Il Katéchon e l'Anticristo (2 Ts 2, 6-7). Teologia e politica di fronte al mistero dell'anomia -...

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POLITICA E RELIGIONE 2008/2009 Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomía POLITICA E RELIGIONE Il Katéchon e l’Anticristo 2008/2009 M. NICOLETTI, Introduzione Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2,1-12 METZGER O., Il Katéchon. Una fondazione esegetica RIZZI M., Storia di un inganno (ermeneutico): il Katéchon e l’Anti- cristo nelle interpretazioni del II e III secolo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi GIANOTTO C., Sull’interpretazione di 2Ts 2,6-7 nei Padri della scuola antiochena tra IV e V secolo GIULIANI M., Belial, Gog-e-Magog, Armilus. Excursus su nomi e miti ebraici dell’anti-messia CAMPANINI M., Il DajjÇ l. Escatologia e politica nell’Islam LAMBERTINI R., Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Pa- rigi nel XIII secolo. Il Tractatus de Antichristo et eius ministris RONCHI DE MICHELIS L., Il Katéchon e l’Anticristo in Martin Lutero ARICI F., Letture teologico-politiche del Katéchon e dell’Anticristo nel- la tarda Scolastica. Il caso del Gaetano (1468-1534) e quello del Catarino (1484-1553) DETHLOFF K., Accelerazione e frenata nel messianismo ebraico del ven- tesimo secolo CARONELLO G., «L’Anticristo è un uomo, non un demone». Su una figura escatologica di Erik Peterson SCHULLER W., Il Salvatore dalla confusione? Note sul Katéchon in Carl Schmitt NICOLETTI M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Il concetto di Katéchon in Carl Schmitt 20,00

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POLITICA E RELIGIONE 2008/2009

Il Katéchon (2Ts 2,6-7)e l’AnticristoTeologia e politica di fronte al mistero dell’anomía

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009M. NICOLETTI, Introduzione

Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2,1-12METZGER O., Il Katéchon. Una fondazione esegeticaRIZZI M., Storia di un inganno (ermeneutico): il Katéchon e l’Anti -

cristo nelle interpretazioni del II e III secolo della Seconda Letteraai Tessalonicesi

GIANOTTO C., Sull’interpretazione di 2Ts 2,6-7 nei Padri della scuolaantiochena tra IV e V secolo

GIULIANI M., Belial, Gog-e-Magog, Armilus. Excursus su nomi e mitiebraici dell’anti-messia

CAMPANINI M., Il DajjÇl. Escatologia e politica nell’IslamLAMBERTINI R., Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Pa -

rigi nel XIII secolo. Il Tractatus de Antichristo et eius ministrisRONCHI DE MICHELIS L., Il Katéchon e l’Anticristo in Martin LuteroARICI F., Letture teologico-politiche del Katéchon e dell’Anticristo nel -

la tarda Scolastica. Il caso del Gaetano (1468-1534) e quello delCa tarino (1484-1553)

DETHLOFF K., Accelerazione e frenata nel messianismo ebraico del ven-tesimo secolo

CARONELLO G., «L’Anticristo è un uomo, non un demone». Su unafigura escatologica di Erik Peterson

SCHULLER W., Il Salvatore dalla confusione? Note sul Katéchon inCarl Schmitt

NICOLETTI M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Ilcon cetto di Katéchon in Carl Schmitt

€ 20,00

POLITICA E RELIGIONEAnnuario

ANNO 2008-2009

DIRETTORE: Michele Nicoletti (Trento)

COMITATO DI REDAZIONE: Massimo Campanini (Napoli) - Giancarlo Caronello (Berlino) -Massimo Giuliani (Trento) - Silvano Zucal (Trento)

COMITATO SCIENTIFICO:Andrea Aguti (Urbino) - Fausto Arici (Bologna) - Ernst-Wolfgang Böckenförde (Freiburgi.B.) - Philippe Cheneaux (Paris-Roma) - Hamid Dabashi (Columbia, NYC) - Paolo DeBenedetti (Milano) - Klaus Dethloff (Wien) - Carlo Fantappiè (Urbino) - Giovanni Filoramo(Torino) - Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz (Dresden) - Maurizio Giangiulio (Trento) - HasanHanafi (Il Cairo) - Vittorio Hösle (Notre Dame, IN) - Robert Krieg (Notre Dame, IN) -Roberto Lam bertini (Macerata) - Hans Maier (München) - Nestore Pirillo (Trento) -Hermann J. Pottmeyer (Bochum) - Gianluigi Prato (Roma) - Paolo Prodi (Bologna) - DiegoQuaglioni (Trento) - Marco Rizzi (Milano) - Michael A. Signer (Notre Dame, IN) - NatalinoValentini (Urbino)

SEGRETERIA DI REDAZIONE: Omar Brino (Roma) - Francesco Ghia (Trento)

Il volume è pubblicato con il contributo del MIUR e del Dipartimento di Filosofia,Storia e Beni culturali dell’Università degli Studi di Trento

© 2009 Editrice Morcelliana S.p.A.Via Gabriele Rosa, 71 - 25121 Brescia

Stampa: Tipografia Camuna S.p.A. - Filiale di Brescia - Via A. Soldini 25 - 25124 Brescia

Politica e Religione2008/2009

Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’AnticristoTeologia e politica di fronte al mistero dell’anomia

NICOLETTI M., Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2,1-12 . . . . . . . . . . . . . . 23

METZGER P., Il Katéchon. Una fondazione esegetica . . . . . . 25

RIZZI M., Storia di un inganno (ermeneutico): il Katéchon el’Anticristo nelle interpretazioni del II e III secolo dellaSeconda lettera ai Tessalonicesi . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

GIANOTTO C., Sull’interpretazione di 2Ts 2,6-7 nei Padri dellascuola antiochena tra IV e V secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

GIULIANI M., Belial, Gog-e-Magog, Armilus. Excursus su nomie miti ebraici dell’anti-messia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

CAMPANINI M., Il Dajjā1. Escatologia e politica nell’Islam . . 81

LAMBERTINI R., Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Universi-tà di Parigi nel XIII secolo. Il Tractatus de Antichristo et eiusministris . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95

RONCHI DE MICHELIS L., Il Katéchon e l’Anticristo in MartinLutero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119

Sommario 1

- Sommario 20-11-2009 16:06 Pagina 1

ARICI F., Letture teologico-politiche del Katéchon e dell’Anti-cristo nella tarda Scolastica. Il caso del Gaetano (1468-1534) e quello del Catarino (1484-1553) . . . . . . . . . . . 131

DETHLOFF K., Accelerazione e frenata nel messianismo ebrai-co del ventesimo secolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155

CARONELLO G., «L’Anticristo è un uomo, non un demone».Su una figura escatologica di Erik Peterson . . . . . . . . . . . . 169

SCHULLER W., Il Salvatore dalla confusione? Note sul Katé-chon in Carl Schmitt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

NICOLETTI M., Tra filosofia della storia e relazioni internazio-zionali. Il concetto di Katéchon in Carl Schmitt . . . . . . . . . 233

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

2 Sommario

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COLLABORATORIPAUL METZGER, Docente di Nuovo Testamento, Università di MagonzaMARCO RIZZI, Docente di Letteratura Cristiana Antica, Università Catto-lica di MilanoCLAUDIO GIANOTTO, Docente di Storia del Cristianesimo, Università diTorinoMASSIMO GIULIANI, Docente di Ermeneutica Filosofica e di Ebraismo,Università di TrentoMASSIMO CAMPANINI, Docente di Storia dei paesi islamici, UniversitàOrientale di NapoliLAURA RONCHI DE MICHELIS, Docente di Storia Moderna, Università diRoma «La Sapienza»FAUSTO ARICI, Docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica del-l’Emilia Romagna di BolognaKLAUS DETHLOFF, Docente di Filosofia , Università di ViennaGIANCARLO CARONELLO, Saggista, BerlinoWOLFGANG SCHULLER, Docente di Germanistica, Università di CostanzaMICHELE NICOLETTI, Docente di Filosofia Politica, Università di Trento

In preparazione(2010) Pneumatologia politica

Sommario 3

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4 Sommario

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MICHELE NICOLETTI

INTRODUZIONE

Questo numero dell’annuario Politica e Religione è dedicato alla fi-gura del Katéchon e al «mistero dell’anomia» che questi «trattiene» se-condo il misterioso passo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2,6-7):

«E ora sapete ciò che trattiene [to Katéchon] la sua manifestazione, perchénon si manifesti che a suo tempo. Il mistero dell’iniquità [tes anomías] è giàin atto, solo è necessario che sia tolto di mezzo Colui che lo trattiene [hoKatéchon]»1.

Secondo molte interpretazioni, ma la discussione è aperta comedimostrano i contributi qui raccolti, ciò che viene trattenuto dal Ka-téchon è la venuta dell’Anticristo2. Nel corso dei secoli queste due figu-

1 Per una fondazione esegetica del concetto del Katéchon si veda, in questa silloge, il saggiodi Paul Metzger. Convinto che né un’analisi terminologica, né una storia diacronica dell’idea delKatéchon rendano possibile identificare che cosa ne vada con esso, Metzger ricava, dall’analisi diSeconda Tessalonicesi e del contesto in cui è nata, alcuni fattori che potrebbero risultare determi-nanti ai fini di tale identificazione. L’autore della Lettera, che non è Paolo e probabilmente nem-meno un suo discepolo, ma qualcuno che si avvale fittiziamente dell’autorità di Paolo per avvalo-rare il proprio discorso agli occhi della comunità di Tessalonica, vuole mitigare nella comunità leconseguenze arrecate da una attesa esacerbata della parousia finale, dando nel contempo spesso-re teologico al differimento di quest’ultima. È a questo livello che si inserisce il discorso voluta-mente criptico del Katéchon, presentato sia in forma maschile che in forma neutra. Il Katéchonnella forma neutra è un essere intermedio umano-demoniaco, attivo al tempo della comunità, chesi personifica nella forma maschile: in tale forma, esso deve essere eliminato affinché possa sub-entrare l’Anticristo, preludio alla parousia finale. Il Katéchon prolunga il tempo di sofferenzadella comunità e come tale è assai utile come strumento di spiegazione del sussistere di tali sof-ferenze. Mediante una sinossi con Ap 17,10 s. e IV Ezra 5,3; 11,45 s., testi coevi a Seconda Tes-salonicesi, Metzger perviene alla conclusione che il discorso del Katéchon – che nella sua fun-zione corrisponde esattamente all’Impero – dovrebbe alludere a Roma. Roma viene vista come unImpero governato demonicamente, il cui dominatore è il Katéchon al maschile, mentre l’Imperoè il Katéchon al neutro. Roma viene quindi concepita come un essere metà umano metà demo-niaco, che è all’opera al tempo in cui vive la comunità.

2 Su questo tema si veda infra il saggio di Marco Rizzi, che, analizzando la lettura escatolo-gica del Katéchon quale emerge dalle interpretazioni del II e del II secolo (Ireneo, Ippolito, Ter-tulliano), interpreta il dualismo escatologico di Anticristo e Katéchon come un effetto paradossa-le (una sorta di “eterogenesi dei fini”) della negazione apologetica, in funzione antignostica e anti-marcionita, di ogni dualismo teologico e ontologico.

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re sono state interpretate sia come forze spirituali che come forze poli-tiche e proprio questo intreccio le rende interessanti per una ricostru-zione della storia dei concetti teologico-politici quale quella che animale ricerche che trovano espressione in questo annuario3.

L’interesse nei confronti di questo intreccio ha conosciuto negliultimi anni nuova vitalità: da un lato la figura del Katéchon è statariproposta e discussa da Carl Schmitt e dai suoi numerosi interpreticome figura «politica» del «trattenere» e «ritardare»4; dall’altro la figu-ra dell’Anticristo è tornata al centro di numerosi studi di storia del cri-stianesimo5. Tra le due figure quella centrale e dominante è chiaramen-te la figura dell’Anticristo, su cui naturalmente la letteratura è ricchis-sima6, mentre la figura del Katéchon è assai meno indagata e per que-sto meritevole di ulteriori indagini. Ma poiché il suo ruolo appare lega-to alla manifestazione del «mistero dell’anomia» e di quella forza esca-tologica negativa che è stata legata al nome dell’Anticristo, è la naturadi quest’ultima che è opportuno chiarire preliminarmente.

***

L’espressione «Anticristo» si trova nelle lettere di Giovanni ad indi-care i propagatori di false dottrine: «L’Anticristo è colui che nega il

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3 In specifico su questa ambivalenza di interpretazioni, si vedano i saggi di Claudio Gianotto,che passa in rassegna alcune interpretazioni del Katéchon offerte dai Padri della scuola Antio-chena tra IV e V secolo, in particolare soffermandosi su Severiano di Gabala, Giovanni Crisostomoe Teodoreto; di Massimo Giuliani e Massimo Campanini, che discutono del nesso tra escatologiae politica nella prospettiva, rispettivamente, della mitologia ebraica e dell’Islam; di Fausto Arici,che passa in rassegna le interpretazioni tardoscolastiche del Katéchon e dell’Anticristo, segnata-mente attraverso le letture ecclesiologiche del Gaetano e del Catarino.

4 Sull’interpretazione schmittiana del Katéchon cfr. M. Nicoletti, Trascendenza e politica. Lateologia politica di Carl Schmitt, Brescia 1990, pp. 487 ss.; M. Cacciari, Dell’inizio, Milano 1990;G. Meuter, Der Katéchon. Zu Carl Schmitts fundamentalistischer Kritik der Zeit, Berlin 1994; W.Schuller, Dennoch die Schwerter halten. Der katevcwn Carl Schmitts, in: H. Cancik (ed.),Geschichte - Tradition - Reflexion, Tübingen 1996, pp. 399-408; G. Agamben, Il tempo che passa.Commento alla Lettera ai Romani, Torino 2000; C. Badilita, Métamorphose de l´Antichrist chezles Pères de l’Église, Paris 2005. Va notato che i temi della «frenata» e, per converso, della «acce-lerazione» rappresentano anche due categorie caratteristiche – come dimostra infra il saggio diKlaus Dethloff – atte a denotare il rapporto con l’éschaton nell’ebraismo contemporaneo.

5 Tra questi spicca la raccolta di testi di G.L. Potestà-M. Rizzi (eds.), L’anticristo. I. Il nemi-co dei tempi finali. Tesi dal II al IV secolo, Milano - Roma 2005.

6 Per una ricostruzione del tema dell’Anticristo nella storia della teologia, filosofia, lettera-tura con amplissima bibliografia si veda la voce Antichrist nella Theologische Realenzyklopädie.Una rassegna anche in B. McGinn, Antichrist, Chicago 1994; tr. it. L’Anticristo, Milano 1996.

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Padre e il Figlio» (1Gv 2, 22; anche 2Gv 7) e in molti Padri della Chiesaquesta figura è stata identificata con eretici o con falsi messia, dunquecon figure eminentemente religiose7. A partire da Ireneo di Lione8 conquesto nome si è indicato però anche quel personaggio che in alcunipassi delle Scritture viene identificato come l’«avversario» escatologi-co, l’estremo antagonista del Cristo, che viene presentato come unospirito dotato di un immane potere: dunque come una figura eminente-mente politica9. I passi biblici evocati a questo proposito sono quelliche nel libro di Daniele si riferiscono all’«ultimo re» (Dn 7,23-37; 8,9-12.23-25.26-27; 11,31.36-37) il quale «farà ciò che vuole, s’innalzerà,si magnificherà sopra ogni dio e proferirà cose inaudite contro il Diodegli dèi e avrà successo finché non sarà colma l’ira» (Dn 11,36).Questa figura, la cui descrizione sembra storicamente ispirarsi adAntioco Epifane (215-163 a.C.), che gli Ebrei consideravano «nemicodi Dio» per le persecuzioni religiose cui li sottopose nel suo sforzo diellenizzazione, esprime perfettamente l’idea di un potere politico chevuole sostituirsi a Dio stesso, dopo essersi imposto con la menzogna econ la frode. È comprensibile dunque che una simile figura sia stataposta in connessione con la Seconda Lettera ai Tessalonicesi là dove siparla della rivelazione dell’«uomo iniquo, il figlio della perdizione,colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene dettoDio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando sestesso come Dio» (2Ts 2, 3-4). Anche in questo caso si tratta di un«empio» che impone con l’inganno e con prodigi menzogneri, soste-nuto dalla «potenza di satana», il proprio potere assoluto e il culto di sésopra ogni divinità.

Il tema dell’Anticristo viene ampiamente sviluppato anche nell’A-pocalisse di Giovanni, ove si descrive compiutamente una Antitrinità: il

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7 Sulla figura dell’Anticristo nei Padri della Chiesa, cfr. F. Sbaffoni (ed.), Testi sull’An-ticristo: secoli I-III, 2 voll., Firenze 1992; sul tema dell’Anticristo nella letteratura medievale cfr.infra il saggio di Roberto Lambertini, che concentra la sua attenzione sul Tractatus de Antichristoet eius ministris, un’opera che si inserisce nel contesto della contesa tra Ordini mendicanti e clerosecolare all’Università di Parigi di metà Duecento, e che presenta una caratteristica esegesi «mili-tante» della seconda lettera ai Tessalonicesi, mirante a dimostrare l’imminenza degli Ultimi Tempie a identificare nei propri avversari i «servi dell’Anticristo».

8 Cfr. Adv. Haer. v, 25, 1.9 Cfr. J. Pieper, Über das Ende der Zeit, München 1954; tr. it. Sulla fine del tempo. Medita-

zione filosofica sulla storia, Brescia 1959.

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drago dalle sette teste (il Padre), la prima bestia (il Figlio – che perciòviene fatto corrispondere all’Anticristo), la seconda bestia (lo Spirito).Per dirla con Erik Peterson: «Il diavolo nell’ordine metafisico, l’An-ticristo nell’ordine politico e il falso profeta nell’ordine intellettuale»10.

La descrizione che più ha inciso sulla figura dell’Anticristo e sullasua recezione politica è proprio quella apocalittica. Qui l’Anticristo èdescritto come una bestia con dieci corna e sette teste, simile a una pan-tera, con zampe d’orso e una bocca di leone. Ad essa il drago dà «la suaforza, il suo trono e la sua potestà grande» (Ap 13,2). L’Anticristo appa-re in grado di compiere prodigi come la guarigione di una sua piagamortale e ciò gli procura l’ammirazione di tutta la terra e l’adorazionedegli uomini. Egli può far guerra contro i santi e può vincerli e gli èdato il «potere sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione» (Ap 13,7),fino a che nell’ultimo giorno non verrà gettato «nello stagno di fuoco,ardente di zolfo» (Ap 19,20). Lo strumento di cui serve la bestia del-l’Apocalisse è dunque la forza mondana, una forza che è d’inganno edi violenza, capace di sedurre e di opprimere. Egli è un potente dellaterra che instaura una signoria su tutto il mondo. Non è un caso quindiche fin dall’inizio questa figura venisse interpretata come un re o unimperatore, in particolare nei tempi delle persecuzioni da parte diNerone e dei suoi successori.

Muovendo dal testo del Vangelo di Giovanni e da quello dell’Apo-calisse si dipartono così due linee interpretative della figura dell’An-ticristo. La prima, di carattere più strettamente religioso, vede l’Anti-cristo come una presenza diabolica che sorge all’interno della Chiesa

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10 E. Peterson, Zeuge der Wahrheit in Id., Theologische Traktate, München 1951, p. 111.Sull’interpretazione petersoniana del Katéchon e dell’Anticristo si sofferma infra il saggio diGiancarlo Caronello. Una tale interpretazione mira a depotenziare l’assunto che lo vorrebbe iden-tificato con un demone, rimarcando piuttosto l’identificazione di questa figura con un uomo.Caronello sottolinea come, nella dialettica istituita da Peterson tra Cristo e Anticristo, tra Figliodell’uomo e superuomo, il tertium relationis sia appunto l’uomo. Nei primi anni Trenta delNovecento, contestualmente agli scritti in cui maggiormente viene sviluppata la sua concezionedell’Anticristo come figura umana, Peterson lavora, non a caso, a un progetto di antropologia teo-logica. La pubblicazione degli inediti sta dimostrando, sostiene quindi Caronello, come nel nodoantropologico vada colto un fondamentale leitmotiv dell’itinerario teologico petersoniano. Il suoprogetto di una antropologia teologica è strettamente connesso all’attenzione che Peterson prestaagli interrogativi posti dalla teologia politica e, in particolare, alle ragioni metafisiche inerentiall’affermarsi dei totalitarismi. Teologia della storia, metafisica del potere e antropologia costitui-scono in tal senso tre aspetti di un medesimo problema.

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stessa e che si fa portatrice di una falsa dottrina tesa a scalzare la fede inCristo. È questa la linea già presente nei Padri della Chiesa e poi ripre-sa con grande vigore da Lutero, secondo cui l’Anticristo non è interpre-tabile come un singolo personaggio storico, ma assai più come unapotenza, o meglio una istituzione che sorge dall’interno del cristianesi-mo stesso11. Sarà questa la tesi tipica dei riformatori che vedono questapotenza incarnata dal Papato stesso12. Ma al di là della figura storica incui il principio dell’Anticristo viene individuato, è interessante notareche nell’interpretazione di Lutero13 «l’Anticristo è una “potenza” che siinstaura in un processo occulto di sostituzione, inversione e simulazio-ne; il suo regno è quello dell’apparenza (stabit rex potens faciebus Dn8,23)»14. La sua azione è dunque un’azione ingannatrice, mai diretta-mente negatrice: egli non nega la verità del Vangelo, ma la integra conaggiunte che via via la snaturano. Dispiega il suo potere in un immensoapparato organizzativo, che è essenzialmente «parvenza», in cui si mol-tiplicano all’infinito ruoli e funzioni. E opera un radicale capovolgi-mento delle cose in modo che «le cose spirituali divengano temporali, lelaiche divengano ecclesiastiche, le terrene divengano celesti»15. Quellodell’Anticristo è una sorta di mondo alla rovescia. Tracce di questapotenza dell’Anticristo che sostituisce, inverte, falsifica e mescola ilpotere temporale a quello spirituale restano vive anche in Kant. Anchein lui – nel cui pensiero la realtà del male è fortemente legata ad una«inversione» (si pensi all’idea del male radicale) –, il regno dell’Anti-cristo pare un mondo alla rovescia, «la fine (rovesciata) di tutte le cose

Introduzione 9

11 Sul tema si veda, infra, il saggio di Laura Ronchi De Michelis, secondo la quale la lettu-ra luterana di Seconda Tessalonicesi, orientata dal principio del sola Scriptura, spinge Lutero nona cercare di individuare il compimento storico di quanto annunciato, ma a concentrarsi sul mes-saggio religioso che trasmette. Terminata, con la caduta dell’impero romano, la funzione provvi-denziale del Katéchon, il millennio è ormai un dato del passato; ora, davanti ai credenti, nel futu-ro, quel che si prospetta è unicamente la seconda venuta di Gesù Cristo. Il presente in cui essivivono è il tempo intermedio tra la venuta e la morte dell’Anticristo; un tempo penultimo provvi-denziale e positivo perché consente loro di riconoscere l’empio e rifiutarlo, preparandosi nella pre-ghiera al giudizio di Dio che li attende

12 Cfr. M. Miegge, Figure del ‘mysterium iniquitatis’ nella cultura protestante, in N. Pirillo(ed.), Kant e la religione, Brescia 1996, vol. I, pp. 193-210.

13 Cfr. M. Lutero, De Antichristo (1521), in WA, 7, pp. 705-778; tr. it. L’Anticristo. Replicaad Ambrogio Catarino, a cura di L. Ronchi, Torino 1989.

14 M. Miegge, Figure del ‘mysterium iniquitatis’, cit., p. 199. 15 M. Lutero, L’Anticristo, tr. it. cit., p. 80.

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dal punto di vista morale»16, un’età in cui ciò che può essere solo libe-ramente accolto, ossia la verità, non viene più proposto in modo amabi-le, ma viene imposto, di autorità e con la forza, un ordinamento «fana-tico» all’interno del quale viene ordinato agli uomini non solo di farequalche cosa, ma di farlo volentieri. Pare questa un’interessante antici-pazione critica dei sistemi totalitari, che pretendono non solo l’obbe-dienza esteriore, ma anche l’obbedienza del sentire.

La concezione di un Anticristo che nasce entro la chiesa e vuole«integrare» la dottrina del Cristo sarà anche al centro della potente rap-presentazione che Fëdor Dostoevskij offre dell’Anticristo, nel granderomanzo de L’idiota e, naturalmente, nella Leggenda del Grande Inqui-sitore, contenuta nei Fratelli Karamazov. L’Anticristo è una figura reli-giosa, un inquisitore che non esita ad usare gli strumenti della forza perimporre la verità, ed è colui che toglie agli uomini il peso troppo gravedella libertà in cambio di ciò che Cristo nel deserto ha rifiutato: mira-coli, pane, potere17.

Accanto a questa interpretazione religiosa dell’Anticristo ve n’èuna seconda, più marcatamente politica, che, rifacendosi soprattutto altesto dell’Apocalisse, vede nell’Anticristo una figura della «fine» deitempi, che ha tutti i caratteri della potenza politica esterna alla Chiesa,perseguita i fedeli e impone un regime di violenza e di menzogna.Comincia così, secondo questa linea, una lunga storia di attribuzionidel titolo e dei caratteri dell’Anticristo a quelle figure che di volta involta si presentano come avversari politico-religiosi del cristianesimo:i conquistatori islamici nel secolo VII, gli imperatori nemici dellaChiesa come Enrico IV e Federico II, i Turchi, e poi i Rivoluzionarifrancesi e Napoleone; per tutto l’800 e poi nel ’900 ad ogni svolta poli-tica sarà invocato l’Anticristo: nel liberalismo, nel pacifismo, nel socia-lismo e nel comunismo, nel fascismo e nel nazismo, in ognuno di que-sti movimenti, anche se con insistenza maggiore in quelli a caratteretotalitario, verrà individuato il «grande antagonista».

10 Michele Nicoletti

16 I. Kant, Das Ende aller Dinge in AA VIII, p. 339; tr. it. La fine di tutte le cose in Scritti difilosofia della religione, a cura di G. Riconda, Milano 1989.

17 Per una rassegna delle interpretazioni della Leggenda si veda S. Zucal, Romano Guardinie la metamorfosi del «religioso» tra moderno e post-moderno. Un approccio ermeneutico aHölderlin, Dostoevskij e Nietzsche, Urbino 1990, pp. 313 ss.

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Gli anni a cavallo tra ’800 e ’900 sono anni in cui l’attenzione altema è viva, così come spesso accade nelle età di crisi in cui serpeggial’inquietudine: la fine di «un» mondo, per chi vi abita, è sempre anchela fine «del» mondo. In questo periodo si colloca il romanzo della scrit-trice danese Selma Lagerlöf I miracoli dell’Anticristo18, il cui titolo èsuggerito dal dipinto del Signorelli ad Orvieto. Il romanzo è ambienta-to in Italia e l’Anticristo è identificato con le dottrine rivoluzionarie chepredicano l’ugualitarismo e che annunciano: «Il mio regno è di questomondo», impegnandosi a costruire una giustizia sulla terra. Nonostantel’accusa di «anticristicità» rivolta a tali movimenti, il tono del roman-zo è tuttavia benevolo e si conclude con un appello finale alla concilia-zione. Nei primi anni del secolo esce il romanzo di R.L. Benson IlSignore del mondo (1907)19, in cui il regno dell’Anticristo viene pre-sentato come un regno futuro dominato da un’ideologia umanitariapacificatrice che ha sostituito tutte le religioni e che vuole eliminareogni sofferenza, anche quella della malattia e della morte, attraverso ladiffusione dell’eutanasia.

Al centro di queste ed altre interpretazioni, campeggia quella diVladimir Solov’ëv. Ad inaugurare il secolo con la profezia dell’An-ticristo in modo potentemente drammatico è il suo Breve racconto del-l’Anticristo, letto alla fine del febbraio del ’900 nella sala della dumadi Pietroburgo di fronte ad un pubblico sconcertato. Questo racconto,che si colloca alla fine dei Tre dialoghi20, era già progettato da tempo,ma fu certo stimolato a Solov’ëv dalla pubblicazione del testo di TolstojResurrezione21. La resurrezione nel libro tolstoiano veniva presentata

Introduzione 11

18 Tr. ingl. The Miracles of Antichrist, London 1899; tr. ted. Die Wunder des Antichrist,München 1920.

19 Il principe del mondo, Milano 1987.20 Cfr. la versione italiana: V. Solov’ëv, Tre dialoghi sulla guerra, il progresso e la fine della

storia universale con assieme un breve racconto dell’Anticristo e un’appendice, tr. it. di G.Faccioli, introduzione di G. Riconda, Torino 1975, 19962. Per un inquadramento si possono vede-re: L. Wenzler, Die Freiheit und das Böse nach Vladimir Solov’ëv, Freiburg i. B. - München 1978;A. Piovano, Il messianismo russo, in Popoli messianici, a cura di L. Sartori, Bologna 1987, pp.79-128; A. Joos, V. Solov’ëv. Cristo e Anticristo, in La figura di Cristo nella filosofia contempo-ranea, a cura di S. Zucal, Milano 1993, pp. 299-348; P.C. Bori, Una rilettura dei «Tre Dialoghi»e del «Racconto dell’Anticristo» di Vl. Solov’ëv: il conflitto tra due universalismi, in Id., LaMadonna di S. Sisto di Raffaello. Saggi sulla cultura russa, Bologna 1990, pp. 223-241.

21 Sul problema della «non resistenza al male» in Tolstoj, cfr. P.C. Bori-G. Sofri, Gandhi eTolstoj. Un carteggio e dintorni, Bologna 1985; P.C. Bori, Tolstoj oltre la letteratura, Firenze1991; Id., L’altro Tolstoj, Bologna 1995.

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come un evento intramondano che si compie dentro il cuore umano eproprio questa mondanizzazione dell’Evento fondamentale viene rifiu-tata da Solov’ëv: nemmeno in senso metaforico si può utilizzare que-sto termine che indica in modo univoco ed esclusivo un passaggio aduna realtà trascendente per opera di una grazia proveniente dall’alto.L’Anticristo è identificato da Solov’ëv nella figura di un impostore reli-gioso. In questo l’interpretazione resta fedele alla tradizione che vedeil più grave pericolo per il cristianesimo non in una posizione aperta-mente antireligiosa, ma in quella che sfrutta tematiche religiose e ilnome stesso di Cristo per affermare un regno a lui opposto.

Il tema dell’inganno, dell’impostura, è al centro anche del pamph-let di Joseph Roth, L’Anticristo, scritto nel 193422. In questo testo, assaisuggestivo, anche per gli anni in cui è stato scritto, l’Anticristo non èun personaggio che ha da venire, ma è già venuto, abita presso gliuomini, dentro gli uomini: «L’Anticristo è venuto: vestito in un modotale che noi, abituati ad attenderlo da anni, non lo riconosciamo. Egliabita già in mezzo a noi, in noi stessi»23. Gli uomini non se ne sonoaccorti, perché sono colpiti dall’accecamento che è tipico della fine deitempi. Un accecamento tutto particolare che non colpisce solo gliocchi, ma il pensiero, la lingua, ogni organo di percezione e compren-sione. I nomi e le parole non designano più le cose giuste e tutti vivo-no in una situazione peggiore rispetto a quella di Babele: allora non cisi capiva perché le stesse cose venivano designate con parole diverse,ora tutti parlano la stessa falsa lingua e si capiscono immediatamente,ma non sanno di che cosa parlano. Il tempo dell’Anticristo è anche perRoth il tempo dell’inganno, della grande impostura: crediamo di vede-re e non vediamo.

Il libro di Roth si chiude con un racconto. Un monaco arrivato daRoma racconta che mentre il papa si era addormentato per qualche ora,un altro si era seduto sul suo trono. E proprio in quel momento davan-ti a lui giungono gli ambasciatori di tre paesi che vogliono fare la pacecon la Chiesa. E queste sono le suppliche che i tre ambasciatori rivol-gono al papa:

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22 J. Roth, Der Antichrist, in Id., Werke, hrsg. von H. Kesten, 4 B.de, Köln 1975-76, vol. III,pp. 373-474.

23 Ivi, p. 373.

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«“Noi vogliamo conquistare solo metà del mondo – cominciano i primi –, nontutto il mondo [...]. Vogliamo solo sparare, Santo Padre, sparare solo un poco.Vogliamo solo sgozzare, Santo Padre, sgozzare un poco, Santo Padre, e porta-re i pugnali che si usano quando si vuole sgozzare. Ma ti promettiamo anche dipregare. Ti onoreremo, Santo Padre! Avrai un’automobile, viaggerai per ilmondo in treni superveloci e in super-automobili. Noi osserveremo tutte le festee i bambini studieranno due volte la settimana i comandamenti. Sette volte, solosette volte, impareranno a sparare e a sgozzare”. Proseguono i secondi: “SantoPadre, in tutta umiltà cristiana vogliamo non la metà del mondo, ma tutto ilmondo. Ma anche questo solo in nome di Dio, del Giusto [...]. Concedici, SantoPadre, di conquistare tutto il mondo. Vogliamo anche sparare e sgozzare e por-tare coltelli [...]. E riconosceremo non solo una croce, ma perfino due. Una, sucui è morto il Salvatore. E l’altra a cui abbiamo apportato soltanto un paio dimoderne modifiche. La chiamiamo la croce uncinata. [...] Perseguiteremo gliatei, giustizieremo gli ebrei, santificheremo la domenica con esercizi di tiro, maanche prima di ogni sparo faremo dire una preghiera”».

E infine i delegati del terzo paese:

«Veniamo da Hollywood, alcuni pronunciano Hölle-Wut (furia infernale), matu non crederci, Santo Padre! Non vogliamo più conquistare il mondo. Loabbiamo già conquistato. Siamo il paese delle ombre. Ci manda la Metro-Goldwin Mayer. La Metro-Goldwin Mayer e altre del suo genere si impegna-no a diffondere l’ombra del Salvatore su tutti gli schermi del mondo.Truccheremo con arte i tuoi cardinali e i tuoi preti veri, così che possano diven-tare vere ombre. Perché il mondo oggi è fatto di vere ombre. Per questo, SantoPadre, vogliamo la tua benedizione e anche la tua santa ombra. E la Metro-Goldwin Mayer, più potente delle potenze con i cui ambasciatori tu hai appe-na parlato, desidererebbe che anche noi potessimo allo stesso modo fare unconcordato. A fini di propaganda»24.

Al termine di questi discorsi l’impostore, che si era insediato alposto del papa, firma un concordato con la Metro-Goldwin Mayer. Maanche il monaco che aveva raccontato tutto questo – rileva Roth – eral’Anticristo o un suo messaggero.

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24 Ivi, pp. 471-473.

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Colpiscono, in queste diverse interpretazioni e suggestioni lettera-rie, alcuni caratteri che appaiono costanti e che accompagnano le rap-presentazioni dell’irruzione di un regno negativo alla fine della storia edella lotta contro di esso.

Il primo carattere che emerge è quello del «disordine camuffato»che pretende di imporsi e che occorre contrastare. Fin dall’origine lapotenza del negativo viene associata al caos, alla dissoluzione dell’or-dine, alla fine delle istituzioni tradizionali.

L’irrompere del male introduce la violenza e la morte per mano del-l’uomo nella socialità originaria. Con ciò il bene dell’uomo viene offe-so e negato, la sua universale apertura all’altro viene attraversata dallapaura e dalla diffidenza. In questo modo viene operata una rottura del-l’universalità originaria e la socialità umana, inquietata dalle preoccu-pazioni della difesa, si aggrega in unità particolari. La negazione delbene chiede una giustizia riparatrice e una concreta protezione dellavita. Di fronte al rischio che la giustizia riparatrice assuma il caratteredella vendetta, che incrementa la catena della violenza, serve l’opera diun’istanza superiore, capace di neutralizzare i conflitti. Questa istanza,che nella scena originaria si presenta con i caratteri di una giustizia tra-scendente, divina, non interviene istituendo un ordine, ma trattenendo,appunto come un Katéchon, il disordine25. Essa si distende nel tempo,dà tempo, neutralizzando la catena della violenza nel presente.

Non solo all’inizio, ma anche alla fine dei tempi, c’è qualcuno che«trattiene» il dilagare della violenza. Quale forza propriamente indichiquesta realtà del Katéchon è, come s’è detto, cosa fin dalle origini assaicontroversa26. Spesso è stata messa in relazione con la realtà del politi-co e taluni autori, tra i primi Tertulliano27, hanno creduto che questa

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25 In questa direzione si legga, infra, il saggio di Wolfgang Schuller, che muove proprio dal-l’ipotesi di lavoro se, nel pensiero di Carl Schmitt, possa rinvenirsi una relazione tra il concetto di«confusione» e quello di Katéchon.

26 Per una rassegna delle interpretazioni sul piano teologico cfr. O. Cullmann, Le caractèreeschatologique du devoir missionnaire et de la conscience apostolique de Saint Paul. Étude sur lekatéchon de 2. Th 2, 6-7, in «Revue d’Histoire e de Philosophie religieuses» 36(1936), pp. 210-245; B. Rigaux, Saint Paul. Les Epîtres aux Thessaloniciens, Paris 1956; W. Trilling, Der zweiteBrief an die Thessaloniker, Zürich 1980, pp. 94-103.

27 Tertulliano, Apologia XXXII, 1: «Noi abbiamo un altro grave motivo per pregare per gliimperatori ed anche per la prosperità stessa dell’impero; sappiamo, infatti, che la catastrofe supre-ma incombente su tutto l’universo e la stessa fine dei tempi, che comporterà spaventose atrocità,non è ritardata che grazie alla tregua concessa all’impero romano».

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forza «che trattiene» stesse ad indicare lo stesso potere dell’Impero odello Stato che impedisce il dilagare del disordine e dell’anarchia. Altriinvece hanno ritenuto che questa forza che trattiene sia Dio stesso o unsuo inviato angelico o altri ancora. In realtà ciò che qui è rilevante sulpiano del politico, non è chi o che cosa trattiene e ritarda, ma il fatto deltrattenere, perché questo fatto dà tempo: il tempo che è dato è il tempoin cui si dispiega l’azione della giustizia divina e dell’iniziativa umana,dunque è questo il tempo e lo spazio politico per eccellenza28. Dandotempo, la giustizia divina non rinuncia affatto a «fare giustizia», postoche alla fine del tempo giungerà la pienezza della punizione e dellariparazione, ma, così operando, fa in modo di non cancellare mai laradicale libertà umana, anche quella del malvagio.

Ora, nella Seconda Tessalonicesi il mysterium iniquitatis viene as-sociato all’anomia. È interessante notare come questa anomia nonvenga affatto dipinta come anarchia. Le rappresentazioni del regnofinale del negativo escludono che esso sia un regno privo di governo,dominato dal caos. Al contrario esso appare come un regno iperorga-nizzato, iperfunzionale. Se i campi di concentramento dei regimi tota-litari hanno potuto essere interpretati come iniziative demoniache, èstato anche perché in essi vi era un male «organizzato» in modo siste-matico, pratiche e tecnologie progettate per il male. Tutte le rappresen-tazioni del principio diabolico tendono da sempre ad esaltarne le dotidi spirito, intelligenza e sagacia. Per usare le parole di Donoso Cortés:

«C’è un solo essere al mondo che somma in sé tutta la sagacia dei contempla-tivi e di quanti si occupano dello spirito e, insieme, tutta la malizia di quelliche ignorano o disprezzano Dio e tutte le speculazioni che rimandano a Lui.Quest’essere è il demonio, il quale ha dei primi la sagacia senza la virtù e deisecondi la malizia senza la goffaggine: da qui deriva tutta la sua forza di distru-zione e tutto il suo smisurato potere»29.

Il regno dell’Anticristo non è dunque un regno male organizzato;per un certo verso si potrebbe dire che in esso non vi è che l’organiz-zazione. In questo senso si possono leggere anche le rappresentazioni

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28 Sulla rilevanza del fattore tempo in filosofia politica, si veda S. Veca, Dell’incertezza. Tremeditazioni filosofiche, Milano 1997.

29 J. Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, a cura di G.Allegra, Milano 1972, pp. 228-229.

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del futuro di tanta letteratura anti-utopica, si pensi, fra tutte, in partico-lare, a 1984 di George Orwell e alle molte demonizzazioni della tecni-ca concepita come minaccia finale.

Ma questa immensa organizzazione del regno finale è tuttavia, suun piano più profondo, anomia, ossia disordine camuffato da ordine,perché è un assetto che fa piazza pulita di ogni legge e di ogni diritto.È, come abbiamo detto, un mondo alla rovescia, in cui la verità è messasullo stesso piano della menzogna, il giusto sul piano dell’ingiusto, ilbene su quello del male. Nelle rappresentazioni contemporanee cheabbiamo ricordato si torna spesso sull’importanza dei mezzi di comu-nicazione e in particolare al potere di seduzione delle immagini. La ve-rità non viene così negata, né eliminata, ma semplicemente posta sullostesso piano di ogni altra opinione o interpretazione o sensazione30.

Un secondo carattere del regno dell’Anticristo sta nel fatto che lasua signoria abbraccia tutto il mondo. Ciò viene messo in connessionecon il passo di Matteo: «Questo Evangelo del regno verrà annunciatosu tutta la terra a testimonianza per tutti i popoli; e allora verrà la fine»(Mt 24,14). Il regno dell’Anticristo sarebbe la prima unificazione ditutta la terra sotto un’unica potenza mondana, come dice Gregorio diElvira: Ipse solus toto urbe monarchiam habiturus est31. Anche Cristorealizza una signoria su tutta la terra, ma la sua non è una potenza ter-rena. La sua venuta, infatti, non pacifica la terra, ma porta in essa laspada. Solo il suo regno finale abbraccerà tutta la terra. Quella del-l’Anticristo è invece una unificazione di tutta la terra come pacifica-zione di tutta la terra nel secolo, e una unificazione di tutto il poterepolitico in un’unica istanza, cosa che costituirebbe una spaventosa pos-sibilità di potere:

«Questo nuovo Re formerà subito il disegno di far la conquista di tutto ilmondo, leverà una prodigiosissima armata, e sotto lo specioso pretesto di libe-rar l’Universo dall’oppression de’ Tiranni, di mettere i popoli in libertà e di

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30 In questo senso si può affermare che il Katéchon serba in sé un carattere personale e unriferimento, in chiave antitetica, alla verità.

31 La citazione è tratta da E. Peterson, Göttliche Monarchie, in «Theologische Quartal-schrift» (1931), p. 563, nota 1 e ripresa da C. Schmitt, Politische Theologie II. Die Legende derErledigung jeder politischen Theologie, Berlin 1970; tr. it. Teologia Politica II. La leggenda dellaliquidazione di ogni teologia politica, a cura di A. Caracciolo, Milano 1992, p. 37.

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ristabilire la vera Religione, imprenderà d’abbattere tutte le Monarchie; e prin-cipalmente l’Imperio Romano diviso allora tra dieci Re ben potenti»32.

Questa visione di un regno dell’Anticristo come monarchia uni-versale da temere e combattere ritorna spesso nelle pagine di CarlSchmitt: un tale regno sarebbe certo per lui caratterizzato dall’anomia,posto che ogni nomos è sempre partizione della terra33. Dato che lapolitica è sempre relativa allo spazio, la fine della partizione dello spa-zio, provocata dalla unificazione mondiale, sarebbe anche la fine dellapolitica, la fine della storia, la fine del tempo34. Il sogno di una paceuniversale e definitiva si capovolgerebbe così in un incubo con la crea-zione di un Leviatano mondiale, peggiore di ogni precedente Statototalitario. In esso non si potrebbe fuggire «altrove», perché non esi-sterebbe più un «altrove». Non ci sarebbero più guerre esterne, «al po-sto di quelle, – ha scritto Josef Pieper – entrerebbero delle azioni dipolizia, le quali potrebbero assumere senz’altro l’aspetto delle distru-zioni degli insetti nocivi»35.

Un terzo carattere del regno dell’Anticristo riguarda la sua «appa-rente santità», il suo aspetto gradevole e affascinante: «quest’uomo delpeccato sarà il più grande ipocrita del mondo e sedurrà principalmente iFedeli colle sue sembianze di pietà, e col di lui apparente orrore dellaidolatria e del vizio»36. È questo un carattere non generalizzabile a tuttele rappresentazioni dell’Anticristo, ma spesso ricorrente. D’altra parteoccorre rilevare che se nel racconto apocalittico emerge più il lato dram-matico che non quello fascinoso della visione della bestia, tuttavia, dopoil miracolo della guarigione della ferita, la terra intera è «presa d’ammi-razione» e adora il drago e la bestia (Ap 13,4). È ancora Carl Schmitt,sotto la suggestione del romanzo di Benson, a ricordare la descrizione

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32 Il tesoro delle antichità sacre e profane tratto da comenti del reverendo p. d. AgostinoCalmet, Venezia 1750, vol. 6, p. 186.

33 Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, Berlin 1950; tr. it. Il Nomos della terra, Milano1991.

34 Per l’approfondimento di questo aspetto vedi infra il mio saggio che si sofferma sullanozione schmittiana del Katéchon come categoria di filosofia della storia.

35 J. Pieper, Sulla fine del tempo. Meditazione filosofica sulla storia, cit., p. 112. Letto in taleprospettiva, il Katéchon potrebbe persino assumere la funzione di difensore delle differenze e,quindi, in chiave positiva, del pluralismo e del pluriprospettivismo.

36 Il tesoro delle antichità, cit., p. 184.

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che già un padre siriano, lo Pseudo-Efrem, dava dell’Anticristo nel suoSermo de fine mundi: «Erit omnibus subdole placidus, munera nonsuscipiens, personam non praeponens, amabilis omnibus, quietus uni-versis, xenia non appetens, affabilis apparens in proximos, ita ut beati-ficent eum homines dicentes: justus homo hic est. La sua forza misterio-sa – commenta Schmitt – sta nella sua somiglianza con Dio»37.

Un ultimo carattere, infine, del regno dell’Anticristo è dato dallastretta connessione tra potere politico e propaganda. Nel racconto del-l’Apocalisse le bestie sono due. La seconda «è simile a un agnello cheparla però come un drago» (Ap 13,11). Essa esercita tutto il suo poteree costringe gli uomini ad adorarlo. Anch’essa fa prodigi e seduce tuttigli abitanti della terra esercitando su di loro un potere assoluto. Comesi è detto, il racconto dell’Apocalisse sembra presentare una sorta diAntitrinità: accanto al drago, che corrisponde al Padre, ecco le duebestie, che corrispondono a Cristo e allo Spirito Santo. In questa duali-tà c’è come l’intuizione che ogni potere è duale, è potestas ma ancheauctoritas, che ogni potere ha un nesso con la verità e dunque ognipotere ha bisogno di un pensare, di un giudicare. Ma qui il rapporto trapotere e verità è capovolto. Non il potere è soggetto al pensare, al giu-dicare, alla verità, alla ragione, alla cultura, ma viceversa, per cui la cul-tura diviene propaganda, controllo dell’ortodossia ideologica. Nel capi-tolo 13 dell’Apocalisse si legge:

«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi riceves-sero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse com-prare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il nume-ro del suo nome. Qui sta la sapienza» (Ap 13,16-18).

Si noti che le azioni permesse dalla bestia sono il «comprare» e il«vendere». «Dopo la caduta di Babilonia lo splendore del politico –commenta Erik Peterson – si manifesta nella forma del profitto econo-mico dei commercianti internazionali»38. Il potere dell’Anticristo èdunque accompagnato da un apparato di propaganda che compie “pro-

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37 C. Schmitt, Theodor Däublers Nordlicht. Drei Studien über die Elemente, den Geist unddie Aktualität des Werkes, München 1916, p. 66; tr. it. Aurora boreale: tre studi sugli elementi, lospirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler, a cura di S. Nienhaus, Napoli 1995.

38 E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, cit., p. 113.

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digi” e costringe ad adorare il potere stesso, mettendo a morte quanti sirifiutano di farlo. L’obbedienza esteriore non è sufficiente, il regno delmale richiede l’adorazione. Di fronte a un tale regno, sembra non esser-vi spazio per la neutralità. O adorare o morire. Non c’è possibilità divincere questo regno sul piano della potenza mondana. Nelle sue maniè concentrato il massimo di essa: «Il modo onde si realizza la vittoriasull’Anticristo, è rappresentato dal martirio»39.

***

Le raffigurazioni dell’Anticristo hanno il merito di tener desta l’at-tenzione nei confronti della densità del male nella storia, e dunque dievitare le cadute nei facili ottimismi delle visioni progressive che hannocaratterizzato tanta storia passata. Dopo la fine del ‘900 ci manca ilsenso di spensierata sicurezza degli Illuministi, con la quale lo svizze-ro Corrodi nella sua Storia del chiliasmo (1781-1783) poteva afferma-re: «la storia del visionarismo fanatico è utile perché essa preserva dalpericolo di ricadute» e perché comunque offre sempre «ricca materiaallo spasso»40. Leggendo il racconto medievale in cui l’Anticristo,durante la sua signoria sulla terra, porta con sé un «forno crematorio»,l’uomo contemporaneo non vi trova nulla di divertente, semmai qual-cosa di sinistro. Lo stesso egli prova nell’apprendere che nel 1805Jung-Stilling, l’amico di Goethe, scriveva che il culto dell’Anticristosarebbe stato un culto «militare»41. Nel 1933, nel suo Die letzten Dinge.Lehrbuch der Eschatologie, il teologo Paul Althaus ha scritto: «unaChiesa che non si inquietasse più di fronte alla possibilità dell’Anti-cristo sarebbe per ciò stesso divenuta anticristica»42. Si può essere d’ac-cordo con lui quando sostiene che «l’idea dell’Anticristo è il forte “no”ad ogni chiliasmo secolarizzato, alla fede ottimistica nell’avvento pro-gressivo del regno di Dio sulla terra»43.

Tuttavia queste raffigurazioni corrono il rischio di offrire pretestialla demonizzazione di concreti avversari storici. Come la politica non

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39 J. Pieper, Sulla fine del tempo, cit., p. 134.40 Citato ivi, p. 114. 41 Cfr. J.H. Jung-Stilling, Erster Nachtrag zur Siegesgeschichte des Christus-Reichtums,

Stuttgart 1805, pp. 95 ss.42 P. Althaus, Die letzten Dinge. Lehrbuch der Eschatologie, Berlin 1933, 19552, p. 297.43 Ibidem.

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va sacralizzata, essa non va neppure demonizzata ed è bene guardarecon diffidenza nei confronti dell’introduzione di categorie escatologi-che dentro i suoi conflitti. Anche se l’identificazione dell’Anticristo inun concreto avversario politico dà forza a chi subisce la persecuzione44

ed anche se tale identificazione ha con sé una parte di verità, giacchél’Apocalisse narra anche ciò è già avvenuto e che sempre sta avvenen-do, tuttavia c’è sempre un «oltre» in cui anche l’Anticristo si colloca.Benché avesse tratti anticristici il regime hitleriano non ha esaurito lapotenza dell’Anticristo che ancora ci sta davanti ed al fianco.

Per questo è bella l’espressione di Bonhoeffer che a chi chiedeva sedavvero Hitler fosse il «grande antagonista», rispondeva:

«No, Hitler non è l’Anticristo, per questo egli non è grande abbastanza. L’An-ticristo si serve di lui, ma non è stupido come lui»45.

E per la medesima ragione è bene sempre avere presente, anche amo’ di monito per il futuro, quanto riferisce Ernst Bernheim all’iniziodelle sue Visioni medievali del tempo:

«Nelle gazzette dell’ottobre 1914 [p. es., sul numero 239 della “GreifswalderZeitung” di Ottobre] si potevano leggere notizie come la seguente. “Il giorna-le bulgaro Utro riferisce che due settimane fa è stato distribuito in Russia unopuscolo nel quale si affermava che il Kaiser tedesco non è un uomo cometutti gli altri, ma l’Anticristo, il cui avvento prelude alla fine di tutte le cose.Opuscoli del genere erano stati distribuiti gratuitamente all’esercito russo nellasua interezza, ma ben presto ci si avvide di come coloro che li avevano redat-ti avessero fatto male i loro conti, quando si erano figurati che i mužik nesarebbero stati indotti a grandi imprese. Al contrario, i superstiziosi soldati

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44 È questo il caso, ad esempio, delle interpretazioni di Hitler come l’Anticristo che trovia-mo in Edith Stein o nei volantini della Weisse Rose: «Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler èuna menzogna. Quando egli parla di pace pensa alla guerra, quando egli in modo blasfemo pro-nuncia il nome dell’Onnipotente, si riferisce invece alla potenza del Male, agli angeli caduti, aSatana. La sua bocca è come l’ingresso fetido dell’inferno ed il suo potere è corrotto nel più pro-fondo» (citato in P. Ghezzi, La Rosa Bianca. Un gruppo di resistenza al nazismo in nome dellalibertà, Milano 19942, p. 278).

45 E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Theologe, Christ, Zeitgenosse. Eine Biographie, München1966; tr. it. Dietrich Bonhoeffer. Teologo, cristiano, contemporaneo. Una biografia, Brescia 1975,p. 771. Sul problema cfr. A. Conci, La questione dell’Anticristo tra teologia e politica in DietrichBonhoeffer, in A. Conci-S. Zucal (eds.), Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla respon-sabilità dell’uomo, Brescia 1997, pp. 341-360.

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russi ne ricavarono la convinzione che “è impossibile combattere contropotenze diaboliche” e raffreddarono ogni loro entusiasmo. Al che, il SantoSinodo si vide costretto a pubblicare un manifesto nel quale si attestava che il“Kaiser tedesco è un uomo come tutti e in ogni caso non è il temutoAnticristo”».

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46 E. Bernheim, Mittelalterliche Zeitanschauungen in ihrem Einfluss auf Politik undGeschichtsschreibung, Tübingen 1918, p. 1.

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SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI 2,1-12

2.1 ∆Erwtw'men de; uJma'", ajdelfoiv, uJpe;r th'" parousiva" tou'Kurivou hJmw'n ∆Ihsou' Cristou' kai; hJmw'n ejpisunagwgh'" ejp∆ aujtovv2. eij" to; mh; tacevw" saleuqh'nai uJma'" ajpo; tou' noo;" mhde;qroei'sqai, mhvte dia; pneuvmato" mhvte dia; lovgou mhvte di∆ ejpi-stolh'" wJ" di∆ hJmw'n, wJ" o{ti ejnevsthken hJ hJmevra tou' Kurivou: 3.mhv ti" uJma'" ejxapathvshÊ kata; mhdevna trovpon. o{ti eja;n mh; e≠≠[lqhÛhJ ajpostasiva prwton kai; ajpokalufqhÊ oJ a[nqrwpo~ th~ ajnomiva~,oJ uiJo;~ th~ ajpwleiva~, 4. oJ ajntikeivmeno~ kai; uJperairovmeno~ ejpi;pavnta legovmenon Qeo;n h] sevbasma, w{ste aujto;n eij~ to;n nao;n tou`Qeou kaqivsai ajpodeiknuvnta eJauto;n o{ti e[stin Qeov~. 5. Oujmnhmoneuvete o{ti e[ti w]n pro;~ uJma~ tauta e[legon uJmin… 6. kai;nun to; katevcon oi[date eij~ to; ajpokalufqhnai aujto;n ejn tw/eJautou kairw/. 7. to; ga;r musthvrion h[dh ejnergeitai th~ ajnomiv-a~∑ movnon oJ katevcwn a[rti e{w~ ejk mevsou gevnhtai. 8. kai; tovteajpokalufqhvsetai oJ a[nomo~, o}n oJ kuvrio~ ª∆Ihsou~º ajnelei tw/pneuvmati tou stovmato~ aujtou kai; katarghvsei thÊ ejpifaneivaÛth~ parousiva~ aujtou, 9. ou| ejstin hJ parousiva kat∆ ejnevrgeiantou' Satana ejn pavshÊ dunavmei kai; shmeivoi~ kai; tevrasin yeuvdou~10. kai; ejn pavshÊ ajpavthÊ ajdikiva~ toi~ ajpollumevnoi~, ajnq∆w|n th;najgavphn th~ ajlhqeiva~ oujk ejdevxanto eij~ to; swqh`nai aujtouv~. 11.kai; dia; touto pevmpei aujtoi~ oJ qeo;~ ejnevrgeian plavnh~ eij~ to;pisteusai aujtou;~ tw/ yeuvdei, 12. i[{na kriqwsin pavnte~ oiJ mh;pisteuvsante~ thÊ ajlhqeiva/ ajlla; eujdokhvsante~ thÊ ajdikiva/.

2.1 Rogamus autem vos, fratres, per adventum Domini nostri IesuChristi et nostrae congregationis in ipsum, 2. ut non cito moveamini avestro sensu neque terreamini, neque per spiritum neque per sermonemneque per epistulam tamquam per nos missam, quasi instet dies Domi-ni. 3. Ne quis vos seducat ullo modo; quoniam nisi venerit discessio

Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2,1-12 23

00 Testo greco-latino 20-11-2009 15:51 Pagina 23

primum, et revelatus fuerit homo peccati, filius perditionis, 4. qui ad-versatur et extollitur supra omne, quod dicitur Deus aut quod colitur, itaut in templo Dei sedeat ostendens se quia sit Deus. 5. Non retinetisquod, cum adhuc essem apud vos, haec dicebam vobis? 6. Et nunc quiddetineat scitis, ut reveletur in suo tempore. 7. Nam mysterium iam ope-ratur iniquitatis; tantum ut qui tenet nunc teneat donec de medio fiat. 8.Et tunc revelabitur ille iniquus, quem Dominus Iesus interficiet spirituoris sui et destruet inlustratione adventus sui eum, 9. cuius est adven-tus secundum operationem Satanae in omni virtute et signis et prodigiismendacibus 10. et in omni seductione iniquitatis his qui pereunt; eoquod caritatem veritatis non receperunt ut salvi fierent. 11. Ideo mittitillis Deus operationem erroris ut credant mendacio, 12. ut iudicenturomnes, qui non crediderunt veritati, sed consenserunt iniquitati*.

24 Seconda Lettera ai Tessalonicesi 2,1-12

* La traduzione latina è quella della Vulgata geronimiana, non della Nova vulgata, voluta daGiovanni Paolo II con Constitutio Apostolica (25 aprile 1979).

00 Testo greco-latino 20-11-2009 15:51 Pagina 24

PAUL METZGER

IL KATÉCHONUna fondazione esegetica

Il Katéchon è divenuto nel ventesimo secolo una questione di fede.Così, il celebre filosofo politico Carl Schmitt scrive il 19 dicembre 1947nel suo Diario: «Io credo nel Katéchon; per me è l’unica possibilità dicomprendere la storia da cristiano e di trovarla sensata»1. Schmitt identi-fica il Katéchon con lo Stato in sé e lo intende quindi alla stregua di unagrandezza reale che agisce nel mondo e arresta l’avanzare del caos2.

Nello stesso periodo, nella scienza esegetica, si è cominciato viep-più a rinunciare all’interpretazione del Katéchon come riferito alloStato3. Dopo che tale interpretazione aveva dominato la storia erme-neutica per oltre mille anni, l’ultimo grande studio che sosteneva que-sta tesi, presentato nel 1938 da Willi Böld4, non trovò in pratica quasirisonanza alcuna. Invece, sembrò riscontrare consenso la tesi secondocui il Katéchon sia da riferire a Dio. È Dio stesso, ovvero il suo pianosalvifico, a frenare gli ultimi pretendenti alla sua divinità. Per esempio,muovendo da Eb 2,3 August Strobel giunge, nel suo importante studiosul differimento della parousía, alla tesi secondo cui il Katéchon rap-presenterebbe unicamente un terminus technicus per indicare «il diffe-

1 Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, hg. v. Eberhard Freiherrvon Medem, Berlin 1991, p. 63.

2 Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin19974, p. 29: «Non credo che per una fede originariamente cristiana sia possibile un’immaginedella storia diversa da quella del Katéchon. La fede nel fatto che ci sia una forza frenante in gradodi trattenere la fine del mondo getta gli unici ponti che dalla paralisi escatologica di ogni accade-re umano conducono ad una grandiosa potenza storica come quella dell’impero cristiano dei regermanici».

3 Una presentazione esaustiva della storia della ricerca (Forschungsgeschichte) si trova inPaul Metzger, Katechon. II Tess. 2,1-12 im Horizont apokalyptischen Denkens, BZNW 135,Berlin - New York 2005.

4 Willi Böld, Das Bollwerk wider die Chaosmächte. Eine problemgeschichtliche Studie zurStaatstheologie von 2. Thess 2,6 f., Diss. Masch. Bonn 1938 (pubblicazione parziale con il titolo:Die antidämonischen Abwehrmächte in der Theologie des Spätjudentums, Bonn 1938).

Il Katéchon. Una fondazione esegetica 25

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rimento della parousía prevista nel piano universale di Dio» e quindi,in quanto tale, sarebbe privo «di un contenuto più preciso»5. In questatesi pare problematica soprattutto la circostanza che un termine tecniconon è tale se non è attestato da passi paralleli6. Comunque, da quelmomento in poi molti esegeti seguono la tesi di Strobel7.

Recentemente, tuttavia, un numero sempre maggiore di ricercatori hacominciato a prediligere altre ipotesi. Così, Enno E. Popkes8, sulla scor-ta di Oscar Cullmann9 e Peter Stuhlmacher10, riconosce nel Katéchon l’a-postolo Paolo, mentre Colin Nicholl vi vede l’arcangelo Michele11.

Mentre le interpretazioni di cui fin qui si è detto erano già stateespresse tutte nella Chiesa antica, spetta a Ernst v. Dobschütz12 e, inmodo ancora più evidente, a M. Dibelius13 e L.J. Lietaert Peerbolte ilmerito di aver dato voce a una interpretazione del Katéchon a mio avvi-so completamente nuova. Peerbolte vede il discorso del Katéchon comeun artificio retorico dell’Autore della lettera privo di un contenuto piùpreciso. Il redattore stesso non sa che cosa sia il Katéchon, vuole conciò solo guadagnare tempo e spera che siano poi i destinatari della let-tera a riempire il concetto di contenuto14.

26 Paul Metzger

5 August Strobel, Untersuchungen zum eschatologischen Verzögerungsproblem auf Grundder spätjüdisch-urchristlichen Geschichte von Habakuk 2,2ff, NT.S 2, Leiden 1961, p. 101.

6 Così, con ragione, Charles H. Giblin, The Threat to Faith. An Exegetical and TheologicalRe-examination of 2 Thessalonians 2, AnBib 31, Rome 1967, p. 201: «An examination of lexico-graphical evidence ... disclosed no technical use of the term in OT or in Paul».

7 P. es. Wolfgang Trilling, Der zweite Brief an die Thessalonicher, EKK XIV, Zürich ecc.1980; Paul-Gerhard Müller, Der erste und der zweite Brief an die Thessalonicher, RNT, Re-gensburg 2001; Georg Strecker, Theologie des Neuen Testaments, bearbeitet, ergänzt und hg. v.Friedrich W. Horn, Berlin - New York 1996.

8 Enno E. Popkes, Die Bedeutung des zweiten Thessalonicherbriefs für das Verständnis pau-linischer und deuteropaulinischer Eschatologie, BZ 48, 2004, pp. 39-64, qui p. 62.

9 Oscar Cullmann, Der eschatologische Charakter des Missionsauftrages und des apostoli-schen Selbstverständnisses bei Paulus. Untersuchungen zum Begriff des katéchon in 2. Thess 2,6-7, in Id., Vorträge und Aufsätze 1925-67, hg. v. K. Fröhlich, Tübingen 1967, pp. 305-335, qui pp.334-335.

10 Peter Stuhlmacher, Biblische Theologie des Neuen Testaments II. Von der Paulusschule biszur Johannesoffenbarung. Der Kanon und seine Auslegung, Göttingen 1999, p. 58.

11 Colin R. Nicholl, Michael, the Restrainer removed (2Thess 2:6-7), JThS.NS 51, 2000, pp.27-53, qui p. 33: «Without doubt the most plausible angelic candidate for the restrainer is thearchangel Michael».

12 Ernst von Dobschütz, Die Thessalonicher-Briefe, KEK X, Göttingen 19097.13 Martin Dibelius, An die Thessalonicher I-II. An die Philipper, HNT 11, Tübingen 19373.14 Lambertus J. Lietaert Peerbolte, The katechon of 2 Thess 6-7, NT 39, 1997, pp. 138-150,

qui pp. 149-150.

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Ora, al cospetto del gran numero di ipotesi interpretative che sonostate avanzate nel ventesimo secolo, ci può essere solo una via pratica-bile per trovare una interpretazione del Katéchon che si renda verosi-mile. Innanzitutto, va analizzato il contesto del Katéchon per ricavarein tal modo dei parametri che rendano possibile una comparazionefenomenologica del motivo. E poiché né un’analisi terminologica, néuna storia diacronica del motivo apportano il vantaggio di rendere pos-sibile una identificazione del Katéchon, vanno rinvenuti, nel contesto incui si colloca la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, testi che corrispon-dano a quelli di Seconda Tessalonicesi. I parametri ricavati dall’analisidi Seconda Tessalonicesi possono quindi mostrare alcuni fattori checorrispondono al Katéchon. Se questi fattori sono nominati più chiara-mente in altri testi, essi possono allora essere utilizzati anche per l’in-terpretazione del Katéchon stesso15.

1. Il fine

Seconda Tessalonicesi venne scritta da un Autore a noi sconosciu-to16 verso la fine del I sec. d.C. presumibilmente in Asia Minore17.L’Autore vuole confutare la tesi secondo cui il giorno del Signore sa-rebbe già arrivato o quantomeno sarebbe imminente: enéstēken he he-méra tou Kyríou (2Ts 2,2).

Questa tesi ha probabilmente portato nella sua comunità al fatto chealcuni componenti di questa, a motivo della loro attesa esasperata dellafine, hanno smesso il loro lavoro abituale suscitando così scandalo sianel loro ambiente circostante sia nella comunità stessa (2Ts 3,6.10).Ora un simile «scandalo» non giova a una comunità che appare reli-giosamente sospetta. Poiché essa è già palesemente esposta a minacce

Il Katéchon. Una fondazione esegetica 27

15 Per questa metodica cfr. P. Metzger, Katechon, cit., pp. 10 ss. 16 Probabilmente, quest’Autore non è un allievo di Paolo (contrariamente a quanto afferma

Andreas Lindermann, Zum Abfassungszweck des Zweiten Thessalonicherbriefes, ZNW 68, 1977,pp. 35-47, qui p. 47), ma un teologo che vuole correggere Paolo mediante una lettera paolina fit-tizia (così Thomas Schmeller, Schulen im Neuen Testament? Zur Stellung des Urchristentums inder Bildungswelt seiner Zeit, mit einem Beitrag von C. Cebulj zur Johanneischen Schule, HBS 30,2001, p. 149; Paul Metzger, Eine apokalyptische Paulusschule? Zum Ort des Zweiten Thessa-lonicherbriefs, in Apokalyptik als Herausforderung neutestamentlicher Theologie, hg. v. MarkusÖhler/Michael Becker, WUNT II 214, Tübingen 2006, pp. 145-166, qui pp. 164 ss.).

17 Per le questioni introduttive cfr. P. Metzger, Katechon, cit., pp. 34 ss.

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(2Ts 1,3-10), un comportamento dei suoi componenti che dia nell’oc-chio costituisce un grande problema. È pertanto nell’interesse del-l’Autore mitigare l’attesa esasperata della fine da parte della sua comu-nità. Il problema che tratta la Seconda Lettera ai Tessalonicesi è dun-que tutto interno alla comunità. L’Autore cerca di far aderire la suacomunità a una linea teologica che egli predispone. Si serve perciò del-l’imitazione di una lettera paolina perché intende in tal modo procurar-si una autorità che egli, di per sé, non ha. Va dunque istituita una auto-rità e la comunità deve essere a questa vincolata. In gioco dunque nonè una speculazione astratta sui tempi ultimi, ma la necessità di mante-nere i destinatari nella retta dottrina, di ammonirli e dar loro assicura-zione circa il fatto che le loro momentanee sofferenze saranno com-pensate dal giudizio di Dio e che essi otterranno così la vita eterna.

In termini estremamente pragmatici la lettera tenta però anche direndere possibile ai destinatari diretti una vita tranquilla nel loroambiente di riferimento.

Perciò, non si rinuncia affatto all’attesa della fine, ma viene prefi-gurato davanti agli occhi della comunità, come sua consolazione, il giu-dizio di Dio. Il punto di attrito tra l’Autore della lettera e i suoi oppo-sitori non è dunque se venga o no la parousía. Il problema è la collo-cazione temporale di questa parousía.

2. L’argomentazione18

Mentre la lettera, nel suo complesso, è percorsa da reminiscenze diPrima Tessalonicesi, in 2Ts 2,1-12 l’Autore usa una formulazione asso-lutamente libera. Già da tale aspetto si evidenzia come su questo puntorisieda del tutto specificamente il suo interesse. Niente di strano, datoche il fine perseguito sta e cade con l’argomentazione qui presentata.

L’Autore esprime chiaramente ciò di cui qui ne va: la comunità nondeve farsi sviare riguardo alla parousía e alla ricapitolazione dei cre-denti con Cristo19 (eis tò mē tachéōs saleythênai hymâs apò toû noósmēdè throeîsthai). Il movimento difensivo del testo è palese. La comu-

28 Paul Metzger

18 Su ciò cfr. più direttamente P. Metzger, Katechon, cit., pp. 92 ss. 19 Qui l’Autore si cimenta con l’immagine della parousía che anche Paolo utilizza in 1Ts

3,13 ss.

01 Metzger 20-11-2009 15:52 Pagina 28

nità si trova evidentemente di fronte al rischio di deviare dalla retta dot-trina e di seguire una dottrina erronea. Contro questo rischio l’Autoreintima di non perdere la ragione e di giudicare con assennatezza esobrietà20. Le forme verbali saleythênai (infinito aoristo passivo) ethroêisthai (infinito presente passivo) fanno pensare da un lato a unevento del passato e dall’altro lato a un evento che perdura. È quindi inatto una lotta riferita alla comunità: la comunità è stata sviata e il suosviamento perdura tuttora. La comunità è stata evidentemente turbatadalla convinzione che il giorno del Signore sia già presente qui e ora(2Ts 2,2)21. I membri della comunità aspettano dunque il giudizio diDio come immediatamente imminente o come un processo già palesedi cui essa crede di poter riconoscere i prodromi22.

Ora, in questa situazione di lotta l’Autore enumera tutte le fontiche potrebbero aver messo in circolazione una tale voce erronea: mētedia pnéumatos mēte dià lógou mēte di’epistolês. L’aggiunta ōs di’hē-môn attesta che in nessun caso questa tesi può essere pervenuta daPaolo o dai suoi discepoli23. In pratica, vengono quindi desautoratetutte le fonti di trasmissione – un’espressione profetica a forte caricaspirituale, un’informazione ovvero un annuncio, persino una lettera –e permane nella sua validità esclusivamente la lettera adesso scritta24.Agli oppositori è in questo modo sottratta, in fondo, la base per la lorolegittimazione.

Il Katéchon. Una fondazione esegetica 29

20 Cfr. Friedrich W.L. Bornemann, Die Thessalonicherbriefe, KEK X, Göttingen 18945/6, p.360: i destinatari hanno perso «la loro sobria facoltà di giudizio con le sue caratteristiche di chia-rezza e assennatezza».

21 È del tutto inverosimile l’ipotesi che i destinatari abbiano creduto di aver perso l’appun-tamento con il giorno del Signore. Questa è però l’opinione di Taeseong Roh, Der ZweiteThessalonicherbrief als Erneuerung apokalyptischer Zeitdeutung, NTOA 62, Göttingen ecc.2007, p. 12. Il giorno del Signore viene inteso sia nel contesto ebraico sia in quello cristiano comeun evento che coinvolge tutto il mondo. Esso è la fine del vecchio mondo e l’irruzione del nuovoEone. Come può una comunità perdere l’appuntamento con la fine del mondo?

22 Ciò è assolutamente verosimile, in quanto la tribolazione e la guerra possono essere intutto e per tutto interpretati come segni della fine vicina. Cfr. Mc 13,7 s.; 2Tm 3,1. I destinataridella lettera potrebbero così aver pensato che Cristo era sul punto di ritornare e che cominciasseora la raccolta dei suoi. Cfr. Martinus J.J. Menken, 2 Thessalonians, London ecc. 1994, pp. 100 s.

23 Cfr. Wolfgang Trilling, Der zweite Brief an die Thessalonicher, EKK XIV, Zürich ecc.1980, pp. 75 s.

24 In pratica, quindi, Seconda Tessalonicesi rimanda a se stessa. Cfr. Peter Müller, Anfängeder Paulusschule. Dargestellt am zweiten Thessalonicherbrief und am Kolosserbrief, AThANT,Zürich 1988, p. 263: «L’apostolo è punto di partenza della tradizione e ne pone il contenuto».

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È per questo che ora l’Autore può passare all’appello alla sua co-munità: mé tis hymâs exapatēse(i) katà mēdéna trópon. Il punto delconflitto ha un nome. Il suo fondamento è designato come errato. Nonresta adesso che trarne le conseguenze. La comunità non deve farsi in-gannare. Qui l’Autore allude indirettamente ai suoi oppositori. Vi è evi-dentemente qualcuno che tenta di distogliere la comunità dalla sua via.A ciò bisogna opporsi.

Ora, per consolidare argomentativamente questa richiesta, l’Autorepresenta un itinerario di tipo apocalittico. L’Autore argomenta in chia-ve meramente cronologica: due eventi devono succedersi prima che ilgiorno del Signore possa manifestarsi. «Prima dell’avvento dellaparousía deve 1) verificarsi una grande generalizzata apostasia [...] e 2)deve rivelarsi l’Anticristo»25. Evidentemente, sulla sequenza deglieventi in sé domina un certo consenso tra l’Autore e i suoi oppositori,ovvero la comunità. È infatti solo così che la sua argomentazione puòavere successo26. È però controversa la localizzazione temporale deglieventi. Pertanto, egli si vede costretto a sviluppare in maniera relativa-mente estesa la sua interpretazione sul presente della comunità.

La struttura parallela della frase rende verosimile pensare che i dueeventi si svolgano in contemporanea. 2Ts 2,8-10 evidenzia come l’av-vento dell’Avversario di Dio abbia per effetto una apostasia. Infatti,quando verrà l’Avversario, questi sedurrà gli uomini che per seguirloabbandoneranno la vera fede.

L’Autore si occupa dettagliatamente di questa figura perché il suoavvento costituisce, in prima istanza, la condizione per il ritorno diCristo e, in seconda istanza, la differenza decisiva tra la propria inter-pretazione dei tempi e quella dei suoi oppositori. L’inizio della parou-sía di Cristo non può ancora esserci perché non è ancora giunto l’Av-versario. L’apostasia religiosa che viene innescata dall’avvento del-l’Avversario di Dio (2Ts 2,10) non è ancora cominciata, perlomeno nonin proporzioni notevoli. Poiché però questo rappresenta il «rimandoultimo alla fine dall’aldiqua»27, gli eventi parusìaci non possono anco-ra aver avuto inizio. Infatti, si tratta di un avvento che non si può igno-

30 Paul Metzger

25 Bornemann, Thessalonicherbrief, cit., p. 362. 26 Cfr. Otto Betz, Der Katechon, NTS 9, 1962/63, pp. 276-291, qui p. 283. 27 Albrecht Oepke, ∆apokavluyi~, ThWNT III, Stuttgart 1938, pp. 558-597, qui p. 586.

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rare. È la rivelazione dell’iniquo, di colui che, in sé, è anomico, privodi legge. Questi trasgredirà ogni legge e ogni sensibilità religiosa e sifarà infine lui stesso venerare come Dio (2Ts 2,3 s.). In quanto figliodella perdizione, è la morte fatta persona. Dietro il suo avvento sta lapotenza diabolica di Satana che minaccia i credenti e vuole distoglier-li dalla retta via (2Ts 2,9 s.). In quanto perdizione fatta persona, resapotente dal diavolo, l’Avversario può difficilmente venir pensato comeessere umano. È a questo che allude il concetto utilizzato di apōleia cheanche in Mt 7,13; 26,8; At 8,20; Rm 9,22; Fil 1,28 indica come qui ilriferimento sia a un annientamento definitivo della vita che nessunuomo può arrecare. Piuttosto, l’Avversario deve essere una figurademoniaca che si cela dietro sembianze umane28. Se si tiene presente,al riguardo, 2Ts 2,10-12, nell’Avversario può essere quindi visto unostrumento di Dio che mette alla prova la comunità29.

L’avvento dell’Avversario di Dio è susseguente a molti segni emiracoli che hanno lo scopo di sedurre gli uomini (2Ts 2,9). Comunqueora – cioè nel tempo presente dei destinatari della lettera – l’Avversarionon può ancora operare, ma potrà farlo solo nel momento in cui (2Ts2,8: kaì tóte) non ci sia più il Katéchon. Il verbo apokalýptō allude alprocesso con cui la Trascendenza irrompe nella realtà del mondo30 – inquesto caso: l’introduzione nel mondo di un male soprannaturale. In talmodo però è non solo sottolineato il ruolo del Katéchon, ma è anche nelcontempo stabilito che, se per il momento l’Avversario non c’è ancora,tuttavia è già molto bene all’opera la forza che lo alimenta: vale a dire,il mistero dell’iniquità (2Ts 2,7: mystērion tês anomías). L’Avversariodi Dio è figlio dell’iniquità e la rappresenta in forma di persona (2Ts2,3). Ma nel presente della comunità il suo mistero costituisce il moti-vo per cui la comunità stessa già si trova a patire tribolazioni.

Con questa determinazione del presente della comunità l’Autoreriesce a interpretare i segni dei tempi con estrema abilità. Egli non negala percezione del presente dei suoi oppositori, ma la interpreta diversa-mente. Mentre i suoi oppositori percepiscono nelle tribolazioni dellacomunità il segno della fine, l’Autore della lettera le spiega come effet-

Il Katéchon. Una fondazione esegetica 31

28 Cfr. Dobschütz, Tessalonicherbriefe, cit., p. 271. 29 Ciò corrisponde al ruolo di Satana in Gb 1,6 ss. 30 Cfr. Oepke, ∆apokavluyi~, cit., p. 595.

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ti del mystērion tês anomías. Il presente della comunità è dunque disofferenza a motivo dell’azione di questo mistero, non a motivo del-l’Avversario di Dio. L’Avversario è piuttosto il culmine e, in quantotale, la personificazione dell’iniquità31. In quanto Avversario di Dio l’i-niquità sarà alla fine annientata da Cristo (2Ts 2,8).

Mentre la descrizione del futuro occupa uno spazio abbastanzaampio, Seconda Tessalonicesi è piuttosto scarna quando si tratti delpresente. Ciò ha probabilmente diverse spiegazioni. Innanzitutto ne vadel presente come del tempo della decisione. Qui, dunque, l’interpreta-zione dell’Autore della lettera deve procedere con maggiore cautelarispetto a un futuro sul quale invece sussiste un certo consenso.Pertanto egli opera con maggiore cautela e, conseguentemente, conmaggiore parsimonia. Comunque, la domanda retorica ou mnēmonéye-te hoti éti ōn pros hymas taûta élegon hymîn? (2Ts 2,5), che deve ser-vire da monito ai destinatari della lettera, si appella alle conoscenzepregresse della comunità e non ha quindi bisogno di ulteriori particola-ri. L’Autore confida dunque nel fatto che i destinatari della sua letterasiano in grado di interpretare il tono del discorso, da lui mantenutointenzionalmente sfocato.

Forse, il motivo del suo modo misterioso di parlare va visto anchenella situazione di pericolo cui è sottoposta la comunità32. Proba-bilmente, egli è cauto nella valutazione del presente perché la comuni-tà è minacciata dall’esterno ed è sottoposta a pericoli anche la lettera-tura che la riguarda33. Se si tiene presente il quadro, che fonti romanemostrano, di una società romana corrotta nella quale chiunque erapotenzialmente a rischio di essere denunciato, l’ipotesi risulta alloraassolutamente legittima34.

32 Paul Metzger

31 Cfr. Bornemann, Thessalonicherbrief, cit., p. 363. 32 Secondo Trilling, Thessalonicherbrief, cit., p. 89, il discorso «si mantiene intenzionalmen-

te misterioso».33 Cfr. Charles E. Powell, The Identity of the «Restrainer» in 2 Thessalonians: 6-7, BSTR

154, 1997, pp. 328-332, qui p. 331; Otto Böcher, Die Johannes-Apokalypse in der neuerenForschung, ANRW II 25.5, Berlin - New York 1988, pp. 3850-3893, qui p. 3892; Geert Hallbäck,How to read an Apocalypse. Deconstruction and Reconstruction, StTh47, 1993, pp. 91-100, quip. 99; Trilling, Thessalonicherbrief, cit., p. 72; Desmond Ford, The Abomination of Desolation inBiblical Eschatology, Washington 1979, p. 222.

34 Cfr. Tacitus, Hist. I,2; Plinius, Ep. 10,96.

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Il discorso del Katéchon è intenzionalmente criptico. La comunitàpuò decifrarlo in virtù del rimando presente in 2Ts 2,5. Ora sta a leidecriptare il discorso.

Tutto ciò ha come conseguenza, in vista dell’interpretazione delKatéchon, che è necessario ricostruire le conoscenze pregresse dellacomunità, dal momento che esse rappresentano la chiave decisiva perl’identificazione del Katéchon stesso.

Innanzitutto, però, i vv. di 2Ts 2,6 s. forniscono indicazioni ulteriori.Qui si parla del Katéchon al neutro. Questo Katéchon doveva esse-

re noto alla comunità. La sua funzione consiste nel trattenere il figliodell’iniquità finché questi non si rivelerà a suo tempo (eis tò apo-kalyphthēnai autòn en tô[i] heautoû kairô[i]). Ora – vale a dire nelmomento presente della comunità – il Katéchon è ancora operante. Ilsuo tempo però può essere altrettanto poco determinato quanto quellodell’iniquo. Il tempo di azione del Katéchon e il momento di appari-zione dell’Avversario di Dio sono stabiliti da Dio. È quanto indica l’u-tilizzo delle forme passive (apokalyphthēnai – ghénētai). Il tempodell’Avversario di Dio verrà solo quando sarà messo da parte (ek mésoughénētai) quel Katéchon che adesso ancora trattiene. Il cambio di gene-re dal neutro al maschile è vistosamente parallelo alla personificazionedell’iniquità nell’Avversario di Dio. Evidentemente, il Katéchon el’Avversario di Dio hanno degli elementi in comune: il tempo dientrambi è concesso loro da Dio, entrambi cominciano come forza(Katéchon – mystērion) e terminano come persona35. A partire da qui,è verosimile che il Katéchon debba essere determinato in maniera ana-loga all’Avversario di Dio. Entrambi paiono essenze umano-demonia-che che assumono un posto nel piano di salvezza di Dio.

Pur con tutte le analogie, Katéchon e Avversario di Dio sono peròtra loro contrapposti. Finché l’uno ancora opera, l’altro non può suben-trare. In opposizione a ciò balza all’occhio che invece il mystērion têsanomías è già in azione benché il Katéchon dispieghi ancora il suo effet-to. Da qui si deduce che il Katéchon non garantisce protezione ai desti-natari della lettera, ma ne prolunga il tempo di sofferenza. Dunque, ilKatéchon non è un fattore positivo nel piano di salvezza di Dio, bensì la

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35 Cfr. Glenn S. Holland, The Tradition that you have received from us. 2 Thessalonians inthe Pauline Tradition, HUTh, Tübingen 1988, p. 112.

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spiegazione per il differimento della parousía36. Il Katéchon deve per-tanto essere riconosciuto addirittura come un fattore negativo, dato chela sua presenza consolida lo status quo presente, prostrante per la comu-nità. I destinatari devono aspettare fino al momento in cui il Katéchonneutro si sia personificato nel Katéchon maschile e venga quindi, inquanto tale, rimosso. Solo allora potranno iniziare gli eventi della fine.

Il Katéchon è dunque un fattore del presente della comunità checomporta effetti negativi sui destinatari della lettera, ma a cui è comun-que posta una scadenza da parte di Dio. Inoltre esso è da concepire ana-logamente al mistero della iniquità e all’Avversario di Dio. Contem-poraneamente vi si contrappone – anche se in larga misura senza suc-cesso. Come può però il Katéchon contrapporsi a un demone?

La demonologia antica, che pone alla sua base il principio struttu-rale della analogia cosmica37, fornisce al riguardo una chiara risposta:solo un demone può trattenere un altro demone. Che anche gli scritto-ri biblici partecipino di questo principio lo si può dimostrare con Nm21,6 ss. e Mc 3,22 par. Questa considerazione ci fornisce quindi un’al-tra tessera del mosaico con cui l’immagine del Katéchon può essereulteriormente compresa.

2Ts 2,7 aiuta ad aggiungere un altro tassello. Il punto di svolta èinequivocabilmente éos ek mésou ghénētai. Con tutta probabilità que-

34 Paul Metzger

36 Qui si trova una differenza fondamentale rispetto alle interpretazioni moderne del Ka-téchon finora espresse. Queste soggiacciono per la gran parte a un errore, forse motivato mate-maticamente, in base al quale una forza che trattiene una forza negativa dev’essere automatica-mente positiva. Cfr. p. es. Trilling, Thessalonicherbrief, cit., p. 90: «Il katechon ha la funzione diinibire l’irruzione dell’Avversario di Dio, di trattenerlo fino a una determinata epoca (V 6b).Perciò deve essere una forza vista positivamente quella che esercita una tale benefica azione pro-rogante». Trilling non prende in debita considerazione la situazione di minaccia a cui è esposta lacomunità, la quale non spera dal Katéchon alcuna «benefica azione prorogante», ma aspetta piut-tosto «l’irruzione dell’Avversario di Dio», perché questo è uno stadio necessario di transizioneverso la salvezza. Una analoga attesa la attesta p. es. 4 Esd 7,3 ss. Di questo avviso è anche KurtErlemann, Naherwartung und Parusieverzögerung im Neuen Testament. Ein Beitrag zur Fragereligiöser Zeiterfahrung, TANZ 17, Tübingen - Basel 1995, p. 209.

37 Dal Timeo platonico (69b) in poi, l’analogia vale come «principio cosmico strutturale»(Wolfgang Kluxen, Analogie, HWP I, Darmstadt 1971, pp. 214-227, qui p. 215), che determinal’ordine del mondo: l’uguale viene riconosciuto con l’uguale. Tradotto ciò significa, per la demo-nologia, che un demone difende un altro demone. Cfr. Alfred Bertholet-Carl-Martin Erdsmann, advocem «Magie, religionsgeschichtlich», RGG3 4, Tübingen 1960, coll. 595-601, qui col. 598;Conrad von Orelli, Zauberei und Wahrsagerei, RE 21, Leipzig 1908, pp. 611-620, qui p. 615; OttoBöcher, Dämonenfurcht und Dämonenabwehr. Ein Beitrag zur Vorgeschichte der christlichenTaufe, BWANT 90, Stuttgart 1970, pp. 161-162.

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sta frase è stata intenzionalmente formulata così. Essa lascia impregiu-dicato il modo in cui la fine del Katéchon si presenterà esattamente.Ora, poiché questa locuzione può significare o che il Katéchon verràrimosso a forza o che semplicemente scomparirà, l’Autore non si sof-ferma su questa definizione. Per lui non importa il modo in cui il Ka-téchon, maschile o neutro, troverà la sua fine. Conta per lui esclusiva-mente la dimostrazione che il presente si attesta come tempo significa-tivo. Il suo scopo è raggiunto se la comunità accetta il Katéchon comeciò che trattiene l’Avversario di Dio e in questo modo si lascia tran-quillizzare nella sua nervosa attesa escatologica della prossima fine.Relativamente al Katéchon, ciò significa in ogni caso che esso esisteancora. In questo modo abbiamo acquisito diversi criteri che determi-nano l’interpretazione del Katéchon.

Il Katéchon (neutro) è un essere intermedio umano-demoniaco, cheè all’opera al tempo della comunità. Esso si personifica nel Katéchon(maschile) che deve essere eliminato affinché possa subentrare l’Av-versario di Dio. Il Katéchon non protegge la comunità, ma ne prolungail tempo di sofferenza. Il tramonto del Katéchon è il momento che lacomunità attende. Esso è però ancora in vigore. Ma a che cosa si allu-de con esso?

3. Un confronto fenomenologico

Nella ricerca sul tema sono già stati già portati alla luce, come ana-logia per il Katéchon, vari testi: 2Pt 3,3-13; Ap 5,1-5; 6,9-11; 7,1-8;4Esd 4,3-43; LAB 51, 3-6; Mc 13,10 par; 1 Qp; Eb 7; 1 Q 2738. La revi-sione attenta dei testi comparabili a Seconda Tessalonicesi ha però con-dotto a soli due testi interpretabili come realmente paralleli e nel con-tempo di un qualche aiuto per una determinazione del Katéchon. Sitratta di Ap 17,10 s. e di IV Ezra 5,3; 11,45 s. Entrambi i testi sono staticoncepiti nello stesso periodo di Seconda Tessalonicesi. Entrambi se-gnalano problemi (differimento del giudizio; minaccia sui lettori) e fi-nalità simili (interpretazione del presente; consolazione). Ed entrambi

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38 Per una analisi e una discussione più dettagliata di questi testi vedi Metzger, Katechon,cit., pp. 132 ss.

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nominano un motivo per il quale il giudizio ancora non si verifica.Entrambi nominano cioè un Katéchon.

3.1. IV Ezra 5,3; 11,45 s.

Ezra, il protagonista dello scritto, chiede a Uriele, che interpretal’angelo inviatogli, quando verrà il Giudizio. Uriele risponde che glie-lo possono rivelare i segni della fine dei tempi. Questi somigliano per-cettibilmente alla descrizione del futuro fornita da Seconda Tes-salonicesi:

«Ecco, arriveranno i giorni in cui quelli che abitano sulla terra verranno presida gran terrore, la via della verità verrà nascosta, la terra della fede sarà steri-le, e l’ingiustizia si accrescerà ancor più di quella che vedi tu stesso, e più diquella di cui una volta hai sentito parlare; il paese che ora vedi regnare diven-terà caotico e impercorribile e lo vedranno deserto»39.

Per il nostro contesto è particolarmente degna di nota l’ultima frase.Essa corrisponde a IV Ezra 5,6:

«Regnerà colui nel quale non sperano quelli che abitano sulla terra».

Il Quarto Libro di Ezra abbozza dunque uno scenario apocalitticosimile a quello di Seconda Tessalonicesi. Anch’esso attende la parou-sía e prospetta un percorso che rende possibile ai destinatari dello scrit-to trovare la propria collocazione all’interno della storia del mondo40.Anch’esso conosce un dominatore ultimo che va certamente concepitocome «il tiranno terribile della fine dei tempi»41. Prima però che faccia

36 Paul Metzger

39 Tutti i testi del Quarto Libro di Ezra vengono citati (nell’originale tedesco) secondo la ver-sione di Josef Schreiner, Das 4. Buch Esra, JSHRZ V/4, Gütersloh 1981, pp. 289-412 [in italiano,secondo la versione di Paolo Marrassini in Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di P. Sacchi,vol. II, Torino 1989, pp. 293-377].

40 Già solo con lo pseudonimo «Ezra» esso conferisce alla sua predizione del futuro unaenorme urgenza. Cfr. al riguardo, più nel dettaglio, Paul Metzger, Esra und das vierte Esra-Buch.Die Bedeutung des Pseudonyms für die Interpretation einer apokalyptischen Schrift, in FriedrichW. Horn-Michael Wolter (eds.), Studien zur Johannesoffenbarung und ihrer Auslegung.Festschrift für Otto Böcher zum 70. Geburtstag, Neukirchen-Vluyn 2006, pp. 263-290, passim.

41 Hermann Gunkel, Das 4. Buch Esra, in: Emil Kautzsch (ed.), Die Apokryphen und Pseu-depigraphen des Alten Testaments II, Tübingen 1900 (ristampa: Hildesheim 1975), pp. 331-401,qui p. 359.

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la sua comparsa questo dominatore ultimo, deve crollare la nazione sucui esso domina, ossia l’Impero Romano. Roma quindi non verrà giu-dicata dal futuro Messia, ma sarà già caduta prima del suo avvento.

Questa interpretazione viene confermata da IV Ezra 11,45 s.:

«Perciò tu dovrai ben disparire, o aquila, tu e le tue orribili ali, le tue pessimealette, le tue malvagie teste, i tuoi crudeli artigli, e tutto il tuo inutile corpo, inmodo che tutta la terra torni a ristorarsi, liberata dalla tua violenza, e possasperare nel giudizio e nella misericordia di Colui che l’ha fatta».

L’aquila, un chiaro simbolo di Roma, deve dunque sparire primache subentri il Giudizio. Chi annienterà Roma, ovvero il motivo per cuiRoma tramonterà, evidentemente è questione che non interessa ilQuarto Libro di Ezra. Sicuro è solo che Roma esercita, all’interno del-l’opera, la stessa funzione del Katéchon di Seconda Tessalonicesi. Fintanto che ancora sussista l’impero, non può giungere il Giudizio. Soloquando l’impero sarà stato tolto di mezzo, entrerà in scena il domina-tore ultimo e il Giudizio di Dio farà il suo corso.

L’Apocalisse di Giovanni fa qui un passo ulteriore. Essa sa anchechi farà cadere l’impero.

3.2. Ap 17, 9-11

Della domanda su quanto a lungo si faccia ancora aspettare ilGiudizio si occupa anche il veggente Giovanni (Ap 6,9-11). Ma egli saesattamente quando subentrerà il Giudizio di Dio. «Qui ci vuole unamente che abbia saggezza» (Ap 17,9):

«hai heptà kephalaì heptà órē hópou hē ghynē káthetai ep’autôn. Kaì basileîsheptà eísin hoi péntē épesan ho eis éstin, ho állos oúpō hêlthen kaì hótan élthēolígon autón deî meînai kaì to thēríon ho hên kaì ouk éstin kaì autòs ogdoósestin kaì ek tôn heptà estin, kai eis apōleian hypághei» (Ap 17,9-11).

Cinque re dell’impero di Roma sono già caduti. Un re domina inquesto momento, un altro dovrà ancora succedergli. La Bestia però èl’ottavo re di Roma, che annienterà anche Roma stessa. Questo re c’eragià, ora non c’è più e comunque ritornerà. Con esso si allude probabil-mente alla figura di un Nerone redivivo. Di lui si è infatti sparsa voce

Il Katéchon. Una fondazione esegetica 37

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che non sia morto, ma che ritornerà con i Parti per distruggere Roma42.È quindi un sovrano romano a volgersi contro l’Impero e ad annientar-lo43. L’Apocalisse presuppone pertanto, in linea generale, che la guerradella fine dei tempi non sarà condotta contro l’Impero, ma contro laBestia (Ap 19,2.15), contro il demoniaco Nerone, tornato in vita.

In tal maniera, l’analisi dell’Apocalisse ha evidenziato che anch’es-sa conosce un fattore che, con la sua sola presenza, trattiene da ultimoil Giudizio di Dio: vale a dire, l’Impero Romano. Proprio come il Katé-chon di Seconda Tessalonicesi esso deve prima cadere perché possanocominciare la guerra ultima e il Giudizio di Dio

4. Il Katéchon

Il Quarto Libro di Ezra e l’Apocalisse di Giovanni dimostrano chenell’universo concettuale di fine primo secolo vi era la convinzione se-condo cui l’Impero Romano non fosse l’Avversario ultimo di Cristo,ma esso dovesse tramontare perché potesse così verificarsi la parousíadi Cristo. Entrambi aspettano innanzitutto il tramonto di Roma e l’arri-vo di un tiranno che condurrà alla fine dei tempi. Questi sarà poi an-nientato dal Messia e introdurrà quindi il Giudizio di Dio.

Seconda Tessalonicesi si accorda in pieno con questa descrizionedegli eventi della fine dei tempi. Per conseguire il suo scopo essa si ser-ve del medesimo patrimonio simbolico. Il discorso del Katéchon, chenella sua funzione corrisponde esattamente all’Impero, dovrebbe per-ciò alludere a Roma. Esattamente allo stesso modo in cui il Quarto Li-bro di Ezra e l’Apocalisse giovannea non nominano Roma esplicita-mente, ma forniscono comunque indizi abbastanza evidenti, così Se-conda Tessalonicesi sintetizza in modo cifrato la sua attesa nella figuradel Katéchon. Roma viene vista come un Impero governato demonica-mente, il cui dominatore è il Katéchon al maschile, mentre l’Imperostesso è il Katéchon al neutro. Esso è la forza dominante del suo tempo,

38 Paul Metzger

42 Cfr. Wilhelm Bousset, Die Offenbarung Johannis, KEK XVI, Göttingen 19062, pp. 410 ss.;Ulrich B. Müller, Die Offenbarung des Johannes, ÖTK NT 19, Gütersloh-Würzburg 19952, pp.297 ss.; Hans-Josef Klauck, Do they never come back? Nero redivivus and the Apocalypse of John,in Id., Religion und Gesellschaft im frühen Christentum. Neutestamentliche Studien, WUNT 152,Tübingen 2003, pp. 268-289, qui p. 287.

43 Cfr. Klauck, Nero redivivus, cit., p. 286: «Does Rome turn against Rome? Why not?».

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ma non protegge la comunità dalle tribolazioni, rappresentando piutto-sto esso stesso una minaccia. Roma viene quindi concepita come unessere metà umano metà demoniaco, che è all’opera al tempo in cuivive la comunità. In tal modo sono stati indicati due parallelismi chealludono al Katéchon, sono state ottemperate le condizioni generali chel’analisi dell’argomentazione ha segnalato e sono state destituite di fon-damento le obiezioni che si oppongono alla interpretazione del Katé-chon come riferito a Roma. È in forza di tutto ciò che può quindi vale-re come verosimile che l’Autore di Seconda Tessalonicesi abbia volutoalludere, con il discorso del Katéchon, all’Impero Romano e al suo im-peratore. Il caso dell’Impero è per l’Autore l’ultimo segno tangibile, alivello intramondano, prima della Fine. Poi comincia appunto la Fine.

(tr. dal tedesco di Francesco Ghia)

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40 Paul Metzger

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MARCO RIZZI

STORIA DI UN INGANNO (ERMENEUTICO)1

Il Katéchon e l’Anticristo nelle interpretazioni del II e III seco-lo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi

Nella tradizione cristiana successiva al secondo secolo e nellavisuale specifica della problematica teologico-politica qui esaminata, iltema del Katéchon è inestricabilmente connesso alla persona dell’An-ticristo, intesa come figura escatologica che, anticipando la secondaparousía di Cristo, inaugurerà gli eventi finali della vicenda mondana.Quella che appare una connessione scontata rappresenta invece il cuoredel problema qui affrontato: 2Ts 2,1-12 parla effettivamente dell’An-ticristo nei termini in cui si parlerà dell’Anticristo a partire da Ireneo,Tertulliano e Ippolito? e conseguentemente, se così non fosse, cosa ochi trattiene il misterioso Katéchon di questi versetti? Porre la secondadomanda è già palesemente indicare una risposta alla prima. Nel-l’antologia delle fonti sull’Anticristo curata da Gianluca Potestà e dame, si è sostenuta una interpretazione generale della vicenda dell’An-ticristo escatologico che impone di rispondere negativamente2; nellanostra ricostruzione, la figura di un unico e ben individuato oppositoredella seconda venuta di Cristo compare solo con Ireneo che, nel conte-sto generale di una riorganizzazione sistematica delle problematicheesegetiche ed escatologiche che travagliavano il cristianesimo del se-condo secolo, avrebbe operato una conflazione di testi e temi relativi ageneriche figure antimessianiche e antidivine correnti nel giudaismo enel giudeocristianesimo coevo, unificandole in un unico termine, quel-

1 Devo ringraziare Antonietta Porro e Mario Cantilena per le osservazioni che mi hanno for-mulato in relazione alla difficile sintassi di 2Ts 2,3.

2 G.L. Potestà-M. Rizzi (eds.), L’Anticristo. I. Il nemico dei tempi finali, Milano - Roma2005; si veda soprattutto l’Introduzione, pp. XI-XXXVI. I passi degli autori antichi sono citatisecondo l’edizione e la traduzione presenti in questo volume. A esso si rimanda anche per labibliografia specifica sugli argomenti qui trattati. Ricordo solo l’ultima monografia esegetica sullapericope in esame: P. Metzger, Katechon. II Thess 2,1-12 im Horizont apokalyptischen Denkens,Berlin - New York 2005.

Storia di un inganno (ermeneutico) 41

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lo di «Anticristo», assunto dalle lettere di Giovanni, dove però avevatutt’altro e più limitato significato, indicando una specifica deviazionedottrinale che lacerava le comunità del «discepolo amato»3. La geniali-tà dell’innovazione ireneana consisterebbe nell’aver riunito le tante esparse fila dell’immaginario escatologico giudaico e al tempo stessonell’averle cristianizzate, grazie alla scelta di un termine composto conil nome Christos che ormai individuava la specifica persona di Gesù enon indicava più, invece, la generica idea di messianicità4. In questomodo si sarebbe avviata la lunga e fortunata storia di una delle più effi-caci e proteiformi retoriche mai generate da una qualsivoglia religione,appunto la retorica dell’Anticristo, centrata sulla contemporanea fasci-nazione e ripulsa verso il male assoluto impersonato da un uomo5.

Ammettendo questa ipotesi, si può provare ad affrontare il testo di2Ts 2,1-12 in modo libero dalle precomprensioni che ne determinanouna interpretazione tutta costretta nelle linee delle ermeneutiche poste-riori a Ireneo. Del resto, persino Agostino6 mostrava più di un imba-razzo a proposito di questa pericope, rilevando le differenti posizionidegli interpreti, rinunciando a farne propria alcuna, ma unificandole nelnome appunto dell’Anticristo.

In realtà, il punto centrale su cui si fonda l’interpretazione anticri-stologica ed escatologica del testo è tutt’altro che univoco: per poteressere letto in questo modo, la parte più consistente del v. 3, quella in-trodotta da hóti, viene considerata un anacoluto e vi si ritiene sottinte-sa una apodosi dell’irrealtà, in modo da poter leggere tutto il passo piùo meno così: «Nessuno vi inganni in alcun modo: [non può arrivare ilgiorno del Signore,] se prima non sia arrivata l’apostasia, e sia stato ri-velato l’uomo del peccato», con tutto quello che segue. Ma la presenzadi una così vistosa ellissi giustifica appieno l’interpretazione escatolo-gica del testo, che determina l’inserzione di apodosi come quella indi-cata sopra tra parentesi, o non piuttosto è condizionata da una precom-

42 Marco Rizzi

3 L’anticristo, cit., pp. 5-13. Come documenteremo nel secondo volume della serie, l’uso ere-siologico e non escatologico del termine prosegue sino almeno alla fine del IV secolo, con resi-stenze ulteriori in ambito greco e orientale.

4 E non solo giudaico: sarebbe necessario percorrere le fila ad esempio del termine antítheosche si ritrova significativamente nel IV secolo in autori come Giamblico, Egypt. myst. 3,31.

5 Così fin dal titolo del suo volume B. McGinn, The Antichrist. Two Thousand Years of theHuman Fascination with Evil, New York 2000.

6 Aug., De civ. Dei XX 19,2-4.

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prensione che porta alla forzatura di un testo tutt’altro che univoco eche resta comunque sintatticamente problematico? Per la maggioranzadegli interpreti, la dimensione futura di questa venuta poggerebbe asenso sulla conclusione del v. 2, che afferma che non è ancora giunto ilgiorno del Signore, e soprattutto sulla serie dei futuri, apokalyph-thēsetai, aneleî e katarghēsei, del v. 8; il soggetto degli ultimi due è ilSignore [Gesù], la cui venuta dunque si collocherebbe nel futuro:sarebbe questo il tema centrale della lettera. Sempre al v. 8, l’ánomos«verrà rivelato», con la declinazione al futuro del medesimo verbo checompare al v. 3; al v. 6 ne veniva già indicato lo svelamento «a suotempo» (eis tò apokalyphthēnai autón en tô[i] heautoû kairô[i]); dun-que, se l’ánomos al v. 8 verrà rivelato «allora» (tóte) ne dovrebbe con-seguire che anche lo svelamento del v. 3 avverrà al futuro. Così, anchel’avverbio prōton («prima») del v. 3 scivolerebbe nel futuro, indicandoun’anteriorità relativa e non assoluta.

Ma è doveroso tenere in conto anche la serie dei presenti che com-paiono nel testo proprio ad incorniciare la serie dei futuri del v. 8 e sucui troppo velocemente sorvola l’interpretazione escatologica: «Infatti ilmistero dell’anomia è già in azione» (v. 7); e «Dio manda (pémpei)7 lorol’azione dell’inganno» (v. 11). Il prōton del v. 3 potrebbe avere così unvalore assoluto riferito a un prima già percepito dai destinatari della let-tera e non più relativo a qualcosa che dovrà manifestarsi in un tempo avenire; così, l’inganno da cui debbono guardarsi i Tessalonicesi sarebbesemplicemente quello di pensare che la venuta del Signore Gesù abbiagià cancellato, qui e ora, la presenza e l’azione del male che si opponea Dio e al suo inviato, come pure alla comunità dei credenti.

Da queste considerazioni, pur nella loro problematicità, pare dipoter giustificare un’altra interpretazione del passo8: siamo in presenza

Storia di un inganno (ermeneutico) 43

7 Trattandosi di un verbo di movimento, potrebbe avere anche valore futuro; ma il seguitodella frase lo colloca saldamente al presente. In ogni caso, il v. 7 non può essere in alcun modoriferito logicamente e grammaticalmente al futuro.

8 Si può anche provare ad avanzarne, con tutte le cautele del caso, una differente spiegazio-ne linguistica, attribuendo al sintagma hóti eàn mē la funzione di introdurre una proposizione cor-relata al verbo exapatáō della parte iniziale del v. 3, che viene normalmente costruito con il dop-pio accusativo o con accusativo e dichiarativa. È noto che nel greco di questo periodo eàn puòcomunemente valere per la particella an (cfr. Blass-Debrunner 107,3; e Liddel-Scott-Jones adloc.), che assegna al congiuntivo valore eventuale. In questo caso, la traduzione potrebbe esserequalcosa del genere: «Nessuno vi inganni in alcun modo, sul fatto che prima non sia arrivata l’a-

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di una congerie di figure e azioni antidivine e apocalittiche (l’apostasia,l’uomo dell’inganno, il figlio della distruzione, l’oppositore che si in-nalza al di sopra di Dio, il Katéchon neutro e quello maschile, l’áno-mos, l’azione dell’inganno) che vengono accumulate in una successio-ne di eventi e figure che va dal presente (nyn) del mistero dell’anomiain azione alla piena rivelazione dell’ánomos/uomo dell’inganno che av-verrà sì in futuro (tóte), ma in un futuro che non è drasticamente scis-so dal presente in cui già si svolgono gli accadimenti che separano dalgiorno del Signore; insomma, siamo in presenza di un continuum tem-porale (oggettivamente caotico come si addice ad una retorica apoca-littica) che conduce alla seconda venuta, non invece di un tempo di so-spensione, la cui fine sarà segnata dalla comparsa del presunto Anti-cristo, inteso come precisa individualità escatologica proiettata alla finedei tempi, in funzione di un prima e un dopo.

In questo quadro, si risolverebbe anche con una certa facilità il pro-blema, che sin dall’antichità ha tanto travagliato gli interpreti, delladoppia dimensione del Katéchon, neutro (v. 6) e maschile (v. 7): non sitratta altro che del parallelo della coppia mystērion tês anomías, neutro,e ánomos, sostantivizzato al maschile (si noti l’esatta corrispondenzadegli articoli). I vv. 6 e 7, in questa luce, ci direbbero che i lettori del-l’epistola conoscono un’azione del trattenere, in vista dello smaschera-mento a suo tempo della figura dei vv. 3-4; ma questa azione del trat-tenere coincide con il mistero dell’anomia in azione; quando sarà «toltodal mezzo» colui che compie questa azione, allora sarà anche rivelatol’ánomos. Insomma, a mio parere non siamo qui in presenza di una dia-lettica tra presente e futuro escatologico, tra un «ora» e un «allora» dra-

44 Marco Rizzi

postasia e sia stato rivelato l’uomo del peccato». Il limite di questa interpretazione sta sicuramen-te nella durezza del nesso sintattico, e in specie nell’ordine della dispositio verborum che non haparalleli precisi nella letteratura nota (dovremmo trovare la successione hóti mē eàn al posto diquella presente nel testo). Nel quadro generale della sintassi paolina e in quello specifico del passoin questione le due difficoltà non paiono però maggiori di quelle implicate dalle altre soluzioniproposte; si può inoltre osservare, a sostegno di questa interpretazione, la presenza nei vv. 2-5 diben altri tre hóti con la funzione di introdurre una proposizione epesegetico-dichiarativa con verbidifferenti dai comuni verba dicendi: al v. 2 in dipendenza da saleythēnai e throeîsthai; al v. 4 indipendenza da apodeiknýnta; e al v. 5 in dipendenza da mnémonéyete (si veda anche al v. 13 indipendenza da eucharistêin, ma con valore dichiarativo-causale). Si osservi, per concludere, anchela duplicazione delle particelle dichiarative (hós hóti) sempre al v. 2, che viene normalmente risol-to come un semplice hóti (cfr. Blass-Debrunner 3,137). La Vulgata si limita a ricalcare sul grecol’espressione quoniam nisi venerit…, e lo stesso Ireneo, Adv. haer. V 25,1 cita il versetto solo nellaseconda parte, a partire dall’hóti, eliminandone la reggente.

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sticamente scissi, ma in un contesto di affermazioni relative alla venu-ta del Signore, combattuta sin d’ora dal Katéchon che si sdoppia nellafigura dell’azione del trattenimento e dell’azione dell’anomia e nellecorrispondenti figure del «trattenitore» e dell’ánomos, entrambe perògià in azione contro Cristo e il pieno dispiegarsi della sua potestà. Siosservi come ai vv. 3 e 4 si sia ancora in presenza di un accostamentotra un’azione (apostasía è un sostantivo deverbativo) e un personaggio(o meglio più personaggi). La preoccupazione dei vv. 1-2, allora, nonsarebbe quella di rimandare indefinitamente l’aspettativa escatologicadei lettori, dilazionando l’imminenza del giorno del Signore, ma di giu-stificare una situazione segnata dalle persecuzioni e dalle tribolazioniindicate in 2Ts 1,4, in cui però sono già noti, grazie alla predicazionedell’Autore (2Ts 2,5), i tempi e le condizioni del loro superamento, e-spressi secondo figure comuni alle retoriche apocalittiche giudaiche. Inquesto modo la situazione descritta in 2Ts non differirebbe molto da al-tre descrizioni paoline dell’imminenza della parousía del Signore risor-to, come quella di 1Ts 4-59. L’opposizione a Cristo descritta dall’Au-tore con il ricorso alla retorica apocalittica potrebbe essere facilmentericondotta alla generale azione satanica avversa a Dio e al suo inviato,legata a prodigi magici e produttrice d’apostasia10.

Tuttavia, 2Ts presenta una ulteriore difficoltà, costituita dalla scon-certante affermazione che conclude la pericope qui in esame: «Proprioper questo [cioè perché non hanno accolto la verità e l’amore dei desti-natari della lettera] Dio manda loro [cioè a quanti sono destinati a peri-re della morte eterna] l’azione dell’inganno, perché credano al falsoaffinché vengano giudicati tutti coloro che non hanno creduto alla veri-tà ma hanno acconsentito all’ingiustizia» (vv. 11-12). Come osservatoda molti esegeti moderni11, negli scritti di Paolo o altrove nel Nuovo Te-

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9 Così già C.H. Giblin, The Threat to Faith. An Exegetical and Theological Re-examinationof 2 Thessalonians 2, Roma 1967, p. 41: «What seems to have been neglected in studying this pas-sage is attention to the repeated subordination of apocalyptic flights to a point of pastoral concernor pastoral reaction. Paul seems to be more concerned with the pastoral problem of correcting theThessalonians’ outlook than he is with describing the coming of the Antichrist or even the comingof the Lord. He seems to be trying to make them realize that the present attack on their faith, ontheir fidelity to the Gospel as he preached it to them, is the verification at least in part of the totaleschatological perspective he first presented to them and to some extent now re-presents in apo-calyptic terms».

10 Cf. A.J. Malherbe, The Letters to the Thessalonians, New York 2000, p. 431 ad loc.11 Da ultimo Malherbe, The Letters, cit., pp. 427 s., con altra bibliografia.

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stamento non è dato trovare nulla di simile a 2Ts 2,1-12. Già però Mar-cione aveva ritenuto di modificare il testo, trasformandolo così: «Pro-prio per questo avranno un istinto di menzogna, affinché vengano giu-dicati tutti coloro che non hanno creduto alla verità, ma hanno accon-sentito all’ingiustizia», in modo da sottrarre il Dio buono di Gesùall’accusa di portare gli uomini alla perdizione12.

Una simile osservazione conduce direttamente al secondo proble-ma che vorrei qui affrontare, che riguarda la provenienza delle primeinterpretazioni di 2Ts da ambienti eterodossi, gnostici e marcioniti inspecie. Si tratta di un dato certo, su cui credo non si sia riflettuto a suf-ficienza. La prima testimonianza di una attribuzione paolina della Se-conda Lettera ai Tessalonicesi è infatti quella del canone marcionita,databile intorno al 140, conservatoci da Epifanio, Panarion 42,9,3-4. Inesso, 2Ts viene collocata nel numero delle dieci lettere autenticamentepaoline nella valutazione di Marcione. Solo con Ireneo, Tertulliano eIppolito si assiste all’uso di questa epistola da parte di autori della gran-de chiesa13; in due casi su tre14 essa compare proprio nel contesto di unadura polemica antignostica o antimarcionita15 che riguarda in partico-lare i versetti conclusivi della pericope, sopra citati, e un altro segmen-to testuale altrettanto problematico, ovvero la lunga relativa contenutanei vv. 9-10, che suona: «la cui venuta (parousía) è per opera di Satana,con ogni sorta di opere potenti, di segni e di prodigi di menzogna e conogni inganno d’ingiustizia per quanti vanno in perdizione, perché non

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12 Tert., Adv. Marc. V 16,5: «Propterea quod dilectionem veritatis non susceperint, ut salviessent; et propter hoc erit eis instinctum fallaciae, ut iudicentur omnes qui non crediderunt verita-ti, sed consenserunt iniquitati». Il testo citato da Tertulliano sarebbe, secondo A. von Harnack,Marcion. Das Evangelium vom fremden Gott, Leipzig 1924, pp. 50 e 114*, il frutto della revisio-ne operata da Marcione sull’epistola paolina, che rispetto al textus receptus omette del tutto l’e-spressione «perché credano al falso». Tuttavia, come si vedrà subito qui sotto, Tertulliano nonesita ad attribuire pure a Marcione l’idea di un inviato del demiurgo in grado di indurre gli uomi-ni alla perdizione.

13 La presenza dei termini «uomo dell’iniquità» e «uomo dell’apostasia» in Iust., Dial. 32,3-4 e 110,2, rispettivamente, più che a 2Ts parrebbe rimandare al libro di Daniele, citato esplicita-mente nel primo caso e chiaramente ripreso anche nel secondo, dove compaiono termini moltosimili.

14 In Ippolito la polemica antimarcionita appare complessivamente di minor momento.15 Il punto centrale che accomunava i due raggruppamenti era costituito, agli occhi degli ere-

siologi cristiani, dal dualismo e dal conseguente valore negativo assegnato al Dio creatore; così,se dal punto di vista della moderna storiografia l’accostamento di gnostici e marcioniti può risul-tare illegittimo, per gli autori antichi, invece, era del tutto coerente, ed è in questo senso che vienequi utilizzato.

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accolsero l’amore della verità per essere salvati». Ora, il testo paolinocosì come ci è giunto inserisce questa relativa immediatamente dopol’affermazione secondo cui il Signore Gesù distruggerà l’ánomos «gra-zie alla manifestazione della sua [del Signore] parousía» (v. 8). Laprima, immediata lettura del testo non può che concordare la relativadei vv. 9-10 con quest’ultimo termine del v. 8; solo a prezzo di un note-vole contorcimento sintattico e lessicale se ne può assegnare la dipen-denza all’ánomos dell’inizio del v. 8, in modo da dare a tutta l’espres-sione il significato «ortodosso» cui siamo abituati, secondo cui, cioè, lavenuta per opera di Satana è da riferirsi all’avversario escatologico,dotato di una sua propria ed autonoma parousía, laddove il termineparousía al v. 2 e al v. 8 è invece sempre riferito al Signore.

È proprio questa l’operazione compiuta da Ireneo, grazie ad unaspiegazione di carattere sintattico-retorico che rivela una notevole di-sinvoltura ermeneutica; nell’Adversus haereses, 2Ts compare all’iniziodel terzo libro, laddove si argomenta sull’unità del divino, contro laposizione dualistica di gnostici e marcioniti che invece sosteneva l’esi-stenza del Dio buono di Gesù Cristo e del Demiurgo giusto, ma crude-le. La contestazione mossa da Ireneo rivela l’ermeneutica che del passodi 2Ts 2,8-9 veniva avanzata dagli gnostici, e che doveva risultaredominante sino a quel momento:

«Come l’Apostolo faccia spesso uso di iperbati per la rapidità dei suoi discor-si e per l’impeto dello Spirito che è in lui, lo si può ricavare appunto da moltialtri esempi. [...] Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, dicendo in relazioneall’Anticristo, afferma: “E allora sarà manifestato l’empio, che il Signore GesùCristo ucciderà con il soffio della sua bocca, e distruggerà con la presenzadella sua venuta16, la cui venuta è per opera di Satana, con ogni sorta di operepotenti, di segni e di prodigi di menzogna”. In effetti la disposizione di questeparole è la seguente: “E allora sarà manifestato l’empio, la cui venuta è peropera di Satana, con ogni sorta di opere potenti, di segni e di prodigi di men-zogna, e il Signore Gesù lo ucciderà col soffio della sua bocca e distruggeràcon la presenza della sua venuta. Non dice infatti che per opera di Satanaavviene l’avvento del Signore, bensì l’avvento dell’iniquo, che noi chiamiamoanche Anticristo. Se dunque uno non sta attento alla lettura e non mostra con

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16 A questo punto, la traduzione latina in cui ci è pervenuto il testo dell’Adversus haeresesintroduce un eum epanalettico del precedente relativo, proprio per evitare l’ambiguità che Ireneosi propone di superare, così come faranno poi la Vetus latina testimoniata da Tertulliano e la Vul-gata geronimiana.

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pause di respiro di chi si stia parlando, leggerà non solo incongruenze, mabestemmie, quasi che l’avvento del Signore si compia per opera di Satana»17.

Poco più sopra, sempre in relazione a 2Ts 2,4, Ireneo si era trovatonella condizione di dover forzare ancora una volta il testo paolino persmentire una interpretazione corrente che risentiva di un dualismo ditipo gnostico:

«Di nuovo, dicendo dell’Anticristo: “colui che si oppone e si innalza sopratutto quello che è detto Dio o è oggetto di venerazione”, si riferisce a quelliche sono detti dèi da coloro che ignorano Dio, cioè agli idoli. Infatti il padredi tutte le cose è detto Dio, e lo è; e l’Anticristo non verrà innalzato sopra dilui, ma sopra coloro che sono detti dèi, ma non lo sono»18.

Due sono gli aspetti da rilevare: il passaggio dal singolare del testodi 2Ts al plurale dell’interpretazione di Ireneo, senza il quale questanon reggerebbe, e soprattutto la chiosa relativa al «padre di tutte le co-se» che per Ireneo non solo è detto «dio», bensì lo è anche. Difficilenon cogliere qui l’eco di una presenza o di una interpretazione in sensodualista del testo, per la quale se qui si trattasse del Demiurgo e non delDio di Gesù un tale innalzamento non sarebbe impossibile e non cisarebbe coincidenza con il «vero» Dio assolutamente trascendente. Sesi accetta l’ipotesi di una ascendenza gnostica del testo, o quantomenodella sua ermeneutica dominante prima di Ireneo, anche le dure espres-sioni dei vv. 11 e 12 assumerebbero un peso diverso: nulla di più con-gruo al Demiurgo gnostico che l’inviare una potenza di errore e diinganno per portare gli uomini alla rovina, impedendo loro di ricono-scere l’amore del vero Dio19.

Che le cose potessero stare così è confermato da Tertulliano, in unpasso del quinto libro dell’Adversus Marcionem tanto decisivo, quantocaratteristicamente contratto secondo lo stile polemico dell’Autore, cheladdove la contestazione del punto tenuto dagli avversari si fa più proble-matica tende a procedere con notevoli scarti logici e argomentativi:

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17 Iren., Adv. haer. III 7,2.18 Ivi, III 6,5.19 Si può anche ipotizzare il passaggio nel testo di una o più glosse di origine eterodossa al

testo originario, cristallizzatesi poi nel textus receptus a seguito della polemica ireneana che lo leg-geva in quella forma.

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«Chi è poi “l’uomo del peccato, il figlio della perdizione”, che deve essererivelato prima dell’avvento del Signore, e si solleva sopra tutto ciò che è dettoDio e sopra ogni religione, che siederà nel tempio di Dio e ostenterà di esseredio? Secondo noi certamente l’Anticristo, come insegnano le antiche e le nuo-ve profezie [...]; in realtà non so se per Marcione si tratti del Cristo del De-miurgo: non è ancora venuto, per lui. Comunque, chi sia dei due, mi doman-do perché venga con ogni potenza e segni e manifestazione d’inganno [...]».

A questo punto, Tertulliano cita come spiegazione 2Ts 2,9 e passapoi a concludere la sua argomentazione, volta a sostenere l’impossibi-lità di distinguere nel testo tra Dio e Demiurgo, come vorrebbe inveceMarcione:

«Dunque se l’Anticristo rientra nell’economia del creatore [=Demiurgo], ilcreatore coinciderà con Dio, che lo manda per indurre in errore coloro che nonhanno creduto alla verità in modo da essere salvati; dunque verità e salvezza sa-ranno proprie del medesimo che le vendica con l’introduzione dell’errore, cioèdi Dio creatore, a cui compete anche la gelosia di ingannare con l’errore colo-ro che non ha catturato con la verità. Se invece non è l’Anticristo secondo lanostra concezione, allora si tratta del cristo del Demiurgo, secondo la con-cezione di Marcione. E come sarà mai, che per vendicare la propria verità sot-tometterà Cristo al Demiurgo? Ma se anche è d’accordo sull’Anticristo, direicomunque: come mai gli è necessario Satana, angelo del Demiurgo, e vieneucciso da questo, dovendo servire al Demiurgo con l’azione ingannatrice?»20.

Si può tralasciare il resto del ragionamento di Tertulliano, volto adimostrare l’identità tra il Dio creatore e il Dio che invia la punizionecontro quanti lo disprezzano, lo abbandonano o addirittura lo ignorano.Quello che interessa è ormai sufficientemente chiaro: tanto Ireneo,quanto Tertulliano si muovono nel testo della Seconda Lettera ai Tessa-lonicesi per smentire l’utilizzo gnostico o marcionita del secondo capi-tolo, che lo riferiva al Cristo del Demiurgo, il quale, ingelositosi delvero Cristo inviato dal Dio sommo, ne inviava uno proprio caratteriz-zato dalla venuta nella potenza di Satana. A questa interpretazione,logicamente e sintatticamente ben più aderente al testo, Ireneo e Ter-tulliano rispondono con un riassetto complessivo dell’escatologia cri-stiana, che riassorbe la congerie delle figure apocalittiche sparse nonsolo in 2Ts, bensì in tutto il Nuovo Testamento nella personalità esca-

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20 Tert., Adv. Marc. V 16,4-6

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tologica di un Anticristo che sposta a prima della seconda venuta diCristo la manifestazione delle figure e delle vicende antimessianicheproprie dell’apocalittica giudaica. Un processo simile è osservabileanche nel Dialogus di Giustino21, senza però che vi compaia l’idea o iltermine di Anticristo. Sarà proprio Ireneo nel quinto libro del trattatocontro le eresie a dichiarare come questa costruzione derivi dal con-fronto con la sfida del dualismo gnostico e marcionita:

«Da tutti questi passi non soltanto viene rivelato ciò che riguarda l’apostasia ele imprese di colui che riassume in sé ogni errore del diavolo, ma anche che c’èun solo e medesimo Dio Padre, annunciato dai profeti e rivelato poi da Cristo»22.

Tutta la costruzione anticristologica di Ireneo è pensata così in fun-zione antignostica e antimarcionita23, per ribadire l’unità di Dio, crea-tore e giusto giudice. Non solo, ma l’economia del tempo anticristolo-gico viene strettamente correlata da Ireneo all’economia del diavolo,che si oppone a quella divina nel corso di tutta la vicenda umana, dallacaduta sino al giudizio finale. In questo senso, Ireneo presenta l’azionedell’Anticristo come conferma e riassunto della costante apostasia diSatana, in evidente parallelo alla funzione ricapitolativa di Cristo qualenuovo Adamo, propria della teologia della storia dell’Adversus haere-ses. Si può concludere che l’intera costruzione anticristologica diIreneo deriva dalla necessità di caratterizzare una fase del disegno dia-bolico specificamente costruita in funzione del consolidamento delladottrina della seconda venuta di Cristo, riassorbendo le tematiche mil-lenariste che vi erano a volte associate. In questo modo, nasce anchel’interpretazione in chiave anticristica del passo di 2Ts destinata adiventare canonica sino ai nostri giorni.

In questo quadro è notevole che Ireneo trascuri del tutto il proble-ma del Katéchon; nei suoi scritti non si trova infatti traccia dei vv. 6 e7, che dovevano risultargli problematici, nella misura in cui, parlandodi un’azione di «trattenimento», sembravano turbare l’ordinato svolgi-mento di quell’economia della salvezza progettata da Dio, per la cuidimostrazione è interamente costruita la seconda parte della sua opera

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21 Iust., Dial. 32,3-4; 110,2, che, come detto, vedono la presenza dei termini «uomo dell’i-niquità» e «uomo dell’apostasia».

22 Iren., Adv. haer. V 25,5.23 Come affermato esplicitamente in Adv. haer. V 26,2 - 28,1. Si veda la nota 15.

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maggiore. Al contrario, in quegli stessi anni Giustino24 presenta, sullascia di tradizioni giudaiche, un’idea del «differimento» del giudiziouniversale ad opera dei cristiani, in modo che si realizzi il compimentodel numero degli eletti. Il vescovo di Lione crea però le condizioni per-ché anche il problema del Katéchon possa trovare una soluzione coe-rente all’interno di uno schema escatologico ridisegnato alla luce dellafigura dell’Anticristo. Infatti, per tracciare la cronologia degli avveni-menti ultimi nel quinto libro dell’Adversus haereses, Ireneo opera unaforzata e non sempre coerente sincronizzazione delle profezie di Da-niele e dell’Apocalisse di Giovanni relative alla successione degli im-peri e delle corrispondenti bestie, scandendole sull’arco dei seimilaanni della durata del mondo creato; in questo quadro si inserisce anchel’ermeneutica del numero impresso sulla fronte della bestia apocalitti-ca. Ireneo si mostra prudente nei suoi tentativi gematrici; tuttavia unpasso del quinto libro offre una indicazione importante:

«Anche il nome Lateinos corrisponde alla cifra 666, perché l’ultimo regno haproprio questa denominazione – sono infatti i latini quelli che ora regnano –,ma non meneremo vanto per questa soluzione».

Se pure questa non è la soluzione più convincente per Ireneo, cheinclina verso il nome Teitanos, nondimeno identificando l’ultimo regnocon Roma e trascurando il problema posto dal testo di Daniele dei suc-cessivi dieci regni dal cui conflitto sarebbe sorto l’Anticristo25, Ireneoapre lo spazio per l’identificazione del Katéchon con l’impero romano,senza che questo turbi la sua idea di una prestabilita economia divinache non ammette «trattenimenti» di sorta. Sulla sua scia, Ippolito ri-prenderà nel commento a Daniele l’identificazione della quarta bestiadanielica con l’impero romano già avanzata anche nel trattato sull’An-ticristo, ma per la prima volta la metterà espressamente in relazione altema katechontico: «Chi è dunque colui che trattiene sino a ora se nonla quarta bestia, e quando questa sarà stata portata via e tolta di mezzo,verrà l’Anticristo?»26.

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24 Iust., Apol. I 16 e 45.25 Probabilmente perché ritenuto irrilevante dal punto di vista cronologico, dato che Ap 17,12

afferma: «Riceveranno il potere come re, per un’ora soltanto insieme con la bestia». La durata delloro regno è quindi riassorbita nei tre anni e mezzo in cui regnerà l’Anticristo.

26 Hipp., In Dan. IV 21,3.

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Tuttavia questo «trattenimento» è indipendente dalla vicenda del-l’impero in quanto tale, perché la durata dell’impero è intrinseca al ci-clo di seimila anni della vicenda cosmica teorizzato da Ippolito sullabase di alcuni celebri passi biblici, cui però egli aggiunge – analoga-mente a quanto fatto più o meno nello stesso periodo da altri cronogra-fi cristiani – una serie di speculazioni esegetiche che lo portano a col-locare la nascita di Cristo nell’anno 5500 dalla creazione del mondo; inquesto modo l’impero romano funge sì da «trattenitore», ma a scaden-za certa, per così dire, dato che la sua fine dopo 500 anni è già neces-sariamente iscritta nella durata prestabilita del mondo, al netto dei 42anni dell’anarchia dei dieci regni e della comparsa e sconfitta del-l’Anticristo. Il trattenimento così individuato, però, non ha ancora unaspecifica funzione di trattenimento escatologico, quanto invece di per-mettere la diffusione universale del vangelo27, analogamente all’ideadel compimento del numero dei giusti, già presente in Giustino.

È con Tertulliano che la vicenda del «trattenimento» katechonticosi libera da ogni condizionamento cronologico, per divenire una indi-pendente funzione in sé dell’impero. Nel De resurrectione mortuorum,Tertulliano utilizza un testo latino della lettera che rende con abscessioil termine greco apostasía di 2Ts 2,3; la cosa gli permette di correlarequella espressione proprio con il “trattenitore” di 2Ts 2,7. Inoltre,Tertulliano si distacca ancora dal testo greco di 2Ts 2,7 laddove sdop-pia il participio maschile nell’espressione concessivo-temporale quinunc tenet teneat, con una traduzione interpretativa (che passerà poialla Vulgata) su cui Tertulliano si appoggia per l’ univoca identificazio-ne dello status romanus con «chi ora trattiene», che a questo punto nonè più l’oppositore di Cristo, bensì è diventato colui che ritarda l’avven-to dell’Anticristo. Una posizione testuale così tormentata segnala laconsapevolezza degli interpreti antichi circa i problemi interpretativisoggiacenti al testo; non è un caso, quindi, che Tertulliano fornisca lasua esegesi sotto forma di chiose e incisi:

«Nessuno vi inganni in alcun modo, ché se non giunga prima la distruzione[abscessio] – chiaramente di questo regno – e sia rivelato l’uomo del pecca-to – cioè l’Anticristo –, il figlio della perdizione, colui che si oppone e siinnalza sopra tutto ciò che è detto dio o religione, così da sedersi nel tempio

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27 Ivi, IV 23,6.

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di Dio, affermando di essere Dio. Non ricordate che vi dicevo queste cosequando ero presso di voi? e ora conoscete che cosa trattenga, perché costuisia rivelato a suo tempo. Infatti il mistero dell’iniquità è già in azione: sol-tanto chi ora trattiene, trattenga, fintantoché sia tolto di mezzo – chi, se nonlo status romanus, la cui distruzione [abscessio] dispersa in dieci regni intro-durrà l’Anticristo? –»28.

Qui è tutt’altro che esplicitamente compiuto quel passo decisivo indirezione della “fede in una forza frenante in grado di trattenere la finedel mondo [che] getta gli unici ponti che dalla paralisi escatologica diogni accadere umano conducono ad una grandiosa potenza storicacome quella dell’impero cristiano dei re germanici” che vorrebbe ve-derci Carl Schmitt29. L’insistenza di Tertulliano è sulla abscessio, sulladistruzione che attende anche Roma; certo, non va dimenticata la cele-bre affermazione di Apologeticum 32,1, secondo cui i cristiani preganoper l’imperatore, e per la buona condizione (status) dell’impero e dellevicende romane, perché sanno che «la terribile forza che incombe sulmondo tutto e la stessa fine della nostra era sarà ritardata sino al tran-sito dell’impero romano» e non volendo esperirla pregano per il suodifferimento e con ciò stesso per la continuità di Roma30. E tuttavia,come già per Ippolito, questa pare ancora la consapevolezza di un cri-stiano avvertito della terribile stagione che precede il ritorno delSignore, piuttosto che un atteggiamento di positiva valutazione dellafunzione dell’impero; per Ippolito si può fare un passo in più e calco-lare il tempo che resta, mettendosi così al riparo di un rassicurante lassocronologico – e chi verrà dopo, se la vedrà da sé; per Tertulliano, giàmontanista ed encratita quando redige il trattato sulla resurrezione,siamo invece nella paralisi escatologica di chi non vuole generare figliper non preparare «all’Anticristo bersagli su cui poter infierire nel mo-do più sfrenato»31. L’apparente adesione all’ideologia della aeternitasdi Roma si rivela così nulla più che un espediente apologetico e unaforma di prudenza di fronte al rischio di cadere sotto i colpi della per-secuzione anticristica. Ma è del tutto significativa l’insistenza di Ter-

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28 Tert., De resurr. 24,14-18.29 C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus publicum Europaeum, Köln 1950,

p. 44.30 Così in parte anche Tert., Ad Scap. 2,6.31 Tert., De nupt. 16,5.

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tulliano sulla abscessio che incombe sull’impero, la cui funzione è allo-ra solo quella di trattenere la propria fine, non certo di poter trattenerela venuta dell’inarrestabile e in fondo desiderata potenza escatologica.

Va osservato a questo proposito come l’attenzione degli esegeti anti-chi sia naturalmente rivolta alla forma maschile e personale del Ka-téchon, mai al neutro, in forza della visione antica del potere, che lo cor-relava strettamente alla persona che lo esercitava, non invece ad unaconcezione astratta: così Ireneo identifica l’impero con il Lateinos e lostesso Tertulliano usa l’espressione status romanus, vale a dire «la con-dizione stabile del romano», e non quella di imperium. Il passo che verràapparentemente compiuto da Vittorino di Petovio è già in nuce tutto qui:

«Che l’Anticristo sia stato nel regno dei regni e nel numero dei cesari, lo atte-sta anche Paolo. Dice infatti ai Tessalonicesi: “Se per ora trattiene colui chesembra trattenere, fino a che non sia tolto di mezzo; allora finalmente appari-rà colui, il cui avvento si realizzerà secondo il potere di Satana con segni emenzogne”. E affinché sapessero che sarebbe venuto chi allora era un sovra-no, Paolo aggiunse: “Già mette in opera il mistero del male”»32.

Il tema del Nero redivivus trascende qui la capacità katechonticadell’impero, creando un immediato cortocircuito tra il Nerone dei gior-ni di Paolo e il Nerone-Anticristo dei tempi finali; anche chi, comeLattanzio, vede nella stabilità di Roma la condizione per non esserepreda dell’Anticristo deve rifugiarsi più nella rassicurante (dal suo pun-to di vista) cronologia di marca ippolitea, che non nella forza katechon-tica dell’impero di ascendenza tertullianea:

«Forse alcuni chiederanno ora quando accadranno queste cose che abbiamodetto. Come ho già mostrato sopra, quando saranno compiuti seimila anni,occorre che avvenga questa mutazione e ormai si avvicini il giorno supremodel compimento finale. [...] Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo inse-gnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e dadiverse storie il numero di anni passati dall’inizio del mondo. Benché questivarino e le loro somme complessive risultino un po’ diverse, non sembra chel’attesa intera sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovi-na e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulladi ciò fino a che la città di Roma è sana e salva. Quando invero quel capo delmondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedo-

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32 Vict. Poet., In Apoc. 11,4.

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no, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia ormai venuta lafine? Quella è la città che tiene ancora tutto in piedi, e noi dobbiamo implora-re e adorare il Dio del cielo, se però i suoi disegni e i suoi decreti possono esse-re differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abomi-nevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina ilmondo stesso cadrà»33.

Neppure l’entusiasmo di chi occupava il prestigioso ruolo di precet-tore del primogenito dell’imperatore poteva cancellare il timore che siera ormai consolidato intorno a una retorica escatologica originaria-mente pensata, tra l’altro, per raffreddare gli entusiasmi escatologici deicristiani più ingenui, denunciati tanto da Ireneo, quanto da Ippolito. Maera ormai trascorso ben più di un secolo, e quello che per Ippolito pote-va essere un rassicurante lasso di tempo di trecento e passa anni, inizia-va pericolosamente ad assottigliarsi, soprattutto per una chiesa che pro-prio allora iniziava a godere dei suoi trionfi. Era dunque giunto il tempoper qualche altra invenzione esegetico-teologica che rimettesse in motol’immaginario cristiano, senza inchiodarlo ad un percorso ormai troppostrettamente individuato: da qui, ad esempio, la duplicazione dell’Anti-cristo in Commodiano34 e una nuova attenzione posta a chi o cosa debbatrattenerlo. Per un paradosso della storia, la negazione di un dualismoteologico e ontologico ha prodotto un curioso dualismo escatologico fat-to di Anticristo e Katéchon, che in seguito svilupperà appieno tutte lesue potenzialità, sino alla sua canonizzazione schmittiana35.

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33 Lact., Div. inst. VII 25.34 Comm., Carm. 933.35 Al cui proposito si vedano F. Großheutschi, Carl Schmitt und die Lehre vom Katechon,

Berlin 1996; M. Maraviglia, La penultima guerra. Il Katechon nella dottrina dell’ordine politicodi Carl Schmitt, Milano 2006; A. Sandri, Autorità e Katechon. La genesi teologico-politica dellasovranità, Napoli 2007. Tutti questi testi sono accomunati da una visione di continuità tra il testopaolino e le riflessioni schmittiane. Continuità che, come ho cercato di mostrare, risulta esegeti-camente insostenibile.

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56 Marco Rizzi

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CLAUDIO GIANOTTO

SULL’INTERPRETAZIONE DI 2TS 2,6-7 NEI PADRIDELLA SCUOLA ANTIOCHENA TRA IV E V SECOLO

Diversi Padri della scuola antiochena hanno commentato 2Ts e inparticolare il passo relativo al Katéchon: si tratta di Teodoro di Mo-psuestia, il cui lavoro ci è noto in forma indiretta, attraverso una cate-na su 2Ts1; Giovanni Crisostomo2; Severiano di Gabala, la cui opera èstata in parte ricuperata attraverso il lavoro critico svolto sul corpuspseudo-crisostomico3; e Teodoreto di Cirro4. I commenti di Teodoro edi Severiano ci sono giunti solo in modo frammentario, e di conse-guenza risulta più difficile ricostruire in modo preciso il contesto delleinterpretazioni da loro proposte. In riferimento al problema del Ka-téchon, emergono, all’interno di questo gruppo di autori, tre interpreta-zioni differenti: la prima identifica il Katéchon con la grazia delloSpirito; la seconda con l’impero romano; e la terza con il provviden-ziale decreto di Dio, che differisce la manifestazione degli eventi degliultimi tempi fino al completamento dell’evangelizzazione delle genti5.

1. La grazia dello Spirito

Il Crisostomo ha dedicato all’interpretazione di 2Ts un gruppo diomelie; la quarta affronta il passo che ci interessa. L’autore esordisce,entrando subito nel merito del problema, ponendosi due domande: 1.

1 Catena II Thess. (I.A. Cramer, Catenae graecorum patrum in Novum Testamentum, Oxonii1838-1844, vol. 6, pp. 385-392).

2 Io. Chrys., In ep. ad Thess. II hom. IV (PG 62, 85-492).3 K. Staab, Puluskommentare aus der griechischen Kirche aus Katenenhandschriften gesam-

melt, Aschendorff, Münster 1933, pp. 334-335.4 Theod. Cyr., In XIV epistulas S. Pauli (Interpretatio epist. II ad Thessalonicenses: PG

82,661-668).5 Per una prima panoramica della storia dell’interpretazione di 2Ts 2,6-7, cfr. B. Rigaux,

Saint Paul: les épîtres aux Thessaloniciens, Gabalda, Paris 1956, pp. 259-280.

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che cosa sia questo Katéchon; 2. perché Paolo si esprima in modo cosìoscuro. Nel tentativo di rispondere a queste domande, rievoca un’inter-pretazione, attribuita genericamente ad altri autori, la quale identificanel Katéchon la grazia dello Spirito. Che Paolo intendesse il Katéchoncome la grazia dello Spirito, espressione che, secondo il Crisostomo,significherebbe i carismi o doni gratuiti dello Spirito, non è verosimile,perché, se avesse voluto riferirsi a questo, non avrebbe avuto bisognodi esprimersi in modo così oscuro, in quanto, al suo tempo, i carismierano diffusi e, se fosse stata questa diffusione dei carismi la responsa-bile del differimento della manifestazione del mistero dell’anomia, eglinon dovrebbe avere avuto difficoltà a dirlo in modo aperto. Ma c’è, poi,una seconda ragione: se questa manifestazione, come dice l’Apostolo,si fosse dovuta realizzare dopo che fossero cessati i carismi, allora, altempo in cui il Crisostomo scriveva, l’iniquo avrebbe già dovuto esse-re stato rivelato, poiché da tempo i carismi erano cessati.

Dalla catena a 2Ts sappiamo che l’interpretazione che identificavail Katéchon con la grazia dello Spirito era proposta da Severiano diGabala. Il catenista la riporta immediatamente dopo la citazione del-l’esordio dell’omelia IV a 2Ts del Crisostomo, il quale, come abbiamovisto, richiama tale interpretazione, senza però menzionarne l’autore,quasi a voler indicarne la fonte; ma lo fa in modo secco, senza conte-sto e senza commenti, sicché risulta impossibile ricostruire l’argomen-tazione di Severiano. Subito dopo, viene richiamata l’interpretazionedi Teodoro di Mopsuestia, il quale, su questo punto, concorda con ilCrisostomo nel respingere l’identificazione del Katéchon proposta daSeveriano. L’argomentazione di Teodoro è analoga: l’opinione diSeveriano è ritenuta poco convincente, perché i carismi sono cessatiormai da tempo. Anche Teodoreto di Cirro, nel suo commento a 2Ts,respinge l’interpretazione che sappiamo essere di Severiano, ma conun argomento un po’ diverso da quello di Teodoro e del Crisostomo.Non è pensabile, afferma Teodoreto, che la grazia dello Spirito (quinon identificata con i carismi) venga completamente meno in un deter-minato momento, circostanza presupposta dall’interpretazione diSeveriano, secondo il quale, finché opera la grazia dello Spirito, «quel-lo» (probabilmente l’«uomo del peccato», il «figlio della perdizione»del v. 4) non si può manifestare; e questo perché, senza la grazia dello

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Spirito, al momento della fine nessuno riuscirebbe a sfuggire alle mac-chinazioni di questa figura del male, e tutti sarebbero perduti; il che,ovviamente, non corrisponde a ciò che avverrà, perché il Cristo scon-figgerà l’ánomos e salverà quanti non si sono lasciati sedurre dalle suemenzogne (vv. 8-12).

Sulla base dell’obiezione del Crisostomo, pssiamo supporre cheSeveriano identificasse in una Chiesa dei carismi il migliore e più effi-cace baluardo contro la prevaricazione delle forze del male. Quello chenon è chiaro è come e per quali ragioni questi carismi, o più generica-mente la grazia dello Spirito, a un determinato momento dovrebberovenir meno e permettere, di conseguenza, la manifestazione palese delmistero dell’anomia, che comunque è già all’opera, anche se in modonascosto.

2. L’impero romano

Respinta l’opinione che identificava il Katéchon con la grazia delloSpirito, il Crisostomo ne enuncia una seconda, alla quale dice di aderi-re lui stesso: quella che identifica il Katéchon con l’impero romano.L’argomentazione si richiama alle ragioni che avrebbero indotto Paoload usare, a questo proposito, un linguaggio così oscuro. Se il rifiuto del-l’interpretazione che noi sappiamo essere di Severiano di Gabala sibasava sulla constatazione che Paolo non avrebbe avuto ragione diusare un linguaggio oscuro se, ad impedire la manifestazione dell’áno-mos, fosse stata la diffusione dei carismi dello Spirito, nel caso che ilKatéchon fosse stato l’impero romano, invece, Paolo avrebbe avutobuone ragioni per parlare in modo enigmatico. Infatti, suggerisce il Cri-sostomo, se Paolo avesse detto in modo aperto che, di lì a poco (mikrònhýsteron), l’impero romano sarebbe stato abbattuto (katalythēsetai), sa-rebbe stato considerato un uomo pericoloso e avrebbe attirato su di sée sui suoi ostilità e pericoli inutili. In realtà, Paolo non dice nulla suitempi della manifestazione dell’ánomos; anzi, sembra piuttosto insiste-re sulla necessità di evitare falsi allarmismi e invita a non dar retta aiseduttori che annunciano eventi spettacolari a breve termine (2Ts 2,1-4). La cosa non sfugge al Crisostomo, il quale sottolinea che proprioper evitare guai maggiori Paolo non specifica i tempi, ma dice sempre

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che la manifestazione dell’ánomos dovrà avvenire en tô(i) heautoûkairô(i). Quanto al fatto, poi, che l’ánomos è già operativo fin da ora,anche se non in modo aperto, il Crisostomo fa riferimento a Nerone,che sarebbe il tipo dell’Anticristo. La ragione della tipologia è indica-ta nel fatto che quell’imperatore voleva essere identificato con Dio, e-sattamente come avrebbe fatto, secondo Paolo (v. 4), il figlio della per-dizione. Per la stessa ragione, Paolo parla, a questo proposito, di my-stērion: in effetti, l’Anticristo opera nell’ombra e non si lascia identifi-care anzitempo; altrimenti, al momento fissato perderebbe del tuttol’effetto sorpresa e comprometterebbe il suo disegno di seduzione e tra-viamento dei credenti. È probabile che qui sia implicita una polemicacontro quanti si attendevano l’avvento dell’Anticristo come Nerone re-divivo, presumendo, quindi, di saperne riconoscere i tratti nel confron-to con il suo týpos. Il tema dell’oscurità, centrale nell’argomentazionedel Crisostomo, assume, quindi, una duplice valenza: oscuro ed enig-matico è il linguaggio di Paolo, che identificherebbe nel Katéchon l’im-pero romano, per evitare di esporsi ad inutili pericoli; ma oscura edenigmatica sarà anche la manifestazione dell’Anticristo, di cui non èdato di conoscere in anticipo né il momento né la forma.

Perché il mistero del male si possa manifestare al suo tempo è ne-cessario che sia tolto di mezzo il Katéchon. Ciò significa che bisogne-rà attendere che l’impero romano crolli. A questo proposito, il Cri-sostomo si richiama al libro di Daniele (Dn 7), dove l’immagine dellequattro bestie allegoricamente allude alla successione degli imperi:Medi, Babilonesi, Persiani, Macedoni e infine Romani. L’impero roma-no, l’ultimo, è destinato anch’esso a crollare e ad essere sostituito dal-l’impero dell’Anticristo, il quale a sua volta, dopo lo scontro finale, sa-rà sostituito dall’impero di Cristo. Lo schema è, dunque, quello dellasuccessione: gli imperi si susseguono, uno dopo l’altro, e il secondonon si imporrà finché non sarà crollato il primo, e così di seguito. Que-sto significa che bisognerà attendere il crollo dell’impero romano, ilquale cesserà di «trattenere» e, di conseguenza, aprirà la strada alla ma-nifestazione dell’impero destinato a succedergli, quello dell’Anticristo.Diversamente che nel caso dell’interpretazione di Severiano di Gabala,qui il Crisostomo spiega anche come l’impero romano «trattiene»: lo faattraverso la paura che incute; fintantoché durerà questa paura, nessu-

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no si potrà fare avanti per instaurare l’anomia. Quando, invece, l’impe-ro romano sarà rovesciato, allora ci sarà un vuoto di potere (anarchia)e in questo vuoto di potere potrà farsi avanti il figlio della perdizione etentare di usurpare sia il potere umano, sia quello divino. Il potereimperiale romano, dunque, attraverso la paura, assicura l’ordine e, piùancora, mantiene lo status quo; in questo modo «trattiene» la manife-stazione del mistero dell’anomia. Il Crisostomo non si pone il proble-ma di come l’impero romano sarà rovesciato; l’inclusione, all’ultimoposto, nell’elenco dei vari imperi che si sono succeduti l’uno all’altronel passato, indurrebbe a pensare che anch’esso sarà rovesciato in mo-do analogo, quindi in seguito alla conquista da parte dell’impero che losostituirà; ma questa ipotesi sembra contraddetta dal riferimento all’a-narchia, ovvero all’assenza di potere (condizione che si raggiungeràsolo quando l’impero romano sia già stato rovesciato), come circostan-za che consentirà la manifestazione dell’Anticristo. Non sembra chel’Anticristo debba essere il responsabile del crollo dell’impero romano;piuttosto, egli approfitterà del vuoto di potere creatosi per manifestarsiin modo palese ed imporre il suo potere prevaricatore.

3. Il provvidenziale decreto divino

L’interpretazione del Crisostomo viene respinta, insieme con quel-la di Severiano di Gabala, senza che ne siano menzionati gli autori, daTeodoreto di Cirro. Teodoreto si occupa dell’interpretazione del passodi 2Ts sul Katéchon oltre che nel Commento a 2Ts, in altri due scritti:il Commento a Daniele e la sua più nota opera eresiologica, Hereti-carum fabularum compendium6. Egli propone un’interpretazione anco-ra diversa; i tre scritti ne accentuano aspetti differenti, senza però mu-tarne la sostanza.

Teodoreto motiva il rifiuto dell’interpretazione del Katéchon riferi-to all’impero romano con un preciso richiamo all’immagine delle quat-tro bestie di Dn 7. La quarta bestia va identificata con l’impero roma-no (Teodoreto se la prende esplicitamente, nel suo Commento a Da-

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6 Theod. Cyr., In Danielem, cap. 7 (PG 81,1417-1437); Haeret. fabul. compendium 5,23 (PG83, 525-532).

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niele, con quegli autori che, diversamente, la identificano con l’imperodei Macedoni) e poiché, secondo la visione del profeta, si tratta del-l’ultima bestia, ciò significa che all’impero romano non succederà al-cun altro impero. Quindi la successione degli imperi, che comprendeval’impero dell’Anticristo e quello di Cristo, così come l’aveva propostail Crisostomo, non è corretta. Piuttosto, sempre in riferimento alla vi-sione di Daniele, l’Anticristo sorgerà dall’interno dell’impero romano,così come il piccolo corno, che prefigura il personaggio malvagio di cuiPaolo parla in 2Ts, sorge all’interno della quarta bestia. Nel commentoa Dn 7 Teodoreto lo illustra bene: il piccolo corno opera dall’internodella bestia, quindi mentre l’impero romano esercita ancora il propriopotere; la sua prevaricazione sarà di breve durata, perché sarà prestoassoggettato dalla potenza di Cristo e sottoposto al giudizio. Dopodichéil corpo della bestia sarà gettato nel fuoco, vale a dire: l’impero roma-no sarà distrutto. Quindi il Katéchon non può essere l’impero romano,perché, almeno a partire da un certo momento, dal suo seno stessoemergerà ciò o colui che avrebbe dovuto trattenere.

Liquidata anche l’interpretazione che identificava il Katéchon conl’impero romano, Teodoreto passa ad illustrare la sua. È stato Dio stes-so a stabilire che la figura dell’uomo del peccato, del figlio della perdi-zione si manifestasse soltanto alla fine dei tempi: è quindi il decretodivino che impedisce che costui si manifesti prima del tempo fissato.Teodoreto dice che tale interpretazione è attestata presso altri autori,che però non nomina. Noi sappiamo, tuttavia, che tale interpretazioneera sostenuta da Teodoro di Mopsuestia. La catena a 2Ts, infatti, riferi-sce proprio a Teodoro l’opinione secondo la quale il Katéchon era daidentificare con il decreto divino, che fissa alla fine dei tempi la mani-festazione dell’empio. Purtroppo l’argomentazione di Teodoro non ci èpervenuta e sulla base delle frammentarie citazioni del catenista non èpiù ricostruibile. Ci dobbiamo accontentare di quella di Teodoreto.

Teodoreto si domanda: se esiste un decreto divino che fissa in unmomento preciso il tempo della manifestazione dell’empio, allora checosa intende dire Paolo quando parla di questo Katéchon, di qualcunoo qualcosa che «trattiene», impedendo la manifestazione del misterodell’anomia? Teodoreto cerca di spiegare il testo paolino facendo rife-rimento ad una profezia di Gesù, il quale affermò (Mt 24,14): «Quandoquesto vangelo del Regno sarà predicato in tutta la terra abitata quale

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testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine». Sulla base di questaprofezia, Paolo, rendendosi conto che al suo tempo era ancora ampia-mente diffuso il culto degli idoli, scrisse che era necessario che fossesradicata la superstizione degli idoli e la predicazione del vangelo rag-giungesse tutte le genti prima che si potesse manifestare l’avversariodella verità. Pertanto, cio che «trattiene» è il permanere dell’idolatria;si tratta, in ogni caso di un «trattenere» in negativo, nel senso di unacondizione, prevista dalla profezia di Gesù, che non è ancora soddi-sfatta e che quindi dilaziona la fine più che non impedire positivamen-te la manifestazione dell’empio. Teodoreto, però, non sembra pensaread una eliminazione radicale ed effettiva dell’idolatria come condizio-ne per la manifestazione dell’uomo malvagio, ma piuttosto alla diffu-sione del messaggio evangelico in tutti gli angoli della terra, che potràoffrire a tutti l’opportunità di riconoscere l’errore e, quindi, di abban-donare gli idoli. Quanti non saranno disposti ad accogliere tale mes-saggio – e Teodoreto pensa soprattutto ai giudei – saranno le prime vit-time dell’azione dell’empio. A questo proposito, Teodoreto cita Gv5,43: «Sono venuto nel nome del Padre mio, e voi non mi avete accol-to; un altro verrà nel suo proprio nome, e voi lo accoglierete», versettoche collega alla testimonianza di Paolo in 2Ts 2,10-12: «[La venuta del-l’empio si manifesterà attraverso ogni sorta di prodigi e seduzioni perquanti si perdono], poiché essi non hanno accolto l’amore della veritàche li avrebbe salvati. Perciò Dio invierà loro una potenza di travia-mento, perché credano alla menzogna e siano giudicati [e quindi con-dannati] tutti coloro che non credono alla verità, ma si compiaccionodell’ingiustizia».

Quanto, poi, al fatto che il mistero dell’anomia sia già all’opera,Teodoreto respinge l’opinione di quanti vi vedono un riferimento allafigura di Nerone; egli ritiene che l’Apostolo con questa notizia intendarimandare all’azione delle eresie all’interno della comunità cristiana: ildiavolo è all’opera nelle eresie e attraverso di esse, allontanando moltidalla verità, prepara il grande inganno finale. Perciò Paolo parla dimistero dell’anomia a questo proposito: perché le eresie subdolamente,misteriosamente, tendono il laccio dell’anomia per accalappiare i fede-li; nel tempo della sua manifestazione, invece, l’uomo della perdizioneallontanerà gli uomini da Dio in modo palese.

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Per quanto riguarda il problema dell’identità dell’Anticristo, chePaolo designa con appellativi diversi in 2Ts, Teodoreto la illustra nontanto nel suo commento a 2Ts, quanto piuttosto nel suo commento aDaniele e nella sua opera eresiologica. L’Anticristo è un personaggiodiabolico, che rivestirà la natura umana; sarà l’incarnazione del diavo-lo, così come il Cristo è l’incarnazione di Dio; sarà giudeo e ricono-sciuto come messia dai giudei (la figura del piccolo corno della bestiadi Dn 7 è inteso in riferimento ad una piccola tribù giudaica); il suoregno sarà terribile, ma effimero, riconosciuto e accolto soprattutto daigiudei, che hanno rifiutato il Cristo7.

4. Osservazioni conclusive

L’interpretazione del Katéchon formulata da Severiano di Gabala simuove all’interno di un orizzonte ecclesiologico: ciò che «trattiene» è lagrazia dello spirito, vale a dire, secondo la testimonianza del Criso-stomo, che a questa interpretazione fa riferimento, pur senza condivi-derla, l’esercizio dei carismi nella chiesa. È dunque la diffusione dei ca-rismi e la vitalità carismatica della chiesa che «trattiene» la manifesta-zione dell’empio. Giovanni Crisostomo, invece, si muove all’interno diun orizzonte più chiaramente teologico-politico: il Katéchon è l’imperoromano, il quale, esercitando il proprio potere e mantenendo l’ordineattraverso la paura e la forza, impedisce la manifestazione del figlio del-la perdizione, perché tale manifestazione potrà realizzarsi in modo pale-se soltanto in una situazione di anarchia, cioè di vuoto di potere.

Infine, l’interpretazione di Teodoreto si sposta dal terreno teologi-co-politico a quello storico-salvifico: la storia è il luogo della manife-stazione divina, il luogo in cui ha operato Gesù Cristo, offrendo a tuttigli uomini una occasione di salvezza. La missione di Gesù ha bisognodi tempo per potersi realizzare pienamente. Finché l’annuncio del van-gelo non avrà raggiunto tutte le genti, liberandole dalla superstizionedegli idoli, questo mondo continuerà a sussistere, pur nella sua imper-fezione e nella parziale sottomissione a forze malvagie che già opera-

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7 Il dossier dei testi di Teodoreto sull’Anticristo è presentato e analizzato da Ch. Badilita,Métamorphoses de l’Antichrist chez les pères de l’église, Beauchesne, Paris 2005, pp. 463-492.

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no al suo interno. Soltanto quando la missione evangelizzatrice saràcompletata e a tutti gli uomini sarà stata concessa la possibilità di ab-bandonare l’errore e accedere alla verità, questo eone potrà dissolversisecondo le modalità previste dalle diverse concezioni apocalittiche.

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MASSIMO GIULIANI

BELIAL, GOG-E-MAGOG, ARMILUSExcursus su nomi e miti ebraici dell’anti-messia

Apocalittica a parte, l’importanza relativa della riflessione sul mes-sia nel panorama complessivo della storia del pensiero ebraico – chesorprende solo chi ignori la natura squisitamente torà-centrica e hala-khica di tale pensiero – non può lasciar dubbi sulla quasi totale margi-nalità, nella storia dell’autocoscienza ebraica, del tema dell’anti-mes-sia, o se si preferisce dell’anti-cristo. È vero che nel giudaismo esisteuna seria riflessione e una lunga storia di «falsi messia» o «auto-pro-clamatisi messia» che falliscono nell’impresa che si sono prefissati, mail concetto di pseudo-messia non coincide affatto con quello di anti-cri-sto. E se le origini ebraiche, in antico, hanno senz’altro influenzatoquest’ultimo concetto, marcando il suo carattere teologico-politico erendendolo appetibile agli sviluppi peculiari del primo cristianesimo,non è affatto improbabile che esso sia stato, di ritorno, condizionato erielaborato ebraicamente proprio a partire dall’uso (e dall’abuso, spes-so in chiave anti-ebraica) che la cristianità ne aveva fatto fin dai suoiinizi. Apocalisse a parte, ho detto. Perché se vi è un contesto in cui col-locare le origini ebraiche del concetto di anti-messia/anti-cristo, e allaluce del quale spiegare tutti i suoi ulteriori sviluppi propriamente ebrai-ci, questo contesto è, a detta di tutti gli specialisti, l’apocalittica ebrai-ca. Non essendo io uno specialista né dell’apocalittica né del coevo giu-daismo ellenistico, dichiaro subito la natura di excursus del mio inter-vento, che nasce dal bisogno di integrare le riflessioni del nostro semi-nario teologico-politico sul Katéchon e sull’Anticristo (non a caso scrit-to con la maiuscola) con una prospettiva ebraica, capace di dar conto diuna storia dell’idea anticristica (senza maiuscola) diversa e parallela aquella, più nota e diffusa, tipica della teologia e dell’eresiologia cri-stiane. Parliamo in ogni caso di un’idea che ha generato una mitologiadi lunga durata, con molteplici varianti da fonte (orale) a fonte (orale),ben riflesse nelle discordanze tra i testi, e che attiene a un genere affa-

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scinante ma di difficile studio, il genere del folklore ebraico. È proprionel corso di questa lunga durata, a distanza di secoli dall’epoca dei fer-vori e dei timori apocalittici, che le leggende ebraiche sull’anti-cristo sisono sedimentate e codificate, ed è precisamente nei tardi midrashim, apartire dall’inizio dell’età gaonica che le ritroviamo.

Per gli scopi di questo excursus vorrei riferirmi soprattutto a queglistudiosi che hanno rivendicato e sottolineato origine e continuità ebrai-che della nozione di anti-messia, da Johann Franz Wilhelm Bousset aJoseph Klausner, fino a William Horbury, per il quale, se non v’è dub-bio che il termine e la nozione di anti-cristo abbiano una indiscutibileimpronta cristiana,

«nondimeno, tali referenze cristiane sembrano tutte suggerire che, come lafigura del cristo o messia, anche quella dell’Anti-cristo derivi dal giudaismopre-cristiano nel suo contesto greco e romano. Tale approccio è coerente conla mancanza di spiegazione della figura dell’Anti-cristo nel Nuovo Testamentoed è suffragato dalle fonti ebraiche dalla fine del periodo del secondo tempio,fonti che descrivono una figura simile all’Anti-cristo senza usare questo ter-mine, preferendogli piuttosto il nome di Malvagio, Gog o Beliar»1.

Anzi, non vi sarebbe ragione di escludere che anche il termine, enon solo l’idea di anti-cristo, possa essere proprio ebraico; Bousset ri-manda a questo riguardo a fonti come la LXX, gli Oracoli Sibillini, leApocalissi di Esdra e di Baruch, alcuni testi qumranici... Tali fontiebraiche, non diversamente dai passi anti-cristici di 2 Tessalonicesi edell’Apocalisse giovannea, sembrano dipendere dalla “visione messia-nica del giudizio” espressa in Isaia 11,4:

«[Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentitodire,] ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per glioppressi del paese; la sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio».

Sarebbe questo il nucleo più antico del mito del messia inteso comeil sorgere – dal tronco di Jesse, ossia dalla dinastia davidica – di un giu-sto vendicatore, che deve scontrarsi con il violento e trionfare sull’em-

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1 William Horbury, Antichrist among Jews and Gentiles, in: Martin Goodman (ed.), Jews ina Graeco-Roman World, Clarendon, Oxford 1998, pp. 116-117.

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pio, uccidendolo. Determinante allo scopo del consolidarsi e diffonder-si di tale mito sembra vada considerata la sensibilità e la letteratura giu-daico-ellenistica (riflessa in Daniele 8,5-12 e negli Oracoli Sibillini,soprattutto il III). Di volta in volta identificato con l’oppressore di turnodegli ebrei – che siano i Seleucidi di Antioco IV piuttosto che Roma – ilviolento che si oppone al messia e l’empio che il messia ucciderà è figu-ra che nell’immaginario popolare ebraico diventerà progressivamenteindissociabile con il messia stesso, al punto da rendere l’uno (l’anti-messia, l’anti-cristo e le sue violenze) condizione dell’altro (il messia,che verrà portandosi appresso dolori e sofferenze pari a quelle di unapartoriente). Questa antichissima associazione spiegherebbe, in parte, lavelocità con la quale un grande e rispettato maestro come rabbi Aqivanon esitò a «riconoscere» in Bar Kokhbà – prima Figlio della Stella, poiFiglio della Menzogna, in quanto messia che ha fallito – il vendicatoremessianico. Horbury ritrova poi la scena del giudizio di Isaia 11,4 inaltri due sviluppi del mito messianico, nei quali la figura del vio-lento/empio che si oppone al messia prende ora il nome di Gog, o diGog signore della terra di Magog (cfr. Ezechiele 38,2), o semplicemen-te di Gog-e-Magog; ora il nome di Belial/Beliar. Fermiamoci un poco suquest’ultimo, forse il meno noto dei nomi ebraici dell’anti-cristo.

1. Belial/Beliar, il «senza legge» (á-nomos)

Nella demonologia semitica diffusa nel periodo del medio giudai-smo2 e della letteratura apocalittica, il nome di Belial o Beliar sta adindicare un arcidemone, ovvero uno spirito del male che presiede a quel-la che l’antropologia rabbinica avrebbe designato con il nome di jezerra’ o inclinazione malvagia. Presente in quest’accezione squisitamentereligioso-rituale, preoccupata del rispetto delle leggi di purità (nei testidi Qumran come nei Testamenti dei Dodici Patriarchi), questa figuraassume negli ambienti ebraico-ellenistici una valenza più politica, benespressa in forma di un despota o di un oppressore. Nel terzo degli Ora-coli Sibillini (III, 63-74) si dice che Belial/Beliar proviene dai Sebastenoi

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2 Per il termine e il periodo del «medio giudaismo» si vedano: Gabriele Boccaccini, Il mediogiudaismo, Marietti, Genova 1993; Id., I giudaismi del secondo tempio. Da Ezechiele a Daniele,Morcelliana, Brescia 2008.

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per fuorviare molti per mezzo di miracoli illusori, inclusa una resurre-zione dei morti. Gli studiosi (da J. Klausner a J.J. Collins, da L. Peer-bolte a E.S. Gruen) sono abbastanza concordi nel ritenere che «i Se-bastenoi [non sono gli abitanti di Sebaste/Samaria e dunque i samarita-ni, ma] sono probabilmente gli imperatori romani o Augusti, e l’arro-gante Beliar che va incontro a una cattiva fine probabilmente è Nero-ne»3. E tuttavia Horbury indaga la possibilità di collegare Beliar con unre del regno di Israele o con un leader samaritano. La presenza di Beliarnella letteratura cristiana antica – come l’Ascensione di Isaia o 2Cor6,15) – confermerebbe che si tratta di una figura accostata e contrap-posta al messia fin dagli inizi, il cui carattere peculiare è quello di ingan-nare e ostacolare, come il Satana, l’opera del vero inviato di Dio.

«È degno di nota – aggiunge acutamente Horbury – che in 2Ts 2,8 il malignooppositore che verrà ucciso dal messia non è chiamato “maligno/malvagio”(come si trova in Is 11,4 secondo la LXX), ma “senza legge” (á-nomos). Questascelta di aggettivo fu probabilmente influenzata dall’uso contestuale delsostantivo anomia nei precedendi versetti (2Ts 2,3.7), ma esso a sua voltarimanda e richiama il sostantivo anómēma usato per rendere Belial nella ver-sione dei LXX di Dt 15,9. Probabilmente dunque sotto la superficie resta pro-prio il nome/concetto di Belial»4.

Dunque già in Paolo il demone è divenuto un uomo privo di legge.In ogni caso, sembra chiaro che dimensione religiosa e dimensionepolitica in tali fonti vengono progressivamente a fondersi, e che l’anti-messia che il messia deve sconfiggere è già ben radicato nell’immagi-nario ebraico intra-testamentario; di più, esso si offre alla retorica dellaresistenza ebraica anti-romana che si andrà accentuando a partire dalladistruzione del Tempio (che il messia verrà a ricostruire).

Una possibile spiegazione del passaggio dalla dimensione religio-so-rituale a quella più politica della figura dell’oppositore/malvagio/in-

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3 Erich S. Gruen, Ebrei, Greci e Romani nel terzo oracolo sibillino, in: Ariel Lewin (ed.), Gliebrei nell’impero romano. Saggi vari, Giuntina, Firenze 2001, p. 59. Sul mito del ritorno diNerone (Nero redivivus) si veda: Beda Rigaux, L’Antéchrist et l’opposition au Royaume messia-nique dans l’Ancien et le Nouveau Testament, Gembloux, Paris 1932.

4 William Horbury, art. cit., p. 126. Cfr. Note on Belial in: Wilhelm Bousset, The AntichristLegend. A Chapter in Christian and Jewish Folklore, Scholar Press-reprint, Atlanta 1999 [orig.1895], pp. 153-157.

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gannatore, e del suo consolidarsi nel corso del I secolo la si trova inKlausner, più precisamente nella sua analisi del III Oracolo Sibillino:

«Come in Roma vi erano un imperatore e un rivale, suo acerrimo nemico(Giulio Cesare e Pompeo, Antonio e Ottaviano), allo stesso modo [nell’im-maginazione degli ebrei alessandrini] si cominciò a pensare a un messia e unanti-messia (che i cristiani avrebbero chiamato Anticristo). Nei tardi midra-shim esso diventa “il cattivo Armilus”, ma sempre in termini di personalità col-lettiva, dal momento che Armilus altri non è che Romulus, fondatore e simbo-lo di Roma, e non un individuo come ancora è nell’Oracolo Sibillino»5.

Tuttavia, questa evoluzione dallo spirituale al politico e dall’indi-viduale al collettivo non oblia l’origine dell’opposizione e il sensocustodito dal nome Belial/Beliar in ambito più propriamente ebraico-palestinese, dove, sempre secondo Klausner, Belial verrebbe intesocome sinonimo di Satana; ma potrebbe altresì alludere al re Erode, cheavrebbe voluto essere accolto dagli ebrei come un messia, ma vennepiuttosto considerato come la sua negazione, il suo opposto, un veroanti-messia6. A questo punto gli Oracoli Sibillini (III, 319-322) riman-dano a un secondo termine per designare l’anti-messia, Gog-e-Magog,un anti-messia collettivo che entra in guerra aperta con il messia dopol’avvento dell’era messianica, allorché i figli di Israele vivono nellaloro terra e il re-messia regna su di loro. La ricchezza e la fortuna let-teraria di questa figura anti-messianica ebraica richiedono una rifles-sione approfondita.

2. Il mito di Gog-e-Magog, da Ezechiele a Martin Buber

Il Salmo 2 ha una lunga storia interpretativa in chiave di scontro,più correttamente di guerra, tra il messia, inviato del Signore, e i signo-ri di questo mondo, i re della terra, i principi dei popoli. La natura mes-sianica di questo salmo e il suo clima apocalittico-escatologico ne han-no fatto una pietra miliare anche della cristologia delle prime chiese.Nella tradizione ebraica, esso offre una chiara profezia della vittoria di

Belial, Gog-e-Magog, Armilus 71

5 Joseph Klausner, The Messianic Idea in Israel. From Its Beginning to the Completion of theMishnah, The Mcmillan Company, New York 1955, p. 373.

6 Ivi, p. 374.

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Dio che spezzerà «con scettro di ferro» (v.9) gli avversari del Signoree del suo messia. Questi avversari nel corso del tempo hanno preso ilnome generico e mitico di Gog-e-Magog, nome ispirato dalla visionedi Ezechiele (capp. 38-39), sebbene in Ez si parli solo di un «Gog dellaterra di Magog». Ma, come nota Klausner, tutta la letteratura post-bibli-ca di origine palestinese conosce e usa solo quest’espressione: Gog-e-Magog7. Al di là della possibile origine storica di questo nome (Gige,re di Lidia, VII secolo a.C.?), esso diventa ben presto nome simbolicoin funzione sineddotica – pars pro toto – adottato dall’apocalittica eampiamente citato nella letteratura qumranica ed ebraico-ellenistica.La natura escursionistica di questo contributo non permette una rico-gnizione dettagliata delle occorrenze di questo nome (segnalo solo icommenti a Isaia trovati nella quarta grotta di Qumran e ancora unavolta il III Oracolo Sibillino). Comunque, sempre secondo Klausner, iltema della leggendaria guerra di Gog-e-Magog

«è menzionato già nella primissima letteratura tannaitica [ossia nel I sec. a.C.],e i due nomi ormai indissociabili [ecco la ragione del trattino, che li rende unavera e propria endiade] giocano la parte di un anti-messia collettivo»8.

In tarda epoca rabbinica Gog-e-Magog significa semplicementel’esercito dei nemici di Israele che saliranno a combattere contro ilmessia (in terra di Israele, ma non è sempre chiaro se a Gerusamemmeo nella piana di Meghiddo/Armagheddon, o nella valle di Gerico) esaranno sconfitti da Dio stesso. Come sintetizza W. Horbury,

«l’identificazione di Gog con il grande avversario messianico è attestata inmodo continuo nelle fonti ebraiche dal Pentateuco della Septuaginta ai Tar-gumim e alla più ampia letteratura rabbinica, e 4Q 161 [il commento qumra-nico a Isaia] può essere compreso in connessione con questa serie di inter-pretazioni»9.

La grande diversità tecnica, per così dire, tra Belial/Beliar e Gog-e-Magog sta nell’accentuata dimensione collettiva del secondo e nellascena di guerra, che sostituisce o segue la scena del giudizio di Is 11,4.

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7 Ivi, p. 375.8 Ivi, p. 497.9 William Horbury, art. cit., p. 125. Per un’antologia di fonti sul tema, si veda: Raphael Patai,

The Messiah Texts, Wayne State University Press, Detroit 1979.

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È lecito comunque chiedersi: quella degli eserciti di Gog-e-Magog,che raccolgono le forze dei settanta popoli contro Israele e il suo mes-sia, non è forse un’immagine strana per la religione di un popolo di-sperso e privo di potere politico-militare? Una prima, intuitiva rispostaè offerta dall’etno-antropologo Raphael Patai quando scrive che

«dal momento che essi [gli ebrei] non potevano vendicare i loro tormenti eottenere giustizia contro i loro oppressori, elaboravano con la fantasia unaretribuzione divina che Dio stesso avrebbe operato [come in Egitto] contro iGentili nei giorni del messia. Così le leggende messianiche delle grandi guer-re contro i Gentili, e il mito della vittoria globale contro di essi, serviva comeuna valvola di sicurezza attraverso la quale la rabbia repressa poteva venir libe-rata raggiungendo in tal modo una soddisfazione psicologica»10.

Resta tuttavia un punto controverso, se non contraddittorio, la col-locazione temporale di questi eventi escatologici. Si tratta di una guer-ra vera o di una metafora, come altre volte questo termine è usato nellaletteratura rabbinica? E tale guerra avverrà durante o alla fine dell’etàmessianica? E ancora, il sorgere degli eserciti di Gog-e-Magog è già daleggersi come una manifestazione anti-messianica oppure, come lasciaintendere Bousset, si tratta piuttosto di precursori dell’anti-messia,dell’Anti-cristo (come gli autori cristiani avrebbero interpretato)?

«In quasi tutte le apocalissi ebraiche che evocano l’Anti-cristo [l’anti-messia],Gog-e-Magog sono i precursori e gli araldi di Armillus, ed è inoltre affermatoche il Messia ben Jopseh deve soccombere prima della loro venuta [di Gog-e-Magog]»11.

La figura del Messia ben Joseph qui evocata, come vedremo trapoco, rappresenta un messia terreno, destinato a combattere appunto suun vero campo di battaglia dei veri eserciti di questo mondo e destina-to altresì a morire, ucciso dai suoi avversari. È un messia tutto umano,doppio politico di un messia spirituale, il Messia ben David, che verràa vendicare il popolo ebraico e a sconfiggere definitivamente i nemicidi Dio e di Israele. Questa dottrina dei due messia rappresenta una spe-cie di soluzione alle contraddizioni sopra menzionate, e a sua volta con-

Belial, Gog-e-Magog, Armilus 73

10 Raphael Patai, op. cit., p. 146.11 Wilhelm Bousset, op. cit., p. 195.

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verge verso la leggenda di Armilus, il vero e proprio anti-messia, il sim-bolo ebraico sul quale vengono caricati elementi di tradizioni diverse –incluse forse quelle cristiane – e che funge dunque da catalizzatore ditutti gli spezzoni di simboli e miti fin qui elencati. Ma prima di vedereda vicino sia la figura di Armilus sia il mito dei due messia, va ricor-dato che la coppia Gog e Magog è una creazione specificamente ebrai-ca, che riflette il dramma dell’impotenza e della soggezione alle nazio-ni straniere da parte di Israele, e come tale risulta figura sempre asso-ciata allo stesso messia, al quale si contrappone in modo oggi diremmoteologico-politico, opposizione necessaria per il di lui manifestarsi.

Nella letteratura contemporanea esiste una curiosa ripresa del mitodi Gog-e-Magog nell’opera di recupero e di divulgazione del pensierochassidico da parte di Martin Buber. Il filosofo ebreo-tedesco, infatti,pubblicò in ebraico nel 1941 e in tedesco nel 1949 un testo dal titoloGog und Magog, nel quale racconta di alcuni zaddiqim (o rebbe chas-sidici) che, all’inizio del XIX secolo, cercarono di

«trasformare le guerre napoleoniche in quella guerra di Gog e Magog che deveprecedere la venuta del messia e in seguito alla quale tre leaders [Israel diKosnitz, Menachem Mendel di Rymanow e Ja’aqov Izkaq di Lublino, detto ilVeggente] morirono nel corso di un solo anno. Essi avevano forzato la fine emorirono nel suo soffio»12.

Il contesto del racconto, che Buber chiama «una cronaca», è dun-que tipico della teologia politica rabbinica – il divieto di anticipare oaccelerare la redenzione di Israele attraverso l’azione umana, spiritua-le (leggi: qabbalà pratica) o politica (leggi: alleanze con le potenze diquesto mondo) – e sul suo sfondo Gog non solo ostacola la redenzionema incarna a tutto tondo l’anti-messia, le forze del male storico e meta-fisico che i chassidim, e soprattutto le loro guide, gli zaddiqim, devo-no/dovrebbero sconfiggere. Il capitolo intitolato «La predica di Gog» èun discorso del Rebbe di Lublino dedicato al tema del male: se sia crea-to da Dio o no, se l’uomo nasca libero o soggiogato ad esso, se sia in

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12 Martin Buber, Gog e Magog, Bompiani, Milano 1964, pp. 48-49. Su questo testo si vedal’introduzione di Buber stesso a I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979 [orig. ebr. 1949],p.41. Sul concetto rabbinico di «forzare la fine», la sua evoluzione storica e le relative implica-zioni teologico-politiche vi sono approfondimenti in: Aviezer Ravitzky, La fine svelata e lo Statodegli ebrei, Marietti, Genova 2006 [orig. ebr. 1993].

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potere dell’uomo vincere la tentazione e la cattiva inclinazione, seanche tra le tenebre più fitte sia rintracciabile una qualche luce. Il passodi questa predica dedicato a «Gog del paese di Magog» è emblematicodella completa spiritualizzazione che il pensiero rabbinico ha fatto diquesta figura apocalittico-escatologica in età moderna. Ma ancor piùemblematico è il fatto che tale mito sia stato riproposto da Buber a metàdel XX secolo come cifra e simbolo della battaglia moderna degli ebreipiù religiosi, i chassidim, contro il male storico – l’anti-giudaismo cri-stiano, l’antisemitismo laico e moderno – che li perseguita. Ecco leparole che Buber mette sulle labbra del Rebbe di Lublino:

«Questo si racconta del Messia, che quale mendicante lebbroso davanti alleporte di Roma fasci le sue piaghe, egli però diventa sempre più forte, e se scuo-tesse le porte della città le spezzerebbe; poiché il Messia è l’immagine e il sim-bolo di quella forza. E il crescere della sua forza è riservato per la grande eultima battaglia poiché anche la forza delle tenebre cresce [...] Ed è predettoche verrà l’ora in cui una tremenda fiamma di fuoco nero irromperà sui set-tanta popoli, li trascinerà con sé e sfiderà Dio stesso nella lotta. Questi è l’uo-mo chiamato Gog del paese di Magog. E anche a lui parla il Signore, e diceche lo porterà via, lo spingerà innanzi, lo farà salire dalle estremità del setten-trione fino alle montagne della terra di Israele, dove egli dovrà cadere [...] l’o-perare di Dio nelle battaglie di Gog e Magog corrisponde al Suo operare nellaliberazione dall’Egitto, e che la Sua rivelazione ai popoli, dopo la vittoria, cor-risponde alla Sua rivelazione a Israele sul Sinài»13.

3. Il malvagio Armilus [Armillus o Armilos] e la dottrina dei due messia

Il mito di Armilus sorge all’inizio del periodo gaonico (VII secolo)come una sintesi, con toni leggendari e mitologici nuovi, della lunga tra-dizione immaginifica sul re (i re e i loro eserciti) che avrebbe(ro) com-battuto contro Israele e il messia. Come già detto, è comunemente ac-cettato che il nome sia termine ebraico per Romulus, e dunque rimandia Roma o all’impero romano. Giustamente Bousset sottolinea la pecu-liarità ebraica di questo mito, rivelato dal nome. Nell’immaginarioebraico Roma è «nemica degli ebrei» non solo (e non più principalmen-te) come la potenza che ha distrutto il Tempio e annientato le ambizio-

Belial, Gog-e-Magog, Armilus 75

13 M. Buber, Gog e Magog, cit., p. 49.

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ni nazionaliste ebraiche, ma è anche (e soprattutto) la religione rivale,antagonista e persecutrice – il cristianesimo – adottata dagli imperatoriromani come religione dell’impero e dunque instrumentum regni.

«Questo nome è significativo proprio perché la valenza politica dell’Anti-cristo, scomparsa nella tradizione cristiana, viene invece preservata in quellaebraica. I romani – regno di Edom, figli di Esaù, dominio di Samaele [uno deinomi del diavolo] – continuavano ad incarnare l’eredità dei fieri nemici degliebrei, soprattutto ora che l’impero era divenuto cristiano. Ecco perché – con-clude Bousset – il potere dell’Anticristo, anzi l’Anticristo stesso, si chiamaArmilus (Romulus)»14.

Ecco in breve il mito: Armilus è una creatura satanica, fisicamentedeforme e «mostruoso», frutto della relazione sessuale tra una statuamarmorea di donna e Satana stesso, o un «figlio di Belial» moralmen-te spregevole, che ha la funzione specifica ovvero la missione di ucci-dere in combattimento il Messia figlio di Giuseppe, mashiach benJoseph, facendo credere di essere lui stesso il messia, spingendo Israele«nel deserto» e istigandolo all’idolatria, ma verrà a sua volta ucciso dalMessia vero, figlio di David, mashiach ben David. Tutto ciò per realiz-zare la profezia di Isaia 11,4. Non a caso dunque la prima referenza adArmilus (il nome viene spesso modificato in Harmalet o Tarmala oArmalgus/Armaglus) si trova nel Targum che traduce il versetto di Isaiacon il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio in questo modo: con laparola della sua bocca ucciderà il malvagio Armilus. Altre fonti ebrai-che sono appunto le tarde raccolte midrashiche, tra cui il Libro di Ze-robabele, i Misteri di Shim’on bar Jochaj e il Midrash va-Josha. Il mitosi trova citato anche nell’opera teologica di Sa’adia Gaon Emunot ve-Deot. Del nome vi è una referenza, come Armaelius, anche in una rac-colta cristiana di materiali apocalittici (lo Pseudo-Metodio) in riferi-mento all’espansione islamica e alla sua guerra di conquista, che fu,almeno all’inizio, persecutoria verso le comunità ebraiche della peni-sola arabica. Nel suo complesso, dunque, il mito di Armilus è una va-riante della figura di Gog-e-Magog e incorpora anche l’antico nemicoBelial. La novità maggiore è l’associazione della figura di Armilus dauna parte con la dottrina dei due messia (ben Joseph e ben David) e dal-

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14 Wilhelm Bousset, op. cit., p. 105.

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l’altra con l’idea (assente, secondo Klausner, nella letteratura sul mes-sia di origine tannaitica) di un messia sofferente. Infatti, se il ruolo diArmilus è quello di combattere e uccidere il messia figlio di Giuseppe,è chiaro che le tre idee – che vi siano non uno ma due messia con «mis-sioni» diverse, che quel primo messia sia un «messia sofferente» e chea causare tale sofferenza, e la di lui morte, sia un anti-messia (Armilus)– sono interdipendenti e probabilmente coeve.

Sempre Klausner suggerisce di non perdere aderenza alla storiaebraica, essendo quest’ultima la vera chiave dell’idea ebraica di mes-sia. Tale idea, storicamente, avrebbe subìto una scissione durante la tra-gedia della seconda rivolta giudaica contro i romani, all’epoca di BarKokhbà e di rabbi Aqiva. Il fallimento e la morte del «messia politico»Bar Kokhbà, non da ultimo per via del riconoscimento autorevolissimoda parte di rabbi Aqiva, costituiscono uno spartiacque nella stessa ideaebraica di messia e di redenzione. La dottrina dei due messia sarebbepertanto il modo con cui il pensiero rabbinico – dopo il 135 e la perse-cuzione di Adriano che romanizzò Gerusalemme in Aelia Capitolina –cercò di superare lo shock del fallimento militare di Bar Kokhbà e diconciliare la contraddizione, ormai evidente, tra la dimensione spiri-tuale e la dimensione politica dell’atteso messia redentore di Israele.Spiega Klausner:

«Il duplice carattere del Messia [spirituale e politico] doveva essere trasfor-mato in un duplice Messia. E ciò avvenne trasferendo a un secondo Messia lafunzione di combattere la guerra con tutte le sue implicazioni. Dunque questosecondo Messia [mashiach ben Joseph] è esclusivamente un messia-guerriero,ed è chiamato dalla tarda letteratura midrashica con l’espressione “colui che èunto per la guerra” (meshuach milchamà). Dalman ha dunque ragione quandodice che l’intera attività del Messia figlio di Giuseppe ha un significato quasiesclusivamente politico»15.

In sintesi,

«nel periodo pre-Adriano si credeva che il Messia figlio di David avrebbe, conl’aiuto della Shekhinà [di Dio stesso] combattuto e vinto contro i nemici diIsraele; ma nel periodo post-Adriano, l’onere di combattere fu attribuito alMessia figlio di Giuseppe, il quale, dopo una grande ma non decisiva vittoria,

Belial, Gog-e-Magog, Armilus 77

15 Joseph Klausner, op. cit., p. 495.

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avrebbe dovuto essere ucciso. La vittoria finale e decisiva, che Dio stesso por-terà a compimento, assegnerà la corona soltanto al Messia figlio di David,come unico re della dinastia davidica»16.

La dottrina dei due messia, dunque, ha incorporato la figura del-l’anti-messia – Armilus non è che il suo ultimo nome – quale tappadolorosa ma necessaria prima della battaglia finale, spostata evidente-mente in tempi lontani, escatologici e spesso confusi con l’‘olam ha-bà, il mondo a venire17.

A questo punto è interessante capire perché questo secondo messia,figlio di Giuseppe, che viene comunque prima del primo, più antico enobile messia, figlio di David (tribù di Giuda), venga proprio dalla «ca-sa di Giuseppe» ossia dalla tribù di Efraim, e non da un’altra tribù. Lerisposte a questa domanda possono essere diverse. Klausner cita, perescluderla, quella data dallo studioso italiano David Castelli18, secondoil quale si sarebbe trattato di placare e gratificare le Dieci Tribù (ormaidisperse), e offre la sua, per la quale «c’erano solo due tribù predomi-nanti in Israele, e se il Grande Redentore deve venire dalla tribù diGiuda, allora per forza di cose il suo collega minore dev’essere figliodi Giuseppe, ossia provenire dalla tribù degli efraimiti»19. Questa spie-gazione, intenzionalmente storica, tuttavia non soddisfa chi scrive, perla sua debolezza simbolica. I maestri sono più sensibili alle ragionipedagogico-religiose che a quelle critico-storiografiche. A me pare chevi fosse, nella riflessione dei maestri, un rimando agli efraimiti assaipiù pregnante. Essi sono coloro che per primi, ancora in Egitto e allavigilia della liberazione dell’Esodo, «forzarono la fine», anticiparonocioè l’uscita dall’Egitto senza aspettare l’intervento divino. E pertanto

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16 Ivi, p. 498.17 Mosè Maimonide, nel suo Mishnè Torà («Trattato sui re» e l’introduzione al X capitolo di

Sanhedrin [Pèreq chéleq]) nonché nello scritto sulla resurrezione dei morti, cercherà di fare chia-rezza sulla distinzione tra acharit ha-jamim (i giorni del messia) e ‘olam ha-bà (mondo a venire),e affermerà la sua convinzione, una specie di minimalismo messianico, per cui «[nei giorni delmessia] nulla cambierà nella realtà rispetto ad oggi, se non il fatto che la sovranità [politica] saràrestituita a Israele» (cfr. Maimonide, Immortalità e resurrezione, a cura di Giuseppe Laras, Mor-celliana, Brescia 2006, p. 83).

18 Cfr. David Castelli, Il Messia secondo gli Ebrei, Le Monnier, Firenze 1874 (EdizioniPiZeta-reprint, 2008). Si veda anche: Cristina Facchini, David Castelli. Ebraismo e scienze dellereligioni tra Otto e Novecento, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 87-122.

19 Joseph Klausner, op. cit., p. 495.

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furono puniti con l’insuccesso della loro impresa e perirono malamen-te20. Dal momento che non v’è nulla di religioso nel messia figlio diGiuseppe, e poiché la sua sconfitta non è che una tappa necessaria, perquanto dolorosa, per spianare la strada al messia figlio di David, nondoveva sembrare irrispettoso ai maestri attribuire al messia che devemorire un’ascendenza efraimita, essendo i figli di Efraim l’emblema diuna redenzione incompiuta, di un desiderio di libertà che non ha sapu-to aspettare i tempi e le modalità fissate da Dio per la redenzione fina-le. Quella degli efraimiti – e dunque anche la messianicità del figlio diGiuseppe – resta sotto il segno della politica, mentre solo quella delladinastia davidica segna il salto di qualità e ha le caratteristiche dellaredenzione vera, finale, compiuta da Dio stesso.

Nei tempi più antichi, quando questo sdoppiamento della figura edella funzione messianica non era ancora sorto e diffuso nella creden-za ebraica, la missione di precursore del messia e di giustiziere eraassolta dal profeta Elia, che in queste tradizioni tarde diventa una figu-ra di sfondo, più sbiadita. Là dove essa permane – ad esempio nellahaggadà di Pesach (per non citare i vangeli) – mantiene la sua forza digiudice/giustiziere operando in una dimensione teologico-politica: ren-dere giustizia a Israele colpendo i suoi nemici e «convertire il cuore deipadri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» (Malachia 3,23).Solo così Elia prepara l’avvento pacifico al messia, all’unico messia, ilmashiach ben David.

Belial, Gog-e-Magog, Armilus 79

20 La storia degli efraimiti, che escono anzitempo dall’Egitto e per questo sono puniti, èripresa dalla Mekiltà e rinarrata in sintesi midrashica in: Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei,IV, Adelphi, Milano 2003, pp. 136-139. Sul tema si veda anche il mio Eros in esilio. Letture teo-logico-politiche del Cantico dei Cantici, Medusa, Milano 2008.

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80 Massimo Giuliani

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MASSIMO CAMPANINI

IL DAJJĀLEscatologia e politica nell’Islam

La figura del Katéchon (2Ts 2, 6-7), quella strana forza o istituzio-ne o chissà che altro che «trattiene», «impedisce» la comparsa del-l’Anticristo, non esiste nell’Islam. E ciò non tanto perché i teologi isla-mici non conoscessero le scritture cristiane: un Ibn Hazm, ad esempio(vissuto nell’XI secolo), era molto ben informato sul Vangelo e sullesette orientali, e in linea del tutto teorica avrebbe potuto anche saperedelle lettere paoline (ad esse, tuttavia, anche se fossero state conosciu-te, ben difficilmente si sarebbe concessa molta importanza, visto chenon sarebbe stato loro riconosciuto da parte dei musulmani valoresacrale). Piuttosto, almeno due concetti teologici fondamentali del-l’Islam mi paiono muovere contro l’idea di un Katéchon. In primo luo-go, il fatto che nessuno conosce quando l’Ora cadrà. Un famoso hadīthracconta di come il Profeta Muhammad, richiesto al proposito dall’an-gelo Gabriele, gli abbia risposto che né l’interrogante né l’interrogatopotevano saperlo. Il segreto dell’Ora è gelosamente custodito da Dio inpersona, né i profeti e neppure gli angeli possono saperne qualcosa (cfr.per esempio Q. [=Corano] 67, al-Mulk, 25-26); possono solo congettu-rarne. In secondo luogo, e più importante, se Dio ha deciso che l’Orascocchi e che appaia l’Anticristo, nessuna forza umana o purchessiapuò impedirlo o ritardarlo: nell’ottica islamica ne andrebbe compro-messa la assoluta omnipotentia Dei. Un versetto coranico affermaesplicitamente: «Vi è stato fissato un incontro in un giorno che nonpotrete né ritardare né anticipare di un’ora» (Q. 34, Sabā ’, 30).

Se non un Katéchon, l’Islam riconosce però un «ingannatore», unasorta di Anticristo (anche se ovviamente questo nome è impropriocome si vedrà subito sotto), che comparirà nell’imminenza dell’Ora. Sitratta del Dajjāl, che – fatto interessante – non è personaggio citato dalCorano1. Ovviamente, anche se non parla del Dajjāl, il Corano contie-

1 Per una descrizione complessiva cfr. l’articolo di B. Stowasser The End is Near: Minor and

Il Dajjā l. Escatologia e politica nell’Islam 81

05 Campanini 20-11-2009 15:59 Pagina 81

ne numeroso materiale escatologico, visto che la fine del mondo e ilgiudizio divino costituivano una delle tematiche fondamentali dellaprima predicazione di Muhammad, soprattutto a Mecca. La sū ra 81 (al-Takwīr) recita (traduzione mia):

Nel nome di Dio, Misericordioso ClementeQuando il Sole si ravvolgerà,e il firmamento s’oscureràe la montagna si sposteràe la cammella pregna si sgraveràe la totalità delle belve s’aduneràe il mare ribolliràe ogni anima s’accoppierà;e quando alla sepolta viva si chiederàper qual peccato la si uccise;e quando il Libro santo si apriràe il Cielo precipiteràe il fuoco ardente avvamperàe il Paradiso si approssimerà,ciò ch’ogni anima può presentare lo saprà2.

La sū ra 101 (al-Qā ri‘a) recita (trad. Bausani):

Nel nome di Dio, clemente misericordioso.La Percotente!Che cos’è mai la Percotente?Come potrai sapere cos’è la Percotente?Il giorno in cui gli uomini saranno come farfalle disperseE saranno i monti come lana variopinta cardata,allora quei che avrà pesanti le bilanceavrà dolce vita.Allora chi avrà leggere le bilance,avrà per madre l’Abisso.E come potrai sapere cos’è l’Abisso?Fuoco vampante!

82 Massimo Campanini

Major Signor of the Hour in Islamic Texts and Contexts, in www.research.yale.edu/ycias/databa-se/files/MESV6-3.pdf; e cfr. anche Z. Saritoprak, The Legend of al-Dajjal (Antichrist): The Per-sonification of Evil in the Islamic Tradition, in «The Muslim World» XCIII, 2(2003), pp. 291-307.

2 Trad. mia in Il Corano e la sua interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2004.

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E gli esempi potrebbero essere moltiplicati. Il Corano fa inoltrecenno a una «bestia» dell’apocalisse (Q. 27, al-Naml, 82) ed anche aselvagge popolazioni, Gog e Magog, che invaderanno la Terra allorchél’Ora sarà incombente. Quest’ultima storia è narrata nella sū ra 18, al-Kahf, vv. 92-98. In soccorso dell’umanità accorre un misterioso perso-naggio, Dhū’l-Qarnayn (letteralmente «Quello dalle due corna», il Bi-corne), che gli esegeti frequentemente identificarono con AlessandroMagno, il cui romanzo ha avuto una larghissima fortuna nella culturapopolare del Medio Oriente. Dhū’l-Qarnayn erigerà una muraglia diferro che Gog e Magog non riusciranno a valicare. In certo senso, dun-que, e sia pure per un fatto limitato e circoscritto e non in particolareper l’«Anticristo», Dhū’l-Qarnayn svolge la funzione di katechon,ritardando l’avvento dell’Ora. Paolo Dall’Oglio, dal canto suo, lo acco-sta piuttosto al Mahdī, il «messia ben guidato» della fine dei tempi3. Maun collegamento esplicito tra Gog e Magog e il Dajjāl si trova nel com-mentario di al-Tabarī al passo coranico in esame, dove sembra compa-rire un’idea molto affine a quella del Katéchon:

«Quando il Bicorne vide che Gog e Magog non avrebbero potuto superare lamuraglia da lui costruita, disse: “Ciò che ho costruito e fatto, come uno sbar-ramento tra questa nazione [cioè Gog e Magog] e chi si trova al di qua dellamuraglia [l’umanità], è un atto di misericordia del mio Signore, il quale haavuto pietà della gente che si trova al di qua della muraglia, e m’ha sostenutocon la sua misericordia per loro finché l’ho costruita e finita e affinché permezzo di essa, per loro, fosse trattenuta la catastrofe provocata da questanazione”. [E quando si realizzerà la promessa del mio Signore, allora Eglifrantumerà la muraglia], cioè “E quando si realizzerà la promessa del mioSignore, che ha fissato il momento dell’apparire di questa nazione e del suouscire da dietro di questa muraglia, Egli la raderà al suolo e la spianerà aterra”... E si è detto che ciò avverrà dopo che Gesù, il figlio di Maria (la pacesia su di lui!), avrà ucciso il Dajjāl»4.

È comprensibile perciò che il capitolo al-Kahf abbia una funzioneapotropaica contro il Dajjāl.

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3 P. Dall’Oglio, Speranza nell’Islam. Interpretazione della prospettiva escatologica di Co-rano XVIII, Marietti, Genova 1991.

4 Cit. ivi, p. 301 (con qualche modificazione).

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Non essendo trattata nel Corano, la figura del Dajjāl trova ampiospazio negli hadīth, cioè nei racconti dei detti e dei fatti di Muhammad,per cui, se è vero come molti hanno sostenuto, che la gran parte deglihadīth è stata costruita a posteriori, può essere stata concepita anchemolto tempo dopo la vita del Profeta. Si sono ipotizzate origini cristia-ne al Dajjāl, ma, a parte il fatto che vi è qualche volta un eccesso diriduzionismo relativamente all’Islam5, le possibili origini del concettonon interessano qui.

I racconti di come e chi sia il Dajjāl, di come apparirà e di cosa faràpossono essere ridotti a uno schema unitario, anche se molto varie sonole sfumature. Un carattere costante del momento apocalittico è piutto-sto il collegamento tra il Mahdī, il «messia» musulmano, e Gesù, figu-ra tradizionalmente escatologica nell’Islam. Anche il Mahdī, curiosa-mente, non è personaggio del Corano, il che sembra suggerire che apo-calittica e messianismo non fossero al centro della prima rivelazioneaccanto all’escatologia: il messaggio escatologico, cioè, non si sostan-ziava di specifici elementi apocalittici e, soprattutto, messianici. Non viè insomma, almeno nel Corano, l’idea di una palingenesi dell’umanitàprima del Giudizio Ultimo, anche se terribili fatti naturali annunceran-no l’avvento dell’Ora.

D’altro canto, Gesù svolge un ruolo importantissimo. Da una parteperché, come noto, il Corano afferma che egli non fu crocifisso e nonmorì, ma venne assunto in cielo: «[gli ebrei hanno detto]: Abbiamoucciso il Messia, ‘Isà Ibnu Maryam, l’inviato di Dio. Ma in verità nonlo uccisero e non lo crocifissero, ché anzi [qualcuno] fu fatto assomi-gliare [a lui] ai loro occhi. [...] E Iddio lo elevò a sé e Iddio è potentesaggio» (Q. 4, al-Nisā ’, 157-158, trad. mia). Dall’altra parte, perchéalmeno un versetto, il 59-61 della sū ra al-Zukhruf, la quarantatreesima,gli riconosce una funzione escatologica: «Invero [Gesù] non è altro cheun [nostro, di Dio] servo cui abbiamo concesso la nostra benedizione.Di lui abbiamo fatto un esempio per i figli di Israele [...] ed egli è unsegno dell’Ora, per cui non dubitate di essa, ma seguite questa viaretta» (trad. mia).

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5 Alludo a quella tendenza storiografica, tipica della scuola di J. Wansbrough, di minimizza-re l’originalità storica e dottrinale dell’Islam, che viene, in qualche modo, ridotto a una sorta di«eresia» giudaico-cristiana.

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Sembra largamente accettata una successione degli eventi del tiposeguente:

1) comparsa del Mahdī che instaura un regno di giustizia sullaTerra;

2) comparsa del Dajjāl che descriveremo subito sotto;3) comparsa di Gesù sul minareto omonimo della grande moschea

di Damasco. Gesù ucciderà il Dajjāl (per i sunniti) o aiuterà ilMahdī a farlo (per gli sciiti);

4) Gesù guiderà la preghiera insieme al Mahdī e spezzerà i croci-fissi (cioè denuncerà la miscredenza dei suoi presunti seguaci,i cristiani, che ne hanno tradito il messaggio trasformandolo, inmodo blasfemo, in un “figlio carnale” di Dio) in attesa chefinalmente si compia la fine del mondo.

Una narrazione abbastanza standard è la seguente:

«[Il Dajjāl] emergerà tra la Siria e l’Iraq, e la sua comparsa sarà nota quandosi troverà ad Isfahan in un luogo chiamato Yahudea. Gli ebrei di Isfahan saran-no i suoi principali seguaci. Egli porterà con sé fuoco e acqua, ma in realtà ilfuoco sarà acqua gelida, mentre ciò che appare essere acqua gelida in realtàsarà fuoco fiammante. Coloro che gli obbediranno entreranno nel suo Pa-radiso, mentre coloro che gli disobbediranno entreranno nel suo Inferno. Avràun oggetto sottile simile a un’unghia conficcato nel suo occhio sinistro [tuttele tradizioni affermano che sarà guercio]. Le lettere Ka – Fa – Ra [kufr ovve-ro kā fir cioè miscredenza e miscredente] saranno scritte sulla sua fronte e sa-ranno comprese da tutti i credenti a prescindere se siano analfabeti o letterati.Avrà una complessione fisica snella. Viaggerà a grandi velocità e il suo mezzodi trasporto sarà un mulo gigantesco. Si dice che suonerà della bella musica eche attrarrà gli amanti della musica. Il Dajjāl pretenderà di essere profeta e quindi di essere Dio. Compirà azionistraordinarie. Viaggerà per la terra intera e farà scendere pioggia su coloroche credono in lui, cosicché essi avranno ricchi raccolti, i loro alberi sarannocarichi di frutti e il loro bestiame ingrasserà; al contrario, provocherà siccitàper coloro che non credono in lui, da cui deriveranno carestia e tempi didurezza per loro. Durante queste epoche di tribolazioni i credenti sazierannola loro fame recitando “Sia lode a Dio” (subhā nahu’llā h) e “Non c’è altro Dioche Iddio” (lā ilā h illā Allā h). Tesori nascosti salteranno fuori al suo coman-do. Rimarrà sulla terra per un periodo di quaranta giorni. La lunghezza delprimo giorno sarà pari a quella di un anno; il secondo giorno sarà pari a unmese; il terzo giorno a una settimana mentre gli altri giorni saranno di lun-ghezza normale.

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Non riuscirà a entrare alla Mecca perché gli Angeli staranno di guardia allacittà santa, né sarà in grado di entrare a Medina perché ci saranno Angeli checustodiranno ciascuna delle sette porte di Medina. Da Medina procederà versola Siria dove si troverà l’imam Mahdī. Finalmente Gesù (su di lui la pace)discenderà dal cielo, lo inseguirà e lo ucciderà nella attuale città di Lydda»6.

Il tema apocalittico è dunque ben radicato nella tradizione profeticadove però, come le citazioni che abbiamo fatto sembrano dimostrare,non ha connotati politici. Tuttavia, sebbene la letteratura islamicamedievale classica abbia trattato ampiamente di temi escatologici, e seb-bene l’apparizione del Dajjāl sia parte del credo, essa non si è profon-damente radicata nell’immaginario del credente musulmano, almeno inepoca classica, forse perché, come suggerisce Saritoprak, le tradizioni alproposito sono talmente opache da non riuscire a costituire un articolodi fede convincente7. Un’altra spiegazione potrebbe essere che di normaapocalittica e millenarismo sono tipici di un’epoca di crisi, e che l’Islamclassico (dal VII fino almeno al XII secolo) si trovava all’acme del suosplendore. Si potrebbe addirittura ipotizzare che il Katéchon è figuraimpensabile nell’Islam per quanto, mentre il Cristianesimo ha trionfatodopo quattro secoli di dure persecuzioni, l’Islam, sia pure perseguitato aMecca nei primissimi anni della rivelazione, abbia conseguito un trion-fo rapido e folgorante che lo ha portato, in appena settant’anni, a sotto-mettere al suo dominio tutte le terre da Gibilterra all’India.

Il grande pensatore maghrebino Ibn Khaldūn (1332-1406), ancora inpieno XIV secolo quando certo l’Islam aveva già attinto e superato l’api-ce della sua gloria, criticava le tradizioni profetiche sul Dajjāl in termi-ni razionalistici, avanzando il dubbio che igl hadīth che ne parlano po-tessero non essere autentici. A parte il fatto di ritenere il termine Dajjālparola dal significato oscuro, Ibn Khaldūn fa esplicito riferimento al-l’«Anticristo» in almeno due luoghi. Il primo è il seguente (e vi si facenno nella discussione sulle diverse tradizioni riguardanti il Mahdī):

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6 Da The Signs of the Qiyamah di Mohammed ‘Alī Ibn Zubayr ‘Alī, in www.islam.tc/pro-phecies/masdaj.html scaricato il 7 aprile 2005. Questo racconto in certo senso sintetizza diversetradizioni. Una delle più interessanti è quella tramandata dal Sahīh [«Sano», «Autentico»] diMuslim come raccolto nel Riyā da al-Sā lihīn del celebre al-Nāwawī (Il giardino dei devoti, a curadi A. Scarabel, Trieste 1990, pp. 496-497).

7 Z. Saritoprak, The Legend of al-Dajjal (Antichrist): The Personification of Evil in theIslamic Tradition, p. 306.

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«È tradizione generale presso i musulmani di tutti i tempi che alla fine delmondo dovrà necessariamente comparire un uomo della famiglia [del Profeta]per rafforzare la religione e far trionfare la giustizia. I musulmani lo seguiran-no ed egli otterrà il dominio sul regno dell’Islam. Si chiamerà il Mahdī. Dopodi lui verrà il Dajjāl, contemporaneamente ai segni dell’Ora come specificatinei hadīth del Sahīh [di Bukhārī e Muslim]. In seguito Gesù scenderà sullaTerra e ucciderà il Dajjāl, oppure Gesù discenderà con il Mahdī per aiutarlo auccidere il Dajjāl.Simili affermazioni sono state reperite nelle tradizioni trasmesse dalle autori-tà religiose. Esse sono state discusse da coloro che le disapprovano e spessosono state confutate per mezzo di certe [altre] tradizioni»8.

Come si vede l’autore sembra non prestare troppa fede a questotipo di narrazioni. Il secondo passo da citare è il seguente (Ibn Khaldūnvi espone le credenze di alcuni mistici sufi sul Mahdī fatimide):

«Ecco alcune credenze su questo punto: L’epoca anteriore all’Islam non è cheerrore e cecità. Poi, grazie alla profezia, sarà la volta della verità e del rettocammino. La profezia è seguita dal califfato e il califfato dalla monarchia.Questa si volge alla tirannia, all’orgoglio e alla vanità. Ora, poiché si constatache Dio tende a far ritornare le cose al loro punto di partenza, ne segue che laverità e la profezia saranno necessariamente rivivificate dalla santità. Questasarà naturalmente seguita dal califfato, dopo di che sarà la volta del Dajjāl cheprenderà il potere e gestirà l’autorità regale. Infine ritornerà l’empietà che èstata ai tempi antecedenti il Profeta»9.

Ibn Khaldūn in realtà deride come sempliciotti o addirittura «debo-li di mente» quelli che credono ciecamente a queste fole escatologiche,in specie se collegate al millenarismo ismā‘īlita. Nulla può accadere nelcampo politico senza lo spirito di corpo: l’atteggiamento di Ibn Khal-dūn è assolutamente realistico; non vi è spazio per cause sovrannatura-li, l’eventuale comparsa del Dajjāl sarà comunque legata all’accaderemeccanico del divenire storico.

Se la figura del Dajjāl solleva qualche legittima perplessità, ilMahdī è invece un carattere riconosciuto della teologia islamica, ed ètradizionalmente connesso a trasformazioni politiche: «il Mahdī, in

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8 Muqaddima, Capitolo terzo sulle dinastie, l’autorità regale e il califfato, paragrafo 50, trad.Monteil, Beirut 1967, p. 632.

9 Ivi, p. 664.

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quanto capo predestinato, si leverà per lanciare una grande trasforma-zione sociale in vista della restaurazione della purezza dei primi tempi,ponendo tutte le cose sotto la direzione divina. Il messia islamico incar-na le aspirazioni degli adepti verso la restaurazione della purezza dellafede, che comporterà una direzione retta e non corrotta dell’umanità,creando un ordine sociale giusto e un mondo libero dall’oppressione, incui la Legge islamica rinnovata sarà universalmente accettata»10. Unaspetto significativo è che il Mahdī è incaricato di realizzare la giusti-zia qui e adesso, garantendo alla comunità musulmana la salvezza giàprima della fine dei tempi11.

Nel sunnismo moltissime sono state le figure di presunti Mahdī chehanno tentato di realizzare stati messianici, qualche volta anche attra-verso una riforma della sharī‘a, da Ibn Tūmart, il fondatore del movi-mento almohade nel XII secolo, al sudanese Muhammad Ahmad (m.1885) che era convinto di rivivere l’epopea del Profeta, con tutto quan-to di simbolico e anche di reale ciò portava con sé, a Sayyid AhmadBarelwē in India (m. 1835). Secondo una interessante interpretazionedi Maribel Fierro, la concezione musulmana della storia come allonta-namento progressivo dalla comunità perfetta dell’epoca di Muham-mad12, stabilisce un ciclo di decadenza nella successione “profeta-calif-fo-re” (è quanto in sostanza sostiene Ibn Khaldūn13). Ora, la figura delMahdī offre la possibilità di riaprire il ciclo: «profeta-califfo-re-mahdī», e quindi di collocare il messianismo in un processo di conti-nuità della profezia14.

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10 Mercedes Garcia-Arenal, Introduction al fascicolo monografico Mahdisme et Mille-narisme en Islam, della «Revue des Mondes Musulmans et de la Mediterranée», nn. 91-94, Edi-sud, Paris 2000, p. 7. Il fascicolo contiene studi e approfondimenti su diverse fenomenologie efigure messianiche dell’Islam in tutto il lasso di tempo che va dal Profeta all’età contemporanea.

11 Cfr. la voce Mahdī di W. Madelung nella Encyclopédie de l’Islam, 2° edizione, Brill,Leiden 1960, IV, pp. 1224 ss.

12 Si tratta di quella visione di utopia retrospettiva che è fondamentale nella concezione deimusulmani radicali o fondamentalisti contemporanei che mirano a riprodurre intatte le condizio-ni della Medina del Profeta. Cfr. M. Campanini, Islam e politica: il problema dello stato islami-co, in «Il Pensiero Politico» XXXVII (2005), pp. 456-466.

13 Cfr. M. Campanini, Il buon governo nel pensiero islamico della decadenza, in A. Pandolfi(ed.), Nel pensiero politico moderno, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 119-151; su Ibn Khaldūn inparticolare le pp. 134-143.

14 M. Fierro, The qādī as ruler, in Saber Religioso y Poder Político. Actas del SimposioInternacional, CSIC, Madrid 1994, pp. 71-116.

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Nello sciismo il Mahdī sarà il costruttore di un temporaneo regnodi giustizia:

«L’esercito del Mahdī, sempre più numeroso per l’accorrere di masse dioppressi e di volontari conquistati alla Causa, non può che essere vittorioso. IlHijaz, l’Iraq, il Mashreq, l’Egitto, la Siria e poi Costantinopoli saranno con-quistati prima che il mondo intero si sottometta al Salvatore. Il “Nemico” e lesue forze saranno sterminati una volta per tutte, la Terra sarà abbellita dallagiustizia, l’umanità resuscitata dalla luce della conoscenza. Che cosa succede-rà dopo? Il Mahdī preparerà il mondo per la resurrezione finale. Secondo certetradizioni, regnerà sul mondo per alcuni anni (sette, nove, diciannove, eccete-ra), dopo di ché sopravverrà la morte di tutta l’umanità davanti al TribunaleUltimo. Altre tradizioni riferiscono che dopo la morte del qā ’im, il governo delmondo resterà, per un tempo più o meno lungo, fino al giorno della resurre-zione, tra le mani degli iniziati».

Tuttavia,

«Si è detto sovente che l’escatologia imamita è il riflesso delle speranze delu-se di una minoranza sovente oppressa durante le vicissitudini della storia. Èvero che l’attitudine rivendicativa dell’imamismo si è cristallizzata attorno allafigura dell’imam atteso e della sua manifestazione ultima. Il termine stesso diqā im (colui che inizia) si oppone a quello di qā id (colui che è seduto), cioèappunto l’imam seduto, che caratterizza gli imam i quali, soprattutto dopo ilmassacro di Kerbela’, rifiutarono di lasciarsi coinvolgere nelle vicende aleato-rie di una ribellione armata e giustificavano il loro quietismo col fatto che lasollevazione armata contro l’oppressione avrà luogo solo all’avvento finale delMahdī [è il tipico quietismo politico sciita prefigurato dalla dottrina dellataqiyya]. Tuttavia l’escatologia duodecimana sembra nello stesso tempo diffi-cilmente riducibile a questa sola dimensione “politica”. [...] L’imamismo sipresenta infatti come una costruzione fondamentalmente mitica a caratteri ini-ziatici. [...] La dimensione collettiva dell’escatologia imamita, così fortemen-te contrassegnata dal combattimento contro il Male, riproduce il combatti-mento cosmico tra gli eserciti della Intelligenza e quelli della Ignoranza.Iniziata fin dalle origini della creazione, questa lotta caratterizza la storia del-l’umanità poiché si ripercuote di epoca in epoca nel conflitto che oppone gliimam e i loro iniziati alle potenze tenebrose della contro-iniziazione»15.

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15 A. Amir Moezzi, Notes sur l’Eschatologie et le Messianisme Shi’ite Duodecimain, pp. 63-76; e cfr. la bibliografia in Mahdisme et Millenarisme en Islam, cit., pp. 70 ss.

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Nell’Ismā‘īlismo la grande resurrezione (qiyā ma) che anticipa lafine dei tempi prevede il rovesciamento della Legge muhammadica.Nel XII secolo, nello stato dei cosiddetti «Assassini» di Alamut (gliismā‘īliti nizārī), l’allora imā m Hasan ‘alà Dhikrihi’l-Salām (1162-1166) proclamò giunta la fine dei tempi e ordinò l’abolizione dellasharī‘a. In seguito, però, visto che nulla accadeva, gli ismā‘īliti nizārītornarono alla taqiyya, all’«occultamento» e quindi al rispetto formaledella sharī‘a. Oggidì, il loro imā m, l’Agha Khan Karīm, si trova ap-punto in stato di taqiyya, in attesa degli ordini divini (che naturalmen-te non si sa quando arriveranno e in quale più o meno remoto futuro).

La tematica escatologica si è naturalmente ravvivata in età contem-poranea quando, soprattutto in rapporto allo scontro con l’Occidente,l’Islam ha vissuto e vive un periodo di crisi, di trasformazione e dilotta16. Del resto, l’idea del mujaddid cioè di un rinnovatore dell’Islamche appare ad ogni inizio di secolo, è parallela anche se non coincidentecon la concezione apocalittica. Un mujaddid è ovviamente atteso anchenel momento in cui l’Ora sarà incombente (e al momento opportunopotrebbe rivelarsi essere lo stesso Mahdī).

Il rinnovamento secolare, in età contemporanea, spesso legittimaconcezioni apocalittiche. Così il già citato Muhammad Ahmad il Mahdīdel Sudan. Ma per venire ad epoche più vicine, è importante ricordareche il 1979-1980, gli anni della rivoluzione di Khomeini in Iran, corri-spondono all’anno 1400 dell’Egira, cioè all’incipit del XV secolo del-l’Islam. Khomeini appare dunque come il mujaddid del quindicesimosecolo dell’era musulmana. Ora, a parte il fatto che Khomeini non insi-stette particolarmente sull’imminenza della fine del mondo, la rivolu-zione islamica fu la causa indiretta dell’assalto e dell’occupazione dellasacra moschea di Mecca nel novembre-dicembre 1979 da parte di ungruppo armato. L’ideologia del gruppo era imbevuta di prospettive mil-lenaristiche, appaiate alla contestazione in un’ottica ultra-islamica dellapur conservatrice monarchia saudita. Il leader si chiamava Muhammad

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16 Il maggior studioso di millenarismo apocalittico islamico è probabilmente David Cook.Una breve sintesi delle sue ricerche all’indirizzo www.mille.org/scholarship/papers/cookabs.htmlscaricato il 25 ottobre 2005. I suoi libri sono Studies in Muslim Apocalyptic, Darwin Press,Princeton 2002, e Contemporary Muslim Apocalyptic Literature, Syracuse University Press, NewYork 2005. Non ho potuto tener conto del recente J.P. Filiu, L’apocalypse dans l’islam, Fayard,Paris 2008.

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Ibn ‘Abdallāh al-Qahtānī, cioè il suo nome ottemperava alla più comu-ne tradizione secondo cui il Mahdī atteso avrebbe avuto lo stesso nome(Muhammad) e lo stesso patronimico (Ibn ‘Abdallāh) del Profeta. Allafine le forze di scurezza saudite sterminarono il commando dopo unasanguinosa battaglia che insozzò di sangue il sacro suolo del Masjid al-Harā m. È comprensibile come l’assalto alla moschea sembri esserestato di grande significato per la formazione jihadista di Bin Laden17.

È ovvio che, in età contemporanea, le varie forme che assume ilDajjāl corrispondano a tutto ciò che all’Islam tradizionalista apparecontrario alla religione:– Il laicismo di Ataturk, ad esempio, il modernista turco che abolì il

califfato.– Il bolscevismo in quanto propagandatore di un messaggio ateo.– La civiltà contemporanea tutta, materialista e mercificata, in cui

dominano l’idea della morte di Dio e il lassismo morale e sessuale,sarebbe un segno palese dell’imminente venuta del Dajjāl.Ma naturalmente, sono gli Stati Uniti d’America e Israele a costi-

tuire in modo privilegiato gli araldi dell’apocalisse. Per quanto riguar-da gli Stati Uniti, essi sono visti come neo-crociati che tentano di soffo-care l’Islam, per cui sono ritenuti impersonare molto bene la «bestia»della fine dei tempi, con le distruzioni e i danni che apportano alle terremusulmane. Nonostante alcuni aspetti folkloristici che si trovano negliautori apocalittici (la convinzione, ad esempio, che il presidente ameri-cano presti giuramento di fedeltà a Israele), alcuni elementi si ripetonocostantemente: gli Stati Uniti sono un paese corrotto e immorale, chepersegue una politica di neocolonialismo e di sfruttamento nei confron-ti dei musulmani. Un autore apocalittico, Bashīr Muhammad ‘Abdal-lāh, identifica gli Stati Uniti con la misteriosa popolazione degli ‘Ād,più volte citata dal Corano, che, nonostante la sua ricchezza e la suapotenza militare, sarà sterminata e distrutta da Dio per la sua empietà18.

Per quanto riguarda Israele, nella letteratura apocalittica si tieneancora in gran conto il falso I protocolli dei savi di Sion ed è dunque

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17 Cfr. l’articolo di T. Furnish, Bin Ladin: the Man who would be Mahdi, in «Middle EastQuarterly», spring 2002, reperibile in rete all’indirizzo www.afgha.com/article.php?sid=13220.

18 Cfr. D. Cook, Millenarismo islamico e Occidente: l’America secondo ‘Ād, in S. Salzani(ed.), Teologie politiche islamiche, Marietti 1820, Genova 2006, pp. 149-186.

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viva l’idea di un complotto ebraico teso a danneggiare o addirittura adistruggere l’Islam. Il fatto è che il vulnus palestinese continua ad esse-re aperto e a sanguinare. L’antisionismo degli apocalittici è strettamen-te legato a questa irrisolta situazione: lo spossessamento della sacraterra di Palestina da parte degli ebrei intrusi. La relazione del professorDethloff in questo stesso convegno spinge, anzi, a chiedersi, se ben hointeso la sua argomentazione, quanto il millenarismo connesso al di-sastro della Shoah e quanto l’idea di Rosenzweig di un «ebraismo»come testimonianza metastorica abbiano a che vedere con l’atteggia-mento dello Stato di Israele verso la questione palestinese. Alla lucedella Shoah e della metastoricità dell’ebraismo può infatti giustificarsiil mito della ricostituzione della Grande Israele e la correlativa occupa-zione della terra di Palestina con l’espulsione degli arabi (musulmani).

In ogni caso, Israele in quanto nemico assoluto è esplicitamenteconnesso al Dajjāl nella propaganda del gruppo islamista palestinese diHamas. Uno shaykh dell’organizzazione, sostenendo che il crollo e ladistruzione di Israele sono chiaramente annunciati dallo stesso Corano,così riferisce di un versetto:

«“E [ricorda] di quando il tuo Signore proclamò che avrebbe mandato controdi loro [gli ebrei], fino al dì della resurrezione, chi li avrebbe afflitti di grandetormento, ché il tuo Signore è rapido a punire” (Q. 7, al-A‘rā f, 167). Com-mentando questo verso, Ibn Kathīr riferisce che Mosè (su di lui la pace) obbli-gò gli ebrei a pagare l’imposta fondiaria [che pagano i non musulmani]; quin-di essi furono conquistati dai greci, dai Kashdanidi e da altri; quindi furonosopraffatti e perseguitati dai cristiani; poi, quando Muhammad (che Dio lobenedica e lo salvi) li condusse sotto il dominio e la custodia dell’Islam, li co-strinse ancora a pagare l’imposta fondiaria e il testatico. Finalmente, la lorofine verrà quando si schiereranno a sostegno del Dajjāl, che sarà ucciso da ‘IsàIbnu Maryam [Gesù] (su di lui la pace) e dai musulmani. Questa battaglia avràluogo alla fine dei tempi»19.

È chiaro che in questo contesto il Dajjāl potrebbe essere benissimogli Stati Uniti d’America, stretti alleati di Israele; ed è chiaro che Hamaspossa guardare alla lotta contro Israele come a una lotta apocalittica.

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19 The Termination of the Zionist Entity; a Qur’anic Fact, dello shaykh Abū al-Walād al-Ansārī, in www.hamasonline.org/indexx.php?page=Qassam/termination_zonist_entity scaricato il20 febbraio 2006.

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Il millenarismo apocalittico è stato dunque in età contemporanea unfattore di attivismo politico. Già nei testi classici, il valore politico del-l’apocalittica è sottolineato da David Cook soprattutto relativamente atre aspetti20:

a) l’identificazione e la condanna delle cattive qualità di un gover-nante;

b) la rivolta (armata) che però, contrariamente a quanto ci si po-trebbe aspettare, appare come una soluzione assai rara;

c) il ritiro dal mondo e dalla società attraverso la taqiyya [la dissi-mulazione del proprio comportamento che abbiamo già incon-trato] e soprattutto la hijra, cioè l’«emigrazione» simile a quel-la del Profeta Muhammad. La hijra è una caratteristica comunedei gruppi radicali o fondamentalisti degli anni Settanta, comequello di Shukrī Mustafà in Egitto21.

Tuttavia, il radicalismo jihadista moderno va ben oltre il valore me-ramente simbolico della taqiyya e della hijra e quindi si distacca dall’at-teggiamento comune all’apocalissi islamica. Né i Ma‘ā lim fī’l-tarīq, ilbreviario rivoluzionario di Sayyid Qutb22, né i testi più significativi di‘Abdallāh ‘Azzām o di Zawāhirī, i teorici più aggressivi del jihadismomilitante contemporaneo, testimoniano atteggiamenti apocalittici23. Iljihā d è condotto il primo luogo su questa terra e per questa terra, cioèper la contingente liberazione degli oppressi, anche se alcuni jihadisti siaspettano comunque un premio ultraterreno. Abbiamo visto come que-sta attitudine sia caratteristica del Mahdismo islamico. Penso che siacomplessivamente significativo questo passo di Sayyid Qutb:

«Lo scopo palese dell’adempimento della Legge di Dio sulla Terra non è sem-plicemente l’agire in vista del premio ultraterreno. Il mondo di quaggiù e l’al-dilà sono due stadi che si perfezionano reciprocamente. La legge di Dio è quel-la che armonizza i due stadi durante la vita umana, e inoltre armonizza que-st’ultima con la legge cosmica. Questa armonizzazione tra [la vita umana] e lalegge cosmica non pospone l’acquisizione della felicità all’altro mondo, ma fa

Il Dajjā l. Escatologia e politica nell’Islam 93

20 D. Cook, Moral Apocalyptic in Islam, «Studia Islamica» 2(1997), pp. 37-69.21 Cfr. G. Kepel, Il profeta e il faraone, Laterza, Roma-Bari 2006.22 Reperibile in rete all’indirizzo www.youngmuslims.ca/online_library/books/milestones23 Cfr. i testi in G. Kepel (ed.), Al-Qaida dans le Texte, PUF, Paris 2005 (tr. it. Laterza, Roma-

Bari 2006).

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in modo che essa possa attualizzarsi e realizzarsi nel primo stadio [cioè quel-lo della vita mondana]. Solo in seguito la suprema perfezione verrà consegui-ta nell’aldilà»24.

Non ci si stupirà poi che il millenarismo apocalittico sia visto nega-tivamente dall’establishment religioso sunnita, analogamente a come leChiese istituzionali considerano negativamente l’apocalittica cristiana.La carica potenzialmente eversiva del millenarismo, infatti, potrebbecondurre a un rovesciamento dei rapporti di forza all’interno delle so-cietà islamiche esautorando le autorità religiose tradizionali. Già il ce-lebre salafita Rashīd Ridà (1865-1935), nel suo commentario coranicodella rivista «Al-Manār», evidenziava, come prima di lui Ibn Khaldūn,che gli hadīth apocalittici sono probabilmente una forgery successiva,e quindi svuotavano di significato le aspettative millenaristiche.

Il discorso sin qui svolto evidenzia, mi pare, il carattere altamentecomplesso e problematico dell’apocalittica e del millenarismo islami-co. In sintesi parrebbe potersi dedurre che:– nell’Islam l’apocalittica è strettamente legata al messianismo, ed

anzi il messianismo finisce per imporsi sull’apocalittica;– il passaggio dal Dajjāl al Mahdī significa il passaggio da un’esca-

tologia negativa a una escatologia positiva, dalla distruzione delmondo e della società alla ricostruzione di un mondo e di una socie-tà più giusti;

– il millenarismo apocalittico non ha prevalente ed eminente valorepolitico, sebbene gli aspetti di teologia politica non siano assenti.Questo valore politico sembra soprattutto riservato al Mahdismo,cioè al messianismo;

– sono le tendenze più radicali ad attizzare il fuoco dell’apocalitticain cui viene in qualche modo assorbito e sublimato il loro messag-gio sovversivo.

94 Massimo Campanini

24 S. Qutb, Ma‘ā lim fīl-tarīq, Dār al-Shurūq, Cairo 1983, p. 115 (cap. sesto).

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ROBERTO LAMBERTINI

UN’ESEGESI «MILITANTE» DI 2TS 2 ALL’UNIVERSITÀDI PARIGI NEL XIII SECOLOIl Tractatus de Antichristo et eius ministris*

Introduzione

Che il periodo medioevale sia stato particolarmente interessato, pernon dire affascinato, dalle riflessioni escatologiche è circostanza a talpunto universalmente nota che l’attesa dell’Anno Mille, le speculazio-ni sull’avvento dell’Anticristo, la denuncia dell’imminenza della Finedei Tempi fanno parte integrante dell’immagine culturalmente condivi-sa e diffusa, anche se spesso confusa, che la nostra epoca ha del Me-dioevo. Lasciando da parte le distorsioni, in particolare la tendenza atrattare come un tutt’uno un periodo storico millenario in verità moltodifferenziato al suo interno, uno sguardo alla produzione storiograficaconferma la rilevanza culturale della riflessione escatologica permomenti ed aspetti della cultura sia altomedievale, sia bassomedievale.Non essendo qui la sede per abbozzare rassegne e bilanci, che a con-ferma di quanto si diceva si dilaterebbero all’inverosimile, basterà ri-cordare un’opera come quella di Hans-Dieter Rauh1, che ricostruiscecontinuità e mutamenti dell’immagine dell’Anticristo da Ticonio aquello che chiama il «simbolismo tedesco», fermandosi quindi al XIIsecolo ed ad autori come Ildegarda di Bingen e Ruperto di Deutz. D’al-tra parte, il consumarsi del XII secolo vede il formarsi dell’opera in-fluentissima di Gioacchino da Fiore2, la cui forza innovativa e dirom-

∗ Questa versione scritta della relazione presentata in occasione del Seminario ha tratto note-vole vantaggio dai suggerimenti e dalle suggestioni derivanti dall’incontro di studio, ma devemolto alla competente cortesia di Letizia Pellegrini, senza nulla togliere al fatto che gli erroririmasti sono esclusivamente miei. A lei dedico volentieri questa piccola fatica.

1 H.D. Rauh, Das Bild des Antichrist: von Tyconius zum Deutschen Symbolismus, Aschen-dorff, Münster 1973.

2 Per una recente, incisiva ed informata sintesi: G.L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vitadi Gioacchino da Fiore, Laterza, Roma Bari 2004.

Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Parigi nel XIII secolo 95

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pente certo non si limita alla reintepretazione del ruolo dell’Anticristonella storia della salvezza, ma che ha comunque esercitato una perdu-rante influenza nei secoli successivi sulla concezione degli UltimiTempi3, in particolare, ma non solo, in autori appartenenti all’Ordinedei Frati Minori4.

Si tratta di una materia immensa, con la quale si sono misurategenerazioni di studiosi di grande vaglia. Risulta quindi quanto maiopportuno che l’incontro di studio per il quale è stata preparata questarelazione restringesse l’ambito dell’indagine al rapporto tra Anticristoe Katéchon, con una conseguente focalizzazione sui versetti della Se-conda Lettera ai Tessalonicesi in cui, nella versione originale, compa-re questa espressione. Infatti, se come ha fatto notare Rauh, questa let-tera, pur non contenendo il termine «Anticristo», ha costituito una dellefonti principali delle opere che si sono dedicate nel Medioevo allacaratterizzazione ed allo smascheramento dell’Anticristo5, resta pur ve-ro che «ciò (o colui) che trattiene» è un tema cui la storiografia inte-ressata alle concezioni escatologiche medioevali, portata dalle fontistesse a inseguire altre piste, ha dedicato un’attenzione non prioritaria.

Per definire un oggetto di indagine abbastanza contenuto da poteressere affrontato per nello spazio di una breve relazione, ho comunquedovuto procedere a concentrare l’attenzione su di un’opera specifica edil suo più immediato contesto e scegliendo un ambito, quello della con-tesa tra Ordini mendicanti e clero secolare all’Università di Parigi di

96 Roberto Lambertini

3 Sono da ricordare per lo meno alcuni volumi usciti da convegni di studio e seminari, cheoffrono anche ampia informazione sulla bibliografia precedente: L’attesa della fine dei tempi nelMedioevo, a cura di O. Capitani e J. Miethke, Il Mulino, Bologna 1990; La cattura della fine.Variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, a cura di G. Ruggieri, Genova, Marietti 1992;The Apocalypse in the Middle Ages, a cura di R.K. Emmerson-B. McGinn, Cornell UniversityPress, Ithaca and London 1992.

4 Si veda per esempio la raccolta di saggi, raccolti e tradotti in italiano, di R.E. Lerner,Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Viella, Roma 1995; per l’am-bito francescano, D. Burr, Olivi’s Peaceable Kingdom. A Reading of the Apocalypse Commentary,University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1993; per una prospettiva ancora più ampia, ingrado di estendere l’analisi anche al Quattrocento ed alla prima età moderna, si vedano i lavori diRoberto Rusconi, in particolare Profezia e profeti alla fine del Medioevo, Viella, Roma 1999,all’interno del quale specificamente rilevante risulta il capitolo Anticristo ed anticristi, pp. 95-124,pubblicato originariamente come voce di The Encyclopedia of Apocalypticism, III, a cura di B.McGinn, Continuum Press, New York 1998, pp. 257-322.

5 Rauh, Das Bild, cit., in part. pp. 55-67.

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metà Duecento, che non è tra i più frequentati – e non a caso – tra glistudiosi di escatologia medievale. Il Tractatus de Antichristo et eiusministris6 è stato scelto perché dedica una parte significativa all’esege-si «militante» della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, militante nel sen-so che mira a dimostrare l’imminenza degli Ultimi Tempi identifican-do nei propri avversari i «servi dell’Anticristo». Per rendere più rico-struibile lo spessore delle strategie argomentative poste in atto dall’au-tore del Tractatus, tuttavia, si è reso necessario in primo luogo, analiz-zando la Glossa ordinaria a questa lettera paolina, tratteggiare l’oriz-zonte ermeneutico in cui poteva muoversi, nel XIII secolo, un’interpre-tazione dei brani rilevanti. In secondo luogo, si è premessa all’inter-pretazione del Tractatus un’esegesi coeva del medesimo brano, dovutaall’attività didattica di Tommaso d’Aquino, che si differenzia dalTractatus non solo perché proviene dall’ambiente religioso che il Trac-tatus attacca, ma anche perché inserita in un contesto diverso, non diesegesi «militante», ma di esegesi scolastica, nel senso che è prodottain situazione di mediazione didattica. Solo così possono emergere inmodo più chiaro le scelte interpretative ed argomentative del Tractatussulla base delle quali il «discorso escatologico» può funzionare comedispositivo di lettura del proprio tempo e come strumento di identifica-zione, nella storia, delle forze che favoriscono l’Anticristo, di quelleche lo ostacolano, di quelle che ne ritardano la venuta.

1. Il contesto

Il Tractatus de Antichristo et eius ministris si inserisce nel contestodi una controversia fortissima e rivelatrice per molti aspetti della storiadelle idee bassomedievali: lo scontro tra Ordini mendicanti e clero se-colare che ha una sua prima esplosione negli anni ’50 del XIII secolo.Questa querelle, come ebbe a chiamarla Congar in un articolo che ri-mane una pietra miliare7, interessa perché conobbe una sorta di escala-

Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Parigi nel XIII secolo 97

6 Liber de Antichristo et eius ministris, in E. Martène-U. Durand, Veterum Scriptorum et mo-numentorum... collectio, IX, Montalant, Parisiis 1724 (anast. Franklin-New York 1968), coll. 1271-1446.

7 Y.M.-J. Congar, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre Mendiants et Séculiers dansla seconde moitiè du XIIIe siècle et le début du XIVe, «Archives d’Histoire doctrinale et littéraire du

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tion che portò da una opposizione dei maestri secolari all’inserimentostabile di maestri degli Ordini mendicanti tra i detentori di cattedrenella Facoltà di Teologia ad una opposizione radicale al diritto di esi-stenza di questi medesimi Ordini all’interno della Chiesa. Questo rifiu-to radicale assunse ben presto le movenze di una polemica sugli ultimitempi. Nella sua azione Guglielmo di Sant’Amore denunciava gli erro-ri escatologici a suo parere contenuti nell’opera del francescano Ge-rardo da Borgo San Donnino ed attaccava Domenicani e Francescani,in un trattato intitolato in modo sintomatico De periculis novissimorumtemporum, come araldi dell’Anticristo8. Se da una parte, infatti, a Ge-rardo si rimproverava di aver applicato agli Ordini mendicanti una suainterpretazione dell’opera di Gioacchino da Fiore, facendone i portato-ri di quel Vangelo Eterno e di quel rinnovamento spirituale che avreb-be dato inizio al superamento dell’attuale stato della Chiesa ed allaTerza Età, dall’altra Guglielmo non solo non si rifiutava di attribuire unruolo escatologico a questi Ordini, ma ne ribaltava il segno, additando-li come i vessilliferi di uno sconvolgimento che apriva le porte al-l’Anticristo9.

L’accusa lanciata da Guglielmo si inseriva quindi in un contestofortemente polemico; non è mancato, in effetti, chi ne ha inteso svalu-tare la portata, proprio in ragione della sua valenza «strumentale». Nondi genuino «pensiero escatologico», infatti, si sarebbe trattato, ma di unpuro espediente retorico volto a conferire maggiore risonanza alla suarisentita requisitoria contro quelli che ad un tempo erano concorrentiaccademici ed avversari ecclesiologici10. C’è stato chi come Peter McKeon, che attribuisce il trattato De Antichristo allo stesso Guglielmo diSant’Amore, si è mostrato propenso a considerare questo testo un eser-cizio di ironia, nel senso che l’autore avrebbe inteso confutare le tesi

98 Roberto Lambertini

Moyen Âge» 28(1961), pp. 35-151. Tr. it. con il titolo Insegnare e predicare, pres. di R. Lam-bertini, Messaggero, Padova 2007.

8 Sulla datazione ed i contenuti di quest’opera si veda A. Traver, The Opuscula of William ofSaint-Amour. The Minor Works of 1255-1256, Aschendorff, Münster 2003, in part. pp. 31-52.

9 Non ritorno su questi temi, che ho affrontato brevemente già in R. Lambertini, Ende oderVollendung. Interpretazioni escatologiche del conflitto tra Secolari e Mendicanti alla metà del XIIIsecolo, in Ende und Vollendung. Eschatologische Perspektiven im Mittelalter, eds. J.A. Aertsen-M. Pickavé, De Gruyter, Berlin-New York 2002, pp. 250-261.

10 P.R. McKeon, The status of the University of Paris as Parens scientiarum: an episode inthe development of its autonomy, in «Speculum» 39(1964), pp. 651-675, in part. p. 670.

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degli avversari mostrando che era altrettanto facile ribaltarle e trasfor-mare gli araldi dell’età dello spirito nei «servi» dell’Anticristo11. Devoquindi premettere che non mi sento di condividere del tutto questa pro-spettiva, che a mio giudizio non rende giustizia alla complessità dellasituazione: per quanto non intenda negare ai medievali il senso dellaparodia, in questi casi distinguere tra escatologia «autentica» o solo«strumentale» non solo può essere arbitrario12, ma anche lasciar sfug-gire che l’adozione di un registro come quello escatologico innesca unaserie di meccanismi (di inserimento in tradizioni interpretative, in unarete di connessioni testuali e semantiche) che possono finire per tra-scendere l’intenzione dell’autore. Per queste ragioni, mentre mi parefondamentale tenere presente il contesto polemico in cui nascono itesti, dall’altra mi parrebbe inopportuno svalutarli sulla base di taleargomento. Ho già proposto, in altra sede, di considerare piuttosto ildibattito parigino anche come uno scontro tra divergenti interpretazio-ni degli Ultimi Tempi13.

Come accennato, il Tractatus de Antichristo et eius ministris è uncapitolo dello scontro pubblicistico tra clero secolare e frati mendican-ti nella Parigi del XIII secolo; l’insistenza che pone sul fatto che la indi-viduazione gioachimitica del 1260 come anno finale della storia si èmostrata infondata, ha indotto ovviamente gli storici ad individuare inquell’anno il terminus post quem e ad indicare gli anni ’60 come ilperiodo più probabile per la sua redazione. Se, come ritengono siaLerner sia Traver sulla base di significativi paralleli testuali con opereattribuite con sicurezza14, l’autore è Guglielmo di Sant’Amore, allora

Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Parigi nel XIII secolo 99

11 Lerner, Il refrigerio dei santi, cit., p. 60, n. 90 (tr. it. dell’articolo The Refreshment of theSaints: The Time after Antichrist as a Station for Earthly Progress in Medieval Thought, in«Traditio» 32, p. 125, n. 93). Andrew Traver ha accolto solo in parte questa interpretazione: si ve-da A.G. Traver, The Liber de Antichristo and the Failure of Joachimite Expectations, in «Flo-rensia» 15(2001), pp. 87-98.

12 Mi sembra quindi discutibile operare distinzioni come quelle proposte da una buona rac-colta di saggi in questo campo di studi, quale Use and Abuse of Eschatology, edd. W. Verbeke-D.Verhelst-A. Welkenhuysen, Leuven University Press, Leuven 1988.

13 Lambertini, Ende oder Vollendung, cit., pp. 260-261.14 Lerner, Il Refrigerio dei santi, cit., pp. 60-61; ma si veda anche Id., Poverty, Preaching,

and Eschatology in the Revelation Commentaries of «Hugh of St. Cher», in The Bible in theMiddle Ages, Essays in Memory of Beryl Smalley, eds. K. Walsh-D. Wood, Blackwell, Oxford1985, pp. 157-189, p. 184; Traver, The Liber de Antichristo, cit., pp. 88-91.

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l’opera dovette essere compiuta nell’esilio cui il leader dei secolari erastato condannato dal re di Francia dopo essere stato vittima della cen-sura papale, e certo non può essere posteriore al 1272, anno di mortedel teologo. Non mi pare tuttavia ancora dimostrato in modo definitivoche sia destituita di fondamento la tesi avanzata da Michel-MarieDufeil secondo la quale l’autore potrebbe essere uno dei più fidi soste-nitori di Guglielmo, Nicola di Lisieux. L’ipotesi aveva il vantaggio difornire una spiegazione al perché questo trattato sia stato trasmesso, perlo meno da un parte della sua tradizione manoscritta, con l’attribuzio-ne a Nicola Oresme, molto più famoso di Nicola di Lisieux, ma crono-logicamente e contenutisticamente del tutto improbabile come autoredel trattato15. Tutto sommato, una volta individuato l’ambiente di pro-venienza, sapere chi sia l’autore può anche essere considerato secon-dario rispetto alle finalità del presente contributo. Che invece l’oggettopolemico siano, oltre all’abate Gioacchino, che viene spesso citato,proprio i frati Mendicanti, è rivelato da una serie di riferimenti indiret-ti che, pur meno violenti che nelle più note opere di Guglielmo, per unlettore attento non possono che essere rivolti contro questi nuovi prota-gonisti della vita accademica ed ecclesiale del XIII secolo.

2. La Glossa ordinaria come orizzonte ermeneutico

Il Tractatus de Antichristo consiste in una denuncia dell’approssi-marsi della Fine e ne legge i segni nelle trasformazioni causate dal dif-fondersi dell’esperienza mendicante. Il brano della seconda lettera aiTessalonicesi che fa da fulcro al nostro incontro si colloca già nei primicapitoli del primo libro, come del resto si addice ad uno dei brani neo-testamentari che facevano parte dei loci tradizionali quando si trattavadell’Anticristo, per quanto il termine non compaia nel testo paolino.Per introdurre alla presentazione del brano, e consentire un miglioreorientamento nel contesto di fonti in cui si muoveva l’estensore di que-sto trattato sull’Anticristo, è bene soffermarsi in primo luogo sulla tra-duzione nella Vulgata, brano a proposito del quale va preliminarmente

100 Roberto Lambertini

15 M.M. Dufeil, Guillaume de Saint-Amour et la polémique universitaire parisienne 1254-1259, Picard, Paris 1972, pp. 330-331.

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osservato che costituisce, per la quasi totalità dei teologi del tempo, unorizzonte di riferimento difficilmente trascendibile; in alcune équipesdi lavoro molto specializzate, o in alcune individualità relativamenteeccezionali si possono constatare competenze linguistiche relative algreco ad anche all’ebraico16; il latino rimane tuttavia il limite linguisti-co di questi dibattiti anche esegetici, di modo che non possiamo consi-derare come prassi un ricorso al testo greco, lingua comunque inacces-sibile ai più, nell’attività di commento ai testi sacri. Coscienti di questacondizione, cogliamo forse meglio come la scomparsa, nel passaggiodal greco al latino, dei participi, suggerisca già molto meno il riferi-mento ad una entità a se stante – il Katéchon – dietro espressioni come«quid detineat», o «qui tenet». Queste espressioni sono evidenziate ingrassetto riportando qui il testo critico della Vulgata, nel versetti 3-8 delsecondo capitolo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, passo che èopportuno avere presente nella sua interezza per meglio orientarsi nelleproposte ermeneutiche medioevali.

«3Ne quis vos seducat ullo modo quoniam nisi venerit discessio primum etrevelatus fuerit homo peccati filius perditionis 4qui avdersatur et extollitursupra omne quod dicitur Deus aut quod colitur ita ut in templo Dei sedeatostendens se quia sit Deus 5non retinetis quod cum adhuc essem apud vos haecdicebam vobis 6et nunc quid detineat scitis ut reveletur suo tempore 7nammysterium iam operatur iniquitatis tantum ut qui tenet nunc donec de mediofiat 8et tunc revelabitur ille iniquus quem Dominus Iesus interficiet spiritu orissui et destruet inlustratione adventus sui»17.

Non sarebbe questa la sede, né sarebbe sufficiente la mia compe-tenza, per entrare nel dettaglio filologico del nostro testo. Il testo dellaVulgata, qui sopra riprodotto, è il risultato di un’edizione critica chemira a ricostruire il testo originario, non quello in uso nella Parigi delXIII secolo, un periodo nel quale tra l’altro vivace e controverso fu illavoro di revisione del testo biblico18. Per gli scopi di questo contribu-

Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Parigi nel XIII secolo 101

16 Cfr. G. Dahan, L’exégese chrétienne de la Bible en Occident médiéval, XIIe-XIVe siécle,Cerf, Paris 1999, pp. 175-200.

17 Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, Ad Thess II, ed. R. Weber, Deutsche Bibelge-sellschaft, Stuttgart 19944, pp. 1829-1830.

18 A questo proposito si veda Dahan, L’éxegèse chrétienne, pp. 175-200; importante la sin-tesi di Guy Lobrichon, La Bible au Moyen Âge, Picard, Paris 2003, pp. 158-172. Ancora fonda-

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to sarà sufficiente evidenziare solo alcuni accidenti di trasmissione chepossono aver influenzato in modo significativo l’interpretazione. Ine-ludibile, invece, risulta il fatto che in quel periodo il testo biblico eraletto con l’ausilio della Glossa ordinaria, uno strumento ermeneuticoche si era andato formando nel tempo, con una stratificazione testualeche attende ancora una ricostruzione critica completa19. A questa Glos-sa, che incorporava in sé una tradizione di commento risalente fino aiPadri era riconosciuto un valore non solo strumentale, ma anche auto-revole nella ricostruzione del senso dei brani della Scrittura, al puntoche i commentatori dell’Antico e del Nuovo Testamento nel XIII seco-lo la tenevano costantemente presente e la utilizzavano anche comeriferimento autoritativo nel loro argomentare. Riportando in quanto se-gue i punti salienti della Glossa ordinaria, faccio riferimento comemolti al testo tutt’altro che soddisfacente contenuto nella PatrologiaLatina, tenendo conto, quando necessario, anche dell’editio princepsdella Glossa, oggi disponibile in una meritoria edizione anastatica20.

«Quoniam nisi venerit. Occulte loquitur de destructione imperii Romani, neirritaret eos ad persecutionem Ecclesiae. Vel hoc dixit de spirituali imperio Ro-manae Ecclesiae, vel discessione a fide»21.

Come si vede, già a proposito della seconda parte del versetto 3 laGlossa indica tre possibili interpretazioni del brano, che ritornerannonel prosieguo, secondo le quali la condizione preliminare per l’avven-to del giorno del Signore, precondizione indicata con il termine «di-scessio», a rendere il greco «apostasía», può essere identificata sia conla distruzione dell’Impero romano, sia con quella della signoria spiri-tuale della Chiesa Romana, sia con l’abbandono della fede. C’è poiun’ulteriore possibilità interpretativa, che dipende da una variante si-

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mentali le pionieristiche ricostruzioni di B. Smalley, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, ilMulino, Bologna 1972, pp. 460-475 (tr. it. di The Study of the Bible in the Middle Ages, Blackwelland Mott, London 19522).

19 Mi limito a far riferimento al recente studio di M. Zier, Peter Lombard and the GlossaOrdinaria: a Missing Link?, in Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico internazionale,Todi, 8-10 ottobre 2006, CISAM, Spoleto 2007, pp. 361-409.

20 Biblia latina cum glossa ordinaria, facsimile reprint of the Editio Princeps Adolph Ruschof Strassburg 1480/1481, IV, Turnhout, Brepols 1992, per il brano che ci interessa, p. 402.

21 Glossa ordinaria, in Patrologia latina, 114, col. 622 (in questa collezione ottocentesca laGlossa è attribuita a Valafrido Strabone, tesi che non è più condivisa da tempo dagli esperti).

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gnificativa, «refuga» al posto di «discessio», variante conosciuta allatradizione della vetus latina22, ma soprattutto, per quel che riguardal’influenza esercitata, adottata da Agostino nel De civitate Dei23:

«Nisi venerit refuga primum. Sic aliqui codices habent, quod nulli dubium estde Antichristo eum dixisse, quem refugam vocat: utique a Domino Deo. Sienim hoc de omnibus impiis merito dici potest, quanto magis de isto»24.

In effetti, un confronto con il testo del De civitate Dei mostra chequi la Glossa, dopo aver osservato la presenza della variante «refuga»in alcuni codici, non fa che riprodurre Agostino. In questa secondainterpretazione quindi, nella prima parte l’Apostolo non evocherebbeun evento (la «discessio») e poi una persona, come preliminari al se-condo avvento di Cristo, ma solamente l’apparizione della persona, va-le a dire l’Anticristo, le cui caratteristiche ed azioni sono poi enumera-te in quel che rimane del v. 3 e nel v. 4. L’influenza di Agostino si av-verte decisamente a proposito del v. 5:

«Scitis. Eos scire dicit quid detineat, nec aperte exponit, et ideo nos nescimus,nisi quod quidam suspicantur de Romano imperio dictum fuisse, donec tolla-tur, vel de medio fiat. Et ideo Apostolum non id aperte scribere voluisse, necalumniam scilicet incurreret, quod Romano imperio male optaverat, cum spe-raretur aeternum. Et hoc quod dixit Iam enim mysterium operatur iniquitatisNeronem voluerunt intelligi cuius facta velut antichristi videbantur, unde non-nulli vel vivum raptum occultari donec suo tempore reveletur, vel occisumresurrecturum et futurum antichristum suspicabantur»25.

Senso e lettera qui dipendono infatti dal De civitate Dei: da unaparte Agostino evidenzia che Paolo si riferisce a qualcosa (il significa-to del «quid detineat») che i destinatari della lettera già conoscono, e

Un’esegesi «militante» di 2Ts 2 all’Università di Parigi nel XIII secolo 103

22 Epistulae ad Thessalonicenses, Timotheum, a cura di H.J. Frede, Herder, Freiburg 1975-1982 (Vetus Latina 25, 1), p. 323.

23 Augustinus, De civitate Dei, XX, 19, a cura di B. Dombart-A.Kalb, Brepols, Turnhout1955 (Corpus Christianorum, Series Latina 47), pp. 731-732.

24 Glossa ordinaria, ed. cit., col. 622.25 Il testo della Glossa riportato nella Patrologia latina, 114, col. 622 si ferma alle parole

speraretur aeternum; il seguito si legge però nell’edizione a stampa della Glossa ordinaria di cuialla nota 16. C’è quindi buona ragione di ritenere che i commentatori del XIII secolo lo conosces-sero per questa via; era pur sempre possibile accedere alle informazioni su questa tradizione nelbrano già citato del De civitate Dei.

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quindi non fornisce sufficienti spiegazioni per una ricostruzione dellasua intenzione, dall’altra riporta che alcuni ritengono che faccia riferi-mento volutamente oscuro all’Impero Romano26. Pur dubitando delleidentificazioni dell’Anticristo con Nerone, o meglio con un Nerone tor-nato in vita alla fine dei tempi, Agostino ritiene verosimile che l’allu-sione a «ciò che trattiene» designi genericamente l’Impero27. La Glossaomette di riportare le perplessità agostiniane, preferendo accostareun’altra opinione, presentata anch’essa nel De civitate Dei, secondo laquale il «mistero d’iniquità» altro non sarebbero che i malvagi occulta-mente presenti nella Chiesa, che aumenteranno di numero, fino a costi-tuire il «popolo» dell’Anticristo. A questa duplice possibilità interpre-tativa corrisponde infatti per Agostino una diversa possibile lettura del-le parole che in apertura ha caratterizzato come particolarmente oscu-re: «Tantum qui modo tenet teneat, donec de medio fiat», dove si notaun’altra variante significativa, dal momento che il testo critico dellaVulgata ha «nunc», al posto di «teneat», anche se non pochi manoscrittipresentano questa sorta di raddoppiamento del verbo «tenere»28, edessa è molto spesso attestata nei commenti medioevali. Nel primo caso,come si è visto, si tratterebbe dell’Impero Romano, del quale l’Apo-stolo intenderebbe dire che finché ciò che ora tiene, cioè comanda,terrà, non accadrà quello che invece si verificherà quando sarà tolto dimezzo29. Nel secondo caso, si aprirebbe una interpretazione del tuttonuova, perché Paolo vorrebbe intendere che «Chi ha la fede ora la tengasaldamente, finché non si manifesteranno ed usciranno dalla Chiesatutti gli eretici»30.

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26 L’identificazione era per esempio suggerita da Girolamo: Hieronymus, Epistulae, III, 121,rec. I. Hilberg, Vindobonae-Lipsiae 1918 (CSEL 56), pp. 52-54, in part. p. 54: «tantum ut Ro-manum imperium, quod nunc universas gentes tenet, recedat et de medio fiat, et tunc antichristusveniet».

27 Augustinus, De civitate Dei, ed. cit., p. 732: «... non absurde de ipso Romano imperio cre-ditur dictum, tamquam dictum sit: “Tantum qui modo imperat imperet, donec de medio fiat”, idest de medio tollatur».

28 Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, Ad Thess. II, 2,7, ed. cit., p. 183: «tantum ut quitenet nunc donec de medio fiat».

29 Augustinus, De civitate Dei, ed. cit., p. 732. Cfr. supra, alla nota 28.30 Ibidem: «... hortari autem apostolus fideles, ut in fide quam tenent tenaciter perseverent,

dicendo Tantum qui modo tenet teneat, donec de medio fiat, hoc est, donec exeat de medio eccle-siae mysterium iniquitatis, quod nunc occultum est».

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La Glossa ha tuttavia in serbo un’ulteriore interpretazione, che contutta evidenza non risale ad Agostino, ma piuttosto ad un periodo benposteriore, come suggerisce l’uso del concetto di Ecclesia Romana:

«Suo tempore. Completa accessione ad Romanum imperium et ad Romanaeecclesiae obedientiam, aderit discessio ab utroque imperio; qua impleta aderitille iniquus, impleto tempore misericordiae quo plenitudo gentium intrat adfidem, revelabitur discessio, et sic instabit dies Domini»31.

In consonanza con quanto indicato nella glossa che inizia con leparole «Quoniam nisi venerit»32, dove la discessio può essere interpre-tata anche come allontanamento dallo spirituale imperium della ChiesaRomana, qui la Ecclesia Romana è posta sul medesimo piano del-l’Impero, e la storia è scandita da un completarsi della sottomissione edi una ribellione ad entrambi.

La comparsa della Ecclesia Romana accanto all’Impero, in unafunzione che può essere assimilata a quella del Katéchon, non è pre-sente in uno dei più fortunati commenti della rinascita carolingia, quel-lo di Aimone d’Auxerre33, e neppure, un secolo dopo, nel fortunato Li-ber de Antichristo di Adso di Mortier-en-Der, che pure parla di imperodei Romani e dei Cristiani34. Nell’impossibilità di individuare – per ora

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31 Glossa ordinaria, ed. cit., col. 622.32 Si veda supra, testo alla nota 21.33 Haimo Altissiodorensis, Expositio in Epist. II Ad Thessalonicenses, in Patrologia latina,

117, col. 780 «Et nunc quid detineat scitis, ut reveletur in suo tempore. Dicit: Scitis quid detineatet non demonstrat quid. Quod nihil melius ibi intelligere voluisse significare quam destructionemregni Romanorum de qua obscure hic locutus est, ne forte aliquis Romanorum legeret hanc epi-stolam, et excitaret contra se aliosque Christianos persecutionem illorum, qui se putabant semperregnaturos in toto mundo»; sul contesto culturale di Aimone, S. Cantelli Berarducci, L’esegesidella Rinascita carolingia, in La Bibbia nel Medioevo, a cura di G. Cremascoli e C. Leonardi,Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, pp. 167-198, in part. 189 e ss.; per un recente ed aggiornatointervento su Aimone esegeta: R. Savigni, Il commentario a Isaia di Aimone d’Auxerre, in BiblicalStudies in the Early Middle Ages, a cura di C. Leonardi-G. Orlandi, Sismel - Edizioni delGalluzzo, Firenze 2005, pp. 215-238.

34 Adso Dervensis, De ortu et tempore Antichristi, a cura di D. Verhelst, Brepols, Turnhout1976 (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, 45), p. 26: «Inde ergo dicit Paulus apo-stolus, Antichristum non antea in mundum esse uenturum, nisi venerit discessio primum, id est,nisi prius discesserint omnia regna a Romano imperio, que pridem subdita erant». Adso annotache anche se al suo tempo l’impero pare distrutto in gran parte, tuttavia «quandiu reges Francorumdurauerint, qui Romanum imperium tenere debent, Romani regni dignitas ex toto non peribit».L’autore fa poi riferimento ad un’altra narrazione escatologica, che parla di un imperatore dellafine dei tempi: «Qui, postquam regnum suum feliciter gubernauerit, ad ultimum Hierosolimam

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– la prima menzione della Ecclesia Romana accanto all’Impero, in unafunzione assimilabile a quella del Katéchon, mi limito ad osservare cheinvece nel secolo XII è ampiamente attestata, ritrovandosi non solo neiCollectanea di Pietro Lombardo35, che svolgono un ruolo importantenella genesi della Glossa ordinaria, ma anche in un commento falsa-mente attribuito a Ugo di San Vittore36, e perfino, riportata come opi-nione già sostenuta da altri, nella Chronica di Ottone di Frisinga, por-tata a termine nel 115637.

In questa prospettiva ermeneutica la misericordia di Dio concedeuna dilazione durante una contemporanea espansione, fino al compi-mento, dell’Impero Romano e della Ecclesia Romana; al culmine del-l’espansione farà seguito una discessio da entrambi, la manifestazionedel male e quindi il Giorno del Signore. Questa linea interpretativa èproseguita dalla Glossa ritornando sul mysterium iniquitatis, dove sicolgono alcuni echi del commento dell’Ambrosiaster38:

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ueniet et in monte Oliveti sceptrum et coronam suam deponet. Hic erit finis et consummatioRomanorum christianorumque imperii». Sul tema dell’imperatore escatologico, cui qui evidente-mente fa riferimento Adso, si veda il recente H. Möhring, Der Weltkaiser der Endzeit. Entstehung,Wandel und Wirkung einer tausendjähriger Weissagung, Thorbecke, Stuttgart 2000; cfr. ancheG.J. Reininck, Pseudomethodius und die Legende vom römischen Weltkaiser, in The Use andAbuse, cit., pp. 82-111.

35 Petrus Lombardus, Collectanea in Epistulas Pauli, in Ep II ad Thess., in Patrologia Latina,192, col. 318: «Completa enim accessione ad Romanum imperium, et ad Romanae Ecclesiae obe-dientiam aderit discessio ab utroque imperio, qua impleta aderit iniquus, id est Antichristus».

36 (Ps.) Hugonis de Sancto Victore Quaestiones in Epistulas Pauli, IX, q. 6, in Patrologia lati-na, 175, col. 591: «Queritur: quomodo quod dicit de discessione fiet? Solutio. Hoc quattuor modispotest intelligi, vel de terreno Romano imperio vel de spirituali imperio Romanae ecclesiae, velde fide, vel de antichristo. Cum alia translatio dicit refuga». Come si vede, con «alia translatio»questi autori possono riferirsi semplicemente ad una variante presente in alcuni codici.

37 Otto Frisingensis, Chronica sive historia de duabus civitatibus, VIII, ed. altera, A.Hofmeister, Hahn, Hannoverae et Lipsiae 1912, p. 395: «alii vero eadem verba eodem modo quode regno diximus, sensu de sacerdotio et Romana sede interpretantur». Ildergarda di Bingen (cfr.H.D. Rauh, Das Bild, cit., pp. 512-521), identifica l’elemento che trattiene con l’Impero, ma anchecon la perseveranza nella fede apostolica e cattolica.

38 Ambrosiastri qui dicitur Commentarius in epistulas paulinas, III, rec. H.J. Vogels,Vindobonae 1969, p. 240: «mysterium iniquitatis a Nerone coeptum est, qui zelo idolorum et apo-stolos interfecit istigante patre suo diabolo, usque ad Diocletianum et novissime Iulianum...»;Aimone d’Auxerre potrebbe anche essere il testo che fa da mediatore con la Glossa ordinaria:Haimo, Expositio in Epist. II Ad Thessalonicenses, ed. cit., col. 782: «Istud mysterium iniquitatiscoeptum est a Nerone, qui occulte istigante patre suo diabolo, zelo idolorum interfecit sanctosmartyres et pervenit usque ad Diocletianum et Julianum apostatam, qui plurimos sanctorum pere-merunt».

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«Nam mysterium etc. Jam in ipsis initiis accessionis invenitur iniquitas, sedmystica, id est pietatis nomine palliata, ut velint haberi ministri Christi cumsint pseudo. Diabolus occulte per Neronem et alios occidebat martyres, sicutper illum tunc aperte facturus est, occidendo Eliam et Enoch aliosque pluri-mos: et sunt Nero et alii umbra futuri Antichristi, sicut David et AbelChristi»39.

Infine, commentando le parole «donec de medio fiat», la Glossaoffre uno sguardo d’insieme dei vari percorsi ermeneutici seguiti, giu-stapposti e separati da un «vel»:

«Donec de medio fiat. Id est, tollatur illa potestas Romani imperii de mediomundi: quia omnes undique Romam quasi ad caput confluebant. Vel, qui fi-dem tenet, teneat, donec ipsa refrigescat. Vel, qui detinet illum, idest accessioad fidem, detineat, donec ipsa tollatur de medio. Vel, donec iniquitas, quaemodo est mystica, fiat de medio, id est quasi de communibus, ut non erubescathomo adulterari vel furari, sicut nec ambulare vel loqui. De medio fiat, scilicetdiscessio, id est manifeste appareat: et tunc jam revelata discessione a Deovero, jam refrigerata charitate ex abundantia iniquitatis revelabitur»40.

Di conseguenza la Glossa veicola, riprendendo Agostino, l’idea chea trattenere sia l’Impero Romano, ma vi aggiunge altri spunti interpre-tativi, ben comprensibili pensando alla storia dell’Occidente latino, cheha visto il ricostituirsi di un Impero Romano cristianizzato ed insiemel’affermarsi progressivo della Chiesa di Roma come riferimento unifi-cante della Christianitas. Il giorno dell’Anticristo verrà al completarsidella dilatazione dell’Impero romano e della obbedienza alla Chiesaromana, momento fino al quale perdurerà la misericordia di Dio. Qui ilfattore che trattiene pare diventare duplice: da un certo punto di vista èla misericordia di Dio che «frena», lasciando tempo per la conversione;dall’altro – se si vuole spostare l’attenzione sulle istituzioni – è il pro-cesso di sottomissione all’Impero ed alla Chiesa romana, accomunatiqui quasi in una sorta di endiadi, che ben rappresenta la concezione cheil pieno Medioevo possiede della natura dell’Impero. Con un ulterioreslittamento si potrebbe perfino azzardare che le forze che «trattengono»siano la Chiesa e l’Impero stesso; per una singolare dialettica, tuttavia,

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39 Glossa ordinaria, ed. cit., col. 622.40 Ibidem.

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proprio nel loro trionfare perdono quella funzione. Già nel cresceredell’Impero operava, in modo nascosto, l’iniquità, mascherata da pietà.Nerone ne è solo una sorta di figura, anticipazione dell’Anticristo chedeve venire.

Ricapitolando gli esiti della plurivocità dei significati, la Glossaporta con sé almeno 5 possibili letture: il riferimento può essere statoal potere dell’Impero, che sarà annullato, e tolto dal posto centrale cheoccupava; oppure, il senso dell’oscuro passo può risolversi in un invitoa permanere saldi nella fede, nel periodo in cui, secondo Matteo 24 (quirichiamato implicitamente con l’espressione «refrigescat»41) la caritàperderà il suo vigore. Può essere tuttavia anche l’accessio ad fidem,questo movimento contrario all’apostasia che prelude agli ultimi tempi,ad essere oggetto del riferimento. Oppure, il brano può assumere anco-ra un ulteriore significato, se il de medio viene interpretato come unasorta di divenire pubblico; allora, l’iniquità che è mystica, nel senso dinascosta, diventerà di pubblico dominio, al punto che non ci si nascon-derà più per fare il male, oppure sarà l’abbandono della vera fede avenire allo scoperto.

3. Un esempio di esegesi di «scuola» del XIII secolo: Tommaso d’Aquino

La Glossa offriva dunque una molteplicità di possibilità interpreta-tive: tra queste ed altre, l’interprete medievale poteva orientarsi e, comevedremo, non necessariamente scegliere in modo univoco. Tommasod’Aquino può valere qui non tanto quale punta avanzata della teologiadei frati Predicatori, e meno che mai quale epitome somma del pensie-ro medievale come in un luogo comune storiografico comune a tomistied antitomisti, e quindi ancor più duro a morire. Piuttosto, anche inconsiderazione del fatto che questo suo commento alla Seconda Letteraai Tessalonicesi ci è stato tramandato in forma di reportatio, cioè diappunti, per quanto accurati, tratti dalle lezioni, che risultano non rivi-

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41 Non va in effetti sottovalutata la possibile influenza, in questa interpretazione, del capito-lo 24 del Vangelo di Matteo, dove l’esortazione a mantenersi saldi nella fede fino agli ultimi, dif-ficili tempi, è connessa con la diffusione del Vangelo tra tutti i popoli. Biblia sacra iuxta vulga-tam versionem, Mt 24,12-14, ed. cit., p. 1564: «... quoniam abundabit iniquitas refrigescet caritasmultorum. Qui autem permanebit usque in finem, hic salvus erit. Et predicabitur euangelium regniin universo orbe in testimonium omnibus gentibus et tunc veniet consummatio».

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sti a fondo da Tommaso stesso, ma dovuti al paziente lavoro del fedele«segretario» Reginaldo da Piperno possiamo vedere in esso una testi-monianza dell’insegnamento di un maestro (anche se ovviamente gran-de) degli Ordini mendicanti impegnato nel lavoro didattico sulla IILettera ai Tessalonicesi negli stessi anni in cui viene composto ilTractatus de Antichristo. Se l’ipotesi ritenuta più probabile da Torrell,e cioè che queste reportationes derivino dalla docenza di Tommaso aRoma, presso lo studium dei frati Predicatori, negli anni tra il 1265 edil 1268, è esatta, ciò non farebbe che confermare il carattere non ecce-zionale (nonostante l’autore), e quindi storicamente più rappresentati-vo di questo commento42. Come ogni commentatore, Tommaso utiliz-za la Glossa ordinaria valorizzandone alcune possibilità interpretative.In primo luogo indica la duplice possibilità che la discessio di cui parlail testo sia o l’abbandono della fede o la fine dell’Impero Romano. Difronte all’obiezione che l’Impero romano è stato ormai abbandonatodai popoli, osserva che l’Impero va inteso nella sua trasmutazione datemporale in spirituale, per cui l’Impero continua nella Chiesa romana;come già suggerito dalla Glossa, sarà l’abbandono della fede a segna-re che il tempo è compiuto, così come nel pieno trionfo dell’Impero siè collocato il primo avvento del Signore.

«Sed quomodo est hoc, quod iamdiu Gentes recesserunt a Romano imperio, ettamen necdum venit Antichristus?Dicendum est, quod nondum cessavit, sed est commutatum de temporali inspirituale, ut dicit Leo Papa in sermone de Apostolis. Et ideo dicendum est,quod discessio a Romano imperio debet intelligi, non solum a temporali, seda spirituali, scilicet a fide catholica Romanae ecclesiae. Et autem hoc conve-niens signum, quod sicut Christus venit quando Romanum imperium omnibusdominabatur, ita e converso signum Antichristi est discessio ab eo»43.

La sostituzione della Chiesa romana all’Impero funge quindi quasida sfondo alla lettura di Tommaso, anche se la questione di chi tratten-ga l’Anticristo non è al centro della sua attenzione; in primo luogo, il«quid detineat», che rendeva il Katéchon neutro del testo greco, viene

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42 J.P. Torrell, Initiation à saint Thomas d’Aquin, Éditions Universitaires de Fribourg, Fri-bourg/Suisse 1993, pp. 496-497.

43 Thomas de Aquino, Commento a II ad Thess., c. II, lectio II, ed. Marietti, Torino 1953, p.198.

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a significare, semplicemente, non una persona od una istituzione, ma –in modo più generico – il motivo del ritardo della venuta44. In secondoluogo, a proposito del «qui tenet», resa latina del «Katéchon» al ma-schile, l’Aquinate inserisce l’identificazione possibile dell’Anticristocon Nerone, riferita nel De civitate Dei. Tommaso rifiuta questa possi-bilità, in quanto la morte di Nerone è avvenuta da troppi anni, e propo-ne che piuttosto qui il primo persecutore dei cristiani sia considerato unsimbolo dell’Impero Romano:

«Tantum ut qui tenet etc. Hoc exponitur multipliciter. Uno modo, secundumGlossam, et Augustinum, qui dicunt, quod quidam opinati sunt Neronem, quiprimus persecutus est Christianos, esse Antichristum, et quod non fuerat occi-sus, sed subtractus, et quandoque restituendus... Sed hoc modo non est conve-niens: quia multi sunt anni, quod Nero mortuus est, illo scilicet anno quoApostolus. Sed melius est quod referatur ad Neronem, prout est persona publi-ca Romani imperii, donec de medio fiat, id est, tollatur Romanum imperiumde hoc mundo...»45.

Solo le altre interpretazioni, che dipendono dalla Glossa, sono inmodo più esplicito legate alla funzione del trattenere l’Anticristo: Tom-maso allora proporrà che il riferimento sia alla necessità che prosegua ildinamismo di accettazione e di abbandono della fede, oppure alla per-severanza fino a che i malvagi non si separino dagli autentici fedeli,oppure ad un manifestarsi pubblico del peccato, che Dio non tollererà.

«Vel aliter tantum ut qui tenet, id est, detinet modo adventum Antichristi, te-neat, ne veniat; quasi sit necessarium, quod adhuc aliqui veniant ad fidem, etaliqui recedant. Quasi dicat: Ut discessus et accessus qui nunc tenet donecveniat, teneat donec tollatur ille obscaenus. Vel sic: tantum qui nunc tenetfidem teneat, id est, firmus sit in ea, Ap. 1,11: “Tene quod habes, ut nemo acci-piat coronam tuam”, donec de medio fiat, id est congregatio malorum permix-ta, separetur, et fiat seorsum, quod erit in persecutione Antichristi»46.

Tommaso chiude tuttavia questa ripresa – come si vede non lette-rale – delle possibilità indicate dalla Glossa ordinaria, osservando

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44 Ivi, p. 200: «Et quid nunc detineat, id est, quae sit causa, quod tardet, scitis, quia ego dixivobis, ita quod sic ad praesens detinet, ut suo tempore, id est, congruo tempore, reveletur».

45 Ibidem. 46 Ibidem.

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che Agostino stesso ammetteva di non sapere esattamente cosa inten-desse Paolo, e che di conseguenza una tale nozione non era moltoimportante47.

4. L’esegesi «militante» del De Antichristo et eius ministris

Questa osservazione finale, in cui traspare una certa diffidenzarazionalistica del Doctor communis di fronte alle speculazioni esege-tiche, accetta i limiti della conoscenza di fronte ad informazioni che laRivelazione non fornisce in modo compiuto. Questo atteggiamentonon può essere condiviso dal suo avversario – sia questi Guglielmo diSant’Amore o Nicola di Lisieux – che compone il Tractatus de Anti-christo et eius ministris. All’esegesi proposta in un ambiente di studiosi contrappone qui un’esegesi «militante». L’autore di quest’opera sipropone infatti il compito di dimostrare che veramente la Chiesa sitrova di fronte agli ultimi tempi ed opera quindi una scelta oculatarispetto alla tradizione ermeneutica consolidata per raggiungere que-sto scopo. In particolare, sono i capitoli 3 e 4 della prima parte adoccuparsi in modo intensivo del brano paolino. Secondo l’interpreta-zione dell’autore del Tractatus, la discessio di cui si fa parola nellaseconda Lettera ai Tessalonicesi è senza dubbio la fine dell’ImperoRomano. Anche qui la Glossa svolge un ruolo fondamentale: la spie-gazione delle parole «nisi fiat discessio prius» con «nisi prius gentes aromano discedant imperio» è esplicitamente tratta da una annotazioneinterlineare della Glossa ordinaria48, mentre l’estensione discessio al-l’impero spirituale della Chiesa ed alla fede è tratta da una nota mar-ginale, che il Tractatus designa come «alia glossa, quae magistralis es-se videtur», sospettandone quindi una provenienza dall’ambiente deimaestri di teologia.

«...et hoc est quod Apostolus dicit, nisi venerit discessio primum, glossa ibid.id est, nisi prius gentes a Romano discedant imperio... sane utrumque alia

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47 Ibidem. «Sed tamen Augustinus confitetur se nescire quid Apostolus illis loquitur, qui iamsciebant. Unde dicit quid nunc detineat, scitis. Et praeterea hoc non erat multum necessarium adsciendum».

48 Biblia latina cum glossa ordinaria, ed. cit., p. 402: «sed non instat dies domini nisi priusgentes a romano discedant imperio»

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glossa exponit, quae magistralis esse videtur, ante adventum antichristi disces-sio fiat ab obedientia spirituali Romane ecclesiae, et discessio a fide»49.

Nonostante sia quindi al corrente dell’esistenza di altre ipotesi, ilTractatus insiste sulla centralità dell’Impero, richiamando anche quelTertulliano che sarà caro a Carl Schmitt: la vigilia degli ultimi tempi èsegnata dalla fine dell’Impero Romano50. La cronologia non gli creaproblemi, in quanto in tutta evidenza identifica l’Impero Romano conla sua continuazione medioevale negli imperatori tedeschi, per cui puòaffermare che la fine non è remota, anzi, può essere identificata con lacondanna dell’imperatore Federico. Il riferimento non può che esserealla sentenza di deposizione di Federico II da parte di Innocenzo IV,durante il I Concilio di Lione, nel 1245. La fine dell’impero legittimodi Federico, seguita dalla morte dello stesso, morte di cui l’autore deltrattato è informato, si configura quindi, in quest’opera, come il ter-mine della pluricentenaria vicenda dell’Impero, che a dire del Trac-tatus avrebbe avuto inizio con Giulio Cesare, durando quindi circa1300 anni51.

Con la deposizione di Federico II, della quale l’autore pare ricono-scere la legittimità, usando quella sentenza, e non la morte dello Svevocome terminus ad quem, l’Impero Romano è giunto al termine dellasua vicenda storica (giudizio forse discutibile dal punto di vista dellaforma giuridica dal momento che l’Impero non ha cessato di esistere inquella circostanza, ma tutt’altro che peregrino in una prospettiva stori-ca complessiva, se si pensa a quale importanza periodizzante la storio-grafia tedesca attribuisce alla fine di Federico II) e quindi il tempo dellaFine è vicino.

Come si è visto, la Glossa considerava anche una possibilità deltutto diversa, e cioè che l’avvento dell’Anticristo venisse procrastinatoper il periodo in cui si compiva l’accessio ad fidem; l’autore delTractatus prende in considerazione anche questa alternativa esegetica:

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49 De Antichristo et eius ministris, ed. cit., col. 1289.50 Ivi, col. 1290: «... de hoc proferimus testimonium Tertulliani viri doctissimi, qui de pri-

moribus ecclesiae fuit, et primitias Spiritus praegustavit in Apologetico...». 51 Ivi, col. 1283: «... a Julio Caesare incipiens, fere per mille trecentum annos, secundum

fidem chronicorum, usque ad Frederici quondam Romani imperatoris condemnationem se exten-dit, in quo romanum cessasse videtur imperium»

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«Glossa: tantum hoc restat, ut qui tenet nunc, hoc est, detinet illum, scilicetaccessio ad fidem, teneat, id est detineat, donec de medio fiat, id est, donecipsa accessio fidei tollatur de medio, et ita, in omnibus gentibus predicato e-vangelio, et completa gentium accessione ad fidem, revelabitur ille iniquus»52.

Anche per questa possibilità, tuttavia, il l’autore del Tractatus svi-luppa un’interpretazione che consente di pensare come ormai immi-nenti gli ultimi tempi. La sua argomentazione si poggia sul fatto chel’autore propone di intendere il diffondersi della predicazione in ogniangolo della terra, non l’effettiva conversione Questa interpretazione èfondata anche sull’argomento che, Agostino, nella lettera ad Esichio,parla di una necessità che la Chiesa sia presente presso tutti i popoli,condizione che ai tempi del vescovo di Ippona non si era ancora rea-lizzata, ma che ora lo è.

«Nec sic intelligitur evangelica praedicatio in gentibus compleri, ut omnes ho-mines de gentibus convertantur ad Christum: sed ut praedicationis eius audiantsonitum, et de qualibet gente aliqui convertantur ad Christum. Sicut in haecverba dicit Augustinus in epistola ad Ezichium episcopum de fine saeculi...Hoc dicit Augustinus suis temporibus non adhuc fuisse completum, cum mul-tae barbarae gentes essent quibus non fuerat Christi evangelium praedicatum...Nec modo consimili impletum fuerat temporibus praecedentium patrum: sednostris temporibus prope videtur impletum, quia et sonus evangelicae praedi-cationis in omnem terram exiisse videtur, nec gentes accedunt ad fidem; immoproh dolor, recedunt a fide, loca fidelium occupante infidelitate»53.

A suo giudizio, anzi, mentre l’annuncio ha raggiunto tutti i popoli,molti abbandonano la Chiesa, mentre gli infedeli occupano le terre deifedeli, osservazione ben comprensibile, ponendo mente al fatto chequesti sono gli anni della crisi irreversibile degli Stati latini in Palestina,e che nel 1261 cade l’impero latino di Costantinopoli. L’accessio, nelsenso di predicazione, non di conversione, quindi, si accompagna alladiscessio dalla fede.

La finalizzazione fortemente polemica dell’opera si conferma pocherighe più avanti, quando l’autore del De Antichristo, ritenendo di aver

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52 Ivi, col. 1292.53 Ivi, coll. 1292-1293. Il riferimento è a Augustinus, Epistulae, 199, a cura di A. Goldbacher,

Tempsky, Freytag, Vindobonae - Lipsiae 1911 (CSEL 57), pp. 284-286.

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dimostrato l’incombere della fine, pronuncia un forte attacco controcoloro che invece annunciano un’età di pace. Per quanto questa accusariecheggi 1Ts 5,2-354, il bersaglio esplicito è qui costituito dall’AbbasIoachim, alle cui Concordiae vengono attribuite le dottrine di una età dipace55 che seguirebbe al tempo presente e dell’avvento di predicatoribuoni portatori di questo annuncio; è difficile trascurare la possibilità diun riferimento, seppur indiretto, al pax et bonum francescano56. Al con-trario, questa falsità sarebbe essa stessa il segno dell’approssimarsi dellafine, ed i nuovi predicatori null’altro sarebbero che lupi in veste diagnelli, che tentano di sovvertire la vera fede. Qui emergono in tuttachiarezza gli elementi-cardine dell’attacco contro gli Ordini mendican-ti, che si farebbero scudo della false profezie di Gioacchino per giustifi-care il sovvertimento dell’Ordine ecclesiale voluto da Cristo. Rafforzatodal fatto che proprio un frate mendicante (in verità il lector francescanoGerardo da Borgo San Donnino57) si era fatto corifeo di una presenta-zione delle opere di Gioacchino come compimento della rivelazione, ilcerchio della requisitoria del Tractatus si può chiudere.

«...quidam in tantam audaciam sunt prolapsi, ut sanctae ecclesiae, cui in hocsaeculo non nisi persecutiones restant, tempora pacifica cum adventu Spiritussancti promittant, e de medio quorum montium nobis prophetent tertium exitu-rum testamentum... sicut abbas Joachim in libris quos scripsit de concordia...»58.

Il nesso è tanto stretto che, in uno degli scritti polemici di questitempi, Tommaso si sentirà costretto a ricordare che la dottrina dell’a-

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54 Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem, Ad Thess I, 5, 3, p. 1828, «Ipsi enim diligenterscitis quia dies Domini, sicut fur in nocte, ita veniet. Cum enim dixerint pax, et securitas: tuncrepentinus eis superveniet interitus...».

55 Tractatus de Antichristo, ed. cit., col. 1273: «Quoniam quidam in tantam audaciam suntprolapsi, ut sanctae ecclesiae, cui in hoc saeculo non nisi persecutiones restant, tempora pacificacum adventu Spiritus Sancti promittant... sicut abbas Joachim in libris quos scripsit de concordia...Alii vero praemissis faventes, pariterque concordantes... in fine ecclesiae nobis promittunt adven-tum praedicatorum bonorum, cum tamen ipsa in evangelio veritas ecclesiae praemunierit deadventu pseudochristi et pseudoprophetarum...».

56 Ivi, col. 1293: «Ex dictis igitur et operibus suis convincantur hoc signum <finis> mundiprocul dubio vel impletum, vel saltem in proximo fore implendum. Idcirco pacem nobis praedi-care erubescant, contra id quod arguunt vel dogmatizant».

57 Per una recente messa a punto: J. Miethke, Zukunftshoffnung, Zukunftserwartung, Zu-kunftsbeschreibung im 12. und 13, Jahrhundert. Der Dritte Status des Joachim von Fiore imKontext, in Ende und Vollendung, cit., pp. 504-524.

58 Tractatus de Antichristo, ed. cit., col. 1273.

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bate Gioacchino presenta sì alcuni aspetti erronei, ma non è identifica-bile con l’errore dell’Anticristo59.

Fine dell’Impero, completamento dell’annunzio del Vangelo, appa-rizione di religiosi che non solo conducono una vita che si discostadalla tradizione, ma pure le rivendicano il sommo grado di perfezionecristiana, decadenza della capacità dei prelati di vegliare sui propri sud-diti fedeli: questo è sufficiente, per l’autore del De Antichristo, per rav-visare i segni di una fine prossima ed accusare di ipocrita irenismo chiinvece proponeva di vedere in questi mutamenti un sintomo di rinno-vamento.

Leggere certe vicende del proprio tempo attraverso la lente dellaspeculazione escatologica significa anche che, mentre si può formula-re contro i propri avversari l’accusa più grave, si inscrivono gli avveni-menti di cui si è protagonisti in una sequenza ineluttabile, i cui nodisono stati già fissati nella rivelazione e rispetto ai quali non si ha che dariconoscere in che modo quanto viene preconizzato in verità descrive lapropria esperienza. Di qui nasce inevitabile la domanda del senso chepuò avere mettere in guardia da ciò che non può mancare di accadere,se non per fare sì che non rimangano ingannati coloro che sono inbuona fede. In effetti, già Guglielmo nel suo De periculis novissimorumtemporum si era posto la domanda, rispondendo che resistendo conconsapevolezza a questi pericoli, i pastori della Chiesa li avrebbero inun qualche modo potuti respingere, facendo in caso di necessità anchericorso all’aiuto del braccio secolare60. In questa affermazione si è vo-luto vedere il carattere retorico e fittizio dell’escatologia di Guglielmo,che in verità sarebbe sì convinto del rischio impersonato dagli Ordini

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59 Thomas de Aquino, Contra Impugnantes Dei cultum et religionem, c. 24, a cura di H.-F.Dondaine, Opera omnia 41 A, Roma 1970, p. 160. Dopo aver ricordato che secondo alcuni (e quiil bersaglio polemico è Guglielmo di Sant’Amore) vedono nel diffondersi della dottrina di unEvangelium aeternum una dottrina dell’Anticristo ed il segno inequivocabile dell’avvicinarsi dellafine, Tommaso obietta che «... doctrinam Ioachim, vel illius Introductorii, quamvis alia reproban-da contineat, esse doctrinam quam praedicabit Antichristus, falsum est». Quale motivazione dellasua affermazione, Tommaso cita 2Ts 2,4, dove si dice che il figlio della perdizione si proclameràDio: questo non accade, invece, negli scritti di Gioacchino e dei suoi interpreti.

60 Guilelmus de Sancto Amore, De periculis novissomorum temporum, in Opera omnia quereperiri potuerunt, ed. Alithiphilus, Constantiae 1632, pp. 17-72, in part. pp. 43-46. Per un com-mento Traver, The Opuscula cit., pp. 46-47.

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mendicanti, ma che userebbe il riferimento agli ultimi tempi solo comeespediente. Si potrebbe però anche vedere in questa risorsa dellaChiesa l’espressione del fatto che, agli occhi di Guglielmo e dei suoiseguaci, l’autentico baluardo contro lo scatenamento dell’Anticristo èl’ordine ecclesiastico tradizionale, incentrato sui vescovi e sui sacerdo-ti curati, in cui i religiosi svolgono un ruolo solo marginale e comun-que non decisivo nella pastorale. Solo il mantenimento di quest’ordinecontro le novitates dei Mendicanti consente di allontanare la Fine.

5. Conclusione

Tentando di riassumere, si potrebbe dire che la tradizione esegeticasedimentatasi nella Glossa ordinaria ha raccolto dai Padri, ed in parti-colare da Agostino che la riporta come già diffusa, l’ipotesi interpreta-tiva che identifica la «forza che trattiene» con l’Impero Romano. Senzadubbio, tuttavia, pur nella continuità si avverte un mutamento. Quandol’Impero costituiva una realtà se non ostile, comunque estranea allacomunità dei credenti, quell’indicazione racchiudeva in sé un’inquie-tante ambiguità, perché la stessa realtà, l’Impero, ritardava ma ancheinglobava in sé figure, come Nerone, identificabili con l’Anticristostesso od una sua prefigurazione61. Se ciò che trattiene è l’Impero, allo-ra l’ordine esistente, per quanto lontano dalla verità, ritarda la venutadell’Anticristo, possiede, quasi paradossalmente, un ruolo nell’econo-mia della storia della Salvezza prima del secondo e definitivo Avvento.Non può più essere così, come è evidente, quando l’Impero è percepi-to come cristianizzato e cristiano62. È quindi più che comprensibile iltentativo, da parte di alcuni autori, come Adso, di spiegare che l’ImperoRomano continua anche nell’Impero medievale. Più tardi, la «cristia-

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61 Coglie questa tensione C. Dolcini, Pensiero politico medievale e nichilismo contempora-neo, in «Studi medievali» 38(1997), pp. 397-421, in particolare p. 401, dove si parla della «radi-ce conflittuale» che l’impero medievale portava con sé proprio «nel suo essere identificato con laforza frenante del male». Illuminante il richiamo ad una critica di M. Cacciari, Geo-filosofiadell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 117-118 a Schmitt su questo punto.

62 Si potrebbe tuttavia osservare, che anche in questo caso non viene superata del tutto l’am-biguità, almeno non per tutti gli autori, e si potrebbe far notare come la Chiesa romana divenutaKatéchon possa, ad un certo punto, rivelarsi, almeno in parte, una forza che frena sì, ma ancheimpedisce la manifestazione dei veri credenti. Olivi può essere visto come uno dei più noti esem-pi di tale concezione escatologica: cfr. Burr, Olivi’s Peaceable, cit., pp. 137-178, 198-239.

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nizzazione» assume il segno di un collegamento tra Impero e Chiesa,Chiesa romana, per l’esattezza, che in buona sostanza ne assume la fun-zione. Per quanto talvolta si precisi che questo passaggio dall’Imperoromano alla Chiesa romana implichi uno spostamento da una dimen-sione temporale ad una spirituale, è evidente la percezione di una fortecontinuità. Un notevole mutamento, rispetto ai primi secoli della rifles-sione cristiana, consiste nel fatto che ora ciò che trattiene non è più unaforza esterna alla comunità dei fedeli, ma l’Impero cristianizzato o,addirittura, la Chiesa stessa. L’ordine che «trattiene» l’avvento del-l’Anticristo si identifica con quello edificato sulla comunità dei fedelie suoi suoi princìpi. Non solo l’abbandono della fedeltà all’Impero maanche quello della obedientia alla Chiesa romana, cui viene riferito iltermine discessio del testo paolino, diviene uno dei segni dell’appros-simarsi della fine.

Come si è visto, accanto a questa esegesi «politica», anch’essa stra-tificata nella Glossa ordinaria, se ne fa avanti un’altra, di segno diver-so, che vede nell’annuncio del Vangelo presso tutti i popoli la precon-dizione necessaria per l’avvento dell’Anticristo. In questa prospettiva,se non si vuole banalizzare questa condizione a semplice indicatorecronologico (il che sarebbe in teoria possibile anche per l’esegesi poli-tica), allora la forza che trattiene può essere identificata con la miseri-cordia di Dio stessa, senza che – come invece accadeva nella prima ten-denza ermeneutica – ad una realtà politica, o religioso-politica, sia affi-data una funzione decisiva nell’economia della Salvezza.

Pur attingendo ad una comune tradizione esegetica, Tommaso el’autore del Tractatus de Antichristo assumono atteggiamenti assaidiversi. Il primo, in buona sostanza, lascia aperte più possibilità, nonritenendo necessario tentare una lettura univoca del presente sulla basedegli elementi forniti da quello che potremmo chiamare lo scenarioescatologico, manifestando anzi una certa distanza, se non diffidenza,in questa ed in altre opere, rispetto a questo tipo di esegesi.

Di segno molto diverso, l’impostazione «militante» del Tractatusde Antichristo, che mira a dimostrare che entrambe le tendenze esege-tiche possono esser fatte convergere verso la sua epoca. Da una parte,coglie la possibilità dell’identificazione con l’Impero Romano, appli-candola all’Impero medievale degli imperatori tedeschi, facendo della

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condanna dell’ultimo grande Svevo il segno della conclusione della suaparabola storica. Dall’altra, vede nelle difficoltà dello sforzo missiona-rio – tra le righe si coglie l’impenetrabilità del mondo islamico alla pre-dicazione cristiana – il segno del consumarsi dell’accessio ad fidem,interpretata non come conversione totale alla fede, ma, in modo mini-malista, come possibilità di essere raggiunti dall’annuncio evangelico.Nel Tractatus, quindi, entrambe le linee interpretative vengono fatteconvergere nel leggere le crisi interne ed esterne della Christianitascome sintomo dell’approssimarsi della fine. Come è noto, il Tractatus,come molti testi coevi del clero secolare, applica anche altri brani scrit-turistici a valenza escatologica, conferendo loro una forte “curvatura”antimendicante, ad un presente interpretato come gravissima crisi del-l’ordine ecclesiastico rivelato. Se non si può negare che un elemento disostanziale ambiguità sia implicito nello smascherare in alcuni eventidel presente i segni della profetizzata Fine dei Tempi, e nello stessotempo chiedersi come questa imminenza possa essere ulteriormenteritardata, rimane coerente con l’ispirazione escatologica di fondo delTractatus: la persuasione che solo la Chiesa, reagendo alle pericolosenovitates che stanno emergendo, può ancora ritardare l’avvento del-l’Anticristo. In un’epoca in cui molta riflessione escatologica è anima-ta dall’attesa di un’età nuova, e quindi, pur con le sue componenti tra-giche, la Fine dei Tempi assume anche il valore di liberazione da unasituazione che si percepisce come soffocante, il Tractatus de Antichri-sto propone invece una visione per la quale gli ultimi tempi sono lacatastrofe finale, la sovversione dell’ordine voluto da Dio. In questaprospettiva, se c’è qualcosa che può ritardare il corso degli eventi chepare oramai avviato verso la conflagrazione definitiva, sono le autoritàtradizionali che devono garantire quest’ordine. Se un Katéchon esiste,per l’autore del Tractatus esso coincide con la Christianitas.

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LAURA RONCHI DE MICHELIS

IL KATÉCHON E L’ANTICRISTO IN MARTIN LUTERO

Il passo di 2Ts (2,3-8) in cui l’Autore della lettera introduce ilmisterioso personaggio del Katéchon, intorno al quale ruota la sua con-futazione delle opinioni correnti sulla imminenza del giorno del Si-gnore, costituisce un grosso problema per gli esegeti moderni. Presen-tato prima come un qualcosa, poi come un qualcuno, esso svolge unafunzione importante, quella di ritardare la venuta dell’avversario di Dioche, esatto opposto del Cristo, sedurrà i credenti e vorrà sostituirsi aDio. Il tempo del dominio di quest’ultimo sarà durissimo, devastante,ma inserito in un percorso pieno di speranza, confortato dalla certezzache si concluderà secondo la promessa divina: «il Signore lo distrug-gerà con il soffio della Sua bocca, e lo annienterà con la apparizionedella Sua venuta» (v. 8).

Senza affrontare il problema delle molteplici interpretazioni avan-zate per spiegare le diverse fasi dello scenario apocalittico delineatodall’autore deuteropaolino (esaminato in questa sede da altri con benmaggiore competenza), quello che qui ci interessa è che la esegesi diLutero del brano di 2Ts non si pone particolari problemi interpretativie si limita a fare propria quella tradizionale dei Padri che vedono nelKatéchon, nella potenza che trattiene le forze del male ritardando ilmomento in cui riusciranno a impossessarsi del mondo, la funzionesvolta dal potere della Roma imperiale.

In questi termini la espone, con efficace concisione, nella prefazio-ne all’epistola contenuta nella versione tedesca del 1522 del Nuovo Te-stamento:

«Nella prima lettera S. Paolo aveva chiarito ai Tessalonicesi una questioneriguardo all’ultimo giorno che giungerà rapido come un ladro nella notte. Co-me suole avvenire, sempre una domanda ne genera un’altra, e così i Tes-salonicesi avevano erroneamente capito che l’ultimo giorno fosse imminente.perciò egli scrive questa epistola e si spiega meglio.Nel primo capitolo li consola con la ricompensa eterna della loro fede e pa-

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zienza in ogni sofferenza, e con la punizione dei loro persecutori in una penaeterna.Nel secondo insegna che prima dell’ultimo giorno deve cadere l’imperoRomano e sorgere nella cristianità l’Anticristo come Dio, seducendo con falsedottrine e segni il mondo incredulo, finché non giunga Cristo e lo annienti conla sua gloriosa venuta, uccidendolo con una predicazione spirituale.Nel terzo fa alcune esortazioni, in particolare a punire gli oziosi, che non sisostentano con le proprie mani, e, se non si correggono, a evitarli; tutto ciòsuona duramente contro l’attuale ceto ecclesiastico»1.

Una prefazione che Lutero riprende anche successivamente neicommenti e nelle introduzioni ai testi sacri, che non si stanca di rivede-re, riscrivere, ampliare, preoccupato di renderli sempre più funzionali ainstaurare quel rapporto diretto tra il lettore e la Parola a cui egli tende.

Nella convinzione che la azione di differimento svolta dal Katé-chon si sia esaurita, sia ormai alle spalle della chiesa del suo tempo, l’e-segeta non vi si sofferma e si preoccupa di concentrare tutta la propriaattenzione sulla fase successiva, dalla durata non definita ma nellaquale sa che il suo presente è immerso, la fase dell’apostasia che vedeall’opera tra i credenti quel tiranno persecutore che rinnega Dio, Gli sirivolta contro con la ferma volontà di sostituirsi a Lui e imporsi comeDio al Suo posto: il falso Messia, insomma, l’Anticristo. Lutero si im-pegna a individuare i segni di questa fase e renderne attenti i suoi con-temporanei perché utilizzino il tempo loro rimasto per il pentimento ela conversione vanificando i piani di dominio de «l’uomo del peccato,il figlio della perdizione, l’avversario» (2Ts 2,2)2.

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1 M. Lutero, Prefazioni alla Bibbia (tr. it. a cura di M. Vannini), Marietti, Genova 1987, p.168; per i testi di Lutero ci riferiremo alla edizione critica Weimarer Ausgabe (WA).

2 Su questo è interessante leggere anche quel che, pochi anni più tardi, Lutero scrive nellaPrefazione al profeta Daniele. Commentando il sogno della statua di ferro con i piedi di argilla delcap. 2 scrive: «Questo è già tutto detto nel fatto che noi sappiamo che l’impero romano deve esse-re l’ultimo, e nessuno lo può distruggere, ad esclusione di Cristo con il suo regno. Dunque, anchese molti re si pongono contro l’impero germanico, e anche se il Turco infuria, tuttavia non posso-no sopraffare o distruggere questa radice e pianta di ferro. Essa deve permanere fino all’ultimogiorno, per quanto debole sia, perché Daniele non mente, come anche l’esperienza ha finora dimo-strato, con i papi stessi e con i re». (Ivi, pp. 60-61). Desidererei segnalare qui anche il saggio diMario Miegge (Il sogno del re di Babilonia. Profezia e storia da Thomas Müntzer a Isaac Newton,Feltrinelli, Milano 1995) che affronta il tema da un punto di vista particolare e si concentra sul-l’uso fatto nel lungo periodo del testo di Daniele 2,19-45.

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Egli approfondisce la riflessione sul tema, in termini che sarannopoi definitivi, nei primi anni della sua attività di riforma, e la affida alloscritto con cui dichiara di voler proseguire e concludere il discorso ini-ziato nel De captivitate babylonica ecclesiae. Praeludium3, nella formadi risposta alla confutazione delle sue affermazioni pubblicata dal do-menicano senese Ambrogio Catarino4: la Ad librum eximii magistri no-stri magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieriatis acer-rimi, Responsio5. Lutero scrive la Responsio al Catarino alla vigilia diun evento che segna in maniera profonda la sua esistenza – la dieta diWorms – con indosso la tonaca del suo ordine; ne riceve le prime copiea stampa nel rifugio della Wartburg, nei panni di un cavaliere, intentoalla traduzione del Nuovo Testamento. Tra il monaco e il cavaliere ladifferenza è però solo esteriore: il mutamento d’abito rende bene ladiversità di vita e di ruolo che lo attendono; ma come ha acutamentevisto Giovanni Miegge, in quell’ultimo scritto prima di Worms giungea conclusione un percorso già visibile nelle 97 tesi contro la teologiascolastica del settembre del 15176, un percorso segnato e accompagna-

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3 Concludendo quello scritto che, in vista della attesa scomunica definitiva (la bolla DecetRomanum Pontificem è datata 3 gennaio 1521) proponeva come «parte della mia futura ritratta-zione», Lutero promette: «La parte restante la pubblicherò ben presto, con il favore di Cristo, talequale fino ad ora la sede romana non ha visto né udito: darà ampia testimonianza della mia obbe-dienza» (La cattività babilonese della chiesa [1520], a cura di F. Ferrario e G. Quartino, in M.Lutero, Opere scelte, 12, Claudiana, Torino 2005, p. 349).

4 A. Catarino, Apologia pro veritate catholice et apostolice fidei ac doctrine. Adversus impiaac valde pestifera Martini Lutheri Dogmata (Florentiae, 1520). Nato a Siena e docente di filoso-fia e retorica nello Studio della sua città, Lancellotto de’ Politi (1484-1553) aveva preso i voti, eil nome di Ambrogio Catarino, quasi trentenne nel convento di S. Marco a Firenze; come ricordaegli stesso, si era dedicato alla confutazione degli scritti luterani per un preciso ordine dei supe-riori: «Primum fetum emisi adhuc novitius miles in ordine contra Lutheri haereses [...] praepositimei praecepto et in meritum obedientiae» (A. Catarino, Expurgatio adversum apologiam F. Domi-nici Soto, Venetiae 1547; cit. in WA 7, 698, n. 2). Dedicata all’ imperatore Carlo V, la Apologia siarticola in cinque libri; nell’ultimo il Catarino offre uno «speculum universe eius doctrine.Colligunt hereses et errores absoni: quos tam contra veritatem quam contra seipsum alioquin effu-dit. Ipse lector numeret si sit ocium» (cc. 87r); dell’opera esiste anche una edizione moderna cura-ta da Joseph Schweizer nel Corpus Catholicorum, 27, Aschendorffsche-Verlags Buchhandlung,Münster 1956.

5 La Responsio è in WA, 7, pp. 705-778; per le citazioni useremo la versione italiana editacon il titolo: L’Anticristo. Replica ad Ambrogio Catarino (1521), a cura di L. Ronchi De Michelis,in M. Lutero, Opere scelte, 3, Claudiana, Torino 1989.

6 Cfr. G. Miegge, Lutero giovane, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 162 ss.; il saggio di Miegge(I ed. Torre Pellice 1946) è stato riedito recentemente. con il titolo Lutero. L’uomo e il pensierofino alla Dieta di Worms (1483-1521), Claudiana, Torino 2003. Giovanni Miegge è stato il primo

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to dalla scoperta della Scrittura, che permette a Lutero di porre diretta-mente, all’inizio della discussione, la sua conclusione:

«Sei arrivato tardi, Catarino mio, come si suol dire: non ci domandiamo più sec’è il papa. La domanda: “C’è?” e la prima fase del ragionamento è conclusaormai da tempo. Siamo arrivati alla seconda domanda: “Cosa è?” ed alla se-conda fase del ragionamento, e abbiamo concluso che il papa è l’Anticristo.Resta solo la terza fase, la dimostrazione (sempre che tu abbia studiato non so-lo Tommaso ma anche Egidio). E speriamo di concluderla in giornata»7.

La sicurezza con cui Lutero afferma che il papa è l’Anticristo nonha nulla né di meramente polemico né di improvvisato, come la com-plessità del successivo argomentare mostra con chiarezza; non è nep-pure la piccata risposta di un accademico al collega che lo critica, mala serrata esposizione di una convinzione ormai raggiunta e dimostra-bile sulla base di fatti certi posti a confronto con la Scrittura. La cor-rispondenza e gli scritti di quegli anni mostrano come diversi fattoriabbiano concorso a formarla e farla maturare tra mille dubbi e per-plessità. La scoperta della Scrittura, innanzitutto, e poi lo studio appro-fondito del Diritto canonico a cui le contestazioni mossegli sin dal1518 dal Prierias8 lo avevano costretto; elementi che si innestano, si-gnificativamente, su un altro da non sottovalutare: la prospettiva esca-tologica che fa da sfondo alle sue riflessioni e che innerva convinzio-ni e sentimenti condivisi da gran parte dei contemporanei che, sene-scente mundo9, ritenevano il giorno del giudizio ormai alle porte. Alsentimento di preoccupazione e paura, a cui pochi sfuggivano consi-

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studioso a rimuovere l’interdizione che aveva colpito questo scritto sentito come eccessivamentepolemico e sottolinearne l’importanza nello sviluppo del pensiero di Lutero (cfr. in Lutero giova-ne, cit., cap. XVII, Il mistero dell’iniquità, pp. 417-442).

7 M. Lutero, L’Anticristo, cit., pp. 48-49.8 Silvestro Mazzolini, detto Prierias (1456-1523), illustre teologo piemontese e Magister

sacri palatii apostolici (1515), nel giugno di quell’anno aveva risposto alle 95 tesi di Lutero conuna ponderosa replica (Reverendi Patris Silvestri prieritatis ordinis predicatorum [...] in pre-sumptuosas Martini Luther conclusiones de potestate papae dialogus) in cui eludeva il problemadella penitenza e poneva come centrale quello del potere del papa, della natura della chiesa, dellainfallibilità del papa e della chiesa. Alla replica di Lutero, Responsio Lutheri ad Silvestri prieria-tis dialogum (Lipsia, agosto 1518) erano seguiti altri tre scritti del Prierias.

9 L’espressione è contenuta nell’articolo XXIII della Confessione di Augusta del 1530: «E poi-ché, avvicinandosi il mondo alla sua fine, la natura umana diventa a poco a poco più debole, con-viene vegliare perché non serpeggi in Germania un maggior numero di peccati». (La ConfessioneAugustana del 1530, versione di M.R. Serafini, Claudiana, Torino 1980, pp. 143-144).

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derando i troppi eventi che facevano apparire come estremamente ec-cezionali i tempi che si stavano vivendo, gli uomini della Riforma cer-cano di rispondere leggendoli alla luce dei testi biblici profetici, nellacertezza che si dovessero estendere e applicare anche agli avvenimen-ti della storia contemporanea10.

Lutero non sfugge a queste convinzioni, e cerca anche nella sua vi-cenda personale i segni del progetto più ampio di cui si sente parte co-me credente, fino ad essere sfiorato dal dubbio di essere trascinato adarne testimonianza da una volontà superiore; ed è significativo, cisembra, che l’11 dicembre del 1520, il giorno dopo il rogo dei libri diDiritto canonico su cui aveva gettato anche la bolla Exsurge Domine, sirivolga ai suoi studenti in tedesco, invece che in latino, esortandoli «aprendere posizione nella lotta iniziata contro l’Anticristo, prospettandoloro come sola alternativa il martirio o la perdita dell’anima»11.

Nella fase iniziale questo elemento non è ancora presente, e, all’in-terno di un quadro dottrinale e pastorale che ha come punto di riferi-mento solido la Chiesa cui appartiene, le sue osservazioni si limitano adiscutere l’estensione dei poteri del papa, nel pieno riconoscimentodella sua funzione e autorità per i fedeli (pensiamo alle 95 Tesi al perio-do immediatamente successivo12); solo più tardi, dopo i colloqui diAugusta (ottobre 1518) in Lutero si radica la convinzione che la Scrit-tura sia la norma superiore a cui papi e concili sono egualmente sotto-posti, e che dunque solo il fondamento scritturale possa rendere valida

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10 I riformatori prestavano molta attenzione ai segni e ai presagi di eventi straordinari e ano-mali annunciati o descritti nelle numerose «profezie» diffuse tra ’400 e ’500; Lutero stesso scris-se la prefazione per la ristampa di una delle opere più famose del genere, la Pronosticatio di J.Lichtenberger (1488). Per questo aspetto cfr. i saggi classici di C. Vasoli, I miti e gli astri, (Napoli,1977) e J. Delumeau, La paura in occidente nei secc. XIV-XVIII, (tr. it., SEI, Torino 1979) e il piùrecente J. Halbronn, Astrologie et prophétie. Merveilles sans images, (ed. Bibliothèque Nationale,Paris 1994).

11 G. Miegge, Lutero giovane, cit., pp. 419-420.12 Si vedano le tesi 5-7, che ricordano come la remissione papale potesse applicarsi esclusi-

vamente alle pene canoniche; o le tesi 25-26, che negano ogni possibilità di intervento sull’aldilà;o le tesi 58-68, in cui si avanzano numerosi dubbi sulla dottrina di quel tesoro dei meriti di cui ilpapa si poneva come unico legittimo dispensatore; tutti temi più ampiamente discussi nelleResolutiones disputationum de indulgentiarum virtute, del maggio 1518, dedicate a Leone X eaffidate con umiltà al suo giudizio: «Beatissimo Padre, mi offro prostrato ai piedi della tuaBeatitudine con tutto ciò che sono e che ho. Dà la vita, dà la morte, di’ sì, di’ no, approva, ripro-va, come ti piacerà: riconoscerò nella tua voce la voce di Cristo, che in te governa e parla» (WA1, 529, 23-25).

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l’autorità degli uni e degli altri. Nel novembre, difendendosi dall’accu-sa di ostinazione rivoltagli dal Caietano che chiedeva a Federico ilSaggio di farlo giudicare a Roma, avanza al suo principe il sospetto diuna prevaricazione – nella chiesa – del Diritto canonico sulla Scrit-tura13; ma all’amico Venceslao Link confida più apertamente:

«Ti metto a parte delle mie fantasie perché tu veda se ho ragione a presagireche l’Anticristo, quello vero e minacciato da Paolo, domina nella curia diRoma; oggi come oggi penso di poter dimostrare che Roma è peggiore deiTurchi»14.

Le «fantasie» acquistano concretezza nei mesi di preparazione alladisputa di Lipsia, e l’incrocio tra l’esegesi dei passi su cui si voleva fon-dato il primato del papa (Mt 16,18 e Gv 21,15-18) e lo studio della sto-ria della chiesa e delle basi giuridiche che lo avrebbero convalidato loconvincono che si tratti di una istituzione di diritto umano, non divino15;ma lo spingono anche a superare, scrivendone al suo superiore, la distin-zione, che abbiamo visto prima, tra la curia romana e il pontefice:

«Studio i decreti dei pontefici per la prima disputa e te lo dico in un orecchio,non so se il papa sia l’Anticristo o il suo apostolo, tanto miseramente Cristo ècrocifisso nei suoi decreti»16.

Nei fatti la certezza appare raggiunta, e lo scritto contro Alfeld delgiugno 1520 ne specifica meglio tutti gli aspetti, riconoscendo il papacome «prete esteriore», la cui funzione appartiene alla esteriorità dellachiesa, alla sua forma storica e istituzionale, e la cui autorità, costituitacome tutte le altre da Dio, non è diversa da quelle degli altri prìncipi.

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13 «Nel diritto canonico vi sono molte cose di tale tenore che, se posso parlare con fran-chezza, certo lasciano nell’ombra la Sacra Scrittura, se pure non la corrompono» (WA Br. 1, 239.133-134).

14 WA Br. 1, 270, 11-14; la lettera è in data 18 dicembre 1518. 15 Cfr. Resolutio lutheriana XIII de potestate papae, WA, 2, 180-240, esaurientemente rias-

sunta in P. Ricca, Lutero e il papa: la Chiesa, in AA.VV., Lutero nel suo e nel nostro tempo. Studie conferenze per il 5° centenario della nascita di Lutero, Claudiana, Torino 1983, pp. 187-190. Èinteressante anche il breve scritto di pochi giorni dopo, Quare Pontificis Romani et discipulorumeius libri a D. Martino Luthero combusti sunt (WA 7, 161-182), in cui, pur suggerendo che LeoneX potesse essere all’oscuro di ciò che contiene, enumera gli errori del Diritto canonico da con-dannare, perché suo unico scopo è fare del papa Dio in terra.

16 WA Br. 1, 359, 29-31; lettera allo Spalatino in data 13 marzo 1519.

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Altro è lo spazio della fede, che spetta solo a Cristo, «prete interiore»;ed è nella sua pretesa di occupare quello spazio, di voler essere anche«prete interiore» che il papa si palesa come Anticristo17.

Per arrivare alla conclusione formulata con tanta sicurezza nellareplica a Catarino Lutero lavora dunque, tra il ’18 e il ’21, muovendo-si contemporaneamente su diversi piani (esegetico, teologico, storico,escatologico) che, come osserva Paolo Ricca,

«si integrano l’uno nell’altro e formano insieme una sintesi originale e sugge-stiva. Il fatto singolare è che il giudizio escatologico (“l’Anticristo”) non eso-nera da un lavoro puntuale e documentato di esegesi biblica e di indagine sto-rica, e inversamente la critica biblica e la critica storica, per quanto decisive,non soppiantano il giudizio escatologico I due livelli non rappresentano dun-que due diverse concezioni del papato in tensione tra di loro e tendenti ad eli-dersi a vicenda; al contrario sono due facce della stessa medaglia, due momen-ti della verifica divina cui il papato, come tutta la Chiesa, è sottoposto»18.

In effetti, nella Responsio a Catarino Lutero analizza il papato pez-zo per pezzo e il suo rifiuto di quello in quanto regno dell’Anticristo èconseguentemente fondato sia sul piano biblico-esegetico che su quellostorico-teologico; non è un pregiudizio ma un giudizio, totalmente nega-tivo, risultato di un ragionamento ricco di argomenti e dimostrazioni, diriferimenti storici e motivazioni di ordine teologico e, va sottolineato,estremamente originale e innovativo rispetto alla ricca tradizione sul-l’Anticristo che aveva alle spalle. Proprio perché in esse viene portata aconclusione la riflessione dottrinale e teologica iniziata dopo Augusta edopo Lipsia, nelle pagine di Lutero non vi è traccia della colorita mito-logia che nei secoli aveva costruito intorno a quella figura escatologicauna fascinosa biografia, e neppure dei giudizi di carattere essenzialmen-te etico che avevano condotto gli autori precedenti a identificare la figu-ra dell’Avversario in personaggi storici diversi di volta in volta19.

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17 Cfr. Von dem Papsttum zu Rom wider den hochberühmten Romanisten zu Leipzig, WA 6,285-324. Sul percorso qui concisamente riassunto cfr. anche M. Lutero, L’Anticristo, cit., Intro-duzione, pp. 7-16.

18 P. Ricca, Lutero e il papa, cit., p. 180.19 La ricerca più ricca sulla genesi del mito è ancora quella di W. Bousset, Der Antichrist,

Göttingen 1895 (ed. inglese: The Antichrist Legend, London 1896); fondamentale è il saggio di H.Preuss, Die Vorstellungen vom Antichrist im späteren Mittelalter, bei Luther und in der Konfessio-nellen Polemik, Hinrichs, Leipzig 1906; una utile sistemazione moderna della tradizione me-

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La parte iniziale dello scritto affronta il problema del primato delpontefice e del potere delle chiavi, cui il Catarino aveva dedicato lo spa-zio maggiore nella sua Apologia; partendo dall’esegesi di Mt 16,18,Lutero intende dimostrare che la chiesa di Roma è stata sopraffatta dalmale e dal peccato per riaffermare che l’unica pietra su cui fondarsi èil Cristo e l’unica chiesa universale è «la Sua santa chiesa spirituale»20.Giunto a questo punto il discorso già noto nelle sue linee essenziali, co-me abbiamo visto, si apre su una prospettiva completamente nuova, enel momento in cui ribadisce che nella chiesa del papa non vi è più po-sto per Cristo e l’Evangelo, afferma e difende la legittimità della suaesistenza proprio su base scritturale:

«io non nego la chiesa dei papisti e neppure il suo potere, giacché nellaScrittura (soprattutto nel Nuovo Testamento ma anche nell’Antico) di null’al-tro, salvo che di Cristo, abbiamo una testimonianza altrettanto ampia»21.

Si tratta però della chiesa dell’Anticristo, non della Chiesa di Cristo.La fondatezza di tale assunto viene dimostrata dalla accurata ese-

gesi del passo di Daniele (8,23-25)22 tradizionalmente inteso come rife-rito alla figura dell’Anticristo, e si dipana in un continuo riferimento aipassi neotestamentari che prevedono la presenza e l’azione, tra i cre-denti, di falsi profeti (Matteo 24, I Giovanni, II Pietro, Giuda e, natu-ralmente, II Tessalonicesi), traendo forza proprio da questo compene-trarsi tra Antico e Nuovo Testamento, «poiché il Nuovo Testamento nonè nient’altro che una nuova spiegazione e rivelazione dell’Antico»23,con la voluta e dichiarata esclusione di qualsiasi altro tipo di testo per-

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dievale in R.K. Emmerson, Antichrist in the Middle Ages. A study of Medieval Apocalypticism,Art, and Literature, University of Washington Press, Seattle 1981.

20 M. Lutero, L’Anticristo, cit., p. 51.21 Ivi, p. 69.22 «E dopo il regno di quelli, avendoli resi ciechi le trasgressioni, sorgerà un re potente nelle

apparenze e che ben conosce gli inganni, e la sua potenza sarà rinvigorita e nella sua potenza man-derà in rovine cose prodigiose e sarà reso prospero, e manderà in rovina le cose forti e il popolodei santi, e sarà come vorrà. E l’inganno prospererà nella sua mano: E nel suo cuore sarà inorgo-glito e nel suo successo corromperà molti. E si ergerà contro il Principe dei principi e senza operadi mano sarà distrutto»; l’esegesi luterana è più ampiamente analizzata in M. Lutero, L’Anticristo,cit., Introduzione, pp. 17-26.

23 Weihnachtspostille, WA 10, 1, 625; cit. in B. Corsani, Lutero e la Bibbia, in AA.VV., Lu-tero nel suo e nel nostro tempo, cit., p. 157.

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ché l’unico che contenga risposte certe e veritiere sulla chiesa, sullafede, sulle promesse divine è la Scrittura.

Riconducendo la azione distruttrice di questo re, detentore di unpotere politico tanto forte da riuscire a prevaricare su tutti gli altri, al-l’interno del «popolo dei santi», Lutero esclude che il passo di Danielesia riferibile all’Impero turco e spiana la via alla identificazione del re-gno dell’Anticristo con la «Babilonia romana», che corrisponde in tuttoa quanto «predissero Daniele, Cristo, Pietro, Paolo, Giuda e Giovanninell’Apocalisse»24. Anche i mezzi con cui persegue il proprio fine, leapparenze e gli inganni, sostengono tale identificazione perché perfet-tamente adatti all’opera dell’Anticristo, che si prefigge di imporre lapropria falsa verità scalzando lentamente ma progressivamente la veri-tà di Cristo, e trovano precisi riscontri nella realtà della chiesa di Roma.

Le «apparenze» sono, per Lutero, tutte le pratiche che la chiesa diRoma impone ai fedeli e che non hanno alcun riferimento nelle Scrit-ture; il primato che rivendica; le cerimonie e lo sfarzo utili ad abba-gliare le anime semplici; la separazione tra laici e chierici e la diversi-ficazione degli obblighi e delle regole di vita; insomma, tutto ciò cheinvece di liberare nei credenti la forza dello Spirito li lega alla loro car-nalità, pretendendo pietà e devozioni che si possono toccare, mostraree quantificare ma che esauriscono nella esteriorità ogni loro funzione.Lutero ne elenca dodici, a mo’ di esempio, ricordando per ultima quel-la che ritiene la più importante: le università25.

Nel suo discorso la gestione del sapere che esse rappresentano rive-ste un ruolo fondamentale; le università costituiscono lo snodo decisi-vo, il punto di raccordo tra le «apparenze» e gli «inganni»; anzi, sonola vera scuola degli inganni, sono il luogo dove la parola di Dio è sof-focata dalle glosse, affiancata e sopraffatta dal diritto canonico e gli in-ganni vengono autorevolmente elaborati, rifiniti e diffusi da teologi ecanonisti. Il giudizio sul loro operato è durissimo:

«Se, per una qualche grazia divina, le università facessero propria la parola diDio, Dio buono, quanto rapidamente perirebbe il papato con tutte le sue appa-

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24 M. Lutero, L’Anticristo, cit., p. 73.25 Ivi, pp. 87-94.

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renze! Giacché questa apparenza è il vero sostegno, le ossa, l’unica forza delregno delle apparenze»26.

Gli «inganni» toccano infatti l’interiorità dei credenti, non la este-riorità; si prefiggono di falsificare il messaggio di Cristo, sostituendoviprescrizioni e leggi a esso estranee, per imporre alle coscienze comecristiana una dottrina che cristiana non è. In ciò consiste l’opera piùpropria del papa-Anticristo, che le apparenze preparano predisponendoall’obbedienza gli animi, al cui interno si insinuano poi gli inganni,convincendo i credenti e inducendoli a compiere scelte che li allonta-nano sempre più dalla salvezza. Tramite i molteplici «inganni» il papa-Anticristo uccide i credenti nello spirito perché fa peccare irrimediabil-mente chi vi si conforma – pur se controvoglia –, ma anche quanti, purtrascurandoli, sono convinti che per salvarsi dovrebbero attenervisi.

La preoccupazione esclusivamente dottrinale di Lutero emerge conforza da queste pagine, centrali nell’economia del testo, in cui dominal’ansia di restituire alla parola di Dio il posto che deve occupare nellachiesa e nell’animo dei credenti. Per questo non accusa il singolo papadi dissolutezze, di sperperi, di avarizia e quant’altro attingendo al certopiù attraente materiale cronachistico e leggendario, ma imputa al papa,non come singolo ma come istituzione, come persona, di proclamarsi«maestro della chiesa», di insegnare «le sue dottrine al posto dellaparola di Cristo», di stabilire «la giustificazione del papa al posto dellagiustificazione della fede», di porsi «sopra la parola di Dio predicata[...] perché chiama e predica se stesso nel cuore dei fedeli invece dichiamare e predicare Dio»27.

Tutto ciò dà la certezza che, grazie alla collaborazione di Satana28,il papa sia realmente l’Anticristo all’opera nella chiesa di Roma; que-sto comporta, insieme al dovere di denunciarlo e non tacere, l’obbligodi rispettarne l’esistenza per la funzione insostituibile che occupa nelprogetto divino: «Occorre che le Scritture si adempiano, che egli signo-reggi su tutti e sia glorificato nella sua opinione sopra ogni cosa del

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26 Ivi, p. 88.27 Ivi, p. 94.28 Lutero esprime tale convinzione più volte nel corso dell’opera (cfr. ivi, ad indicem) e la

renderà visivamente incisiva nello scritto del 1545 che sostanzialmente ripete il contenuto dellaResponsio, nonostante l’aggressività del titolo: Sul papato di Roma istituito dal Diavolo.

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mondo», aspettando fiduciosi «che lo Spirito uccida lo spirito e la Ve-rità sveli la frode»29.

Benché non sia il più citato dei passi biblici, l’ampio e articolatoragionamento di Lutero si svolge tutto nell’ottica proposta dal capitolo2 della seconda epistola ai Tessalonicesi, che ricorre in posizione estre-mamente forte, all’inizio e alla conclusione dell’intero discorso30, e so-stiene l’esegesi di Daniele nei passaggi più delicati.

Gli stessi elementi innovativi rispetto alla tradizione corrente di-scendono, a nostro avviso, dalla lettura dell’epistola orientata dal prin-cipio del sola Scriptura, che pone Lutero in straordinaria sintonia conl’autore deuteropaolino e lo spinge non a cercare di individuare il com-pimento storico di quanto annunciato ma a concentrarsi sul messaggioreligioso che trasmette31. La lettura incrociata degli unici testimoni at-tendibili, dell’Antico e del Nuovo Testamento, di Daniele e di 2 Tessa-lonicesi, trasferisce il discorso su un piano completamente diverso, piùalto, che rende superfluo tutto il bagaglio mitico-leggendario elaboratosino ad allora e lo sbugiarda32.

Terminata la funzione provvidenziale del Katéchon con la cadutadell’impero romano, il millennio è ormai un dato del passato; davantiai credenti, nel futuro, c’è solo la seconda venuta di Gesù Cristo. Il pre-sente in cui essi vivono è il tempo tra la venuta e la morte dell’An-ticristo; un tempo penultimo provvidenziale e positivo perché consente

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29 M. Lutero, L’Anticristo, cit., pp. 140 e 142.30 Cfr. ivi, pp. 69-70 e 141-142.31 Questo aspetto del testo neotestamentario, in particolare, è sottolineato da numerosi esege-

ti moderni; cfr. ad esempio W. Neil, The Epistle of Paul to the Thessalonian, London 1970, pp. 178-179; e C. Masson, Les deux Épitres de saint Paul aux Thessaloniciens, Paris 1965, pp. 105-106.

32 Il tema dell’Anticristo e della sua identificazione continuerà ad attirare la attenzione dipolemisti e teologi, cattolici e protestanti; ma mentre la letteratura protestante affronterà il temasulla linea delle conclusioni luterane ritenendolo, come si esprimeva Lambertus Danaeus «adcoelestis veritatis agnitionem omnino necessario est et ad constituendam ecclesiam perutilis»(Tractatus de Antichristo, Genevae 1576, il cui sottotitolo riassume bene il contenuto: «in quoAntichristiani regni locus, tempus, forma, ministri, fulcimenta, progressio, et tandem exitium etinteritus ex Dei verbi demonstratur, ubi etiam aliquot difficiles antea et oscuri tum Danielis tumapocalypseos loci perspicue iam explicantur. Addimus in calce operis quaedam vetustissimorumEpiscoporum, Monachorum, et aliorum scripta jam pridem adversus Antichristi Romani tyranni-dem edita»), la letteratura cattolica per contestare la «immanis blasphemia novantium», proporrànuovamente il vecchio schema medievale con tutto il suo bagaglio di miti e fantasiose curiosità (siveda, ad esempio, il famoso testo di Tommaso Malvenda, De Antichristo libri XI, Romae 1604).

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loro di riconoscere l’Empio e rifiutarlo, preparandosi nella preghiera algiudizio di Dio che li attende:

«Preghiamo allora che Dio, padre del nostro Signore Gesù Cristo, di tanto intanto ci si manifesti dietro tutte le sue cose meravigliose e ci mostri il giornoche ci ha promesso, il giorno della venuta nella gloria del suo Figliolo, il gior-no in cui questo empio uomo del peccato e figlio della perdizione sarà distrut-to, ed Egli porrà fine alle opere ingannatrici di Satana, da cui, ahimé, tantemigliaia di anime continuamente sono sterminate e trascinate all’inferno soloper salvaguardare la tirannia dell’abominazione e della sede apostolica. Tuttoil popolo dica Amen. Amen!»33.

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33 Ivi, p. 143.

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FAUSTO ARICI

LETTURE TEOLOGICO-POLITICHE DEL KATÉCHON EDELL’ANTICRISTO NELLA TARDA SCOLASTICAIl caso del Gaetano (1468-1534) e quello del Catarino (1484-1553)

Non sono certo esili le difficoltà celate in un esperimento di tema-tizzazione di una questione biblico-teologica che, lungo tutti i secolidella storia del cristianesimo, ha visto – per lo più – smarriti esegeti eteologi. E queste stesse difficoltà sono ancor più significative se l’ana-lisi delle figure dell’Anticristo e del Katéchon vuole precisarsi in unalettura politico-teoretica e, come se non bastasse, avere, anche, l’ambi-zione di circoscriversi ad un segmento peculiare della storia del pen-siero teologico cristiano: la tarda Scolastica, che, tra il XVI e il XVIIsecolo, a cavallo – fra l’altro – della Riforma e del Concilio tridentino,sovente con intenti reattivi si interroga sulle cose di Dio, commentan-do l’Aquinate, secondo categorie non di rado nuove e con un rinfresca-to gusto per la Sacra Scrittura e per la letteratura cristiana antica1.

1. Una comprensione senz’altro tortuosa

In ogni caso, nonostante la sua apparenza rarefatta e vagamentemisterica, questo argomento rimanda sia direttamente che di rimbalzoa una serie di temi che animano non solo il dibattito strettamente teo-logico del tempo, ma soprattutto il confronto confessionale, la disputafra le diverse scuole di pensiero sul potere, le aspettative di un’età diperfezione, in un periodo in cui il conflitto si insinua ovunque a ragio-

1 I rimandi potrebbero essere sconfinati. Per quanto riguarda le questioni teologico-politichemi basta rinviare il lettore a F. Buzzi, Teologia, politica e diritto tra XVI e XVII secolo, Genova-Milano 2005; F. Todescan, Il problema del diritto naturale fra Seconda scolastica e giusnaturali-smo laico secentesco. Una introduzione bibliografica, in F. Arici-F. Todescan (eds.), ‘Iustus Ordo’e ordine della natura. ‘Sacra doctrina’ e saperi politici fra XVI e XVIII secolo (Convegno di studi,Milano 5-6 marzo 2004), Padova 2007, pp. 1-62.

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ne del cedimento di una unità, quella religiosa, che solo qualche decen-nio prima costituiva il punto d’equilibrio di un’esistenza comunqueregolata e ordinata, sebbene talvolta in modo controverso.

Per farsi un’idea della complessità che la trattazione sull’Anticristoraggiunge alle soglie della modernità, basterebbe sfogliare i due tomiche il domenicano spagnolo Tomás Malvenda (1566-1628) scrive nel16042, oppure il prezioso studio di Jean-Robert Armogathe3 che, aigiorni nostri, con perspicacia e destrezza, tratteggia le regolarità di undibattito che una comprensione generica rischierebbe di forzare al sem-plice confronto tra una lettura, per così dire, retorico-polemica che con-tribuisce, comunque, a definire un’identità e una lettura di natura piùschiettamente teoretica, animata dall’intento di scovare il valore delsignificato attribuito a questa figura nei più ampi sistemi teologici.

Certamente, nel primo caso, non si tratta solo di un disinvolto e co-lorito epiteto polemico scagliato contro l’avversario, ma piuttosto vuo-le tratteggiare, anche se in modo episodico, una visione identitaria delvivere cristiano nella sue varie forme, non ultima quella dell’agire poli-tico e del senso dell’autorità. Il secondo tipo di presenza del tema del-l’Anticristo, nel dibattito del tempo, è invece di tratto più squisitamen-te teologico, nella misura in cui riesce ad intrecciare fra loro la visionedell’agire politico, i temi antropologici e le grandi questioni teologichefra cui quella del male, del profetismo, del millenarismo, del compi-mento dei tempi e della provvidenza4. Ed è proprio nel connettersi fraloro di tali questioni che emerge la loro notevole pertinenza politica: lapreveggenza di ciò che può attendere l’uomo e quale possa essere ilruolo della comunità degli uomini nel compiersi dei tempi, in una con-dizione in via che deve essere governata, benché segnata dal male. Sipensi, ad esempio, allo strettissimo rapporto che nella tradizione filo-sofico-teologica corre tra la prudenza, virtù politica per eccellenza, e laprovvidenza: in questa costante e multiforme tradizione il termine pru-dentia risulta essere una sorta di contrazione del termine providentia ed

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2 Tomás Malvenda, De Antichristo libri vndecim F. Thoma Maluenda Setabitano ordinispraedicatorum descriptore, apud Carolum Vulliettum, Romae 1604.

3 J.-R. Armogathe, L’Anticristo nell’età moderna. Esegesi e politica, tr. it., Firenze 2004.4 Si veda l’eccellente introduzione a G.M. Barbuto, Il principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideo-

logie politiche, Napoli 1994, pp. 1-30, nella quale l’autore ricostruisce le multiformi influenze trale visioni, le forme del politico e le grandi questioni teologiche del profetismo e dell’Anticristo.

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è appoggiandosi a questa constatazione morfologica che, ad esempio,già Cicerone scorge come caratteristica essenziale della prudentia lacapacità di vedere in anticipo, di prevedere5. Anche l’Aquinate ripren-de questa vicinanza tra prudentia e providentia facendo esplicito riferi-mento alla prudentia/preveggenza di Cicerone6 e nella Summa, ripren-derà, anche, l’etimologia proposta da sant’Isidoro di Siviglia secondola quale già nel termine prudenza è incluso, in modo indiscutibile, ildato di preveggenza7, una preveggenza che si coniuga con una sapien-za radicata nella memoria.

Questa pertinenza politica si accentua e si colora in modo peculia-re nel momento in cui il cosmo d’antico regime, alle soglie della mo-dernità, risente tangibilmente di uno slittamento dalla pruden-tia/preveggenza – che si vuole concretizzare nell’essere una applicatioad opus di ciò che si riesce a cogliere della Sapienza divina8 – alla pru-denza come laconica tecnica di governo. E il recupero insistito dei temiapocalittici e profetici, di cui la questione dell’Anticristo può essereconsiderata – a ragione – il baricentro, è l’indubitabile indizio e conse-guenza di come questo slittamento sia, fra l’altro, dovuto all’indebolir-si di quel tentativo di rappresentarsi un ordine religioso e politico chesi vuole articolare unitariamente9 verso una prospettiva di per sé esca-

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5 M.T. Ciceronis De Officiis, I, § 15 e 16; per una maggiormente articolata interpretazione siveda P. Pellegrin, «Prudence», in Dictionnaire d’éthique et de philosophie morale, M. Canto-Sperber (ed.), Paris 1997, pp. 1201-1207, specialmente p. 1202.

6 Sancti Thomæ Aquinatis De Ver., q. 5, a. 1, co.: «Sciendum est ergo, quod Tullius provi-dentiam ponit prudentiae partem in II libro veteris rhetoricae, et est pars prudentiae quasi com-pletiva». Si tratta, probabilmente, di un riferimento al secondo libro del De Inventione in cuiCicerone afferma (§ 160): «Prudentia est rerum bonarum et malarum neutrarumque scientia. Par-tes eius: memoria, intellegentia, providentia. Memoria est, per quam animus repetit illa, quae fue-runt; intellegentia, per quam ea perspicit, quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid vide-tur ante quam factum est.Iustitia est habitus animi communi utilitate conservata suam cuique tri-buens dignitatem. Eius initium est ab natura profectum; deinde quaedam in consuetudinem ex uti-litatis ratione venerunt: postea res et ab natura profectas et ab consuetudine probatas legum metuset religio sanxit».

7 Sancti Thomæ Aquinatis IIa IIæ, q. 47, a. 1, co.: «sicut Isidorus dicit, in libro Etymol., pru-dens dicitur quasi porro videns, perspicax enim est, et incertorum videt casus».

8 Questo riferimento all’applicatio ad opus ricorre con una certa insistenza in quella sezio-ne della IIa IIæ in cui l’Aquinate si dedica alla trattazione sulla prudenza: Sancti Thomæ Aquinatis,IIa IIæ, q. 47, a. 2, ad 3um; Ibi., a. 3, co. e ad 3um; ivi, a. 4, co.; ivi, a. 8, co.; ivi, a. 15, co.; ivi, a.16, ad 3um; ivi, q. 49, a. 1, ad 1um; ivi, a. 2, ad 1um; ivi, a. 3, ad 2um. Ma anche in In Ethic., VI,lect. 7, c. 4.

9 Per cogliere il senso profondo di questa prospettiva unitaria è, a mio parere, inevitabile fare

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tologica: pare, quasi, che il ricorso al profetismo apocalittico, al mille-narismo e – in determinati casi – all’abuso dell’astrologia10, sia unainquieta risposta alla percezione di una pluralizzazione, a questo puntoirriducibile, di questa unità confessionale e non solo11. È in questosfondo che, a mio parere, è utile collocare la complessa comprensionedella questione dell’Anticristo; un’interpretazione che – nella prima

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riferimento a come le forme dell’agire politico e le più generiche forme del vivere mantengono laloro pluralità anche nell’aderire ad un unico paradigma; si potrebbe intendere quest’unità comeuna coralità che si nutre di una varietà, incomprimibile in una unità artificiale, una complessità ali-mentata da una diversità che si compone e si ordina, non senza difficoltà, nella persuasione di per-seguire un unico bene comune. Tommaso scriveva, infatti: «Subiungit autem quod melius est quodita disponatur civitas politica, si possibile sit quod iidem semper principentur. Hoc enim dicit essepossibile quando in aliqua civitate inveniuntur aliqui viri multum aliis excellentiores per quosoptimum erit ut semper civitas regatur: sed quando hoc non est possibile eo quod omnes cives feresunt aequales secundum naturalem industriam et virtutem, tunc iustum est quod omnes participentprincipatu, sive principari sit quoddam bonum, sive malum; quia et communibus bonis et com-munibus oneribus iustum est ut aequaliter participent qui sunt aequales in civitate. Iustum igituresset, si esset possibile, quod omnes simul principarentur: sed quia hoc non est possibile, ad huiusiusti imitationem observatur quod illi qui sunt aequales in parte sibiinvicem cedant, tamquam aprincipio sint similes: quia dum quidam eorum principantur, et quidam subiiciuntur, quodammo-do facti sunt dissimiles et diversi per gradum dignitatis. Et ita etiam quaedam diversitas est intereos quod simul principantur, dum diversi in civitate diversos principatus vel officia gerunt. Et sicpatet quod ad civitatem requiritur principantium et subiectorum diversitas, vel simpliciter, velsecundum aliquod tempus. Sic igitur manifestum est ex praedictis, quod civitas non est sic nataesse una, sicut quidam dicunt, ut omnes sint similes. Et illud quod dicitur esse maximum bonumin civitatibus, scilicet maxima unitas, destruit civitatem. Unde non potest esse bonum civitatis,quia unaquaeque res salvatur per id quod est sibi bonum», Sancti Thomæ Aquinatis SententiaLibri Politicorum, lib. 2, l. 1, n. 15.

10 Fra l’altro rinvierei il lettore a A. Vauchez, Les textes prophétiques et la prophétie enOccident (XII-XVI siècle), Actes de la table ronde organisée par le Cnrs et l’Université de Paris X-Nanterre, Chantilly 30-31 mai 1988, [Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Âge],Rome 1990; R. Cueto, Quimeras y sueños. Los profetas y la Monarquia Católica de Felipe IV,Valladolid 1994. Per quanto riguarda l’emblematico fenomeno del profetismo femminile: G.Zarri, Pietà e profezia alle corti padane: le pie consigliere dei principi, in P. Rossi (ed.), IlRinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari 1977, pp. 201-237; Id., Profeti di cortenell’Italia del Rinascimento, in D. Bornstien-R. Rusconi (eds.), Mistiche e devote nell’Italia tar-domedievale, Napoli 1992, pp. 209-236; Id., Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), in L.Scaraffia-G. Zarri (eds.), Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari 1994, pp.177-225; Id., Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Torino20003; Id., Predicatrici e madri spirituali. Il carisma, lo spazio, il pubblico, in D. Corsi (ed.),Donne cristiane e sacerdozio. Dalle origini all’età contemporanea, Roma 2004, pp. 159-177.Per l’uso dell’astrologia si veda L. Cantamessa, Astrologia. Opere a stampa (1472-1900), 2.voll., Firenze 2007.

11 Per la questione della pluralizzazione di Dio si veda C. Mozzarelli, Tra ragion di stato esociabilità. Ipotesi cattoliche di rifondazione del vivere associato, in F. Arici-F. Todescan (eds.),‘Iustus Ordo’ e ordine della natura, cit., pp. 63-72.

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modernità – non è immune né da una modalità più letterale del com-mento biblico né dalle reticenze sollevate dai volgarizzamenti dellaSacra Scrittura12.

Come l’interpretazione dell’intera letteratura apocalittica, così purel’esegesi singolare della figura dell’Anticristo può essere classificata inbase a tre chiavi di lettura che hanno nella visione della storia, umanae della salvezza, e nel tentativo di comprensione di questa stessa storiail loro orizzonte significante. Secondo una prima chiave di lettura, chepotrebbe essere detta escatologica, la esegesi della figura dell’An-ticristo si occuperebbe del futuro; in base ad una più storica, l’inter-pretazione di questi stessi contenuti si concentrerebbe soprattutto sulpassato; ed infine una lettura profetica, per cui, nel combinare i dueaspetti precedenti, si vorrebbe ricapitolare l’intera storia della Chiesa.Ripercorrendo, sulla scorta dello studio di Armogathe13, le più diverseposizioni è facile individuare come i commentatori protestanti predili-gano la più complessa interpretazione profetica e come quelli cattolicipreferiscano le due prime chiavi di lettura, passando, talvolta, da unaall’altra in base a motivi non solo di natura dottrinaria. Potrebbe esse-re ipotizzabile considerare questa disputa, in ambito cattolico, fra lapropensione per una chiave di lettura futurista, piuttosto che per l’altrapiù storica, come un plausibile sintomo della complessità della perce-zione cristiana della storia: una storia che è compresa come camminoverso un compimento escatologico, che nel Cristo è già stato anticipa-to; ed è proprio questo dispositivo, sospeso in una prospettiva futura giàinaugurata nella storia, che ha reso la prudentia/preveggenza lo stru-mento politico cristiano per eccellenza.

La vasta e articolata produzione teologica del tempo sul profetismoe sul tema specifico dell’Anticristo trova, a mio parere, in queste con-siderazioni circa la peculiarità cristiana della storia, la sua misura uni-ficante; una produzione che, nonostante tutto, non vede eccellere inmodo limpido un autore piuttosto che un altro, se non probabilmente il

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12 J.-R. Armogathe (ed.), Le Grand Siècle et la Bible, Paris 1989 [VI tomo della collana Bi-bles des tous les temps, dell’editore Beauchesne, Paris]; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censu-ra ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997; L. Leonardi (ed.),La Bibbia in italiano tra medioevo e rinascimento, Firenze 1998.

13 Cfr. J.-R. Armogathe, L’Anticristo nell’età moderna, cit., pp. 42-58.

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Suarez14 e il Bellarmino, che con la Tertia controversia generalis. Desummo pontifice del 1586 pare offrire una visione ormai canonica del-l’Anticristo15.

2. Il Gaetano (1468-1534)

Ma la considerazione congiunta dell’Anticristo e del Katéchon pao-lino16 merita, in ogni caso, una riflessione specifica che, se possibile,risulta essere da un canto ancora più tortuosa, e dall’altro certamentepiù capace di illuminare questa peculiarità della storia della Salvezza.Se, infatti, guardiamo al Gaetano17 constatiamo da subito che la visio-ne di questa storia contempla una Chiesa che non è semplicemente ilcielo a venire, ma è contrassegnata da un’innegabile dimensione stori-ca in cui peccato e santità, male e bene convivono in una condizione inbilico che non può essere colta pienamente se non secondo una moda-lità teologica18. Ed in questa visione, il ruolo della figura dell’An-ticristo, configuratasi nel raccordo sapiente fra l’interpretazione storicae quella futurista, si completa nella figura del Katéchon, puntualizzan-do l’ineludibile dialettica tra bene e male.

Tommaso de Vio, detto il Gaetano, per varie ragioni commentatoreper antonomasia dell’Aquinate oltre che uomo di Chiesa coinvolto in

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14 F. Suarez, Opera Omnia, Paris 1860, t. 19, pp. 1064-1068 [In IIIam partem, disp. LVI,sect. II].

15 Cfr. G.M. Barbuto, Il principe e l’Anticristo, op. cit., p. 27. 16 2Ts 2,2-4.17 Rinvio innanzitutto agli studi di natura generale: J. Quetif-J. Echard (eds.), Scriptores

ordinis praedicatorum, vol. II, Paris 1792, pp. 14-21; P. Mandonnet, «Cajetan», in Dictionnairede théologie catholique, t. II, 1905, col. 1313-1329; I. Taurisano, «De Vio Tommaso», in Enciclo-pedia italiana di Scienze, Lettere e Arti, Milano 1931, vol. XII, p. 703; M.J. Congar, Bio-biblio-graphie de Cajetan in «Revue thomiste» (1934), suppl., pp. 3-49; M.H. Laurent, Les premièresbiographies de Cajetan in «Revue thomiste», novembre1934 e febbraio 1935, pp. 446-448; R.Bauer, «Cajetan de Vio, Thomas», in Lexikon für Theologie und Kirche, t. II, Freiburg 1958, col.875-876; E. Stöwe, «De Vio Tommaso», in Dizionario biografico degli italiani, Roma, 1991, vol.39, pp. 567-578. E inoltre alcuni studi particolari: J. Wicks, Between Renaissance and Reforma-tion: the Case of Cajetan, «Archiv für Reformationsgeschichte» 68(1977), pp. 3-91; B. Pinchard-S. Ricci (eds.), Rationalisme analogique et humanisme théologique. La culture de Thomas de Vio‘Il Gaetano’, (Actes du Colloque de Naples, 1er-3 novembre 1990) Napoli 1993, nel quale segna-lo particolarmente il saggio di J.-R. Armogathe, «L’ecclésiologie de Cajetan et la théorie moder-ne de l’État», pp. 171-182; C. Morerod, Cajetan et Luther en 1518. Édition, traduction et com-mentaire des opuscules d‘Augsbourg de Cajetan, 2 t., Fribourg 1994; N. Villani, ‘Tibi dabo cla-ves regni caelorum’. Il primato di Pietro nel pensiero di Tommaso de Vio, Napoli 2007.

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vicende di particolare rilevanza politico-ecclesiale, può essere conside-rato un efficace spiraglio per poter cogliere come le nostre due figure siintreccino in un’ampia ed articolata visione teoretica reperibile innan-zitutto nel suo commento alla Summa dell’Aquinate19 e, con una sensi-bilità e un tratto più esegetici, nel commento alla Seconda Lettera del-l’apostolo Paolo ai Tessalonicesi.

2.1. Il commento in IIIam, quaest. 8, art. 8

Commentando l’articolo 8 dell’ottava quaestio della Tertia parsdella Summa, il cardinal Gaetano deve necessariamente confrontarsi conl’opinione dell’Aquinate circa l’Anticristo20. Il commento è insolita-mente lungo, molto più lungo dello stesso passo tommasiano glossato.L’articolo chiude la quaestio dedicata da Tommaso alla grazia del Cristocome capo della Chiesa e trattando della grazia capitale evidentementeil maestro si interroga sul ruolo dell’Anticristo e in modo particolare inche modo questa figura possa essere capo dei malvagi. Il cardinale nelsuo tentativo esegetico ricalca il procedimento logico dell’Aquinate di-latandolo, con una libera intenzione interpretativa, in alcuni precisi pas-saggi. Potremmo quasi dire che il commento del Nostro, in questo caso,si appropria dell’argomentazione tommasiana, ma allontanandosi sensi-bilmente dal proponimento originario, che voleva limitarsi ad essereun’ulteriore determinazione dell’idea di capitalità cristica.

In piena sintonia con Tommaso, il Gaetano afferma che l’Anticristoè capo dei malvagi secondo perfezione, non secondo ordine o secondovirtù: è la perfezione della sua malizia, la pienezza della sua malvagità

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18 Cfr. J.-R. Armogathe, L’Anticristo nell’età moderna, cit., p. 44 e, del medesimo studioso,si veda soprattutto, «L’ecclésiologie de Cajetan et la théorie moderne de l’État», in B. Pinchard etS. Ricci (eds.), Rationalisme analogique et humanisme théologique, cit., pp. 171-182.

19 Tommaso affronta la questione dell’Anticristo in Summa theologica, Tertia pars q. 8, a. 8.Per una sintesi efficace si veda l’agile studio di F. Fiorentino, L’Anticristo in S. Tommaso. A pro-posito delle radici cristiane dell’Europa, in «Sapienza» 3 (2007), pp. 241-252. In modo partico-lare, per i versetti paolini della seconda lettera ai Tessalonicesi riguardanti l’Anticristo e il Katé-chon, si veda: Sancti Thomae Aquinatis Super II Epistolam B. Pauli ad Thessalonicenses lectura,cap. 2, lec. 1.

20 Sancti Thomæ Aquinatis Opera omnia, Editio leonina, t. XI, Tertia pars Summæ theolo-giæ, a quæstione I ad quæstionem LIX cum commentariis Thomæ de Vio Caietani, Ordinis prædi-catorum, Ex Typographia Polyglotta S. C. de Propaganda Fide, Romæ 1903, pp. 136-137. D’orain poi: In III.

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che lo rende capo21. Egli è capo di tutti gli uomini malvagi e sebbenesia circostanziato nel tempo è capo anche di coloro che lo hanno pre-ceduto nel tempo, come figura della pienezza della malvagità22. E glistessi uomini malvagi, di cui l’Anticristo è capo, raffigurano imperfet-tamente questa malvagità, compiuta solo nel suo capo. È in questi ter-mini che, furtivamente, il cardinale accenna al mistero dell’iniquità giàin atto, così come menzionato nella Seconda Lettera dell’apostolo Pao-lo ai Tessalonicesi: è l’imperfetta malvagità di coloro che raffiguranol’Anticristo che attualizza nel tempo il mistero dell’iniquità23. Infatti,coloro che sono iniqui – dice il Gaetano – operano il male non solosecundum se, ma ut figura malitiae sui capitis24. E ciò di cui questafigura è testa non è la totalità del male, ma si limita ad essere l’insiemedegli uomini malvagi, poiché l’Anticristo è un purus viator, e in quan-to tale non può essere testa che dei soli viatores, quindi non dei demo-ni che, come i beati, ciascuno nel proprio ordine, sono più perfetti deirispettivi viatores25.

Nel terzo punto del suo commento del medesimo articolo, il nostroteologo insiste con risolutezza sulla connotazione di futurus purus via-

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21 In III, § I: «[...] iuxta tres modos quibus potest dici caput, secundum similitudinem ad tresconditiones capitis, scilicet ordinem, virtutem et perfectionem. [...] Ubi, quia processus clare patetin littera, nota quod Auctor, licet quaerat an Antichristus sit caput omnium malorum hominum,quia tamen hoc ex auctoritate constat sic esse, respondet ad id quod est obscurum in hoc quesito,scilicet qua ratione sit caput omnium hominum malorum: et dicit quod ratione perfectionis».

22 Ivi, § III: «Ad hoc dicitur quod procul dubio Antichristus non est caput daemonum malo-rum, sed hominum tantum».

23 Ivi, § I: «Et dum declarat quo pacto mali priores Antichristo secundum tempus se habentad ipsum, scilicet ut figura quaedam: ut ex Glossa super illud, Nam mysterium iam operatur ini-quitatis, dicit. Ubi perspicere potes esse inter Antichristum et alios malos ipsum praecedentes nonsolum simplicem habitudinem perfecti ad imperfectos, quia ille perfectionem omnis malitiaehabet, isti minus mali: sed esse talem modum habitudinis imperfectionis, quo scilicet figura estimperfectior figurato. Ita quod Antichristus est caput praecedentium malorum ratione perfectioniset quia in ipso est plenitudo malitiae, in aliis pars aliqua malitiae; et quia ipse est ut veritas mali-tiae, illi ut figura tantae futurae malitiae».

24 Ibidem: «Et propterea dicitur operari iam mysterium iniquitatis: quia iniqui operantur ma-lum non solum secundum se, sed ut figura malitiae sui capitis. Figura enim mysterium est respec-tu figurati: et figuratum operari dicitur, non secundum se, sed secundum se figurantes, quando adipsum figurandum operantur, ut contingit quando mali inique agunt».

25 Ivi, § II: «Et quia Antichristus, cum sit viator purus, non potest poni caput malorum in ter-mino, quales sunt daemones: cum quilibet damnatus, utpote omnino pertinax et inflexbililis adbonum, sit peior quocumque viatore; sicut e contra quilibet beatus melior est quocumque puro via-tore, iuxta illud Matth. XI, qui autem minor est in regno caelorum, maior est illo, scilicet IoanneBaptista».

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tor dell’Anticristo e cerca di puntualizzarla ulteriormente facendo men-zione di una differenza radicale fra quest’ultimo e i demoni: anche cir-coscrivendoci semplicemente alla questione della volontà malvagia,demoni e Anticristo non sono sovrapponibili. I demoni, infatti, in qual-siasi loro azione, sono malvagi fino ad insidiare con delle circostanzemalvagie la naturalità degli atti26; nulla invece proibisce all’Anticristodi operare qualche cosa che nel suo genere può essere buona, senza lecircostanze malvagie dell’opera27. Addirittura, questi è custodito da unangelo che dovrebbe persuaderlo a desistere dal male28. Il male, per ildiavolo, deve essere detto absolute, nel senso che Lucifero è testa ditutti i mali, tanto dei demoni, quanto degli uomini: il suo è un dominiosu tutto l’ordo diobolicus29. La malizia dell’Anticristo, per contro, nonè simpliciter, ma solamente inter homines. Pare quasi che il Gaetanovoglia collocare, con evidenza, l’Anticristo nel più ampio ordo diabo-licus30: ed è proprio questo inserimento nell’ordo malitiae che, confi-gurandosi secondo una specifica modalità, contribuisce a chiarire ilruolo dell’Anticristo.

Questi è membro dell’ordo diabolicus e al tempo stesso è testa,come il diavolo medesimo. Per uscire da questa manifesta e contrad-dittoria sovrapposizione il Gaetano afferma che il diavolo può essereconsiderato sotto due aspetti: secundum se e ut est in Antichristo. In

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26 Ivi, § III: «Quia nec ordine, nec virtute, nec perfectione illos excedet in malitia: cum sitfuturus purus viator; ac per hoc, non habiturus ita malam voluntatem sicut habent daemones, quiin quolibet opere suo sunt mali, adeo quod etiam naturalibus actibus opponunt circumstantiasmalas».

27 Ibidem: «Antichristum autem nihil prohibet operaturum aliquid de genere suo bonum sinemala operis circumstantia: puta quia honorabit parentes, et huiusmodi».

28 Ibidem: «Unde et angelum custodem habebit, persuasurum quandoque ut ab aliquo desi-stat malo».

29 Ibidem: «De diabolo autem aliud est dicendum absolute [...] Nam absolute verum est quodLucifer est caput omnium malorum tam daemonum quam hominum: quod facile deduci potestutendo ratione septimi articuli. Secundum praesentem autem litteram, diabolus dicitur caputomnium malorum hominum: ita quod tam in septimo quam in octavo articulo non est sermo niside malis hominibus. Et ly diabolus non sumitur pro aliquo uno diabolo solo, sed pro toto ordinediabolico: vel melius, pro Lucifero ut continet totum ordinem diabolicum. Ita quod sensus estquod diabolus, hoc est, Lucifer cum suis, vel ordo diabolicus, est caput omnium malorum homi-num. Et huic sensui attestantur tentationes hominum, quae non ab aliquo uno diabolo fiunt».

30 Ibidem: «Ad tertiam autem dicitur quod in Antichristo ponitur plenitudo malitiae non sim-pliciter, nec Luciferi, sed inter homines: ea ratione quia in eo est diabolus, hoc est, diabolicusordo, secundum plenum effectum malitiae».

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quanto secundum se, Anticristo e diavolo sono due teste, una subordi-nata all’altra; in quanto ut est in Antichristo, vi è una sola testa e dellemembra31. Ed ecco, dunque, la ratio, l’intenzione prima del commentodel nostro cardinale: secondo il primo senso (la duplice testa) bisognacompletamente escludere la nozione di corpo mistico, riferita all’insie-me dei malvagi; in base invece al secondo senso (una testa e le mem-bra) si può analogicamente far riferimento all’idea di Deus caputChristi: l’Anticristo è capo della moltitudine degli uomini malvagi e altempo stesso è a sua volta subordinato ad una testa più rilevante, più inalto, il diavolo32.

2.2. Il commento a 2Ts 2,2-4

Facciamo un altro passo avanti. Nel commento alle lettere di Paolodegli anni Trenta del ’500, il Gaetano chiaramente non può sottrarsi dalglossare il secondo capitolo della Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Inpoche pagine, oserei dire di formidabile difficoltà concettuale, il Gae-tano – con un latino ben più criptico del solito – si sofferma su questafigura di iniquità che è l’Anticristo33.

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31 Ibidem: «Ad hoc dicitur quod diabolus potest dupliciter considerari: scilicet, secundum se;vel ut est in Antichristo. Si secundum se, sic Antichristus et diabolus sunt duo capita, quorumunum subordinatur alii, scilicet Antichristus diabolo: et hoc dicit responsio ad secundum. Si autemconsideretur diabolus ut est in Antichristo, sic ambo sunt unum caput: et sic verificatur responsioad primum».

32 Ibidem: «Vel, et melius, respondetur quod diabolus et Antichristus dupliciter consideraripossunt. Primo, in ordine multitudinum malorum hominum [...] Et sic ambo sunt caput unum cor-poris unius. Et hoc directe intendit responsio ad primum, dum duo capita unius et eiusdem omni-no corporis mystici excludit. Secundo, considerantur inter se. Et sic Antichristus respectu diaboliest membrum, diabolus autem caput eius: sicut Deus caput Christi. Cum quo stat quod respectumultitudinis malorum hominum Antichristus est caput. Et sic Antichristus est caput subordinatumaltiori capiti, qui diabolus est».

33 Epistolae Pauli et aliorum apostolorum ad graecam veritatem castigatae, & per Reve-rendissimum Dominum, Dominum Thomam de Vio, Caietanum, cardinalem Sancti Xisti, iuxta sen-sum litteralem enarratae. Quibus accesserunt Actus Apostolorum commentariis eiusdem illustra-ti. Omnia accuratiori cura quam antea excusa, in aedibus Carolae Guillard, sub sole aureo, &Joannis de Roigny sub quatuor elementis via ad divum Iacobum, Parisiis 1540. D’ora in poi:Epistolae. Suggerisco come riferimento generale la riedizione anastatica dei commentari biblicidel Gaetano: Thomas de Vio Caietanus, Opera omnia quotquot in Sacrae Scripturae expositionemreperiuntur, Nachdruck der Ausgabe Lyon 1639, 6 t., Georg Olms Verlag, Hildesheim, Zürich,New York 2005.

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Per fugare l’opinione secondo cui l’avvento del Cristo sia a noiprossimo, Paolo sostiene – glossa il Gaetano – la necessità che si rea-lizzino due avvenimenti. Innanzitutto, l’apostasia, cioè la ribellione:una defezione dall’obbedienza, un sottrarsi alla condizione in cui cia-scuno è posto, un rinnegare la propria professione e il proprio principe.Una ribellione raffigurata storicamente dall’abbandono dell’impero ro-mano da parte di non ben specificate gentes34. L’avvento del Cristo saràanticipato anche dalla venuta dell’homo peccati; che è rappresentato –quasi facendo riferimento ad una sorta di costituzione teandrica – se-condo natura come uomo e secondo pienezza come peccato35. L’An-ticristo non è semplicemente ipocrisia o falsità, ma si tratta di una verae visibile manifestazione dell’uomo del peccato, del figlio della perdi-zione secondo il costume linguistico ebraico, dice il Gaetano36. Questouomo è l’Anticristo, che non deve essere confuso con Maometto, per-ché quest’ultimo non volle porsi sopra Dio, ma ha solo avuto l’erroneaintenzione di essere flatus Dei37. L’Anticristo, invece, non solo è avver-sario di Dio, ma si ergerà al di sopra di tutti coloro che sono detti Dio.Costui si innalzerà anche contro tutto ciò che è degno di adorazione evenerazione religiosa, dunque, contra sacramenta, contro tutto ciò cheè sacro: che siano cose, luoghi o tempi. Egli siederà nel tempio di Dio,ostentando se stesso come un Dio38.

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34 Epistolae, p. 328v, r. 35 - p. 329, r. 3: «Ad tollendum huiusmodi opinionem de propin-quitate adventus Christi, manifestat eis oportere duo precedere Christi adventum. Alterum est apo-stasia, sed non dicit a quo. Greca siquidem dictio est apostasia: et significat seu rebellionem abobedientia, statu, professione, principe &c. Intelligitur autem de apostasia ab imperio Romano;praedicit eis oportere primum deficere gentes ab imperio Romano quam veniat Christus».

35 Ivi, p. 329, rr. 4-7: «Ecce alterum quod oportet praecedere adventum Christi et est adven-tus Antichristi. Quem describit primo a natura, dicendo homo; deinde a plenitudine peccatorum,dicendo homo peccati».

36 Ivi, rr. 7-11: «Et de eo dicit, revelatus fuerit, quoniam manifestus erit homo peccati, nonerit hypocrisia (ut non possit cognosci, ut lateat peccatum eius) sed erit manifestus homo peccati.[...] Hebraeo more loquitur, undique perditione dignum appellans filium perditionis».

37 Ivi, rr. 12-14: «Ex hac Antichristi conditione apparet quod Machometus non fuit Anti-christus, nam fecit seipsum flatum dei; non supra deum».

38 Ivi, rr. 14-25: «Antichristus autem non solum adversabitur deo, sed etiam extolletur supraomnem qui dicitur deus [...] Circumloquitur interpres dictionem Graecam, significantem omne idcui debetur veneratio religiosa: qualia sunt quaecunque sacaramenta et sacra, sive res, sive loca,sive tempora [...] In multis quoque codicibus Graecis inveniuntur duae dictiones mediae inter deiet sedeat; ita quod legitur, ita ut in templo dei tanquam deus sedeat ostendens seipsum quod sitdeus».

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Ma l’avvento di quest’uomo del peccato sarà trattenuto da qualco-sa che nel presente lo tiene lontano, lo respinge, lo impedisce, o meglioqualcosa che è occasione di indugio e di ritardo. E i cristiani di Tes-salonica certamente già sapevano la ragione di questa manifestazioneritardata dell’Anticristo, tanto che Paolo – sostiene il Gaetano – nonritiene necessario porla per iscritto39. Segue poi, nel commento, il ten-tativo, particolarmente rarefatto e contorto, di spiegare il senso di que-sto qualcosa che trattiene.

Colui che trattiene e il mistero dell’iniquità operano nello stessotempo, fino a che il trattenente non sarà tolto di mezzo40. In queste pa-role il nostro commentatore individua due misteri: innanzitutto, la ratiodetinendi non è semplicemente una potentia detentiva o proibitiva, maparadossalmente, si esplica, si attualizza nel condurre a compimento leiniquità dell’impero romano, iniquità queste che, come quelle degliAmorrei41, non hanno ancora raggiunto il colmo previsto42. In questitermini il trattenere non può che essere compreso come l’operare stes-so dell’arcanum iniquitatis. Il Gaetano definisce inoltre il mistero del-l’iniquità come integrità, come perfezione di tutte le iniquità che giun-gerà a compimento in un tempo che rimane misterioso e conosciutosolo da Dio. L’impero romano, dunque, sparirà quando questo misterodi iniquità giungerà a compimento e questo momento preciso è cono-sciuto soltanto da Dio. Pare quasi che il nostro cardinale voglia affer-mare che il mistero dell’iniquità sia pienezza, assoluta perfezione diiniquità e colui che lo trattiene opera l’iniquità stessa, ma in una dimen-sione – potremmo dire – più feriale, più relativa. Costui o questa cosanon trattiene per autorità o per merito, ma solo implendo mysterium ini-

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39 Ivi, rr. 37-40: «Dicit Paulus quod Thessalonicenses non solus haec praedicta sciebant, sedetiam rationem dilate manifestationis Antichristi; dixerat enim eis illam rationem Paulus. Quamrationem subiungit, ponendo eam in scriptis».

40 Ivi, p. 329v, rr. 2-5: «Superfluunt duae dictiones: ut et teneat et dictio interpretata tenet,est illamet quae interpretata est detineat, dicendo et nunc quid detineat scitis. Unde littera istalegenda est».

41 Gn 15,16: «Alla quarta generazione torneranno qui, perché l’iniquità degli Amorrei nonha ancora raggiunto il colmo».

42 Epistolae, p. 329v, rr. 5-11: «Et est ordo litterae: nam qui iam detinet, iam operatur soluminiquitatis mysterium donec de medio fiat. In quibus verbis duo mysteria declarat. Alterum estquod ratio detinendi est non potentia aliqua detentiva aut prohibitiva, sed ut impleantur iniquita-tes imperii Romani; similis siquidem est haec sententia illi divinae sententiae Gen. 15».

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quitatis43. Se il mistero dell’iniquità nella sua assolutezza è ciò che nonfa nulla di buono, ma soltanto il male pieno, per contro, colui che trat-tiene la venuta dell’empio implet mysterium iniquitatis, porta a compi-mento questo mistero, ma nel frattempo nelle circostanze in via puòcompiere anche opere buone e sante44.

Il secondo mistero rinchiuso in queste parole, continua a sviscera-re il Gaetano, riguarda il verificarsi dell’apostasia: una defezione dimolte genti dall’impero romano, prima dell’avvento dell’Anticristo.Ma perché si compia quel che Paolo ha previsto è necessario che l’im-pero romano sia tolto di mezzo. Quindi prima dell’avvento del Cristo –ricapitola il de Vio – si realizzerà una apostasia che condurrà ad unaestinzione e, dunque, all’avvento dello stesso Anticristo45.

2.3. «Respublica christiana» e mistero dell’iniquità

Le due letture gaetaniane della figura dell’Anticristo, quella delcommento alla Summa e quella dell’esegesi al passo di Paolo, non sono– per quanto mi è parso di capire – perfettamente sovrapponibili. Lacomplessità dell’esegesi del brano di Paolo sembra abbia reso indi-spensabile un’articolazione maggiore di questo tentativo di spiegazio-ne. Un’articolazione che si è resa necessaria soprattutto per la presen-za nel passo in questione di quest’ulteriore figura – il Katéchon appun-

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43 Ivi, rr. 12-15: «unde relativum qui detinet, imperium Romanum refert; de quo modum deti-nendi explicat, dicendo quod solummodo operatum arcanum iniquitatis: aperte significando quodnon aliter detinet quam operando arcanum iniquitatis».

44 Ivi, rr. 15-25: «Nominat autem integritatem iniquitatum mysterium iniquitatis, quoniamvere arcanum est et soli deo cognitum quantum iniquitatis implendum est ad hoc ut Romanumimperium de medio tollatur. Et bene nota formalem sermonem; non dicit absolute quod solum agitmysterium iniquitatis (quod esset nihil boni agere sed malum solummodo) sed dicit qui detinet,agit tantummodo mysterium iniquitatis: quod est quatenus detinens adventum Antichristi non deti-net authoritate aut merito, sed solum implendo mysterium iniquitatis; cum quo stat quod multabona et sancta opera etiam efficiat interim, sed non ad detinendum adventum Antichristi».

45 Ivi, rr. 25-34: «Alterum mysterium quod declarat est quod quum dixisset nisi venerit apo-stasia primum, intellectum fuisset nihil aliud significari nisi defectionem multarum gentium abimperio Romano, nisi modo adiungeret donec de medio fiat: aperte significans quod ante adven-tum Antichristi oportet non solum esse defectionem gentium a Romano imperio, sed etiam totali-ter aboleri Romanum imperium; hoc est enim de medio illud tolli. Quocirca quum adhuc non sitde medio sublatum Romanum imperium, adhuc non est impletum quod Paulus dicit, donec demedio fiat».

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to – che rende imprescindibile una chiave di lettura dal tratto ancor piùescatologico, di quello reclamato dalla figura dell’Anticristo.

L’aspetto che a mio parere accomuna, anche se solo marginalmen-te, le due letture consiste nel proponimento del nostro commentatore diindividuare, sia in una lettura che nell’altra, due modalità di male: lamodalità assoluta, simpliciter, che nel commento alla Summa coincide-rebbe con il diavolo – così nominato esplicitamente – mentre nel com-mento a Paolo si rifarebbe al mysterium iniquitatis. La seconda moda-lità di male è invece da intendersi, a mio parere, relativa, in via – percosì dire – e sarebbe rappresentata, nel commento alla Summa,dall’Anticristo, quel purus viator che potrebbe anche realizzare alcuniatti che nel loro genere sono bene, quantunque senza intenzione di benee, nel commento a Paolo, sarebbe rappresentata anche da colui o daquella cosa che trattiene: quel trattenente che nella storia implet myste-rium iniquitatis ma nel contempo compie anche opere buone.

Sussiste indubbiamente una differenza tra l’Anticristo e il tratte-nente, dal momento che l’Anticristo può compiere cose che sono buonema senza intenzione di bene, mentre il trattenente compie sia cose buo-ne, buone a tutto tondo, sia cose cattive. E questo trattenente è figuratostoricamente dall’impero romano che potrebbe rappresentare una sortadi archetipo, di figura dell’istituzione politica umana che da un cantocompie azioni che sono di per sé buone e dall’altro attualizza parzial-mente nella storia anche il male.

Questa identificazione non è certo nuova nella storia della teologia,ma risulta essere particolarmente significativa in questa fase in cui ildato di unitas politica, rappresentato dall’impero romano e metamorfo-satosi nella Respublica christiana46, si sostanzia ora in un impero cri-stiano, ora più che mai, insidiato nella sua efficacia di garantire unità.L’apostasia, l’uscita – dunque – delle gentes dall’impero, e l’ergersicontra sacramenta dell’homo peccati47 che precedono la venuta defini-tiva del Cristo, nei loro tratti di immediata significatività, sono ravvisa-bili nella potenzialità deflagrante della Riforma protestante, ma anche

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46 J. Daniélou, Le démoniaque et la raison d’État, in E. Castelli (ed.), Cristianesimo e ragiondi Stato. L’Umanesimo e il demoniaco nell’arte, Atti del II Congresso Internazionale di StudiUmanistici, Roma-Milano 1953, pp. 27-34, specialmente p. 33.

47 Epistolae, p. 329, rr. 4-25.

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in qualcosa di tangibilmente più profondo, che travalica l’impatto, sep-pur sconcertante, della frattura confessionale: oltre a concretizzarsicontra sacramenta, il male è una ribellione, un sottrarsi al proprio sta-tus, un levarsi dal proprio luogo, politicamente, naturale. E questo di-sordinarsi, rispetto a quel fine al quale tenacemente vogliono disporrele ordinate forme del vivere, sembra avere un carattere di ineluttabilità,non imputabile ai soli eventi della storia.

Una categoria politica, quella dell’impero cristiano, che porta su disé – dunque – i segni della ineludibile convivenza in via del bene e delmale. E questa condizione in via – di per sé quindi storica e al contem-po proiettata verso qualcosa che scavalca la storia – per destreggiarsitra il bene e il male ha bisogno di una prudentia/preveggenza che guar-da ad un approdo al di là della storia, ed è capace di una memoria48 rac-coltasi sapientemente nelle circostanze di una quotidianità, dove lagaranzia reale e concreta di una escatologica vittoria sul male è già datanel Cristo.

Il trattenente in bilico tra il bene e il male, l’apostasia che disordinae l’Anticristo che insidia il sacro sembrano costituire una sorta di conti-nuum, non solo per quella successione temporale che scandisce il loromanifestarsi nella storia, ma soprattutto per il loro contribuire – in figu-re, gradi e modi diversi – all’attualizzazione del male nella storia. E que-sta constatazione non può che preludere ad una visione in cui il politi-co, con le sue forme e il suo agire, è parte peculiare di questo continuum.In effetti, la Respublica christiana, che nella sua episodicità storica tentadi essere la raffigurazione reale del giusto ordine che vuole condurre aDio, ha in sé un costitutivo germe di vulnerabilità che si manifesta nellasua partecipazione al compimento del mysterium iniquitatis.

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48 Per quanto riguarda la rilevanza della memoria nella definizione del concetto classico diprudenza si veda oltre al passo di Cicerone citato nella nota 6 anche Sancti Thomæ Aquinatis IIaIIæ, q. 49, a. 1, co. Per Tommaso la memoria è la prima delle parti integrali della prudentia. Nelcorpus del primo articolo della quæstio 49 della Secunda Secundæ egli afferma che l’uomo, nelcompiere delle azioni che siano prudenti, deve cercare un accordo proporzionato tra i princìpi cheguidano la sua azione e le conclusioni a cui questa mira; e ciò è possibile solo grazie all’espe-rienza, poiché, come dice Aristotele, le virtù intellettuali ricevono origine ed incremento dall’e-sperienza e dal tempo (Metaphysica I, 1; Post. Analyt. II, 20). Essendo l’esperienza, intesa comeuna somma di ricordi, coincidente con la memoria, l’Aquinate conclude che il ricordo di più coseè richiesto affinché un atto si possa dire prudente.

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In forza di questo pervasivo mistero, l’ordo delle cose della politi-ca è justus perché perennemente in una condizione di precarietà tral’essere ciò che ordina verso il fine e l’essere ciò che disordina verso ilfine: l’ineluttabilità del male, non comprimibile al solo dato morale,pare inverarsi come un’imprescindibile strettoia verso l’esito escatolo-gico, come un segmento irrinunciabile di quello stesso justus ordo checonduce all’approdo in Dio.

3. Il Catarino (1484-1553)

Seconda figura che a mio parere potrebbe essere significativo con-siderare è Lancellotto Politi, detto Ambrosio Catarino49. Un teologodomenicano, savonaroliano pentito50, nato a Siena nel 1487 e morto aNapoli nel 1553. Fu vescovo di Minori (1546) e arcivescovo di Conza(1552). Noto per aver partecipato al concilio di Trento, per le sue con-troversie con i luterani, per la sua tenace opposizione a Ochino e a certeposizioni tomiste come quelle di Domingo de Soto e Bartolomé Car-ranza de Miranda.

Nonostante la sua indole a tratti spietatamente polemica, sonocomunque considerevoli alcuni suoi contributi teologici – contrasse-gnati da indiscutibili sfumature scotiste51 – sul peccato originale, sullapredestinazione, sulla giustificazione, sulla certezza dello stato di gra-zia e sulla causalità strumentale sacramentaria. Il Catarino è anche noto

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49 Rinvio all’ottimo testo di G. Caravale, Sulle tracce dell’eresia. Ambrogio Catarino Politi(1484-1553), Firenze 2007; e quindi: J. Quétif-J. Echard (eds.), Scriptores ordinis praedicatorum,cit., vol. II, pp. 144-151; J. Schweizer, Ambrosius Catharinus Politus (1484-1553), ein Theologedes Reformationszeitalters. Sein Leben und seine Schriften, Münster 1910; A. Mortier, Histoiredes maîtres généraux des Frères Précheurs, vol. 5, Paris 1912, pp. 316-322, 441-445, 450-451;vol. 6, Paris 1913, 69; M.-M. Gorce, «Politi Lancelot», in Dictionnaire de théologie catholique, t.XII, 1935, col. 2418-2434; A. Duval, «Politi, Lancellotto», in Dictionnaire de spiritualité, XII/2,Paris 1986, col. 1844-1858; L. Faldi, Una conversione savonaroliana. Ambrogio Catarino Politi:il suo ingresso e i primi anni nell’ordine domenicano, in «Vivens homo. Rivista teologica fioren-tina» 5(1994), pp. 553-574; P. Preston, Catharinus versus Luther, 1521, in «History» 3(2003), pp.364-378.

50 Ambrosio Catarino, Discorso del reuerendo P. frate Ambrosio Catharino Polito, vescouodi Minori. Contra la dottrina, et le profetie di fra Girolamo Savonarola, In Vinegia, appressoGabriel Giolito di Ferrarij, 1548. Si veda in modo particolare il capitolo 5 di Caravale, Sulle trac-ce dell’eresia, cit., specialmente le pp. 258-290.

51 D. Scaramuzzi, Le idee scotiste di un grande teologo domenicano del ’500: Ambrogio Ca-tarino, in «Studi francescani» 4(1932), pp. 297-319, 5(1933), pp. 197-217.

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per delle Annotationes con cui compie nel 1535 un esame tanto inge-gnoso quanto irruente delle posizioni teologiche del Gaetano, suo con-fratello, tra le righe accusato di essere un tiepido antiluterano52.

3.1. Il «Commentaria in canonicas epistolas»

Prendendo in considerazione il commento del nostro senese alleepistole di Paolo del 155153, appare da subito evidente come il suo sfor-zo critico e interpretativo sia innanzitutto mosso dalla intenzione dipolemizzare con l’utilizzo sregolato della profezia.

Il Catarino, commentando l’apostolo Paolo, insiste con pervicaciasull’impossibilità umana di prevedere l’adventus Christi54, e mostra unindispettito scetticismo circa ogni tentativo di pronostico, di vaticinio,considerato in sé come una seduzione, una deroga alla sincerità, unacuriositas perturbata, sregolata. L’adventus Christi deve rimanere sco-nosciuto per nostra utilitas, ed è proprio questo mistero a renderci vigi-lanti. La nostra fragilità può sopportare questa nescienza radicale soloconfidando nell’autorità dei discepoli, degli apostoli, dei sapienti edegli scribi i quali – dice il Catarino – con il loro operare applicano adogni uomo gli effetti dello iustus sanguis. Questa lettura accentuata-mente sacramentale dell’autorità spirituale, come soccorso della fragi-lità dell’uomo, si completa, poi, con il rimando alle virtù che conferi-scono la necessaria sostanza al nostro agire umano nell’affrontare quo-tidianamente questo mistero: la sinceritas fidei, la firmitas spei e l’ar-dor charitatis55.

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52 Ambrosio Catarino, Ad Ioannem de Fenario ordinis praedicatorum, Annotationes fratrisAmbrosij Catharini Politi Senensis, eiusdem ordinis, in excerpta quaedam de commentarijs reue-rendissimi cardinalis Caietani S. Xisti, domata, apud Simonem Colinaeum, Parisijs 1535, MenseAprili. F. Ambrosii Catharini Politi, Annotationes in Commentaria Caietani denuo multo locuple-tiores & castigatiores redditae. Quod ex eiusdem subiecta praefatione, & indice copioso facilepatebit, apud Mathiam Bonhomme, Lugduni 1542. Si veda, oltre alla voce curata dal Gorce per ilDictionnaire de théologie catholique (op. cit.), U. Horst, «Der Streit um die heilige Schrift zwi-schen Kardinal Cajetan und Ambrosius Catharinus», in von L. Scheffczyk-W. Dettloff-R. Heinz-mann (eds.), Wahrheit und Verkündigung. M. Schmaus zum 70. Geburtstag, Paderborn 1967, vol.I, pp. 553-577.

53 Ambrosio Catarino, Commentaria R.P.F. Ambrosij Catharini Politi Senensis, episcopi Mi-noriensis, in omnes diui Pauli, et alias septem canonicas epistolas, Venetijs, in officina ErasmianaVincentij Valgrisi, 1551. D’ora in poi: Commentaria.

54 Commentaria, p. 408.55 Ibidem.

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Anche per il Catarino come per il Gaetano56, l’apostasia è una ribel-lione ab oboedientia sive a statu et professione aliqua religionis, fidei,ma diversamente dal Gaetano il Catarino non menziona, come specifi-cazione di quest’apostasia, la ribellione all’autorità del principe57. L’a-postasia è intesa da alcuni come la sedizione di molte genti dall’impe-ro romano, da altri come la ribellione multarum ecclesiarum ab epi-scopo romano; non sine gemitu, continua il nostro senese, assistiamo alsottrarsi di molte chiese all’obbedienza che è dovuta al sommo ponte-fice, ma questo non deve essere fonte di preoccupazione eccessiva, con-siderando che la ragione profonda di questa apostasia non è la nega-zione del Cristo in terra, ma solo del suo vicario. E proseguendo coninsistenza secondo questa sorta di continua reductio al piano dellamorale, il nostro commentatore sostiene che per recuperare questaribellione è sufficiente una vigorosa correzione dei cattivi costumi,ritornando così alla solidità dell’agire regolato dalla virtù58.

L’uomo del peccato è la somma superbia, è l’Anticristo, il primo-genitus satanae, colui che totus peccatorum plenus futurus sit59.L’Anticristo si vuole innalzare sul Cristo, direttamente e palesemen-te, e si assiderà in quel tempio che è la mente dell’uomo60; ma nonbisogna confonderlo con coloro che lo confessano solo a parole osimulando di predicare il suo nome61. Gli eretici non sono l’An-ticristo, ma i suoi praecursores che non osano negare palesemente ilCristo, ma solo il suo vicario in terra62. Dopo aver cercato di ridico-lizzare la teoria del papa Anticristo – puerilia sunt ista argumenta63 –

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56 Supra, n. 34.57 Commentaria, p. 409.58 Ibidem: «Nonnulli ad moltitudinem populorum a fide recedentium applicarunt, rati a

Domino istam significatam quando dixit: putas quando venerit Filius hominis, inveniet fidem interra? Ego vero etsi priorem expositionem non reprobem, potius tamen probo duas alias quae semutuo consequuntur. Quamvis autem non sine gemitu videamus multas ecclesias nostris tempori-bus ab oboedientia summi pontificis defecisse».

59 Ibidem.60 Ibidem: «Sed significatur quod ille sibi usurpabit cultum divinum iubens se adorari et coli

tanquam sit Deus in templo Dei».61 Ibidem: «Exurget enim in Christum directo et pallam et non sicut alii qui saltem verbo

Christum fatentur, et nomen illius creberrime inculcant, sed illius praedicare doctrinam simulant».62 Ivi, p. 410: «Prodierunt e sepulcris nostro tempore haeresiarcae et veri Antichristi prae-

cursores, qui non ausint pallam negare Christum (quod reservatur tanquam proprium Antichristoeorum praeceptori) ipsi tamen vicarium eum negant».

63 Ibidem.

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il Catarino afferma che l’ars luciferi è di essere impudentior, il piùsregolato, il più smoderato64.

Passando ai versetti concernenti il cosiddetto trattenente, il nostrocommentatore senese – prima di scivolare via quasi furtivamente –ammette che si tratta di parole, le più oscure, mutile, incomplete esarebbe praticamente inutile e forse anche dannoso occuparsene. Sa-rebbe un esercizio di curiosità che allontana da ciò che veramenteconta. Si tratta di un mistero che non è particolarmente specificato dalNostro, rispetto agli altri misteri evocati in questi primi versetti delsecondo capitolo della lettera paolina; in ogni caso si tratta di un miste-ro che non può essere penetrato, ma al quale ci si deve soltanto abban-donare65. L’abbandonarsi vigilanti al mistero, nelle sue poche formevisibili, sembra abbia – tra le righe del nostro teologo – un qualcosa diper sé strutturante; e queste poche forme percepibili del mistero sonoidentificabili chiaramente in tutto ciò che permette di regolare la nostravita, soprattutto la virtù e l’affidarsi ad un’autorità. Per contro gli ere-tici – precursori dell’Anticristo – negano l’unità della Chiesa, visibilenell’autorità e il loro comportamento è un’ars luciferi, una finzione,una simulazione che ha il suo solo fondamento in un atteggiamentoimpudente, perturbato, sregolato, disordinato.

Bisogna diffidare – continua poi il Catarino – di un rex impudens etintelligens dotato di una forza destinata ad irrobustirsi sempre di più,fino a dominare su tutta la vastità delle cose. Costui potrebbe togliere dimezzo i robusti e il popolo sanctorum66 con la sua capacità di sedurre edi persuadere al falso67; la sua è la seduzione dell’iniquità, è l’atteggia-mento ingannevole di coloro che non hanno il diletto della verità. Anchequesto principe, come tutti gli uomini, ha impresso in sé l’instinctum

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64 Ibidem: «Ars est Luciferi ut qui vere sunt, impudentius se esse negent calumniosum no-men in alios reiicientes».

65 Ibidem, il testo è considerato dal nostro «mutilus et subobscurus»; e ancora «Huius lociverba multis visa sunt obscuriora».

66 Ivi, p. 410, commentando Dan VIII, il nostro teologo senese ripota i vv. 22-25: «Et postregnum eorum cum creverint iniquitates consurget rex impudens facie, et intelligens propositio-nes et roborabitur fortitudo eius, sed non in viribus suis, et supra quam credi potest universa vasta-bit et prosperabitur et faciet. Et interficiet robustos et populum sanctorum secundum voluntatemsuam: et dirigetur dolus in manu eius et cor suum magnificabit et in copia rerum omnium occidetplurimos. Contra Principem principum consurget et sine manu conteretur: haec ille propheta».

67 Ibidem: «seduxit propter signa quae data sunt illi facere in conspectu bestiae».

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diligendi in veritatem68, ma non concretizza nel particolare questa ten-sione alla verità, anzi egli ordinariamente suscipit mendacium69.

3.2. Il tendenziale ridimensionamento delle letture politiche della profezia

Questa immagine del principe ingannatore accostata, quasi sovrap-posta, alla figura dell’Anticristo è particolarmente diffusa al tempo erientra, per certi aspetti, nel tratto spiccatamente anti-machiavellico checontraddistingue la riflessione del nostro senese70: l’affidarsi ad un’au-torità che – con la menzogna e con il diletto per la vuota curiosità –simula la possibilità di penetrare il mistero della volontà di Dio, signi-fica acconsentire a quella sregolatezza, a quel disordine che ha il suocolmo nell’Anticristo. La quasi insignificanza riconosciuta al tema delKatéchon non è da considerare come una semplice noncuranza, ma èun fermo ribadire la reale impossibilità umana di penetrare il mistero,senza affidarsi alla giusta autorità e alle buone virtù.

Senza pretendere che la riflessione del Catarino possa raggiungerele raffinatezze teoretiche del Gaetano è, tuttavia, a mio parere indi-spensabile non tacere questo dato di intensa avversione all’abuso dellaprofezia, come tratto notevole di una parte consistente della riflessionesulle cose della politica, in questo passaggio verso la prima modernità.Quello del Catarino vuole essere soprattutto un ammonimento controlo spropositato costume di servirsi dei vaticini, delle divinazioni, dellerivelazioni private che, nel caso italiano, non sono per nulla estranee aquel processo di complessa legittimazione politica che si sta pigramen-te intessendo intorno alle corti signorili della penisola.

È interessante constatare come questa inquietudine non sia circo-scritta alla sola vicenda del nostro senese, ma per certi aspetti possaessere considerata come una diffusa risposta all’utilizzo politico daparte delle corti locali italiane di questo dato della profezia, come stru-mento di legittimazione quasi spirituale di un potere nascente e biso-gnoso di riconoscimento. E indizio dell’intenzione di contenimento di

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68 Ibidem.69 Ibidem: «Iniquitas enim sive iniustitia, quam ipsi ut potiorem sponte sua elegerunt com-

piacentes sibi in illis, fuit ratio ne crederent perspicuae veritati».70 Armogathe, L’Anticristo nell’età moderna, cit.; Barbuto, Il principe e l’Anticristo, cit., pp.

129-136.

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questo fenomeno è, senza dubbio, l’apparire di un considerevole nume-ro di biografie di quelle donne, presunte sante già in vita, che con laloro probità e il loro carisma spirituale sovente ornavano le corti italia-ne e non solo. Queste biografie, scritte quasi sempre da versati teologi,sembra quasi avessero premura di puntualizzare il vero senso della san-tità, marginalizzando con vigore la portata della profezia. Oltre all’in-teresse del nostro frate per santa Caterina da Siena71, modello dellevirtù di ogni santità femminile domenicana, fra i molti altri, è utilemenzionare Francesco Silvestri detto il Ferrarese (1474-1528), quelcoltivato filosofo e teologo, commentatore del Contra gentes, che nel1505 scrive e fa volgarizzare in ben due edizioni una biografia dellabeata Osanna Andreasi da Mantova, la santa viva e profetessa dei mar-chesi Gonzaga72. Senza volersi attardare, è comunque stimolante sco-vare in questo fenomeno una certa pertinenza e una indiscutibile con-vergenza: diversamente dalle altre biografie edulcorate dell’Andreasi,la vita scritta dal Ferrarese – savonaroliano e appartenente all’osser-vanza – centra tutto il valore della santità sul riconoscimento delle virtùumane della donna e sul suo umile abbandonarsi alla giusta autorità:non è la presunzione disordinata di un carisma profetico o visionario,ma è il buon agire concreto e obbediente che fa di questa donna unasanta e un esemplare per gli stessi principi73.

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71 Raimondo da Capua, Vita miracolosa della seraphica S. Catherina da Siena. Composta inlatino dal beato padre frate Raymondo da Capua, gia Maestro Generale del Ordine de Predica-tori, suo confessore. Et tradotta in lingua vulgare, dal R. P. frate Ambrosio Catherino da Siena,del medesimo ordine. Con agiunta d’alcune cose, pertinenti al presente stato de la Chiesa, nota-bili, & utili ad ogni fedel cristiano, In Venetia, nella contrata de Santa Maria Formosa, al segnode la Speranza, 1556.

72 Cfr. F. Arici, Un teologo narra la santità. Il Silvestri e la vita dell’Andreasi, in G. Zarri-R. Golinelli Berto (eds.), Osanna Andreasi da Mantova (1449-1505). Tertii praedicatorum ordi-nis diva, Mantova 2006, pp. 57-68. Rimando evidentemente ai numerosi studi di Gabriella Zarri,già menzionati alla nota 10.

73 A questo proposito è interessante anche la fortuna delle Revelationes di santa Brigida diSvezia (che con Caterina da Siena è considerata modello di ogni santità femminile), testo signifi-cativamente diffuso e oggetto anche di una puntigliosa analisi da parte del Torquemada. Nelle De-fensiones super revelationes sanctae Brigittae (1434) il Torquemada, in pratica, difende le Reve-lationes brigidine, ma soprattutto è mosso dall’intenzione di imbrigliarle in un preciso modello disantità: quella forma sanctitatis che ha nell’unificata Chiesa istituzionale il suo primario e quasiessenziale riferimento significante; una forma sanctitatis che – addomesticata qualsiasi originalevelleità profetica – si limita alle forme dell’umiltà, della dolcezza, della docilità, peraltro in appa-renza non primariamente colte nel loro significato pienamente morale di disposizioni a ben agire,ma solo come virtù che predispongono ad una remissiva attitudine all’obbedienza. Cfr. F. Arici,

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È degno di attenzione constatare, inoltre, come già in un libretto del1548, Discorso del reverendo frate Ambrosio Catarino vescovo di Mi-nori contro la dottrina e le profezie di Girolamo Savonarola74, il nostroteologo senese utilizzi, fin dalla prefazione, un medesimo frasario perbiasimare l’abuso della profezia: una dottrina presuntuosa, vana, bu-giarda, curiosa, astuta, sofisticamente seduttrice ed adulatoria. Semprenello stesso libretto – nelle primissime pagine – a proposito dell’An-ticristo, l’Autore scrive che si tratta di un argomento di poco interesse,ben al di là dal porsi come problema concreto, quantunque i luteraniscrivano l’opposto75. Che un savonaroliano, per quanto ravveduto comeil Politi, si scagli con un’indubbia impetuosità contro il maestro di untempo, è probabilmente da interpretare come l’intimorita esigenza direagire a quella tendenza alla disobbedienza dovuta alla giusta autori-tà, che la suggestione della predicazione profetica può ispirare agli ani-mi semplici ed ingenui del popolo76.

Ed il medesimo timore è riscontrabile nel De libris a christianodetestandis et a christianismo pènitus eliminandis del 155277, ove il no-stro teologo, riprendendo questa lettura sospettosa della profezia, stig-matizza il tentativo di sottoporre la religione al servizio della politica,sforzandosi di dimostrare come l’eccesso di confidenza nella profeziasvilisca la vera percezione della provvidenza divina, neghi in un certosenso la fede nella ragione divina che dispone ogni cosa e che presiedeall’esecuzione di quell’ordine al fine che è in ogni cosa. Abuso di cre-

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«Quam firma sit in fide». Juan de Torquemada e la profezia nelle «Revelationes» brigidine, in G.Zarri (ed.), Il movimento domenicano al femminile: storia, figure, istituzioni, Atti del convegnotenutosi a Bologna 11, 12 e 13 ottobre 2007, in corso di stampa per la collana «Biblioteca diMemorie Domenicane», Nerbini Editore.

74 Op. cit., cfr. nota 50.75 Ivi, pp. 4a-9a.76 Cfr. Caravale, Sulle tracce dell’eresia, pp. 258 e ss. Per quanto riguarda la complessità del

rapporto tra profezia e pensiero politico in Girolamo Savonarola si veda: G.C. Garfagnini, La pre-dicazione sopra Aggeo e i salmi e P. Prodi, Gli affanni della democrazia. La predicazione delSavonarola durante l’esperienza del governo popolare, entrambi in G.C. Garfagnini (ed.),Savonarola e la politica, Atti del secondo seminario di studi, Firenze 19-20 ottobre 1996, Firenze1997, pp. 3-26 e pp. 27-89.

77 Ambrosio Catarino, De libris a christiano detestandis et a christianismo pènitus elimi-nandis, Baldo, Roma 1552; si veda anche Id., F. Ambrosii Catharini Politi Senensis De Prae-scientia, Prouidentia, & Praedestinatione Dei, Libri duo. Eiusdem de eximia PraedestinationeChristi, Tractatus. Item, de statu futuro puerorum, qui sine sacramento, & in antiquo peccatodefuncti sunt, Tractatus, Parisiis, ex officina Carolae Guillard, sub Sole aureo, via ad diuumIacobum, 1541.

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denza nella profezia e fede nella provvidenza, tra le righe del Nostro,paiono inconciliabili. È abbastanza immediato dedurre come questamancanza di fede nella provvidenza – sottesa all’abuso della profezia –si ripercuota sulla giusta accezione di virtù della prudenza, in forza diun fragilizzarsi del rimando alla fede in quella previdenza superiore cheè la stessa provvidenza divina: l’uomo è chiamato a nutrire una spe-ranza del tutto particolare in questa previdenza superiore, secondo cuiciascun uomo ha ciò di cui ha bisogno. Il bene a cui l’uomo mira, peressere raggiunto – nonostante l’impedimento del peccato – abbisognadei mezzi storici della prudenza, ma si compie pienamente solo secon-do la volontà della provvidenza. È in questo senso che la provvidenzadi Dio rende integralmente possibile la virtù cristiana della prudenza edè in questo stesso senso che una mancanza di fede nella provvidenzapuò svilire la virtù della prudenza a semplice ed efficace tecnica dicomportamento.

Se per il Gaetano le categorie profetiche conservano ancora unafeconda capacità interpretativa del complesso percorso dell’uomo – trail bene e il male – verso Dio, per il Catarino, su un piano meno teore-tico, ma più pratico, il dato di iniquità, l’aspetto di male che accompa-gna l’uomo in via, non è più decodificato in termini profetici, ma èquasi espressamente rifiutato e imbrigliato nell’evocazione della giustaautorità e delle buone virtù. Non si deve, secondo l’avviso del senese,tentare di svelare il mistero per il tramite di quella profezia che è solofonte di sregolatezza, di vana e laconicamente umana rassicurazione.L’atteggiamento giusto è quello di abbandonarsi alla provvidenza, allasapienza divina, la quale svela la sua sostanziale imperscrutabilità attra-verso quell’ordo, fatto di autorità, di virtù, di legge che ordina, apre estruttura verso il compimento del bene, costituendo così l’intera comu-nità degli uomini in unità. Quell’unità che secondo Francesco Silvestridetto il Ferrarese è un’unità di autorità, di adorazione, di sacramenti, dipredisposizione al fine78 e il principe che vi si oppone, scrive sempre ilFerrarese nel medesimo opuscolo De evangelica libertate del 1552, sioccupa solo dei commoda sua79.

Letture teologico-politiche del Katéchon e dell’Anticristo 153

78 Francesco Silvestri, Opusculum de evangelica libertate adversus christianae religions mo-dernos calumniatores, apud Joannem Bonhomme, Parisiis 1552, p. 45.

79 Ivi, p. 54.

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KLAUS DETHLOFF

ACCELERAZIONE E FRENATA NEL MESSIANISMOEBRAICO DEL VENTESIMO SECOLO

1. Prima dell’Olocausto

Il rapporto degli uomini con l’escatologia è molteplice e contraddi-stingue la modalità della loro fede, delle loro disposizioni interiori, deiloro atteggiamenti, delle loro speranze, delle loro paure e dei loro com-portamenti. Questo rapporto può essere affrontato con le categorie di«razionale» e «irrazionale», come ha fatto Kant nello scritto La fine ditutte le cose. Categorie appropriate per concepire questo rapporto sonoperò anche quelle di «accelerazione» e «frenata», ovvero «procrastina-zione». Con tutto ciò, le categorie di razionale e irrazionale possonocomunque essere messe in relazione con quelle di accelerazione e fre-nata, anche se si tratta di relazioni non necessariamente fisse, in quan-to l’accelerazione può essere tanto razionale quanto irrazionale e lostesso vale anche per la frenata. Le relazioni non sono fisse anche per-ché la frenata può sortire come conseguenza che, contrariamente alleintenzioni, subentri una accelerazione e a sua volta un arresto può con-seguire, contro ogni intenzione, a una accelerazione.

Nel seguito vorrei tentare di tratteggiare, con le categorie della «ac-celerazione» e della «procrastinazione» (o «frenata»), determinate mo-dalità di rapporto con l’éschaton, nei limiti in cui queste modalità dirapporto sono sintomatiche di alcuni orientamenti dell’ebraismo con-temporaneo. Il punto di partenza di queste funzioni è costituito da untesto di Franz Rosenzweig. Con le categorie dell’accelerazione e dellaprocrastinazione, nonché con i concetti-chiave di questo testo, si otter-rà quindi una matrice per ulteriori parallelismi.

Il testo di Rosenzweig1 tratta un problema centrale del messianismo

1 Franz Rosenzweig, Jehuda Halevi. Zweiundneunzig Hymnen und Gedichte. Deutsch. Miteinem Nachwort und Anmerkungen, Berlin 1927, p. 239 (il testo in: Franz Rosenzweig, Gesam-melte Schriften, Bd. 4.1, The Hague 1983, p. 203, è corrotto alla riga 12). [La traduzione in ita-

Accelerazione e frenata nel messianismo ebraico del XX secolo 155

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ebraico e si trova nella sezione note della sua traduzione delle poesie diYehudah Halewi:

«L’attesa del Messia, in funzione della quale l’Ebraismo vive, sarebbe unvuoto teologumeno, una mera “idea”, una chiacchiera, se essa non si fossesempre e di nuovo realizzata e distrutta, illusa e delusa nella figura del “falsoMessia”. Il falso Messia è dunque antico quanto la speranza in quello autenti-co. Esso è la forma mutante di questa speranza permanente. Ogni stirpe ebrai-ca si divide tra coloro che hanno la forza della fede di farsi illudere e coloroche hanno la forza della speranza di non farsi illudere. I primi sono i migliori,i secondi sono i più forti. I primi versano il sangue come vittime sacrificali sul-l’altare dell’eternità del popolo, i secondi officiano come sacerdoti davanti aquesto altare. Fino al giorno in cui non capiterà l’inverso e la fede dei creden-ti si tramuterà in verità, mentre la speranza degli speranzosi si tramuterà inmenzogna. Poi – e nessuno sa se questo “poi” non subentrerà già oggi – ilcompito degli speranzosi giungerà al termine e chi, una volta che sia sorto ilmattino di questo oggi, ancora apparterà agli speranzosi e non ai credenti,incorrerà nel rischio di essere reietto. Questo rischio incombe sulla vita, inapparenza più esente da pericoli, dello speranzoso».

Con questo testo Rosenzweig, nel momento in cui dice che «ognistirpe ebraica si divide tra...», ha dato sostegno alla struttura di unamatrice binaria. Da una parte si trovano infatti i credenti (con il falsoMessia), che si fanno illudere, che sono i migliori e le vittime sacrifi-cali; dall’altra parte si trovano gli speranzosi, con il Messia procrasti-nato o frenato o anche con nessun Messia, che non si fanno illudere,che sono i più forti e i sacerdoti. Ai credenti Rosenzweig ha riservatola menzogna, agli speranzosi la verità, con l’avvertenza però che que-sto rapporto si potrà invertire forse «già oggi». Se si utilizzano le cate-gorie kantiane dalla Fine di tutte le cose, gli speranzosi sono razionali,i credenti irrazionali. Naturalmente Kant non ha azzardato una inver-sione di tali qualifiche.

Anziché le qualifiche verità/menzogna o razionale/irrazionale siraccomandano forse quelle di accelerazione/procrastinazione, laddoveaccelerazione si può all’occasione sostituire con incalzamento, e pro-

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liano delle composizioni poetiche di Halewy, priva però delle note di commento di Rosenzweig,è reperibile in: Y. Halewi, Non nella forza ma nello Spirito. Novantacinque inni e poesie scelte daFranz Rosenzweig, a cura di G.D. Cova, Genova 1992].

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crastinazione con frenata, impedimento o ostruzione. La coppia con-cettuale accelerazione/procrastinazione ha il vantaggio di essere atte-stata fin dai tempi antichi e soprattutto di avere un carattere più empi-rico che valutativo. Ciò ha come conseguenza che questi concetti pos-sono essere fattori sia positivi sia anche negativi e ciò ha a sua voltacome conseguenza che essi sono «criteri euristici» appropriati per «mo-strare parallelismi»2.

Ora per Rozenzweig ciò significa che i credenti accelerano l’av-vento del Messia, mentre gli speranzosi lo procrastinano. È assoluta-mente possibile che Rosenzweig, nel momento in cui poneva l’antitesitra credenti e speranzosi, pensasse anche a una determinata posizionemessianica contemporanea. Immediatamente nel prosieguo del passocitato egli riferisce che Hermann Cohen, già compiuti i settant’anni, eraconvinto «di poter vivere il sorgere del tempo messianico». Eviden-temente, con questo aneddoto – a mio avviso abbastanza poco credibi-le – Rosenzweig tenta di porre Cohen, che in questo periodo valevasenz’altro come un procrastinatore messianico, in una zona d’ombra traaccelerazione e procrastinazione. Ora, poiché il libro di Rosenzweig è«dedicato a Martin Buber», si può pensare alla controversia, di domi-nio pubblico, tra Buber e Cohen del 1916, che nel 1917 è stata pubbli-cata da Buber con il titolo Popoli/Stati e Sion3. In quello stesso annocosì Rosenzweig scriveva a proposito di Buber in una lettera ai genito-ri: «la cosa migliore che egli abbia fatto è però la sua polemica conCohen»4. In una lettera aperta, Buber polemizza contro il saggio anti-sionista di Cohen Religione e Sionismo e quindi anche contro la rispo-sta di Cohen alla sua polemica5. Le idee guida dei due contraenti ven-gono presentate da Buber in una antitesi: a Cohen viene attribuito il«senso del contratto», il che è assolutamente adeguato, mentre Buberreclama per sé «il senso della realizzazione», il che, quantomeno dalversante retorico, è assolutamente efficace. In ogni caso, con questa

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2 Su questo punto vedi Paul Metzger, Katechon. II Tess. 2, 1-12 im Horizont apokalyptischenDenkens, BZNW 135, Berlin - New York 2005, p. 25.

3 Anche in Martin Buber, Der Jude und sein Judentum, Gerlingen 19932, pp. 273-301. 4 Lettera del 10.3.1917 in: Franz Rosenzweig, Gesammelte Werke, Bd. 1.1, The Hague 1979,

p. 365. 5 Stampata in: Hermann Cohen, Jüdische Schriften, mit einer Einleitung von Franz Rosen-

zweig, herausgegeben von Bruno Strauß, 2 Bd., Berlin 1924, pp. 319-340.

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contrapposizione sono segnalate le due posizioni messianiche indivi-duate da Rosenzweig. In questa polemica, Buber utilizza una retoricadella procrastinazione e dell’accelerazione. Egli pensa che sia giunto iltempo di non procrastinare o trattenere ulteriormente l’età messianica;ne va dell’«opera della nuova umanità»6 e della «durata definitiva»7,anzi si è tanto rapidamente nell’agire messianico che già si è pervenu-ti allo scopo, se è vero che Buber dice: «noi che ci radichiamo nelloscopo, noi “figli del Messia”»8.

Di fatto, i procrastinatori hanno talora escogitato un sistema cheappare agli acceleratori complicato e in qualche occasione anche cer-vellotico. Solo pochi anni dopo Rosenzweig, Mordecai Kaplan (1881 –1983), in America, ha preso unilateralmente le parti degli acceleratori:

«Neo-Orthodoxy, like the Reformist movement [...], regards all the institutionsof national life as quite secondary in importance, if not altogether superfluous.It substitutes for Jewish nationhood a mission of its own, the messianic pro-gram of propagating the teachings of the Torah [...]. It is obvious, however,that Neo-Orthodoxy does not take its messianism seriously, for characteristi-cally enough it refuses to press the point of Israel’s future. When messianismis a potent spiritual urge, it produces messianic movements, as it once did inIsrael. But Neo-Orthodoxy is too sophisticated to produce messiahs»9.

Il messianismo non viene preso sul serio dai riformisti e dai neo-ortodossi, essi si vietano «to press the point of Israel’s future», ossianon incalzano e non accelerano l’età messianica e contro di essi ilpotente messianismo produce continuamente nuovi movimenti messia-nici. Kaplan e Buber vogliono una comunità ebraica nazionale, Bubernella forma di un «insediamento» anarchico, Kaplan invece in quella diuno Stato nazionale, poiché è dell’avviso che il ruolo dell’ebraismoall’interno delle civiltà sarà completo solo quando l’ebraismo della dia-spora sarà integrato da uno Stato nazionale ebraico. Entrambi, Kaplane Buber, muovono da un male di fondo, con cui il messianismo sta inrelazione. Il male di fondo di Buber è l’esilio, e precisamente il più

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6 Buber, loc. cit., p. 292.7 Ivi, p. 293.8 Ivi, p. 296. 9 Mordecai M. Kaplan, Judaism as a Civilization. Toward a Reconstruction of American-

Jewish Life, Philadelphia-Jerusalem 1994 (1. ed. 1934), p. 159.

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grave di tutti gli esili possibili, poiché «questo esilio, nella sua interez-za, con tutta la sua miseria e tutta la sua onta» viene vissuto come «l’e-silio dalla Shekiná, dalla “dimora” di Dio»10. Da qui proviene certa-mente, per Buber, il suo tono quasi isterico della accelerazione, mentreKaplan, conformemente alla sua filosofia, la cui base è il pragmatismoamericano, è un acceleratore moderato. I movimenti messianici nonvengono visti, come da parte di Rosenzweig, sotto l’aspetto delle «vit-time sacrificali sull’altare dell’eternità del popolo», ma Kaplan si limi-ta a constatare come la concatenazione dei movimenti messianici siacondizione perché il pensiero messianico non muoia di inedia.

2. Dopo l’Olocausto

Ciò avveniva prima dell’Olocausto. Dopo l’Olocausto il problemaassume sembianze diverse. La matrice di Rosenzweig ha sì, occasional-mente, ancora la sua validità, ma si è fatto più complicato e controversoil modo in cui renderla pregnante. Materia di dibattito è ora il rapportodello Stato di Israele con la Shoah, nonché il rapporto dello Stato diIsraele e della Shoah con il messianismo. Inoltre, è importante, in que-sto contesto, il fatto che l’Olocausto venga inteso o come punizione perpeccati commessi, secondo il principio dell’«a causa dei nostri peccati»(mipnei chata’einu), o come un fenomeno al di là di ogni teodicea.

Se l’Olocausto viene inteso come punizione «a causa dei nostripeccati», si danno allora due possibilità:1) Il peccato consiste nelle intempestive attività sioniste, che vorreb-

bero produrre l’età messianica ricorrendo a iniziative umane; ossia,il peccato consiste nell’accelerazione e nell’incalzamento dell’e-vento messianico. Questa è l’opinione del gruppo ultraortodosso diNeture Karta («Sentinelle della città») o anche del gruppo raduna-to attorno a Rabbi Schach.

2) La seconda possibilità è l’inverso della prima. Il peccato consistenon nella accelerazione, ma nella procrastinazione, nell’atteggia-mento passivo verso il Messia venturo. Questa è l’opinione delgruppo ultraortodosso di Gush Emunim («Blocco dei credenti»).

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10 Buber, loc. cit., p. 289.

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Ma, in un modo o nell’altro, gli eventi dell’Olocausto hanno, vistinell’ottica della punizione, una valenza messianica nella misura in cuivengono interpretati alla stregua di doglie messianiche (hevlei ma-shiah), ossia di eventi catastrofici che precedono l’avvento del Messia.Per quanto però riguarda il sionismo, esso, al di là delle qualità negati-ve dell’attività intempestiva o della passività ugualmente intempestiva,non ha per questi gruppi ultraortodossi altre caratteristiche degne dinota. Si può perciò classificare questo tipo di messianismo come unradicalismo religioso da non caratterizzare con categorie sionistiche.

Qualora l’Olocausto non venga inteso come punizione e vada quin-di messo in relazione al sionismo e allo Stato di Israele, si impongonoinvece le seguenti domande:1) L’Olocausto è un evento unico nel suo genere, unique, è un novum

che non si può catalogare nella continuità delle catastrofi che ave-vano fino a quel momento visitato l’ebraismo, anzi un evento che,nella sua unicità assoluta, fa «saltare» la continuità della storia ingenerale?

2) Oppure l’Olocausto, per quanto tremendo sia stato, non è un eventounico nel suo genere, o, detto in altri termini: non sarebbe forse me-glio intenderlo come churban anziché come Shoah, forse come ilterzo churban dopo la distruzione del primo e del secondo tempio diGerusalemme?11 A queste due domande se ne aggiunge una terza:

3) Gli eventi o le entità che vengono messe in relazione all’Olocaustohanno valenza messianica oppure no? E la quarta e ultima doman-da è:

4) Come va intesa questa relazione? È una relazione causale, comeviene talvolta presentata dagli storici, e ciò equivarrebbe a chieder-si: l’Olocausto è la causa dello Stato di Israele? O ne è la condizio-ne necessaria? O addirittura la condizione sufficiente? Oppure sitratta di una relazione tale per cui la valenza messianica dello Statodi Israele e la valenza messianica del sionismo che sta a fonda-mento di questo Stato possono essere intese come una risposta al-l’Olocausto? Una risposta di questo genere non sarebbe irragione-vole, quantomeno essa corrisponderebbe ai concetti di ragione cheKant ha sviluppato, quando p. es. dice, nella Fine di tutte le cose:

160 Klaus Dethloff

11 586 a.C. ad opera dei Babilonesi e 70 d.C. ad opera dei Romani.

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«tuttavia, questa idea, anche se supera di molto la nostra capacità di compren-sione, è strettamente imparentata con la ragione da un punto di vista pratico»12.

Ora, nel quadro di questi problemi possiamo vedere come ci siatteggi nei riguardi dell’accelerazione e della procrastinazione, se cioèl’Olocausto sia considerato un momento accelerante o frenante e se, aloro volta, i suoi interpreti siano degli acceleratori o dei frenatori e pro-crastinatori.

Vorrei tentare di spiegare questi problemi ricorrendo ad alcuniesempi.

Il rabbino riformista Ignaz Maybaum (1897–1976) vede l’Olo-causto non come un disastro della storia ebraica singolare e assoluto,ma come un disastro relativizzabile13. Auschwitz ha avuto un’anticipa-zione nelle due distruzioni del tempio gerosolimitano, così che questitre eventi possono essere racchiusi nel concetto, presente nella tradi-zione ebraica, di churban (distruzione, rovina). Tra le caratteristichedistintive di questo concetto vi è il fatto che un churban conclude un’é-ra e ne inaugura una nuova e questo vale sia per le distruzioni del tem-pio sia per Auschwitz. Ogni nuova éra ha, nell’ottica di un rivolgimen-to dialettico, una nuova e diversa qualità e per Maybaum, nel solcodella tradizione dell’ebraismo riformato, costituisce una premessa fuordi discussione che questo rivolgimento rappresenti un progresso nellastoria. Il primo churban, ossia la prima distruzione del tempio, ha pro-dotto l’ebraismo e la diaspora. Il secondo churban, ossia la secondadistruzione del tempio, che venne percepita nell’ebraismo come unacatastrofe di dimensioni cosmiche, ha prodotto l’ebraismo rabbinico e,in luogo del culto sacrificale, sono subentrati il culto in sinagoga, senzasacrifici, e lo studio della Torah, con la santificazione della vita quoti-diana. Il terzo churban, ossia l’Olocausto, ha avuto come conseguenzala distruzione del ghetto medievale e la nuova qualità può quindi esse-re vista nel fatto che le società occidentali si sono democratizzate, chegli ebrei si sono assimilati in esse e che le chiese hanno modificato, inseguito all’Olocausto, la loro posizione nei confronti degli ebrei14.

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12 I. Kant, WA XI, p. 184. 13 La filosofia e teologia dell’Olocausto di Maybaum è esposta in: Ignaz Maybaum, The Face

of God after Auschwitz, Amsterdam 1965. 14 Per una comprensione benevola di questa tesi di Maybaum, piuttosto sorprendente, si

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In ordine a questa concezione della storia si potrebbe porre imme-diatamente a Maybaum la domanda se a tal fine era poi davvero neces-saria la morte di sei milioni di persone. Questa domanda sarebbe tutta-via posta in modo sleale, in quanto, per un verso, Auschwitz non è perMaybaum una condizione necessaria, bensì una condizione sufficienteper la nuova éra, e per altro verso egli si sforza di conferire adAuschwitz un senso che non faccia apparire la sua dialettica progressi-va come una sorta di dileggio delle vittime. Maybaum cerca il senso diAuschwitz nel concetto di sacrificio. A tal riguardo due concetti disacrificio sono rilevanti, quello ebraico e quello cristiano. La croce è ilsimbolo del sacrificio cristiano, che è avvenuto, mentre la akedah, lacorda cioè con cui Isacco viene legato per essere immolato, è il simbo-lo del sacrificio ebraico, che non è avvenuto. Con queste due categoriesacrificali, mediante le quali sono simboleggiati Israele e i popoli cri-stiani, Israele viene posto in relazione con gli altri popoli. I popoli sonole figure attive della storia, mentre l’ebraismo è il latore di una missio-ne15. Ora, l’ebraismo può realizzare questa missione solo se si avvale dimotivi non ebraici, di modo che anche gli altri popoli comprendano ciòdi cui ne va. I popoli però comprendono unicamente il messaggio dellacroce, la quale afferma che la morte vicaria è una condizione necessa-ria perché altri possano vivere e perché la vita continui. È ben vero che,se il mondo fosse diverso da come è, la missione potrebbe anche esse-re realizzata attraverso il principio della akedah, tuttavia, per come èora strutturato il mondo, sono i popoli a determinarne il corso e Israeledeve comunicare con essi, in modo che i popoli intendano il messag-gio, e ciò significa: gli ebrei devono dare rappresentazione alla realtàdella crocifissione. Così, come duemila anni fa un singolo ebreo è statocrocifisso, ora sono dovuti morire due milioni di ebrei: «The Golgathaof modern mankind is Auschwitz»16. Anche ad Auschwitz Dio è rima-sto presente nella storia. Il profeta Geremia aveva definito il re Nabuco-donosor, che aveva conquistato Gerusalemme e distrutto il tempio,

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dovrebbe prestare attenzione al fatto che una dichiarazione ufficiale della chiesa cattolica a favo-re della democrazia non era mai stata pronunciata prima del 1945, ossia nel discorso di Natale delPapa per quell’anno.

15 L’idea di missione è nata dalla trasformazione subita dal concetto messianico nella tem-perie dell’Illuminismo e in quanto tale è divenuta un elemento dottrinale centrale dell’ebraismoriformato.

16 Ignaz Maybaum, The Face of God after Auschwitz, cit., p. 36.

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come «servo di Dio» e, per analogia, si chiede Maybaum: «Would itshock if I were to imitate the prophetic style and formulate the phrase:Hitler, My Servant!?»17 Ma se pure questo modo di esprimersi è un po’sconvolgente, per Maybaum vale in ogni caso che «Hitler was aninstrument, in itself unworthy and contemptible»18. La domanda è: pos-siamo dedurre da tutto ciò che abbiamo a che fare con un discorso filo-sofico che razionalizza il male e sostituisce l’antico discorso ebraicodella teodicea della punizione con una teodicea della strumentalizza-zione, la quale però, al cospetto della mostruosità della sofferenza,quale quella rappresentata da Auschwitz, dileggia le vittime? Una pos-sibile risposta è che in realtà, con le spiegazioni di Maybaum, non neva di un discorso nella accezione di un abituale insegnamento filosofi-co. Il libro di Maybaum è nato infatti da prediche che egli ha tenuto aLondra, in un arco temporale piuttosto lungo, in quanto rabbino di unacomunità ebraica riformata. Si tratta di un discorso di consolazionebasata sulla comprensione del Messia da parte di un ebreo riformato equindi di un discorso che dà una risposta ad Auschwitz. Mediantel’Olocausto gli ebrei sono diventati gli acceleratori di conquiste che,nel contesto della comprensione riformata dell’ebraismo, hanno quali-tà messianica. Prima dell’Olocausto, un rabbino riformato che avesseinterpretato e risposto in questa maniera sarebbe stato annoverato, nellamatrice di Rosenzweig, tra i frenatori. (A margine di tutto ciò, il letto-re del libro di Maybaum può vedersi messo al confronto anche con l’i-dea che gli ebrei non rappresentano l’Anticristo, ma l’Antinazismo)19.

Come si presenta invece la questione se l’Olocausto non è un chur-ban, ma qualche cosa di unique, di unico nel suo genere? Che cosa neconsegue quindi per il rapporto tra l’Olocausto e lo Stato di Israele?Una parte centrale della filosofia di Emil Fackenheim (1916–2003) èdedicata a tale questione. Fackenheim muove dalla premessa che l’Olo-causto è unique e in nessuna circostanza relativizzabile. Nella relazionetra Olocausto e lo Stato, Israele corrisponde da una parte al termineOlocausto, dall’altra parte al termine redemption, e segnatamente inrelazione alla unicità e alla assenza di precedenti di questo evento. Inquanto relato di una tale relazione redemption è caricato di un signifi-

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17 Ivi, p. 67.18 Ibidem. 19 Cfr. ivi, pp. 25 ss.

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cato messianico, così che i confini tra secolare e religioso risultano per-meabili o, come dice Fackenheim, «radically shaken»20. Essi, comun-que, sono radically shaken e quindi permeabili per il Messia non soloa motivo dell’Olocausto. Lo Stato di Israele, questo è ciò che Facken-heim intende ora mostrare, ha ottenuto la sua valenza messianica giàprima dell’Olocausto, e segnatamente grazie al movimento sionista. In-fatti, già il movimento sionista ha reso permeabili i confini tra secolaree religioso. Fackenheim ritorna alle origini del sionismo politico. Par-ticolarmente significativo è per lui il motto che Theodor Herzl avevadato al suo romanzo Altneuland («L’antica e nuova terra»): «se volete,non è un favola». È questa volontà specifica, «in touch with an absolu-te dimension»21, a unire l’ebreo secolarizzato e quello ultraordosso e arendere entrambi «strange bedfellows»22. Questa volontà agisce, sem-pre e ancora sottotraccia, sul fondamento del sionismo.

Con questo richiamo alla volontà Fackenheim può assicurare allaredenzione un carattere, nella sua sostanza, ebraico, il che risulta unvantaggio nel momento in cui la redenzione è legata, nonostante tuttociò, all’Olocausto. Ora, come viene prodotto questo legame tra Olocau-sto e redenzione? È innanzitutto importante constatare che questo lega-me non può essere in alcun modo prodotto dal fatto che l’Olocaustoabbia un significato e uno scopo («meaning and purpose»)23. La rela-zione tra l’Olocausto e lo Stato di Israele non è una relazione causalestorica, ma viene prodotta solo da un «response»24. Per Fackenheim,l’Olocausto non ha alcun significato, neppure come doglie del parto delMessia. Ciononostante, lo Stato di Israele si deve a una volontà nutritadalla tradizione messianica. È una condizione necessaria per il respon-se il fatto che esso sia un «commitment», un preciso impegno «to theautonomy and security of the State of Isreael»25. Prescindere da questaistanza significherebbe preparare una vittoria postuma per Hitler26.

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20 Emil L. Fackenheim, The Holocaust and the State of Israel: Their Relation, in Id., TheJewish Return into History. Reflections in the Age of Auschwitz and a New Jerusalem, New York1978, p. 278.

21 Ivi, p. 277.22 Ivi, p. 278.23 «No meaning and purpose will ever be found in that event», ivi, p. 280.24 Ivi, p. 281. 25 Ivi, p. 282. 26 Il postulato principale di Fackenheim nella risposta ad Auschwitz è «the commanding

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Ora, se si tenta di inquadrare la posizione di Fackenheim nella ma-trice di Rosenzweig si dovrà prendere in considerazione quanto segue:solo il response dà allo Stato di Israele il suo carattere messianico. Ilresponse non tollera alcuna procrastinazione; anzi, sarebbe un errorecategoriale ascrivergli lo stesso predicato della «procrastinazione». Lastessa cosa vale per la volontà sionista. Proprio Herzl, che Fackenheimcita a testimone, era in ultima istanza un acceleratore che sapeva che ilsuo impeto sionista non era possibile senza la tradizione messianica eche non aveva paura dei falsi messia, così come non li temevaRosenzweig, ma volentieri si annoverava egli stesso tra le loro fila.D’altro canto, tuttavia, il fine del response di Fackenheim è di preser-vare l’ebraismo da ulteriori disgrazie. Dunque, la sua posizione mes-sianica sarebbe anche frenatrice? E, conformemente alla matrice diRosenzweig, un tale response non è quindi altro, pur con il suo caratte-re frenante, che un falso messianismo? Non era stato più saggio Herzl,l’iniziatore della volontà e dell’accelerazione, nel momento in cui, inalcuni dialoghi occasionali e poi, pubblicamente, nel suo romanzoAltneuland, si era identificato con Sabbatai Zwi? Ora, certo in Facken-heim non può trattarsi solo della genuina concezione che, due decennidopo la fondazione dello Stato di Israele, era standard presso la mag-gioranza degli israeliti: da una parte della matrice vi era la mentalitàdegli israeliti, dall’altra parte vi era la mentalità della diaspora, la primaera accelerante, la seconda frenante, la prima attiva, la seconda passiva,e quanto al resto non c’era nulla.

Anche i problemi e le aporie che sono connessi alla relazione traOlocausto e Stato d’Israele non sono risolti dalla concezione ultraorto-dossa secondo cui il Messia agisce solo in base a direttive divine. Inquesto caso, infatti, la fondazione dello Stato è sia una accelerazioneinammissibile, sia anche, nel contempo, un differimento contro voglia,un differimento cioè dell’avvento del Messia. Gli ultraortodossi, manon solo loro, argomentano poi, di quando in quando, che è la visionesionista ad aver affermato che le persone uccise nell’Olocausto sonomorte sull’altare della fondazione dello Stato, così che lo Stato ebraicoè stato accelerato a spese della vita delle vittime. Da qui si evince, nel-

Accelerazione e frenata nel messianismo ebraico del XX secolo 165

voice of Auschwitz». Questa voce ha comandato quanto segue: «the authentic Jew of today is for-bidden to hand Hitler yet another, posthumous victory» (ivi, p. 22).

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l’argomentazione, una sorta di corollario: il movimento sionista ha tra-scurato di salvare gli ebrei. La conclusione è pertanto che lo Statoebraico è stato concepito nel peccato ed è rimasto peccatore27. Si trattadi un modello base di argomentazione antisionista ripetuto innumere-voli volte e dalla logica catastrofica.

Qual è allora il problema centrale? Il problema centrale consistenella questione se il legame tra potere politico e pretesa messianica,vale a dire la accelerazione, non produca sempre e di nuovo dei falsimessia. È vero che questi messia, nell’atto in cui si rivelano privi dieffetto, mantengono in vita la coscienza messianica. Tuttavia, nell’attoin cui si impone il successo del movimento messianico, che è di piùlunga durata, come nel caso del cristianesimo o dello Stato di Israele,in gioco vi è allora qualche cosa di diverso.

Che cosa c’è in gioco? Ha tentato di mostrarlo Emmanuel Lévinas.Alla fine del suo libro Totalité et infini («Totalità e infinito») egli pro-pone la scelta tra due alternative. Egli si chiede cioè se il tempo mes-sianico può essere visto come una «nuova struttura del tempo» o comela «estrema vigilanza (vigilance) della coscienza messianica». Entram-be le alternative sono una opzione messianica, su cui la verità «puòporre il suo sigillo». In questo libro, in realtà, dicendo che il problematravalica i confini del libro stesso, Lévinas non prende decisamenteposizione a favore di uno specifico corno dell’alternativa.

In un altro luogo Lévinas favorisce però il principio della vigilan-ce28. Per lui «tutti i nazionalismi ormai sono messianici e tutte le nazio-ni sono elette». Tra queste nazioni c’è comunque un «privilegio» del-l’ebraismo. Questo privilegio consiste nel «rifiutare le premature prete-se messianiche»29. L’ebraismo è predestinato a questo ruolo per il fattoche esso «ha sempre voluto essere una simultaneità di impegno e di-simpegno»30. Vorrei qui parafrasare: l’ebraismo è sempre stato una

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27 Su questa struttura «overall» dell’argomentazione antisionista cfr. Yehuda Bauer, TheImpact of the Holocaust on the Establishment of the State of Israel, in: Major Changes Within theJewish People in the Wake of the Holocaust. Proceedings of the Ninth Yad Vashem InternationalHistorical Conference, Jerusalem 1996, p. 545.

28 Vigilance è in Lévinas un altro termine per «responsabilità etica». 29 E. Lévinas, Difficile Liberté, Èditions Albin Michel, Paris 1976, p. 320 (tr. it. a cura di S.

Facioni, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Milano 2004, p. 265). 30 Ivi, p. 318 (tr. it., p. 264): «Le judaïsme [...] a toujours voulu être une simultanéité de l’en-

gagement et du dégagement».

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simultaneità di accelerazione e frenata. Ora, se vigilance può essere in-tesa in modo tale da essere un appello instancabile al ridestarsi dal so-gno apocalittico, essa richiama sempre e di nuovo i sognatori al lorotempo. Così intesa, vigilance è, in ultima istanza, il Katéchon.

(tr. dal tedesco di Francesco Ghia)

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GIANCARLO CARONELLO

«L’ANTICRISTO È UN UOMO, NON UN DEMONE»Su una figura escatologica di Erik Peterson*

1. Osservazioni preliminari: Katéchon e Anticristo

Nell’opera di Peterson manca una trattazione sistematica della Se-conda Lettera ai Tessalonicesi e, in particolare, del testo relativo al Ka-téchon (2Ts 2,1-12). Tracce di riflessione in materia sono però indivi-duabili in diversi contesti. Sono dovute sia alla sua sensibilità escatolo-gica, sia soprattutto alla volontà di rispondere a uno degli interrogatividi base della sua teologia: che senso hanno in una prospettiva salvificala storia e, in particolare, la strutturale provvisorietà che investe ogniforma rappresentativa?

Questa consonanza del tema al pensiero di Peterson comporta tut-tavia due preliminari precisazioni. (a) Le sue brevi riflessioni sul Katé-chon non consentono di rilevare un uso univoco del termine. Lo siavverte soprattutto nei frammenti di teologia politica degli ultimi anniTrenta. I significati sono quelli tradizionali. Un esempio è la qualificadell’impero romano come Katéchon1, ove il contesto consente però dif-

∗ Al prof. dr. Werner Greve, nell’ottantesimo compleanno1 Si vedano soprattutto i due frammenti recentemente pubblicati dal lascito letterario e rife-

rentisi presumibilmnete al periodo 1925/1932 in: E. Peterson, Imperium, Christus und An-tichristus in Id., Offenbarung des Johannes und politisch-theologische Texte (Testi inediti pubbli-cati a cura di Barbara Nichtweiß e Werner Löser SJ), Echter, Würzburg 2004, pp. 230-231, ePolitik und Theologie: Der liberale Nationalstaat des 19. Jahrhunderts und die Theologie, ivi, pp.238-246, in particolare p. 247. Significativo è che anche in tal caso la ripresa del tópos da parte diPeterson subisca una duplice, determinante integrazione: a) l’impero romano come Katéchonviene inteso sino alla fine della sua riproposizione quale sacro romano impero e sino alla sua dis-soluzione in un sistema di Stati nazionali; b) anche in tal caso però la condizione di possibilità nonviene desunta da 2Ts 2,1-12, ma dal fatto che tali evoluzione storiche furono «realizzabili solo inseguito al sacrificio di Gesù». Cfr. E. Peterson: Imperium, loc. cit., p. 230. Sul problema escato-logico, prima che teologico-politico, inerente al rapporto impero romano/ sacro romano impero /Stati nazionali cfr. G. Caronello, L’angelo tra nazione e popolo. Su una figura teologico-politicadi Erik Peterson (1951), in M. Nicoletti (ed.), Angeli delle nazioni. Origine e sviluppi di una figu-ra teologico-politica, «Politica e Religione. Annuario 2007», Morcelliana, Brescia 2007, pp. 313-353, in particolare pp. 337-345.

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ficilmente di ricostruire il «blocco dei tempi» cui è connessa l’espe-rienza dell’attesa riferita dal testo paolino. (b) Nei pochi casi in cuiPeterson fa esplicito riferimento alla fonte (2Cor 2,1-12) il termineKatéchon viene omologato a quello di «Anticristo»2. È questo il signi-ficato che trova maggior riscontro nella escatologia petersoniana. Chesignifica questa omologazione semantica? Alla figura dell’attesa defi-nita dal «frattempo» ipotizzato tra il darsi del Katéchon e l’arrivo del-l’Anticristo va attribuita una prima, vincolante evidenza – oppure nonè essa stessa metafora di un «tempo intermedio» le cui radici dogmati-che vanno oltre lo specifico momento rappresentativo, investendo inve-ce il tempo nella sua integralità? Lo scarso significato attribuito da Pe-terson alla ricezione teologico-politica della figura del Katéchon3 indu-ce a ritenere che la categoria del «tempo intermedio» vada colta al di làdella singola – per quanto affascinante – rappresentazione dell’attesa,per essere invece oggettivata come figura della fine. Solo in riferimen-to alle costanti dell’escatologia petersoniana, in particolare alla teoriadegli eoni, diviene comprensibile l’omologazione, non la contrapposi-zione, del Katéchon all’Anticristo.

1.1. Il Katéchon e la disponibilità del tempo storico

La qualifica di blocco dei tempi attribuita ad un’attesa sottratta (siapur provvisoriamente) al proprio naturale compimento presuppone unanozione di tempo storico, specificamente moderna, per cui la «disponi-

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2 Il passo in cui è documentabile l’omologazione terminologica in oggetto è tratto dal primoparagrafo della lezione di semantica neotestamentaria tenuta a Bonn nel semestre invernale1924/1925 e pubblicato di recente da Barbara Nichtweiß: Satan und die Mächte der Finsternis, inE. Peterson, Der erste Brief an die Korinther und Paulus-Studien, a cura di Hans-Ulrich Weide-mann, Echter, Würzburg 2006, pp. 441-450, in particolare l’excursus intitolato appunto «DerAntichrist», ivi, pp. 443-447, spec. p. 444.

3 All’affermarsi della prospettiva teologico-politica nell’ambito di studi non strettamenteesegetici fanno riferimento due «classici» della recente letteratura sul Katéchon. P. Metzger,Katechon. II Thess 2, 1-12 im Horizont apokalyptischen Denkens, Walter De Gruyter, Berlin,2005, pp. 20-25 pone in rilievo il significato degli studi di Willi Böld, Das Bollwerk wider dieChaosmächte, Bonn 1938 e le riflessioni pubblicate in materia da Carl Schmitt a partire dal 1942.C. Badilita, Métamorphose de l’Antichrist chez les Pères de l’Église, Beauchesne, Paris 2005, faun omologo riferimento soprattutto alla tradizione del mito dell’avversario della verità affermato-si con Selma Lagerlöf (1897), Vladimir Solov’ëv (1900) e R.H. Benson (1907) (cfr. ivi, pp. 510-512). Se si eccettua il riferimento a Solov’ëv, caratterizzato peraltro da una ricezione profonda-mente critica, non è constatabile in Peterson alcuna traccia degli altri autori.

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bilità» del futuro non rappresenta l’eccezione, ma la norma. Questaprecomprensione s’afferma, esplicitamente o implicitamente, cometeologumeno qualora venga definita la ragione di tale «disponibilità»:il presente, inteso soprattutto in termini di secolarità, non è più pensa-to in rapporto alla sua fine – e tanto meno all’atto di sovranità divinache la abbia decretata – ma a un insieme di specifiche possibilità didurata, cioè allo spazio in cui si articola la volontà d’affermazione delsoggetto di sovranità4.

In quest’ottica un futuro che sia oggetto di «blocco» o – in terminiancor più evidenti – del suo omologo opposto, la «accelerazione», haperso la dimensione veritativa che ancora aveva, ad esempio, in unavisione agostiniana della storia. Un futuro «disponibile» rappresentauna sezione del tempo priva di una equivalenza di principio con il pre-sente cui venga rapportato. La sua omologazione a uno spazio di affer-mazione soggettiva – potenziabile sino a postulare per intrinseca neces-sità l’entimema del cosiddetto «tempo reale» – contraddice il significa-to che caratterizza il rapporto tra le due parousíe. In termini escatolo-gici il futuro è il luogo prospettico cui va rapportato il tempo nella suainterezza, cioè in tutte le sezioni possibili al suo interno, in particolareil cosiddetto «presente storico»5.

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4 Il tema dell’affermazione del soggetto come costituzione di spazi di sovranità (Selbst-behauptung) occupa un ruolo centrale in Peterson sin dalle sue prime riflessioni teologiche. Inparticolare il confronto con Franz Overbeck gli consente di sottrarlo all’appiattimento storicisticosubito da tale categoria grazie alla sua identificazione con quella della prima modernità. Entrambii teologi convergono sull’affermazione che un cristianesimo sottratto alle proprie premesse esca-tologiche coincida con la propria storicità e che questa strutturale omologazione ne contrassegnila fine. L’autoaffermazione non è pertanto termine centrale di una tesi di tipo storiografico (finischristianismi), ma di una teologia della salvezza: «ad essersi affermato non è l’attesa cristiana, mail mondo». Cfr. F. Overbeck: Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie (1873) (riprodu-zione anastatica della II ediz., Leipzig 1903), Darmstadt 1963, p. 72. Quanto differenzia Petersonda Overbeck è la chiara consapevolezza che tale affermazione non si risolve in una diagnosi sto-riografica, ma nella questione centrale del cristianesimo storico – della sua rappresentabilità. Sulladimensione biografica e teologica dell’argomento cfr. B. Nichtweiß, Erik Peterson. Neue Sicht aufLeben und Werk, Freiburg Br. 1994, pp. 460-462 e soprattutto pp. 470-480.

5 Che la nozione moderna di «futuro» sia il nodo teologico destinato a condizionare la gene-si della «rivoluzione nella dogmatica teologica avvenuta soprattutto nella teologia protestantetedesca del primo dopoguerra» e che l’antinomia inerente a tale nozione verta sul rapporto tra «ladimensione estensionale della storia» e quella «intenzionale» (= storico-salvifica) grazie a cui lastoria ha un futuro in prospettiva teologica, è il tema centrale della ricerca storico-concettuale diL. Hölscher, Weltgericht oder Revolution. Protestantische und sozialistische Zukunftsvorstel-lungen im deutschen Kaiserreich, Stuttgart 1989, in particolare pp. 27-74 (cit. pp. 61-62). La rico-

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Nella nozione di Katéchon inteso quale «blocco» di un tale presen-te è pertanto avvertibile l’aporia intrinseca alla singola sezione deltempo qualora quest’ultima venga definita a prescindere dal principioche la regola. Questo elemento aporetico consente peraltro di rilevarein termini pressoché idealtipici l’operazione di senso diametralmenteopposta a quella da Peterson connotata come riserva escatologica sultempo in quanto tale e, in particolare, sul fatto che esso sia «spazio dicompimento» della giustificazione. Una radicale finalizzazione praticadel futuro alla persistenza del presente storico rappresenta, di fatto,l’implicita negazione dell’ipoteca che con la venuta di Cristo grava suogni struttura della temporalità. Questa subordinazione a priori deltempo storico al suo «futuro» verrebbe anzi portata all’apice ove il Ka-téchon venisse qualificato come figura, personale o no, di resistenza6.

All’interno di un cosmo caratterizzato da rapporti di radicale prov-visorietà indotti dal passaggio di signoria, com’è appunto il mondocolto dalla prospettiva dei due eoni contrapposti, di quale consistenzadisporrebbe il presente storico, al di là della volontà di autoaffermazio-ne? L’interrogativo non tocca l’identificabilità del singolo, presunto ri-tardo della fine dei tempi (ad es. se il Katéchon e lo spazio di sovrani-tà raffiguratovi presentino carattere personale o evenemenziale), quan-to invece il come l’esercizio della sovranità sul tempo storico possaqualificarsi in termini di legittimità – e perché sia riconoscibile cometale solo a condizione d’essersi preliminarmente imposto quale insiemedei deittici interni alla realtà del cosmo. Il fatto che lo spazio di signo-ria del Katéchon sia pensabile solo come «spazio storico» comporta ineffetti un risvolto epistemologico analizzato da Peterson soprattutto in

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struzione dell’atmosfera teologica in cui Peterson matura la propria opzione escatologica è dovu-ta allo «aut-aut» cui l’aveva lentamente, ma inesorabilmente condotto il confronto con la crisidella nozione di futuro emersa nell’illuminismo teologico, da Reimarus in poi. In effetti «bastòsolo una nuova valutazione dell’escatologia per fare emergere la contraddizione latente da tempoe cui era allora tuttora vincolata la scuola liberale di storia delle religioni» (ivi, p. 70). Cfr. sul temaB. Nichtweiß, E. Peterson, cit., pp. 470-498 ed in particolare per quanto concerne il contrasto sul-l’escatologia con W. Bousset e con Reitzenstein l’interlocutore di più frequente riferimento, pp.264-266. Per una visione di insieme del rapporto «futuro/escatologia» qui accennato cfr. inoltreL. Hölscher, Die Entdeckung der Zukunft, Frankfurt M. 1999.

6 La nozione di riserva escatologica è una categoria teologica formulata da Peterson, vero-similmente per primo, nel commento alla Lettera ai Romani (in riferimento a 6,1-23 ed in parti-colare a 6,7): cfr. in proposito B. Nichtweiß, Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, cit.,pp. 487-493, soprattutto pp. 490-491, nonché G. Uribarri, La reserva escatológica: un conceptooriginario de Erik Peterson in «Estudios Eclesiasticos» 78(2003), pp. 29-105.

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base alla categoria paolina della «sapienza del cosmo»; al di là dellasingola raffigurazione teologico-politica del Katéchon, questo aspettopresenta per lui un particolare spessore problematico7.

1.2. La natura cosmica del Katéchon

Sottratta alle valenze rilevate dalla storiografia e dalla scienza dellereligioni di fine Ottocento8 e riproposta all’interno di una analisi deirapporti salvifici, la categoria del Katéchon presenta in Peterson unadecisiva connotazione complementare: ha senso solo se contestual-mente rapportata a quella di cosmo. Il persistere della differenza tra laprima e la seconda parousía, senza la quale il Katéchon sarebbe impen-sabile, e in particolare l’«ordine che ne risulta», non sono dati storici,ma cosmici9. Il contrasto tra i due eoni non è di natura raffigurativa,

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7 Il motivo della sapienza (= gnósis) del cosmo è documentabile in Peterson sin dal 1915 inuna riflessione meditativa dedicata al sintagma paolino saggezza/stoltezza correlato a quello disalvezza/perdizione (1Cor 1,18-21). Il significato del sintagma viene univocato in rapporto allastruttura decisionale che esso articola. Ambito di decisione è il rapporto tra Dio e uomo, tra veri-tà e non verità della gnōsis una volta che «il presente si sia trasformato nella promessa del futu-ro». Solo in base a tale premessa sono «risolvibili le primordiali dispute sugli ambiti di compe-tenza detenuti da Dio o dall’uomo – chi li potrà decidere?». Nella definizione della natura dellagnosi (cosmica vs. divina) del 1915 è avvertibile il conflitto sui rapporti di signoria cosmica tema-tizzato nel 1924/25: «Chi può prendere una decisione? Dio ha deciso nella Croce del Signore».Cfr. E. Peterson: Weisheit und Torheit (I Cor. 1, 18-21), in Id., Der erste Brief, cit., pp. 413-415,qui p. 414. La riflessione viene ripresa – con articolati riferimenti alla struttura del cosmo e degliambiti di signoria – nel primo paragrafo della lezione sulla semantica neotestamentaria del1924/25. Cfr. Id., Kosmos und Äon, ivi, pp. 416-440, in particolare pp. 420-421. Anteriore a que-ste lezioni universitarie è quella sulla mistica, volta tra l’altro a porre in evidenza le premesse neo-testamentarie e cosmico-sacrali della «gnosi». Cfr. in merito B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., pp.388-400. Coevo alla stesura del primo ciclo di lezioni è l’articolo di E. Peterson: Zur Theorie derMystik, in «Zeitschrift für systematische Theologie» 2(1924/25), pp. 146-166.

8 Determinante è il confronto condotto da Peterson con Wilhelm Bousset, il cui Der Anti-christ in der Überlieferung des Judentums, des Neuen Testaments und der alten Kirche. EinBeitrag zur Auslegung der Apokalypse, Göttingen 1895, ha profondamente inciso nel dibattito sulKatéchon (cfr. soprattutto le tesi esposte ivi, pp. 77- 82, 81-93, 105-106). Sulla ricezione di talitesi cfr. P. Metzger, Katechon, cit., pp. 288-293. Tale confronto ha inizio nel periodo di Gottinga,con la partecipazione al circolo della seconda generazione degli esponenti della scuola di storiadelle religioni (la kleine Fakultät) per culminare nella definizione petersoniana della teologiacome esclusivamente cristiana nel 1925. In riferimento alla nozione centrale del potere delegatoagli arconti che contrappone Peterson a Bousset cfr. E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., pp.447-448.

9 Cfr. E. Peterson, Eschatologische Herrschaft und kirchliche Autorität, in Id., Der ersteBrief an die Korinther und Paulus-Studien, cit., pp. 141-144, qui p. 141.

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come se a contrapporsi fossero le dimensioni di senso indotte da duesezioni operate all’interno dello stesso campo, quello storico. A con-trapporsi sono forze elementari (le «forze del buio») che raggiungonocon il Katéchon «l’apice del regno demoniaco dello spirito»10. L’in-conciliabilità della contrapposizione è di natura duplicemente indotta.Da un lato, l’intensificazione massima della resistenza raffigurata dalKatéchon non corrisponde alla sua autonoma capacità d’autoafferma-zione, ma alla natura della presenza cui si contrappone. L’«apice deldemoniaco» si concreta sul piano fenomenico come resistenza all’«l’a-pice dell’economia della salvezza» manifestatosi nella sua caratteristi-ca integralità – «l’unicità della parousía del Figlio dell’uomo». D’altrolato, «essenziale» per l’instaurarsi di tale inconciliabile polarità è «cheessa abbia luogo non nel tempo, ma alla sua fine». Il «frattempo» delcontrasto tra Cristo e Anticristo coincide con lo spazio escatologicoentro cui avviene. Tale convergenza di ambiti s’afferma come compati-bilità di significati grazie a una premessa cui Peterson fa costante rife-rimento: «la nozione di tempo presente (= questo eone) equivale a quel-la di cosmo»11. È in questo slittamento di prospettiva – dallo storico alcosmico – che va soprattutto colta la ragione per cui il Katéchon èidentico all’Anticristo.

In ragione dell’aspetto fondativo acquisito, «la nozione di Cosmo»si rivela essere una «categoria specificamente sostanziale», del tuttoestranea a quell’«indice di realtà» cui il «vissuto pietistico» la riducepercependola come ambito del male. Una figura del Katéchon «stori-cizzata» in contrapposizione a quella cosmica dell’Anticristo presente-rebbe, nel pensiero di Peterson, un aspetto particolarmente problemati-co. Prima di affermarsi come teologia della storia, la sua teoria deglieoni si pone infatti come cosmologia. Gli elementi in cui si articola ilcosmo sono in stato di strutturale contrapposizione non perché alcuni(gli arconti, con il Katéchon al loro «apice») si contrappongano aglialtri per un’autonoma scelta, ma perché il conflitto è l’unica gramma-tica espressiva fruibile ove a esser stato preliminarmente dissolto sia illoro stesso vincolo sostanziale, l’ordine creaturale. Ora, la condizione

174 Giancarlo Caronello

10 Cfr. E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., p. 443.11 Cfr. E. Peterson, Kosmos und Äon, in Id., Der erste Brief an die Korinther, cit., pp. 416-

440, qui p. 417.

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di possibilità di tale scomposizione elementare è l’affermarsi di «unevento» che sia effettivamente «in grado di privare il vincolo sostan-ziale d’ogni sua consistenza»12. Il principio di realtà e il correlato siste-ma rappresentativo cui Peterson rapporta questo conflitto cosmico con-vergono nell’evento costituito dalla Croce: «solo grazie alla realtà diquest’evento acquista valenza rappresentativa l’elementare dissoluzio-ne del cosmo» – e tale rappresentazione è universale poiché «Cristonon è morto come gli uomini, ma come il cosmo». Poiché d’altrondetale dissoluzione avviene in prospettiva salvifica, la restitutio ad inte-grum del cosmo è postulabile solo grazie a «un evento che presenti insé lo stesso grado di realtà e concrezione corporea» inerente a quellodella Croce13. La conclusione trattane, sulla scia di Kierkegaard, è cheil frattempo cosmico iscritto tra questi due eventi coincide con lo spa-zio della sacramentalità. Grazie ai rapporti di connaturalità ivi aperti,da un lato viene restituita al futuro la sua dimensione fondativa, men-tre dall’altro l’insieme dei deittici interni all’evento rivelativo è acces-sibile solo grazie ad un rapporto di presenza. La parousía non è più unafigura del mito; la sua attesa è dimensione costitutiva dell’esistenza cri-stiana – la rivelazione della sua possibile verità.

Date le premesse esposte, la riduzione del Katéchon ad un tóposdella cultura della crisi sarebbe impensabile in Peterson. Quest’acce-zione sarebbe ipoteticamente possibile solo ove la rivelazione venisseridotta essa stessa, a sua volta, a fondamento veritativo di proposizionidogmatiche consistenti perché caratterizzate dalla strutturale congruen-za di forma e contenuto14. È però contro questa riduzione epistemicadelle categorie di rivelazione e dogma – e soprattutto contro la negazio-ne dei rapporti di presenza e di rappresentabilità presuppostivi – che Pe-

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12 Ivi, p. 419.13 Ivi, pp. 420-421.14 La rivolta di Peterson contro l’«intellettualizzazione del Vangelo» di fatto presupposta da

questa categoria di rivelazione viene espressa in termini programmatici nell’articolo Über dieForderung einer Theologie des Glaubens. Eine Auseinandersetzung mit Paul Althaus, in«Zwischen den Zeiten» 3(1925), pp. 281-302. Alla consistenza «formale» della proposizione dog-matica viene già da allora contrapposta la figura della «proposizione contraddittoria» volta a rece-pire «la polarità contrapposta» connessa alla dinamica della vita di fede. Determinante è, nelladefinizione di tale categoria teologica, il rapporto esistente tra la riflessione teologica e «l’azioneche pone in atto una nuova fattispecie tra Dio e l’uomo» (ivi, p. 391). Cfr. in merito B. Nichtweiß,Erik Peterson, cit., pp. 128-143.

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terson si ribella sin dai primissimi suoi scritti, in particolare dal 192415.Solo «l’erroneo uso» del concetto di rivelazione (in particolare nell’ac-cezione di «rivelazione naturale») invalso «nella teologia del moderno»documenta il tentativo di neutralizzare la dimensione costitutivamentemisterica della prima parousía, negando implicitamante la ragion d’es-sere della seconda, il perché essa sigli la correlata nozione di di-svelamento come ultima definizione dei rapporti di signoria cosmica16.

1.3. Il Katéchon, un’«entità escatologica»

Tenendo presenti entrambe le premesse esposte – quella cosmicadel mistero del male e quella storico-fondante della rivelazione – saràallora comprensibile perché la nozione di Katéchon abbia in Petersonun significato esclusivamente escatologico. Il «disvelamento» dei rap-porti di signoria sul cosmo non conosce una sospensione di forme dipresenza, ma solo l’acuirsi di modalità di resistenza e/o di dissociazio-ne inerenti alla logica dell’assenso (e del correlato dissenso) cui talepresenza prelude. Anche in caso di dissenso però ad acquisire consi-stenza fenomenica è un cosmo riprodotto ex negativo, non un mondoradicalmente autonomo. Tra lo spazio della signoria e quello della resi-stenza non sussiste alcuna complanarità. La consistenza dell’uno esclu-de ogni continuità con l’altro. Il mondo della negazione è anzi costret-to, per ragioni inerenti a tale paradigma, a riprodursi come radicaleparvenza – a «proporsi come mondo assoluto», portando di fatto allesue estreme conseguenze un «gioco in maschera»17.

La categoria storiografica della continuità perde di riflesso ogni va-lenza in ragione delle due contraddittorie premesse teologiche inerentiall’acquisizione del Katéchon come figura della disponibilità del tempostorico: 1) quella speculativa di ritenere che anche nello spazio della

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15 Sul progetto programmatico di Peterson, esposto in nuce nel 1924, di elaborare una «feno-menologia della fede cristiana fondata sulle espressioni linguistiche» che la caratterizzano, cfr. B.Nichtweiß, Erik Peterson, cit., pp. 356-373. Sulla natura del fatto linguistico colto in rapportoall’evento della Croce cfr. G. Caronello: L’angelo tra nazione e popolo, loc. cit., pp. 345-351.

16 Cfr. in particolare l’excursus Der neutestamentliche Offenbarungsbegriff esposto in aper-tura della lezione sulla Prima Lettera ai Corinti del 1926, in E. Peterson, Der erste Brief, cit., pp.46-47.

17 E. Peterson, Kosmos und Äon, cit., p. 421.

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rivelazione «dominio e durata siano nozioni condizionantisi reciproca-mente» e 2) quella teologico-politica di sostenere che la connessa ridu-zione rappresentativa del cosmo, il suo appiattimento su un ipotetico edanonimo spazio di dominio, sia sufficiente a legittimare «la pretesa dieternità avanzata in riferimento a rapporti di signoria affermatisi neltempo»18. Ove la rivelazione venga invece intesa come disvelamento(parousía), ad essere distrutti e ridefiniti sono gli indici di realtà con-nessi alla categoria di durata ed a quelle di «cosmo, tempo ed uomo»che la rendono operativa. È alla rivelazione di Cristo nel tempo che ilKatéchon/Anticristo è strutturalmente vincolato, come sua radicale ne-gazione. E lo è quale messinscena dell’antiparousía: «il mondo fa soloteatro»19.

Realtà indotta dall’anomia in cui scade il cosmo in seguito allascomposizione delle proprie costitutive unità di senso (il «vincolo so-stanziale»), il Katéchon connota il persistere di un’illusione volta acompensare questa cesura di senso. L’Anticristo esprime l’epistemolo-gia di «questo cosmo», la sua «saggezza». E nel farlo sigla una rappor-to di dipendenza: ne è la «evaporazione» epistemica. L’illusione non èa caso una figura della sua signoria. L’orizzonte della sua durata coin-cide con quello delle sue «ipostasi». È solo in quanto struttura mimeti-ca del cosmo e dell’eone da cui dipende che il Katéchon fa appello«all’esistenza dell’uomo secolare» per trovare riscontro a questa suaontologica «magia»20.

Quattro sono le rappresentazioni che Peterson fornisce di questoregista del «theatrum mundi»: a) quella dell’inquisitore, gestore delnomos come illusione (1919), b) quella del prestigiatore, maestro diun’illusione epistemica affermatasi universalmente e tradottasi in

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18 Contemporaneamente ai frammenti citati va tenuta presente la lezione sul Vangelo diGiovanni tenuta a partire dal 1924. In un excursus su Lo spazio pubblico e il tempo di Gesù (con-testualmente all’analisi di Gv 7,6) viene definito il contesto categoriale tra signoria e durata quiaccennato. Cfr. E. Peterson: Öffentlichkeit und Zeit Jesu, in Id., Johannesevangelium und Ka-nonstudien, a cura di B. Nichtweiß e K. Scholtissek, Würzburg 2003, pp. 278-281, qui p. 280.

19 Cfr. E. Peterson, Das Theater der Welt (I Cor. 7,31 e I Cor. 4,9), in Id., Der erste Brief, cit.,pp. 422-423, qui p. 423.

20 Cfr. E. Peterson: Der Gott dieses Äons (II Cor. 4,4) in Id., Der erste Brief, cit., pp. 432-433, qui p. 433, in cui viene esposto il «rapporto di dipendenza» del dio del presente dal presen-te stesso, in particolare da ciò che il presente è come «saggezza secolare»: il «dio del presente siadatta e sviluppa la propria capacità d’incidenza» sul tempo secondo rapporti di conformità.

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antropologia (1924/27), c) quella del teste d’accusa di Cristo, figuradell’ultima illusione cosmica: la volontà di potenza (1934) e d) quelladell’uomo divenuto «vas electionis» dell’Anticristo, traduzione antro-pologica della sua opposizione cosmica al Figlio dell’uomo (1936).Nella singola rappresentazione a prender forma non è tanto un’epoca(simboleggiata in termini idealtipici da una figura storica): è il cosmostesso che articola nell’Anticristo la propria saggezza, il rifiuto siste-matico dell’avvento del Figlio dell’uomo.

2. Dall’«inquisitore» all’«Anticristo»

Sin dalla sua prima pubblicazione, un breve articolo sulla rivistacattolica «Der Brenner» (1918), Peterson attribuisce all’omologazionedella figura del Katéchon a quella dell’Anticristo una valenza paradig-matica. Ne Il cielo del cappellano militare elabora in parte un’espe-rienza biografica21, in parte una notizia di cronaca22. Nell’agosto 1914un soldato viene condannato per aver disturbato un servizio religiosoproclamando ad alta voce il comandamento biblico: Non ammazzare.Ricorre in appello. La grazia viene rifiutata in base alla perizia forensedel medico e a quella teologica del cappellano militare. Dopo due anniil soldato muore in prigione.

2.1. L’inquisitore, una sindrome romantica?

Peterson interpreta il fatto introducendo nel triangolo “Bibbia / teo-logo / credente” la figura letteraria del grande inquisitore. Il soldato

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21 Cfr. E. Peterson, Zeuge der Wahrheit (1937), in Id., Theologische Traktate (1951), a curadi B. Nichtweiß, Würzburg 1994, pp. 93-131, qui pp. 105-106.

22 Cfr. E. Peterson, Der Himmel des Garnisonspfarrers, in «Der Brenner» 6(1919/1920), pp.62-64, ripreso in Id., Marginalien zur Theologie und andere Schriften, a cura di B. Nichtweiß,Würzburg 1995, pp. 49-52. Sul contesto storico e biografico dell’articolo cfr. B. Nichtweiß, E.Peterson, cit., pp. 81-84. In una situazione di crisi religiosa, connessa al rifiuto di occupare nellachiesa evangelica una posizione professionale connessa ad attività di predicazione, Peterson accet-ta attraverso Theodor Haecker l’invito a collaborare con il «Brenner» nonostante gli «sia ignotol’orientamento» della rivista (cfr. la lettera di Peterson ad Haecker del 10.07.1919 in cui è prova-ta, tra l’altro, la conoscenza degli scritti di ecclesiologia del giovane C. Schmitt pubblicati su«Summa»). La critica alla «sindrome romantica» espressa dal grande Inquisitore ha un riscontroesistentivo nell’affermazione: «Mi sento libero nei confronti di tutte le trasformazioni romantichein atto nella chiesa cattolica» (ibidem).

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arriva in cielo e viene preso per mano dal cappellano che lo portadinanzi al giudice-inquisitore. Rispetto alla presentazione tradizionale,la figura di quest’ultimo subisce ora tre modifiche connesse rispettiva-mente alle categorie della legge, della testimonialità e del giudizio.Carta costituzionale dell’ordo christianus restano le beatitudini, ancheper l’inquisitore; determinante però è la chiave interpretativa che nelegittima l’incidenza storica. L’assunto è evincibile dalla convalida datadal giudice a entrambe le perizie preludenti la cassazione del ricorso.Comandamenti e beatitudini sono unicamente «un aspetto» della char-ta; l’altro, quello decisivo, è la complessità della trascendenza. Il pove-ro – figura d’identificazione del condannato ed interlocutore naturaledei macarismi messianici – non detiene in materia alcuna competenza.Lo prova l’uso che egli fa della nozione di fratellanza, di significatoopposto a quello attribuitogli dall’inquisitore. La complessità dell’u-mano è tale da non potersi risolvere nella condivisione del bene, manella guerra civile. Senza potere non v’è giustizia. «Poveretto! non sa-pevi che agli uomini è permesso di dirsi fratelli solo una volta alla set-timana, in chiesa, alla domenica, tra le dieci e le undici?»23.

Mescolando poi motivi tratti da Solov’ëv e da Loisy, il giudice-inquisitore chiarisce quale sia l’effettiva capacità testimoniale del po-vero, garanzia stessa della sua identità civile. Memoria e presenza sonoelementi complanari nello spazio biografico, rappresentano però termi-ni contrapposti in quello semantico degli «scritti di natura politica ereligiosa». Il povero evidentemente ignora che i fatti sono funzioni dicoscienza. A neutralizzare la sua testimonialità è appunto lo iato chereligione e politica incuneano tra l’esistenza e la coscienza. «Ma come?Osi rinfacciarmi il passato? Mi ricordi di averti annunciato il Regno?[...] L’avessi anche fatto, ti sbagli: anche in cielo s’impara sempre qual-cosa di nuovo»24. La testimonialità ha senso in un rapporto funzionaleall’ordine precostituito che la legittimi come uno dei suoi elementi. Persua natura essa è pertanto un dato indotto, non tale cioè da porre in que-stione l’ordine costituito.

Portato il soldato sul monte Sion, il giudice gli indica quella che giàfu la valle di Giosafat, prototipo del tribunale dei poveri. Nella conni-

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23 E. Peterson, Der Himmel, loc. cit., p. 50.24 Ivi, pp. 50-51.

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venza espressa dal giudice è avvertibile la terza, decisiva modifica ope-rata da Peterson alla figura dell’inquisitore, assunto ora a teologo dellastessa storia. Il tempo del giudizio non è più l’ultimo, ma il penultimo,quello strutturalmente lineare: la storia ha senso perché non avrà maifine. Il presente è legittimato da un’eterna durata. Pervertendo però l’a-spetto anche formale del macarismo, il giudice-inquisitore esclude perprincipio che il povero sia ciò che è: una figura della fine, la negazionepersonificata della linearità del tempo – della riproducibilità di rapportidi signoria. Come proverà la polemica petersoniana contro la teologialiberale, questo svuotamento teologico della storia deriva da un postula-to: nucleo semantico d’ogni macarismo messianico è il progresso, anzila storia come progresso. «Abbiamo appianato il gran burrone che c’eratra cielo e terra. Per realizzare il massimo dei progressi abbiamo avutobisogno di secoli. Finalmente non vi è più ostacolo tra noi: la comuni-cazione è perfetta. Guarda: ora sono tutti in cielo, tutti all’inferno!». Alche il soldato grida: «Vade retro satana!»25.

Nel breve articolo del «Brenner» si concretizzano esperienze pieti-ste e letture kierkegaardiane, ma soprattutto la denuncia di quell’inge-nuità metafisica grazie a cui nel 1914 la celebrazione intellettuale dellacatastrofe divenne parte del suo compimento, causa della stessa accele-razione della fine di un’epoca. In un contributo lessicografico stesoparallelamente alle riflessioni confluite nel trattato sulla Chiesa e dedi-cato alle «beatitudini» Peterson individuerà alcuni anni dopo la crisi dilegittimità personificata dall’inquisitore. Un cristianesimo che si esau-risce in una filosofia dei valori comporta una triplice delegittimazionedella propria esistenza storica. a) La relativizzazione dello «schemaapocalittico» se consente, da un lato, di cogliere la “composizione disenso” delle beatitudini in una prospettiva di teologia della storia26, cor-re dall’altro il rischio, contro cui ammonisce F. Overbeck, di «rifiutareper sé la storia» per divenirne poi vittima passiva27. b) Ridotte di rifles-so a «verità morali e atemporali» (gli eterni valori), le beatitudini nonvalgono più come «imperativo vincolante in una situazione d’eccezio-

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25 Ivi, p. 51.26 Cfr. Id., Art. «Bergpredigt» – I. Biblisch, in Religion in Geschichte und Gegenwart, II.

ediz., 1927, coll. 907-910, ripreso in Id., Lukasevangelium und Synoptica, a cura di R. vonBendemann, Würzburg 2005, pp. 432-436, qui p. 432.

27 F. Overbeck, Christentum und Kultur, cit., p. 7.

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ne»: si sono svilite a condizione di annuncio di una universale «uma-nizzazione»: questo loro strutturale rientro nell’ambito dei rapporti diconformità è però in aperta contraddizione con la possibilità d’aversenso «solo in un tempo escatologico»28. c) Il fraintendimento causatoda tale «umanizzazione» dei macarismi messianici ne rimuove, in defi-nitiva, la specifica valenza – l’essere «eccezione in grado di vincolareperché strettamente subordinata al ritorno del Figlio dell’uomo»29.

2.2. L’Anticristo e il paradigma escatologico

Come prova il coevo carteggio con Theodor Haecker, la denunciadell’appiattimento dell’escatologia sull’assiologia è dovuta, in granparte, sia alle contraddizioni della teologia della guerra affermatasi tral’intellighenzia guglielmina, sia soprattutto sulla sua intrinseca debo-lezza teologico-politica: l’assenza di un’adeguata teoria della rappre-sentazione. Contrariamente allo spirito del tempo, allora in vigore edestinato ad imporsi poi tra i giovani intellettuali del primo dopoguer-ra, Peterson pone in evidenza la contrapposta natura del bisogno diintegrazione rappresentativa, avvertito in ambito sociale ed ecclesiale.La crisi di legittimità personificata dall’inquisitore investe un ordineistituzionale, più che un sistema di valori:

«il bisogno di comunità crea la società, il bisogno di rappresentazione vicariacrea la Chiesa. Ogni altro elemento spirituale della vita sociale che avochicome costitutiva un’origine radicalmente autonoma documenta una mancanzadi sincerità»30.

Determinanti diventano pertanto nella figura petersoniana dell’in-quisitore due elementi.

(a) La figura letteraria aveva catalizzato nella sua generazione, siapure e converso, un paradigma dell’autenticità. Peterson la riproble-maticizza perché esclude che il principio di realtà presuppostovi pre-senti un’ovvia consistenza. L’inquisitore scade a sindrome romantica

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28 E. Peterson, Bergpredigt, loc. cit., p. 435.29 Ivi, pp. 435-436.30 Cfr. la lettera di E. Peterson a Th. Haecker del 28.07.1918 / Archivio «Brenner», Inns-

bruck.

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dotata tutt’al più di una valenza teologico-politica. Nel 1925 parleràaddirittura di Kitsch, di romanticismo demoniaco31.

(b) L’inconsistenza del modello umanitario personificato dall’in-quisitore viene contestualmente provata nell’analisi della pericope lu-cana delle tentazioni di Cristo. La denuncia della crisi di legittimitàsimboleggiata dall’inquisitore ne pone in evidenza la premessa para-digmatica. L’ingiustizia è tale non in ragione dei fatti, ma del tempo incui si costituisce la coscienza di cui essi sono funzione. La primonove-centesca filosofia del vissuto rappresenta quindi per Peterson una que-stione teologica, prima che teoretica. La posta in gioco è l’ora che laprospettiva escatologica svincola da ogni rapporto con l’immediatezzadei dati di coscienza, dalle evidenze prime dello spazio sia percettivoche temporale. Ora e durata acquistano significati contrapposti data lanatura inglobante del momento escatologico rispetto a quello storico32.

Al di là dei concreti riferimento storico-religiosi (ad es. la crisi epo-cale del protestantesimo tedesco), il problema dell’inquisitore peterso-niano verte sulla necessità di legittimare la ricostituzione d’un ordinecosmico privato d’ogni premessa veritativa – e di doverlo fare in modotale che a sancire i nuovi rapporti di realtà (= legittimità) sia Dio stesso.È questo il nodo teologico-politico cui preludono la proschinesi e l’ac-clamazione pretese dal tentatore, assunto a sovrano dell’immanenza.Omologato all’Anticristo, l’inquisitore cessa di essere la chiave di voltadi una teologia civile. Ponendo soprattutto in questione la religiositàsociale di Solov’ëv, Peterson nega che l’incidenza storica del cristianesi-mo possa essere garantita dalla riscoperta umanitaria delle beatitudini33.

182 Giancarlo Caronello

31 Cfr. E. Peterson, Lukasevangelium, cit., p. 125.32 Nel contrapporre la durata del vissuto alla persistenza dell’attesa, Peterson riprende il

tema della «disponibilità» del tempo in riferimento alla signoria di Cristo sul tempo: «Per il noi iltempo è “disponibile”, per Gesù invece “arriva”. Ciò presuppone ovviamente che Gesù non sia neltempo e che pertanto per lui il tempo non sia “disponibile”, ma che invece “il tempo stesso debbaraggiungere Gesù appunto perchè Egli non è per propria natura nel tempo”. Grazie a questa con-trapposizione dei due concetti di “durata” va compresa la correlata dialettica tra la categoria delladurata e la nozione “strettamente inerentevi” di “signoria”. Poiché però la “disponibilità umana”del tempo ne sigla la fine, è ovvio che nell’ambito di questa disponibilità del non esistente rien-trino anche “la religione del popolo, la religione del tempio, la fede nel messia: messia e popolosono nozione correlate che appartengono al tempo”». Cfr. E. Peterson, Öffentlichkeit und ZeitJesu, cit., pp. 279-280.

33 Mancano in Peterson espliciti riferimenti a Solov’ëv. Dato il Sitz im Leben ecclesiologico

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Il problema non è l’ingiustizia, ma l’anomia. Mentre la condizione dipossibilità dell’una è la legge (di cui è negazione), quella dell’altra èl’inconsistenza dei tempi e degli spazi di sovranità entro cui sia pensa-bile la singola figura del nómos. La dimensione spazio-temporale del-l’anomia non è la sospensione della norma, ma l’affermarsi dell’ecce-zione intesa nel senso costitutivo che al termine attribuisce il giudizio.

La mancante percezione di tale discrepanza di significati è divenutainsopportabile soprattutto perché il cristianesimo – la sua rappresentati-vità – è caduto nella trappola della propria storicità, svilendosi a «giocodi prestigio» di un «angelo della luce»34. Ad esser svuotate del propriosenso sono le categorie di base dell’escatologia: ridotta a norma la leggee a una struttura amministrativa la testimonianza, il giudizio altro nonsarà che «il gioco in maschera» dell’inquisitore35. Contemporaneamentealla stesura dell’articolo Peterson scrive nel diario un’accorata preghie-ra: «Apri l’ultimo sigillo! Fa’ sì che il Katéchon smetta di incidere sulreale come blocco dei tempi. Metti in scena l’ultimo atto!» (7.7.1918).

Questo primo, programmatico confronto con la figura dell’Anti-cristo articola il vissuto religioso del giovane Peterson, sintomatico diun’intera generazione intellettuale. Lo schema dell’inquisitore vieneproiettato su ogni forma di teologia istituzionale acquistando valenza disindrome. Il referente storico-concettuale guadagna in significatività,perdendo però la propria specificità. Lo stesso inquisitore dostoevskia-no ne è vittima, degradato – com’è di fatto – a caricatura romantica.

Dalla storia delle religioni allo harnackismo, dall’ortodossia lutera-na alla stessa teologia dialettica: tutto viene coinvolto nel singolo siste-

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dell’escatologia petersoniana, è però facilmente avvertibile il limite teologico individuato daPeterson, che G. Florovskij individuerà successivamente «nell’ambito ristretto e soffocante dellateosofia e dello gnosticismo», cioè nel tentativo di lavorare «ad una sintesi ecclesiologica» a par-tire da un’«esperienza estranea a quella dell’appartenenza ecclesiale». Cfr. G. Florovskij, Vie dellateologia russa, tr. it., Genova 1987, p. 251. Per una sommaria presentazione del testo in questio-ne, cfr. A. Ferrari, Introduzione. Vladimir Solov’ëv e l’ultimo secolo, preposto a V. Solov’ëv, I tredialoghi e il racconto dell’Anticristo, Introduzione, traduzione e note di Aldo Ferrari, Milano1995, pp. VII-XXXV, in particolare la contestualizzazione generale e personale fornita a pp. XVII-XVIII, XX-XXVI. Tracce della lettura petersoniana sono peraltro rilevabili in F. Lieb, Der «Geist derZeit» als Antichrist. Spekulation und Offenbarung bei Wladimir Solovjev, in Id., Sophia undHistorie. Aufsätze zur östlichen und westlichen Geistes- und Theologiegeschichte, a cura di M.Rohkkrämer, Zürich 1962, pp. 181-202, soprattutto pp. 183-184, 190-192.

34 Cfr. E. Peterson, Der Himmel, loc. cit., p. 50. 35 Cfr. E. Peterson, Weisheit und Kraft des Kosmos (I Cor. 1, 27), in Id., Der erste Brief, cit.,

pp. 420-421, qui p. 421.

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ma storico-concettuale di riferimento. A farsi spazio è la ricerca di unnuovo paradigma escatologico36. La figura dell’Anticristo catalizzaquesta graduale trasformazione di assunti di base. La salita delle settebalze cui Peterson si sottopone negli anni Venti è riassumibile in un’af-fermazione: «Una teologia che non sappia più dir nulla sull’Anticristonon saprà dir nulla nemmeno su Cristo». Pronunciata nel semestreinvernate del 1924/25, nel corso di una lezione sulla semantica neote-stamentaria, quest’affermazione fornisce una chiave interpretativa aquel j’accuse che è Che cos’è la teologia? del 1925. Ciò vale soprat-tutto in riferimento alla definizione del sapere teologico come cono-scenza «indotta» – ed alla motivazione fornitane: la teologia è, in quan-to tale, connessa al «prolungamento della manifestazione del Lógos neltempo»37. L’intero percorso teologico di Peterson è animato dalla pre-comprensione della teologia come forma di presenza, non come sapereavalutativo. È grazie al confronto con questo costitutivo rapporto dipolarità contrapposte nel tempo che egli potrà affermare verso la finedella sua vita in una lettera ad Alois Dempf: «Sono alla ricerca dell’An-ticristo. Credo che questa ricerca sia la forma più autentica di una teo-logia cristiana della storia» (18.12.1957)38.

2.3. L’ecclesiologia, «Sitz im Leben» del paradigma

Ripresa nel semestre invernale del 1926/27 la lezione di semanticaneotestamentaria, Peterson inquadra questa sua ricerca in una prospet-tiva ecclesiologica destinata a divenirne il costitutivo rapporto di con-testualità, il Sitz im Leben. In diretta continuità con la dogmatica pro-

184 Giancarlo Caronello

36 Cfr. E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., dove viene formulata la sua critica al vuotoescatologico della teologia moderna: per quest’ultima «l’Anticristo non è altro che una nozionetratta dalla storia delle religioni. Non deve pertanto stupire che la stessa idea di Cristo non pre-senti per questa teologia un valore superiore» a quella d’Anticristo (p. 447). Per quanto concernel’attuazione sistematica di questa critica della storia come base per una ridefinizione dell’escato-logia cfr. B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., pp. 457-499.

37 Cfr. E. Peterson, Was ist Theologie? (1925), in Id., Theologische Traktate, cit., pp. 3-22,qui pp. 11 e 13. La polemica affermazione sul rapporto tra teologia ed anticristologia è ripresa daId, Satan und die Mächte, cit., p. 447.

38 Cfr. E. Peterson, Die Wunder des Antichristen in Id, Offenbarung des Johannes und po-litisch-theologische Texte, a cura di B. Nichtweiß e W. Löser, Würzburg 2004, pp. 264-266, quip. 266.

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posta in nuce nel 1925, essa troverà pubblica, sistematica espressionenel Trattato sulla chiesa del 192839. La definizione ex negativo dell’An-ticristo è individuabile nel sistema di polarità che ne garantisce la rap-presentazione. La sua raffigurazione, personificata soprattutto dall’ere-tico, viene contrapposta a quella del martire e dell’apostolo. A vari tito-li queste tre figure escatologiche comportano un blocco e/o un’accele-razione dei tempi. Il rapporto di «congruenza» / «resistenza» da loroinstaurato col mondo è possibile grazie al duplice presupposto che visia davvero la dissoluzione d’ogni ordine naturale e che queste tre figu-re siano indici di una storicità indotta dal «tempo critico». L’elementocostitutivo della storia salvifica è siglato «non dalla riconciliazione, madalla decisione»40. Le tre figure sono aspetti di una testimonialità di cuiè garante la chiesa.

Questa connotazione ecclesiologica del concetto di Anticristo èdovuta soprattutto a due ragioni. In conformità alla categoria di rivela-zione intesa come rapporto di presenza, l’eresia perde, da un lato, la suaspecifica valenza assertiva ed è contrapposta ad un canone inteso comeverità dell’essere-chiesa. Prima d’essere una proposizione, l’eresia è lacondizione di possibilità storica ed esistentiva dell’eretico: quest’ulti-mo «può esistere solo a condizione che vi siano la chiesa e il dogma»e che egli viva al di fuori dello spazio dogmatico-ecclesiale41. Questamotivazione del primo Peterson (1921/22) viene successivamente radi-calizzata; nel 1935 formula esplicitamente il rapporto fondativo esi-stente tra la nozione di rivelazione e quella d’eresia: «gli eretici esisto-no da quando Cristo si è rivelato – e da quando egli ha consentito visi-bilità all’Anticristo e al suo teologo»42. A prevalere pertanto sulla pro-posizione ereticale è la presenza dell’eretico, la sua figura (in un certosenso, la sua stessa «corporeità [...] posta a servizio del potere demo-niaco»)43. D’altro lato, questa ontologia della presenza si impone per-ché sostenuta dalla tenace ricerca, avviata da Peterson tra il 1925 ed il1928, di rendere congruenti escatologia ed ecclesiologia senza toglie-

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 185

39 Cfr. E. Peterson, Die Kirche (1929), in Id., Theologische Traktate, cit., pp. 245-257.40 Cfr. E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, cit., p. 97.41 Cfr. Introduzione alla lezione universitaria sulla storia della chiesa del diciottesimo e

diciannovesimo secolo, par. 1, in B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., p. 597.42 E. Peterson, Zeuge der Wahrheit, cit., p. 110.43 Cfr. ibidem.

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re né sminuire nell’una o nell’altra la specifica, determinante rilevanzadella rappresentazione, in particolare di quella sacramentale. L’omo-logazione dell’Anticristo all’eresia ne consegue di necessità, sulla sciadi un’antica tradizione instaurata dai Padri44.

Accentuata dal contesto che Peterson instaura tra la nozione dichiesa e quella di «nuovo eone», la categoria dell’eresia è un modo dicogliere la differenza tra i due eoni. Lo sdegno con cui ne Il cielo delcappellano militare viene constatato l’appiattimento d’ogni differenzatra cielo e terra45 matura nella critica che Peterson, verso la fine dellavita, fa al risultato di tale abolizione d’ogni abisso escatologico, la co-municazione perfetta. In un frammento del 1955, centrato sulla figuradell’Anticristo come «spirito del tempo», scrive:

«L’appiattimento della capacità di discernimento degli spiriti prelude, in ter-mini teologici, all’appiattimento della differenza tra cielo e terra»46.

Lo spazio dell’Anticristo è ereticale poiché contrassegna la nega-zione, soprattutto pratica, della differenza escatologica. Questa rimo-zione investe soprattutto le categorie di base della teologia della storiae si rivelerà essere sempre più drammatica nell’itinerario di Petersonappunto perché sempre più scoperta sul piano storico-ecclesiale. Loprovano sia la definizione del rapporto tra Bibbia e Chiesa da lui ela-borato in quegli stessi anni47, sia la consapevolezza della drammaticafragilità inerente all’esistenza del teologo: «il più grande teologo èsempre esposto al pericolo dell’eresia». D’altro lato, è proprio questa

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44 Rappresentativo per l’ampia letteratura A. De Boulluec, La notion d’héresie dans la litte-rature grecque (II.e- III.e siècle), vol. I, Parigi 1985, pp. 64-67. In ragione delle premesse rilevatenel paradigma escatologico di Peterson, non dovrebbe tuttavia valere per lui il rilievo fatto a que-sta tradizione apologetica: il «tipico ragionamento circolare, tanto più forte quanto meno falsifi-cabile» cui essa ricorre consiste nell’aporia argomentativa per cui «il diavolo è considerato respon-sabile di ogni forma di dissenso», mentre «d’altro lato, l’esistenza e l’articolazione stessa del dis-senso sono viste come la prove evidente dell’intervento diabolico» (cfr. A. Monaci Castagno,Introduzione a Id. [ed.], Il diavolo e i suoi angeli. Testi e tradizioni [secoli I - III], Firenze 1996,p. 54).

45 Cfr. E. Peterson, Marginalien, cit., p. 51.46 Cfr. E. Peterson, Fragmente, in Marginalien, cit., p. 147. Sulla figura dell’eretico in Pe-

terson cfr. B. Nichtweiß. E. Peterson, cit., pp. 595-598.47 Si vedano pars pro toto le riflessioni fatte nella lezione sul Vangelo di Luca (1924/25) sul

rapporto Bibbia e Chiesa in E. Peterson, Lukasevangelium, cit., pp. 256-260.

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strutturale debolezza a provare il diritto che la Chiesa ha «di farsicostitutivamente presente» nell’ambito del lavoro teologico48.

3. Riserva escatologica e sacralità del cosmo

Nel corso delle citate Lezioni sulla semantica neotestamentariaPeterson fornisce alcuni cenni sulla «grandiosa costruzione speculati-va» di 2Ts 2,3-12. Inteso come Anticristo il Katéchon è definito «la piùmisteriosa manifestazione d’ogni possibile demonologia». Nel testopaolino vengono colte le tre condizioni di possibilità della sua manife-stazione nel cosmo.

a) La figura del Katéchon esprime «l’estremo potenziamento» del-l’arconte di «questo eone» in ragione della propria, specifica naturaescatologica: essa è impensabile a prescindere dalla preliminare ipote-ca che grava su ogni suo titolo di signoria avanzabile nel cosmo49.

b) Il potenziamento del demoniaco nella dimensione personale delKatéchon è regolato da un costitutivo bisogno di oggettivazione. Que-st’esigenza primordiale è soddisfacibile grazie all’acquisizione di unapropria corporeità: «non d’una qualsiasi, ma di quella di Cristo». La na-tura mimetica dell’Anticristo non è pertanto accidentale, ma sostanziale.

c) La terza condizione di possibilità della manifestazione del Katé-chon porta alle sue estreme conseguenze la logica d’oggettivazione-incarnazione inerente alle prime due: «l’Anticristo è un uomo. Non è undemone – e nemmeno qualcosa come un diavolo incarnato. È qualcosacome il superuomo»50.

Avvertibili sono sia la contraddizione inerente alla sostituzione delsoggetto delle prime due condizioni (l’arconte) con quello della terza(l’uomo), sia il salto qualitativo in cui sbocca la strategia mimetico-incarnatoria dell’arconte. La restaurazione della sua signoria avvienenon grazie alla detronizzazione di Cristo, ma alla propria stessa sosti-tuzione da parte dell’uomo. È questo un atto di abdicazione o rappre-

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 187

48 Cfr. E. Peterson, Lezione universitaria sulla storia del dogma nell’antichità (1928/29), §8,pp. 111 e ss. del manoscritto, in B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., p. 644.

49 Cfr. l’excursus sull’Anticristo in E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., pp. 443-447, quipp. 443-445.

50 Cfr. ivi, pp. 446-447.

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senta invece l’estrema, voluta conseguenza della logica di oggettiva-zione e di mimesi messa in atto dalla volontà di potenza espressa nelleprime due premesse?

3.1. Cosmo e mistero

L’aporia si rivela essere apparente ove si tenga presente in tutta lasua radicalità l’assunto espresso dalla prima condizione: «l’Anticristoè grandezza escatologica»51. La fine del tempo, togliendo allo struttu-rale ed inconciliabile scontro tra l’eone presente e quello di Cristo ogniparvenza di provvisorietà o di durata, manifesta il mistero del cosmo intutta la sua ambivalenza. E lo fa svelandone soprattutto la natura sacra-le. Lo scontro tra i due eoni non verte pertanto su un’ipotetica scelta daparte del cosmo tra la signoria di Dio e quella di un non-dio, ma tra ildio del cosmo (l’arconte) e Cristo, cui il Padre riconsegna lo stessocosmo come ambito d’esclusivo dominio52. La pretesa di latria avanza-ta dall’Anticristo ha un oggettivo riscontro nella natura del cosmo,nella sua impensabilità al di fuori di un orizzonte sacrale. Il contenzio-so di legittimità verte – prima che sull’oggetto dei rapporti di signoria– sulla specificità della loro natura. La specificità è data dal fatto che ilcosmo è – in entrambe le prospettive instaurate dalla logica del domi-nus – un effettivo referente di realtà. La seconda condizione di possibi-lità non potrebbe d’altronde affermarsi, rendendo operativo sino allasua estrema conseguenza il postulato dell’oggettivazione-incarnazione,se venisse collocata al di fuori di questo rapporto di reciproca esclusio-ne tra la parousía e l’antiparousía, tra la rivelazione di Cristo e la sacra-lità del cosmo-eone. Il blocco dei tempi raffigurato dal Katéchon in ter-mini di ribellione è ipotizzabile solo ove l’arconte «appaia non come undio» (che già è), «ma come Cristo» – anzi, «come il Cristo della finedei tempi». È appunto nella coincidenza con tale fine che il «blocco deltempo» perde la propria ragion d’essere53.

188 Giancarlo Caronello

51 Ivi, p. 445.52 E. Peterson, Der Äon-Gedanke und das Neue Testament, in Id., Der erste Brief, cit., pp.

339-440. Questa ipostasi dell’Anticristo come «dio del cosmo» viene riconosciuta, da un lato, una«essenza reale ed autonoma», mentre, dall’altro, è appunto questa modalità ipostatica a chiarire laragione per cui l’ipostasi stessa appartiene unicamente a «questo eone e a questo cosmo» (p. 440).

53 Cfr. E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., p. 444.

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Questo potenziamento del demoniaco quale radicale esclusionereciproca dei rapporti di signoria cosmica è connotato da Peterson conil termine paolino: l’uomo dell’anomia. Ove si tenga presente la pre-comprensione sacrale del cosmo, si avvertirà perché le varie forme del-l’anomia – addotte in 2Ts 2,3-13 come ambito costitutivo del Katéchon– acquistino un significato epistemico-religioso. Oggettivando comeproprie le singole valenze dell’anomia l’Anticristo pone in atto pro-gressivamente ogni possibile negazione del nómos, soprattutto quellainerente al costituirsi di ambiti di legittimità. È comprensibile «da qualiabissi emerga di fatto la nostalgia che il nostro tempo ha d’irraziona-lità e paradosso»54. L’«uomo dell’anomia» sarà allora adeguatamenterappresentabile solo e quando abbia univocato l’ultima forma dell’ulti-ma negazione del nómos e delle sue condizioni di possibilità – nelmodo d’una posizione di realtà.

All’interno di questo sistema rappresentativo la parvenza acquistaun significato paradigmatico. La magia è più che una forma della per-suasione di cui si avvalga il tentatore: è il principio di realtà presup-posto dalla negazione cui l’Anticristo sistematicamente ricorre perfarne – più che una modalità espressiva – la grammatica stessa dellesimbologie che pone in atto. Ciò vale in particolare nella cosiddettaora escatologica in cui la negazione si afferma esclusivamente comepresenza, ad esaurimento d’ogni premessa messianica. «L’Anticristonon è un uomo qualsiasi che viva all’interno della storia. Il suo miste-ro è dovuto al fatto di non darsi nella storia, ma nell’escatologia –negli ultimi tempi»55.

3.2. Mistero e uomo

La figura dell’«uomo dell’anomia» è caratterizzata da una specifi-ca antinomia perché sia l’anomia, sia il potenziale esaurimento del suosenso nel tentativo di prefigurare l’ora escatologica sono elementi pre-liminarmente qualificati come mistero. Questo «mistero» non coincidecon un’anodina accettazione dell’irrazionalità. Il termine rivela il suospessore problematico soprattutto ove si avverta il dilemma che ne

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 189

54 E. Peterson, Lukasevangelium, cit., p. 139.55 Cfr. E. Peterson, Der Antichrist, cit., p. 446.

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costituisce la premessa esistentiva: l’esperienza cristiana della storia oè confronto con la negazione impersonata dall’Anticristo – oppure èparte della sua grande «messinscena». L’attenzione con cui Peterson fapropria, sin dalle sue prime letture kierkegaardiane, la drammaticità delcoinvolgimento del cristiano nella storia è però controbilanciata dallaconsapevolezza paolina che questa storia, appunto perché struttural-mente conclusa, non può che riprodursi nel teatro del mondo (es. 1Cor4,9)56. Secondo Paolo il cristiano non si può sottrarre all’attribuzione diuna parte in tale messinscena – sia essa pur quella del gladiatore, nondell’attore. È un rapporto di agonalità instaurato pubblicamente: spaziod’esposizione è il cosmo, spettatori sono l’umanità e gli arconti. Laparte assegnata all’uomo non è però il «ruolo di un eroe tragico, bensìquella di un infelice» che sa d’essere elemento del gioco e al contem-po teste della sua inconsistenza. Tale infelicità tocca il suo acmen nel-l’esposizione cosmica del singolo, nella radice della sua esistenza sto-rica. La storicità della presenza cristiana comporta il «crollo della auto-consapevolezza in ragione della riflessione» sulla ineludibilità del pro-prio orizzonte – e, in particolare, sul fatto che, analogamente al cosmo,venga siglato dal mistero dell’ora. Non si può non avvertire la conso-nanza esistente tra queste riflessioni petersoniane del 1928 e quelle dipochi anni successive fatte da Konrad Weiß sulla figura dell’Epimeteocristiano (1933). Per entrambi il mistero dell’ora conferisce alle evi-denze prime del tempo storico una valenza di parabola: «la speranzadella terra, infranta in ragione della sua estraneità al senso, è visibilecon il singolo – sotto forma di parabola»57.

In un frammento relativamente tardo (1942/43) dedicato al proble-ma del senso della storia presente nel primo cristianesimo Petersonopera uno slittamento di prospettiva che gli consente di andare oltre lasituatività esistentiva dell’esperienza della storia per recuperarne lastrutturale situatività escatologica: il «mistero» è tale perché «misterodell’ora». Nel suo essere negazione e soprattutto nell’«univocazione»

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56 Sulla terminologia della «messinscena» e sulle ragioni che ne precisano la contestualità inrapporto al Katéchon cfr. E. Peterson, Das Theater del Welt, cit., pp. 422-423.

57 L’analisi del testo paolino citato è leggibile in E. Peterson, Der erste Brief, cit., pp. 144-147, spec. p. 146. Per quanto concerne il riferimento a Konrad Weiß, cfr. Der deutsche christlicheEpimetheus, in Der christliche Epimetheus, s.i.l., Edwin Runge, 1933, pp. 94-111, qui p. 95.

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conferitagli dall’ora del confronto decisivo, il Katéchon/Anticristo rap-presenta un «mondo storico», il riscontro che il «cristianesimo non èsolo un annuncio escatologico».

Ragione dello scontro non è l’annuncio in quanto tale, ma la pote-stà costituita grazie a cui quest’annuncio si afferma come vincolanteesercizio di autorità. L’implicito rapporto di signoria sulla storia espres-so dal mandato che legittima l’annuncio relativizza gli indici di realtàrecepiti nella ricostruzione e nella narrazione del «presente storico».L’annuncio evangelico non coincide con la «diffusione dei libri» in cuiabbia trovato espressione scritta, ma con la predicazione su mandato.La sua natura escatologica è radicalmente diversa da quella d’ogni pre-via tradizione apocalittica. È questo l’elemento che svincola le figuraedramatis del confronto da uno stretto rapporto di continuità con le ante-riori attese messianiche. Peterson esemplifica tale novità facendo rife-rimento al sistema di datazione recepito dal canone, soprattutto nellavariante lucana. Questo sistema di univocazione della «realtà storica»risponde ad un duplice criterio. Da un lato il riferimento alla «datazio-ne storica sia ebraica che romana» rappresenta una cesura rispetto allatradizione apocalittica, volta in quanto tale a creare rapporti di con-gruenza tra attesa ed evento, tra l’esistenza del mondo e la sua fine.D’altro lato, questa cesura rispetto ad una «datazione basata sugli annidell’esistenza del mondo» ha un’unica ragione d’essere: «la parola diGesú che nessuno conosce l’ora» della fine e del confronto. È rispettoa questo strutturale «mistero dell’ora» che la nozione di storia perde lasua positività – e che ogni tentativo di riattribuirgliela si rivela essereuna «messinscena»58.

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 191

58 Il manoscritto di cinque pagine è originariamente steso in italiano, probabilmente in rap-porto alla preparazione di corsi di storia della chiesa da Peterson tenuti durante la seconda guerramondiale (1942/43). Il titolo di lavoro è stato adottato per l’edizione tedesca. Cfr. E. Peterson,Zum urchristlichen Geschichtsverständnis, in Id., Lukasevangelium, cit., pp. 427-431. Reinhardvon Bendemann, il curatore delle lezioni lucane, fa presente – soprattutto per quanto concerne ilsignificato delle “categorie politiche” nell’opera lucana (cfr. ivi, pp. 429-430) – la consonanza traalcuni passi del frammento petersoniano e la teologia politica di Carl Schmitt: «Sia pur grazie aduna problematica revisione di punti di partenza critici nei confronti di Roma, Schmitt fu in gradodi interpretare la politica augustea (ivi compresa quella del prefetto Ponzio Pilato) sulla base dimodelli d’ordine positivi anche in prospettiva di storia della salvezza – e di contrapporre talimodelli a quelli del dominio ebraico». R. v. Bendemann arriva anzi ad ipotizzare un influsso deldialogo con Peterson sull’interpretazione schmittiana di Luca. Cfr. Id., Einführung in die Edition,(Zur Edition und Einführung), in E. Peterson, Lukasevangelium, cit., pp. XVII-XXVIII, qui pp.

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La paradossalità dell’Anticristo non è accidentale, ma inerente allasua volontà di potenza, al suo bisogno di svelare il proprio mistero aprescindere da quello del Figlio dell’uomo59. Sul piano cognitivo essasi traduce nel tentativo che l’Anticristo fa di porre in atto un’astrazionemetodica rispetto all’orizzonte di senso entro cui di fatto si costituiscela sua stessa grammatica espressiva. La sospensione del principio direaltà acquista pertanto valenza sistemica, non solo metodica. L’af-fermazione che il «tempo dell’Anticristo» possa essere solo l’ultimo –«esattamente» quello di Cristo – consente di comprendere il salto qua-litativo, apparentemente aporetico, tra le prime due condizioni di pos-sibilità dell’Anticristo e la terza. Appunto perché indotta, la categoriadell’Anticristo ha senso solo in riferimento alla polarità che nega. Ora,la negazione dei rapporti di signoria attivata dal dio del cosmo non puòsottrarsi all’ultima, definitiva loro oggettivazione nella figura del Figliodell’uomo intronizzato a signore del cosmo. È questa sua definitivapresenza la ragione per cui il messianismo si rivela essere parte dell’il-lusione costitutiva dell’eone trascorso – e per cui il sacro è cifra inelu-dibile, ma non sufficiente per comprendere le modalità rivelative cuiCristo ricorre nell’annuncio del Regno.

Riprendendo nel 1926/27 la lezione di semantica neotestamentaria,Peterson coglie, in un paragrafo dedicato al mistero del Figlio dell’uo-mo, le ragioni della radicale consequenzialità postulata dalle tre condi-zioni di possibilità definite nel 1924/25. Termine risolutivo dell’aporiainerente alla trasformazione di soggettività accettata dal demoniaconon è l’uomo, ma il suo mistero. Il termine «uomo» ricorrente in en-trambi i sintagmi connessi a tale, contrapposta rappresentazione – quel-lo dell’ultima figura dell’Anticristo («uomo dell’anomia») e il titolocristologico («Figlio dell’uomo») – acquista un significato individuabi-le grazie alla situazione che entrambe le espressioni connotano («ilmistero dell’ora»), non a una precomprensione antropologica60.

192 Giancarlo Caronello

XXVII-XXVIII, n. 9. Senza entrare nel merito delle osservazioni, ci si può limitare a constatare nellanozione di «mistero dell’ora» un punto chiave del raccordo oggettivamente esistente tra l’opera diE. Peterson, quella di C. Schmitt e quella di K. Weiß in materia di teologia della storia, soprattut-to a partire dai primi anni Trenta.

59 Cfr. ivi, p. 446. Al problema Peterson dedica alcuni paragrafi nel corso della lezione sullasemantica neotestamentaria. Le riflessioni dal titolo Il mistero del Figlio dell’Uomo sono tuttorainedite.

60 Sulla nozione di «mistero dell’ora» cfr. il frammento Zum urchristlichen Geschichts-verständnis, cit., passim.

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Sul piano formale la nozione di «mistero» inerisce in termini defi-nitori a quella di «uomo» – che scade pertanto da definiens a definien-dum. Proprio in ragione del fatto che il «mistero» connesso a ciascunodei due sintagmi è relativo alla costituzione di un sé fa sì però che ilsignificato di «uomo» attribuibile all’«uomo-Anticristo» sia inconcilia-bile con quello presupposto dal titolo cristologico «Figlio dell’uomo»;è tale rapporto di reciproca esclusione a coinvolgere integralmente nel«mistero» quell’«uomo» che, di riflesso, altro non è se un’astratta «na-tura umana». Termine-chiave di ciascun sintagma non è pertanto l’«uo-mo», ma il «mistero» cui il sintagma rinvia. In riferimento a tale rap-porto di subordinazione semantica Peterson, sulla scia delle sue letturekierkegaardiane, fa una duplice precisazione: a) come quella della rive-lazione riflette una logica del «disvelamento», così quella della cono-scibilità del mistero-uomo esprime una logica della comunicazione; b)consona ad entrambe le logiche, in un certo senso suo ambito di verifi-ca, è però unicamente la «comunicazione indiretta»: un mistero sareb-be «privo di senso ove venisse disvelato secondo le modalità della co-municazione diretta», cioè al di fuori sia del costitutivo orizzonte dellasua polisemia, sia soprattutto di quella grammatica dell’assenso checonsente di togliere l’ambiguità.

Il «mistero» inerente all’«uomo», soggetto di titoli tanto diversi,non sancisce rapporti di congruenza tra la precomprensione vigente «inquesto cosmo» e il significato attribuitogli «nel nuovo eone». Questomistero non è né un limite, né una variabile della razionalità rilevabilenel singolo ambito semantico che consenta di univocare il significatodella «natura umana»; se lo fosse, il dogma a cui il termine «uomo-mistero» fa riferimento si esaurirebbe nella propria comunicabilità.Ora, la consistenza di questo mistero è dovuta al contesto esistente trai significati che può assumere e l’atto di sovranità che li univoca rive-landoli; è in tal senso che quella del Figlio dell’uomo si pone comecategoria prima e fondante d’ogni significato del «mistero-uomo» – eche lo è perché è «nozione eminentemente dogmatica»61.

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 193

61 Cfr. le osservazioni conclusive del § 2 della seconda sezione della lezione sulla semanti-ca neotestamentaria di Peterson (trascrizione Barbara Nichtweiß del manoscritto, qui p. 75).

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5.3. Uomo e Figlio dell’uomo

La logica dell’oggettivazione incarnata dall’Anticristo fallisce lapropria estrema conseguenza – l’«univocazione» – nel confronto con ilmistero di cui è peraltro parte, fenomeno indotto. La manifestazione diCristo, la sua parousía, non è oggetto di comunicazione diretta. IlFiglio dell’uomo parla in parabole. E non lo fa per ragioni didattiche,«ma perché intende comunicare il proprio mistero». L’illusione cosmi-ca attivata dall’Anticristo ricorre alla forma auratica nel contraddittoriotentativo di celare il limite della propria sacralità, la comunicazione di-retta. Un annuncio che non si esponesse al rischio della polisemiaridurrebbe l’assenso a consenso ed istituzionalizzerebbe, di conseguen-za, evidenze comuni. È questa la ragione per cui il dio del cosmo in-staura in tutte le sue espressioni un rapporto di congruenza con i signi-ficati veicolati dal proprio eone. La sua stessa «incarnazione» è indot-ta di necessità logica da un sistema di conformità che trova nella ribel-lione l’ultima forma di adeguazione sostanziale.

La comunicazione indiretta cui esplicitamente ricorre il Figlio del-l’uomo è indice di una sovranità di natura opposta. A differenza del-l’uomo di questo cosmo (l’interlocutore naturale della comunicazionediretta), Cristo non nasce «come» uomo, ma «diviene uomo». È in que-sto suo divenire – nella grammatica dell’assenso cui l’Incarnazioneapre – che va colta la ragione sia della comunicazione indiretta, siadella prospettiva escatologica in cui viene ora inscritta la categoria di«natura umana». Il disvelamento autonomo e indiretto del propriomistero (il «dire in parabole») segna la fine della logica dell’univoca-zione inerente alla sacralità cosmica e apre l’accesso a quella dellasacramentalità, cioè ad un mondo di segni il cui referente di realtà èstrutturalmente accessibile in uno spazio intermedio e mistagogico.L’esser-uomo non rappresenta più un’evidenza prima da quando Cristo«è divenuto uomo senza disporre, per propria natura, d’una qualsivo-glia relazione con l’esser-uomo»62.

È questo il limite con cui si scontrano non solo la logica della co-municazione diretta, ma soprattutto la capacità mimetica dell’Anti-

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62 Cfr. ivi, pp. 75-78.

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cristo – arconte angelico, non uomo. Nel «rapporto dialettico» instau-rato dal Figlio dell’uomo «con la natura umana» l’interlocutore diretto– soggetto di negazione o di assenso – è l’uomo nella sua più radicalepovertà, il suo esser-soggetto di un mistero irrisolto. Il «povero» non èuna variabile storico-sociale della «natura umana», ma il titolo cheinveste l’uomo come interlocutore dell’annuncio, la negazione positivad’ogni previa evidenza prima. È comprensibile ora perché la terza con-dizione di possibilità dell’Anticristo individuata da Peterson ne postulila rappresentazione come ridefinizione dell’uomo. Interlocutore di unacomunicazione indiretta non può essere il latore di rapporti di causali-tà cosmico-sacrale, ma solo colui che cerchi salvezza al di là della lorologica. Questa prospettiva ermeneutica chiarisce il perché dell’atten-zione prestata da Peterson, sin dagli anni venti, a ogni forma di sote-riologia gnostica. Nella corrispondenza «essenziale» tra «Figlio del-l’uomo», «Anticristo» e «uomo» instaurata a partire dalla «natura uma-na» convergono infatti due dinamiche: (a) quella religiosa dei «livelliprogressivi» attraverso cui l’uomo dell’anomia si fa riconoscere comeDio, nel tentativo di immantentizzare l’effettiva ragion d’essere dei«tempi ultimi», e (b) quella antropologica, specificamente moderna,per cui nell’«uomo della perdizione», nella sua «volontà di potenza» sirealizza «tutto ciò che significa uomo» – tutto ciò che consente di «pro-durre l’uomo»63. A questo livello è possibile denunciare fondatamentenell’umanitarismo e nel conseguente progressismo dell’inquisitore unacaricatura dell’Anticristo. In un frammento dedicato al bisogno di sal-vezza come costitutiva problematicità dell’uomo (1926), Peterson fanon a caso un esplicito riferimento a Il padre di Strindberg. Ineludibilein tale rapporto di povertà interiore è l’angoscia che l’uomo prova difronte al possibile disvelamento «astrale» del proprio mistero64.

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 195

63 Cfr. E. Peterson, Der Antichrist, cit., p. 446.64 Il rapporto di sinonimia tra «povero», «sofferente» e «disperato» cui Peterson rinvia per

individuare nella figura del «povero» l’uomo alla ricerca di salvezza viene da lui colto non a casonell’ambito di culto. È qui che il “piagato” viene colto in diretto confronto con «i demoni e i pre-stigiatori», cioè nella situazione di vittima del mondo dell’illusione instaurato dal Katéchon/An-ticristo. Cfr. E. Peterson, Die «Armen» in der Psalmenliteratur, in Id., Lukasevangelium, cit., pp.420-423. Sulle letture strindberghiane di Peterson cfr. B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., pp. 68-70 esoprattutto, per quanto concerne la categoria di esistenza come «dubbio radicale» in Kierkegaarde Strindberg, pp. 143-145.

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A partire dal 1924/25 la figura dell’Anticristo personifica una capa-cità di negazione che, portando ai suoi estremi la dinamica della par-venza, può sussistere solo in ragione di un consenso di natura sacrale,come prova la sua raffigurazione tipica – l’acclamazione65. A eviden-ziare ora il termine di riferimento di questa universale negazione non èpiù il nómos, ma la remota ragione d’essere della sua fine – la manife-stazione del Figlio dell’uomo. Il confronto petersoniano con la figuradell’Anticristo va oltre una filosofia dell’autentico per proporsi qualeelemento specifico d’una teologia biblica. Rispetto all’argomentazionedel 1919 nuova è la ragione addotta nel 1925: «l’Anticristo è il supe-ruomo – ed è tale perché è la negazione del Figlio dell’uomo». In que-st’essere-negazione si risolvono al contempo la sua potenza (delegata)e la sua illusione (indotta). Soprattutto nelle lezioni sulla pericope luca-na ad essere denunciato è questo «romanticismo demoniaco»66.

4. L’umanità dell’Anticristo tra metafisica del potere e antropologia

È il suo esser-uomo per ragioni di principio a rendere l’Anticristo«molto più pericoloso di Satana»67. Il sistema di relazioni che dà sensoal mondo dell’anomia è imperniato «sin dal primo cristianesimo» sullacapacità rappresentativa dell’Anticristo, sulla polarità che la rende pos-sibile. Nell’appropriazione della corporeità e nella conseguente «uma-nizzazione» l’Anticristo esiste solo in diretta contrapposizione al Fi-glio dell’uomo – come radicale tentativo di riduzione del Verbo incar-

196 Giancarlo Caronello

65 Non è un caso che proprio al termine di questo biennio di riflessioni sulla struttura sacra-le del cosmo e sulla dialettica di parvenza e realtà connessa alla definizione teologica dell’uomo,Peterson pubblichi il suo studio sulle formule monoteistiche, presentato nel 1920 come tesi di dot-torato e successivamente di libera docenza. Cfr. Id., Eis Theós. Epigraphische, formgeschichtlicheund religionsgeschichtliche Untersuchungen, Göttingen 1926. L’integrazione più profonda subitadal testo tocca soprattutto la sezione relativa all’acclamazione, dove il confronto con la teologiapolitica di Carl Schmitt è particolarmente avvertibile (ivi, pp. 312-327). Cfr. in merito G.Caronello, «Perchè un concetto così ambiguo?» La critica del monoteismo del primo Peterson(1916-1930), in P. Bettiolo-G. Filoramo (eds.), Il Dio mortale. Teologie politiche tra antico e con-temporaneo, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 349-396.

66 Cfr. E. Peterson, Zur Dialektik von Christus und Antichristus, in Id., Lukasevangelium,cit., p. 129. L’excursus rappresenta per alcuni aspetti il nucleo del commento alle tentazioni diCristo documentato da tale lezione esegetica. L’espressione «romanticismo demoniaco» si riferi-sce alla conclusione di tale commento ed è a p. 139.

67 Cfr. E. Peterson, Der Antichrist, cit., p. 446.

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nato a parvenza e soprattutto come sapere sostitutivo della sua «mani-festazione continuativa nel tempo», la teologia. È nella contrapposizio-ne di queste due logiche del «prender corpo» che acquista un significa-to paradigmatico l’evidenziazione fatta da Peterson nel 1925 del rap-porto tra rivelazione ed incarnazione definito in Che cos’è la teolo-gia?68. L’Anticristo e il teologo dell’Anticristo sono figure dello stessorifiuto della rivelazione – in particolare della sua specifica modalità, lacomunicazione indiretta che il Verbo fa del proprio mistero.

Il tempo dell’Anticristo non può non presentarsi che come l’oradell’appropriazione dell’esser-altro di Cristo. Questa rapina potrebbed’altronde aver esito solo ove alla signoria del Lógos si sostituisse quel-la della sua parvenza. La riduzione di ciò che è ad una sua valenza, deldato eidetico a quello empirico, comporterebbe però inevitabilmente –ove riuscisse – l’abbandono del proprio costitutivo orizzonte di senso.L’implicito rifiuto del principio di realtà e la conseguente necessità diimporlo come volontà di potenza consentono di comprendere perché lospazio dell’Anticristo sia quello della neutralizzazione. Peterson ricor-re sovente alla metafora del luogo intermedio tra cielo e terra, «l’aria»:è questo lo spazio agonale tra il Kýrios in arrivo e gli arconti arroccatiin difesa della loro ultima sfera69.

In un articolo del 1929 sull’accoglienza del Kýrios, di poco suc-cessivo alla ripetizione della lezione citata, Peterson abbozzerà in posi-tivo (nell’analisi dell’acclamazione della signoria di Dio e dell’iscri-zione al libro della vita) le dimensioni salvifiche degli spazi interme-di70. Sino alla fine della sua vita vedrà pertanto nei «demoni dell’aria»che tentano di appropriarsene la presenza dell’Anticristo. La «sovrani-tà degli spazi aerei» è l’unico ateismo capace di destabilizzare la cri-stianità: «combattere contro la carne ed il sangue, contro Hegel e Marxnon è nulla a confronto dell’ateismo del principe di questo mondo, ina-lato con l’aria». L’appropriazione che l’Anticristo fa di questi spazi è ilvero ostacolo frapposto alla parrhesía, alla relazione diretta con cui

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68 Cfr. E. Peterson, Was ist Theologie?, cit., pp. 12-15.69 Cfr. E. Peterson, Satan und die Mächte, cit., pp. 449-450. Il tema viene ripreso in vari con-

testi, da ultimo nei Frammenti pubblicati nel 1954/55 e ripubblicati poco prima della morte (1956)in Id., Marginalien zur Theologie, cit., p. 146.

70 Cfr. E. Peterson, Die Einholung des Kyrios, in: «Zeitschrift für systematische Theologie»7(1929/1930), pp. 682-702.

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Dio qualifica l’uomo come suo diretto interlocutore, come «amico»:«Non a caso inaliamo l’atmosfera dei demoni dell’aria nell’ateismovissuto dei nostri centri commerciali»71.

Contemporaneamente alle lezioni sulla semantica neotestamentariaPeterson si occupa dell’Anticristo in tre corsi di esegesi: l’uno sul Van-gelo di Luca nel semestre invernale 1925/26 (ripreso nel semestre esti-vo del 1928)72, l’altro sull’Apocalisse di Giovanni nel semestre in-vernale 1926/27, ripreso in quello estivo del 192973 e soprattutto in unaserie di lezioni estive sull’Apocalisse tenute a Friburgo in Brisgovia nel193474. Alcuni paragrafi di questi ultimi due corsi sono stati da lui valo-rizzati nella stesura di tre articoli pubblicati tra il 1935 e il 1937, con-fluiti successivamente in Testimoni della verità (1937)75. In queste le-zioni il tema dell’Anticristo (con i suoi spazi, le sue trasformazioni e lasua «umanità») viene trattato più estesamente. Due motivi tradizionalidell’iconologia svolgono un ruolo determinante: la rapina mundi e lostigma identitario.

4.1. La «rapina mundi», un conflitto di legittimità

Analogamente ad altri autori del circolo del «Brenner», Petersonattribuisce alla pericope lucana delle tentazioni di Cristo (Lc 4,1-13) unsignificato idealtipico: soprattutto in termini di teologia della storia vicoglie un’occasione per porre in evidenza la dissoluzione della chri-stianitas constituta dell’Europa, le remote ragioni teologiche di un pro-cesso epocale.

Il contrasto tra Cristo e Anticristo viene localizzato ancora una vol-ta in uno spazio intermedio: il deserto messianico in cui lo Spirito indu-ce Cristo ad errare per confrontarsi con il tentatore. Nella dinamica delletre tentazioni si concretizza, in un drammatico «crescendo» la sospen-sione dei tempi escatologici. Gli indici di realtà indotti da tale sospen-sione acquistano la valenza iconica di un «gioco da fata morgana» effet-

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71 Cfr. E. Peterson, Marginalien, cit., p. 146. 72 Cfr. E. Peterson, Lukasevangelium, cit., in particolare le lezioni sulle tentazioni di Cristo,

pp. 124-140. 73 Cfr. E. Peterson, Offenbarung, cit., pp. 5-127.74 Cfr. ivi, pp. 141-225.75 Cfr. E. Peterson, Zeuge, cit.

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tuato tra tempo ed eternità, tra forma di presenza e astrazione simboli-ca76. Il campo percettivo delle due personae dramatis si struttura nelladimensione di una sintesi passiva, espressa fondamentalmente da duerelazioni di reciprocità. La duplice identificazione dell’uomo con il ten-tato e con il tentatore è conforme alla polarità inerente alla costituzionedi «corporeità» contrapposte, quella dello Spirito e quella dell’Anticri-sto77. La natura della contrapposizione preludente a una scelta definiti-va chiarisce perché la finalità perseguita con la sospensione del princi-pio di realtà sia quella di bloccare o comunque di procrastinare il tempodi tale opzione finale, la soluzione catartica del dramma in atto.

4.2. La trasformazione antropologica del principio di realtà

Soprattutto nel corso delle prime due tentazioni – quella connessaalla fame, indice del sistema di bisogni, e quella correlata alla forza digravità, indice del sistema di relazioni fisiche e cosmiche – le espe-rienze descritte continuano a valere come costitutive della corporeità,perdono però la specificità che le connota nel mondo della vita. Neldeserto messianico l’una assurge a termine di verifica della divino-umanità di Cristo, l’altra scade a formula d’universale magia.

Queste trasformazioni epistemiche, volte entrambe a circoscrivereil potenziale ambito di signoria dell’Anticristo, sono parte della strate-gia di una radicale rapina mundi. E lo sono quanto più stretto è il nessoeidetico rilevabile tra le dimensioni della corporeità e le forme di sape-re in cui si articola l’ego dell’Anticristo. La ridefinizione del sistema dibisogni è in effetti correlata al premoderno «morbus graecus» della cu-riosità, mentre la sospensione del principio di realtà è rapportata a queltipo di sapere, specificamente moderno, che è volto a potenziare, sinoall’ipostasi, l’autonomia dell’immaginario78. Finalità implicita a tale

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76 Cfr. E. Peterson, Lukasevangelium, cit., pp. 124-125. Sulla categoria di «fata morgana»cfr. ivi, p. 131.

77 Sulla categoria della «corporeità» dell’esperienza spirituale cfr. ivi, pp. 126-128, in parti-colare l’excursus di p. 126.

78 Che nella lettura petersoniana della rapina mundi e delle rispettive premesse epistemolo-giche vi sia l’eco di una critica al concetto moderno di scienza e di dominabilità del tempo e dellospazio è avvertibile soprattutto ove si tengano presenti le tesi di Hans Blumenberg in materia. Cfr.in merito H. Blumenberg, Augustins Anteil an der Geschichte der theoretischen Neugierde, in:

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potenziamento è l’accelerazione dei tempi, sua premessa epistemica èlo scambio tra campo di coscienza e sistema finzionale. Il fatto chePeterson rapporti l’oggetto della singola tentazione, il referente empi-rico, all’ego dell’Anticristo consente di cogliere come condizione dipossibilità della finzione universale la sua paradossale «sincerità».Grazie al finzionalismo inerente a tale sincerità è la menzogna stessa adassurgere a principio veritativo del «tempo presente».

4.3. La trasformazione metafisica del principio di realtà

La trasformazione antropologica degli indici di realtà prelude aquella metafisica che la rende operativa: questo rapporto fondativo èavvertibile nel sistema di forze articolate dalla strategia del tentatore.Peterson ne pone in evidenza due: da un lato, il costitutivo bisogno chel’Anticristo ha di sapere «quale sia la posizione del Figlio di Dio comeCristo» e dall’altro una accelerazione dei tempi che gli consenta dimetter in scena nello spazio escatologico «di natura pubblica analogaa quello della sfera politica [...] la posizione del Figlio di Dio comeAnticristo»79. Queste motivazioni cognitive dell’Anticristo sono en-trambe «radicate nella profondità metafisica d’ogni effettivo rapportodi signoria»80.

La duplice capacità di trasformazione degli indici di realtà posta inatto dall’Anticristo induce Peterson a definirlo come «il grande presti-giatore». La sfida teologica da lui personificata non è la posta in giocoinerente alle tentazioni – il successo nel capovolgere i rapporti della si-gnoria cosmica – quant’invece la condizione di possibilità del capovol-gimento stesso. Questa condizione è pertanto effettiva solo se tradotta inun’antropologia volta a ridefinire lo stesso principio di realtà: «la cate-goria del mago si dà solo nella sfera propria dell’uomo»81.

Il nesso rilevato tra metafisica ed antropologia qualifica il conflittodi legittimità come questione identitaria. Il contenzioso non è il «nulla

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«Revue d’Études augustiniens» 7(1961), pp. 35-70 e soprattutto in Id., Der Prozeß der theoreti-schen Neugierde, in Die Legitimität der Neuzeit, edizione ampliata, Frankfurt M. 1984, pp. 263-531.

79 Cfr. E. Peterson, Lukasevangelium, cit., p. 129.80 Cfr. Id., Zur Metaphysik der Macht, ivi, pp. 131-133, qui p. 132.81 Cfr. Id., Lukasevangelium, cit., pp. 127-128, qui p. 128.

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metafisico» preludente ad ogni forma di potere. In gioco è la necessitàdi elaborare un sistema di connotazione comune all’ambito e al deten-tore della sovranità. Il titolo di legittimità è di natura identitaria. Il regi-me di anomia toglie al cosmo ogni univoca configurazione facendoloscadere ad amorfo ambito di contesa. Recuperarne la signoria significaridargli un’identità, rappresentarlo in perfetta conformità alla natura dichi ne regga le sorti. Grazie a questa decisione sulla sua natura – sullasua specifica rappresentabilità – il cosmo si rivelerà essere creazione osfera di magia. L’elemento epistemologico evidenziato dall’esclusivitàdei titoli di legittimità rinvia a quello teologico che ne è la premessa:«Cristo ed Anticristo avanzano il diritto d’essere entrambi figli di Dio»– l’Uno perché proclamato dal Padre, l’altro perché acclamato dallakoinè religiosa in cui si concreta «questo eone». L’identità del sovranoinclude la legittimità della signoria, non viceversa82.

4.4. Principio di realtà e sospensione del tempo

Nel deserto messianico la questione rimane aperta. «Il potere èqualcosa di misterioso. Chi l’avrà?». La dinamica della tentazione neprecisa i termini: «sarà la forza cosmica di satana che ne fa delega al-l’Anticristo oppure Dio che ha dato al Figlio la signoria?»83. È avverti-bile il contesto esistente tra la costituzione eidetica dell’Anticristo e lasituazione d’anomia cosmica che la rende rappresentabile. L’una è con-dizione dell’altra sino a fare della rapina mundi la sigla del «tempo sto-rico», l’eone presente. Quest’ultimo non si potrebbe però cogliere co-me tale se non coincidesse con un effettivo, metafisico stato d’eccezio-ne del cosmo. La decisione verte sull’essere o il non-essere del mondoquale spazio di signoria. Per questo il lemma hinimicus homo ha sensounicamente come espressione escatologica. Lo pone in evidenza l’i-dentificazione specificamente lucana della exousía con l’arbitrio («dotutto a chi voglio io»). Titolo di legittimità dell’Anticristo è la delegafattagli da Dio stesso d’un «suo tempo»84.

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82 Ivi, pp. 129-130.83 Id., Zeuge, cit., p. 112.84 Cfr. Id., Lukasevangelium, cit., pp. 238-242, in particolare p. 241.

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Questa strutturale contraddizione non è neutralizzabile postulandoad infinitum la sospensione del principio di realtà: ove pur il postulatodivenisse operativo, non potrebbe non essere omologato tosto o tardi –secondo le più impensabili modalità – con quello della magia, in evi-dente contraddizione con la propria ragion d’essere. Se lo onus pro-bandi nel conflitto di legittimità è l’equa congruenza tra titolo e fatti-specie e se nel caso specifico il termine di verifica è rappresentato dal-l’essere o dal non essere del cosmo come creazione, stupisce allora chenel conflitto di legittimità tra Cristo e l’Anticristo prova e verifica ven-gano connotate con la categoria del miracolo? Secondo Peterson, è quiche va colta la ragione teologico-politica per cui il moderno – nelrimuovere il miracolo dal principio di realtà – «convalida di fatto lamagia dell’Anticristo» e i rapporti di potere (= «metafisici») che nederivano85. Questa rimozione è peraltro possibile solo grazie ad unaaccelerazione dei tempi pari (perlomeno in linea di principio) all’azze-ramento dell’ultimo tempo, appunto quello catecontico. Ogni elementoresiduale comporterebbe la necessità della finzione86.

Ne consegue un corollario teologico-politico: la signoria sul cosmoè perseguibile solo grazie alla sovranità sul tempo – il perseguimento èreale a condizione che il controllo del tempo sia esercitabile in entrambii sensi: come blocco e come accelerazione. Altrettanto univoco è peròl’interrogativo che tale corollario comporta. Se nello «scambio» tra tito-li di legittimità e principio di realtà sussiste davvero il contesto rilevatoda Peterson, allora il conseguente «scambio» dei rapporti di «autono-mia» siglato dal moderno è davvero connesso solo accidentalmente allasospensione metodica del sacro nella definizione del principio di realtà?Non è questo forse il problema teologico-politico cui rinvia la letturache Peterson fa, all’interno della pericope lucana, della rapina mundi?Alla vigilia degli anni Trenta il Sitz im Leben ecclesiologico cui Peterson

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85 Cfr. ivi, pp. 129-130.86 Sulla premessa finzionalista e sulla sua operatività nella dinamica di accelerazione o bloc-

co dei tempi che caratterizza il moderno si vedano le riflessioni di R. Koselleck, Die Verzeitli-chung der Utopie (1976 / 1985)., in Id., Zeitschichten. Studien zur Historik, Frankfurt M. 2000,pp. 131-225. Si veda inoltre, soprattutto per quanto concerne l’aspetto teologico del problema, E.Benz, Akzeleration der Zeit als geschichtliches und heilsgeschichtliches Problem, Mainz -Wiesbaden 1977, dove viene fatto riferimento all’effetto avuto sull’espansione del cristianesimoprimitivo dall’«idea dell’accelerato decorso degli eventi degli ultimi tempi» (p. 15) e soprattuttoalla convertibilità che ne consegue per i termini «attesa» e «ritardo» (pp. 19-20).

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rapporta l’analisi del Katéchon subisce un’integrazione, determinanteperaltro nella genesi delle riflessioni teologico-politiche maturate poinel 1934/1936: «la dialettica tra Cristo ed Anticristo» è comprensibile«solo all’interno di una metafisica del potere»87.

5. Lo stigma dell’Anticristo, una definizione dell’uomo

Nelle Lezioni sull’Apocalisse, riprese e approfondite tra il 1926 edil 1934, la metafisica del potere raffigurata dall’Anticristo viene tratta-ta in modo sistematico. Se l’Anticristo è «uomo dell’anomia», lo è inquanto «entità inerente al mondo politico»88. Appunto perché da luirappresentato, quest’ordine è congruente a quello metafisico del cosmoe a quello intellettuale della profezia. La preminenza del politico è con-seguente al fatto che nell’Apocalisse Cristo si manifesta «apertamen-te», in diretta analogia con «la struttura pubblica del mondo politico»ed in altrettanto diretta contrapposizione alla valenza religiosa dellasimbologia che tale mondo adotta a titolo di legittimità. Questa dislo-cazione di prospettiva rispetto all’analisi della pericope lucana è deter-minante. A Peterson preme sottolineare la circostanza che la sospen-sione dei tempi raffigurata dal deserto messianico subisce ora un azze-ramento. Nello spazio pubblico del politico alla simbologia del cultoimperiale si contrappone quella della regalità di Cristo. In una confe-renza su Cristo come re tenuta a Friburgo in Brisgovia nel 1934 Pe-terson articola le ragioni di tale regalità. Il testo documenta un appro-fondimento ed, in parte, uno slittamento di prospettiva rispetto alleriflessioni del 1924/25. Il ruolo decisivo svolto dal «politico» non èdovuto unicamente alla situazione del Terzo Reich. L’accentuazionedella «dimensione pubblica» quale struttura-chiave della sacralitàcosmica pone in evidenza due elementi determinanti per comprenderein Peterson la contrapposizione tra le categorie di «riserva escatologi-ca» e «teologia politica» soprattutto negli anni Trenta. (a) La contrap-posizione dei due sistemi simbolici (culto imperiale vs. liturgia cosmi-ca) non viene fatta in prosecuzione diretta della polarità essere / par-venza che inerisce al contrasto tra Cristo e l’Anticristo, ma nella logi-

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87 Cfr. E. Peterson, Lukasevangelium, pp. 129, 131-133, 135-136.88 Cfr. Id., Zeuge, cit., p. 111.

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ca di una definitiva cesura di senso. Ad essere ripensati sono sia la con-trapposizione degli spazi, sia il significato della simbologia cosmico-sacrale. La regalità è pubblica in ragione non di una sua universalizza-zione, ma della definitiva proclamazione del titolo. Questa connotazio-ne fornisce parametri di legittimità al nuovo «presente» (= eone) e alpolitico che vi si articola. (b) Il ruolo dell’acclamazione in entrambi isistemi simbolici acquista di riflesso un nuovo significato. Il rapportoCristo/cosmo è ora celebrato non nella logica della mediazione (apertaalla figura della parvenza), ma in quella della diretta celebrazione delnuovo rapporto di signoria. Non v’è pertanto contraddizione tra questalogica e quella della comunicazione indiretta adottata dal Figlio del-l’uomo. Al contrario: alla fine dei tempi la logica dell’univocazioneriacquista il proprio referente di realtà (il cosmo) ponendo termine adogni logica della parvenza. Alla «simbologia atemporale» si sostituisceora la «simbologia del confronto diretto»89.

Nei Corsi sull’Apocalisse del 1934 l’evidenziazione dell’«ineludi-bile dialettica» esistente tra Cristo e Anticristo registra una salto diqualità: all’ambivalenza della tentazione subentra la logica univocantedel giudizio. Questa univocazione si afferma universalmente grazie adun costante contrappunto di proclamazione dei titoli e d’articolazionedei relativi riconoscimenti di legittimità (registrazione, proschinesi edacclamazione). La natura apertamente pubblica del confronto compor-ta una definizione ultimativa del conflitto di legittimità: dei suoi termi-ni, dei suoi contraenti e delle parti coinvolte, i testimoni. Ad imporsisono ora rapporti di «conoscibilità universale» e di «comunicazionediretta»: la dialettica tra Cristo e Anticristo culmina in quella tra sigil-lo e stigma, tra salvezza e condanna90.

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89 Cfr. E. Peterson, Christus als König, in Id., Offenbarung, cit., pp. 127-141, in particolarepp. 128-132 (con riferimento ad Ap 1,5) per quanto concerne la categoria dello «spazio pubblico»e pp. 135-137 per quanto concerne il motivo dell’acclamazione. Sulla composizione del testo ine-dito si vedano le osservazioni di W. Löser che ne ha curato la pubblicazione: Zur Entstehung derManuskripte über die Offenbarung des Johannes, in E. Peterson, Offenbarung, cit., pp. IX-XXI, inparticolare pp. XVI-XVII. Cfr. E. Peterson, Christus als König, cit., pp. 127-141, spec. p. 135.

90 Cfr. Id., Zeuge, cit., pp. 108-112, 114-116.

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5.1. L’Anticristo, teste d’accusa di Cristo

Nello spazio pubblico la «forza demonica» del regime d’anomiaperde ogni carattere amorfo acquisendo forma rappresentativa. Ciò av-viene grazie all’atto di «delega all’Anticristo di una specifica capacitàd’intervento». L’Anticristo è vincolato a confrontarsi con Cristo nelruolo del suo «demoniaco antimodello», una presenza codificata nell’i-stituto dell’accusa cosmica. Sintomatico è il fatto che nel commento alversetto di riferimento (Ap 13,2b) Peterson rinvii in termini espliciti a2Ts 2,991. La delega del Katéchon – appunto perché compiuta in nomi-ne et potestate alicuius – segna l’implicito riconoscimento formaledella logica rappresentativa e della previa esistenza di un nómos. Laformalizzazione del conflitto di legittimità in uno spazio pubblico cheè al contempo cosmico e politico comporta due conseguenze.

A conseguirne è anzitutto la fine della magia. Come l’Anticristo è«controparte» di Cristo, così la sua magia cessa ora d’essere un’amor-fa espressione dell’irrazionale e viene connotata come «antimiracolo».Di riflesso ne viene ridefinita la natura probativa. L’onus probandi nonè più connesso alla dialettica del discernimento tra scelte ancora possi-bili, inerenti alla logica della tentazione, ma alla esibizione univoca deititoli di legittimità e del loro possesso. Mentre Cristo è davvero «mortoe risorto», la morte e la risurrezione dell’Anticristo (cfr. Ap 13,3a)«sono solo parvenza». È questa inconsistenza della prova la ragione percui ogni «antimiracolo» è «la forma in cui l’Anticristo rappresenta convalenze contrarie e contrapposte le ferite dell’Agnello»92.

Contemporaneamente alla fine della magia, si afferma la procedu-ralizzazione del conflitto. L’Anticristo ha ora diritti che il regime d’a-nomia gli precludeva – diritti postulati in ragione della natura dello spa-zio pubblico. Egli «ottiene il diritto di esprimersi in termini blasfemiper un tempo apocalittico di 42 mesi». Ove si tengano presenti le coeveriflessioni petersoniane sulla natura del linguaggio teologico, si avver-

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91 Cfr. Id., Offenbarung, cit., p. 119.92 Cfr. ivi, pp. 119-120, qui p. 119. Il riferimento fatto è alla contrapposizione, da un lato, tra

la «parvenza» di Simon Mago che, secondo alcune fonti apocrife, si presenta come Anticristo chemuore e risorge e, dall’altro, la realtà della ferita inferta al capo dell’Agnello ed alla sua succes-siva guarigione (Ap 13,3a). Questo esser-contromodello rappresenta la «blasfemia» dell’Anticri-sto (ibidem).

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tirà come questo «istituto giuridico» della blasfemia vada oltre al para-dosso retorico. Appunto perché connotativo d’una relazione pubblicatra cosmo e sovrano, l’istituto presuppone un duplice riconoscimento:da un lato, quello della facoltà rappresentativa dell’Anticristo di «ren-der pubblica» l’accusa mossa a Dio dall’«intero cosmo che gli si oppo-ne» e dall’altro quello della consistenza teologica delle relative moda-lità d’espressione (accusa e testimonialità) definite globalmente come«blasfemia». Entrambe queste forme di istituzionalizzazione del pote-re rispondono ad una logica del potenziamento estremo che l’Anticristopuò ottenere per delega: «più forte è il potere, maggiore è il fascino chene emana». Non a caso il riferimento in parallelo al rapporto tra 2Ts 2,9e Ap 13,1-10 ripropone il tema del Katéchon, togliendo peraltro allacapacità di blocco della figura ogni consistenza93.

5.2. La testimonialità del teologo dell’Anticristo

L’istituzionalizzazzione del conflitto comporta una specifica, deter-minante affermazione della testimonialità. Ad esserne investita è so-prattutto la figura del falso profeta: la sua falsità è tale in quanto è pro-vata capacità di pervertire il significato dei segni escatologici. So-prattutto in un contesto legato alla tradizione apocalittica l’omologa-zione del «profeta» al «teste» comporta conseguenze di non poco rilie-vo. Basti qui rilevare che essa deriva direttamente dal significato attri-buito da Peterson all’esercizio della potestà giudicativa da parte diCristo. Essa viene qui intesa come individuazione delle parti coinvoltenell’accusa cosmica di cui si fa carico l’Anticristo. Ne consegue inevi-tabilmente la definizione della specifica operatività «di tutte le potenzedemoniche» e, in particolare, dei loro rapporti di corresponsabilità.Suddivise «in due ambiti – in quello strettamente politico ed in quello,più ampio, della vita intellettuale» – esse sono direttamente coinvoltenell’atto d’accusa dell’Anticristo94.

Il falso profeta personifica l’ordine intellettuale. Nel mettersi a di-sposizione dell’Anticristo snatura l’istituto della testimonialità ed assu-me di conseguenza i ruoli di «interprete intellettuale», «elaboratore di

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93 Cfr. ivi, pp. 118-122.94 Cfr. ivi, pp. 122-124.

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Weltanschauung» e «teologo dell’Anticristo». In quest’ultima funzionefunge soprattutto da «falso notaio». Egli «certifica» gli atti del conten-zioso definendo la congruenza delle prove (il contro-miracolo), dei tito-li addotti (la «simbologia del politico») e soprattutto la pretesa di cul-to95. Nella figura del teologo dell’Anticristo non riemerge l’ennesimavariante dell’intellettuale organico, ma l’elemento katecontico che in-tende bloccare l’affermarsi del Lógos rivelato nel tempo. Il suo rap-porto con l’Anticristo non è pertanto funzionale, ma ontologico. Qualeraffigurazione dell’«ordine politico», l’Anticristo «non si occupa né difilosofia, né di teologia»96. Dato però che «la sfera politica è monca senon è connessa a quella intellettuale»97, l’anti-teologo opera solo al-l’interno dello specifico ambito di sovranità dell’Anticristo. È l’eserci-zio stesso della sua competenza a rendervelo parte costitutiva. La «co-noscenza pura» in teologia è una «fictio juris» poiché il sapere teolo-gico è per sua natura non un «conoscere», ma un «riconoscere». Graziea questa sua capacità di riconoscimento, il teologo dell’Anticristo puòoperare solo a partire «dalla profondità» dell’Anticristo oppure da una«ricerca fatta sotto la guida dello Spirito», comunque quindi all’inter-no di una polarità contrapposta98.

L’inerenza all’evento rivelativo conferisce all’antiteologo un’iden-tità specifica: «filosofi in disputa ve ne sono stati tanti prima di Cristo;teologi dell’Anticristo ve ne sono solo dopo che Cristo s’è rivelato»99.Nella figura dell’anti-teologo convergono due complementari ragionid’essere. Sarebbe riduttivo cogliere prevalentemente quella metafisicaindotta dal «mistero del potere». Determinante è la dimensione escato-logica, inerente alla natura testimoniale del suo sapere, alla sua capa-cità di riconoscimento degli effettivi rapporti di signoria. Qualora la«certificazione» della simbologia politica venga disgiunta dalla irri-nunciabile autonomia del teste, essa si traduce inevitabilmente in «ado-razione». Nell’azione dell’anti-teologo il rapporto tra lex credendi e lexorandi subisce il suo ultimo, determinante capovolgimento: qui «l’og-getto di culto è rappresentato dall’ultima trasformazione del simbolo

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95 Cfr. ivi, pp. 121-123.96 Cfr. Id., Zeuge, cit., p. 111.97 Cfr. Id., Offenbarung, cit., p. 122.98 Cfr. Id., Zeuge, cit., p. 112.99 Cfr. ivi, p. 110.

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politico»100. Grazie soprattutto a questa capacità di sovversione del rap-porto tra cosmo e liturgia, tra verità ed assenso, il teologo dell’Anti-cristo si impone come la controfigura del martire. La testimonialità ènulla ove la sua verità valga ad libitum.

7.3. La testimonialità del martire e la dialettica tra stigma e sigillo

La «conoscibilità universale» che conferisce all’Anticristo e al suoteologo una specifica capacità testimoniale investe «necessariamente»non solo gli arconti, ma «tutti gli uomini che abitano su questa terra».A partire dalla soluzione del conflitto di legittimità tra Figlio dell’uo-mo e superuomo «non può esservi più alcuna inconoscibilità dell’uo-mo»101. L’identità dell’uomo è pertanto funzione dei rapporti di sovra-nità esistenti nel cosmo ed, in particolare, della struttura testimonialegrazie a cui queste relazioni siano riconoscibili nel tempo. Al di fuoridi tale dialettica di riconoscimento la nozione dell’«uomo» detiene unsignificato congruente a quelli indotti dall’amorfo spazio d’anomia uni-versale. Solo la qualifica del cosmo come nuova creazione, legittimoambito di signoria del Figlio dell’uomo, consente una connotazione delconcetto di «uomo».

Il segno escatologico apposto sulla fronte dell’uomo contraddistin-gue l’intero sistema di significati che tale concetto assume nel presen-te escatologico. Crea un rapporto di «contemporaneità» tra il tempo delgiudizio di Cristo, quello dell’accusa dell’Anticristo e quello dellatestimonianza dell’uomo. Grazie a questo suo coinvolgimento nelladecisione sul cosmo e nell’accettazione o nel rifiuto dei relativi rapportidi signoria «lo» uomo non è più «ogni» uomo, ma solo «questo» uomo,capace d’un sistema di senso contrassegnato nelle sua caratteristichepotenzialità. Alla contrapposizione radicale degli ambiti semantici sisostituisce ora la loro integrazione; grazie a tale ristrutturazione delleprime evidenze è possibile, di riflesso, una ridefinizione dell’uomo ba-sata non sulla radicale negazione, ma su una univocazione dei trattiessenziali che ne caratterizzano la «natura». Peterson insiste nel sotto-lineare la problematica autonomia del sistema di senso di cui l’uomo è

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100 Cfr. ivi, p. 112.101 Cfr. Id., Zeuge, cit., pp. 108-109.

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soggetto. Con un chiaro riferimento a un motivo centrale della cristo-logia, la communicatio idiomatum (DH 294), afferma che l’uomo ne èpartecipe ed, in un certo senso, portatore non come astrazione metodi-ca («la natura umana»), ma come singola esistenza. L’uomo occupa unpunto di convergenza d’ambiti semantici potenzialmente contrari, ride-finiti e resi compatibili solo grazie al principio di realtà della Croce:«nel sacrificio del Figlio dell’uomo si compie ora uno scambio dei con-cetti dell’uomo»102. Questo riferimento al paradigma cristologico è de-terminante per comprendere sia la tesi centrale sull’«uomo-Katéchon»,sia il progetto di antropologia teologica entro cui acquista consistenza.Ogni univocazione della natura umana presuppone un superamento dievidenze prime, culminante nel «disvelamento» che il Figlio dell’uomofa del proprio mistero, l’essere-uomo:

«la questione di che cosa sia l’uomo è pertanto inevitabilmente un problemametafisico. Solo se si desse la possibilità di dissolvere senza traccia l’esser-uomo dell’uomo, solo allora sarebbe possibile eliminare ogni problema meta-fisico, ogni questione attinente il principio e Dio»103.

È in questi termini che il principio di «conoscibilità» dell’uomo in-dividua la connessione tra antropologia e metafisica del potere, in par-ticolare nell’accezione epistemica di quest’ultima, postulata da Pe-terson per poter definire l’effettiva identità dell’Anticristo. Testimoneattivo nel conflitto di legittimità, l’uomo mutua i titoli identitari inerentialla sua soluzione. Al di fuori di tale struttura decisionale la sua cono-scibilità continuerebbe a valere come un postulato vuoto, la variabiledi un «mistero» irrisolto:

«della manifestazione del mistero dell’anomia tutti sono testimoni (l’angelo,l’altare, l’uomo) – ciascuno è chiamato a testimoniare a favore di Dio e con-tro un cosmo dominato dall’Anticristo e dal suo falso profeta»104.

«L’Anticristo è un uomo, non un demone» 209

102 Cfr. Id., Was ist der Mensch?, in Id., Theologische Traktate, cit., pp. 137-138. 103 Cfr. Id., Die Frage nach dem Menschen – I, in Id., Offenbarung, cit., pp. 249-251, qui p.

249. Si tratta di uno dei frammenti inediti che consentono di ricostruire la genesi del trattato sul-l’uomo del 1936. Sino alla pubblicazione della nuova versione del testo nel 1948, questi fram-menti valsero unicamente da «riflessioni utilizzabili nel repertorio delle conferenze tenute daPeterson negli anni Trenta in Germania e nei Paesi limitrofi». Cfr. B. Nichtweiß. Zur Auswahl po-litisch-theologischer Texte in Teil II, in E. Peterson, Offenbarung, cit., pp. XXXVI-XLVI, qui p. XLIII.

104 Cfr. Id., Zeuge, cit., p. 115.

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Sino a quando la scelta rimanga irrisolta continuerà a bruciare lostigma dell’«intrinseco rapporto esistente tra l’ateismo e la de-umaniz-zazione», tra il sistema di negazione dell’Anticristo e la sua personifi-cazione nella «natura umana»105. In una drammatica lettera a JacquesMaritain, coeva ai manoscritti qui citati, Peterson fornisce un esempiodi questo «intrinseco rapporto». La strutturale blasfemia dell’eurocen-trismo antropologico ha toccato il suo apice nell’«aver organizzato ilmondo intero» attorno alla categoria dell’uomo occidentale. E ha potu-to farlo solo grazie a un atto di rimozione teologica. Unicamente inragione del fatto che la «natura» dell’uomo fosse stata in precedenza«intimamente toccata dall’escatologia cristiana» si era data in effetti lacondizione teologico-politica necessaria per «costruire la nuova terracosì come oggi si presenta». Tutto ciò non sarebbe stato possibile senzaun atto di negazione di «questo credo»106. La «dimenticanza» inerenteal problema epocale della tecnica – da Peterson colto in stretto conte-sto con quello dell’anticristologia – affonda le proprie radici di sensonella cristologia:

«lo homo faber è l’uomo dell’eterno progresso, il Figlio dell’uomo blocca pe-rò il progresso. L’evoluzione della tecnica moderna è a-cristiana, se non addi-rittura anticristiana. Il cristianesimo è antimperialista ed antitecnico»107.

Soprattutto nella prospettiva acquisita nel commento all’Apocalissegiovannea del 1934 ad essere poste in evidenza sono le contraddizionidi un cristianesimo che si lasci condizionare da rapporti di conformitàcon la propria storia. L’accennato rapporto tra colonialismo moderno eciviltà della tecnica è solo un esempio. Decisivo è l’assunto d’antropo-logia teologica cui Peterson fa riferimento: il sistema di negazione del-l’Anticristo, confrontato con le forme di univocazione di senso ineren-ti all’ultima e definitiva parousía, si risolve nel disperato tentativo di

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105 Cfr. Id., Die Frage nach dem Menschen. I, cit., p. 250. 106 Cfr. Id., Der Mensch in seiner Welt, in Id., Offenbarung, cit., pp. 254-255, qui p. 255. Il

titolo è stato opportunamente attribuito dalla curatrice della pubblicazione del testo alla lettera diPeterson a Maritain del 3 gennaio 1936, conservata nell’Archivio-Maritain di Kolbsheim.

107 Cfr. Id., Nonne est hic filius fabri?, in Id., Offenbarung, cit., pp. 259-260, qui p. 259. Sitratta di un frammento preparatorio dell’articolo pubblicato nel secondo dopoguerra col titolo: Ister nicht der Zimmermanns Sohn?, in «Wort und Wahrheit» 1(1946), pp. 346-347, ripreso poi inId., Marginalien, cit., pp. 44-45.

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«riscattare» i propri vincoli di signoria grazie ad un sistema di rimo-zione. Non si tratta di un’ipotesi interpretativa di natura psicologica, madi un assunto la cui consequenzialità è inerente sia al rapporto cosmo-rivelazione precedentemente evidenziato, sia alla nozione biblica d’uo-mo-creatura108. La simbologia all’interno della quale Peterson analizzail rapporto di inerenza dei due sistemi è dovuta pertanto alla specificacontestualizzazione teologica – oltre che storico-concettuale – del pro-blema antropologico. Non è casuale che, in parallelo alle lezioni sullasimbologia dei testi giovannei, cominci ad affermarsi nella sua operaun’attenzione sempre maggiore al tema dell’abito come simbolo chia-ve dell’uomo-creatura. Il motivo dell’«uomo-nudo» è semantema vuo-to esattamente come la categoria di «natura umana». L’uomo-creaturaè comprensibile solo come l’uomo che ha perso l’abito della gloria eche porta nel pudore il marchio della colpa109. Determinante non è peròil ricorso al significato specifico del simbolo, quanto invece il riferi-mento alla sua ineludibilità. L’abito adamitico diviene comprensibile inprospettiva di antropologia teologica solo se rapportato al sigillo iden-titario che gli conferisce una dimensione di senso. Il sigillo escatologi-co è la condizione di conoscibilità dell’uomo. Senza questa connota-zione la sua stessa esistenza rinvierebbe ad un semantema vuoto, alla

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108 Nella citata lettera di Peterson a J. Maritain viene denunciata con estrema chiarezza lanatura neo-gnostica del sistema di rimozione teologica qui accennato. In riferimento soprattuttoall’affermarsi di fenomeni come la tecnicizzazione globale, la massificazione dei sistemi sociali,il riproporsi di un neodarwinismo di fatto, ecc., egli pone in evidenza soprattutto la rimozione del-l’elemento cosmico della fede quale premessa della riduzione del fatto religioso a fenomeno psi-cologico. Contro queste tendenza va affermato che «la religione è possibile solo nel cosmo e nonsecondo una modalità acosmica. La religione dell’uomo senza cosmo è costretta a trovare un pro-prio punto archimedeo nella psicologia, per esserne peraltro poi esclusa come corpo estraneo (gra-zie alla psicoanalisi ed all’esperienza normale) – ed errare come essere apolide». Cfr. Id.,Offenbarung, cit., p. 255.

109 Cfr. Id., Theologie des Kleides, in «Beneditkinische Monatsschrift» 16(1934), pp. 347-356, ripreso in Id., Marginalien, cit., pp. 10-20, in particolare pp. 11-12. L’affermazione teologi-ca relativa all’abito di gloria indossato dal primo Adamo, destinata ad acquisire un valore presso-ché assiomatico nell’antropologia di Peterson, riprende una diffusa tradizione patristica, soprat-tutto di origine siriana. Cfr. in merito S. Brock, Clothing metaphors as a means of theologicalexpressions in Syriac tradition, in M. Schmidt (ed.), Typus, Symbol. Allegorie bei den östlichenVätern und ihren Parallelen im Mittelalter, 1982, pp. 11-40. Significativa è la rapida recezionedell’articolo petersoniano nella patristica francofona, soprattutto nell’opera di Jean Daniélou, ades. in Platonisme et théologie mystique, Paris 1944, pp. 52-65, 90-93. J. Daniélou ha peraltro pro-mosso la traduzione francese dell’articolo in una versione intermedia tra il testo del 1934 e quel-lo (tedesco) del 1948 come La theólogie du vêtement, in Rythmes du monde, 1946, pp. 3-9.

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black box della «natura umana». È a tale struttura epistemica che rinviala dialettica da Peterson rilevata tra sigillo e stigma, tra martire e se-guace dell’Anticristo.

6. Conclusione: la prospettiva antropoteologica

Nell’ontologia della presenza abbozzata da Peterson il portatoredello stigma personifica l’ineludibile conseguenza del momento teticoinerente alla negazione personificata dall’Anticristo: la sua storicità.Sul piano formale lo stigma è segno connotativo dell’uomo esattamen-te come lo è il sigillo. Non a caso però nel 1936 Peterson insiste sullanecessità d’andare oltre l’essenzialismo antropologico. Tiene anzi aprecisare soprattutto la natura sacrale dello «stigma apposto sulle ma-ni» dell’uomo, la storicità connessa a tale caratterizzazione110. La sa-cralità della mano dell’uomo non costituisce solo oggetto di analisifenomenologica; «la mano è qualcosa di misterioso», recita un excur-sus del commento a Luca (Lc 4,40)111. Lo stigma sulla mano consentedi meglio comprendere la «nuova profondità dell’essere-uomo»: quel-le dell’uomo sono «mani rapaci» che imprigionano il malato, il povero– il Figlio dell’uomo112. È alla convergenza di questa prospettiva antro-pologica con quella teologico-politica che va forse letto un frammentopetersoniano coevo alle riflessioni sull’Apocalisse, non privo di un’ecohobbesiana: «l’Anticristo è l’uomo che si presta ad essere il vaso d’e-lezione del principe del mondo»113.

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110 Cfr. Id., Zeuge, cit., p. 109.111 Cfr. Id., Zur Handauflegung des Gottessohnes, in Id., Lukasevangelium, cit., pp. 160-162,

qui p. 160.112 Cfr. Id., Was ist der Mensch?, in Id., Marginalien, cit., pp. 136-137. Nel frammento del

citato commento a Lc 4,40 il contesto tra il mistero della mano e quello del Figlio dell’uomo vieneposto in evidenza grazie all’analisi dell’imposizione delle mani. Secondo Peterson, si tratta di ungesto profondamente diverso dal «toccare con la mano» cui ricorrono le relazioni delle guarigio-ni miracolistiche: «il toccare con la mano esprime qualcosa di poco diverso dall’azione di unmago» (p. 162). Solo il titolo cristologico consente di esprimere l’ultimo significato del «benedi-re e consacrare» (p. 160). Questa contrapposizione tra mano dell’uomo e mano del Figlio del-l’uomo costituisce inoltre il fondamento della parte dedicata alla fenomenologia della mano nel-l’articolo del 1928/49 dedicato alla teologia della parvenza umana. Cfr. E. Peterson, Theologie dermenschlichen Erscheinung, in: «Hochland» 41(1948/49), pp. 148-153, ripreso in Id., Marginalien,cit., pp. 3-10, rif. pp. 6-7.

113 Cfr. Id., Der Fürst dieser Welt (1940), in Offenbarung, cit., p. 256.

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La tesi che l’Anticristo sia un uomo e che quest’uomo sia conosci-bile solo in rapporto alla rivelazione del Figlio dell’uomo consente dueosservazioni conclusive.

(a) Nel periodo in cui lavora ai testi citati, Peterson studia autorid’antropologia con cui instaura peraltro rapporti personali. Basti citareM. Scheler, G. van der Leew, H. Plessner e J.J. Buytendijk114. I riferi-menti antropologici indotti dalla sua tesi sull’Anticristo non sono per-tanto casuali, ma consentono di individuare una precisa scelta specula-tiva. Per Peterson l’uomo non è una finzione ontologica. L’essenziali-smo antropologico prova la propria inconsistenza epistemica soprat-tutto quando a cambiare sia il sistema di riferimento culturale che negarantisce validità. È allora che la precomprensione si rivela essere unapetitio principii. Acquisito il nuovo paradigma escatologico come siste-ma di riferimento, Peterson non può non staccarsi dagli antropolegemiche pullulano negli anni Venti. È questa la ragione della radicale «epo-ché di senso» da lui operata rispetto ad ogni forma precomprensiva del-l’uomo, sino a correre il rischio d’un antiumanistico fraintendimento.In effetti nella dialettica da lui colta tra Cristo e Anticristo – tra Figliodell’uomo e superuomo – il tertium relationis è l’uomo. Non stupiscepertanto che contemporaneamente agli scritti presi in considerazionePeterson lavori ad un progetto di antropologia teologica il cui manife-sto è costituito da due articoli. Quello pubblicato nel 1936 porta il tito-lo Che cos’è l’uomo?115 e riprende in termini sistematici posizioniespresse due anni prima nel saggio su La teologia dell’abito116. Nellaricostruzione dell’itinerario teologico petersoniano questi due contribu-ti dei primi anni Trenta hanno svolto sinora il ruolo di un blocco erra-

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114 Manca tuttora uno studio sistematico sulla posizione storico-concettuale attribuibileall’antropologia teologica di Erik Peterson all’interno dell’antropologia filosofica tedesca e fran-cese della prima metà del Novecento, non ultimo in ragione dell’enorme mole di materiale archi-vistico che dovrebbe essere presa in considerazione. Preziosi ed insostituibili restano i contributiforniti da Barbara Nichtweiß sul piano biografico, storico-concettuale e fenomenologico. Cfr. inparticolare B. Nichtweiß, E. Peterson, cit., pp. 343-363, 721-726; determinante è la ricostruzionedel rapporto con l’antropologia simbolica di Gerardus van der Leeuw, ivi, pp. 373-381.

115 Cfr. E. Peterson, Was ist der Mensch, in «Schweizer Annalen» 1936 (187-194), ripreso inId., Theologische Traktate, cit., pp. 131-141. Sulla genesi di tale articolo in rapporto al commen-to petersoniano del Vangelo di Luca ed in particolare alla tematica del mondo del demonico sivedano le preziose indicazioni di Barbara Nichtweiß nel suo E. Peterson, cit., pp. 376-381.

116 E. Peterson, Theologie des Kleides, loc. cit. (poi in Marginalien, cit., pp. 10-20).

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tico. Barbara Nichtweiß ha però giustamente posto in evidenza un datocui la ricerca ha sinora dedicato poca attenzione: la pubblicazione degliinediti sta provando che il nodo antropologico va colto come un leit-motiv teologico di tale itinerario, non semplicemente come sua tradu-zione esistentiva. In riferimento a Che cos’è l’uomo? viene rilevato co-me troppo a lungo «l’elaborazione sistematica dell’opera ha sinoraignorato questo trattato»117.

(b) Questo progetto d’antropologia teologica è strettamente con-nesso all’attenzione che Peterson ha prestato agli interrogativi postidalla teologia politica ed, in particolare, alle ragioni metafisiche ine-renti all’affermarsi dei totalitarismi. Teologia della storia, metafisicadel potere ed antropologia sono per lui tre aspetti d’un unico proble-ma. Nella citata lettera ad Alois Dempf del 1957 scrive:

«L’anticristianesimo si basa oggi non su ciò che l’uomo pensa, ma su ciò cheegli fa nella realtà, nella tecnica – sia in Oriente che in Occidente. Credo chel’Anticristo – come peraltro Cristo stesso – non si manifesterà né in Oriente,né in Occidente, ma che lo farà in mezzo a noi. La sorpresa sarà dovuta appun-to a questo suo essere tra di noi»118.

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117 Cfr. B. Nichtweiß, Nachwort, in E. Peterson, Lukasevangelium, cit., pp. 442-445, quip. 444.

118 Cfr. E. Peterson, Die Wunder des Antichristen, in Id., Offenbarung, cit., p. 266.

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WOLFGANG SCHULLER

IL SALVATORE DALLA CONFUSIONE?*

Note sul Katéchon in Carl Schmitt

Leggendo gli scritti di Carl Schmitt, già da parecchio tempo miaveva colpito la circostanza che in essi compaiano in quantità conside-revole il termine «confusione» (Verwirrung) e i suoi derivati, nonchéconcetti analoghi. Ho radunato i vari passi per chiedermi se dall’utiliz-zo di tali termini si possa dedurre qualche cosa di caratteristico per ilpensiero di Carl Schmitt. Egli utilizza tali concetti in un arco temporalecompreso tra il 1910 e il 1965, in maniera certo non costante, ma talecomunque da rendere sensato il tentativo di una collazione. Nel far ciò,mi è stato costantemente ben presente un rischio, e potrebbe anche esse-re che io stesso non sempre vi sia sfuggito, vale a dire la tentazione diforzare la mano ai vari passi e di ricavare da essi più del dovuto. Se ciòsia avvenuto dovranno essere eventuali ulteriori ricerche a stabilirlo.

Un primo risultato può, e persino deve, essere comunicato all’ini-zio, ossia il fatto di non aver potuto attestare uno sviluppo cronologico.Pertanto, nel seguito è solo per ragioni pratiche che seguirò un ordinecronologico, ma ciò non ha ragioni di contenuto. Qualora dovesse poimostrarsi, il che è pur sempre possibile, che vi è comunque una certaqual cronologia, sarebbe ancora agevolmente possibile modificare ilrisultato o forse anche soltanto integrarlo. Secondo, e anche questo puòessere anticipato subito, si parla di «confusione» – sarà questo da quiin avanti il concetto principale; al pari dei concetti paralleli, sarà sem-pre riportato, nelle citazioni testuali, in corsivo – mai in relazione a datidi fatto, ma sempre e solo in relazione a concetti. Il terzo risultato siaanch’esso, allo stesso modo, immediatamente menzionato: con la mas-sima frequenza i termini «confusione» e «commistione» (Vermengung)

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* Il presente contributo trae spunto da una relazione che ho tenuto e discusso nel Seminariodi studi Alte und neue Lesarten Carl Schmitts («Modelli di lettura di Carl Schmitt vecchi e nuovi»)coordinato da Ruth Groh e Dieter Groh il 12 e 13 febbraio 2005. Ringrazio tutti i partecipanti alSeminario e in modo particolare Ruth e Dieter Groh.

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– sul rapporto che intercorre tra i due concetti mi intratterrò più oltre –compaiono nell’accezione secondo cui risultano erroneamente accop-piati più concetti (generalmente solo due) che appartengono a pianiconcettuali o categorie ecc. diverse.

Quarto, si è evinto, e questa è la cosa più importante per la nostraattuale finalità, che «confusione» non ha in generale solo un’accezionenegativa, ma che ciò che di negativo vi è in «confusione» ricorre già nelmetafisico, anzi nel teologico. Ora, poiché tempo addietro mi sonooccupato del concetto del Katéchon, a cui Schmitt attribuiva una fun-zione positiva e, se possibile, persino salvifica, risulta ovvio il tentati-vo di chiedersi se ci fosse, nel pensiero di Schmitt, una relazione tra idue concetti.

II.

1. Innanzitutto, il termine «confusione» compare esclusivamente inuna accezione psicologico-colloquiale, sicché una indagine più circo-stanziata potrebbe forse approfondire questo esito, specialmente chie-dendosi da dove questa confusione risulti – io non l’ho fatto perché èparticolarmente grande il rischio di coartare i passi e di presumere trop-po da essi. Esempi: già nel Dottorato del 1910 su Schuld und Schuld-arten («Colpa e tipi di colpa») si dice, a p. 1, che si è mirato alla «uni-tarietà e alla precisione nella terminologia» dato che «in nessun altroluogo l’incertezza terminologica sarebbe più foriera di confusione (ver-wirrender) e di conseguenze pericolose che in questo caso» – e in que-sto modo abbiamo di fronte a noi un leitmotiv dei successivi cinquan-tacinque anni. Inoltre: «L’eccezione confonde l’unità e l’ordine delloschema razionalistico» (1922, 20); «Confusione [...] rispetto al concet-to di forma» (1922, 34); «una varietà che genera confusione (verwir-rende)» (1925, 22). Nella Verfassungslehre («Dottrina dellaCostituzione») del 1928 si dice: se la peculiarità del compromesso for-male dilatorio non è consapevole, ne sortisce una «confusione irrime-diabile» (1928 c, 34); domina una certa «confusione nel circoscrivere ilruolo dei partiti nei conflitti costituzionali» (116); «confusione che sipalesa nell’uso del termine “rappresentanza”» (211); «si confonde ilconcetto di ratifica poiché viene misconosciuto il concetto di rappre-

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sentanza» (269); «la questione della responsabilità del Cancellieredavanti al Reichstag risultò inoltre confusa» per il fatto che i regola-menti e la prassi erano estremamente complicati (333); «può solo gene-rare confusione» quando, nel caso di una questione specifica, si diacorso a distinzioni troppo complicate (372) – e a dirlo è Carl Schmittche aveva una autentica passione per la distinzione! A ulteriori esempiche potrebbero qui essere addotti si deve ora rinunciare.

2. Causa di «confusione» sono – naturalmente – concetti non chia-ri. Poiché «viene misconosciuto il concetto di rappresentanza» «si con-fonde» il concetto di ratifica (1928 c, 269); «errate positivizzazioni osovratensioni hanno già prodotto una certa confusione e incertezza»(1929 b, 37); finché domina una determinata «idea», tutte le «spiega-zioni e discussioni [...] sono destinate a cadere in confusione» (1930 a,140); una «via di mezzo apparente» sortisce come esito che la «situa-zione del diritto costituzionale [...] [sia] molto confusa» (1931 a, 256);lo «snaturamento del concetto di legge» genera «confusione» (1932 b,77); il concetto troppo vasto di «Stato» e quindi il suo «abuso» ha comeconseguenza «una confusione generalizzata» (1932 c, 113/14); pari-menti, persino alla lettera, in 1950, 184. In un caso specifico vi è unacausa specifica che, probabilmente, vale anche per altri casi, benché ionon la abbia notata altrove. Nella interpretazione della Costituzione delReich tedesco dell’11 agosto 1919 («Costituzione di Weimar») moltecose, si dice, arrecano «confusione» perché manca una sistematica suf-ficiente. Così, sia nella Costituzione di Weimar, sia in numerose costi-tuzioni regionali, varia la questione di quali oggetti debbano essereesclusi dai differenti tipi di intervento diretto del popolo – consultazio-ni popolari, referendum et al. – e un «regolamento poco sistematico eoccasionale» «confonde» (1927 c, 39). È «impreciso e confusionario[...] parlare “della” Costituzione. In verità si intende con tale termineuna pluralità o molteplicità asistematica di definizioni di leggi costitu-zionali» (1928 c, 11). Soprattutto però è la Seconda Parte della Co-stituzione di Weimar, dedicata ai «Diritti e Doveri fondamentali deitedeschi» a generare «confusione» per la sua carente sistematicità(suscitando lo sdegno di Carl Schmitt). Il fatto che esista questa parte èpositivo nel senso dello «Stato civile di diritto» anche se ciò viene«oscurato» dal fatto che «singole definizioni di diversa natura [...] sonoaffiancate immediatamente e asistematicamente nonché interposte ai

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diritti fondamentali veri e propri» (1928 c, 128); questa Seconda Parterappresenta una «molteplicità confusionaria» (1931 c, 143).

3. Che la «confusione» di concetti debba avere ovviamente pessi-me conseguenze va da sé ed era stato già chiarito da Carl Schmitt a p.1 della sua prima pubblicazione (1910, 1). Soprattutto la «confusione»porta al fatto che i concetti che ne risultano sono errati e diventano inu-tilizzabili. «Al cospetto della [...] confusione che rischia di rendere inu-tilizzabile un concetto irrinunciabile» (1931 b, 111); quasi alla letterain 1931 d, 158 e 1932 c, 97. Una conseguenza negativa specifica è rap-presentata poi dal fatto che la «confusione» «copre» quello che in real-tà è un insieme semplice di situazioni: la sovrapposizione romantica tra«più realtà» «genera confusione e copre la struttura semplice della loroessenza» (1925, 131); «nel Romanticismo la sequenza semplice si con-fonde [...] per effetto del rimescolamento» ecc. (169); «si confonde ilchiaro stato delle cose» (178); una «nozione semplice» viene «confu-sa» (1927 a, 8); in una lettera a Hermann Heller Schmitt vuole, alcospetto di una «confusione», «restituire la semplice verità» (1928 a,119); nel conflitto costituzionale del 1862, mediante «molte sottigliez-ze di diritto statuale», «si è fatta confusione» in una – presuntivamente– «semplice situazione giuridica» (1928 c, 56) – e, quantomeno in viapresunta, si genera «confusione [...], quando si rinunci al punto di vistasemplice e chiaro secondo cui il diritto dell’attuale Stato nazionalsocia-lista [...] si poggia su una propria base» (1933 b, 7).

4. La «confusione», e questo è piuttosto un punto di vista ausilia-rio, può essere prodotta intenzionalmente in vista del conseguimento discopi oscuri. Caratteristiche piuttosto positive di un’idea di una LegaInternazionale vengono «scambiate sotto traccia [...] con l’essenzadella concreta Lega di Ginevra» (1926 a, 5 nota 1) (questo tema vieneulteriormente esplicitato in 1928 b, passim senza utilizzo del termine«confusione»); Machiavelli non pensa di «ricavare vantaggi politici dauna confusione» che egli stesso aveva ingenerato (1927 d, 104); «laconfusione peggiore nasce quando vengono utilizzati politicamenteconcetti [...], volti a impedire un chiaro pensiero politico» (1932 c, 65);«Stahl-Jolson», muovendo da «posizioni di ufficio elevate» può «con-fondere ideologicamente e paralizzare spiritualmente [...] il nucleo piùintimo dell’essenza di questo Stato [scil. la Prussia]» (1938, 108).

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5. «Confusione» e caratterizzazioni analoghe compaiono però chia-ramente, con la massima frequenza, nel pensiero di Carl Schmitt quan-do egli identifica e analizza casi in cui vengono dipanati concetti cheappartengono a livelli concettuali o stati aggregativi diversi; si pensaqui, naturalmente, alla complexio oppositorum, benché essa giochi cer-tamente un ruolo diverso. A tal riguardo si possono persino distingueredue forme diverse di questo stato di fatto: in un caso questi concettivengono posti l’uno accanto all’altro, nell’altro vengono per così direcompenetrati; generalmente il verbo verwirren («confondere») si rife-risce a questo secondo caso, i verbi verwechseln («scambiare»), vertau-schen («invertire») e vermengen («mescolare», «frammischiare») alprimo caso. Nel seguito, tuttavia, non farò distinzione tra i due casi e leloro denominazioni; qui molti aspetti travalicano l’uno nell’altro, cosìche il rischio di «spaccare il capello in quattro» è particolarmente gran-de, tanto più che lo stesso Carl Schmitt utilizza questi concetti occasio-nalmente promiscue. Va tuttavia sottolineato che nella maggior partedei casi si tratta di due elementi, raramente di più, che vengono inmaniera inammissibile scambiati o fusi assieme. Già nel 1911 è stato lostesso Carl Schmitt ad aver contraddistinto questo stato di cose con unaformulazione che doveva serbare validità per tutti i decenni successivi:egli parla di un «accumulo confusionario di argomenti eterogenei»(1911, 467) e in due ulteriori capoversi spiega ciò che qui ne va: «l’usolinguistico [...] frammischia qui tra loro elementi normativi e descritti-vi» (1911, 468). Un anno dopo avanza l’istanza che non è lecito «scam-biare» «fondazione del giudizio» con la «spiegazione del giudicare»(1912, 18), parla di «scambio» tra «norma vigente e norma efficace»(39 nota 2), di «condensazione di tre cose metodicamente e contenuti-sticamente profondamente diverse, ma designate con il medesimo ter-mine» (43), così come, infine, della identificazione erronea di due pro-blemi «da cui sorgono confusione ed equivoci» (118). Due anni piùtardi egli parla di uno «sforzo per frammischiare entro (hineinmengen)[...] fatti empirici in una cerchia determinata da norme» (1914, 35);sotto questo aspetto «una certa letteratura» sarebbe «più stimolante» se,con l’idea di uno Stato ideale, non «gettasse scompiglio (durcheinan-der würfe) nel concetto empirico e perciò vago di Stato» (45); non sidovrebbe mai «scambiare» (verwechseln) il concreto soggetto singolo

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con il «soggetto astratto del pensiero giuridico» (69); c’è una «commi-stione» tra diritto ed eticità (69); uno «scambio» (Verwechslung) delle«relazioni metodiche» tra giustezza del giudizio e possibilità della suaimplementazione (71); uno «scambio» tra «individuo empirico» e«imputazione di norme giuridiche» (103) così come tra «norma e fatti-vità» (104). Nel saggio del 1916 su Nordlicht (Aurora boreale) di Theo-dor Däubler, sul quale si tornerà anche nel seguito, Schmitt parla dello«scambio» tra mero meccanismo e sostanza contenutistica (1916 a, 59-72), una dicotomia che già di per sé rappresenta una costante del suopensiero; parla della «inversione e falsificazione dei valori» e delloscambio dell’opposizione «bene e male» con quello di «utilità e danno»– questo «scambio fu orrendo» (61) e parimenti è uno «scambio»dedurre l’«importanza» della questione dalla «violenza» di una «emo-zione» (66). In quello stesso anno, in un altro luogo, si dice, subitoall’inizio, che la legislazione sui «casi d’eccezione» «commistionapunti di vista di diversa natura» (1916 b, 3), che c’è uno «scambio» tradittatura e diritto di guerra (4), così come tra diritto statuale e dirittointernazionale (7 s.). Insorge «confusione» ad opera della «equiparazio-ne tra sistema rappresentativo e parlamentarismo» (1923, 44) e si è«scambiata» la «somma dei [...] cittadini» per la «persona collettivapopolo o nazione» (45). C’è uno «scambio tra le competenze straordi-narie del Presidente del Reich» come istituto del Reich stesso in baseall’art. 48 comma 2 della Costituzione e un «diritto statuale di emer-genza» (1924, 83 s.). La “confusione” che è connessa al concetto diRomanticismo è considerevole (1925, 3, similmente 8) e rappresentauno «scambio» operato da Metternich allorché questi, con Gentz, equi-parò il Romanticismo alle «tendenze liberali e umanitarie» (33); pari-menti, rappresenta una «grande confusione» «nominare uno accantoall’altro l’individualismo più estremo e l’ottusità vegetativa» (35), cosìcome genera confusione chiamare «romantici» sia i «rivoluzionari» sia«gli oppositori della rivoluzione» (43). È stata una confusione «scam-biare» la dipendenza da Dio per «dipendenza da comunità nazionale»(118) e poiché occasio e causa sono concetti opposti, Malebranche«confonde» «l’intero suo sistema», quando contempla «causes occa-sionelles» (123). Una variante tipicamente romantica di «confuso” è«cancellato» (verwischt): i pensieri dei romantici sono «cancellati»

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(127) e c’è una «cancellazione romantica di tutte le categorie» (174).Giova alla lotta politica se si «scambia» l’«essenza ideale della LegaInternazionale» con quella della «concreta Lega di Ginevra» (1926 a,5nota 1) ed è una cattiva «confusione» quando si utilizza «senza distin-zioni il termine “garanzia”» per oggetto, contenuto e mezzo (24). Nonfare alcuna distinzione tra «potere della legge» e «potere del legislato-re» è uno «scambio». «L’antitesi tra diritto e politica si equipara facil-mente con l’antitesi tra diritto civile e diritto pubblico» (1927 a, 1 nota1); l’«antitesi tra amico e nemico» non può essere «scambiata o equi-parata con nessuna altra antitesi» (4), non può essere «frammista» adaltre (5) e insorgono «ottenebramenti» per opera della «commistionecon astrazioni o norme di qualche genere» (18). «Genera confusione»quando il concetto di guerra viene messo assieme ad altre categorie (8)e i concetti politici o quelli del diritto non possono essere «equiparati»con altri, perché altrimenti insorge «confusione» (25). Malvagia è la«confusione» tra «parlamentarismo e democrazia diretta» (1927 b, 87,similmente l’equiparazione in 1929 a, 110), viceversa di Machiavelli sidice che «egli non pensa di confondere spiegazioni politiche con istan-ze ideali» (1927 c, 104). L’«antitesi tra essere e dovere viene di conti-nuo equiparata all’antitesi tra essere sostanziale e funzionamento con-forme a legge» (1928 c,8) ed è una «confusione foriera di contraddizio-ni» quando si dice, da un lato, che una costituzione non è valida in forzadella sua «correttezza normativa, ma solo in forza della sua positività»e, dall’altro lato però vengono dedotte delle norme da questa normati-vità (9). Rappresenta una «confusione», quando «costituzione (comeunità) e la legge costituzionale (come singolarità) vengono tacitamentemesse sullo stesso piano e scambiate» (12, similmente 16, 21, 64, 77,89, 112) e si «scambia» il «potere esistenziale e costituente del popolotedesco» con la mera competenza alla modifica costituzionale stabilitadall’art. 76 della Costituzione del Reich (20, similmente 27); parimen-ti, l’equiparazione del «contratto sociale» con la costituzione di dirittopositivo è uno «scambio» (22, similmente 61). «Commistionando unconcetto ideale di costituzione con altri concetti di costituzione» sigenera confusione (37); e in linea generale è una «superficialità checonfonde» accostare semplicemente le une accanto alle altre cosediverse (43). Il conflitto costituzionale del 1862 consisteva nel fatto che

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il principio democratico e monarchico non sono «componibili l’unocon l’altro» (54) e in Germania il «concetto formale di legge» «confon-de» la distinzione tra legge e criterio (60) e questa «confusione» o«commistione» risiedeva nel fatto che accanto a un concetto di leggegiuridico e di diritto statuale vi è anche un concetto di legge politico,ovvero la «volontà del popolo» (146 o 147). Infine: «le garanzie istitu-zionali» vengono «equiparate e confuse» (179) con i diritti fondamen-tali; c’è una autentica camera degli orrori di concetti che vengono«usati alla rinfusa» e che producono una «commistione» (214); una let-tera di Gentz viene riferita in modo tale che subentrerebbe «confusio-ne» (376) con la giustapposizione di «sistemi di diritto di ceto» e«sistemi rappresentativi». La mancata distinzione tra liberalismo edemocrazia è una «commistione» (1929 a, 110) o uno «scambio» (1931b, 63 nota 1); la neutralità non può essere “scambiata” con la parità(1930 b, 50) e mediante generalizzazioni errate vengono «equiparatitra loro vari scopi, diversi e opposti» (54); la «chiara nozione di princi-pi di teoria dello Stato e della costituzione» in Hugo Preuss viene «nuo-vamente confusa mediante il fatto che egli si professa con molta forzaa favore della teoria organica dello Stato e della società di Gierke»(1930 c, 292/9); vengono addirittura «scambiati» ovvero «accumulatialla rinfusa» quattro tipi di sovra- e sub-ordinazione di norme giuridi-che e in taluni concetti generali, ben pensati, della vita politica vengo-no «equiparati gli uni con gli altri concetti opposti» (108). Poiché lefrazioni del Landtag (il parlamento regionale), insieme con i Länder,possono farsi avanti in prima persona come querelanti, ciò testimoniadi una grande «confusione» (1932 a, 180) e la stessa cosa si verifica nelmomento in cui l’autonomia di un Land viene appiattita sulla sua com-petenza di supplenza (183); la inveterata distinzione delle forme diStato in monarchia ecc. è obsoleta e oggi «confonde» soltanto (1932 b,10), e allo stesso modo produce solo «confusione» quando la parte 2della Costituzione assicura diritti fondamentali che possono però esse-re cambiati dal meccanismo della modifica legale della Costituzione(44). Nel presente «si mescolano due aspetti», ossia un’idea di Stato nelcontempo debole e forte (1932 d, 59) e lo Stato debole ha «provocatouna confusione tra Stato ed economia» e «altre sfere non statali» (1932e, 77); conseguentemente, l’identificazione tra pubblico e Stato è alla

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stessa maniera una «confusione concettuale» (80). Per la «sostituzione[...] di un’alta carica» vengono presi in considerazione tre «punti divista» – in verità, sono stati formulati solo in maniera «confusa» e «sicompensano [...] a vicenda» (1933 a, 354); è stata una «confusione»che nella Costituzione di Weimar siano stati contestualmente «ricono-sciuti» sindacati pur essendo «associazioni di mero diritto privato»(1933 b, 26); e ha causato una grande «confusione» che Hobbes abbiautilizzato tre idee di Dio «diverse e non compatibili tra loro» (1936/37,141). Il termine Nómos è pertanto un concetto più praticabile, poichéprotegge dalla «confusione» che origina dallo «scambio» di concetti didiritto internazionale con concetti di diritto civile (1950, 38, similmen-te 63); tuttavia, la traduzione di «nómos» con «legge» «confonde» (42);la «confusione» (Konfusion, qui sinonimo di Verwirrung) domina incaso di una non sufficiente distinzione tra concetti teologici e giuridici,così come tra concetti formali e contenutistici, tra guerra e neutralità,tra Stato indipendente e colonia (106, 131, 137, 140, 146, 191, 195); laapparentemente sana separazione tra politica ed economia è stata «con-fusa dal primato, che sussiste nella realtà, di motivi economici» (229),ovvero, il fatto che politica ed economia si tirino vicendevolmente cia-scuno dalla propria parte «ha confuso» il «problema di diritto interna-zionale della pianificazione dello spazio» (232). Il «problema dellaterza forza» non può essere «scambiato» con quello della neutralità odel neutralismo (1952, 500); insorge «confusione» se si accoglie undiritto materiale di ranghi diversi (1958, 137) e parimenti si ricava«confusione» quando si personifichi il Nómos astratto (1959, 575); infi-ne, insorge, nuovamente, «confusione» in caso di «interpretazioni delLeviatano che si smentiscono l’un l’altra» (1965, 169). In conclusione,un’affermazione un po’ sorprendente, che esula dalla sequenza crono-logica scelta unicamente per ragioni pratiche e che sottolinea la confu-sione che si ingenera nel concetto stesso mediante concetti diversi traloro inconciliabili: «nello stesso concetto di nemico deve trovarsi unaconfusione» (1963, 88).

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III

Dopo questo elenco un po’ faticoso (anche per l’autore), e che tut-tavia era necessario ai fini della documentazione e forse anche dellavisione complessiva, una conclusione del tutto provvisoria. Innan-zitutto è risultato evidente che il concetto di «confusione» e altri con-cetti analoghi assumono nel pensiero di Carl Schmitt una posizioneinsolitamente significativa; ciò è davvero caratteristico per lui e non è,per così dire, una peculiarità dei giuristi, dato che ciò non si verifica innessun altro dei giuristi che mi siano un poco presenti. Un’ulteriorefigura concettuale che appare con notevole frequenza è quanto al restoquella secondo cui un determinato problema o un determinato stato dicose «presuppone» qualcosa; e qui sarebbe interessante una ricerca cheandasse a verificare se ciò è sempre vero o non sia solo una affermazio-ne avanzata in tono perentorio la cui inesattezza potrebbe avere conse-guenze considerevoli.

In primo luogo però la comparsa ricorrente del termine Verwirrung(confusione) è caratteristica in quanto la confusione reclama un movi-mento opposto, che la dipani, ossia una Entwirrung: «il fatto che [...]compaia una commistione [...] rende tanto più necessario un dipana-mento» (1928 d, 214); di conseguenza Schmitt considera come uno deisuoi compiti principali questo dipanamento, ovvero il semplice «mette-re ordine» (1932 c, 9), termine a cui in effetti egli ricorre più di prefe-renza. Indizio di ciò sono per un verso i passaggi sopra citati in cuiSchmitt postula la semplicità di plessi problematici che sono stati vela-ti dalla confusione o nei quali la confusione rinvia a un sistema caren-te; quest’ultimo, certo, inteso non come uno schema rigido, ma comeuna concettualità chiaramente ordinata.

Per altro verso, è sintomatica la diagnosi che sta alle spalle di tuttoquesto, ossia che la confusione si basi per lo più sulla «cumulazione»di «elementi eterogenei», laddove di rado si sottintende con ciò nontanti elementi che tra loro non si integrano, ma solo due. E la cosa piùimportante è il fatto che tali elementi siano appunto eterogenei, cioènon dello stesso rango. Ora anche questi ultimi elementi potrebberoessere utilizzati in modo confusionario, ma Schmitt non prende in con-siderazione tale circostanza. Ne va per lui sempre e solo di categorietotalmente distinte l’una dall’altra.

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Si potrebbe definire tutto ciò un indicatore dell’immagine antinomi-ca del mondo di Schmitt, sennonché la cosa è più complicata: tesi e anti-tesi si muovono infatti sullo stesso piano, l’eterogeneo no. Pertanto nonlo definirei un procedimento dialettico, non foss’altro per il fatto che, seciò fosse il caso, questi due elementi tra loro contraddittori produrreb-bero insieme qualche cosa di nuovo e questo non si verifica; anzi, nelcaso dell’eterogeneo è del tutto escluso. Perciò Schmitt vorrebbe, alcontrario, nuovamente scindere questi elementi e, guardando agli ogget-ti in cui si mostra l’eterogeneità degli elementi considerati, la cosa ineffetti non risulta altrimenti possibile se non così. Il loro accoppiamen-to è appunto sbagliato o inadeguato, è semplicemente una confusioneche deve essere eliminata. L’unico caso diverso è forse quello citato altermine del punto II, in cui Schmitt non si sofferma sul subentrare dellaconfusione tra più concetti che vengono utilizzati in maniera inopportu-na, ma ammette la confusione all’interno di uno stesso concetto. Il fattoperò che Schmitt faccia confliggere tra loro, in tante circostanze, concet-ti, argomenti e categorie sarebbe forse un indice del carattere conflittua-le e forse anche aggressivo del suo pensiero soggettivo.

In questo modo mi sono forse spinto troppo in là sul ghiaccio sot-tilissimo della speculazione; ora però, poiché mi ci trovo sopra e per ilmomento, credo, ancora non si è rotto, vorrei osare un paio di passetti-ni ulteriori. Qual è il motivo per cui Schmitt vede ovunque confusione?E qual è il motivo per cui vede un suo compito nel dipanamento? Vorreievitare una psicologizzazione troppo da profano ed esprimere inveceuna congettura che non rappresenti una forma di psicologia individua-le. Non si potrebbe forse dire che Carl Schmitt vede nella confusioneuna manifestazione del male? Peraltro, nella teologia cristiana, il dia-volo è il grande mentitore, l’ingannatore, colui che appunta genera con-fusione. In Carl Schmitt vi è su ciò purtroppo solo un accenno imme-diato, nello scritto del 1916 su Nordlicht (Aurora boreale). Qui (61, 63)egli fa comunque coincidere l’inganno, la falsificazione, lo scambio ela confusione con l’Anticristo. Che equiparazioni e confusioni sianosintomi della lacerazione del suo tempo e quindi del suo decadimentodi valori compare non di rado esplicitamente o implicitamente.

Si potrà però procedere oltre. Sembra come se «confusione» (Ver-wirrung) abbia in Carl Schmitt qualche cosa a che fare con il male. La

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Verwirrung infatti, e, con una sola eccezione, ora non più gli altri con-cetti simili, è l’unica a essere utilizzata, di quando in quando, con epite-ti negativi. Lo «scambio» (Verwechslung) è detto solo una volta «orren-do» (1916, 61), mentre la «confusione» è «indicibile» (1916. 63), «mo-struosa» (1924, 98), «grande» (1925, 8 e 35), «atroce» (1925, 44), «di-sperata» (1928 c, 34), «impenetrabile» (1938, 255), «babilonica» (1950,444). Per lo più però essa è «cattiva» o «pessima» (1926 a, 24; 1927 a,25; 1932 c, 65; 1950, 41; 1952, 505). Ciò fa pensare a un concetto, quel-lo di «irredimibilità del mondo» che tuttavia proprio nel suo carattere diirredenzione si distingue dalla confusione che è, in linea di principio,dipanabile. Ciò che è male nella confusione è probabilmente da vederecorrelato, in modo più immediato, con «il» male della teologia cristia-na, dato che qui il diavolo è il grande mentitore, ingannatore e perturba-tore. Ciò andrebbe dimostrato nel dettaglio e sarebbe inoltre importantesapere se Schmitt fosse o no consapevole di questa connessione.

Ora, questa dimostrazione non può qui essere compiuta; tuttavia èforse di qualche interesse che un contemporaneo di Schmitt si esprimaanalogamente rispetto a un’epoca che anche per Schmitt ha giocato unruolo particolare. Dopo la presa del potere da parte dei nazionalsocia-listi, Rudolf Diels divenne il primo capo della Gestapo, in quanto taleistituzione era la trasposizione in forma autonoma di una sezione giàpreesistente del Ministero degli Interni prussiano che Diels aveva gui-dato. Stando a quanto Diels stesso riferisce, questa Gestapo («Gehei-mes Staatspolizeiamt», Ufficio della polizia segreta di Stato) si era im-pegnato anche a osteggiare gli eccessi terroristici delle SA naziste, maaveva perso questa funzione per il fatto che dopo il cosiddetto putsch diRöhm del 30 giugno 1934 era stato posto alle dipendenze delle SS diHimmler e Heydrich. Stando ancora una volta a quanto Diels riferisce,egli scampò alla condanna a morte e ricoprì nel seguito posizioni pocovisibili nell’amministrazione. Nelle sue memorie, pubblicate subitodopo la Seconda Guerra Mondiale, egli parla ora, con riguardo a taleperiodo, delle «mezze verità, delle esagerazioni e dei profili bassi delperturbatore e incantatore satanico» ossia del ministro per la propagan-da Goebbels (Diels 1949, 85).

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IV

Qui avremmo dunque una connessione, contemporanea a Schmitt,del diabolico con il suo ruolo di incarnazione della confusione. Ora,benché Schmitt conoscesse Diels (annotazioni diaristiche del16.11.1932 e del 15.9.1933), ciò naturalmente non dimostra alcunchéin ordine alla questione se Schmitt stesso abbia visto il confonderecome una caratteristica specificamente satanica. Si tratta in ogni casodi una coincidenza degna di nota, che metterebbe conto approfondire.Vi è comunque una esternazione diretta di Schmitt che istituisce, conintento critico verso il presente, un collegamento tra la confusione euna forma specifica del male. Si legge nel saggio su Aurora boreale diTheodor Däubler:

«Il diritto era diventato forza, la fiducia calcolabilità, la verità correttezza uni-versalmente riconosciuta, la bellezza buon gusto, il cristianesimo un’organiz-zazione pacifista. Un inganno e una falsificazione generali dominavano leanime. Al posto della distinzione tra bene e male è subentrata quella, differen-ziata in modo sublime, tra utilità e danno. Lo scambio fu orrendo. Per coluiche ne conosce la potenza fatale, la terra sembra diventata una macchina scric-chiolante. Un’immagine, che è sorta in altri tempi dalla potenza ineludibile delmale, fa la sua comparsa come una profezia che si è ormai adempiuta: quelladell’Anticristo... La confusione diventa indicibile: la scimmia dimostra chediscende dall’uomo...» (1916 a, 61.63).

Ora, se ne andasse qui di ricavare da tutto ciò deduzioni logiche,una semplice conclusione apparirebbe ovvia. Poiché l’Anticristo vienefermato dal Katéchon e poiché l’Anticristo è quella forza che sta(anche) dietro la confusione, si potrebbe concludere che il Katéchon, almaschile o al neutro, possiede la forza di dipanare la confusione, di eli-minare le mescolanze inopportune e via di seguito. A ciò si oppongonotuttavia parecchi punti di vista. In primo luogo, Carl Schmitt non dice,di per sé, nulla del genere. Ciò non dovrebbe rappresentare un impedi-mento insormontabile, considerato che egli amava avvolgersi nel miste-ro e che egli argomentava su un doppio terreno, lasciando ai lettori l’o-nere di scoprire, se del caso, il sostrato del testo che poi potesse rappre-sentare ciò che con esso voleva propriamente essere detto. Di maggiorpeso è però il dato cronologico. L’affermazione che designa l’An-

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ticristo come il grande perturbatore è del 1916, mentre il Katéchonappare non prima del 1932, ma è attestabile addirittura a partire solo dal1942 (Schuller 1996, 392. 404). Già solo questo particolare rendeimprobabile una connessione concettuale in riferimento al concetto diVerwirrung. Infine, è il significato oggettivo a parlare contro l’idea diun Katéchon. Non solo letteralmente esso significa «procrastinare», maanche dallo stesso Schmitt viene usato esclusivamente in questa acce-zione. Se si osservano le singole occasioni in cui egli parla del Katé-chon, il discorso verte sempre sul trattenere (aufhalten) (Schuller 1996,spec. 392-398).

Ora, questi contro-argomenti sono troppo superficiali? Resta il fattoche Carl Schmitt abbia considerato tutta la sua opera di pensiero all’in-terno di ciò che genera confusione – e in misura minore anche all’in-terno del mescolare e di altri concetti analoghi – come uno stato di coseche egli sospingeva nelle vicinanze del male. Nel suo universo rappre-sentativo il Katéchon aveva la funzione di opporsi in maniera specificaa una varietà di male. Un nesso immediato tra i due non è certamenteistituibile. Forse però a una ricerca più approfondita riuscirà, se possi-bile basandosi su un materiale più ampio, di porre i due contesti in unaconnessione maggiore e in questo modo dimostrarli, all’interno delpensiero di Carl Schmitt, come correlati fenomenici.

(tr. dal tedesco di Francesco Ghia)

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Berlin 1988, 2a ed., pp. 133-145 (tr. it. di A. Rosselli, Etica dello Stato eStato pluralista, in Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottri-na e teoria dello Stato, cit., pp. 120-140)

1930 b – Das Problem der innerpolitischen Neutralität des Staates, inVerfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1983, 3a ed., pp. 41-59 (tr. it. di A.Caracciolo, Il problema della neutralità politica interna nello Stato plura-listico dei partiti, in Il Custode della Costituzione, Giuffré, Milano 1981,pp. 154-162)

1930 c – Hugo Preuß in der deutschen Staatslehre, «Die Neue Rundschau» 41,pp. 289-303 – anche in edizione separata con il titolo: Hugo Preuß, Tü-bingen (tr. it. di M. Alessio, Hugo Preuss. Il suo concetto di Stato e la suaposizione nella dottrina tedesca dello Stato, in Democrazia e liberalismo,Giuffré, Milano 2001, pp. 87-123)

1931 a – Die staatsrechtliche Bedeutung der Notverordnung, insbesondereihre Rechtsgültigkeit, in Verfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1983, 3a

ed., pp. 235-2621931 b – Der Hüter der Verfassung, Berlin 1985, 3a ed. (tr. it. di A. Caracciolo,

Il Custode della Costituzione, cit.)1931 c – Freiheitsrechte und institutionelle Garantien der Reichsverfassung,

in Verfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1983, 3a ed., pp. 140-1731931 d – Übersicht über die verschiedenen Bedeutungen und Funktionen der

innerpolitischen Neutralität des Staates, in Positionen und Begriffe, Berlin1988, 2a ed., pp. 158-161

230 Wolfgang Schuller

11 Schuller 20-11-2009 16:03 Pagina 230

1932 a – Schlußrede vor dem Staatsgerichtshof in Leipzig in dem ProzeßPreußen contra Reich, in Positionen und Begriffe, Berlin 1988, 2a ed., pp.180-184

1932 b – Legalität und Legitimität, Berlin 1993, 5a ed. (tr. it. parziale di P.Schiera, Legalità e legittimità in Le categorie del «politico», cit., pp. 209-244)

1932 c – Der Begriff des Politischen, Berlin 1987, rist. della 2a ed. (tr. it. di P.Schiera, Il concetto di «politico». Testo del 1932 con una premessa e trecorollari, in Le categorie del «politico», cit., pp. 87-208)

1932 d – Konstruktive Verfassungsprobleme, in Staat, Großraum, Nomos,Berlin 1995, pp. 55-70

1932 e – Starker Staat und gesunde Wirtschaft, in Staat, Großraum, Nomos,Berlin 1995, pp. 71-91

1933 a – Die Stellvertretung des Reichspräsidenten, in VerfassungsrechtlicheAufsätze, Berlin 1983, 3a ed., pp. 351-358

1933 b – Staat, Bewegung, Volk, Hamburg (tr. it. di D. Cantimori, Stato movi-mento popolo. Le tre membra dell’unità politica, in Principii politici delnazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935, pp. 173-231)

1936 / 37 – Der Staat als Mechanismus bei Hobbes und Descartes, in Staat,Großraum, Nomos, Berlin 1995, pp. 139-151 (tr. it. di C. Galli, Lo Statocome meccanismo in Hobbes e Cartesio, in Scritti su Thomas Hobbes,Giuffré, Milano 1986, pp. 45-59)

1938 – Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, Köln 1982, 2a

ed. (tr. it. di C. Galli, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di ThomasHobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico in Scritti su ThomasHobbes, cit., pp. 61-143)

1950 – Der Nomos der Erde, Berlin 1988, 3a ed. (tr. it. di F. Volpi, Il Nomosdella Terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum europaeum»,Adelphi, Milano 1991)

1952 – Die Einheit der Welt, in Staat, Großraum, Nomos, Berlin 1995, pp.496-512

1958 – Anmerkung zum Aufsatz «Ratifikation völkerrechtlicher Verträge undinnerstaatliche Auswirkungen der Wahrnehmung auswärtiger Gewalt», inVerfassungsrechtliche Aufsätze, Berlin 1983, 2a ed., pp. 136-139

1959 – Nomos – Nahme – Name, in Staat, Großraum, Nomos, 1995, pp. 573-591 (tr. it. di G. Solla, Nomos – Presa di possesso – Nome in «Contratto.Rivista di filosofia tomista e contemporanea» VI [1997], pp. 287-302)

1963 – Theorie des Partisanen, Berlin 1992, 3a ed. (tr. it. di A. De Martinis,Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, IlSaggiatore, Milano 1981)

Il Salvatore dalla confusione? 231

11 Schuller 20-11-2009 16:03 Pagina 231

1965 – Die vollendete Reformation, in Der Leviathan in der Staatslehre desThomas Hobbes, Köln 1982, 2a ed., pp. 137-178 (tr. it. di C. Galli, Il com-pimento della Riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpreta-zioni del Leviatano, in Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 159-190)

2. Altri testi

Diels 1949 – Rudolf Diels, Lucifer ante portas. Zwischen Severing undHeydrich, Zürich s.d. (ma 1949)

Groh 1998 – Ruth Groh, Arbeit an der Heillosigkeit der Welt. Zwischen poli-tisch-theologischer Mythologie und Anthropologie Carl Schmitts,Frankfurt am Main 1998

Schuller 1996 – Wolfgang Schuller, Dennoch die Schwerter halten. Derkatevcwn Carl Schmitts, in: Hubert Cancik (ed.), Geschichte – Tradition –Reflexion. Scritti per onorare il 70esimo compleanno di Martin Hengel,vol. II, Griechische und Römische Religion, Tübingen 1996, pp. 399-408

232 Wolfgang Schuller

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MICHELE NICOLETTI

TRA FILOSOFIA DELLA STORIA E RELAZIONIINTERNAZIONALIIl concetto di Katéchon in Carl Schmitt

È certamente merito di Carl Schmitt e della pluralistica recezionedel suo pensiero aver richiamato l’attenzione degli studiosi di ambitidiversi di studio, dalla teologia alla filosofia politica, sulla figura delKatéchon che viene evocata nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Loscopo del presente saggio è quello di (1) dare conto della presenza ditale concetto negli scritti di Schmitt; (2) analizzare i contesti in cui ilconcetto compare; (3) avanzare alcune ipotesi interpretative sul ruolo ditale concetto nel pensiero dell’autore.

1. La presenza del concetto di Katéchon negli scritti di Carl Schmitt

La presenza del concetto di Katéchon negli scritti di Carl Schmittha richiamato da qualche tempo l’attenzione di numerosi studiosi ed èstata fatta oggetto di dettagliate analisi e interpretazioni1. Benché ilquadro documentario non possa dirsi ancora del tutto completo – nellascito di Schmitt vi è ancora del materiale non trascritto – la maggior

1 Cfr. Emanuele Castrucci, La forma e la decisione, Giuffrè, Milano 1985; Michele Ni-coletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990;Berthold Lutz, Wer hält zur Zeit der Satan auf? – Zur Selbstglossierung Carl Schmitts, in«Leviathan» 2 (1993), pp. 285-299; Günther Meuter, Der Katechon. Zu Carl Schmitts funda-mentalistischer Kritik der Zeit, Duncker & Humblot, Berlin 1994; Felix Großheutschi, CarlSchmitt und die Lehre vom Katechon, Duncker & Humblot, Berlin 1996; Wolfgang Schuller,Dennoch die Schwerter halten. Der katéchon Carl Schmitts, in Geschichte-Tradition-Reflexion.Festschrift für Martin Hengel zum 70. Geburtstag, hrsg. von Hubert Cancik, Hermann Lichten-berger, Peter Schäfer, Bd. II, Griechische und Römische Religion, hrsg. von Hubert Cancik,Mohr, Tübingen 1996, pp. 389-408; Carlo Galli, Genealogia della politica, Il Mulino, Bologna1996; Alfons Motschenbacher, Katéchon oder Großinquisitor? Eine Studie zu Inhalt undStruktur der politischen Theologie Carl Schmitts, Tectum Verlag, Marburg 2000; ThéodorePaleologue, Sous l’oeil du grand inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique,Cerf, Paris 2004; Massimo Maraviglia, La penultima Guerra. Il «katéchon» nella dottrina del-l’ordine politico di Carl Schmitt, LED, Milano 2006.

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12 Nicoletti 20-11-2009 16:03 Pagina 233

parte dei riferimenti al tema può dirsi ampiamente individuata e puòessere ricostruita come segue.

Benché Carl Schmitt sostenga in una lettera a Pierre Linn del-l’11.1.1948, pubblicata nel Glossarium, di aver elaborato la sua teoriadel Katéchon nel 1932 («Vous connaissez ma théorie du katevcwn, elledate de 1932»2), il termine compare esplicitamente nei suoi scritti sol-tanto a partire dal 1942. Si può ipotizzare che la fonte da cui Schmittricava l’ispirazione per la trattazione di questo tema possa essere ritro-vata nelle sue conversazioni con Erik Peterson3 e nel confronto con altriteologi tra cui Karl Eschweiler.

Il primo testo in cui appare il termine Katéchon è un articolo appar-so sulla rivista «Das Reich» del 19 aprile 1942 dedicato al ruolo degliStati Uniti nella guerra mondiale in corso4. Già il titolo («Beschleu-niger wider Willen») richiama l’attenzione sulla funzione di «accelera-tori» o di «trattenitori» dei processi storici esercitata dalle potenze poli-tiche nelle diverse situazioni. Il caso concreto che Schmitt analizza èquello degli Stati Uniti d’America e del loro ruolo nella politica inter-nazionale, tema che verrà ampiamente affrontato in Der Nomos derErde del 1950. Secondo Schmitt gli USA avrebbero esercitato nel corsodel secolo XIX. una funzione di «acceleratori» del processo storico didissoluzione dell’ordine internazionale europeo, ma, avendo abbando-nato con l’intervento nella Prima Guerra mondiale e poi nella Secondala loro politica isolazionista, per svolgere il ruolo che un tempo era del-l’impero britannico di difesa del modello universalistico del liberocommercio, si troverebbero ora a svolgere anche una funzione di «ritar-datori». È questa loro intima contraddizione che, secondo Schmitt, lirenderebbe incapaci di porsi come popolo guida portatori di un «nuovoordine» per il mondo intero. Nella loro azione internazionale, essi nonfarebbero che esportare il «disordine» che li caratterizza. È in questocontesto che si trova il richiamo al termine antico di Katéchon:

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2 Carl Schmitt, Glossarium. Aufzeichnungen der Jahre 1947-1951, Duncker & Humblot,Berlin 1991; tr. it. Glossarium, a cura di Petra Dal Santo, Giuffrè, Milano 2001, p. 113.

3 Così Karlfried Gründer nella discussione al seminario di Speyer: cfr. Helmuth Quaritsch(ed.), Complexio Oppositorum, Duncker & Humblot, Berlin 1988, p. 230.

4 Carl Schmitt, Beschleuniger wider Willen oder: Problematik der westlichen Hemisphäre,in «Das Reich» 19.4.1942, ora in Carl Schmitt, Staat, Großraum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren1916-1969, hrsg. von Günther Maschke, Duncker & Humblot, Berlin 1995, pp. 431-436; tr. it. La

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«Gli storici e i filosofi della storia dovrebbero analizzare e distinguere le diver-se figure e i diversi tipi di coloro che hanno trattenuto il ritmo della storia e dicoloro che l’hanno invece accelerata. Nella tarda antichità e nel Medioevo gliuomini hanno creduto in una misteriosa forza ritardatrice, che fu designata coltermine greco Katéchon, che avrebbe arrestato il sopraggiungere della fineapocalittica dei tempi, il cui termine era ormai scaduto. Tertulliano ed altrividero tale forza ritardatrice nell’antico impero romano di quel tempo, che conla sua semplice esistenza avrebbe “trattenuto” l’eone e rimandata la fine. IlMedioevo europeo doveva riprendere questa fede e gran parte dei processiessenziali della storia medioevale sono comprensibili solo se ci riferiamo adessa. In un senso diverso, ma pur analogo, per Nietzsche l’ultimo grande filo-sofo sistematico della Germania, Hegel non sarebbe stato, di nuovo, che unritardatore e un trattenitore dei processi diretti a compiere un pieno ateismo.Ma le forze ritardatrici e quelle trattenitrici possono assumere una forma spe-cifica e simbolica anche in molte figure e personalità della storia politica. Ilvecchio imperatore Francesco Giuseppe sembrò trattenere sempre di nuovoattraverso la sua semplice esistenza la fine del decrepito impero asburgico, ese allora era diffusa l’opinione che l’Austria non sarebbe mai crollata finchéquel principe vivesse, in ciò vi era più che una sciocca superstizione. Dopo laguerra mondiale, nel 1918, la parte di un ritardatore spettò al presidente cecoMasaryk, in misura corrispondentemente ridotta. Per la Polonia, il marescial-lo Pilsudski divenne una specie di kat-échon. Forse possono già bastare questiesempi per intendere il senso politico e storico proprio alla funzione del “ritar-datore”»5.

In questo passo, come è stato notato6, il concetto di Katéchon vieneutilizzato in modo ancora ambivalente: da un lato come forza conser-vatrice di un ordine esistente con una valenza neutra o quasi negativa,dall’altro nel suo significato più specifico di forza che trattiene unaminaccia proveniente da una potenza negativa che si oppone a Dio(Anticristo) o al suo culto (ateismo filosofico o politico) e dunque convalenza positiva.

Una seconda coppia di riferimenti alla figura del Katéchon si trova,sempre nel 1942, nel libro Land und Meer7, in cui Schmitt interpreta la

Tra filosofia della storia e relazioni internazionali 235

lotta per i Grandi spazi e l’illusione Americana, in «Lo Stato» 13(1942), pp. 173-180 ora inL’unità del mondo e altri saggi, a cura di Antonio Campi, Pellicani, Roma 1994.

5 Carl Schmitt, La lotta per i grandi spazi, cit., pp. 268-269.6 Cfr. Massimo Maraviglia, La penultima guerra, cit., p. 208.7 Carl Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Leipzig 1942; Köln-

Lövenich 1981; tr. it. Terra e mare, a cura di Angelo Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986.

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storia delle civiltà come il frutto di un confronto continuo tra potenzedi terra e potenze di mare, le prime legate alla realtà solida e stabile deldiritto, le seconde legate alla realtà mutevole del commercio. Tra que-ste ultime, di nuovo, le protagoniste sono l’Inghilterra e gli Stati Unitid’America. A proposito del confronto tra potenze di terra e potenze dimare, Schmitt ricorda il confronto tra l’Impero d’Occidente e l’ImperoBizantino e in questo contesto ricorda come quest’ultimo riuscisse acompiere come «potenza marittima» ciò che l’Impero di Carlo Magnocome «potenza terrestre» non era riuscito a compiere:

«era un vero “trattenitore”, un Katéchon come si dice in greco; nonostante lasua debolezza ha “resistito” per molti secoli contro l’Islam e con ciò ha evita-to che gli Arabi conquistassero l’intera Italia. Altrimenti, come è accaduto aquel tempo nell’Africa Settentrionale con la distruzione della cultura cristianaantica, l’Italia sarebbe stata incorporata nel mondo islamico»8.

Il secondo riferimento al Katéchon è invece legato all’interpreta-zione che Franz Grillparzer nella sua tragedia Ein Bruderzwist inHabsburg dà della figura di Rodolfo d’Asburgo. Secondo Schmitt latragedia mette in luce come l’imperatore «non fosse un “eroe attivo”,ma un trattenitore, un ritardatore. Egli aveva qualcosa di un Katé-chon»9. Anche in questo caso il termine abbraccia situazioni diverseche vanno dal contenimento del nemico esterno portatore di una diver-sa religione, al rallentamento del processo di dissoluzione di un ordinesociale e politico, ma in entrambi i casi la funzione del Katéchon appa-re ormai connotata sempre più univocamente in senso positivo.

Una terza serie di richiami alla figura del Katéchon si trova neidiari degli anni 1947-1951 pubblicati dopo la morte di Schmitt nel1991 con il titolo Glossarium10. Il termine appare in dieci frammentiscritti negli anni 1947-1949 in cui, come in precedenza, si fa riferi-mento al passo biblico, alla sua recezione in età antica e medievale, afigure storiche che hanno svolto il ruolo di «trattenitori», ma in cui an-che si sottolinea l’importanza di questo tema sullo sfondo di una teo-logia cristiana della storia.

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8 Ivi, tr. it. cit., p. 19.9 Ivi, p. 80.10 Cfr. Carl Schmitt, Glossarium, cit.

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Al rapporto tra Katéchon e teologia cristiana della storia sono dedi-cati i primi tre frammenti. Nel primo frammento si legge infatti:

«A proposito del katevcwn: credo nel katevcwn; è per me l’unica possibilità dicomprendere la storia come cristiano e di trovarla sensata. La misteriosa dot-trina paolina non è più misteriosa di ogni esistenza cristiana, ma lo è altret-tanto. Chi non sa nulla in concreto, egli stesso, del katevcwn, non può inter-pretare il passo. Al katevcwn giunge Haimo von Halberstadt che come fonteper il katevcwn è molto più precisa di questa (Migne, vol. 117, col. 779). I teo-logi di oggi non lo sanno più e in fondo non vogliono più nemmeno saperlo.A dire il vero, da Lei volevo sapere: chi è il katevcwn di oggi? Non si può certopensare che sia Churchill o John Foster Dulles. La domanda è più importantedi quella sul capo guardaboschi jüngeriano. Per ogni epoca degli ultimi 1948anni si deve poter nominare un katevcwn. Il posto non fu mai vacante, altri-menti noi non esisteremmo più. Ogni grande imperatore del Medioevo cristia-no riteneva in piena fede e coscienza di essere il katevcwn, e lo era veramen-te. È del tutto impossibile scrivere una storia del Medioevo senza vedere ecomprendere questo fatto centrale. Ci sono depositari temporanei, transitori eframmentari di questo compito. Sono sicuro che non appena il concetto saràsufficientemente chiarito potremo addirittura metterci d’accordo sui moltinomi concreti e fino ai giorni nostri. Donoso Cortés fallì dal punto di vista teo-logico, poiché questo concetto gli rimase estraneo»11.

La critica a Donoso su questo punto ritorna anche nel secondoframmento:

«Povero Donoso, l’unico concetto teologico adeguato alla sua teoria politicasarebbe stato quello di katevcwn; invece si perde nel labirinto della dottrina deldiritto naturale relativo e assoluto. Esiste una spiegazione molto semplice peril lamento senza speranza di Charles Péguy, che si rammarica di non avereavuto alcun successo presso i cattolici. Forse l’ordine dei gesuiti era ilkatevcwn. Ma dal 1814? Restaurazione del katevcwn»12.

Il terzo frammento in cui compare il concetto di Katéchon appartie-ne alla già citata lettera a Pierre Linn, scritta in francese, in cui si legge:

«Nous sommes toujours – comme en 500 ou 800 – dans le “aion” chrétien,toujours en agonie, et tout évènement essentiel n’est qu’une affaire du “Kat-

Tra filosofia della storia e relazioni internazionali 237

11 Ivi, p. 91 (19.12.1947 - tr. lievemente modificata).12 Ivi, p. 101 (27.12.1947 - tr. lievemente modificata).

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échon”, c’est-à-dire de “celui qui tient”, qui tenet nunc (2 ep. de Saint-Paulaux Thessaloniques, 2. chap. Vers 7.). Vous connaissez ma théorie dukatevcwn, elle date de 1932. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur con-cret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler auxthéologiens, car je connais le sort déplorable du grande et pauvre DonosoCortés. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire»13.

Una seconda coppia di frammenti contiene invece riferimenti afigure della storia contemporanea che avrebbero o non avrebbero incar-nato il ruolo del Katéchon come Masaryk, lo stesso Schmitt e Chur-chill. Eccoli di seguito:

«Masaryk padre fu un autentico Katéchon europeo; il Katéchon della liberal-democrazia occidentale. Egli operò con mirabile consapevolezza storica – infi-nitamente superiore a quella che i politici, i filosofi e gli storici tedeschi sep-pero dimostrare allora – e fece una scelta molto oculata a favore dell’Oc-cidente»14. «Ora io sono più di Thomas Masaryk»15. «Ciò che egli [Toynbee]chiama Europa occidentale (da cui è esclusa la Germania) è una borghesianelle condizioni sociali di quella tedesca del 1919: uno stadio intermedio degliunderprivileged fra i popoli asiatici. La Germania appartiene completamenteagli underprivileged. Secondo Toynbee non le rimane che l’opzione a favoredel comunismo russo. Ecco lo Spengler del secondo dopoguerra, così comeChurchill divenne il Clémenceau della seconda guerra mondiale; nessunkatevcwn»16.

Il terzo gruppo di frammenti contenuti nel Glossario riguarda poi ilrapporto tra funzioni del Katéchon e istituzioni, con particolare riguar-do all’impero romano medievale e alla Chiesa cattolica. Rispetto a que-ste istituzioni il tema del Katéchon fonda la legittimità della loro azio-ne storica («l’impero cristiano degli imperatori medievali era legittimoin quanto katevcwn, secondo 2Ts, 6-7»17), ma al tempo stesso ne sotto-linea la natura «limitata»: «Il katéchon è riconoscibile per il fatto chenon aspira a questa unità del mondo, ma depone la corona imperiale.L’ingenua ereditarietà della corona imperiale, che diviene ereditaria in

238 Michele Nicoletti

13 Ivi, p. 113 (11.1.1948, Lettera a Pierre Linn).14 Ivi, p. 160 (13.3.1948)15 Ivi, p. 168 (25.3.1948). In questo frammento non è contenuto esplicitamente il termine

Katéchon ma il riferimento è implicito attraverso la figura di Masaryk.16 Ivi, p. 176 (9.4.1948).17 Ivi, p. 214 (23.5.1948).

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rapporto alla consuetudine del potere dinastico; ma una dinastia nonpuò essere anch’essa un katéchon?»18. Questa storicità e condiziona-tezza tocca anche l’istituzione della Chiesa romana, che proprio perquesto è stata criticata da quanti considerano ogni elemento storicocome un elemento di impurità:

«La Chiesa romana è realtà storica; dal punto di vista idealistico è eo ipso malaazione. Essa è katevcwn, che è senz’altro il peggiore dei criminali. Dal puntodi vista idealistico ogni azione storica è mala azione; in termini idealistici:diritto=torto=posizione=arbitrio. Ecco che cosa chiamano tragicità! La tesi diSohm non è valida solo per il diritto canonico»19.

Si vede qui una ripresa del tema della natura istituzionale e giuridi-ca della Chiesa cattolica affrontato da Schmitt nello scritto del 1917Die Sichtbarkeit der Kirche e in Römischer Katholizismus del 1923 incui il confronto con la posizione di Rudolf Sohm è centrale. L’asso-ciazione della figura del Katéchon alla Chiesa romana, come erede del-l’impero romano, è tema presente già nelle interpretazioni medievali20.

Un ulteriore frammento riprende questo tema del limite e accosta iltema del Katéchon come resistenza al disordine, alle dinamiche dellasocietà contemporanea, in cui il disordine si presenta con il volto dellamassa e il governo che pretende di dominare questo disordine ha ilvolto della pianificazione assoluta:

«Il katevcwn è privazione, fame, bisogno e impotenza. Tutto ciò sono coloroche non governano, è popolo. Ogni altra cosa è massa e oggetto di pianifica-zione. La forza meravigliosa della negazione non oppositiva, lo Stato socialedi diritto, la storiografia»21.

Infine un importante richiamo al declino della funzione del Katé-chon al sorgere della modernità, quando la realtà dell’impero vienesostituita dallo Stato:

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18 Ivi, p. 230 (16.6.1948).19 Ivi, p. 352 (4.7.1949).20 Großheutschi richiama a questo proposito il passo di Tommaso d’Aquino: «l’impero non

è venuto meno, ma è stato trasformato da temporale in spirituale» (Carl Schmitt und die Lehre vomKatechon, cit., p. 54). Sul punto cfr. anche Maraviglia, La penultima guerra, cit., p. 194.

21 Ivi, p. 378 (25.9.1949).

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«Importante per Hobbes e per l’epoca di Cromwell: la rinuncia consapevolealla tradizione del katevcwn dell’impero romano (anche in Vitoria non ve n’èpiù traccia!). Nessuna terza Roma (come a Mosca)! Nessuna succession: sì, inFrancia, fino a Napoleone I. Impero, cesarismo. In ogni caso, per Hobbes laChiesa romana è il fantasma che sta appollaiato sulla tomba dell’imperiumromanum. Critica all’imperium romanum in Bacon e Hobbes: non fu affattouniversale, non fu orbis»22.

Un quarto scritto contenente un richiamo alla figura del Katéchonè il testo Ex Captivitate Salus pubblicato nel 195023. In queste pagineil riferimento si trova associato ad un’altra figura rilevante nell’imma-ginario schmittiano e precisamente alla figura dell’«Epimeteo cristia-no»24, creata dal poeta Konrad Weiss nel 193325 in contrapposizione al«Prometeo pagano», che Schmitt utilizza per spiegare il proprio com-portamento di fronte al regime nazionalsocialista. Il riferimento alKatéchon si trova nel paragrafo dedicato a Tocqueville:

«[Tocqueville] non divenne quel che più d’ogni altro sembrava predestinato aessere: un Epimeteo cristiano. Gli faceva difetto l’ancoraggio a una storia dellasalvezza che preservasse dalla disperazione la sua idea storica dell’Europa.Senza l’idea di un Katéchon, l’Europa era perduta. Tocqueville non conosce-va alcun Katéchon. In sua vece cercò degli intelligenti compromessi»26.

Un quinto luogo di riferimento, legato a considerazioni di filoso-fia della storia, si trova nella recensione che Schmitt scrive al testo diKarl Löwith Meaning in History in cui il richiamo all’interpretazionemedievale del Reich come Katéchon è seguita immediatamente da

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22 Carl Schmitt, Glossarium, cit., p. 380 (1.10.1949).23 Id., Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/1947, Köln 1950; tr. it. Ex Capti-

vitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, traduzione di Carlo Mainoldi, con un saggio di Fran-cesco Mercadante, Adelphi, Milano 1987.

24 Epimeteo, fratello di Prometeo, «si accorge in ritardo» del danno che ha compiuto apren-do il vaso di Pandora.

25 Cfr. Konrad Weiß, Der deutsche christliche Epimetheus, in Der christliche Epimetheus,s.i.l. / Edwin Runge, 1933. Sul rapporto tra Schmitt e Weiß, si veda S. Nienhaus, Carl Schmitt trapoeti e letterati in Carl Schmitt, Aurora boreale, tr. it. di V. Bazzicalupo, ESI, Napoli 1995, pp. 5-48. Interessante il tentativo di Weiß di mitigare teologicamente il decisionismo schmittiano evo-cando la figura di Maria, madre di Gesù. Per una interpretazione di Maria in relazione alKatéchon, si veda l’interessante notazione di Maraviglia, op. cit., p. 251.

26 Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus, tr. it. cit., pp. 33-34.

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un’estensione del ruolo di «trattenitore» a figure della storia della cul-tura come Hegel:

«Nonostante tutto vi è anche la possibilità di un ponte. Ne abbiamo esempisorprendenti nella storia dell’impero medievale. Il ponte sta nella rappresenta-zione di una forza, che ritarda la fine e contiene il male. Questo è il Katéchondel misterioso passo paolino della 2. Lettera ai Tessalonicesi. L’impero medie-vale del principe tedesco concepiva se stesso storicamente come Katéchon.Ancora Lutero lo ha inteso così, mentre Calvino rappresenta un momento disvolta decisiva interpretando come Katéchon non il regno, ma la predicazionedella parola di Dio. La rappresentazione di forze e potenze trattenitrici e ritar-datrici si può trovare in questa o quella forma in ogni grande storico. Nietzscheha individuato pieno di furore proprio in Hegel e nel sesto senso, cioè nel sen-so storico dei tedeschi, il grande ritardatore sulla via verso l’aperto ateismo»27.

Nello stesso 1950 viene pubblicato Der Nomos der Erde, l’opera incui Carl Schmitt condensa le sue analisi di storia del diritto internazio-nale. Nella ricostruzione storica dell’età medievale il termine Katéchonsi ritrova nel titolo di un capitolo dedicato al «Reich cristiano come trat-tenitore (Katéchon)». Secondo Schmitt il Reich medievale ha ben pre-sente che

«non si tratta di un regno eterno, ma tiene fisso lo sguardo sulla propria fine esulla fine del presente eone e nonostante tutto è capace di esercitare un poterenella storia. Il concetto decisivo che gli conferisce forza storica e continuità èquello del trattenitore, del Katéchon. “Reich” significa qui la forza storica, cheè in grado di trattenere la manifestazione dell’Anticristo e la fine del presenteeone, una forza qui tenet, conformemente alle parole dell’apostolo Paolo nellaSeconda Lettera ai Tessalonicesi, capitolo 2. [...] Il Reich del Medioevo cri-stiano dura fino a che è vivo il pensiero del Katéchon. Io non credo che per unafede originariamente cristiana sia possibile un’altra visione della storia chequella del Katéchon. La fede in un trattenitore che ritarda la fine del mondotraccia l’unico ponte che conduce dalla paralisi escatologica di tutto l’accade-re umano a una potenza storica così grandiosa come quella dell’impero cri-stiano dei re germanici»28.

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27 Carl Schmitt, Drei Stufen historischer Sinngebung, in «Universitas» 5(1950), pp. 927-931,qui pp. 929-930.

28 Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Greven,Köln 1950 (Duncker u. Humblot, Berlin 19742), tr. it. di Emanuele Castrucci, Il Nomos della Terranel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano 1991, p. 29.

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Nello scritto Die Einheit der Welt del 1951 il tema è ripreso con glistessi riferimenti alla concezione cristiana della storia e all’imperomedievale:

«Esistono ancora altre possibilità di una concezione cristiana della storia. C’èla dottrina di S. Paolo Apostolo sull’uomo e la forza che redimono il potere delmale e dell’Anticristo, ritardando così l’inizio della catastrofe definitiva. È ladottrina su ciò che S. Paolo chiama, con parola greca, il Katéchon, vale a direche secoli interi della storia medievale cristiana e della sua idea dell’Impero sifondano sulla convinzione che l’Impero di un principe cristiano ha appunto ilsignificato di essere Katéchon. Grandi imperatori medievali, come Ottone ilGrande e Federico Barbarossa, videro l’essenza storica della loro dignitàimperiale nel fatto che lottavano, in qualità di Katéchon, contro l’Anticristo ei suoi alleati, rimandando così la fine dei tempi»29.

Il termine si trova ancora in uno scritto dedicato a Hans Freyer peril suo settantesimo compleanno30 intitolato Die andere Hegel-Linie.Nel suo libro Weltgeschichte Europas31 Freyer interpreta la funzionedel Katéchon in senso dialettico: ciò che si oppone all’avanzata di unpericolo esterno, non solo conserva la realtà interna, ma la fa ancheevolvere verso uno stato superiore. Così ad esempio l’impero bizantinosi oppone all’invasione araba ma al proprio interno non si limita a con-servare i rapporti esistenti ma li fa evolvere: cristianizzando i popolislavi, li integra nella società europea. Così la Chiesa cattolica nei con-fronti dell’impero romano e a sua volta l’impero germanico nei con-fronti dell’impero romano. In questo modo ogni interpretazione mera-mente conservatrice del concetto di Katéchon è superata:

«In un impeto di rabbia Nietzsche lo ha dichiarato: Hegel è il grande rallenta-tore sulla via della Germania verso l’ateismo. Tutti gli acceleratori su questavia si uniranno contro un uomo come Hans Freyer, che nei suoi libri parla delKatéchon della Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Questa è la forza che trattie-ne la potenza del male per un certo tempo e contrasta i peggiori acceleratori

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29 Carl Schmitt, Die Einheit der Welt in «Merkur» 6(1952), I, pp. 1-11; tr. it., L’unità delmondo, in L’unità del mondo e altri saggi, cit., p. 317. Il passo non compare nella rassegna ope-rata da Wolfgang Schuller.

30 Carl Schmitt, Die andere Hegel-Linie. Hans Freyer zum 70. Geburtstag, in «Christ undWelt» (25.7.1957).

31 Dieterich, Wiesbaden 1948.

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sulla via della caduta nell’abisso. Tutto ciò che dal XIX secolo viene definitoconservatore, o si autoproclama tale, è superato e messo fuori gioco da questoconcetto del trattenitore, che troviamo nella Weltgeschichte di Freyer»32.

Il termine si trova ancora con accenti simili in una nota del 1958 altesto del 1943/44 sulla situazione del diritto pubblico europeo. Anchein questo caso il termine Katéchon è applicato a figure della storia dellacultura come Hegel e Savigny:

«Savigny e Hegel avevano il senso storico, quel sesto senso, come lo ha defi-nito Nietzsche pieno di furore perché ritarda i tedeschi sulla via dell’apertoateismo [...]. Entrambi erano veri trattenitori, Katéchon nel senso concretodella parola, trattenitori degli acceleratori volontari e involontari sulla via dellafunzionalizzazione integrale [...]. Ciò a cui tengo, è soltanto l’accenno al fattoche entrambi gli avversari si incontrano per me nella categoria del Katéchon.È rischioso, oggi, pronunciarsi in questo senso»33.

Infine, gli ultimi accenni si trovano nella Politische Theologie II del1970 e sono legati ai due autori protagonisti del testo: da un lato Eu-sebio di Cesarea, dall’altro il teologo Erik Peterson. Nei due passi sitrovano le due interpretazioni del Katéchon che in certo senso differen-ziano le due teologie politiche. Da un lato quella «politica» di Eusebioche vede nel Katéchon la funzione di un potere politico, ossia del-l’Impero romano:

«Sarebbe interessante conoscere più esattamente le concezioni di Eusebio e inparticolare avere maggiori informazioni sulla sua idea dell’impero romanocome freno dell’Anticristo, il Katéchon della lettera di Paolo (2Ts 2,6)»34.

Dall’altro lato vi è l’interpretazione «teologica» di Peterson, che in-terpreta il Katéchon come una categoria religiosa, associandola all’in-credulità del popolo ebreo:

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32 Ibidem.33 Carl Schmitt, Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft [1950] in Verfassungs-

rechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954. Materialien zu einer Verfassungslehre, Berlin1958, 19853, pp. 386-429; tr. it. di Luigi Cimmino, La condizione della scienza giuridica europea,Antonio Pellicani, Roma 1996.

34 Carl Schmitt, Politische Theologie II. Die Legende der Erledigung jeder politischenTheologie, Duncker & Humblot, Berlin 1970; tr. it. Teologia politica II, a cura di A. Caracciolo,Giuffré, Milano 1984, p. 65.

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«Che cosa il dotto filologo ed esegeta Peterson abbia pensato del Katéchon losappiamo: l’incredulità degli Ebrei, il loro rifiuto continuato fino al giorno dioggi di diventare cristiani, trattiene la fine dell’Eone cristiano»35.

In questo testo, al culmine della riflessione teologico-politica diSchmitt, l’interpretazione del Katéchon diviene davvero il discriminan-te dell’interpretazione della teologia politica: da un lato, il permaneredi un ruolo del «politico politico» nel momento finale della storia comeforza che rallenta e che in ciò dà senso all’agire cristiano nella storia;dall’altro, il momento finale come momento in cui si fronteggiano lesole grandezze della fede, l’incredulità da un lato, il testimone dellaverità dall’altro e il rallentamento del tempo è solo lo spazio della pos-sibile conversione.

Considerando il Glossarium come un’opera unitaria, sono sette gliscritti schmittiani in cui appare esplicitamente un riferimento a questafigura. In altri scritti si trovano riferimenti alla funzione katechontica,ossia al «trattenere» e «ritardare» la manifestazione del mistero di ini-quità36, ma senza un richiamo esplicito al Katéchon e altri riferimenti,infine, si trovano nell’epistolario di Schmitt e nelle sue note personali.

Gettando uno sguardo d’insieme su questi riferimenti, si colgonoanzitutto due elementi. Il primo di questi riguarda la collocazione tem-porale dei riferimenti al Katéchon: benché Schmitt sostenga che la suascoperta risalga al 1932 (a meno che egli non abbia commesso un erro-re scrivendo «1932» e volendo invece intendere «1942») l’arco tempo-rale in cui essi compaiono va dal 1942 al 1970 (nel periodo successivovi è solo qualche accenno nelle lettere e in note personali), con la mas-sima concentrazione di riferimenti negli anni 1947-1950. Il secondoelemento riguarda invece i contesti in cui i riferimenti appaiono ed essisono di due tipi. Da un lato essi appartengono a considerazioni di studiinternazionali (politica internazionale, geopolitica, diritto internaziona-le), dall’altro all’ambito della filosofia e teologia della storia. Con-siderando i due ambiti strettamente connessi, come insegnano le gran-di riflessioni internazionaliste dei classici come Kant e Hegel, si puòrilevare una certa compattezza anche sul piano dei contesti.

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35 Ibidem.36 Wolfgang Schuller, Dennoch die Schwerter halten. Der katéchon Carl Schmitts, loc. cit.

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2. Escatologia e storia nel pensiero di Schmitt dagli anni ’10 agli an-ni ’30

Soffermiamoci su questi due elementi.L’arco temporale in cui compare esplicitamente il termine Katé-

chon appare piuttosto limitato rispetto a quello che abbraccia l’interaproduzione di Schmitt che va invece dal 1910 al 1978. Non si può direperò che prima del 1942 il pensiero di Schmitt sia stato insensibile atemi di tipo escatologico. Al contrario fin dall’inizio esso appare segna-to da un’attenzione particolare per la tematica escatologica, nel cuiorizzonte è inscritto il tema dell’Anticristo.

In uno scritto del 1916, assai significativo nella formazione delpensiero di Schmitt, dedicato al poema Nordlicht di Theodor Däubler,si trovano già moltissimi temi di filosofia e teologia della storia che ilnostro autore svilupperà a distanza di molti anni. Lo spirito del tempopresente è dominato secondo Schmitt da una filosofia della storia che èal fondo «fede nel progresso umano», nella razionalità dell’uomo, nellasua intrinseca bontà e capacità di autoriformarsi e autotrascendersi:

«il panlogismo dello svevo Hegel è, al fondo, soltanto fede, fede nel pensieroumano, nella razionalità di tutto l’essere, nell’intrinseca bontà della natura,nell’umanità, nella sua storia e il suo sviluppo. Il panlogico sorge dalla fede,il filosofo della storia, che raccoglie alla rinfusa millenni di storia umana,sorge dallo stupore verso il singolo concreto secondo. Niente è più enigmati-co che proprio questo secondo [...] che Cristo proprio in quest’anno e propriolì si sia fatto uomo. Che abisso di mistero!»37.

A questa fede nel progresso come opera dell’uomo, Schmitt con-trappone l’opera di Däubler, in cui il momento della conoscenza fina-le, della gnosi, della visio Dei, in cui il tempo e la storia finiscono e laterra viene definitivamente rischiarata, non giunge come conquista macome dono: «L’Ultimo e il Decisivo non possono essere costruiti»38.Gli uomini possono tentare di contrapporre alla natura un regno di cul-

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37 Carl Schmitt, Theodor Däublers «Nordlicht». Drei Studien über die Elemente, den Geistund die Aktualität des Werkes [1916], Duncker u. Humblot, Berlin 19912, tr. it. di ValeriaBazzicalupo, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di TheodorDäubler, ESI, Napoli 1995, p. 56.

38 Ivi, p. 60.

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tura in cui Dio e la sua Provvidenza vengono sostituiti dalla pianifica-zione, ma la natura non si lascia prendere nulla: «Il regno dello spiritonon è uno stato del futuro, ma è un “regnum gratiae”»39. L’Ultimo restadono, grazia, non costruzione.

A questo proposito emerge per Schmitt il problema più insolubile epiù ineludibile di tutti: l’uomo deve essere attivo, e tuttavia l’Essenzialesi raggiunge solo per grazia. L’Oriente risolve questo problema facen-do svanire la terra, ma l’Occidente ama la terra e non vuole né negarlapassivamente, né esaltarla pelagianamente: il suo modo di affrontare ilproblema della colpa non è morale, ma religioso. È questa per Schmittla strada di Agostino, Lutero, Pascal, la strada cioè di coloro che fannoi conti col dualismo insito nella realtà, che lo considerano qualcosa dimondanamente insuperabile, eppure non lo sostanzializzano come glignostici, non arrivano cioè a smarrire la tensione verso una riconcilia-zione che non significhi semplice soppressione di uno dei due terminiin contrasto.

L’interesse che per Schmitt riveste l’opera di Däubler sta proprio inquesto suo essere «la poesia dell’Occidente», cioè il poema dell’im-possibilità di raggiungere l’assoluto attraverso la tecnica. In questosenso essa rappresenta non il libro di una stagione, ma di un «eone»,non il frutto di un periodo storico, ma la polarità di questo. Nell’ultimaparte del saggio su Nordlicht Schmitt riprende la sua critica dell’epocapresente già avviata in Der Wert des Staates40. L’epoca presente si èdefinita come «meccanicistica», capitalistica, relativistica, come l’epo-ca dello scambio, della tecnica, dell’organizzazione. Essa è l’epoca del-l’impresa, assurta a mezzo funzionale per ogni scopo, e proprio questaurgenza del mezzo sul fine annienta il singolo che non riesce più a con-trollare nulla. Gli uomini sono diventati poveri diavoli che sanno tuttoe non credono a nulla. Si interessano di tutto e non si meravigliano dinulla. Capiscono tutto, i loro esperti registrano nella storia, nella natu-ra, nella propria anima. Sono conoscitori degli uomini, psicologi esociologi e finiscono per scrivere una sociologia della sociologia41. Gli

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39 Ivi, p. 61.40 Carl Schmitt, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Individuums, J.C.B. Mohr (Paul

Siebeck), Tübingen 1914 (19172). 41 Carl Schmitt, Nordlicht, tr. it. cit., p. 64.

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stessi poveri di questo tempo sono figli di questo spirito nell’analisi diSchmitt e vogliono il cielo sulla terra, un cielo prodotto dal commercioe dall’industria, fatto di automobili e arredi da bagno e non un Dio del-l’amore e della grazia.

«Le cose più importanti e ultime erano già secolarizzate. Il diritto era diventa-to forza, la bellezza buon gusto, il cristianesimo un’organizzazione pacifista.Una generale trasformazione dei valori dominava gli animi. Al posto delladistinzione tra buono e cattivo è subentrata una sublime differenziazione trautile e dannoso»42.

In questa analisi del tempo compare il termine «secolarizzazione»,che in precedenza Schmitt aveva utilizzato in un’accezione neutracome sinonimo di «rendere visibile». Qui il termine invece assume unconnotato negativo per indicare la «mondanizzazione» di valori tra-scendenti.

In questa descrizione dell’età presente, come età della mondaniz-zazione, si colloca anche il problema dell’Anticristo, che emerge quiper la prima volta ma che sarà destinato a segnare di sé molta partedella riflessione successiva di Schmitt. L’analisi schmittiana del realiz-zarsi della profezia dell’Anticristo non dipinge l’immagine di questavenuta come un quadro drammatico fatto di violenze e sangue, ma piut-tosto come una realtà suadente e invitante e perciò tanto più pericolo-sa. L’Anticristo appare come un uomo giusto, secondo la descrizionedello pseudo-Efrem citata da Schmitt: Erit omnibus subdole placidus,munera non suscipiens, personam non praeponens, amabilis omnibus,quietus universis, xenia non appetens, affabilis apparens in proximos,ita ut beatificent eum homines dicentes: justus homo hic est, la suaforza misteriosa – commenta l’autore – «sta nella sua somiglianza conDio»43. L’Anticristo assoggetta la natura e porta con sé l’epoca dellasicurezza e della pianificazione, soddisfa ogni bisogno non solo mate-riale, sa condurre ogni verità all’assurdo e nelle conferenze che tiene inmodo brillante in materia religiosa, artistica o filosofica non manca

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42 Ivi, p. 65.43 Ivi, p. 66. La frase è presa dal Sermo de fine mundi dell’Efrem latino che Schmitt conosce

probabilmente nell’edizione di C.P. Caspari, Briefe, Abhandlungen und Predigten aus der zweiletzten Jahrhunderten des kirchlichen Alterthums und dem Anfang des Mittelalters, Christiania1890.

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nessun santo e nessun errore, neppure Cristo in croce. Nessuna fedepuò resistere in chi lo segue e in chi lo avvicina, i suoi seguaci sonoscettici e gli uomini finiscono per credere che tutto ciò che accade ed èpresente nel mondo sia opera umana:

«L’effetto favoloso è certo inconfutabile: grandi città, piroscafi di lusso e igie-ne; il carcere dell’anima è diventato un posto di vacanza [...]. Chi presagiva ilsignificato morale del tempo e contemporaneamente si sapeva figlio del tempopoteva soltanto diventare dualista»44.

Di fronte all’epoca che cancella ogni distinzione per dissolverla nelmedio della «funzionalità», chi non vuol gettarsi nella corsa della socie-tà verso la pianificazione e la produzione, finisce per sentirsi estraneoalla vicenda del mondo, finisce per interrogarsi sul suo stesso senso:

«Un critico intelligente [Rathenau?] del tempo scoprì il contrasto tra mecca-nica e anima: ma conosceva così bene la realtà della vita, che la povera animarestò lì nella sua impotenza. Restava solo una cosa: spiegare con lo gnosticoMarcione che il mondo è senz’altro opera del diavolo, in cui eternamentel’assenza di spirito trionfa sullo spirito. Qui sta la radice dell’angoscia: l’uni-verso potrebbe essere per sempre fallito e il volere qualche cosa di buono e digiusto potrebbe non avere alcun senso e scopo; Dio potrebbe essere inerme,impotente; l’intera storia del mondo una canzonetta che un qualsiasi scioccomonello potrebbe suonare su uno strumento scordato; il mondo irrecupera-bilmente rovinato... Non si potrebbe più fare niente per noi e, per salvarealmeno l’anima, dovremmo cercare di scappare da questa prigione. Un terro-re escatologico aveva invaso molte persone prima che le atrocità della guerradiventassero realtà»45.

Questo brano testimonia in modo abbastanza significativo lo spae-samento e la crisi tipica dell’Europa dei primi anni del secolo, una crisidi senso che costituisce il retroterra della letteratura e della filosofia esi-stenzialistica e che non a caso si ritrova negli anni della formazione diSchmitt. Da notare inoltre come in questo generale spaesamento la

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44 Carl Schmitt, Nordlicht, tr. it. cit., pp. 67-68. Questa interpretazione dell’Anticristo richia-ma in parte quella di Benson (Robert H. Benson, The Lord of the World, London 1907; tr. it. Ilprincipe del mondo, Milano 1987) in cui l’Anticristo viene identificato con il naturalismo laico eumanista che si insinua con dolcezza e compiace gli uomini.

45 Carl Schmitt, Nordlicht, tr. it. cit., p. 68.

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guerra sia vista come un elemento di ulteriore atrocità e non certo comeun atto liberatorio quale certa cultura bellicistica poteva pensare.

Nell’epoca ormai dominata dal meccanicismo, Schmitt interpreta ilpoema di Däubler come il contraltare di un’intera epoca, la severa con-danna di un tempo privo di spirito:

«Dopo che il relativismo e l’analisi avevano operato così a fondo, al punto cheil dubbio snervava se stesso e affiorava il dubbio che il dubbio stesso non fosseabbastanza scrupoloso – tanto che il dubbioso per non essere costretto a cre-dere in qualcosa iniziava a diventare spiritoso e dubitava che il suo dubbiofosse l’ultimo e il più profondo, perchè altrimenti non sarebbe stato certo il piùprofondo – apparve Nordlicht come la negazione delle negazioni ultime e piùuniversali di tutte»46.

È dunque chiaro, alla luce di queste citazioni, come il saggio suDäubler testimoni una continuità spirituale nella ricerca schmittiana,nella sua critica al relativismo scettico e al meccanicismo dominante.Däubler, sia pure in una forma hegeliana di finale conciliazione di ognitravaglio entro l’unità ricomposta dalla luce del Nord, riafferma conforza i valori dello spirito e dell’assoluto senza cadere nella facile ten-tazione di condannare per questo alla dannazione il mondo e l’uomo,ma offrendogli una strada di riscatto: la via della ricerca. Certo non èuna via, afferma Schmitt, percorribile da tutti: non può essere interes-sante per coloro che vogliono sentir parlare solo dei propri dubbi. Que-sti in fondo amano la loro situazione e ci si rassegnano per non esserecostretti ad agire: «essi non vogliono usare la violenza che appartienealla conquista del regno dei cieli»47.

Come si vede ci sono qui in nuce molti elementi decisivi della posi-zione di Schmitt: il dominio di una filosofia della storia come fede nelprogresso (che, negli scritti del secondo dopoguerra, sarà consideratal’ideologia comune a Est e Ovest48), il trionfo della tecnica come finedella storia, la condanna della critica spiritualistica e gnostica (l’ab-bandono del mondo al demonio), la teologia dell’incarnazione (Kierke-gaard) come alternativa al monismo hegeliano e al dualismo.

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46 Ivi, p. 70.47 Ivi, p. 76. Il riferimento evangelico è a Mt 11,12 [Lc 16,16].48 Si veda in particolare il citato scritto Die Einheit der Welt.

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Questo abbozzo di teologia della storia, fondata su una dialettica dipeccato e redenzione, che esige l’incarnazione e la lotta contro il malema sa infine di poter vincere solo in forza della grazia, si ritrova anchesia pure per accenni nello scritto del 1923 Römischer Katholizismus,dove viene criticato il dualismo di Dostoevskij tra giustizia e potere eviene rivendicata la stretta connessione tra teologia dell’incarnazione,che pone al centro la persona di Cristo, e teologia della gloria, ossia delgoverno di Cristo su tutte le cose. Lo sbocco di tale dialettica non è ilrifiuto dell’agire nella storia e del connesso ricorso al potere mondano,ma è l’accettazione dell’impurità insita in ogni realtà mondana e lascelta di vivere tale dialettica nel tempo per evitare che la creazionevenga consegnata nelle mani del male:

«Nella dimensione temporale la tentazione del male, che è presente in ognipotere, è senza dubbio perenne, e l’opposizione fra bene e potere è superata,senza residui, soltanto in Dio; tuttavia, il volersi sottrarre a quell’opposizione,rifiutando ogni potere mondano, sarebbe la peggiore inumanità»49.

In modo più articolato la riflessione schmittiana sulla storia si trovaespressa nello scritto Das Zeitalter der Neutralisierungen und derEntpolitisierungen del 1929, in cui la critica della tecnica viene ripresasu uno sfondo di filosofia della storia ed escatologia.

Secondo Schmitt l’emergere della fede nella tecnica ha fatto inorri-dire i rappresentanti della civiltà tradizionale che hanno gridato allamorte dello spirito, al dominio del meccanicismo e del materialismo: leriflessioni di Troeltsch, Weber, Rathenau fino a Spengler, Scheler,Ziegler documentano l’angoscia nei confronti dell’insorgere della tec-nica e al tempo stesso l’impotenza dello spirito di fronte a questo insor-gere. Ma la reazione nei confronti dell’emergere del potere della tecni-ca non può ridursi a una sia pur nobile ed elevata lamentazione di unospirito che si avverte minacciato e perciò al tramonto. La fede nella tec-nica resta pur sempre una «fede»; benché mal riposta, è comunque unaespressione dello spirito:

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49 Carl Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Jakob Hegner, Hellerau 1923(Theatiner, München 19252), tr. it. di Carlo Galli, Cattolicesimo romano e forma politica. La visi-bilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, Giuffrè, Milano 1986, p. 44.

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«Lo spirito del tecnicismo, che ha portato alla fede di massa in un attivismoantireligioso dell’aldiqua, è spirito, forse spirito maligno e diabolico, ma nontale da essere tolto di mezzo come meccanicistico e da essere ascritto alla tec-nica. Esso è forse qualcosa di raccapricciante, ma in sé non è nulla di tecnicoe macchinale. Esso è la fiducia in una metafisica attivistica, la fede in unapotenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anchesulla phýsis umana, la fede nell’illimitato “superamento degli ostacoli natura-li”, nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenzanaturale dell’uomo in questo mondo. Si può ritenere tutto ciò fantastico o sata-nico, ma non si può dichiararlo semplicemente una morta mancanza di anima,senza spirito e meccanicistica»50.

Il rischio della cultura attuale è quello di ridursi a lamentazione, anostalgia, a rifiuto del tempo presente. Schmitt condanna questo atteg-giamento anti-moderno che deriva da una insufficiente comprensionedella storia e della cultura e dalla paura dei gruppi intellettuali consoli-dati di perdere il loro potere. Si tratta insomma di una battaglia di retro-guardia.

La perdita di terreno della fede nei valori spirituali a scapito dellafede nei valori materiali e nella tecnica non necessariamente è da leg-gersi come una sconfitta definitiva, come il tramonto, la decadenza, lamorte. Alla vita dello spirito non si oppone la morte rappresentata dallatecnica, ma si oppongono una fede e uno spirito secolarizzati. Nonbisogna lamentarsi o rinchiudersi nella difesa delle proprie posizioni,ma assumere la sfida che il presente lancia. In questa prospettiva la dif-ficoltà, in cui i valori dello spirito si trovano, non necessariamente rap-presenta la sconfitta di questo. Anzi. Una situazione di povertà può tra-sformarsi in un’esperienza capace di temprare lo spirito rinnovandolo,ridonandogli energia e creatività:

«Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le “riforme”, tutte lenuove èlites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà,nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallostatus quo. Il cristianesimo primitivo e tutte le riforme più profonde all’inter-no del cristianesimo, il rinnovamento benedettino, cluniacense e francescano,

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50 Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen. Mit einer Rede über das Zeitalter der Neutrali-sierungen und Entpolitisierungen, Duncker u. Humblot, München-Leipzig 1932 (Berlin 19636),tr. it. di Pierangelo Schiera, Il concetto del «politico». Testo del 1932 con una premessa e trecorollari, in Id., Le categorie del «politico», Il Mulino, Bologna 1972, pp. 87-208, qui p. 93.

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il movimento degli anabattisti e dei puritani, ma anche ogni rinascita autenti-ca con il suo ritorno al principio elementare della propria natura, ogni autenti-co “ritornar al principio”, ogni ritorno alla natura intatta, non corrotta appare,di fronte al comfort e all’agio dello status quo esistente, come nulla culturalee sociale»51.

La rinascita della cultura europea è dunque affidata a un’«ascesi»,a un processo di purificazione attraverso il quale si abbandonano laforma storica assunta e le incrostazioni per recuperare l’integrità origi-naria e riesprimerla in forma nuova individuando con chiarezza l’ordi-ne (o il disordine) spirituale cui opporsi. Lo spirito riesce a produrreforme nuove non opponendosi a ciò che è non spirito, ma a ciò che èspirito. L’opposizione creatrice non è quella che oppone vita a morte,ma forme di vita a forme di vita:

«Un raggruppamento che vede dalla sua parte solo spirito e vita e dall’altrasolo morte e meccanica non significa altro che una rinuncia alla lotta ed hasolo il valore di un lamento romantico. Infatti la vita non combatte con lamorte, né lo spirito con la mancanza di spirito. Lo spirito combatte contro lospirito e la vita contro la vita e l’ordine delle cose umane scaturisce dalla forzadi una coscienza integra. Ab integro nascitur ordo»52.

In queste pagine troviamo espressi elementi importanti della visio-ne schmittiana della storia. Il tema del «ritornar al principio» non deveessere letto come una testimonianza di una concezione pessimisticadella storia, vista univocamente come «caduta», come processo didecomposizione della sostanza originaria. Non c’è nostalgia del passa-to, né spirito antimoderno in Schmitt. C’è invece un atteggiamentopositivo che si esprime nell’invito ad accogliere ogni tempo ed ogniepoca come una sfida rivolta allo spirito umano perché questo tragga dasé la sua potenzialità creativa. Il processo di secolarizzazione non èvisto qui come una perdita progressiva di significato, ma come pro-gressiva manifestazione delle diverse forme dello spirito umano. Ladimensione storica appare dunque come un processo aperto e creativo,in cui lo spirito attinge nuova forza per rispondere alle sfide del pre-sente da un ripetuto movimento di «ritornar al principio». Dunque

252 Michele Nicoletti

51 Ibidem.52 Ivi, p. 183.

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Schmitt resta legato alla prospettiva dell’ab integro nascitur ordo, giac-ché un’integritas è comunque indispensabile per la realizzazione del-l’ordine, se non altro in quanto integritas di una volontà che consape-volmente decide53. Il riferimento ad un ordine originario, a un modelloideale di ordine, appare ineliminabile.

In questa visione della storia permane l’idea di una sfida rappre-sentata dal male, dal disordine – magari camuffato sotto le spoglie dellasocietà di massa – alla quale lo spirito è chiamato a rispondere, ma nonincombe il senso di una «fine» prossima della storia a cui parte del pen-siero occidentale sembrava indulgere. Più forte sembra la preoccupa-zione di evitare il rischio che la cifra dominante della cultura sia datadalla lamentazione più che dalla lotta, una lotta che Schmitt concepiscenon come lotta tra lo spirito e la materia, ma tra forme spirituali diver-se, dunque tra ordini diversi che stanno alla base delle contrapposizio-ni storiche tra amico e nemico.

L’orizzonte della storia e della lotta col male che si gioca in essa siriconferma come uno degli orizzonti fondamentali sul cui sfondoSchmitt pensa il politico. Anche il tema dell’«ordine» e del rapporto traspirituale e materiale viene pensato sullo sfondo di un orizzonte carat-terizzato dal rapporto tra storia ed escatologia, più che dal rapporto tra«naturale» e «soprannaturale». D’altra parte è questo l’orizzonte teolo-gicamente dominante nella Germania del suo tempo, anche nel mondocattolico, quando si discute di un impegno del cristiano nella storia.Significative, a questo proposito, all’interno della Jugendbewegung cat-tolica che si interroga sul da farsi negli ultimi anni della Repubblica diWeimar, sono ad esempio le posizioni di Albert Mirgeler e RobertGrosche. La stessa riflessione che sottostà alla ripresa teologica deltema del Reich si nutre del riferimento alla coppia storia-escatologia.Non è un caso che la critica di Erik Peterson alla teologia politica nelsuo Monoteismo ponesse al centro, oltre la dottrina trinitaria, proprio laconcezione escatologica di Agostino.

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53 Cfr. Hans Freyer, Positionen und Begriffe, in «Deutsche Rechtswissenschaft» 5 (1940), p.266: «L’integro non è il primitivo, né tanto meno il semplice; oggettivamente considerato è ciò cheha in sé sostanza storica, e soggettivamente considerato è ciò fa sorgere da sorgenti naturali laforza morale di affermare questa sostanza nella realtà. Ma per questo esso deve essere anche moltoconsapevole, molto energico e duro anche nell’intelletto, per poter agire da dominatore e ordina-tore».

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Si tenga presente che il tema del Katéchon ha in Schmitt un nessofondamentale con il tema del Reich e che questo tema è al centro delleriflessioni teologiche e filosofiche alla fine degli anni Venti e inizioanni Trenta come concetto cardine attorno a cui ruota l’incontro tra cat-tolicesimo e nazionalsocialismo mediato dalla teologia del Reich dimedievisti come Albert Mirgeler o Robert Grosche. Costoro ripensanoil grande tema dell’«impegno del cristiano nella storia» non più sullabase della coppia concettuale natura-sovranatura dei tomisti e neotomi-sti, ma sulla base della coppia concettuale storia-escatologia. WernerBecker, allievo di Schmitt e assistente di Guardini, è al centro di que-sto interessantissimo dibattito teologico.

Nell’opera di Carl Schmitt la riflessione sulla teologia e filosofiadella storia riprende con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e conla ripresa della riflessione sulle questioni internazionali. In questa fasesi inquadra il tentativo di superare la crisi dello Jus Publicum Euro-paeum, caratterizzato dall’equilibrio tra i moderni Stati europei, in di-rezione di un ordinamento pluralista formato da «grandi spazi», ossia dagrandezze geo-politiche dotate di sufficiente omogeneità interna e gui-date al loro interno da una potenza egemone. È in questo contesto cheSchmitt riprende il concetto di Reich come superamento della formamoderna dello Staat ed è sempre in questo contesto che si collocano gliscritti degli anni ’40 e ’50 in cui compare il concetto di Katéchon.

3. Significato e funzione del Katéchon nel pensiero di Schmitt

Se ora, sulla base di questo più ampio orizzonte teorico, torniamoad esaminare i riferimenti alla figura del Katéchon presenti negli scrit-ti di Schmitt possiamo cogliere alcuni elementi significativi sui duepiani, come si è detto, della filosofia e teologia della storia, da un lato,e dall’altro, sul piano delle relazioni internazionali.

Sul primo piano possiamo anzitutto rilevare come l’interpretazioneche Schmitt dà del Katéchon non sia univoca. Da un lato, essa è certa-mente legata alla tradizione patristica e medievale che individua in unaistituzione politica, ossia nell’Impero, prima romano e poi medievale,la «forza che trattiene», dall’altro lato, essa ritiene che analoga funzio-ne possa essere svolta anche da figure di singole personalità politiche o

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intellettuali. Con ciò si mantiene il duplice uso (al neutro e al maschi-le) del termine Katéchon nel testo paolino in cui si parla di «colui chetrattiene» e di «ciò che trattiene».

In secondo luogo: laddove Schmitt riferisce la funzione di Katé-chon a una istituzione politica, questa è prevalentemente individuatanell’istituzione imperiale: inizialmente nell’Impero Romano, poi nel-l’Impero Bizantino e nel Sacro Romano Impero Germanico, eredi del-l’Impero romano. In un altro caso è la Chiesa romana a svolgere talefunzione, ma anch’essa, come sappiamo, è considerata da Schmitterede del diritto romano e connessa in modo particolare all’idea delSacro Romano Impero Germanico. Laddove si indicano singole poten-ze (come l’Inghilterra o gli Stati Uniti), queste vengono evocate inquanto attori sulla scena internazionale, più che in quanto istituzionipolitiche. Lo Stato moderno, in quanto istituzione politica che perSchmitt incarna l’ordine politico per eccellenza, ossia quello creatodalla decisione sovrana contro il disordine delle guerre civili, non è maiposto in relazione esplicita con la figura del Katéchon. Non si può quin-di affermare che nel pensiero di Schmitt il concetto di Katéchon svol-ga la funzione di fornire un fondamento teologico allo Stato (che inSchmitt, come è noto, è «concetto storico» e non eterno, relativo a quel-la forma di unità politica emersa dalla dissoluzione della res publicachristiana medievale e caratterizzante l’ordine politico moderno finoalla sua crisi manifestatasi tra i secoli XIX e XX)54. Ciò sembra stabilireun parallelo tra la forma dell’istituzione politica e la temporalità domi-nante. L’epoca in cui l’istituzione politica si pensa come Katéchon èl’epoca medievale in quanto epoca costitutivamente aperta all’escato-logia. La forma corrispondente a questa temporalità aperta all’escato-logia che viene è il Reich, ossia il regnum, figura dinamica che riman-da analogicamente al «regno che viene». In questo orizzonte il titolaredel potere politico può pensarsi come Katéchon, figura che al tempostesso trattiene il «mistero dell’anomia» e annuncia la venuta del regnofinale e gli dà spazio nel mondo. Al contrario l’epoca della statualitàmoderna è l’epoca della temporalità che neutralizza l’irruzione dell’e-scatologia nella storia, che blocca il tempo attraverso la macchina dello

Tra filosofia della storia e relazioni internazionali 255

54 Di questa opinione, che qui si è confutata, è Giorgio Agamben nel suo saggio Il tempo cheresta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

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Stato, figura statica che mette in salvo dalla corruzione del tempo unostatus e disloca il regno finale al di fuori della storia. In questo oriz-zonte il potere politico non viene messo in connessione con la figuradel Katéchon. Quest’ultimo rientra sulla scena nel momento della crisidella statualità. Quando la prospettiva escatologica torna a fare irruzio-ne nella storia.

Questa irruzione dell’escatologia nella storia produce due atteggia-menti opposti: da un lato la «paralisi» storica ossia l’inazione, la con-danna di ogni azione storica in quanto impura e inutile, dall’altro lasacralizzazione della storia stessa, come se il semplice divenire storico,concepito come progressivo, potesse da sé portare l’umanità alla sal-vezza. È questa la prospettiva della filosofia della storia che gioca,secondo Schmitt, dalla prima metà dell’800 in avanti il ruolo di nuovateologia politica55, ma il suo esito è drammatico perché la sua logica èuna logica di annientamento: ciò che appartiene al passato è destinatoalla fine e dunque non ha valore, mentre ciò che si dichiara dalla partedel futuro pretende per sé valore assoluto. La filosofia della storiadiventa così la creatrice di potenze mondane assolute.

La figura del Katéchon, in quanto «colui che trattiene e ritarda» è ilsimbolo dell’opposizione ad ogni filosofia della storia del progressoassoluto: il domani storico che ci sta davanti non è necessariamente ilregno della felicità ma può essere anche il regno dell’Anticristo. Ilparadiso terreno che la filosofia della storia annuncia è in realtà la nega-zione di ogni trascendenza e dunque coincide con il regno dell’Anti-cristo, che non a caso non si presenta con caratteri drammatici e pau-rosi, ma invece accattivanti. Il Katéchon ritorna a rivestire un caratteredi figura teologico-politica nell’età dell’immanenza, dopo la fine del-l’epoca moderna e svolge il suo ruolo di opposizione all’avvento delparadiso artificiale e di riaffermazione di una trascendenza che non èestranea alla storia, ma si incarna in essa. Per questo nella tensione trastoria ed escatologia, per evitare o la radicale immanentizzazione o la

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55 Cfr. Carl Schmitt, Donoso Cortés in gesamteuropäischer Interpretation, Greven, Köln1950, tr. it. di Petra Dal Santo, Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea, in CarlSchmitt, Donoso Cortés, Adelphi, Milano 1996, pp. 83-115. Su questo si vedano le analisi di K.Löwith, Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologische Voraussetzungen der Geschichts-philosophie, Stuttgart 1953; tr. it. Significato e fine della storia, Milano 1963, e di E. Voegelin,The new science of politics, Chicago 1952; tr. it. La nuova scienza politica, Torino 1968.

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paralisi, è necessario, come ripete più volte Schmitt trovare un «ponte».Sembra qui riecheggiare la necessità della «mediazione» su cui loSchmitt degli scritti giovanili si è più volte interrogato56. Questo pontenon può essere rappresentato dal «diritto naturale», come Schmitt diceesplicitamente criticando Donoso Cortés, per la sua natura statica e peril suo radicamento in un quadro metafisico che risulta inattingibile daparte della ragione contemporanea. A questo proposito non si può nonpensare ad una implicita critica nei confronti di quanti negli anni imme-diatamente successivi alla Seconda guerra mondiale ritenevano possi-bile stabilire un nuovo «ponte» tra teologia cristiana e storia attraversoil richiamo al diritto naturale.

La centralità del secondo piano di rilevanza del Katéchon, quello,come si è detto, delle relazioni internazionali, pare anzitutto conferma-ta dal fatto che la funzione politica prevalente del Katéchon pare voltaa trattenere più che un nemico interno, un nemico esterno all’unitàpolitica. Laddove si allude a un processo disgregativo interno a cui ilKatéchon si oppone, questo pare avere carattere prevalentemente socia-le o culturale più che direttamente politico.

Anche in questo caso la periodizzazione non è priva di rilievo. Lafigura del Katéchon appare legata a epoche diverse da quella della sta-tualità, ossia dello Jus Publicum Europaeum. Come si legge in DerNomos der Erde essa è tipica dell’ordine medievale e viene poi riesu-mata da Schmitt quando questi vuole pensare un nuovo ordine interna-zionale dopo la crisi della statualità moderna. In questo orizzonte essasembra incarnare la figura dell’oppositore all’universalismo monista,teologicamente interpretabile come cifra del regno dell’Anticristo, l’u-nico capace di ridurre la terra ad un unico regno, e dunque del difenso-re del pluralismo. Questo pluralismo non può essere rappresentato daldualismo Est-Ovest, che per Schmitt è un falso dualismo, in quantoentrambe le potenze – Stati Uniti d’America e Russia Sovietica – sonoespressione di un’unica filosofia della storia, quella appunto del pro-gresso inarrestabile e disumanizzante della tecnica. In questa prospetti-va l’unico soggetto che può svolgere questa funzione di difensore delpluralismo e dunque di Katéchon è l’Europa, in quanto custode della

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56 Mi permetto per questo di rimandare ai primi due capitoli del mio lavoro Trascendenza epotere, cit.

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tradizione della scienza giuridica che è «ponte» tra la teologia e la tec-nica e strumento di messa in forma di un ordine costituito da una plu-ralità di soggetti che si riconoscono pari dignità sovrana.

Ci si potrebbe infine domandare, perché i riferimenti schmittianialla figura del Katéchon si diradino nel periodo successivo agli anni’50, benché Carl Schmitt continui ad occuparsi di riflessioni teologichee internazionaliste.

Il fatto dovrebbe suonare piuttosto strano se si ritiene di dover attri-buire alla teoria del Katéchon un ruolo costitutivo nella concezione diSchmitt. Può sembrare strano che in anni in cui la riflessione teologicadi Schmitt si fa sostanziosa, non vi siano accenni al tema, ma solo rife-rimenti retrospettivi, esplicativi di ciò che egli intendeva dire. Perché?Ovviamente è difficile rispondere a questa domanda. Si può tuttaviaosservare che le riflessioni teologico-politiche di Schmitt negli anni ’60si inscrivano ormai nell’orizzonte della cristologia politica (Schmittavrebbe voluto scrivere una Politische Theologie III: cfr. lettera a Duso):esempi sono la nota del 1963 sul cristallo di Hobbes con l’interrogati-vo sulla sostituibilità della verità «Jesus is the Christ», lo scritto Dievollendete Reformation e, infine, la Teologia politica II che rappresen-ta il culmine di quelle riflessioni e alla luce delle quali si potrebbe ipo-tizzare che la cristologia politica sostituisca la katechontologia.

Se ciò fosse vero, potremmo allora schematizzare come segue losviluppo del pensiero schmittiano: una prima fase della teologia politi-ca senza Katéchon ma con la Chiesa (Sichtbarkeit der Kirche, 1917;Römischer Katholizismus, 1923) e con la sovranità (teologico-politica)dello Stato (Politische Theologie I, 1922 e 1934); una seconda fase del-la teologia politica come escatologia politica con il Katéchon; infineuna terza fase della teologia politica come cristologia politica cheinclude e supera le due interpretazioni del Katéchon, quella meramen-te politica di Eusebio e quella meramente teologica di Peterson. La cri-stologia politica, appunto, come compimento della teologia politica.

258 Michele Nicoletti

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‘Abdallāh Azzām 93‘Abdallāh Bashīr M. 91 Abû al-Walād al-Ansārī 92n. Adamo 50, 211n.Adriano P.E. 77Adso di Mortier-en-Der (Adso Der-

vensis) 105, 105n., 106n., 116 Aertsen J.A. 98n.Agamben G. 6n., 255n. Aggeo, profeta 152n. Agha Khan Karīm 90Agostino (Augustinus Aurelius), v.

di Ippona, s. 42, 42n., 103,103n., 104n., 105, 107, 110,111, 113, 116, 199n., 245, 253

Ahmad M. 88, 90Aimone di Auxerre (Haimo Altis-

siodorensis) 105, 105n. Albanese L. 229Alessandro Magno 83Alessio M. 230Alfeld 124Allegra G. 15n.al-Nāwawī 86n.al-Qahtānī M. 91Althaus P. 19, 19n.Antioco Epifane 7Aqiva, Rabbì 77Arici F. 6n., 131-153 Armogathe J.-R. 132, 132n., 135,

135n., 136n., 137, 137n., 150n. Ataturk Mustafá K. 91

Badilita C. 6n., 64n., 170n. Barbuto G.M. 132n., 150n. Barelwē S.A. 88Bauer R. 136n. Bauer Y. 166n. Bausani A. 82Bazzicalupo V. 229, 240n., 245n.Becker M. 27n.Becker W. 254Bellarmino R., card., s. 136Bendemann v. R. 180n., 191n. Benson R.H. 11, 17, 170n., 248n.Bernheim E. 20, 21n.Bertholet A. 34n.Bethge E. 20n.Bettiolo P. 196n.Betz O. 30n.Bin Laden 91, 91n. Blass F. 43n., 44n.Blumenberg H. 199n.Boccaccini G. 69n.Böcher O. 32n., 34n.Bolaffi A. 235n. Böld W. 25, 25n., 170n. Bonhoeffer D. 20, 20n.Bonhomme M. 147n., 153n. Bori P.C. 11n.Bornemann F.W.L. 29n., 30n., 32n.Bornstien D. 134n. Boulluec De A.186n. Bousset W. 38, 68, 70n., 73, 75, 76,

76n., 125n., 172n., 173n.

Indice dei nomi 259

INDICE DEI NOMI

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Brigida (Brigitta) di Svezia, s. 151n. Brock S. 211n.Buber M. 71, 74, 74n., 75, 75n., 157,

157n., 158, 158n., 159, 159n.Burr D. 96n., 116n. Buytendijk J.J. 213Buzzi F. 131n.

Cacciari M. 6n., 116n. Calmet A. 17n.Calvino G. 241Campanini M. 6n., 81-94Campi A. 235n. Cancik H. 6, 232, 233n. Cantamessa L. 134n. Cantelli Berarducci S. 105n. Cantilena M. 41n.Cantimori D. 231Canto-Sperber M. 133n. Capitani O. 96n.Caracciolo A. 16n., 230, 243n. Caravale G. 146n., 152n. Carlo Magno, imperatore 236Carlo V, imperatore 121n. Caronello G. 8n., 169-214Carranza de Miranda B., arcivesco-

vo 146Cartesio (Descartes) R. 231Caspari C.P. 247n. Castelli D. 78, 78n. Castelli E. 144n.Castrucci E. 233, 241n. Catarino A. (Ambrosius Catharinus,

al secolo Lancellotto de’ Politi)6n., 9n., 121, 121n., 122, 146,146n., 147, 147n., 148, 149, 150

Caterina (Benincasa) da Siena, s.151, 151n., 152, 152n., 153

Cebulj C. 27n.

Churchill W. 237, 238Cicerone M.T. (Cicero) 133, 133n.,

145, 145n.Cimmino L. 243n. Clémenceau P. 238Cohen H. 157, 157n. Collins J.J. 70Commodiano 55, 55n.Conci A. 20n.Congar Y.M.-J. 97, 97n., 136n. Cook D. 90n., 91n., 93, 93n. Corrodi H. 19Corsani B. 126n. Corsi D. 134n. Cova G.D. 156n.Cramer I.A. 57n. Cremascoli G. 105n. Cueto R. 134n. Cullmann O. 14n., 26

Dahan G. 101n.Dal Santo P. 234n., 256n.Dall’Oglio P. 83, 83n.Danaeus (Daneau) L. 129n. Daniele, profeta 46n., 51, 51n., 60,

61n., 62, 64, 69, 69n., 120n.,126, 127

Daniélou J. 144n., 211n.Däubler T. 18n., 220, 227, 229, 245,

245n., 249 David, ben 76, 79Davide (David) 76, 78, 79, 107De Martinis A. 231De Soto D. 146De Vio T. detto il Gaetano (Caeta-

no/Caietano/ Cajetan), card.6n., 124, 125, 136, 136n., 137,137n., 138, 139, 140, 140n.,141, 142, 143, 148, 150, 153

260 Indice dei nomi

13 Indice dei nomi 20-11-2009 16:04 Pagina 260

Debrunner A. 43n., 44n.Delumeau J. 123n. Dempf A. 184, 214Dethloff K. 6n., 155-167Dettloff W. 147n. Dhikrihi’l-Salām ‘ala H. 90Dhū’l-Qarnayn (il Bicorne) 83Dibelius M. 26, 26n.Diels R. 226, 227, 232Dobschütz v. E. 26n., 31n.Dolcini C. 116n. Dombart B. 103n. Dondaine H.-F.Donoso Cortés J. 15, 15n., 237, 256n.,

257Dostoevskij F. 10, 183, 250Dufeil M.-M. 100, 100n. Durand U. 97n. Duso G. 259Duval A. 146n.

Echard J. 136n., 146n.Efraim (Bibbia) 79Efrem (Pseudo) 18, 247Egidio Romano 122Elia, profeta 79, 107Emmerson R.K. 96n., 126n. Enrico IV, re di Francia10Epifanio di Salamina 46Epimeteo (mitologia) 190n., 192n.,

240n.Erdsmann C.-M. 34n.Erlemann K. 34n. Erode il Grande 71Eschweiler K. 234Esichio di Gerusalemme 113Eusebio di Cesarea 243, 259Ezechiele 69, 69n., 71, 72 Ezra (Esdra) 5n., 36, 36n., 37, 38, 68

Facchini C. 78n.Faccioli G. 11n.Facioni S. 166n. Fackenheim E.L. 163, 164, 164n.,

165 Faldi L. 146n. Federico II, imperatore 10, 112Federico (II) il Saggio, principe

elettore 124Ferrari A. 183n. Ferrario F. 121n. Fierro M. 88, 88n. Filiu J.P. 90n.Filoramo G. 196n. Fiorentino F. 137n. Florovskij G. 183n. Ford D. 32n.Foster Dulles J. 237Fragnito G. 135n.Francesco Giuseppe, imperatore 235Frede H.J. 103n. Freyer H. 242, 253n. Fröhlich K. 26n.Furnish T. 91n.

Gabriele, arcangelo 81Galli C. 229, 231, 233n., 250n.Gandhi M. 11n.Gaon S. 76Garcia-Arenal M. 88n.Garfagnini G.C. 152n. Gentz F., von 220, 222Gerardo da Borgo San Donnino 98,

114Geremia, profeta 162Gesù (Cristo) 6, 7, 8n., 9n., 10,

11n., 12, 16, 17, 18, 19n., 28,29n., 30, 32, 41, 42, 43, 45, 47,48, 49, 50, 52, 59, 60, 62, 63,

Indice dei nomi 261

13 Indice dei nomi 20-11-2009 16:04 Pagina 261

64, 84, 85, 87, 92, 103, 119,120, 120n., 124, 126, 127, 128,129, 130, 135, 137, 141, 141n.,144, 145, 147, 148, 148n.,169n., 172, 174, 177, 178, 182,182n., 184, 184n., 187, 188,191, 192, 194, 196n., 197, 198,198n., 199, 200, 201, 202, 203,204, 205, 206, 207, 208, 240n.,245, 248, 250

Ghezzi P. 20n.Ghia F. 39, 167, 228Gianotto C. 6, 57-65Giblin C.H. 26n., 45n. Gierke v. O. 222Gige, re di Lidia 72Ginzberg L. 79Gioacchino da Fiore 95, 95n., 96n.,

98, 99, 99n., 100, 114, 114n., 115n.Giolito di Ferrarij G. 146n. Giovanni Crisostomo, s. 6n., 57,

57n., 59, 60, 61, 64 Giovanni da Fano (Iohannes de

Fenario) 147n. Giovanni, (il Battista), s. 138n. Giovanni, (evangelista), s. 6, 7, 8,

37, 38n., 41, 51, 127, 184n., 198Girolamo, (Gerolamo/Hieronymus)

di Stridone, s. 104n. Giuda 78, 127Giuliani M. 6n., 67-79Giulio Cesare 71, 112, 112n. Giuseppe 76, 77, 78, 79Giustino di Neapoli, s. 50, 50n., 51,

51n., 52Goebbels M. 226Goethe W. 19Goldbacher A. 113n. Golinelli Berto R. 151n.

Goodman M. 68n. Gorce M.-M. 146n., 147n.Gregorio di Elvira, vescovo 16Grewe W. 169n. Grillparzer F. 236Groh D. 215n.Groh R. 215n., 232 Grosche R. 253, 254Großheutschi F. 55n., 233n., 239n.Gruen E.S. 70Gründer K. 234n. Guardini R. 10n., 254Guglielmo di Sant’Amore (Guilel-

mus de Sancto Amore) 98, 98n.,99, 100, 100n., 111, 115, 115n.,116

Guillard C. 140n., 152n. Gunkel H. 36n.

Haecker T. 178n., 181, 181n.Halberstadt H., von 237 Halbronn J. 123n. Halewi Y. 156, 156n. Hallbäck G. 32n.Harnack A. von 46n., 183Hasan ‘alà Dhikrihi’l-Salām 90Hazm Ibn 81Hegel G.W.F. 197, 235, 241, 242,

242n., 243, 244 Heinzmann R. 147n. Heller H. 218, 230Hengel M. 232, 233n. Herzl T. 164, 165Hilberg I. 104n. Hitler A. 20, 20n., 163, 164, 165n. Hobbes T. 223, 231, 240, 258Hofmeister A. 106n. Hölderlin F. 10n.Holland G.S. 33n.

262 Indice dei nomi

13 Indice dei nomi 20-11-2009 16:04 Pagina 262

Hölscher L. 171n., 172n. Horbury W. 68, 68n., 70, 70n., 72,

72n. Horn F.W. 26n., 36n.Horst U. 147n.

Ibn Azn 81Ibn Kathīr 92Ibn Khaldūn 86, 87, 88, 88n., 94Ibn Tūmart 88Ildegarda di Bingen 95, 106n. Innocenzo IV, papa 112Ippolito di Roma, s. 5n., 46, 46n.,

51, 51n., 52n., 53Ireneo di Lione, s. 5n., 7, 41, 42,

44n., 47, 48, 48n., 49, 50, 50n.,51

Isacco 162 Isaia, profeta 68, 72, 105n.Isidoro di Siviglia, (Isidorus), s. 133Israel di Kosnitz 74

Ja’aqov Izkaq di Lublino 74Jesse (Bibbia) 68Jones H.S. 43n.Joos A. 11n.Joseph, ben 76Jung-Stilling J.H. 19, 19n.

Kalb A. 103n. Kant I. 9, 9n., 10n., 155, 156, 160,

161n., 244 Kaplan M.M. 158, 158n., 159 Kautzsch E. 36n.Kepel G. 93n. Kesten H. 12n.Khomeini 90Kierkegaard S. 175, 180, 190, 195n.,

249

Klauck H.-J. 38n.Klausner J. 68, 69, 71, 71n., 72,

72n., 77, 77n., 78n. Kluxen W. 34n.Kokhbà Bar 69, 77Koselleck R. 202n.

Lagerlöf S. 11, 170s. Lambertini R. 7n., 95-118 Laras G. 78n. Lattanzio L.C.F. 54, 55n. Laurent M.H. 136n. Leonardi C. 105n.Leonardi L. 135n.Leone X (G. de’ Medici), papa 195Lerner R.E. 96n., 99n.Lévinas E. 166, 166n. Lewin A. 70Lichtenberger H.J. 123n., 233n. Liddel H.G. 43n.Lieb F. 183n. Lindermann A. 27n.Link V. 124Linn P. 233, 237, 238n. Lobrichon G. 101n. Loisy A. 179Löser W. 169n., 184n., 204n.Löwith K. 240, 257n.Luca, evangelista, s. 180n., 181n., 182,

186n., 189n., 191, 191n., 196,198, 198n., 199n., 200n., 201n.,203n., 212, 212n., 213n., 214n.

Lucifero 139, 139n., 149, 149n.,232

Lutero M. 9, 9n., 119, 120, 120n.,121, 121n., 122, 122n., 123,123n., 124n., 125, 126, 126n.,128, 128n., 129, 129n., 136n.,241, 246

Indice dei nomi 263

13 Indice dei nomi 20-11-2009 16:04 Pagina 263

Lutz B. 233n.

Machiavelli N. (Macchiavelli) 218,221, 230

Madelung W. 88n.Maimonide M. 78n.Mainoldi C. 240n. Malebranche N. 220Malherbe A.J. 45n.Malvenda T. (Thoma Maluenda)

129n., 132, 132n. Mandonnet P. 136n. Maometto (Muhammad) 81, 82, 84,

93, 141, 141n. Maraviglia M. 233n., 235n., 239n.,

240n. Marcione 46, 46n., 48, 49, 50, 248Maria, Vergine 240n. Maritain J. 210, 210n., 211n.Marrassini P. 36n.Marténe E. 97n.Marx K. 197 Masaryk T. 235, 238, 238n. Masson C. 129n. Matteo, evangelista, s. 16, 108Maybaum I. 161, 161n., 162, 162n.,

163 Mazzolini S., detto Prierias (Silve-

strus Prierias) 121, 122, 122n. McKeon P.R. 98, 98n. McGinn B. 6n., 42n., 96n. Medem v. E., Freiherr 25n.Mendel di Rymanow M. 74Menken M.J.J. 29n.Mercadante F. 240n. Messia ben David 73Messia ben Joseph 73Metodio (Pseudo) 76, 106n. Metternich K., von 220

Metzger P. 5n., 25-39, 41n., 157n.,170n., 173n.

Meuter G. 6n., 233n.Michele, arcangelo 26, 26n. Miegge G. 121, 121n., 123n. Miegge M. 9n., 120n. Miethke J. 96n., 114n. Mirgeler A. 253, 254Moezzi A.A. 89n.Möhring H. 106n. Monaci Castagno A. 186n.Monteil V. 87n.Morerod C. 136n.Mortier A. 146n.Mosé 92Motschenbacher A. 233n. Mozzarelli C. 134n. Müller P.-G. 26n., 29n.Müller U.B. 38n.Müntzer T. 120n.

Nabucodonosor 162Napoleone Bonaparte, 240 Neil W. 129n. Nerone (Nero) L.D., imperatore 37,

38n., 54, 60, 70, 70n., 104,106n., 107, 108, 110

Newton I. 120n. Nicholl C.R. 26, 26n.Nichtweiß B. 169n., 171n., 172n.,

173n., 175n., 176n., 177n., 178n.,184n., 185n., 186n., 187n., 193n.,195n., 209n., 213n., 214, 214n.

Nicola di Lisieux 100, 111Nicola Oresme 100Nicoletti M. 5-21, 169n., 233-259 Nienhaus S. 18n.Nietzsche F. 10n., 235, 242, 243Noack P. 230

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13 Indice dei nomi 20-11-2009 16:04 Pagina 264

Ochino B. 146Oepke A. 30n., 31Öhler M. 27n.Olivi P. di Giovanni 96n., 116n. Orelli v. C. 34n.Orlandi G. 105n. Orwell G. 16Osanna Andreasi da Mantova, beata

151, 151n. Ottaviano C.G.C., imperatore 71Ottone di Frisinga (Otto Frisingen-

sis) 106, 106n.Ottone il Grande, imperatore 242 Overbeck F. 171n., 180, 180n.

Paleologue T. 233n. Pandolfi A. 88n.Pandora 240n. Paolo (Saulo), s. 5, 14n., 26n., 27n.,

28n., 29, 29n., 45, 45n., 54,57n., 58, 59, 62, 63, 64, 70, 81,97, 103, 104, 111, 119, 127,129n., 137, 137n., 138, 140n.,141, 142, 142n., 143, 143n.,144, 147, 147n., 170, 170n.,171n., 173n., 190, 190n., 238,241, 242, 243

Pascal B. 246Pasquino P. 229Patai R. 72n., 73, 73n. Peerbolte Lietaert L.J. 26, 26n., 70Péguy C. 237Pelagio 246Pellegrin P. 133n. Pellegrini L. 95n. Peterson E. 8, 8n., 16n., 18, 18n., 169,

169n., 170, 170n., 171n., 172,172n., 173, 173n., 174, 174n., 175,175n., 176, 176n., 177, 177n.,178,

178n., 179, 179n., 180, 181, 181n.,182, 182n., 183, 183n., 184, 184n.,185, 185n., 186, 186n., 187, 187n.,188n., 189, 189n., 190, 190n.. 191,191n., 192, 192n., 193, 193n., 195,195n., 196n., 197, 197n., 198,198n., 199n., 200, 200n., 202,202n., 203, 203n., 204, 204n., 206,208, 209n., 210, 210n., 211, 211n.,212, 212n., 213, 213n., 214, 214n.,234, 243, 253, 259

Pickavé M. 98n. Pieper J. 7n., 17n., 19n. Pietro Lombardo (Petrus Lombar-

dus) 102n., 106, 106n. Pietro, apostolo, s. 127, 136n.Pilato, Ponzio 191n. Pinchard B. 136n.Piovano A. 11n. Pirillo N. 9n.Platone 34n., 211n.Plessner H. 213Pompeo M.S. 71Popkes E.E. 26, 26n.Porro A. 41n.Potestà G.L. 6n., 41, 41n., 95n. Powell C.E. 32n.Preston P. 146n. Preuss H. 125n., 222, 230 Prodi P. 152n. Prometeo (mitologia) 240n.

Quaritsch H. 234n. Quartino G. 121n.Quétif J. 136n., 146n. Qutb S. 93, 94n.

Rashīd Ridà 94Rathenau W. 248, 250

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Rauh H.-D. 95, 95n., 96, 96n., 106n.Ravitzky A. 74n. Reginaldo da Piperno 109Reininck G.J. 106n. Reizenstein A. 172n. Ricca P. 124n., 125, 125n. Ricci S. 136n. Riconda G. 10n., 11n.Rigaux B. 14n., 57n., 70n. Rizzi M. 5n., 6n., 41-55Rodolfo (II) d’Asburgo, imperatore

236Roh T. 29n.Rohkkrämer M.Roigny de J. 140n. Romolo (Romulus) 71, 75Ronchi De Michelis L. 9n., 119-130Rosenzweig F. 92, 155, 155n., 156,

156n., 157, 157n., 158, 159, 163,165

Rosselli A. 229, 230Rossi P. 134n. Roth J. 12, 12n., 13Ruggieri G. 96n. Ruperto di Deutz 95Rusch A. 102n.Rusconi R. 96n., 134n.

Salzani S. 91n.Sandri A. 55n. Saritoprak Z. 82n., 86, 86n. Sartori L. 11n.Satana 31n., 49, 76, 128, 130, 173n.,

174n., 184n., 187n., 188n., 196,197n., 233n.

Savigni R. 105n.Savigny F.C., von 243Savonarola G. 146n., 152, 152n. Sbaffoni F. 7n.

Scarabel A. 86n.Scaraffia L. 134n. Scaramuzzi D. 146n. Schach, Rabbi 159Schäfer P. 233n.Scheler M. 213, 250Schiera P. 229, 231, 251n. Schmaus M. 184n. Schmeller T. 27n.Schmidt M. 211n. Schmitt C. 6, 6n.,14n., 16n., 17, 17n.,

18n., 25, 25n., 53, 53n., 55n.,112, 116n., 170n., 178n., 191n.,192n., 196n., 215, 215n., 216,217, 218, 219, 220, 224, 225,226, 227, 228, 229, 230, 232,233, 233n., 234, 234n., 235,235n., 236, 236n., 238, 239, 241,241n., 242, 242n., 243n., 244,244n., 245, 245n., 246, 246n.,247, 247n., 248, 248n., 249,250n., 251, 251n., 252, 253, 254,255, 256, 256n., 257, 258

Scholtissek K. 177n. Schuller W. 6n., 14n., 215-228,

233n., 242n., 244n. Schweizer J. 121n., 146n. Scott R. 43n.Serafini M.R. 122n. Severiano di Gabala 6n., 57, 58, 59,

60, 61Severing C. 232Shukrī Mustafà 93Signorelli L. 11Silvestri F. detto il Ferrarese 151,

153, 153n. Simon Mago (Bibbia) 205n.Smalley B. 102n. Sofri G. 11n.

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Sohm R. 239Solla G. 231 Solov’ëv (Soloviov/Solovjev W.)

11, 11n., 12, 170n., 179, 182,182n., 183n.

Spengler O. 250Staab K. 57n.Stahl-Jolson F.J. 218Stein E. 20n. Stowasser B. 81n.Stöwe E. 136n. Strauß B. 157n. Strecker G. 26n.Strindberg A. 195, 195n. Strobel A. 25, 26, 26n.Stuhlmacher P. 26, 26n.Suarez F. 136, 136n.

Tacito (Tacitus) C. 32n.Taurisano I. 136n. Teodoreto di Cirro 6n., 57, 57n., 58,

61, 61n., 62, 63, 64Teodoro di Mopsuestia 57, 58, 62Tertulliano Q.S.F. 5n., 14, 14n., 41,

46, 46n., 48, 49. 49n., 52, 53,53n., 54, 112, 235

Ticonio 95, 95n. Tocqueville A., de 240 Todescan F. 131n., 134n. Tolstoj L. 11, 11n.Tommaso d’Aquino, (Thomas de

Aquino), s. 97, 108, 109, 109n.,110, 114, 115n., 117, 122, 131,133, 133n., 134n., 136, 137,137n., 145n., 239n.

Torquemada de J., card. 151n.,152n.

Torrell J.P. 109, 109n. Toynbee A.J. 238

Traver A. 98n., 99n., 115n. Trilling W. 14n., 29n., 32n., 34n., 36Troeltsch E. 250

Ugo di San Vittore (Hugos de Sanc-to Victore) 106, 106n.

Uribarri G. 172n.

Valafrido (Walafried), detto Strabo-ne 102n.

Valgrisi V. 147n. Van der Leew G. 213, 213n.Vannini M. 120n. Vasoli C. 123n. Vauchez A. 134n.Veca S. 15n.Verhelst D. 105n. Villani N. 136n. Vittorino di Petovio (Pettau) 54,

54n. Voegelin E. 257n. Vogels H.J. 106n. Volpi F. 231

Walsh K. 99n.Wansbrough J. 84n.Weber M. 250Weber R. 101n.Weidemann H.-U. 170n. Weiß (Weiss) K. 190, 190n., 192n.,

240, 240n.Welkenhuysen A.Wenzler L. 11n.Wicks J. 136n. Wolter M. 36n.Wood D. 99n.

Zarri G. 134n., 151n., 152n.Zawāhirī 93

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Ziegler T. 250Zier M. 102n. Zucal S. 10n., 11n., 20n.Zwi S. 165

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14 nella stessa collana 20-11-2009 16:05 Pagina 271

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