Liberalismo e multiculturalismo: convivenza o conflitto?
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In: Monceri, F. (a cura di) Diversità e identità nelle società multiculturali complesse, ETS, Pisa 2011
Liberalismo e multiculturalismo: convivenza o conflitto?
Antonio Masala
IMT Alti Studi, Lucca
Che le nostre società siano divenute, e siano destinate a divenire sempre più, multiculturali, è un
fatto che va acquisito, indipendentemente che esso ci piaccia oppure ci preoccupi. Per questo
motivo non solo il multiculturalismo1 è destinato a rimanere a lungo uno dei più importanti
argomenti del dibattito culturale e politico contemporaneo, ma pare anche essere uno di quei
grandi temi capaci di rappresentare un ineludibile banco di prova sia delle teorie politiche sia
delle esperienze politiche. La Gran Bretagna si candida senza dubbio, per la sua storia culturale e
politica, a vagliare l’efficacia della soluzione liberale ai problemi del multiculturalismo,
soprattutto dopo le dichiarazioni del premier conservatore David Cameron sul fallimento del
multiculturalismo e la sua proposta di sostituirlo con un “liberalismo attivo e muscolare”.
Multiculturalismo e caso britannico
Quello britannico, sin dalle sue origini, è un caso di per se originale e interessante per quanto
riguarda la convivenza di popoli diversi. La Gran Bretagna raggiunge una matura forma statuale
vari secoli orsono, tanto da essere annoverata tra gli stati più antichi, ma ha delle caratteristiche
originali che tuttora la contraddistinguono da altri grandi stati occidentali. Lo stato britannico
venne infatti costituito dall’unificazione sotto una stessa corona di due regni distinti, quello
inglese e quello scozzese, a cui vanno aggiunti altri due popoli che possono a buon diritto
rivendicare una loro diversità, i gallesi e gli irlandesi. Se è vero che la pluralità di popoli diversi è
una caratteristica comune di molti degli stati moderni, la peculiarità di quello che dal 1800 viene
chiamato Regno Unito consiste nel fatto che in esso l’integrazione forzata fu tentata in misura
decisamente minore che in altri paesi, e che i popoli britannici erano legati tra loro soltanto dal
rapporto di lealtà verso la corona. È il modello del Commonwealth, che è prima di tutto un’idea di
giustificazione e fondazione di una comunità politica e dunque di un governo, del quale
1 Per un’attenta disamina delle tematiche e dei problemi (irrisolti) delle principali teorie multiculturalistiche si veda Flavia MONCERI, Ordini costruiti. Multiculturalismo, complessità, istituzioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
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appunto si giustifica l’esistenza per la sua capacità, in contrapposizione ai governi autoritari, di
salvaguardare e promuovere il bene comune. Negli anni dell’impero il modello del Commonwealth
si estese alle colonie, e la caratteristica del colonialismo britannico, differente se non opposto a
quello francese, fu quella di non avere (o avere meno) una volontà assimilatrice, di non tentare
di sopprimere (o farlo meno, comparativamente ad altre esperienze coloniali) differenze
etniche, religiose, culturali e quant’altro. Quando le vestigia dell’impero si trasformarono in
immigrazione dalle ex colonie questo modello dimostrò una relativa solidità. Il governo
britannico sembrò infatti riuscire, se non del tutto almeno relativamente meglio rispetto ad altri
stati, ad evitare la confusione tra nazionalità (o etnia) e cittadinanza, e a dare una sorta di
fondamento “liberale” alla convivenza di popoli e culture diverse in uno stesso territorio.
In questo senso l’esperimento britannico è stato davvero per tanti aspetti multiculturale,
e assai differente dai due principali, e tra loro diversi, modelli “assimilazionisti” di Francia e
Stati Uniti. Il modello francese ha tentato di cancellare le diversità culturali e di eliminare le
appartenenze etniche e religiose, cercando di rendere tutti “francesi”, di naturalizzare tutti coloro
che vivono nello stato francese. La sfera pubblica è la sfera della condivisione (più o meno
forzata) di valori, che sono i valori della tradizione francese, e che sono in parte anche i valori
della tradizione liberale, ma sempre filtrati da uno stato centralista e “identitario”. Il risultato è
un processo di integrazione che tende a cancellare identità etniche e culturali a favore di una
società omogenea e “francese”. Il modello americano è il modello del cosiddetto melting pot, del
crogiuolo di razze e popoli che si fondono insieme per creare qualcosa di nuovo ed omogeneo,
per dar vita ad una comune cultura americana. A differenza del modello francese “l’uomo
americano” a cui si tende non è un qualcosa di preesistente, di legato a una storia e a una
cultura, ma è appunto il risultato nuovo della fusione di tante diversità. Un esperimento di quel
tipo era probabilmente impensabile in stati di antiche tradizioni e culture, come quelli europei,
mentre negli Stati Uniti era facilitato non solo dal fatto che si trattava di uno stato recente e
nato dall’immigrazione, ma anche dalla alta mobilità economica e sociale del sistema americano.
Tuttavia, nonostante la rilevante diversità rispetto al modello francese, anche il melting pot è un
modello basato sull’assimilazione, e sull’imposizione di una serie di valori che devono diventare
condivisi; la “americanizzazione” non è un’opzione, ma un dovere per chiunque voglia vivere
negli stati uniti.
Entrambi i modelli, che nel loro divenire storico hanno avuto alterni successi e difficoltà,
appaiono oggi in crisi per ragioni diverse. Il modello americano sembra essersi rivelato incapace
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di risolvere il problema dell’integrazione degli afro-americani, e il paradigma del “nuovo” uomo
americano melting pot sembra assomigliare un po’ troppo a quello dominante degli WAPS (White
Anglo-Saxons and Protestans). Il modello francese vede invece oggi aggravarsi i problemi
relativi all’imposizione di quello che è uno dei suoi pilastri: la laicità. La vita delle consistenti
comunità mussulmane (composte da oltre 4 milioni di persone) dimostra come la concezione
della religione come un fatto privato, dunque esente di conseguenze per la vita pubblica, sia
tutt’altro che realistica, e come il negare il problema, o il cercare di risolverlo con l’imposizione
di regole contrarie alla religione, possa avere nel breve periodo conseguenze di ordine pubblico,
e nel lungo lo spiacevole effetto di rafforzare il radicalismo islamico.
A differenza dei modelli assimilazionisti il modello britannico ha tollerato la presenza di
comunità etniche e religiose tra loro diverse, accettando il mantenimento della loro identità
culturale e dunque accettando l’idea che formassero delle comunità con dei diritti più o meno
riconosciuti. Negli anni di governo di Tony Blair questo approccio è diventato la sfida
consapevole di una società in cui popoli di etnie e religioni diverse possono convivere sulla base
di diritti comuni, e senza rinunciare ai propri principi, valori, cultura, tradizioni. Dopo gli
attentati dell’11 settembre nella (culturalmente) vicina America anche questo modello ha
iniziato a sentirsi inadeguato e minacciato, e anche in Gran Bretagna non sono mancati episodi
che hanno fatto gridare alla crisi, se non anche al “decesso” del modello multiculturale.
L’episodio forse più traumatico è stato quando, il 7 luglio del 2005, quattro cittadini britannici di
fede islamica si sono fatti saltare in aria nella metropolitana di Londra, provocando 52 morti. Il
fatto ha riproposto agli occhi di molti la necessità di cambiare strada e proporre un processo di
coesione nazionale basato sull’assimilazione di valori comuni, rinnegando il tentativo di
assimilazione rispettosa di identità e valori culturali differenti. In questo senso può essere letto il
discorso dell’attuale premier conservatore David Cameron2, il quale, guardando in particolare
alle comunità islamiche, ha dichiarato fallite le politiche multiculturali dell’epoca Blair e ha
invitato ad abbandonare la “tolleranza passiva”. Secondo Cameron il terrorismo si dovrebbe
prevenire non solo proscrivendo le organizzazioni che incitano al terrorismo, ma anche
escludendo dalla scena politica ed economica quelle associazione volontaristiche che non
mostrano di condividere i principi e i valori liberali; si dovrebbe dunque togliere i finanziamenti
2 Il discorso, che ha richiamato grande attenzione anche a livello internazionale, è stato tenuto in occasione di una conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera il 5 febbraio 2011 e si può leggere su http://www.newstatesman.com/blogs/the-staggers/2011/02/terrorism-islam-ideology. Esso fa per certi versi seguito a quello tenuto dal cancelliere tedesco Angela Merkel nell’ottobre del 2010 in cui si dichiarava fallita “L’idea che persone di diversa estrazione culturale possano vivere fianco a fianco”.
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pubblici a tutte quelle organizzazioni volontaristiche del mondo islamico che non fanno nulla, o
poco, per combattere attivamente l’estremismo, e addirittura impedire loro di raggiungere gli
individui in istituti finanziati pubblicamente, come ad esempio le università e le prigioni.
Anche le organizzazioni islamiche dunque, per avere diritto di cittadinanza in Gran
Bretagna, dovrebbero essere convogliate verso il grande obiettivo di promuovere l’integrazione
sulla base della condivisione dei diritti umani universali, del principio dell’uguaglianza davanti
alla legge e dei valori della democrazia.3 Cameron propone dunque di (ri)costruire società e
identità nazionali più forti, capaci di imporre il dovere di imparare e rispettare quelle norme
etiche e giuridiche liberali, che fanno parte della tradizione della Gran Bretagna, e che stanno
alla base della democrazia; norme che vengono prima dei diritti “etnici” delle minoranze, i quali
non possono contrapporsi ad esse. Egli sembra insomma prendere di petto il vecchio problema
del rapporto tra liberalismo e relativismo, sciogliendo il nodo gordiano a favore di quello che
definisce un “liberalismo attivo e muscolare”, che non ha niente di relativistico e che è “intollerante”
nei confronti degli intolleranti. Un liberalismo in grado di “promuovere attivamente” valori
quali la libertà di parola, l’uguaglianza dei diritti e tra i sessi, il primato della legge, e dunque in
grado di far ruotare attorno ad essi la vita sociale.
Ora, se non si deve cadere nell’errore di pensare di poter analizzare i discorsi dei politici
come se si trattasse di pensatori politici, si deve però ammettere che una teoria politica va
valutata anche per la sua capacità di trovare soluzioni a problemi concreti, e dunque per la sua
capacità di essere “usata” dai politici. Qui si cercherà di argomentare come la teoria politica
liberale abbia delle soluzioni da proporre anche riguardo il problema del multiculturalismo, o in
generale della convivenza tra persone con valori, culture e religioni diverse, e lo si farà con
riferimento a quella che potrebbe essere considerata la sua matrice originaria, ossia quella difesa
del diritto di proprietà che ha caratterizzato il liberalismo britannico delle origini. Un
liberalismo “proprietaristico” che si era profondamente trasformato (se non anche snaturato)
durante il corso del Novecento e che venne rivitalizzato, sia pure in maniera talvolta ambigua e
contraddittoria, negli anni di governo della Thatcher.
Il cosiddetto thatcherismo è un caso particolarmente interessante per vari motivi, il primo
fra tutti è sicuramente legato al fatto che esso rappresenta uno dei pochissimi esempi in cui in
una democrazia matura si ha un forte cambiamento in senso liberale nella cultura politica di un
3 In modo simile Cameron si era espresso anche tre anni prima, in una conferenza del febbraio 2008 dal titolo Extremism, individual rights and the rule of law in Britain, consultabile on line: http://www.conservatives.com/News/Speeches/2008/02/David_Cameron_Extremism_individual_rights_and_the_rule_of_law_in_Britain.aspx
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intero paese, nella classe dirigente come nella popolazione. Talvolta si tende a ridurre la svolta
di quegli anni ad una serie di riforme economiche, come le liberalizzazioni e le privatizzazioni,
le quali indubbiamente cambiarono il volto del paese, ma che in realtà rappresentano una parte
marginale, se non addirittura un semplice strumento, di un cambiamento molto più ampio. Il
thatcherismo infatti rappresenta un cambiamento culturale, dei valori politici di riferimento,
prima e più che un cambiamento economico. Di questo sembrava essere perfettamente
consapevole la Thatcher stessa, che già nel 1976, dunque quattro anni prima di andare al
governo, disse: «Economy had gone wrong because something had gone wrong spiritually and
philosophically». Il thatcherismo fu, volle essere, consapevolmente, una rivoluzione nei valori
della società, tanto che la Thatcher fu l’unico politico britannico del Novecento ad avere un
“ismo” dopo il suo cognome, quasi ad indicare un’ideologia connessa alla sua leadership
politica. Il fatto che volesse rappresentare una rivoluzione nei valori della società ne fa
naturalmente un caso di studio interessante anche per i problemi del multiculturalismo, che
sono indubbiamente problemi connessi ai valori dominanti nella società. Ma prima di vedere in
cosa quella rivoluzione consistette è necessario capire perché fu una rivoluzione, ossia cosa
cambiò radicalmente e forse definitivamente; è insomma necessario fare un passo indietro e
guardare brevemente alla situazione politica precedente.
Il periodo politico che caratterizza la Gran Bretagna nel secondo dopoguerra, sino alla
fine degli anni Sessanta, è noto con il nome di Welfare Consensus. Il consenso politico, sia di
popolo che di classe dirigente, era basato su un ampio intervento dello stato nell’economia, nel
tentativo di promuovere il benessere generale. Le radici storiche si possono rintracciare nelle
politiche redistributive portate avanti da Lloyd George ai primi del Novecento,
nell’interventismo seguito alla crisi del ’29 e basato sulle teorie economiche di John Maynard
Keynes, nelle promesse di redistribuzione e creazione di un Welfare fatte duranti gli anni della
seconda guerra mondiale. Ma le radici “teoriche” di un tale consensus sono ancora più lontane, e
vanno ricondotte alla lenta trasformazione del liberalismo classico in una teoria politica diversa
e vicina per alcuni aspetti al socialismo. Descrivere le cause e le conseguenze di un tale
cambiamento sarebbe un operazione complessa, e comunque esulerebbe dagli obiettivi di
questa ricerca, tuttavia può essere utile indicare brevemente le tappe principali: il cambiamento
del concetto stesso di legge operato dagli utilitaristi4, l’idea che fosse possibile tenere distinta
4 Su questo si veda il classico Albert V. DICEY, Law and Public Opinion in England,1905; trad. it. Diritto e pubblica opinione nell’Inghilterra dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1997.
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produzione e redistribuzione della ricchezza5 e quella che fosse possibile superare il vecchio
concetto di libertà negativa con uno “positivo”6, consistente nel mettere in grado le persone di
raggiungere i loro obiettivi, cosa che naturalmente richiedeva l’intervento attivo del potere
politico. Questi sono forse i tasselli più noti, ma non certo gli unici, di una integrale
riformulazione del liberalismo in Gran Bretagna, operata da pensatori che si dichiaravano
liberali (e molto spesso nei loro intenti lo erano) ma che non si resero conto che questo loro
nuovo liberalismo rappresentava uno snaturamento e una negazione degli elementi portanti del
liberalismo classico.
In termini di cultura politica questo processo portò ad un enorme spostamento
dell’opinione pubblica a favore di un maggiore intervento dello stato in moltissimi ambiti della
vita sociale, e preparò il terreno a quel processo storico che ebbe il suo compimento negli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, nei quali il Welfare State fu edificato
dal governo laburista di Clement Attle, e non venne mai messo in discussione dai governi
conservatori che seguirono. Il sistema economico britannico si trasformò ben presto in un
sistema corporativo, basato sulla mediazione continua tra imprenditori e sindacati, con lo stato
a tentare di fare da mediatore e cercare di garantire come un diritto la piena occupazione
maschile. Con il tempo i sindacati acquisirono un potere smisurato, anche grazie al controllo
che erano in grado di esercitare sul partito laburista, e la conseguenza furono livelli salariali non
dettati dal mercato ma dai sindacati stessi, la quale cosa portò a tassi di inflazione elevatissimi e
ad una fortissima riduzione della competitività dell’economia britannica. Alla fine degli anni
Sessanta i costi del Welfare apparivano chiaramente insostenibili, il governo appariva incapace
di prendere decisioni senza l’avvallo dei sindacati e, anche a causa del potere di questi ultimi,
l’intero sistema politico appariva incapace di riformarsi. Tra gli analisti politici ed economici,
non solo britannici, si parlava ormai comunemente di una “British disease”, una “malattia”
britannica che era una vera e propria crisi della democrazia prima ancora che una crisi di
carattere economico, e la “malattia” consisteva anche nel fatto che nonostante la crisi fosse
sotto gli occhi di tutti, e nonostante si fosse consapevoli delle cause di tale crisi, nessuno dei
governi che si succedettero negli anni settanta fu in grado di affrontarla e risolverla.
5 Idea che si trova già in John Stuart Mill, Principles of Political Economy, 1848; trad. it. Principi di Economia Politica, Utet, Torino 2006. 6 Su questa idea, cara ai New Liberals come L. T. Hobhouse e T. H. Green, si tornerà più avanti. Qui basti ricordare che essa fu analizzata e rielaborata da Isaiah BERLIN in Four Essays on Liberty, Oxford University Press 1969; trad. it. Libertà, Feltrinelli, Milano 2005.
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Quello che la Thatcher riuscì a realizzare non fu solo una via d’uscita rispetto a quella
crisi, ma anche un enorme cambiamento culturale, quasi un ribaltamento, in soli undici anni e
mezzo di governo, di un consenso per l’interventismo statale e un discredito per il libero
mercato che si erano radicati dopo un profondo cambiamento culturale e politico durato quasi
un secolo. Ora si tenterà di analizzare in cosa questo cambiamento sia consistito e come sia
stato possibile realizzarlo.
Virtù, famiglia e proprietà. La “moralizzazione” liberale nella Gran Bretagna
thatcheriana.
Come si è accennato il thatcherismo fu innanzitutto un cambiamento culturale: la Thatcher
dichiarò in alcune interviste, e poi nelle sue memorie7, che la sua intenzione era quella di
ristabilire i “valori vittoriani” che avevano fatto grande la Gran Bretagna: lavoro duro, risparmio,
senso della comunità e conseguente inclinazione filantropica, fiducia in se stessi e nella capacità
di risolvere da se i problemi. Indubbiamente molte delle idee che lei aveva in mente erano dei
valori nell’età vittoriana, ma questa sua visione non era il frutto di una conoscenza storica
precisa. Lei stessa dichiarò di aver assimilato quei valori dalla sua famiglia, dalla sua “Victorian
grandmother” e dall’etica del lavoro trasmessagli da suo padre, un commerciante di una piccola
cittadina inglese. Si trattava indubbiamente di una visione idealizzata della realtà, ma anche di
una particolare combinazione tra valori puritani e quelle che forse si potrebbero chiamare, più
che valori, virtù borghesi.
La distinzione tra valori e virtù appare qui interessante e rilevante. Mentre il termine
valore sembra avere una connotazione, per così dire, “neutrale”, nel senso che possono essere
valori anche delle cose che non condividiamo, non comprendiamo appieno e che magari
riteniamo “nocive” per la collettività, il termine “virtù”, e più ancora “comportamento
virtuoso”, sembra sempre avere una connotazione fortemente positiva, rimandare a qualcosa
che ha conseguenze positive soprattutto a livello sociale. La rilevanza di questa distinzione
sembra da lungo tempo essere sottovalutata, e oggi si parla quasi sempre di valori, mentre il
termine virtù tende a scomparire.8 Nel linguaggio thatcheriano la distinzione tra valori e virtù
7 Margaret THATCHER, The Downing Street Years, HarperCollin, London 1993; trad. It. Gli anni a Downing street, Serling &Kupfer, Milano, 1993. 8 Osservazioni particolarmente interessanti a questo proposito si trovano in Gertrude HIMMELFARB, The De-moralization of Society. From Victorian Virtues to Modern Values, Vintage Book, New York 1996, in cui si trova anche quella che è forse la migliore trattazione di cosa siano i valori vittoriani e di come siano stati interpretati nel Novecento.
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non è sempre presente o chiara, ma in termini di contenuto è estremamente evidente il fatto
che ai valori vittoriani vengono, a differenza di altri valori, sempre attribuite caratteristiche
positive e conseguenze positive per la società. Per questo sarebbe opportuno definirli come
virtù (sociali) più che come valori. Forse questo non basta a sostenere che si possa riscontrare
nei discorsi della Thatcher una preferenza per una società unificata e omogenea e una
diffidenza per una società multiculturale (cosa che, peraltro, in un politico conservatore non
necessariamente dovrebbe stupire), ma indubbiamente pone un problema interessante.
Tornando alle cosiddette “virtù vittoriane”, o forse si potrebbe dire borghesi, è
interessante cercare di capire come esse fossero intese dalla Thatcher. Duro lavoro e
parsimonia (e dunque il non spendere più di quello che si ha, idea che fu alla base delle sue
politiche di bilancio quando era al governo), ma soprattutto quell’idea del “fare da se”,
sembrano anche essere le virtù di una certa visione dell’individualismo e del capitalismo, le virtù
di individui energici e attivi, con l’orgoglio di fare da soli senza dover chiedere allo stato di
aiutarli. L’unica richiesta rivolta allo stato da parte dei detentori di queste virtù era un quadro di
regole, in particolare quelle volte alla tutela e al rispetto della proprietà privata, che consentisse
di lavorare in condizioni di sicurezza e ordine. Questa era la visione tipica della tradizione
liberale, che vede nelle leggi l’unico bene comune di cui una società ha bisogno. Per la Thatcher
era anche una posizione autenticamente conservatrice, perché si trattava di ripristinare le antiche
libertà britanniche tutelate dal Rule of Law, il quale era stato abbandonato a favore
dell’ambizione socialista di governare secondo regole discrezionali e volte ad organizzare e
modellare la società.9
Uno dei problemi più interessanti è cercare di capire come sia possibile riuscire a cambiare i
valori di una società, o a ripristinare vecchi valori che serbavano superati. Se il tentativo della
Thatcher fu in parte fallimentare, è tuttavia innegabile che ottenne anche importanti risultati e
che un cambiamento radicale, e duraturo, nella cultura politica britannica si ebbe. Tale
cambiamento, al di là del fatto che lo si ritenga positivo o negativo, è oggi chiaramente
riconosciuto, e ciò che forse consente di valutane meglio l’ampiezza è il cambiamento non
tanto, o non solo, del partito conservatore, ma del partito laburista, che dopo le sconfitte subite
negli anni della Thatcher si trasformo in un partito decisamente molto più critico verso
l’interventismo statale e interessato al libero mercato. La domanda centrale è allora come sia
9 La distinzione teorica, conosciuta dalla Thatcher, tra un sistema politico nomocratico, che si limita a fissare “regole di condotta” e uno teleocratico, che invece elabora regole volte a realizzare quella che ritiene essere la felicità degli individui, si trova nelle opere di Michael Oakeshott e, pur con una terminologia diversa, di Hayek.
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possibile che la politica generi cambiamenti nell’abito dei valori, e per dare una spiegazione è
interessante analizzare il modo di operare della Thatcher. Come prima cosa va detto che non
tentò di realizzare un tale cambiamento con precise policy elaborate a quel fine. Ad esempio non
ci furono provvedimenti legislativi per riportare in vita le workhouse, che in Gran Bretagna
avevano funzionato sino al non lontano 1948, e non ci fu neanche l’abolizione di quella ampia
legislazione liberal che era stata realizzata negli anni Sessanta e che introduceva o semplifica
pratiche come ad esempio il divorzio o l’aborto.
Come si realizzò allora un tale cambiamento? Un primo interessante elemento da
analizzare è la retorica della Thatcher, che può essere riassunta in una delle sue frasi più celebri,
e criticate, secondo cui “la società non esiste”, perché ad esistere sono solo gli individui.10
Dietro questa frase, che indubbiamente si presta, cosa che puntualmente avvenne, ad essere
travisata e criticata, si celava la critica verso l’idea della “responsabilità sociale”, ossia dell’idea
che le negligenze e le colpe non fossero individuali, ma invece in qualche modo riconducibili
alle responsabilità di errori collettivi dell’intera società. Quello che si voleva riaffermare era
dunque la responsabilità individuale, sia in negativo - le colpe sono individuali e non sociali - sia
in positivo - ognuno è artefice del proprio destino e ha diritto ai frutti di ciò che riesce a
produrre con il proprio lavoro. Questo elemento di responsabilità individuale era il valore
(vittoriano o borghese che dir si voglia) che aveva reso grande la Gran Bretagna nel passato e
che ora doveva essere ricostituito. Per farlo la Thatcher costruisce un mito negativo, rappresentato
da coloro che, sposando la mentalità socialista e la sua idea di un “nanny state”, ossia di uno stato
che fa da balia perché davanti a sé non ha individui liberi e responsabili, ma creature bisognose
di aiuto e protezione, hanno distrutto quei valori e che hanno causato il declino della Gran
Bretagna. Una tale situazione è il risultato degli anni del consensus, delle politiche interventiste, sia
laburiste che conservatrici, le quali avevano fatto venire meno quelle virtù, e avevano ridotto gli
individui a una condizione di dipendenza nei confronti dello stato. Partendo da questa
interpretazione della storia britannica, il problema a cui la Thatcher si trovò di fronte era
dunque questo: come fare a reintrodurre quei valori vittoriani che erano stati spazzati via da
(almeno) trentacinque anni di quello che lei definiva socialismo e da quasi un secolo di
10 Questa idea è la base del cosiddetto individualismo metodologico, proprio di gran parte della tradizione del Classical Liberalism, e si trova chiaramente esposta in autori quali Ludwig von Mises (“Solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo esiste”) e Karl Popper (“La società non esiste indipendentemente dai pensieri e dalle azioni delle persone”). La Thatcher ricorda nelle sue memorie come quella sua frase, “la società è una nozione inesistente”, fosse stata spesso stravolta non citandone la seconda parte: “Esistono gli individui, uomini e donne, ed esistono le famiglie. Nessun governo può operare se non attraverso le persone, e le persone devono per prima cosa provvedere a se stesse”. The Downing Street Years, trad. it. cit., p. 530.
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modificazione in senso interventista della stessa teoria liberale? Come invertire quel processo
teorico e storico?
La risposta fu questa: i valori non potevano certo essere inculcati coattivamente dal
governo, ma ciò che il governo poteva fare era contrapporsi all’artefice del decadimento di
quelle virtù, la mentalità socialista appunto, e lo poteva fare cambiando completamente il
quadro in cui gli individui si trovavano ad agire, per indurli nuovamente a considerarsi artefici
del proprio destino e comportarsi di conseguenza. Questo significava non essere più il nanny
state, ma essere lo stato liberale che si limita a fissare il quadro di regole in cui gli individui sono
liberi di agire e cercare di realizzare il proprio benessere.
Ma se si guarda ancora alla teoria liberale vi è almeno un altro elemento importante che
la Thatcher fa proprio: l’idea del Classical Liberalism che libertà economica e libertà politica siano
inscindibili, e che non si può concepire l’una senza l’altra. La tesi che il momento della
produzione della ricchezza possa essere tenuto distinto da quello della distribuzione della
medesima ha radici lontane che affondano nella stessa tradizione liberale britannica, poiché a
sostenerlo era stato già John Stuart Mill. Questa idea, che in tempi recenti ha avuto in John
Rawls il suo principale rappresentante, era stata duramente contestata da Hayek, ed è proprio
facendo riferimento a lui che la Thatcher indica la restaurazione della libertà economica come un
passaggio indispensabile per restaurare la libertà stessa, senza aggettivi. A caratterizzare la visione della
Thatcher è poi “l’argomento morale” a favore del “competitive capitalism” e delle sue
istituzioni. Il suo obiettivo era più ambizioso e duraturo di quello di una semplice rinascita
economica, e anzi la rinascita economica, realizzata responsabilizzando gli individui, diventava
una sorta di grimaldello per ristabilire le vecchie virtù perdute. Alla luce di questo obiettivo va
letta l’azione economica dei suoi governi e in particolare le privatizzazioni fatte durante il suo
secondo mandato. Esse rappresentarono quello che fu definito il popular capitalism, ossia un
capitalismo diffuso con il quale, rendendo gli individui proprietari, li si poteva portare ad essere
indipendenti ed artefici del proprio benessere e del benessere nazionale.
Sono proprio le privatizzazioni e il popular capitalism a rappresentare il cuore pulsante del
programma thatcheriano, ed è la stessa Thatcher a mostrare come il loro significato vada ben
oltre l’aspetto economico e rappresenti una vera e propria visione della democrazia:
Our opponents would have us believe that all problems can be solved by State intervention. But
Governments should not run business. Indeed, the weakness of the case for State ownership has
become all too apparent. For state planners do not have to suffer the consequences of their mistakes.
It's the taxpayers who have to pick up the bill. This Government has rolled back the frontiers of the
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State, and will roll them back still further. [...] We Conservatives believe in popular capitalism—believe
in a property-owning democracy. [...] The great political reform of the last century was to enable more
and more people to have a vote. Now the great Tory reform of this century is to enable more and more
people to own property. Popular capitalism is nothing less than a crusade to enfranchise the many in
the economic life of the nation. We Conservatives are returning power to the people. That is the way to
one nation, one people.11
Come ha bene messo in luce Shirley Letwin12, le privatizzazioni erano anche la via per
opporsi agli effetti del socialismo e per responsabilizzare gli individui rispetto al problema dei
valori, perché la scelta in una società libera implica sempre responsabilità.13 In questo senso può
essere interpretata non solo la privatizzazione delle imprese statali, ma soprattutto la loro
vendita a tanti piccoli azionisti (i detentori di azioni passarono negli anni da 3 a 11 milioni, e la
Thatcher non mancò di porre in luce la “dimensione morale” di questo fenomeno), con un
processo lungo, ma che già dall’inizio, con la privatizzazione della British Telecom e della
British Airways, fu coronato da un notevole successo. Un passaggio decisivo, e speculare al
precedente, fu la privatizzazione delle case di proprietà dello stato, che fece aumentare
straordinariamente la percentuale di cittadini proprietari. Quella vendita, per le casse dello stato,
non fu un grande affare (le case furono vendute a un prezzo più basso di quello di mercato), ma
il fine, ancora una volta, non era (solo) economico. L’obiettivo era infatti vedere dispiegati
quelli che venivano considerati i benefici effetti della proprietà privata, la quale rende gli
individui più indipendenti, disposti a rischiare e autosufficienti.
L’intento principale era dunque cambiare le attitudini individuali: estendendo il più
possibile la proprietà si sviluppa lo spirito imprenditoriale e si cambiano i valori. Ma tramite la
diffusione della proprietà, e dunque tramite la conseguente volontà di tramandare ai discendenti
la proprietà, la Thatcher sperava anche di promuovere la famiglia, responsabilizzare i genitori e
ridurre il numero dei divorzi.14 Ma anche gli altri elementi caratterizzanti la politica thatcheriana,
possono essere letti come scelte con obiettivi “morali” oltre, e prima, che economici. Ad
esempio la lotta alle Trade Unions, le quali godevano di un gran numero di “immunità”, che
11 Speech to Conservative Party Conference, 1986 Oct 10, www.margaretthatcher.org/speeches/displaydocument.asp? docid=106498. 12 S. LETWIN, The Anatomy of Thatcherism, New Brunswick, Transaction Publishers 1993. 13 Nelle sue memorie la Thatcher scrive: «La privatizzazione [...] fu uno degli strumenti essenziali per rovesciare gli effetti corrosivi e corruttori del socialismo. Essere di proprietà dello stato altro non è che essere posseduti da un impersonale entità legale il che porta a essere gestiti da uomini politici e funzionari statali. [...] Ma con la privatizzazione, specialmente se del tipo che conduce alla massima partecipazione azionaria dei cittadini, diminuisce il potere dello stato e aumenta quello della gente [...] la privatizzazione è il punto focale di qualsiasi programma che intenda far conquistare terreno alla libertà», The Downing Street Years, HarperCollin, London 1993, trad. It. Gli anni a Downing street, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, pp. 573-74. 14 Si veda ancora LETWIN, The Anatomy of Thatcherism, cit. cap. 4.
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con il tempo si erano trasformate in vere e proprie forme di coercizione subite dagli individui.
Anche il fatto che l’iscrizione al sindacato fosse divenuta obbligatoria (closed shop) per tutti
coloro che volessero cercare un lavoro veniva dalla Thatcher considerata una vera e propria
violazione dei diritti individuali. In tal senso la lotta al sindacato è prima di tutto una battaglia
per restaurare la libertà individuale di stipulare contratti e il carattere volontario dell’adesione a
un organizzazione.
Se si guarda a questo insieme coerente di idee, ma anche di miti e simboli, caratterizzanti
quell’esperienza politica, si può comprendere la tentazione di considerare il thatcherismo una
vera e propria ideologia. Tuttavia appare difficile definire il thatcherismo una teoria politica e
sarebbe un grosso errore studiare la Thatcher come se fosse anche una sorta di pensatore
politico. La Thatcher fu un politico che volle e poté, per una serie di circostanze, governare con
una “missione” e un accordo a un insieme ben definito di valori; indubbiamente agì
conformemente a dei valori (la qual cosa le procurò l’accusa di “ideologismo” non solo da parte
della sinistra ma anche da parte di alcuni politici conservatori), primo fra tutti quello della
libertà - intesa a modo suo. Ma in realtà la sua azione politica fu il cercare una risposta pratica a una
determinata situazione storica, e la risposta ai problemi che aveva davanti veniva cercata tra le
alternative possibili della realtà contingente. Anche gli obiettivi da perseguire le si chiarirono
solo con il tempo: se il programma di privatizzazioni produsse effetti morali prima ancora che
materiali, bisogna anche riconoscere che esso probabilmente non nacque con quell’obiettivo, o
almeno non fu inizialmente dettato da quella consapevolezza.
La Thatcher come politico diede seguito alle sue convinzioni profonde, le quali
provenivano dalle sue esperienze e dal suo carattere.15 Mostrò interesse per le discussioni
teoriche, ma mostrò soprattutto una straordinaria capacità di trarre implicazioni pratiche da
quelle discussioni, e dunque di utilizzare le idee come strumenti, come “armi” per la lotta
politica, e la sua leadership fornì uno stimolo notevolissimo al dibattito intellettuale. Queste sue
caratteristiche la resero un politico con una forte carica ideale (la qual cosa nella storia non è
sempre frequente, ma non è neanche un’anomalia), e proprio in questo elemento, più che nelle
15 Nella parte che chiude il secondo, e ultimo, volume di memorie scrive: «anche le mie idee sull’economia sono derivate dall’esperienza personale del mondo nel quale ero cresciuta. Il mio “Bloomsbury” [il gruppo di artisti e studiosi a cui apparteneva Keynes] era Grantham: il metodismo, la bottega di droghiere, il Rotary e tutte le serie, sobrie, virtù coltivate e stimate in quell’ambiente. Indubbiamente ci sono mille vie per pervenire a determinate convinzioni sull’economia, come ce ne sono riguardo alla politica o alla religione. Per me, l’esperienza della vita in casa Roberts fu l’influenza decisiva [...] non c’è modo migliore per comprendere l’economia di libero mercato che vivere nel negozio sotto casa. Quello che imparai a Grantham fece si che ogni critica astratta che avrei sentito contro il capitalismo si sarebbe infranta contro la realtà della mia esperienza». The Path to Power, HarperCollins, London 1995; trad it Come sono arrivata a Downing Street, Sterling & Kupfer, Milano 1996, pp. 426-27.
13
politiche da lei realizzate, risiede il suo successo nello smuovere la cultura politica britannica e
nel realizzare, sia pure in modo imperfetto e contraddittorio, un forte cambiamento nei valori
politici e sociali condivisi.
Ma se è innegabile che con la Thatcher si ebbe, nel volgere di pochi anni, un grande
cambiamento nella cultura politica del paese, si deve anche osservare come non manchino, in
quella esperienza politica, limiti e incoerenze che generano interessanti interrogativi. La prima
domanda, anche quando si accetta come un dato autentico il cambiamento culturale generato
dal thatcherismo, è se il free market di quegli anni abbia portato ai valori vittoriani oppure ad una
società maggiormente materialistica. La seconda risposta può vantare alcuni buoni argomenti, e
può anche avere una spiegazione nel fatto la figura e i valori del piccolo commerciante,
lavoratore e parsimonioso, sono di solito decisamente diversi da quelli del capitalismo
finanziario della city. La questione ci riporta a due grandi interrogativi del pensiero politico,
quello di Nietzsche, che si domandava se fosse possibile fondare i valori morali su qualcosa di
diverso dalla religione, e quello di Max Weber, che si domandava se il capitalismo industriale
moderno, fatto di grandi imprese e grandi capitali, fosse davvero compatibile con la libertà
individuale.
Ma i problemi non finiscono qui, e ve ne sono altri che investono direttamente il modo
in cui potrebbe essere possibile realizzare i principi delle due teorie, quella liberale e quella
conservatrice, a cui la Thatcher faceva riferimento. Come si è detto la sua principale intenzione
era restaurare dei valori di libertà individuale, ma anche sottrarre le decisioni del governo al
potere delle lobby, sindacali e non solo, e restituirgli quel potere di agire per il common good che
esso sembrava aver perso. Si tratta naturalmente di idee più che compatibili sia con il
liberalismo che con il conservatorismo, se però si guarda al modo in cui cercò di realizzarle
emergono alcuni paradossi. Infatti la restaurazione del libero mercato avvenne tramite un
pesante e continuo intervento del governo, che operava per “costringere” il mercato ad essere
libero; una sorta di pianificazione per la libertà. Gli interventi governativi insomma, non
sembravano proprio essere quelli del liberalismo classico - si pensi ad esempio agli interventi di
centralizzazione nelle mani del governo nazionale delle decisioni e dei poteri che prima erano
dei governi locali, considerati dalla Thatcher troppo socialisti, che potrebbero quasi essere letti
come interventi distruttivi nei confronti dei corpi intermedi. Ma anche la forma stessa con cui il
cambiamento fu realizzato suscita interrogativi. Nel realizzare le sue riforme infatti la Thatcher
cercò sempre una speciale relazione con il popolo, delle cui esigenze si sentiva unica vera
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interprete, in contrasto a una classe politica considerata sorda e distante. Se le sue intenzioni, e i
risultati delle sue azioni, non fossero stati in gran parte liberali, verrebbe da individuare alcune
delle caratteristiche tipiche del populismo, se non addirittura del giacobinismo. Tutti questi
elementi fanno emergere da un lato il paradosso di un tentativo di restaurare la libertà, e i valori
che ne stanno alla base, con una specie di governo autoritario, guidato da una minoranza
illuminata che impone i cambiamenti, e dall’altro la domanda se la celebre tesi di Karl Polanyi16,
che vedeva il libero mercato come una costruzione, se non anche una imposizione, di natura
politica, non abbia una conferma nell’esperienza thatcheriana.
Ma proprio questi paradossi danno importanti spunti di riflessione. Come si è detto il
thatcherismo è uno pochissimi casi conosciuti di democrazie mature in cui si è realizzato un
cambiamento, rapido ma radicale, nella cultura politica; altri paesi non vi sono riusciti, o non in
quella misura, e altri governi britannici prima del suo avevano disastrosamente fallito. Nelle
democrazie il processo di cambiamento, in particolare in senso liberale, appare particolarmente
difficile anche a causa di quel processo che Weber chiamava la “gabbia d’acciaio”, ossia la
crescita del potere della burocrazia e più in generale il processo di burocratizzazione e
“impaludamento” della società. Il caso della Thatcher è interessante perché pone chiaramente il
quesito del se e come una leadership carismatica, conflittuale e non compromissoria, possa
rappresentare una via di uscita, un modo per la politica di recuperare la sua “autonomia” e la
sua capacità di operare forti cambiamenti. Può essere dunque una leadership carismatica, che
usa con una certa spregiudicatezza il potere del governo, la via per produrre un cambiamento,
profondo e duraturo, nella cultura politica di un grande paese democratico? Nonostante il
quesito, così formulato, abbia un suo fascino, sarebbe un errore ridurre il thatcherismo alla sola
figura e al solo operato della Thatcher, alla sua leadership carismatica. Bisogna ricordare infatti
che essa fu un ingrediente fondamentale ed unico, ma non sufficiente, di una “battaglia delle
idee” che era iniziata prima del suo arrivo al potere e di cui lei stessa era, in certo senso, il frutto
più maturo. Una “battaglia” portata avanti da columnist di importanti giornali, da intellettuali e da
think tank, e che affondava le sue radici in quella rinascita teorica del liberalismo classico che era
avvenuta a partire dagli anni Sessanta ad opera di pensatori, per citare i più noti, quali Hayek,
Friedman, Buchanan e Tullock, e che in quegli anni dava i suoi risultati in termini di politiche
governative. La Thatcher era in un certo senso il prodotto di quelle idee, che però senza di lei
non si sarebbero mai affermate, o non con quella forza. Infatti se è vero che le idee e le teorie
16 Karl POLANY, The Great Tranformation, 1944; trad. it. La Grande trasformazione, Einaudi, Torino 2000
15
liberali diedero “rispettabilità” alle sue convinzioni profonde, è anche vero che esse, e chi su di
esse lavorava, le diedero consapevolezza, forza, argomenti e tecniche per agire conformemente
ai suoi obiettivi, e che quelle idee furono la radice del cambiamento culturale nel paese. Ecco
perché il thatcherismo, che ha nella Thatcher una componente indispensabile ma non
sufficiente, è una straordinaria lezione di come le idee “contino” nei processi storici, ma
abbiano sempre bisogno di individui e di circostanze favorevoli perché questo loro “contare”
abbia conseguenze.
Liberalismo, diritto di proprietà e multiculturalismo.
Si è prima ricordato come l’elemento cardine usato dal thatcherismo per produrre un
cambiamento culturale fosse il diritto di proprietà, e le sue conseguenze nella sfera dei valori. La
proprietà è indubbiamente uno degli elementi chiave della tradizione liberale classica, tanto che
questa si potrebbe ridurre alla “trinità” vita, libertà e proprietà, dove ad essere centrale è
proprio l’elemento della proprietà, che conterrebbe implicitamente gli altri due. È dunque
fondamentale cercare di capire perché la proprietà è così importante in questa tradizione di
pensiero e, soprattutto, perché la sua tutela ancora oggi, in società multiculturali complesse
come le nostre, potrebbe essere un modo di risolvere controversie e di fornire quel terreno
comune di dialogo di cui esse hanno bisogno.
Innanzitutto bisogna chiarire esattamente in cosa consista per la teoria liberale il diritto
di proprietà. Quando i livellatori, prima ancora di John Locke, rivendicavano come essenziale
tale diritto, lo facevano perché questo era il modo di rivendicare per ogni individuo il diritto ai
frutti del proprio lavoro, come una logica estensione del diritto alle proprie idee, al proprio
corpo e a ciò che dall’uso di essi si riesce ad ottenere. Il diritto di proprietà non aveva tanto,
contrariamente a quanto si è sostenuto17, una dimensione materiale, di possesso di qualcosa, ma
era la possibilità di individuare una sfera di autonomia individuale che, se rispettata, ci rende
uguali davanti alla legge e impedisce le discriminazioni. L’uguale diritto di ogni individuo ad
essere titolare di diritti di proprietà era dunque un modo di rivendicare l’uguaglianza davanti alla
legge e di superare i privilegi di casta, i quali abbondavano nella Gran Bretagna del Seicento.
Era ad esempio un modo di risolvere le controversie e le discriminazioni di natura religiosa – il
fatto che ad alcune confessioni religiose fossero impediti alcuni tipi di commercio, o che ad
altre fossero riservati dei monopoli, diveniva una violazione del diritto di proprietà. Esso dava
17 La tesi è sostenuta da C.B.MACPHERSON nel suo noto The Political Theory of Possessive Individualism: From Hobbes to Locke, Oford University Press 1962; trad. it Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, ESEDI, Milano 1973.
16
anche luogo alla libertà di esprimere le proprie idee, ad esempio stampando i testi sacri.
Dichiarare sacro e involabile il diritto di proprietà così inteso, era il modo di proclamare
l’uguaglianza dei diritti, primo fra tutti il diritto di esercitare i propri talenti, ed era il modo di
tutelare, di rendere inviolabile, una tale libertà degli individui. La proprietà era dunque intesa in
funzione della libertà, in funzione della definizione di una sfera intangibile da parte degli altri
uomini e dunque delle decisioni collettive (la politica), e tale da consentire la convivenza tra
persone con religione e stili di vita diversi. Quel concetto di proprietà venne ripreso e articolato
da Locke, e rimase per lungo tempo il caposaldo della tradizione liberale britannica. In tempi
moderni tuttavia quel concetto di liberalismo entrò in crisi, e con esso l’idea che la tutela della
proprietà fosse una buona tecnica per dirimere le controversie e assicurare la convivenza tra
persone diverse per religione, razza, cultura. Questo tramonto avvenne per tanti motivi
convergenti, ma due in particolare sembrano estremamente rilevanti.
Il primo riguarda un’evoluzione interna della teoria liberale. A partire dalla fine
dell’Ottocento, con la progressiva estensione del suffragio elettorale, il problema politico
dominante non sembra più essere la tutela della libertà (e dunque della proprietà) ma la
possibilità di soddisfare le rivendicazioni più diverse dei vari individui, le quali, gradualmente
ma inesorabilmente, si trasformano da aspettative individuali in diritti sociali. Il mainstream liberale
nella Gran Bretagna di allora prende il nome di New Liberalism, ed è la trasformazione del
vecchio liberalismo in qualcosa di radicalmente diverso.18 La “vecchia” libertà della tradizione
liberale, quella ancorata alla proprietà in senso lockiano, diventa una libertà negativa, che è solo
impedimento, non interferenza nella sfera privata, e viene criticata e ritenuta superata da una
“nuova” libertà, positiva, che consiste nel mettere le persone in grado di realizzare i propri
desideri, fornendogli gli strumenti necessari per farlo. L’uomo è veramente libero solo se in
grado di realizzare i propri fini, e il compito della politica è quello di farglieli raggiungere; questa
sarebbe una diversa e “superiore” concezione della libertà, che supera e invera la concezione
precedente. Dietro sembrerebbe anche esserci una diversa concezione della proprietà, che non
è più il diritto di proprietà come inteso dai livellatori e da Locke, ossia principalmente come
diritto alla proprietà delle proprie idee e del proprio corpo, generatore di libertà ed estendibile a
tutti gli essere umani, ma diviene la proprietà di meri beni materiali, che esistendo in numero
limitato trasformano il diritto di proprietà in un diritto a somma zero, che è possibile, se non
18 Una ricostruzione, piuttosto simpatetica, del nuovo liberalismo si trova nelle opere di Michael FREEDEN, in particolare The New Liberalism. An Ideology of Social Reform, Clarendon Press, Oxford 1978.
17
anche necessario, ridistribuire, poiché è possibile dotarne tutti solo togliendone una parte ad
alcuni che ne hanno in abbondanza.
Naturalmente, anche se la cosa non fu ben chiara ai pensatori che in quegli anni
continuavano a dichiararsi liberali, tutto questo implicava quello che con linguaggio odierno si
chiamerebbe un “meccanismo di enforcement” per rendere effettivi quei diritti, meccanismo che,
estendendo progressivamente il ruolo e le funzioni dello stato, non poteva che comportare una
forte limitazione della libertà degli individui. Libertà negativa e libertà positiva (se si vuole
continuare a utilizzare questa terminologia, fortemente imprecisa ma sicuramente sintetica)
erano tra loro incompatibili, semplicemente perché la nuova libertà, la libertà positiva, per
realizzarsi aveva bisogno di negare il fondamento della libertà individuale stessa. Lo stato
sociale, che nacque anche a seguito di questo cambiamento dell’idea di libertà, ha certamente
raggiunto importanti traguardi, migliorando la vita di molti, ma ha altrettanto certamente,
causato dei danni rispetto al sentire comune riguardo il valore della libertà e del suo derivare
dall’inviolabilità della proprietà delle proprie idee e del proprio corpo.
Ma oltre all’idea che la concezione della libertà negativa, basata sul diritto di proprietà e
sul principio di non interferenza nella vita privata, fosse ormai superata da nuove forme, o
meglio da nuovi diritti, di libertà, al liberalismo veniva anche rivolta la critica di essere una teoria
relativistica, e per questo inadatta a fondare la convivenza civile. A dare la formulazione più forte
di una tale critica è stato probabilmente Leo Strauss, che in un noto passo indica una precisa
responsabilità del liberalismo nell’aver aperto le porte al totalitarismo nazista e allo sterminio
degli ebrei.19 La sua idea è che seguendo le indicazioni della teoria liberale non è possibile
impedire la discriminazione “privata” di alcuni individui verso degli altri, diversi ad esempio per
credo religioso, perché una tale discriminazione appartiene a quella sfera privata inviolabile dalla
politica. Ma la conseguenza inevitabile di un tale atteggiamento è il degenerare di ogni forma di
virtù, e dunque la crisi della stessa democrazia liberale. La tesi di Strauss è che, contrariamente a
quello che sostengono i liberali, non possono bastare delle buone regole, universali e astratte,
quindi non discriminanti, perché si abbia un buon ordine politico. Quello di cui c’è bisogno è
anche l’individuazione di un contenuto di queste norme, che sia volto a distinguere tra bene e
male: bisogna dunque realizzare la virtù nell’animo dei cittadini prima ancora che nelle leggi. Un
regime politico liberaldemocratico che proibisce le discriminazioni legali, ma consente quelle
19 L. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, New York, Schoken, 1965; trad. it. in Liberalismo antico e moderno, Milano, Giuffrè, 1973, pp. 285 ess. Su questo ed altri aspetti del pensiero di Strauss, e sul suo rapporto con il liberalismo, si veda R. CUBEDDU, Tra le righe. Leo Strauss su Cristianesimo e Liberalismo, Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2010.
18
private, poiché “rispetta” ad esempio l’idea di chi disprezza determinate persone, ha delle
fondamenta di sabbia ed è quindi costantemente soggetto al rischio di essere sostituito da un
regime che, dando voce a tutti coloro che vogliono operare tali discriminazioni, si può
macchiare dei più grandi delitti. In sintesi il liberalismo sarebbe relativista e indifferente rispetto ai buoni
valori morali, e per questo inevitabilmente destinato a fallire, magari degenerando nel
totalitarismo.
Anche a causa di queste due critiche, quella liberale è sembrata a lungo essere una
soluzione non desiderabile per risolvere il problema della convivenza tra persone diverse. La
Thatcher, per quanto in maniera (probabilmente) inconsapevole e parziale, ha saputo riportare
l’attenzione sula soluzione liberale classica, la cui attualità merita oggi di essere ridiscussa
proprio a partire da una replica alle due critiche sopra indicate. Quella di Strauss è una
prospettiva indubbiamente interessante, ma non rende giustizia al liberalismo. Infatti quando in
un sistema politico liberale si fa di tutto per tutelare la proprietà, stabilendo il principio che
ognuno è libero di fare di ciò che ha (e tutti abbiamo almeno un corpo e una mente) quello che
preferisce, non fa altro che tutelare e promuovere la virtù della tolleranza. Se si deve rispettare la
proprietà altrui si devono anche rispettare le sue idee, e il suo diritto di professarle e divulgarle,
magari stampando libri e giornali. Questo è il principio inviolabile, e certo non relativistico, che
il liberalismo è stato capace di promuovere. Si può certamente ritenere che sia opportuno
fissare come limite del diritto di proprietà quello di un suo utilizzo che non neghi il diritto di
proprietà altrui (e dunque il diritto degli altri ad esprimere le proprie idee), e si può anche
riconoscere che questo non sempre si può fare con chiarezza e non sempre è stato fatto in
maniera adeguata; ma questa difficoltà non basta ad inficiare la virtù della tolleranza, che è la
caratteristica del liberalismo e che è probabilmente proprio quella virtù che Strauss indicava
come fondamentale per la convivenza pacifica.
Se vediamo le cose in questa prospettiva emerge un problema importante: siamo sicuri
che indebolendo la proprietà, come si è fatto con lo stato sociale, non si indebolisca anche il
l’ideale della tolleranza? Se si accetta l’idea, tipica della “libertà positiva” e del Welfare State, che
lo stato debba mettere le persone in condizione di realizzare le proprie aspettative, che sia un
dovere sociale realizzare le aspettative individuali, non si può negare che questo interferisca con
la proprietà, e dunque la libertà, dei cittadini, la quale va convogliata e sacrificata, almeno in
parte, verso quell’obiettivo. Nei moderni stati occidentali, che hanno tutti, in misura diversa, un
sistema di Welfare, e che sono tutti, in misura diversa, multiculturali, avviene che le aspettative
19
individuali che lo stato dovrebbe cercare di realizzare diventano sempre maggiori e sempre più
diverse tra loro, e la conseguenza è che inevitabilmente il prezzo da pagare in termini di libertà
individuale cresce sempre di più. Che ci piaccia o no è soprattutto questo a far crescere la
conflittualità sociale, poiché gli individui si rendono conto che le aspettative di persone molto
diverse sono diventate diritti sociali, e che questi diritti per essere realizzati hanno un costo che
sono loro a dover pagare. Questo stesso meccanismo di crescita della conflittualità lo si ha
anche quando, in nome di un male inteso multiculturalismo, si professa comprensione verso
comportamenti che violano i diritti altrui: se il legislatore, o il giudice, concedono delle
attenuanti “culturali” a dei gruppi etnici che hanno comportamenti aggressivi e che violano i
diritti individuali, il risultato sarà la ghettizzazione da parte della società nei confronti di quelle
persone, il non voler aver a che fare con loro da parte della grande maggioranza della
popolazione; se poi quei gruppi diventeranno particolarmente numerosi allora alla
ghettizzazione si sostituirà l’incomunicabilità, e il risultato sarà comunque, presto o tardi, lo
scontro. Anche per questo, laddove le circostanze lo permettano (ossia laddove i valori liberali
sono diffusi e maggioritari), il modo per consentire la convivenza pacifica tra culture diverse
potrebbe essere quello di indurre tutte le culture ad un maggiore rispetto dei diritti individuali, e
considerare come titolari di diritti non i gruppi ma solo i singoli individui. E questo in aggiunta
al principio cardine del liberalismo in base al quale nessuno ha il diritto di usare la politica (il
meccanismo delle scelte collettive) per costringere gli altri a vivere secondo la propria visione
del giusto e del bene; ognuno ha diritto di vivere individualmente come crede, ma nessuno ha il
diritto di imporre agli altri di vivere come non vogliono.
Certamente si daranno un gran numero di casi complessi, che non sarà facile risolvere
con l’applicazione della “formula” liberale, tuttavia rimane il fatto che quello liberale può essere visto
come un coerente tentativo di soluzione del problema della conflittualità latente in ogni società
multiculturale. Difendendo il diritto di proprietà delle proprie idee e del proprio corpo il
liberalismo classico fa al contempo due cose: nega che le aspettative individuali siano diritti
sociali, e dunque che debbano essere realizzate attraverso l’uso del potere politico; riconosce ad
ognuno il diritto di cercare di realizzare le proprie aspettative, e di vivere la propria vita in
accordo ai propri principi, anche i più diversi. La forza del diritto di proprietà, inteso nel modo
che si è prima illustrato, è dunque nel fatto che non impone un soluzione comune al problema della
realizzazione di aspettative individuali diverse tra loro, ma lascia a ognuno la possibilità di cercare di
realizzarle, con il (forte) limite di rispettare però un uguale diritto degli altri di tentare di
20
realizzare aspettativa diverse, e di vivere secondo principi diversi. Si può considerare la
soluzione liberale parziale e incompleta, ma essa indubbiamente rappresenta un tentativo di
disinnescare il conflitto esistente nelle società in cui si ritiene che tutte le diverse aspettative
abbiano il diritto di essere realizzate tramite l’uso del potere politico, che è sempre coercizione e
dunque limitazione della libertà.
Certamente non ogni tipo di conflitto è in questo modo “disinnescato”, perché ad
esempio il principio del rispetto degli altri di vivere secondo le loro scelte dovrebbe valere
anche per gli appartenenti a comunità che non riconoscono quel diritto ad alcuni dei propri
membri (si pensi ad esempio alle donne in alcune confessioni religiose, o al reato di apostasia
nella religione islamica). E tali persone non saranno facilmente disposte a far uscire dalla
comunità stessa quei membri che volessero fare scelte diverse. Ma il fatto che quel principio
non sia accettato pacificamente da tutti non vuol dire che non sia giusto e da ritenere
“universale”. Se infatti si ammette, come dato oggettivo e fisico, che non è possibile pensare
con la testa di un’altra persona, e dunque non si può sapere cosa per lui è giusto e bene fare,
allora bisognerà anche ammettere come una logica conseguenza che non si ha il diritto di
imporre ad una persona di vivere in maniera diversa da come essa vuole (e sempre che, come
conseguenza di ciò, lui non impedisca a noi di fare altrettanto). Il fatto che questo non sia
accettato da alcune culture non inficia la logicità del ragionamento, e dunque il fatto che si
possa rivendicare il diritto di imporlo come regola comune. Certo questo dovrebbe portare, se
non ad un improbabile “revival” del diritto naturale (religioso o naturale che sia), almeno ad un
ritornare a pensare il nostro diritto in termini universalistici, e dunque al ritenere inammissibile
la violazione dei diritti individuali, sia che provenga da individui sia che provenga da gruppi che
ne danno una particolare giustificazione culturale, tradizionale, religiosa o quant’altro. Forse
dobbiamo per onestà intellettuale ammettere che l’ideale di libertà delle nostre società e della
tradizione liberale è “relativo”, storicamente legato al solo mondo occidentale, tuttavia questo
non ci dovrebbe impedire di sostenere, per citare una frase di Schumpeter cara a Kelsen, che
«Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro è il rendersi conto della validità relativa
delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza indietreggiare».20
Una società veramente rispettosa della diversità umana non è una società organizzata e
regolata in accordo ai desideri di ogni singola persona, e questo semplicemente perché una tale
20 La citazione è da Joseph SCHUMPETER, tratta da Capitalism, Socialism and Democracy, London 1942; trad. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, Milano 2001, p. 253. Hans KELSEN la riprende nel suo Foundations of Democracy, in «Ethics», vol. 66, n. 1, 1955; trad. it. in La democrazia, Il Mulino, Bologna1995, p. 198.
21
società è chiaramente impossibile, essendo troppo vari, diversi e inconciliabili i desideri delle
diverse persone. Essa è più modestamente una società in cui le persone sono libere di vivere
seguendo i loro principi e nel modo che preferiscono, ma accettando il fatto che questo
riguarda solo la loro vita, e che non può essere imposto agli altri. Se si ritiene che non sia
possibile tentare di difendere e promuovere una tale idea di società, e di libertà, magari in virtù
del fatto che alcune culture non prevedono e non accettano il principio della tolleranza (e del
diritto di proprietà che la sostanzia), allora bisogna semplicemente ammettere che l’unica
soluzione è il conflitto, il prevalere di chi ha maggiore forza e non di chi ha maggiori argomenti.
Può anche darsi che in futuro si dovrà ammettere che questa è l’unica prospettiva possibile, ma
certo non è la prospettiva della filosofia e dunque di chi si pone il problema di capire cosa sia
una società multiculturale e come essa possa sopravvivere pacificamente, minimizzando la
violenza.