Le forme dell'altrove nell'opera di Elsa Morante

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CLAUDIA GALATI LA COMPETENZA AMBIENTALE DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE DIPLOMA DI LICENZA MAGISTRALE Relatore: Chiar.mo Prof. Agatino Cariola Controrelatore: Chiar.mo Pres. Vincenzo Zingales ANNO ACCADEMICO 2012/2013 ROSARIA BATTIATO LE FORME DELL'ALTROVE NELL'OPERA DI ELSA MORANTE DIPLOMA DI LICENZA MAGISTRALE Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Maria Caterina Paino Controrelatore: Chiar.ma Prof.ssa Giovanna Rosa ANNO ACCADEMICO 2014/2015

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CLAUDIA GALATI

LA COMPETENZA AMBIENTALE

DELLE REGIONI A STATUTO

SPECIALE

DIPLOMA DI LICENZA MAGISTRALE

Relatore: Chiar.mo Prof. Agatino Cariola

Controrelatore: Chiar.mo Pres. Vincenzo Zingales

A N N O A C C A D E M I C O 2 0 1 2 / 2 0 1 3

ROSARIA BATTIATO

LE FORME DELL'ALTROVE

NELL'OPERA DI ELSA MORANTE

DIPLOMA DI LICENZA MAGISTRALE

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Maria Caterina Paino

Controrelatore: Chiar.ma Prof.ssa Giovanna Rosa

A N N O A C C A D E M I C O 2 0 1 4 / 2 0 1 5

ROSARIA BATTIATO

LE FORME DELL'ALTROVE

NELL'OPERA DI ELSA MORANTE

DIPLOMA DI LICENZA MAGISTRALE

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Maria Caterina Paino

Controrelatore: Chiar.ma Prof.ssa Giovanna Rosa

A N N O A C C A D E M I C O 2 0 1 4 / 2 0 1 5

INDICE

INTRODUZIONE p. 1

CAPITOLO I

Le forme dell'altrove nell'opera di Elsa Morante p. 5

1.1 Le implicazioni dell'altrove p. 5

1.2 Pagine che profumano d'Oriente p. 14

1.3 L'altrove nascosto nelle similitudini p. 19

CAPITOLO II

L'Estero in Menzogna e sortilegio. Un'ipotesi attanziale p. 25

2.1 L'Estero come Oggetto di valore euforico. p. 25

2.2 Edoardo, il nuovo “Estero” p. 31

2.3 La morte di Edoardo e la felicità inventata p. 40

CAPITOLO III

L'altrove di un fanciullo: l'isola di Procida e le terre ignote p. 52

3.1 «La mia infanzia è come un paese felice» p. 52

3.2 Il mito del padre e il fascino delle terre ignote. p. 59

3.3 La scoperta della femminilità: dalla «tenda orientale» alla

«schiavetta indiana» p. 70

CAPITOLO IV

L'altrove celato. Un decennio di sperimentazioni formali. p. 82

4.1 L'altrove in Alibi, tra Paradisi, Sultani e finzioni. p. 82

4.2 Dal «mondo incomprensibile» allo «spettacolo dei sogni»:

l'altrove in Lo scialle Andaluso p. 91

4.3 Paradisi artificiali e genesiaci ne Il mondo salvato dai

ragazzini p. 101

CAPITOLO V

La Storia invade l'altrove p. 108

5.1 Africa, America e Russia p. 108

5.2 Ida, la donna dei sogni p. 118

5.3 Useppe, nuova incarnazione dell'altrove p. 126

CAPITOLO VI

«Anda niño anda». Il viaggio di Manuel verso l'altrove p. 133

6.1 Manuel, il «pedone del limbo» p. 133

6.2 L'altrove come eros negato p. 140

6.3 Verso El Almendral: un viaggio nel tempo p. 146

CONCLUSIONI p. 154

BIBLIOGRAFIA p. 157

INTRODUZIONE

«Chi vuol venire? Ho saputoche parte appena fa notteil treno delle meraviglie»

E. Morante, Le straordinarie avventure di Caterina

Fin dagli esordi, all'interno dell'opera di Elsa Morante, si ravvisa una

forte carica centrifuga, una tensione verso l'esterno che mira ad oltrepassare le

coordinate spazio-temporali delle varie narrazioni. Sono molti i personaggi

morantiani, narratori compresi, a essere dilaniati da questo desiderio di fuga in

direzione di un luogo altro, di un punto d'approdo che possa costituire una valida

alternativa alla quotidianità vissuta e subita. Il presente lavoro si propone di

inseguire le forme dell'altrove all'interno della parabola artistica dell'autrice, con

lo scopo di sottolineare l'impatto simbolico che questo motivo ha all'interno del

disegno complessivo dell'opera. Difatti, quello che potrebbe apparire come un

problema di rappresentazione spaziale, si carica invece di una complessa

polisemia utile a dipanare i nodi problematici delle vicende prese in esame. Per

questa ragione, gli schemi interpretativi offerti dalla geocritica, Westphal in

primis1, non possono essere assunti come unici riferimenti metodologici. La

dialettica tra realtà spaziale e rappresentazione è solo il punto di partenza di un

percorso che finisce con l'indagare la portata metaforica del motivo. I molteplici

significati che si nascondono dietro l'altrove svolgono infatti una funzione

preminente all'interno dell'immaginario della scrittrice, tanto da influenzarne

persino le scelte lessicali e retoriche.

In nome di questa varietà, il primo capitolo si occupa di rintracciare le

caratteristiche principali dell'altrove morantiano, ovvero di mettere in luce quei

tratti che, nonostante l'evoluzione del motivo, rimangono sempre uguali a se

1 Si fa riferimento a B. Westphal, La géocritique: réel, fiction, espace, Les éditions deMinuit, Paris, 2007.

1

stessi. Ad essere analizzate sono dunque le implicazioni dell'altrove, e in modo

particolare, la sua tendenza trasgressiva, la distanza nel tempo e nello spazio e il

suo ruolo di alternativa al reale. Il risultato è una terra altra dai contorni

indefiniti, che fa dell'indebolimento referenziale il proprio punto di forza. È

quello che succede, ad esempio, quando la scrittrice si riferisce all'Oriente, il cui

ruolo all'interno delle opere, è prettamente simbolico. Non si riconosce nessun

riferimento esplicito a una realtà concreta, quanto piuttosto il desiderio di

affidarsi a un immaginario comune, in cui l'Oriente è diventato il simbolo del

fascino esotico, della fabulazione e della ricchezza. Infine, si dà spazio

all'originale uso morantiano della similitudine, un tropo che, all'interno di un

discorso sull'altrove, trova la sua piena legittimazione. Essa infatti risponde alla

volontà dell'autrice di descrivere il mondo servendosi di ambiti eterogenei, e, di

conseguenza, l'analogia che si crea con luoghi e dimensione altre finisce per

reinventare la realtà.

Fatta questa premessa, si procede con il pedinamento del motivo all'interno delle

singole opere della Morante. Il secondo capitolo è interamente dedicato al ruolo

dell'Estero in Menzogna e sortilegio. L'iniziale maiuscola della parola serve a

mettere in risalto la componente evocativa e simbolica del termine stesso, e

infatti, l'Estero diventa fin da subito una promessa d'amore e felicità, verso cui

Anna non smetterà mai di rivolgere ogni suo pensiero e ogni sua aspettativa. Ciò

permette di elaborare un'ipotesi attanziale in cui l'Estero, per Anna, diviene

l'oggetto di valore euforico cui ricongiungersi ad ogni costo. A questa logica

ubbidisce anche la sua ossessione per il cugino, il quale riassume in sé parecchi

tratti dell'altrove e, grazie alle parole di Teodoro Massia, si configura come

nuovo Estero, ovvero come nuovo traguardo da raggiungere. L'analisi del

programma narrativo del soggetto, viene dunque a coincidere con una ricerca

tematica, in cui l'altrove diventa l'intero motore della vicenda con esiti per nulla

scontati.

2

Nel terzo capitolo ci si occupa invece dell'altrove ne L'isola di Arturo. Qui, ad

essere enfatizzata è la sua componente leggendaria e finzionale. Arturo, il cui

nome fa già riferimento a un universo altro - la costellazione del Boote e il ciclo

arturiano -, cresce nutrendosi di letteratura, e, grazie alla sua immaginazione,

riveste di un manto magico i paesi che lo aspettano fuori da Procida. Tale

tendenza è in realtà legata all'amore smodato per il padre, il quale viaggia

sempre in terra straniera, abbandonando il ragazzo sull'isola. Nel momento in cui

Wilhelm conduce con sé la sua nuova sposa, l'equilibrio idilliaco vissuto dal

giovane si infrange e l'Estero presta le sue isotopie al mondo dell'eros e della

femminilità. Ma nemmeno l'iniziazione sessuale servirà ad Arturo per

completare il suo percorso di crescita e così, una volta confessato il proprio

amore per Nunz. e scoperta la vera natura del padre, egli parte davvero per

l'Estero, senza che questi abbia mutato i suoi connotati avventurosi. Dell'Arturo

adulto e delle sue esperienze fuori dall'isola sappiamo ben poco, sebbene la

chiave interpretativa risieda nel discorso omodiegetico: il vero altrove verso cui

vale la pena di ritornare, come dimostra la scelta tematica dell'io narrante, è

l'isola stessa.

Il quarto capitolo è diviso in tre parti, ognuna delle quali è dedicata a un'opera

differente. La prima si concentra su Alibi, così da indagare il motivo dell'altrove

all'interno delle sperimentazioni liriche dell'autrice. La stessa operazione viene

svolta a proposito della raccolta Lo Scialle Andaluso, nel paragrafo successivo.

In quest'opera si assiste a una schiarita progressiva delle tinte fantastiche:

l'altrove infatti, nei racconti giovanili si presenta come un antro oscuro, inficiato

da timbri mortiferi, ma con il passare del tempo, si avvicina ai moduli della

finzione e della leggenda, fino a diventare la marca caratteristica di quei

personaggi che si oppongono con forza al reale. Lo stesso punto di arrivo ha

anche Il mondo salvato dai ragazzini, cui è dedicata l'ultima parte del capitolo.

La tendenza funebre dei primi componimenti si scioglie in maniera graduale

3

grazie alla ricerca di un Paradiso primigenio, che vuole suggerire la verità del

mondo ai F.P. I paesi esteri hanno dunque lasciato il posto a un luogo improprio,

carico di connotazioni metafisiche.

Un'atmosfera simile si respira anche ne La Storia, in cui l'altrove si scinde in

maniera definitiva, svuotando l'estero della sua valenza mitica e consacrandosi al

mondo delle allucinazioni e al Paradiso propriamente detto. Africa, America e

Russia sono il simbolo di questo svuotamento, dal momento che, nel corso della

narrazione, si propongono prima come contenitori di grandi miti, ma, nel

confronto con la Storia, mostrano il loro volto bieco e sordido, tanto quanto la

quotidianità che i personaggi sono costretti ad abitare. Dal momento che l'Estero

non ha più niente di offrire in termini simbolici, la tendenza verso l'altrove si

manifesta attraverso altre strade: i sogni di Ida e gli occhi trasfiguranti di

Useppe. A loro è dedicato il capitolo quinto.

Infine, l'ultimo capitolo si propone di inseguire Manuel nel suo viaggio verso

l'Andalusia. Egli infatti, è il primo personaggio nell'opera morantiana a partire

davvero per l'Estero. A spingerlo è la speranza di un ricongiungimento con

Aracoeli al di là del tempo e dello spazio. Ancora una volta dunque, non importa

il referente concreto, ma l'investimento emotivo fatto in direzione dell'altrove.

Eppure, una volta giunto alla meta, El Almendral si rivela un paesino sciatto e

lontano dalle immagini mentali che egli stesso si era creato a partire dai racconti

materni. L'aura leggendaria sfuma e ogni tentativo di ritornare indietro nel tempo

è destinato al fallimento, a causa dei limiti imposti dal reale. La ricerca del

giardino dell'Eden verso cui si orienta tutta la narrazione, si conclude così in una

sassaia arida, che sembra vanificare ogni tensione in direzione dell'altrove.

In conclusione, il presente lavoro offre una rilettura delle opere morantiane alla

luce del motivo dell'altrove, con lo scopo di chiarire il ruolo che esso riveste

all'interno non solo dei singoli orditi narrativi, ma anche all'interno

dell'immaginario dell'autrice.

4

CAPITOLO I

LE FORME DELL'ALTROVE

NELL'OPERA DI ELSA MORANTE

1.1 Le implicazioni dell'altrove

L'altrove, nell'opera di Elsa Morante, è tutto ciò che si oppone all'hic et

nunc, uno spazio che, come sottolinea Sgorlon, «per il fatto stesso di non essere

vissuto e veduto, ma sognato e immaginato, assume un fascino arcano.»2.

Universo distante e irraggiungibile, dimensione verso cui fugge ogni «fragorosa,

alata speranza»3, luogo dell'evasione, della ricchezza e della felicità, unico

orizzonte in grado di trasfigurare la realtà e renderla meno minacciosa e tetra. La

presenza di una tensione tanto marcata verso l'altrove, trova la sua piena

giustificazione nella tendenza della scrittura morantiana a oscillare tra il reale e

il fantastico. Eppure, nelle Nove risposte sul romanzo4 è la Morante stessa a

difendere la propria vocazione “realista”, rifiutando ogni possibile

interpretazione mitico-fantastica delle proprie opere. Ciò costringe il lettore a

riconsiderare con occhi nuovi la trama spaziale delle varie narrazioni, in cui il

motivo dell'altrove serve come nuovo schema interpretativo, come modello che,

con la sua favolosa impalcatura, sorregge la realtà e esistente e la ricrea, così da

evidenziare i legami sotterranei che esistono tra le cose del mondo. Ogni

rappresentazione spaziale non può essere una riproduzione oggettiva di ciò ci

circonda. Al contrario, si tratta di un procedimento soggettivo in cui le immagini

mentali prendono corpo attraverso un nuovo sistema di segni, nel nostro caso le

2 C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, Mursia, Milano, 1972, p. 131.3 E. Morante, Menzogna e sortilegio, in Ead., Opere, I, a cura di C. Cecchi e C.

Garboli, Mondadori, Milano, 1988, p. 94.4 E. Morante, Nove risposte sul romanzo, in «Nuovi Argomenti», n.38/39, 1958, oggi

contenuto con il titolo Sul romanzo in Ead., Opere, II, a cura di C. Cecchi e C.Garboli, Mondadori, Milano, 1990, p. 1495.

5

parole. Allo stesso modo, il reticolo autoriale qui preso in esame, è il risultato di

una reinvenzione spaziale della Morante: ad un mondo prossimo, realmente

vissuto, corrisponde sempre un orizzonte remoto, dai contorni indefiniti, che a

causa della sua distanza subisce un indebolimento referenziale in favore di una

crescita metaforica. L'altrove è dunque una risposta concreta alla complessità del

reale, al tentativo di colmare uno scarto conoscitivo. E se la forma di questo “al

di là” si modifica nel corso del tempo, da un punto di vista funzionale, esso non

smette mai di assolvere il proprio compito dialettico nei riguardi della

quotidianità.

L'Estero è il primo, grande volto di questo altrove immaginario. Esso fa

la sua comparsa a partire da Menzogna e Sortilegio, e l'iniziale sempre

maiuscola mette in guardia il lettore a proposito della sua valenza semantica. In

più, come ogni motivo che si rispetti, l'Estero invade il lessico e compare a

intervalli abbastanza frequenti, fino a essere protagonista della sublimazione che

coinvolgerà Edoardo post mortem, nelle lettere di Anna.5 Ma questo è solo un

esempio del potere evocativo dell'altrove. Esso infatti ha mille sfaccettature e,

nel corso della produzione morantiana, si adatta alle nuove esigenze dei testi

senza comunque perdere il suo significato originario. Nei racconti giovanili ad

esempio, l'altrove si avvolge dentro un manto magico, ornato dalle tipiche tinte

del fantastico; nell'Isola di Arturo, esso coincide con tutto quello che c'è al di là

dell'isola di Procida, e la sua sfera di influenza arriva a lambire il cielo, alla

ricerca di qualcosa che possa spiegare il mistero della morte della madre6; in La

5 Si veda a questo proposito il secondo capitolo.6 Nel testo si legge «Io, come non credevo in Dio e nelle religioni, così non credevo

neppure nella vita futura e negli spiriti dei morti. Ad ascoltare la ragione sapevo chetutto quanto restava di mia madre era rinchiuso sotto terra, nel cimitero di Procida.Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto, io, per lei,credevo addirittura in un paradiso. Che cos'altro era, difatti, quella specie di tendaorientale, alzata fra il cielo e la terra, e portata dall'aria in cui lei dimorava sola,oziosa e contemplante, con gli occhi al cielo, come una trasfigurata?» (E. Morante,L'isola di Arturo in Ead., Opere, I, cit., pp. 1000-1001).

6

storia, l'altrove assume dei contorni più definiti, incarnandosi nel tipico “sogno

americano” tanto caro alle generazioni del Novecento. La «Lamerica»7 – così la

chiama Useppe – non è altro che una delle possibilità offerte da questo Estero,

reso estraneo e minaccioso a causa del conflitto mondiale. Infine, in Aracoeli,

l'altrove si incarna nel personaggio femminile che dà il titolo all'opera,

trasferendo in essa tutti i caratteri che, fino a quel momento, erano rimasti ad

uno stadio embrionale.

Insomma, siamo di fronte a una componente indispensabile degli equilibri

narrativi dell'opera morantiana e ad essa ben si adattano le parole che Richard

utilizza a proposito di Proust:

Uno stesso elemento (sensibile, ideologico, attanziale, fantasmatico) si ripete adistanza, si riconosce simile a se stesso sino a formare una linea esplicitamentesignificativa, ma si modifica al tempo stesso secondo la varietà del codice o delcontesto in cui ogni volta si trova ripreso, reinserito8.

In ogni caso, tali modifiche, necessarie a calare l'altrove nei diversi contesti delle

narrazioni, non intervengono ad alterare le strutture profonde del motivo. Le sue

implicazioni infatti, rimangono invariate nel corso del tempo e accomunano ogni

nuova tipologia di altrove presente nell'opera.

Il primo, grande denominatore dei numerosi altrove sparsi nelle pagine

morantiane è la trasgressione, nel doppio significato di attraversamento,

spostamento nello spazio (come suggerisce l'etimologia latina), e di violazione

di un limite morale. In entrambi i casi si presuppone una forte volontà del

soggetto che, posto davanti a un limes, lo interpreta invece come limen:

quest'ultimo, di solito, indica una netta separazione, in cui lo spazio sconosciuto

posto al di là del limen, opera un richiamo instancabile, una seduzione che fa

leva sul sentimento di incompletezza del futuro trasgressore. Come precisa

Westhpal:

7 E. Morante, La storia in Ead., Opere, II, cit., p. 5688 J.P. Richard, Proust e il mondo sensibile, Garzanti, Milano 1976, pp. 233-34

7

La trasgression correspond au franchissement d'une limite au-delà de la quellles'étend un marge de liberté. Lorsqu'elle se transforme en principe permanent, ellese mue en trasgressivité. Le regard trasgressif est constamment dirigé vers unhorizon émancipateur à l'égard du code e du territoire qui sert de «domaine» àcelui-ci (le ressort, la circonsprciption,...). Mais la trasgression est également danl'écart, dan la trajectoire nouvelle, impévue, imprévisible. Elle est centrifuge, caron fuit le cœur du système, l'espace de référence9.

A questo logica centrifuga, rispondono tutti gli orizzonti d'attese dei personaggi

morantiani. Il loro altrove custodisce una libertà che qui ed ora gli è negata, e

per questo essi sono sempre orientati verso uno spazio altro:

Sovente [Anna] fantasticava intorno a queste meraviglie, e bramava che suo padresi risolvesse presto a rapirla, e a condurla in giro per l'Estero secondo i loroprogetti comuni10.

Come stavolta, io sarei seduto nella carrozza accanto a mio padre; ma non peraccompagnarlo fino al porto e poi salutarlo dal molo mentre lui parte sul piroscafo,no! per salire con lui sul piroscafo e partire insieme con lui! Forse verso Venezia, oPalermo, forse fino alla Scozia, o alle foci del Nilo, o al Colorado!11

«Mó de navi nun ce ne stanno. Però, a' Usè, un bel giorno, sai che famo noi due?Ci imbarchiamo su una nave transoceanica e partiamo per l'America».«La LAMERICA!»12

La mia fuga romanzesca andava già trasformando la collina, sotto i miei piedi, inuna landa esotica e avventuriera, dove ogni sagoma era una apparizione, e ognironzio poteva recare un messaggio13.

L'idea della fuga accompagna quasi sempre il motivo principale preso in

esame, ma a differenza di quello che si potrebbe pensare, esso non implica

esclusivamente uno spostamento verso un luogo diverso. È il tempo il vero ago

della bilancia, tant'è che l'altrove può esistere non solo perché lontano nello

spazio, ma soprattutto perché lontano nel tempo:

9 B. Westphal, La géocritique, réel, fiction, espace, cit., p.81.10 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., pp. 77-78.11 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 991.12 E. Morante, La storia, cit. p. 568.13 E. Morante, Aracoeli, in Ead., Opere, II, cit., p. 1221.

8

In certo modo, io scappavo verso l'infinito […] Dopo forse una o due chilometri, epochi minuti d'orologio, valutai di avere percorso età e lontananze a dismisura14.

«Aveva sognato, per esempio, di essere tornato al tempo che faceva lospedizioniere; e di ricevere, senza sapere da parte di chi, una cassetta di legnoodoroso che conteneva magnifiche pietre colorate, e spezie orientali cheprofumavano come un giardino»15.

O ancora:

«[…] all'Estero andrò l'anno venturo, o magari un altr'anno ancora»16.

È in questa sfasatura temporale che si riconosce il secondo tratto dell'altrove. Se

quest'ultimo fosse possibile nel presente, esso sarebbe concreto e tangibile,

proprio come la realtà che si è costretti ad abitare. Di conseguenza perderebbe la

sua valenza mitica e immaginaria, e, al contrario, sarebbe una nuova realtà con

cui fare i conti. Per funzionare invece, questo altrove tutto letterario, ha bisogno

di essere fuori dal presente, fuori dalla vita tangibile. Deve essere insomma o

trasferito nel passato, o proiettato nel futuro, essere «Leggenda»17 o «Utopia»18.

Queste definizioni ci vengono suggerite direttamente dalla Morante in

Menzogna e Sortilegio, quando l'Estero fa la sua prima comparsa. Esso è la

sintesi di passato e futuro, in quanto memoria dei viaggi di Teodoro, e promessa

di fuga per la figlia Anna19. Ma i termini “Leggenda” e “Utopia” ci suggeriscono

14 E. Morante, Aracoeli, cit., p. 1220. Qui, e nelle citazioni successive, ci serviamo dellesottolineature per rimarcare parole e concetti chiave, utili ai fini della trattazione.Qualsiasi altro intervento nel testo, corsivo compreso, è invece da addebitareall'autrice.

15 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p.1007.16 E. Morante Menzogna e sortilegio, cit., p. 229.17 Ivi p. 77.18 Ibidem19 Nel testo si legge: «e poiché [Teodoro] nel passato aveva, in realtà viaggiato molto,

rievocava nell'attonita bambina le nazioni e le contrade visitate già da lui solo, avantiche lei nascesse, e dove adesso ritornerebbero insieme. Per non confondere con nomiastrusi la mente infantile dell'ascoltatrice, egli soleva raccogliere, nei suoi racconti,tutti quei paesi remoti e stranieri sotto l'unico nome di: Estero. […] A lungo Teodorosi fermava a descrivere queste città; ma, vuoi per soccorrere con la fantasia la propria

9

qualcosa in più a proposito del sentimento del tempo quivi indagato. Entrambi

sono concetti che rimandano a una realtà remota, lontana e imperscrutabile. Tutti

aggettivi che, nel nostro caso, ben si adattano a definire l'altrove tanto

vagheggiato dalla scrittrice, ma che non bastano da soli a spiegarne la portata

semantica. Per comprendere meglio il carattere leggendario e utopico di questo

motivo, ci affidiamo dunque allo studio di Bachtin sul cronotopo folclorico, che

tenta di indagare la valenza del tempo all'interno dell'orizzonte mitologico e

artistico. Quella che Bachtin chiama «inversione storica»20 infatti, serve a

spiegare con quali tipi di passato e futuro abbiamo a che fare. La suddetta

inversione – che ha esercitato uno sviluppo enorme all'interno delle forme e

delle immagini letterarie – sposta nel passato tutte le categorie positive che

costituiscono i nostri ideali odierni quali la giustizia, la pace, la serenità, ma

anche «i miti del paradiso, dell'età dell'oro, dell'età degli eroi»21 ecc. In sintesi,

viene raffigurato nel passato ciò che dev'essere o può essere realizzato nel

futuro. Il fine dell'uomo, quello che dovrebbe essere il suo scopo, diventa invece

una realtà nel passato. Di conseguenza il futuro viene svuotato della sua valenza

progettuale, divenendo sempre più effimero e rarefatto. La sua funzione è solo

quella di opporsi con forza al presente, che, di riflesso, si fa sempre più vivo e

concreto. Il passato e il futuro che caratterizzano l'altrove moratiano, godono

delle stesse proprietà. Il primo è un tempo mitico, in cui risiedono tutti gli ideali

più alti, compresa la letteratura, motivo per cui, ad esempio, i personaggi delle

tragedie shakespeariane possono convivere con sultani, vizir e bestie africane. Il

secondo invece è un tempo rarefatto, sfumato, in cui slittano tutte le attese dei

memoria indebolita, vuoi per meglio commuovere l'immaginazione di Anna, siatteneva solo in parte, nelle sue descrizioni, alla scienza geografica e alle proprieveraci esperienze. Le città da lui descritte erano strane contaminazioni d'oppostemetropoli, nelle cui piazze imperiali la Leggenda e l'Utopia sedeva in mezzo a unosciame di scherzose favole paterne» (E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 77).

20 M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Id., Estetica eromanzo, Einaudi, 2001, Torino, p. 294.

21 Ibidem

10

personaggi, ricreando un mondo che ha perso ogni contatto con la realtà. In

entrambi i casi, non si è alla ricerca di un referente storico, ma di un tempo

«lontano lontano»22 in grado di accogliere le nostre menti in fuga dal tempo

presente. Un calderone fantastico in cui si mescolano fiabe e miti, persino di

tradizioni diverse. Valga a questo proposito, uno stralcio estratto da Menzogna e

sortilegio, nel quale viene palesato il carattere sincretico dell'Estero morantiano:

Ma in compenso, le pareti erano quasi in ogni punto adorne di arazzi raffigurantiidilli pagani fra pastori e ninfe, oasi d'oriente con sultani arabi e giovinetteseminude, scene patriottiche e monumenti famosi. Oltre agli arazzi adornavano lepareti ventagli giapponesi, semicerchi di cartoline illustrate, immagini miracolosedi Santi e di Vergini, e perfino bizzarri copricapi di carta increspata e di stagnola(reliquie di balli carnevaleschi)23.

E ancora, a proposito del padre, Arturo scrive:

Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse versoazioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz'altro se mi avesse raccontatoche muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone,che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; cheera uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso eraun grande Corsaro o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuoridell'isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell'esistenza misteriosa,affascinante, a cui, naturalmente lui mi stimava indegno di partecipare24.

In questo caso l'allusione al mito si fa più esplicita: Alessandro il Macedone ad

esempio, non è citato per la sua importanza storica, ma per il ruolo simbolico

che riveste nell'orizzonte immaginario del piccolo Arturo. Lo stesso dicasi per i

corsari o per i Poli, i quali diventano espressione di tutto ciò che di avventuroso

e magico appartiene all'Eestero. L'altrove si carica dunque di tutto il fascino

arcano generato dalle favole infantili ed è per questo che, coerentemente con

quanto abbiamo appena scritto, nelle pagine della Morante non esiste un paese

straniero in cui non ci siano re, regine, imperatori e sultani, che, con la loro

22 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 223.23 Ivi, p. 626.24 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., pp. 984-985.

11

sterminata ricchezza, rendano i loro regni ancora più affascinanti25. La geografia

reale lascia il posto a un nuovo modello di spazio, definito da delle coordinate

tutte interiori.

I concetti di leggenda e utopia servono inoltre, a introdurre l'ultima caratteristica

peculiare dell'altrove morantiano. Quest'ultimo infatti, oltre a essere trasgressivo

nel senso più completo del termine, e lontano nello spazio-tempo, si configura

anche come valida e prolifera alternativa al reale. Un tratto fittizio che permette

a racconti, sogni e visioni di avere un ruolo preminente all'interno della

trattazione del motivo. Ad esempio, quando l'Estero appare come nucleo

tematico, lo fa all'interno dei racconti degli stessi personaggi. È Teodoro Massia

il primo a fare delle città straniere l'argomento principale delle sue narrazioni; lo

seguirà a ruota Edoardo e poi la stessa Anna. Arturo non resiste al fascino

dell'altrove e con le sue favole tenta di spiegare la realtà che lo circonda e quella

che lo aspetta fuori dall'isola; ne La Storia, il carattere finzionale dell'Estero si

palesa nelle allusioni alle praterie del vecchio west e ai gangster dei film

americani. E lì dove il racconto da solo non basta, viene in soccorso la

dimensione onirica. Sono parecchi i sogni che affollano le notti dei personaggi

dell'universo morantiano e che ripropongono le isotopie dell'altrove:

Mi pareva, in sogno, d'essere nel cortile, sotto la pioggia, e di udire in alto, in cimaal palmizio, una sottile musica di flauto; agile quanto una giovane Mora, miarrampicavo lungo il tronco del palmizio; e giunta sveltamente alla cima, scoprivoche il creduto flauto era invece un gatto. […] Estatica, lo accarezzai con le miedite negre (mi accorgevo per l'appunto, adesso, ch'ero non più Elisa, ma unafanciulla africana)26

Ho sognato di essere giovanotto, elegante, baldanzoso. Dovevo esser diventato un

25 A proposito, di re e regine, Sgorlon scrive, «Forse la democrazia non ha posto nelmondo della scrittrice anche perché essa non si addice alla favola. Quest'ultima nonpuò essere ambientata che in un mondo antico e lontano, e la democrazia è formatroppo moderna per essa. […] Perciò nella fiaba non esistono giustizia o diritti, masolo concessioni, generosità e arbitri del signore» (C. Sgorlon, Invito alla lettura diElsa Morante, cit., p. 30).

26 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 744.

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grande Vizir, o qualcosa di simile: ero vestito con un costume turco di setasgargiante, del colore (dirò per dartene un'idea) dei girasoli; macché girasoli! Piùbello assai! Non è possibile trovargli un paragone adatto! Avevo un turbantino conuna lunga penna, ai piedi due babbucce da ballerino, e me ne andavocanticchiando per un luogo dalle parti dell'Asia, dove non c'era nessun'altrapersona, in mezzo a prati tutti di rose.27

Un primo effetto istantaneo che ne conseguì per Nino, fu un certo rivolgimentonella trama del suo sogno. La scena si svolge al cinema, dove lui, che peraltrosiede fra gli spettatori in platea, lo stesso è direttamente impegnato nell'azionedentro lo schermo, dove cavalca su una prateria del West, fra altri cavallari informa selvaggia.28

[Donna Amalia] non aveva altra risorsa che immaginare (o magari sognare lanotte), di spingere col suo sorriso il suo sposo don Vincente, in testa a un manipolodi prodi, alla conquista dell'Alhambra; ovvero di insinuarsi lei in persona nellaSala del Tesoro, a Pechino, e, infrante le custodie, rubare quei monili chegiacevano là, sacrificati, dietro un vetro.29

Ero una fanciulla indiana bellissima (forse una danzatrice sacra?) vestita di unastoffa leggera e preziosa, di tutti i colori dell'iride. E con passo allegro quasi diballo, scendevo verso la mia fossa. […] In un salto, il mio snello corpicino sparivadentro le fiamme: le quali immediatamente si trasmutavano in fiori estivi,oscillanti sui lunghi steli. Ma questa era soltanto una prima metamorfosi.!30

Nei sogni, i vincoli spazio-temporali non esistono e i personaggi qui esaminati si

liberano dalle loro costrizioni. L'inconscio si manifesta attraverso le forme

dell'altrove, in modo da far coincidere gli impulsi più segreti con quel mondo

distante e lontano, in cui tutto è possibile31. Interessante notare come, in questi

sogni, i protagonisti prestino il loro stesso corpo all'altrove: nella dimensione

27 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 1016.28 E. Morante, La storia, cit., p. 552.29 E. Morante, Donna Amalia in Ead. Lo scialle andaluso, oggi in Opere, I, cit., p.

152430 E. Morante, Aracoeli, cit., p.1214.31 La dimensione onirica è un campo di ricerca molto caro alla scrittrice, il cui interesse

per Freud è abbastanza noto. Non a caso, la Morante a partire dal 1938, annota su unquaderno i propri sogni con lo scopo di – come scrive Giovanna Rosa -«sperimentare la grammatica e la retorica degli effetti con cui lavora la“fantasmagoria dei sogni”» (G. Rosa, Elsa Morante, Profili di storia letteraria, IlMulino, Bologna, 2013, p. 16).

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onirica, grazie a imprevedibili metamorfosi, essi diventano stranieri dal fascino

esotico, compiendo quella sintesi con il proprio orizzonte d'attesa che, invece,

nella vita di tutti i giorni, è loro negata. Non c'è paura di fronte alla scoperta

della propria diversità, ma estasi, gioia, un commosso abbandono alla nuova

sorte. E, in fondo, non potrebbe essere diversamente dal momento che siamo nel

dominio dell'Utopia.

Trasgressione, spazio-tempo, alternativa al reale, sono questi i caratteri principali

del motivo preso in esame, i cardini da cui si sviluppano le varianti formali che

si avrà modo di analizzare nei capitoli successivi. Tre concetti che da soli

bastano a sottolineare la complessità di un motivo che non ha mai abbandonato

la pagina morantiana, nemmeno negli ultimi lavori della scrittrice.

1.2 Pagine che profumano d'Oriente

Come abbiamo visto, il motivo dell'altrove si contraddistingue per una

complessa polisemia che, da un punto di vista formale, si adatta di volta in volta

alle esigenze poetiche e simboliche dei diversi contesti. L'Estero non è un blocco

monolitico, ma indossa differenti maschere a seconda delle urgenze narrative

dell'autrice. Eppure, nonostante questa costitutiva eterogeneità delle immagini

scelte, è possibile rintracciare nelle opere una figura costante che appare con più

frequenza rispetto alle altre: l'Oriente. Il termine Oriente e l'aggettivo

corrispondente, orientale, ricorrono parecchie volte all'interno della produzione

morantiana32, come se questo bastasse da solo ad evocare un ambiente dai

connotati tipici. Il lettore è così costretto a fare i conti con una dimensione

32 Il termine «orientale» appare in Menzogna e sortilegio, cit., pp. 24, 665, 740, 760 ; inL'isola di Arturo, cit., pp. 956, 999, 10012 , 1025, 1040, 1055, 1151, 1186; in Lastoria, cit., pp. 285, 353, 535, 668 (Gli esponenti indicano il numero di occorrenzeper pagina). Le occorrenze del termine «Oriente» sono invece: in L'isola di Arturo,cit., pp. 989, 1048, 1145, 1357; in La storia, cit., pp. 282, 687, 707; in Il mondosalvato dai ragazzini, in Opere, II, cit., pp. 69, 90, 112, p.138; in Alibi, oggi inOpere, I, p. 1393.

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affascinante e seducente che sublima il lessico e lo spinge a un confronto serrato

ai danni della quotidianità narrata. Questa preferenza per l'Oriente si inserisce

all'interno di una lunga tradizione, non solo artistico-letteraria, ma interamente

culturale. Da sempre infatti l'Europa ha sentito la necessità di mettersi in

relazione con quello che – per rubare le parole a Said – è il suo «concorrente

principale in campo culturale»33, nonché uno «dei più ricorrenti e radicati

simboli del Diverso»34. Un confronto che comunque non avviene con lo scopo di

conoscere storia e tradizioni dei popoli che vivono al di là dei nostri confini, ma

che si accontenta di imprecise suggestioni. Kiernan si riferisce a questa

conoscenza sommaria, fatta di fiabe e mistero come a un «Europe's collective

day-dream of the Orient»35. E di sogno scrive pure Le Goff quando indaga

l'immagine dell'Oceano Indiano nell'Occidente medievale: «Sogno di

abbondanza e di stravaganza, di giustapposizioni e di confusioni sconcertanti

[…] Sogno che si dilata nella visione di un mondo dove la vita è diversa; in cui i

tabù sono distrutti o sostituiti da altri, in cui la sensazione di estraneità produce

un'impressione di liberazione e di libertà.»36 Questa idea tutta medievale, nel

corso dei secoli, si è trasformata e stratificata, senza perdere il suo colore

originale. Il risultato è un Oriente del tutto inventato dagli Occidentali, fatto di

miti, immagini e simboli che, mescolati insieme, hanno dato origine a un insieme

di conoscenze perfettamente coerenti fra loro. Ed è proprio a questo bagaglio

immaginifico che gli scrittori – Morante compresa – si riferiscono quando

utilizzano l'Oriente all'interno delle loro opere.

Qua egli si raffigura issato sul dorso d'un dromedario, un bestione gigantesco cherisponderà al nome di Alì, e che sarà con lui, pur tanto piccino al suo confronto,

33 E.W. Said, Orientalismo. L'immagine europea dell'oriente, Universale EconomicaFeltrinelli, Milano, 2001, p. 11.

34 Ibidem35 V.G. Kiernan, The Lord of Human Kind: Black Man, Yellow Man and White Man in

an Age of Empire, Boston, Little, Brown & Co., 1969, p.131.36 J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, p. 272

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sottomesso e servizievole come un asinello. In compenso, lui barderà Alì con sellepreziose, di colori sgargianti, e viaggerà così, al pari degli antichi re Magi, con unturbante in testa, una gran cintura tempestata di gemme, e babbucce di velluto aipiedi. Al suo seguito, una gran fila di cammelli e dromedari, tutti, sebbene nonquanto il suo devo Alì, molto riccamente bardati, e cavalcati da ragazzi e fanciullein gran numero, suoi servi i primi, e sue mogli le seconde: gli uni e le altrebellissimi, di pelle olivastra , e coperti soltanto di collante e di vesticciole. Nonappena egli darà ordine di fermare, prontamente essi balzeranno dalle lorocavalcature, e rizzeranno nel deserto delle candide tende, più sontuose delle piùsontuose magioni, e ornate in cima di stendardi sventolanti, rossi, arancioni,turchini e ori. Da lontano lontano i sultani, i vizir ecc. scorgeranno quelle tende esi comunicheranno l'un l'altro che è arrivato Edoardo: allora, in superbi corteiverranno a fargli visita, ed egli farà imbandire dei banchetti durante i quali i suoiservi suoneranno la chitarra, e le sue mogli danzeranno fino a cadere estenuate.37

Questa sequenza di Menzogna e sortilegio profuma d'Oriente in ogni sua parte.

Non occorre alcuna precisazione toponomastica per individuare i luoghi qui

suggeriti dal narratore e anche il lettore meno esperto saprebbe riconoscere i toni

fiabeschi, tipici delle novelle de Le Mille e una Notte. Buona parte infatti delle

suggestioni letterarie provenienti dal mondo orientale, hanno origine proprio da

questa raccolta di novelle che, nel corso dei secoli, è stata in grado di penetrare

nella cultura occidentale. In più il riferimento al suddetto corpus novellistico non

è certo casuale per chi, come Elsa Morante, scrive persino una poesia ispirata

alla sposa di Shahriyàr, in cui l'io poetante arriva a coincidere Sheherazade.

Io sola, unica io,so con bellissime fiabeconsolare la notte.38

Un'identificazione totale che veicola anche una dichiarazione di poetica: per la

Morante non c'è niente di più potente della parola stessa, la quale genera

narrazioni e racconti in grado di procrastinare la morte. La funzione salvifica

della fabulazione si manifesta senza alcun velo e conduce con sé le immagini che

le derivano dal primo esempio di salvezza attraverso la letteratura, ovvero Le

37 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., pp. 223-224.38 E. Morante, Sheherazade in Ead., Alibi, cit., p 1381.

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Mille e una Notte. Si tratta dunque di un riferimento abbastanza caro alla

scrittrice che lo utilizza per ampliare le categorie dell'altrove fin qui analizzate.

Non mancano di conseguenza dei rimandi espliciti:

Anna! Eccomi a Costantinopoli, regno delle Mille e una notte, nido opunlento difavorite e di vizir.39

giacché il suo riposo era un tale spettacolo di sogni che, a raccontarli,sembrerebbero le Mille e una Notte40.

Ricordo che, in quell'epoca, facevo sogni da Mille e una notte. Sognavo di volare!Sognavo d'essere un signore magnifico, che gettava in aria alla folla migliaia dimonete! O un gran monarca arabo, che attraversava a cavallo un desertobruciante;41

E ancora altre cose avrei bramato di udire su questo personaggio, che avevafrequentato l'ultima epoca felice della mia fanciullezza, più magico e risplendentedi Aladino!42

Qua, se un amico è lontano, lo si può chiamare al telefono,fosse pure agli antipodi (tanto non si paga subito,il conto è un remoto futuro): «Chi è là? Samarkanda? Londra? Persepoli?[...]»43

Quel cancello marchiato di interdizione e maledetto, rimase, per me bambino,l'ingresso al Palazzo delle Mille e una Notte. Ma stasera devo lasciarlo indietro.44

Anche quando le allusioni non sono così manifeste, il fascino di questo

Oriente letterario, si percepisce grazie all'utilizzo di un lessico particolare. Lo

stesso Said ci ricorda infatti che il discorso orientalista, nel corso dei secoli,

legittima una terminologia specifica, un vocabolario poco verosimile ma sempre

uguale a se stesso che caratterizza l'Oriente come estraneo e,

contemporaneamente, lo rende facilmente riconoscibile al lettore europeo45.

39 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 791. 40 E. Morante, Donna Amalia, in Lo scialle andaluso, cit., p. 1518.41 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 1242.42 Ivi, p. 1151.43 E. Morante, «Addio» in Il mondo salvato dai ragazzini, cit., p. 8.44 E. Morante, Aracoeli, cit., p.1117 .45 Si veda E.W. Said, Orientalismo. L'immagine europea dell'oriente, cit., pp. 76-77.

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Anche la Morante attinge al medesimo dizionario per i suoi scopi, ricreando un

luogo dai contorni geografici indefiniti e collocato «sempre più indietro in senso

cronologico»46. La terra favolosa delle Mille e una Notte rivive attraverso

cammelli47 e «carovane»48, vesti colorate e ricchezze senza fine49. Inoltre, quando

la narrazione si piega a motivi esotici, è il campo semantico della fiaba a

prendere il sopravvento: i termini utilizzati si trasformano e le pagine si

riempono di «immaginazione»50 e «fantasia»51, «favole»52 e «meraviglie»53.

Precisa Citati, in un articolo del 1963:

[La Morante] saccheggia con sapienza tutto i bazar dell'immaginazione: copre letristi stanze con tappeti persiani e cinesi: appende alle pareti umide i sogni barbaridell'Oriente e della Cavalleria: aggiunge fregi, stucchi, creme, decorazioni floreali;e poi innalza la sua voce mirabolante, che declina esclamativi. Ci persuade, allafine, di averci mostrato tutte le ricchezze sciorinate sui mercati di Bassora e diSamarcanda; tutte le gemme, le monete e gli ori nascosti nei tesori del GranVisir.54.

Il mondo reale viene trasfigurato a causa di queste potenti suggestioni, ma non

sparisce mai del tutto, rimanendo una presenza concreta e tangibile al di sotto di

questa patina decorativa e immaginifica. L'obiettivo è quello di rifondare la

realtà, di gettare su di essa una nuova luce chiarificatrice. Non a caso, spesso

l'Oriente, viene utilizzato all'interno di similitudini più o meno estese. La parola

“sultano” ad esempio, svolge di frequente la funzione di comparante:

46 Ivi, p. 123.47 Nel testo si legge: «cammella cieca e folle/che gira per Sahara incantati» (E.

Morante, «Addio» in Il mondo salvato dai ragazzini, cit., p. 10); e ancora «una granfila di cammelli e dromedari» (E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 223).

48 E. Morante, La storia, cit., p. 347.49 Nel testo si legge: «con un turbante in testa, una gran cintura tempestata di gemme»

(E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 223).50 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 77.51 Ibidem52 Ibidem53 Ibidem54 P. Citati, La Morante a Samarcanda, «Il Giorno», 18 dicembre 1963 oggi in E.

Morante, Lo scialle andaluso, Einaudi, Torino, 1994.

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Eccola tirar le due gambe sul sofà, piegarle in fuori e incrociar le caviglie, restandoseduta alla maniera d'un sultano55.

Posando la mia palma sulla sua manina rigide, e inanellata come quella d'unsultano56

Mi volse uno sguardo che parlava chiaro: come se lei fosse un'Odalisca e io unSultano!57

E si sentiva un fruscio profumato di sete, di velluti: erano gli scialli e le sottanedelle Semprevergini […] tutte vestite come sultane58.

Il risultato è un confronto diretto tra due realtà molto distanti tra loro, dalla cui

analogia è possibile ricavare delle informazioni in più sulle caratteristiche del

comparato. Ancora una volta l'altrove – e in questo caso la sua parte orientale – è

per l'io narrante un punto di riferimento imprescindibile, perché è proprio

attraverso di esso che può comprendere, descrivere e reinventare una realtà

altrimenti sterile.

1.3 L'altrove nascosto nelle similitudini

La volontà di descrivere il mondo servendosi di ambiti semantico-

referenziali eterogenei, si manifesta all'interno del corpus in esame, non solo

attraverso categorie semantiche ben definite, ma anche mediante l'impiego di

specifici accorgimenti retorico-formali. È il caso della similitudine, tropo

prediletto dalla Morante, la cui ricorrenza nelle opere supera ogni aspettativa.

Solo nei quattro romanzi principali, si contano più di 4000 paragoni, un dato che

da solo basta a confermare il carattere prioritario di questa scelta. La similitudine

è il tropo della coordinazione per eccellenza, in grado di dissotterrare le analogie

55 E. Morante, Menzogna e Sortilegio, cit., p. 700.56 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 1013.57 Ivi, p. 1260.58 E. Morante, Aracoeli, cit, p. 1184.

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esistenti tra due elementi e trasferirle all'interno di un procedimento logico

coerente. Essa però, al contrario della comparazione, è una figura orientata, nella

misura in cui il confronto tra i due termini non è reversibile59, e, in più, il

comparante riveste una funzione semanticamente prioritaria rispetto al

comparato, anche se gli è subordinato dal punto di vista sintattico. Quest'ultima

annotazione, mutuata da Agosti, amplifica il valore stesso del tropo nell'opera

della Morante, riuscendo a spiegare come questa dilatazione semantica operi in

nome di un'alterità davvero rappresentativa del suo «particolare rapporto con il

mondo»60. La finalità conoscitiva delle figure di pensiero è infatti

particolarmente evidente nel caso della similitudine (e lo stesso si può dire per la

metafora), la quale nasce da un rigido procedimento analogico che ha il compito

di «déclencher une interaction conceptuelle»61. Ed è proprio questa interazione

concettuale cui aspira la scrittrice quando, per amplificare il senso di alcuni

elementi, si affida al suddetto tropo:

Dove lei stessa [Anna], come una dama, ordinava ciò che più le faceva voglia.62

Era lei [La madre] che mi richiamava, come le sirene63

[Il soldato Gunhter] si fece servire, una dopo l'altra, cinque misure da un quarto, ele vuotò tracannandole a gran colpi, come un bandito della Sardegna.64

In questi tre esempi, le similitudini servono a definire l'identità dei personaggi

grazie alla focalizzazione su alcune loro qualità, le quali vengono subito

59 Cfr. P.M. Bertinetto, Come vi pare. Le ambiguità del come e i rapporti tra paragonee metafora, in L. Albano Leoni – M.R. Pigliasco , Retorica e scienze del linguaggio.Atti del X congresso internazionale di studi della Società Linguistica Italiana – Pisa1979 (Pubblicazioni della Società di Linguistica italiana, 14), Roma, 1979, pp.141-142.

60 E. Morante, Sul Romanzo, oggi in Opere, cit., p. 1504.61 M. Prandi, Grammaire philosophique des tropes, Les Éditions de Minuit, Parigi,

1992, p. 221.62 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 78.63 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 1001.64 E. Morante La Storia cit., p. 276.

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proiettate verso dimensioni lontane e remote. Dame, sirene e banditi, in un certo

qual modo, possono essere considerati abitanti di un altrove mitico, non importa

quanto distante in termini di tempo e di spazio. Attraverso tale figura dunque, la

scrittrice riesce ancora una volta a raggiungere uno spazio distante e sfumato,

alimentato dalla sua fantasia. Non mancano di conseguenza, degli esempi in cui

questo riferimento si fa più esplicito:

Vi crescevano delle piante dalle foglie gonfie, spinose, talvolta bellissime emisteriose come piante esotiche. 65

[…] sulla sua manina rigida, e inanellata come quella d'un sultano.66

gli occhi di Useppe erravano come viaggiatori in un quartiere arabo.67

[Il teatro è] Istoriato e sfavillante come un duomo orientale; popoloso come unapiazza nella festa dell'Epifania; signorile come un feudo; e di nessuno dimora, mai,come l'Oceano!68

O ancora, estendendo a tutta l'opera le indicazioni forniteci da Rosa per l'analisi

di Menzogna e sortilegio69, possiamo individuare un preciso campo semantico

che guida le scelte dei comparanti: il mondo animale. Un «bestiario [...]

favoleggiante, addirittura waltdisneyano»70, per rubare le parole a Caproni, in cui

le belve scelte incarnano un altrove esistenziale e servono a manifestare le

pulsioni dei personaggi, i quali rimangono invece ignari dei propri istinti e

prigionieri di una visione distorta della realtà e della loro interiorità.

A motivo della sua grassezza, affannava un poco; e nella corsa risuonava tutta dimetalli leggeri come una cavalla in preziosi finimenti71

65 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 964.66 Ivi, p. 1013.67 E. Morante, La Storia, cit., p. 883.68 E. Morante, Lo scialle andaluso, cit., p. 1555.69 Si veda G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 43.70 G. Caproni, Dodici racconti di Elsa Morante, «La Nazione», 22 gennaio 1964.71 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 614.

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Avanzava tranquilla, come una giraffa, con la testa alta sulla folla cittadina.72

e vidi il suo volto piegarsi su di me sorridendo con una espressione favolosa, che,per un istante, lo fece rassomigliare a una capra.73

Una volta gli dicevo che avevo gli occhi iniettati di sangue come le tigri74.

Volato, con le sue cinque lire, verso la sua banda solita come un'ape verso ungirasole!75

Analogie che hanno il merito di alludere alla condizione felice degli animali,

tanto lontana dal raziocinio umano. Le belve diventano infatti il simbolo di un

rapporto semplice con la vita, lontano dalle costrizioni sociali e morali che

uccidono gli istinti. Non a caso, sono spesso i personaggi più passionali e liberi

ad attirare questo tipo di similitudini, come accade a Rosaria di Menzogna e

sortilegio.

Al di là di ogni possibile interpretazione, ci interessa qui sottolineare che

la similitudine, sia che faccia riferimento esplicito all'altrove, sia che rimanga

agganciata a nuclei tematici più eterogenei, si configura come un trampolino di

lancio verso altre dimensioni. L'«insoddisfazione del quotidiano»76 di cui soffre

la scrittrice trova sfogo all'interno della capacità trasfigurante del tropo in esame.

Parecchi sono infatti gli esempi in cui la similitudine sviluppa un vero e proprio

nucleo descrittivo o narrativo, in grado di generare una pausa all'interno della

vicenda e gettare nuove luce sui dettagli. Un tocco quasi magico, affidato

esclusivamente all'estensione del paragone:

Quando si ritrovavano, non sapevano che cosa dirsi, una confusione incerta licoglieva, come può accadere a due pellegrini che, senza aver nulla in comune,devono percorrere la medesima strada77.

72 Ivi, p. 618.73 E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. 988.74 Ivi, p. 1009.75 E. Morante, La Storia, cit., p. 375.76 C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, cit., p. 21.77 E. Morante, La nonna, in Lo scialle andaluso, cit., p. 1435.

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Allora, come un eroe esaltato, al quale in una battaglia impari e senza speranzasembra vittoria l'immolarsi, ella avrebbe voluto morire in quel momento stesso,per legarsi in eterno alla propria adorata utopia78.

Come accade a un tiranno detronizzato che aspetta di riavere il suo regno, lasfiducia nella propria sorte accresceva il suo odio per loro, e la fede, il suodisprezzo79;

L'estensione delle similitudini varia a seconda delle necessità espressive della

scrittrice e non mancano esempi di sequenze analogiche piuttosto ampie. È il

caso della seguente incidentale, la quale prende spunto dall'atteggiamento di

Edoardo nei confronti della cugina, ma la cui carica vitale sembra pronta a

generare una nuova storia:

(Così un colombo, scambiati baci e pispigli con la sua compagna, se ne distacca aun bel momento, e s'allontana a passi rapidi, impettito; ma, com'essa lo richiamacon un timido lamento, s'arresta, gira verso di lei la testolina, e in un breve batterd'ali le è di nuovo accosto)80.

O ancora:

L'antico suo dispregio e rancore verso gli altri pareva dissolversi, e spesso ellalasciava stupiti coloro che l'avevano conosciuta prima. Quale una distesa gelata,che il viaggiatore credeva un lago di ghiaccio; e che invece, alla stagione tiepidache discioglie le nevi, gli si rivela per una vallata profonda, verdeggiante, nelpieno d'una fioritura selvaggia a lui forestiero ignota81.

La tendenza all'evasione infine, è testimoniata anche dall'intervento della

dimensione controfattuale all'interno delle similitudini. L'utilizzo del “come se”

serve – come ci ricordano Prandi e Raschini – a «dislocare esplicitamente il

conflitto concettuale in un “mondo impossibile”, ipotetico e fittizio»82. Il nucleo

tematico che dà vita alla figura di pensiero si concretizza in una fuga conoscitiva

78 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 17579 Ibidem80 Ivi, pp. 229-230.81 Ivi, p. 79982 M. Prandi ed E. Raschini, La similitudine tra le forme di attenuazione

dell'interazione concettuale, in «Sinergies Italie», n° spécial, 2009, p. 28.

23

verso altri orizzonti. Non solo l'altrove diventa termine di paragone, ma riesce a

trascinare nel proprio mondo immaginario e sconfinato, i dettagli di una realtà

sempre più frammentaria e scomposta. Il senso ultimo delle cose viene fatto

slittare verso l'esterno, come se questo “viaggio” fosse necessario per

comprendere meglio ciò che accade:

ed era capace di fermarsi a contemplare un carrettino della Fiera, come se fossedavanti a una vetrina di Parigi83.

Egli avanzò con passo risoluto verso la ragazza, ma, nonostante la sua volontà didominarsi, tremava come fosse al cospetto del Papa84.

« Mannaggia, la for – tu – na è di quelli che non han – no ancora l'età di le – va – e– e possono godersi a casa le loro pro – pro – prietà con – con le madri! E ilpallone! E scopare e tut – to quanto – tutto quanto! come se la guerra fosse nella lu– na o nel mondo Mar – te....»85

Le allusioni a un mondo mitico, del tutto sganciato dalla realtà, si moltiplicano

grazie all'utilizzo del tropo preso in esame. Il risultato è un continuo gioco di

riflessi, in cui l'alterità misteriosa dell'altrove serve ad illuminare le zone

d'ombra della quotidianità più sciatta. La similitudine stessa, a causa della sua

funzione attenuativa, riduce il conflitto che esiste tra le due entità paragonate,

suggerendo una salutare e momentanea fusione tra i due mondi. Per un attimo

l'hic et nunc si ritrova accanto all'altrove, come se la riduzione dello scarto

esistente fra queste due dimensioni fosse davvero possibile. È la magia della

similitudine, figura della «compresenza»86. Ma è una vicinanza fugace, che dura

tanto quanto basta a trasfigurare la realtà. Poi, come ci ricorda Sgorlon, «i

riflettori si spengono, la magia svanisce, e tutto sembra precipitare in uno

squallore inaridito»87.

83 E. Morante, Donna Amalia, in Lo scialle andaluso, cit., p. 1523.84 E. Morante, Lo scialle andaluso, in Lo scialle andaluso, cit., p. 1556.85 E. Morante, La storia, cit., p. 333-33486 M. Bertinetto, Come vi pare. Le ambiguità del come e i rapporti tra paragone e

metafora, cit., p.160.87 C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, cit., p. 22.

24

CAPITOLO II

L'ESTERO IN MENZOGNA E SORTILEGIO.

UN'IPOTESI ATTANZIALE

1.1 L'Estero come Oggetto di valore euforico

Il primo romanzo di Elsa Morante, Menzogna e sortilegio, ha il merito di

introdurre il motivo dell'altrove e di legarlo in maniera indissolubile alla sua

valenza favolistica. Ancor prima infatti che si trasformi nell'Estero dall'iniziale

sempre maiuscola, principio e fine di tutti i progetti di Teodoro Massia, esso

abita la biblioteca di Elisa, la «sepolta viva»88 che funge da io narrante dell'intera

vicenda. La descrizione dei volumi è infatti preceduta da un'annotazione

importante, che classifica queste letture come una vera e propria ribellione al

mondo reale. Quella che potrebbe sembrare una normale allusione al potere della

letteratura, da sempre diretta concorrente della quotidianità, si carica qui di una

spinta sovversiva, quasi sacrilega.

[…] questa camera non è molto mutata dal giorno che vi entrai la prima volta.Chi la veda, può supporre ancora oggi ch'essa appartenga a una bambina ordinata,molto studiosa e amante della lettura. Soprattutto di quelle letture in cuil'esistenza terrestre non è descritta quale si mostra ogni giorno ai mortaliassennati; bensì piena di prodigi, di stravaganze e di follia. Quasi che il petulanteautore, simile più ad un burattinaio ubriaco che ad un veggente, giudicasseinsipido il Creato, e intendesse opporre il proprio dissonante scompiglio all'ordinemusicale della natura. (p. 23-24)

A giustificare questa titanica presa di posizione, è la menzogna, morbo che Elisa

ha ricevuto in eredità dai suoi avi e che, giorno dopo giorno, la corrode sotto

forma di «favole, pazze, ribalde e fattucchiere» (p.23). E sono proprio queste

88 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 9 (Tutte le citazioni del romanzo, fannoriferimento alla medesima edizione, motivo per cui, d'ora in poi, ci limitiamo asegnalare esclusivamente le pagine di nostro interesse).

25

favole ad occupare gli scaffali della sua libreria: «le pazze leggende dei

Tedeschi», «la fiabesca malinconia scandinava», «le felici epopee degli antichi»,

«gli amori orientali» e le «vite di santi» (p.24). Un mondo prodigioso in grado di

opporsi al grigiore dell'esistenza e che riesce, con il potere dell'immaginazione, a

veicolare qualche scintilla di felicità. Non a caso, la stessa Elisa, poco prima di

confessare il contenuto delle sue letture, arriva a declamare con toni esaltati:

Farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa la propria meditazione, lapropria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin leoccasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori del non-vero! (p.23)

Il che equivale a dire che non esiste felicità nella sciatta vita di ogni giorno, ma

che essa risiede in maniera esclusiva nel dominio della finzione. Di conseguenza

l'altrove – qui citato attraverso un lessico noto89 – coincide in tutto e per tutto con

l'attività inventiva, e, nelle declinazioni che avremo modo di analizzare, ci sarà

sempre questa componente fittizia a minare l'autenticità delle sue implicazioni.

Già dall'esordio dunque, le prime apparizioni dell'estero sono riservate

ad episodi di cui, difficilmente, possiamo verificare la veridicità. È il caso della

prima delusione infantile narrata da Elisa, di cui sono protagonisti un indiano

rubacuori e un'affascinante spagnola, impegnati in una folle danza che non tiene

conto dei reali sentimenti della fanciulla. L'esempio è riportato dall'io narrante

per dimostrare il proprio scarso principio di realtà, dal momento che, confessa lei

stessa, ha da sempre avuto la tendenza a trasformare i più «insignificanti

colloqui» in «eventi drammatici» (p. 21). Non avremmo dunque alcun motivo di

dubitare della verità di questo episodio se non fosse che, a cominciare dal primo

capitolo, il germe di un'inventiva malsana si manifesta all'interno di una vicenda

simile da un punto di vista tematico. Si narra infatti l'amore per uno straniero e la

protagonista di questo secondo idillio è Cesira, nonna di Elisa, che racconta alla

figlia e alla nipote della propria relazione con un «ufficiale austriaco»,

89 Si veda a questo proposito il paragrafo 1.2 del precedente capitolo.

26

«bellissimo», «tutto vestito di bianco» (p. 48). Un sentimento così forte, che solo

il ricordo basta a farle accapponare la pelle. Ma proprio quando il racconto sta

per addentrarsi in qualcosa di più piccante, la figlia Anna si irrigidisce e l'io

narrante annota:

Del resto, sentii dire più tardi in famiglia che probabilmente la storia dell'ufficialeaustriaco era inventata. Nelle cronache della mia parentela fanno a volta la lorocomparsa tali personaggi romanzeschi mai esistiti altrove che nella nostrainvenzione, e che pure ci accompagnano da un'età all'altra. (p. 48-49)

Viene svelata così la falsità della narrazione e, in più, la stessa Elisa si dichiara

colpevole del medesimo reato. L'aggettivo possessivo da lei utilizzato denota

una evidente complicità che, d'altra parte, la narratrice ha sempre messo in

chiaro fin dalle prime pagine.

Assodato che la menzogna sia l'elemento costitutivo del racconto di

Elisa, ci preme qui sottolineare come l'estero assuma sempre le medesima

funzione di catalizzatore di felicità e, per questo, dimora lontano dalla vita vera.

Inoltre quando l'altrove si manifesta, lo fa sempre all'interno di un racconto, e ciò

basta a sottolineare la sua portata fittizia. L'apparizione dell'Estero per bocca di

Teodoro Massia, risponde alle medesime regole. Ancora una volta, è una

premessa d'amore a dare avvio a questi «piani romanzeschi» (p. 77). La

sequenza dedicata alla fuga vera e propria, è infatti preceduta dalla descrizione

dei rapporti tra Teodoro e Anna.

Mentre Cesira pareva considerar la figlia null'altro che un peso di più nella sua vitagià troppo gravosa, Teodoro, al contrario, l'adorava: si può dire, anzi, che per laprima volta dacché era vivo egli fosse innamorato d'un amore vero, innocente einguaribile […] il suo candido idillio con Anna gli dava delle gioie che nessunaltro legame gli aveva mai dato. La sua voce roca, ininterrotta dalla balbuzie, nonsi stancava di vezzeggiare la bambina, volgendole nomignoli e lodi che parevanoesprimere, più che affetto paterno, una specie di mistico rapimento (pp. 75-76)

Un amore smodato che trasforma Teodoro in un compagno impeccabile per la

piccola Anna: egli la veste «come una sposa» (p. 78), la tratta «come una dama»

27

(p. 78), la porta in pasticceria e le dedica canzoni e madrigali90. L'amore dunque

rende possibili i «favolosi itinerari» in direzione dell'Estero, «unico nome» in

grado di contenere al suo interno tutte le città straniere, siano esse reali o

immaginarie. È la «fantasia» la protagonista di questa scena, dal momento che la

reale geografia del mondo si piega alle visionarie «favole paterne». L'altrove

prende vita e si anima grazie ai racconti del padre e ai sogni della figlia, in una

scena che abbandona ogni referente concreto, per consacrarsi al dominio della

«Leggenda» e dell'«Utopia». I «paesi remoti e stranieri» sono per Anna una

promessa di felicità, verso cui la piccola rivolge ogni suo pensiero e ogni sua

aspettativa.

Ma Anna ascoltava simili descrizioni e progetti con una fiducia religiosa, nondubitando ch'egli manterrebbe, prima o poi, le sue promesse, e la condurrebbe secoall''Estero. Intanto, sebbene lui le ripetesse che le città dell'Estero, per quanto sicerchi d'immaginarle appaion sempre diverse da come ci si aspettava, ella andavacostruendo tuttavia, su quei racconti paterni, una sua geografia strabiliante.(p.77)

Comincia così l'itinerario immaginifico di Anna, la quale a partire da questi

primi progetti, non smetterà mai di fantasticare e abitare un mondo fatto di

fantasmi e presenze91. La sua è una «fragorosa, alata speranza» (p. 94), che non

smette mai di agitarla e di coinvolgerla:

Sovente fantasticava intorno a queste meraviglie, e bramava che suo padre sirisolvesse presto a rapirla, e a condurla in giro per l'Estero, secondo i loro progetticomuni. Talvolta, non senza timidezza, [Anna] s'indusse a sollecitarlo; ma a talisollecitazioni suo padre, mortificato, rispondeva di non avere, sul momento,abbastanza denaro per il viaggio: aggiungendo subito, però, d'aver intrapreso degli

90 Si tratta di dettagli importanti: gli stessi momenti caratterizzeranno infatti anche ilrapporto di Anna con il cugino Edoardo. Si veda a questo proposito il paragrafosuccessivo.

91 Calvino individua proprio in questo episodio il luogo in cui «si palesa la prima eprincipale componente del mondo morale di questi personaggi: la fantasticheria, lafinzione in cui ci si immedesima fino al fanatismo» (I. Calvino, Un romanzo sulserio, «L'unità» [ed. piemontese], 17 ago. 1948, p. 3 oggi consultabile nella sezioneFortuna Critica di E. Morante, Opere, II, cit., pp. 1667-1668).

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affari donde sperava grandi guadagni, per cui si potrebbe partire, forse, l'annoprossimo. (p. 77-78)

Un'idea fissa che è talmente ingombrante da non permetterle nemmeno una

corretta visione della realtà. È quello che accade, per esempio, quando Anna,

insospettitasi delle continue uscite del padre, viene colta da un timore infondato:

Appena egli usciva, ella correva alla finestra, e come vedeva la figura di lui sbucarfuori del portone sottostante, nella piazzetta, e internarsi in un vicolo, provavaun'acuta invidia e nostalgia. […] E temeva sempre che, di quel passo, egli se nepartisse fuggitivo per l'Estero, secondo i loro progetti comuni, senza portarla consé. (p. 83)

E persino quando Teodoro non sarà più in grado di alzarsi, la fanciulla

continuerà a pensare esclusivamente a quella promessa di felicità, sottoscritta

qualche tempo prima.

Anna, tuttavia, seguitava a vagheggiare in segreto il famoso viaggio, dicendosi cheforse, suo padre, appena guarito, ricorderebbe la vecchia promessa; e non volevarassegnarsi a relegare questa promessa di lui fra i giochi e le leggende infantili. (p.75)

Per dirla con le parole di Greimas92, Anna ha individuato nell'Estero il suo

Oggetto di valore euroforico e, nonostante le avversità, sa benissimo di voler

congiungersi con esso. Si tratta dunque di un programma narrativo che è stato

virtualizzato proprio nel momento in cui Teodoro (destinante) spinge la figlia

(qui destinatario) ad aderire ai valori da lui proposti. In poche parole, l'Estero

svolge una funzione narrativa specifica che orienta le azioni degli altri attanti e,

in modo particolare del Soggetto. Inoltre, com'è noto, il valore dell'Oggetto non

è quasi mai una caratteristica intrinseca ad esso, ma piuttosto un valore per il

Soggetto, dunque qualcosa che serva alla realizzazione di quest’ultimo. Nel

nostro caso, il valore di base è costituito dalla raggiungimento della felicità e da

92 Per il modello attanziale si fa riferimento a A.J. Greimas, Del senso, trad. it. a cura diS. Agosti, Bompiani, Milano, 2001 e A.J. Greimas, Del senso 2, trad. it. a cura di P.Magli e M.P. Pozzato, Bompiani, Milano 1985.

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una possibile attuazione di un idillio amoroso. A confermare questa tesi, basta un

rapido riesame degli attori coinvolti e delle loro relazioni. Teodoro e Anna ad

esempio, vivono un rapporto che ha tutti i connotati dell'incesto. Le attenzioni

smodate del padre nei confronti della figlia, hanno una risposta concreta nella

«dedizione» della fanciulla la quale, non a caso, al momento della morte di

Teodoro, fa una scenata di gelosia alla madre con la stessa foga che potrebbe

avere un'amante. I toni utilizzati infatti, sono del tutto identici a quelli che, molti

anni dopo, caratterizzeranno l'invettiva di Rosaria ai danni della stessa Anna, in

riferimento alla morte di Francesco:

Non ci interessa al momento sottolineare la circolarità propria del tempo di

Menzogna e Sortilegio, in cui sono molti gli episodi che si ripropongono nel

corso della storia93. Questo parallelismo serve qui a legittimare l'idea di un

rapporto incestuoso tra padre e figlia, una vera e propria relazione amorosa che

trova nei progetti di fuga verso l'Estero il possibile coronamento di un amore

93 Di «ricorsività degli eventi» scrive Giovanna Rosa in Elsa Morante, cit., in cuiprecisa: «L'ampia orditura di Menzogna poggia su larghi blocchi narrativi che sirichiamano e si rispecchiano con ostentati procedimenti anaforici […] nel rispetto diun'implacabile coazione a ripetere che accomuna individui e generazioni» (p. 38).

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Una smorfia aspra e confusa contrasse i labbri della ragazzetta: - Adesso tu piangi, - ella sussurrò con perfidia. E dibattendosi contro la profanazione, e la morte, e la stanza devastata, e l'orrida salma, alzando via via la voce fino a un tono lacerante che suonò irriconoscibile a lei stessa, proseguì:- Finiscila con le tue commedie! Tu lo odiavi e gli auguravi la morte, e adesso piangi. […] Ridi, per pietà, ridi invece di piangere, almeno di ti crederò sincera! Lui era mio, era mio! E sei tu che me l'hai fatto morire. (p. 142)

Come udì tali parole, Rosaria parve invasata dai demoni. Il suo bizzarro piccolo riso, si tramutò in una risata vendicativa, piena di spasimo e di ferocia: - Ah, tu non mi conosci! - ella urlò con voce sguaiata, - tu non mi conosci, già ma io sì, ti conosco, brutta assassina! Sei tu quella che ha ammazzato il mio Francesco! Sì, mio, mio, non tuo! Tu non hai nessun diritto! Sei tu che l'hai fatto morire. (pp. 912-913)

esclusivo, impossibile nella quotidianità. D'altra parte, sia «l'ufficiale austriaco»

per Cesira che «il minuscolo indiano» dallo «splendido costume» (p. 21) per

Elisa, altro non sono che la riproposta in termini stranieri di una felicità affettiva,

irrealizzabile nel presente. Tutte le volte dunque che l' Estero appare, lo fa con lo

scopo di manifestare il medesimo valore di base94 ed è proprio a causa di questa

sua importante funzione che, anche quando sembra farsi da parte per lasciare il

posto a un nuovo attore, la sua presenza si avverte comunque.

2.2. Edoardo, il “nuovo Estero”

La funzione di destinante che Teodoro riveste all'interno del romanzo,

non si esaurisce del tutto con la promessa di un Estero avventuroso e fiabesco, in

grado di accogliere due amanti in fuga. Prima di morire infatti, l'uomo sembra

suggerire alla figlia un nuovo oggetto di valore in grado di affiancare, nei sogni

di Anna, le promesse di un Estero lontano.

Vedendo poi l'interesse di Anna allorché si parlava del cugino, le disse scherzando: -Scommetto che ne sei già innamorata. Benissimo, sarà tuo marito. Così riprenderainel mondo il posto che ti spetta per esser nata signora -. (p. 81)

Sposare Edoardo Cerentano diventa così il nuovo obiettivo della fanciulla, la

quale non oppone alcuna resistenza ai progetti paterni, abbracciando fin da

subito le direttive di Teodoro. Inoltre, è proprio Teodoro a impegnarsi per la

realizzazione di questo sogno, dando avvio a una serie di sotterfugi e complotti

94 Garboli mette in collegamento la funzione euforica dell'Estero, con le influenze dellabelle-époque e dei sogni collettivi che caratterizzano l'epoca storica descritta dalromanzo. Sebbene questa precisazione non appartenga alle nostre corde, visto il ruolopreminente che Garboli dà al divenire storico e che invece, secondo il nostro modestoavviso, poco influenza i personaggi, riportiamo qui la parte più interessante sul suointervento, che ha il merito comunque di sottolineare, la portata illusoria del motivo:«L'Estero di Menzogna e sortilegio è uno di questi Eldoradi, di questi luoghi feliciinventati dall'epoca in cui s'inaugurarono i sogni collettivi, e le illusioni furono fattecredere, come i biglietti vincenti delle lotterie, un paradiso a portata di tutti» (C.Garboli, Introduzione in Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 1994, p. XII).

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che vedranno poi come protagonista un altro importante personaggio del

romanzo, Nicola Monaco. Per quanto riguarda Anna, essa accoglie con estrema

complicità questo nuovo orizzonte di attese, lasciandosi coinvolgere più del

necessario. Come era accaduto per l'Estero, anche in questo caso la ragazza si

abbandona del tutto alle sue fantasie, così da perdere ogni contatto con la realtà.

Per molti giorni, tuttavia, non cessò di pensare a lui; se voleva, in segreto,rallegrarsi, vagheggiava il ricordo di quelle due mani grassottelle, simili, per il lorocandore, a garofani o mughetti, che si agitavano per salutarla. Poi si ripeteva leparole: sarà tuo marito, e rideva convulsamente fra sé. (p. 81)

L'atteggiamento della ragazza, tanto simile a quello già provato in favore dei

viaggi in terra straniera, non è l'unico elemento che l'Estero ed Edoardo hanno in

comune. Questi infatti, più che essere due attanti diversi, possono essere

considerati come due differenti attori del medesimo attante. Innanzitutto,

entrambi appaiono per la prima volta, con una larga profusione di dettagli,

all'altezza dello terzo capitolo, parte prima. L'Estero e il Cugino sono dunque

accomunati da un'identica origine narrativa, tant'è che l'uno precede

immediatamente la manifestazione dell'altro. Una vicinanza che non può essere

causale visto il ruolo che entrambi finiranno per ricoprire all'interno del

programma narrativo del soggetto. La tendenza performativa di questo

programma – almeno in potenza – è messa in rilievo dallo spostamento

temporale operato ai danni delle due figure, le quali vengono fatte slittare nel

futuro. A proposito di Edoardo ad esempio, Anna ha questa visione estatica:

E dalla grande e stemmata scalea del proprio futuro, fra le livree, le palme e lesignore simili a belve chimeriche, con una sciosa vide farlesi incontro Edoardo.Non lo aveva più rivisto dopo quel giorno famoso, dal quale eran trascorsi circasette anni. (p. 124)

In direzione di un avvenire lontano e imprecisato, viene fatta scivolare anche la

partenza per l'Estero.

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Talvolta, non senza timidezza, [Anna] s'indusse a sollecitarlo; ma a talisollecitazioni suo padre, mortificato, rispondeva di non avere, sul momento,abbastanza denaro per il viaggio: aggiungendo subito, però, d'aver intrapreso degliaffari donde sperava grandi guadagni, per cui si potrebbe partire, forse, l'annoprossimo. (p. 78)

Il passo che abbiamo appena riportato, ci suggerisce inoltre un nuovo tratto in

comune: così come Teodoro passa all'azione per il tanto vagheggiato matrimonio

della figlia con Edoardo, allo stesso modo dice di impegnarsi per la realizzazione

del loro viaggio all'Estero. L'identità attanziale che sussiste tra Estero ed

Edoardo trova la sua piena legittimazione nei rapporti mantenuti con gli altri

attanti della narrazione. Teodoro infatti li propone entrambi come oggetti di

valore e, cosa ancora più importante, anche Anna li assume entrambi, quasi che

avvertisse l'identità funzionale che li sottende: felicità e coronazione di un idillio

amoroso. Di conseguenza, all'interno del programma narrativo del soggetto,

Edoardo non si sostituisce, come attore, all'Estero, ma vi si sovrappone, finendo

così per avere, anche da un punto di vista formale, le stesse caratteristiche. Egli

ad esempio non può che essere discendente «dei Normanni» (p. 80) e avere i

capelli biondi, «cosa rara a vedersi in quei paesi» (p. 79). L'aspetto da straniero

lo configura subito come una presenza anomala all'interno del racconto, e la

stessa Anna avverte di trovarsi di fronte a un ideale irraggiungibile, proprio come

potrebbe esserlo una terra straniera.

Suo cugino restava sempre in una regione celeste, troppo più alta di quella sua, diAnna (p. 81)

Il carattere leggendario del cugino, o meglio dell'immagine che ne ha Anna,

viene messo in risalto dalle fantasticherie che consumano la fanciulla a proposito

del matrimonio. Di fronte agli insulti che Nicola Monaco opera ai danni del

rampollo di casa Cerentano, Anna oppone con forza i propri ideali fiabeschi e

romantici, trasformando se stessa e il suo futuro sposo in personaggi di una

meravigliosa avventura:

33

Allorché Nicola esprimeva quei crudeli propositi contro Edoardo, ella, dopo laprima indignazione, si figurava che davvero Edoardo potesse trovarsi alla mercè diNicola. Questi lo maltratta, lo strazia, ma ecco Anna si leva contro di lui: - Chefai? - gli grida, - lascia mio cugino, o guai a te, guai a te, fellone! - Nicola lerisponde con la sua risataccia beffarda e minacciosa. E Anna fa mostra di fuggire,ma riappare poco più tardi, guidando uno squadrone di cavalieri armati: -Arrenditi! - ella comanda all'oppressore; e costui non ride più, trema e domandamisericordia. - Gli sia risparmiata la vita, - ordina Anna ai suoi uomini, - ma siacondotto, scalzo e ammanettato, sotto buona scorta, fuori dai nostri confini, pena latesta se mai più comparirà in queste terre -. Udito ciò, Nicola porge i polsi allemanette, e sibila fra i denti: - Mi vendicherò! - ma Anna alza una spalla ridendogliin faccia. Intanto Edoardo appare, ancor pallido, sanguinante, e le tende la suabianca manina: - Grazie, cugina cara, - esclama, - ti devo la vita. Che cosa chiediin cambio? - Nulla, - dice Anna, - addio! Dopo averti medicato le tue ferite, sparirònelle tenebre donde apparvi. - No! - grida Edoardo, - io non posso più vivere senzadi te. Tu sarai la mia sposa. - E partono avvinti, passando sotto le spade incrociatedei cavalieri, mentre i trombettieri intonano una marcia nuziale. (p. 118)

Il Cugino viene dunque coinvolto all'interno dell'universo letterario tanto caro

all'io-narrante e che, per motivi già precisati all'interno di questo capitolo, si lega

in maniera indissolubile all'immagine dell'altrove morantiano. L'ideale di felicità

che ne deriva, è ancora una volta confinato nelle terre della finzione, lontano

dalla realtà e dal mondo che la fanciulla è costretta ad abitare. Infine, a

suggellare il legame (semantico e funzionale) che esiste tra Edoardo e l'altrove,

ci viene in soccorso l'attenzione dell'autrice per la parola «Estero»: Estero, come

ci ricorda Sgorlon è «sempre parola scritta con l'iniziale maiuscola perché

appartenente al lessico magico e privilegiato, perché una di quelle che hanno

maggior potere nel mettere in moto la fantasia»95. Lo stesso si può dire per il

nome Edoardo:

Edoardo! Edoardo! In segreto, a bassissima voce, e piena di timore, pronunciavatalvolta questo nome: e le pareva che il dire: Edoardo, la investisse d'un arcanaautorità. Subito, a quel nome misterioso, le si spalancavano le porte, ed ella venivaassunta alle regioni, per lei sovraumane, dei signori che andavano in carrozza sulCorso e abitavano i palazzi. (p. 81)

95 C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, cit., p. 131.

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I due termini hanno dunque il medesimo potere evocativo in grado di

«spalancare le porte» dell'immaginazione e trasferire il soggetto in quell'altrove

in cui tutti i sogni sono già diventati realtà.

Queste affascinanti corrispondenze, permettono dunque di affermare che

l'Estero ed Edoardo sono a tutti gli effetti due volti dello stesso attante.

Un'identità funzionale che trova la sua completa concretizzazione nel Capitolo

quarto de La cuginanza, seconda parte del romanzo. A questo punto della storia,

Anna e il cugino si sono già conosciuti e, il rituale della seduzione messo in atto

da Edoardo, ha riproposto alla ragazza un tipo di amore che lei aveva già

sperimentato attraverso il padre. Significativo, a questo proposito, il ruolo della

pasticceria: Anna non esita ad entrarvi, dal momento che, forte dell'esperienza

con Teodoro, riconosce in quell'invito la manifestazione di un sentimento

d'amore. In più, a giustificare la decisione di Anna, viene fatta la seguente

annotazione:

Ma ormai, sapendo ch'egli era Edoardo, non poneva più mente ad altro, e loavrebbe seguito pur se lui le avesse proposto di recarsi all'America. (p. 171)

Nonostante siamo in presenza di una banale iperbole, è bene ricordare che

l'eccesso ha sempre una vaga somiglianza col vero, perché il suo compito non è

di ingannare il lettore, ma di condurlo verso una verità altrimenti sepolta 96. E

infatti, anche in questo caso, essa allude allo stretto legame che esiste, almeno

nella mente di Anna, tra il cugino e l'estero, anticipando la scena in cui «si

riparla dell'Estero con l'intervento di Manuelito il Matador, dello Zarevic, ecc .»

(p. 215). Qui è Edoardo il protagonista della scena. Egli infatti, quasi fosse a

conoscenza dei trascorsi di Anna e Teodoro, riprende esattamente le mete tanto

care alla fanciulla, inserendole però all'interno di una parabola leggendaria tutta

96 Si veda B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano, 1988, pp. 178-179

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personale.

Venuta la primavera, Edoardo incominciò a parlare del loro non lontano,necessario, addio. D'estate, infatti, la famiglia Cerentano si trasferiva in campagna;e al ritorno dalla campagna, vale a dire in autunno, lui, Edoardo, partirebbe soloper l'estero. Ora, egli nominava alla cugina le città che intendeva visitare, e ch'eranpoi le stesse di cui, da bambina, ella aveva udito parlare da suo padre. (pp. 222-223)

Con la maestria di un cantastorie, il ragazzo si abbandona del tutto all'attività

inventiva, non perseguendo alcun proposito mimetico nei riguardi dei paesi

stranieri. Ancora una volta insomma, l'Estero rifugge ogni referente reale per

affidarsi del tutto alla dimensione letteraria e fiabesca che, di certo, gli risulta più

congeniale:

Egli non pareva interessarsi affatto alle costumanze, alle esperienze, ai panoramivarî e nuovi che lo aspettavano: la sola cosa che vagheggiava e pregustava eranogli onori che lui stesso raccoglierebbe nelle contrade straniere, e i bellissimi effettiche farebbe la sua persona in cornici tanto diverse. (p. 223)

La ricchezza dell'Oriente, le avventure dei toreri in Spagna, le gelide steppe della

Russia, e ancora, i giardini della Gran Bretagna, le musiche della Germania e le

montagne in Svizzera, sono tutti pretesti che servono a trasferire gli attributi

dell'altrove sul fantastico viaggiatore. Non a caso, in ogni paese da lui visitato,

Edoardo acconsente di vestirsi con gli «strabilianti costumi» (p. 227) che la

nuova cornice paesaggistica richiede, un atto che tradisce la sua completa

accettazione dei valori sottesi:

Viaggerà così, al pari degli antichi re Magi, con un turbante in testa, una grancintura tempestata di gemme, e babbucce di velluto ai piedi. (p. 223)

In Ispagna, invece, egli si vestirà da torero, indi, avvolto e celato in un grandemantello rosso, siederà in incognito fra il pubblico della corrida. (p. 224)

Ma adesso lasciata l'ardente Spagna per le gelide steppe e i campi della Russianevosa, Edoardo s'accinge a calzare stivaloni di cuoio, e ad indossare la pelliccia:

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non già i rozzi pellicciotti, degni d'un bovaro, di cui si coprono i nostri cacciatori,né le austere, uniformi pellicce dei nostri signori occidentali, i quali, per di più, leusano in guisa di fodere sotto i cappotti di lana, come si vergognassero dimostrarle. No, Edoardo sfoggerà quando una pelliccia di volpi nero-argento, equando una di martora dorata, completata da un colbacco nero. (p. 226)

Ad Edoardo, campione di beltà, si adattano tutti i costumi delle terre al di là dei

confini e ciò equivale a dire che egli non ha difficoltà ad assumere su di sé le

caratteristiche di un mondo tanto distante. Tutto ciò che è estero, gli calza a

pennello:

Nel parlare dico, di progetti cosiffatti, il cugino s'animava e si pavoneggiava, comese già si vedesse acclamato, festeggiato, coccolato da tutto il mondo. Neldescrivere ad Anna gli strabilianti costumi che si riprometteva d'indossare, ledomandava ogni momento: - Non ti pare che starò bene vestito così e così? - E lefaceva osservare la forma sottile e aggraziata della propria vita, e delle caviglie,pregi che risalterebbero bellamente nel costume de espada. Ovvero, rigirandogloriosamente la testa, le faceva ammirare il proprio regolare profilo, cuis'adatterebbero, con pari venustà, e turbanti, e lucerne spagnolesche, e colbacchi.(p. 227)

Edoardo conferisce dunque concretezza ai caratteri mitici dell'altrove. In lui, a

questo punto del romanzo, avviene quella sintesi che, a livello funzionale,

avevamo solo teorizzato. Il carattere fittizio di siffatti progetti inoltre, permette

alla narrazione di svilupparsi attraverso sequenze molte ampie, dense di

particolari.

L'Estero che Teodoro aveva inventato, trova nuova vita attraverso le

parole di Edoardo, ma, sebbene vi sia una chiara identità di argomenti, c'è una

sostanziale differenza tra i racconti di Teodoro e quelli che il cugino si appresta a

pronuciare: Anna, in questi ultimi progetti, non esiste.

Senonché, mentre Teodoro le prometteva di condurla con sé nei viaggi, il cuginopareva compiacersi, invece, della fatale assenza di lei dai propri magnifici disegni.(p. 223)

Si tratta di una novità importante che, infatti, anticipa il fallimento del

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programma narrativo del soggetto. Per Anna non c'è alcuna possibilità di

ricongiungersi all'oggetto di valore che, tempo prima, aveva individuato.

L'Estero ed Edoardo, grazie ai racconti operati da quest'ultimo, si fondono in un

unico orizzonte da cui la ragazza risulta esclusa. La sua assenza dall'attività

inventiva del cugino è il simbolo di una mancata fase performativa del soggetto

che, infatti, rimarrà bloccato a un perenne stadio potenziale. I capitoli de La

cuginanza che precedono questa crudele rivelazione, sono infatti ascrivibili alla

fase della competenza. Il soggetto sembra vicino a coronare i suoi sogni di

felicità e di amore: è il fato a fornire gli elementi per l'incontro con Edoardo, e il

sentimento che lega i due cugini, è la premessa necessaria al tanto vagheggiato

matrimonio. Eppure tutto questo non basta a dare per scontato il successo del

soggetto, che, infatti, è costretto a fare i conti con la realtà. Negli

«sconclusionati colloqui» (p. 215) che precedono i racconti sull'Estero da parte

di Edoardo, questi mette subito in chiaro l'impossibilità di legarsi in matrimonio

con la cugina:

Divagando venne a dire di ricordarsi che in certi paesi i re e gli imperatoripotevano sposare soltanto la propria sorella: unione che per il popolo sarebbedelitto ed è legge sacra e privilegio per loro. Edoardo disse ciò come chi scherza oracconta una fiaba; ma Anna, all'udirlo, non seppe nascondere un suo rapidoturbamento, ed agli, in risposta , si svincolò ridendo da lei, e soggiunse: - Invece ionon voglio sposarti, e mi sceglierò una tutt'altra imperatrice. (pp. 217-218)

Qui Edoardo rende manifesta le contraddizioni del proprio ruolo. Da una parte

infatti, suggerisce alla cugina un lieto fine – non a caso confinato nel mondo

della fiaba –, dall'altra però ricorda ad Anna l'impossibilità di far coincidere la

realtà con le proprie attese. E ancora, per provocare la cugina, Edoardo si inventa

delle storie su un finto fidanzamento e, mentre spadroneggia facendo della

menzogna il proprio vessillo, precisa:

Tu, cugina mia, devi educarti meglio, la tua segreta ribellione è ingiusta, il nostroamore (lo sai, te l'ho ripetuto più volte), non poteva concludersi con le nozze. E,

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d'altronde, un uomo deve scegliersi un giorno una compagna di tutta la vita, chefaccia parte della sua stessa società, che splenda degnamente vicino a lui... Ecco, ilmio giorno è venuto, ho trovato la mia sposa ideale. Ho sempre immaginato unasposa piccolina, biondina, come la mia Laura... Le spilungone mi vengono presto anoia. E tu, cugina mia, con le tue levate di spalle e i tuoi sorrisi insultanti, ti seirivelata una vera donnicciola in questa occasione. (p. 220)

L'esclusione di Anna dai viaggi del cugino dunque, ci appare come l'ennesima

variazione sul tema che tenta di rendere palese al soggetto l'impossibilità del

raggiungimento dell'oggetto di valore. La ragazza, di fronte a questa verità,

oppone un'eroica resistenza che, comunque, assume già i toni della rinuncia:

- M'aspetterai! Ma io non ritornerò più da te! Avrò un'altra ragazza, e poi un'altra,e avrò moglie, e poi anche un'amante, una signora di trent'anni, coi capelli rossi! Enon ricorderò più nemmeno la strada che porta a questa piazzetta e a questo vicoli.- E io vivrò qui dentro rinchiusa e penserò a te mattina e sera, a te solo, fino algiorno che sarò morta. (p. 228)

Il termine «rinchiusa» infatti, implica una triste accettazione della sua

condizione di esclusa. Con esso, Anna sembra abbandonare i suoi magnifici

progetti in favore dell'Estero e, di conseguenza, anche i suoi disegni su Edoardo.

Arresasi al principio di realtà, arriva a trasformare il suo oggetto di valore in

qualcos'altro: invece di sposarsi con il cugino, si accontenterebbe di avere un

figlio da lui e, più sottomessa che mai, confessa la sua aspirazione al cugino.

Perciò, ecco la sua preghiera: ella voleva che lui, prima di partire e d'abbandonarla,le facesse avere un bambino, pur senza diventare suo marito. (p. 235)

Se non può avere il vero Edoardo, Anna decide di dirottare le sue attenzioni

verso un sostituto del cugino, un figlio in tutto e per tutto uguale al padre97:

97 Interessante notare come questo nuovo progetto di Anna, assuma tutti i connotatidella favola, finendo per confermare il carattere fittizio dell'oggetto di valore a cui leimira. Si riconoscono infatti in questo episodio, alcune delle funzioni individuate daPropp, come ad esempio la trasfigurazione («[Anna] si sarebbe travestita damendicante, e avrebbe elemosinato in quartieri lontani dalla casa dov'egli laaspettava. Prima di rincasare, avrebbe di nuovo mutato gli abiti, per farsi da luicredere una signora», p. 178) o l'identificazione del pargolo da parte del Padre

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«capelli biondi sciolti sulle spalle», «piedi simili a garofani», «cresciuto come

un gran signore» (p. 233). Ella, non a caso, lo avrebbe «adorato come uno

sposo» (p. 235) e «chiamato ogni minuto» (p. 233). Ma anche questo sogno è

destinato ad andare in frantumi. E, la motivazione addotta dal cugino per il suo

rifiuto, torna a battere sul tema del matrimonio.

- Ma che dici, Anna? Fare un figlio insieme, non è come dire sposarsi?- No, questa è una favola. - replicò Anna, - creduta dai bambini; ma io lo so chenon è così (p. 236)

Al di là del crudele gioco operato da Edoardo, il quale, pur di rifuggire

l'argomento, accusa Anna di essere una donna di facili costumi, ci preme qui

sottolineare come tutto il capitolo sia costruito sull'annuncio del fallimento. Il

programma narrativo che muove il soggetto è destinato a non approdare mai alla

fase performativa. Tant'è che, a conclusione di tutti questi discorsi, arriva la

«cerimonia del marchio del fuoco» (p. 241). Il soggetto è passato direttamente

dalla fase competenza a quella della sanzione. La sua dedizione alla causa viene

così punita attraverso un rito barbaro e feroce che però, viene accolto con

estrema soddisfazione dalla vittima. Ella infatti vede in questa nuova cicatrice il

segno tangibile del rapporto amoroso intrattenuto con il cugino, uno stemma che

le servirà a mantenere intatto il ricordo di lui, fuggito intanto verso l'Estero.

2.3 La morte di Edoardo e la felicità inventata

L'addio imminente del Cugino mette a dura prova la lucidità di Anna, la

cui realizzazione personale si fa sempre più lontana. Il suo inconscio reagisce

come può all'idea della separazione e, non a caso, genera dei sogni che mettono

in campo tutte le anticipazioni e le suggestioni che la ragazza ha vissuto sulla

propria pelle. Ne consegue un repertorio di immagini oniriche che testimoniano

Edoardo e l'agnizione che segue la vista di Anna e del suo anello «adorno d'undiamante e d'un rubino» (p. 178). Sulle funzioni della fiaba si veda V. Propp,Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 2000.

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la sua condizione di esclusa e confinano Edoardo in un mondo lontano, come se

egli fosse già partito per l'Estero.

Un'altra volta, ella insegue un treno in fuga, spronata solo dalla sua poverasperanza che almeno qualcuno la saluti dal finestrino. Le pare infatti che una manosventoli un fazzoletto, e, rapita, ella sventola a sua volta il proprio, sorridendo aquella fuggente apparizione. Ma una risata vicino a lei la scuote: certo ellas'illudeva, il saluto non era per per lei, i maligni si beffano della sua speranza. Sivolge di scatto, ma non c'è nessuno. Anche il treno è sparito, ella è sola sopra unapianura stepposa e arida, lungo sterminate rotaie. (pp. 243-244)

Il treno assume su di sé tutte le caratteristiche simboliche di questa partenza

verso altri lidi, mentre Anna sprofonda in un baratro di solitudine che ricorda fin

troppo da vicino l'esperienza che Elisa avrà molti anni dopo, nella stazione in cui

lavora Francesco98. Le stesse lande desolate, simbolo del tormento interiore della

piccola, sono qui correlativo oggettivo della condizione esistenziale della madre,

che dovrà accettare il treno come simbolo di un viaggio di sola andata. Oggi è

Edoardo a sparire su quelle carrozze, domani sarà Francesco, mentre le donne

innamorate di loro sono costrette a rimanere prigioniere in un qui che appare

solo come una «pianura stepposa e arida». L'allusione alla morte, qui annunciata

grazie all'immagine del treno, aleggia anche nel sogno successivo.

Un'altra volta ancora, le sembra di camminare per una città notturna, deserta, su egiù per innumerevoli grandini, per vicoli stretti come canali. Ha smarrito la strada,e cerca febbrilmente qualcuno. D'un tratto, in cima a una gradinata, le appare unagrande e bianca statua. Credendola Edoardo, ella si lagna: - Perché, Edoardo, vuoibeffarmi? Perché ti mascheri così? - Ma la statua si avanza, in figura d'una vecchia;e stringendo il polso di Anna con le sue dita rigide le dice: - Non ti vergognid'uscire così, senz'altro addosso che una camiciola? - Ella risponde, ridendo: - Loso che è tutto uno scherzo. Edoardo, un bacio dammi un bacio! - Ma s'accorgefinalmente di non parlare con Edoardo: egli è prigioniero, in un sotterraneo làpresso, ma dove? Se ne ode il pianto nervoso, acuto. - Edoardo! Edoardo! - ellachiama sconvolta, cercando di coprirsi. E si sveglia, udendo il fischio del trenonotturno sul ponte della ferrovia. (p. 244)

98 Si veda la sequenza finale del terzo capitolo, parte quinta, in cui l'incontro con ilCavalier Caboni è il pretesto per descrivere il volto cupo e tetro della stazione,ovvero di quello che sarà poi il teatro della morte paterna.

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Edoardo qui assume le sembianze di una statua. I suoi impulsi vitali vengono

pietrificati, costretti a una fissità mortifera che, infatti, preannuncia la

metamorfosi in vecchia. In più, come se questo dettaglio non bastasse da solo a

alludere a un'imminente scomparsa, è di nuovo il treno a chiudere la sequenza

onirica. Stavolta il suo fischio non appartiene al mondo dei sogni, ma alla vita

vera. Le dita fredde delle morte stanno dunque per insinuarsi davvero nella

quotidianità di Anna anche se ella, presa com'è dal proprio progetto di felicità,

rimane prigioniera delle proprie fantasie, senza riuscire ad abbracciare del tutto

le anticipazioni colte durante i suoi colloqui con Edoardo, e poi riproposte dal

suo inconscio attraverso immagini che si riflettono tra loro e che veicolano

sempre la stessa verità. La ragazza infatti, non ha armi per opporsi al destino se

non la propria immaginazione. Ed è proprio alle sue fantasie che si aggrappa

quando tenta di dare un senso ai propri sogni:

Allorché sognava d'averlo perduto, Anna si diceva, appena desta: «Non è vero, èstato un sogno, domani lo vedrò», e questo pensiero fulmineo le dava una felicitàfebbrile. Talvolta, suo malgrado, le veniva fatto di pensare a un nome AnnaCerentano. Ella vagheggiava pazzamente un tal nome, e al tempo stesso cercava discacciarne la tentazione dalla mente: «Ah, ma che penso!» si ammoniva,stringendosi la fronte, quasi impaurita da quelle sillabe temerarie. (pp. 244-245)

Nonostante i tentativi di tener fede al proprio personale progetto di

autoaffermazione, gli incubi che abitano le sue notti hanno un forte legame con

la realtà. Sono molti gli elementi di queste immagini oniriche che si ripresentano

proprio la notte in cui Edoardo la chiederà in sposa. Ad esempio, è una città

vuota, notturna e solitaria quella che farà da sfondo alla febbrile fuga d'amore dei

due giovani, i quali sono una in camiciola e l'altro vestito di bianco, in un chiaro

richiamo alle atmosfere dell'ultimo sogno analizzato. In più, in preda a

un'energia anomala, il cugino prende in braccio Anna e la conduce in un vicolo

da cui è possibile vedere «i prati secchi attraversati dalla ferrovia» (p. 249). La

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promessa di felicità che Edoardo è venuto ad annunciare alla fanciulla, si apre

dunque sotto i segni di un clima funebre. Ma Anna rifiuta con forza questi

presagi e si lascia trascinare dalle emozioni:

Un piacere violento la attraversò: non le pareva una cosa strana, ma piuttosto unafelicità predestinata, d'esser fuori con lui, di notte, senza scarpe, e quasi nuda. (pp.249-250)

Le premesse per un'iniziazione sessuale dei due amanti ci sono tutte, eppure

questa non avverrà mai. Proprio nel momento in cui l'oggetto di valore si

avvicina di più al soggetto che lo anela, la tensione centrifuga dell'oggetto

esplode senza possibilità di ritorno. Il fantasma dell'assenza getta la sua ombra

sull'intera scena, e anche se la tensione erotica si fa via via più alta, il suo unico

vero approdo è un atto mancato.

Tuttavia, lo sentiva, perché s'avverassero in pieno le sorti di quella notte, ellaavrebbe dovuto trarre Edoardo via da quei luoghi abitati, oltre i binari dellaferrovia, per i prati già freschi di luna. Là, in qualche parte, era la loro casa dovenessuno potrebbe sorprenderli, e dove li aspettava una metamorfosi arcana, percui, non potrebbero mai più venir divisi. Forse avrebbero esaurito in un sol puntotutta la loro vita e sarebbero scomparsi dal mondo, o si sarebbero forse trasformatiin semplici animali. (Tale infatti era spesso il desiderio di Anna, allorché versosera, lasciando il cugino, vedeva la capra e il capro avviarsi insieme alla lorostalla, e le famiglie degli uccelli riunirsi nei nidi, e il gallo ritirarsi al coperto con lesue galline; mentre che lei, Anna, ritornava sola alle sue stanze del quarto piano, eil cugino se ne andava al suo palazzo).Ma Anna non osò pronunciare l'invito alla fuga notturna. Ciò non si poteva fare.(p. 250)

Le «sorti di quella notte» sono destinate a non realizzarsi mai. La felicità è

possibile solo altrove, «via dai quei luoghi abitati», in un «là» imprecisato. Qui,

invece, si attende solo di conoscere il sapore della delusione. Anna dimostra di

avere una certa consapevolezza degli scherzi del destino e infatti, più volte,

durante quella dichiarazione d'amore, Edoardo è costretto a verificare

l'atteggiamento della cugina, incalzandola con un insistente «Non mi credi?» (p.

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250). E forse, il motivo di queste riprese anaforiche, altro non è che la

manifestazione di un dissidio personale che anche lui prova. Lo stesso Edoardo

infatti, abbraccia il punto di vista della cugina nel momento in cui torna a fare

riferimento all'Estero.

- Domani, - disse poi, rialzando il capo e squassandolo in atto di riscossa, -domani, ho deciso, lascio questa città maledetta. Vado in campagna, e poi aLondra, Parigi... (p. 248)

Nell'aggettivo «maledetta» pronunciato dal ragazzo si riconosce non solo la sua

appartenenza alla dimensione dell'altrove, ma anche la consapevolezza che la

felicità non esiste nella quotidianità, ma va cercata lontano dalla vita di tutti i

giorni. E così, nel rendere esplicito il suo desiderio di prendere in moglie la

povera Anna, egli torna a manifestare una voglia irrefrenabile di fuggire via,

lontano dalla novella sposa:

- Del resto, - aggiunse poi, - non illuderti, sposando me, d'esser felice. Dopo chesaremo sposati, io potrò andarmene a passeggio, a visite, a feste, e viaggiare per ilmondo; ma tu dovrai stare ad aspettarmi, chiusa in casa. Prima di uscire, incolleròdelle strisce di carta alle finestre e alle porte e ci scriverò sopra la mia firma, peraccertarmi al mio ritorno, che tu sei rimasta rinchiusa, e non ti sei neppureaffacciata alla finestra. […] Io non voglio che tu rimanga bella perché la tuabellezza sarebbe la mia croce, una moglie non deve esser bella, dev'esser santa ebasta. Fino alla tua vecchiaia, tu sarai sempre o incinta, o con un bambino in fasceda nutrire. Così, in pochi anni, sarai grassa, deforme, sfatta, e non potrai destare latentazione di nessun uomo; mentre che io sarò sempre magro, leggero comeadesso che ho diciotto anni e mezzo, e volerò e scorrazzerò per il mondo, sicuroche tu m'aspetti a casa. (p. 251)

In una sequenza tanto importante per il programma narrativo del soggetto,

l'Estero torna a far parlare di sé, mantenendo intatta la propria funzione di

oggetto di valore euforico. Ma, ancora una volta, i viaggi del cugino non

coinvolgono la povera Anna. Viene sottolineato, ormai senza mezzi termini, il

ruolo di estraneità che la fanciulla ricopre rispetto all'orizzonte di attese che

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Edoardo incarna: «Non illuderti, sposando me, d'esser felice». Sono queste le

parole-chiave che, non a caso, generano un turbamento evidente nella povera

ragazza:

Da parte sua, Anna lo fissava con occhi dilatati in cui la speranza si mutava quasiin paura e ambascia. (pp. 251-252)

Anche quando la vicenda sembra piegarsi in favore del soggetto, viene ribadita

l'impossibilità di raggiungere la meta. Quella che appare come una proposta di

matrimonio, altro non è che il vero addio del protagonista il quale ha già avviato

il suo viaggio verso una dimensione altra. A palesarlo, ci pensa la canzone

siciliana che segue la scena più erotica del romanzo, quella in cui Edoardo arriva

a baciare la mammella della cugina. Dopo aver invitato ragazza a ritirarsi nelle

sue stanze, rinunciando così a proseguire in direzione di un'iniziazione sessuale,

Edoardo abbandona il luogo, cantando questi versi:

Amici amici che a Palermo itimi salutati la bedda cittati... (p.254)

L'io-narrante precisa che si tratta di una canzone di un carcerato, molto famosa.

A noi, sembra più calzante la figura dell'esule. Edoardo, anche se

inconsapevolmente, ha dato avvio a quel processo che lo sublimerà davvero in

qualcosa di etereo e di inconsistente. L'allusione a una possibile eterna

giovinezza («io sarò sempre magro, leggero come adesso che ho diciotto anni e

mezzo, e volerò e scorrazzerò per il mondo, sicuro che tu m'aspetti a casa tua» p.

92) si rivela un presagio della sua sorte e, per rubare le parole a Giuntoli

Liverani, egli «apparentemente sembra lì, accanto ad Anna, ma la sua

consistenza risulta evanescente, quasi larvale»99. Questo addio tanto importante

nella storia personale di Anna fa da preludio alle nuove apparenze che assumerà

99 F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L'ultimo romanzo possibile, Liguori Editore,Napoli, 2008, p. 93.

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il cugino, una volta morto. Per lei, Edoardo assurge alle regioni dell'altrove

quella stessa notte.

[Edoardo] già le appariva in certi istanti un essere leggendario, il cui tempoinfantile ed eroico si compieva assai lontano dai poveri vicoli e dalle stanzette diAnna. Ma tosto ella si rivoltava a questa leggenda con la stessa furia con cui, pocoavanti, s'era rivoltata alla propria disperazione. (p. 262)

L'Estero ed Edoardo hanno ora un nuovo attributo comune: per Anna sono

entrambi distanti nel tempo e nello spazio100. Le funzioni narrative del cugino

non si esauriscono certo qui, visto il ruolo principale che egli avrà nella

manipolazione degli eventi che coinvolgono gli altri personaggi. Eppure, al

momento, a noi interessa esclusivamente il ruolo da lui assunto nel programma

narrativo di Anna, i cui valori e le cui aspettative non evolvono mai in qualcosa

di diverso, ma rimangono bloccati a uno stadio infantile e immaturo, in cui

Edoardo e l'Estero incarnano ancora le medesime attese tradite. Quando è il

momento di fare i conti con il proprio «matrimonio d'interesse» (p. 537), ad

esempio, Anna accoglie la verità con un pianto «sommesso: come di un

fanciulletto sensibile che altri abbian ferito in una sua fanciullaggine gelosa e

cara» (p. 563); oppure, durante il trasloco verso la «casa nuziale» ella rimase

«trasognata: come un bellicoso e futile ragazzetto che abbia voluto, ad ogni

costo, dare l'ultimo colpo in una zuffa e poi, sulla via del ritorno, si sente i

ginocchi mancare» (p. 570). E anche quando Anna scoprirà della morte di

Edoardo, il suo colloquio con il portinaio di casa Cerentano, è intervallato da

100 Annota la Liverani: «In seguito alla notte dell'addio, il giovane cadrà malato, e alsuo risveglio si accorgerà di avere ormai rotto ogni legame col passato. Infatti, anchequesta malattia, al pari di quella che ha colpito Francesco fanciullo (e soprattutto alpari di quella che colpirà Elisa), rappresenta l'uscita dall'infanzia e un risveglionell'età adulta; e l'amore per Anna – che della visione infantile è espressione – èormai per Edoardo qualcosa di irrimediabilmente lontano […] Anna è lontana,confinata in un tempo che a lui non appartiene più: egli ha ormai lasciato il 1918 eadesso può muoversi, uscito dall'adolescenza, in “un'altra età”, ovvero nel 1920» (ivi,pp. 93-94).

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annotazioni simili che indicano il suo sostanziale rifiuto della dimensione

temporale che ha invece coinvolto tutti gli altri personaggi:

- Sì-sì molto! - esclamò bruscamente mia madre. E col viso imbronciato d'unbambino che, durante una febbre, si sdegna contro i propri delirî, ingiunse: -Rispondete! (p. 718)

- […] perché porta il lutto del padroncino, suo figlio.- Di chi? - esclamò mia madre.- Del figlio suo, ripeté il portiere, guardandola sbigottito e incerto, - che le è mortoquest'inverno: don Edoar...Sentii la mano di mia madre farsi fredda. - Andiamo! Andiamo! - ella mi esortòcon una voce senza coscienza, dal timbro mutato, acerbo, sì da somigliar quasi avoce di fanciulletta mia pari. (pp. 718-719)

Le similitudini insistono con forza sul mondo dell'infanzia, lasciando dunque

intendere che Anna non è mai cresciuta, ma è rimasta prigioniera di un mondo

fittizio, in cui i suoi desideri sono ancora orientati verso gli stessi progetti d'un

tempo. È lei stessa ad affermarlo, vittima di un delirio che ha come testimone la

povera Elisa:

- Vieni qui, tu, avvicinati, piccola bigotta: credi tu nell'inferno?Sperduta, balbettante, io dissi: - Credo... nel Paradiso.- Credi nel Paradiso! - ella ripete ridendo, e contraendosi in volto per la collera, sìch'io temetti le sue percosse, - e allora voglio che tu lo sappia: io conobbi l'angelo,il principe del Paradiso. È mio cugino, anzi mio fratello carnale, si chiamaEdoardo. Prima ch'io conoscessi tuo padre, ci amavamo, lui ed io. Ma eglim'abbandonò e non si curò più di me. Da allora non l'ho incontrato mai più, e nonho avuto mai più sue notizie, neppure un saluto, così che a volte sospettavo eglifosse in viaggio, a volte che fosse qui in città... Egli non mi degnò mai neppured'un ricordo, ché era un uomo troppo bello per darsi pensiero d'una donna. Ma io,per tutti questi anni, non ho pensato che a lui. Non amo che lui, non ho altropiacere, altra memoria, altro compagno che lui, non ho altro riposo. E adessovogliono farmi credere che è morto, il mio bel padroncino, il mio fratello caro, ilmio bel corpo d'amore, che è scheletrito! […] E adesso, ascolta, tu sei testimone,ragazzina: io vendo la mia anima all'inferno, in cambio d'essere svegliata da questosogno, e ritrovare Edoardo! (pp.725-726)

Questa confessione è importante perché dimostra il totale abbandono di Anna

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alla dimensione del non-vero. La donna infatti, per interpretare gli accadimenti

della propria vita, si affida, così come ha sempre fatto, a uno schema

interpretativo che di reale non ha nulla. Sogno, finzione, credenze religiose e

miti si intrecciano in questo sfogo, palesando la sua assoluta mancanza di

maturità. Sono passati molti anni dalla relazione col cugino, eppure il tempo è

costretto a piegarsi ai sentimenti della donna che, in effetti, non ha mai smesso

d'amarlo. Inferno e Paradiso non servono qui a immaginare una vita ultraterrena

per l'anima del cugino, ma sono dimensioni fantastiche che possono aiutare

Anna a ritrovare il proprio amore, perché lei non ha mai rinunciato al suo

oggetto di valore euforico e, ora più che mai, vuole fare qualcosa per

riappropriarsi della felicità tanto agognata. A suggerirle una via di fuga in grado

di esaudire tutti i suoi desideri, è Concetta, madre di Edoardo che, non potendo

sopportare la morte del figlio, ha deciso di tornare indietro nel tempo e illudersi

così di vivere ancora negli anni in cui il figlio viaggiava in giro per il mondo.

Una follia che si rivela essere una soluzione perfetta anche per Anna, la quale

intravede nella richiesta della signora Cerentano, un modo per riappropriarsi

della propria felicità. Ne consegue che, per farle credere che Edoardo sia ancora

vivo, Anna crea un carteggio fittizio in cui il mittente altri non è che il cugino

stesso. Nel regno della finzione, la donna realizza così tutti i propri progetti e la

felicità non sembra più tanto distante. Grazie a queste lettere, Anna corona il suo

sogno d'amore tratteggiando un cugino ancora fedele alla sua proposta di

matrimonio. E, com'era prevedibile, la presenza dell'idillio amoroso, permette al

motivo dell'Estero di ritornare sulla scena.

Ogni lettera è datata da una città diversa, e per lo più, nell'esordio, l'errantemandatario s'indugia a parlare del suo nuovo soggiorno. Una lettera per esempioincomincia: Cara Cugina, ti scrivo da Parigi, la «Ville Lumière» dei follicarnevali, la Babilonia d' Occidente, sentina di tutti i vizi e vertice di tutti i trionfimondani..., e un'altra Anna! Eccomi a Costantinopoli, regno delle Mille e unanotte, nido opulento di favorite e di vizir..., e una terza: Oh mia sposa, comedescriverti questa metropoli indiana, tenebroso connubio di fasto e di

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degradazione..., e via di seguito. (p. 791)

Attraverso queste lettere, Anna opera attivamente quella sintesi sempre valida

nella sua mente fanciulla: Edoardo, suo promesso sposo, non può che trovarsi

all'Estero, o meglio nello stesso Estero dei racconti di Teodoro, dove tutti i sogni

possono realizzarsi. Non importa quali siano le coordinate reali sull'Atlante, dal

momento che le annotazioni del mittente rivelano una «selvaggia ignoranza della

storia e della geografia» (p. 792). Non importa se, in tutto questo carteggio, non

c'è nulla di reale. Ciò che conta davvero è che la terra al di là dei confini, primo

e vero oggetto di valore euforico per il soggetto qui presente, è diventata ora la

protagonista dei suoi racconti. La Finzione, citata non a caso nella Dedica per

Anna che precede tutto il romanzo, permette all'altrove di avvicinarsi. Siamo in

presenza dunque della rivalsa di una perenne esclusa che trova finalmente il

modo di affermarsi e di imporsi101. Così, l'«unica grande metropoli stesa per tutto

il globo, voglio dire per quella parte del globo cui si dà il nome di Estero» (p.

792, è davvero la sola metropoli che può accogliere tra le sue mura l'Edoardo-

Pensiero ancora tanto devoto alla sua Anna, il quale spesso le «annuncia il

proprio ritorno prossimo, e le descrive la lor futura casa nuziale» (p. 794). Anna

pertanto, avendo subito il fallimento del proprio programma narrativo, si inventa

una propria fase performativa. Se la felicità non appartiene a questa «esistenza

piena di grigiore»102, sarà lei stessa a progettarla e a darle corpo nella sua

quotidianità.

101 Questa rivalsa sembra ricordare l'identico riscatto compiuto da Elisa, la «sepoltaviva», la cui immaginazione le permette di risorgere come una «fenice lucente» (p.9). A questo proposito, Giuntoli Liverani scrive: la narratrice «reagisce al traumadell'esclusione decidendo per sé un perenne stato di solitudine; una solitudine peròimmaginifica, in cui a una realtà che la vorrebbe vittima sostituisce una “Favola” chela vede sovrana» (F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L'ultimo romanzo possibile,cit., p. 31).

102 Sono le parole che Debenedetti utilizza durante un'intervista sul Premio Viareggio.Si veda Menzogna e sortilegio, «L’Unità», 18 agosto 1948, p. 3. Breve intervista aGiacomo Debenedetti, ora in Opere, II, pp. 1670-1671.

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Non credo che in nessuna precedente epoca della sua vita ella fosse mai stataaltrettanto bella. Il suo viso serbava adesso, giorno e notte, quella freschezzaestrema che già lo attraversava per attimi durante le nostre prime veglie notturne.Il suo pallore si tingeva d'un lieve incarnato, e l'occhio intorno all'iride grigia elucente, si velava d'un vapore azzurro che dava ai suoi sguardi i colori del cielo.[…] E il suo corpo grande, materno, aggiungeva a queste sue bellezze unsentimento di maturità e di languore, sì ch'ella risaltava, vicino alle ragazze, comeuna sovrana rispetto alle sue damigelle. […] Difatti, in istrada quasi tutti i passantifissavano mia madre con ammirazione, molti si voltavano a riguardarla, e alcuni levolgevano, a voce alta o bisbigliando, parole invaghite. (p. 798-799)

La realizzazione personale ha permesso ad Anna di abbandonare le proprie

caratteristiche puerili in favore di una maturità piena. L'unico neo di questa fase

performativa sta nella sua veridicità. Il regno della menzogna che permette alla

donna di raggiungere i propri obiettivi sta per collassare su stesso, trascinando

con sé la sua nuova regina. La morte che raggiungerà Anna è il simbolo di una

consacrazione a un'altra dimensione. Ella infatti, soddisfatta della propria fittizia

relazione, non ha più in sé alcun principio di realtà e, nell'apprendere della morte

del marito, tutti i suoi castelli in aria crollano sotto il peso di una verità

oltremodo scomoda.

La gioia non appartiene a questa vita e Anna ben incarna la regola

esistenziale di questa stramba famiglia, regola che la stessa Elisa aveva citato

all'inizio del suo racconto:

Rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, nonriconoscendo nessuna felicità possibile fuori del non-vero! (p. 23)

Di conseguenza l'altrove, simbolo di appagamento e di autoaffermazione, non

può che abitare, a sua volta, le regioni del non-vero. Con questa nuova

consapevolezza, sarà la stessa Elisa a dare un nuovo volto a quello che era stato

l'Estero in tutto il suo romanzo e che ora, pur di adattarsi alla nuova condizione

di spiriti dei protagonisti, si trasfigura in qualcosa di nuovo: amore e felicità si

combinano per dare vita a un nuovo orizzonte luminoso, in cui i personaggi

50

possono finalmente vivere in pace, prima fra tutti, la tanto tormentata Anna che

nel corso del romanzo, non ha mai smesso di sperare nel proprio progetto di vita.

«Là», adesso, tutto sarà più semplice, «là» tutto sarà possibile.

Riguardo agli spiriti che mi sono più cari, voglio dire Anna, Edoardo e Francesco,io vagheggio per loro più care speranze. Per esempio, m'immagino che là doveessi dimorano, e dove certo tutt'altre leggi da quelle della terra regolano amori enozze, essi avranno potuto formare tutti e tre insieme una famiglia, godendo senzapeccato del loro reciproco, triplice amore. (p. 942)

51

CAPITOLO III

L'ALTROVE DI UN FANCIULLO:

L'ISOLA DI PROCIDA E LE TERRE IGNOTE

1.1 «La mia infanzia è come un paese felice»103

Menzogna e sortilegio ha abituato il lettore a ricercare l'altrove in una

dimensione lontana, estranea ai luoghi dell'intera vicenda. L'Estero infatti,

proponendosi come catalizzatore di felicità, non poteva che trovarsi oltre i

confini di quella grigia città meridionale in cui i protagonisti erano costretti a

vagare come animali in trappola. L'isola di Arturo invece, ha il merito di

stravolgere l'equilibrio delle tensioni spazio-temporali proposte nel primo

romanzo: Procida si configura fin da subito come un luogo vergine e luminoso,

in cui tutto sembra essere avvolto da una patina favolistica e leggendaria. Il

carattere magico assunto da queste nuove coordinate spaziali, trova la sua piena

legittimazione nella natura simbolica che l'isola ha sempre avuto in campo

letterario. Come ricorda Fortunati in un intervento che vuole approfondire la

suddetta immagine nella letteratura utopica104, «l'isola è una metafora strutturale

per l'altrove […] espediente necessario per la costruzione del concetto di “lieu

autre”, dell'ou-topos, nel doppio senso di ou-topos, non luogo, e eu-topos, luogo

della felicità»105. Il terreno dell'utopia ci offre quindi una valida spiegazione del

103 E. Morante, L'isola di Arturo, cit, p. 973. Tutte le citazioni interne al capitolo fannoriferimento alla medesima edizione. Di conseguenza, per semplificare la trattazione,annoteremo, d'ora in poi, solo la pagina corrispondente.104 Il ricorso all'utopia come possibile modello intertestuale non ci sembra poi cosìazzardato, vista la definizione che, in Menzogna e sortilegio, la scrittrice dà a propositodell'Estero, in cui «Leggenda» e «Utopia» siedono in compagnia di «scherzose favolepaterne». (si veda a questo proposito il primo capitolo del presente lavoro). 105 V. Fortunati, L’ambiguo immaginario dell’isola nella tradizione letteraria utopicain L. De Michelis, G. Iannaccaro, A. Vescovi (a cura di), Il fascino inquieto dell'utopia.Percorsi storici e letterari in onore di Maria Luisa Bignami, «Di/segni» n. 7, Milano2014, p. 52.

52

mutamento di registro da parte della scrittrice: è l'isola stessa, in questo

romanzo, a fungere da altrove, a essere garante di una serenità atavica, quasi

naturale. Fortunati continua infatti, elencando le implicazioni della propria

definizione, descrivendo l'isola come un «cerchio magico, che racchiude e

protegge», «un universo autosufficiente, un luogo sicuro completo in se stesso»

e, cosa ancora più importante, come espediente letterario che «rielabora il topos

del giardino, dell'eden abitato da nativi benevoli, arricchito da una vegetazione

lussureggiante e da specie animali prolifiche e mansuete»106. Procida e la Casa

dei guaglioni (che può essere considerata un microcosmo, quasi un'isola

nell'isola), condividono queste caratteristiche:

Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,fu tutto (p. 947)

Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse framuri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardiniimperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole,coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle roccetorreggianti, che sovrastano l'acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche,di cui, specialmente al mattino presto, s'odono le voci, ora lamentose, ora allegre.Là, nei giorni quieti, il mare è sereno e fresco e si posa sulla riva come una rugiada(p. 954)

Credo che i ragni, le lucertole, gli uccelli, e in genere tutti gli esseri non umani,dovessero considerare la nostra casa una torre disabitata dell'epoca di Barbarossa,o addirittura una faraglione in mare. Lungo i muri esterni, da fessure ecamminamenti segreti, spuntavano le lucertole come dalla terra; le rondini amigliaia, e le vespe, vi facevano i nidi. Uccelli di razze forestiere, di passaggiosull'isola nelle loro migrazioni, si fermavano a riposare sui davanzali. E perfino igabbiani, dopo i loro tuffi, venivano ad asciugarsi le piume sul tetto, come sulpennone d'una nave o sulla cima d'uno scoglio (p. 966)

Il valore edenico affidato all'isola, porta con sé altre conseguenze, prima fra tutte

il ritorno a uno stato di natura, in cui il tempo è scandito da riti di iniziazione e

prove compiute in piena armonia con l'ordine costitutivo dell'isola107. Non a caso

106 Ibidem107 Cfr. V. Fortunati, L’ambiguo immaginario dell’isola nella tradizione letteraria

53

dunque, lo stile di vita dei due Gerace assomiglia a quello di due «selvaggi» (p.

964). In particolare, è Arturo che, nel corso della narrazione, si sofferma a

riflettere sulla propria condizione anomala, trovando in essa più un motivo di

vanto che di biasimo. Il rifiuto di un'istruzione canonica108, l'assoluto

disconoscimento delle convenzioni sociali – abbigliamento compreso109 – e

l'indipendenza mostrata nei confronti del denaro110, sono, nell'ottica trasfigurante

di Arturo, tutti segni della superiorità della propria stirpe. Siamo in presenza di

un volontario distacco dalle leggi dell'uomo e del divenire storico, caratteristica

che, ancora una volta, possiamo ascrivere all'universo dell'utopia, la quale trae la

sua forza, proprio da questa componente oppositiva nei confronti della realtà.

Non a caso, l'isola nella letteratura utopica non accetta mai di buon grado lo

straniero, il quale è visto come una minaccia per l'ordine ivi costituito. Allo

stesso modo i procidani manifestano un'evidente ostilità verso gli intrusi

coinvolgendo in questo sentimento negativo, lo stesso Arturo:

L'arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fadelle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, nonama d'essere spiata nella propria segretezza (p. 956)

Io, uguale in questo agli altri Procidani, non provavo nessuna curiosità per ibagnanti forestieri; mio padre sembrava considerarli gente ridicola e odiosa, e,insieme a me, rifuggiva dai luoghi dov'essi si bagnavano (p. 998)

utopica, cit., pp. 56-57108 «Mio padre non si curò mai di farmi frequentare le scuole: io vivevo sempre in

vacanza, e le mie giornate di vagabondo, soprattutto durante le lunghe assenze di miopadre, ignoravano qualsiasi norma e orario. Soltanto la fame e il sonno segnavano perme l'ora di rientrare in casa» (p. 964).

109 «Quanto al fornirmi di scarpe, o di vestiti, mio padre se ne ricordava assai di rado.Nell'estate io non portavo altro indumento che un paio di calzoni, coi quali mi tuffavoanche in acqua, lasciando poi che l'aria me li asciugasse addosso. Solo raramenteaggiungevo ai calzoni una maglietta di cotone, troppa corta, tutta strappata e slentata[…] L'uso della biancheria sotto i vestiti ci era quasi del tutto sconosciuto» (p. 972).

110 «Nessuno pensava a fornirmi di denaro, e io non ne chiedevo; ma, del resto, non nesentivo il bisogno. Non ricordo di aver mai posseduto un soldo, in tutta la miainfanzia e fanciullezza» (p. 964).

54

Questa xenofobia tanto spiccata spinge l'isola e i suoi abitanti, a ripiegarsi su se

stessi, quasi che non esistesse altro all'infuori dello spazio che loro hanno il

privilegio di abitare. Ed è proprio a questo punto che l'isola svela il suo volto

nascosto, quello di universo chiuso, «luogo di isolamento e di reclusione, una

trappola claustrofobica».111 Molte sono le immagini che nel romanzo

suggeriscono l'idea della prigionia. Suggestiva, a questo proposito, la presenza di

un gufo che, nonostante il suo desiderio di fuga, si ferisce da solo ogni giorno.

L'oste, nella bottega, […] alleva un gufo, legato, per una catenella, a un'asse chesporge in alto dal muro. Il gufo ha piume nere e grige, delicate, un eleganteciuffetto in testa, palpebre azzurre, e grandi occhi d'un color d'oro-rosso, cerchiatidi nero; ha un'ala sempre sanguinante, perché lui stesso continua a straziarsela colbecco. […] Al calar della sera, incomincia a dibattersi, prova a staccarsi a volo, ericade, ritrovandosi qualche volta starnazzate a testa in giù, appeso alla suacatenella (p. 955)

Lo stesso Arturo risulta prigioniero dell'isola che tanto ama e solo alla fine del

romanzo, dopo una parabola di crescita non indifferente, potrà dirsi pronto per

approdare verso altri lidi. Più volte infatti, egli sottolinea la propria condizione

di impotenza rispetto alle acque del mare che desidererebbe attraversare, ma c'è

qualcosa di più forte, «un incantesimo» (p. 1001) che non lo lascia fuggire via.

L'isola di Procida sembra avere dunque tutte le caratteristiche tipiche

dell'utopia: è un paradiso di felicità, in cui Arturo vive in armonia con il mondo;

in essa è possibile vivere senza rispettare le regole costrittive della società e

l'armonia che vi si respira è esclusiva, impossibile da riprodurre. Non a caso, la

stessa Morante, sulla quarta di copertina della riedizione negli «Struzzi», scrive

che «l'isola rappresenta una felice reclusione originaria». In questa rapida

definizione possiamo scorgere tutti gli elementi che abbiamo fin qui analizzato:

il valore edenico, la reclusione, la felicità e lo stato di natura. In più,

nell'aggettivo “originaria” è possibile cogliere una tendenza tutta nuova verso i

111 V. Fortunati, L’ambiguo immaginario dell’isola nella tradizione letteraria utopica,cit., p. 53.

55

modelli archetipici, dovuta allo studio delle teorie di Jung112.

Questa attenzione per l'isola e per quelle caratteristiche che la rendono unica,

sono una diretta conseguenza del ruolo che essa ha all'interno del tessuto

metaforico del testo. Procida infatti, come ci ricorda Rosa, altro non è che il

tempo della fanciullezza e adolescenza di Arturo, vale a dire quell'epoca mitica

in cui la realtà appare limpida e innocente, pervasa da tinte luminose che

rifuggono le ombre113.

La mia infanzia è come un paese felice (p. 973)

Ecco dunque spiegata la marca utopica che sorregge l'impalcatura delle

coordinate spazio-temporali: se Procida è una metafora per l'infanzia, essa

assume tutti i connotati che ne evidenziano il distacco dal mondo degli adulti, e

la sua valenza magica e leggendaria, diventando un luogo in cui i fantasmi del

passato si trasfigurano in eroi e miti in grado di sublimare l'esistenza in

un'avventura fantastica. Di fronte a questa nuova consapevolezza, i tratti prima

individuati assumono un nuovo significato. Ad esempio l'allusione all'Eden,

simbolo di una condizione di pace che accomuna tutti gli uomini, si manifesta

anche nell'epigrafe utilizzata per il primo capitolo, intitolato Re e stella del

cielo:

… Il Paradisoaltissimo e confuso...

Questi versi di Penna stabiliscono fin da subito un legame semantico

indissolubile tra paradiso e infanzia. Il capitolo che essi introducono infatti,

serve a tratteggiare con ampie e luminose pennellate, l'universo del piccolo

112 Per una lettura del romanzo condotta attraverso gli spunti di Jung, si veda S. Wood,Jung e L'isola di Arturo, «Narrativa», 2000, n. 17, pp. 77-87.

113 G. Rosa, Elsa Morante. cit., p 71.

56

Arturo, sorretto da Certezze Assolute e da miti incrollabili, in cui un posto di

rilievo è assunto dal padre, Wilhelm. Agli occhi del ragazzo, egli è un «eroe» (p.

31), «fratello del sole e della luna» perché «diverso da tutti gli uomini di

Procida» (p. 30). Il padre è per Arturo un meraviglioso mistero e, fino a quando

sarà la sua fantasia a vincere sull'immagine reale della figura paterna, egli non

potrà mai abbandonare l'isola. Nell'età adulta non c'è posto per gli eroi puerili

che ci hanno accompagnato durante l'infanzia:

C'era poi un'altra ragione, ancora più forte, che quando uscivo al largo, mi facevapresto rivoltare la prua verso Procida: il sospetto che, nella mia assenza, potesseritornare mio padre. Mi sembrava insopportabile di non essere anch'io sull'isolaquando lui c'era. […] Lasciando Procida, io potevo perderlo per sempre, giacchésolo a Procida esisteva una certezza: prima o poi, lui sempre ritornava là. […]Questa eterna speranza era un altro degli incantesimi di Procida (pp. 1001-1002)

Wilhelm non è l'unica ancora che impedisce al ragazzo di salpare verso altri lidi.

Arturo subisce infatti, gli incantesimi della madre morta che, come una sirena, lo

richiama sempre alla medesima terra, osteggiando un confronto vero e sincero

con qualsiasi altro tipo di femminilità.

Mia madre andava sempre vagando sull'isola, e era così presente, là sospesanell'aria, che mi pareva di conversare con lei, come si conversa con una ragazzaaffacciata al balcone. Essa era uno degli incantesimi dell'isola. Io non andavo maialla sua tomba, perché ho sempre avuto in odio i cimiteri, e tutte le insegne dellamorte; ma pure, una delle malìe che mi incatenavano a Procida, era quella piccolasepoltura. Poiché mia madre era sotterrata in quel punto, quasi mi pareva che lasua fantastica persona stesse prigioniera là, nell'aria celeste dell'isola, come unacanaria nella sua gabbia d'oro. Forse per questo, appena, andando in barca, iom'allontanavo un poco sul mare, subito mi prendeva un'amarezza di solitudine, chemi faceva tornare indietro. Era lei che mi richiamava, come le sirene (p. 1001)

L'isola di Procida è dunque sorretta da una serie di impalcature favolistiche,

costruite dallo stesso Arturo. Qualsiasi intervento esterno potrebbe sconvolgerne

gli equilibri e, in quest'ottica, la xenofobia tanto evidente in lui assume un nuovo

significato. L'arrivo di Nunz. in effetti, è l'evento che scardina l'assetto originario

57

ed è per questo che viene paragonata a un'«intrusa» (p. 1025):

Mi pareva una specie di limbo beato, a ripensarci, adesso, i tempi di quand'essanon era ancora sull'isola. Ah, perché c'era venuta? Perché mio padre l'aveva portataqui? (p. 1129)

Nunziata, con la sua disarmante «confidenza» (p. 74), lo spingerà a riconsiderare

tutte le proprie certezze, a ricostruire l'isola secondo un progetto che possa, nella

sua totalità, tenere conto anche della nuova presenza forestiera.

Arturo dunque, ha la tendenza a disegnare un universo ben definito, in

cui tutto ruota intorno a lui in maniera quasi spontanea. Un'inclinazione

tipicamente infantile che prende qui le forme di una parabola narcisistica

piuttosto luminosa114. Il suo sguardo limpido e innocente riesce infatti ad

accettare ogni cosa, senza riuscire a cogliere le brutture del reale. A sottolineare

questo carattere magico del suo stile di vita, ci pensano i toni leggendari

utilizzati dal narratore il cui obiettivo è proprio quello di recuperare l'immagine

trasognata di un'epoca che solo gli occhi di un bambino avrebbero potuto

reputare così limpida. La distanza temporale che intercorre tra l'Arturo adulto e

l'Arturo agens è vaga, e tale rimane per tutto il romanzo. La Morante si è

premurata infatti di cancellare volutamente le indicazioni che avrebbero

permesso un ritratto più nitido dell'Arturo di oggi. Ciò che conta non è il punto

d'arrivo, quanto piuttosto la voglia di recuperare le atmosfere della sua

primigenia «iniziazione alla vita» 115. Anche perché, la distanza che si avverte tra

l'io narrante e io narrato non permette al primo una interpretazione corretta degli

avvenimenti vissuti. Al contrario, egli sembra bloccato allo stadio delle reticenze

infantili che, ad esempio, gli impediscono di scrivere per intero il nome della

matrigna. Un io lontano nel tempo, la cui remota distanza, non fa altro che

114 Di «nevrosi narcisistica» scrive C. Garboli in Introduzione, E. Morante, L'isola diArturo, Einaudi, Torino, 1995, p. XI.

115 Sono queste le parole stesse che la Morante usa in quarta di copertina, per una nuovariedizione del libro. Oggi consultabili nella Cronologia di Opere, I, cit., p. LXVI.

58

amplificare il tono magico e indefinito della vita sull'isola.

In questo forte desiderio del narratore di ritornare all'isola, si riconosce

comunque l'amara consapevolezza che «fuori dal limbo non v'è eliso» (p. 5). Nel

momento in cui Arturo abbandona Procida per consacrarsi alla vita adulta, egli è

ancora sostenuto da un entusiasmo puerile che vuole trasformare la Storia

nell'ennesimo scenario per le proprie prodezze e per la propria affermazione.

Ciò che volevo, io, intanto, era di combattere per imparare a combattere, come unsamurai dell'Oriente (p. 1357)

L'Arturo agens aspetta con trepidazione il proprio futuro, il quale per quanto

lontano e confuso, gli appare come una promessa luminosa. Eppure, fuori

dall'isola, la vita non ha nessun tono fiabesco e avventuroso. Ed è questa amara

scoperta a sostenere l'ordito della narrazione. Il ricordo dell'età felice trascorsa

su Procida torna con insistenza alle soglie della coscienza. Alla base della scelta

dell'io-narrante si riconosce quindi l'idea che è l'isola l'unico paradiso possibile,

l'unico altrove verso cui valga la pena ritornare. E, per farlo, non c'è altro modo

che affidarsi al potere magico ed evocativo della finzione.

3.2 Il mito del padre e il fascino delle terre ignote

L'isola si configura fin da subito come altrove mitico, quasi leggendario,

non solo grazie allo stile limpido utilizzato dal narratore per rievocare i luoghi a

lui cari, ma anche per la capacità del piccolo Arturo di trasfigurare con la propria

fantasia ogni dettaglio, sublimando tutti gli episodi della propria vita in qualcosa

di magico. In fondo, il ragazzo manifesta già nel proprio nome questa tendenza

costitutiva verso una dimensione altra: Arturo infatti è al tempo stesso una stella,

e un'allusione alla leggenda del ciclo arturiano. Due connotazioni che svelano

nel ragazzo, un marcato orientamento in direzione di un altrove avventuroso che,

nella vita di tutti i giorni, si palesa attraverso la sua spasmodica attività

59

inventiva. La felicità è una diretta conseguenza di questa prolifera

immaginazione che, a differenza della tetra menzogna di Elisa, qui si veste di

una luce quasi accecante, dovuta all'identità che esiste tra Procida e l'infanzia

spensierata del protagonista. Nel sistema di miti che sorregge questa

impalcatura, ce n'è uno che di certo ha un'importanza prioritaria rispetto agli

altri: il mito del padre.

La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l'assoluto regnante! (p. 963)

Il tono entusiastico di questa affermazione lascia ben intendere il virgineo

stupore che la sottende. Wilhelm è per il piccolo Arturo un eroe insostituibile,

tanto da meritarsi, come titoletto del paragrafo in cui egli viene per la prima

volta descritto con particolare attenzione, l'annotazione assoluta “La bellezza”.

Come tutti gli eroi, egli non ha niente a che spartire con gli altri abitanti di

Procida, men che meno con il proprio figlio:

La prima ragione della sua supremazia su tutti gli altri stava nella sua differenza,che era il suo più bel mistero. Egli era diverso da tutti gli uomini di Procida, comedire da tutta la gente che io conoscevo al mondo, e anche (o amarezza), da me (p.974)

Questi suoi caratteri leggendari che lo differenziano così tanto da tutto ciò che

gli sta intorno, sono per Arturo un motivo di ammirazione, e l'affetto smodato

per le fattezze paterne, porta il piccolo selvaggio a vestire i protagonisti delle sue

letture, con i tratti del padre a lui cari :

I libri che mi piacevano di più, è inutile dirlo, erano quelli che celebravano, conesempi reali o fantastici, il mio ideale di grandezza umana, di cui riconoscevo inmio padre l'incarnazione vivente. […] Come le ragazzine si figurano le fatebionde, le sante bionde e le regine bionde, io mi figuravo i grandi capitani eguerrieri tutti biondi, e somiglianti, come fratelli, a mio padre. Se in un libro uneroe che mi piaceva risultava, dalle descrizioni, un tipo moro, di statura mezzana,io preferivo credere a uno sbaglio dello storico. Ma se la descrizione eradocumentata, e proprio indubbia, quell'eroe mi piaceva di meno, e non poteva

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essere più il mio campione ideale (p. 984)

Veniamo così a conoscenza, che Arturo, oltre a dedicarsi all'esplorazione

dell'isola, ha un'altra passione: la lettura. Si tratta di volumi in cui vengono

celebrati la grandezza umana e i più alti valori, e saranno proprio questi stimoli

ad orientare l'immaginazione del ragazzo che infatti, stila un «Codice della

Verità Assoluta» (p. 979). Come l'io narrante confessa, Le Certezze Assolute

hanno una doppia origine: da una parte derivano dagli insegnamenti ricevuti

dalle letture, dall'altra però, si configurano come le «certezze» ispirate dalle

persona di suo padre. Le prime due leggi tradiscono questa doppia nascita:

I. L'AUTORITÀ DEL PADRE È SACRA!II. LA VERA GRANDEZZA VIRILE CONSISTE NEL CORAGGIO

DELL'AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL VALOREMOSTRATO IN COMBATTIMENTO (p. 979)

La letteratura, com'era successo per Elisa in Menzogna e sortilegio, offre al

protagonista gli schemi interpretativi per la realtà ed è a causa della sua

influenza che la mente bambina di Arturo, non smette di generare favole e

avventure, in cui il protagonista indiscusso resta suo padre. Ne deriva una sorta

di delirio infantile coerente e ben strutturato che finisce per orientare ogni

pensiero dell'io-narrato in direzione di miti e leggende. Eppure, nonostante

questa sua perenne tensione verso la figura paterna, essa rimane sfuggente,

distante, incomprensibile. Per Arturo, Wilhelm rimarrà un mistero, un essere

diverso e irraggiungibile. O almeno, così sarà per tutta l'epoca della fanciullezza:

Le sue ragioni appartenevano soltanto a lui. Ai suoi silenzi, alle sue feste, ai suoidisprezzi, ai suoi martirî, io non cercavo una spiegazione. Erano, per me, come deisacramenti: grandi e gravi, fuori d'ogni misura terrestre, e d'ogni futilità (p. 975)

Questa sua appartenenza a una dimensione altra, viene fatta risalire, prima di

ogni altra cosa, alla sua origine straniera. Così come era accaduto ad Edoardo in

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Menzogna e Sortilegio, i cui capelli biondi erano il simbolo di una discendenza

normanna, lo stesso accade per Wilhelm che si trasferisce a Procida dalla

Germania. Come tutti gli ideali di felicità e perfezione, esso non può appartenere

alla quotidianità, ma ad una realtà remota, lontana, che acquista valore solo

perché collocata a così grande distanza.

Veramente sulla terra esisteva un parente prossimo di Antonio Gerace, ch'egli nonaveva mai visto. Era un figlio, nato, nei primi tempi della sua vita di emigrante, dauna sua relazione con una maestrina tedesca, da lui presto abbandonata. Per varianni, dopo l'abbandono (finito un breve periodo di lavoro in Germania, l'emigrantes'era trasferito in America), supplicando di aiuti materiali, perché si trovava senzaimpiego, e cercando di commuoverlo con descrizioni meravigliose del bambino.[…] E quando ritornando a Procida invecchiato e senza eredi, Antonio fecericerche di lei, seppe che era morta, lasciando il figlio, ormai sui sedici anni, inGermania. Antonio Gerace allora chiamò a Procida questo figlio, per darglifinalmente il proprio nome e la propria eredità. E così, colui che doveva più tardiesser mio padre, sbarcò sul'isola di Procida, vestito di stracci come uno zingaro(seppi più tardi) (p.961)

L'estero ancora una volta, interviene nella narrazione con lo scopo di investire

con il proprio orizzonte simbolico, uno dei personaggi principali della vicenda.

E, infatti, sarà la lontananza l'attributo tipico di questa figura: egli raggiunge

Procida da lontano e, vive, «per la maggior parte del tempo, lontano» (p. 972).

Una distanza che si traduce, nella vita di tutti i giorni, in «contegno indifferente

e oltraggioso» (p. 962). Come precisa Arturo:

Egli sdegnava di conquistare il mio cuore. Mi lasciò sempre nell'ignoranza deltedesco, sua lingua natale (p. 977)

L'appunto che l'io-narrante fa su questa lingua negata, è l'ennesima prova

dell'esclusione che egli è costretto a subire rispetto all'universo paterno. Non a

caso, durante le loro gitarelle in barca, il giovane tenta di impressionare il padre

facendo ricorso a un repertorio di canzoni che alludono in maniera esclusiva,

all'estero, inteso qui come tutto ciò che esiste al di fuori dell'isola:

62

Certe volte, mentre camminavo dietro a mio padre, o andavo in barca con lui,cantavo e ricantavo Le donne dell'Havana, Tabarin, La sierra misteriosa, oppurele canzoni napoletane, per esempio quella che dice: Tu si' 'a canaria! Tu si'l'ammore!, sperando che mio padre ammirasse in cuor suo la mia voce. Lui, nondava segno nemmeno d'udirla (p. 974)

Arturo dunque, ha piena consapevolezza della dimensione altra in cui vive il

padre e, pur di attirare la sua attenzione, finge di far parte di quell'universo.

Nonostante tutti i suoi sforzi, egli è costretto ad arrendersi all'evidenza: il mondo

del padre gli è negato. In effetti questa esclusione trova la sua massima

espressione, nei viaggi che il padre compie verso mete sconosciute, in cui Arturo

non può che vedere un orizzonte avventuroso, degno del carattere leggendario

affibbiato a Wilhelm.

Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse versoazioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz'altro se m'avesse raccontatoche muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone;che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; cheera uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso eraun grande Corsaro, o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuoridell'isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell'esistenza misteriosa,affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare (pp. 984-985)

La «tentazione delle terre ignote», secondo la definizione che la stessa Morante

dà dell'isola su una quarta di copertina nel 1975116, si manifesta dunque

attraverso la figura di questo padre sempre assente che, agli occhi di Arturo,

abbandona Procida perché impegnato in missioni pericolose e affascinanti.

Comincia così a profilarsi una prima tensione verso l'esterno, in cui l'altrove

assume i connotati dell'ignoto e del favoloso. Arturo, come era successo alla

piccola Anna in Menzogna e sortilegio, subisce il fascino di una dimensione che

ancora non capisce, ma che merita tutta la propria attenzione perché legata in

116 Dalla quarta di copertina dell'edizione Struzzi di Einaudi, 1975, oggi consultabilenella Cronologia in E. Morante, Opere, I, cit., pp. LXVI- LXVII.

63

maniera indissolubile alla figura paterna.

Così, egli lasciava la Casa dei guaglioni a passo veloce, tenendo la valigia afferrataper un capo della corda, le guance animate, gli occhi incupiti dall'impazienza:ormai già per me fiabesco e irraggiungibile, come se, gaucho, attraversasse lapampa argentina, con un toro preso al laccio; oppure, Capitano delle armategreche, trascinasse volando sul cocchio, per il campo di Troia, la spoglia deltroiano vinto; o come se, domatore di cavalli nella steppa, corresse a fianco del suopuledro, pronto a saltargli in groppa nella corsa (pp. 990-991)

I riferimenti alle terre ignote che aspettano il padre al di là dell'isola, si

presentano come una commistione piuttosto inverosimile di elementi fantasiosi.

Sono le suggestioni letterarie a prendere corpo in questi paragoni, e permettono

allo sguardo innocente di Arturo, di coinvolgere il padre in una magica

metamorfosi:

Dal momento stesso che lasciava Procida, mio padre, per me ridiventava unaleggenda! (p. 992)

Esso appariva già un evento fuori delle ore, e fuori della storia di Procida: forsenon perduto, ma inesistito! (p. 993)

Una trasfigurazione che coinvolge anche coloro che accompagnano Wilhelm in

queste magiche avventure. È quello che succede a Pugnale Algerino, il quale

diventa un nuovo punto fermo all'interno della costellazione di miti che orbitano

intorno al padre.

Quest'altro, che nel mio pensiero prese nome Pugnale Algerino, viveva là, in queigloriosi orienti a cui mio padre sempre ritornava; primo fra i satelliti che là, inquelle fuggenti zone australi, seguivano la luce di Wilhelm Gerace. Il favorito! Perun momento, io lo intravidi: abbandonato, in chi sa quali stanze magnifiche datragedia, forze in mezzo ai Grandi Urali, solo, che aspettava mio padre; con unvolto stregato, semitico, il ginocchio insanguinato, e un vuoto al posto del cuore(pp. 989-990)

Di fronte a questo orizzonte mitico, a questi «gloriosi orienti» che hanno il

privilegio di godere della presenza paterna, Arturo non può che desiderare di

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partire a sua volta, di essere lui amico e compagno fedele del proprio eroe. A

poco a poco, il ragazzo si convince che quello che lo aspetta fuori dall'isola, vale

molto di più della felicità già sperimentata su Procida. Perciò, pur di convincere

il padre a portarlo con sé, il ragazzo si prodiga in gesta che hanno il sapore di riti

di iniziazione. Ma nemmeno le sue prodezze, bastano a convincere il padre, il

quale, di fronte all'esplicita richiesta di Arturo, mette subito in chiaro i vincoli

che costringono il figlio sull'isola:

- Con me! - replicò poi, squadrandomi, - a che fare? Sei un guaglioncello. Aspettad'esser cresciuto, per partire con me (p. 990)

Appare dunque evidente che l'estero, ovvero l'insieme di quelle terre ignote poste

al di là del mare, rappresentano per il ragazzo l'età adulta. Ma quest'ultima non

coincide con la maturità vera e propria, dal momento che in essa, Arturo vede

comunque un'età avventurosa e di fatto inesistente. Anche la sua idea del mondo

adulto quindi è un altrove puramente inventato che si nutre di un universo

mitico. Così come ha sempre fatto, egli si affida alla fantasia, in modo da tener

fede alle proprie illusioni infantili:

Mio padre non scriveva mai lettere, non faceva mai sapere sue notizie, né mandavanessun saluto. Ed era favolosa per me la certezza che pure egli esisteva, e che ogniistante da me vissuto a Procida, lo viveva lui pure in chi sa quale paesaggio, in chisa quale stanza, fra compagni stranieri che io consideravo gloriosi e beati solo perché stavano con lui […] In queste apparizioni della mia fantasia, mio padre nonera quasi mai solo: c'erano, intorno a lui, le persone indistinte dei suoi seguaci; epressi di lui, sempre al fianco suo come un'ombra, l'eletto di quella aristocrazia,Pugnale Algerino. Mio padre, agitando la sua pistola in atto di sfida, balza sullaprua d'una immensa nave armata, e Pugnale Algerino, disfatto, forse ferito a mortesi trascina dietro di lui porgendogli le ultime cartucce. Mio padre avanza per lagiungla intricata insieme a Pugnale Algerino, che, armato d'un coltello, lo aiuta adaprirsi la strada fra le liane. Mio padre nella sua guerra di riposa disteso su unlettuccio da campo; e Pugnale Algerino, accoccolato in terra ai suoi piedi, gli suonauna musica spagnola... (pp. 1002-1003)

I toni trasognati che accompagnano le apparizioni del padre e le considerazioni

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sui suoi viaggi, non vengono meno neppure con l'arrivo di Nunz, che anzi

diventa per il ragazzo un'interlocutrice perfetta cui confidare i propri sogni e i

propri progetti117. Eppure l'orizzonte mitico comincia a incrinarsi, minato

dall'interno da un complesso edipico che fa fatica ad mostrare il suo vero volto.

Grazie alla presenza della matrigna, Arturo prende consapevolezza della propria

«età ingrata» (p. 1246) che non gli permette di comprendere a pieno i misteri che

accadono nella sua vita118. Ed è proprio per merito di Nunziata che il ragazzo

comincia ad apprendere qualche notizia in più sulla figura misteriosa di

Wilhelm. È lei a raccontargli del loro fidanzamento, della conversione al

cristianesimo, a confidargli persino il nome reale di Pugnale Algerino. Ma, cosa

più importante, è lei la prima a gettare l'ombra del dubbio sui favolosi viaggi

paterni:

Eh, per lui non m'impensierisco; mica sono viaggi grandi, i suoi! Quello, fa come icardellini... (pp. 1157-1158)

Arturo non capisce e si rifiuta di credere alle parole della ragazza. Ciò

nonostante, la sua ostinazione è costretta a fare i conti con una lunga serie di

aggressioni che la figura paterna, a partire da questo momento, dovrà subire.

Una delle più violente e destabilizzanti, ad esempio, viene affidata a Violante, la

madre di Nunziata. Le accuse mosse dalla suocera, cominciano a tratteggiare una

figura che di eroico ha ben poco.

Ecco a chi t'ho sposata, sangue mio! T'ho sposata a un maiale, a un infame, chet'ha lasciato partorire qui, abbandonata e sola, come se tu fossi qualche femminamalamente. E che ti lascia sempre sola e senza nessuno, come un'appestata, mentrelui se ne va pazziando! (p. 1180)

A queste accuse più che fondate, risponde Nunziata, con toni che assomigliano

117 Sul valore che l'Estero assume nel rapporto con Nunz, si veda il paragrafosuccessivo.

118 «l'ambiguità, che m'imprigionava nell'isola come una ragnatela iridescente» (pp.1159-1260).

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fin troppo a quelli che avrebbe potuto utilizzare Arturo per difendere il padre.

Sembra quasi che l'io-narrante si nasconda, in questo caso, dietro le fattezze

della matrigna, con lo scopo di metterle in bocca quelle giustificazioni che, da

bambino, servivano a lui per dare un senso all'assenza paterna.

- Oh, mà, da questa vostra parola posso riconoscere quelli che v'hanno parlato!Ché la gente, qua, i Procidani, lo odiano, a lui, proprio per questo fatto: perché lorosono marinai, e viaggiano per bisogno di moneta! Mentre che lui, invece, nonviaggia per rimediare la vita, e non va soggetto a nessun Governo. Lui, - conclusealteramente, - viaggia perché è fantastico! E per levarsi gli sfizi suoi! (p. 1180)

La storia procede, Arturo cresce davvero, e comincia a pensare di poter partire

dall'isola l'anno successivo, così da farsi protagonista di tutte le azioni eroiche

che qui, a Procida, gli sono negate.

L'epoca di esplorare il mondo ormai s'avvicinava, per me: intendevo partire, al piùtardi, l'anno prossimo: o in compagnia di mio padre, o, altrimenti, anche solo! (p.1152)

Wilhelm non ha più un posto di rilievo in questi viaggi, e, nel considerare per la

prima volta la possibilità di partire da solo, Arturo dimostra che il mito paterno

si è già affievolito, pronto a lasciare il posto a un Arturo adulto, già grande.

I mali di Wilhelm Gearce erano diventati secondari per me: ero troppo incatenatodai miei propri mali per interessarmi ai suoi! Il mio personaggio principale non erapiù Wilhelm Gerace. Ormai, ciò era sicuro (o almeno mi pareva) (p. 1203)

La parentetica finale, svela in realtà che anche questo mutamento di prospettiva

altro non è che un'illusione. Si tratta infatti del primo tentativo di rivolta operato

dal ragazzo ai danni della figura paterna, ma di certo egli non è ancora pronto a

lasciare per sempre l'alone di mistero e avventura che avvolge le fattezze

paterne. Per riuscirci, dovrà partire all'esplorazione della «Terra Murata». Qui

Wilhelm viene chiamato Parodia da qualcuno che, rinchiuso nella propria cella,

se ne infischia delle parole d'amore da lui pronunciate. L'idealizzazione della

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figura paterna lascia il posto a una più amara compassione:

Spesso certi nostri affetti, che presumiamo magnifici, addirittura sovrumani, sono,in realtà, insipidi; solo un'amarezza terrestre, magari atroce, può, come il sale,suscitare il sapore misterioso della loro profonda mescolanza! Per tutta la miainfanzia e la fanciullezza, io avevo creduto di amare W. G.; e forse m'ingannavo.Soltanto adesso, forse, incominciavo ad amarlo. Mi accadeva qualcosa disorprendente, che certo in passato non avrei potuto credere, se me l'avesseropredetta: W. G. mi faceva compassione (p. 1304)

Il mistero insondabile che circondava la persona di Wilhelm, comincia a

dipanarsi sotto gli occhi di Arturo, il quale, senza più possibilità di scelta, è

costretto ad arrendersi alle brutture della vita. Sarà il colloquio con Stella a far

crollare ogni certezza, a impedirgli di sublimare la realtà in un avventura dai toni

leggeri e luminosi. È un dialogo che ha il potere non solo di svelare la vera

natura dei viaggi paterni, ma anche di mettere a nudo le proprie «infime regioni

infantili». Le stesse regioni da cui, di colpo, viene fuori una debole domanda:

- … andate... lontano?...Stella alzò una palpebra: - Lontano... che? - fece, con un'aria tarda, - io, dici? Contuo padre? Ah, per il nostro viaggio, dici Lluntano assaie! … figurarsi!! più omeno, si stara qua in giro, per il solito circondario... - Egli arricciò appena i labbriin un mezzo sorriso annoiato, scettico e irrisorio: - Tuo padre, - aggiunge, comechi fa una constatazione ormai risaputa, - non è tipo da spostarsi troppo. Sisturberebbe, dal crepacuore. Lui è uno che viaggia sempre nelle medesimevicinanze. Sai le antiche mongolfiere frenate? Beh, così è lui... (p. 337)

Attraverso le parole di Stella, avviene la demistificazione del mito del padre e,

con esso, crolla anche quell'altrove favoloso verso cui Arturo non ha mai smesso

di guardare. Da questo momento in poi i toni del dialogo si fanno più accesi, in

una climax ascendente che culminerà con una doppia rivelazione finale:

Wilhelm non ha mai abbandonato le coste campane, e Arturo si riconosce invece

innamorato di un'idea, di una favola che ha come protagonista il padre:

- E allora, se non è vero, come si spiegano certe favole che mi vai raccontando sudi lui? Che a sentirti, lui sarebbe una specie di trasvolatore oceanico... di...

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Si levo solennemente in piedi: - … di.. di vero Cittadino dello Spazio! - seguitò, intono di canzonatura grifagna, - … mentre che, invece, lui è il sicuro tipo che nons'è mai slattato dalle poppe di sua madre, e mai si slatterà! E in fatti di viaggi, daquando s'è stanato là dai suoi paesi barbari e s'è ritrovato la culla in questo belvulcano, sarà molto, ch'io sappia, se è arrivato fino a Benevento, o a Roma-Viterbo! (p. 1323)

Le parole dell'evaso, hanno i colori della parodia. Gli epiteti che Stella sceglie

per Wilhelm, servono a rendere manifesta la dedizione filiale di Arturo. I titoli,

volutamente esagerati, di «trasvolatore oceanico» e «Cittadino dello Spazio»,

rivelano di colpo il vuoto che si nasconde nella persona tanto idealizzata dal

ragazzo e nell'altrove ideale da lui frequentato. E, quando sarà lo stesso Wilhelm

ad intervenire in difesa delle posizioni di Stella, in Arturo avviene quello strappo

che lo spingerà davvero verso l'estero, trasformandolo in un esule: dopo aver

appreso la vera natura del padre, e aver visto così da vicino la sua bieca umanità,

non ci sarà più posto per lui, sull'isola.

Esso [Wilhelm] era una cosa fanciullesca; pari a un incontro di correnti turbinose,esso si precipitava tutto quanto in questo presente, breve passaggio d'addio! Edopo, lo avrei dimenticato, naturalmente, tradito. Di qui sarei passato a un'altra età,e avrei riguardato a lui come a una favola (p. 1366)

E se il mito del padre viene meno, non per questo i luoghi che lo attendono si

svuotano delle loro connotazioni favolistiche. Il richiamo di queste terre si fa più

forte per Arturo, quasi irresistibile, visto che l'infanzia è finita per sempre.

I primi raggi del sole, interrotti e corruschi, si allungavano sul mare quasi liscio. Iopensai che fra poco avrei veduto Napoli, il continente, le città chissà qualimoltitudini! E mi prese una smania improvvisa di partire, via da quella piazza, e daquella banchina. Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta lastranezza della mia tramontata infanzia (p. 1368)

In maniera quasi paradossale, nel momento in cui crolla il mito paterno, ovvero

quello che aveva dato avvio nella mente di Arturo alle divagazioni sull'estero, il

fascino per l'altrove si fa più forte, quasi insostenibile, senza che però venga

meno la sua componente meravigliosa, avventurosa e, in certo qual modo

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infantile:

Io, da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione dellavita: ho sempre saputo che l'isola, e quella mia primitiva felicità, non erano altroche una imperfetta notte; anche gli anni deliziosi con mio padre, anche quelle serelà con lei! Erano ancora la notte della vita, in fondo l'ho sempre saputo. E adesso,lo so più che mai; e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratellomeraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga noia... (p. 1155)

Come ci ricorda Garboli però, «questo fratello non verrà mai, non viene mai per

nessuno. Ma nella scrittura di Arturo questa consapevolezza, questa certezza è

volutamente dimenticata, cancellata, come in un impeto impaziente di gioia»119.

L'io-narrato vuole consacrarsi alla vita, la sua scelta verso la coscienza è

compiuta. A lui, e alla sua isola ormai abbandonata, ben si adattano i versi finali

della poesia di Szymborska, intitolata Utopia:

Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,e le tenui orme visibili sulle rivesono tutte dirette verso il mare.Come se da qui si andasse soltanto via,immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.Nella vita inconcepibile.120

3.3. La scoperta della femminilità: dalla «tenda

orientale» alla «schiavetta indiana»

Da un punto di vista lessicale e metaforico, l'estero e il suo campo

semantico accompagnano con frequenza i personaggi femminili che affollano il

romanzo. Se da una parte, questa tendenza risponde alle volontà dell'io-narrante

di recuperare lo sguardo innocente di un bambino in grado di trasfigurare ogni

cosa, dall'altra essa ci rivela una profonda ansia conoscitiva che sottende

l'universo femminile in tutte le sue forme. Il percorso di crescita che Arturo

119 C. Garboli, Introduzione in E. Morante, L'isola di Arturo, cit., p. XIV.120 W. Szymborska, Utopia, in P. Marchesani (a cura di), Elogio dei sogni, Edizioni del

Corriere della Sera, Milano, 2009, p. 129.

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compie infatti, si dipana attraverso i misteri della vita e, per approdare

definitivamente all'età adulta, non può non passare attraverso la scoperta della

donna e della sua sensualità. Quando si tratta di dare un senso alle figure

femminili del romanzo, l'io narrante non lesina mai su termini ed immagini che

attingono all'orizzonte esotico. Ed è proprio questa ricerca di senso che, ad

esempio, spinge Arturo ad interrogarsi sulla morte della madre, prima vera

donna con cui l'io narrato deve fare i conti. A causa della sua prematura

scomparsa, la madre di Arturo assume per il piccolo dei connotati eterei, che

cancellano ogni barlume di concretezza. Più che interrogarsi sulla reale esistenza

di lei, il ragazzo coglie e sublima solo quelle caratteristiche ascrivibili

all'universo materno. Si affida insomma a concetti astratti che dovrebbero

accomunare tutte le madri: la «maturità grande come la rena e come la stagione

calda sul mare; ma forse anche un'eternità, virginea, gentile e senza mutamento,

come una stella» (p. 999). Si tratta, come confessa egli stesso, di una «persona

inventata» che assume nei suoi confronti «ogni gentilezza desiderata, e diverse

espressioni, voci diverse» (p. 999). La sua assenza corporea stimola il ragazzo a

costruire l'identità della madre per differenza, affibbiandole tutti i tratti che,

secondo l'esperienza di Arturo, non appartengono invece all'universo paterno:

Io pensavo a lei come alla fedeltà, alla confidenza, alla conversazione: insomma atutto ciò che i padri non erano,secondo l'esperienza mia (p. 999)

Ma, soprattutto, in barba agli insegnamenti di puro scetticismo propinati dal

padre, Arturo per lei crede addirittura in un «paradiso», che ben presto attrae su

di sé una anomala componente esotica.

Che cos'altro era, difatti, quella specie di tenda orientale, alzata fra il cielo e laterra, e portata dall'aria, in cui lei dimorava sola, oziosa e contemplante, con gliocchi al cielo, come una trasfigurata? Là ogni volta che io ricorrevo a mia madreessa si presentava naturalmente ai miei pensieri (pp. 1000-1001)

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L'aggettivo qui utilizzato, ha un potere evocativo molto forte121. Esso infatti

sottolinea sia il tratto favolistico di questa nuova dimensione abitata dalla madre,

sia la sua implicita lontananza, la quale viene rimarcata più volte anche dalla

ripresa anaforica del deittico «là». Una distanza incolmabile che implica uno

scarto conoscitivo notevole tra i due oggetti. Arturo, a causa di questa fede

incrollabile diretta alla tenda, si definisce un «sentimentale», una vittima di una

«malìa» che lo incatena all'isola e non gli permette di fuggire. Magie e

incantesimi non sono estranei all'isotopia dell'Oriente che dunque viene qui

impiegata anche per legare, in maniera indissolubile, l'immagine eterea della

madre all'infanzia del ragazzo. Non viene compiuto alcuno sforzo da parte

dell'io-narrato per avvicinarsi alla donna, per conoscere il suo passato o per dare

maggior rilievo a quelle fattezze di cui, egli conserva solo una fotografia. Questa

figura femminile esiste solo in relazione a una visione estatica, che fa parte

dell'orizzonte mitico del fanciullo. Non a caso, l'io-narrante precisa poco dopo:

Più tardi, è venuto il giorno ch'io non l'ho più cercata, è sparita; qualcuno haripiegato la ricca tenda orientale, e l'ha trasportata via (p. 1001)

Siamo in presenza di un'importante prolessi che svela l'approdo da parte di

Arturo a una maturità in cui non sarà più possibile rifugiarsi nell'«aria celeste».

Non viene qui precisato chi sia il soggetto in grado di rimuovere la tenda dal suo

cielo leggendario. Eppure, l'io-narrante annota con estrema precisione l'attimo in

cui questa visione sparisce dalla propria mente.

Nella mia mente passò la visione della madre di Arturo, solitaria e sdegnosa d'ognipromiscuità; che nella sua bella tenda orientale si allontanava dall'isola di Procida,senza dirgli addio (p. 1055)

Si tratta di una precisazione che interrompe lo sproloquio di Nunz. a proposito

della Vita Eterna e dei suoi numerosissimi fratelli che aspettano di

121 Si veda a questo proposito il paragrafo 1.2 del presente lavoro.

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ricongiungersi con lei, in paradiso. Basta una conversazione con la matrigna a

far sparire la tenda orientale, a far perdere ad Arturo i contatti con la propria

madre inventata, la quale, di fronte a Nunziata, si ritira ed abbandona il figlio.

L'immagine che aveva accompagnato Arturo durante tutta la sua infanzia, si

affievolisce e palesa la sua assenza non potendo competere con la corporeità di

una madre in carne ed ossa, che invece, nel suo colloquio con Arturo, promette

al ragazzo un orizzonte di felicità caratterizzato dalla compagnia di tutti i

membri della sua famiglia. La solitudine, condizione naturale della sua infanzia,

non ha più motivo di esistere.

E tu pure, là, ritroverai tua madre, e potremo stare tutti quanti insieme, fare tuttauna famiglia! (p. 1055)

Nunziata propone ad Arturo un nuovo scenario mitico, del tutto diverso da

quello che lo aveva accompagnato durante la sua vita sull'isola. Il confronto e il

dialogo sono delle esperienze nuove per il ragazzo, che infatti, destabilizzano

non poco il suo mondo. La sequenza della valigia, ad esempio, è importante

proprio perché costringe Arturo a fare i conti con la diversità di una forestiera

venuta ad abitare nella Casa dei Guaglioni. E, come spesso accade nel romanzo

quando si ha a che fare con un universo sconosciuto e remoto, le immagini

dell'estero tornano a dare colore all'intera vicenda:

Ella non credeva a una sola Madonna, ma a molte […] Una, ricordo, era chiusa inrigide fasce d'oro, come le sacre mummie dell'Egitto, e, al pari del suo bambino,fasciato anch'esso d'oro, recava in testa un'enorme corona dalle molte punte.Un'altra, tutta ingioiellata, era nera, come un'idolessa africana, e sorreggeva unfiglio che pareva una bambolina d'ebano […] Una, era piuttosto disumana,impassibile come le dee dell'antico Oriente (pp. 1047-1048)

Le similitudini in questo caso servono a scandire le riflessioni del giovane

Arturo che, per comprendere meglio questi nuovi misteri, fa ricorso al mondo

leggendario che lui è solito abitare. L'estero qui ha la funzione di offrirsi come

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categoria gnoseologica e, al tempo stesso, di mettere in chiaro il carattere

favoloso affidato a queste Vergini, una più strana dell'altra. Esse diventano il

simbolo di un incontro fra due mondi diversi, di due solitudini che, in maniera

quasi inconsapevole, si completano l'una con l'altra. Arturo osserva, parla, e si

entusiasma.

Un estro confuso, fra di ridere, o di guardarla, o di non guardarla, mi frastornava.Sentivo le sue pupille, confidenti, protettive, sopra di me, e ciò mi dava una buffa efavolosa contentezza (p. 1060-1061)

La confidenza era stata già definita nel primo capitolo del romanzo, come un

attributo tipicamente materno, uno di quelli che, secondo Arturo, appartenevano

in maniera esclusiva a tutte le madri. Ora questo tratto si ripresenta in Nunz., la

quale, fin dalla prima apparizione nella vita del ragazzo, non riesce a nascondere

questa sua inclinazione:

Essa arrossì, per avermi creduto un ladro, e mi fece un piccolo saluto, pieno diconfidenza, ma anche di discrezione (p. 1026)

A causa del suo ruolo di sposa, Nunziata si configura fin da subito come

sostituto materno, tanto da meritarsi, poche pagine avanti, l'aggettivo che era

stato esclusivo della tenda celeste, ricettacolo della presenza materna sull'isola.

Senza dubbio, all'apparenza questa donna era una comune stracciona; ma, dopo lasorpresa dei gioielli, io potevo aspettarmi che nascondesse nella valigia, magari deicostumi di sultana orientale (p. 1040)

L'Oriente torna a investire con il proprio sostrato metaforico questa nuova figura

femminile. Attraverso Nunziata, Arturo riesce finalmente a dare un corpo a quei

tratti materni tanto astratti e distanti. Un corpo che i suoi occhi scoprono con

meraviglia e che gli permette di scardinare la misantropia latente presente nelle

sue certezze:

Ma pure, per quanto riguardava questa donna qua, nonostante le sue innegabili

74

bruttezze, io, secondo il gusto mio, la stimavo supremamente graziosa! (p. 1084)

La contentezza suprema che segue questa scoperta, permette alla loro casa di

diventare una «tana meravigliosa»: l'idillio familiare si rivela possibile, e ciò

consente alla mente di Arturo di trasfigurare quell'episodio attraverso i toni della

magia e della leggenda.

Noi eravamo i sogni della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostratana meravigliosa. L'inverno, che finora m'era apparo una landa di noia, d'un trattostasera diventata un feudo magnifico (p. 1086)

Nunziata però non è la vera madre del ragazzo, e la sua giovane età la avvicina

fin troppo alla dimensione infantile in cui si trova ancora Arturo. Quest'ultimo

infatti, scopre in lei una complice, una coetanea in grado di accettare con un

coinvolgimento quasi puerile, le favole che egli racconta sui viaggi all'Estero, le

false prodezze compiute in suo onore, le confessioni fatte a proposito delle

Certezze Assolute.

L'argomento da lei messo in ballo con questa domanda, era troppo affascinante, eda troppo tempo bruciava, senza sfogo, nel chiuso della mai fantasia, perché io nonne fossi trascinato, lì per lì, a un'eloquenza incontenibile! E allora mi detti a citarle,con enfasi, le più urgenti fra le molte strepitose meraviglie, che sparse per il globoaspettavamo la visita di Wilhelm e Arturo Gerace... (p. 1056)

Si tratta di un punto di svolta perché, per la prima volta, Arturo scopre la

bellezza del confronto. Tra i due la complicità è massima e il motivo di tale

sinergia risiede prima di tutto nella condivisione di un orizzonte mitico, ancora

distante dall'universo della maturità. Alle meraviglie di Arturo infatti, Nunziata

risponde con le proprie, ingaggiando una vera e propria lotta tra «magnificenze»

di diversa origine.

Io le parlai dei fachiri indiani, ed essa ebbe subito da vantare un campionario difenomeni non meno meravigliosi, che dimoravano a Napoli (p. 1057)

75

I due condividono dunque lo stesso sguardo limpido tipico dell'infanzia e la

sequenza del «doppio giuramento», è la prova tangibile di questo legame. Ecco

perché, dopo questo vivace scambio di battute, ad Arturo scappa un entusiastico

«Ti conosco!» (p. 1060).

La doppia natura di Nunz., viene subito colta da Arturo che, sebbene non

sappia ancora dare un nome al proprio turbamento, si ritrova vittima degli

scherzi dell'inconscio. Durante un brevissimo blackout, mentre è ancora in

compagnia della matrigna, egli sostiene di avere una visione, di rivivere un

ricordo appartenente a «tempi lontanissimi», forse addirittura a un'altra

«esistenza»:

Mi ritrovai in un luogo assai lontano; quale fosse il paese non so. Faceva una nottechiara, ma in cielo non si vedeva la luna: io ero un eroe, e camminavo lungo la rivadel mare. Avevo ricevuto un'offesa, o soffrivo di un lutto: forse avevo perduto ilmio più caro amico, è possibile che me lo avessero ucciso (questa cosa adesso nonpotevo ricordarla bene). Chiamavo qualcuno, e piangevo disteso sulla rena; eappariva una donna assai grande, che sedeva su una pietra, a un passo da me. Erauna bambina, ma pure aveva in tutta la persona, una maturità maestosa; e la suamisteriosa infanzia non pareva un'età umana, ma piuttosto un segno di eternità. Edera proprio lei che io avevo chiamato, questo è certo; ma chi ella fosse, ora nonsapevo più ricordarlo: se una divinità oceanica, o terrestre, o una regina legata ame da parentela, oppure una veggente... (pp. 1067-1068)

In questa breve sequenza dai toni onirici, Arturo scopre di avere a che fare con

un nuovo mistero. Nunziata infatti riassume in sé i caratteri di una «maturità

maestosa» che le deriva dal suo ruolo di sposa, e di una «misteriosa infanzia»

che diventa segno di eternità. Tutto si svolge in un luogo assai lontano, in un

altrove dai contorni indefiniti che abbiamo imparato a conoscere nelle opere

morantiane. E, dettaglio ancora più importante, non si vede la luna. Se volessimo

tradurre le immagini simboliche di questa visione, dovremmo dire che Arturo

non riesce a vedere – e quindi conoscere – l'universo femminile. La luna infatti è

da sempre l'archetipo del femminile per eccellenza, in opposizione al sole che

invece incarna il principio maschile. In più, la Morante non è estranea a questo

76

tipo di simbologia: già in Menzogna e sortilegio, il personaggio di Anna era

legato alla luna in maniera evidente122. Si tratta dunque di una sequenza che ci

svela l'ignoranza del ragazzo in relazione all'universo femminile. La sua

conoscenza è sommaria, una pura intuizione ancora lontana dalla realtà: egli sa

che c'è la luna, ma non ha ancora gli strumenti per vederla, per accoglierla nel

proprio orizzonte. Ovvero il «protagonista solare» Arturo è giunto alle soglie

della «prova della notte»123, da cui uscirà vittorioso solo quando riuscirà a

prendere piena coscienza della corporeità e della sessualità della donna, oltre ché

della propria.

Nunziata intanto, cresce davvero e la sua esperienza di maternità la

consacra definitivamente al regno degli adulti. La complicità con Arturo

sparisce, per lasciare il posto alle nuove fantasie del fanciullo.

La sua persona ingrossata, senza più fanciullezza, mi appariva cinta di signoria e diriposo; come certe figure adorate dai popoli d'Oriente a cui lo scultore ha dato unagravezza strana e deforme per significare il loro potere augusto. […] In certimomenti, non ricordavo più che io e lei eravamo quasi coetanei: essa mi parevanata molti anni prima di me, forse più antica della Casa dei guaglioni (p. 1145)

È significativo inoltre, che, mentre il corpo di Nunziata cambia e si adatta alla

sua nuova condizione di madre e donna, il cielo di Arturo non è più popolato

dalla tenda orientale della madre, ma diventa il luogo di «tanti altri paesaggi». di

«altri esseri femminili stupendi che dormono... altri eroi bellissimi... altri

fedeli...» (p. 1147). Un universo di meraviglie che però, a lui è precluso. Ed è

proprio questo sentimento di esclusione a dare spazio al nuovo Estero. Così

come era già accaduto in Menzogna e sortilegio, l'altrove si concretizza ancora

una volta in una parola dall'iniziale sempre maiuscola, che comprende in sé tutti

i «luoghi della terra più desiderati e affascinanti, continenti, città, montagne,

122 Si veda il capitolo La morte di Anna, ovvero il tramonto della luna, in F. GiuntoliLiverani, Elsa Morante. L'ultimo romanzo possibile, cit., pp. 63-86.

123 Utilizziamo qui, di proposito, le espressioni che caratterizzano lo scritto dellaMorante, Sul Romanzo, oggi in Opere, II., cit.

77

mari» (p. 1153). Con una crudeltà tutta nuova, il ragazzo annuncia a Nunziata la

sua imminente partenza per l'Estero, elencando nel dettaglio le prodezze che lo

attendono. Il vero obiettivo di Arturo è però un altro: il ricorso a questi

argomenti, è in realtà un modo per sottolineare il tanto agognato approdo alla

maturità da lui fantasticata. Parlare dei viaggi, ovvero di quell'universo che

ancora gli è interdetto a causa dell'età, non è altro che un tentativo di seduzione

ai danni della matrigna. Con la promessa di una partenza prossima, Arturo infatti

vuole dare l'impressione di essere già grande, di essere già un uomo. Insomma,

vuole risplendere agli occhi di Nunziata come solo un eroe potrebbe fare,

concentrando in sé tutti i caratteri che, secondo la sua esperienza, fanno parte

dell'età adulta.

L'antica, eterna amarezza (d'essere ancora stimato un ragazzino), che durante gliultimi dodici mesi, mi aveva già tanto esacerbato, mi faceva risentire il suo morso,e mi suggeriva rivolte e sospetti: - Tu, dei fatti miei, - ripresi, torvo, - non te nedevi interessare. La devi piantare, ogni volta che studio l'atlante, di annoiarmi conle tue chiacchiere: e andrai viaggiando così lontano, solo! E davvero andrai cosìlontano, solo! Come s'io fossi ancora guaglione, da non sapermi difendere puresolo, e pure senz'armi! Qual è l'idea tua?! Gli altri partono soli e vanno viaggiandosoli, e tu non ne fai tanto caso, come per me! Che credi? Che gli altri, perchéhanno più età di me, hanno più bravura di me? È questa l'idea tua? (pp. 1156-1157)

La nascita di Carmine cambia le carte in tavola. Se infatti, fino a questo

momento, le reazioni della matrigna tradivano un certo interesse della donna in

favore del fanciullo, non appena il nuovo Gerace prende possesso della casa, il

fascino per le favole raccontatale da Arturo scema del tutto.

Ripetute volte, in quelle sere, ostentai di spiegare sulla tavola le famose mappedell'atlante, tracciandosi sopra, in lungo e in largo, risoluti segni di matita; masenza nessuno effetto. Essa sedeva vicini alla cesta di Carmine, canticchiando perlui, senza occuparsi delle mie faccende (p. 1213)

Ogni tentativo di seduzione è destinato al fallimento e, di conseguenza Arturo,

vittima di una gelosia lanciante, escogita un nuovo piano per entrare nelle grazie

78

della ragazza. Se i viaggi verso le terre al di là dell'isola non vengono più

riconosciuti come prova tangibile della sua maturità, egli sceglie un nuovo

altrove in grado di impressionare Nunziata: il regno dei morti. Il viaggio estremo

appare ai suoi occhi l'unica vera soluzione per recuperare le attenzioni della

donna. E in effetti, Nunziata rimane fin troppo scossa dal sonno del ragazzo,

durato ben diciotto ore, tanto da dimenticarsi di Carmine e dedicarsi

esclusivamente ad Arturo. Dopo aver varcato le Colonne d'Ercole e aver provato

il sapore della morte, il ragazzo rinuncia persino a inventare favole astruse sulla

propria esperienza, preferendo di gran lunga presentare alla fanciulla l'unica

verità che si sente in grado di pronunciare, ovvero che oltre la morte non c'è

niente, «solo nero» (p. 1230). In ogni caso, sarà proprio la follia di questo

viaggio a fare da preludio al bacio fatale tra matrigna e figliastro.

L'attraversamento delle Colonne d'Ercole in direzione di Atlantide, altro non era

che un vero e proprio rito di iniziazione, tale da consacrare davvero Arturo fuori

dall'epoca dell'infanzia. Nunziata infatti, precisa:

- Artù, in questi pochi giorni ti sei fatto più alto... (p. 1233)

Per Arturo, si tratta di una vera e propria dichiarazione d'amore che, infatti, lo

spinge al bacio. Ed è grazie ad esso che la femminilità di Nunziata si palesa

senza più veli. Le labbra «brucianti», le palpebre «ammorbidite», «la sua testa

ricciuta» sono tutti dettagli di un corpo che non ha più alcun mistero in sé, ma

che rivela una carnalità bruciante, più vicina che mai.

Il suo corpo (che all'improvviso mi si faceva riconoscere, come se l'avessi vistoignudo), mi implorava, all'opposto di ribaciarla ancora! (p. 1234)

Ora che il mistero di Nunz. è stato svelato, le immagini dell'altrove che avevano

caratterizzato la matrigna non hanno più ragione d'esistere. L'Estero come

categoria gnoseologica smette di essere riferita a lei: Nunziata non è più una

79

sultana orientale, lontana e irraggiungibile, ma una donna in carne e ossa, il cui

corpo palpita di passione, viva e reale.

Per questo motivo, l'estero ricompare solo quando si ripresenta ad Arturo una

nuova figura femminile, che ha il compito di iniziarlo al sesso. Di Assuntina si

dice infatti che ha gli «occhi a mandorla neri» (p. 1255), che è cresciuta «con

certe maniere indifese e morbide, simili ai languori orientali di una gatta

preferita» (p. 1254) e che assomiglia a un'odalisca:

Così dicendo, di sotto le palpebre oblunghe e molto cigliate, che sembravanopesarle sugli occhi, mi volse uno sguardo che parlava chiaro: come se lei fosseun'Odalisca, e io il Sultano! (p. 1260)

L'Oriente, a differenza delle apparizioni precedenti, si distingue qui per la sua

carica erotica. Il suo compito è quello di sottolineare l'incontro tra Arturo e il

fascino conturbante dell'universo femminile. Assuntina infatti, come viene più

volte ripetuto nel testo, non è esempio di beltà assoluta. Non è la sua figura

concreta a trarre beneficio da questa corrente isotopica, quanto piuttosto il ruolo

che essa ha nella parabola di crescita del ragazzo. Solo quando Arturo avrà

assaggiato il sapore dell'amore vero, «quello che fanno insieme gli uomini e le

donne quando sono innamorati» (p. 1261), egli potrà finalmente comprendere

che tipo di sentimento lo lega a Nunziata. Questa nuova consapevolezza gli

permette di definire la propria amante, una misera «schiavetta indiana» (p.

1274), mentre Nunz. si trasfigura in una «grande Padrona bianca» (p. 1276),

splendente nella sua fiera alterigia.

La conoscenza dell'universo femminile, per Arturo, si è conclusa. Per

approdare alle soglie della maturità egli ha dovuto scoprire e sperimentare i

caratteri della maternità e della sessualità, dell'affetto e dell'attrazione. La luna,

ormai, non ha più motivo di celargli il suo volto:

Qua e là, per il cielo stracciato, erano visibili le piccole stelle dicembrine, eun'ultima falce di luna spargeva un pallidissimo barlume di crepuscolo (p. 1364)

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Si tratta di una conquista che gli permetterà di abbandonare l'estero come

dimensione altra cui paragonare la donna e i suoi misteri. Nelle ultime pagine,

l'altrove si configura esclusivamente come luogo della maturità, come

destinazione necessaria per chi, nell'isola, ha già ultimato il proprio percorso di

crescita. Come ci ricorda la Morante infatti «non si dà uscita dall'isola senza la

traversata dal mare materno: come dire il passaggio dalla preistoria infantile

verso la storia e la coscienza»124.

124 Dalla quarta di copertina dell'edizione Struzzi di Einaudi, 1975, oggi consultabilenella Cronologia, in E. Morante, Opere, I, cit., pp. LXVI- LXVII.

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CAPITOLO IV

L'ALTROVE CELATO

UN DECENNIO DI SPERIMENTAZIONI FORMALI

4.1. L'altrove in Alibi, tra Paradisi, Sultani e Finzioni

Anche quando Elsa Morante non scrive in prosa, il motivo dell'altrove

aleggia nelle sue pagine, adattandosi alle nuove esigenze espressive della

scrittrice. È quello che accade con le sedici poesie che compongono Alibi,

volumetto pubblicato per la prima volta nel 1958, il quale è risultato di

un'originale urgenza formale che ha da sempre accompagnato la scrittrice. Basti

pensare che alcuni di questi componimenti, erano già noti al pubblico grazie alla

loro funzione di paratesto in Menzogna e Sortilegio e L'isola di Arturo. Non a

caso, Scarpa parla di queste poesie come di una «prefigurazione», di un

«riassunto», addirittura di una «recensione del romanzo o dei racconti per mano

dell'autore stesso»125. Eppure, sebbene in esse si riconoscano quei temi tanto cari

all'immaginario morantiano, si avverte comunque l'esigenza di dar loro nuovo

colore, nuova vita. Un «canto libero»126 che attende dei lettori in grado di

decifrarne i misteri. Questa duplice natura, confermata anche dalla premessa

autoriale127, complica di riflesso la nostra ricerca, dal momento che l'altrove

assume in sé caratteri già noti e, al tempo stesso, si carica di nuove implicazioni.

125 D. Scarpa, L'amante, il paradiso e il tiranno, in G. Fofi (a cura di), Per ElsaMorante, Linea d'ombra, Milano, 1993, p. 175.

126 Ibidem127 «L'Autrice prega i lettori di perdonarle l'esiguo valore e peso di queste pagine.

Essendo infatti, lei, per sua consuetudine (oltre che per sua natura e per suo destino)scrittrice di storie in prosa, i suoi radi versi sono, in parte, nient'altro che un'eco, o, sesi voglia, un coro, dei suoi romanzo; e, in parte, nient'altro che un divertimento, ogioco, al quale essa ama talvolta abbandonarsi senza troppo impegno, per semplicepiacere della musica» E. Morante, Alibi, in Opere, I, cit., p. 1374. Da ora in poi, e pertutto il capitolo, faremo riferimento esclusivamente a questa edizione.

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In questi componimenti, ad esempio, troviamo la riproposizione del tema del

Paradiso, un altrove che abbiamo già incontrato sia in Menzogna e sortilegio che

ne L'isola di Arturo. In Lettera si legge:

non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome,o parola che m'apri la porta del paradiso. (p.1382)

Il nome dell'amato diventa formula magica in grado di trasferire l'io poetante in

un luogo di felicità estrema, di giubilo e serenità. Un'implicazione amorosa che

non è estranea ai moduli della scrittrice, la quale, nella parte finale del suo primo

romanzo, aveva messo in bocca a Rosaria un'immagine simile, con lo scopo di

spiegare cosa fosse l'amore alla piccola Elisa.

Il dormire che fanno gli sposi (mi bastasse di saper ciò finché rimanevo signorina),il dormire degli sposi è un dormire magnifico, tutto un unico sogno! Ma lameraviglia è questa: che moglie e marito sognano insieme un medesimo sognouguale, e in questo sogno gemello si ritrovano insieme […] Soprattutto sul finiredel sogno, un minuto arriva nel quale entrambi gli sposi volano fino all'Empireo:tanto che, se non si risvegliassero proprio in quel punto, si riterrebbero morti, e giàgloriosi in cielo. E fra i due la più gloriosa è la moglie, la quale è certa di essere, inquel minuto, l'unico tesoro del suo sposo: più che madre, più che sorella, tutto,insomma, per lui: il Paradiso incarnato128.

Di paradiso incarnato si può parlare anche a proposito del gatto Alvaro che,

nell'omonimo canto a lui dedicato, diventa il simbolo di questa dimensione tanto

lontana, e la sua presenza, come ricorda Giuntoli Liverani, «porta conforto nella

tenebrosa prigione del tempo»129

E t'ero uguale!Uguale! Ricordi, tu,arrogante mestizia? Di foglietetro e sfolgorante, un giardinoabitammo insieme, fra il popolobarbaro del Paradiso. Fu per me l'esilio,

128 E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., pp. 904-905.129 F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L'ultimo romanzo possibile.,cit., p. 55.

83

ma la camera tua là rimane,e nella mia terrestre fugace passigiocante pellegrino. Perché mi concediil tuo favore, o selvaggio? (p. 1386)

Alvaro fa parte di quegli «animali celesti» (p.1386) che hanno il compito di

illuminare la grigia realtà degli uomini. Il loro aspetto infatti è un dono che

deriva direttamente dall'eliso. Grazie a lui, l'io poetico può tenere in grembo una

prova tangibile di quell'esistenza astorica e lo stesso motivo si intravede tra i

versi di Minna la siamese, la quale, non a caso, è stata fornita di unghie e denti

direttamente dal «cielo» (p. 1376). Questo passato mitico, questo Eden

primigenio però, non è solo patria di Alvaro, o degli altri animali che abitano la

terra. L'attacco della strofa qui riportata infatti, permette di stringere un forte

legame tra i due soggetti, in virtù di un passato comunque. L'io poetico e il gatto

condividono questo altrove, tanto che il primo non esita a giudicarsi «uguale»

all'animale, nel rievocare quel «giardino» in cui abitarono insieme. Di

conseguenza, se il corpo del gatto è in realtà una traccia, un'impronta lasciata dal

mondo selvaggio del Paradiso, anche il corpo umano può diventare esperienza

tangibile della condizione di felicità da noi tanto agognata.

Che in questi componimenti l'altrove si nasconda in un corpo, è comprovato

dalla poesia Avventura, in cui l'io poetico decide di partire alla conquista di un

cuore. Cuore che, ben presto, si carica di tutti gli attributi che l'Estero ha già

posseduto nell'opera morantiana. In più, il ricorso alla similitudine mette in

evidenza l'intrecciarsi di moduli ormai noti130.

Come una rosa in un giardinod'Africa o d'Asia assai lontano,come una bandiera alzatain cima a una nave pirata,come uno scudo d'argento

130 Per la funzione della similitudine in relazione al motivo dell'altrove si veda ilparagrafo 1.3 del presente lavoro.

84

appeso in un barbaro tempio,difficile splende il tuo cuoreil tuo frivolo, indolente cuore,l'eroico, femmineo tuo cuore,il tuo regale, intatto cuore,il cuore dell'amore mio. (p. 1388)

A suggellare questa serie di similitudini che fanno del cuore amato un paese da

conquistare, ci pensa il confronto operato nella strofa successiva con le altre terre

che potrebbero essere scoperte ed esplorate. Eppure, nonostante le ricchezze

offerte dalle «caverne terrestri» e dai «giochi oceanici» preparati dai golfi, c'è

solo un luogo che merita la partenza dell'io poetico:

Ma alla conquista io partii d'un frutto aspro.Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere.Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego.Il solo mio valore è questa impresa! (p. 1389)

La donna che canta questi versi, presenta con toni volutamente romanzeschi, la

propria metamorfosi in avventuriero. Un alone fiabesco che raggiunge e

trasfigura tutti dettagli di questo viaggio immaginifico. In virtù del corpo della

persona amata ad esempio, si creano addirittura nuove geografie, in cui il «lago

stagnante della paura» fa compagnia all'alta catena dei «Grandi Orgogli». Anche

se qualcuno ha visto in questo componimento, la concretizzazione dell'amore di

Elsa Morante per Luchino Visconti, ipotesi avvalorata dalla presenza delle

«triplici mura di Sodoma», si preferisce qui tralasciare i riferimenti reali alla vita

della scrittrice, per dedicarsi al testo in modo esclusivo. Ancora una volta infatti,

il motivo dell'altrove, senza bisogno di riscontri nella realtà, torna ad incrociarsi

con una possibile realizzazione amorosa: il cuore diventa l'unico paese verso cui

valga la pena mettersi in cammino, lasciando parenti e amici («Addio, dunque,

parenti, amici, addio!» p. 1389), anche se il viaggio si preannuncia «lungo» e

«incerto». La fine di questa avventura infatti, è tutt'altro che felice per la nostra

85

«pellegrina», la quale nel prendere coscienza della propria identità, capisce di

non non poter mai ottemperare al proprio compito. Al rifiuto evidente del cuore,

ella oppone una verità controffattuale che ha i caratteri di una nuova

metamorfosi:

Ah, fossi alato usignolo, foss'io centaura,ah sirena foss'io,foss'io Medoro o Niso,che forse a te più amicosarebbe il nome mio, grazioso cuore!Invece, Lisa è il mio nome […] (p.1390)

Se il corpo nelle poesie precedenti, era diventato una terra da conquistare, queste

nuove trasformazioni servono a riproporre una variazione sul tema dell'altrove.

Voler essere altro da sé coincide con il voler abbandonare la quotidianità, in

favore di una dimensione ignota. La poesia si conclude con un amaro addio per

bocca dell'amato. In realtà, siamo ancora dentro un universo fittizio, inventato di

proposito da Lisa per sopperire all'indifferenza altrui, dal momento che, di fronte

al presente delirio fantastico, il destinatario dei versi rimane chiuso nel proprio

silenzio.

È il componimento successivo a dare degna conclusione a questa

parabola d'amore. Come precisa Garboli, si intravede un «filo che unisce le due

poesie»131, tale da poter affermare che «la conclusione di Avventura è l'incipit di

Alibi»132.

Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!

Dopo questo avvertimento, questo consiglio attorno cui gravita l'intera esistenza

dell'io poetico, si staglia sulla scena la figura di un ragazzo, un fanciullo dai

connotati eterei. Impossibile non riconoscere in lui, i caratteri che saranno

131 C. Garboli, Prefazione in E. Morante, Alibi, Garzanti, Milano, 1990, p. 19.132 Ibidem

86

proprio dell'altro fanciullo-divino della produzione morantiana: Arturo133.

Attraverso di lui e attraverso il suo corpo, è possibile per il poeta riappropriarsi

della propria identità, approdando a una piena coscienza di sé. Se prima infatti,

era Lisa ad essere vittima di una favolosa metamorfosi, ora è il fanciullo dal

nome sconosciuto a prestare le sue fattezze all'altrove, secondo una sequenza

trasfigurativa, che sembra anticipare i toni del componimento dedicato ai F.P.:

Tu eri il paggio favorito alla corte d'Oriente,tu eri l'astro gemello figlio di Leda,eri il più bel marinaio sulla nave fenicia,eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale.Tu eri l'incarcerato a cui si fan servi gli sbirri.Eri il compagno prode, la grazia del campo,su cui piange come una madreil nemico che gli chiude gli occhi.Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capellipurpurei, sull'alto terrazzo, fra duomi e stendardi.Eri la prima ballerina del lago dei cigni,eri Briseide, la schiava dal volto di rose.Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro,con una dolce voce di contralto.Eri la principessa cinese dal piede infantile:il Figlio del Cielo la vide, e s'innamorò (p. 1393)

Sono tutti «lontani evi» quelli che vengono evocati in questa strofa, e il loro

scopo è di sottolineare il carattere leggendario e utopico di questo fanciullo, il

quale, non a caso, dimora in un'«arnia fatata» cui giungono i mieli di «narcisi

lontani». La ripresa anaforica dello stesso aggettivo, «lontano», ci conferma che

il suo tratto peculiare è la distanza, caratteristica primaria dell'altrove. Questo

infatti, secondo la definizione stilata nel primo capitolo, per essere tale, non deve

appartenere al mondo che conosciamo, ma avere contorni sfumati e indefiniti:

Ma quando sei lontano, immane per me diventi.

133 Si riconoscono infatti sia alcuni riferimenti espliciti, come nel caso dell'«ape e dellarosa», che allusioni più implicite come quella svelata da Garboli nel sottolineare larinuncia totale a un confronto virile, in favore di un universo esclusivamentematerno. Si veda a questo proposito, la Prefazione di Garboli già citata.

87

Il tuo corpo è grande come l'Asia, il tuo respiroè grande come le maree. (p. 1394)

Ancora una volta il corpo dell'altro assume su di sé le immagini di una terra

remota, ma, a differenza dell'esito fallimentare cui abbiamo assistito in

Avventura, qui l'io poetico riesce a ricongiungersi ad esso, dal momento che

gode di un rapporto privilegiato con l'essere amato: gli è madre.

O figlio mio diletto, rosa notturna! (p. 1395)

Il legame che esiste tra loro, non si esaurisce esclusivamente nell'epiteto di

figlio, ma permette alla donna di abbracciare la propria creatura, di richiamarlo e

osservarlo con lo sguardo affettuoso che solo una madre potrebbe avere. L'amore

smodato che ella riversa nei confronti del fanciullo trasfigura la vita intera nel

battito del cuore altrui, tanto da poter affermare:

Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. (p. 1395)

L'explicit del componimento rende poi giustizia al rapporto viscerale tra madre e

figlio, attribuendo a quest'ultimo, un carattere tipicamente femminile: la

maternità.

Il tuo corpo materno è il mio riposo. (p. 1395)

La fusione tra i due universi si è conclusa: il corpo dell'uno è anche il corpo

dell'altro e questa nuova verità, svela un ulteriore dettaglio. Per utilizzare le

parole di Garboli: «il figlio non si è ancora differenziato, sta per nascere, non

nascerà mai»134. Egli esiste all'interno del grembo materno, come realtà

potenziale, e così, il sentimento della donna per la sua creatura si trasforma in un

sentimento rivolto alle proprie membra, alla linfa creatrice che scorre dentro le

134 Ivi, p. 20.

88

proprie vene. Ma la parabola narcisistica che ripiega ogni verso in direzione del

poeta stesso non può essere l'unica spiegazione che sottende questo

componimento. A svelarci l'inganno è infatti il titolo stesso della poesia presa in

esame, Alibi, il cui riferimento all'universo fittizio ci spinge a considerare il

rapporto madre-figlio come il simbolo della creazione letteraria tout-court. Il

fanciullo tanto amato non è che il punto in cui convergono tutti i temi, tutti i

motivi, tutti i personaggi che sono stati e che saranno.

Qual è il tuo nome? Simile al firmamentoesso muta con l'ora. Sei tu Giulietta? O sei Teodora?Ti chiami Artù? O Niso ti chiami? Il nomea te serve solo per giocare, come una bautta. (p.1392)

E ancora:

La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. […]Tu sei la fiaba estrema (p. 1393)

L'alibi dunque cui si riferisce il titolo della poesia, può essere considerato

un'allusione a questa menzogna favolosa che il poeta continua a riproporre, a

rimodulare, a riadattare. È l'universo della finzione ad essere vero altrove, vera

terra da conquistare. Non a caso, alla finzione e al potere della letteratura, sono

dedicate molte delle poesie contenute in questo esile volumetto. Alla favola, Ai

personaggi, Sheherazade, ma anche testi come Allegoria (due favole per N.N.) e

Amleto. Essi si configurano come una riflessione in versi di una poetica ormai

chiara, e, com'era prevedibile, ad accompagnarli torna il motivo dell'estero. Così,

ad esempio, i personaggi diventano «Sultani infingardi» (p. 1385), l'io poetico si

traveste da Sheherazade e rivendica il suo ruolo di narratrice «fantastica», in un

mondo che invece preferisce arrendersi a «inanimati sonni» (p.. 1381); il palco

di un teatro si anima grazie alla presenza di una meravigliosa schiava, «l'etiope

Aida», il cui idillio con un «negretto d'Africa» assume tutti i toni e i colori di una

89

fiaba d'altri tempi. Il risultato è il ritratto ben definito di un io-poetico che

procede per tentativi in direzione di un universo fantastico e remoto. Per

utilizzare le parole di Scarpa, sembra quasi che tutti le poesie qui riportate, altro

non siano che «finti tentativi (finti perché l'autore li sa destinati all'insuccesso) di

abbandonare il limbo fuori del quale non v'è eliso»135. Ogni componimento

dunque ha il sapore dell'altrove, e questa fuga di senso verso altri lidi è affidata a

tutti gli interlocutori fittizi che l'io poetico crea, i quali sono infatti accomunati

da un'unica caratteristica: sono distanti, lontani, remoti. È quello che succede

nella Poesia per Saruzza, in cui la «giovane siciliana» è tenuta a distanza da una

«impervia rovina/di lontananza e tempo» (p. 1377); lo stesso si può dire per la

persona amata tratteggiata da Amuleto, la cui vita scorre a un ritmo diverso

rispetto a quello dell'io-poetante, come se i loro due mondi non fossero destinati

a incontrarsi mai; persino nella poesia che chiude il volume, l'uccellino cui il

gatto si rivolge, è un «feudatario dei luoghi più alti» (p. 1401), che condanna il

suo cacciatore a un tormento amoroso. Una lontananza che, in ogni caso, si

traduce in silenzio. È proprio questa mancanza di risposta a permettere a

un'inversione di marcia. Scarpa, ancora una volta, precisa:

Il mutismo dell'altero interlocutore conta quanto lo sguardo allucinato che lo fissada una lontananza invalicabile. Ma se l'altro, l'amato, è irraggiungibile, è tantolontano da non esistere realmente allora forse il tiranno e lo schiavo sono la stessapersona. In queste poesie Elsa Morante è Sheherazade ed è il Sultano, è colei cheprepara il sortilegio e colui che è vittima del sortilegio e della menzogna136.

Possiamo dire dunque, che i componimenti presi in esame, si caratterizzano per

una duplicità concettuale funzionale al ritratto dell'io poetico. Si tratta di versi

che permettono alla finzione di farsi veste, o, come sostiene Garboli, di essere

corpo 137. Ciò rende possibile i vari travestimenti del poeta, che, ad esempio, può

135 D. Scarpa, L'amante, il paradiso e il tiranno, cit., p. 177.136 Ivi, p. 179137Cfr. C. Garboli, Prefazione in E. Morante, Alibi, cit., p. 24

90

mascherarsi da «sultano dello zenit/ che muove sul quadrante le sfere/ con le sue

dita infingarde e sante» (p. 1379), ma, subito dopo, si nasconde dietro le fattezze

di un gatto condannato a non spiccare mai il volo; o ancora, prima diventa una

sposa che si compiace della propria natura fantastica, in grado di inventare

«bellissime fiabe (p. 1381)», ma basta girare pagina per vedere la stessa figura

femminile trasformarsi in una schiava d'amore, condannata a viaggiare per il

mondo alla ricerca del cuore amato. L'altrove dunque, oltre che manifestarsi a

livello formale attraverso un lessico specifico, in questi componimenti è presente

come tratto costitutivo, che permea a livello semantico i versi scelti dall'autore.

Esso infatti, accantonando di proposito i significati supplementari assunti nelle

narrazioni precedenti, ci mostra il suo volto puro, quello legato alla finzione

letteraria. La menzogna è per sua stessa natura manifestazione dell'altrove, in cui

i vincoli della realtà quotidiana non esistono. È, per rubare ancora una volta le

parole a Garboli, incarnazione consapevole della vanitas138.

4.2. Dal «mondo incomprensibile» allo «spettacolo di

sogni». L'altrove nei racconti de Lo scialle andaluso

Prima di approdare alle nuove sperimentazioni formali che

caratterizzano Il mondo salvato dai ragazzini, nel 1963 viene pubblicato Lo

scialle andaluso, una raccolta di racconti che si presenta come una riproposta

della «preistoria dell'autrice»139. Sono queste le parole che la Morante utilizza

per definire le prime novelle e che, a lungo andare, hanno finito per influenzare

il giudizio dei critici intorno a questa raccolta. Il libro invece, è frutto di un

impegno da parte della scrittrice, dal momento che ella si sforza di ricomporre i

propri lavori operando un'accurata selezione. In più, attraverso un criterio

cronologico, la Morante permette al lettore di seguire la sua evoluzione grazie a

138 Ibidem139 E. Morante, Nota di Lo scialle andaluso, in Opere, I, cit., p. 1579.

91

un oculato ventaglio di temi e motivi dal volto cangiante. È il caso dell'altrove

che, presente fin dalle prime prove, viene coinvolto in un'interessante

metamorfosi. La sua prima apparizione avviene sotto il segno del fantastico

grazie alla «lieve brunitura hoffmanniana» - per rubare le parole di Caproni140 –

riconoscibile in questi primi lavori. Il ladro dei lumi, ad esempio, gode di

un'atmosfera lugubre e oppressiva, in cui Thanatos regna sovrano. Al

turbamento della protagonista corrisponde una sfilata di «masse oscure», i cui

volti sono «maschere dalle occhiaie vuote»:

Sono i morti, e brancolano incerti, e tendono le labbra come per bere, chiedendo illoro lume. Nessuno di loro ha le ali; sembrano talpe uscite dalla terra. Di sotto laterra, certo credevano di vedere ancora il giorno in quel lume, ed ora a tentoni locercano. Solo i vivi possono accenderlo e spegnerlo; così vuole Dio, nel mezzo, ilsilenzioso, che castiga i vivi e rinchiude nella terra i morti. (p. 1414)

La presenza di un Dio di tipo kafkiano è la premessa necessaria per la sparizione

del paradiso. Né per i morti, né per i vivi è possibile aspirare a una vita luminosa

e piena. Il baratro infernale rigetta i propri morti sulla terra, e li obbliga a

brancolare nel buio. Un'immagine simile che viene riproposta anche ne L'uomo

dagli occhiali, racconto immediatamente successivo:

Il luogo in cui giunse non le era noto; era vasto, allagato dalla nebbia, e visorgevano alti edifici di cui non si distinguevano le forme né i colori. Un popolooscuro vi si aggirava con una velocità febbrile, senza urtarsi né fermarsi, e diquesta folla senza numero ella non riusciva a distinguere le facce, né la foggia deivestiti; tutti si incrociavano e si superavano intorno a lei, e il suono dei loro passiera continuo, simile ad una pioggia, e come attutito da un'immensa distanza. (p.1419)

Il regno dei morti si configura come unica alternativa alla realtà quotidiana, ma

condivide con essa un'imperscrutabilità immutabile, qui sottolineata non solo

dall'«immensa distanza», ma anche da quella nebbia che, in molti racconti, non

140 G. Caproni, Dodici racconti di Elsa Morante, «La Nazione», 22 gennaio 1964, oggiconsultabile in E. Morante, Lo scialle andaluso, Einaudi, Torino, 1994, p. 236.

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invade solo l'altrove, ma offusca la quotidianità di chi guarda nella sua direzione.

Ne L'uomo dagli occhiali, ad esempio, ogni qual volta il pensiero della morte

riaffiora alla coscienza dell'uomo, la nebbia lo stringe in un nuovo abbraccio:

A questa certezza, una nebbia gli coprì le pupille, e il sangue gli corse al cuore,arrestandogli il respiro (p. 1416)

Ora le nebbia incomprensibile s'infittiva intorno a lui ed egli provava l'oscurotimore di svenire in quel luogo (p. 1416)

Gli occhi pieni di vita non possono comprendere la morte e il suo regno. Ma,

non appena si varca il confine, non appena si supera la soglia oscura, anche la

nebbia si dipana e permette una perfetta comprensione della nuova realtà. Nel

momento in cui Clara raggiunge Maria nel suo mondo, si legge:

Il vento si affievoliva e la folla si diradava sui loro passi; quando giunsero pressoun muro basso su cui cresceva l'erba, la nebbia era diventata trasparente comevetro (p. 1422)

La conoscenza dell'altrove è dunque preclusa in questa vita. Interessanti

risultano a questo proposito, le conclusioni del primo racconto, Il ladro dei lumi,

in cui la soluzione anacronica svela il proposito conoscitivo dell'io narrante.

E quella ragazzina fui io, o forse mia madre, o forse la madre di mia madre; iosono morta e rinata; e ad ogni nascita si inizia un nuovo processo incerto. E quellaragazzina è sempre là, che interroga spaurita nel suo mondo incomprensibile, sottol'ombra del giudice, fra i muti (p. 1414)

Nonostante i suoi tentativi di comprendere ciò che le accade intorno, la bambina

protagonista, simbolo di una memoria onirica imprigionata in un'ossessiva

ricerca di senso, non possiede la giusta chiave interpretativa per risolvere il

mistero della vita. E spesso, «assorta in fantasticherie», si affida alla propria

immaginazione per venire a capo di banali enigmi. È ciò che succede quando la

piccola sente il nome della malattia di Jusvin, e ad esso associa un universo

lontano, imperscrutabile, quasi affascinante:

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Era un male che la gente osava appena nominare con paura (io lo legavo, per ilsuo nome fantastico, alla feroce fauna marina e ai tropici africani).(p.1412)

Il riferimento a terre lontane e ignote, indica l'assoluta identità funzionale che nel

racconto esiste tra la morte e l'altrove, la cui continuità semantica viene ribadita

più avanti nel testo:

Pensavo che il dito di Dio li toccasse sulla lingua, come aveva fatto al padre, edecco, la strana bestia africana gliela rodeva. (p.1412)

I toni cupi e le atmosfere lugubri che caratterizzano questi primi lavori, sono

destinati a scomparire, a lasciare il posto a narrazioni più ampie e luminose. Una

schiarita progressiva che ha il merito di appoggiarsi più ai moduli della finzione

che a quelli del fantastico. Il primo scarto in tal senso è offerto dal racconto La

nonna, in cui la figura inquietante della vecchia, foriera di morte e maledizioni,

viene controbilanciata dal principio vivificante presente in Elena, la nuora. La

donna infatti, dopo la morte del marito, compie una vera e propria rinascita. Nel

momento in cui prende coscienza di «essere viva», decide di mettersi in viaggio,

di partire. Il mistero che avvolge i suoi progetti di recarsi altrove, scatena in lei

un pianto irrefrenabile.

Ella decise dunque di andarsene in una casa di campagna che non aveva mai visto,sebbene fosse fra le sue proprietà; sapeva che era ampia, tranquilla, e che un pianoera affittato mentre l'altro era libero e pronto per lei. Cominciò a fantasticareintorno al nome del villaggio, alla casa, al fiume, alla chiesa, e la voglia di toccarecon le sue mani le tante cose immaginate la serrò alla gola fino a farla piangere. (p.1426)

La realizzazione delle sue fantasie permette ad Elena di conoscere Giuseppe il

quale, non a caso, nella mente della fanciulla, viene ben presto associato a una

terra ignota e lontana:

In uno di tali risvegli, sul tardo pomeriggio, si stupì di trovarsi dentro la luce

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riflessa del fiume, che batteva sulle pareti con larghe ondate oscillanti. Le parve diapprodare, sorda e ubriaca, ad una riva remota, e soltanto dopo qualche secondo siaccorse che Giuseppe le era accosto; era in ginocchio davanti a lei, con occhisorridenti e perduti in un'adorazione fanciullesca. (p. 1434)

Interessante notare come questa sequenza sia la premessa necessaria

all'amplesso che si consumerà di lì a poco. L'altrove dunque torna ad

appropriarsi dell'eros. Alla stessa atmosfera onirica è ascrivibile anche l'altra

iniziazione sessuale, quella che si consuma nel racconto Via dell'Angelo, in cui

Antonia sembra perdere ogni contatto con la realtà, adagiandosi piuttosto su

frivolezze di un'innocenza ancora fanciullesca. Ciononostante, i riferimenti

all'altrove non mancano e svelano il carattere iniziatico del motivo preso in

esame: Antonia contempla il proprio corpo nudo alla finestra e le linee delle sue

membra finiscono per sovrapporsi a quelle delle terre che lei ammira.

E si avviò alla finestra, senza più vergogna, anzi compiacendosi in segreto d'essernuda, e levando sulle punte dei piedi il corpo sottile e candido. Si vedeva al di làdai vetri una valle deserta piena di un lontano misterioso chiarore, e Antonia, comeuna canna sul fiume, si specchiò in quella verde notte. (p. 1458)

La «valle deserta piena di un lontano misterioso chiarore» viene così a

coincidere con il suo stesso corpo, il quale, come una terra remota che promette

avventure, per Antonia è ancora tutto da esplorare.

Infine, i due testi presentano un ulteriore tratto comune: in entrambi si fa cenno

al Paradiso. Esili spie lessicali, presenze anomale che fanno la loro comparsa

all'interno di un impianto ancora oscuro che profuma di morte. Eppure, si

comincia a intravedere uno spiraglio di luce. Nel racconto La nonna, troviamo

un ailanto che, «per la sua straordinaria velocità nel crescere, è chiamato pure

“albero del Paradiso”» (p. 1427); in Via dell'Angelo c'è invece una «statua di

pietra dalle ali ripiegate», che si crede essere un «vero angelo, che Dio aveva

scacciato dal Paradiso in seguito a qualche colpa grave, e condannato alla terra»

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(p. 1449). Due immagini che assumono, per le rispettive trame, un significato

ben preciso. L'ailanto è il simbolo di quella passione che con estrema rapidità

finisce per legare i due amanti, tant'è che le annotazioni sulla sua crescita

costellano il racconto fino alla fine; mentre l'angelo allude alla figura misteriosa

che rapisce Antonia e la porta via, iniziandola ai misteri dell'erotismo.

Ricordiamo infatti che la statua, secondo le credenze popolari, «rapiva la gente,

specie i fanciulli» (p. 1450).

Di conseguenza il Paradiso si configura come nuovo altrove, in grado di

sostituirsi al lontano e oppressivo regno dei morti. Eppure, l'eliso è ancora

lontano. Per fare in modo che questa nuova dimensione si avvicini, bisogna

sancire il definitivo trionfo della finzione, il quale viene celebrato nel racconto Il

gioco segreto. In esso il «divertente e maleducato mondo interiore» (p. 1465)

non riesce più a nascondersi, ma si manifesta, esplode, attraverso un gioco

reiterato, giorno dopo giorno, dai tre fratelli. Questi, grazie alla letteratura e alla

loro immaginazione, sono i protagonisti di una «doppia vita» (p. 1469) talmente

potente, da mettere in pericolo la loro esigua stabilità emotiva. Il vero altrove

dunque, almeno in questo racconto, è il «teatro» (p. 1468), un «gioco segreto»

che si trasforma ben presto in «una specie di congiura [...] in un pianeta favoloso

e lontano» (p. 1469). Per sottolineare la portata sovversiva di questa esperienza,

viene evocata una dimensione altra, remota. Dei tre fanciulli, due in particolare

si abbandonano del tutto alla dimensione del fantastico, e tale scelta non sarà

certo priva di conseguenze. La crisi di Antonietta e la fuga di Roberto mettono in

campo lo scontro tra principio di realtà e principio di piacere. Il confine tra i due

mondi diventa così labile da provocare un crollo dell'individuo che, pur di

raggiungere il proprio altrove tanto vagheggiato, perde del tutto i contatti con la

realtà.

A partire da questa cellula narrativa è possibile spiegare i racconti successivi, i

quali si riempiono di personaggi luminosi, lunari, che vivono in piena armonia

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con un altrove immaginario. È il caso del Cugino Venanzio, della Signorina

Candida, della stessa donna Amalia, punto di arrivo di questa parabola delirante.

Il primo è una figura sfuggente, la cui appartenenza ad un mondo altro viene

sottolineata, oltre che dal sonnambulismo, dal vestito «stampato a bandierine»

(p. 1492) che finisce per far coincidere simbolicamente il suo corpo con tutti i

paesi esistenti all'estero. Della Signorina Candida viene detto che «nel suo

mondo amoroso ella folleggiava» (p. 1503), ma nel momento in cui il Poeta le

rivela la vanità delle sue illusioni, ella muore non riuscendo a sostenere il peso di

questa scomoda verità. Anche Venanzio era stato colto da morte improvvisa, la

quale è un'evidente manifestazione del proprio disagio esistenziale. Chi invece

non muore mai è il soldato siciliano, che nel racconto eponimo, dice di vagare

con la speranza che una pallottola lo raggiunga. Ma la sua presenza nel romanzo,

è in realtà manifestazione di quel mondo onirico che, ormai, ha del tutto invaso

la quotidianità narrata nei racconti. Su di lui infatti, l'io narrante precisa:

Poco dopo, sulla via fangosa, io già dubitavo se quella visita fosse stata una realtào soltanto una cosa immaginata nell'insonnia. Ancora io dubito; e per molti segnimi sembra chiaro che colui non era una figura terrestre (p. 1515)

I sogni sono espressione di quell'alterità tanto agognata dai protagonisti141. Ad

esempio, colei che vede arrivare il soldato siciliano, poco prima di accorgersi di

lui, era già impegnata in alcune considerazioni sulla Sicilia, che hanno il sapore

di una variazione sul tema ormai noto dell'altrove:

Io pensavo quanto mi sarebbe piaciuto di attraversare il fiume Garigliano, earrivare fino alla Siclia, bella e desiderata in quella stagione. Non sono mai statalaggiù, dov'è il paese di mio padre, e dove adesso avrei potuto vivere libera. In quel punto l'uscio di travi fu spinto dall'esterno, e per il vano entrò un fascio diluce bianca (p. 1510)

141 Si veda a questo proprio il racconto L'appuntamento contenuto nella raccolta Ilgioco segreto, oggi riproposta in E. Morante, Opere (vol. I). In questo testo, laprincipessa Carola, ogni notte, ha un «appuntamento con un Sogno» (p. 1613) e infunzione di esso orienta tutta la propria giornata.

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Ma il personaggio che più si proietta verso una dimensione altra, è donna

Amalia. Fin da subito, ella si mostra diversa dalle altre, tanto da torreggiare «nei

salotti e a teatro, in qualsiasi compagnia si trovasse». Una «gigantessa sacra»

p.1517) i cui denti sono simili «al gelsomino d'Arabia» (p. 1518), mentre i suoi

atti vengono compiuti «a somiglianza delle antiche dame cinesi» (p. 1517).

Queste notazioni pertinenti alla sua esteriorità, sono manifestazione di una

diversità tutta interiore, la quale viene presto svelata.

La ragione per cui donna Amalia non ingrassava troppo era che, nell'intimo di lei,continuava ad ardere, senza mai consumarsi, quel fervore che una donna comunepuò conoscere quando è bambina; ma che poi si frena in gioventù, e tramontanell'età adulta. I sentimenti, i pensieri di donna Amalia erano sempre in moto,sempre accesi; e perfino nel sonno non si quietavano giacché il suo riposo era untale spettacolo di sogni che, a raccontarli, sembrerebbero le Mille e una Notte (p.1518)

In lei, si fondono i caratteri dell'altrove letterario e dell'altrove geografico, dando

così l'impressione di trovarsi di fronte alla figura che meglio incarna, in tutta

l'opera morantiana, gli eccessi luminosi impliciti nel motivo preso in esame. Sua

caratteristica primigenia è lo stupore, la meraviglia:

Questa gran dama aveva viaggiato, aveva girato il mondo, eppure in certi momentisomigliava alle povere barbare dei deserti che non hanno mai veduto nulla; e se unviaggiatore mostra loro un pezzo di vetro che brilla al sole, son tutte estasiate eprotendono le mani per vederlo (p. 1522)

La sua sete di avventura non si esaurisce mai, e il suo voler «andare ad esplorare

i misteri della luna!» (p.1522), fa parte di quei progetti impossibili che la

divorano, che si scontrano con la realtà. Prendere coscienza dell'assurdità che

sottende ai propri sogni, genera in lei un «sentimento amaro, di rivolta e quasi di

disgusto» (p. 1524). Non per questo la sua fantasia si ferma. Al contrario, la sua

immaginazione non ha freni e riesce a trasportarla ora «alla conquista

dell'Alhambra», ora «nella Sala del Tesoro, a Pechino» (p. 1524). Tutta la sua

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vita compartecipa di questa atmosfera avventurosa: ne è un esempio il duello

intavolato da Don Vincente e da Don Miguel per ottenere la sua mano che si

conclude con la vittoria del primo, e la sconfitta del secondo il quale, non

potendo sopportare una vita senza Amalia, muore «di malinconia». (p 1527). La

donna dunque rappresenta la forza vivificante dell'immaginazione. I toni cupi

che caratterizzavano le prime prove narrative della Morante sono scomparsi in

favore di una figura che presta il proprio corpo all'altrove, e per la quale il

mondo è «un teatro d'opera sempre aperto, con tutte le luci accese» (p. 1518).

Il motivo del teatro come ulteriore concretizzazione di una dimensione altra in

cui trovare la felicità, sta alla base del racconto successivo, Lo scialle andaluso,

che è anche l'ultimo della raccolta eponima. Qui, è il teatro che si carica di tutti

gli attributi del motivo preso in esame, e infatti, fin dalle prime pagine si precisa:

Così, il Teatro che era stato sempre il suo Paradiso, l'aveva accolta! (p. 1529)

Eppure, nel corso della narrazione, Giuditta deve fare i conti con un Paradiso

alternativo a quello da lei scelto. Sarà il figlio, Andrea, a rifiutare gli eccessi del

mondo della madre, per consacrarsi invece a quella felicità eterna che può

trovare solo nei conforti della religione. La conversione del figlio infatti, non fa

che esasperare il rifiuto di Andrea nei confronti del teatro e Giuditta, che prima

biasimava i lamenti del ragazzo, si ritrova a pensare qualcosa di diverso, che le

fa prendere coscienza di una nuova complessità.

Lei, però, che prima aveva spesso trattato da importuno l'affetto eccessivo diAndrea, provava adesso, talvolta, un disappunto amaro al vedere che lui non avevapiù a cuore nient'altro che il Paradiso, e s'era dimenticato addirittura d'esser figliod'una madre (p. 1542)

Questa dicotomia interna tra i due orizzonti di felicità, è comunque espressione

di un disagio interno alla famiglia, in cui i nodi del complesso edipico fanno

fatica a dipanarsi senza ulteriori complicazioni. Ad essere indagata è la crescita

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del fanciullo, la cui infanzia e adolescenza è segnata proprio dal confronto con

una dimensione mitica fatta da due poli opposti: il teatro rappresenta il principio

materno e femminile, mentre la religione rimanda al principio maschile e

all'universo paterno (ricordiamo che infatti, il vero padre di Andrea, è assente,

del tutto estraneo alla vicenda). Non a caso, nel momento in cui il ragazzo

decide di guardare alla madre, senza negarle la femminilità che le permette di

essere una ballerina di teatro, si spoglia della tonaca e il teatro gli appare in tutta

la sua magnificenza:

La sua fantasia disubbidiente gli aveva fatto intravvedere, al di là, dei miraggistraordinari; i quali, sebbene ricacciati mille volte con disdegno, si riaccendevanosempre alla parola teatro. Istoriato e sfavillante come un duomo orientale;popoloso come una piazza nella festa dell'Epifania; signorile come un feudo; e dinessuno dimora, mai, come l'oceano! Ah, povero Andrea Campese! Così armato,invincibile ti appariva il teatro, che, davanti a un simile rivale, il cuore, provocatoal grande combattimento, ricorse alla fortezza suprema del Paradiso! (p. 1555)

La totale fusione di Andrea con il mondo del teatro, e quindi con l'orizzonte

mitico che esso rappresenta, viene sancita in modo definitivo quando il suo

corpo viene avvolto all'interno dello scialle andaluso della madre, ultimo

barlume degli splendori di scena. Un oggetto nel quale si concretizzano tutti i

valori fiabeschi della dimensione mitica abitata dalla madre. Ed è proprio con

questa immagine che si chiude il racconto. Si legge infatti:

Andrea spesso s'immagina il futuro quale una specie di grande Teatro d'Opera,dietro le cui porte s'aggira una folla sconosciuta, misteriosa. Ma il personaggio fratutti misterioso, ancora sconosciuto a lui stesso, è uno: Andrea Campese! Comesarà? Egli vorrebbe immaginare il futuro se stesso, e si compiace di prestare aquesto Ignoto aspetti vittoriosi, abbaglianti, trionfi e disinvolture! Ma, per quantola scacci, ritrova sempre là, come una statua, un'immagine, sempre la stessa,importuna:

un triste, protervo Eroeavvolto in uno scialle andaluso. (p. 1578)

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Andrea non ha ancora rinunciato al proprio miraggio e addirittura si veste delle

proprie illusioni, ma la realtà della vita è pronta a divorarlo, a svelare la vanità di

ogni suo progetto In questa figura, come magistralmente intuisce Agamben, si

può intravedere «l'immagine dell'io avvolto nel velo di Maia davanti a un mondo

di fantasmi e di apparenze»142. Il punto di approdo di questa raccolta, ci permette

insomma di focalizzare il nodo centrale della questione: la presenza così

insistente di un altrove è diretta conseguenza di un rapporto conflittuale dell'io

con il mondo. Contro una realtà incomprensibile, l'unica protezione ci viene

offerta da uno scialle andaluso, foriero di fantasie e avventure misteriose, con la

speranza che esso possa trasfigurare noi stessi e salvarci dalle brutture del reale.

Sebbene non siamo certi sulla durata dei suoi effetti.

4.3 Paradisi artificiali e Paradisi genesiaci. L'altrove nel

Mondo salvato dai ragazzini

È proprio sull'inconciliabilità tra la dimensione immaginaria e quella

reale che si fonda il primo testo de Il mondo salvato dai ragazzini, opera

anomala nel panorama morantiano, pubblicata nel 1968. Addio si configura fin

da subito come una dolorosa presa di coscienza della condizione umana in

rapporto ad una dimensione altra, qui identificata con la morte. Il pretesto

autoriale per la composizione di Addio è dato infatti dalla scomparsa dell'uomo

amato, Bill Morrow. Ciò serve a spiegare la tensione funebre che caratterizza il

testo e che presenta la vita come un «povero punto terrestre» (p. 10) in cui si

vaga in attesa che una «cammella cieca a folle» (p. 10) scelga chi far morire.

L'altrove dunque torna a vestire i colori del lutto, presentando un io poetico

prigioniero, che si autodefinisce condannato «al tempo e ai luoghi» e che corre

«le città lungo uno una pista confusa» (p. 8) alla ricerca di un modo per

142 G. Agamben, Lo scrittore è un ladro di lumi, «Paese Sera», 10 gennaio 1964, oggi inE. Morante, Lo scialle andaluso, Einaudi, Torino, 1994, p. 233.

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raggiungere i propri obiettivi. Ma ogni sforzo è vano, dal momento che la

distanza che intercorre tra i vivi e i morti è talmente grande che sembra

aumentare ad ogni passo.

Ma la tua morte cresce ogni giorno.E in questa piena che monta io cado e mi riavventoin corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. (p. 8)

È la vita stessa che impedisce all'io poetico di raggiungere i luoghi tanto amati,

essa è una «belva» con cui bisogna «trescare» e «patteggiare» (p. 8). Questa

dicotomia tra le le due dimensioni, si concretizza nella struttura oppositiva della

seconda parte del testo. Qui infatti, viene prima presentato il «là» tanto

agognato, una terra di «Sahara incantati, fuori d'ogni pista», in cui i «miraggi si

spostano a distanze moltiplicate, irraggiungibili nei loro campi solitari»:

Là non esistono indirizzi, né nomi, né ore.Nessun segno per conoscersi. Tutto l'infinito eternonon è che un cielo vuoto, bianco, ruota sonnambuladove si fugge assenti uno dall'altro alla cieca.

L'unica occasione d'incontrarsi era stata questo povero punto terrestre (p. 10)

A questa dimensione remota si oppone un «quaggiù» (p. 11) affollato di volti e

parole. La ripresa anaforica del deittico «qua», contribuisce a rinserrare il ritmo

dei versi in esame e presenta una realtà varia e multiforme, i cui frammenti

sembrano quasi anticipare lo sproloquio confusionario del Coro ne La serata a

Colono. Anche quando l'estero fa la sua apparizione, esso serve solo a

sottolineare l'insondabilità della distanza che separa il regno dei morti dalla

nostra condizione. Il baratro infernale è ancora più lontano di quanto potrebbe

esserlo un paese esotico:

Qua, se un amico è lontano, lo si può chiamare al telefono,fosse pure agli antipodi (tanto, non si paga subito,

102

il conto è un remoto futuro): «Chi è là? Samarkanda? Londra? Persepoli?Sei tu!? Sono io, da New York City!! Senti la mia voce?Come stai? Qua si crepa di noia! Pure là? Quando torni? [...]» ( p. 12)

Persino l'Estero dunque si arrende alle logiche della quotidianità e non può certo

competere con la morte, la cui lontananza impedisce qualsiasi tipo di contatto

con i «corpi rubati». E, come sempre accade nelle opere morantiane, nel

prendere coscienza della propria prigionia, l'io poetico chiama in soccorso la

propria immaginazione. Sarà grazie alle proprie favole che il corpo amato torna

a parlare, a scherzare e a sorridere con lei. Ma, lo scacco della ragione è presto

svelato: il fantasma si definisce «miraggio», «delirio» (p. 21). La follia ha preso

il posto di una più lieta favola consolatrice. Essa rivela che non è possibile più

alcuna conciliazione, nessun incontro tra le due dimensioni, tant'è che il

poemetto si chiude con la seguente presa di coscienza:

Alla distanza fantastica che le dividenon c'è misura. Nessun messaggio è possibile.Senza usci le sante: né finestre, né bocche di lupo.Niente posta né alfabeti né telefoni né cifrati (p. 22)

La comunicazione è negata e l'unica soluzione sembra quella di aspettare che

anche la propria memoria venga sotterrata nelle sabbie di quei «Sahara

incantati», così da far cessare il dolore e scoraggiare ogni tentativo di

ricongiungimento.

Lo stesso nodo problematico si ripresenta ne La commedia chimica. La mia

bella cartolina del Paradiso, componimento posto ad apertura di questa seconda

sezione, ripropone infatti la tendenza autodistruttiva dell'io poetante il quale si

imbarca verso il Paradiso, munito addirittura di passaporto. Il viaggio in

direzione del regno dei morti, viene dunque riscritto attraverso dei riferimenti

concreti che ne accentuano l'effetto straniante. Nonostante i documenti in regola,

sottoscritti dall'«Accademia mondiale di Chimica Superiore» e firmati da

«Dottori e Sciamani laureati», la donna viene ricacciata indietro, non essendo

103

ancora arrivato per lei il momento di lasciarsi alle spalle la vita. L'interdizione

subita assume toni aspri, diretti:

«Qua non si ammettono passeggeri, se non clandestini o espatriati illegali.Indietro!» (p. 27)

L'«al di là» sbarra di nuovo le sue porte. Eppure, prima di ripiombare nella vita

di tutti i giorni, l'io poetico riesce a sbirciare in direzione dell'altrove, così da

coglierne qualche tratto sfuggente: «una cupola trasparente, sospesa in un quieto

crepuscolo amniotico», e le sue strane decorazioni, le quali riproducono «allegri

fumetti». La consistenza della luce, definita attraverso un aggettivo caratteristico

delle acque del parto, sottolinea la marca regressiva di questi versi, che prenderà

poi corpo nella volontà di Edipo di consacrarsi all'universo matriarcale delle

Erinni. Ma queste visioni, sono presto destinate a svelare la loro vanità: esse

infatti sono il risultato delle droghe assunte dalla donna. Così, una volta

trascorso il tempo necessario all'assimilazione delle sostanze chimiche, le

allucinazioni sfumano, e, di conseguenza, la «stazione terrestre» (v. 28) può di

nuovo accogliere la mente dell'io poetico. Questa infatti, era fuggita dal proprio

corpo in direzione di un fittizio paradiso celeste, ma si ritrova invece vittima di

un paradiso artificiale.

Le droghe vengono dunque utilizzate con lo scopo di raggiungere l'al di là

tanto vagheggiato, e si appropriano così della costellazione simbolica di questa

seconda parte, tanto da fornire una chiave interpretativa per tutti i successivi

componimenti. Persino Edipo de La serata a Colono, ad un certo punto della

rappresentazione, elemosina la sua dose. Tale richiesta risponde all'esigenza

interiore di un uomo che ha fatto del viaggio la sua ragione di vita. Ecco perché,

in questa parodia teatrale, Edipo ha una parlata «che pare forestiero» (p. 50),

essendo un viaggiatore «stato da tutte parti allamerica» (p. 50). Una tendenza

all'evasione che trova il suo motivo costitutivo nella letteratura – egli «ha letto

tuttilibbri» (p. 50) - e si manifesta nel delirio febbrile che lo caratterizza. In esso

104

si riconosce un rapporto compromesso con il reale: il corpo dell'uomo è foriero

di sogni e deliri, la cecità non gli permette di vedere ciò che lo circonda e

persino l'udito non assolve la sua funzione, dal momento che egli ha difficoltà a

capire lo sproloquio frammentario perpetrato dal coro. Lo scollamento di senso

che egli avverte e di cui è vittima, lo rende il perfetto abitante di un altrove

misterioso, in cui imperversano visioni e allucinazioni. A lui, si oppone

Antigone, la quale con la sua trasparente innocenza, si propone come una valida

alternativa per un rapporto pacificato con il mondo. Depositaria di una verità

genuina e barbarica, ella, per amore del padre, riesce a ricreare e a inventarsi un

altrove luminoso, con un bel «chioschetto di piante», in una «piazza forestiera»,

nella quale si riconoscono giostre, orchestrine e persino un «teatrino di

pupazzi»(p. 64). Questa tendenza all'evasione, che accomuna padre e figlia,

permette all'autore, di definirli una «coppia esotica» (p. 61). Eppure, proprio per

questa divergenza d'orizzonti, essi diventano l'emblema di una mortifera

incomunicabilità, la stessa incomunicabilità che avevamo scorto alla fine di

Addio. Edipo rivela la sua inclinazione funebre, in una climax che lo conduce

alle soglie di ben sette porte, di cui la penultima segna il ritorno al corpo

materno, al punto primigenio in cui le sue stesse membra sono state forgiate per

la prima volta.

sempreio volevotornare al corpo dove sono nato (p. 113)

Le Erinni della tragedia, diventano qui il simbolo dell'universo matriarcale. Una

catabasi regressiva verso il mondo dei non-nati i quali, com'era prevedibile,

invadono la scena della Smania dello scandalo, sezione che conclude La

commedia chimica. Dopo una breve premessa, in cui l'io poetico si ferma a

riflettere sul suo interminabile momento di passaggio («io sono il punto amaro

105

delle oscillazioni fra le lune e le maree» (p. 117), un iter di illuminazione

narcotica lo condurrà alle soglie di un mondo mitico, in cui un noi festoso, si

diletta in «giochi prenatali» (p. 119). Sono questi i non-nati, rimasti al «primo

giorno» (p. 121) dell'umanità, ignari della paura e della morte. Come precisa

Ardeni, «sono due esseri oltre la sessualità e la comune civiltà, contrapposti a un

imprecisato “loro”»143. Le «voci straniere» (p. 123) dei non-nati si confrontano

con le urla di una popolazione assediata dalle macerie, che sembra aver

dimenticato le sue vere origini. Ma nonostante la dicotomia che esiste tra questa

dimensione primigenia e l'atmosfera mortifera della storia, la speranza non viene

mai meno, tanto da prevedere la nascita di un nuovo fanciullo mitico, il cui

vagito si leva «da un oriente anonimo» (p 124). La sua presenza annunciata,

rende possibile il domani – parola che viene ripetuta cinque volte in explicit. - in

cui ci sarà un'«altra genesi» (p. 124) tale da permettere la rinascita del mondo.

Dell'Aia, sostiene che questo mondo pseudoapocalittico si contrappone

all'oscuro antro rimbaudiano144 e, i versi posti alla fine del componimento

numero 6 servono proprio a ribadire la rinascita che segue lo sprofondamento al

bosco delle origini. Le successive poesie infatti, si caratterizzano per un

linguaggio «carnale», come lo ha definito Fusillo145, atto a registrare il

rinnovamento della terra, attraverso i caratteri di una nuova rinascita, concreta e

materiale. Il punto d'approdo di tale procedimento, è il bambino che, nella poesia

10, si presenta come il «fresco assolato ridente» (p. 131) Adamo. Dell'Aia, vede

nel parto del ragazzo, la nascita di quel fanciullo divino che dà avvio alle

narrazioni successive, come se dunque vi fosse una preparazione tematica

all'ultima sezione dell'opera, Canzoni Popolari. Alla Smania dello scandalo è

143 V. Ardeni, L'espressione della dicotomia tra artista e società ne La smania delloscandalo di Elsa Morante, «Carte Italiane», Series 2, Volume 9, 2014, p. 125.

144 L. Dell'Aia, La presenza di Rimbaud nel Mondo salvato dai ragazzini di ElsaMorante, in Gli Scrittori d’Italia. XI Congresso Nazionale dell’ADI, Graduus,Grottamare, 2008, p. 4.

145 M. Fusillo ,«Credo nelle chiacchiere dei barbari». Il tema della barbarie in ElsaMorante e in Pier Paolo Pasolini, «Studi novecenteschi», a. 21, n. 48, 1994, p. 99.

106

dunque affidato il compito di trasformare l'altrove in un mondo mitico che offra

la soluzione al rapporto compromesso con il reale e che viene a coincidere con la

figura di questo fanciullo speciale. Come scrive Stefani c'è un «finale

ritrovamento del bene perduto in un universo esoticamente lussureggiante e

pullulante di vita nascente, mitica prefigurazione del regno della libertà che

dovrà succedere a quello della necessità»146. È quel bene perduto il tesoro

custodito dai Felici Pochi, e quindi anche da La Mutria e dal Pazzariello; è quel

bene perduto che rende queste figure altro rispetto agli Infelici Molti. In essi si

concentra quella luminosa consapevolezza che tutto è un gioco, e che la loro

vera natura appartiene a quell'altrove reinventato attraverso la Smania dello

Scandalo. Lo stato di felicità primigenia ad esempio si riconosce nell'innocente

distacco di Pazzariello dalla Grande Opera. La sua impossibile assimilazione al

sistema mortifero della storia, si condensa in un unico simbolo: l'ocarina con cui

suona Cielito Lindo. L'isotopia dell'Estero torna dunque alla ribalta per

tratteggiare la figura di un outsider, «zingaro, felice e contento» (p. 194), «figlio

bastardo di qualche mulatto» (p. 209). Nella Sierra lontana protagonista della

sua canzone, in grado di corrompere anche i secondini delle prigioni, si

riconosce dunque la «sfida beffarda», secondo un'espressione di Rosa,

propugnata poi da quello stormo di cherubini della Canzone finale della stella

gialla. In essi, i cui tratti sono marcatamente esotici, si riconoscono quegli

«adolescenti, buffoni di Dio» (p. 128) cui è dato il compito di opporsi ai sordidi

meccanismi della Storia. All'indomani del Sessantotto dunque, sono gli

adolescenti e gli “idioti” ad essere l'altrove di cui il mondo ha bisogno, e, in

questa scelta, si riconosce già l'orientamento narrativo che darà vita a La Storia.

146 L. Stefani, Ritratti critici di contemporanei. Elsa Morante, «Belfagor», a. 26, n. 3,1971, p.306.

107

CAPITOLO V

LA STORIA INVADE L'ALTROVE

5.1 Africa, America e Russia

All'interno della parabola autoriale di Elsa Morante, La Storia si

configura come un romanzo anomalo, nato da un progetto che Rosa definisce

«spregiudicato»147. Tra le tante innovazioni che hanno alimentato il polverone

generatosi intorno alla sua pubblicazione148, ce n'è una che coinvolge

interamente l'impianto narrativo e finisce per influenzare anche il motivo

dell'altrove. Come la stessa Rosa ci ricorda, ad essere al centro delle riflessioni

teoriche della scrittrice, c'è l'inesauribile dialettica tra storia e invenzione.

Un'opposizione che ha carattere costitutivo, come dimostra il titolo stesso149: La

Storia romanzo offre fin da subito un'antitesi senza alcuna possibilità di sintesi.

Anche la struttura dell'opera si fa depositaria di questo messaggio, confinando la

cronologia degli eventi in apposite cornici, e lasciando la narrazione all'interno

dei capitoli. Questa differenza formale ha dunque il compito di rendere

manifesta l'inconciliabilità tra storia e finzione, dal momento che si tratta di un

nodo problematico indispensabile per la corretta comprensione dell'opera. Questi

due poli infatti, ingaggiano un confronto talmente serrato da coinvolgere nella

loro battaglia anche alcune correnti isotopiche, prima fra tutti l'estero. I paesi

stranieri che affollano le pagine del romanzo godono, non a caso, di questa

doppia natura: da un lato, com'è noto, incarnano un orizzonte d'attesa mitico e

fittizio; dall'altra però – ed è questa la vera novità – si spogliano di quella

147 G. Rosa, Elsa Morante. cit., p. 107.148 Per una ricostruzione del dibattito critico si vedano L. De Angelis, Il dibattito su La

Storia, in G. Zagra, S. Buttò (a cura di), Le stanze di Elsa: dentro la scrittura di ElsaMorante, Colombo, Roma, 2006, p. 101-111; e G. C. Ferretti, Il dibattito sulla“Storia” di Elsa Morante, «Belfagor», 30 (1975), n. 1, p. 93-98.

149 Cfr G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Il Saggiatore, Milano1995.

108

favolosa intangibilità per alludere a un referente concreto, privo dell'aura

fantastica che siamo abituati a intravedere al di là delle terre conosciute. Così

come accade con la narrazione, la quale non diventa mai luogo della sintesi tra

Storia e finzione, allo stesso modo anche l'Estero non gode di entrambe le realtà

allo stesso momento. Si tratta piuttosto di una scoperta graduale, di un lento

svuotamento metaforico che riduce i nomi dei paesi esteri ad inutili involucri,

abbandonati alle logiche dell'«irrealtà»150.

Il primo paese ad essere vittima di questa degradazione è l'Africa, il

quale appare nella narrazione per mezzo di Gunther, il soldato tedesco che del

mondo sa poco o niente. Il suo corpo porta i segni di un'infanzia appena

abbandonata, e la sua giovane età può dirsi la premessa necessaria al discorso

sull'estero. L'Africa infatti, gli appare una «meta misteriosa» che lo ha

«elettrizzato, in partenza, con la prospettiva di un'autentica avventura esotica»151.

Viene precisato poco dopo:

AFRICA! Per uno appena cresciuto, che i suoi viaggi li faceva in bicicletta osull'autobus che porta a Monaco, questo sì che è un nome! (p. 273)

I toni festosi suggeriti dalla punteggiatura, sono fin troppo simili a quelli che

caratterizzavano i progetti di un altro ragazzino ancora imberbe, desideroso di

abbandonare la propria isola natia. Nell'entusiasmo infantile di Gunther dunque,

si riconosce una traccia di quella che era stata la vitalità dei sogni di Arturo. E,

come se non bastasse, viene dato libero sfogo al potere evocativo della parola: è

il nome stesso, Africa, a generare una poesia in cui vengono presentati, uno dopo

l'altro, i tratti archetipici del continente nero. Con la stessa efficacia di una

150 Si rimanda qui all'accezione del termine utilizzata dalla Morante all'interno delsaggio Pro o contro la bomba atomica, oggi consultabile in Ead., Opere, II, cit., pp.1537-1554. Con irrealtà infatti ella allude alla «degradazione più squallida» (p.1544), alla «disintegrazione» che è il contrario dell'arte.

151 E. Morante, La Storia, cit., p. 273. D'ora in poi, e per tutto il capitolo, faremoriferimento alla presente edizione. Ci riserviamo per chiarezza, di indicare solo ilnumero di pagina da cui è tratta la citazione.

109

formula magica, nel rievocare quel nome, la mente del soldato si riempie di

immagini affascinanti e fantasiose, lontane dalla vera realtà dei fatti. E così, il

«Capo Stregone Mbunumnu Rubumbu sotto un ombrello di penne di

pappagallo!!!» convive con «più di mille soli e diecimila tamburi, sugli alberi

del pane e del cacao!»; «le scimmie giocano al calcio con le noci di cocco»,

mentre i «formichieri saltano a stormi» nelle foreste pluviali. Il sogno prende

corpo in un componimento in cui è contemplata anche la presenza del sognatore.

Gunther infatti non si lascia fuori, ma si inserisce con naturalezza in questa sfilza

di miti e situazioni:

Ho una capanna aurifera e diamantiferae sul mio tetto uno struzzo ci ha fatto il nidovado a ballare coi cacciatori di testeHo incantato un serpente a sonagli. […]Vado in canoa sul fiume degli ippopotamimille tamburi e diecimila soli!Acchiappo i coccodrilli come lucertolenel Lago Ngamie nelLimpopo (p. 273)

La prima persona risponde all'esigenza che Gunther ha di riappropriarsi di

questo orizzonte d'attese, in cui l'immaginazione ha il compito di scardinare e

allontanare ogni timore. Eppure, a questo slancio euforico, corrisponde quasi

subito un crollo disforico, atto a smascherare la vanità di siffatti progetti.

Un'inversione di marcia che il narratore addebita allo stesso soldato e alla «sua

indole non formata, piena di contrasti» (p. 274), la quale si dibatte tra propositi

eroici e improvvise prese di coscienza che gli mostrano la guerra come

«un'algebra sconclusionata, combinata dagli Stati Maggiori, ma che a lui non lo

riguarda per niente» (p. 274). L'antitesi tra storia e finzione affiora così, per la

prima volta, all'interno dell'animo di un ragazzo ancora non pienamente

cosciente delle implicazioni dei propri pensieri. Nel momento in cui ha

110

percezione del vuoto abissale che si nasconde dietro agli eventi, ovvero, nel

momento in cui guarda in faccia la tendenza alla distruzione che anima le

vicende umane, anche la sua Africa perde di significato. I contorni di questa

terra, prima sfumati, si concretizzano in linee reali, tali da ridimensionare ogni

entusiasmo e presentare la nuova meta come un unico punto in grado di

fagocitare anche l'ultimo barlume di vita:

Via via che il viaggio procedeva verso il sud, l'umore triste, in lui, prevalse su ognialtro istinto, fino a renderlo cieco ai paesaggi, alla gente e a qualsiasi spettacolo onovità: «Eccomi portato di peso», si disse, «come un gatto dentro un sacco, versoil Continente Nero!» Non Africa pensò, stavolta, ma proprio Schwarzer Erdteil,Continente Nero: vedendo l'immagine d'un tendone nero che già fin d'ora gli sistendeva sopra all'infinito, isolandolo dai suoi stessi compagni presenti. E suamadre, i suoi fratelli, i rampicanti sul muretto di casa, la stufa dell'ingresso, eranouna vertigine che si allontanava al di là di quel tendone nero, come una galassia infuga per gli universi (p. 274)

Alla presa di coscienza di una dimensione tutt'altro che fantastica, corrisponde

anche la negazione del nome magico Africa. Qui non si vuole confutare il potere

evocativo della parola, ma, piuttosto, ci si autocensura in nome di una verità

troppo scomoda per essere accettata. Si tratta comunque di un procedimento del

tutto automatico, che Gunther esegue senza comprendere a pieno i propri

ragionamenti. La giovane età infatti, lo costringe su di un limbo che egli non sa

come lasciarsi alle spalle. Persino dopo la sequenza dello stupro, la sua mente

bambina torna alla ribalta, attraverso un sogno che ripropone i moduli di un

estero mitico.

Il sogno era adatto a uno di età, circa, d'otto anni. C'erano in discussione affarid'importanza: trattative per la compravendita di biciclette o accessori, dove luiaveva a che fare con un qualche tipo di poca fiducia e senz'altro di un genereeccentrico: forse un contrabbandiere levantino, o un gangster di Chicago, o unpirata malese... (p. 339)

Nonostante la funzione consolatoria della dimensione onirica, il soldato tedesco

111

si risveglia presto dal suo sonno e di colpo, la Storia, lo investe in pieno,

obbligandolo di nuovo a ripensare all'Africa. Com'era prevedibile però, non c'è

più posto per leoni, coccodrilli e capi stregoni. Al contrario, di Gunther si dice:

Uscito di qui, lo aspettava solo un'Africa finale che oramai non gli si identificavapiù assolutamente con l'Africa interessante e colorata dei film o dei libri; ma conuna sorta di cratere deforme, in mezzo a una noia desertica e miserabile (p. 340)

Il processo di degradazione dell'Estero si svela con una chiarezza quasi

disarmante. Libri e film, simboli di un universo fittizio, non hanno più il potere

di trasfigurare il paese verso cui Gunther è diretto. La Storia recide ogni legame

con il proprio orizzonte di attese e produce un vuoto di vitalità ineffabile. Da

questo momento in poi, l'Africa è relegata a fugaci apparizioni nel corso della

narrazione e, in ognuna di esse, è il referente concreto a vincere sul mito. Basti

come esempio, l'episodio che vede Ida alle prese con un sudafricano, cui deve

insegnare la lingua italiana:

Da principio, essa credeva che un sud-africano fosse un uomo di color nero, equesto fatto, chi sa perché, le tornava più rassicurante. Invece si trovò di fronte aun uomo di pelle bianca, biondo e lentigginoso (p. 664)

Le aspettative della donna vengono disattese perché l'estero da lei vagheggiato,

non esiste più, non può esistere in un mondo dilaniato dagli orrori della guerra.

Nella costellazione di miti e leggende che aveva da sempre animato i cieli dei

personaggi morantiani, si genera così un vuoto provocato dalla sparizione

dell'estero. Anche Nora, madre di Ida, dovrà fare i conti con questa lacuna. Nel

momento in cui cerca una via di fuga per sfuggire alle leggi razziali, l'estero

torna ad animarsi con i colori e i tratti già cari alla piccola Anna in Menzogna e

sortilegio.

Nella mente inesperta, che già le si offuscava, presumeva, con tale somma, dipotersi pagare qualsiasi itinerario estero, e magari esotico! In certi momenti, come

112

una ragazzetta si metteva a fantasticare su talune metropoli che, da zitella, nei suoisogni bovaristici, aveva vagheggiato come traguardi sublimi: Londra, Parigi! Mad'un tratto si ricordava che adesso era sola, e come poteva orientarsi una donnavecchia e sola, fra quelle folle cosmopolite e tumultuose?! […] Per quanto leiseguitasse a farsi proposte diverse, esaminando tutti i continenti e i paesi, per lei,nell'intero globo, non c'era nessun posto. (p. 312)

Nonostante la sua pertinacia, la donna non riuscirà mai a scorgere una nave

«mercantile di bandiera asiatica» (p. 313), in grado di rubarla a quella realtà

asfittica. Nessuna barca può condurla in un luogo sicuro, lontano dalla Storia, e

la morte che la coglie durante la fuga sembra quasi una diretta conseguenza della

sua ostinazione.

I progetti di fuga per l'Estero, a differenza di quanto accadeva nei due

romanzi precedenti, trovano nelle vicende ivi narrate una motivazione

contingente. L'America, in modo particolare, diventa la terra promessa verso cui

partire per sfuggire alle persecuzioni e agli orrori della guerra. Dopo l'Africa,

essa è la seconda grande terra a gravitare intorno alle isotopie dell'estero,

concentrando in sé tratti fantastici e attributi più concreti. La sua prima

apparizione avviene sotto il segno delle leggi razziali, dal momento che viene

presentata quale meta di tutta la «gioventù ebrea di buona famiglia» (p. 327). Ma

la sua natura altra è presto svelata grazie alle prodezze di Carulina, ultima figlia

dei Mille, la quale crede «ciecamente a tutte le fantasie e invenzioni, non solo

altrui, ma anche sue proprie» (p. 467). Ed è proprio l'America che funge da

protagonista per una di queste fantasie, in cui la mente della ragazza, grazie alle

sollecitazioni ricevute in famiglia, trasfigura le bombe in «proiettili innocui, dai

quali, al momento dello scoppio a terra, uscivano delle sorprese» (p. 467).

Riportiamo il racconto di Carulina, in cui i confini tra finzione e realtà sono più

labili che mai:

Uscita per la spesa ne tornò con l'aria di una miracolata, e consegnò in offerta asua nonna una sfogliatella dolce: raccontando che giusto mentre lei passava neidintorni di Porta Capuana, da una Fortezza Volante era piovuta una bomba-uovo,in forma d'uovo di Pasqua grosso, e tutta coperta di stagnola dipinta con le figure

113

della bandiera d'America. Questa bomba era esplosa proprio davanti alla Porta,senza far danno, anzi! Sprizzando luci e faville come una bellissima girandola dibengala; e ne era sortita la stella del cinema Janet Gaynor, in abito da gran sera econ un gioiello in petto, la quale aveva senz'altro cominciato a distribuire intornopastarelle dolci. (p. 467)

L'apparizione dell'attrice e la sua immotivata generosità danno corpo a tutti gli

attributi positivi che l'America attira su di sé e che ora, grazie al carattere

immaginifico della fanciulla, vengono riproposti attraverso una racconto fittizio.

Agli occhi degli italiani costretti a subire il regime, l'America è terra di libertà e

felicità, in cui tutti i sogni possono avverarsi. A creare un'immagine stereotipata

del continente oltreoceano, ci pensano l'esperienza degli emigrati, la vasta

produzione cinematografica, il mito di Hollywood e la presunta potenza militare

già testata nel corso della prima guerra mondiale. Questi sono solo alcuni dei

tratti che, durante il XX secolo, hanno permesso all'America di diventare

simbolo di novità e di dinamismo sociale. La realizzazione personale sembra più

vicina che mai ed è proprio a partire da questo nuovo mito, che nasce, per rubare

l'espressione di Dall'Osso, la «voglia d'America»152. Quest'ultima, nel romanzo,

si incarna in un unico personaggio, Nino, che, non a caso, vive in nome di un

attivismo esasperato. I progetti di fuga verso il continente non vengono mai

meno e, nell'esternarli, il giovane prova a coinvolgere pure Useppe:

«Mò de navi nun ce ne stanno. Però, a' Usè, un bel giorno, sai che famo, noi due?Ci imbarchiamo su una nave transoceanica e partiamo per l'America».«La LAMERICA!» (p. 568)

Durante il suo percorso di maturazione ed emancipazione, Nino si avvicina il più

possibile ai modelli offerti dal continente da lui tanto amato. Acquisisce la

«disinvoltura di un gangster americano» (p. 514), la notte sogna praterie «del

West fra altri cavallari in corsa selvaggia» (p. 522), di giorno fuma le «Lucky

152 C. Dall'Osso, Voglia d'America. Il mito americano in Italia tra Otto e Novecento ,Donzelli, Roma, 2007.

114

Strike» e fa dono di varie tavolette di cioccolata americana. Una metamorfosi

che arriva a totale compimento con lo sfoggio di un vestiario tipico:

Era riccetto, alto, ben fatto, abbronzato di sole, ardito, elegante, tutto vestitoall'americana. Aveva un giubbetto di cuoio all'americana, corto alla vita, concamicia e pantaloni da civile, però di tela militare americana. I pantaloni benestirati, chiusi da una magnifica cintura di cuoio e stretti di gamba, gli terminavanoin certi stivaletti di pelle cruda, di quelli arroganti, del tipo che si vede nei western.(p. 671)

Quest'apparizione di Nino in abiti esotici è seguita da una parantesi narcisistica

che ricorda fin troppo da vicino un altro ragazzino intento a provare su di sé i

costumi esteri: Edoardo. Anche in questo caso infatti, Nino in abiti americani, si

gloria della propria prestanza fisica, in un «eccesso di esibizionismo» (p. 672)

che vuole assolutamente catturare l'attenzione del proprio pubblico.

Nonostante la fede nel mito americano, anche questa immagine di una terra

meravigliosa al di là del mare è destinata a crollare sotto il peso della realtà. La

fantasia di Carulina, ad esempio, che aveva attribuito a una diva del cinema

l'apparizione miracolosa di una sfogliatella dolce, era un modo per mascherare la

cruda verità ovvero che, Carulina, «s'era messa a fare le marchette con gli

alleati», (p. 583), come dimostra l'amante «afroamericano» (p. 583) che prima

di tornarsene in patria, viene a consegnarle l'ennesimo dono. Ma anche da un

punto di vista politico, l'America delude. Lo stesso Nino sostiene:

La rivoluzione per adesso non viene perché qua i padroni sono gli Americani «chenun la vonno». E Stalin nemmanco lui la vuole, perché lui pure è un imperialistacome quegli altri. La Russia è imperiale come l'America, però l'impero russo stadall'altra parte, e invece da questa parte ci sta l'impero dell'America (p. 726)

L'allusione alla Guerra Fredda, oltre che smascherare le attese sul sogno

americano, serve a manifestare l'altro mito antagonista che affiora nel corso della

narrazione. Anche la Russia, così come era successo con l'Africa e con

l'America, rappresenta un orizzonte cui fare riferimento in un periodo di

115

oppressione. Il personaggio che più di tutti si orienta verso il comunismo, o

meglio verso la componente utopica che si intravede nelle terre più a Est, è

Giuseppe Secondo, la cui passione per la Russia si palesa persino attraverso i

nomi dei suoi animali. Così, la gatta Rossella in realtà si chiama «RUSSIA!» (p.

510) e persino i due canarini Peppiniello e Peppiniella si chiamano così «per

onorare il compagno Giuseppe Stalin!!» (p. 511). La punteggiatura torna a

sottolineare lo slancio entusiastico che accompagna sempre l'estero nella sua

valenza mitica. Anche la Russia viene presto assimilata al concetto di libertà e,

insieme agli Americani, finisce per abitare i sogni di tutti:

Di qua, c'era il passato infame; e di là, il grande futuro rivoluzionario, quasipresente, oramai, si può dire. È vero che gli Angloamericani erano dei capitalisti:però dietro a loro, alleati, c'erano pure i Russi; e una volta cacciati i fascisti e itedeschi, ci avrebbero pensato i proletari, tutti insieme, alla vera libertà (p. 604)

In più, la Russia torna a far parlare di sé in casa Marocco, dove la giovane

Annita aspetta invano il suo Giovannino partito qualche tempo prima per la

Siberia, e di cui purtroppo non ha notizie. La sua mente si arrovella intorno alle

scarse conoscenze possedute sul fronte, e ripropone tratti stereotipati, poco

aderenti al vero.

Fra i pericoli della Russia, a quanto si diceva in giro, c'erano le donne di là, ches'innamoravano degli Italiani e se li tenevano stretti senza più lasciarli andare via.Questa era forse la più acuta delle diverse fitte che laceravano il cuore dellasposina in ansia (p. 630)

Di fronte al silenzio che gravita intorno alla figura di Giovannino, la famiglia

Marocco, Annita compresa, si affida a false speranze, in cui sono sempre le

attese a farla da padrone: ad esempio, nell'apprendere che il ragazzo è disperso,

essi rispondono attraverso una blanda giustificazione che attinge ancora al loro

esiguo immaginario: «La Russia è grande» (p. 699). Sarà Clemente, tornato

proprio dalla Siberia a smascherare il vero volto di un paese tanto remoto.

116

Com'era già accaduto per l'Africa e per l'America, la Storia entra nella

narrazione e recide ogni speranza collegata all'estero.

«Voialtri imboscati», esclamava, «che volete sapere adesso?! Dovevate trovarvicivoi, sul posto!» Oppure, alle insistenze, buttava là, sghignazzando, qualchespezzone di notizia: «Lo volete sapere, che ho visto? Ho visto i morti a centinaia,di qui al soffitto, come cataste di travi, duri e senza gli occhi!...» «Dove?» «Dove!In Siberia! Là ci stanno i corvi... e i lupi...» « Ho visto i lupi correre all'odore deiconvogli...» «Ho visto i CANNIBALI BIANCHI!» (p. 702)

Nell'apprendere dunque che «La Russia è la tomba della gioventù d'Italia» (p.

634), anche l'ultimo mito collegato all'estero viene smascherato. Questa tendenza

degradante nei confronti dei paesi stranieri può essere spiegata a partire dalla

materia narrata. Il conflitto mondiale qui indagato, ha avuto come effetto quello

di annullare i confini nazionali e rendere la terra un unico blocco di violenza, in

cui ogni paese, sia vittima o carnefice, partecipa al progetto di distruzione.

L'altrove dunque, sebbene sopravviva ancora nei miti creati dall'uomo, si arrende

di fronte all'incessante passo della Storia e nemmeno l'immaginazione più vivida

riesce a vestire quelle terre lontane con abiti favolosi in grado di occultarne le

brutture. Ogni tentativo di finzione operato in questa direzione, è destinato a

essere smascherato. Per questo, il motivo dell'estero ci sembra un perfetto campo

di battaglia per quella dialettica tra storia e finzione che caratterizza in maniera

strutturale tutto il romanzo. In esso, è possibile riconoscere «il paese di

Pitchipoi» citato all'inizio del capitolo …...1943. Pitchipoi è il nome

immaginario del luogo che gli ebrei francesi pensavano di raggiungere. Si tratta

di una parola nata tra i bambini trattenuti nel campo di transito di Drancy,

inventata per colmare un vuoto di conoscenza. Essa, in origine, non aveva alcun

referente concreto, ma serviva per indicare una terra ad Est, lontana, remota,

forse persino inesistente.

On parlait souvent d'un endroit où nous irions peut-être après Drancy, quis'appelait Pitchipoï. Peut-être y retrouverions-nou nos parents?C'était un lieu

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mystérieux où certains étaint dejà partis, mais dont personne ne semblait avoir denouvelles. C'était à la fois la promesse de la liberté et l'angoisse de l'inconnu.Pitchipoï revenait souvent dant la conversation. On était toujours un peu enpartance pour Pitchipoï153.

Ma la Storia non lascia spazio all'immaginazione e anche il potere evocativo di

quel nome è costretto a sgonfiarsi di fronte alla cruda verità dei fatti: ad

attenderli non c'è alcun paese di Pitchipoi, ma solo il campo di concentramento

di Auschwitz-Birchenau. Allo stesso modo l'Africa, l'America e la Russia, finché

abitano l'immaginario dei personaggi, non sono altro che l'incarnazione di un

nuovo misterioso e affascinante paese di Pitchipoi. Ma i loro nomi che

rimbalzano di bocca in bocca, nascondono invece un baratro di morte e violenza

che solo il tempo riesce a svelare.

5. 2 Ida, la donna dei sogni

Se il motivo dell'altrove ha abbandonato i paesi esteri, non per questo si

può dire che sia sparito dall'ordito narrativo dell'opera. A prendere il posto delle

terre straniere, ci pensano infatti i sogni, i quali, nel proporre una dimensione

altra, lontana dalla realtà, riescono a trasfigurare gli eventi della vita e a svelare

il senso ultimo delle cose del mondo. Il personaggio che, in quest'ottica, ha il

compito di veicolare il materiale onirico, è Ida. Attraverso i suoi sogni infatti,

rivivono spesso quelle isotopie tanto care all'estero, che rimodulano in maniera

sapienziale immagini già note.

In questo periodo, le mattine, al risveglio, Ida raramente ricordava di aver sognato.Ma i pochi sogni che ricordava erano lieti, così che le tornava più amaro ritrovarsidestandosi, nel suo presente stato di miseria. (p. 478)

La felicità torna dunque ad animare questa nuova dimensione, richiamando alla

mente la funzione che, nei romanzi precedenti, aveva già assunto l'altrove. Di

153 J.C. Moscovici, Voyage à Pitchipoï, L'école des loisirs, Paris, 1995, pp. 85-86.

118

conseguenza i sogni ingaggiano con la realtà un confronto di tipo antitetico e

dialettico. Di fronte alle ingiustizie del mondo, la donna trova una facile via di

fuga. La notte, ad esempio, le dà la possibilità di rivivere un idillio familiare che

la morte ha reso impossibile:

Una notte, le pare di risentire il grido dei pescatori già udito nell'infanzia, quandostava dai suoi nonni al tempo d'estate: FAA-LEIU!! E difatti, si trova alla presenzadi un mare turchino, dentro una stanza quieta e luminosa, in compagnia di tutta lasua famiglia, i vivi e i morti. Alfio la rinfresca agitando un ventaglio colorato, eUseppe dalla riva ride a vedere i pesciolini che saltellano fino sopra l'orlodell'acqua... (p. 478)

Viene qui riproposta l'infanzia come paese felice, in un logica che ricorda da

vicino l'operazione effettuata dal narratore de L'isola di Arturo. A differenza però

del recupero volontario che l'Arturo adulto opera in favore dei propri ricordi, qui

il processo avviene in maniera inconsapevole attraverso le correnti sotterranee

dell'inconscio. E ancora:

Poi si ritrova in una città bellissima, come non ne ha mai viste. Anche stavolta, èpresente un grandissimo mare azzurro, di là da immense terrazze lungomare su cuipasseggia una folla in vacanza, lieta e placida. Tutte le finestre della città hannotende variopinte, che sbattono appena appena all'aria fresca. E di qua dalleterrazze, fra gelsomini e palme, si estendono dei caffè all'aperto, dove la gente,riposando in festa sotto ombrelloni colorati, ammira un violinista fantastico. Oraquesto violinista è suo padre, alto e regale su un palco d'orchestra dalla balaustradecorata: è anche un cantante famoso, e suona e canta Celeste Aida forma divina...(p. 478)

L'atipicità del luogo non lascia dubbi sulla sua valenza simbolica, e persino nella

folla che anima uno spazio tanto originale si riconosce un tratto caratteristico

dell'estero morantiano, già sperimentato in Menzogna e sortilegio. Inoltre le note

della canzone che risuonano per l'aria, sono un'eco del proprio passato mitico:

Celeste Aida forma divina sono i versi di una melodia che il padre cantava

davvero alla piccola Ida. In questi canti dal «suono quasi orientale» (p. 285) si

concentra tutta la gioia vissuta nella propria infanzia, epoca in cui Nora e

119

Giuseppe erano per la bambina dei sovrani assoluti. Non a caso nel corso della

narrazione, quando si fa riferimento ai suoi genitori, viene utilizzato un lessico

specifico dal sapore orientale. «Mia stella d'Oriente» (p. 282) è, ad esempio, il

richiamo che Giuseppe utilizza per apostrofare Nora, la quale, a sua volta, si

presenta pettinata «alla maniera delle geishe» (p. 317). Persino il dialetto

calabrese, alle orecchie della piccola Ida, appare come uno scambio di battute

dal sapore antico, in cui si mischiano «suoni greci e arabi» (p. 301). È in questo

sostrato orientale che si riconosce la vera eredità ricevuta dai suoi genitori: un

seme fantastico che, in lei, sboccia attraverso visioni e sogni spesso profetici. In

effetti, la tendenza alla preveggenza viene presentata come diretta conseguenza

del male che la attanaglia, prendendo in prestito qualche storia dell'«antica

cultura popolare» (p.29)

Lo spirito invasore, che sceglieva più spesso le donne, poteva trasmettere anchepoteri insoliti, come il dono di curare i mali o quello profetico. (p. 288)

Quella che qui appare come un'ipotesi, una fandonia tipica delle cronache di

paese, trova però la sua piena conferma in un sogno che annuncia alla donna il

concepimento di Useppe. Ida infatti, ignara di avere un bimbo in grembo, si

ritrova a dover fare i conti con un sogno più insistente di altri, che riaffiora ogni

notte alle soglie della coscienza:

Era trascorsa forse una settimana, quando la serie delle notti senza sogni le siinterruppe, e sognò. Le pareva di rincasare portando, per furto o per isbaglio, alposto di una delle sue sporte, un canestro del tipo usato in Calabria per lavendemmia. Dal canestro usciva una pianta verde, che in un attimo si ramificavanella stanza, e fuori della casa, per tutti i muri del cortile. E saliva diventando unaforesta di piantagioni favolose, fogliami, buganvillee, campanule gigantesche daicolori orientali e tropicali, uve e arance grosse come meloni. Frammezzo, cigiocavano dei piccoli animali selvatici, simili a scoiattoli, tutti con gli occhiettiazzurri, i quali si affacciavano a curiosare allegramente, e ogni tanto saltavanonell'aria, quasi avessero le ali. Intanto una folla di gente s'era messa a guardare datutte le finestre, mentre lei stessa invece era assente, chi sa dove; però si sapevache era lei, l'imputata (p. 353)

120

Il senso di colpa per questa gravidanza non voluta, si intreccia con le pulsioni

vitali della nuova creatura, il cui slancio euforico sembra già anticipare la

comunione festosa del piccolo con il mondo intero. I toni visionari di questa

scena ricordano l'estasi altrettanto vivida, vissuta da Elena nel racconto La

nonna. Ella infatti, nel momento in cui scopre di essere incinta, si ritrova ad

avere occhi nuovi in grado di penetrare la superficie delle cose e carpire

l'essenza vitale del mondo. Al di là dei rimandi intertestuali, quello che ci

interessa sottolineare in questa sede è che, nonostante la chiarezza del sogno, Ida

non comprende il suo vero significato. Dovranno passare «diverse settimane» (p.

85) prima che la donna si renda conto di essere in dolce attesa. Ciò costituisce

una prova del fatto che, sebbene sia dotata del dono della preveggenza, Ida non

sembra avere gli strumenti cognitivi adatti alla comprensione delle proprie

visioni. Ignara del valore della propria attività onirica, si ritrova esclusa dal

senso delle cose che il suo inconscio, in maniera automatica, continua ad

indagare e a svelare. Questo particolare tipo di estraneità, viene annotato con

sapienza dall'io narrante, che infatti, precisa:

Nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c'era una dolcezza passiva, di una barbarieprofondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione.Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne eraesclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l'idiozia misteriosa deglianimali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili«sanno» il passato e il futuro di ogni destino. Chiamerei quel senso – che in loronome è comune, e confuso nei altri sensi corporei – il senso del sacro:intendendosi, da loro, per sacro, il potere universale che può mangiarli eannientarli, per la loro colpa di essere nati (p.278)

La comprensione di tale verità, le è comunque negata. Ida infatti è solo una

testimone inconsapevole, una veggente ignorante che offre il proprio corpo e la

propria mente alle visioni. La sonnolenza che si appropria delle sue membra e ne

annubila la coscienza, è il simbolo di questa alienazione rispetto al vero. Di

conseguenza, più la sua ragione vacilla di fronte all'insensatezza della guerra, più

121

il torpore si fa invasivo e tiranno.

Faceva un tempo splendido, già estivo, ma lei sentiva una gran freddo, e unasonnolenza continua che ogni tanto la ributtava di prepotenza sul letto. In queisopori, essa rivedeva, in un al di là remotissimo, quell'altra Ida che fino a ieritrottava e galoppava per le strade come un corridore, e s'acquattava, e rubava... «A'mà! Pecché dormi tanto?!» (p. 659)

Il richiamo di Useppe, rivela l'appartenenza della madre alla dimensione onirica,

in cui si manifestano quei processi dissociativi che, secondo la Rosa, permettono

di raggiungere un vero e proprio «oggettivismo delirante»154. Porcelli, ad

esempio, sostiene che per Ida, «l'unica forma di conoscenza […] è

l'allucinazione»155. L'ingenuità dei suoi occhi è in realtà lo specchio ideale per

riflettere il senso ultimo della Storia, la quale disegna per gli uomini un destino

di morte e distruzione. È in questa chiave dunque che bisogna leggere, non solo i

suoi sogni, ma anche i miraggi che la colgono durante le ore diurne. Il suo

sguardo trasfigura ogni dettaglio della realtà, come se potesse attingere in

maniera diretta al significato oscuro che si nasconde dietro le apparenze.

Lungo la via di casa, essa non vedeva più altro che questo bianco liquido eabbacinante per tutta l'aria; e si affrettò, inquietamente sospettosa d'esser caduta inuna sorta di pianeta esotico, per quanto familiare ai suoi passi (p. 658)

L'altrove si carica così di una nuova valenza conoscitiva. Solo attraverso questa

dimensione remota, dai contorni indefiniti, è possibile interpretare in maniera

corretta le dinamiche che animano gli eventi della vita. Un procedimento

analogico cui, ovviamente, Ida dà avvio in maniera inconscia.

Ma quei centri di lusso – oltre che feudo, oramai, dei Comandi tedeschi – a lei simostravano da sempre situati in una lontananza straniera e irraggiungibile, non

154 G. Rosa, Elsa Morante. cit., p. 134.155 S. Porcelli, Lo scandalo della storia e il romanzo storico: Elsa Morante, in D.

Montini (a cura di), Asimmetrie letterarie. Studi in onore di R.M. Colombo, EdizioniNuova Cultura, Roma, 2013, p. 120.

122

meno di Persepoli o Chicago (p. 647)

O ancora:

E così, Napoli era rimasta nella sua memoria come una Bagdad leggendaria, piùgrandiosa assai di Roma. Ora, a quella sua visione unica e ineguagliabile sisostituiva una distesa rovinosa, grande come l'Asia, e calcinata di sangue: doveanche i troni dei re e delle regine e i miti delle città-madri studiati a scuola, conaltre sue fantasie, venivano travolti (pp. 447-448)

Le potenzialità gnoseologiche del motivo preso in esame, si incarnano in questo

personaggio allucinato, eppure, al tempo stesso, rifuggono dalle soglie della sua

coscienza, così da rimanere confinate in un limbo conoscitivo che potrà essere

indagato solo dal lettore, a posteriori. Ben presto infatti, Ida rimane vittima della

propria «doppia vita» (p. 350) e assiste inerme al crollo disforico dei propri

sogni. Il punto di svolta si ha nel momento in cui gli orrori della guerra si

intrufolano con violenza nella sua mente, oscurando le tinte entusiastiche di una

dimensione che, in passato, era stata per lei conforto e luce.

Quella notte, dopo tanto che non sognava, ebbe un sogno. I suoi sogni, per solito,erano colorati e vividi, ma questo invece era in bianco e nero, e sfocato come unavecchia foto. Le pareva di trovarsi all'esterno di un recinto, qualcosa come unterreno di rifiuti in abbandono. Altro non c'era che delle scarpe ammucchiate,malridotte e polverose che parevano smesse da anni. E lei, là sola, andavacercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima,quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di unverdetto definitivo (p. 658)

Il mucchio di scarpe protagonista di questo delirio notturno è un'ovvia

anticipazione delle foto stampate sui giornali all'indomani della guerra. Si tratta

di un'immagine che ben riassume l'esperienza della deportazione e che, di

conseguenza, non può che essere in bianco e nero. L'assenza di colore palesa il

furto dello slancio vitale operato dalla Storia, il quale viene registrato in maniera

quasi automatica dall'inconscio della donna. Senza volerlo, Ida si ritrova a

«raccontare una lunga vicenda irrimediabile» (p. 658) e, in maniera graduale,

123

perderà quel poco di lucidità che le permetteva di svolgere con dignità il proprio

lavoro. Complice di questa demenza, è la morte di Nino, la quale consacra

definitivamente Ida ad un universo in cui domina, secondo la definizione di

Rosa, una «visionarietà delirante»156. La realtà mostra il suo volto grottesco e si

deforma nell'inseguire i moti d'animo della donna.

Ecco, dopo la scena dell'obitorio, la seconda sensazione semicosciente che leresterà di quella mattina: lei non poteva urlare, era diventata muta, e transitava percerte strade irriconoscibili, dove la luce era uno zenith accecante, che dava a tuttigli oggetti un rilievo osceno. Le foto esposte nelle edicole ridevano oscenamente,la folla si contorceva, e le statue numerose in cima alla basilica si avventavanoverso il basso in atteggiamenti mostruosi. Quelle statue erano le stesse ch'essaaveva vedute nei giorni che era nato Useppe, dalla finestra della levatriceEzechiele: però oggi la basilica s'era fatta storta, e così pure tutte le altre case ecostruzioni all'intorno, come da specchi convessi. Le strade si deformavano e siallargavano per ogni parte, fino a una dimensione smisurata contro natura (pp.802-803).

La dimensione spazio-temporale si corrobora e, con essa, anche il rapporto con

l'altrove viene compromesso. Urla senza fine abitano i suoi sogni e le visioni

diurne si concretizzano in veri e propri deliri. I fantasmi che la spingono a

vagare per le stanze alla ricerca di Nino, ne deturpano l'aspetto e le abitudini.

Persino i suoi alunni si accorgono di questo cambiamento, giudicandola «strana

e rimbambita» (p. 813), «spaesata e impacciata» (p. 816). Quelle poche volte in

cui l'estero torna ad abitare le sue notti, lo fa con lo scopo di segnalare la propria

distanza.

Tale era la sua smania di rintracciare Ninnuzzu che essa sperava, almeno,d'incontralo in sogno. Ma nei suoi sogni, invece, Ninnuzzu non si faceva maivedere; anzi, il più delle volte, ogni forma vivente ne era esclusa. Le si apredavanti, a esempio, una smisurata pianura di sabbia, forse un antico regno interratodell'Egitto o delle Indie, tutto piantato all'infinito, senza segno d'orizzonte, di lastredi pietra perpendicolari, recanti delle iscrizioni esotiche indecifrabili. Pare chequelle iscrizioni spieghino qualcosa d'importante (o fondamentale) per chi saleggere. Ma l'unica persona presente è lei stessa, che non sa leggere (p. 815)

156 G. Rosa, Elsa Morante. cit., p. 135.

124

Che Ida fosse esclusa dalle rivelazioni celate nei suoi stessi sogni, non era certo

un mistero. Eppure, la nuova forma assunta dalla topografia onirica rivela uno

strappo viscerale intercorso tra lei e il mondo. Il senso del sacro che abitava in

maniera inconsapevole dentro il suo corpo, aveva da sempre trovato terreno

fertile nei tentativi della donna di avere il proprio posto sulla terra. Gli eventi

della vita, per quanto dolorosi, venivano accettati con la sapienziale dolcezza

tipica degli animali. Per colpa della Storia invece, l'ordine del creato viene

stravolto. Il terrore generato dalla guerra, gli abomini ideati dall'uomo stesso,

hanno permesso al male più insensato di vincere. Ogni labile equilibrio è presto

rotto. Ormai è «l'intero mondo degli altri» a fare paura, senza possibilità alcuna

di felicità o redenzione. Di fronte a tanta insensatezza, è lei stessa ad allontanarsi

del tutto, negandosi persino la possibilità di comprendere più a fondo quello che

succede:

Ida a quel colpo, magari senza accorgersene, s'era sentita offesa carnalmentedall'intero mondo degli altri: quasi che costoro avessero buttato Useppe nell'ultimazona dei paria. E in questa zona, lei stessa, con lui, scelse di stare definitivamente:il suo vero posto era là. Forse, di questa sua scelta, lei non se ne accorse nemmeno;ma ormai l'ultima infanzia della terra per lei significava Useppe (pp. 814-815)

Ancora una volta, è l'inconsapevolezza della donna a guidare gli eventi. Nella

sua assoluta ignoranza, Ida opera una scelta: rinuncia non solo alla realtà, ma

anche al conforto dei sogni. Il suo altrove, l'«ultima infanzia della terra» per cui

valga la pena vivere, è Useppe. È il suo viscerale istinto materno a tenerla in

vita, e il figlio è l'unico orizzonte di felicità per cui valga la pena continuare a

sperare e a lottare. Non a caso, l'ultimo sogno che ella compie prima di

apprendere della morte del figlio, la vede in procinto di partire verso un luogo

magico, proprio in compagnia del bambino:

Si trova in compagnia di un pischelluccio, davanti alla cancellata di un grandemolo. È in partenza una grande nave solitaria, di là dalla quale i stende un oceano

125

aperto assolutamente calmo e fresco, dal colore azzurro carico del mattino. Aguardia della cancellata c'è un uomo in divisa, molto autoritario, e coi tratti delcarceriere. Il pischello potrebbe essere Useppe, a anche non essere lui: però dicerto è qualcuno che somiglia a Useppe. Essa lo tiene per mano, incarta davantialla cancellata. Sono due poveri, in abiti pezzenti, e il guardiano li respinge perchénon hanno il biglietto. Ma allora il pischello con la sua manuccia sporca eimpacciata si fruga in tasca, e ne cava un minuscolo oggetto d'oro, del quale essanon saprebbe dire che cosa sia: forse una piccola chiave, o un ciottolo, o unaconchiglia. Dev'essere, a ogni modo, un lasciapassare autentico, perché ilguardiano, adocchiatolo appena nella mano del pischelluccio, senz'altro, perquanto di malavoglia, apre il battente della cancellata. E allora il pischello e lei,contenti salgono insieme sulla nave (p. 1007)

Quella nave – chiamata più volte solo «navi» - che da sempre occupa un posto

di rilievo nell'immaginario del piccolo Useppe, appare qui come prefigurazione

dell'imminente destino di morte. Eppure, nonostante si tratti di un presagio

funebre, i toni sono tutt'altro che cupi. Il merito non è di Ida, la quale, come

abbiamo già visto, non è in grado di avere una relazione sana con la terra. Il

segreto sta nel pischello, il quale stringe tra le mani un oggettino d'oro, un

«lasciapassare autentico» per l'altra dimensione. È lui a tenere tra le dita il senso

di tutto, la chiave che schiude le porte di un altrove mitico e luminoso.

Quell'Useppe, che potrebbe anche non essere Useppe, è il simbolo di tutti i

«ragazzini» che grazie alla loro comunione festosa con il mondo, sono in grado

di portare l'altrove all'interno della realtà e, quando è il momento, abbandonarsi

alla morte non perché non amino la vita, ma perché, semplicemente, «l'inferno

mica ci sta!» (p. 968).

5.3. Useppe, nuova incarnazione dell'altrove

La degradazione dell'Estero e la conturbante metamorfosi della

dimensione onirica, sembrano segnare definitivamente il declino dell'altrove per

mano della Storia. Eppure, mentre si assiste al lento e minaccioso avanzare di

questo oscuro meccanismo foriero di morte e distruzione, c'è un personaggio

126

che, fin dalla prima apparizione, si distingue per la sua evidente portata

rivoluzionaria: Useppe. La sua venuta al mondo è anticipata da un

componimento dai toni fiabeschi, il cui scopo è quello di inondare di gioia un

evento che in realtà appare marchiato dallo scandalo dello stupro. I versi posti

all'inizio del capitolo …..1941, annunciano la nascita «di un erede al trono», cui

accorrono «trecento araldi in festa coi nastri al vento» (p.347). «Da regni e

principati si muovono le carovane, recando in dono i tesori dei quaranta

stemmi.», persino «cammelli, asini e capre piegano i ginocchi» e su tutte le

bocche risuona «un solo canto!» (p. 347). Quella che potrebbe sembrare una

parodia della realtà, in cui una famiglia di straccioni viene innalzata al rango

regale, è in verità un'indicazione importante circa la funzione di Useppe

all'interno del romanzo. Egli si configura fin da subito come centro luminoso cui

convergono tutte le vicende ivi narrate e, sebbene il romanzo si caratterizzi per

una spiccata struttura corale, il piccolo ha un posto di rilievo nel sistema dei

personaggi. Egli è il principe del mondo, perché in assoluta comunione con esso.

Un'intesa festosa che lo fa apparire straniero in una terra dilaniata invece dalla

Storia. Di lui, si dice ad esempio «che non pareva nato dalla terra, ma dal mare»

(p. 366) e, ancora, per descrivere il suo aspetto, si fa ricorso a immagini

esotiche:

La sua piccolezza autentica da pigmeo (p. 380).

I tratti puri nella loro minuzia, ricordavano certe piccole sculture asiatiche (p.394).

Così vestito, somigliava a un indiano (p. 395).

Ida lo vide seduto come un emigrante sopra un sacchetto di sabbia (p. 585).

E poi d'un tratto si scatenava in allegrie turbolente e disperate: da sembrare unpiccolo africano trascinato via dalla sua foresta nella stiva di una nave negriera(pp. 780-781).

Useppe viene spesso descritto come un forestiero e la riproposta di queste figure

127

avviene in modo puntuale, cadenzato, come se il narratore volesse sottolineare di

continuo l'origine altra di questo bambino. Non importa se appare come un

«selvaggio» (p. 793) o come uno «gnomo dei cartoni animati» (p. 625), ciò che

conta è la sua totale estraneità alla Storia, la sua origine sconosciuta e remota

che, pur modificandosi nel corso della narrazione, mantiene intatta la propria

distanza dai fatti. Eppure non sono solo le coordinate spaziali a tenere lontano

Useppe dalla Storia: egli è anche fuori dal tempo ed è per questo che viene

paragonato al Panda minore dell'Asia, il quale vive «sugli alberi in boschi di

montagna irraggiungibili» e trascorre «millennii a pensare sul proprio albero» (p.

587). In realtà, al momento di venire giù dal suo rifugio, egli si accorge di aver

innescato una sfasatura temporale per cui gli anni passati sulla terra, non

corrispondono invece ai minuti da lui trascorsi a pensare. Si tratta di un'analogia

efficace poiché Useppe genera in continuazione queste sfasature spazio-

temporali di cui egli è il regista assoluto. Il merito va ai suoi occhi, la cui

«diversità favolosa» (p. 833) trasfigura la quotidianità in un'avventura sempre

nuova.

Si sarebbe detto, invero, alle sue risa, al continuo illuminarsi della sua faccetta, chelui non vedeva le cose ristrette dentro i loro aspetti usuali; ma quali immaginimultiple di altre cose varianti all'infinito (p. 394)

Si tratta di un tempo epifanico, in cui il potere evocativo dell'altrove viene ribadito e

riproposto senza più censure. È la comunione festosa con il mondo che permette a

Useppe di scoprire questa dimensione favolosa all'interno della sua stessa realtà.

Egli infatti, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non è estraneo alla terra, di

cui invece è principe e sovrano. Egli è estraneo alla Storia, alla sua ostentata irrealtà,

cui si oppone invece la vita nella sua naturale pienezza. Ecco perché, in relazione

alle correnti mortifere degli eventi, è lui la vera incarnazione dell'altrove.

Nelle sterminate esplorazioni che faceva, camminando a quattro zampe, intornoagli Urali, e alle Amazonie, e agli Arcipelaghi Australiani, che erano per lui i

128

mobili di casa, a volte non si sapeva più dove fosse. (p. 395)

Oppure:

Quel mondo e quella popolazione, poveri, affannosi e deformati dalla smorfia dellaguerra, si spiegavano agli occhi di Giuseppe come una multipla e unicafantasmagoria, di cui nemmeno una descrizione dell'Alhambra di Granata, o degliorti di Shiraz, né forse persino del Paradiso Terrestre potrebbe rendere unasomiglianza. (p. 397)

E ancora, ad esempio, la gita fuori porta insieme a Nino diventa per il piccolo un

viaggio dentro «una sonda spaziale lanciata attraverso i pianeti» (p. 722), la

visita dal dottore gli appare come una «cerimonia esotica» (p. 720), l'arrivo di un

paio di ragazzini nei pressi della tenda d'alberi, diventa un attacco dei pirati in

piena regola. Complice di questa fantasmagoria continua, è Bella. Anche lei,

come il suo padroncino, ha un'origine lontana nel tempo e nello spazio, e

conserva nel proprio corpo la memoria di ogni storia passata:

Smaniava invece, e non poco, per doversi adattare dentro il minimo spazio di unao due stanzette, lei che era stata avvezza ai viaggi, alle gite e alla vita di strada, eprima ancora (nella sua esperienza atavica) ai pascoli immensi dell'Asia (p. 835)

Bella possedeva una specie di memoria matta, errante e millenaria, che d'un trattole faceva fiutare in un fiume l'Oceano Indiano, e la maremma in una pozzangheradi pioggia. Era capace di riannusare un carro tartaro in una bicicletta e una navefenicia in un tranvai (p. 851)

Bella si sentiva tornata ai suoi primordi paterni: quando dal fondo della steppaverso il crepuscolo si aspettavano le orde dei lupi! (p. 1002)

Proprio come Useppe, ella inventa storie e stravede per il mondo, dal momento

che dentro di sé non c'è spazio alcuno per il male. Interessante a questo

proposito la sequenza in cui, cane e ragazzino si impegnano a lodare, uno dopo

l'altro, le persone a loro più care. L'innocenza dei loro sguardi riesce a percepire

la bellezza che accomuna tutti gli uomini e in nome di questa qualità, risulta più

facile riconoscersi fratelli:

129

Useppe rise soddisfatto, perché invero su questo argomento delle bellezzel'accordo fra la pastora e lui era completo. Giganti o nani, straccioni o paìni,decrepitudine o gioventù, per lui non faceva differenza. E né gli storti, né i gobbi,né i panzoni, né le scòrfane, per lui non erano meno carini di Settebellezze, soloche fossero tutti amici pari e sorridessero (lui, se avesse dovuto inventare un cielo,avrebbe fabbricato un locale sul tipo «stanzone dei Mille») (p. 910)

Il piccolo ha una naturale inclinazione alla concordia hominum, e, in questa

comunione dai connotati divini, anche gli animali compartecipano di un tale

concerto luminoso e armonico. È questo il nucleo generativo delle poesie che il

piccolo Useppe compone, basate tutte sul «COME». A notare il senso profondo

che si nasconde dietro questi esigui componimenti, è Davide Segre, che in nome

della sua natura di letterato, si lancia con trasporto nell'interpretazione del testo:

«Tutte le tue poesie», disse pensieroso, ragionando, «sono centrate su un COME...e questi COME, uniti in un coro, vogliono dire: DIO! L'unico Dio reale siriconosce attraverso le somiglianze di tutte le cose. Dovunque si guardi, si scopreun'unica impronta comune. E così, di somiglianza in somiglianza, lungo lascalinata si risale a un solo. Per una mente religiosa, l'universo rappresenta unprocesso dove, di testimonianza in testimonianza, tutte concordi, si arriva al puntodella verità... E i testimoni più certi, si capisce, non sono i chierici, ma gli atei. Nécon le istituzioni, né con la metafisica, non si testimonia. Dio, ossia la natura...Per una mente religiosa», concluse, con gravità, «non c'è oggetto, foss'anche unverme o una paglia, che non renda l'identica testimonianza di DIO!» (pp. 870)

La percezione del divino è l'ultimo grande segno che smaschera Useppe e lo

consacra in maniera definitiva a una dimensione altra. Questa sua confidenza

con il cielo permette a Davide di stabilire un'inaspettata analogia tra Useppe e

Dante. Per acquietare il piccolo infatti, Davide cerca nella sua memoria delle

poesie che siano simili, nella struttura e nel significato, a quelle pensate dal

bambino. Gli unici versi che riaffiorano alla sua memoria, sono degli stralci del

Paradiso e, più precisamente, delle terzine tratte dal Canto XXIII e dal Canto

XXX. La presenza di Dante come modello di paragone, non ci sembra poi così

azzardata, dal momento che il piccolo Useppe, è destinato, a sua volta, a una

130

vera e propria visio Dei all'interno della «tenda d'alberi» (p. 853). Non a caso,

questo spazio dai contorni mistici, viene definito «luogo maraviglioso» (p. 850):

l'aggettivo dantesco mette in risalto l'itinerarium mentis in Deum che Useppe si

ritrova a compiere. Non stupirà a questo punto della trattazione, scoprire che il

luogo in cui il bambino riconosce Dio, possiede tutti i tratti tipici dell'altrove: è

esotico, lontano, enorme e la pace regna sovrana:

Pareva proprio di trovarsi in una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ognialtra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio; e che fuori all'intorno sistendesse un enorme spazio, senz'altro rumore che il movimento quieto dell'acquae dell'aria (p. 852)

È proprio in questo luogo, in questa zona posta oltre i «confini soliti» (p. 851),

che Useppe si rintana per pensare, per comporre poesie e per osservare l'armonia

del creato. Il Panda dell'Asia minore ha trovato il proprio angolo di paradiso,

lontano dal mondo, in cui il tempo scorre a una velocità diversa. Un equilibrio

naturale che suggerisce al piccolo la verità confessata in maniera quasi

inconsapevole a Scimò:

Così che, a capriccio e senza averci pensato, gli soffiò nell'orecchio, accennandointorno con la mano, alla tenda d'alberi:«Qua ci sta Dio» (p. 891)

Una scoperta che lo rende davvero un novello Dante, un anomalo testimone che,

con un'innocenza sapienziale, riesce a puntare il dito verso il divino. Il sacrificio

supremo cui il piccolo va incontro, a nostro avviso, non svilisce la sua funzione

di rivoluzionario. Egli è l'analfabeta cui è dedicato il romanzo, ma, al tempo

stesso, l'eroe in grado di svelare l'enigma che sorregge il mondo. Egli è la

pulsione vitale che lotta contro la degradazione della storia, è quello stato di

natura che tutti vorremmo vivere. Come sostiene Zanardo:

Abbiamo insomma la figura del Poeta – di Useppe – come infante vicino allanatura, innocente, non contaminato dall’Irrealtà, unico testimone, invece, dellaRealtà, che con la propria testimonianza – ovvero la propria morte innocente – può

131

essere tangibile scandalo che svela il volto del drago dell’irrealtà157.

L'unico altrove possibile è dunque una realtà priva delle storture della Storia,

priva delle ingiustizie sociali, priva del drago mostruoso che divora ogni essere

vivente tra le proprie fauci. Useppe è l'unico personaggio in grado di mostrare a

tutti, l'evidenza di un discorso tanto ribelle, disarmante, eppure scandalosamente

vero.

157 M. Zanardo, «Per amore degli uomini, e a gloria di Dio» Autocommenti a La Storia,in «Quaderni della Biblioteca Nazionale di Roma»,, n. 17, 2013, p. 99.

132

CAPITOLO VI

«ANDA NIÑO ANDA»

IL VIAGGIO DI MANUEL VERSO L'ALTROVE

6.1 Manuel, «il pedone del limbo»

L'ultimo romanzo scritto da Elsa Morante occupa un posto di rilievo

all'interno delle nostre ricerche. Per pagine e pagine infatti, abbiamo tentato di

rintracciare l'altrove e le sue valenze simboliche, riscontrando sempre una

tendenza tanto forte quanto vana in direzione dell'estero. In Aracoeli, per la

prima volta, il protagonista fa le valigie e parte davvero per questo Estero tanto

vagheggiato. Manuel è quell'eroe che, in maniera inaspettata, si fa carico di tutte

le attese sepolte dentro gli animi di Anna, Edoardo, Arturo, e Nino. Eppure, a

prima vista, non c'è niente in lui che sembri legittimare questo ruolo. Manuel

non ha niente di eroico e le stesse descrizioni che egli fornisce di sé, collassano

in una voragine vituperante sempre più tetra. Ecco, ad esempio, il ritratto che

egli stesso fa del proprio corpo:

Di statura mediocre, di gambe troppo corte rispetto al busto, il mio aspettoriunisce, mal combinate, la gracilità e la corpulenza. Dal torace, folto di pelamenero, lo stomaco e il ventre con la loro gonfiezza sedentaria sporgono sulle gambesottili e pesano sulle parte genitali (gli «attributi della virilità») donde io subitoallontano la mia vista umiliata. I piedi, alquanto sudici, sono larghi, malformatinelle dita. La testa riccioluta e piuttosto grossa si attacca rozzamente al collospesso e corto, unito in un sol pezzo con la nuca bovina. Le spalle sono larghe dimisura, ma fiacche e cascanti. E le braccia, smagrite e di povera muscolatura, sifanno addirittura macilente giù dal gomito fino al polso158 (pp. 1170-1171)

L'ostentazione con la quale il narratore passa in rassegna tutti i dettagli della

propria immagine, può esemplificare l'atteggiamento che egli assume verso di sé

158 Per le citazioni e i rimandi di questo capitolo, si fa riferimento a E. Morante,Aracoeli, in Ead., Opere, I, cit..

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durante tutto il romanzo. Più volte la voce narrante indugia su particolari

aberranti, e si ferma a descrivere con un'ossessione maniacale i propri difetti, le

proprie mancanze. Eppure, la definizione di «Narciso canuto» svela la marca

caratteristica del nuovo alibi: a tratteggiare il corso degli eventi è un personaggio

che trova la sua piena affermazione nel lento e vistoso farneticare intorno alla

propria persona. Egli appare condannato a un unica sentenza, quella di essere,

ovunque si sposti, «il centro del mondo […]. Il nodo della croce. L'occhio del

ciclone» (p. 1174). Se volessimo seguire questa parabola narcisistica fino alle

sue estreme conseguenze, ne converremo che tutto ciò che viene descritto nel

corso della narrazione ha come punto generativo lo stesso Manuel. A lui spetta

infatti il compito della cronaca del suo viaggio, che sembra annotata quasi in

diretta; a lui la capacità di fingersi regista così da snocciolare, uno dopo l'altro, i

ricordi di un'intera vita.

Questo però, non ci aiuta ancora a capire perché, tra tutti i personaggi

del repertorio morantiano, sia stato proprio Manuel a dare avvio al fatidico

viaggio verso una terra straniera. I motivi di questa fuga, nemmeno troppo

ponderata, non risiedono esclusivamente nelle spinte contingenti che l'uomo

riceve della propria fantasia. Manuel infatti, può partire per un estero mitico,

lontano nel tempo e nello spazio, perché egli è già distante dall'hic et nunc. La

realtà delle cose del mondo non gli appartiene e la consapevolezza di essere un

«apolide» (p. 1064) lo accompagna in ogni situazione. Ad esempio, egli avverte

le proprie fattezze stonate, sbattere inerti fra i tumulti rivoluzionari (p. 1053),

oppure, in mezzo alla folla, si sente «l'oggetto designato per un linciaggio» (p.

1054), o, in presenza dei nonni, percepisce con chiarezza la sua nuova

condizione di «inferiore», di «escluso» (p. 1419). E ancora, al momento di

giustificare la propria partenza, egli stesso si cimenta in una efficace analogia:

Il mio stato era proprio quello di un animale bastardo, che appena cuccioloportarono via dal suo covo, dentro un sacco, scaricandolo per disfarsene, sulmargine di una carraia. Chi sa come lui sopravvisse; però, qua d'intorno, ha trovato

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solo delle tribù ostili, che lo trattano da intruso e da rabbioso. E allora, portato daisuoi sensi acuti, lui rifà tutto il cammino all'indietro, verso il punto del principio(forse a una agnizione?) (p. 1047)

Qualcuno dunque lo ha trascinato via dalla sua patria e l'ha abbandonato qui, in

una terra straniera in cui tutto è male. In più lo strappo intercorso tra Manuel e il

mondo si concretizza nella malattia agli occhi di cui egli comincia a soffrire fin

da bambino. Quella che potrebbe sembrare una semplice patologia, acuisce la

portata patetica del discorso, e diventa simbolo di una scissione conoscitiva con

la realtà effettiva delle cose.

Sono, dunque, miope e presbite al tempo stesso, e per conseguenza – specie quantoil mio cervello è confuso – gli oggetti comuni mi si tramutano in sagomestravaganti e indecifrabili, che a volte richiamano certi fumetti di fantascienza (p.1060)

La compresenza di miopia e presbitismo, mette in evidenza la mancanza di un

punto di vista adatto a Manuel. Né da vicino, né da lontano, la terra gli mostra il

suo vero volto, e, cosa ancora più importante, è lui stesso a rifuggire questo

confronto. Spesso infatti, nel corso della narrazione, Manuel si rifiuta di

guardare in faccia il mondo, preferendo in sua vece, un'immagine deformata e

distorta, priva di senso.

Ho ripescato gli occhiali nella tasca interna del mio rognoso giaccone d'incerato,ma per il momento rinuncio a servirmene, giudicando che, tanto, non c'è niente davedere (p. 1064)

Non voglio più ascoltare baci schioccanti né dialoghi amorevoli; e ho riposto gliocchiali nella tasca della giacca, così che gli altri passeggeri della corriera mi siriducono a larve informi (p. 1102)

Non si tratta di pigrizia, né di passività. Dietro questa rinuncia, si nasconde una

scelta d'esilio molto forte. Lo dimostra la tendenza di Manuel a sfilare gli

occhiali nel momento in cui la realtà si fa troppo scomoda. Di fronte a un

eccesso di senso, egli si abbandona in maniera volontaria ad un'altra dimensione,

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tutta inventata, in cui nuove e cangianti sagome, gli servono da scudo contro la

verità. Un'operazione, che l'uomo mette in atto fin da bambino. Ne è un valido

esempio, la scena che vede Manuel assistere al gioco di seduzione tra Aracoeli e

l'uomo-gatto.

[Aracoeli] allarga le gambe e poi le rinserra fra piccoli sussulti, a occhi chiusi, e dinuovo le allarga, e l'uomo-gatto s'appressa allo scoglio e ci si aggrappa a mezzo,affacciandosi col volto fra le gambe slargate di lei. A questo punto io, senzadarmene il motivo, mi sono tolti gli occhiali. E di nuovo davanti a me ilfirmamento marino inghiotte ogni figura nelle sue trombe di luce (pp. 1346-1347)

Siamo in presenza di una rinuncia prima di tutto conoscitiva. Non voler guardare

in faccia la realtà, equivale a respingere ogni schema in grado di fornire una

spiegazione del mondo. Non a caso, egli stesso si autodenuncia alla madre,

durante un colloquio fittizio:

«Tu! E dove hai peccato tu povero niño?!»«Dovunque, ho peccato. Nelle intenzioni e nei fini e negli atti ma peggio di tuttonell'intelligenza. L'intelligenza si dà per capire. E a me si è data, ma io non capisconiente. E non ho mai capito e non capirò mai niente» (p. 1428)

A questa mancata comprensione della vita, corrisponde un volontario esilio dalla

realtà. Se infatti il corpo di Manuel è costretto a vagare senza meta, in uno

spazio caotico che non gli appartiene, al contrario, la sua mente tende

continuamente verso un altrove a lui più congeniale. Ancor prima che l'idea di

una reale partenza baleni nella sua testa, egli si orienta verso zone altre, verso

luoghi diversi. Le dimensioni posticce dentro cui egli trova riparo sono i sogni,

le visioni dovute alle droghe, e le proprie fantasie mitomani. In tutti e tre i casi,

più che un reale approdo a un luogo pacificante, Manuel si ritrova vittima dei

propri tentativi, non riuscendo a controllare la profusione di immagini asfittiche

che affollano le sue allucinazioni. A tenere insieme tutte queste esperienze, si

riconosce un unico grido disperato: «TORNAREACASA»:

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Su di me, allora, si precipitò all'assalto quello stesso, primo dèmone che buttavasulle strade gli scampati, i disertori, i fuggiaschi e i reduci: TORNAREACASA. Sepoi la casa ancora esista, o quali meteore ci aspettino all'arrivo, non importadomandarselo, nell'urgenza di quel dèmone possessore: tornare a casa (p. 1431)

Le coordinate spazio-temporali sono per Manuel una ragnatela asfittica, una

trappola, perché egli non appartiene a questi luoghi, così come non appartiene a

questo tempo. La sua estraneità è la premessa necessaria alla partenza per

l'Andalusia. In lui non esiste più alcun legame con il mondo, il suo spirito è già

da un'altra parte. Questa sospensione in un spazio-tempo diverso, è dimostrata

dalla deissi spaziale che caratterizza l'intera narrazione. Il racconto infatti, si

fonda su una data condizione distale del personaggio principale rispetto a

qualsiasi luogo. «Là» è l'avverbio più utilizzato. Il suo uso è talmente serrato da

obbligare il lettore a una verifica delle relazioni tra luoghi e personaggi. Difatti,

la sua funzione locativa si esplica non solo in direzione di quell'altrove tanto

ricercato, ma si applica persino alle realtà presenti, in cui si suppone che il

personaggio abbia una relazione di prossimità con i luoghi descritti:

Io non sono mai stato là dentro a visitarla. E sono più di trent'anni che non rivedoRoma, dove non penso di tornare più (p. 1043)

In questo caso, ad esempio, l'avverbio viene impiegato con lo scopo di indicare

il cimitero di Roma, ma, subito dopo, esso cambia referente:

E oggi, dopo tanti anni di separazione smemorata, è appunto là verso l'Andalusia,ch'io parto a cercarla (p. 1043)

Si tratta di una perpetua oscillazione, in cui l'avverbio rimane sempre lo stesso,

ma lo spazio cui allude cambia a seconda della materia narrata: se prima «là

dentro» (p. 1044) serve ad alludere agli uffici dell'azienda editoriale in cui

Manuel lavora, poco più avanti lo stesso avverbio serve ad indicare una «zona

esclusa dallo spazio» in cui «si avvera […] la resurrezione carnale dei morti» (p.

1048). «Là in quel punto» (p. 1063) c'è El Almendral, e allo stesso tempo, «là

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davanti a me» (p. 1387) può esserci la Quinta della Donna-Cammello. Non per

questo, l'avverbio opposto di prossimità viene cancellato, ma quando appare, la

sua funzione è sempre in rapporto a un altrove di riferimento. Così il «qua» (p.

1053) del Terminal, viene esplicitato per potersi concentrare su un là molto più

interessante, ovvero le piazze delle città in cui imperversa la rivoluzione. O

ancora, esso serve per riunire idealmente i vari spazi della terra, che hanno in

comune una totale estraneità rispetto all'io narrante:

E adesso, qui nell'Andalusia, come a Milano e dovunque altrove, sarebbe tardivo edemenziale aspettarsi altro che indifferenza, per me, da parte dei vivi (p. 1101)

A parte queste fugaci apparizioni, è il «là» a vincere. L'avverbio tanto abusato si

carica infatti di un importante compito: concretizzare la tensione quasi febbrile

di Manuel verso l'altrove, sia che con esso si intenda uno spazio reale del futuro,

sia una dimensione fittizia del passato. Una tensione che, seppur negata, lo

ossessiona più di ogni altra cosa. Valga a mo' di esempio, l'ampia sequenza

dedicata a un «LÀ», tanto importante da essere scritto a stampatello:

Io sono stato sempre una fabbrica enorme di sogni. E se è vero che il nostro tempofinito lineare è in realtà il frammento illusorio di una curva già conchiusa: dove siruota in eterno sullo stesso circolo, senza durata né punto di partenza né direzione;e se poi davvero ogni nostra esperienza minima o massima, è LÀ stampata su quelrullo di pellicola, già filmata da sempre e in proiezione continua; allora io midomando se anche i sogni si iscrivano in quel conto. […] Che cosa sia poi quel LÀfuori dai tempi e dai luoghi, la mia preghiera sarebbe di non averne mai notizia.Tanto, sarà di certo, se arriva a me, una notizia mediocre, conforme al mio spirito.Io la lascio ai serafini, ai cherubini...L'istinto comune indica quel LÀ nel cielo.Io, se fisso il cielo stellato fino in fondo, lo vedo tutto una fornace nera, cheschizza braci e faville; e dove tutte le energie da noi spese nella veglia e nel sonnocontinuano a bruciare, senza mai consumarsi. Là, dentro quella fornace planetariasi sconta la nostra vita. È qua, dalle nostre vite, che l'intero LÀ succhia tuttal'energia per i suoi moti. E allora, io vorrei che venisse il Sabato della paga finale:dove l'intero firmamento si spegne (p. 1407)

Questa inclinazione che vede nell'annullamento degli impulsi vitali l'unica

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possibilità per distruggere non solo se stessi ma anche quel là tanto invasivo, si

inserisce nella parabola regressiva che caratterizza il viaggio di Manuel, il quale

verrà ampiamente analizzata nell'ultimo paragrafo di questo capitolo. Ciò che ci

interessa al momento, è focalizzare la nostra attenzione sul deittico distale il

quale orienta la narrazione verso una dimensione altra, fuori dal tempo e dallo

spazio. Una caratteristica che viene sottolineata più di una volta all'interno del

romanzo e che permette all'io narrante di affermare che «certi dati là, non hanno

corso. Maschio o femmina non significa niente. Là, non si cresce» (p.1193).

Eppure, la funzione di questo avverbio non si esaurisce qui. Esso serve

infatti a palesare l'esclusione definitiva dell'io narrante da qualunque luogo o

situazione. Segnaliamo qui di seguito solo alcune delle occorrenze valide a

dimostrare tale ipotesi:

Usciti dal groppo di nubi gonfie che avvolgevano la terra, m'è apparso, di là dalvetro, un tremolio stellato (p. 1087)

D'apprincipio c'è stato un silenzio; poi, di là dalla porta chiusa, mi ha risposto unostrano grido isterico e sguaiato […] (p. 1097-1098)

E in questa anarchia falotica, di là dalle croci dei giorni, c'è lei che mi aspetta, coisuoi primi baci (p.1100)

Di là dal vetro rigato di pioggia mi si lasciano intravvedere, a tratti, le braccia diun albero protese e sbattute dal vento, sui lati di una strada periferica, forsecampestre (p. 1102)

Di là da un giardino angusto adorno di statuette leziose, si vede una portaverniciata (p. 1117)

Difatti, la morte a me si era promessa come una possibile scalata, di là dalla terraostile, verso la casa ospitale di Dio (p. 1127)

Se tutto questo si trova «di là» dalla posizione dell'io narrante, viene da chiedersi

dove possa essere Manuel, costretto ad assistere in maniera passiva ad ogni

evento come se fosse dietro uno schermo, bloccato nel suo indefinito «al di qua».

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Un al di qua che però non può coincidere in toto con la realtà. Come abbiamo già

dimostrato, Manuel intrattiene con essa un rapporto conflittuale, che si conclude

con un definitivo rifiuto delle cose del mondo. Allo stesso tempo, la sua

spasmodica tendenza verso un altrove mitico, esclude la possibilità che egli

occupi già una di quelle dimensioni altre a lui più congeniale. Ne consegue che

Manuel è bloccato in una zona di confine, tra la realtà e l'altrove.

E io, partito dietro al miraggio dei felici amanti, somigliavo a un pedone del limbo,che andando protende il collo versi gli sciami aerei del Paradiso (p. 1121)

Un pedone del limbo che, forte della propria esclusione, decide di varcare il

confine che lo separa dal Paradiso, tentando così il viaggio estremo in direzione

di un orizzonte d'attese che non ha mai smesso di puntare. Per questo Manuel è

l'unico personaggio dell'universo morantiano a partire davvero verso l'Estero.

Egli è già fuori dal reale, non ha più alcun contatto con il mondo dei vivi e

nemmeno la sua immaginazione riesce a trasfigurare gli eventi attraverso le tinte

luminose della finzione. Anche quando, ad esempio, egli si vede protagonista di

una magica metamorfosi, riconoscendosi in una «fanciulla indiana trasformata in

una fenice» (p. 1215), ogni sussulto di giubilo viene fagocitato da una

reminiscenza più oscura, che trasforma tutto in una «farsa». In questo mondo

non c'è più niente per lui, e nemmeno il limbo lo soddisfa più. L'unica alternativa

che gli rimane è l'Estero.

6.2 L'altrove come eros negato

Durante il viaggio verso l'Andalusia, Manuel ripercorre le tappe

fondamentali della propria crescita, focalizzando di volta in volta la sua

attenzione, su eventi di natura diversa. Gli episodi da lui evocati però, non

seguono un ordine cronologico, e vengono snocciolati in maniera del tutto

arbitraria, quasi disordinata. Eppure, quella che potrebbe sembrare una

140

mancanza progettuale, è invece una chiara risposta alle ardite analogie generate

dalla sua mente. In una di queste rievocazioni, l'Estero torna a far parlare di sé:

esso si priva di ogni referente concreto, e diventa esclusivamente un elemento

simbolico caratterizzante. Difatti, a essere definito attraverso un lessico

specifico, appartenente al campo semantico dell'altrove, è l'eros, ed in

particolare, l'eros femminile. Questo legame formale e semantico tra la sessualità

e l'estero, viene creato dal Siciliano, un giovane studente che si costringe a

digiuni disumani pur di accumulare una buona quantità di denaro da spendere tra

le braccia di una prostituta. La sua confidenza con il corpo femminile,

conosciuto attraverso l'esperienza del sesso a pagamento, viene però sublimata

dall'immaginazione del ragazzo. Si tratta di una trasfigurazione nobilitante

dovuta all'entusiasmo adolescenziale, e che, non a caso, mutua le proprie

immagini da un universo altro:

È verisimile che lui pure, nelle misere sue serate di astinenza, si proiettasse, nelcorridoio spento, i propri cinematografi. Dove certo la sua fastosità congenita gliallestiva scenari di un supremo lusso postribolare, con ETERE formose, che inlunghi adagi pornografici si denudavano dei loro merletti per lui. L'«Atto» (che luichiamava l'Amplesso) si compieva dentro alcove d'ebano egizio incrostate dimadreperla, fra tappeti turchi e affreschi voluttuosi di Tardo Impero; e conl'accompagnamento, forse, di versi ispirati, da lui stesso composti (p. 1134)

La magnificenza di tale fantasia, ripropone i moduli di un estero mitico, in cui il

fascino conturbante delle donne si mescola con la sontuosità degli oggetti e il

lusso degli ambienti. La stessa iniziazione sessuale era stata per il Siciliano «una

sorta di Damasco» (p. 1133), e, in questa profusione verbale, egli parla «con

grande competenza di certi culti orientali che mantenevano nei templi etère

sacre» e «di città moderne che riserbavano strade e quartieri alle “donne

perdute”». (p. 1134-1135). Quest'ultime in particolare, sono tutte Regine

incognite e i nomi delle cortigiane storiche diventano sulla sua bocca «una flora

leggendaria» (p. 1134). «I fasti verbali del suo candore vizioso» (p. 1136) sono

141

per Manuel una linfa vitale quasi imprescindibile. Egli infatti rimane ad

ascoltare con interesse e curiosità gli sproloqui dell'amico, ed è proprio

attraverso quel confronto che egli torna a sperimentare il senso di esclusione:

Però non cessavo, intanto, di ascoltarlo; senza ammettere, neanche a me stesso,che in fondo ai miei silenzi si nascondeva pure una mia curiosità recidiva(testimone insopprimibile di una mia leggenda straziata e interrotta); e forse ancheun'invidia per le coraggiose intraprese del Siciliano, e per la sua libera conoscenzadei mondi abitati e dei «Palazzi belli» e dei Misteri «dolorosi e gaudiosi» che a mesi negavano (p. 1136)

Questo distacco dall'universo femminile, non si manifesta qui per la prima volta.

Manuel aveva già provato un senso di inferiorità rispetto ai suoi compagni di

scuola, i quali, vantavano fra di loro, «avventure di donne» (p. 1117). Anche in

quel caso, l'attenzione dell'io narrante si concentrava su un'unica scena,

sottolineando che l'amante di uno di essi, era una «danzatrice e cantante

afroamericana» (p. 1118).

Sembra quasi che all'interesse carnale per le donne, corrisponda anche una

smania esplorativa verso luoghi lontani, in cui l'eros è presente in maniera quasi

naturale. Il Siciliano ha il compito di smascherare questa componente spaziale

dell'universo femminile. Nei suoi racconti ad esempio, dopo aver indugiato sulle

vetrine d'Europa in cui le meretrici si mettono in mostra come «bambole in

vendita» (p. 1135), egli arriva a parlare di Parigi.

Raccontava pure che a Parigi, sul giardino delle Tuileries (lui diceva Tuglierìe) siaffacciava una splendida magione, simile a un castello di fate, che in altri tempiera adibita a bordello privato dei re di Francia. Dove le vetrate e le porte eranotutte dipinte di «scene galanti». E le stanza, dalle pareti ai soffitti, erano tutterivestite di specchio (p. 1135)

Questo passo introduce sulla scena un'immagine chiave all'interno della parabola

di crescita di Manuel: la porta. In essa si riconosce, la tendenza condivisa da altri

romanzi di formazione – specie quelli di matrice italiana – di fare della porta

142

chiusa, un “oggetto simbolo” che incarna le istante voyeristiche e il comune

senso di esclusione159. In Aracoeli però, l'iniziazione mancata di Manuel ha delle

implicazioni più complesse, che trovano una spiegazione non tanto nella

mancata maturazione del ragazzo, quanto piuttosto in un trauma infantile che

allontana per sempre, dal suo universo, quella porta chiusa. Ciò che interessa in

questa sede è come tale simbolo sia legato in maniera indissolubile all'Estero e al

suo lessico specifico. Per bocca del Siciliano, la porta incarna la possibilità di

approdare a mondi altri, in cui il corpo femminile è la meta ultima. Non stupisce

dunque, che la medesima porta si ritrovi all'interno delle stanze in cui Manuel è

costretto a un appuntamento con una «Signora» (p. 1139) di facili costumi.

Notai pure che quelle porte serbavano, benché scolorate, certe scene pastoralidipinte all'antica (forse per questo il Siciliano mi aveva parlato di una bellastanza) e che la parete sopra il letto non recava nessuna immagine sacra: ma unasfilza di cartoline illustrate e figurini di moda ritagliati dalle riviste (pp. 1141-1142)

Com'è noto, l'iniziazione sessuale di Manuel non avviene, ma anzi si conclude

con un conato di vomito che mette fine per sempre ai suoi tentativi di «essere

come gli altri!» (p. 1137). Questo ribrezzo provato nei confronti della donna è in

realtà figlio di una repulsa interiore che coinvolge ogni componente

dell'universo sessuale, primo fra tutti le case d'appuntamento:

Io non sono mai stato in un bordello; però, già nei miei anni iniziatici, per me la

159 A proposito della porta, la Mascaretti scrive: «Il fatto che le scoperte essenzialiavvengano in Agostino, così come in Dietro la porta e nel Lanciatore, da unapostazione liminare, ci induce a rinvenire nello stretto legame tra voyerismo edesclusione una delle peculiarità del romanzo di formazione italiano del Novecento.Lo stesso “oggetto simbolo” della porta risulta tuttavia presente in ciascuno deiquattro testi su cui verte la nostra rapsodica rassegna, ed anzi, nei I turbamento delgiovane Törless e in Dietro la porta esso compare addirittura sin dal titolo. A partiredal cognome del giovane musiliano (il quale possiede come è noto, una fantasiosaetimologia anglo-tedesca, e significa alla lettera «Senza porta»), la porta funge dastrumento di mediazione tra l'istanza del voyerismo conoscitivo ed il comune sensodi esclusione» (V. Mascaretti, Agostino e i suoi fratelli, «Poetiche», 2005, p. 233).

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sua figura inaccessibile pullulava d'angoscia. Io ne stornavo i sensi, come davantia un lenzuolo che si ha orrore di sollevare, perché copre un cadavere. E il mioorrore era di specie così selvaggia da snaturare la terra e spalancare il cielo: poichéin quel cadavere io paventavo di riconoscere un volto adorato e divino, che nellasua dissoluzione stessa mi si rendeva ancora più sacro. Il suo misero odoredegradante generava, dal ribrezzo stesso, una tenerezza struggente e un pudoresovraumano. Sulle soglie della mia fanciullezza c'è un cancello di volgare stileliberty: dal quale, di là da un giardino angusto adorno di statuette leziose, si vedeuna porta verniciata di un colore giallino fra stucchi bianchi e incorniciata diglicini. Quel cancello, marchiato da interdizione e maledetto, rimase per mebambino, l'ingresso al Palazzo delle Mille e una Notte (pp. 1116-1117)

La descrizione che l'io narrante fa di questo Palazzo delle Mille e una Notte, ci

permette di riconoscere subito l'edificio che gli procura tanta angoscia. Si tratta

infatti della magica Quinta in cui Aracoeli viene invitata a lavorare dalla Donna-

Cammello. Il «titolo di fantasia» (p. 1356) dato da Manuel a questa donna,

contribuisce a rinvigorire l'isotopia estera, dal momento che un animale esotico

viene utilizzato per definire la matrona a capo di un postribolo. Questa tendenza

trasfigurante, dalle tinte fiabesche, caratterizza già la prima visita del bambino

all'edificio in questione.

Subito riconobbi a distanza, la quinta d'alta classe vantata pocanzi in un bisbigliodella signora della latteria. Per quanto non l'avessi mai veduta, di colpo la ravvisai,quasi la sua forma rispondesse a un mio presagio, recente e inavvertito, ma sicuro.E immediatamente lo stesso incantesimo della Donna-cammello – misto diseduzione e di vago orrore – la rivestì ai miei occhi trasognati. Supposi che laDonna-cammello vi abitasse, e la stimai senz'altro una dimora di eleganza fastosae di stupendi misteri femminili (p. 1362)

Dopo la fuga di Aracoeli, il bambino tornerà più volte alle porte del palazzo,

senza però avere mai il coraggio di entrare. A metterlo sulla difensiva, non sono

solo gli «stupendi misteri femminili» di cui egli ha un vago sentore, ma anche la

possibilità di scoprire davvero, al suo interno, la presenza materna. Ecco perché

il cancello esterno e la porta interna rimangono sempre chiusi per Manuel: egli

rifiuta ogni confronto con quella realtà che gli appare come «un altare praticabile

e precluso», e che agisce su di lui attraverso una «seduzione così tenebrosa e

144

obliqua da confondersi con l'orrore» (p. 1387). L'ultima delle sue peregrinazioni

ha la funzione di svelargli, per bocca di un gruppetto di ragazzini, le attività che

si svolgono all'interno di quell'edificio.

«Quella, è una casa di puttane».Alla sua spiegazione, io lo rimirai tonto e incantato, come un povero barbaroforestiero dinanzi a un oracolo di Apollo delfico: poiché nella mia lingua la voceputtana non esisteva ancora (p. 1392)

Nonostante la manifesta estraneità qui dimostrata, Manuel ha sempre avuto una

vaga percezione degli strani comportamenti materni. La violenza di questa

scena, sta appunto nell'aver svelato di colpo, il volto imbruttito di Aracoeli

stessa. Ogni mito svanisce e con esso, anche qualsiasi possibilità conciliante con

il mondo della sessualità. Persino nell'età adulta, egli rimarrà sempre il «povero

barbaro forestiero» che non capisce. A sottolineare l'impossibilità di una

riconciliazione con l'eros e il corpo femminile, l'io narrante elabora un'immagine

in cui viene riproposto il simbolo della porta.

Corre voce che sulle soglie della nostra esistenza si presenti una fila di portechiuse: la porta della gloria, quella dell'amore, quella dell'avventura, edell'eroismo, e dei viaggi e del carcere, e così di seguito. Ma le porte sono tutteanonime e uguali all'esterno, nessuna reca scritta una qualsiasi indicazione: cosìche la nostra scelta è sempre dubbia. E delle tante solo qualcuna potrà venireaperta. Le altre, una volta lasciate chiuse, tali resteranno definitivamente. L'unicache, prima o poi, lo si voglia o no, si aprirà di certo per tutti quali, è, ovviamente,quella della morte.Ora, quando io m'immagino la fila delle mie porte – tutte chiuse. Di regola,com'erano al principio, su una trovo sempre, di guardia, la famosa donna-cammello. Essa mi appare, s'intende, secondo l'immagine che le avevo dato ionella mia visione: ossia gigantesca, magica, di bruttezza orrida e meravigliosa. Dinorma, essa si alterna nella guarda, con un altro mio frequentatore ostinato: il toronero. E spesso le due guardie si mischiano in un sol corpo, dando forma a unanimale molto strano. Ma quale sia precisamente la porta da loro vigilata, ovveroche cosa mi aspetti là dietro, rimane una sciarada non risolta (p. 1360-1361)

Non c'è dubbio che la sciarada irrisolta, sia il corpo femminile in tutte le sue

forme. Qualsiasi tentativo di appropriarsi della dimensione spaziale oltre la

soglia gli è negato a priori. Un rifiuto dell'esplorazione che si concretizza nelle

145

visioni di morte e distruzione che egli immagina durante le masturbazioni. In

esse si riconosce la volontà di cancellare qualsiasi dimensione a lui ostile:

distruggendo foreste, spiagge, antri e terre misteriose, egli accantona anche la

propria inadeguatezza all'avventura. Non è questo l'Estero in grado di accogliere

il suo corpo esule, ma un altrove lontano nel tempo prima che nello spazio.

6.3 Verso El Almendral: un viaggio nel tempo.

Manuel, fin da subito, dichiara di voler intraprendere un viaggio in

«tutte le dimensioni dello spazio e del tempo, fuorché una [...]: il futuro» (p.

1044). Questo rifiuto categorico trancia di netto una delle caratteristiche

principali che avevamo già individuato nell'altrove morantiano. Infatti, fin dalle

sue prime apparizioni nell'opera, questo motivo trovava la sua ragion d'essere nel

configurarsi come un orizzonte d'attesa, posto in un domani altrettanto mitico.

Qualsiasi fuga, per essere tale, ha bisogno di una progettualità che tenga conto

del tempo. Manuel invece, scardina le nostre certezze, obbligandoci a rivedere il

significato di un Estero così affascinante da spingerlo a una partenza immediata.

Il motore di tutto è Aracoeli:

Dove potrebbe essere fuggita, se non verso l'Andalusia? E oggi, dopo tanti anni diseparazione smemorata, è appunto là, verso l'Andalusia ch'io parto a cercarla (p.1043)

In particolare, egli focalizza la propria attenzione sul territorio di Almeria, in cui,

secondo le poche conoscenze da lui possedute, dovrebbe trovarsi il paese natio

di Aracoeli, El Almendral, e il luogo da cui proveniva le poca corrispondenza

ricevuta dalla madre, Gergal. La natura altra di questi luoghi, ci viene suggerita

dalla loro difficile reperibilità all'interno delle carte geografiche. Nonostante il

referente sembri esplicito, la realtà cui si fa riferimento è tutt'altro che concreta e

l'altrove perde i suoi contorni definiti, in nome di un'allusione volutamente

146

offuscata160:

Invece, El Almendral io non lo trovai su nessuna carta. Ma intanto quel minimopunto periferico, ignorato dalla geografia, da ultimo era diventato l'unica stazioneterrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato (p. 1047)

A guidarlo, non c'è alcuna certezza o promessa, solo una alacre nostalgia che lo

invita al viaggio attraverso la voce della madre morta. Ed è proprio la dimezione

della morte a rendere necessario un viaggio nel tempo, più che nello spazio.

Manuel cerca dunque un ricongiungimento estremo con la madre che, per ovvie

ragioni, non può avvenire né oggi né domani. La sua partenza verso i luoghi

natali della donna, risponde a questo bisogno di varcare le soglie temporali che

lo vincolano alla realtà, e la medesima esigenza si riconosce nell'abolizione del

futuro. Di questa inversione dimensionale, Manuel ha piena consapevolezza,

tanto che arriva a definire la sua esperienza come un «viaggio sulla macchina del

tempo» (p. 1063). E mentre l'Andalusia si fa più vicina, la realtà che egli si

lascia alle spalle, ammuffisce in virtù di questo scarto temporale da lui generato.

Io solo salpo verso El Almendral: estrema punta stellare della Genesi, che rompel'orizzonte degli eventi, per inghiottire ogni mia trama nelle sue gole vertiginose(p. 1061)

Avendo appreso la natura altra del suo itinerario, non stupisce che la meta si sia

trasformata nel punto originario di ogni cosa, in grado di divorare gli eventi e la

vita stessa del narratore. La marca regressiva del viaggio operato da Manuel, si

svela senza troppi giri di parole, nel momento in cui, dopo aver rievocato la sua

nascita, egli precisa:

Da allora in realtà io non ho mai smesso di cercarla, e fino da allora la mia sceltaera questa: rientrare in lei. Rannicchiarmi dentro di lei, nell'unica mia tana, persaoramai chi sa dove, in quale strapiombo (p.1058)

160 Facciamo qui riferimento all'interferenza eterotopica della trasnominazione. Si vedaWestphal B, La géocritique : réel, fiction, espace, cit.

147

Per questo Scarpa, ravvisa in Manuel la volontà di abolire il tempo, con lo scopo

di «dis-nascere»161 Il suo viaggio è dunque, per utilizzare le parole di Rosa, un

«tentativo impossibile di ridiscesa all'eden materno»162, in cui il

ricongiungimento con il corpo amato, rappresenta l'unica possibilità per ritrovare

la vera Aracoeli, e con essa, la pace della condizione prenatale. Per questo

motivo, il paese natio della madre si configura come il solo punto d'arrivo per

cui valga la pena mettersi in viaggio. Lì, dove l'esistenza di Aracoeli ha avuto

inizio, egli intravede l'origine della propria stessa vita.

Da lei stessa – attraverso i suoi accenni avari, malinconici e pudichi – io fin daragazzino udii che El Almendral non era un mandorleto (come pretende il suonome) bensì una sassaia bruciata dal vento. Però quella sassaia nasconde –invisibile ad occhi estranei – il mio giardino d'amore. Come un'area fatata, difesada guardiani aerei contro il passaggi successivo dei casi e delle sorti, essa devecontenere ancora, per me, i passi e i respiri di un'Aracoeli bambina. Tutti imomenti di quell'infanzia, vivi e incolumi nella loro fioritura, ne fanno un giardinodi là dai sensi esterni, non meno ricco e colorato degli orti di Shiraz odell'Alhambra (pp. 1192-1193)

Una connotazione di questo tipo deve la sua esistenza, non solo al ruolo

simbolico che El Almendral riveste nel viaggio del protogonista, ma anche

all'immaginario del piccolo Manuel, il quale durante tutta la sua vita ha rivestito

il paese della madre di una patina mitica. Esso infatti, al pari di Totetaco,

custodisce in sé tutte le immagini e i desideri felici della sua infanzia. È ad El

Almendral che Aracoeli cresce in compagni di Patufè il gatto e Abuelita la capra;

è lì che la madre fa la conoscenza di un «Essere epifanico, portatore di misteri e

di grazie» (p. 1089), il quale sarà poi il padre di Manuel. E, cosa ancora più

importante, è ad El Almendral che vive l'altro Manuel, lo zio omonimo dell'io

narrante, eroe indiscusso della sua mente bambina, «Principe e Conte di tutta la

161 D. Scarpa, Un libro comico, un libro tragico, «Il Giannone», Semestrale di cultura eletteratura, diretto da Antonio Motta, anno X, numero 19-20, gennaio-dicembre 2012,p. 316.

162 G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 147.

148

Sierra e di El Almendral» (p. 1104). Il recupero dei miti infantili ci appare

dunque come una diretta conseguenza di questo viaggio indietro nel tempo. Allo

spostamento concreto nello spazio, corrisponde la continua rievocazione dei

propri ricordi. Attraverso la dimensione memoriale infatti, si dà una profondità

diversa alla parabola regressiva, e l'itinerario reale dell'uomo acquista un senso

tutto nuovo.

Chi può dire dove e quando la macchina dei ricordi inizia il proprio lavoro? Ingenere si suppone che, al momento della nascita, la nostra memoria sia una fogliobianco; però non è escluso che, invece, ogni nuovo nato porti in sé la stampa di chisa quali soggiorni anteriori, con altre nature e altre luci. Forse queste, agli esordidel suo soggiorno terrestre, interferiscono ancora, simili a una lente aberrante,nelle nuove apparenze quotidiane offerte alla sua rètina. E allora il suo campos'inonda di forme e colori favolosi, per via via ridursi impallidendo nel tempo, allapovertà di una sinopia dopo lo strappo dell'affresco. (p. 1177)

L'io narrante addebita dunque alle memorie dei soggiorni anteriori, lo sguardo

luminoso che, nei primi anni della sua vita, gli ha permesso di trasfigurare la

casa natale in un ulteriore luogo mitico da aggiungere al proprio immaginario.

Grazie a questa precisazione, appare chiaro il motivo della sublimazione di

Totetaco. Lì, infatti, non solo Manuel e Aracoeli vivevano in una comunione

perfetta, ma ogni cosa poteva essere ricondotta al firmamento prenatale:

Nella casa clandestina di Totetaco non ci siamo che noi due soli: Aracoeli e io.Congiunzione inseparabile per natura e di cui pareva a me naturale anche l'eternità.Le nostre 1400 giornate a Totetaco sono tutta una balera fantastica, dove il giornoe la notte ripetono i loro giri allacciandosi e rincorrendosi in una coppia ballerina;(p. 1189)

A Totetaco viene riproposta l'unione inscindibile tra madre e figlio, come se

Manuel non avesse mai abbandonato il grembo materno. Questo legame

indissolubile tra Totetaco e la maternità di Aracoeli, viene riproposto anche in

una scena successiva. Alla morte di Carina, infatti, il bambino torna ad attaccarsi

al seno materno, approfittando del sonno di Aracoeli. Ecco cosa avviene durante

149

la suzione:

Ma un sapore tenero se ne instillò nei miei sensi, a lusingarli che la mia delizia eracondivisa. E un tale adempimento mi fece chiudere gli occhi, in un gusto di mielesimile al sonno. Totetaco risuscitava! (p. 1301)

Questa condizione di pace e serenità trova il suo correlativo oggettivo

nell'immagine del giardino. La bellezza di questo luogo è tale, da suscitare nel

narratore degli interrogativi circa la sua reale identità: è «il giardino di Armida?

Gli orti delle Esperidi? O forse l'Alahambra?» (p. 1177). Ma è durante il fittizio

processo da lui imbastito (in cui Manuel è vittima, accusa e difesa al tempo

stesso) che i caratteri favolosi di questo giardino vengono elencati uno dopo

l'altro. Veniamo così a conoscenza di una «popolazione arborea di giganti», i cui

«fogliami erano di tanti colori: molti più colori di quanti ne appaiono di norma,

nello spettro visibile» (p. 1183). Fiori «assai più grandi dei soliti» riempivano la

zona, la quale era poi circondata da un fiume «immenso» (p. 1184). Non è

difficile riconoscere in questi tratti mitici, le caratteristiche tipiche del locus

amoenus. Lo stato di felicità perfetta che sorregge l'intero impianto descrittivo,

esalta poi il ruolo simbolico del giardino, e l'analogia con l'eden sembra quasi

d'obbligo. Nella descrizione di Totetaco infatti, si riconosce in filigrana la

«divina foresta spessa e viva» del Paradiso Terrestre, descritta da Dante nel

Canto XXVIII del Purgatorio. Il perduto paradiso edenico rivive attraverso una

quiete perenne, uno stato di eterna primavera che annulla lo scorrere del tempo,

e l'evidente distacco dal reale163. Persino la sua posizione «svettante al centro del

mondo» (p.1184), sembra riprendere la precisazione che Dante fa, a proposito

della «campagna santa» che «salìo verso il ciel tanto» (v. 101). E ancora, nel

descrivere la vegetazione favolosa del giardino di Totetaco, si precisa la natura

di due soli alberi, il fico e l'oleandro, un numero che ricorda altri due alberi

163 Per le caratteristiche del Paradiso Terrestre si veda A. Graf, Miti e leggende delMedio Evo, Mondadori, Milano, 1996.

150

importanti all'interno del mito della Genesi, l'albero della conoscenza e l'albero

della vita e della morte, i cui frutti vengono rievocati in un altro passo del

romanzo, legittimando così la ricerca di un giardino che possa essere il vero

traguardo del viaggio di Manuel:

Eravamo integri, prima della Genesi; e può darsi che la cacciata dall'Eden vadaintesa, nel suo senso occulto, per un gioco ambiguo e provocatorio: «Avetemangiato il frutto proibito», dice la sentenza del Signore, «ma non quello segretodella vita, che io, Padrone del giardino, vi tengo nascosto, perché vi renderebbeuguali agli dei». Ora il gioco equivoco dalla cacciata potrebbe insinuarsi in questopunto: in realtà, le porte stesse che ci hanno chiuso il giardino dell'Eden ci hannoaperto i giardini innumerevoli del mondo. E dove si nasconde, allora il fruttosegreto? Di là, o di qua dalle porte? Su questo, la sentenza è muta. Muta o cifrata?Nel secondo caso, proprio il suo silenzio ambiguo che ne indicherebbe, forse lachiave. «Andatevene di qui», direbbe la sentenza rovesciata del Signore, «in virtùdel frutto proibito, siete liberi dall'Eden, e vi si aprono i campi della terra, dove sinasconde il frutto segreto. Trovatelo e sarete uguali agli dei» (p. 1289)

Le stesse isotopie edeniche caratterizzano anche El Almendral.

Quest'ultimo infatti viene definito «punta stellare della Genesi, che rompe

l'orizzonte degli eventi» (p. 1061) e, non a caso, è rievocato dalla voce dell'io

narrante facendo ricorso all'immagine del giardino.

Non so dove né quando, ho imparato che nella lingua spagnola almendral significamandorleto. E a questo nome, un giardino arboreo, dai fruttini cerulei con dolcisemi candidi, m'accoglie per un istante nel suo grembo luminoso (p. 1086)

I due orizzonti d'attesa, El Almendral e Totetaco, si fondono in uno. Il risultato è

un unico punto, oltre il tempo e lo spazio, in cui la presenza di Aracoeli

garantisce la riproposta di quello stato di felicità primigenia. La donna, in questa

nuova dimensione, è innocente e immacolata proprio come lo era agli occhi del

piccolo Manuel, lontana dal degrado e dagli eccessi libidinosi che

caratterizzarono l'ultima parte della sua vita. Il viaggio nel passato operato

dall'uomo è quindi un modo per consacrarsi a quel giardino, il quale assume ora

i connotati di un hortus conclusus. Ricordiamo infatti che nell'arte sacra, esso era

151

simbolo, al tempo stesso, del paradiso terrestre e della verginità della madre di

Dio164, qui sostituita da Aracoeli.

Quel magico giardino fiorito stamane dentro la stanzuccia buia dal chiuso dellemie palpebre, intende significare che, in realtà, la corriera di El Almendral miriporterà a Totetaco. Da un pezzo ormai so che nel quartiere di Monte Sacro aRoma sarebbe inutile cercarlo. I nostri felici 1400 giorni sono stati cacciati via dilà. Il nostro Totetaco – mio e di Aracoeli – è emigrato nel piccolo paese dellaSierra da dove lei, nelle mie ultime notti milanesi, già mi chiamava – e adesso mirichiama – e dove mi aspetta oggi per l'appuntamento promesso (p.1192)

La promessa di un appuntamento tanto importante, assume forma evangelica,

concretizzandosi in un unico richiamo: «Hodie mecum eris in Paradiso» (p.

1196). È questa la scritta che Manuel intercetta in un disegno, e che subito gli

appare come un messaggio pronunciato dalla stessa Aracoeli:

Così oggi, nel mio stato di esaltazione quasi elettrica, ho interpretato quel fumettodel disegno come un messaggio segreto della mia andalusa: dove lei miriconfermava, per il termine del viaggio, il nostro appuntamento in qualcheinesplicabile cielo (p. 1196)

Nonostante i rimandi alle peregrinazioni dantesche, il Paradiso in Aracoeli, non

rimanda a nessuna visio dei. Qui, si vaga con lo scopo di approdare al punto

estremo in cui «passato presente e futuro – tenebre e luce – morte e vita – i

multipli e gli addendi – i diversi e i contrari » (p. 1289) si fondono in un'unica

realtà, riproponendo lo stato felice primigenio, oltre il tempo e lo spazio, di cui il

giardino è l'immagine simbolo. Ma di quel giardino, ad El Almendral, non è

rimasto più niente, ci sono solo massi e «sassaie ineguali» (p. 1425):

Ne parte un sentiero scosceso, a saliscendi, che da un lato si affaccia su un baratrodi pietrame e macigni, si direbbe un'enorme frana della sierra soprastante. Per untratto, su questo lato, come pure su quello opposto in alto, mi accompagna il solitodeserto calcareo del colore di sangue rappreso. Ma più in là, dai margini spunta

164 Anche nel Cantico dei Cantici, l'hortus conclusus viene utilizzato come immagineper la descrizione della sposa: «Hortus conclusus, soror mea, sponsa, hortusconclusus, fons signatus».

152

qualche fico d' India. E a distanza, sul basso fondo, in mezzo al circo rovinoso,s'incomincia a distinguere un riquadro piatto verdeggiante. Un campo! Un orto, secosì può dirsi. Vi si scorgono chiazze regolari coltivate: poi fra queste riconoscoun arancio malaticcio, un ulivo storpio, una vite nuda. Pochi passi più avanti, sullamia sinistra, c'è una targa scritta a mano, con una vernice stinta, ma leggibile. ElAlmendral (p. 1428)

Non c'è più spazio né per la speranza, né per il conforto. I fumi delle

allucinazioni che hanno accompagnato Manuel fino al punto estremo della terra,

nel diradarsi, rivelano un baratro senza fondo. Le tinte gloriose dei miti infantili,

la spasmodica ricerca di pace in una condizione prenatale, il desiderio di

consacrarsi all'universo materno, sono tutti destinati a crollare su quella sassaia

arida che dà l'idea della distruzione. Qualsiasi tensione verso l'Estero è annullata

e ciò permette all'io narrante di guardare con occhi nuovi in direzione del padre,

«reame» accantonato, che viene riscoperto nel momento in cui il recupero di

Aracoeli si rivela vano.

L'altrove dunque, una volta raggiunto, svela il suo volto più degradato.

La sua conquista viene a coincidere con la sua stessa dissoluzione, in uno

scenario dai toni apocalittici che offre una trista verità: in fondo, l'altrove «é

tutto qui» (p. 1429).

153

CONCLUSIONI

L'analisi puntuale dell'altrove all'interno dell'opera di Elsa Morante permette di

sottolineare l'importanza che esso assume nell'immaginario dell'autrice. Si tratta

infatti, di un leitmotiv che abbandona il ruolo di metafora funzionale al discorso

per diventare invece principio generativo di senso. È il caso di Menzogna e

sortilegio, in cui l'Estero permea il programma narrativo del soggetto e può

essere utilizzato per spiegare i rapporti tra Anna ed Edoardo; lo stesso succede

ne L'isola di Arturo, in cui la consapevolezza di aver abbandonato il «paese

felice» dell'infanzia, unico vero altrove verso cui valga la pena ritornare, è in

realtà la premessa necessaria per la scelta tematica del discorso omodiegetico

dell'io-narrante. E ancora, in La Storia, i due personaggi principali sono

proiettati in una dimensione altra e sebbene in maniera inconsapevole, incarnano

il principio di vitalità che si oppone alla storia. Lo stesso punto d'arrivo ha anche

Il mondo salvato dai ragazzini, in cui il motivo dell'altrove si manifesta nella

schiera dei cherubini in grado di fermare l'avanzata delle leggi razziali. Nelle

prove poetiche, l'altrove è specchio di quell'orizzonte di felicità già veicolato nei

primi romanzi, mentre nella raccolta di racconti Lo scialle andaluso il confronto

con una realtà difforme, spesso oscura, è un tratto che accomuna tutti i

personaggi di queste prose brevi. Infine, in Aracoeli, l'altrove è addirittura il

motore della vicenda, dal momento che Manuel decide di partire davvero in

direzione dell'Estero. A El Almendral, egli cerca l'Eden primigenio, un paradiso

che, nella sua mente, coincide in toto con il tempo anteriore alla sua nascita.

Eppure l'idea di una condizione prenatale in grado di ricongiungerlo ad Aracoeli,

crolla di fronte alla misera realtà: la sua meta si rivela una sassaia arida, lontana

dall'immagine armoniosa e pacificante dell'altrove. Questo fallimento sembra

attentare all'integrità del motivo preso in esame, come se, dopo la tensione di

una vita in direzione di un luogo altro, il finale di Aracoeli volesse smascherare

154

l'inganno, vanificando i molteplici tentativi di avvicinare l'altrove riproposti

nell'opera morantiana. In realtà, il deludente approdo di Manuel è dovuto alla

natura stessa dell'altrove. Quest'ultimo infatti, per esistere, ha bisogno di

rimanere lontano nel tempo e nello spazio. Qualsiasi tentativo di raggiungerlo, o

di appropriarsene, risulterà vano, perché nel momento in cui si mette piede

nell'altrove, esso diventa il nuovo hic et nunc, la nuova quotidianità con cui fare

i conti. È questa la verità che Manuel sperimenta sulla propria pelle, ma che non

per questo, svuota di senso le terre ignote. Fin quando queste rimangono

estranee alle logiche del mondo, poste al di là delle coordinate spazio-temporali

proprie di questa vita, esse possono diventare il simbolo di un'alterità, di una

differenza vitale e multiforme in cui si nasconde il senso ultimo dell'esistenza.

Per questo, più che considerare il finale di Aracoeli come meta ultima di chissà

quale percorso evolutivo, sarebbe meglio considerare i tanti volti dell'altrove,

come il risultato di differenti prove, di vari percorsi tracciati dall'autrice, i quali

puntano tutti nella stessa direzione. L'altrove è il simbolo di quella realtà

primigenia che si contrappone alle logiche del mondo. La parola «realtà» viene

qui ripresa con l'accezione che la stessa Morante utilizza all'interno di Pro o

contro la bomba atomica165: è «realtà» tutto ciò che si oppone con forza

all'«irrealtà», ovvero alla tendenza autodistruttiva del genere umano. Contro di

essa, la Morante presenta una dimensione luminosa e varia, in cui persino gli

uomini possono aspirare all'armonia perfetta. Si tratta di un'alternativa al torbido

processo delle leggi sociali che portano l'uomo al Caos, nonostante egli sia

invece destinato al «Nirvana» (p. 1544):

Difatti (e qui si salva ancora la speranza), la realtà, e non l'irrealtà, rimane ilparadiso naturale di tutte le persone umane (p. 1549)

165 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica, oggi in Ead., Opere, II, cit., pp. 1537-1554. Le citazioni successive sono tratte dalla stessa edizione, motivo per cui cilimitiamo a segnalare le pagine.

155

L'allusione al paradiso non può essere certo causale per chi, come lei, a

quest'altezza cronologica, permette ai suoi personaggi di cercare l'altrove non in

una prospettiva orizzontale, ma di proiettarsi con il corpo e con la mente verso

una dimensione verticale, trascendente. Useppe e Manuel tendono verso il

Paradiso, qui considerato appunto come condizione primigenia di felicità,

lontana dalle brutture della storia, e slegata dalle logiche mortifere degli uomini.

Per questo l'altrove, in tutte le sue manifestazioni, si carica di tinte fantastiche,

assume su di sé i caratteri del meraviglioso, del fiabesco, della Leggenda e

dell'Utopia. Ad esso viene demandato il compito di mostrare una realtà altra,

diversa da quella cui si è abituati. Il motivo qui preso in esame dunque, non è un

un occasionale simbolo poetico, ma incarna l'orientamento della scrittrice verso

il senso ultimo delle cose del mondo. Non a caso, il saggio qui citato, si chiude

con un racconto di matrice orientale che torna con insistenza su questo

slittamento del senso ultimo della realtà in direzione di un altrove:

Una volta un novizio chiese a un vecchio sapiente orientale: «Che cos'è ilBodhidharma?» (che significherebbe approssimativamente l'Assoluto, o simile). Eil sapiente, pronto, gli rispose: «Il cespuglio in fondo al giardino». «E uno checapisse questa verità,» domandò ancora, dubbioso, il ragazzo «che cosa sarebbe,lui?». «Sarebbe» rispose il vecchio dandogli una botta in testa «un leone con lapelliccia d'oro» (p. 1554)

L'Assoluto è sempre «in fondo al giardino», si trova sempre altrove. Ed è per

questo che se si vuole diventare un «leone con la pelliccia d'oro» e fare così

parte di quella dimensione mitica posta al di là del limen, non si può fare a meno

di orientare il proprio sguardo in direzione di un luogo altro, proprio come hanno

sempre fatto i personaggi dell'opera morantiana.

156

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