Il maglio, la fucina, i forni e il pestaloppe della Valle delle Forme (Bienno, Brescia) (2008)

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205 Il maglio, la fucina, i forni e il pestaloppe della Valle delle Forme (Bienno, Brescia) Costanza Cucini Tizzoni Introduzione 1 L’ultimo atto della millenaria storia metallurgica dei monti a sud-est di Bienno in Val Camonica è rappresentato dagli impianti siderurgici della Valle delle Forme. Essi si trovano non lontano dalla grande miniera di ematite di Piazzalunga, che per secoli fornì il minerale che alimentò continuativamente prima i bassofuochi e poi gli altoforni primitivi di tutta la zona, a partire almeno dalla tarda antichità 2 . Proprio nei secoli a cavallo fra la fine del mondo romano e l’Alto Medioevo in queste valli alpine si compirono evoluzioni e passaggi di grande importanza per la storia della tecnologia: la produzione volontaria e la decarburazione della ghisa – finora la più antica d’Europa – già nel V-VI sec. d.C., il passaggio dai forni del tipo a bassofuoco all’altoforno 3 . Nel corso degli anni, dal 1994 al 2006, sono stati scavati impianti siderurgici di diverse epoche 4 , che erano alimentati con il carbone prodotto dalle numerose carbonaie della zona e con il minerale di Piazzalunga. I siti più antichi erano ubicati nell’impervia Val Gabbia, una diramazione laterale della Val Grigna, dove in età tardoantica e longobarda si produceva e decarburava la ghisa e dove venne poi impiantato un altoforno nell’XI-XII sec. 5 (fig. 1). A conclusione di questo progetto sul territorio di Bienno, nel 2006 si è indagata la Valle delle Forme, dove già in precedenza erano stati eseguiti dei limitati sondaggi 6 . Il peculiare toponimo del sito è connesso, nella memoria storica locale, alle lavorazioni siderurgiche relative alla “messa in forma” di lingotti di ferro nei forni e nelle fucine. La Valle delle Forme è una vallecola laterale destra della Val Grigna, percorsa da acque superficiali piovane, ma non da un vero e proprio Notizie Archeologiche Bergomensi, 16, 2008, pp. 1) Lo scavo si è svolto dal 9 al 19 luglio 2006 ed ha visto la partecipazione delle dott.sse Chiara Rota, Michela Ruffa, Annalisa Sandrinelli e del dott. Mauro Rossi, che si sono impegnati oltre ogni limite e che ringrazio sentitamente. Desidero ringraziare inoltre il sig. Nicola Pedretti e la sua famiglia, in particolare il sig . Luigi… , che hanno organizzato ogni aspetto logistico e hanno reso proficuo il soggiorno in Valle delle Forme. Il rilievo dell’area è stato effettuato da Michela Ruffa e Marco Tizzoni, la documentazione archeologica da Michela Ruffa e da chi scrive. Ancora una volta, tuttavia, si è dovuto constatare come l’arche- ologia nelle zone montane della Lombardia non sia recepita come un arricchimento culturale o una riscoperta delle proprie radici, ma sia vissuta come un’intrusione da parte di elementi allotri in comunità fortemente chiuse e autoreferenziali. Al di là di certa propaganda politica interessata solo ad aspetti folcloristici di un presunto passato celtico, le “fiere popolazioni indigene” delle alte valli bresciane e bergamasche sono in realtà impermeabili e ostili a qualunque serio e scientifico apporto culturale. Nel caso specifico del Comune di Bienno, non solo l’Amministrazione guidata da Pini Ing. Gemano (sic!), ma anche sedicenti assessori o amministratori si sono succeduti e interscambiati in tentativi di boicottaggio e danneggiamento dell’intervento archeologico, confermando una volta di più la loro miopia anche politica. Invece l’apertura culturale della precedente amministrazione, guidata da Nicola Pedretti, ha avuto come esito non solo il so- stegno agli scavi in Val Gabbia, in Valle delle Forme e a Campolungo, ma anche l’organizzazione nel 1988 e nel 1998 di due convegni internazionali grazie ai quali Bienno ricopre, a buon diritto, il ruolo di primo piano nella storia della siderurgia alpina ed europea che gli compete. 2) Sulla miniera di Piazzalunga MORIN 1999. 3) CUCINI TIZZONI 2001; CUCINI TIZZONI-TIZZONI 2006. Profetico, a questo proposito, il titolo del 1° Convegno di Bienno del 1988, Dal bassofuoco all’altoforno, a c. di N. CUOMO DI CAPRIO-C. SIMONI. 4) Il progetto di ricerca sulla Val Grigna è stato promosso e diretto dal prof. Marco Tizzoni dell’Università di Bergamo e vi hanno partecipato studenti e ricercatori di varie università, non- ché ricercatori e studiosi dell’UMR 5060 Métallurgies et Cultures del CNRS di Belfort-Sévenans (Francia). Tale progetto ha inte- ressato non solo la siderurgia, ma anche l’estrazione e la metal- lurgia del rame tramite lo studio della miniera preistorica di Campolungo, si veda da ultimo TIZZONI-MORIN c.s. 5) TIZZONI-CUCINI TIZZONI-ZAHOVA 2005 e CUCINI TIZZONI-TIZZONI 2006. 6) Gli scavi del 1997 sono editi in CUCINI TIZZONI-TIZZO- NI 1999-a.

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Il maglio, la fucina, i forni e il pestaloppe dellaValle delle Forme (Bienno, Brescia)

Costanza Cucini Tizzoni

Introduzione1

L’ultimo atto della millenaria storia metallurgica dei monti a sud-est di Bienno in Val Camonicaè rappresentato dagli impianti siderurgici della Valle delle Forme.

Essi si trovano non lontano dalla grande miniera di ematite di Piazzalunga, che per secoli fornìil minerale che alimentò continuativamente prima i bassofuochi e poi gli altoforni primitivi di tuttala zona, a partire almeno dalla tarda antichità2. Proprio nei secoli a cavallo fra la fine del mondoromano e l’Alto Medioevo in queste valli alpine si compirono evoluzioni e passaggi di grandeimportanza per la storia della tecnologia: la produzione volontaria e la decarburazione della ghisa– finora la più antica d’Europa – già nel V-VI sec. d.C., il passaggio dai forni del tipo a bassofuocoall’altoforno3.

Nel corso degli anni, dal 1994 al 2006, sono stati scavati impianti siderurgici di diverse epoche4,che erano alimentati con il carbone prodotto dalle numerose carbonaie della zona e con il mineraledi Piazzalunga. I siti più antichi erano ubicati nell’impervia Val Gabbia, una diramazione lateraledella Val Grigna, dove in età tardoantica e longobarda si produceva e decarburava la ghisa e dovevenne poi impiantato un altoforno nell’XI-XII sec.5 (fig. 1).

A conclusione di questo progetto sul territorio di Bienno, nel 2006 si è indagata la Valle delleForme, dove già in precedenza erano stati eseguiti dei limitati sondaggi6. Il peculiare toponimo delsito è connesso, nella memoria storica locale, alle lavorazioni siderurgiche relative alla “messa informa” di lingotti di ferro nei forni e nelle fucine. La Valle delle Forme è una vallecola lateraledestra della Val Grigna, percorsa da acque superficiali piovane, ma non da un vero e proprio

Notizie Archeologiche Bergomensi, 16, 2008, pp.

1) Lo scavo si è svolto dal 9 al 19 luglio 2006 ed ha visto lapartecipazione delle dott.sse Chiara Rota, Michela Ruffa, AnnalisaSandrinelli e del dott. Mauro Rossi, che si sono impegnati oltreogni limite e che ringrazio sentitamente. Desidero ringraziareinoltre il sig. Nicola Pedretti e la sua famiglia, in particolare ilsig. Luigi… , che hanno organizzato ogni aspetto logistico ehanno reso proficuo il soggiorno in Valle delle Forme. Il rilievodell’area è stato effettuato da Michela Ruffa e Marco Tizzoni, ladocumentazione archeologica da Michela Ruffa e da chi scrive.Ancora una volta, tuttavia, si è dovuto constatare come l’arche-ologia nelle zone montane della Lombardia non sia recepita comeun arricchimento culturale o una riscoperta delle proprie radici,ma sia vissuta come un’intrusione da parte di elementi allotri incomunità fortemente chiuse e autoreferenziali. Al di là di certapropaganda politica interessata solo ad aspetti folcloristici di unpresunto passato celtico, le “fiere popolazioni indigene” dellealte valli bresciane e bergamasche sono in realtà impermeabili eostili a qualunque serio e scientifico apporto culturale. Nel casospecifico del Comune di Bienno, non solo l’Amministrazioneguidata da Pini Ing. Gemano (sic!), ma anche sedicenti assessorio amministratori si sono succeduti e interscambiati in tentatividi boicottaggio e danneggiamento dell’intervento archeologico,confermando una volta di più la loro miopia anche politica.Invece l’apertura culturale della precedente amministrazione,guidata da Nicola Pedretti, ha avuto come esito non solo il so-stegno agli scavi in Val Gabbia, in Valle delle Forme e a

Campolungo, ma anche l’organizzazione nel 1988 e nel 1998 didue convegni internazionali grazie ai quali Bienno ricopre, a buondiritto, il ruolo di primo piano nella storia della siderurgia alpinaed europea che gli compete.

2) Sulla miniera di Piazzalunga MORIN 1999.

3) CUCINI TIZZONI 2001; CUCINI TIZZONI-TIZZONI2006. Profetico, a questo proposito, il titolo del 1° Convegno diBienno del 1988, Dal bassofuoco all’altoforno, a c. di N. CUOMODI CAPRIO-C. SIMONI.

4) Il progetto di ricerca sulla Val Grigna è stato promosso ediretto dal prof. Marco Tizzoni dell’Università di Bergamo e vihanno partecipato studenti e ricercatori di varie università, non-ché ricercatori e studiosi dell’UMR 5060 Métallurgies et Culturesdel CNRS di Belfort-Sévenans (Francia). Tale progetto ha inte-ressato non solo la siderurgia, ma anche l’estrazione e la metal-lurgia del rame tramite lo studio della miniera preistorica diCampolungo, si veda da ultimo TIZZONI-MORIN c.s.

5) TIZZONI-CUCINI TIZZONI-ZAHOVA 2005 e CUCINITIZZONI-TIZZONI 2006.

6) Gli scavi del 1997 sono editi in CUCINI TIZZONI-TIZZO-NI 1999-a.

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torrente. Essa offriva però alcune condizioni estremamente favorevoli alla produzione del ferro: ilsito è un terrazzo fluviale quasi pianeggiante, abbastanza vicino al paese di Bienno e nelle imme-diate adiacenze del guado sul torrente Grigna che costituisce un punto di passaggio obbligatolungo il sentiero che conduce a Piazzalunga.

L’indagine aveva lo scopo di chiarire l’origine delle strutture siderurgiche presenti nella zona, didifficile interpretazione, e delle scorie di altoforno arcaico sparse su un’ampia superficie nell’areadelle baite moderne della Valle delle Forme.

Già prima dell’intervento archeologico, il sito si presentava complesso e articolato fin nelladistribuzione topografica: un’area lungo la carrareccia attuale dove era stato attivo un altoforno,poi resti di fucine e di almeno un bassofuoco circa 150 m più a valle, sullo stesso terrazzo fluviale.Due distinte zone funzionali, dunque, collegate da quello che nella tradizione orale locale venivaindicato come un canale idraulico e che oggi è ridotto a sentiero. Esse ponevano una serie diinterrogativi di ordine cronologico e tecnologico a cui solo lo scavo avrebbe potuto fornire rispo-ste. Era altresì necessario un rilievo generale del complesso siderurgico, che permettesse di apprez-zarne l’organizzazione spaziale e funzionale (fig. 2).

La zona montana della Lombardia è ancora scarsamente nota dal punto di vista archeologico evi sono siti di notevole importanza e complessità ancora da indagare; il progetto sul territorio diBienno ne costituisce la prima, articolata e compiuta sintesi archeologica.

Parte prima. Lo scavo archeologico.Area di scavo Saggi 1 e 2.

L’area dei saggi di scavo 1 e 2 venne occupata, probabilmente per la prima volta, per l’impiantodi alcune strutture produttive: un maglio, una fucina, un bassofuoco e il canale per l’adduzionedell’energia idraulica. Non sono state trovate tracce di occupazioni precedenti, anche se lo scavonon ha raggiunto dappertutto il terreno vergine di base e non si può quindi escludere unafrequentazione nelle epoche anteriori al Basso Medioevo.

Le strutture sfruttano l’andamento naturale di uno stretto terrazzo fluviale sviluppato in sensonord nord-est con pendenza verso nord, che in questo punto forma una sorta di anfiteatro natu-rale. Mentre il canale era situato lungo il bordo del terrazzo, presso lo scoscendimento che degradaquasi verticalmente verso il corso del sottostante torrente Grigna - con un dislivello di 110 m -, ilmaglio e la fucina vennero impiantati nell’area spianata immediatamente retrostante, dove unaderivazione del canale stesso forniva l’energia idraulica necessaria a muovere gli impianti.

Poiché la valle del torrente Grigna è molto incassata e con forti pendenze, frane e smottamentisi sono succeduti nel corso dei secoli ingombrando di detriti tutti i terrazzi7. Anche in questo caso,la zona doveva presentare già nel Medioevo numerosi dissesti dovuti a cause naturali. Eventi franosisi sono verificati anche dopo l’abbandono dell’area, tanto che si è dovuto provvedere preliminar-mente allo scavo archeologico alla rimozione di numerose grosse pietre franate dalla pendicesoprastante. Inoltre la presenza di enormi massi di crollo accumulati in posizione instabile, haimpedito di estendere lo scavo sui lati a monte – est e sud-est – e ha determinato lo stesso sviluppoplanimetrico dei saggi 1 e 2. Essi sono comunque quasi contigui ai sondaggi eseguiti nel 1997, cheavevano portato alla luce una piccola baita utilizzata dalle maestranze siderurgiche.

La cronologia del sito è indicata da una datazione al C 14 eseguita nei laboratori del BritishMuseum di Londra: fra il 1320-1340 e il 1390-1430 d.C. al 68 % di probabilità e fra il 1310-1360 eil 1380-1440 al 95 % di probabilità (BM-3107).

Periodo I. Fase 1. Impianto della forgia, del maglio e del canale (figg. 3 e 4). Per la realizzazionedi un’area pianeggiante ampia, sgombra da detriti e quindi agevole per le lavorazioni siderurgichefurono necessari pesanti interventi di regolarizzazione e contenimento.

7) Ciò è stato documentato più volte nel corso delle campagnedi scavo a Ponte di Val Gabbia I, II e III, a Campolungo e qui aValle delle Forme nel 1997, CUCINI TIZZONI, TIZZONI

1999. Le frane hanno spesso coperto e obliterato i siti antichi,rendendo estremamente difficoltoso l’intervento archeologico.

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Fig. 1: Territorio di Bienno. Localizzazione dei siti interessati dalla ricerca archeologica: 1) Sesa; 2) Valle delle Forme; 3)Ponte di Val Gabbia; 4) Piazzalunga; 5) Campolungo e la sua torbiera; 6) Baita Cludona; 7) Torbiera della Moja Tonda.

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Fig. 2: Planimetria generale del sito della Valle delle Forme, con indicazione delle aree di scavo: 1) Scavo del 1997; 2)Saggio 2; 3) Saggio 1; 4) Struttura A; 5) derivazione del canale idraulico; 6) Struttura B; 7) Saggio 3; 8) canale idraulico;

9) Saggio 5; 10) Saggio 4; 11) baita in muratura; 12) baita in lamiera; 13) carrareccia di accesso alle baite della Valledelle Forme; 14) guado sul fiume Grigna.

Innanzitutto l’area venne ripulita e il suolo sterile di base venne tagliato per creare un piano unpo’ inclinato verso nord dove impostare le strutture.

Sul lato a monte sud-est, quello dove la pendenza e quindi le spinte delle frane erano maggiori,venne poi realizzata la struttura US 112. Si tratta di un massiccio muro di contenimento, conandamento nord-ovest sud-est, realizzato con pietre di grandi dimensioni (fino a 135x60x45 cm)talvolta con faccia spianata di spacco, sovrapposte senza alcun tipo di legante. Tali pietre furonoverosimilmente recuperate in loco, anche allo scopo di sgomberare l’area. La struttura US 112,conservata in elevato per due filari, fu realizzata contro l’erta pendice montana e consta quindi diuna sola faccia a vista, mentre la colmatura degli interstizi fra il muro e il monte fu realizzata conscaglie di pietra. Tale riempimento doveva avere anche una funzione drenante, per evitare perico-losi ristagni d’acqua che avrebbero compromesso la stabilità del muro stesso. La struttura US 112risulta tagliata nello sterile ed è esattamente ortogonale al muro US 121, che delimita la derivazionedel canale per l’adduzione dell’acqua. Non è stato possibile chiarire le relazioni tra le due strutturemurarie, entrambe mal conservate; esse sembrano legarsi e in ogni caso vennero pianificate con-temporaneamente, data non solo l’analogia della tecnica costruttiva, ma anche la loro destinazionefunzionale. Esse sono dunque frutto di un unico progetto costruttivo.

Sul lato a monte sud-orientale che delimita l’area siderurgica non è attualmente osservabilealcuna struttura muraria di contenimento: esso risulta ingombro da un possente crollo di grossimassi, che ha completamente obliterato il fianco della montagna e forse è in parte relativo proprio

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alla distruzione di un massiccio muro di sostegno. Del resto, una struttura di questo tipo eranecessaria su questo lato dell’area siderurgica, per chiudere l’ambiente della fucina e contenere ilcontinuo percolamento di terra e fango. La sua mancata conservazione in elevato è verosimilmentedovuta al cedimento sotto il peso della frana che obliterò gli impianti siderurgici. Queste strutturedi contenimento erano però finalizzate soprattutto all’impianto di uno o forse più bassofuochi perla riduzione del minerale di ferro. Come è dimostrato dagli strati di abbandono e distruzione (v.fase 4) infatti, contemporaneamente al maglio e alla forgia era certamente attivo almeno unbassofuoco, cioè un forno dove il minerale era ridotto in ferro dolce che poi veniva battuto almaglio, forgiato e trasformato in semilavorati. La sua ubicazione più probabile è al di sopra delmuro US 112, anche se non si può escludere il fianco orientale del terrazzo. In ogni caso, il fornodoveva sfruttare la pendice montana anche per le operazioni di caricamento e di recupero del ferroprodotto.

Parallela al muro US 112, da cui dista 1,5 m è la struttura muraria US 113, un muro a seccorealizzato con pietre di medie e grandi dimensioni con faccia spianata di spacco. La struttura US113, conservata per un breve tratto e per due filari in elevato, è impostata sullo sterile e definisce,assieme ai muri US 112 e 121 un ambiente rettangolare funzionale all’attività del bassofuocosoprastante, convenzionalmente denominato “Vano C”.

Contigua e grosso modo ortogonale alla US 113 è la struttura US 114, un muro molto danneg-giato dalla frana che distrusse il sito, anch’esso realizzato in pietre a secco di medie e grandi dimen-sioni, con andamento nord est-sud ovest. Non è chiara la relazione tra i due muri, poiché l’angoloche essi formano è poco conservato; anche il filo esterno del muro US 114 si conserva soloall’estremità nord-est, mentre la faccia interna si presenta molto irregolare, senza filari definiti. Èprobabile che il muro sia stato danneggiato anche dalla successiva asportazione di parti degli im-pianti produttivi (v. infra).

Fig. 3: Valle delle Forme, saggio 2. Periodo I, Fase 1.

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Il muro US 114 risulta grosso modo parallelo alla derivazione del canale di adduzione dell’ac-qua, con il muro US 121 del quale viene a definire una sorta di corridoio o stretto passaggio –larghezza 0, 65 m. Evidentemente questo ambulacro serviva a collegare il “Vano C” con la zona delmaglio allo scopo di poter tradurre rapidamente i blumi ancora caldi dal forno fino alla forgia dovevenivano trasformati in semilavorati.

Il maglio venne impiantato all’estremità nord-est del muro US 114. A tale scopo vennero realiz-zate potenti sostruzioni.

Esse sono costituite innanzitutto dalla US 126, una grossa e spessa pietra di forma rettangolaread angoli stondati (1,30x1,05 m) perfettamente spianata e posta in opera orizzontalmente, con unaleggera pendenza (2-3 cm) da sud est verso nord ovest, nel senso cioè dell’andamento naturale delterrazzo; essa costituiva quindi il piano della struttura funzionale. Al centro della pietra US 126 sinota la presenza di un incavo rettangolare regolare, con angoli appena stondati (0,50x0,38 m),profondo 2-3 cm, scalpellato accuratamente. Invece la superficie spianata della pietra fu ottenutaper spacco, poiché non reca segni di martello o scalpello. Lungo il bordo della pietra US 126 sullato sud e presso l’angolo stondato est furono praticati due piccoli fori di forma ovale (9x6,5 cm),entrambi profondi 7 cm dalla superficie della pietra stessa; la loro posizione non è simmetricarispetto all’incavo rettangolare. La pietra US 126 presenta una frattura quasi in diagonale, forse pereffetto delle forti sollecitazioni a cui era sottoposta. È verosimile che le maestranze che realizzaro-no il maglio abbiano sfruttato il più possibile i materiali in loco e quindi che questa grossa pietra sifosse spaccata lungo lo specchio di faglia durante un crollo dall’alto del monte, nel corso di unevento franoso.

Tutto attorno alla US 126 venne realizzato il muro US 124, con andamento quadrangolare, inpietre di medie dimensioni poste di piatto. Tra le pietre si nota la presenza di argilla limosa rossiccia-giallastra, proveniente dallo sterile di base, che venne usata come legante ed anche per creare unpiano con le pietre stesse che costituiscono la struttura. Il muro US 124 taglia lo sterile sul lato sud,mentre lo scavo non si è potuto estendere sul lato ovest; qui esso sembra appoggiarsi al muro US114, rispetto al quale la base del maglio formata dalle US 126 e 124 risulta perfettamente ortogona-le. L’US 124 aveva la funzione di rincalzo della pietra US 126 e di attutire i contraccolpi, nonchéquella di creare un piano di lavoro. Complessivamente l’incudine del maglio aveva quindi una basedi almeno 2,40x2,30 m.

All’interno della struttura US 124, sui due lati della pietra US 126 ma non proprio simmetriche,vennero realizzate due buche di palo, US 130 e 131.

L’US 130 (40x36 cm, h 24) praticata all’angolo sud della grossa pietra, ha forma quadrangolaread angoli stondati ed è foderata da pietre poste di taglio lungo le pareti, in funzione di zeppe. Ilfondo è costituito da una pietra inclinata.

L’US 131 (documentata per 50x35 cm, h 21) è realizzata lungo il lato nord della pietra US 126,ha forma più irregolare ed è anch’essa foderata sulle pareti da pietre poste di taglio come zeppe; inquesto caso il fondo è costituito dal terreno sterile.

L’insieme delle US 126, 124, 130, 131 costituisce quindi la base del maglio; essa si trova a brevedistanza dalla derivazione del canale di adduzione dell’acqua.

Sull’altro lato rispetto alla base del maglio, e quindi a sud-est delle US 126, 124, si trova l’US122. Si tratta di una grossa pietra di forma rozzamente romboidale (1,45x0,80 m, h almeno 0,20),grossolanamente spianata, disposta in asse con la pietra US 126. Quasi al centro reca una cavitàirregolarmente rettangolare (39x25 cm) il cui fondo è stato tappezzato da uno strato di terrenogrigio giallastro – US 117 (spessore cm 11). È probabile che tale deposito sia funzionale allaregolarizzazione di questa cavità (poiché molto irregolare) al fine di creare una base di appoggioquasi piana su cui porre un’incudine.

Accanto all’US 122, lungo la sezione nord del saggio 1 è stata messa in luce parte dell’US 115.Si tratta di una grossa pietra (almeno 1,28x0,50 m) a forma di parallelepipedo irregolare, grossola-namente sbozzata e con la superficie superiore piana, almeno nella porzione visibile. Essa taglia lostrato sterile: forse si trattava in origine di un pietrone crollato dalla pendice montana e affondatonel terreno di base e poi riutilizzato in loco poiché inamovibile, un po’ come la vicina US 122. Lastratigrafia della fase di utilizzo degli impianti siderurgici (v. fase 3) dimostra come questa US nefosse parte integrante. La sua funzione tuttavia non è certa: poteva costituire forse la base di unfucinale, anche se la distanza ravvicinata –12 cm – dalla pietra US 122 rendeva difficoltosi glispostamenti durante le lavorazioni. Più probabile che si trattasse di un’altra incudine, che venne

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Fig. 4: Valle delle Forme, saggio 1. Periodo I, fase 1.

utilizzata quando gli scarti di forgiatura che si accumularono a seguito dell’attività di US 122 laricoprirono rendendola inutilizzabile.

Lungo tutto il terrazzo fluviale corre, in direzione nord-sud, una derivazione del canale peraddurre l’energia idraulica agli impianti siderurgici, oggi interrato e ricalcato da un sentiero; essa èstata indagata archeologicamente nel saggio 1 per 5,60 m.

La derivazione risulta delimitata sul lato sud-est – verso il monte – dal muro US 121, in buonostato di conservazione; il muro è costruito contro terra ed è costituito da una faccia a vista di duefilari di pietre a secco disposte di piatto in modo regolare a formare il filo interno. La parte controterra è realizzata con pietre di piccole e medie dimensioni disposte in modo casuale. Generalmentele pietre sono grossolanamente regolarizzate; quelle impiegate nel primo filare sono di dimensionimaggiori rispetto a quelle soprastanti.

L’altra sponda della derivazione è costituita dal muro US 128, una grossa struttura di pietre didimensioni eterogenee messe in opera a secco. Dove è meglio conservata, si osservano quattro ocinque filari. In genere le pietre di maggiori dimensioni sono impiegate nel filare superiore; alcune

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mostrano facce spianate di spacco. La struttura US 128 risulta mal conservata all’estremità sud-ovest del tratto indagato.

Il fondo della derivazione risulta pavimentato con un lastricato – US 132 – di pietre di medie egrandi dimensioni disposte in modo irregolare. In alcuni punti le pietre si appoggiano alle duesponde US 121 e 128. Nel tratto in esame il canale aveva quindi una larghezza di 0,60-0,80 m e undislivello di 0,16 m pari ad una pendenza del…..

Per colmare, regolarizzare e drenare il vano accanto al maglio, compreso fra i muri US 114 e113, venne realizzato un potente vespaio – US 109. Quest’area presentava in effetti una fortependenza verso ovest e quindi verso il muro 114. Per colmare il dislivello lungo questa strutturavennero impiegate nella parte più profonda pietre di medie dimensioni, al di sopra delle qualifurono utilizzate grosse pietre con larghi interstizi tra le une e le altre; infine, nella parte superficialeche quindi costituisce il piano di calpestio, il vespaio è realizzato con pietre di medie dimensioni,scaglie di pietra e terreno limoso bruno-grigio contenente rari frustoli di carbone. Con il vespaioUS 109 il vano contiguo alla base del maglio veniva così regolarizzato e reso percorribile durante lelavorazioni siderurgiche.

Periodo I. Fase 2. Funzionamento degli impianti siderurgici (fig. 5). L’attività del maglio ètestimoniata dalla formazione di alcuni depositi che si sono succeduti nell’area del saggio 1, soprat-tutto presso il suo limite orientale.

Innanzitutto la base stessa del maglio – la grossa pietra US 126 e il muro di rincalzo US 124 –venne coperta dall’US 125, uno strato di terreno rossiccio limoso piuttosto compatto contenenterari carboni e molti cascami di ferro ossidati che gli conferiscono una peculiare colorazione rugginosa.I grumi di ferro sono particolarmente concentrati e di maggiori dimensioni nell’angolo nord delsaggio, proprio al di sopra della struttura produttiva e dello stesso pietrone US 126.

Durante l’attività del maglio e la formazione dell’US 125, si assiste al riempimento dei duealloggi US 130 e 131 ubicati ai due lati della pietra US 126. Entrambi i riempimenti si trovano allastessa quota dell’US 126. L’US 127a riempiva la buca US 130 e conteneva grumi di ferro e carbone,particolarmente concentrati lungo la pietra US 126. Anche il riempimento US 127b, relativo allabuca US 131, conteneva molti grumi di ferro, rarissimo carbone e qualche scoria.

Circa alla stessa quota dell’US 125, ma nell’angolo est del saggio, al di sopra della base dell’incu-dine US 122, si formò l’US 119. Si tratta anche in questo caso di uno strato bruno-rossicciopiuttosto eterogeneo e compatto, composto da terreno limoso marrone misto a lenti contenentiscaglia di ferro, lenti più carboniose e pietre di piccole dimensioni. I grumi di ferro erano piùconcentrati e di dimensioni maggiori nella zona centro-orientale del saggio 1; anche lo spessore deldeposito era maggiore lungo il limite nord del saggio, mentre si assottigliava verso sud-est.

Al di sopra dell’US 119 e soprattutto della base dell’incudine US 122 si formò poi lo strato apianta subcircolare US 118. Si tratta di un deposito di scaglia di ferro misto a limo di colore grigio-verdastro, di consistenza friabile, contenente molti cascami di ferro di varie dimensioni, rarissimopietrisco e frustoli di carbone. Lo spessore dello strato era variabile, da 2-3 cm ai suoi limiti dispargimento, fino ad un massimo di 15 cm al di sopra e intorno all’US 122. Nell’angolo nord lostrato si intercala a lenti di argilla dell’US 119. La sua formazione è evidentemente dovuta allospargimento delle battiture relative al lavoro dell’incudine.

Periodo I. Fase 3. Uso degli impianti siderurgici (fig. 6). Le attività del maglio continuarono,poiché al di sopra delle US 119 e 118 si formò l’US 116, uno strato molto eterogeneo di colorevariabile dal grigio al rossiccio, composto da lenti di scaglia di ferro alternate a lenti rossastre diterreno limoso friabile e lacerti di battuto conservati al di sopra dell’incudine US 122, ormai nonpiù utilizzabile. Il battuto, di spessore variabile da 2 a 4 cm, è formato da scaglia di ferro compattatadal calpestio e grumi di ferro. Per quanto disomogeneo, lo strato conteneva ovunque grumi diferro di dimensioni variabili, ma più grandi nella zona presso l’US 108 e al di sopra dell’US 124,rarissimo carbone, pietrisco e rarissime battiture sferoidali.

Al di sopra del maglio e di parte del suo muro US 124 si forma poi l’US 108, uno strato limosonerastro contenente frustoli di carbone nella parte superficiale e grumi di ferro. Successivamente,al di sopra dell’US 116 (quindi nella zona dell’incudine US 122) e di parte dell’US 108 si deposital’US 110, uno strato di terreno compatto limo-sabbioso di colore bruno. Esso conteneva molticascami di ferro di piccole e medie dimensioni, rari frustoli di carbone e lenti di scaglia di ferro,

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Fig. 5: Valle delle Forme, saggio 1. Periodo I, fase 2.

nonché alcune pietre. È evidente che la formazione di questi strati di forgia sia da collegare all’impiegodell’incudine US 115, poiché la US 122 risultava obliterata e coperta dagli stessi scarti che produsse.

Per quanto concerne la derivazione del canale idraulico, durante il funzionamento degli impian-ti si assiste alla formazione dell’US 129. Si tratta di uno strato di sabbia e ghiaino di colore marronechiaro rinvenuto sul fondo della canalizzazione, al di sopra del lastricato US 132 e negli interstizifra le pietre. Il deposito conteneva numerosi grumi di ferro e un chiodo anch’esso in ferro. Più chedeposto intenzionalmente, questo strato si formò durante l’utilizzo del maglio: i pezzi di ferroprodotti nel corso delle lavorazioni si sono infiltrati negli spazi tra le pietre cementando di idrossidiil fondo della derivazione, che così migliorò la sua tenuta. All’estremità sud-ovest della porzione dicanale indagata, al di sopra dell’US 129 vi era una lente di sterile.

Periodo I. Fase 4. Abbandono e distruzione degli impianti. Dopo un periodo abbastanzacircoscritto di attività – non oltre un secolo – il bassofuoco, la fucina e il maglio della Valle delleForme vennero abbandonati. Non ci sono elementi per stabilire se l’asportazione delle attrezzatu-re degli impianti fu contestuale e collegata all’abbandono, o se invece si trattò di una spoliazione.Fatto sta che né le incudini, né i montanti del maglio, né attrezzi e strumenti sono stati rinvenuti nelcorso dello scavo. Questa precisa e attenta asportazione farebbe propendere per un trasferimentodeliberato in altro sito.

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In ogni caso, si assiste ora alla formazione dell’US 107, uno strato di terreno limoso bruno-rossiccio abbastanza compatto, esteso nella zona nord del saggio 1 al di sopra delle US 110 e inparte 108. Lo strato conteneva molti cascami di ferro e rari frustoli di carbone ed aveva un anda-mento in pendenza da est verso ovest. Si deve invece a un cedimento improvviso delle sostruzionidi contenimento della pendice montana sul lato sud il deposito delle US 106 e 111, sostanzialmen-te identiche. L’US 106 era uno spesso strato (40-50 cm) di terreno limoso friabile di colore grigiocenere che conteneva pietre di crollo di piccole e medie dimensioni, frustoli di carbone, rare scoriedi riduzione e di forgia, grumi ferruginosi e cenere. Lo strato si depositò nella zona nord del saggio1, nel senso della pendenza, quindi aveva uno spessore maggiore a monte; nel terreno è statorecuperato anche l’unico campione di ceramica rinvenuto sul sito, un frammento di contenitore iningobbiata e graffita. Del tutto analoga era l’US 111, uno strato di potenza notevole – oltre 50 cm– di cenere, terreno limoso-sabbioso molto friabile, con poche pietre di piccole e medie dimensio-ni, più rare quelle di grandi dimensioni, che andò a colmare il “Vano C” e tutta l’area fra il muro US112 e la sponda della derivazione del canale US 121. Lo strato conteneva scorie esclusivamente diriduzione, concentrate soprattutto lungo il muro del canale. Appare evidente che le due US sidepositarono in seguito al crollo e allo smottamento della zona immediatamente soprastante al“Vano C”, dove come abbiamo visto doveva essere ubicato il bassofuoco.

Al disuso della zona degli impianti si accompagnò il repentino interramento della derivazioneidraulica, ormai inutilizzata e quindi priva di manutenzione, ma soprattutto colmata dalla frana delmonte, che dovette interrompere anche il flusso dell’acqua. Nel tratto indagato archeologicamentela derivazione del canale risulta completamente riempita dall’US 120, analoga a 111, un potentestrato di terreno limoso grigio carbonioso, dello spessore di circa 1 m che conteneva cenere, scoriedi bassofuoco e pietre. Le scorie erano più concentrate lungo la sponda US 128, come se l’impetodello smottamento avesse trasportato più a valle i componenti più pesanti, compatti e di formatondeggiante. Il carbone era in pezzi centimetrici, soprattutto sul fondo dell’US, al di sopradell’acciottolato US 129. Le pietre erano di medie e grandi dimensioni.

Il deposito contemporaneo delle US 106, 111 e 120 sancì la repentina distruzione del bassofuocosulla pendice Sud-Est e allo stesso tempo rese impraticabile la forgia, il maglio e la derivazione idraulica.

In seguito a ciò l’area venne definitivamente abbandonata.

La struttura A. Si tratta di una struttura muraria a pianta sub-circolare, ben visibile in superficieancor prima dell’intervento archeologico presso il Saggio 2 (fig. 2). Essa era situata sulla pendicemeridionale dell’anfiteatro naturale che ospitava la fucina e il maglio ed era realizzata in muratura –US 105 – con pietre di medie e grandi dimensioni messe in opera a secco a formare una sorta ditino. Le pietre non erano disposte in filari regolari e non recavano traccia di lavorazione; si notaval’uso di qualche zeppa. Il fondo della struttura era costituito da pietre di grandi dimensioni; non ècerto che sul lato a valle vi fosse un’apertura. Non c’era alcuna traccia di rivestimento interno.

La struttura A si trovava immediatamente alle spalle della piattaforma US 112 e doveva essereanche molto prossima al bassofuoco. Il rinvenimento di minerale arrostito nell’humus che la riem-piva fa ipotizzare che la struttura sia da interpretare come il deposito di questa materia prima, daimpiegare nel vicino forno.

La struttura B. La cosiddetta struttura B – US 101 – era già individuabile in superficie, sebbeneparzialmente coperta dall’humus. Essa era situata sul terrazzo fluviale, a valle del sentiero-canale,prima del dislivello naturale che precede la zona del maglio e della fucina e risultava dunquesopraelevata di qualche metro rispetto agli impianti (fig. 2).

Di forma irregolarmente rettangolare – 2,50x1,80 m – risultava definita da muri a secco realiz-zati con blocchi di medie-grandi dimensioni con facce spianate di spacco o senza alcuna sgrossatura;in particolare, i muri nord e ovest sono costituiti da pietre sgrossate di grandi dimensioni (fino a90x40x35 cm), mentre la muratura sud sembra una sorta di divisorio, costruito in un secondotempo e realizzato in pietre più piccole.

Non è stato possibile appurare se per la realizzazione di tali muri sia stato scavato o meno losterile di base – US 104. Certamente esso venne tagliato per ottenere il piano di calpestio all’inter-no della struttura – US 103 – che consisteva di fatto nel tetto dello sterile stesso compattato.

All’interno di questo piccolo edificio si trovava lo strato nero carbonioso US 102, costituito daterreno limoso friabile ad andamento orizzontale, composto principalmente da polvere e frustoli

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Fig. 6: Valle delle Forme, saggio 1. Periodo I, fase 3.

di carbone, raramente in pezzi centimetrici. La densità dei carboni era minore in superficie edaumentava nella parte più profonda dello strato.

La funzione della struttura B era verosimilmente quella di deposito del combustibile, funziona-le al vicino basso fuoco, ma a distanza di sicurezza da esso.

Area di scavo Saggio 3

Il saggio 3 è stato aperto lungo l’attuale sentiero della Valle delle Forme, poco a monte dell’areadel bassofuoco-fucina-maglio e quindi dei saggi 1 e 2 (fig. 2). Ricorderemo che la memoria storicalocale identifica con precisione l’attuale sentiero della Valle delle Forme con il tracciato dell’anticocanale idraulico che forniva l’energia idraulica agli impianti siderurgici.

Il saggio 3 è un piccolo sondaggio – 0,60x1,40 m – condotto allo scopo di verificare la presenzadi tale canalizzazione. Al di sotto di un livello di humus è stato scavato uno strato di terreno grigio-bruno limoso contenente scorie e pietre di piccole dimensioni. Esso copriva un deposito di terre-no limoso giallastro misto a pietre di medie dimensioni, che insisteva sopra il fondo del canale,scavato nello sterile. Il canale non risultava pavimentato, come invece era nel tratto più a valle.

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Area di scavo Saggio 4 (figg. 2 e 7)

Il saggio 4 è stato aperto a breve distanza dalle attuali baite della Valle delle Forme (circa 15-20m), nell’ampio terrazzo fluviale quasi pianeggiante prospiciente il torrente Grigna che in questopunto forma una larga curva, poco più a valle della sua confluenza con il torrente Gabbia.

Nell’area, e precisamente dove oggi sorge una delle baite in muratura, fu impiantato nel BassoMedioevo un altoforno. Di esso non resta molto, poiché i lavori per la realizzazione dell’edificiomoderno hanno in parte sfruttato e in parte distrutto la struttura siderurgica. Fra gli annessi delforno si annoverava anche un pestaloppe, che venne impiantato fra il canale idraulico ed un enor-me masso di frana. Il saggio 4 è stato aperto sul retro di questo masso, dove si accumularono gliscarti prodotti dal macchinario.

Periodo II. Fase 1. Impianto del pesta loppe. Prima dell’impianto del pestaloppe, la zona sipresentava come un largo terrazzo spianato il cui bordo degrada bruscamente verso il sottostantetorrente Grigna, con un dislivello quasi verticale di m 110. Data la sua posizione ai piedi del DossoFigarolo, l’area è stata in varie fasi interessata dal crollo di massi anche di dimensioni imponenti.

Uno di questi, convenzionalmente denominato US 407 (7,40x4 m), si conficcò in verticale neipressi dell’area dove sorse poi l’altoforno, a guisa di una gigantesca stele. Fra questo enorme pietronee il canale idraulico venne impiantato il pestaloppe. Lo scavo ha invece interessato l’area a ridossodel masso, sul retro di esso, presso il bordo del terrazzo fluviale.

Il suolo di base era costituito dal paleosuolo quaternario – US 419 – limo argilloso ricco dipietrisco e ciottoli fluviali, al di sopra del quale si era depositata l’US 418, un sottile strato di sabbiafluviale di origine alluvionale.

Il primo livello antropico al di sopra di questi depositi naturali è l’US 409, uno spesso strato disabbia limosa beige compatta mista a poca argilla, contenente piccoli frammenti di scorie, frustolidi carbone e pietrisco. Lo strato risultava più spesso a monte, lungo il pietrone US 407, ed aveva unandamento irregolare. Si tratta della prima frequentazione dell’area, quando l’altoforno aveva ini-ziato la sua attività.

Nella US 409 furono scavati alcuni piccoli alloggi per pali. L’US 411 era una piccola bucacircolare (diametro 5,5 cm e profondità 8 cm) posta alla distanza di 1,14 m dalla parete rocciosadella pietra 407. La buca US 412 (15x 7,5 cm e profondità 10 cm) aveva una forma irregolarmenterettangolare con le estremità ingrossate e un andamento sbieco rispetto alla pietra 407; era riempitadall’US 415, costituita da carbone, scoria polverizzata e ghiaino, di conseguenza risultava granulosae di colore nerastro. La buca US 414 aveva forma ovale (8x 16cm e profondità 7,5 cm) ed era la piùdistante dalla pietra 407 –2,68 m. Non è certa la funzione di questi piccoli alloggi per palo.

Periodo II. Fase 2. Funzionamento del pesta loppe. Le buche suddette furono coperte oriempite da alcuni depositi che si formarono a seguito dell’attività del pestaloppe. Innanzituttol’US 408, un sottile strato di terreno limoso-sabbioso ricco di carbone schiacciato che gli conferivaun colore nerastro, esteso nella parte più a valle del sondaggio; esso conteneva scorie polverizzatee in frammenti di piccole dimensioni. Lo strato si ispessiva verso valle, dove conteneva scorie dimaggiori dimensioni. Più consistente era l’US 405, estesa solo nella parte più a monte del saggio, aridosso del pietrone 407; essa era costituita da sabbia beige a granulometria grossolana e scoriefrantumate. Al di sopra di questi due depositi si formò l’US 406, uno strato ghiaioso di consistenzasciolta e colore rossiccio, composto da ghiaino, scorie di piccole dimensioni, polvere di scoria,ferro e frustoli di carbone. Il terreno aveva assunto una colorazione ferruginosa per la forte pre-senza di ossidi di ferro. Lo strato si estendeva nella porzione a valle del saggio. Nella parte più amonte, a ridosso del pietrone 407, si formò quasi contemporaneamente l’US 404, uno strato ghiaiosodi colore nocciola e di consistenza abbastanza sciolta composto da limo, sabbia fluviale e scorie.

Come si è visto, tutti questi strati sono accomunati da una consistenza e una granulometriauniformemente grossolana e dalla massiccia presenza di scorie frantumate in piccoli pezzi o addirittura polve-rizzate. La loro formazione è evidentemente da mettere in relazione col funzionamento del pestaloppe.

Periodo II. Fase 3. Esondazione fluviale. L’attività del pestaloppe venne bruscamente inter-rotta da un evento naturale: un’inondazione che investì tutto il terrazzo fluviale e che causò ildeposito dello strato US 403. Il torrente Grigna non era certo nuovo a questo genere di esondazioni:

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Fig. 7: Valle delle Forme, saggio 4, sezione sud-est.

ancora oggi le forti piene che lo interessano sono spesso disastrose; tuttavia quest’area delle baiterisulta abbastanza protetta poiché l’alveo del torrente si trova ad una quota decisamente inferiore.Ma nel periodo in cui l’altoforno e il pestaloppe erano in attività era presente il canale di adduzionedelle acque per il complesso del bassofuoco-fucina-maglio. Esso potrebbe avere svolto quindi lafunzione – non voluta – di convogliare le acque della piena nell’area pianeggiate del terrazzo. Lostrato US 403 era costituito da terreno sabbioso compatto di colore beige, contenente carbone,intercalato da lenti più ghiaiose. Lo spessore dello strato, piuttosto consistente, è invece ridotto aridosso del pietrone 407, che forse riparò un po’ la zona dall’alluvione.

Tale evento naturale separò due fasi dello stesso periodo siderurgico.

Periodo II. Fase 4. Ultime attività del pestaloppe. Dopo l’inondazione dell’area, le attivitàsiderurgiche connesse all’altoforno ripresero, anche se per un periodo piuttosto breve: il pestaloppecontinuò ad essere in funzione ed in seguito a ciò si formò l’US 402. Si tratta di uno strato dispessore variabile – da 8 a 20 cm – di sabbia e ghiaino, di colore marrone nocciola, costituito dapolvere e pietrisco di scorie d’altoforno frantumate, scorie di piccole e medie dimensioni d’altofor-no e pietrisco. Questa ripresa indica che l’alluvione non aveva danneggiato le strutture siderurgichee doveva averne causato solo una momentanea sospensione dei lavori.

Fu questa l’ultima fase di attività del pestaloppe, dopodiché l’impianto venne abbandonato osmantellato, forse in concomitanza all’altoforno.

Periodo II. Fase 5. Abbandono dell’altoforno e del pestaloppe. All’abbandono e almeno inparte allo smantellamento dell’altoforno e delle strutture ad esso sussidiarie seguì il lento dilavamentodell’area. Nel saggio 4, più a valle rispetto alla zona dove era impiantato l’altoforno, si assiste allaformazione dell’US 401, uno strato limoso friabile di colore nero, piuttosto spesso, che contenevacarbone in polvere e in pezzi, scorie polverizzate, piccole scorie d’altoforno e pietre. Il deposito diquesta US dovette avvenire in un lasso di tempo piuttosto ampio.

Infine, al di sopra dell’US 401 e su tutta l’area si formò un sottile strato di humus – US 400.

Area di scavo Saggio 5

Anche il saggio 5, come il saggio 3, è stato aperto lungo l’attuale sentiero che dalle baite dellaValle delle Forme conduce fino alla zona del bassofuoco-forgia-maglio (fig. 2). Il sondaggio sitrova alla distanza di circa 20 m dal saggio 4.

Scopo di questo piccolo assaggio – 0,50x1,20 m – era di confermare la presenza, in questazona, del canale di adduzione delle acque per il funzionamento del maglio. In effetti, il sentieroattuale risulta fiancheggiato da entrambi i lati da grossi pietrosi infissi in verticale nel terreno, aformare come due muri paralleli; e abbiamo visto nel saggio 2 che il canale non solo era bordato da

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due strutture murarie parallele, ma era anche ricalcato dallo stesso sentiero attualmente in uso.Il sondaggio ha permesso di appurare la presenza del canale, all’interno del quale vi era un

unico strato di terreno limoso sciolto di colore bruno, contenente pietre di medie e piccole dimen-sioni. Al contatto con lo sterile di base, si rilevava la presenza di numerose scorie di bassofuoco.Almeno in questo tratto, non si rilevava traccia di alcuna pavimentazione. Il canale risultava dellalarghezza di 1,20 m.

L’interpretazione possibile di queste evidenze è che le scorie del bassofuoco ubicato 100 m piùa valle siano state portate in questa zona per essere riciclate direttamente nell’altoforno, o macinatenel pestaloppe.

Gli scarti di produzione

Le scorie del basso fuoco. Nel saggio 2 sono state recuperate numerose scorie prodotte dall’at-tività di uno o più bassofuochi. Si tratta di scorie pesanti, sia interne sia colate dal forno, che nonmostrano diversificazioni rispetto a quelle recuperate nello scavo del 1997, e alla cui edizione sirimanda per le considerazioni morfologiche, chimiche e micrografiche8.

Le scorie dell’altoforno. Ad eccezione di rari esemplari frammentari rinvenuti nel saggio 1, lescorie leggere e vetrose prodotte dall’altoforno sono state recuperate tutte nell’area del saggio 4 edelle baite moderne. Tuttavia il pestaloppe che era in funzione in questa zona le ha ridotte quasitutte allo stato di polvere grossolana e ghiaino. I pochi campioni di dimensioni centimetricherecuperati sono di colore variabile dall’azzurro chiaro al beige-biancastro, vetrosi e lucidi. La frat-tura è concoide, il peso specifico molto basso. Le analisi sono in corso.

Le scorie della forgia. La quasi totalità degli scarti siderurgici rinvenuti nel saggio 1 sono riferibilialle attività della fucina e del maglio. Tali impianti furono in uso nelle fasi 2 e 3 del Periodo I,quando all’interno della fucina si succedettero nell’uso due diverse basi per l’incudine (US 122prima e successivamente US 115), dato l’imponente accumulo degli scarti. L’affinazione della ghisae la forgiatura delle barre di ferro riscaldate produssero una notevole quantità di battiture, costitu-ite per la maggior parte da scaglie lamellari. Tuttavia in rari casi è stato possibile recuperare anchedei campioni di battiture granulari e sferoidali.

La notevole quantità di scaglia e battiture rinvenute è dovuta al fatto che durante le operazionidi forgiatura sulla superficie del metallo, a contatto con l’atmosfera, si formavano degli ossidi9. Lebattiture, cioè queste scaglie o particelle millimetriche di ossidi di ferro, sono di varia forma erisultano costituite da wustite, magnetite e silicati di ferro; in genere quindi sono molto magneti-che. La loro morfologia e composizione mineralogica sono connesse all’operazione di forgia che leprodusse, e quindi al contesto termodinamico di ossidazione. Ad esempio, le battiture sferoidalisono indizio di estrema fluidità, poiché furono espulse dal metallo caldo sotto forma di biglie.

Le battiture erano per lo più inglobate in un cemento di idrossidi assieme a frustoli di carbone,ghiaino, cascami di ferro e qualche scoria di riduzione frammentaria. Ricorderemo che il ghiainoera utilizzato durante le lavorazioni alla forgia come decapante. Tutti questi materiali costituivanoil suolo della fucina. In effetti, esso era formato – come si è visto nell’edizione dello scavo delsaggio 1 – da numerosi livelli che corrispondono alle diverse fasi di attività della forgia. Ognuno diquesti livelli rappresenta una sequenza di attività, di spessore più o meno consistente a secondadella durata e delle intensità delle operazioni che vi si svolsero. Le concrezioni di idrossidi si pre-sentavano come croste e aggregati compositi di colore nerastro o ruggine, piuttosto tenaci e coe-renti ancorché eterogenei10. L’indurimento di questi livelli sedimentari è dovuto alla precipitazionedegli ossidi di ferro.

8) CUCINI TIZZONI-TIZZONI 1999-a, pp. 204-207.

9) Questo fenomeno è detto “corrosione secca del ferroad alta temperatura”, LEBLANC 2004, p. 103.

10) Ricorderemo che anche la forgia tardoantica di Ponte di Val Gab-bia III produsse un’enorme quantità di scarti di questo tipo, CUCINITIZZONI 1999, pp. 111-113.

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Oltre alle battiture, i livelli del suolo della fucina contenevano una notevole quantità di scarti ecascami centimetrici di ferro metallico, caduti nel corso delle lavorazioni o tagliati dal fabbro volontaria-mente. Questi piccoli pezzetti di metallo sono quasi sempre fortemente ossidati e molto magnetici.

Negli strati di attività della forgia sono stati recuperati anche alcuni manufatti di ferro metallicomolto ossidati, la cui forma originaria non è sempre riconoscibile e di cui non è possibile tentareun’analisi. In alcuni casi si tratta di chiodi a testa rotonda e sezione quadrata, o di ganci e zanche.

Più interessanti e ricche di informazioni sono alcune scorie a calotta frammentarie, attualmentein corso di analisi. Il loro elevato peso specifico e più in generale la presenza di frammenti metallicia struttura ledeburitica o con fiocchi di grafite negli scarti di forgia della Valle delle Forme sembraindicare l’ambito della forgia di affinazione o di decarburazione della ghisa. Il rinvenimento dellabase del maglio e il collegamento accertato tra il funzionamento di quest’ultimo e l’altoforno ubicatopiù a monte – collegamento costituito dal canale idraulico – farebbe propendere per l’interpreta-zione di questo impianto come una fucina grossa dove si decarburava la ghisa prodotta dall’alto-forno e si producevano quadri di ferro11.

Parte seconda. la tecnologia nella valle delle forme

Il basso fuoco. Come si è detto, il bassofuoco della Valle delle Forme non è stato rinvenuto,poiché distrutto dalle frane che interessarono l’area. Esso doveva essere ubicato sulla pendicemontana che borda a sud-est il terrazzo fluviale dove si trovava il maglio.

In base alle caratteristiche degli scarti recuperati, possiamo confermare quanto già scritto inprecedenza: il forno o i forni attivi nella Valle delle Forme erano del tipo slag-tapping, cioè evacua-vano la scoria nel corso del processo siderurgico. Le scorie, molto vacuolari, colavano all’esternodella struttura di riduzione in una vaschetta scavata nel terreno antistante la porta anteriore delforno.

La fucina. Con il termine fucina si indica innanzitutto l’edificio dove si lavorano il ferro e l’acciaio12.Almeno dal Basso Medioevo in poi, nell’area alpina la localizzazione di questo impianto è legata

esclusivamente alla disponibilità della forza motrice, cioè l’energia idraulica fornita da canali e derivazio-ni.

È interessante osservare come questa fucina della Valle delle Forme abbia caratteristiche analo-ghe a quelle del centro storico di Bienno, dove fino a cinquant’anni fa ne erano attive più di sessan-ta13. Qui la fucina consiste solitamente in un fabbricato a pianta rettangolare che segue a vallel’andamento del canale idraulico ed è seminterrato verso monte. All’interno c’è un unico ambiente,alto, dove si svolgono tutte le fasi della lavorazione alla forgia. Le pareti sono in pietrame legato dapoca malta, il tetto ad un solo spiovente è in legno e piode, il pavimento è in terra battuta che benattutisce e assorbe i colpi del maglio e si può raffreddare con un secchio d’acqua in caso di bisogno.Per lavorare il ferro incandescente e distinguerne bene l’intensità del riscaldo – rosso, bianco sal-dante, ecc. – è necessaria la penombra, quindi vi sono poche o nessuna finestra. La scarsa illumina-zione giunge da alcune piccole aperture praticate nel tetto, che servono per far uscire i fumi e ilcalore delle lavorazioni. Nella parete lungo il canale, vicino al maglio, si apre una porta bassa, conarchitrave di pietra, per permettere ai lavoranti di uscire per la manutenzione della ruota idraulica.

Un aspetto simile doveva avere la fucina della Valle delle Forme. Anche qui muri in pietrame, unambiente addossato alla pendice montana e dall’altro lato confinante con la derivazione del canale(fig. 8). Al suo interno, accanto al maglio, si trovavano gli altri due elementi fondamentali per laforgiatura e il trattamento di ferro e acciaio: il fucinale o focolare di riscaldo per i pezzi in lavorazio-ne, e l’incudine. Il fucinale aveva la funzione di riscaldare il ferro lavorato perché fosse più duttile.La base dell’incudine era la grossa pietra US 122, come mostra lo spargimento di scaglia e grumi di

11) Sulla fucina grossa e il processo di decarburazione del ferroCUCINI TIZZONI 1997, pp. 420-424.

12) Come significato secondario c’è anche quello di fucinale o

forgia, cioè la parte più importante dell’edificio, CUCINI TIZ-ZONI 1997, s.v. Fosina.

13) CAVALLI 1978, pp. 27-28.

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ferro nell’area ad essa circostante, e successivamente la pietra US 115. L’incudine di ferro acciaiato,che fu recuperata prima dell’abbandono del sito, doveva essere alloggiata all’interno della cavitàirregolare praticata al centro della pietra.

Il maglio. Per definizione, un maglio è una pesante mazza battente di ferro che cadendopercuote il metallo rovente posto sull’incudine, nel corso della sua fucinatura e messa in forma14.Esso serve anche a spremere fuori dal ferro le piccole scorie e le inclusioni eterogenee che ancoravi si trovano e che si separano come loppe o colano come vetro liquido.

Nella Valle delle Forme il maglio era del tipo “a coda” o “ad altalena”, fino ad oggi il meccani-smo più diffuso nella zona alpina lombarda e più in generale italiana. Anzi, proprio nel centrostorico di Bienno le numerosissime fucine un tempo attive lungo il Vaso Re, e che hanno dato alpaese il nome di “valle dei magli”15, erano tutte dotate di questo tipo di impianto.

Il maglio ad altalena funziona come una leva di primo genere. Esso è formato da tre partiprincipali: a) la testa o penna, cioè la vera e propria mazza battente di ferro; b) il manico, unrobusto tronco di legno di quercia o di faggio, cerchiato di ferro; c) i perni, uniti al manico permezzo della boga (il fulcro della leva) della quale fanno parte, che si muovono liberamente in duealloggi sostenuti da una robusta incastellatura in legno e pietra, affinché il meccanismo ruoti attor-no ad un asse orizzontale. La boga e i perni suddividono il manico in due parti disuguali, la testacon la mazza battente e la coda, sempre più corta.

Per azionare il maglio si impiega l’energia idraulica del canale tramite una ruota, che fa girare unalbero orizzontale che entra all’interno della fucina. Questo albero è fasciato all’estremità da uncerchio di ferro munito di camme che, percuotendo la coda del manico in qualche sua appendice,fanno innalzare la testa che poi per il proprio peso ricade battendo con colpi forti e frequenti sulmetallo rovente che il fabbro volta e rivolta sull’incudine. L’albero motore è di solito ortogonalerispetto al manico (fig. 8).

Lo scavo ha portato alla luce i resti della base del maglio; come si è visto, tutte le parti in ferroacciaiato furono portate via assieme agli strumenti da forgia prima dell’abbandono del sito.

Il pietrone perfettamente spianato US 126 era la massa, cioè un masso di grandi dimensioni dipietra dura e resistente, incassato nel suolo della fucina, sul quale era posta l’incudine del maglio dicui fungeva da sostegno impedendone lo sprofondamento. La massa della Valle delle Forme ha alcentro un incavo rettangolare realizzato con cura che costituiva l’alloggio per l’azzaletto o azzalino,l’incudine di ferro acciaiato situata sotto la testa del maglio in corrispondenza della penna, e fissataalla massa stessa. Sull’azzaletto era posto il ferro in lavorazione. La massa doveva essere posata aldi sopra di uno strato di legname e stracci che ammortizzavano le forti vibrazioni dei colpi delmaglio. Tutto attorno alla massa, per 60 – 80 cm sono infisse nel suolo pietre di medie dimensioniche la rincalzano e la zeppano – US 124. Nel complesso, l’ingombro della base del maglio è di2,50x2,30 m.

Il manico del maglio, parallelo al canale idraulico, era situato sul lato a valle della massa. Èinteressante osservare che nelle fucine tradizionali del centro storico di Bienno la disposizione è lastessa, forse perché la più funzionale.

Lo scavo non si è esteso nella zona dell’incastellatura in cui era imperniato il manico del maglio,poiché ingombra di detriti.

Il canale di adduzione dell’acqua. Una delle opere senza dubbio più imponenti della Valledelle Forme era il lungo canale che forniva l’energia idraulica agli impianti siderurgici (fig. 2).

L’esistenza di questa canalizzazione è ben presente nella memoria storica locale, che la identifi-ca con precisione nel sentiero che ancora oggi porta al sito del maglio e della fucina, partendo dalguado sul torrente Grigna situato poco a monte delle moderne baite della Valle delle Forme. Ilsentiero risulta bordato sui due lati da grosse pietre infitte nel terreno, che facevano parte eviden-

14) Per tutto ciò e quello che segue, quando non altrimenti spe-cificato, CUCINI TIZZONI 1997, p. 421 e s.v. Magli.

15) Oggi è ancora attiva una sola fucina tradizionale, dove è pos-sibile vedere in azione questo tipo di maglio, inoltre un meccani-smo analogo è conservato nella fucina-museo.

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temente dei due muri a secco che lo delimita-vano e che oggi sono in gran parte distrutti.

Contrariamente alle perplessità e allo scet-ticismo sull’identificazione sentiero-canaleespresse proprio da chi scrive nell’edizione de-gli scavi del 199716, la tradizione orale è risulta-ta validamente fondata.

Il canale idraulico prelevava l’acqua delGrigna nella zona del guado e, con una pen-denza lieve ma costante, percorreva il terrazzofluviale passando prima nella zona dell’altofor-no, per proseguire poi fino alla fucina. La lun-ghezza totale della canalizzazione era di oltre150 m. A circa 20 m a monte della fucina, ilterrazzo fluviale mostra un dislivello in corri-spondenza di una sorta di sperone della pendicemontana che lo restringe in questo punto: quiil canale si biforcava. Mentre la canalizzazioneprincipale, oggi ricalcata dal sentiero, proseguivapresso il bordo del terrazzo, una derivazionead essa quasi parallela correva più internamen-te per giungere ad alimentare la ruota idraulicadel maglio. Evidentemente una paratia permet-teva di regolare il flusso quando gli impiantisiderurgici erano in funzione. Purtroppo la fra-na della pendice montana non ha permesso diseguire tutta la derivazione. Il dislivello di quasi8 m permetteva al flusso dell’acqua di aumen-tare di velocità, e quindi di forza motrice.

Il tratto di derivazione scavato nel Saggio 2era costituito da due muri paralleli a secco, in pietrame con faccia spianata di spacco e zeppe dirincalzo; il fondo del canale aveva un acciottolato. I muri laterali non sono molto conservati inelevato, la profondità conservata risulta al massimo di 45-50 cm, troppo ridotta per azionare unaruota idraulica. La derivazione risulta larga 70-80 cm.

Il canale principale, invece, era più ampio, 1,20-1,40 m. Esso è stato indagato in due punti – saggi 3e 5 – del tratto rettilineo che corre tra le baite moderne e la sua biforcazione. I muri laterali risultavanoridotti soltanto a grosse pietre infitte nel suolo, la pavimentazione sembrava inesistente.

La derivazione doveva azionare una o più ruote idrauliche, una delle quali certamente collegataal maglio; essa o esse dovevano essere del tipo “per di sotto”, cioè le pale venivano colpite in bassodall’acqua corrente, dato che il canale non era sopraelevato e non permetteva dunque una cadutad’acqua dall’alto.

L’altoforno. La presenza di un altoforno di tipo arcaico nella Valle delle Forme era segnalatadallo spargimento di laitiers e scorie leggere nell’area delle baite moderne, presso la carrarecciaattuale ed il guado sul torrente Grigna. Già in superficie si notava comunque che tali scarti eranostati frantumati e spesso ridotti in polvere in modo sistematico, tanto che il terreno risultava co-sparso di minuti frammenti di scorie vetrose varicolori. L’apertura del saggio 4 ha permesso distabilire l’esistenza di un pestaloppe fra gli impianti sussidiari dell’altoforno, il che non solo spiegail grado di frantumazione degli scarti, ma anche conferma l’esistenza dell’altoforno stesso.

Le baite ancora in uso in Valle delle Forme sono due, una in legno e lamiera e l’altra, piuttostoantica, in muratura. Quest’ultima risulta interessante poiché in parte semisotterranea, realizzata in

Fig. 8: Valle delle Forme, proposta di ricostruzioneipotetica del maglio ad altalena in uso nella fucina

(rielaborato da CAVALLI 1978): 1) testa; 2) incastellatura;3) boga; 4) manico; 5) albero a camme; 6) ruota idraulica;

7) canale idraulico.

16) CUCINI TIZZONI-TIZZONI 1999, p. 204.

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grosse bozze di pietra e con la parte verso il fondo completamente interrata nella pendice delmonte. È questa una tecnica costruttiva molto antica, documentata in varianti più primitive anchea Ponte di Val Gabbia III17.

L’area circostante le baite moderne, soprattutto a monte, si presentava nel 2006 molto sconvol-ta e devastata non solo dal recente taglio degli abeti, ma anche da smottamenti e frane. Al di sopradelle costruzioni si intravedevano due avvallamenti semicircolari, uno dei quali poteva far pensareall’esistenza di strutture in situ a pianta rotonda, poi crollate. Anche le scorie sparse in quest’arearisultavano poco numerose. L’attenta esplorazione del suolo ha permesso di individuare, nelsottobosco accanto alla baita in muratura, sulla destra guardandone la facciata, due grosse pietresquadrate di forno, ricoperte su di un lato da una spessa scorificazione. Si trattava di due grossebozze ben rifinite; la scorificazione sul lato interno era relativa a ferro colato.

L’ipotesi più verosimile è che l’altoforno si trovasse lungo il canale idraulico, indispensabile perfornire l’energia motrice ai mantici, forse proprio nel punto dove successivamente venne edificatala baita in muratura.

Il pesta loppe. Oltre all’altoforno, gli impianti di epoca rinascimentale della Valle delle Formecomprendevano certamente anche il pestaloppe. Questo macchinario, che doveva trovarsi nellazona fra il canale idraulico e il saggio 4, serviva a macinare le loppe – cioè le scorie prodottedall’altoforno – per recuperare il cosiddetto “ferrino”. In effetti le scorie prodotte da questo comeda tutti gli altoforni preindustriali lombardi erano del tipo detto laitier à grenaille18, contenevanocioè una notevole concentrazione di sferule e filamenti metallici rimasti intrappolati nella densamatrice vetrosa. È interessante ricordare che il famoso metallurgista Vittore Zoppetti notava, allafine dell’Ottocento, che il recupero del ferrino era molto importante in Lombardia, mentre eramolto raro all’estero e ciò era dovuto “alla maggior basicità delle nostre loppe, le quali menofacilmente si separano dal metallo se non provengono da minerali molto manganiferi”19.

Le particelle metalliche venivano estratte macinando le scorie e costituivano appunto il ferrinoo ferro minuto20 che veniva recuperato anche in enormi quantitativi: esso aveva una resa eccellente,attorno all’80 % di ferro. Un esempio ben documentato di ciò si ha nei libri mastri del XVII eXVIII secolo della “Fabbrica del ferro” di Locarno Valsesia (Vercelli), un altoforno di proprietàdei marchesi d’Adda di Milano21. A Locarno la quantità di ghisa ricavata dalle scorie riciclate e dalferrino era così imponente da rappresentare oltre la metà del totale prodotto22.

Spesso nei contratti di lavoro siderurgico del XVII secolo della Valsassina e del comprensoriodelle valli bergamasche Brembana, Torta ed Averara le maestranze impiegate all’altoforno si impe-gnavano non solo a far andare il pestaloppe, a farne la manutenzione e a consegnare il ferro minutodiligentemente estratto ad un prezzo pattuito, ma anche a non vendere ad altri tale ferrino, né a farportare via le loppe ad alcuno23.

Nella Valle delle Forme, come anche a Locarno e in tutta la zona alpina24, non ci si limitava alriciclaggio delle scorie di altoforno, ma si pestavano anche quelle – ben più ricche di ferro - prodot-te dal bassofuoco e dalle fucine25; ciò spiega perché non esistono, nel sito in esame, grandi cumuli

17) CUCINI TIZZONI 1999 e TIZZONI-CUCINI TIZZO-NI-ZAHOVA 2005.

18) PLOQUIN 1994, p. 21.

19) ZOPPETTI 1873, p. 113.

20) Su tutto ciò ed il riciclaggio delle scorie negli altofornipreindustriali si veda CUCINI TIZZONI-TIZZONI 2001, pp.168-169.

21) Lo studio dei dettagliati rendiconti relativi alla produzione ditale impianto dal 1657 al 1785 è in TIZZONI 1991.

22) Ad esempio nel 1775 a Locarno vennero prodotte quasi 70tonnellate di ghisa, di cui il 48 % dalla riduzione del minerale e il

52 % da scorie riciclate e ferrino, CUCINI TIZZONI-TIZZO-NI 2001, p. 169.

23) TIZZONI 1997 pp. 252, 264, 274, 310, 325, 332, 333, 335,339, 341. TIZZONI 1998 pp. 203, 216, 221, 221-222, 244-245,246, 303, 377-378. Ad esempio il 19 giugno 1679 GiovanniBuzzoni fa i conti con i suoi lavoranti, i fratelli Rota, del ferroestratto et ricavato dalli loppi, et escrementi di ferro, sopral’edifitio del pestaloppo… del forno da ferro di Valtorta, TIZ-ZONI 1997, p. 339.

24) Nel XVII secolo, ad esempio in Valsassina erano dotati dipestaloppe gli altoforni della Soglia e di S. Giorgio pressoPremana, quelli della Troggia, della Pioverna e di Cremonno,TIZZONI 1998. Nelle valli Averara, Brembana e Torta ilpestaloppe è attestato negli altoforni di Lenna, Branzi, Mezzoldoe Valtorta, TIZZONI 1997.

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di scarti siderurgici che furono certamente pro-dotti in secoli di attività. Come abbiamo detto,gli scarti rinvenuti nel Saggio 4 sono costituitida scorie polverizzate o ridotte in piccoli fram-menti: ciò autorizza a pensare dunque all’esi-stenza di un pestaloppe.

Di questo macchinario abbiamo numerosenotizie documentarie, ma almeno fino ad oggi,nessuna descrizione o illustrazione: i manualidi siderurgia e più in generale di metallurgiadel Rinascimento e dell’età modernapreindustriale non recano traccia di tale impian-to, forse perché furono stilati altrove e non inLombardia. È comunque probabile che ilpestaloppe fosse un meccanismo analogo aquello detto “pestatoia” o “pistino” che veni-va impiegato per frantumare il minerale primadel suo lavaggio, per poi immetterlo nel forno.Al contrario del pestaloppe, questo apparec-chio è rappresentato in quasi tutti i maggioritrattati di arte mineraria e metallurgica.

Nel 1556 Agricola, nel De re metallica, raf-figura spesso questo impianto a proposito deltrattamento di diversi minerali26. Nel 1588 essoè raffigurato nella Cosmografia di SebastianMünster e compare inoltre in una illustrazionedal Codex Dip. 856 del Tiroler LandesmuseumFerdinandeum di Insbruck27. Fra i trattatisti ita-liani, Della Fratta Montalbano nel 1678 descri-ve e illustra la “pestatoia”, che serviva appuntoa “pestare e lavar le vene”28. Nell’Encyclopédie del 1762-1772 è illustrata una analoga macchina perfrantumare il minerale29. Infine Nicolis de Robilant, nei suoi Voyages compiuti alla fine del Sette-cento raffigura diversi macchinari di questo stesso tipo, impiegati sia per frantumare minerali, sianelle fabbriche di cristalli e vetri a Venezia30.

Dall’analisi di tutte queste illustrazioni appare evidente come il macchinario non avesse subitosostanzialmente modifiche negli oltre due secoli in cui è testimoniato. Le uniche differenze concer-nono semmai l’energia motrice ad esso applicata, quasi sempre quella idraulica, ma talvolta anchemuscolare. Evidentemente la sua forma e le caratteristiche tecniche erano ottimali per lo scopo acui doveva attendere.

Si può forse ragionevolmente ipotizzare che anche il pestaloppe fosse un macchinario di que-sto tipo. La descrizione di Della Fratta è abbastanza dettagliata da permetterci una breve descrizio-ne della “pestatoia”.

La base del macchinario è costituita da un tronco squadrato di legno di ottima qualità, lungoalmeno sei piedi. Il trave risulta scavato al suo interno e nella cavità sono poste una o più piastre di

Fig. 9: La “pestatoia” della Pratica minerale di DELLAFRATTA MONTALBANO 1678.

25) Con alcune differenze d’impiego significative: le scorie ric-che erano utilizzate per la decarburazione della ghisa alla forgianel “metodo bergamasco”, CUCINI TIZZONI 1997, pp. 422-423. CUCINI TIZZONI-TIZZONI 2001, p. 169.

26) Nell’edizione di New York del 1950, a c. di H.C. HOOVERe L.H. HOOVER, si vedano le illustrazioni alle pp. 284, 286,287, 313, 320, 321, 373, 374.

27) Si veda l’edizione del 2006 dello Schwazer Bergbuch, pp.893 e 943.

28) DELLA FRATTA MONTALBANO 1678, Cap. X e XI, pp.58-65.

29) Il mestiere e il sapere 200 anni fa 1983, p. 432.

30) NICOLIS DE ROBILANT 2001, figg. 54, 64, 88.

31) Se il minerale deve essere lavato, sul davanti si mette unagrata di filo di ferro o una lastra sottile di ferro traforata, per faruscire “la materia pesta”e l’acqua eventualmente impiegata. Incaso contrario, la base non ha sponde.

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ferro, dove viene poi gettato il minerale per essere fatto a pezzi31. Ad entrambi i capi di questapestatoia si fissano in verticale due travi alte sei piedi, al traverso delle quali si mettono due spessitavoloni incastrati a coda di rondine e distanziati tra loro. I “pestelloni” devono passare nel vuotofra i due tavoloni, in modo da poter scorrere su e giù. In alto i travi posti in verticale sono benfissati con tavoloni e cavicchie di ferro. I pestelloni sono di legno squadrato e lunghi almeno seipiedi, perché più sono pesanti, più sono efficaci. Sul fondo essi hanno un foro dove è fissato unmassiccio quadrato di ferro, grosso quattro dita (fig. 9).

Per azionare la pestatoia è necessario un albero a camme, inserito sul retro del macchinario, unasorta di “colonnetta di legno” che è munita di robusti perni di ferro alle due estremità: ad una diesse è collegata la ruota idraulica a pale, con una caduta d’acqua che fa ruotare l’albero a camme.Esso è appunto munito di una serie di camme o “denti” ciascuna corrispondente ad un pestellone,disposte in modo per il cui tramite essi si sollevano alternatamente, in modo da funzionare unodopo l’altro.

Come mostra l’iconografia nella trattatistica mineraria-metallurgica del XVI-XVIII secolo, questomacchinario doveva essere molto diffuso; è probabile che il pestaloppe, in uso solo nelle vallilombarde a causa del particolare minerale impiegato, funzionasse in modo analogo.

Nell’impianto della Valle delle Forme il canale di adduzione delle acque doveva essere sfruttato,oltre che per l’altoforno e, molto più a valle, per il maglio e la forgia, anche per azionare il pestaloppe.È probabile che quest’ultimo fosse ubicato fra il canale e il grosso masso US 407. Una provaindiretta a favore di questa localizzazione è fornita dalle numerose scorie di bassofuoco recuperatenel Saggio 5 sul fondo del canale, troppo lontane dal forno che le produsse, situato molto più avalle, a circa 70 m dal punto di rinvenimento. Questa zona è inoltre molto vicina all’altoforno,situato sull’altra sponda del canale. Le scorie polverizzate dal pestaloppe si sparsero poi in tuttal’area circostante, compresa quella dove si è aperto il saggio 4.

Conclusioni

Le ricerche nella Valle delle Forme hanno permesso di delineare le caratteristiche di un anticosito metallurgico di notevole complessità. Complessità non solo tecnologica, ma anche organizzativae funzionale. Si pensi innanzitutto al grosso intervento unitario di pianificazione che sta alla basedell’impianto del maglio, dei forni e del canale di adduzione dell’energia idraulica. Gli antichi fabbrirealizzarono un complesso di opifici razionale e ben organizzato dal punto di vista spaziale, che sisviluppò su un’ampia area (lunghezza totale oltre 150 m) fornita di forza motrice.

È subito evidente il notevole investimento, anche economico, che fu necessario per la realizza-zione di queste opere, e la perizia e l’abilità che ne stanno alla base: il lungo canale con pendenzacostante, ma con dislivelli e derivazioni dove necessario per azionare le ruote idrauliche della fuci-na, i forni e il pestaloppe. Tutto ciò implica anche che quando si decise di sfruttare questa zona e diincanalare l’acqua del torrente Grigna le conoscenze tecniche locali erano già notevolmente sviluppate.

Alla complessità spaziale-tecnologica è strettamente connesso il problema della cronologia. Laproposta di suddivisione per periodi seguita nelle pagine precedenti per l’edizione dello scavo è eresta appunto tale, una proposta. Non ci sono collegamenti cronologici e fisici diretti fra l’area delmaglio-bassofuoco e quella dell’altoforno-pestaloppe, con la sola eccezione del canale idraulico.Non si può stabilire quando e dopo quanto tempo il bassofuoco cessò la sua attività ed entrò infunzione l’altoforno32, e nemmeno se l’area del maglio venne abbandonata perché impraticabiledopo una frana e le attività siderurgiche si trasferirono più a monte, oppure se il maglio continuòa funzionare per la ghisa prodotta dall’altoforno. Quest’ultima è forse l’ipotesi più probabile e unaconferma ne è proprio il canale idraulico: esso serviva in contemporanea l’altoforno e il maglio, èquindi logico pensare che i due impianti fossero collegati e almeno in parte contemporanei. In tal

32) La giustapposizione cronologica dei due tipi di forno non èdovuta a schematismi tecnologici, bensì a considerazioni di logi-ca produttiva: l’altoforno arcaico aveva una produzione ben

maggiore del bassofuoco, che non aveva quindi più motivo diessere utilizzato.

33) CUCINI TIZZONI 1997, pp. 420-424.

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caso, la fucina della Valle delle Forme sarebbe del tipo detto “fucina grossa”33.L’unica datazione al C14 disponibile, effettuata nel 1997, si riferisce probabilmente alla vita del

sito del maglio, nel corso del XIV secolo fino ai primi decenni del Quattrocento. Se il maglio eracollegato all’altoforno, anche quest’ultimo venne abbandonato dopo quest’epoca. In ogni caso,l’altoforno della Valle delle Forme risulta successivo a quello attivo a Ponte di Val Gabbia IIInell’XI-XIII secolo34. E le differenze tecnologiche fra le due zone produttive sono in effetti note-voli.

Il complesso della Valle delle Forme è contraddistinto da strutture in muratura, anche massicce,sebbene poco conservate in elevato; si tratta di muri a secco che impiegano pietre di medie e grandidimensioni, spesso con una sola faccia spianata di spacco. Nell’insieme si tratta di una tecnicaedilizia difficilmente databile, che trova confronto non solo in questo stesso sito nel baitello ad usodelle maestranze siderurgiche scavato nel 1997, ma anche in numerose baite della Val Grigna enelle fucine biennesi. Tale tecnica può essere genericamente riferita al XIV-XV secolo, ma la suadurata nelle valli montane è stata ben più lunga.

In Val Gabbia, invece, gli impianti siderurgici tardoantichi, altomedievali e dell’XI-XIII secolonon erano dotati di strutture in muratura; gli unici edifici rinvenuti sono le tre capannesemisotterranee del sito III di cui solo l’ultima – edificio C – databile al XIII secolo aveva basi inmuratura a secco ed elevati in legno, argilla e ramaglia35, mentre le più antiche erano realizzateinteramente in materiale deperibile. Inoltre, in questi antichi impianti della Val Gabbia non esisto-no tracce di canalizzazioni per lo sfruttamento dell’energia idraulica.

La “arcaicità” degli impianti della Val Gabbia e per contrasto la maturità tecnologica del com-plesso siderurgico della Valle delle Forme confermano l’evoluzione millenaria della lavorazione delferro nel territorio di Bienno.

Costanza Cucini TizzoniMetallogenesi s.a.s MilanoVia Pria Forà 4, Milano

[email protected]

Summary

The 2006 excavation report in the medieval and renaissance smelting and smithing site of Valle delle Forme in theterritory of Bienno (Brescia) is here published. During this year the smithing forge with its hammer and the area of theRenaissance blast furnace with its slag-crushing equipment were investigated.The Author suggests also a reconstructionof the long water channel which moved the wheels of the iron working machines.

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