Gestione del conflitto e negoziazione

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Estratto da: Paolo Salvatore Nicosia LA TUTELA EXTRAGIUDIZIALE DEGLI INTERESSI Negoziazione, conciliazione, mediazione e arbitrato Come tutelare i propri interessi sulla base dell’autonomia privata Casa Editrice La Tribuna, Piacenza 2002 …………….. I.3 - La negoziazione delle controversie. Alle origini del conflitto. Le emozioni sono guide importantissime per la specie umana, la cui esistenza è subordinata, in gran parte, all’influenza ed all’azione di tali impulsi ad agire, per gestire in tempo reale le situazioni della vita. Esse hanno guidato l’essere umano ad affrontare compiti molto difficili e importanti perché potessero essere affidati al solo intelletto, che poteva non essere all’altezza di certi momenti critici, dove invece l’immediatezza emozionale aveva la risposta più efficace per affrontare, ad esempio, una sorpresa o un pericolo imminente e inaspettato. La radice stessa della parola “emozione” è il verbo latino moveo, che significa “muovere”, con l’aggiunta del prefisso “e”, che significa “da”, per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. Il fatto che le emozioni spingano all’azione è ovvio: ogni emozione prepara il corpo a un tipo di risposta diverso: nella collera il sangue affluisce alle mani, come per essere pronti all’attacco; nella paura il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, per esempio le gambe, rendendo facile la fuga. Comunque, le emozioni non producono solo movimento, ma anche un cambiamento che permette di adeguare il corpo ed i sensi alla nuova situazione venutasi a creare: nella sorpresa il sollevamento delle sopracciglia consente di avere una visuale più ampia e di far arrivare più luce alla retina, il che permette di raccogliere più informazioni sull’evento inatteso; nel disgusto verso qualcosa che offende l’olfatto il naso si arriccia come tentativo di chiudere le narici; nella gioia uno dei principali cambiamenti sta nella maggiore attività di un centro cerebrale, che inibisce i sentimenti negativi e aumenta la disponibilità di energia; la tristezza, infine, ha la funzione di adeguamento ad una perdita significativa: la chiusura in se stessi permette di elaborare, in qualche modo, un lutto, in senso reale o in senso lato. Con l’evolvere della specie e la sempre minore necessità di rispondere emozionalmente agli impulsi esterni o al soddisfacimento di esigenze interne, l’essere umano ha comunque sviluppato un altro elaborato sistema di risposta a ciò che avviene dentro e fuori di lui: il raziocinio, che consente risposte più complesse, che si rifanno ad un insieme di conoscenze acquisite e condivise o imposte. Si è quindi dotati di due modalità di conoscenza e di risposta agli stimoli, quella emotiva-impulsiva e quella razionale-riflessiva, che interagiscono per costruire la vita mentale. Di solito funzionano in armonia ma, quando le passioni aumentano di intensità, l’equilibrio si perde e la dimensione emozionale prende il sopravvento, travolgendo quella razionale. Talvolta, infatti, si agisce come

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Estratto da:

Paolo Salvatore Nicosia LA TUTELA EXTRAGIUDIZIALE DEGLI INTERESSI

Negoziazione, conciliazione, mediazione e arbitrato

Come tutelare i propri interessi sulla base dell’autonomia privata

Casa Editrice La Tribuna, Piacenza 2002

……………..

I.3 - La negoziazione delle controversie.

Alle origini del conflitto.

Le emozioni sono guide importantissime per la specie umana, la cui esistenza è subordinata, in gran parte, all’influenza ed

all’azione di tali impulsi ad agire, per gestire in tempo reale le situazioni della vita. Esse hanno guidato l’essere umano ad affrontare

compiti molto difficili e importanti perché potessero essere affidati al solo intelletto, che poteva non essere all’altezza di certi

momenti critici, dove invece l’immediatezza emozionale aveva la risposta più efficace per affrontare, ad esempio, una sorpresa o un

pericolo imminente e inaspettato. La radice stessa della parola “emozione” è il verbo latino moveo, che significa “muovere”, con

l’aggiunta del prefisso “e”, che significa “da”, per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire.

Il fatto che le emozioni spingano all’azione è ovvio: ogni emozione prepara il corpo a un tipo di risposta diverso: nella collera il

sangue affluisce alle mani, come per essere pronti all’attacco; nella paura il sangue fluisce verso i grandi muscoli scheletrici, per

esempio le gambe, rendendo facile la fuga. Comunque, le emozioni non producono solo movimento, ma anche un cambiamento che

permette di adeguare il corpo ed i sensi alla nuova situazione venutasi a creare: nella sorpresa il sollevamento delle sopracciglia

consente di avere una visuale più ampia e di far arrivare più luce alla retina, il che permette di raccogliere più informazioni

sull’evento inatteso; nel disgusto verso qualcosa che offende l’olfatto il naso si arriccia come tentativo di chiudere le narici; nella

gioia uno dei principali cambiamenti sta nella maggiore attività di un centro cerebrale, che inibisce i sentimenti negativi e aumenta la

disponibilità di energia; la tristezza, infine, ha la funzione di adeguamento ad una perdita significativa: la chiusura in se stessi

permette di elaborare, in qualche modo, un lutto, in senso reale o in senso lato.

Con l’evolvere della specie e la sempre minore necessità di rispondere emozionalmente agli impulsi esterni o al soddisfacimento di

esigenze interne, l’essere umano ha comunque sviluppato un altro elaborato sistema di risposta a ciò che avviene dentro e fuori di lui:

il raziocinio, che consente risposte più complesse, che si rifanno ad un insieme di conoscenze acquisite e condivise o imposte. Si è

quindi dotati di due modalità di conoscenza e di risposta agli stimoli, quella emotiva-impulsiva e quella razionale-riflessiva, che

interagiscono per costruire la vita mentale. Di solito funzionano in armonia ma, quando le passioni aumentano di intensità,

l’equilibrio si perde e la dimensione emozionale prende il sopravvento, travolgendo quella razionale. Talvolta, infatti, si agisce come

“uomini primitivi”, specialmente quando ci si trova in un conflitto e ci si dimostra aggressivi, oltre ogni logica e possibile

comprensione immediata, anche quando tale aggressività è canalizzata ed espressa attraverso le formule di legge e le carte bollate.

Fra le principali emozioni impulsive c’è l’aggressività; tale termine, sempre di origine latina, significa “andare verso” ed è bene

distinguere l’aggressività umana da quella animale, perché quest’ultima è biologicamente condizionata, nel senso che serve alla

sopravvivenza della specie, e viene mobilitata quando gli interessi vitali dell’animale sono minacciati dall’esterno. Nell’uomo ci sono

due tipi di aggressività, una biologicamente determinata di carattere difensivo, vicina a quella animale, l’altra prettamente umana che

si esplica con ostilità verso la vita, crudeltà. L’uomo è più distruttivo dell’animale, può decidere di utilizzare il suo potenziale

aggressivo anche indipendentemente da una minaccia esterna, l’aggressività umana ha il suo fondamento nelle specifiche condizioni

dell’esistenza che si conduce: per fare un esempio, esistono etnie primitive dove non esiste aggressività: la popolazione non ricerca

più di quanto ha. Non a caso, invece, si osserva una recrudescenza di aggressività nel mondo attuale, probabilmente dovuta alla

voglia di avere sempre più di quello che si ha già, considerando che le disponibilità di beni non bastano per tutti, da cui l’insorgere

dei conflitti, distruttivi e aggressivi, quando gli interessi delle diverse parti appaiono assolutamente non convergenti, ma decisamente

contrapposti.

I principali tipi di conflitto interpersonale si verificano quando due o più individui vogliono cose diverse, ma possono farne una

sola, o quando vogliono la stessa cosa ma devono fare cose differenti; invece a livello intrapersonale si ha conflitto quando un

individuo è combattuto tra scopi incompatibili o in lui avviene uno scontro tra due forze emotive opposte. Il conflitto, non risolto o

mal gestito, crea spesso un sentimento di solitudine contro tutti gli altri o un sentimento di alienazione verso se stessi. Ma il conflitto

può essere gestito e diventare una valida opportunità di crescita e di soddisfazione o salvaguardia dei propri interessi.

Come rendere il conflitto un’opportunità.

Vi sono individui che, per loro carattere o per vissuti particolari, affermano di trovare una ricarica nelle dinamiche conflittuali,

quindi per loro è logico intendere il conflitto come opportunità, anzi come una necessità vitale, un mobilizzatore di energia e

produttore di ricchezza psichica, anche se spesso si può eccedere e diventare distruttivi. C’è, invece, chi tende a considerare il

conflitto come patologia, per cui tende ad evitarlo e ad eliminarlo, portando magari ad una tregua, che spesso è solo apparente e non

risolve il problema, ma cerca solo di negare il conflitto. C’è, infine, una terza tipologia di persone che, utilizzando le capacità

razionali di cui si diceva prima, tendono a ridefinire tale situazione ed intendere il conflitto come risorsa e potenzialità in più: costoro

hanno una vera capacità di risolvere i conflitti, che porta a risultati concreti. Le normali reazioni al conflitto, spesso, corrispondono

agli atteggiamenti di ciascuno verso il cambiamento, in quanto, se è vero che il conflitto si origina quando si hanno interessi

contrastanti, forse il cambiamento di approccio potrebbe risultare migliore dello scontro diretto. Lasciando allora da parte i “cultori

del conflitto”, che comunque sono una minoranza, con larga approssimazione si possono creare due gruppi di tipologie umane in

relazione al conflitto: il passivo e l’attivo.

Il passivo assiste come spettatore, tende a forme di fuga, di non coinvolgimento e di resistenza, in quanto il conflitto gli genera

ansietà e paura; in genere non è apertamente aggressivo, perché usa modi più raffinati di difesa verso il conflitto, come il sarcasmo o

il discredito verso l’altro; provoca un rallentamento del processo di cambiamento e nessuna modifica di situazione e di se stesso. Una

tipica difesa è costituita dal meccanismo di introiezione-proiezione, che esaurisce il conflitto con un'altra persona mediante una

divisione netta di contenuti: quelli buoni vengono concentrati su se stessi, anche se sono dell’altro, e quelli cattivi vengono

concentrati sull’altro, anche se sono propri. Come i bambini piccoli, i tipi siffatti tendono a estremizzare le situazioni, il che li porta a

distorcere le esperienze ed esprimere il loro punto di vista attraverso richieste intransigenti; una volta che anche gli avversari hanno

estremizzato le loro posizioni, si irrigidiscono e non riescono più a concepire che anche l’altro possa avere dei motivi legittimi,

sempre trascurando il ruolo avuto nel precipitare del contrasto e credendo esclusivamente nella propria versione degli eventi. Del

resto, anche agire con aggressività, verso il conflitto e la controparte, spesso significa avere paura, per cui per esorcizzarla, si

preferisce attaccare piuttosto che essere attaccati: spesso il rifiuto della conflittualità si deve all’incapacità emotiva di tollerare la

complessità e la diversità.

La persona che, invece, ha un approccio positivo o attivo al conflitto, come anche al cambiamento, non assiste dall’esterno ma

partecipa come attore: in tal caso il trattamento del conflitto porta ad un miglioramento del benessere generale, anzi deve essere

considerato una delle componenti per il raggiungimento dei propri fini; del resto, ogni mutamento passa attraverso il conflitto, tra

status quo e speranza futura. Rendere i conflitti un’opportunità significa ottimizzare l’utilità che da essi deriva; quindi, ad esempio,

tentare di compiere una scelta ottimale entro una varietà di opzioni. Per gestire il conflitto bisogna aver acquisito una certa capacità di

padroneggiare le emozioni e saper valutare gli elementi positivi e negativi del conflitto stesso. I principali aspetti positivi possono

essere: l’aumento delle motivazioni tendenti al mutamento; la mobilitazione dell’energia psichica ; l’incremento della coscienza del

proprio ruolo; la maggiore identità delle parti conflittuali; l’accentuarsi dell’attenzione verso tutti i tipi di conflitti.

Chi ha un approccio equilibrato al conflitto, invece di spingersi all’azione, come gli impulsivi che amano la lotta, riconosce il

valore dell’emozione per modificare una situazione: non nega la propria emozione ma la usa per alimentare un processo mentale che

lo porta a pensare a come agire e, in maniera riflessiva, a tenere conto dei bisogni dell’altro come ai propri ed a valutare cosa sia

meglio fare. Chi ha soppesato equamente tutti i punti di vista non può non vedere che le cause di una controversia sono molteplici e

che, per risolvere il conflitto, è necessario scendere a compromessi in cui entrambi perdono e guadagnano qualcosa. La risoluzione

duratura del conflitto non è un’impresa puramente cognitiva ma un processo che richiede anche altre capacità, per esempio empatia e

buon senso morale: bisogna sapersi mettere nei panni dell’altro, riconoscere empaticamente i suoi obiettivi. È difficile cedere anche

solo di un punto se non si capiscono le ragioni della controparte, il che non significa capire le ragioni dell’altro per prenderlo in

contropiede, perché questo sarebbe manipolazione e prolungherebbe il conflitto anzichè risolverlo, ma piuttosto capire che ciascuno

può essere strumento di soddisfazione o minaccia per gli interessi ed i bisogni dell’altra parte, e quindi agire di conseguenza.

Negoziare la soluzione di una controversia.

Una persona immatura può negoziare per approfittarne, non per risolvere una controversia: in tal caso non è infrequente che, al

senso di sollievo per aver portato e termine con successo un negoziato, si accompagni un senso di tristezza, per quello che,

inevitabilmente, si è sacrificato; chi ha una visione estrema delle cose, e vuole tutto o niente, fa fatica ad accettare e tollerare

un’eventuale perdita, senza lasciarsi prendere dall’ira o dalla delusione. Per questo motivo il negoziatore deve essere non solo maturo

ed equilibrato, ma anche preparato: la negoziazione affonda le sue radici in discipline tecniche, quali il diritto e l'economia, per

quanto riguarda l'analisi dei processi del negoziato e la determinazione del risultato contrattuale dello stesso, ed in discipline

umanistiche, come la psicologia e la comunicazione, per essere consapevoli dei comportamenti propri ed altrui. Una buona

preparazione consente ai negoziatori di superare le divergenze che sono state all'origine della loro controversia, trovando una

soluzione che sia giuridicamente ed economicamente valida per entrambi. Il percorso da seguire è tendenzialmente libero, ma non per

questo senza regole, specialmente per ciò che riguarda le dinamiche comunicative e relazionali che si sviluppano tra le parti, in modo

che anche la loro relazione, compromessa dal conflitto, possa essere recuperata al meglio.

Come nella gestione del conflitto, anche nel caso della negoziazione delle controversie si può decidere di procedere in altri modi,

come l'evitare il problema, rimandando il confronto e mantenendo la situazione del momento il più a lungo possibile, come se il

problema non esistesse. Il rischio maggiore, in tal caso, è che il problema non affrontato, col passare del tempo, si ingigantisce o si

incancrenisce, rendendo sempre più difficile il raggiungimento di una soluzione consensuale. All'esatto opposto sta l'approccio duro,

lo scontro aperto, l'affrontarsi misurando reciprocamente la rispettiva forza, data anche dal cosiddetto “potere contrattuale”, reale o

percepito che sia; un tale approccio, molto spesso, degenera in scontro diretto fra le parti e qualora non trovi soluzione (se una delle

due parti cede alle pretese contrarie dell'altra, con un accordo comunque “debole”), sarà risolto d'autorità da un terzo, giudice o

arbitro che sia. Solo che, in questo caso, le parti non avranno più il potere di decidere la migliore soluzione che tiene conto di tutti gli

interessi in gioco e migliora la relazione: arbitro o giudice che sia, il terzo deciderà chi ha torto e chi ha ragione, comminando

sanzioni ed imponendo azioni che, se non soddisfano chi le deve subire, daranno adito a nuovi conflitti, in un meccanismo che si

autoalimenta progressivamente. La situazione migliore si ha quando i negoziatori sono autenticamente animati dalla volontà di

trovare una soluzione soddisfacente e duratura, non tanto per spirito “buonista” o per debolezza, quanto per la convenienza della

stessa, anche in termini di costi e di tempi perché, anche se non si raggiungono dei veri e propri vantaggi ma anche solo si evitano

degli onerosi svantaggi, la convenienza rimane. Occorrerà, quindi, la volontà effettiva di raggiungere un accordo, unita alla

consapevolezza che esso produrrà effetti giuridici, attraverso forme disparate, ma che saranno sempre riconducibili ad un contratto.

L'accordo finale, che conclude una negoziazione di una controversia, potrà assumere connotati che vanno dal semplice

compromesso ad una soluzione innovativa, passando per scambi di tipo compensativo. Il compromesso rappresenta il risultato

minimo di una negoziazione, perché in esso le parti si limitano a cedere ciascuna un pò del proprio potere, sacrificando alcuni

interessi minori che avrebbero voluto soddisfare, per raggiungere un modus vivendi accettabile, col quale si evita lo scontro e si

risparmiano comunque i costi economici e temporali di un contenzioso ordinario. Lo scambio di reciproche compensazioni

rappresenta uno sviluppo del compromesso, nel senso che le parti guardano al problema nella sua globalità e non si limitano a trovare

dei minimi accordi, basati su reciproche concessioni, ma introducono nuovi elementi per favorire l'accordo, che si fonderà su un

equilibrio tra vantaggi e svantaggi reciproci, valori e interessi che i negoziatori vogliono perseguire e soddisfare. L’ideale è allargare

quanto più possibile la discussione e trovare la formula migliore di soluzione, che comunque non sia sbilanciata troppo a carico di

una delle due parti: infatti, oltre il mero compromesso o le stesse reciproche compensazioni, si entra nel “mare aperto” delle soluzioni

creative, dove vengono in gioco anche elementi ed interessi che non hanno a che fare direttamente con la materia oggetto del

contendere. In fondo, nel corso della negoziazione, le parti si rendono conto che le loro azioni ed i loro obiettivi sono per lo più

interdipendenti, per cui gli impegni che vengono presi, sono in vista di un comune risultato: tale risultato tiene conto sia degli

interessi contrastanti sia di quelli compatibili, nonché, chiaramente, di quelli coincidenti, per portare beneficio e “vincere” entrambi

(l'esatto opposto della contrapposizione diretta, dove inevitabilmente una parte perde e l'altra vince).

La negoziazione diretta di una controversia è tendenzialmente libera perché le parti non sono costrette a parteciparvi né a giungere

ad una soluzione a tutti i costi, come nel caso delle procedure giudiziali ed arbitrali, che si concludono con una decisione del terzo

imposta alle parti (la sentenza o il lodo arbitrale). Anche nel caso in cui le parti si fossero preventivamente impegnate a rinegoziare il

contratto, in caso di insorgenza di controversie, le stesse potrebbero giungere subito alla conclusione, implicita o esplicita, che non si

procederà a modificare il contratto per risolvere la controversia insorta, optando invece per una soluzione contenziosa, per fatti

concludenti o espressa dichiarazione. La negoziazione è un processo, oltre che libero, estremamente dinamico, che ha un suo

percorso evolutivo, magari breve nel tempo ma che può essere estremamente creativo ed originale ogni volta: è opportuno ed

auspicabile che siano presenti tutte le parti direttamente coinvolte dalla controversia, in particolare coloro che hanno il potere ultimo

di decidere dell'esito della controversia stessa (nel caso di società, i legali rappresentanti). Comunque bisogna ricordare anche

l'influenza che persone o enti non direttamente coinvolti nel negoziato possono avere sui negoziatori, perché magari coinvolti nella

dinamica di sviluppo della controversia o interessati dagli esiti della stessa, come si vedrà parlando di terzi referenti delle parti nella

negoziazione.

I.4 - Tecniche fondamentali di negoziazione

Prepararsi alla trattativa negoziale.

La regola fondamentale è saper dosare la tenacia e la flessibilità: è bene che ciascun negoziatore sia tenace, per quanto riguarda i

propri interessi, sulla base dei quali misurerà poi l’esito della negoziazione, ma dovrà essere al tempo stesso flessibile, nel senso che

non si irrigidirà nei confronti dell’altra parte e dei suoi comportamenti, perché il tutto va basato su un autentico rispetto reciproco.

Essere fermi in una negoziazione non significa essere ostinati o fare minacce o cercare di sopraffare l’altro, a meno che non sia

proprio questo l’interesse da soddisfare (in tal caso più che di negoziazione si dovrebbe parlare di lotta per il potere o il dominio). La

flessibilità si dimostra, comunque, anche nella capacità di reagire bene ad un comportamento sgradevole dell’altra parte, prima di

tutto perché non si può mai sapere se i propri atteggiamenti siano sempre percepiti come gradevoli dall’altra parte, poi perché

bisogna, quanto meno, sapere cosa sta alla base del comportamento sgradevole altrui, se effettivamente manifesta un atteggiamento

contrario alla negoziazione in atto o ai risultati cui essa sembra condurre: può essere d’aiuto il cercare di mettersi nei panni dell’altro

o chiedersi chiaramente se vi siano dei motivi latenti alla base dell’atteggiamento percepito come sgradevole.

La tenacia e la flessibilità sono poi un ottimo antidoto per superare i possibili momenti di stallo, che possono intervenire per

stanchezza dei negoziatori o perché uno dei due o entrambi si stanno solo dimostrando duri, col rischio di finire in un vicolo cieco: in

tal caso si può cambiare qualcosa, dalle persone, al luogo degli incontri; si può aggiornare la riunione e si può concedere qualcosa;

infine si può studiare un modo diverso di soddisfare i propri interessi oppure valutare onestamente l’assenza di alternative. La dote

fondamentale del negoziatore è, comunque, una sana ragionevolezza, in quanto è sempre bene non avere obiettivi irrealizzabili,

oppure saper valutare che, spesso, la soddisfazione immediata di un desiderio rischia di vanificare altre realizzazioni di più ampio

respiro e lunga durata; senza contare l’aspetto fondamentale della relazione con l’altra parte che, se è vantaggioso per entrambi che

rimanga valida, deve però prescindere da tattiche “mordi e fuggi”.

Prima di passare alle tecniche vere e proprie di negoziazione, è opportuno, a questo punto, un breve approfondimento su un aspetto

fondamentale di tutte le relazioni, particolarmente importante in situazioni controverse: la comunicazione.

Ruolo fondamentale della comunicazione.

La comunicazione è la conditio sine qua non per negoziare, del resto è un aspetto fondamentale della vita umana e

dell’ordinamento sociale: ogni essere umano è coinvolto fin dall’inizio della sua esistenza in un complesso processo di acquisizione

delle regole della comunicazione e di tale complessità si è consapevoli solo in minima parte. L’attività di comunicazione è parte

integrante, di qualsiasi strategia di azione, ma non è solo un fatto di tecniche e di simboli fini a se stessi: il protagonista principale è

sempre il soggetto umano con il suo vissuto che, per manifestarsi, passa attraverso codici linguistici, gestuali, simbolici: essi

dovrebbero favorire la comunicazione, ma può succedere anche il contrario, quando sono troppo rigidi o inadeguati a rispondere al

bisogno comunicativo, il quale viene così distorto o represso, tanto da provocare frustrazione o disagio.

La comunicazione è un fenomeno bidirezionale: non è un semplice trasmettere l’informazione da chi parla a chi ascolta, ma un

processo di interazione, risultato della relazione di tipo emotivo che si instaura tra chi parla e chi ascolta. Questo significa progettare

e realizzare la propria azione tenendo conto dell’interlocutore, per cui è opportuno ci siano flessibilità e capacità di adattamento: per

comunicare l’emittente e il ricevente devono sintonizzarsi tra loro e con la situazione, per trasmettere il significato o per ristabilirlo.

La situazione fondamentale della comunicazione è il dialogo ma, nella realtà, la relazione tra emittente e ricevente si trova integrata

in una molteplicità di reti: ogni relazione è influenzata dall’esistenza di una complessa relazione sociale; lo schema della

comunicazione non può essere avulso dall’ambiente in cui la comunicazione ha luogo.

La comunicazione può essere sia verbale che non verbale. La comunicazione non verbale sta ad indicare tutto ciò che riguarda il

linguaggio del corpo: i gesti, i movimenti, la postura, l’espressione del viso, lo sguardo, la posizione spaziale, il tono della voce,

l’abbigliamento; tutto ciò, spesso, fornisce informazioni più precise di quanto possa fare la parola, in quanto, attraverso il

comportamento, si realizza l’espressione delle emozioni e la comunicazione degli atteggiamenti più profondi. E’ fin troppo evidente

come i segnali non verbali comunicano cordialità, amicizia, simpatia, ostilità, con modalità più eloquenti ed immediate della

verbalizzazione, tanto che, spesso, il rapporto tra due o più persone viene stabilito, mantenuto o interrotto, senza che gli stessi

interagenti ne siano pienamente consapevoli. Gli studi fatti sulla comunicazione non verbale hanno rilevato, peraltro, che alcuni

aspetti del linguaggio del corpo sono piuttosto simili in tutte le culture, soprattutto le espressioni delle emozioni che si manifestano

attraverso il volto.

La comunicazione non verbale è strettamente legata al linguaggio delle parole, nel senso che le asseconda e le sostiene, ma

potrebbe anche contraddirle e smentirle, anche se non se ne può avere la certezza matematica. Il discorso verbale viene

continuamente integrato e completato da segnali non verbali, che forniscono illustrazioni ed informazioni di ritorno (feedback) che

aiutano la sincronizzazione del discorso, ma possono renderlo incomprensibile e ambiguo. Ad esempio, un negoziatore che esprime

verbalmente di essere un contraente affidabile e di fidarsi dell’altra parte, ma allo stesso tempo incrocia le braccia davanti al torace,

accavalla le gambe e rivolge spesso gli occhi in alto, potrebbe significare che, a livello profondo, non crede in quello che dice.

Similmente, un discorso verbale improntato alla correttezza può essere confermato dai messaggi non verbali di negoziatori che si

guardano negli occhi (senza che questo rappresenti un atteggiamento di sfida o di indagine), che siedono l’uno di fronte all’altro in

modo aperto e rilassato, senza movimenti che potrebbero indicare fuga o invasione del campo altrui o tentativi di barare su qualche

aspetto (che potrebbe essere rappresentato, ad esempio, dal nascondere le mani o dall’utilizzarle per coprirsi parti del volto).

In ogni caso, qualsiasi tipo di comunicazione non soltanto trasmette informazioni, che costituiscono il suo contenuto, ma al tempo

stesso propone un comportamento, una modalità relazionale: l’impossibilità di non comunicare rende comunicative tutte le situazioni

interpersonali che coinvolgono due o più persone; ciò sta ad indicare che quando si è in relazione, non è possibile non avere un

comportamento. Se si accetta che l’intero comportamento, in una situazione di interazione con l’altro, ha valore di messaggio, vale a

dire di comunicazione, ne consegue che, comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il

silenzio, hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste

comunicazioni, ed in tal modo comunicano anche loro: da ciò si può dedurre che il semplice fatto che non si parli o che non si presti

attenzione non significa non comunicazione, perché comunicare non è soltanto un processo che avviene su presupposti di

intenzionalità e consapevolezza.

La comunicazione verbale può essere di tipo egocentrico: in tal caso lo schema del dialogo è stereotipato, è centrato su se stessi, è

rigido, le argomentazioni sono piene di luoghi comuni; l’attenzione è centrata sull’esperienza personale, che viene assolutizzata come

l’unica valida: l’atteggiamento della comunicazione in questo caso è di tipo competitivo, allo scopo di far valere ed affermare la

propria opinione come assoluta. La persona che comunica in maniera egocentrica non presta attenzione all’altro e quindi esclude lo

sforzo cognitivo di assumere il punto di vista dell’altro e di decifrare il suo codice, la sua modalità comunicativa ed il contesto nel

quale sono collocate le sue affermazioni: l’interlocutore egocentrico proietta sull’altro il proprio schema cognitivo ed emotivo (si

aspetta che l’altro pensi e reagisca allo stesso modo): ciò porta a fraintendere il messaggio, c’è un atteggiamento di presunzione

implicita che non va mai messa in discussione. La comunicazione egocentrica può manifestarsi attraverso un linguaggio ermetico,

con una terminologia astrusa, specialistica: in questo stile di comunicazione non c’è interesse per la comprensione dell’altro, molti

aspetti comunicativi sono fini a se stessi, tutto è centrato sulla propria gratificazione.

La comunicazione non egocentrica, al contrario, è la comunicazione “per l’altro”, e richiede un’operazione di decentramento della

propria posizione e quindi il superamento di molti ostacoli di tipo cognitivo ed emotivo. Le caratteristiche che contraddistinguono la

comunicazione non egocentrica sono: l’utilizzazione di un linguaggio facile da comprendere; la flessibilità nel prendere in

considerazione le caratteristiche di chi riceve il messaggio; la disponibilità ad abbandonare il proprio punto di vista ed a comprendere

il punto di vista dell’altro (cioè la consapevolezza che esiste una prospettiva diversa dalla propria); la capacità di formulare il

linguaggio in funzione dell’altro, quando il soggetto che comunica, dopo aver codificato il messaggio per sé, lo ricodifica per

trasmetterlo all’ascoltatore, tenendo presenti le caratteristiche di questo. Tale modalità comunicativa accetta l’altro senza le barriere

difensive che, in altri casi, portano a rifiutarlo, prima ancora di iniziare a comprenderlo, per salvaguardare la propria immagine agli

occhi dell’altro(il motivo per cui, di solito, c’è questa resistenza a comprendere è la paura del cambiamento).

Dal momento che si ha l’intenzione di comunicare con l’altro occorre realizzare una comunicazione centrata sull’altro,

abbandonando provvisoriamente il proprio punto di vista per assumere quello dell’altro e superare quindi ostacoli quali la chiusura

difensiva oppure il rifiuto dell’altro in funzione competitiva. Nell’esporre è necessario che si sappia misurare il valore delle proprie

conoscenze e delle proprie capacità di comunicazione: questo livello di consapevolezza garantisce un approccio aperto e dà

flessibilità al processo di comunicazione; un’esposizione efficace presuppone che chi parla sviluppi interesse, curiosità,

coinvolgimento. Elemento fondamentale perché la comunicazione sia efficace diventa il feed back, cioè il controllo, da parte di chi

parla, dell’esito del messaggio stesso, cioè la comprensione di come gli altri interpretino il messaggio, eventualmente riformulandolo,

se non è decodificato come lo si era codificato.

Escludere le posizioni di principio.

Sia in una trattativa contrattuale che in una negoziazione della soluzione di una controversia, le posizioni iniziali sono spesso

manifestate nelle richieste di apertura o nelle “questioni di principio” che ciascuna parte espone, in modo più o meno diretto, all’altra

parte. Ma non è detto che le posizioni corrispondano esattamente agli interessi che ciascuna parte intende soddisfare e per cui

partecipa al negoziato; capita anche che le posizioni siano assolutamente altro dagli interessi reali, oppure che possano essere

collegate ad interessi minoritari della parte che le manifesta. Chiaramente, più ci si “ingessa” in una di tali posizioni, più è difficile

fare dei movimenti e qualsiasi concessione sarà ritenuta dalla parte che la fa come un ridimensionamento delle proprie “legittime

pretese”. Capita spesso, in tali situazioni, che le parti continuino ad affermare di voler negoziare o raggiungere una soluzione al

problema anche se, di fatto, sembra che ciascuna voglia negoziare solo nella misura in cui la propria posizione venga totalmente

rispettata a discapito della posizione altrui. Oppure la trattativa viene intesa come una progressiva occupazione degli spazi altrui,

mantenendo il più possibile i propri: nella migliore delle ipotesi, ciò permette di raggiungere un accordo che è una semplice divisione

meccanica delle distanze fra le rispettive posizioni e non un vero accordo che soddisfa gli interessi di entrambe le parti.

Alcune trattative negoziali possono giovarsi delle “prese di posizione” per tutelare certi principi oggettivi (ma non “questioni di

principio”), nella misura in cui sia proprio questo l’interesse della parte, ma si tratta di rari casi. Nella maggioranza dei casi, invece,

le prese di posizioni e le questioni di principio non rispondono ai requisiti fondamentali di qualsiasi negoziazione, pacifica o relativa

ad una controversia, cioè raggiungere un accordo ragionevole che si basi sulla soddisfazione degli interessi delle parti, in modo che

anche la relazione ne possa beneficiare, producendo ulteriori vantaggi. Il “muro contro muro” è raro che produca accordi. Se si tratta

da posizioni di principio, si tende a rinchiudersi dentro di esse, perché le si difende “a spada tratta”, contro l’attacco delle posizioni

altrui, rimanendo sempre più bloccati all’interno del “fortino” che ciascuno si è costruito, rendendo sempre più difficile l’incontro e

l’accordo con l’altro. Anzi, quanto più ci si identifica con la posizione presa, tanto più è facile che la stessa finisca per costituire un

nuovo interesse da salvaguardare, a prescindere da quelli reali, perché bisogna a quel punto non retrocedere dalla posizione stessa,

per “salvare la faccia”, essendo rare la saggezza e ragionevolezza di chi ammette di aver esagerato per poi riprendere la negoziazione

su un piano più sereno. Per contro, se si riesce a distaccarsi dalle posizioni iniziali, prese magari come legittima autodifesa rispetto

alle esagerate pretese altrui, risulta più facile rendersi conto quando le prese di posizione o le questioni di principio non poggiano su

importanti interessi reali, quindi le si può abbandonare, nella misura in cui non occorre difendersi o attaccare, non si può procedere

insieme verso un accordo.

Nel caso in cui la negoziazione di una trattativa o della soluzione di una controversia sia condotta principalmente o esclusivamente

sulle posizioni avanzate dalle parti, sicuramente la discussione non sarà breve, perché ognuna partirà da posizioni esageratamente

elevate, immaginando di dover comunque fare qualche concessione all’altra parte, per concludere. Il dispendio di tempo sarà

proporzionale sia alla lontananza fra due posizioni estreme, sia all’esiguità delle concessioni; in questi casi il processo di

avvicinamento sarà molto difficile: non solo la distanza da colmare è notevole, ma ogni negoziatore deve, di volta in volta, pensare a

quali concessioni fare e quali rifiutare, praticamente che strategia usare, come quando due giocatori di scacchi riflettono sulle mosse

da compiere, considerando che nessuno dei due rimane fermo. In ogni caso, anche se il processo portasse ad un risultato, si capisce

come non sarebbe certo il migliore possibile ma, al massimo, una media raggiunta con reciproco logoramento, forse solo per

stanchezza dei negoziatori. Inoltre è facile che ogni parte, per sfiancare l’altro, ponga in essere delle tattiche, come minacciare di

abbandonare la negoziazione, cosa che è, chiaramente, fattibile nella misura in cui si abbia un’alternativa valida, altrimenti è un bluff

e, come tale, comporta un rischio più elevato.

Indipendentemente dalla soluzione, è facile che le parti che negoziano sulla base delle questioni di principio non mantengono un

buon rapporto, proprio per lo scontro di volontà che è implicito nel sostenere ciascuno la propria posizione, cercando di far cambiare

l’altro. Lo scontro di volontà, comunque, genera sentimenti negativi, perché qualsiasi cosa si ceda è vista come una perdita rispetto

alla posizione iniziale. Per essere schematici, la negoziazione secondo le posizioni presenta alcune caratteristiche, che possono anche

manifestarsi insieme: le parti si considerano reciprocamente avversarie e si affrontano duramente, diffidando l’una dell’altra; lo scopo

di ciascuna è vincere, presumibilmente attraverso la sconfitta dell’altra; ogni parte chiede delle concessioni all’altra parte come

condizione per proseguire il negoziato, nascondendo invece fin che è possibile le proprie possibilità di concessione; ciascuna parte si

trincera nella propria posizione e cerca di ottenere quello che vuole, insistendo e facendo pressioni e minacce.

Concentrarsi sugli interessi ed i bisogni.

Come si è già avuto modo di dire, negoziare è l’attività che ciascuno mette in opera per soddisfare i propri interessi che, a loro

volta, possono anche sottendere dei bisogni o delle preoccupazioni, che comunque si esprimono sotto forma di interessi, come

obiettivi che si intende raggiungere. Tale premessa è applicabile sia al caso di una negoziazione contrattuale pacifica, sia al caso di

una controversia, perché comunque la soddisfazione degli interessi è il fondamento imprescindibile di un’efficace soluzione di una

disputa (che sorge proprio nella misura in cui gli interessi delle parti non siano soddisfatti o siano minacciati), con il ripristino o la

creazione di una situazione in cui la soddisfazione è possibile.

Si escludono dalla presente discussione i casi in cui la persona possa voler soddisfare i suoi interessi indipendentemente dal

consenso altrui, utilizzando la violenza o il raggiro che, giustamente, sono considerati cause di nullità di una negoziazione

contrattuale; si prendono, invece, come riferimento, i casi in cui le persone, per concludere con successo una negoziazione, hanno la

necessità di soddisfare i propri e gli altrui interessi insieme. Anche perché, la mancata o parziale soddisfazione degli interessi di uno

dei negoziatori o entrambi porta peraltro ad un contratto non forte o ad una fragile soluzione negoziata di una controversia: quello che

manca alla soddisfazione generale potrebbe essere fonte di un inadempimento contrattuale o dell’accordo risolutivo della

controversia (in tal caso si dovrebbero intavolare nuove negoziazioni, in situazioni ancora più delicate delle precedenti, oppure aprire

un contenzioso che si può risolvere solo tramite l’intervento autoritario di un terzo). Piuttosto, in caso di parziale soddisfazione,

sarebbe meglio non portare a termine una negoziazione, oppure concluderla, ma specificando bene quello che la stessa ha raggiunto,

fosse anche una soddisfazione minima, per non dare adito a successive controversie, paradossalmente originate da una soluzione.

Quindi, se si è parte di una negoziazione, è fondamentale avere chiari i propri ed altrui interessi, e solamente sulla base degli stessi si

può misurare l’efficacia e la completezza della soluzione eventualmente raggiunta.

Normalmente, sopratutto quando si negozia la soluzione di una controversia, le “prese di posizione” potrebbero essere talmente

rigide e contrapposte da far sembrare tali anche gli interessi, dato che ciascuna parte tende ad affezionarsi alle proprie richieste, anche

quando esse hanno poco a che fare con i reali bisogni che spingono ciascuno al conflitto per la propria soddisfazione. Del resto è

normale pensare alla proporzionalità inversa tra il guadagno di uno dei due negoziatori rispetto al guadagno dell’altro, come nella

classica situazione di mercanteggiare il prezzo, dove chi compra cerca di spendere il meno possibile, mentre chi vende cerca di

guadagnare il più possibile. Da questa constatazione è facile capire perché, spesso, si considerino gli interessi contrapposti, molto più

di quanto non lo siano in realtà, mentre invece capita di verificare che gli interessi di entrambe le parti possono risultare compatibili,

se non addirittura condivisibili, come normalmente accade in un negozio giuridico, che viene concluso dai contraenti sulla base di

una soddisfazione dei reciproci interessi, che devono risultare coincidenti o quanto meno complementari.

Negli esempi fatti in precedenza, se ci si fermasse alle “prese di posizione” di entrambi i negoziatori, si dovrebbe concludere che

gli interessi sono in conflitto e in reciproca opposizione, nel senso che, ad una maggiore retribuzione del funzionario, corrisponde

sicuramente una maggiore spesa in termini di retribuzione e contributi per la società. Nel caso delle due aziende, lo scontro duro in

tribunale potrebbe basarsi sull’aspettativa di ciascuna di soddisfare al massimo il proprio interesse, scaricando sull’altra gli oneri: per

entrambe l’interesse immediato sembrerebbe quello di dover pagare il minimo indispensabile per il rifacimento della fornitura di

materiale, che corrisponde ad un maggior risparmio dell’una ai danni dell’altra. Invece, analizzando le questioni con maggiore

profondità, si potrebbe evidenziare che, accanto agli interessi contrapposti, vi sono anche interessi compatibili e complementari. Per

riuscire a scoprire i veri interessi, che stanno alla base di una negoziazione contrattuale o che spingono ad una controversia (e molto

spesso stanno dietro le “prese di posizione”), si può ricorrere ad una domanda tanto facile quanto importante: chiedersi il perché si

voglia raggiungere un determinato obiettivo: questo vale per ciascun negoziatore, sia nei confronti di se stessi, sia nei confronti

dell’altra parte. L’importante è avere una chiara consapevolezza di quali siano gli interessi per i quali ognuno si impegna nelle

trattative in corso o nella ricerca di una soluzione di una controversia ed avere ben chiaro quelli che sono e quelli che non sono

compatibili, considerando poi che gli interessi di ciascuno possono essere molteplici, anche se non tutti con la stessa necessità e

urgenza di essere soddisfatti.

Inoltre non bisogna dimenticare che i negoziatori sono delle persone fisiche, per cui bisogna partire dagli interessi fondamentali,

che derivano dalle necessità di base: dal bisogno di cibo, copertura, benessere e sicurezza, per poi evolvere verso bisogni di

appartenenza e di riconoscimento, di amore e di gratificazione spirituale. Sono bisogni che le persone giuridiche non hanno

direttamente, ma essendo le stesse rappresentate da persone fisiche, finiscono per avere, per cui anche un negoziatore aziendale avrà

le sue preoccupazioni personali, che inevitabilmente influenzeranno il negoziato, a maggior ragione se dall’esito di questo dipende

proprio la soddisfazione di uno di quei bisogni. A seconda delle situazioni e delle parti coinvolte, ciascuna parte potrà chiedere

chiaramente ed esplicitamente all’altra parte gli interessi e bisogni che intende perseguire, oppure potrà verificarlo indirettamente. In

ogni caso, può essere d’aiuto che ciascuna parte proceda a scrivere un elenco degli interessi che intende soddisfare nella

negoziazione, graduandone l’importanza, indipendentemente dal fatto che l’elenco sia poi esplicitato o condiviso con l’altra parte. In

genere, comunicare i propri interessi facilita la negoziazione, perché consente di verificarne la complementarietà; se invece se ne

dovesse riconoscere la completa incompatibilità, la negoziazione potrebbe concludersi senza ulteriori perdite di tempo. Se gli

interessi vengono comunicati è bene essere precisi e comprensibili e bisogna essere reciproci nel rispettare gli interessi manifestati

dall’altra parte, anche se ciò non significa per forza condividerli. È buona cosa immaginare che gli interessi di entrambe le parti

siano compresi in una questione più vasta, che entrambe cercheranno di risolvere e che, in questa soluzione, ci sia spazio per

soddisfazioni di interessi anche diverse da quelle immaginate da ciascun negoziatore inizialmente, manifestando così al tempo stesso

concretezza ed elasticità.

Identificare i terzi rilevanti.

I terzi di cui si parla non sono coloro che facilitano la soluzione negoziata della controversia, come i conciliatori o mediatori,

quanto le persone o gli enti che, in qualche modo, possono influenzare i negoziatori nella gestione della loro trattativa o nella

soluzione della loro controversia. Sono terzi in qualche modo legati agli interessi che i negoziatori stanno cercando di soddisfare o di

salvaguardare, quindi terzi che vogliono essere anch’essi soddisfatti per quanto compete loro. Sono referenti che potrebbero anche

aver avuto una parte fondamentale nell’insorgere dell’eventuale controversia e potranno avere la loro influenza, una volta che

l’accordo sia raggiunto, in quanto potranno determinare dei dubbi o delle perplessità nel negoziatore che è stato direttamente presente

al procedimento, mettendo a repentaglio l’adempimento di quanto concordato con l’altro negoziatore.

I terzi referenti possono essere considerati dei negoziatori occulti, che partecipano in qualche modo indiretto al negoziato, anche se

non visti, e consigliano dietro le quinte quelli che e siedono al tavolo negoziale. Il più delle volte esercitano la loro influenza senza

neanche dirlo esplicitamente, tanto che il negoziatore è convinto di agire autonomamente mentre, in effetti, è condizionato dalle

richieste o dalle aspettative che tali terzi referenti, magari in tempi lontani dal negoziato stesso, hanno espresso, in maniera

particolarmente incisiva. Il negoziatore si trova, così, a dover soddisfare o salvaguardare non solo i propri interessi, ma anche quelli

di tali terzi, nella misura in cui è interesse del negoziatore stare in pace con tali referenti o comunque si trova nella necessità di farlo,

per il particolare rapporto, professionale o emotivo, che lo lega con loro. Gli interessi dei terzi, dunque, entrano a pieno titolo nella

stanza del negoziato e sarà bene tenerli in considerazione, perché altrimenti o non si arriverà ad un accordo oppure lo stesso sarà

estremamente vulnerabile, in quanto i terzi referenti avranno tutto il tempo per metterlo in crisi e minacciarne l’adempimento, con

conseguente insoddisfazione degli interessi principali e diretti dei negoziatori che hanno raggiunto la soluzione (senza contare che poi

ciascun negoziatore è referente di sé stesso, per il semplice fatto che ciascuno ha di se un’immagine ideale o comunque degli interessi

o bisogni da soddisfare e sui quali misurerà la propria autostima, come nella classica situazione dello specchio, nel quale ci si guarda

ogni mattina).

Non è detto che tutti i negoziatori abbiano dei terzi referenti particolarmente opprimenti o esigenti, anche se nessuno è una

“monade” chiusa senza alcuna relazione di alcun tipo con altri, per cui è difficile che non vi sia qualcuno da tenere in considerazione.

Semmai il negoziatore potrebbe non essere condizionato più di tanto, oppure ritenere di importanza non fondamentale la

soddisfazione o salvaguardia degli interessi rappresentati dai suoi referenti o, ancora, questi interessi sono talmente collegati ai

propri da coincidere con gli stessi, per cui non è necessario un doppio livello di attenzione; infine potrebbe presentarsi la situazione in

cui il negoziatore ha proprio il bisogno di affrancarsi da simili condizionamenti e riaffermare la sua individualità rispetto ad altri,

paradossalmente trovandosi magari un alleato nell’altro negoziatore, contro i terzi referenti, dai quali ci si vuole distaccare. In ogni

caso, quando il negoziato e l’eventuale accordo finale si basano su criteri oggettivi esterni (che si avrà modo di esaminare

dettagliatamente in seguito), non dovrebbero incorrere in alcun rischio, perché tali standard esterni ed oggettivi sono applicabili a

tutti , negoziatori, terzi referenti ed altre persone completamente estranee al negoziato (come capita per le unità di misura

universalmente riconosciute).

Migliore alternativa all’accordo negoziato.

Se è vero che ciascuna parte negozia per soddisfare i propri interessi e bisogni fondamentali, sia in una situazione pacifica che

conflittuale, è possibile che tali interessi e bisogni possano essere soddisfatti anche al di fuori della trattativa contrattuale o del

tentativo di risolvere una controversia negoziandone la soluzione. Il fatto di poter soddisfare i propri interessi in maniera alternativa,

al di fuori del tavolo negoziale, al limite anche contro la volontà dell’altra parte, rappresenta indubbiamente un punto di forza per i

negoziatori, che non sono costretti ad accettare una soluzione o un esito che non li convince pienamente e, al tempo stesso,

responsabilizza ciascuno ad ottenere il massimo dalla situazione specifica, cioè dalla negoziazione in atto, in modo che l’eventuale

accordo raggiunto soddisfi nel maggior grado possibile gli interessi ed i bisogni per i quali si sta negoziando.

Se vi sono diverse alternative di soddisfazioni dei medesimi interessi, è opportuno parametrare la soluzione negoziale che si

potrebbe ottenere dalla trattativa o dalla transazione in corso con la migliore fra le diverse alternative, ricordando che, comunque,

questa possibile soddisfazione al di fuori del tavolo negoziale è tale solo nella misura in cui la parte può conseguirla da sola, senza

alcuna collaborazione con l’altro negoziatore, che anzi potrebbe persino ostacolare tale soluzione alternativa. Infatti, se si negozia

comunque la soluzione con l’altra parte, nel senso che si creano le condizioni e si formalizza un accordo, che presuppone il concorso

(o quantomeno la non contrapposizione dell’altro), allora non si è nel campo delle alternative all’accordo negoziato, ma piuttosto

delle opzioni di soluzione all’interno del negoziato stesso, al quale entrambe le parti contribuiscono.

Chiaramente, se può esistere un certo numero di alternative migliori dell’accordo negoziato, ne potranno esistere altrettante

peggiori, motivo che spesso spinge al negoziato stesso, con l’auspicio di una soddisfazione maggiore di quanto si potrebbe ottenere

da sé. Tale situazione potrebbe anche essere vista come comportamento opportunistico, ma è pure legittimo e porta ad accordi ben

fatti, proprio perché, attraverso la negoziazione, si è raggiunta una soddisfazione che da soli era preclusa, quindi si avrà interesse a

rispettarla. Rimanendo al caso in cui l’alternativa al negoziato è solo una situazione peggiorativa, questa è una circostanza che rende

la parte o le parti particolarmente interessate al negoziato, ma forse anche troppo bisognose di raggiungere un accordo, che potrebbe

risultare fragile, nella misura in cui, dopo essere stato l’unico possibile in quel momento, sia messo in crisi da un cambiamento delle

circostanze.

Entrambi i negoziatori si devono chiedere allora, onestamente, se quello che possono ottenere non negoziando o rivolgendosi

altrove per la soddisfazione dei loro interessi è meglio di quanto otterrebbero concludendo la negoziazione con l’altra parte. Peraltro,

bisogna considerare la reale fattibilità e percorribilità di queste alternative, nel senso che non possono essere solo degli auspici o delle

presunzioni ottimistiche, ma difficilmente realizzabili; le vere alternative devono essere delle concrete possibilità, altrimenti si rischia

di rimanere senza soddisfazione alcuna e di dover magari tornare al tavolo negoziale in posizione molto più debole. E’ logico che poi

ogni alternativa ha i suoi margini di rischio o di impegno da sopportare, per raggiungere la soddisfazione cui si aspira, come del resto

è facile che anche l’accordo negoziato comporti qualche sacrificio, o comunque delle concessioni reciproche.

Le alternative all’accordo negoziato sono inscindibilmente legate alle soglie limite di ciascun negoziatore, che altro non sono che le

peggiori soluzioni accettabili, oppure le cosiddette “ultime spiagge”, oltre le quali non conviene assolutamente negoziare, anche se

non si possiede alcuna alternativa per soddisfare gli interessi in gioco, perché soddisfarli al di sotto di quei limiti equivarrebbe a non

soddisfarli affatto o a pentirsi di aver fatto qualsiasi concessione, pur di chiudere quel determinato accordo. Quindi, da un certo punto

di vista, avere delle soglie limite può tutelare ciascun negoziatore da un esito insoddisfacente, dall’altro, però, potrebbe precludere la

possibilità di sondare soluzioni innovative, perché gli interessi possono essere soddisfatti dalle opzioni sviluppate da entrambe le

parti con fantasia e creatività. Semmai, se si arriva in vicinanza delle soglie limite che ci si è date o che vengono imposte dalle

circostanze, si potrebbe prendere ciò come spunto per una sosta di riflessione e di riesame della situazione nel suo complesso,

rivedendo attentamente gli interessi che si vogliono soddisfare o che si vogliono difendere, sulla base dei parametri delle proprie reali

alternative e dei propri segnali di guardia.

I “limiti invalicabili” possono venire dall’esterno, come nell’esempio del mandato specifico del consiglio di amministrazione, che

non consente variazioni a quanto in precedenza inserito in budget per le retribuzioni, oppure possono essere fissati autonomamente

dai negoziatori, come potrebbe fare il funzionario, una volta calcolato il maggior aggravio di spesa determinato da un mutuo, oltre al

normale ménage familiare; oppure, nel caso dell’azienda fornitrice, tale limite è rappresentato da una soglia, al di sotto della quale la

perdita supera i costi diretti di produzione del materiale che la committente rifiuta. Il rischio è che, in tali casi o in altrettanti simili,

pur essendo i limiti descritti frutto di valutazioni oggettive, potrebbero però alla fine tramutarsi in “posizioni di principio”, perché

l’aver adottato una soglia invalicabile rende la situazione non modificabile. Nei casi esposti, infatti, la soglia limite invalicabile

potrebbe far chiudere chi la fa ad altre possibilità di ottenere da altre fonti, magari con la collaborazione dell’altra parte, quanto

necessario per coprire la parte mancante. E’ ovvio poi che se la soglia limite non avesse neanche un fondamento oggettivo e fosse

posta eccessivamente in alto, sarebbe ancora più difficile da modificare, perché un limite troppo alto preclude qualsiasi saggio

ridimensionamento.

Le soglie limite vanno quindi combinate con tutte le alternative possibili all’accordo negoziato, proprio perché le soglie limite

sono, in fondo, quei baluardi, al di là dei quali non è più conveniente negoziare, mentre le alternative migliori sono il metro in base al

quale ogni accordo dovrebbe essere misurato, in modo da rendersi anche conto se, quanto si sta ottenendo, è anche la migliore

soluzione che realisticamente si può raggiungere per la soddisfazione degli interessi in gioco. Se vediamo la situazione da un altro

punto di vista, paradossalmente, la forza di ciascun negoziatore potrebbe essere intesa nella misura in cui non ha bisogno del

negoziato, quindi dell’accordo con l’altra parte, per la soddisfazione o per la salvaguardia dei suoi interessi, quindi dall’attrattiva che

può rappresentare il mancato accordo ai suoi occhi. Quest’ultimo è il motivo per cui molte controversie non riescono a raggiungere

una transazione ma finiscono in tribunale, supportate da un’eccessiva confidenza di ciascuna parte nel presupposto di aver ragione e

nella speranza di vedere soddisfatti i propri interessi a totale discapito dell’altro, che non si vede più (o non si è mai visto) come

“partner” per una soddisfazione migliore di quegli stessi interessi per cui si intenta una causa. Talvolta non è assolutamente possibile

negoziare, per indisponibilità dell’altra parte o per sua aperta contrapposizione, per cui le uniche alternative concretamente

percorribili sono o l’abbandono della soddisfazione dei propri interessi, valutati come non indispensabili, oppure l’affidamento della

tutela dei propri interessi ad un terzo, sia esso un giudice ordinario o un organo arbitrale, che deciderà degli esiti del mancato

negoziato.

Quello che si può dire, in conclusione, è che ciascun negoziatore deve analizzare le proprie alternative e soglie limite seguendo uno

schema molto semplice che comprende, prima di tutto, un esame dei propri livelli di guardia, sia quelli autonomi che quelli ricevuti

dall’esterno; poi conviene ideare un elenco di azioni che si potrebbero verosimilmente intraprendere per soddisfare i propri interessi

al di fuori del negoziato o in caso di fallimento dello stesso; quindi si può riflettere su come migliorare le alternative più promettenti e

sviluppare concretamente la loro fattibilità e, infine, selezionare per successive approssimazioni l’alternativa migliore. A questo

punto, quanto migliore è la propria alternativa all’accordo negoziato, tanto più equilibrata e forte sarà la propria situazione negoziale

e quindi l’approccio verso la soluzione, che tendenzialmente dovrà essere maggiormente soddisfacente della migliore propria

alternativa.

Chiaramente, visto che la negoziazione dei propri interessi o delle relative controversie raggiunge una soluzione congiunta solo se

tutte e due le parti ottengono la soddisfazione voluta, ciascuna dovrà, quanto meno, tentare di immaginare o di farsi esplicitare la

migliore alternativa altrui. Questo per non farsi illusioni sulla necessità dell’altra parte di rimanere al tavolo negoziale, ma anche per

non farsi intimidire da una sopravvalutazione della alternativa altrui, che talvolta è opportuno ridimensionare, per riportare la

trattativa ad un sano equilibrio. Alla fine, se entrambe le parti hanno delle alternative migliori dell’accordo che potrebbero

raggiungere negoziando, la scelta migliore sarà proprio quella di smettere di negoziare o di non negoziare affatto.

Separare le questioni soggettive e oggettive.

Il problema si pone principalmente quando si negozia la soluzione di una controversia, nella quale la questione oggettiva,

quantificabile, degli interessi e dei bisogni che ciascuna parte tende a salvaguardare e difendere, si intreccia con il rapporto instaurato

con l’altra parte, che ovviamente è entrato in crisi e porta con sé una serie di emozioni e sentimenti soggettivi, che tendono ad

intrecciarsi col problema oggettivo. Da tale intreccio non è esente nemmeno la trattativa negoziale contrattuale svolta in assenza di

conflitto, perché comunque i negoziatori sono prima di tutto delle persone ed ogni mossa di ciascuno, volta al raggiungimento di un

obiettivo, inevitabilmente sarà letta dall’altro secondo il suo portato di esperienza, la sua psicologia, il suo approccio

comportamentale, ingenerando spesso fraintendimenti o aspettative deluse, che rischiano di inficiare la bontà del procedimento

negoziale svolto sulla base degli interessi che ciascuno intende soddisfare. Oppure si confida eccessivamente nel fatto che, ad un

rapporto consolidato di amicizia o di collaborazione, debba necessariamente corrispondere una disponibilità che va oltre le eventuali

scorrettezze o superficialità di una parte nei confronti dell’altra, per cui si dà per scontato che certi comportamenti possano essere

accettati in nome del rapporto instauratosi fino a quel momento. In ogni caso, il rapporto soggettivo è bene che vada gestito

separatamente dalla questione oggettiva, anche se, inevitabilmente, l’uno rimanderà all’altra, ma è l’unico modo per non commettere

gli errori dovuti a confusioni indebite.

All’estremo opposto della confusione tra questione soggettiva ed oggettiva, si trova, invece, la situazione nella quale non si

considera minimamente l’aspetto soggettivo o si percepisce l’altra parte solo quale tramite attraverso cui realizzare la soddisfazione

di un proprio bisogno; oppure la si considera come un’astratta proiezione dell’ente o dell’azienda che eventualmente rappresenta,

senza far caso che è al tempo stesso una persona, con sentimenti ed emozioni simili a quelli di tutti, anche se è un impeccabile

manager. Questa situazione può essere estremizzata dalla trattativa di posizione, che può essere vista da ciascuno come dimostrazione

di scarsa attenzione al rapporto, perché l’unica cosa che sembra interessare l’altra parte è la vincita del suo punto di vista o della

questione portata avanti “a tutti i costi” o anche della soddisfazione delle sue pretese, a prescindere dal rapporto, che invece sembra

non avere rilevanza alcuna. Piuttosto è facile che la trattativa di posizione non arrivi neanche a soddisfare adeguatamente gli interessi

in gioco e ciò dipende dal non aver prestato la necessaria attenzione alle questioni soggettive, come la contrapposizione totale

dimostrerebbe. Invece, proprio da queste evidenze deriva che la questione soggettiva è legata al problema oggettivo, perché ciascuno

vede la negoziazione dal suo punto di vista, manifestato dalle prese di posizioni o dalle questioni di principio.

E’ logico che ogni parte punta, comunque, più facilmente il vantaggio personale che verrebbe dalla soddisfazione dei propri

interessi, rispetto al punto di vista dell’altro che, inizialmente, può essere esattamente all’opposto e solo nel corso del negoziato può

diventare un approccio congiunto. Inoltre, anche in perfetta buona fede, ogni parte può facilmente confondere le proprie percezioni

soggettive con la realtà, come è facile verificare in qualsiasi processo comunicativo bidirezionale, dove spesso il messaggio

decodificato dal ricevente non corrisponde a quello codificato dall’emittente. In tali casi è facile fraintendersi e creare malintesi che

rafforzano i pregiudizi sulle intenzioni degli altri, i quali possono essere visti come approfittatori o poco inclini a fare concessioni per

risolvere il problema; tutto ciò allontana dall’accordo, perché crea un “circolo vizioso” di reazioni e controreazioni, basate

principalmente sulle percezioni e sui pregiudizi, per giunta non sempre fondati sulla realtà. E’ per questo che bisogna separare la

questione soggettiva da quella oggettiva e, sopratutto, non cercare di raggirare la questione del rapporto con delle concessioni

materiali. La questione soggettiva va affrontata in modo corretto, quindi sapendo gestire anche l’emotività propria ed altrui, sapendo

comunicare e utilizzare la percezione fondata su dati reali, specialmente verificata assieme all’altra parte, per non incorrere in

interpretazioni aberranti e fuorvianti.

Dell’emotività si è già avuto modo di parlare affrontando la questione dei conflitti: non è detto che i due negoziatori siano

specialisti in psicologia, ma chiunque si rende conto del peso che hanno le emozioni nelle discussioni, specialmente quelle

caratterizzate da una certa contrapposizione; il problema è che, spesso, non sapendo come gestirle, si preferisce arrivare corazzati

piuttosto che aperti, diffidenti piuttosto che fiduciosi. Il suggerimento che può essere saggio seguire è che, innanzi tutto, si

riconoscano e si comprendano le proprie emozioni, sia prima che durante il negoziato, cercando anche di capire quelle altrui; può

essere utile, a tal proposito, focalizzare il proprio stato d’animo e tentare di descrivere quello altrui. Quindi si può risalire alle cause

di queste emozioni e di questi stati d’animo, e si può cercare di esplicitare queste emozioni verso l’altra parte, anche perché le

emozioni inespresse possono talvolta emergere senza il controllo della razionalità, con scatti d’ira o con espressioni che, al di là della

mala creanza, dimostrano un grande potenziale distruttivo. Chiaramente, non sempre avviene allo stesso modo, ma, in genere, il

sollievo psicologico che si prova anche nella semplice espressione delle proprie aspettative o paure o scuse compensa

abbondantemente dei rischi di dimostrarsi fragili o irascibili, ingenerando reazioni a catena con l’altra parte.

Le regole fondamentali di una buona interazione soggettiva sono tanto ovvie quanto poco applicate: ciascuna parte dovrebbe essere

capita e non tanto per persuadere l’altra parte; ognuno dovrebbe poi ascoltare attentamente quanto l’altro dice e non pensare solo al

proprio discorso o a come confutare puntualmente tutte le affermazioni altrui; infine si dovrebbe essere entrambi pronti a chiarire il

significato di ogni espressione dubbia e non aver timore di chiedere conferma di quanto apparentemente compreso. Queste attenzioni

non solo consentono a ciascuno di capire meglio, ma sicuramente danno all’altra parte l’impressione di essere compresa e legittimata

nel proprio punto di vista, anche se non condiviso dall’altro. E’ molto importante, inoltre, evitare di esprimere e condannare quello

che ciascuno pensa dell’altro; semmai, se proprio serve al negoziato, meglio chiedere apertamente oppure esprimere quello che è

l’impatto dell’altrui comportamento sulla persona che lo riceve: ciò consente anche uno sfogo di emozioni, come prima descritto, e

non fa sentire l’altra parte sotto accusa e nella necessità di difendersi. Infine è buona norma saper sdrammatizzare con una battuta

ironica un momento difficile, se si è in grado di farlo.

Poi bisogna considerare tutto il mondo delle percezioni, perché si può dire che la realtà oggettiva è davvero difficile da guardare,

piuttosto la percezione della realtà di ciascuna parte è quella che determina e definisca la trattativa contrattuale o conflittuale. Un

ottimo esercizio consiste nel mettersi nei panni dell’altro, inevitabilmente lasciando i propri e consentendo così uno spostamento, che

allarga la propria percezione ed evita di bloccarsi in essa: ad ogni modo, comprendere la percezione altrui non significa affatto

condividerla, ma almeno si progredisce entrambi, arricchendosi di una visione e di un punto di vista diversi. Oltretutto si possono

“smontare” delle percezioni, che ciascuno fonda sui propri timori, sgombrando anche clamorosamente dei pregiudizi su quelle che

sono le presunte intenzioni altrui: l’esplicitazione e la condivisione delle percezioni possono non solo sgombrare il campo da giudizi

affrettati o infondati ma far intravedere terreni omogenei di intesa, oppure questioni che all’altra parte interessano particolarmente e

potrebbero costituire altrettanti oggetti di ulteriore scambio. Se poi si sa di essere già oggetto di un pregiudizio, si può chiaramente

esorcizzare tale percezione comportandosi in modo opposto al pregiudizio stesso. Infine la percezione ha a che fare con il mondo di

valori e di priorità che ciascun negoziatore porta con sé e che è importante tutelare nella soluzione, perché la stessa poi, nella sua

realtà, non vada a cozzare con i principi fondamentali di ciascuno, cosa che renderebbe estremamente fragile e vulnerabile l’accordo

finale.

Sicuramente costruire, mantenere o recuperare un buon rapporto con l’altra parte è un aspetto fondamentale di un buon processo e

risultato negoziale, sia per conseguire e soddisfare gli interessi per le quali le parti stanno negoziando, sia come interesse in quanto

tale, anche se inteso in senso lato: infatti una buona relazione con l’altra parte, non solo permette di conseguire più facilmente gli

obiettivi “quantificabili” di ciascuno, ma soddisfa pure dei bisogni più profondi, dai bisogni relazionali a quelli di stima per le proprie

qualità espresse nel lavoro o nella vita quotidiana. Senza contare poi che, spesso, le trattative o le negoziazioni relative alla soluzione

di controversie si manifestano nel contesto di rapporti continuativi, nei quali si è già negoziato e si tornerà a negoziare in futuro, per

cui si potrà trarre insegnamento dalle esperienze passate e fare tesoro delle attuali per il futuro. Tranne rari ed estremi casi, i rapporti

fra parti che sono caratterizzati dalla permanenza e dalla reciproca comprensione non possono che far bene, da un punto di vista

psicologico o economico o da entrambi, quindi possono a ben ragione costituire un obiettivo delle negoziazioni: l’importante è tenere

separato l’aspetto soggettivo da quello oggettivo e trattare la questione della relazione in modo consono e appropriato, e le questioni

oggettive sulla base di standard esterni e criteri che saranno esaminati nel prossimo paragrafo.

Basarsi su criteri e standard oggettivi.

Come è giusto che la questione soggettiva, relativa al rapporto con l’altra parte, vada gestita con strumenti adeguati e con il giusto

approccio, allo stesso modo la questione oggettiva, che si riferisce a ciò che - fra gli interessi in gioco - è quantificabile o misurabile,

va affrontata in modo coerente, secondo dei riferimenti consoni. Chiaramente va esclusa la trattativa di posizione, che prende come

parametro esclusivamente la volontà di ciascuna parte e la sua valutazione di quanto si sta negoziando e dei propri interressi da

soddisfare: per quanto oggettiva, è sempre “di parte”. Bisogna piuttosto cercare dei riferimenti esterni, indipendenti dalla volontà di

ciascun negoziatore, in base ai quali poter parametrare la negoziazione e l’efficienza ed efficacia dell’eventuale accordo, sia agli

occhi della parti che hanno partecipato agli incontri, sia dei loro terzi referenti. L’importante è che si tratti di criteri o standard che

siano riconoscibili e condivisibili; si potrebbe parlare persino di principi, che in tal caso sono ben altro che le singole “questioni di

principio”, altamente soggettive ed opinabili, semmai principi universali, quindi condivisi dai più.

Chiaramente può capitare che sia una delle parti ad introdurre o, quantomeno, a proporre tali criteri o unità di misura; l’altra parte

non dovrebbe avere problemi ad accettarli, se è in buona fede e se gli standard sono riconosciuti o riconoscibili; se li rifiutasse, ciò

potrebbe essere un indizio che fa comprendere la sua scarsa volontà di raggiungere un accordo o concludere la trattativa in modo

amichevole. Una parte potrebbe anzi ricorrere a pressioni o minacce o porre la questione sulla base della fiducia: in tali casi, il

negoziatore che propone criteri esterni può “tenere duro”, perché non sta difendendo alcuna posizione propria; ma, se non si riesce a

riportare la discussione su una base equa e convincente, è senz’altro meglio pensare alla migliore alternativa all’accordo negoziato,

oppure a non concludere nessun accordo. L’altra parte potrebbe invece proporre altri standard di riferimento, cosa perfettamente

legittima, nel qual caso bisognerebbe procedere ad una breve pre – negoziazione sui criteri da adottare, sempre tenendo presente che,

per essere tali e utili alla negoziazione, i criteri devono provenire dall’esterno ed essere comunque condivisibili, nel qual caso sono

anche convertibili (se, ad esempio, un negoziatore vuole ricondurre tutto al valore del dollaro e l’altro al valore dell’euro, possono

anche essere mantenuti entrambi i parametri, semmai quello che si deve decidere è il giorno o il momento di riferimento per il tasso

di cambio, che è parametro oggettivo di conversione). In ogni caso, si può sempre inquadrare il problema come una ricerca

congiunta, delle unità di misura, rimanendo sempre disponibili alla corretta comprensione di quanto proposto dall’altra parte, perché

se il criterio è davvero oggettivo non lo si può confutare per una “presa di posizione”.

Se si riesce a fondare la negoziazione sui parametri di riferimento standardizzati, ne potranno beneficiare le parti che stanno

contrattando o cercando di raggiungere una transazione, perché nessuna dovrà cedere a pretese altrui, ma entrambe si riferiranno a

qualcosa di esterno; in ogni caso ne trarrà giovamento anche il procedimento negoziale, perché si perderà molto meno tempo, avendo

un punto di riferimento valido per entrambi e non lo sterile scontro di una volontà contro l’altra, sulla base delle proprie valutazioni.

Inoltre a beneficiarne sarà anche l’eventuale accordo raggiunto, che riceverà forza non solo dalla soddisfazione o dalla salvaguardia

degli interessi in gioco, ma anche dal fatto di rispondere a dei requisiti esterni alla negoziazione stessa, verificabili anche da terzi, per

cui nessun negoziatore si potrà sentire poi trattato ingiustamente e sarà meno propenso ad eludere l’accordo raggiunto, anche se deve

rendere conto a persone che non partecipano direttamente alla negoziazione. L’equità è uno dei metodi più frequentemente utilizzati,

nel senso di porre tutte le parti in una situazione di pari opportunità e di equilibrio e la reciprocità è la “prova del nove” dell’equità.

Quando c’è qualcosa da dividere, i modi migliori sono quelli basati anche sul buon senso, come il tirare a sorte, fare a turno oppure

lasciare che un negoziatore faccia le parti e l’altro scelga per primo; e poi c’è sempre la possibilità di ricorrere al terzo, sia esso un

arbitratore, un conciliatore/mediatore o un arbitro.

Inventare soluzioni vantaggiose per entrambi

Il fine di una trattativa contrattuale o di una negoziazione per concludere una controversia è la soddisfazione o la salvaguardia

congiunta degli interessi delle parti coinvolte. Ma tale risultato può avere diversi livelli di ampiezza, dovuti sia alla capacità dei

negoziatori di chiarire a se stessi ed all’altra parte i reciproci interessi, sia alla capacità di non sprecare nulla di quanto è in gioco, anzi

di “ingrandirlo prima di dividerlo”, nei limiti del possibile. Però, tranne rare eccezioni, si è molto sospettosi verso le novità e le si

sottopone a molte più critiche di quanto non si faccia per le cose già note, specialmente in situazioni di negoziazione, dove la stessa

presenza dell’altra parte potrebbe indurre a stare comunque maggiormente all’erta, spesso soggiacendo al pregiudizio che ciascuno

voglia ingannare l’altro, oppure semplicemente nel timore di fare una brutta figura o di esporsi eccessivamente con le proprie

proposte.

Superato il rischio di essere eccessivamente critici o pregiudizievoli nei confronti delle novità, prima di decidere bisognerebbe

essere abbastanza aperti da generare diverse opzioni creative, che riescano a soddisfare o salvaguardare gli interessi in gioco, prima

di decidere; ma anche questo non è affatto facile, perché non si è abituati a inventare, piuttosto si preferisce rifarsi a quanto già

sperimentato. In particolare, in una negoziazione è facile bloccarsi sulla divisione di quanto è sul tavolo, per cui, se si tratta di una

qualsiasi quantità, dando per scontata che sia fissa, quanto più ne otterrà una parte, tanto meno ne avrà l’altra. Infine non bisogna

rimanere chiusi alla prospettiva altrui, pensare che la risoluzione di eventuali problemi derivanti dalla stipulazione o implementazione

dell’accordo siano solo problemi dell’altra parte. Infatti, come detto più volte, la soddisfazione degli interessi deve essere congiunta

per entrambi i negoziatori, altrimenti non si è più nel campo della negoziazione, ma delle imposizioni o “cessioni senza riserve”.

Allora le opzioni che si sviluppano non possono essere solo modi unilaterali di soddisfare o salvaguardare i propri interessi, ma al

contempo devono soddisfare o salvaguardare gli interessi dell’altra parte, quindi essere opzioni bilaterali.

Per inventare soluzioni, si possono seguire alcuni semplici consigli. Innanzi tutto separare il momento dell’invenzione da quello

della selezione delle opzioni, per arrivare quindi alla decisione; infatti, separando tali momenti, si potrà creare liberamente all’inizio,

quindi in un secondo momento sottoporre a critica quanto elaborato in un secondo momento, da cui potrà discendere una buona

soluzione finale. Il momento della produzione delle idee creative (brainstorming, per utilizzare un termine anglosassone), deve essere

caratterizzato dalla massima libertà possibile, per cui le parti non dovrebbero subire critiche distruttive neanche per idee

estremamente originali o apparentemente irrealizzabili. Se questo procedimento fosse facilitato da un animatore, sarebbe sicuramente

più facile ed efficace, perché stimolerebbe le parti a produrre quante più idee possibili, anche le più bizzarre, perché comunque utili

per mettere in moto la creatività, normalmente latente: l’animatore potrebbe chiedere alle parti di coinvolgere anche i terzi referenti,

affinché un gruppo di partecipanti più numeroso possa produrre ancora più idee.

Chiaramente il tema del brainstorming sarebbe l’oggetto della negoziazione o comunque i diversi modi di soddisfare o di

salvaguardare gli interessi delle parti negoziali; il clima e l’ambientazione dovrebbero essere quanto più informali possibili, proprio

per uscire dai soliti rigidi schemi e stimolare al massimo la creatività; alcune utili idee possono essere quello di stare seduti in

cerchio, oppure tutti davanti al problema, simboleggiato in qualche modo di fronte al gruppo. L’unica regola da rispettare sarebbe

quella di bandire la critica verso le idee che vengono prodotte e trascritte su un pannello dove tutti possano leggere il prodotto

tangibile di questa realizzazione collettiva. Una volta finita la fase di libertà creativa, si potrebbe procedere ad una prima selezione

delle idee più promettenti e realizzabili, in modo da perfezionarle ed implementarle ulteriormente nella loro concreta attuabilità,

lasciando poi alla fase finale la scelta della soluzione migliore fra le opzioni più promettenti. Ovviamente le diverse opzioni potranno

avere diversi gradi di appetibilità, ma le negoziazioni possono procedere anche per fasi provvisorie, che in futuro diventeranno

definitive oppure con accordi parziali che diventeranno globali o, infine, situazioni di prova che, verificate positivamente, potranno

assumere il carattere della definitività. Per poter poi decidere fra le diverse opzioni, si tornerà ad analizzare gli interessi di base, ma

anche altri interessi, magari non direttamente coinvolti nel problema iniziale, che sono entrati in campo nel corso della discussione

creativa, come gli interessi comuni fra le parti o quelli complementari, vera chiave di volta per la soluzione.

Come trattare con i negoziatori difficili.

Dopo la descrizione di situazioni nelle quali i negoziatori cercano in modo amichevole di evidenziare i reciproci interessi, di

valutare le rispettive alternative, di combinare creativamente le possibili opzioni di soluzioni congiunte, bisogna considerare l’ipotesi

in cui, nel corso del negoziato, una delle due parti sia ostinatamente ferma nelle proprie posizioni, cerchi solo di massimizzare il

proprio guadagno, attacchi frontalmente l’altra parte, insomma si comporti da negoziatore difficile. Si potrà presentare il caso in cui

la parte che dimostra una maggiore attitudine negoziale riesca a mantenersi calma e coerente con il proprio obiettivo di perseguire la

soddisfazione o la salvaguardia dei propri interessi assieme e non contro l’altra parte, per cui questa costruttiva ostinazione e la forza

derivante dalla buona fede potranno alla fine avere la meglio e convincere la parte difficile. Potrebbe però accadere che tale tattica

non funzioni o la parte che la mette in atto non riesca a sostenerla oltre un certo limite, in mancanza di cambiamento altrui. In tal caso

non è comunque consigliabile rispondere e controbattere “occhio per occhio”, ma piuttosto cercare di deviare gli attacchi o le rigidità

altrui, usando tale forza per risolvere la questione: è quello che i negoziatori di Harvard chiamano jujitsu negoziale.

Sicuramente molti hanno fatto l’esperienza che la contrapposizione dura, il ribattere ostinatamente a quanto affermato dagli altri, il

chiudersi nelle reciproche posizioni non porta ad un accordo: o fa esplodere il conflitto (e non è detto che sia sempre male) o tutto

rimane com’è, con un’aggiunta di astio e di sentimenti negativi reciproci. Infatti l’abilità sta nel non respingere l’eventuale attacco

subito, non controbattere a quanto di rigido viene espresso dall’altra parte, non reagire allo stesso modo a quanto proviene da un

negoziatore difficile, anche se umanamente è la cosa più ovvia e, talvolta, apparentemente consigliabile. L’abilità sta nello schivare

quanto di negativo sta arrivando dall’altra parte e dirigere tale forza verso la soluzione del problema o verso l’accordo che entrambe

le parti, anche se in modi tanto diversi, stanno cercando di raggiungere, come in molti movimenti delle arti marziali. Quindi, se una

parte è rigida nella propria posizione, invece di attaccarla in quanto tale, si potrebbe cercare di vedere quale interesse o bisogno la

motivano, la qual cosa potrebbe risultare utile anche alla parte che si ostina in quella posizione: in fondo, fino a quando la parte

difficile non ha chiarito a se stessa quali sono gli interessi ed i bisogni che la motivano, potrebbe anche essere sinceramente convinta

che la questione di principio sia l’unica in grado di tutelarla e degna di essere portata avanti.

Allo stesso modo, la parte che riesce più spontaneamente ad avere un atteggiamento negoziale costruttivo potrebbe non solo non

difendere a spada tratta le proprie idee, che magari corrispondono a dei reali ed inconfutabili interessi e bisogni da soddisfare o

salvaguardare, ma addirittura potrebbe sollecitare critiche all’altra parte; così, se si dimostrano infondate o insostenibili, la parte

difficile potrà essere indotta a ripensare alla sua contrapposizione, mentre se le critiche fossero fondate, la parte più “facile” non

dovrebbe avere problemi ad accettarle e ad agire di conseguenza. Lo stesso si potrebbe dire nel chiedere consigli o suggerimenti che,

oltre a coinvolgere chi si dimostra difficile magari per timore, potrebbero risultare di giovamento alla parte che le sollecita, credendo

in buona fede di poter migliorare quanto proposto; se l’altra parte, quella “difficile”, fosse recalcitrante, le si potrebbe proporre il

metodo della reciprocità, chiedendole cosa penserebbe di fare se le parti fossero invertite, mettendosi cioè nei panni altrui,

onestamente. E, quando si chiede un consiglio, un suggerimento o si pone una domanda di qualsiasi tipo, non incalzare subito con

altre domande o addirittura con ipotesi di risposte che già ci si aspetta; è sicuramente meglio lasciare all’altra parte il tempo di

riflettere e rispondere adeguatamente; ciò oltretutto evita di inflazionare il valore delle domande stesse, che inconsciamente vengono

svalutate se colui che le pone le travolge subito dopo con altre affermazioni o ulteriori questioni.

Si potrebbe presentare il caso in cui uno dei due negoziatori non solo sia difficile, ma giochi in modo sleale, usando tattiche e

trucchi ai limiti dell’inganno o dell’approfittamento. In questi casi, l’altra parte potrebbe non rendersene conto oppure, appena le

sorge il dubbio che ciò stia accadendo, potrebbe tacere e sopportare, sperando di aver capito male o, se la cosa è evidente, che non si

ripresenti più. Ma potrebbe reagire allo stesso modo, se non peggio, arrivando il più delle volte al fallimento del negoziato, specie se

è convinta che stia subendo un trattamento ingiusto e scorretto e che non ci sia possibilità di risollevare le sorti della trattativa. Anche

qui si può tentare la via dell’aggiramento della scorrettezza, salvaguardando se stessi ed il negoziato, a meno che la cosa non si

riproponga, e allora il fallimento sarà inevitabile. Si potrebbe smascherare una tattica sleale, senza offesa diretta all’altra parte, anzi al

limite utilizzando l’ironia: chi la subisce e se ne accorge può candidamente affermare quali sono gli effetti che la tattica sta

producendo, ad esempio un sentimento di frustrazione o di irritazione, oppure il condurre il negoziato su una strada senza uscita.

Riproporre che la trattativa si basi sugli interessi, valuti correttamente le alternative di ciascuno e riporti il negoziato sui binari di

criteri oggettivi e standard esterni può servire a verificare con sicurezza se la parte in questione stia adottando una determinata tattica

per mettere in difficoltà l’altra oppure no.

Ci sono negoziatori che tentano di ingannare gli altri, modificando artificiosamente affermazioni o persino realtà tangibili e magari

si irritano, se si mette in dubbio la sua fiducia: in questo caso, verificare direttamente le affermazioni o le realtà in discussione è il

modo migliore di riportare il discorso su un piano di correttezza, smentendo o confermando quanto in dubbio. L’inganno potrebbe

riferirsi anche all’autorità che un negoziatore possiede per portare a termine una determinata trattativa, mentre poi alla fine si scopre

che colui che ha negoziato era solo un portavoce di qualcun altro, al quale deve poi riferire per concludere o meno l’accordo: in tal

caso, informarsi preventivamente è il modo più immediato per sedere al tavolo negoziale, sicuri di portare a casa comunque un

risultato definitivo, anche fosse negativo. Inoltre, se si ha un ragionevole dubbio sulla reale volontà dell’altra parte di impegnarsi fino

in fondo in quanto stipulato nell’accordo, la “prova del nove” potrebbe consistere nella proposta di inserire una penale o, comunque,

un qualsiasi elemento che dissuada dall’inadempimento, in modo che sia immediatamente verificato se la parte che manifesta

intenzioni dubbie sia o meno in buona fede; se lo è, non avrà alcun problema ad accettare simili richieste, perché non sono applicabili

in caso di adempimento.

Ci sono poi negoziatori che tendono a stressare gli altri, fino all’esaurimento, al momento in cui si è disposti ad accettare molte

condizioni sfavorevoli pur di portare a termine la trattativa; ci sono negoziatori che usano le minacce: lasciare il tavolo negoziale,

rifiutarsi di continuare a negoziare, porre delle condizioni limite, tipo “prendere o lasciare”, specialmente se hanno una buona

alternativa e immaginano non sia altrettanto per l’altra parte; ci sono, infine, quelli che partono da richieste estreme o che continuano

a pretendere sempre di più, in un crescendo senza fine, che riporta alla situazione dello stress ed alla possibile resa dell’altra parte,

specialmente se costretta a negoziare dalla necessità di non avere valide alternative altrove. In tutti questi casi la risposta più corretta

è il parlarne, cercare di esplicitare quali sono gli interessi o i bisogni alla base di tali atteggiamenti, sempre senza attaccare

direttamente le persone, le quali però si renderanno conto che il loro atteggiamento non consente di proseguire una negoziazione

degna di tale nome e che, anche se la parte “debole” dovesse accettare l’accordo, questo non sarebbe fondato su basi solide e

durature.

In tutti i casi si può sempre prendere una pausa di riflessione, che è quanto di più sano possa concedersi una parte che viene

attaccata da un’altra, e si può sempre riconsiderare la possibilità di non giungere ad alcun accordo, se il suo costo è troppo elevato

rispetto ai benefici. Alla fine, se si tratta di una trattativa contrattuale pacifica, chi ritiene di non avere convenienza ad impegnarsi con

una parte difficile, meglio che non lo faccia, oppure sia consapevole del prezzo da pagare che, per raggiungere la soddisfazione

dell’interesse che gli sta a cuore (e che evidentemente nessun altro gli consente di raggiungere). Se invece si tratta di una

negoziazione per la soluzione extragiudiziale di una controversia, quindi anche per salvaguardare dei legittimi interessi che in tal caso

verrebbero minacciati, forse è il caso di rivolgersi alla giustizia ordinaria.