Il lessico mentale

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Corso di Laurea Magistrale in Italianistica e Scienze Linguistiche SCIENZE COGNITIVE Anno Accademico 2013-2014 Il lessico mentale Studente: Beatrice Coclite Matricola: 0000709099 Anno: I

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Corso di Laurea Magistrale in Italianistica e Scienze Linguistiche

SCIENZE COGNITIVEAnno Accademico 2013-2014

Il lessico mentale

Studente: Beatrice CocliteMatricola: 0000709099

Anno: I

Il lessico mentale

1. Cos'è il lessico mentale?...................................................................................... 3

1.1 Criteri di organizzazione......................................................................................... 3

1.2 I deficit categoria-specifici...................................................................................... 5

2. Modelli di rappresentazione.................................................................................7

2.1 Il modello a ricerca attiva di Forster.......................................................................8

2.2 Fodor e la modularità della mente.......................................................................... 9

2.3 Il secondo modello logogen di Morton ................................................................. 10

2.4 L'approccio connessionista: McLelland e Rumelhart............................................ 12

2.5 Simple Recurrent Network..................................................................................... 13

Bibliografia.............................................................................................................17

Il lessico mentale

1. Cos'è il lessico mentale?

Il lessico mentale consiste nel database di parole, conservate nella memoria a lungo

termine, che utilizziamo per comprendere il linguaggio e per produrre a nostra volta enunciati

di senso compiuto. Esso contiene informazioni di tipo ortografico e fonetico, sintattico e

semantico. Paragonarlo a un comune dizionario, tuttavia, sarebbe riduttivo: il lessico mentale

si attiva in maniera non-cosciente in pochi millisecondi; esso cambia notevolmente,

arricchendosi di contenuti1, nel corso della nostra vita ed è in grado di auto-organizzarsi di

volta in volta in base ai nuovi stimoli cui il cervello è sottoposto, mantenendo integre per anni

le informazioni raccolte; inoltre esso non è organizzato secondo un criterio di tipo alfabetico,

ma in base a relazioni più complesse e differenziate.

1.1 Criteri di organizzazione

Postulare l'esistenza di una serie di criteri di organizzazione dell'informazione lessicale è

un passo fondamentale: per poter funzionare in maniera economica ed efficace il lessico

necessita di una struttura; tuttavia il problema della sistemazione delle rappresentazioni

mentali è ancora largamente dibattuto nell'ambito delle neuroscienze.

Alcuni dati sperimentali possono venirci in aiuto: sappiamo innanzitutto che, nei compiti di

decisione lessicale, le parole di uso più comune, le più frequenti, vengono riconosciute più

velocemente di altre. Inoltre stimoli acustici e stimoli visivi attivano zone diverse del cervello,

in particolare sembra che la distinzione tra suoni verbali e suoni non-verbali avvenga nel

settore mediano del solco temporale superiore, mentre l'elaborazione fonologica e semantico-

lessicale si realizzi nel giro temporale medio e nel giro temporale inferiore. Per quanto

riguarda gli input visivi, invece, l'elaborazione delle unità ortografiche ha molto

probabilmente sede nelle regioni occipito-temporali dell'emisfero sinistro. Questo ci porta ad

ipotizzare l'esistenza di due diversi lessici: un lessico fonologico e un lessico ortografico, a

1 È bene ricordare a questo proposito che in ogni lingua sono presenti classi aperte di parole, le quali sono in continuo rinnovamento, come nomi, verbi, aggettivi, e classi chiuse di parole, pressoché immutabili nel tempo, come pronomi, articoli, preposizioni e congiunzioni.

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loro volta distinguibili in lessici di input e lessici di output, posto che la comprensione e la

produzione di parole e frasi comporta l'innesco di operazioni di tipo differente.

A tal proposito, alcune ricerche, utilizzando il priming, hanno dimostrato che, mentre il

riconoscimento visivo di una parola è facilitato da una sua precedente presentazione nella

stessa forma, tale fenomeno non si verifica nel momento in cui viene usato uno stimolo

uditivo.

Il priming

Il priming è un metodo di indagine largamente utilizzato nella neuropsicologia e consiste

nel presentare a un soggetto due stimoli in successione, il prime e il target, che possono

intrattenere o meno una relazione; il soggetto è chiamato ad effettuare un compito (ad

esempio di denominazione o di decisione lessicale) sul secondo elemento e il suo tempo di

risposta viene misurato. Il priming si basa sul concetto di cronometria mentale, cioè sulla

rilevazione dei tempi necessari ad effettuare un determinato compito, e sull'assunto

dell'esistenza di un rapporto pressoché proporzionale tra tempo di reazione del soggetto e

complessità delle operazioni cognitive da svolgere.

Un ruolo importante nell'organizzazione del lessico sembra essere svolto dal criterio di

vicinanza acustica, cioè la relazione che si instaura tra due parole che differiscono per un

singolo fonema, le cosiddette coppie minime (es. bende – tende). Le parole che fanno parte di

più coppie minime tendono ad essere identificate in maggior tempo perché sono soggette a

fenomeni di competizione.

Sempre attraverso il priming è stato dimostrato che i tempi di risposta si accorciano

notevolmente quando tra prime e target sussiste una relazione di tipo semantico (come quelle

di meronimia, olonimia, iponimia, iperonimia, sinonimia e antinomia; ad es. cucchiaio -

posata): questa facilitazione della velocità di reazione ci porta a ipotizzare che l'attivazione

del primo stimolo non si realizzi solamente a livello fonetico o ortografico, ma anche a livello

concettuale; questo significa che, quando ascoltiamo o leggiamo una parola che conosciamo,

non ci serviamo esclusivamente del lessico di input, ma anche della rappresentazione mentale

della parola e quindi della nostra memoria semantica.

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È stato formulato a tal proposito un modello da Collins e Loftus (1975)2 secondo il quale i

significati sono organizzati in una rete e i nodi di questa rete sono costituiti dalle parole, le cui

connessioni si basano su relazioni semantiche di diversa intensità: quando la somiglianza

semantica è forte, la parola-stimolo propaga la propria attivazione (diffusone automatica

dell'attivazione o automatic spread of activation - ASA) ai nodi adiacenti, in funzione anche

dell'accessibilità dei concetti. L'energia di attivazione rilasciata è inversamente proporzionale

alla distanza dei nodi. Questo modello, dunque, oltre ad essere supportato dai test sul priming

semantico, spiegherebbe anche il fenomeno del priming indotto dall'aspettativa che si verifica

quando prime e target sono presentati a distanza di un intervallo di tempo superiore ai 500 ms

e quando nell'esperimento le coppie di stimoli correlati sono presenti in numero elevato.

Oltre ad associarsi per campi semantici, le parole sembrano anche organizzarsi in coppie

oppositive, sia cioè in antonimi contrari (che ammettono fasi intermedie), come caldo e

freddo, sia in antonimi contraddittori, come vivo e morto.

1.2 I deficit categoria-specifici

Uno studio di Elisabeth Warrington3 su pazienti affetti da demenza semantica, pazienti cioè

che non erano in grado di assegnare alcune parole ad una determinata categoria semantica,

non solo ha suffragato l'ipotesi di un'organizzazione per classi del lessico mentale, ma ha

anche aperto la strada a successive ricerche di corrispondenze tra categorie semantiche e zone

del cervello. I pazienti di Warrington, ad esempio, avevano difficoltà a individuare immagini

che rappresentavano cibi ed esseri viventi, ma non manufatti e utensili.

In particolare, nel 1996, Hanna Damasio4 e i suoi collaboratori hanno dimostrato l'esistenza

di deficit particolarmente selettivi e localizzati rispetto a compiti di denominazione di nomi

propri, animali e utensili: al primo deficit categoria-specifico corrisponderebbe una lesione

nel lobo temporale sinistro, al secondo nella porzione anteriore del lobo temporale inferiore

sinistro e al terzo nella regione postero-laterale del lobo temporale inferiore sinistro e nella

giunzione laterale temporo-occipito-parietale.

Tuttavia i pazienti erano ancora in grado di attivare particolari contenuti semantici relativi

2 Cfr. MICHAEL S. GAZZANIGA, RICHARD B. IVRY, GEORGE R. MANGUN, Neuroscienze cognitive, Zanichelli, Bologna 2005, p. 346 e ss.

3 Cfr. ibidem, pp. 348 – 349.4 Cfr. ibidem, pp. 349 – 350.

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agli oggetti che non riuscivano a denominare. Questo ha portato a ipotizzare che il deficit si

trovasse a livello lessicale, ma che non intaccasse le altre strutture di elaborazione del

linguaggio; Antonio e Hanna Damasio (1992) ne individuano tre: un primo sistema che

categorizza le rappresentazioni semantiche, un secondo che riguarda le combinazioni

fonematiche e sintattiche e un terzo che media fra i due a livello lessicale. Le lesioni

categoria-specifiche studiate si troverebbero proprio in quest'ultimo livello, mentre, ad

esempio, problemi generalizzati come le distorsioni o le difficoltà a produrre parole

morfologicamente corrette riguarderebbero il secondo livello e, infine, patologie come

l'acromatopsia o la prosopagnosia percettiva avrebbero a che fare con il primo livello

(incapacità di percepire o anche solo immaginare determinati oggetti).

Figura 1: Localizzazione delle lesioni cerebrali correlate con deficit categoria-specifici

Fonte: M. S. GAZZANIGA, R. B. IVRY, G. R. MANGUN, Neuroscienze cognitive, p. 350. Adattata da Damasio et al.

(1996).

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Figura 2: I tre livelli interpretazionali che si attivano nella produzione del linguaggio

2. Modelli di rappresentazione

Gli studiosi non sono concordi su alcune questioni riguardanti il lessico mentale,

soprattutto per quanto riguarda l'accesso lessicale, ossia il procedimento con cui input acustici

e fonetici vengono messi in relazione con i contenuti e le rappresentazioni delle parole

immagazzinate.

Quando riceviamo un impulso esterno dobbiamo in qualche modo confrontarlo con il

nostro database mentale per scoprire se è una parola che conosciamo. Vi sono teorie che

sostengono che la selezione delle entrate lessicali avvenga in maniera seriale e teorie che

sostengono invece un’attivazione in parallelo: il modello di Forster, ad esempio, è di tipo

seriale; il modello logogen di Morton prevede sì un'attivazione seriale, ma di più unità che

operano in parallelo.

Entrambi hanno in comune l’idea che i processi di elaborazione linguistica siano

scomponibili in processi più elementari e specifici, i moduli, strutture verticali specializzate. Il

paradigma modularista, infatti, è fondamentale nelle scienze cognitive, insieme al pardigma

connessionista: grande impulso è stato dato al primo dagli studi di Jerry Fodor. Nel

modularismo le strutture mentali del linguaggio sono viste come degli insieme di regole, dei

meccanismi specifici.

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Il modello di McClelland e Rumelhart è invece un modello connessionista, che non

prevede moduli, né lessici, ma reti e che, soprattutto, mette in discussione le architetture

computazionali di tipo sequenziale. La rappresentazione semantica, nel connessionismo, non

corrisponde a un’unità semantica precisa, ma a un pattern di attivazione tra diverse unità.

L’elaborazione avviene attraverso l’azione di varie unità interconnesse, attivate in parallelo. I

processi mentali superiori emergono dall’interazione e dalla cooperazione di tante piccole

unità semplici.

Il Simple Recurrent Network, infine, si distacca da entrambi i paradigmi e propone

un'ipotesi ancora più estrema: supera il concetto di lessico mentale in sé e per sé e introduce il

concetto di stato mentale e quello di stimolo mentale.

2.1 Il modello a ricerca attiva di Forster

In questo modello5, formulato nel 1976, il lessico è considerato come un grande archivio

centrale che contiene le informazioni verbali essenziali sui tratti semantici delle parole, in un

formato indipendente dallo stimolo, che sia esso acustico o visivo; accediamo all’archivio

principale tramite tre archivi periferici: uno ortografico, uno fonologico e uno sintattico-

semantico. Esiste inoltre un magazzino della conoscenza generale in cui sarebbero contenute

le conoscenze possedute dal soggetto.

È un modello di tipo seriale in cui l’elaborazione attraversa una serie di stadi sempre nello

stesso ordine.

Utilizziamo l’archivio ortografico quando leggiamo, l’archivio fonologico quando

ascoltiamo e l’archivio sintattico-semantico quando produciamo un discorso.

Ogni entrata di ciascun archivio periferico è associata ad un’entrata nell’archivio centrale

ed è organizzata in “bin”, raggruppamenti di parole basati su relazioni di somiglianza e di

frequenza.

Ad esempio, quando leggiamo una parola, si attiva l’archivio ortografico e il “bin” di

appartenenza più probabile; si avvia poi una ricerca all’interno del “bin”, come in uno

schedario, in cui le parole più frequenti sono più accessibili. Una volta individuata l’entrata si

accede all’archivio centrale.

5 Cfr. Pier L. Baldi, pp. 19-20

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Questo modello spiega l’effetto di priming semantico affermando che, quando si raggiunge

l’entrata nell’archivio centrale, le rappresentazioni ad essa associate si raggruppano con essa

in un bin.

Figura 3: Autonomous search model

2.2 Fodor e la modularità della mente

Nel modello di Fodor possiamo distinguere tre strutture: i trasduttori, i sistemi di input e i

processi centrali.

I primi registrano informazioni sul mondo esterno e creano rappresentazioni

successivamente elaborabili, trasformando il fisico in simbolico. I sistemi di input utilizzano

le informazioni dei trasduttori e le trasformano in dati linguistici riconoscibili (si tratta di

sistemi sia linguistici che percettivi). Essi si attivano in maniera non-cosciente in base agli

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stimoli che ricevono, non possono cioè essere messi volontariamente in stato di riposo una

volta ricevuto un input (non si può evitare consciamente di ascoltare una frase) e funzionano

in maniera seriale (processano prima l'aspetto fonetico/ortografico, poi quello lessicale e

infine quello sintattico). Solo una volta che i sistemi di input hanno completato l’elaborazione

dei trasduttori il risultato può essere trasmesso ai processi centrali. I processi centrali

collegano e integrano tra loro gli output dei diversi sistemi di input e servono a esprimere

giudizi e a produrre informazioni.

Due sono le proprietà fondamentali di questo modello, l'impermeabilità cognitiva e

l'incapsulamento informazionale: in base alla prima caratteristica, un individuo non può

accedere coscientemente ai livelli intermedi dei trasduttori e dei sistemi di input, così come i

sistemi di input e i trasduttori non possono servirsi del patrimonio contenuto nei processi

centrali. L’elaborazione, dunque, è unidirezionale, dal basso verso l’alto, dal semplice al

complesso (bottom-up). L'incapsulamento, invece, è la proprietà che impedisce ai moduli

stessi di comunicare tra loro e che li rende veloci e funzionali.

Figura 4: modello Modulare.

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2.3 Il secondo modello logogen di Morton

È un modello ad attivazione in parallelo: i logogen sono meccanismi che accumulano

informazioni sugli stimoli verbali da elaborare, ogni logogen corrisponde ad uno stimolo. Essi

operano in parallelo e sono sensibili al contesto sintattico e semantico.

Quando un logogen supera un determinato livello di soglia, costituito da variabili come

frequenza, concretezza, lunghezza, ecc., la parola viene riconosciuta. Il logogen che ha più

caratteristiche in comune con lo stimolo, cioè, si attiva in misura maggiore. Ad esempio una

parola molto frequente ha un livello di soglia più basso rispetto a una parola inusuale. Quando

dunque ascoltiamo la sillaba /ka/ dovrebbero attivarsi i logogen di “cane”, “casa”, “carro” e

così via, ma, col procedere dell'elaborazione, alcuni decadranno e altri si attiveranno in misura

maggiore, fino a che uno di essi raggiungerà la soglia di attivazione.

Nella prima versione del modello si ha un unico sistema di logogen, nella seconda, invece,

Morton ha ipotizzato l’esistenza di meccanismi separati per il riconoscimento di parole udite e

di parole scritte.

Il flusso di informazioni e bi-direzionale, cioè sia bottom-up che top-down, poiché il

contesto semantico e sintattico sono in grado di abbassare la soglia di attivazione di

determinati logogeni.

Figura 5: modello Logogen.

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2.4 L'approccio connessionista: McLelland e Rumelhart

È uno tra i primi modelli connessionisti. Lo scopo principale del modello è mostrare

l’influenza, durante la lettura, del contesto di una parola sull’identificazione delle lettere che

la compongono.

Troviamo tre livelli: un livello responsabile dei tratti, un livello in cui ogni unità

corrisponde a una lettera e un livello in cui ogni unità corrisponde a una parola.

Ogni unità è collegata a quelle dei livelli immediatamente precedenti e successivi: le

connessioni possono essere eccitatorie, se il collegamento è appropriato, o inibitorie, se è

inappropriato. Ad esempio, la lettera T faciliterà l’accesso alla parola “TORTA” ma lo inibirà

alla parola “CORTA”. Quando un’unità viene attivata, propaga la propria attivazione lungo le

connessioni di tutte le altre unità cui è legata, aumentandone l'attivazione qualora la

connessione sia di tipo eccitatorio, diminuendola se è di tipo inibitorio.

Le lettere hanno connessioni facilitatorie più forti con parole ad alta frequenza

Ogni livello può essere considerato come una rete i cui nodi si inibiscono reciprocamente,

mettendo in atto una strategia competitiva.

Figura 6: esempio di modello connessionista: le frecce indicano le connessioni eccitatorie, le linee le

connessioni inibitorie. Fonte: M. S. GAZZANIGA, R. B. IVRY, G. R. MANGUN, Neuroscienze cognitive, p. 359.

Adattato da McClelland e Rumelhart (1981).

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2.5 Simple Recurrent Network

Dati sperimentali dimostrano che specifici aspetti di un termine, che fanno parte di strati

profondi del lessico mentale, vengono attivati dal soggetto in fasi precoci del processo di

comprensione.

Questo fenomeno può verificarsi in alcuni casi di risoluzione di ambiguità, ad esempio

quando si hanno dei sintagmi nominali in posizione post-verbale, come nella frase “the boy

heard the story was interesting”: in questo contesto “the story” potrebbe essere sia il

complemento oggetto di “heard”, sia il soggetto di una frase subordinata (come nel nostro

caso). Il fatto che l’interpretazione del sintagma “the story”, nei test effettuati, sia inizialmente

quella di complemento oggetto, è spiegabile, secondo i modularisti, dal procedere sequenziale

dell’interpretazione, processando prima informazioni sintattiche basilari (il verbo “to hear” è

transitivo) e solo successivamente informazioni complesse (il verbo può reggere una

subordinata).

Secondo Jeffrey Elman6, invece, sono altri fattori ad entrare in gioco già in una prima fase

dell'interpretazione: 1) la frequenza con cui il verbo occorre con un complemento oggetto

piuttosto che con una subordinata; 2) la frequenza con cui il verbo regge una subordinata

senza la congiunzione “that”, che disambiguerebbe il periodo; 3) la plausibilità del sintagma

nominale come complemento oggetto di quel particolare verbo. Studi recenti, infatti,

sembrano dimostrare che la “propensione” del verbo influenza l’interpretazione di frasi

ambigue.

Un’altra dimostrazione di come il significato possa essere utilizzato per predire una

struttura si ha nelle frasi in cui sono presenti dei verbi che possono avere sia una costruzione

transitiva sia una costruzione intransitiva. Nel momento in cui la frase è sintatticamente

ambigua, quando cioè non si è ancora letto/ascoltato né un complemento oggetto né un

complemento indiretto, il soggetto tende ad aspettarsi una costruzione che sia appropriata al

significato del verbo; esso è suggerito dagli argomenti, che possono essere dei buoni agenti

causali o dei buoni temi7 (le informazioni vengono inferite dal contesto).

6 JEFFREY L. ELMAN, “Lexical knowledge without a lexicon?”, Ment. Lex. 2011 ; 6(1), p. 4.7 Si tratta di ruoli tematici: ogni verbo ha una precisa griglia tematica che consiste nell'insieme degli argomenti

che deve necessariamente possedere; se la griglia è incompleta la frase risulta a-grammaticale. L' agente è l'entità che compie intenzionalmente l'azione, il paziente o tema è l'entità che subisce l'azione.

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Es.1 Gianni cede il patrimonio a Maria

(Gianni = agente causale; cede = verbo transitivo);

es.2 Il tetto cede sotto i colpi della grandine

(tetto = tema; cede = verbo intransitivo)

Altri studi hanno poi dimostrato come il tempo verbale potesse influenzare la risoluzione

di ambiguità nei casi di pronomi riferibili a più soggetti.

Es.3 Paolo ha raccontato a Luigi una storia. (Egli) ________

Quando il verbo esprime uno stato perfettivo, come nel passato prossimo in italiano, tende

a indicare un’azione conclusa; quando invece esprime uno stato imperfettivo, come

nell’imperfetto, l’azione si dà come in svolgimento. I dati rilevano che, i partecipanti agli

esperimenti, trovandosi davanti a un verbo imperfettivo, tendono a indicare che il soggetto

della prima frase e il soggetto della seconda sono uguali in percentuale molto maggiore

rispetto a quando viene usato un verbo perfettivo.

Es.4 Paolo raccontava una storia a Luigi. (Egli) ________

Questi studi ci dicono dunque che una forma verbale può creare delle aspettative riguardo a

molteplici aspetti di una frase: sulla sua struttura sintattica, sui suoi argomenti e, in ultima

analisi, anche sulla salienza dei partecipanti dell'evento che descrive (nell'es.4 il verbo

all'imperfetto dà maggiore salienza a Paolo rispetto a Luigi perché il soggetto si aspetta che la

sua azione continui).

Questi risultati non possono essere spiegati con la teoria della diffusione dell’attivazione

del prime, perché le connessioni da essa innescate non sono né dinamiche, né sensibili al

contesto. In particolare l’aspettualità non è una proprietà intrinseca dei verbi, ma altamente

variabile e quindi difficilmente potrebbe essere contenuta in un lessico mentale.

Una soluzione consiste nel considerare il linguaggio come una rappresentazione di eventi

in cui i verbi, così come altre parti del discorso, come i sostantivi, svolgono il ruolo di indizi,

nel senso che creano delle aspettative nei soggetti che delimitano la gamma degli eventi

possibili.

Se dunque le parti del discorso contengono una così ampia quantità di informazioni sul

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contesto dell'evento, sull'aspettualità del verbo e sui suoi argomenti, su agenti e pazienti, ecc.,

tentare di sistematizzarle all'interno del lessico mentale inteso come un dizionario o un

database sarebbe un'impresa pressoché impossibile o quanto meno difficilmente

circoscrivibile.

Se le parole non sono oggetti passivi che risiedono nel lessico per essere semplicemente

analizzati, ma operatori che alterano lo stato della mente, allora il lessico mentale va

considerato come un sistema dinamico in cui le parole sono degli input che perturbano lo

stato interno del sistema man mano che vengono processati. Un modello che spiega questa

visione è quello del Simple Recurrent Network (SRN) formulato da Jeffrey Elman nel 1990.

Nel SNR abbiamo una rete neurale a 3 livelli con un livello nascosto di memoria (hidden

layer, lo stato mentale, interno) che è in grado di apprendere sequenze nel tempo e di predire il

completamento di una sequenza basandosi sulla struttura latente del flusso studiato; essa, cioè,

sa riconoscere strutture complesse in un flusso di elementi indistinti.

La conoscenza nel SNR è rappresentata dalle connessioni tra le diverse unità e dalla forza

di queste stesse connessioni. L'apprendimento avviene tramite esempi: si forniscono al

sistema degli esempi di stimoli ben formati, invece di istruirlo con regole pre-determinate.

In questo modello il tempo non è visto come un semplice ordinatore di unità di input e di

output: la rete, infatti, tiene conto non solo degli input in entrata, ma anche dello stato

precedente della rete stessa (unità di contesto: nello stato t la porzione di rete che conserva

traccia degli apprendimenti dello stato t-1). Il livello mentale (unità nascoste), dunque, varia

sia in base al suo stato precedente, sia in base agli stimoli esterni. Elman ha introdotto nel

lessico mentale (anche se forse definirlo ancora tale sarebbe improprio) il fattore

dell'esperienza.

Il SNR è stato in grado di apprendere, ad esempio, la nozione intuitiva di parola con un

semplice training test, senza cioè conoscere i criteri di delimitazione di parola o il concetto

stesso di parola. È stata inoltre in grado, dato un certo numero di frasi a struttura semplice

(nome-verbo o nome-verbo-oggetto) di suddividerne i termini in categorie lessicali in base a

proprietà distributive e informazioni di co-occorrenza.

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Figura 7: Esempio di Simple Recurrent Network allo stato t del sistema

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Bibliografia

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consultabile presso: http://www.treccani.it/enciclopedia/neuropsicologia-del-

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ELMAN JEFFREY L., “Lexical knowledge without a lexicon?”, Ment. Lex. 2011 ; 6(1), 1-33.

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GAZZANIGA MICHAEL S., IVRY RICHARD B., MANGUN GEORGE R., Neuroscienze cognitive,

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