinese del XVIII secolo. Perquesto materiale si vedano m. gomezSerITo, I marmi colorati piemontesi nel-la decorazione, in «Atti e rassegnaTecnica della Società degli ingegnerie degli architetti in Torino», n. s.,lIII, 1, 1999, p. 18 e A. CoCCo, m. go-mez SerITo e C. SoldATI, Problemi e re-stauri della pietra di Gassino, in La pro-va del tempo. Verifiche degli interventiper la conservazione del costruito, Attidel Convegno Scienza e beni Cultu-rali a cura di g. biscontin e g. drius-si, n. 16, bressanone 27-30 giugno2000, pp. 81-94.39 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1689, libro 4, cc. 337r-337v e 1711, libro 5, cc. 369r-370r.40 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1698, libro 10, cc.209r-211v; per la notizia del 1705 siveda g. merlo, C. rAVIzzA, A. CIfANI ef. moNeTTI, 1996, p. 31.41 Precedentemente Piazzoli aveva a-bitato nella casa del «minusiere»giovanni eusebio mosso, sotto laparrocchia di San giovanni e nelCantone di San ludovico (ASTo, Ar-chivio dell’Insinuazione, tappa diTorino, 1698, libro 10, cc. 209r-211v).

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nipoti là residenti, così come la sorte dei parenti più poveri, in favore dei quali decisedi offrire le rendite dei suoi beni in zona; sempre sentita era poi la devozione persant’Agata, titolare della Confraternita che ancora oggi si trova ai margini del paese dimontronio. Alla sua morte, avvenuta nel mese di giugno del 1719, poco dopo aver det-tato dal suo letto d’infermo l’ultimo testamento, agli eredi rimasero beni e interessi dagestire nella valle, compresa una casa e l’ipotesi di un eventuale trasferimento43. Quella del Piazzoli sembrerebbe quindi una carriera esemplare, al servizio di tutti igrandi architetti che hanno progressivamente disegnato l’edilizia della capitale sabaudae accanto ad alcuni degli impresari più abili e qualificati; se non fosse per il finale unpo’ spaesante, con quel crescente disinteresse per il proprio mestiere. In effetti non sem-bra si possa parlare di un vero e proprio seguito familiare alle fortune professionali difrancesco Piazzoli: il figlio Pietro emanuele, «tra viagij che ha fatto per il mondo et di-nari che gl’ha esportato da sua casa», dovette avere non pochi contrasti col padre e non

42 ASTo, ibidem, 1714, libro 6, vol. II,cc. 519r-519v e 1705, libro 12, cc. 447r-447v. Tra i più importanti contrattidel periodo tardo ricordiamo la rea-lizzazione di 14 colonne in pietra digassino per il Palazzo dell’univer-sità, secondo il progetto di garove eparallelamente al lavoro di bartolo-meo Quadrone, Antonio Casella efrancesco Aprile (ASTo, guerra, Con-tratti Fortificazioni, vol. 19, 1713, cc.94r-95); g. dArdANello, Il Palazzo del-

l’Università, Torino 2004, pp. 19-90;l’approvigionamento delle quattrocolonne corinzie in pietra di gassinocon zoccoli in pietra di Vaie e basi inmarmo di foresto per l’abside dellaCappella di Sant’uberto alla Venaria,composte in 25 giorni nel 1718 (ASTo,guerra, Contratti Fortificazioni, vol. 5,1717-1718, cc. 203r-204r; r. Pommer,Architettura del Settecento in Piemonte.Le strutture aperte di Juvarra, Alfieri eVittone, a cura di g. dardanello, Tori-

no 2003, pp. 19-28 e 112. g. grITellA,1992, vol. I, p. 348); la fornitura di co-lonne, mezze colonne, capitelli, pie-destalli, zoccoli e ornamenti, semprein pietra di gassino, per il Palazzo delconte Saluzzo di Paesana, secondo leistruzioni di gian giacomo Planteri(ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1723, libro 1, cc. 694r-697v; b. PeCCheNINo, Il Palazzo SaluzzoPaesana nelle sue vicende architettonichee urbanistiche e A. frISA morANdINI e m.

gomez SerITo, Le pietre di Palazzo Sa-luzzo Paesana, in ANg. grISerI [a curadi], Il Palazzo di Saluzzo Paesana, Tori-no 1995, rispettivamente pp. 31-49 e165-174).43 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1711, libro 2, cc.173r-177r e 1719, libro 6, cc. 93r-94v.

Carlo e giovanni AntonioPiazzoli, su disegno di filippo juvarra. mensa e dossale dell’altaremaggiore, 1724-1726. Venaria reale, Sant’uberto.

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continuò il suo mestiere44. erano invece tutti variamente impegnati nel campo edile i ni-poti, tra cui Alessandro e Carlo che lavorarono entrambi per l’Azienda delle fabbrichee fortificazioni. Alessandro fornì pietre di gassino per il cantiere della Chiesa reale diSuperga, ma poi preferì allontanarsi da Torino per evitare di sobbarcarsi le spese (o e-ventuali peggiori conseguenze) dell’impresa lasciata incompiuta da un collega decedu-to45. Carlo invece intraprese una strada promettente sotto le direttive di filippo juvar-ra, lavorando negli appartamenti del Castello di rivoli, assieme a bartolomeo Quadro-ne e a francesco maria giudice46, e poi in progetti di crescente importanza presso lareggia di Venaria: fu nel gruppo, capitanato dai «milanesi» Ambrogio Torre e Paologobbi, che curò la pavimentazione in bianco di foresto e verde di Susa della galleria didiana47; poi, nel 1721, si impegnò a realizzare i gradini in pietra di gassino per sorreg-gere i modelli lignei dei tre altari della chiesa di Sant’uberto48; infine, nel 1724, vinse lagara d’appalto per la costruzione degli altari definitivi. Il primo architetto regio dovevaavere piena e incondizionata fiducia in lui per assegnargli l’esecuzione di un così raffi-nato allestimento scenografico, da realizzare interamente con pietre di cave locali. Apartire dal 18 novembre 1724 il misuratore Antonio maria lampo eseguì regolari so-pralluoghi presso la sua bottega posta «nel nuovo ingrandimento di Porta Susina», perverificare lo stato di lavorazione delle pietre; ma nell’estate del 1725, a causa di una ma-lattia, Carlo dovette abbandonare l’impiego e cercare sollievo in soggiorni lontani daTorino, affidando definitivamente l’attività al fratello e compagno giovanni Antonio49.

I giudice da Viggiù: ai vertici dell’intaglio lapideo torinesefrancesco maria giudici, marmorario di Viggiù, probabilmente esordì a Torino conquell’altar maggiore della chiesa di San filippo Neri che è stato definito «il più impor-tante dell’Italia settentrionale dei primi anni del ’700»50: per l’occasione, secondo il pro-getto iniziale di michelangelo garove, vennero appositamente aperte delle cave di ala-bastro a busca e non si può non pensare che ci sia stato un altrettanto ponderato dise-gno dietro la scelta dell’impresario cui affidare la direzioni dei lavori; d’altra parte sap-piamo che egli possedeva cultura e prestigio sufficienti per essere considerato degno diconversare amabilmente con il committente dell’opera, il principe di Carignano ema-nuele filiberto Amedeo, che «veniva per l’ordinario tutti li giorni et etiandio molte vol-te, due volte il giorno a vedere il travaglio di detto altare»51. A ridosso di questa ecce-

44 Pietro emanuele nel 1719 viveva aParigi in qualità di gentiluomo del-l’ambasciatore del re del Portogalloe nel 1724 si arruolò come «quartiermastro» nel reggimento del baronedi Chalembourg: morì nel 1733, dopoaver accumulato una fortuna in buo-na parte dovuta alla rendita dei nu-merosi crediti del padre (ASTo,ibidem, 1719, libro 6, c. 94r; 1724, libro7, cc. 277r-278v; 1733, libro 9, cc.867r-871r).45 ASTo, guerra, Contratti Fortificazio-ni, vol. 6, 1719, cc. 46r-48r; vol. 18,1728-1729, cc. 160r-161v; g. dArdA-Nello, C. lANzI e m. f. PAlmIero, 2005,p. 155.46 ASTo, guerra, Contratti Fortificazio-ni, vol. 5, 1717-1718, cc. 46r-47v.47 Ibidem, vol. 7, 1720, cc. 286r-288v;g. grITellA, 1992, vol. I, p. 184.48 ASTo, guerra, Contratti Fortificazio-ni, vol. 8, 1721, cc. 124r-125r. r. Pom-mer, 2003, p. 114; g. grITellA, 1992,vol. II, pp. 7-12.

francesco maria giudice, sudisegno di michelangelo garovee Antonio bertola,mensa dell’altare maggiore, 1697-1704. Torino, San filippo.

Tav.43

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zionale impresa, che si protrasse dal 1697 al 1704, francesco maria – che aveva tra i suoipiù stretti collaboratori il fratello Carlo Antonio – ricevette altre committenze per altaritorinesi oggi scomparsi: nel 1700 il marchese Pallavicino gli affidò la lavorazione del-l’altar maggiore della Confraternita dei Santi Processo e martiniano, che doveva esserein gran parte formato di pietra nera di Como52, e nel 1707 il conte fecia di Cossato lo in-caricò di eseguire il progetto dell’ingegner Carlo Quadro per l’altare dell’ImmacolataConcezione nella chiesa della madonna degli Angeli53. dalla fine del primo decennio del XVIII secolo fino alla metà del successivo seguono al-cuni anni di silenzio nelle fonti documentarie, forse perché francesco maria fu impe-gnato a lavorare lontano da Torino o forse perché fece ritorno nel paese natale, a gesti-re quei beni e quegli interessi per i quali in altre occasioni dovette eleggere dei procu-ratori54. In effetti sembra di capire che l’artigiano fosse abituato ad una certa mobilità,come conferma il fatto che non è stato possibile rintracciare il suo nome nel censimentodi Torino del 1705; d’altra parte nell’archivio notarile non si trovano i suoi testamenti enemmeno scritture riguardanti le donne della famiglia che, evidentemente, avevano re-sidenza stabile a Viggiù.Nel frattempo però la sua fama nello Stato sabaudo non era venuta meno: lo ritroviamoinfatti di nuovo all’opera tra 1717 e 1718, in cantieri di rilievo. juvarra aveva previsto l’u-tilizzo di alabastro per i cornicioni negli appartamenti reali del Castello di rivoli e neifunzionari c’era la certezza che non fosse possibile trovare «alcuno più prattico del Capomastro Picapietre francesco maria giudice» nell’indagare e nello sfruttare le cave di bu-sca55. di questo materiale egli doveva addirittura possedere una sorta di deposito poichéproprio in quegli anni lo scalpellino Carlo busso (anch’egli nativo di Viggiù, nonché im-parentato con la famiglia giudice) scolpì diversi ornamenti per i camini di Venaria, uti-lizzando le sue pietre56. È probabile che questa competenza contribuì a guadagnargli lafiducia del primo architetto regio che apprezzava e utilizzava sovente l’alabastro di bu-sca; ma francesco maria doveva essere ritenuto affidabile anche per la sperimentazionedi nuovi materiali, come dimostra il fatto che il 10 dicembre 1718, assieme al figlio gio-vanni domenico, firmò la capitolazione con cui si aprì la lunga fase dell’ornamentazionemarmorea della Confraternita della Santissima Trinità a Torino, per la quale juvarra a-veva previsto numerose varietà di pietre colorite, come il giallo di Verona, il verde di Su-sa, il bigio di frabosa, il seravezza di firenze e il «libecco di Sicilia»57. francesco maria giudice morì probabilmente poco prima del 172458. dai primi anni Ven-ti incominciarono a lavorare con assiduità i figli giovanni domenico e Carlo59: la famadel padre doveva aver spianato per loro la strada poiché li troviamo entrambi menzio-nati accanto a personalità di prim’ordine nell’arte dell’intaglio lapideo piemontese, qua-li furono giovan battista Parodi e Carlo Tantardini. la carriera di giovanni domenico sisvolse quasi completamente alle dipendenze del Consiglio delle fabbriche e fortificazio-ni e nel cantiere della Chiesa reale di Superga, in compagnia di Parodi, del luganesefrancesco luisone e di giovan battista Tirola, originario di montronio. I quattro impre-sari costituirono una società, attestata da alcuni atti di quietanza in occasione dei qualiParodi, che ricopriva il ruolo di tesoriere, distribuiva alle parti il denaro ricevuto dallecasse dello Stato60; assieme si occuparono dell’approvvigionamento e della lavorazionedi pietre provenienti dalle cave di gassino e brusasco, eseguendo i lavori cui, con tutta

49 I documenti relativi agli altari diSant’uberto si conservano in ASTo,Camerale, Art. 179, Fabbriche di SuaAltezza, mazzo 3; sulla vicenda si ve-dano r. Pommer, 2003, pp. 19-28 e114; g. dArdANello, 1989, pp. 219-222, con la trascrizione delle istruzio-ni di juvarra alle pp. 226-228; g. grI-TellA 1992, vol. II, pp. 7-12; m. gomezSerITo, I marmi della Cappella juvarria-na di Sant’Uberto, in «Arkos», annoIII, fascicolo 7, 2, 2002, pp. 30-39. An-che la carriera di giovanni Antoniosembra esaurirsi al termine di questaimpresa.50 Assieme a francesco maria, nei pa-gamenti per questa impresa, vienesegnalato anche il fratello Carlo An-tonio, oltre a un altro membro dellafamiglia di nome giovan Angelo: h.A. mIlloN, L’altare maggiore della chie-sa di San Filippo Neri di Torino, in«bollettino della Società Piemontesedi Archeologia e belle Arti», n.s.,XIV-XV, 1960-61, pp. 83-91.51 I. mASSAbò rICCI e A. merloTTI, In at-tesa del duca: reggenza e principi del san-gue nella Torino di Maria Giovanna Bat-tista, in g. romANo (a cura di), 1993, p.156. Sulla portata innovativa dell’alta-re, g. dArdANello, 1989, pp. 169-172.52 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1704, libro 9, cc.315r-316r. Come segnalato in l. TAm-burINI (1968, p. 37) questo altare «inmarmo nero lucido» probabilmentevenne rovinato dal crollo del tettonel 1714. la chiesa, che trovava postonel tratto terminale di via San fran-cesco d’Assisi, venne distrutta versola fine del XIX secolo per aprire ladiagonale di via Pietro micca. È pro-babile che proprio per la ristruttura-zione delle porte laterali di questo al-tare il giudice nel 1709 si fosse impe-gnato nel trasporto a Torino di unconsistente quantitativo di pietre ne-re di Como (ASTo, Archivio dell’In-sinuazione, tappa di Torino, 1717, li-bro 11, cc. 523r-524v).53 ASTo, ibidem, 1707, libro 3, cc. 545r-546v. l’altare, probabilmente elimi-nato durante la riplasmazione dellachiesa curata dal Ceppi agli inizi delNovecento, era collocato nella terzacappella a sinistra: C. AleySoN, La Ma-donna degli Angeli in Torino. Storia il-lustrata, Torino 1916, p. 49. 54 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1716 libro 10, cc.589r-590r; 1718, libro 5, cc. 73r-74r;1718, libro 11, cc. 573r-574r.55 ASTo, guerra, Contratti Fortificazio-ni, vol. 5, 1717-1718, cc. 17r-19r e 46r-

47v; g. grITellA, 1992, vol. I, pp. 412 e426, nota 21.56 Ibidem, p. 386. 57 g. dArdANello, 1989, pp. 175-176 epp. 225-226.58 Nel gennaio del 1724 risulta giàmorto; l’8 gennaio 1725 il figlio gio-vanni domenico sceglie lo zio CarloAntonio come procuratore «per pro-ceder alla divisione con li sig.ri Pietrofrancesco e Carlo suoi fratelli de be-ni, et effetti hereditarij del prenomi-nato fu loro Commune genitore»

(ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1725, libro 1, cc.116r-116v).59 Assieme a loro compare talvolta ilnome di giulio gabriele giudice, fi-glio di bernardino, anch’egli viggiu-tese; non sappiamo però quale rap-porto di parentela lo legasse a Carloche comunque era «persona a luigrata, e confid.e» (ASTo, ibidem, 1730,libro 12, cc. 501v-502r). 60 ASTo, ibidem, 1724, libro 1, cc. 533r-533v; 1727, libro 1, cc. 321r-322r;1730, libro 4, cc. 553r-554v; i contratti

delle fabbriche e fortificazioni (percui si veda g. dArdANello, C. lANzI em. f. PAlmIero, 2005, pp. 233 e sgg.)segnalano inoltre che giovanni do-menico tra gli anni Venti e Trenta ri-coprì molte volte il ruolo di garantein favore di altri impresari. È con tut-ta probabilità da identificare in luiquel giovanni domenico giudice chetra 1728 e 1729 costruì l’altare nellachiesa di Sant’Andrea a Savigliano suprogetto di francesco gallo (g. dAr-dANello, Altari in marmo, 2004, pp.330-333; C. gorIA e m. f. PAlmIero, Peruna storia figurativa saviglianese del Seie del Settecento, ibidem, p. 134).

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61 N. CArboNerI, 1979, pp. 59, 63, 65 e67.62 ASTo, Camerale, Art. 183, Conti Te-soreria Fabbriche e Fortificazioni, vol. 3,1736, cap. 126, p. 61. Sulla vicenda siveda l. TAmburINI, Postille alle chiesetorinesi: S. Teresa, S. Carlo e S. Cristinanelle elaborazioni settecentesche, in «Stu-di Piemontesi», vol. III, 1974, fasc. I,pp. 98-99.63 Siamo certi dell’identità del perso-naggio, nonostante il fatto che neicontratti vercellesi (conservati pressol’Archivio di Stato di Vercelli: in se-guito ASVc) manchi sempre l’indica-zione del patronimico, grazie al con-fronto tra le firme presenti sia qui chein ASTo, guerra, Contratti Fortifica-zioni (per esempio vol. 18, 1729, cc.116r-117r e 160r-161v; vol. 19, 1730,cc. 221r-222v) dove Carlo «del fufrancesco maria» svolse il ruolo digarante in favore di giovanni battistaParodi e di altri impresari.64 ASTo, Archivio dell’Insinuazione,tappa di Torino, 1730, libro 12, cc.501v-502r.65 I lavori di oropa vennero avviaticon ordinato del 29 novembre 1726 (g.grITellA, 1992, vol. II, p. 89 e nota 12).66 la prima quietanza di pagamentoper la balaustra di San Cristoforovenne registrata il 29 dicembre 1730.Il documento è segnalato da C. de-bIAggI, La balaustra di Filippo Juvarraper la chiesa di S. Cristoforo a Vercelli,in «bollettino della Società Piemonte-se di Archeologia e belle Arti», XlVI,1994, p. 157.

probabilità, si riferiscono le istruzioni di juvarra per l’architrave della facciata, per l’or-dine esterno del tamburo e per le basi e i capitelli delle colonne dell’ordine inferiore in-terno61. Con gli anni e con l’esperienza giovanni domenico arrivò forse ad assumere in-carichi di sovrintendenza: nel 1736 venne infatti inviato alle cave di frabosa per collau-dare uno dei pezzi di marmo bianco scavati e sbozzati dal luganese giuseppe zelbi performare le statue della facciata della chiesa di Santa Cristina a Torino, destinate a sosti-tuire gli originali in marmo di Carrara eseguiti vent’anni prima dal parigino Pierre le-gros62. Carlo invece, dalla seconda metà degli anni Venti, preferì allontanarsi dalla capitale perandare a lavorare nelle zone del biellese e del Vercellese63: non si può escludere che allabase di questa scelta ci fosse la maggiore vicinanza alla zona di origine, poiché – comepare – anch’egli, seguendo le orme del padre, rinunciò ad avere residenza fissa in Pie-

Carlo giudice, su disegno di filippo juvarra. Portale del Santuario della madonna di oropa, circa 1726.

Tavv.34-35

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67 la convenzione per l’«avello», chegiudice si impegna a realizzare entroaprile 1739, si trova in ASVc, Corpo-razioni religiose, mazzo 57, cc. non nu-merate; è interessante leggere che il13 marzo 1739 un pagamento di lire70 venne ritirato da Carlo francescoganna, esponente di un’altra fami-glia di marmorari viggiutesi. l’altarea due fronti per l’infermeria dell’o-spedale maggiore di Vercelli, già se-gnalato da A. m. brIzIo, Vercelli, cata-logo delle cose d’arte e di antichità d’Ita-lia, roma 1935, p. 151, venne abbat-tuto dopo il 1962; ordinato dalla con-gregazione dell’ospedale il 16 agosto1737 (ASVc, ospedale maggioreSant’Andrea di Vercelli, mazzo 71,cc. non numerate) fu commissionatoal giudice il giorno successivo concapitolazione conservata in ASVc, o-spedale maggiore Sant’Andrea diVercelli, mazzo 654, cc. non numera-te; l’11 aprile 1738 Carlo giudice ri-cevette per esso un pagamento di lire1740 di Piemonte (ibidem).68 l’11 settembre 1741 giudice e Pe-lagatta ricevettero il primo pagamen-to per l’altar maggiore del duomo(m. dI mACCo, La statua di Sant’Eusebionel Duomo di Vercelli una nota per Do-menico Ferretti, in V. NATAle (a curadi), Arti figurative a Vercelli. Il Seicen-to e il Settecento, biella 2004, pp. 159-161, nota 7); sempre assieme, il 16giugno 1745, firmarono il contrattoper la seconda balaustra del presbite-rio (g. ChICCo, Memorie del vecchioDuomo di Vercelli, sua demolizione esuccessiva ricostruzione, Vercelli 1943,p. 66). Tra 1746 e 1748 giudice vennepagato per i camini e i lavabi del Se-minario arcivescovile (g. grITellA,1992, vol. II, p. 409 e nota 12).69 Come giovan battista, figlio diAngelo maria di Viggiù, che firmò laconvenzione per la costruzione del-l’altare della madonna del riscattonella Cattedrale di Novara il 27 gen-naio 1728 (m. dell’omo, La Cattedraledi Novara. Arredi e decorazioni dal Cin-quecento all’Ottocento, Torino 1993, p.91); o bernardo di Saltrio che il 19 a-prile 1740 si impegnò per l’allesti-mento dell’altare di Sant’Ignazio nel-la chiesa dei gesuiti di Alessandria(b. SIgNorellI, La chiesa ed il collegiodei gesuiti, in «bollettino della SocietàPiemontese di Archeologia e belleArti», XlIII, 1989, p. 205 e appendice2, pp. 214-216).

monte, preferendo assidui e costanti spostamenti64. È tuttavia probabile che il maggiorestimolo al trasferimento lo avesse trovato negli inviti di filippo juvarra che nel 1726 lovolle al cantiere della Porta regia del Santuario di oropa65. Sempre seguendo le istru-zioni juvarriane lavorò a Vercelli nel 1730 per la balaustra dell’altare maggiore dellachiesa di San Cristoforo66: tale prova dovette convincere i padri barnabiti a commissio-nargli otto anni più tardi anche il lavamano per la sacrestia della loro chiesa, mentre irettori dell’ospedale di Sant’Andrea gli chiedevano di provvedere alla sostituzione delvecchio altare dell’Infermeria67. lavorò poi anche nel duomo della città, in società colcompaesano Carlo Cesare Pelagatta, e, ancora una volta su progetto juvarriano, ai mo-numentali lavabi del Seminario arcivescovile68. Questa scelta territoriale – accanto alla quale vanno ricordate alcune sporadiche com-parse di altri marmorari appartenenti alla stessa famiglia69 – sembra fare di Carlo giu-

giuseppe bianchi, disegno per il lavamano della sacrestia di San Cristoforo a Vercelli, circa 1738. Vercelli, Archivio di Stato (Corporazioni religiose,m. 57).

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dice il capofila di un folto gruppo di artisti viggiutesi che saranno attivi in maniera co-stante e prolungata nel Piemonte orientale, anche nelle zone più povere e isolate comel’astigiano e l’acquese: qui si segnalano alcuni notevoli arredi marmorei, tra cui quellifirmati dai Pelagatta ad Agliano, Canelli e rocchetta Palafea70, o quelli della chiesa diSan giovanni battista a Nizza monferrato, dovuti a bernardo, Ignazio e luigi giudice,padre e figli provenienti da Saltrio, alle porte di Viggiù71.

I giudice nel Piemonte nordoccidentaleNegli anni Quaranta del Settecento Carlo giudice è anche documentato in una zona alconfine fra Vercellese, biellese e Canavese, a breve distanza da Ivrea. l’arrivo del mar-morario in questo territorio non è che l’indizio di una sensibile presenza, in area cana-vesana, di maestranze «milanesi», chiamate, nei decenni centrali del Settecento, ad ese-guire una serie di altari alla «romana»: sono molte infatti le comunità del Canavese im-pegnate in questi anni nella ricostruzione degli edifici ecclesiastici, o nell’ampliamento,con la conseguente riorganizzazione per gli spazi interni, di quelli preesistenti, secondoun piano di rinnovamento che riguarda molte chiese della diocesi d’Ivrea, avviato dalvescovo michele Vittorio de Villa durante gli anni del suo episcopato, e cioè fra il 1741e il 176372.Continua anche qui, almeno per i primi anni Quaranta del Settecento, il rapporto di col-laborazione che Carlo giudice stava portando avanti a Vercelli con Carlo Cesare Pela-gatta, esponente di un’altra famiglia di marmorari di Viggiù73. A entrambi infatti risul-ta indirizzato il 23 ottobre 1744, proprio a Vercelli, il saldo finale per l’esecuzione del-l’altar maggiore della parrocchiale di Sant’Andrea a Settimo Vittone. Tale committenzasi viene dunque a collocare fra il lavoro per l’altare maggiore del duomo vercellese, pa-gato interamente a giudice e Pelagatta nel 1742, e quello riguardante la seconda balau-stra del presbiterio all’interno della stessa chiesa, svolto nel 1745, a testimonianza che ilsodalizio lavorativo fra i due scalpellini fu durevole, e si mantenne, sembrerebbe in mo-do continuativo, almeno per cinque anni74.l’altare per la parrocchiale di Sant’Andrea, pagato lire 2920, venne in realtà richiestodalla Compagnia del SS. Sacramento verso la fine del 1742, ma solo nel dicembre 1743,a causa di vari ritardi nei pagamenti, i marmi furono condotti da Vercelli a Settimo Vit-tone. fu la stessa Società del SS. Sacramento a pagare 40 lire e 10 soldi, l’11 gennaio1744, ai mastri Pietro Antonio e giovanni Agostino rama per la messa in opera dell’al-tare; si registra invece, poco più di due anni dopo, il 26 dicembre 1746, il pagamento al-l’indoratore eporediese giovanni Antonio lana per i lavori di rifinitura alla macchinamarmorea, quali la doratura dei piedistalli, dei capitelli nel tronetto e della porticina inrame del tabernacolo, provvista dallo stesso giudice75.la tipologia costruttiva dell’altare, resa scenografica dagli studiati accostamenti croma-tici, risulta incentrata su un’equilibrata contrapposizione fra il disegno della mensa, se-vero, rigoroso, e il leggero incurvamento, nella parte alta, delle due ali. È proprio qui,nelle linee aggraziate dei profili, e nel ritmo sinuoso delle volute, che emerge maggior-mente l’abilità dello scultore nel trattare il marmo: le due estremità dell’altare, appenaal di sotto del tempietto, sembrano aprirsi, al centro, per inglobare il tabernacolo, pocosviluppato in altezza, il cui profilo mosso asseconda, smorzando la pesantezza datadalle tinte forti del marmo nero e giallo, l’elegante movimento della macchina marmo-rea. da questa mescolanza di linee orizzontali e ondulate sembra trasparire il tratto sti-

70 C. lANzI, Una pala di Bartolomeo Ca-ravoglia nella chiesa parrocchiale di A-gliano, in «Quaderni dell’Èrca», a. X,n. 20, dicembre 2003, p. 7, nota 18; I.bologNA, Altari «alla romana» nellevalli Belbo e Bormida tra 1747 e 1788,in e. rAguSA e A. Torre (a cura di),Tra Belbo e Bormida: luoghi e itineraridi un patrimonio culturale, catalogodella mostra, Asti 2003, pp. 319-321.71 C. lANzI, Il patrimonio artistico dellechiese di Nizza Monferrato, tesi di lau-rea in Storia dell’Arte moderna, uni-versità degli Studi di Torino, facoltàdi lettere e filosofia, a.a. 2001-2002,relatore g. romano, pp. 13-19 e 31-33. la convenzione per l’altar mag-giore di Nizza monferrato è stata in-tegralmente trascritta da I. bologNA,2003, pp. 332-333.72 C. beNedeTTo, I vescovi d’Ivrea 451-1941, Torino 1942, pp. 80-81. Per unapanoramica sull’attività di maestran-ze lombarde in Canavese verso lametà del Settecento si veda: A. CAVAl-lArI murAT, Tra Serra d’Ivrea, Orco ePo, Torino 1976, pp. 291-296; S. bruSATromPeTTo, Tardo barocco in Canavese.Le chiese parrocchiali: un bene di valorestorico-documentario, in «bollettinodella Società Piemontese di Archeolo-gia e belle Arti», n.s., l (1998), pp.351-373 (in particolare pp. 367-368).73 Per i lavori eseguiti negli anniQuaranta del Settecento a Vercellidal giudice, e per la sua collabora-zione, nella medesima città, con Car-lo Cesare Pelagatta, rimando al testoche precede, di Chiara lanzi. riguar-do ai Pelagatta si veda: A. bArbero eg. mAzzA, Per una famiglia di marmora-ri lombardi a Casale: i Pelagatta, in«Studi Piemontesi», vol. VIII, 1979,fasc. I, pp. 107-115; I. bologNA, 2003,pp. 319-321. Va aggiunto che Carlonon è l’unico esponente della fami-glia giudice ad essere attivo nella zo-na orientale del Piemonte: un leo-poldo giudice «marmorista» (non èben chiaro in che rapporti di parente-la con Carlo e giovanni domenico)risulta infatti testimoniato, nel 1726,fra gli aiutanti di Carlo beretta perl’esecuzione dell’altar maggiore dellabasilica di San gaudenzio a Novara(A. TemPorellI e d. TuNIz, San Gauden-zio e la sua Basilica, borgosesia 1984,p. 258), appena due anni prima ri-spetto ai lavori condotti da giovanbattista giudice per la cattedrale no-varese.74 Il marmorario Pelagatta qui citato ècon tutta probabilità da riconoscersinello stesso Carlo Cesare che risultacoinvolto nel 1735, pochi anni primadell’esperienza vercellese, in una con-

troversia sorta con francesco mariabuzzi, originario di Viggiù, per la co-struzione delle balaustre che chiudo-no il presbiterio nella parrocchiale diTicineto; l’identificazione, nonostantequalche dubbio, potrebbe essererafforzata dal fatto che lo stesso Cesa-re Pelagatta viene sostituito nel 1741,per la realizzazione dell’altare mag-

giore di Ticineto, dai fratelli giovan-ni, giacomo e diamante. Non è da e-scludere che lo scalpellino abbandoniil cantiere casalese a causa degli im-pegni presi con Carlo giudice a Ver-celli. riguardo ai lavori dei Pelagattaper Ticineto si veda: A. bArbero e g.mAzzA, 1979, pp. 107-115.

75 g. PoNChIA, Le chiese parrocchiali diSettimo Vittone: San Lorenzo eSant’Andrea, Torino, s.d., pp. 31-32;non mi è stato possibile, nonostanteil cortese interessamento di don gio-vanni Ponchia, attuale parroco diSettimo Vittone, rintracciare pressol’Archivio parrocchiale i documentida lui citati nel libro, ma le informa-

listico che è alla base di tale opera, e cioè la tensione, ben condotta nell’equilibrata stra-tegia compositiva delle parti, fra ricerca ornamentale e un linguaggio più pacato e con-tenuto.Non è da tener in poco conto il fatto che Settimo Vittone si trovi proprio a metà strada,geograficamente, fra biella e Ivrea: ciò è la chiara ed esplicita indicazione, per quantoriguarda Carlo giudice, di un allargamento del suo raggio di committenza dal Pie-monte orientale verso una zona collocata più a ovest, che coincide con l’area di Ivrea76.un fenomeno di questo genere pare riguardi anche Carlo Cesare Pelagatta: quest’ulti-mo sembra continuare infatti, dopo la committenza per Settimo Vittone, la sua attivitàin area canavesana, ed è ricordato nel 1766, insieme ai marmorari marchese, come au-tore dell’altar maggiore e balaustre della chiesa eporediese di Sant’ulderico77.l’impianto di tale altare non sembra molto lontano, per la combinazione di sofisticatatecnica esecutiva ed effetto scenico, dai modelli proposti dalla famiglia Pelagatta, du-

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zioni riportate in tale testo sono piut-tosto precise, e bastano a dare un’i-dea complessiva della vicenda. l’al-tare è indicato come opera di Carlogiudice anche in A. CAVAllArI mu-rAT, 1976, p. 294. 76 Va ricordato che Carlo giudice eragià stato attivo in area biellese du-

rante gli anni Venti del Settecento,nel cantiere per la Porta regia al San-tuario di oropa: cfr. Chiara lanzi,nel testo che precede, e relativa bi-bliografia.77 g. boggIo, Notizie storiche sulla chie-sa di S. Uldarico, con un accenno alleparrocchie di S. Pietro e S. Donato,

Ivrea 1897, p. 11, in cui l’autore parlagenericamente, per l’esecuzione del-l’altare e delle balaustre, di marmo-rari marchese e Pelagatta, senza spe-cificarne i nomi. l’identificazione delPelagatta qui citato con Cesare si tro-va in l. mAllÈ, Le arti figurative in Pie-monte, Torino, s.d. (ma 1962), p. 352;il mallè in questo testo parla entusia-

sticamente, riguardo alla chiesa diSant’ulderico, di «splendido altare,con sfarzosa balaustra». Per tale chie-sa si veda anche: m. berToTTI, Docu-menti di storia canavesana, Ivrea 1979,pp. 334-335.

Carlo Cesare Pelagatta e marmorari marchese, Altare maggiore, particolari,1766. Ivrea, Sant’ulderico.

Tav.62

rante i decenni centrali del Settecento, nelle zone del Piemonte orientale, fra Casale e A-sti: la linea sinuosa, l’andamento convesso delle ali (tipico tratto pelagattiano) risulta quipreminente, e trasforma gli spunti di leggerezza decorativa, ma ancora irrigiditi nellecornici in nero, dell’altare di Settimo Vittone, in un insieme di modulato equilibrio orna-mentale. Quest’ultimo carattere è conferito all’impianto dall’estrema finezza dei marmiscelti, nonché dall’intersecarsi di linee nel profilo della mensa e nel motivo posto al cen-tro del paliotto, che sottolineano l’elegante cromia dell’insieme. In tale macchina mar-morea, rispetto all’altare di Settimo Vittone (tenendo conto del non indifferente scartocronologico che corre fra le due opere), una maggiore ricercatezza negli intagli orna-mentali si accompagna a un più accorto e delicato accostamento fra pietre di macchia edi vena, giocato sui toni del verde, del rosato, accesi appena da punte di giallo78. I marchese, collaboratori dei Pelagatta per l’esecuzione dell’altare e balaustre di Sant’ul-derico, avevano già lavorato, poco prima del 1766, per un’altra chiesa di Ivrea: risale in-fatti al 1763 la capitolazione con cui lo scalpellino giacomo marchese, originario di Sal-trio, alle porte di Viggiù, si impegnava a realizzare, al costo «di lire 850 reali di Piemon-te», un altare per la chiesa di San gaudenzio, posta «fuori delle mura». I termini eranochiari: l’opera, per cui si richiedeva, fra gli altri marmi, il «nero di Como», «Seraveccia difirenze», «mischio di francia», doveva essere conclusa entro «tutto il mese di Agostodell’Anno or prossimo 1764»; con tutta probabilità l’altare, dalla gamma cromatica con-tenuta e dall’impianto sobrio, essenziale, è terminato nei tempi prestabiliti, se la quie-tanza finale di lire 250 risulta pagata il 29 novembre 176479.dunque nei decenni centrali del XVIII secolo, come si può vedere dai pochi casi qui ri-portati (i quali non danno certo l’idea della complessità della vicenda, ma aiutano a com-prenderne le dinamiche), si registra la presenza, in area canavesana, di maestranze atti-ve nella realizzazioni di altari marmorei, che lavorano a volte in autonomia, a volte incollaborazione, mantenendo comunque ognuna, pur con un generale orientamento stili-stico, caratteri peculiari. È a un tale clima culturale, sensibile, soprattutto per quanto ri-guarda l’intaglio lapideo, alle influenze lombarde, che Carlo giudice qui, in questo terri-torio, partecipa, dando così vita, durante il suo sodalizio lavorativo con Cesare Pelagat-ta, al convincente altare di Settimo Vittone, solido, fermo, tuttavia movimentato da im-provvise curvature dei profili, e acceso dalla cromia dei marmi.ma l’attività, in area canavesana, di Carlo giudice testimonia anche la capacità della fa-

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Carlo Cesare Pelagatta e marmorari marchese, balaustra del presbiterio, 1766.Ivrea, Sant’ulderico.

miglia di conquistare e affrontare, grazie ad esponenti diversi, impegni lavorativi pervarie zone del Piemonte, senza però perdere contatti con i cantieri torinesi. Proprio nel-le committenze per Torino, infatti, continuiamo a trovare i giudice documentati, versola metà del Settecento (e anche oltre), in diversi ruoli, a testimonianza della loro ricono-sciuta professionalità nella trattazione della materia lapidea: come giovanni maria, ePietro francesco, che compaiono, fra il 1758 e il 1765, impegnati «per regio servizio» in«escavazioni» e «scoprimenti» dei marmi, soprattutto nelle cave di Valdieri80; oppureCarlo Antonio, originario di Viggiù, richiesto dallo scultore Ignazio Collino, «necessi-tando di un Capomastro Piccapietre intelligente», durante il biennio 1769-1770, per lagalleria del beaumont. In tale cantiere un grande riconoscimento per le doti di marmo-rario viene offerto anche a luigi giudice, che riceve, il 19 ottobre 1764, un pagamento dil. 604.6.3 «per aver provisto alcuni pezzi d’alabastro di busca, di verde di Susa, e di Per-seghino per li rivestimenti, ed altri lavori fatti»81. Sempre a Torino, un luigi giudice«proveniente da Saltrio» provvede alla realizzazione, nel 1755, dell’altare della Confra-ternita di San rocco, progettato da bernardo Vittone82.Il nome luigi giudice compare inoltre, negli anni Settanta del XVIII secolo, sia per la co-struzione, tra 1765 e 1782, degli altari nella parrocchiale di San giovanni battista a Niz-za monferrato, sia qualche anno prima, nel biennio 1773-1774, per l’esecuzione dell’alta-re maggiore nella chiesa di San michele a rivarolo, su progetto di luigi barberis83. An-che se molto probabile, è ancora da accertare, vista l’attuale mancanza di un’indaginegenealogica riguardante la famiglia giudice per i decenni centrali del Settecento, l’ipo-tesi di identificare tutti questi personaggi in un unico scalpellino, attivo quindi fra Tori-no, Piemonte orientale e Canavese; tale possibilità, rafforzata dal fatto che il nome luigigiudice compare testimoniato, anche se a vent’anni di distanza, all’interno di due can-tieri vittoniani (quelli di San rocco a Torino e di San michele a rivarolo), sarebbe dun-que chiara attestazione di un proficuo contatto mantenuto fra l’ambito torinese e le altrezone del Piemonte in cui la famiglia è documentata.In area canavesana appare però essere veicolata, dalle maestranze coinvolte, verso lametà del Settecento, nella realizzazione di altari, una sensibilità di gusto diversa rispet-to a quella promossa nell’ambiente artistico torinese a partire dall’arrivo nella Capitalesabauda, nel 1714, di filippo juvarra84. Allo sfarzo arioso e alla superba qualità colori-stica degli spettacolari altari di gusto torinese, viene sostituita, nelle macchine marmoree«alla lombarda», una struttura tipologicamente meno congegnata, impostata, più che suesigenze sceniche, su un movimento segnato dal susseguirsi di motivi ornamentali e vo-lute; in tale impianto l’attenzione ornamentale risulta essere l’elemento predominante, eil gusto per il colore si esplica in accordi cromatici diversi dai canoni in voga a Torino,tuttavia ugualmente studiati ed efficaci.Si può parlare, come afferma il mallè, di gusto «barocchetto» per gli altari canavesani85:la ricchezza d’impianto è conferita all’insieme dall’alta qualità della gamma lapidea,

78 un francesco marchese, originariodi Saltrio, sembra con tutta probabi-lità essere l’autore, fra il 1765 e il1766, dell’altar maggiore e delle ba-laustre per la parrocchiale di rondis-sone (A. rIzzo, La chiesa parrocchialedei Santi Vincenzo e Anastasio a Rondis-sone, tesi di laurea triennale in Storiadell’Arte moderna, università degliStudi di Torino, facoltà di lettere efilosofia, a.a. 2004-2005, relatore g.romano, pp. 43-46); emerge imme-diatamente l’estrema analogia fra lebalaustre che chiudono il presbiterionella chiesa rondissonese, e quelle diSant’ulderico: essa coinvolge sia imotivi decorativi (si può dire che ildisegno ornamentale «alla lombar-da» si presenti identico in entrambigli esempi), sia la scelta dei marmi ele levigate curvature degli intagli. Vaspecificato che per l’esecuzione del-l’altare e balaustre della chiesa diSant’ulderico l. mAllÈ (s.d., ma 1962,p. 352) presenta la data 1776; la stret-ta somiglianza tipologica, e nella fi-nezza dei dettagli ornamentali, fra lebalaustre della parrocchiale di ron-dissone e quelle eporediesi sembraperò far propendere, quanto a data-zione, per l’anno 1766, riportato in g.boggIo, 1897, p. 11. 79 Il contratto, citato in S. bruSA Trom-PeTTo, 1998, p. 367, è reperibile pressol’Archivio Storico del Comune di I-vrea, cat. 23, n. 2133, Culto e affari ec-clesiastici, San Gaudenzio. Sempre a I-vrea, un Carlo maria giudici risultatestimoniato, il 14 gennaio 1754, «inqualità di assistente in compagnia dialtri due mastri Carlo rossi Padre efiglio lustratori» per l’esecuzionedell’altare maggiore della chiesa diSanta Croce (per tale documento, equelli qui di seguito citati riguardan-ti Santa Croce si veda: Archivio Sto-rico diocesano di Ivrea, Santa Croce,CVI/4/Tm/700/799/I; g. berATTINo,La confraternita di Santa Croce a Ivrea,in «bollettino d’informazione ai Soci-Società Accademica di Storia ed ArteCanavesana», n. 6 [1980], pp. 48-49).la data del contratto (1754), unita-mente al fatto che i rossi (anche indi-cati derossi) siano qualificati «lustra-tori», e Carlo maria giudice «lavo-rante marmorino», porta a pensareche il loro arrivo nel cantiere sia statotardo, e l’intervento piuttosto margi-nale: la capitolazione per l’altare vie-ne infatti firmata il 12 gennaio 1747dai fratelli Stefano e franco mariabuzzi donelli, e a quest’ultimo, il 15luglio del medesimo anno, risulta pa-gato il modello per tale opera; moltoprobabilmente i derossi e il giudiceerano stati «deputati» a terminare ilavori dell’altare da franco mariabuzzi intorno al 1753, anno in cui

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quest’ultimo, il 14 maggio, risulta«partito per la patria».80 ASTo, Camerale, Art. 183, ContoTesoreria Fabbriche Fortificazioni, vol.25, 1758, c. 209; vol. 28, 1762, c. 160;vol. 29, 1763, c. 149.81 Per le committenze di Carlo Antonioe luigi giudice all’interno della galle-ria del beaumont: ASTo, guerra, Rela-zioni a Sua Maestà, vol. 22, 1770, p. 236;Art. 183, Conto Tesoreria Fabbriche Forti-ficazioni, vol. 30, 1764, cat. 1, Palazzireali, c. 112. Si veda inoltre P. VeNTu-rolI, 2002, pp. 24-25. In realtà l’attivitàdi luigi nei cantieri regi, spesso con-dotta in collaborazione con il fratellobernardino, è molto più vasta, e si se-gue bene nei documenti conservati in

ASTo, Camerale, Art. 183, Conto Tesore-ria Fabbriche Fortificazioni, vol. 26, 1759,cat. 18, Cappella beato Amedeo di Ver-celli, c. 158; vol. 27, 1761, cat. 17, Cavedi marmi, c. 209; vol. 28, 1762, c. 160. 82 riguardo all’altare di S. rocco: A-STo, guerra, Relazioni a Sua Maestà,vol. 7, 1755, p. 84; il documento con-siste nella richiesta, inoltrata dallaconfraternita, di poter effettuare l’e-scavazione del «biggio di Valdieri»per l’altare, «non sendo lecito a per-sona di portarsi ad escavare questomarmo a quelle carriere senza la li-cenza di V.m.». Si veda anche l. TAm-burINI, 1968, pp. 193-194. 83 Per gli altari di Nizza monferratovedi il testo di C. lanzi a nota 71. ri-

guardo all’altare di San michele: W.CANAVeSIo, Pietro Bonvicini a Rivarolo,in «bollettino della Società Accade-mica di Storia ed Arte Canavesana»,n. 25 (1999), pp. 115-116. I lavori pertale macchina marmorea furono con-dotti, oltre che dal giudice, da Stefa-no busso e Simone Catella: quest’ul-timo, originario di Viggiù, sembraessere lo stesso scalpellino attivo, frail 1781 e il 1784, nella parrocchiale diStrambino, come esecutore dell’altarmaggiore e balaustre del presbiterio:e. roSSI grIbAudI, La chiesa di Strambi-no: 1764-1964, Ivrea 1964, pp. 55-56.84 g. dArdANello, 1989, pp. 175-228; I-dem, Altari in marmo, 2004, pp. 325-335.85 l. mAllÈ, s.d. (ma 1962), p. 352.

nonché dalla perizia tecnica dell’intaglio decorativo, visibili anche nelle balaustre, intesecome prolungamento della mensa; il risultato che ne consegue è di una morbida e mos-sa fantasia di ornati, ancora smorzata nell’altare di Settimo Vittone, chiaramente eviden-te ad esempio, fra i casi finora citati, in quello di Sant’ulderico a Ivrea.A rendere differenti queste opere rispetto al modello torinese concorrono certo la com-mittenza, e il conseguente ruolo comunicativo accordato da quest’ultima (non legato inmodo particolare alle richieste di visibilità da parte delle famiglie nobili, quanto alle esi-genze devozionali di Comunità, o Compagnie attive all’interno delle chiese); ma è so-prattutto l’area geografica del Canavese, permeabile a influenze lombarde, a determina-re il «disegno» e gli accordi cromatici degli altari. I marmi utilizzati in tali macchine mar-moree non sembrano infatti provenire, in larga maggioranza, dalle cave piemontesi (an-cora ampiamente sfruttate, come abbiamo visto, dal «ramo torinese» della famiglia giu-dice), e sono invece per lo più trasportati, testimoniando una diversa rete di approvvi-gionamento, dalle cave di lombardia, a cui vengono spesso aggiunte pietre d’importa-zione86. È inoltre nella fase di attuazione che si può leggere un’ulteriore differenza fra al-tari «torinesi» e quelli realizzati dalle maestranze lombarde, nei decenni centrali del Set-tecento, fra Piemonte orientale e Canavese: per quest’ultimi infatti non sembrano esserenoti, in molti casi, i nomi degli architetti responsabili dei progetti, e l’intera ideazione,con tutto l’impegno di regia richiesto, potrebbe spettare quindi ai marmorari.

86 leggendo, ad esempio, la capitola-zione firmata da giacomo marchesenel 1763 per l’altare di San gauden-zio a Ivrea, non si trovano, nella listadei marmi da utilizzare in tale opera,materiali caratteristici delle cave tori-nesi, come l’alabastro di busca, e-stratto dai feudi del principe di Cari-gnano; vengono usati piuttosto, oltre

al «bardiglio», il «mischio di fran-cia», «seravezza di firenze» e, per idettagli ornamentali, il «diaspero diSicillia» (Archivio Storico del Comu-ne di Ivrea, cat. 23, n. 2133, Culto eaffari ecclesiastici, San Gaudenzio).Scorrendo invece i pagamenti effet-tuati, fra il 1751 e il 1753, per il tra-sporto dei marmi necessari alla rea-

lizzazione dell’altare maggiore dellaConfraternita eporediese di SantaCroce, si scopre che il materiale lapi-deo era stato condotto da Viggiù aVercelli, e da lì a Ivrea (Archivio Sto-rico diocesano di Ivrea, Santa Croce,CVI/4/Tm/700/799/I; g. berATTINo,1980, p. 43).

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