Il tema del conflitto balcanico in alcuni scrittori emigrati in Italia ...

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Università degli studi di Roma «La Sapienza» Il tema del conflitto balcanico in alcuni scrittori emigrati in Italia dal 1990 di Barbara Ronca Corso di laurea in letteratura musica e spettacolo anno accademico 2003/2004 Relatore: Armando Gnisci I

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Università degli studi di Roma «LaSapienza»

Il tema del conflitto balcanicoin alcuni scrittori emigrati in

Italia dal 1990

di Barbara Ronca

Corso di laurea in letteratura musicae spettacolo

anno accademico 2003/2004

Relatore: Armando Gnisci

I

II

Nel tempo dell'inganno universale,

dire la verità è un atto rivoluzionario.

George Orwell

III

Gli anni Novanta del XX secolo si aprono e si chiudono

sulle date di inizio e fine1 di una delle più recenti e tragiche

diaspore europee: quella dai Balcani.

Scatenatosi nella ex-Jugoslavia un feroce conflitto etnico,

molte nazioni europee hanno assistito all’arrivo disperato di

migliaia di profughi in fuga da genocidi e violenze che

sembravano ormai cancellati dalla memoria del vecchio

continente.

La Bosnia detiene il triste primato di essere il primo

paese europeo ad aver avuto campi di sterminio e di

concentramento sul suo territorio dopo la fine della seconda

guerra mondiale.

Il “cuore dell’Europa” ha vissuto, negli anni tra il 1991 e

il 1999, una delle pagine più buie della storia recente, a seguito

della quale la federazione Jugoslava ha cessato di esistere, e

con essa sono scomparsi i delicati equilibri che avevano

permesso ad una popolazione etnicamente e religiosamente

eterogenea di convivere pacificamente per quasi 70 anni.

Eppure, questo ex stato federale che per alcuni decenni

aveva reso possibile il sogno di una compagine statale

multietnica, tollerante e pacifica, meritava forse – lo dice

anche Predrag Matvejevi – un diverso destino; ć seppur

cosciente di quello che profetizzava Ivo Andric nella sua

Lettera del 1920, e cioè che i Balcani comprendevano un

mosaico di etnie e popolazioni che amavano ardentemente la

propria terra, “ma in tre o quattro modi che si escludono a

1 In realtà, la diaspora balcanica non può dirsi conclusa dopo il 1999, continuando infattiancora oggi: le due date indicate sono però quelle in cui si è concentrato il maggior numerodi migrazioni.

IV

vicenda, e si scontrano frequentemente, con un fervore che

genera un'ostilità senza tregua”, l'Europa è rimasta incredula e

impotente di fronte agli eccessi di furore esplosi nel 1991.

I Balcani sono stati abbandonati a se stessi come se non

fossero l'Oriente del nostro mondo, ma un ricettacolo di orrori

con cui il nostro civile continente, sempre più volto ad

Occidente, non doveva confondersi.

Eppure, a pochi anni dalla fine del conflitto che ha

insanguinato questa regione, è necessario tornare a parlare

della sua importanza culturale e storica; i Balcani sono di per

sé un crocevia, una linea di demarcazione, tra Oriente e

Occidente, tra Cristianesimo e Islam, tra Cattolicesimo e

Ortodossia, tra i resti di imperi sopranazionali e conquistatori,

come il turco e l’asburgico, tra capitalismo e comunismo, tra

paesi sviluppati e in via di sviluppo.

Questa regione ha dimostrato nei secoli “una tenace

volontà di superare la maledizione di ‘eterne

contrapposizioni’”2, e nel momento in cui è caduta vittima di

una dilagante miopia politica volta all’omogeneizzazione

culturale, ci ha mostrato come “la negazione dell'Altro spesso

significa la mutilazione del proprio essere storico, del proprio

vissuto, della complessità culturale insita nell'identità culturale

europea.”3

Se è vero, come sostiene Predrag Matvejevic, che

l’Europa degli stati nazionali lascia spazio ad un’Europa

sopranazionale, di questa i Balcani sono stati, e possono

ancora essere, un banco di prova.

2 Melita Richter, “Due note sull’identità”, in «Sagarana»,http://www.sagarana.net/rivista/numero16/hibridazioni1.htm/

3 Melita Richter, op. cit.

V

Ho scelto di sottolineare l’importanza culturale di questa

terra di confine attraverso le opere degli scrittori migranti che

dai Balcani sono arrivati in Italia (e hanno cominciato a

scrivere nella nostra lingua, inserendosi quindi nel solco della

nostra letteratura) perché la loro produzione letteraria mi

sembra rivestire una particolare importanza.

Prima di tutto, perché, come ogni scrittore migrante, essi,

vivendo in un paese diverso da quello in cui sono nati, e

scrivendo in una lingua diversa da quella dell’infanzia, si

pongono come punti di raccordo, e d’incontro, tra realtà

culturali diverse ed eterogenee. Lo “straniamento” di cui sono

vittime (l'ostranenie di cui parlava Josif Brodskij) costituisce

un terreno straordinariamente fertile per la creazione artistica:

il migrante vive in equilibrio tra i mondi, tra il paese di

partenza e quello di arrivo, e li modifica e arricchisce

entrambi.

In secondo luogo, perché i migranti che hanno

abbandonato la ex-Jugoslavia in fiamme non hanno operato

una scelta, per quanto dolorosa o sofferta: hanno agito per

necessità, fuggendo da un paese in cui non potevano più essere

davvero se stessi, e in cui la loro identità, e la loro vita, non

potevano più essere difese.

Per le migliaia di profughi dei Balcani, la migrazione ha

assunto i caratteri di un esilio, perché la guerra li ha privati

(oltre che del presente, del passato e della speranza per il

futuro) di un paese a cui tornare, o verso cui, semplicemente,

proiettare il desiderio del ritorno.

La scelta letteraria è diventata, per chi ha visto il proprio

mondo e la propria identità culturale cancellati con violenza,

una scelta di dissidenza, e quindi di resistenza.

VI

Gli scrittori della diaspora balcanica sono il monito più

forte contro chi difende particolarismi ed erige barriere, e la

dimostrazione più convincente del potere salvifico della

letteratura: portando con sé la propria testimonianza, essi

hanno salvato se stessi e ciò che rimane del proprio paese

dall’oblio.

Nel presentare la situazione balcanica, cercando di

illustrare la complessità e la ricchezza culturale, politica e

sociale della regione, mi sono servita dei testi di Predrag

Matvejević, intellettuale che da anni vive “tra asilo ed esilio”,

e che dal 1994 ha fatto dell’Italia la sua patria d’adozione.

Opponendosi, con le proprie opere, ad ogni forma di tirannia

politica ed egemonia culturale, egli propone una nuova

definizione dell’Europa, che non si rassegni alla

massificazione e alla sopraffazione.

I testi su cui è stata basata l’analisi critica sono i racconti

e i romanzi del bosniaco Božidar Stanišić e delle croate Vera

Slaven e Tamara Jadrejčić (molti dei racconti di questa

scrittrice sono ancora inediti in Italia, e sono stati citati con il

consenso dell’autrice).

La scelta di questi testi, e di questi autori, ha seguito

diversi criteri: gli scrittori le cui opere sono state analizzate

sono tutti emigrati in Italia dopo il 1990; i testi considerati

sono stati scritti, con qualche eccezione per quanto riguarda

Stanišić, in italiano, e si è scelto di considerare scrittori che

avessero prodotto un numero di opere non troppo esiguo.

Fondamentale è stata infine una considerazione riguardo

al contenuto delle opere stesse: il tema del conflitto balcanico è

infatti centrale in tutte quelle prese in considerazione.

VII

Piove sempre

in questo

paese

forse perché sono

straniero

Gëzim Hajdari

VIII

1 La letteratura della migrazione.

Nella prefazione al libro di racconti di Božidar Stanišić

Bon Voyage4, Paolo Rumiz parla di una “geniale

mistificazione” che Benito Mussolini compì quando fece

scolpire, sul palazzo dell’ Eur a Roma, l’inno agli Italiani

“santi e navigatori”.

L’ultimo dei mestieri citati, fa notare Rumiz, è

“trasmigratori”: non “emigranti”, che faceva troppo pensare “a

valigie di cartone”, sventurate traversate transoceaniche e

miseria senza fine che costringe ad abbandonare una vita per

iniziarne un’altra chissà dove e chissà come, ma

“trasmigratori”.

La mistificazione geniale consiste proprio in questo:

nell’aver rovesciato, con abile mossa linguistica, il significato

di intere esistenze: non si parlava più di vite spezzate di

disorientati sofferenti in cerca di fortuna, ma di virili corse

incontro al futuro, di entusiastici balzi verso una nuova

avventura.

Provocatoriamente, Rumiz suggerisce allora di rivalutare

il vocabolo mussoliniano: “Ma sì, torniamo a questa parola

fascista. Può aiutarci a chiamare allo stesso modo quelli che

partono e quelli che arrivano. Capire che viaggiatori e

profughi, immigrati ed emigranti, fanno parte della stessa

macchina maledetta. Trasmigratori, vivaddio.”

4 Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova Dimensione, Portogruaro, , 2003, p.8

IX

1. 1 Immigrati, migranti, trasmigratori

Riporto volentieri la provocazione nel momento in cui mi

accingo a parlare del profondo e fruttifero cambiamento –

sociale e politico, senza dubbio, ma anche culturale - avvenuto

al nostro paese da quando, da qualche anno a questa parte, da

terra di “emigranti” ci siamo trasformati in terra di

“immigrati”.

A differenza di altri paesi europei, che all’arrivo della

prima ondata migratoria hanno assistito negli scorsi decenni, e

della cui importanza e portata culturale non sempre si sono

accorti per tempo, noi Italiani abbiamo l’enorme privilegio di

veder compiersi questo fenomeno proprio sotto i nostri occhi, e

di parteciparvi.5

La realtà della migrazione, che riveste caratteri di

tragicità assoluta per chi la vive in prima persona, è però

straordinariamente promettente, dal punto di vista culturale,

per noi che la vediamo accadere.

A differenza di quanto avvenne ai “nostri” migranti, agli

Italiani che andarono nel mondo e non ebbero portavoci

(cantori, artisti) che potessero testimoniarne la “diaspora

planetaria”6, i nostri nuovi interlocutori portano con sé anche

un gran desiderio di narrare la propria esperienza, di

5 Una precisazione riguardo la definizione mi sembra d’obbligo: nell’introduzione alla suaraccolta di saggi “Creolizzare l’Europa”, Armando Gnisci fa notare che, se parliamo diqualcuno che abbandona il proprio paese per ricominciare la propria esistenza altrove, propriodi prima ondata migratoria si tratta, e non di prima generazione, definizione che identificapiuttosto i figli nati in Italia da coloro che arrivano ora nel nostro paese.6 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 10

X

testimoniare il “pressappoco”, il “perenne stato di

sospensione”7 in cui il migrante vive.

Nasce quindi con loro una nuova forma di letteratura,

elaborata nella nostra lingua da autori provenienti dai quattro

angoli del globo terrestre (o, per essere più precisi, da

quell’asse migratorio che va dal Sud-Est al Nord-Ovest del

mondo), e che si presenta non come provinciale

particolarismo, né come esotica appendice di quella

Weltliteratur (letteratura del mondo) ormai più o meno

appiattita sulle logiche di mercato; piuttosto, come nuova

frontiera della Worlds’ Literature (letteratura dei mondi) che

rappresenta, secondo una definizione gnisciana, la “poetica

dell’avvenire”.

1.2 Tra “qui” e “altrove”: una vita in equilibrio

Ma chi è, in definitiva, lo scrittore migrante?

Almeno tre sono gli elementi che lo definiscono:

1. vive in un paese diverso da quello in cui è

nato.

2. sceglie la lingua di arrivo come lingua

letteraria.

3. vivendo nella memoria la prima parte della

propria vita, che ha definitivamente

abbandonato, si pone come ponte, punto di

raccordo tra la cultura da cui proviene e

quella in cui è stato – più o meno – accolto;

7 Tahar Lamri, “E della mia presenza; solo il mio silenzio. Una riflessione lunga cinqueantologie”, introduzione a Parole oltre i confini, sul sito www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0128&file=parole_in_04.html

§§

XI

E’ ovvio che questa semplificazione non permette

di cogliere tutte le sfumature insite in una condizione

esistenziale e culturale di delicatezza estrema; sono però

presenti, già in queste poche righe, alcune delle caratteristiche

fondamentali dello scrittore migrante, che rendono il suo

scrivere così prezioso per noi lettori/ospiti.

Prima di tutto, lo scrittore migrante vive diviso tra la

prima parte della vita, spesa in “un altrove che era, e rimane,

comunque patria, e la seconda”, vissuta “da qualche anno in

una lingua nuova”8.

Ricordando che parliamo di scrittori di prima ondata, e

seguendo il loro peregrinare, è evidente l’assoluta unicità della

loro condizione: perché a chi attraversa mari per giungere nella

nostra patria, “nel distacco si spezza la vita in due tronconi

(…): il primo resta sulla riva del paese del passato, e l’altro

cresce sulla costa ancora ignota del paese del dopo.”9

La partenza divide la vita in due “blocchi esistenziali”

che non sempre hanno lo stesso peso, pur risultando magari,

alla fine, quantitativamente uguali.

Nel suo saggio I viaggi e la letteratura10, Domenico

Nucera analizza l’etimologia del verbo “partire”. Esso deriva

da latino pars, partis, cioè “parte, frazione”; ha quindi in sé,

implicito, il senso della separazione, del distacco, termini che

in genere troviamo applicabili alla morte, alla “dipartita”.

Eppure, dice ancora Nucera, dalla stessa radice viene il

verbo parere, cioè “partorire”. “Partire significa abbandonare

uno stato, nel senso di condizione, per cercarne un altro;

lasciare qualcosa di sé alla ricerca di una rinnovata identità.

8 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 7 9 Armando Gnisci, op. cit, p. 1010 Domenico Nucera, “I viaggi e la letteratura”, in Introduzione alla letteratura comparata, a

cura di Armando Gnisci, Bruno Mondadori, Milano, 1999, p. 120

XII

(…) Nell’atto del partire è quindi contenuta una morte e poi

una nascita, una separazione e poi il tentativo di

congiungimento con il futuro”.

Tanto più se la partenza, come spesso accade nel caso del

migrante, non prevede un ritorno, ma una nuova esistenza da

innestare sulle macerie della vecchia, abitando un altrove e una

nuova lingua.

L’impossibilità di tornare nel proprio paese costituisce

uno dei fardelli del migrante; preda della nostalgia, vede la

patria abbandonata come “un mondo intatto nel quale,

qualunque cosa succeda, rimane vuoto un posto destinato a

lui”11; nella sua disperata ricerca di un punto fermo, egli –

soprattutto se è uno scrittore – costituirà nella sua mente

l’immagine poetica della patria abbandonata, stregato da

quella che Kundera definisce “la grande magia del ritorno”.12

Sospeso tra un passato che “rimorde” in senso

demartiniano e un futuro immerso nell’incertezza, il migrante

soffre doppiamente l’allontanamento dalle proprie radici, da

tutto ciò che costituisce una solida definizione di sé.

La perdita culturale diviene quindi anche esistenziale:

“solo nella mia terra – scrive Predrag Finci – io sono padrone

del mio destino, non importa quanto miserabile esso sia”13.

Andare altrove significa lottare per ricostruire un’identità

perduta, sentirsi esclusi da una cultura che non ci appartiene e

che ci ricorda in ogni momento che siamo stranieri,

indesiderati, perdersi in una società che chiude per noi “le

anime e le porte”.14

11 Nora Moll, “Immagini dell “ altro”. Imagologia e studi interculturali”, in Introduzione allaletteratura comparata, op. cit, p. 243

12 Milan Kundera, L’ignoranza, Adelphi, Milano, 2001, p. 1113 Predrag Finci, Il Blues dei rifugiati , in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre

2004, p.2514 Gladys Basagotia Dazza, citata da Serge Vanvolsem in “La letteratura d’immigrazione

ossia la forza della parola, da Parole oltre i confini, sul sito

XIII

Eppure, nonostante la drammaticità di questa lacerazione,

a ben guardare ciò che di irripetibile un migrante porta con sé è

proprio la possibilità di vivere in equilibrio tra i mondi: tra il

paese di partenza e quello di arrivo, tra la cultura abbandonata

forzatamente e quella che si deve imparare a fare propria, tra la

lingua dell’infanzia, che rimane da qualche parte nella

memoria, e quella della nuova quotidianità; tra la nostalgia del

mondo lasciato dietro di sé e la nuova identità, che si insinua

tra le pieghe della nuova vita.

Lo scrittore migrante, dotato di uno sguardo

caleidoscopico, di molteplici prospettive ed esperienze di vita,

costituisce un ponte tra la cultura di origine e quella

dell’arrivo, apportando ad entrambe elementi di novità.

Secondo Predrag Matvejević15, egli parte “con un libro in

valigia” e conserva la propria identità con la quale “feconda il

paese di accoglienza”; sospeso tra qui e altrove, acquisisce una

polivalenza esistenziale che gli consente di porsi come

elemento di raccordo tra realtà lontane ed eterogenee,

modificandole, arricchendole entrambe .

1.3 “Désir d’exister”: la letteratura della migrazione e

la cultura europea

Lo scrittore migrante, che non appartiene a “una, due, o

più nazioni ma alla rete delle relazioni formata dalla

migrazione transmondiale”16 , si pone, nei confronti della

nostra secolare cultura europea, come un detonatore di

innovazione.

www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0130&file=parole_in_06.html15 Predrag Matvejevic, Introduzione al Quaderno balcanico II in I cittadini della poesia, a cura

di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 200016 Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 9

XIV

La storia della modernità occidentale si presenta come

storia imperialista; e l’Occidente, nutrito delle proprie

certezze, difficilmente accoglie uno sguardo “altro”, che possa

far crollare i valori attraverso i quali i suoi figli si riconoscono,

si identificano, si definiscono.

Secondo Milan Kundera17, la storia degli ultimi decenni

ha portato l’Europa ad allontanarsi da ciò su cui, nell’era

moderna, aveva poggiato la sua unità, ciò che rappresentava la

realizzazione dei valori supremi attraverso cui gli Europei

definivano se stessi: la cultura, la “creazione culturale”.

Crollato questo baluardo identitario – sostituito forse dalla

tecnologia, dalla politica, dal mercato globale - “l’immagine

dell’identità europea si allontana nel passato”, e l’Europeo

perde sempre più di vista “tanto l’insieme del mondo quanto se

stesso, affondando così in quello che Heidegger (…)

chiamava, con una formula bella e quasi magica, ‘l’oblio

dell’essere’”.

A questo oblio si oppongono le opere dei migrant writers,

i quali, con le loro identità doppie, multiple, ricostruite,

precarie, sempre in bilico – o meglio, in equilibrio – tra i

mondi, offrono uno sguardo nuovo, straniante, sulla cultura

ormai stanca del nostro millenario continente.

Propongono una nuova definizione dell’identità europea,

che si costruisca certamente a partire da valori culturali, ma

che non si rassegni alla massificazione e al dominio dell’altro;

piuttosto, che trovi il suo fondamento nel riconoscimento del

potere salvifico rappresentato dalle nuove realtà che

pacificamente “invadono” e “colonizzano” il nostro

continente.

17 Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, p. 179

XV

La letteratura della migrazione si pone quindi non come

“una letteratura marginale, o una letteratura etnica, ma come

letteratura tout court, perché innova il dire, innova le

rappresentazioni di mondi possibili. (…) Essa costruisce, se

pure a livello dell’immaginario, mondi possibili, sentimenti

negati; è una letteratura dell’esistente, che rivendica il suo

diritto all’esistenza. E nel dur désir de durer – come nei versi

di Apollinaire – essa esprime il dur désir d’exister .”18

Questa breve citazione di Khaled Foum Allam conferma

la portata rivoluzionaria di questi autori; i quali, con le loro

opere, offrono “rappresentazioni di mondi possibili”: ci

donano cioè la possibilità della creazione di mondi, o

quantomeno l’esaltante consapevolezza che il nostro non sia

l’unico possibile.

Ci dicono che proprio nella pluralità, nel colloquio,

nell’esperienza dell’ospitalità, nell’alterità come ricchezza

sono rintracciabili i semi identitari del nuovo intellettuale

Europeo.

1.4 Una nuova forma di cultura, transnazionale e creola

Quando Khaled Fouad Allam afferma che la letteratura

della migrazione si presenta come letteratura dell’esistente,

intende probabilmente porre l’accento sulla “posizione

privilegiata” di cui il migrante gode nell’essere testimone della

Storia attraverso la propria esperienza.

Privato delle certezze che regolavano la prima parte della

propria vita, costretto ad una continua “migrazione identitaria”

dentro e fuori di sé, posto a confronto con una cultura che non

18 Khaled Fouad Allam, “Introduzione”, in Mosaici d'inchiostro, sul sito §§www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0028&file=mosaici_in_02.html

XVI

gli appartiene, egli vive, nella propria storia personale, il senso

di quella “creolizzazione planetaria” di cui parla Edouard

Glissant19.

Egli è il vivente portatore dei due mutamenti culturali

attraverso cui si manifesta la creolizzazione: essa infatti è

possibile solo se si abbandona la radicata convinzione secondo

cui ogni identità si definisce escludendo e/o dominando

l’identità altrui; e si manifesta come la relazione di elementi

eterogenei che si “intervalorizzano”, senza subire

degradazioni, e con in più il valore aggiunto dell’imprevisto.

Riprendiamo la metafora usata da Matvejević che ho citato

qualche riga fa: lo scrittore migrante si avvia verso il nuovo

con una valigia in cui “solo qualche libro trova spazio”

assieme a “pochi altri oggetti cari o indispensabili”.20

Il cammino intrapreso è quello dell’intervalorizzazione

non degradante: il nostro trasmigratore viene armato, sì, ma

della sua cultura. Il punto d’arrivo è l’imprevisto: l’incontro tra

questa e la nostra produce effetti che possiamo seguire nel loro

svolgersi, ma che per ora sono assolutamente imprevedibili,

tantopiù che nascono da un fenomeno già di per sé totalmente

inaspettato: una nuova – e non belligerante – invasione

dell’Europa, che segue di oltre un millennio la precedente.

Seguendo questi cambiamenti culturali fino alle estreme

conseguenze, non potremo più parlare, quindi, di letteratura

come immutabile oggetto accademico e strumento di dominio;

ma di una nuova poetica, rivoluzionaria e sperimentale, di cui

gli autori migranti rappresentano l’avanguardia.

19 Edouard Glissant, La poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998, p.20 Predrag Matvejević, introduzione a “in Quaderno balcanico II” in I cittadini della poesia, a cura

di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 2001, p. 8

XVII

La realtà che il migrante rispecchia, nelle proprie opere

letterarie e nelle proprie esperienze, non è, non può essere,

univoca, controllata o prevedibile; avendo attraversato la

Storia, egli riflette, come dice Roberta Sangiorgi21, “immagini

non di se stesso ma di più mondi.”

Riconoscendo la pluralità dell’umano, e rivendicandone

l’esistenza – e la resistenza - lo scrittore migrante si pone

quindi davvero nel solco della letteratura, della vera letteratura

(della letteratura tout court, dicevamo); del resto, già Josif

Brodskij, in un discorso del 198722, sosteneva che la diversità

umana sia la materia prima della letteratura, e che ne

costituisca la ragion d’essere; che “essendo la forma più antica,

e anche la più letterale, di iniziativa privata, l’arte” – e in

particolar modo la letteratura – “stimola nell’uomo, volente o

nolente, il senso della sua unicità”.

Lo scrittore migrante non è, in definitiva, solo un

numero, uno delle migliaia di sventurati che si riversano ogni

anno, per le ragioni più disparate, nel nostro paese; egli è,

come dice Jarmila Očkayova, il portavoce del fondamentale

passaggio da un modello culturale faustiano – l’intellettuale

europeo pecca di orgoglio – ad uno amletiano, shakespeariano:

il migrante “apre le porte al dubbio”. Ed è un dubbio salvifico

quello che ci pone, (ogni dubbio è un omaggio alla speranza,

sosteneva Voltaire) perché ci insegna che riconoscere la

propria unicità, rifiutare la massificazione, specie per coloro

che il destino ha voluto divisi tra più patrie, tra più vite,

significa anche intraprendere il cammino verso la libertà.

21 Roberta Sangiorgi, “La ricchezza del doppio sguardo”, in Il doppio sguardo, culture allospecchio, sul sitowww.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0000000192&file=doppio_in_02.htm

22 Josif Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, in Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p.15

XVIII

Ci ricorda che il nuovo, il “diverso”, altro non è se non

un “potente antidoto contro la malattia dell’omologazione”.23

Ci rinnova la consapevolezza che la letteratura sia “una

maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente

migliore di qualsiasi dottrina”.24

23 Jarmila Očkajova, L’impegno di vivere, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Edizioniinterculturali, 2002, p.60

24 Josif Brodskij, op. cit., p.15

XIX

…anomalo,

dissimile,

sproporzionato,

per nulla calibrato,

quindi

squisitamente

balkanico…

Angelo Floramo

XX

2. I Balcani

Peculiarità della situazione balcanica.

Questione identitaria e difesa della diversità come valore

culturale, testimonianza della macrostoria e migrazione che

assume i caratteri di un esilio, scelta della letteratura come

ultimo baluardo di una dissidenza possibile e frattura

esistenziale in cui siano ben distinti un “prima” ed un “dopo”,

ridefinizione culturale che si basi sul dialogo e non sulla

sopraffazione: tutto ciò che caratterizza il fenomeno della

letteratura migrante è particolarmente evidente nella più

recente diaspora europea: quella dai Balcani.

Migliaia di persone hanno abbandonato questa regione

situata nel cuore dell’Europa durante gli anni che vanno dal

1991 al 1999: date di inizio e fine dell’ultima guerra nella ex-

Jugoslavia, la prima che insanguinasse il nostro continente

dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Diretta conseguenza dell’orrore bellico scatenatosi a

seguito del riemergere di folli ideologie nazionaliste, la

migrazione dai Balcani, e quindi anche la produzione letteraria

ad essa collegata, assume caratteri assolutamente peculiari:

primo fra tutti, la migrazione è un passo obbligato e doloroso,

non una delle scelte possibili, volto a garantire due dei diritti

fondamentali per chi fugge: la vita e il rispetto della propria

umanità.

Secondariamente, la scelta della letteratura come forma

di denuncia, in qualche modo di resistenza, è di estrema

importanza per chi ha visto cancellare il proprio mondo.

XXI

E’ necessario ripercorrere le fasi di questo conflitto, e

conoscere il complesso quadro storico-politico all’interno del

quale si inserisce, per comprendere l’importanze degli scrittori

migranti dai Balcani e della loro produzione letteraria.

2.1 L’importanza dei Balcani: alcune metafore

Il “nostro” secolo breve è iniziato, si dice, nel 1914 a

Sarajevo; ed è finito, nel 1999, a Belgrado.

In mezzo a questi due estremi c’è il Novecento, con tutta

la storia che ha prodotto; in mezzo, ci sono anche i Balcani,

continente nel continente, che sfugge a prima vista ad ogni

definizione, o si presta a molte.

L’“anomalia balcanica” consiste, da sempre, nella

sorprendente convivenza di una moltitudine di gruppi etnici,

religiosi e linguistici all’interno di uno spazio geografico

relativamente ristretto e non sovrappopolato.

Questo mosaico non è stato, com’è noto, immune da

scontri e tensioni, che anzi sembrano essere una delle sue cifre

caratteristiche, tanto da produrre per questa regione le

definizioni di “polveriera” o “ventre molle” d’Europa. Già

Miroslav Krleža, scrittore deceduto dieci anni prima che la

dissoluzione del suo paese avesse inizio, difendeva

strenuamente, accanto alla sua identità croata, anche quella

jugoslava, avvertendo i suoi “confratelli” della pericolosità dei

“culti ideologici” e dei nazionalismi esasperati.

Nel 1952, al Congresso degli scrittori di Lubiana,

sosteneva: “Rimettere insieme tutta la coscienza politica,

culturale e intellettuale che nei nostri giorni si vede frantumata

e dispersa dai nostri provincialismi, (…) mettere in evidenza

XXII

gli aspetti tragici dei nostri propri scismi così come delle

nostre negazioni reciproche, questa dovrebbe essere la nostra

missione”25.

In molti non hanno esitato a definire i Balcani “culla”

d’Europa, o suo “cuore”, volendo coglierne così la ricchezza

culturale e storica e la complessità sociale, ma anche

l’importanza nella costruzione di un’identità europea.

Qui si è infatti costituita la civiltà mediterranea; questa

regione di fronte alla quale la “fortezza Europa”, sempre più

volta ad Occidente, chiude le sue frontiere, anche culturali, non

è un’entità politico-culturale a noi estranea, o da noi

indipendente.

Quella che chiamiamo con la bella e rassicurante

metafora di casa Europa, andando verso est, si ricompone, non

si allarga, fa notare Melita Richter26.

Abbiamo dimenticato – ed è una grave perdita, in termini

culturali – che dell’identità europea partecipa anche “l’anima

grande dell’Oriente”27; quello che una volta era “l’Oriente del

nostro mondo”, “oggi è solo Est, una sigla che marchia le

periferie della politica e della mente”28.

Non sembra quindi azzardato parlare di questa Regione

come di una “vetrina” del nostro continente, una sorta di suo

“compendio”; in definitiva, parlare di Balcani significherebbe

parlare di Europa ma soprattutto all’Europa. Perché la storia

balcanica (non solo quella più recente) ci insegna e ci avverte;

se consideriamo il conflitto degli anni Novanta, essa

25 Miroslav Krleža, citato da Predrag Matvejevic, in Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie,nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 103

26 Melita Richter, “Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro”, in «Osservatorio suiBalcani», marzo 2004, sul sito www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/2889/1/50

27 Paolo Rumiz, E’ oriente, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 1528 Paolo Rumiz, op. cit, p. 39

XXIII

costituisce anzi, per utilizzare le parole di Edmund Stillmann,

“un avvertimento mortale” 29.

Un continente nel continente, abbiamo definito i Balcani;

un’Europa nell’Europa, uno “specchio perfetto delle nostre

divisioni, e al tempo stesso l’ultima isola della nostra

complessità perduta”30, secondo Rumiz; “una specie di campo

di prova”31 delle tensioni europee per Predrag Matvejević; “la

camera oscura dell’Europa32” a parere di Angelo Floramo,

nella quale “il buio genera forme, linee, idee, sogni.”; infine,

nell’opinione di Georges Prévélakis, “termometro per

l’Europa”, che anticipa e riassume cambiamenti culturali e

tensioni sociali che turbano l’intero continente.33

E’ partendo da questi presupposti che si può

comprendere il sanguinoso conflitto degli anni Novanta.

Perché la complessità è sicuramente una delle caratteristiche

fondamentali della regione balcanica (all’interno della quale la

Jugoslavia è esistita come stato federale solo per alcuni

decenni) e riveste l’ambito geografico, politico, storico, etnico,

linguistico; gran parte degli eventi degli ultimi quindici anni

trovano la propria origine in questa complessità.

2.2 Comprendere i Balcani attraverso le opere di

Predrag Matvejević

29 Edmund Stillman, citato da Georges Prévélakis, ne I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 1130 Paolo Rumiz, L’ultima isola, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998,

p.15431 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma edizioni, Napoli, p.932 Angelo Floramo, Parole in esilio, tra il sogno e la voce. Spunti per una rapsodia balkanica, in

«PaginaZero Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 21Angelo Floramo è studioso medievista, esperto di tecniche multimediali, intenditore raffinato della

vignettistica, e un profondo conoscitore delle culture dell'est Europa di cui spesso scrive su giornalie riviste di ogni nazione.

33 Georges Prévélakis, Les Balkans, poudrière ou thermomètre de l’ Europe, in «ConfluencesMéditerranée», n.8, 1993, p.97

XXIV

Alla fine del 1994 un gruppo di intellettuali e politici

europei si ritrova a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina,

per commemorare una tragica ricorrenza: la città bosniaca,

trascinata nel 1992 nella guerra fratricida che sta dilaniando la

ex-Jugoslavia, ha superato il millesimo giorno di assedio.

Più di settantamila persone sono intrappolate all’interno

della città, senza cibo né acqua, costantemente sotto il tiro dei

cecchini che presidiano le più importanti strade del centro.

Diecimila sono già morti.

Altrettanti sono fuggiti chissà dove.

Sarajevo (l’unica capitale al mondo che avesse nel suo

centro, a poche centinaia di metri di distanza, quattro luoghi di

preghiera, uno ebraico, uno musulmano, uno cattolico e uno

cristiano ortodosso) diviene, nella prima metà degli anni

Novanta, il simbolo di una guerra tragica e insensata, di fronte

alla quale l’Europa e il mondo s’interrogano, stupiti e

impotenti, senza riuscire a fare nulla per fermarla.

Gli intellettuali intervenuti a sostegno della popolazione

imprigionata in quello che ormai viene definito “il più grande

campo di concentramento del mondo”34 pubblicano

sull’International Herald Tribune un necrologio “in memoria dei

nostri cari Principi, Valori morali e Impegni, defunti in Bosnia

nel 1994”.35

Tra quegli intellettuali c’è Predrag Matvejevic.

Jugoslavo per nascita ed Europeo per scelta, è nato a Mostar,

in Bosnia Erzegovina, da madre croata cattolica e padre ucraino di

origine, russo di lingua, ortodosso per formazione, jugoslavo di

adozione.

34 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 4335 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 440

XXV

Questo complesso mosaico identitario viene sempre,

fedelmente, riportato, ogni volta che si parla di questo scrittore

che da qualche anno ha fatto dell’erranza una scelta di vita, e che

vive “tra asilo ed esilio”, lavorando tra Roma, Parigi, e ciò che

resta della sua Jugoslavia ormai perduta.

Si riportano questi dati biografici forse cercandovi l’origine

della sua predilezione per la “dissidenza”36, il “cosmopolitismo”37,

la necessità di testimonianza e di denuncia di tutti gli orrori del

mondo; specialmente del suo mondo, quello dell’“altra Europa”,

quell’“est” da cui sempre più ci allontaniamo.

Credo che questa predilezione sia da ricercarsi, oltre che

nella complessità delle sue origini (di sé, nel suo testo Mondo

«ex» Matvejević dice : “ero destinato ad essere internazionale”38),

nella sua scelta di porsi sempre dalla parte dell’umano; ciò che il

dissidente Metvejević combatte nei regimi di cui ha avuto, più o

meno direttamente, esperienza, sono i particolarismi, i

nazionalismi esasperati, i fondamentalismi, i clericalismi (in più di

una sede, l’autore ha tenuto a precisare che non ama, in genere, gli

“ismi”; preferisce, dice, le parole che finiscono per “tà”: libertà,

fraternità, jugoslavità, e, soprattutto, verità.)

La necessità, intimamente sentita e portata avanti con

coraggio, di denunciare le storture della storia e dei governi, l’ha

portato lontano dalla Jugoslava che amava, ma in cui vedeva

avverarsi il celebre monito di Ivo Andrić, secondo cui “la verità è

la prima vittima della guerra”.

In una lettera diretta ad Andrej Sacharov del 1984,

nell’esprimere la necessità che egli continui a parlare al suo

36 Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altraEuropa, Garzanti, Milano, 1996, p. 40

37 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi editore, Roma, 1998, p. 23338 Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra

Europa, Garzanti, Milano, 1996, p.89

XXVI

popolo (Sacharov era allora confinato a Gorkij), Matvejević lo

definisce “ostaggio della verità”39.

Ed è così che lui stesso ci appare: cosciente di ciò che

affermava il pittore Kazimir Malević, cioè che l’arte ha bisogno di

verità, non di sincerità, non rinuncia mai, nei suoi scritti, alla

ricerca del nesso profondo tra arte e vita, tra ispirazione ed

occasione.

I suoi libri sono fedele cronaca dei nostri tempi: non sapendo

che farsene di “poesie che non riposano su niente”40, diffida

dell’intellettuale che non si schiera, dolorosamente conscio che,

anche nelle pieghe più dolorose della storia, “ci deve essere pure

chi ricorda”41.

Di lui, Robert Brechon scrive: “Ormai, ‘erede senza eredità’,

socialista senza socialismo, democratico senza democrazia,

iugoslavo senza Iugoslavia, europeo senza Europa, poiché la sola

Europa nella quale avere ‘cieca fiducia’, cioè la nostra, a sua volta

si richiude nelle sue frontiere, tutto ciò che può fare è di eseguire

questi esercizi di libertà di pensiero che sono i suoi libri. Il

vagabondaggio geopoetico nello spazio terraqueo del

Mediterraneo e le ‘bottiglie gettate in mare’ incaricate di portare

ai suoi fratelli europei i messaggi della ‘nuova dissidenza’, tutto

ciò sembra testimoniare, in quella coscienza ferita, di una

invincibile fiducia nell’uomo”42.

Non va dimenticato infatti – e soprattutto non dovrebbe

dimenticarlo l’intellettuale – che della storia “siamo talvolta tutti

responsabili, per quanto possiamo essere individualmente

impotenti”43.39 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 13040 Wolfgang Goethe, Conversazioni con Eckermann, 18 settembre 1823, citato da Predrag

Matvejevic, Mondo « ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa,Garzanti, Milano, 1996, p. 176

41 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 6542 Robert Brechon, “Cittadino di un’ Europa introvabile”, postfazione a Predrag Matvejevic,

Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti,Milano, 1996, p. 186

43 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 67

XXVII

Indispensabile chiave di lettura della storia recente della

“nostra” e dell’“altra” Europa, le sue parole saranno utili nel

ripercorrere la storia del crollo del suo paese, così tanto amato.

2.3 Una regione piena di contraddizioni

“Chi approda nei Balcani” afferma Matvejević in un

recente articolo “non tarda a rendersi conto delle loro

contraddizioni”44.

E’ l’essere un crocevia, probabilmente, il senso ultimo

di questa zolla d’Europa: nei secoli, essa si è trovata ad essere

un punto di incontro (e di scontro) tra Oriente e Occidente, tra

mondo bizantino e mondo latino, tra Impero d’Oriente e

Impero d’Occidente, tra cattolicesimo e ortodossia, tra Austria

asburgica e Impero Ottomano, tra cristianesimo e islam, tra

paesi del blocco sovietico e occidente industrializzato.

Essa rimane vittima di quella che Prévélakis chiama

“tirannia della geografia”45: perché, ben lungi dall’essere

caratterizzata da una natura accogliente e favorevole, pure ha

una posizione invidiabile, che l’ha resa nei secoli preda di

bramosie di ogni genere.

Mentre si rafforzava così nelle popolazioni che

l’abitavano lo spirito di resistenza e il senso di una libertà da

difendere anche a costo della vita, i Balcani vivevano il

dramma di una unificazione che risultava impossibile se non

sotto una dominazione straniera.

Mai costituitasi in un’entità indipendente, questa

regione vive la tirannia della storia tanto quanto quella

geografica: perché non avere una storia globale della penisola,44 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.

745 Georges Prévélakis, I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 18

XXVIII

ma singole storie nazionali spesso in contrasto tra loro ha reso

più semplice il salto (quasi impercettibile ma pericolosissimo)

da cultura nazionale a ideologia della nazione46.

Infine, parlare dei Balcani vuol dire ammettere, come

base dell’analisi, una certa indeterminatezza; anche solo

definire quali paesi facciano parte a tutti gli effetti della

Regione non è impresa da poco: “A quale regione appartiene la

Romania, ai Balcani o all’Europa Centrale? (…) Dobbiamo

includere nei Balcani la Slovenia, così vicina, geograficamente

e culturalmente, all’Austria? In che misura la Croazia cattolica

è balcanica? E la Turchia? (…)”47. Dubbi come quelli che si

pone Prévélakis sono inevitabili, inoltrandosi nel territorio che

sta oltre la catena montuosa della Stara Planina: le cause di

questa particolarità vanno ricercate in quindici secoli di storia,

durante i quali il territorio dei Balcani è stato teatro di vicende

molto complesse, e che hanno lasciato come eredità

un’estrema instabilità politica.

2.4 La Jugoslavia prima del conflitto

Divisi fin dall’antichità greca tra ellenismo e barbarie, i

Balcani videro aumentare la propria importanza dopo il 330

d.C., quando, unificati sotto il dominio di Roma,

Costantinopoli divenne il reale centro di gravità dell’impero

ormai in declino.

Le tensioni politiche, dovute alle pressioni barbariche

sui confini, e quelle religiose dovute all’affermazione del

cristianesimo come fondamento ideologico dell’impero,

portarono ad un graduale allontanamento tra centro e periferia,

46 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.947 Georges Prévélakis, I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 16

XXIX

culminato nel primo Scisma del 482, poi in quello definitivo

del 1054, e quindi nell’affermazione della Chiesa Ortodossa.

Tra il IX e il X secolo, l’impero bizantino è al suo

culmine, e si presenta come un impero multinazionale che non

ha problemi a gestire le invasioni di popoli barbari (tra cui

Serbi e Croati, che slavizzano gran parte della regione) a nord

dei suoi territori; la vera minaccia mortale è l’Occidente, che

nel 1204, con la quarta crociata, attacca e distrugge

Costantinopoli affermando la propria superiorità politica ed

economica.

Nel momento della definitiva presa di Costantinopoli,

nel 1453, i Balcani sono divisi tra un’area linguistica slava e

una greca, ma uniti dall’ortodossia, con le sostanziali eccezioni

della Croazia cattolica e dell’islam, affermatosi in Bosnia,

Bulgaria, Albania grazie all’influenza ottomana.

Ed è proprio con la conquista da parte dell’impero

Ottomano che i Balcani ritrovano una certa stabilità con la

cosiddetta pax ottomanica.

E’ una pace che però ha il suo prezzo: il dominio turco,

imposto per quasi mezzo millennio a tutta la regione, taglia

fuori i popoli balcanici (in misura minore quelli del nord, come

croati e sloveni, in modo drammatico quelli del sud, come

serbi, albanesi, bulgari, rumeni, ma anche greci e macedoni) da

ogni contatto culturale con il resto d’Europa.

E’ solo nel Settecento, con la decadenza ottomanica e

l’affermazione nella regione dell’influenza asburgica, che idee

riformiste e un certo fervore culturale iniziano a palesarsi.

Influenzata a partire dall’ Ottocento dal nazionalismo

romantico di matrice tedesca, una pleiade di letterati, poeti e

studiosi, soprattutto filologi, si impegna per riscoprire la storia

e la lingua dei popoli balcanici, per rendere possibile

l’inserimento della regione nell’Europa.

XXX

La cultura si laicizza; si afferma un forte sentimento

patriottico, e per quanto riguarda le popolazioni slave, la

sensazione di far parte di una grande famiglia.

In una regione in cui l’affinità etnica aveva avuto

certamente più peso dell’unità politica, l’idea herderiana del

popolo-nazione quale organizzazione naturale e spontanea,

contrapposta alla nazione-Stato, diviene centrale.

Nasce l’Illirismo, e con esso l’idea di unificare tutti gli

“Slavi del sud”, legati tra loro dall’affinità linguistica, in un

unico stato; “la lingua è la storia dell’umanità, la sua eredità”48,

affermavano i romantici: su questa base si tenta di semplificare

e razionalizzare una realtà estremamente frammentaria.

Ma le spinte nazionalistiche sono fortissime; e il secolo

successivo è sconvolto da una serie di rivolte che portano alla

graduale emancipazione dalla Sublime Porta e alla creazione di

uno Stato Serbo sempre più forte che aspira al ruolo di

Piemonte balcanico.

L’Austria Ungheria, che già “aveva avvertito il glaciale

passaggio dell’ombra della propria fine”49 si oppone con

fermezza allo Jugoslavismo occupando la Serbia nel 1878.

Il progetto è destinato a fallire, e la resistenza serba

culmina nella crisi finale del 1914.

Dopo la prima guerra mondiale (durante la quale i Serbi

combattono dalla parte degli alleati mentre Sloveni e Croati a

fianco degli imperi centrali), viene costituito un regno “dei

Serbi, dei Croati e degli Sloveni” che diviene, nel 1929,

“Regno di Jugoslavia”.

Lo stato fra le due guerre si mostra politicamente fragile

ed economicamente in difficoltà: nel 1941 il paese non resiste

all’attacco delle truppe tedesche, italiane, ungheresi e bulgare,48 Giampiero Moretti, Heidelberg romantica, Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Guida,

Napoli 2002, p. 11049 Josip Krulic, Storia della Jugoslavia dal 1945 ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1997, p. 14

XXXI

e “crolla come un castello di carte”50. La Jugoslavia cessa in

pratica di esistere, la Germania e l’Italia spartiscono il

territorio e permettono agli ustascia di Ante Pavelić di

costituire un Regno Croato indipendente, fortemente antiserbo.

Si levano in armi a questo punto i cetnici di Draža

Mihalović (serbi e filomonarchici), e i partigiani guidati da

Josip Broz, detto Tito (filosovietici e decisi a portare avanti

una rivoluzione di tipo bolscevico), ostili tra di loro e agli

ustascia: quella che segue è una vera lotta di tutti contro tutti.

Il movimento partigiano esce vittorioso dalla guerra, e

Tito ristruttura la nuova Jugoslavia socialista su basi federali.

Il paese tra il 1945 e il 1980 è fortemente caratterizzato

dal prestigio del suo presidente, che riesce ad affermarsi al

punto di sollevare economicamente lo stato grazie

all’autogestione e all’autodeterminazione e ad opporsi allo

stalinismo – nel 1948 tra Jugoslavia ed Unione Sovietica nasce

un’insanabile contrasto che porterà ad un vero e proprio

scisma, accolto con favore dall’Occidente.

Tito rende l’instabile Jugoslavia non solo il centro del

movimento dei non allineati, ma anche “uno dei rari paesi

multinazionali del mondo, che aveva saputo risolvere il

problema della convivenza”.51

L’impatto sull’opinione pubblica internazionale è

fortissimo.

Ma la sicura unità jugoslava, la promessa di una serena

convivenza tra popoli non aveva tenuto in debito conto alcuni

dei maggiori focolai di tensione del paese: sussistevano

ancora, negli anni Settanta – e anzi cominciavano a minacciare

la sicurezza titoista – le gravi contraddizioni del problema

delle minoranze, del risorgere di miti nazionalistici e della

50 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 1651 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 9

XXXII

pericolosa convivenza di spirito bellico tradizionale (in cui le

forme comunitarie del clan e della famiglia superano per

importanza quella dello stato) e patriottismo espansionistico di

stampo moderno.

Nel 1980, in occasione della morte di Tito, decine di

statisti di tutto il mondo giungono a Belgrado per inchinarsi

davanti al feretro dell’uomo che aveva reso possibile l’unità e

la pacificazione di una regione priva di stabilità. Senza averne

piena coscienza, salutano anche uno stato ormai avviato verso

la fine; scomparso il presidente, “tutti i nodi” della Jugoslavia

vengono infatti “fatalmente al pettine”52.

2.5 La guerra

Eppure quando, negli anni Novanta, le tensione

nazionalistiche maturate in seno alla ex-Jugoslavia sono

esplose in uno dei conflitti più crudeli degli ultimi decenni,

l’Europa è rimasta a lungo incredula di fronte al risvegliarsi di

odi che pensava superati.

I conflitti identitari erano stati relegati al rango di

barbarie che mai si sarebbero ripetute dopo il termine della

seconda guerra mondiale. Si era coscienti che la creazione

dello stato federale non aveva dato vita a nazioni etnicamente

omogenee; ma si era creduto che “il secolare komišiluk –

parola di origine turca che in Bosnia indicava cordiali rapporti

di vicinanza tra persone di diversa religione e tradizione –

avrebbe prevalso sui sospetti e gli odi reciproci”53.

Invece la Jugoslavia, col suo sogno di uno stato

plurinazionale in cui la convivenza pacifica fosse non solo

52 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 22653 Jože Pirjevec, op. cit., p. 124

XXXIII

possibile, ma addirittura necessaria alla sopravvivenza dello

stato stesso, è miseramente crollata sotto i colpi delle ideologie

nazionaliste.

Le vecchie ferite, che si credevano rimarginate, hanno

ricominciato a sanguinare; e l’Europa si è trovata impreparata

di fronte ad un conflitto di cui era stato possibile, come

afferma Predrag Matvejević, prevedere l’odio, ma non il

furore.

Una guerra durata dieci anni, che ha fatto del rancore

etnico il suo vessillo, che ha visto realizzarsi sul suolo del

civilissimo Vecchio Continente massacri, stupri etnici,

deportazioni, campi di concentramento e di sterminio, ha

chiaramente dimostrato quanto in realtà fosse fragile

l’illusione di una soluzione dei contrasti che non prevedesse

uno scontro armato.

Cronologicamente, l’ultimo conflitto consumatosi nella

penisola balcanica si colloca negli anni Novanta del XX

secolo.

Esplode nel territorio di quella che ancora nel 1990 era

la Repubblica Federale Socialista Jugoslava, in cui

“convivevano sei gruppi nazionali: serbi, croati, sloveni,

macedoni, montenegrini e musulmani bosniaci, oltre a una

miriade di gruppi etnici minori quali albanesi, ungheresi,

italiani, bulgari, rumeni, slovacchi, cechi, ucraini, rom

(zingari), turchi; (…) si usavano tre lingue ufficiali e due

alfabeti – latino e cirillico – (…) si praticavano le religioni

cattolica, ortodossa e musulmana”54, e si configura come un

conflitto etno-nazionalista, la cui ferocia è stata aumentata a

54 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 4

XXXIV

dismisura da una fatale mescolanza di miti caricaturali (la

“Grande Serbia”, la “Sacra aria croata”) e revisionismo storico.

Un conflitto che vede a capo dello stato più forte della

federazione, la Serbia, Slobodan Milošević, politico dotato di

forte personalità ma preda di folli volontà espansionistiche, e

dimentico del fatto che questa “penisola è (…) troppo ristretta

per simili ambizioni”55. (Non sarà l’unico, ma sarà certo il più

pericoloso).

I teatri di guerra, infine, sono quattro: l’asburgica e

quasi etnicamente pura Slovenia; la cattolica ma molto più

“balcanica” Croazia; la Bosnia Erzegovina, un vero mosaico

etnico-religioso (il paese che più ha sofferto per questo

conflitto); il Kosovo, appartenente alla Serbia ma con

popolazione a maggioranza (quasi il 90%) albanese.

Ricordando una suggestiva suddivisione delle fasi del

conflitto operata da Matvejević in suo diario, e semplificando

eventi che richiederebbero una trattazione ben più ampia, si

potrebbe affermare che il 1991 è l’anno in cui i demoni

nazionalistici si risvegliano: la Slovenia, la più ricca delle

repubbliche jugoslave, riesce, dopo una guerra lampo, ad

ottenere l’indipendenza.

Il 1992 è l’anno della nascita di nuove frontiere: il

conflitto si sposta in Croazia, dove le truppe fedeli a Milošević

rivendicano il possesso dei territori a maggioranza serba; la

Jugoslavia non ha solo perso una delle sue repubbliche, ma è

ormai vittima di un meccanismo crudele che è impossibile

fermare. Le immagini di Vukovar assediata fanno il giro del

mondo: ancora incosciente della perdita, il mondo attende una

soluzione che non arriva.

55 Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.18

XXXV

Nello stesso anno, la guerra giunge in Bosnia, e si

svolge ora su due fronti: sia i Serbi che i Croati portano avanti

rivendicazioni territoriali ai danni dell’etnia musulmana, che

costituisce la maggioranza della popolazione bosniaca. Dal

1992 al 1995, le ferite inferte al cuore dell’Europa diventano

irreparabili, e il sogno di unità dei migliori tra gli jugoslavi

cede il posto alla disillusione e allo sgomento.

Con gli accordi di Dayton del 1995, la Bosnia è divisa

in una Repubblica Serba e una Federazione Croato-

musulmana. In un momento che l’Europa vive come un

trionfo, gli abitanti di uno stato ormai “ex” riconoscono la

sconfitta di vincitori e vinti.

Il conflitto sembra risolto, ma si riaccende nel 1999, con

l’attacco di Milošević al Kosovo: i bombardamenti NATO su

Belgrado mettono fine al contrasto, senza peraltro risolvere le

questioni etniche.

Nel 1995, Bogdan Bogdanović, ex sindaco di Sarajevo,

dichiarava: “I serbi hanno perso la guerra, hanno perso

l’anima, hanno perso l’onore, hanno perso tutto.”56 Questo non

impedisce al maggiore artefice dell’orrore jugoslavo, Slobodan

Milošević, nel 1999, di affermare, con vana retorica e senza

tema di cadere nel ridicolo, che la “sua” Jugoslavia era “il

paese più libero e più democratico di tutto il mondo”57.

La migrazione dai Balcani.

2.6 Colpire i simboli:

nuove frontiere e ponti che crollano

56 Bogdan Bogdanović, citato da Jože Pirjevec, in Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi,Torino, 2002, p.553

57 Bogdan Bogdanović, op. cit., p.553

XXXVI

Ci sono immagini di questo conflitto che racchiudono in

sé tutto il senso di un orrore durato anni: le case distrutte della

città croata di Vukovar, tenuta sotto assedio dalle truppe serbe

durante il 1991; lo sterminato memoriale di Potočari, nella

cittadina di Srebrenica, in Bosnia, in cui, nel 1995, più di

ottomila cittadini di etnia musulmana sono stati massacrati

nell’arco di appena tre giorni; la biblioteca di Sarajevo,

splendido edificio che conteneva manoscritti di inestimabile

valore, bombardata e divorata dalle fiamme, ridotta ormai ad

uno scheletro le cui finestre sono orbite vuote; i posti di blocco

e le frontiere, che non esistevano affatto, prima; infine, il

simbolo forse più forte e più tragico: il ponte, costruito nel

1566 e distrutto dalle truppe croate, nel 1993, a Mostar, la città

“dove Oriente e Occidente si erano date la mano”58.

“I simboli”, dice Gigi Riva59 in un articolo del 1998,

“contano sempre. Soprattutto contano in guerra.”60

In particolar modo, contano in questa guerra, in cui gli

opposti nazionalismi, per risultare accettabili in una regione

da secoli abituata alla convivenza multietnica, hanno

necessitato del risveglio di fantasmi passati, della promozione

mediatica di un feroce odio etnico, della demonizzazione

dell’altro, dell’identificazione di chi difendeva il pluralismo

culturale con un nemico da annientare, anche fisicamente.

Acquistano allora un senso più profondo le parole della

scrittrice Melita Richter, quando afferma che assieme al

Vecchio (lo Stari, così i mostarini chiamavano la superba

costruzione che si ergeva sulla Neretva “come un arco sottile58 Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p.1959 Gigi Riva, giornalista professionista, vanta esperienze al Gazzettino di Venezia, al Giorno, a

Repubblica e in televisione come collaboratore di Gad Lerner nel programma Pinocchio. Haseguito le guerre dei Balcani, in Croazia e Bosnia come inviato speciale sino al 1996, conflitti suiquali ha scritto due libri. Attualmente è inviato speciale del settimanale L'Espresso.

60 Gigi Riva, “Kamerni Teatar” 55, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma,1998, p.154

XXXVI

di luna”61, come se fosse uno di famiglia) “annegò un mondo

intero; l’antico mondo che aveva fatto sua l’arte e la saggezza

del vivere insieme”62.

Simbolo di unione e condivisione per eccellenza, il

ponte è una metafora di enorme forza, che molti scrittori hanno

utilizzato nei secoli: primo fra tutti – inevitabile citarlo

parlando di questo most bosniaco - Ivo Andric: che dei ponti

balcanici è stato il più grande narratore, e che ne ha colto,

molto prima che il suo mondo si disgregasse, il profondo

significato simbolico; nel breve e famoso racconto I ponti, del

1963, dice infatti: “Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo

istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più

prezioso per me dei ponti”, che si propongono “come eterno e

mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e

unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai

nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni,

contrasti, distacchi…”63.

La spinta verso l’altro, la ricerca di un’altrove possibile,

dice lo scrittore Mauro Daltin, attiva “nell’essere umano la

capacità creativa di gettare ponti (il linguaggio, la metafora, il

dialogo...) che consentono comunicazione e possibilità

d’incontro tra differenti sponde, senza per questo ostacolare né

ostruire il fluire di ciò che in mezzo scorre”64.

Se è vero, come abbiamo affermato, che i simboli

contano sempre, e soprattutto in guerra, allora “la distruzione

del ponte di Mostar, così come quella della biblioteca di

Sarajevo, (…) ci fanno intravedere l’abisso di barbarie nel

61 Melita Richter, “All’ombra del ponte”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre2004, p. 15

62 Ibidem63 Ivo Andrić, Racconti di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995, p.15764 Mauro Daltin “Editoriale”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.5

XXXVI

quale sprofonda l’umanità quando disconosce i valori etici e

culturali”.65

E’ sembrato impossibile tornare a darsi la mano dopo un

atto di violenza che non aveva nulla di strategico, ma che

voleva solo dimostrare la cieca volontà dei distruttori, per cui

la vendetta contava di più della “buona intesa” di chi si

bagnava nel fiume all’ombra del Vecchio; perché questa

distruzione ha avuto come conseguenza l’annullamento stesso

della possibilità di pensare un’alternativa, l’obbligo di

scegliere se stare da una parte o dall’altra del fiume: un ponte

non attraversabile è, a tutti gli effetti, metaforici e non, una

barriera invalicabile.

2.7 “Un paese che produce più storia di quanta

riesca a gestirne”: il peso del passato nell’intellettuale

balcanico

Dopo aver appreso la notizia del bombardamento,

Matvejević scrisse un testo, intitolato semplicemente Mostar,

in cui esprimeva il suo dolore con queste parole: “Non avrei

mai creduto che avrebbero osato distruggere il vecchio ponte

della mia città natale. Durante questi anni di emigrazione,

andavo da una città all’altra senza cessare di evocarlo.(…) Ero

convinto che, nonostante tutto, sarebbe rimasto in piedi,

garante dei valori e della storia comuni, per salvare quanto

ancora poteva essere salvato in Bosnia Erzegovina e nella ex-

Iugoslavia, di fronte alla guerra fratricida, alla distruzione

barbara, alla strage.”66

65 Mauro Daltin “Editoriale”, op. cit., p.4

66 Predrag Matvejević, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altraEuropa, Garzanti, Milano, 1996, p. 167

XXXIX

Non è più solo architettonica la perdita che ha colpito la

Jugoslavia nel luglio del 1993; è di questo spirito di unione e

condivisione che si è perduto il senso dopo la distruzione del

“miracolo dell’arcata”67.

Sembrava che ogni forma di impegno intellettuale fosse

ormai inutile; eppure, dice ancora Matvejević, “bisognava

prendere posizione, o tradire se stessi”. Nonostante la sfiducia

maturata a seguito di una guerra che sembrava non voler

concedere tregua, il testo fu trasmesso a più riprese da una

radio locale che tentava di ridare coraggio ai sopravvissuti, e di

tenere in vita l’idea di un futuro in cui fosse ancora possibile

dialogare; e, in qualche modo, il tentativo riuscì.

“Fu una delle rare volte nella mia vita – commenta

Matvejević – in cui ebbi davvero l’impressione che la

letteratura potesse essere più che un gioco o un lusso”.

Nel suo ribellarsi al non dire, al non scegliere,

l’intellettuale può addirittura (seguendo il corso etimologico

della sua ribellione: da re-bellum), opporsi alla guerra.

2.8 Tra asilo ed esilio: nuove forme di dissidenza dai

Balcani

Al di là dell’estrema complessità che caratterizza questo

conflitto (dal punto di vista politico, religioso, geografico, in

qualche modo anche antropologico), nella sostanza esso ricalca

ciò che tutte le guerre portano inevitabilmente con sé: esse

privano l’essere umano del suo presente, cancellano il suo

passato e minacciano il suo futuro; e quindi dimostrano, nelle

parole e nei fatti, a chi le subisce, che nulla più gli appartiene:

neanche la sua stessa vita.

67 Così i costruttori musulmani chiamarono lo Stari Most al tempo della sua costruzione.

XL

E, in special modo quando il conflitto assume i caratteri

di una guerra etnica, quando cioè può bastare un nome a

determinare se ci si trova o meno dalla parte “giusta” della

barricata, viverlo vuol dire molto di più che temere per la

propria vita (o per quella dei propri cari).

Vuol dire riconoscere di non poter controllare più nulla,

neanche la propria esistenza; che si è stranieri in patria, e che

nulla di ciò che si conosceva sarà mai come prima; che non

sarà più concessa la possibilità di costruire il proprio destino,

né quello dei propri figli, e che l’ultima cosa di cui si verrà

privati sarà il proprio diritto primario, quello di essere

considerati esseri umani.

Andarsene, migrare altrove, non è quindi – come nel

caso di chi fugge dalla miseria alla ricerca di una nuova vita -

una scelta, per quanto dolorosa e sofferta: è una necessità.

Si abbandona il proprio mondo in fiamme – o quel che

ne resta – perché l’unica alternativa possibile, in patria, alla

morte, è il silenzio, l’umiliazione, una non-vita in cui nulla di

ciò che si era trova spazio.

Lo sguardo di chi decide di partire, di scegliere “con

piena consapevolezza uno status, poco confortevole, tra asilo

ed esilio”68, si posa sul passato infranto tanto quanto su un

futuro possibile, ancora da costruire: fuori da quella che

nell’ultimo quindicennio è diventata la “prigione dei popoli”

jugoslava, e dentro l’Europa.

Ed è letteralmente dentro l’Europa che si costruisce una

nuova esistenza per chi fugge dall’orrore della guerra: è nei

nostri paesi – in Germania, in Francia, in Italia – che ha inizio

la seconda metà della loro vita.

68 Predrag Matvejevic, op. cit., p. 97

XLI

Dai molti luoghi della loro diaspora, gli scrittori

migranti denunciano un mondo che “amalgama, banalizza ed

espelle, una dopo l’altra, le diversità”69.

La migrazione è un incentivo inesauribile alla difesa

dell’identità, ma anche della pluralità, culturale; perché, come

afferma lo scrittore albanese Ron Kubati, conferisce una

sensibilità sociale che diventa poi prospettiva letteraria: la

microstoria del migrante, apolide ed emarginato dalla vita

pubblica del paese di arrivo, si inserisce nella macrostoria70.

La sua testimonianza è preziosa: perché se è vero ciò

che sosteneva Hanna Arendt, (“Non c’è filosofia, analisi,

aforisma, per quanto profondi, che si possano paragonare per

intensità e ricchezza di significati a un racconto ben

narrato”)71, gli unici che possano denunciare ogni totalitarismo

che distrugga e appiattisca le differenze, sono i narratori di

altri mondi possibili; nel caso presente, i figli di quei Balcani

maledetti che hanno scelto “questa” Europa come

interlocutrice del proprio dolore.

La stessa terminologia con cui descriviamo la loro

condizione contribuisce a definire il peso del recente passato

sulle loro esistenza; noi parliamo infatti di “migranti”, mentre

loro spesso definiscono se stessi “esiliati”; forse nessuno dei

due termini descrive con esattezza la situazione, ma certo la

loro scelta non è casuale né insensata.

La differenza tra un esiliato e qualcuno che vive “tra

asilo ed esilio”, spiega Matvejevic72, è che il primo è vittima di

un regime totalitario che impedisce, a chi si allontani più o

meno volontariamente dal proprio paese, di tornare; il secondo,

invece, vive in una nuova “democratura” (neologismo col69 Paolo Rumiz, “L’isola”, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998, p.15370 Ron Kubati, “La ricerca dell’altrimenti”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura “creola”», sul sito

www.disp.let.uniroma1.it\kuma\kuma.html71 Hanna Arent, L’umanità nei tempi bui. Pensieri su Lessing, p. 1472 Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio. Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 249

XLII

quale Matvejevic definisce quei regimi che non sono

democrazie né dittature in senso stretto) e il suo abbandono dei

luoghi dell’infanzia non esclude il ritorno.

Non “esiliati”, quindi, almeno nella terminologia, i

Bosniaci, i Croati, o i Serbi che vivono nei nostri paesi; ma

esiliati nella sostanza, perché un paese a cui tornare non

l’hanno più.

Tornando tornano appunto in Serbia, Croazia, Bosnia, o

in quel che ne resta: non certo nella Jugoslavia in cui sono nati

e cresciuti, in cui si è sviluppata la loro identità e nutrita la loro

cultura, che quello è un paese che, nell’arco di pochissimi anni,

è scomparso, tragicamente, dalle carte geografiche.

La testimonianza del filosofo Ivan Iveković non è rara

né esclusiva: "Mio padre è nato in Austria-Ungheria, io nel

Regno di Jugoslavia, i miei due figli nella Repubblica

Federale Socialista Jugoslava ed io sono un cittadino croato

che vive temporaneamente in Egitto, ma non posso prevedere

dove nasceranno i miei nipoti e come si identificheranno"73

A volte non è necessario andare “altrove” per sentirsi

stranieri.

In un brano del suo testo “Mondo ex”, Predrag

Matvejević scrive: “Siamo abituati a perdere. Ogni giorno

qualcuno intorno a noi si allontana o sparisce, un’amicizia o un

amore impallidisce o si estingue, la morte si porta via uno dei

nostri. Perdere fa parte del nostro destino.

Però è raro perdere un paese. A me è capitato. Non

parlo di uno stato o di un regime, ma proprio del paese dove

73 Ivan Ivekovic, “Postille sull'identità”, in Melita Richter, Identità e genere nel conflitto jugoslavo,(libro in preparazione)

XLIII

sono nato, e che, ancora ieri soltanto, era il mio. Non c’è

più.”74

Nel descrivere il disagio del migrante, forzatamente

allontanato da tutto ciò che costituisce una sua definizione

identitaria, la scrittrice e psicologa Christiana de Caldas Brito

sostiene che la migrazione comporta una triplice perdita:

quella della madre biologica, quella della madrepatria, quella

della madrelingua. Per i migranti balcanici se ne aggiunge una

quarta, spaventosa e quasi grottesca: quella del proprio paese

di origine, non tanto (o non solo) in termini di allontanamento,

quanto piuttosto di cancellazione del luogo a cui si vorrebbe

tornare, e della complessità culturale che ne costituiva la

ragion d’essere: il migrante che abbandona la ex-Jugoslavia

sembra non aver diritto neanche alla nostalgia.

La loro salvezza sta nella testimonianza, e nella

letteratura; lo scrittore che fugge dai Balcani è, a tutti gli

effetti, un dissidente, termine ormai desueto, che identifica

però un ruolo di cui, dopo la resurrezione delle ideologie

nazionalistiche in seno alla nostra Europa, forse sarebbe il caso

di riappropriarsi.

“Un certo tipo di dissidenza – dice ancora Matvejević

pensando alla sua Jugoslavia distrutta – rimane quindi

necessario e di nuovo indispensabile.”75

Il compito degli scrittori migranti, e in particolare di

quelli provenienti dai Balcani, è quindi rendere possibili,

all’interno dell’Europa tutta, ove necessarie, nuove forme di

dissidenza.74 Predrag Matvejević, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra

Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 95

75 Predrag Matvejević, op. cit., p. 44

XLIV

Scrittori non si diventa per caso:

il subdolo effetto della biografia è il primo e il più

intenso stimolo.

E ciò che predomina in una biografia è la sensazione

della diversità,

è il marchio infamante della diversità il detonatore della

fantasia.

Lo scrittore o il futuro scrittore

si interrogano sulla propria esistenza,

cercano di spiegare l’origine di questa diversità

e la sua relazione con il mondo.

Quando poniamo a noi stessi delle domande

facciamo anche il primo passo verso la letteratura,

la quale, come disse Barthes,

altro non è se non il porre questioni a se stessi.

Danilo Kiś

XLV

3. I testi e gli autori: gli scrittori migranti dai

Balcani in Italia

3.1 Un conflitto nel cuore

dell’Europa:l’autobiografia come specchio della

storia

Si comincia a parlare, negli ultimi anni, di scrittori

migranti dai Balcani. Si comincia ad apprezzare le loro opere e

a riconoscere l’importanza della loro testimonianza. Si

comincia a capire che il loro esempio di difesa dell’umano

contro la barbarie, ci è “dannatamente prezioso”76. Perché ci

apre gli occhi sugli orrori consumati nel cuore stesso del nostro

continente; e perché ci racconta cose che nessun migrante,

almeno nessun migrante europeo, aveva mai raccontato.

Nel 1992, una giovane giornalista di Sarajevo, Jadranka

Hodzić, da qualche anno residente in Italia, “nella Rimini di

Fellini” 77, si toglie la vita sulla riva dell’Adriatico, al di là del

quale aveva abbandonato la propria città in fiamme.

Cosciente dell’impossibilità di un ritorno, poco prima di

morire aveva scritto in italiano queste righe, nelle quali

sembrano condensarsi la dolente malinconia e il doloroso

stupore di chi sente di non appartenere più “a nessun luogo e a

nessuna lingua, ma solo a qualche pezzo di carta ufficiale”78:

76 Paolo Rumiz, prefazione a Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p.1077 Jadranka Hodzić, “L’altra parte dell’ariatico”, da Mosaici d’inchiostro, autori vari a cura di SanGiorgi Roberta e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996, p. 17

78 Gabriella Parati introduzione a Mosaici di inchiostro, autori vari a cura di San Giorgi Roberta eRamberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996, p.23

XLVI

“Quando fuggi dalla Bosnia, e dalla guerra, sei convinto

che un giorno da qualche parte ti fermerai.

Ti sistemi temporaneamente e pensi di esserci riuscito,

perché l’importante era sfuggire alla disgrazia da cui ti separa

solo il mare; tutto d’un tratto capisci che in realtà non

appartieni più a nessuno, nemmeno a te stesso, la tua vita è

uscita dal binario, sei colpevole senza avere delle colpe, ti senti

come Kafka: lo sguardo degli occhi è spento guardando il

mare, immagini com’è dall’altra parte dell’Adriatico, sulla

costa che una volta ti faceva sentire te stesso e dove ora non

puoi appoggiare il piede senza un permesso speciale. Ti fai una

passeggiata, e il pensiero ti risuona nella mente: E’ facile

tornare se sai dove.”

Sistemata “temporaneamente” dall’altra parte

dell’Adriatico, separata dalla sua città in fiamme solo da una

striscia di mare, Jadranka ha scelto di morire, proprio sulla riva

di qual mare su cui la sua esistenza stava sospesa, senza

riuscire a staccarsi definitivamente dalla Jugoslavia né a

sentire di appartenere ormai, definitivamente, all’Italia.

Jadranka era una delle migliaia di profughi che hanno

abbandonato la ex-Jugoslavia dal 1991 al 1999, e una degli

scrittori migranti che dai molti luoghi della loro diaspora

hanno testimoniato l’orrore vissuto da questo paese “ex”

situato nel cuore dell’Europa.

La giornalista non ha retto al crollo dei suoi ideali; ma, a

dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia e a cinque dalla

(discutibile) soluzione della faccenda kosovara, molti altri

scrittori balcanici hanno alzato la propria voce sopra i rumori

della guerra, e popolano ora il nostro panorama letterario: la

diaspora balcanica trova nelle opere di Božidar Stanišić, Spale

XLVII

Miro Stevanović, Vera Slaven, Stevka Smitran, Vesna Stanić,

Tamara Jadreičić la sua più attenta e trascinante

rappresentazione in Italia. Attenta e trascinante, perché questi

autori oscillano tra una minuta e accurata descrizione della

realtà che li circonda e una resa del proprio intimo sentire

intensa e dolente.

“Piccolo fiore di nostalgia”79, definisce Paolo Rumiz la

raccolta di racconti di Bozidar Stanišić I buchi neri di Sarajevo,

e così ci appaiono le opere di tutti questi autori, che si infilano

nelle pieghe della storia restituendoci, con stordente forza

poetica, vite perdute, amori infranti, quotidianità dissolte.

Fuggiti in fretta dal “sanguinoso imbroglio jugoslavo”80,

privati di tutto ciò che costituiva il loro passato – quindi anche

una promessa per il futuro – gli scrittori balcanici si

appropriano della nostra lingua, la abitano, la rinnovano, e

attraverso di essa intraprendono quel cammino di difesa contro

la massificazione che abbiamo visto essere il fardello più

prezioso che il migrante porta con sé.

Difendere, davanti agli orrori delle dittature e dei

totalitarismi, il ruolo degli intellettuali, riconoscere il valore

politico del loro operare, l’importanza della loro difesa della

pluralità dell’umano, significa porsi automaticamente contro

un’ideologia per definizione massificatrice (i totalitarismi

agiscono sugli uomini “con la delicatezza di una ruspa”, diceva

Josif Brodskij).81

Eppure, abbiamo visto, è un atto necessario per non

tradire se stessi. Le opere letterarie degli scrittori migranti dai

79 Paolo Rumiz, prefazione a I buchi neri di Sarjevo e altri racconti, Božidar Stanišić, Mgs Press,Trieste, 1993, p. 7

80 Paolo Rumiz, Bon voyage, Božidar Stanišić, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p. 781 Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1998, p. 15

XLVIII

Balcani posseggono, rispetto al resto della letteratura migrante,

un valore aggiunto.Claudio Magris, nel suo romanzo-saggio intitolato

Danubio, scrive: “Quando una realtà sta venendo cancellata

con violenza, pensarla diventa un atto di fede”82: è operando

quest’atto di fede che gli autori balcanici, privati del loro

mondo, scelgono la letteratura come forma di resistenza.

All’irrazionale logica del conflitto, all’impavida gioia dei

distruttori, i narratori oppongono le parole, il racconto, la

memoria; perché sono consapevoli che “il paese che brucia i

propri ricordi è un paese che vuole morire”83.

Portando con sé nella loro precipitosa fuga, tra le poche

cose care o indispensabili, la propria denuncia, essi salvano se

stessi dall’oblio, e insieme preservano ciò che è rimasto della

propria patria perduta; con le loro opere – in cui è sempre

presente una forte componente autobiografica - si oppongono

non solo alla guerra e alla sua violenza fratricida, ma anche al

suicidio di una cultura che si priva, man mano che esaspera

particolarismi e nazionalismi, del proprio potenziale per il

futuro.

Nel suo romanzo autobiografico Cercasi Dedalus

disperatamente, Vera Slaven, scrittrice croata rifugiatasi in

Italia all’inizio della guerra, “quando nessuno fuggiva

ancora”84 scrive: “Per quell’aria pesante e per non rendermi

indifferente a tutto sono scappata in un paese straniero, per non

vedere come si distrugge una parola grande come ‘patria’.

(…) Non si scappa dalla propria pelle – forse sono giuste

le dicerie popolari, ma io ancora non voglio credere che tutto

ciò che è successo e che ancora accadrà, si ricucirà un giorno

82 Claudio Magris, Danubio, Garzanti, Milano, 1997, p. 6383 Agata Keran, “L’andata senza ritorno”, tratto da Anime in viaggio, autori vari a cura di San GiorgiRoberta e Ramberti Alessandro, Adnkronos, Roma, 200184 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.26

XLIX

con ‘fatalità slava’ o con altre due parole come ‘polveriera

balcanica’ e ‘doveva succedere’.”

3.2 Tematiche migranti e tematiche belliche

Se in tutti i testi sono sicuramente presenti, come

avevamo già notato, tutte quelle che potremmo identificare

come tematiche migranti (ossia comuni a tutti gli autori divisi

tra due o più patrie, vite, lingue) ce ne sono però anche altre,

più specificamente legate al contesto da cui questi autori

provengono, e che potremmo definire tematiche belliche.

Nei racconti e nelle poesie scaturite dalle penne di questi

uomini e donne dei Balcani la guerra campeggia su tutto,

nelle sue numerose (e a volte non tutte facilmente

immaginabili) declinazioni: la fame, l’assedio, il freddo, la

fuga, la follia, in una sorta di catartica disamina del proprio

recente passato.

Eppure quest’introspettivo viaggio “lungo strade che si

allungano all’indietro”85 non impedisce alla maggior parte di

questi scrittori di padroneggiare la nostra lingua e la propria

capacità poetica fino a giungere ad un prodotto letterario di

qualità.

Il peso della storia non àncora la loro produzione

letteraria al ristretto ambito dell’autobiografia, ma si dipana

come una trama sottesa ad ogni racconto o poesia, e non

necessariamente ostacola il loro inserimento a pieno titolo nel

solco della vera letteratura.

L’essenza dell’identità balcanica consiste, secondo Goran

Petrović, nell’assenza di presente compensata da un eccesso di

85 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Robertae Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p184

L

passato e futuro86. Lo scrittore balcanico, preda di questa

oscillazione priva di un centro di gravità permanente, sembra

essere innamorato dell’attimo.

Ed è l’attimo di una lacerazione profonda, personale

quanto storica, che questi autori catturano nei loro testi,

affrontando sostanzialmente lo stesso tema pur partendo da

prospettive diverse.

La “Jugotragedia”87 diventa la materia incandescente

attraverso cui il valore delle loro opere può mostrarsi.

3.3 La guerra in casa e la quotidianità stravolta.

Tamara Jedreičić

Uno degli elementi che caratterizza questo conflitto, e ne

svela la tragicità, è il modo in cui esso è stato condotto: il

contrapporsi di nazionalismi, in un territorio etnicamente

eterogeneo, ha portato ad una guerra condotta con chirurgica

precisione, nella quale l’ “altro”, il nemico, veniva stanato

all’interno della propria abitazione ed eliminato attraverso

sommarie esecuzioni.

In una sorta di incubo ad occhi aperti, le soleggiate

primavere jugoslave si trasformano improvvisamente in un

orrore di cui non si vede la fine. L’autrice che meglio ha reso

nelle sue opere l’istantanea del momento in cui il corto circuito

storico deflagra, è stata senza dubbio Tamara Jadrejčić.

La produzione letteraria di questa autrice è costituita da un

discreto numero di racconti per la maggior parte ancora inediti

in Italia, con alcune sostanziali eccezioni (ad esempio Il86 Angelo Floramo, a cura di, “Una babele di storie e di sogni: dialogo con Goran Petrović”, da

«Pagina Zero. Letterature di frontiera», Quadrimestrale di letterature, arti e culture, Ottobre 2004 –Numero 5, Direttore Mauro Daltin, Sede Cervignano del Friuli, (UD), p. 48

87 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Robertae Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p.186

LI

bambino che non si lavava, con cui l’autrice ha vinto l’edizione

del 2002 del concorso per scrittori migranti Eksetra, e I

prigionieri di guerra, primo classificato alla XVII edizione del

premio Italo Calvino – Tamara sembra essere la più perfetta

dimostrazione che la letteratura migrante non può essere ancora

a lungo considerata marginale o esotica).

La scrittrice, croata di nascita, per molti anni residente in

Italia e ora sistematasi – momentaneamente? – a New York, nei

suoi racconti “italiani” ferma lo sguardo, lucido e rassegnato,

sull’attimo esatto in cui la guerra invade l’esistenza, travolge la

quotidianità, diventando “un argomento giornaliero, come

andare a prendere il pane, lavorare, sfamare i bambini,

comprare il gelato.”88

Con una narrazione fluida e lineare, Tamara fotografa la

Jugoslavia perduta nel momento in cui tradisce se stessa.

Nel racconto Il bottino, Joško e Petar, due amici “di

sempre, vale a dire d’infanzia e di guerra”, alla ricerca di un

guadagno facile, giungono in un villaggio abbandonato, in cui

tutto testimonia silenziosamente la precipitosa fuga dei suoi

abitanti.

Attraversando il paese “completamente muto”, le cui case

hanno ancora “le persiane alzate e spesso i portoni dei cortili

aperti” i due giungono ad un’abitazione: “dentro, come

congelata dentro ad un freezer, c’era scritta la vita di una

famiglia”.

“La prima porta aperta portava in cucina. Sul tavolo,

coperto di briciole di pane, c’erano dei bicchieri e due tazzine.

Sul pavimento erano volate carte e tovaglioli, come se fosse

passata una folata di vento. Di lato, accanto alla finestra, il

88 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.67

LII

lavandino con i piatti messi ad asciugare e il fornello con sopra

una grande pentola d’acciaio inox.”

La materia bellica è filtrata dalla scrittrice con voce

originale e disincantata; il quotidiano è reso minuziosamente e

puntualmente, ogni particolare diventa prezioso, rilevante,

anche perché il punto di vista adottato è spesso quello di chi non

è perfettamente cosciente di quello che accade, e percepisce la

tragedia come un’anomalia della quotidianità.

Come accade in Il bambino che non si lavava, in cui a

rendere ancora più evidente l’ovvia verità secondo cui quando

uno stato entra in guerra, sono in realtà i suoi cittadini a

combatterla, Tamara osserva la realtà attraverso gli occhi di

Ivan, figlio undicenne di Sanja.

Armato solo della sua rabbia, con il suo rifiuto di lavarsi,

di ubbidire alla madre, Ivan esprime la propria dolorosa protesta

per un mondo che gli è troppo velocemente mutato intorno, e di

cui non comprende più le regole.

Lo sguardo bambino permette a Tamara di cogliere

l’insensatezza di ogni conflitto e l’angoscia di chi si ritrova

privato di certezze e affetti.

“Sanja non poteva neanche immaginare che ogni mattina

Ivan si alzava sperando di incontrare il padre arrivato la notte

precedente. E che prima di addormentarsi se lo ricordava con

quello strano vestito verde, un giaccone largo con tante tasche,

una grossa cintura di pelle consumata, degli stivali grandi e neri

che quasi da soli riuscivano a mettere paura. Gli sembrava una

via di mezzo tra Robin Hood e i combattenti Ninja. Aveva già

visto tante volte in televisione della gente vestita nello stesso

modo, però per ragioni inspiegabili sembravano tutti diversi, più

LIII

sporchi, più brutti, più terribili. Non aveva mai notato uno che

gli assomigliasse.”

L’accuratezza della descrizione si accompagna sempre ad

una sincera disamina dei sentimenti, e il tempo della narrazione

appare come dilatato, sospeso.

Nel racconto intitolato Una questione di fiducia – toccante

narrazione del rifiuto di una madre di convincersi della morte

del figlio – la reazione dei due protagonisti alla telefonata che

annuncia la tragedia diviene materia di una profonda e attenta

analisi psicologica, e di una voce narrante che si posa, quasi con

gentilezza, sul dolore dei due genitori.

“Quella mattina, sette anni fa, fu lui a rispondere al

telefono.

(…) Dopo aver messo giù la cornetta era rimasto per buoni

due minuti in mezzo al corridoio. Con il suo pigiama a righe e

le pantofole di plastica, con i capelli arruffati dal sonno e ritti

dietro la pelata come i pennacchi dei capi indiani. Respirava a

bocca aperta lottando per l’aria, cercando intanto di riempire

con qualche parola intelligente il vuoto che gli si era creato in

testa.

Erano i suoi ultimi minuti da protagonista. Appena

sarebbe tornato nella stanza da letto, la sofferenza sarebbe

ingiustamente diventata solo materna, per un’antica e ingiusta

convinzione che le donne, ma soprattutto le madri, abbiano una

capacità maggiore nel sentire il dolore.

Nel frattempo, Katarina sapeva che una persona normale

non chiamava per una sciocchezza a quell’ora e che lui non

stava impalato lì in mezzo per un nulla. Aveva trascorso gli

ultimi cinque minuti sereni della sua esistenza seduta sul letto

LIV

con le mani incrociate in grembo, affondata nei cuscini bianchi,

come un regalo prezioso appoggiato sull’ovatta.

Ormai era così che passava la gran parte della notte,

poiché il sonno non s’infilava più con semplicità nel suo corpo,

a conferma che le anime tristi non sono benvolute proprio da

nessuno. Quando lo vide entrare nella stanza, le sembrò sfinito,

ridotto di volume, come sprofondato in se stesso.

Così rimpicciolito si sedette sul letto.”

I testi di Tamara seguono un percorso narrativo che giunge

infine ad una svolta, una sorta di “rivelazione” (il momento in

cui l’ostinazione di Ivan cede il posto alla confessione: “Io sono

un maschietto e faccio il bagno solo con papà”, o la fiduciosa

rivelazione di Katarina davanti alla salma del figlio: “…è

vivo…me l’ha detto la Madonna!”) raggiunta la quale il climax

emotivo si scioglie, lasciando spazio al sollievo o alla

rassegnazione.

Il tono è sempre pacato e misurato, e l’utilizzo

dell’italiano è consapevole e maturo; la narrazione è molto più

lineare di quella di altri autori, meno stratificata e inusuale, ma

Tamara gioca con la lingua italiana ottenendo effetti di grande

suggestione.

“ (…) Quando una granata del calibro 128 mm, e nella

maggioranza dei casi erano quelle, cade sull’asfalto, lascia un

segno simile ad una goccia d’acqua sfracellata sul vetro.”

L’angosciante sensazione di prigionia in cui la guerra

precipita chi la subisce è resa da Tamara attraverso le toccanti

parole di Dara, protagonista del racconto La poltrona rossa, in

cui l’ultima speranza di due coniugi separati da tutta la famiglia

è un gruzzoletto di marchi tedeschi nascosto nella federa di una

poltrona della loro casa di Dubrovnik, precipitosamente

abbandonata.

LV

Pensando alla figlia lontana, alla madre e alla sorella, Dara

si lascia sfuggire un commovente lamento sull’insensata

crudeltà della guerra: “O Dio! (…) O, Marko, che cosa ci è

successo? Com’è possibile che tutto sia cambiato

all’improvviso? Non siamo più sicuri di niente e non crediamo a

nessuno. Ci siamo ridotti come delle bestie. Prima eravamo

gente normale, partivamo, telefonavamo, mandavamo cartoline

d’auguri, mentre adesso cerchiamo di decifrare i bigliettini

puzzolenti e sgualciti della Croce Rossa.

Che disastro…Mi sento morire l’anima!”

La disumanizzazione del nemico, e la sensazione di potere

essere considerati da chiunque come il nemico, è evidente ne La

guerra di Mira, in cui la protagonista, veterana di quella che

Tamara chiama “una guerriglia casalinga”, affronta

quotidianamente il marito soldato.

Incattivito dalla familiarità con morte e distruzione,

consumato dalla non –vita condotta al fronte, considera Mira il

bersaglio migliore per la sua rabbia.

E lei, cercando di sopravvivere alla guerra che l’ha

raggiunta in casa, “era cambiata tanto da non riconoscersi più in

questa donna impaurita, bugiarda, pronta ai compromessi.”

Se gli affetti sono l’unico rifugio di fronte alla distruzione,

se si può contare solo su se stessi e su chi si ama, tutta

l’amarezza di Tamara, tutta la sofferenza di chi vive assediato

dalla paura, si condensano in queste poche parole: “Mira aveva

imparato bene come può cambiare il mondo dopo che hai visto

sopra la testa il buchino vuoto e nero della canna del fucile. La

gentilezza e la purezza d’animo se ne vanno per primi. Come se

non fossero mai stati tuoi. E non importa di chi è la mano che

tiene l’arma.(…) Il dolore viaggia più veloce della coscienza.”

LVI

3.4 Il sé e l’altro: la paura del fratello slavo

Vera Slaven

Nelle opere degli autori presi in considerazione, alla

narrazione della guerra si accompagna l’incredulità per la

brutalità di un conflitto che ha distrutto la fiducia tra popoli

che, pur tra scontri e tensioni, negli ultimi decenni avevano

convissuto pacificamente: il terremoto è politico, ma anche

esistenziale; perché la dolorosa coscienza di non potersi fidare

di nessuno porta a temere chiunque.

Dall’inizio della guerra, racconta Tamara Jadrejčić, si

cominciò “ad aver paura di quelli che corrono e di quelli che si

fermano, di quelli che parlano e di quelli che stanno zitti, che

guardano, che hanno le mani in tasca, che portano il cappello.

Tutto poteva significare tutto, tutti potevano avere una bomba

in tasca e a chiunque potevi non piacere.”89

Si arriva a desiderare di essere il più possibile muti ed

incorporei, di “abitare un mondo senza lingua e senza forma”.

Nel suo romanzo autobiografico intitolato Cercasi

Dedalus disperatamente, Vera Slaven descrive così il

momento in cui si cominciò a non riconoscere nessuno,

neanche se stessi, quando, per la prima volta, lo speaker di una

radio annunciò lo stato di guerra.

“Tutti fuggivano a casa…come se fosse una fortezza

dove la guerra non può arrivare. La radio era rimasta accesa…

alzai il volume…si trasmetteva la solita musica (…) Ero

impaziente. Volevo spiegazioni. Volevo sapere cosa fare. Mi

affacciai al balcone …Al balcone del palazzo di fronte vidi un

giovanotto (più un ragazzo che un giovane uomo) che puliva e89 Tamara Jadrejčić, L’abito da sposa, (opera non pubblicata.)

LVII

ungeva due fucili. La scena mi sconcertò così tanto che

scappai dentro. Rimasi stupefatta. Non conoscevo per niente il

ragazzo, non conoscevo le abitudini della sua famiglia, mi

sentii estranea a quella gente che mi circondava, mi sentii

persa.”90

Anche Vera Slaven è una scrittrice croata, ed è uno dei

pochi narratori della diaspora balcanica ad essersi cimentata

nella stesura di un romanzo interamente elaborato nella nostra

lingua.91

In Cercasi Dedalus disperatamente la narrazione di Vera

oscilla tra passato e presente, in un continuo rimando tra i due

tronconi di vita che stanno ai due lati dello spartiacque

costituito dalla guerra.

Il linguaggio di Vera è diretto e a tratti evocativo;

l’italiano è una lingua correttamente padroneggiata, che

costituisce lo strumento per giungere al distacco necessario per

ripercorrere la propria esistenza.

(“Lara: ‘Piangeresti alla fine di ogni rigo se scrivessi nella

tua lingua?’

Io: ‘Si, morirei alla fine di ogni pagina. (…) L’italiano è

una linea di distacco, una frontiera invisibile, ma

invalicabile’.”)

Quella di Vera è una “cronaca del quotidiano” di forte

impatto emotivo, resa con un linguaggio omogeneo e denso.

La struttura del romanzo è duplice, alternata; da una parte

la narrazione della vita di Vera, dall’altra la struttura

aneddotica, nella quale si inseriscono la figura di Lara e il

ricordo tormentoso della guerra.

90 Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.6691 Un altro è Spale Miro Stevanović, con Le Confessioni, Opera, Venezia, 2001.

LVIII

“Nel momento in cui, entrando in casa, ho messo il piede

in un lago di merda (i tubi di scarico si erano congelati o erano

scoppiati, non so) e dai due water strapieni usciva, piano piano,

la ‘cosa’. (…) Ho urlato per un’ora intera, per l’umiliazione, per

la nostra disperazione estrema, non più tollerabile, mentre i miei

vicini portavano via in assoluto silenzio i tappeti e staccavano la

moquette. (…)

Sono scappata di casa con la certezza che la guerra mi era

entrata sotto la pelle e che non avrei più potuto lavarla né

levarla di dosso.”92

Eppure, nonostante tutto, emerge nella narrazione di Vera

il tentativo di mostrare i modi di resistenza attraverso cui

vincere l’orrore: come le feste da ballo organizzate a Sarajevo,

che permettevano ai cittadini di non arrendersi “nella città

assediata, senza via di scampo, senza futuro, con un passato

scottante e bruciante. (…)Abbiamo deciso di fare le feste per

non morire prima della morte. Abbiamo staccato per un

momento gli attori e i cantanti dai bar e li abbiamo costretti a

vivere. (…) Non posso spiegare l’ebbrezza di quei balli”.

Fortissimo in questo romanzo l’elemento autobiografico;

centrale nella prima produzione migrante, in quest’opera non è

stato ancora abbandonato a favore di una creazione narrativa a

tutto tondo.

3.5 L’esilio dell’intellettuale jugoslavo: si perde

un’identità per acquistarne una nuova?

Božidar Stanišić

92 Vera Slaven, op. cit., p. 86

LIX

La questione dell’identità e dell’alterità si pone con

gravità estrema, quando ci si sente estranei a tutti e vicini a

nessuno.

Nel momento in cui ci si confronta con un mondo che non

è più quello che si conosceva, si è costretti a fare i conti anche

con il passato, che rischia di essere completamente rimesso in

discussione.

L’autore in cui appare più evidente lo spaesamento e la

sensazione di costante straniamento esistenziale che segue

questa perdita identitaria è sicuramente Božidar Stanišić, nelle

cui opere l’umanità astratta si trasforma in volti, persone che

chiedono di poter riconoscere un ruolo nel proprio mondo e che

s’interrogano, con tristezza ma non con disperazione, su un

futuro umano incerto, che si sa difficile ma si ritiene possibile.

Božidar Stanišić è nato a Visoko, in Bosnia Erzegovina.

Ex insegnante di letteratura, ha abbandonato la Bosnia

nel 1992, spinto alla fuga dal rifiuto di vestire qualsiasi divisa,

e si è rifugiato prima in Slovenia e poi in Italia, dove risiede

tuttora, a Zugliano, presso Udine.

Continuando in Italia l’attività letteraria intrapresa in

patria, (in Bosnia aveva pubblicato testi di narrativa per

ragazzi e critica letteraria), Stanišić ha continuato a narrare il

suo mondo di memorie operando una sostituzione, graduale ma

non irreversibile, della lingua serbo-croata con quella italiana.

L’italiano si configura per Božidar come la “lingua

dell’essenziale” contrapposta alla lingua “delle sfumature”93, e

quest’essenzialità narrativa diviene evidente anche

stilisticamente: nel passaggio dall’una all’altra lingua il

93 Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sul sitowww.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm

LX

linguaggio si fa più scarno, quasi telegrafico, antinaturalistico

e rarefatto.

Non è un caso che uno dei più recenti lavori di questo

autore sia una piece teatrale, intitolata Il sogno del mio amico

Orlando94, in cui la storia di un pacifista disilluso si intreccia a

quella di due profughi bosniaci, Ivan e Petar, che in una

lunghissima conversazione telefonica si confrontano sul

proprio passato, e sulla nuova vita, che conducono l’uno in

Canada e l’altro nella provincia del nord-est italiano.

Ivan ha mantenuto il ricordo della patria e dell’identità

perdute, e vive il proprio sradicamento diviso tra memoria e

speranza; Petar, gettato via l’inutile fardello del rimpianto, si è

ormai convinto che adattarsi al nuovo mondo, dimenticare chi

era, sia l’unico mezzo per sopravvivere all’ondata del passato

che ritorna: accusato dall’amico di miope cinismo, si difende

avvertendolo che “essere normali è più che necessario... Più

che necessario...”.

L’utilizzo del linguaggio teatrale, quindi il ricorso quasi

esclusivo al discorso diretto, permette a Božidar di condensare

in poche righe una grande intensità emotiva. Il confronto tra i

due amici, i cui sguardi sulla vita sono ormai irrimediabilmente

divergenti, diventa un’amara constatazione del pericolo insito

nella negazione della propria memoria storica, e un fervente

invito a salvare se stessi dall’oblio.

Ivan: Hai ricevuto la mia lettera?

Petar: La tua lettera? Nessuna lettera, da nessuno... Qui ormai

la posta viene usata soltanto per spedire materiali

pubblicitari e gli auguri per Natale... Che lettera!

94 Božidar Stanišić , “Il sogno del mio amico Orlando”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura“creola”», direttore Armando Gnisci, sul sito www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html

LXI

Ivan: In quella lettera che non è ancora arrivata ti ho scritto

di Orlando...

Petar: Orlando? Di chi stai parlando?

Ivan: Orlando, uno dei miei migliori amici...

Petar: Orlando, Orlando, Orlando...?

Ivan: Non ricordi?

Petar: O, Dio...(cammina frettolosamente) Aspetta...

Ivan: Ti ricorderò io... Dieci anni fa...

Petar: (tenta di scherzare) Dieci anni fa, quindi in un secolo

passato, in un millennio dietro le nostre spalle...95

Attraverso la sua scrittura complessa e stratificata, ricca

di incisi e parentesi che si nutrono di diversi linguaggi, da

quello pubblicitario a quello giornalistico, da quello del parlato

quotidiano a quello della tradizione popolare balcanica,

Stanišić riflette la frammentazione dell’identità del migrante e

l’incertezza dell’esistenza.

Il libro del 2003 Bon voyage raccoglie due racconti, uno

dei quali è la narrazione di un viaggio in treno compiuto dal

protagonista, Mirko, attraverso il nord Italia.

E’ un racconto polifonico, in cui le voci dei viaggiatori

(“una vecchietta con un cappellino di velluto nero”, un giovane

“dagli occhi brillanti”, un “critico dei ladri di orizzonti”, un

“giovane nero” studente di medicina) si intrecciano in un

dialogo in cui è spesso udibile la voce dell’autore.

Mirko non interviene nella discussione, ma i suoi pensieri

sono indagati da Božidar, che li insegue attraverso il loro

scontrarsi con l’esterno, perlopiù con i cartelloni pubblicitari

che scorrono fuori dal finestrino.

“(Un attimo prima il nostro viaggiatore era stato guardato

dall’orso bianco di un’insegna pubblicitaria:

95 Božidar Stanišić, ibidem.

LXII

ACCOMODATEVI…non era riuscito a leggere: le esigenze

del nostro tempo che chiede ecc. ‘Risposte? Urgenti o attuali?’

sussurrò nella lingua da cui si era allontanato nel tempo e nello

spazio).”96

Nei suoi testi, che egli chiama non-poesie o qualcosa-

come-racconti, emerge costantemente la difficoltà di

testimoniare, che si scontra con la necessità morale di

continuare a farlo. Nel gioco di incastri intertestuali e nella

sperimentazione linguistica entrano spesso domande esistenziali

che è l’autore stesso a suggerire al personaggio.

Come accade per Lela, la protagonista de Il rapimento,

che, abbandonata ormai la Bosnia per vivere in Italia, e

scoprendo sulle pagine dell’Oslobodjenje la morte del suo

amato, si ritrova a pensare: “la morte è un oblio e una

lontananza che devo attraversare”.97

I testi di Stanišić nascono dal “cuore” dell’esilio; la guerra

non è mai attesa – tranne in alcuni racconti della raccolta I

buchi neri di Sarajevo, scritti però nel 1992 – ma è sempre già

stata vissuta: il protagonista è sempre qualcuno che fa i conti

con il proprio post-conflitto interiore.

E quest’intima esplorazione conduce spesso al sogno di

un’altra esistenza, al desiderio di negare la propria identità per

cancellare il proprio passato, quando non all’estrema

conseguenze di questa negazione, la follia.

Questo è ciò che succede a Neven O., nel lungo racconto

Il giardino di Mr. O’Brien, quando tenta di liberarsi di un

passato troppo ingombrante cambiando nome e paese, e

addormentandosi ogni notte sognando di essere qualcun altro.96 Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p.1897 Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Roberta

e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p. 191

LXIII

Il primo passo verso l’oblio Neven lo compie distruggendo

tutti i ritagli di giornale, fino ad allora gelosamente custoditi,

riguardanti la guerra che sta dilaniando il suo paese; “così

comincia la liberazione dal passato, la negazione del presente e

il pensiero del futuro di Neven O. : buttando i ritagli di giornale

nella carta vecchia”.

Diventato ormai Virgin O’Brien, uomo di successo che in

Australia si spaccia per sudafricano con origini montenegrine,

soddisfatto della sua ricca mediocrità, Neven dovrà alla fine

affrontare i fantasmi del suo passato.

Le ombre delle persone che ha abbandonato (il suo

commilitone al fronte, con cui aveva progettato la fuga, un

compagno di liceo, poeta e rivoluzionario, il primo amore, una

ragazzina bionda di Mostar, l’anziana madre…) verranno a

cercarlo per ricordargli chi è davvero.

“Un uomo non può avere due mari al mondo”98, lo

ammonisce il padre; e Neven, che ha ossessivamente tentato di

fuggire da sé, perderà completamente la capacità di ritrovarsi.

Narratore abile e colto, Božidar Stanišić utilizza le armi

della parola dell’ironia per scovare l’umanità anche in mezzo

alla distruzione del conflitto, per cercare uno spiraglio di

speranza anche per chi è “in fuga dalle cuciture fra i mondi”.99

Una delle liriche contenute nella raccolta Non-poesie,

intitolata Simile a rosa incantevole100, scritta nel 1995, si

conclude con questi versi:

“…Dio, Ti ringrazio per i doni che mandi, anche a noi,

che siamo, da così tanto tempo, sulla bassa terra,

e perdona la mia stanchezza, in un giorno in cui la mia

anima,98 Božidar Stanišić, “Il giardino australiano di Mr Virgin O’ Brien”, in Bon voyage, Nuova

dimensione, Portogruaro, 2003 p. 9899 Božidar Stanišić, Tre racconti, Associazione culturale “E. Balducci”, Zugliano, 2002, p.24100 Božidar Stanišić, “Simile a rosa incantevole”, in Non poesie, Associazione culturale “E.

Balducci”, Zugliano 1995

LXIV

tuttavia, la primavera intuisce.”

3.6 La lingua italiana

Ciò che appare certo nelle opere di tutti questi autori è

che risulta quasi impossibile per loro trovare un luogo in cui si

possa ormai essere davvero se stessi, non c’è una lingua

abitabile che sia davvero la propria.

Il rapporto con la lingua è uno degli aspetti più complessi

e interessanti della produzione letteraria della migrazione; lo

scrittore migrante utilizza, nelle sue opere, la lingua del paese

d’arrivo: e in questa scelta, audace e “fisiologica” ad un tempo,

si rispecchia l’elemento fondamentale della scrittura migrante,

ovvero, secondo una definizione di Julio Monteiro Martins,

“una deterritorializzazione interiore ed esteriore, (…)

straordinariamente fertile”101.

L’ostranenie, quello straniamento che Josif Brodskij

considera alla base di ogni produzione artistica, si concretizza

nel vissuto di chi è costretto ad abitare due culture, due lingue.

In un testo intitolato significativamente Il ponte Vesna

Stanić, scrittrice croata residente in Italia da venticinque anni,

parla dello sradicamento vissuto da ogni migrante; e spiega che

esso si configura come “una sensazione di non appartenenza a

nessun luogo. Ci si allontana dalla propria cultura e lingua e si

sente una nostalgia immensa, ci si avvicina ad un’altra e non si

diventa mai veramente suoi figli.”

101 Julio Monteiro Martins, Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sulsito

www.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm

LXV

Si vive “come su un ponte: né di qua, né di là.” Ben

coscienti che ogni ponte unisce solo se lo si attraversa, gli

scrittori migranti operano una costante oscillazione linguistica:

perché l’utilizzo di una lingua diversa da quella madre può

essere sia uno strumento di collegamento tra sé e la nuova

realtà culturale in cui si desidera integrarsi, sia il filtro

necessario attraverso cui guardare con distacco un passato

toppo doloroso.

E se l’italiano, la più ricca stratificata tra le lingue

europee, da quest’incontro esce modificato e in qualche modo

“tradito”, è un tradimento fecondo quello che subisce.

Perché attraverso di esso diviene veicolo di messaggi che

non possiamo più ignorare; e, soprattutto, perché quest’italiano

che si presta a chi non l’ha imparato da bambino, si modella, si

rinnova, risultando sicuramente più interessante di quello

stanco e un po’ banale di certi scrittori alla moda.

Tornando allo specifico degli autori fin qui considerati, la

lingua italiana si piega alle loro esigenze letterarie fluida,

docile, a volte esitante, ma mai clamorosamente sbagliata.

E se stride, stride nella creazione di neologismi/refusi

che, a ben analizzarli, sembrano rendere l’idea voluta molto

più precisamente di quanto possa fare qualsiasi parola

dell’italiano corretto: come quando Spale Miro Stevanović, di

una poesia che può essere recitata a due voci col proprio

amante, suggerisce di declamarla – molto più sensualmente -

“a due bocche”; o quando, nella penna di Tamara Jadreičić, un

divano di cuoio logoro, segnato dal tempo e dalla vita dei suoi

proprietari, non è più di un neutro color “marrone”, ma

teneramente si degrada in “marrognolo”.

LXVI

La lingua rimossa dell’infanzia ritorna, ad inquinare e

rinsanguare un italiano che non è più solo il nostro, in una

mescolanza inedita che rende la parola di questi autori

sperimentale, essenziale e ricca di sfumature allo stesso tempo.

Se poi l’idioma lasciato dietro di sé è quel serbo-croato

sfinito da anni di strumentalizzazioni sistematiche, la scelta

della nostra lingua (lingua dell’essenziale e barriera

necessaria, secondo le già citate definizione di Stanišić e

Slaven), equivale ad acquistare un nuovo centro di gravità

culturale senza perdere se stessi e la propria complessità.

Gli scrittori della diaspora balcanica ci mostrano quindi il

volto di un’Europa che dobbiamo imparare a ri-conoscere come

parte integrante del nostro bagaglio culturale; e se lo fanno

nella nostra lingua, e abitando la nostra terra, è perché siamo

noi, ormai, gli interlocutori del loro dolore.

LXVII

“Nessuno può immaginare cosa significhi

nascere e vivere al confine tra due mondi,

conoscerli e comprenderli ambedue

e non poter far nulla per avvicinarli, amarli entrambi

e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita,

avere due patrie e non averne nessuna,

essere di casa ovunque e rimanere estraneo a tutti,

in una parola, vivere crocefisso

ed essere carnefice e vittima allo stesso tempo”

Ivo Andrić

LXVIII

La dolorosa sensazione di non appartenenza – vera

costante sottesa a tutte le opere fin qui analizzate – diviene

specchio, nelle opere degli autori balcanici, di una realtà

storica di tragica instabilità.

La vita ormai “uscita dal binario”, deviata per sempre da

una normalità impossibile da riconquistare, viene resa

possibile (che tanto basta alla sopravvivenza: una possibilità)

attraverso l’esercizio letterario, che da sempre si propone come

“casa comune” o patria d’elezione a chi non ha patria: gli

scrittori e gli apolidi; nel caso – non così raro – che le due

condizioni convivano (o coincidano), essa diventa una vera e

propria “sovrapatria”.

Nel parlare di patrie d’elezione, sovrapatrie, apolidi e

migranti, pensiamo di sottolineare quasi insignificanti

questioni terminologiche e ci accorgiamo invece di andare

all’essenza del problema: la questione identitaria. Che è – lo

abbiamo visto nel primo capitolo - il fondamentale filtro

attraverso cui leggere ed interpretare le opere di ogni autore

migrante, e che assume un significato di particolare rilevanza

per gli autori dei Balcani.

Perché è sulla questione identitaria che si sono innestate

le ideologie ultranazionaliste da cui è deflagrato il conflitto, e

perché difendere la propria identità (se non di jugoslavi in

senso politico almeno di slavi del sud in senso culturale) è

diventato un modo, forse l’unico, per risollevarsi sulle macerie

del proprio passato. Bisogna difendere la pluralità culturale

come unico anticorpo contro l’omologazione, dice Jarmila

Očkajova; questa potente verità letteraria (ma anche

esistenziale) valida per ogni autore migrante, diventa

LXIX

paradigmatica per il migrante balcanico; che della negazione

di sé ha avuto direttamente esperienza attraverso quell’atroce e

insensato tentativo di massificazione che è la guerra etnica.

Eppure la con-vivenza culturale, la necessità di affermare

se stessi senza annientare l’altro, siamo ormai costretti a

riconoscerla (l’abbiamo già visto parlando della nascente

creolizzazione planetaria di cui gli scrittori migranti sono i

portavoce) come elemento vivificatore e innovatore di ogni

cultura; dovremmo ormai essere coscienti che “la questione

non solo dei Balcani, ma del futuro europeo non consiste nel

radicamento e nella difesa delle identità particolari, esclusive,

ma nella capacità di uno sviluppo armonioso di identità

plurime”102.

Pretendere che ogni identità sia limitata ad

un’appartenenza definita alla nascita, è quantomeno

anacronistico; perché presuppone un’idea ormai superata, e

cioè che, usando le parole di Tzvetan Todorov, “la cultura sia

un codice immutabile, cosa empiricamente falsa”103 .

Al contrario: come afferma l’antropologa Arianna

Dagnino, “l’uomo è un improvvisatore culturale”, e di questa

capacità creativa sono dotati, in modo particolare, gli scrittori

migranti, che vivono, in una sola vita, più vite; e che ci

accompagnano, coi loro testi, verso una nuova definizione

culturale possibile: “ci avviamo verso l’Utopia”, afferma

Božidar Stanišić.

Non possiamo non riconoscere di avere il diritto/dovere

di accoglienza e di ascolto nei confronti dei migranti (e degli

scrittori migranti) che arrivano sulle nostre coste: tanto più nel102 Melita Richter, Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro, in Osservatorio sui Balcani,

sul sito www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/2889/1/50/103 Tzvetan Todorov, L'uomo spaesato. I percorsi di appartenenza, Donzelli Roma, 2000, p. 11

LXX

caso di migranti della ex-Jugoslavia, e tanto più noi Italiani,

che dai Balcani siamo divisi da solo dalla striscia di mare che

costituisce l’Adriatico. (I greci e i romani alternavano, per

definirlo, i termini di “golfo” e “mare”; questa duplicità ne

accompagna la storia, dice Matvejevic, e sicuramente accorcia

le distanze, almeno ideologiche, tra “noi” e “loro”.)

E proprio gli autori fin qui considerati si pongono come

necessario e fecondo punto di raccordo tra quel “noi” e quel

“loro” i cui rapporti è necessario tornare ad indagare.

A partire da una concezione che non preveda confini, ma

ponti: che sia possibile attraversare, perché un ponte non

attraversato presume la diversità che sta al di là del fiume, e

separa, invece di unire.

Nel luglio 2004, il Vecchio Pomte di Mostar, lo Stari, è

stato restituito ai mostarini, e al mondo, completamente

ricostruito.

Durante una cerimonia di grande suggestione, e di

profondo impatto, molte personalità internazionali hanno

commentato l’importanza, anche simbolica, dell’evento.

Predrag Matvejeic, il 24 luglio, all’ex Teatro dei

Burattini, si è espresso su questo fatto dicendo:

“Il ponte di Mostar è stato ricostruito; ma si potrà dire

che la sua ricostruzione sarà completata quando tutti i

mostarini, di ogni origine ed etnia, vi avranno lasciato le loro

impronte.”

Quello che Matvejevic auspica per il Nuovo Vecchio

della sua città, è quello che gli scrittori migranti dai Balcani

già fanno per noi: camminano sui ponti tra noi e loro, si

pongono come mediatori, punti di contatto, equilibristi,

LXXI

facilitando l’incontro, e la contaminazione, tra “questa”

Europa, che è già qui, e l’altra, che attende.

Paolo Rumiz, che dell’Oriente dell’Europa (Oriente dalla

“grande anima”, come è solito chiamarlo) ha fatto l’oggetto di

numerosi studi – o il soggetto di un colloquio appassionato – si

chiede a chi possa interessare, ormai, occuparsi di Balcani, e di

ex-Jugoslavia, per rispondere immediatamente che una tale

analisi dovrebbe interessare l’Europa tutta.

Perché “la guerra in Jugoslavia non era una cosa

Jugoslava. Era una malattia europea, anzi mondiale (…). Il

buco nero in cui guardare siamo noi, ricchi, sazi, frastornati,

dunque poveri di percezione e impauriti di fronte alla

complessità”104.

Non solo: lo scrittore Dževad Karahasan, bosniaco

migrato in Germania nel 1994, sostiene, nel suo libro del 1995

Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città: “La prova

della tua esistenza non sta nel fatto che tu pensi, come pensava

un signore molto intelligente. La prova del fatto che tu esisti te

la dà il fatto che qualcun altro pensa a te”.105

Aprire le porte alla complessità, e ridare esistenza e

solidità all’identità – culturale ma non solo – dei figli della

diaspora balcanica: questo sembra essere l’invito che le opere

di questi autori ci porgono, ed è anche un’inestimabile

opportunità che viene donata all’ Europa.

Poiché tentare di comprendere le vicende di questo

“brandello esausto” del nostro continente, ascoltare le voci di

chi è giunto sulle nostre terre armato della sua preziosa

104 Paolo Rumiz, prefazione a Bon voyage, Božidar Stanišić Nuova dimensione, Portogruaro, 2003,p.7-8

105 Dževad Karahasan “Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città” citato da Armando Gnisci,Creoli mitici migranti clandestini ribelli, Meltemi, Roma, 1998, p.115

LXXII

testimonianza, significa riscoprire un nuovo modo di intendere

l’Europa, e la cultura europea.

Affrontare questa riscoperta dal punto di vista della

letteratura, e rimanendo consapevolmente dalla parte di chi fa

letteratura, vuol dire infine porsi, senza esitazioni, dalla parte

del liberamente umano.

LXXIII

BIBLIOGRAFIE

Gli autori

Andrić Ivo, Racconti di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995

Autori vari a cura di Sangiorgi Roberta e Ramberti Alessandro, Le vocidell’Arcobaleno, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1995

Autori vari a cura di Sangiorgi Roberta e Ramberti Alessandro, Mosaici diinchiostro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996

Autori vari a cura di Sangiorgi Roberta e Ramberti Alessandro, Memorie inValigia, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1997

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Autori vari a cura di Sangiorgi Roberta e Ramberti Alessandro, Anime inviaggio, Adnkronos, Roma, 2001

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Inediti

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Jadrejčić Tamara, Il bottino

Jadrejčić Tamara, Il bambino che non si lavava

Jadrejčić Tamara, L’abito da sposa

Jadrejčić Tamara, La guerra di mira

Jadrejčić Tamara, La poltrona rossa

Jadrejčić Tamara, Una questione di fiducia

Testi critici

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Bregola Davide, Da qui verso casa, Edizioni Interculturali, Roma 2002

Brodskij Iosif, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1998

Gnisci Armando, a cura di, Introduzione alla letteratura comparata, BrunoMondatori, Milano 1999

Gnisci Armando, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Meltemi,Roma, 2003

Gnisci Armando, Creoli mitici migranti clandestini ribelli, Meltemi, Roma,1998

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Krulic Josip, Storia della Jugoslavia dal 1945 ai giorni nostri, Bompiani,Milano 1999

Kundera Milan, Itestamenti traditi, Adelphi, Milano, 1994

Kundera Milan, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988

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Le Breton Jean Marie, Una storia infausta. L’Europa centrale e orientale dal1917 al 1990, Il Mulino, Bologna, 1997

Magris Claudio, Danubio, Garzanti, Milano, 1997

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Matvejević Predrag, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli

Matvejević Predrag, Mondo “ex”, Confessioni. Identità, ideologie, nazioninell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 1996

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Moretti Giampiero, Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismoeuropeo, Guida, Napoli 2002

Motta Giovanna a cura di, I turchi il mediterraneo e l’Europa, Franco Angeli,Milano 1998

Pirjevec Jože, Le guerre jugoslave 1991- 1999, Einaudi, Torino 2001

Prévélakis Georges, I Balcani, Il Mulino, Bologna, 1997

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Rumiz Paolo, E’ Oriente, Feltrinelli, Milano 2003

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Riviste e sitografia

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«Pagina Zero. Letterature di frontiera», Quadrimestrale di letterature, arti e culture,Maggio 2004 – Numero 4, Direttore Mauro Daltin, Sede Cervignano del Friuli, (UD)

«Pagina Zero. Letterature di frontiera», Quadrimestrale di letterature, arti eculture, Ottobre 2004 – Numero 5, Direttore Mauro Daltin, Sede Cervignanodel Friuli, (UD)

Kuma, rivista di arte e letteratura creola, a cura di Armando Gniscihttp://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html

Osservatorio sui Balcani, per uno sviluppo umano, democratico e responsabiledell' est Europa http://www.osservatoriobalcani.org/

Sagarana, Rivista letteraria trimestrale on-line, direttore Julio MonteiroMartins www.sagarana.net

El Ghibli, rivista on line di letteratura della migrazione, direttore responsabilePap Kohuma http://www.elghibli.it/

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