Il realismo politico di Hans Jonas e Vittorio Hösle di fronte alla crisi ambientale

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1 Il realismo politico di Hans Jonas e Vittorio Hösle di fronte alla crisi ambientale Il titolo di questo corso è “Filosofie della guerra e della pace”: la storia e il futuro della democrazia, minata da totalitarismo e violenza, costituiscono il perno centrale su cui esso ruota. Nel dettaglio, uno sguardo particolare è rivolto all’argomento della filosofia politica delle relazioni internazionali. In questa relazione tratterò prevalentemente temi inerenti al rapporto tra uomo e natura, attraverso un confronto critico tra un paio di testi che rappresentano oggi due classici di quella disciplina accademica che si può definire “filosofia dell’ambiente”. La comparazione metterà in luce le principali analogie e differenze che intercorrono fra le opere prese in esame, i loro punti di forza e quelli deboli. Ad ogni modo, esse non esauriscono affatto le posizioni teoriche assunte dai pensatori in riferimento ai problemi ecologici che, specialmente a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, hanno interessato sempre di più le riflessioni e i dibattiti dei filosofi occidentali, dato l’allarmante aggravarsi della questione. Nella consapevolezza di tale limite, obiettivo del presente studio è mostrare perché un’analisi sulla condizione instabile della natura nell’epoca contemporanea corrisponde anche a una filosofia della guerra e della pace, incentrata sull’idea di democrazia, con un’attenzione rivolta alla politica delle relazioni internazionali. Jonas e Hösle

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Il realismo politico di Hans Jonas e Vittorio Hösle

di fronte alla crisi ambientale

Il titolo di questo corso è “Filosofie della guerra e della pace”: la storia e il futuro

della democrazia, minata da totalitarismo e violenza, costituiscono il perno centrale

su cui esso ruota. Nel dettaglio, uno sguardo particolare è rivolto all’argomento

della filosofia politica delle relazioni internazionali. In questa relazione tratterò

prevalentemente temi inerenti al rapporto tra uomo e natura, attraverso un confronto

critico tra un paio di testi che rappresentano oggi due classici di quella disciplina

accademica che si può definire “filosofia dell’ambiente”. La comparazione metterà

in luce le principali analogie e differenze che intercorrono fra le opere prese in

esame, i loro punti di forza e quelli deboli. Ad ogni modo, esse non esauriscono

affatto le posizioni teoriche assunte dai pensatori in riferimento ai problemi

ecologici che, specialmente a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, hanno

interessato sempre di più le riflessioni e i dibattiti dei filosofi occidentali, dato

l’allarmante aggravarsi della questione. Nella consapevolezza di tale limite,

obiettivo del presente studio è mostrare perché un’analisi sulla condizione instabile

della natura nell’epoca contemporanea corrisponde anche a una filosofia della

guerra e della pace, incentrata sull’idea di democrazia, con un’attenzione rivolta

alla politica delle relazioni internazionali.

Jonas e Hösle

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I libri esaminati sono Il principio responsabilità e Filosofia della crisi ecologica,

rispettivamente di Hans Jonas e Vittorio Hösle1. Il primo testo esce nel 1979 e

rappresenta davvero, come ricorda la dedica che Hösle offre a Jonas nel suo

volumetto, una pietra miliare senza la quale «non esisterebbe una filosofia pratica

e responsabile della crisi ecologica». Il secondo è uno scritto pubblicato nel 1991,

in un periodo in cui la questione ambientale è ormai diventata un problema di

primaria importanza, riconosciuto a livello scientifico. Insomma, se Jonas ha

svegliato le coscienze, Hösle ha tentato di indirizzarle in maniera maggiormente

pragmatica, all’insegna di quel concetto di responsabilità che funge da stella polare

per entrambi. Nonostante la disparità cronologica, che costituisce certamente il

principale fattore di diversità tra i due, è comunque possibile individuare una serie

di affinità rilevanti alla nostra ricerca.

La prima può essere rintracciata nella comune matrice teorica, vale a dire

Martin Heidegger (basti pensare alla nozione di Cura in Essere Tempo, ripresa da

Jonas nel suo saggio), specialmente quello della post Kehre, con il discorso sulla

storia della metafisica come oblio dell’essere e le meditazioni sulla tecnica,

sviluppate negli Holzwege (“L’epoca dell’immagine del mondo”, 1938, in Sentieri

interrotti) e ne La questione della tecnica (1953). Tuttavia, sia Jonas che Hösle

hanno oltrepassato il pensiero di Heidegger, approdando alla dimensione pratica

delle problematiche aperte dal “loro” maestro. Come annota Hösle, infatti, «la

filosofia della crisi ecologica ha, oltre a una componente teoretica, anche una

componente pratica: questo ampliamento di campo, attuato superando il pensiero

di Heidegger, è un merito duraturo di Hans Jonas, che vale ad assicuragli un posto

tra i grandi filosofi». Ma non è soltanto la sfera morale quella che interessa ai due

autori: «E’ inoltre significativo», prosegue Hösle, «che nella filosofia pratica della

crisi ecologica di Jonas vengano discusse problematiche che non riguardano solo

l’etica, ma anche la filosofia politica; infatti il problema ecologico non si può

1 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. di P. Rinaudo, a

cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1993; V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica. Etica e

politica per una nuova responsabilità collettiva, trad. it. di P. Scibelli, Einaudi, Torino, 1992

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risolvere con il solo ausilio di principî etici individuali; è inevitabile che le sue

conseguenze investano anche la filosofia politica 2».

La seconda convergenza riscontrabile riguarda la preoccupazione bioetica

per il probabile passaggio dal controllo della natura a quello sociale. Ambedue gli

studiosi intravedono il rischio insito nella manipolazione del comportamento degli

individui, come una conseguenza della possibilità tecnologica di intervenire

liberamente sul corpo delle persone – anch’esso in definitiva facente parte della

natura. Jonas, ad esempio, non nasconde i suoi timori dinnanzi al know-how

biomedico a disposizione dell’homo faber, fatto di droghe sintetiche che inibiscono

il cervello o stimolazioni elettriche sull’appartato nervoso3. Da parte sua Hösle,

identificando la tecnica moderna come una delle coordinate storico-spirituali a

monte della crisi ecologica, evidenzia il ruolo del “mito della fattibilità” nell’ideale

totalitario della creazione di un uomo nuovo. Secondo il professore, la volontà di

dominio della società, tipica del totalitarismo, è perciò un fenomeno

specificatamente moderno, derivante dalla trasposizione del principio scientifico

del ‘verum-factum’ sul terreno politico. Ciò sarebbe il risultato della «follia del

pensiero quantitativo e oggettivante4».

I diritti della natura e delle generazioni future possono essere il terzo

elemento unificante. Il punto di partenza di entrambi gli scritti è infatti la miopia

dell’attuale democrazia, incapace, a causa della sua scarsa lungimiranza, di

custodire la vita delle risorse naturali e la stessa sopravvivenza della specie umana.

Si impone pertanto la necessità di intervenire politicamente, onde evitare la

distruzione del pianeta Terra per mano del potere smisurato della tecnica oggigiorno

in possesso dell’uomo. Una soluzione in questo senso è imporre dei limiti all’agire

umano, riconoscendo il valore intrinseco del mondo organico in quanto dotato di

scopo, oppure semplicemente poiché sostrato fondamentale dell’esistenza

dell’umanità.

2 V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 9

3 H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., pp. 24-26

4 V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 63

4

«Il collasso ecologico del “pianeta azzurro” e la catastrofica situazione del

Terzo Mondo», ammonisce Hösle, sono «aspetti inscindibilmente collegati tra

loro5». Volgere lo sguardo e prestare ascolto ai “dannati della Terra” è allora il

quarto punto in comune che si trova leggendo le pagine dei due libri. La faccenda

dei paesi sotto sviluppati verte su due fronti: in primo luogo vi è la denuncia a

barbare strategie imperialiste di sfruttamento e prelevamento scriteriato di materie

prime, là dove la resistenza è minore se non assente del tutto, al fine di soddisfare i

bisogni (spesso assurdi) della Società del Benessere. A tale proposito, sempre Hösle

osserva causticamente che il rapporto tra Primo e Terzo Mondo si caratterizza per

lo più come un saccheggio che «si ammanta di una parvenza di legalità6». In

secondo luogo, però, vi è il pericolo che queste popolazioni sottomesse per secoli

si conformino nel breve o medio periodo allo standard consumistico dell’Occidente,

retto da un principio di crescita infinita, logicamente insostenibile per un sistema

finito come la Terra.

Ecco dunque il motivo per cui sia Jonas che Hösle auspicano la diffusione

tra le masse di virtù ascetiche, ossia di una morale improntata su austerità, rinunce

e sacrifici che, adottando le parole di Jonas, sarà «volontaria, se possibile, ottenuta

con la forza, se necessario.7» Occorre una sorta di trasvalutazione dei valori per il

filosofo di origini ebraiche, allo scopo di implementare uno “spirito di frugalità”,

totalmente estraneo alla mentalità capitalistica8. Anche Vittorio Hösle è chiaro nel

messaggio: «dobbiamo imparare nuovamente ad amare il limite. Abbiamo bisogno

di ideali ascetici.9»

L’urgenza di una conversione etica generalizzata e immediata, per

scongiurare l’aberrante ma assai poco fantascientifica ipotesi di un’apocalisse del

pianeta, è il presupposto che sta alla base delle considerazioni di carattere

istituzionale degli autori. Il realismo politico è in effetti il nesso cardinale che lega

i due testi chiamati in causa, inteso appunto come la prospettiva politica da cui

5 Ivi, p. 29

6 Ivi, p. 28

7 H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 232

8 Ivi, p. 188

9 V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 85

5

visionare strutturalmente la crisi ambientale; l’approccio con cui cercare delle

soluzioni efficaci, una volta preso atto dell’inettitudine del governo rappresentativo.

Nella sua critica dell’utopismo marxista, infatti, Jonas presenta un paragrafo

intitolato “Lo Stato ideale e il migliore Stato possibile”, in cui distingue due tipi di

utopia: «L’una è “u-topia” in senso etimologico (in nessun luogo) e appartiene al

paese dei sogni del pensiero contemplativo (consacrato all’otium10); l’altra, il cui

primo grande esempio è fornito dalla “Repubblica” di Platone, è ancor sempre

“utopia” nel senso che, pur essendo possibile in quanto stato reale, la sua

realizzazione nel fluire confuso delle vicende umane esige una tale convergenza di

circostanze fortunate che non si può fare affidamento sulla sua comparsa […].

Tuttavia il modello deve risultare realistico in sé, cioè suscettibile di esistere nel

mondo così com’è.11» E’ ovviamente questo secondo modello, opposto al prototipo

“idealista”, quello a cui egli si ispira per elaborare un progetto di Stato

concretamente efficiente dal punto di vista ecologico, anche se non prettamente

“morale” in linea di principio. Infatti, Jonas asserisce che «va fatta una distinzione

tra due concetti completamente diversi di Stato ottimo o “ideale”: fra quello

idealmente migliore senza riguardo per la sua realizzabilità, vale a dire desiderabile

in sé e liberamente configurabile in base a un ideale astratto di felicità umana, da

un lato, e dall’altro, il miglior Stato possibile nelle condizioni reali, in cui si tiene

conto dei limiti della natura e delle imperfezioni degli uomini che sono angeli, ma

neppure diavoli.» 12

Dal canto suo Hösle inaugura l’ultimo capitolo del suo scritto,

“Conseguenze politiche della crisi ecologica” nei seguenti termini: «La filosofia

politica deve occuparsi di due questioni che per la loro natura vanno rigorosamente

distinte. Da una parte essa affronta il problema delle strutture dello Stato ideale;

dall’altra tratta la questione molto più impegnativa di come, per mezzo di quali

10 Qui il bersaglio polemico di Jonas è evidentemente Ernst Bloch, «enfant terrible dell’utopismo»

e autore de Il principio speranza, al quale il primo intende contrapporsi. Bloch, sulla scia

dell’utopismo marxista, sognerebbe appunto «un’età dell’oro come paradiso del tempo libero»,

emancipato dal regno della necessità (cfr. p. 248-269).

11 H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 221

12 Ibid.

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provvedimenti, lo Stato attualmente esistente possa avvicinarsi allo Stato ideale, o

almeno, evitare di allontanarsene ulteriormente13». Pertanto, data l’emergenza

politica che sorge dalla crisi ambientale, «potrebbero rendersi necessari

provvedimenti straordinari14». In altri termini un buon Stato, vogliono dirci i nostri,

non coincide necessariamente con uno Stato buono. Il realismo è di conseguenza la

cifra decisiva tramite cui leggere, per i nostri propositi, le due opere citate. Vediamo

nel dettaglio in che cosa consistono tali espedienti eccezionali della politica,

reclamati e da Jonas e da Hösle.

La buona tirannide di Hans Jonas

In via preliminare, è utile chiarire fin da subito che, come ammette lo stesso Jonas,

«l’applicazione pratico-politica […] in generale, come vedremo, costituisce la parte

più debole dell’intero sistema, non soltanto sotto il profilo teorico ma anche sotto

quello operativo15». Effettivamente, l’obiettivo principale a cui mira l’opera del

filosofo tedesco è la costruzione sistematica di un modello di etica universalistica,

attraverso l’elucubrazione di una dottrina dei principi di stampo aristotelico, basata

sul monismo dell’essere. Ciò che preme per Jonas è un nuovo imperativo categorico

dopo il tentativo kantiano, che espone in quattro varianti nelle prime pagine del

tomo16. Tuttavia, tralascerò intenzionalmente la pars teoretica del saggio, per

esporre direttamente quella dedicata agli aspetti politici. Parimenti, per ragioni di

spazio e in quanto non centrali per i nostri fini, saranno ridotte al minimo le

riflessioni sulla critica del marxismo e la conseguente polemica con Ernst Bloch.

La politica, in quanto si occupa delle leggi della città, inerisce secondo Jonas

alla dimensione pubblica della responsabilità. Dato che la condizione dell’agire

umano, notevolmente potenziato grazie alle innovazioni tecnologiche (per Jonas

l’attuale “vocazione” dell’umanità) si è trasformata, sono cambiati anche il raggio

13 V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 139

14 Ivi, p. 140

15 H. Jonas, Il Principio responsabilità, op. cit., p. 38

16 Ivi, p. 16

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e la portata delle azioni antropogeniche. Infatti, adesso le conseguenze della tecnica

si ripercuotono in uno spazio e in un tempo enormemente dilatati, investendo perciò

anche il piano globale e la sfera del futuro. Gli effetti dell’attore che agisce nel

presente non sono più ristretti come nel passato, ossia attinenti alla sola cerchia dei

contemporanei, ma coinvolgono ormai anche l’intera popolazione mondiale e

quella ancora da venire. Come afferma l’autore: «Nell’immagine che l’uomo

coltiva di sé […] egli è sempre di più il produttore di ciò che ha prodotto e

l’esecutore di ciò che può eseguire, ma soprattutto il programmatore di ciò che sarà

in grado di fare. Ma chi è questo “egli”? Né io né voi: sono l’attore e l’azione

collettivi, non l’attore e l’azione individuali, ad essere qui in gioco; ed è il futuro

indefinito, molto più che non lo spazio contemporaneo dell’azione, a costruire

l’orizzonte rilevante della responsabilità.17» In un certo senso, al giorno d’oggi i

destinatari delle nostre azioni sono indefiniti poiché non visibili direttamente –

lontani nello spazio e nel tempo –, a differenza di quanto accadeva prima, quando

essi erano chiaramente riconoscibili e, per così dire, tangibili. Inoltre il nostro

potere, ragiona Jonas, si è emancipato quasi integralmente dalla natura, al punto da

mettere a repentaglio quest’ultima. Dal momento che l’arco temporale e spaziale

dell’attuale responsabilità collettiva si è universalmente ampliato, segue la necessità

di una nuova morale. Occorre sostituire l’etica tradizionale, antropocentrica e

circoscritta alla prossimità, con una nuova etica globale e “biocentrica”, che

prescriva norme improntate alla sopravvivenza dell’intero genere umano e della

biosfera. In questo senso, secondo il nostro, il primo comandamento imposto dal

“sì della vita” è che ci sia un’umanità.

Tuttavia, osserva Jonas, nonostante la gravità dei pericoli antropo-tecnici,

spesso tale inquietudine non attecchisce sulle coscienze dei singoli, a causa di

quell’indeterminatezza dei destinatari di cui si è parlato sopra, e in virtù del carattere

puramente possibile delle proiezioni future (il sapere predittivo ha pur sempre dei

limiti teorici18). Per cui l’arnese che egli chiama «euristica della paura» (strumento

17 Ivi, p. 14

18 Attualmente non vi è un giudizio unanime neppure sull’effettivo ruolo prometeico dell’uomo nella

natura, come dimostrano i dibattiti circa i fattori antropogenici dei cambiamenti climatici. A tale

proposito riporto però una frase significativa di Jonas sul «cammin facendo, finché forse sarà troppo

8

teorico per cui, in assenza di dati certi, vale la priorità della previsione cattiva su

quella buona) nella maggior parte dei casi non è sufficiente a far cambiare gli

atteggiamenti delle persone. In aggiunta, Jonas si accorge del rischio di

un’immoralità dall’alto, come l’eventuale manipolazione bioetica, serva di un

freddo funzionalismo sociale, già accenata in precedenza. Di conseguenza, oltre a

nuovi imperativi morali individuali, emerge anche l’esigenza dell’intervento

pubblico in materia ambientale.

Qui, oltre all’euristica della paura (che, in ultima analisi, risulta comunque

inutilizzabile per l’applicazione dei principi della politica, data la sua sostanziale

vaghezza scientifica) il filosofo si avvale di un “intuizionismo negativo”, come

guida essenziale per scovare non ciò che si desidera, bensì almeno ciò che non si

vorrebbe, cioè l’estinzione del genere umano e la perdita della sua dignità. Ora,

poiché il destino dell’umanità è intrinsecamente legato a quello della natura –

ovviamente da essa l’uomo ricava il sostentamento e le risorse fondamentali per la

sua esistenza – secondo Jonas bisogna innanzitutto riaffermare la validità della

realtà naturale, passando dalla questione dello scopo a quella del valore in sé della

vita e dell’essere in generale, rispetto al nulla. Ciò che urge è allora focalizzare

l’attenzione sulla “responsabilità per il da-farsi”, vale a dire ponderare sul dovere

del potere politico per quanto riguarda il futuro. La responsabilità dello statista (che,

ricorda Jonas, è liberamente scelta) nei confronti della res publica e dei suoi

cittadini deve miscelare saggiamente l’interesse per il presente e la lungimiranza

per il futuro, governando sempre con moderazione. «Prescindendo dalla più

scoperta ed egoistica tirannia, che a malapena rientra ancora nella sfera politica (se

non in base al falso pretesto della cura del bene pubblico), è proprio la

responsabilità, legata al potere e dal potere resa possibile, a costituire il peso della

competizione e a essere voluta in primo luogo dall’autentico homo politicus.19»

tardi» (p. 38): «La profezia di sventura è fatta per scongiurare che si verifichi quanto è temuto;

sarebbe il colmo dell’ingiustizia deridere in seguito gli allarmisti con l’argomento che in fondo non

è poi andata così male; l’aver torto sarà il loro merito.» (p. 150)

19 H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 122

9

In questo senso l’uomo di Stato diviene per Jonas un paradigma eminente

della responsabilità, paragonabile a quello dei genitori. I due archetipi divergono

chiaramente in riferimento alla natura del rapporto che intercorre con il rispettivo

oggetto di cura. I genitori rappresentano il modello di un dovere non fondato su una

relazione di reciprocità, ossia l’assistenza alla vita individuale qual è quella del

proprio discendente (per Jonas il bambino raffigura l’oggetto originario della

responsabilità). Al politico, al contrario, spetta la garanzia della sicurezza e del

benessere collettivi. Fatte le dovute differenze, tuttavia, genitori e uomini di Stato

convergono per Jonas su tre punti: totalità, continuità e futuro.

Per quanto concerne il primo, i due paradigmi adempiono alla sfera

dell’educazione o formazione del cittadino; addirittura, tale compito si concentra

nel caso della collettivizzazione estrema, come presuppone il totalitarismo del

comunismo radicale (anche se, come nota Jonas, il paternalismo resta in ogni caso

anche un carattere precipuo dello Stato moderno). Inoltre, sussistono delle analogie

sul piano emotivo: l’amore dei genitori e la solidarietà del politico nei confronti dei

propri oggetti, ovvero i figli e, secondo un’immagine figurata molto suggestiva, i

“fratelli” (i concittadini). Altro elemento “totale” è la dipendenza del bambino e

della res publica dai loro protettori, in quanto creature del bisogno vulnerabili e

minacciabili. A ciò si aggiunga però il rapporto unilaterale e assoluto di paternità-

maternità. In secondo luogo, la continuità si esprime invece nella preservazione di

un’entità storica ben determinata. Infine, il diritto del non-ancora-esistito comporta

il dovere di tutela della causalità autonoma dell’essere per il futuro.

A questo punto, Jonas si chiede: fin dove la responsabilità politica può e

deve inoltrarsi nel futuro? In altri termini, esiste un limite temporale che l’egoismo

lungimirante della politica non è tenuto a varcare? La risposta dell’intellettuale è

sostanzialmente che la dimensione della lungimiranza va oltre la necessità del

momento. Se infatti l’obbligo per l’avvenire in passato era un peccato di hybris più

che una virtù, oggi, data la minaccia di sventura che incombe sul domani, ogni arte

di governo è responsabile per la stessa possibilità della politica futura. Nel momento

in cui il mondo è entrato in una fragile condizione di mutamento permanente e

irreversibile, per dirla diversamente, la dinamicità della modernità impone alla

politica uno sguardo rivolto ad orizzonti lontani.

10

Qui Jonas si imbatte però nella ristrettezza di vedute del governo

rappresentativo, vincolato per sua stessa natura alla “lobby del presente”, che gli

palesa pertanto l’inadeguatezza dei regimi democratici. «Nella morsa futura di una

politica di rinuncia responsabile», egli sancisce, «la democrazia (nella quale hanno

necessariamente la preminenza gli interessi contingenti) è, perlomeno

temporaneamente, inadeguata.20» Riportando in auge il vetusto problema dei

filosofi al potere, inaugurato da Platone e inoltratosi poi con la cosiddetta ‘sindrome

di Siracusa’, egli così afferma: «Ciò ripropone in tutta la sua radicalità l’antica

questione del potere dei saggi o della forza delle idee nel corpo politico, qualora

queste non siano alleate con l’egoismo. Quale forza deve rappresentare il futuro nel

presente? Si tratta di una questione di filosofia politica sulla quale io ho le mie idee,

probabilmente chimeriche e certamente impopolari, che per ora possono restare

dove sono.21» Cerchiamo dunque di sviscerare tali idee.

A causa della possibilità non più così remota di una catastrofe planetaria,

che non sembra scongiurabile dalla odierna democrazia, Jonas asserisce che

«soltanto un massimo di disciplina sociale politicamente imposta è in grado di

realizzare la subordinazione del vantaggio presente alle esigenze a lunga scadenza

del futuro.22» Data la miopia del governo rappresentativo, il filosofo – destando

provocatoriamente la perplessità di noi ‘turisti della democrazia’– decreta perciò

che «la nostra scelta ponderata deve orientarsi oggi, sia pure controvoglia, tra forme

diverse di “tirannide”.23»

L’autore giunge a tale conclusione dopo aver valutato quali chances offrono

marxismo e capitalismo (entrambi accomunati da un ideale baconiano di progresso)

nell’affrontare la minaccia tecnologica insita in un processo di industrializzazione

smisurato. Risulta emblematica a tale proposito la seguente dichiarazione: «Non

intendiamo verificare gli intrinseci vantaggi dei due sistemi di vita, ma soltanto la

loro adeguatezza a uno scopo egualmente estraneo a entrambi, la prevenzione di

20 Ivi, p. 192

21 Ivi, p. 30

22 Ivi, p. 182

23 Ivi, p. 192

11

una catastrofe dell’umanità mediante disciplinamento dell’impulso tecnologico, nel

quale l’uno non vuole essere da meno dell’altro.24» Il ragionamento di Jonas si

snoda quindi attraverso una comparazione tra i pro e i contro dell’economia dei

bisogni e dell’economia del profitto. Da una parte egli evidenzia la maggiore

razionalità interna alla prima, tesa al benessere materiale senza spreco, in

opposizione al consumo irrazionale della seconda. Dall’altra, illustra però anche gli

inconvenienti di una burocrazia centralizzata, quali i disguidi dall’alto, il servilismo

e la corruzione dal basso; viceversa, l’imprenditorialità ha dalla sua la riduzione dei

costi e il risparmio di base, in virtù del sistema concorrenziale. Dopo aver

sottolineato i pregi e i difetti di socialismo e liberalismo, la conclusione a cui giunge

Jonas è la preferibilità della pianificazione di Stato, poiché in definitiva essa elimina

la «creazione artificiale di capacità di mercato per beni non desiderati, anzi neppure

conosciuti.25»

In linea del tutto astratta il marxismo è pertanto ritenuto più vantaggioso

rispetto all’economia di mercato, anche perché capace di imporre una morale

ascetica alle masse, che l’uguaglianza per la disponibilità ai sacrifici aiuterebbe a

mettere in pratica. In altre parole, lo Stato nazionale comunista sarebbe sulla carta

migliore, grazie all’idea della “società senza classi quale condizione per l’avvento

dell’uomo autentico”, sebbene essa, commenta Jonas, «non si presenterebbe più

come la realizzazione di un sogno dell’umanità, ma molto sobriamente come

condizione della sua sopravvivenza nell’imminente crisi epocale26.» Un’altra

qualità del socialismo sarebbe la capacità di trasformare il congenito entusiasmo

per l’utopia in entusiasmo per l’austerità.

Nel paragrafo che recita come sottotitolo “(Politica e verità)”, parafrasando

Marx e tenendo sempre a tiro Bloch, egli tematizza la validità di una “congiura

elitaria per il bene”: «una falsa coscienza sorretta da una coscienza giusta! Non

inorridisco dinnanzi all’idea. Forse questo pericoloso gioco dell’inganno di massa

(la “nobile menzogna” di Platone) è l’unica via di cui la politica alla fine disporrà,

24 Ivi, p. 185

25 Ivi, p. 187

26 Ivi, p. 185

12

facendo avanzare il “principio paura” sotto la maschera del “principio speranza”.27»

In questo passo, che riporto integralmente per la sua densità concettuale, il

pensatore mette in mostra tutto il suo realismo politico:

«Siamo così entrati in una zona ambigua della politica, nella quale il profano si aggira mal

volentieri, preferendo lasciare la parola agli addetti ai lavori. Qui potrebbe rivelarsi necessario un

nuovo Macchiavelli, che dovrebbe però esporre la sua dottrina in forma rigorosamente esoterica.

Sarebbe naturalmente meglio, e più auspicabile sotto il profilo etico e pragmatico, poter affidare la

causa dell’umanità al diffondersi di una vera “coscienza”, animata dal necessario idealismo politico,

che in anticipo di generazioni si facesse volontariamente carico, per i propri discendenti e nello

stesso tempo per i contemporanei bisognosi di altri popoli, delle rinunce che una situazione

privilegiata non impone ancora. Data l’imperscrutabilità del mistero “uomo”, questo non va escluso.

[…] L’autore è preparato al rimprovero di cinismo e non desidera contrapporgli l’assicurazione delle

sue buone intenzioni.28»

L’euristica della paura pare quindi condurre inevitabilmente a una cinica

visione del futuro del mondo; purtuttavia, nonostante l’acclamazione di

un’accettazione quasi passiva dell’operare del potere da parte di cittadini-sudditi,

secondo Jonas, all’interno di quella zona grigia della politica adombrata da finzioni

e apparenze, vi è ancora spazio per un labile barlume: «se la verità è dura da

sopportare, deve venire in soccorso una buona menzogna. Ma forse in questo modo

si sottovalutano gli uomini; forse anche una verità terribile è in grado di

entusiasmare, non soltanto i pochi ma in definitiva anche i molti. Questa è la

speranza migliore nei tempi bui.29»

Ma ritorniamo alla legittimità di ciò che si può chiamare un dispotismo

verde. In un altro paragrafo intitolato “Il vantaggio del potere governativo

totalitario”30 egli rivela l’importanza di trasmettere nella prassi dei cittadini lo

27 Ivi, p. 190

28 Ivi, p. 191

29 Ivi, p. 193

30 Si segnala la cattiva traduzione dell’aggettivo tedesco «totaler», che in italiano significa

letteralmente “totale”. Ciononostante, come osserva giustamente Pier Paolo Portinaro

13

“spirito di razionalità”, anche con rimedi impopolari. A tale scopo ipotizza

l’adeguatezza di quella che può essere definita una buona tirannide: «Queste misure

[impopolari] sono proprio quel che la minaccia del futuro esige ed esigerà sempre

di più. […] Si tratta quindi dei vantaggi governativi di ogni tirannide che, nel nostro

contesto, deve essere una tirannide benintenzionata, beninformata e animata da

giuste convinzioni.31» La manchevolezza della democrazia a vantaggio del

marxismo come Stato totale, tuttavia, non elimina il problema della idoneità dei

governanti e della moralità delle istituzioni pubbliche, ovvero quello che Jonas

denomina «il grande “se” della classe dirigente32». Egli prova quindi di non essere

uno sprovveduto quando, ad esempio, indica gli “effetti demoralizzanti del

dispotismo” i quali, però, si ritrovano anche, magari in una forma più velata, nello

sfruttamento economico. Il “buono Stato”, secondo l’autore, deve saper coniugare

sapientemente libertà politica e moralità civile. La prospettiva dell’utopismo

realistico, nel dettaglio, ammette il sacrificio della libertà personale in cambio della

stabilità sociale, giudicata più essenziale in un eventuale momento di nichilistica

crisi ecologica. Ne deriva che un tipo di utopia autoritaria e paternalistica può

servire come idea-guida per la prassi politica.

Continuando il discorso sulla desiderabilità di uno Stato fortemente

interventista anche nelle vicende economiche, Jonas traccia in seguito un

parallelismo tra regimi liberali e regimi illiberali. In seguito all’analisi, stipula così:

«La nostra tesi è che i sistemi liberali sono superiori sul piano etico al loro

antagonista, anche se quest’ultimo può superarli sotto alcuni aspetti in quanto a

rendimento. […] E’ evidente, ma non vincolante per il nostro giudizio, il fatto che

l’utopismo non stimi in considerazione dei vantaggi ricavati un troppo elevato

rinunciare alla libertà individuale, arrivando a dichiarare pura illusione

(“pregiudizio borghese”) l’oggetto del sacrificio33.»

nell’introduzione del saggio, resta ad ogni modo problematica “l’evoluzione autoritaria di dittature

ecologiche”.

31 H. Jonas, Il principio responsabilità, op. cit., p. 188

32 Ivi, pp. 192-193

33 Ivi, p. 220

14

Infine, prima di addentrarsi nella sua critica dell’utopia marxista

(avvalendosi, tra l’altro, delle nozioni scientifiche più aggiornate dell’epoca sui

confini fisici di tolleranza della natura) e della filosofia blochiana, Jonas accenna

ad alcune questioni di politica internazionale implicate nella crisi ambientale, in cui

soggiorna la società tecnologica contemporanea. Egli, ad esempio, aggiorna la

teoria di Marx sulla lotta di classe, facendo vedere come essa possa in realtà

convertirsi in una furibonda lotta delle nazioni. La nuova costellazione della guerra

tra nazioni esige perciò, nell’interesse statale, nuove risposte da una impellente

politica costruttiva globale. Altrimenti non è escluso un lugubre scenario di

anarchia internazionale34.

La Realpolitik ecologica di Vittorio Hösle

Il testo del filosofo italo-tedesco è composto da una serie di lezioni tenute

all’università di Mosca nel 1990. Questo dato storico rappresenta una differenza

basilare rispetto al Tractatus technologico-ethicus di Jonas. I due testi, com’è noto,

sono separati da quello spartiacque epocale che è stato la caduta del muro di Berlino

nel 1989, catalizzatore di una serie di avvenimenti alquanto importanti. “L’anno

della rivoluzione”, come dice Hösle, ha infatti determinato la crisi del marxismo, i

sovvertimenti e la nuova distribuzione delle forze nell’Europa centrorientale, le

elezioni nella Repubblica Democratica Tedesca e la questione della trasformazione

giuridico-statale dell’Unione Sovietica. A tale proposito, dobbiamo sempre tenere

presente l’interlocutore diretto a cui Hösle si riferisce, ossia il pubblico russo.

Ciò che l’autore intende elaborare è un’autentica “filosofia della natura”: a

livello teoretico, egli individua le direttrici storico-spirituali della metafisica

moderna, responsabile della crisi ecologica, vale a dire scienza, tecnica ed

economia del XIX-XX secolo. A livello pratico, Hösle compie interessanti

riflessioni etiche e politiche. Prendendo spunto dall’etimologia del termine

‘ecologia’, il suo lavoro va inteso, in definitiva, come una “dottrina della casa”,

volta in primo luogo alla preservazione della dimora materiale dell’uomo (il pianeta

34 Ivi, pp. 230-232

15

Terra) e, in secondo luogo, al recupero di una dimensione metafisica – dimora

ideale – per lo Spirito della civiltà tecnica.

Nel capitolo “L’ecologia come nuovo paradigma della politica” il filosofo

parte proprio dal fatto che «crollano le mura»: tale stato di incertezza, al bivio tra

consenso e violenza, esige un cambiamento di paradigma politico-morale, un nuovo

edificio di pensiero per cui occorre «mettere ali alla filosofia». La crisi del

marxismo, osserva Hösle, comporta una triplice configurazione di opzioni

alternative: il tentativo di resistenza di alcune roccaforti ideologiche; la brama di

intraprendere la via occidentale; il recupero di tradizioni pre-rivoluzionarie. Il suo

auspicio è infatti il fiorire di un “Rinascimento russo”, guidato dalla conoscenza di

un mondo diverso da quello attuale ma reale, ossia il ritrovamento di un passato

trasfigurato per sviluppare il nuovo paradigma spirituale di cui necessita il secolo

dell’ambiente.

In particolare, per Hösle il problema è appunto scongiurare una completa

adesione spirituale al Primo Mondo da parte dei paesi di quello che ormai chiama

“l’ex Patto di Varsavia”. «Non è opportuno», ragiona, «che i paesi a economia

pianificata adottino il sistema sociale dell’Occidente senza alcun correttivo»,

ovvero in modo acritico. I motivi alla base della tesi sono tre: in primo luogo, le

“vittime dell’imperialismo stalinista e del predominio bolscevico” – che hanno

vissuto sulla propria pelle egli effetti collaterali della Rivoluzione d’Ottobre e della

II Guerra Mondiale – potrebbero compromettere il loro patriottismo (che per Hösle

è diverso dal nazionalismo), facendo avanzare piuttosto il pericolo di sciovinismo.

In secondo luogo, il raggiungimento dello standard di consumo occidentale si

otterrebbe a discapito della libertà spirituale: desiderare i vizi dell’occidente

significherebbe sacrificare gli altri valori attraverso bisogni che non si è in grado di

soddisfare, rinunciando pertanto alla propria identità. In terzo luogo,

«l’universalizzazione del tenore di vita occidentale non è attuabile senza il totale

collasso ecologico della Terra.35». I limiti del pianeta, infatti, porteranno a lotte di

35 V. Hösle, Filosofia della crisi ecologica, op. cit., p. 18

16

spartizione, ancora più terrificanti in uno scenario dominato da armi di distruzione

di massa.

Quale sarà allora il destino del XXI secolo? Con la fine guerra fredda, ossia

raggiunto l’accordo di collaborazione reciproca tra le superpotenze, e la vittoria

della democrazia occidentale, siamo ormai giunti, come sostiene Francis

Fukuyama, alla fine della storia? Niente affatto: per Hösle è necessario un

cambiamento di paradigma ancora più drastico rispetto a quello del 1989, che metta

al centro il valore della natura. Il nuovo modello sociale dovrà spodestare l’attuale,

cioè l’economia, così come quest’ultima ha detronizzato i suoi predecessori:

religione e nazione. A dimostrazione dell’attuale primato dell’elemento economico

sugli altri sottoinsiemi della società, Hösle osserva che est e ovest, sebbene

mediante un metodo diverso (economia pianificata / economia di mercato), erano

in fondo accomunate dal medesimo obbiettivo: soddisfare il maggior numero

possibile di bisogni materiali del maggior numero possibile di cittadini, tramite lo

sviluppo della tecnica. Tuttavia, il filosofo nota che l’economia non è sempre stata

al centro delle strutture portanti della società nel corso della storia. Infatti nella

Grecia arcaica, in cui vigeva un’economia di sussistenza, nello specifico era data

importanza politica ad altri ambiti, che poi sarebbero stati soppiantati nello Stato

moderno capitalistico o socialista.

Al fine di scovare gli altri ambiti centrali su cui si reggevano le istituzioni

del passato, il nostro autore si avvale pertanto delle analisi svolte da Carl Schmitt

nel saggio “L’era delle neutralizzazioni e della spoliticizzazioni”, contenuto in La

categoria del politico del 1929. In quest’opera Schmitt identifica la relazione

amico-nemico come essenza della politica: uno spostamento degli assi amicizia-

inimicizia ha come conseguenza un cambiamento del paradigma politico. Inoltre, il

pensatore ricerca il casus belli delle varie epoche storiche a partire dal

consolidamento dell’entità statale, vale a dire il motivo centrale per cui schiere di

eserciti hanno ritenuto legittimo ammazzarsi vicendevolmente in guerra. All’inizio

dell’età moderna, questo era rappresentato dalla religione: dal medioevo fino al

XIX secolo, passando per l’Illuminismo, il Cristianesimo rappresentava il

paradigma sociale. Era infatti l’imposizione dell’omogeneità confessionale che

mosse le guerre civili e soprattutto la Guerra dei trent’anni. Ma nel corso di tale

17

conflitto avvenne quello che Schmitt chiama “spoliticizzazione della religione”, che

determinò così un nuovo schieramento: la Francia cattolica si alleò con la Svezia

protestante, contro il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca. Ciò aveva

significato il passaggio dal principio del cuius regio, eius religio a quello del cuius

regio, eius natio. Ora si apriva dunque la seconda fase della modernità, il cui fulcro

era la nozione di Stato. Il secolo XIX vide l’affermarsi della Nazione: è

l’omogeneità interna a mobilitare lo scacchiere militare tramite il dispiegarsi di

guerre nazionali. E se da un lato l’affermarsi dell’entità statale ha portato progresso,

sotto forma di indipendenza ed emancipazione, dall’altro lato, commenta Schmitt,

in quanto categoria anti-universalistica (a differenza della Chiesa), la nazione può

per ceti versi considerarsi un regresso.

Infine, si è approdati al cuius regio, eius oeconomia del XX secolo. E’

emblematico infatti che la Guerra Fredda si configurasse come una contesa tra due

sistemi di alleanze, per fissare un sistema economico col potere dello Stato. La terza

fase ha perciò comportato il trasferimento dallo Stato di diritto liberale allo Stato

Sociale. Anche in questo caso si può parlare di progresso dal momento che è

avvenuta un’evoluzione nella storia del diritto; il declino è però riscontrabile,

dapprima, nell’aumentata aggressività internazionale degli Stati moderni e, in

aggiunta, proprio nella crisi ecologica. Lo Stato si fa promotore di un’intensa

politica di sfruttamento naturale per soddisfare i bisogni economici dei cittadini,

conservando così la pace sociale. La risultante di tale processo, quindi, è che la

politica contemporanea si è assoggettata al paradigma dell’economia.

Tuttavia, tale modello di crescita economica “infinitistica” – complice lo

sviluppo demografico – non può durare ancora a lungo, poiché la Terra è una

superficie finita governata da evidenti limiti naturali. Secondo Hösle è allora giunto

il momento di innescare il nuovo paradigma, ossia quello dell’ecologia, che dovrà

guidare la politica sulla strada di ciò che oggi chiamiamo sostenibilità ambientale.

D’altronde il XXI secolo è stato definito non a caso “il secolo dell’ambiente”: la

cura dei fondamenti naturali della vita dovrà essere lo scopo dello Stato. «La buona

politica» sancisce Hösle, «sarà quella capace di salvaguardare in modo globale i

fondamenti naturali del mondo in cui viviamo, non più quella capace di consentire

lo sviluppo quantitativo dell’economia e la soddisfazione dei bisogni più assurdi,

18

né una politica che persegua l’identità culturale e linguistica di una nazione a

discapito di altre, e tanto meno, per finire, una politica che cerchi di imporre con la

violenza l’omogeneità culturale o religiosa.36»

Il nuovo paradigma, secondo lo studioso, comporterà anche nuovi

raggruppamenti amico-nemico, sull’onda lunga della distensione est-ovest. La crisi

ecologica però, se da una parte può diventare il nemico comune dell’umanità,

dall’altra essa potrebbe pure fungere da pretesto per nuove guerre. «Lo sviluppo

demografico, il riscaldamento dell’atmosfera, l’aumento dei veleni chimici

nell’acqua, l’erosione del terreno, l’assottigliarsi dello strato di ozono, la

diminuzione delle risorse alimentari, la riduzione della varietà delle specie: tutti

questi fenomeni non possono che creare una situazione nella quale si verificheranno

delle catastrofi ecologiche. Esse provocheranno quasi inevitabilmente lotte di

spartizione.37»

Se la difesa dell’ambiente giocherà un ruolo sempre più importante in

politica estera, le conseguenze di questo mutamento si vedono già nelle lotte interne

per il potere. Infatti Hösle prende in considerazione il dispiegamento odierno dei

partiti politici in riferimento alle questioni ecologiche. In linea generale, troviamo

forze legate al vecchio paradigma economico caratterizzato dal pensiero

quantitativo, opposte a forze che mirano a una trasformazione della società

industriale in senso ecologico. Attraverso la disamina attuata da Habermas delle

tradizionali categorie politiche di “destra” e “sinistra”, “reazionari”, “conservatori”

e “progressisti”, Hösle mostra come siano cambiati i rapporti in campo, spesso

seguendo il principio de “il nemico del mio nemico è un mio amico”.

In altri termini, alle soglie del nuovo paradigma dell’ecologia, si formeranno

nuovi raggruppamenti amico-nemico, definiti in base a valori e interessi comuni sul

lungo periodo: la natura (priva di diritti nella filosofia moderna classica), le

generazioni future, gli abitanti del Terzo Mondo. E se il trionfo della razionalità

rispetto allo scopo è stato, per Hösle, il più grande errore della storia politica e

36 Ivi, p. 29

37 Ivi, p. 19

19

spirituale dell’età moderna, è sempre più chiaro che «in un prossimo futuro la

questione ecologica acquisterà necessariamente un grande rilievo politico.38»

Arrivato a questo punto, il professore italo-tedesco, espone le conseguenze

politiche della crisi ecologica, facendosi portavoce di quella che definisce “una

Realpolitik ecologica”, diametralmente opposta al moralismo politico. «Abbiamo

bisogno di una Realpolitik ecologica, perché soltanto a una politica di questo genere

è dato di conseguire risultati concreti: per un bizzarro ribaltamento dialettico,

l’enunciazione di ideali sublimi ma irrealizzabili può avere come unica

conseguenza la conservazione dello status quo.39» La sua analisi è impegnata su tre

fronti: riorganizzazione economica, politica interna e relazione internazionali.

Per quanto riguarda il primo punto, Hösle tenta di avvalorare l’ipotesi di un

Green Capitalism, ovvero di un’economia ecologico-sociale di mercato. La sua

strategia è fare leva sull’egoismo tipico del capitalismo in funzione di una

conversione ecologica del sistema produttivo. Per ottenere ciò, secondo l’autore è

necessario modificare le “condizioni generali” dell’apparato industriale, entro cui

lo spirito neoliberale possa così muoversi secondo precise regole ‘ecosostenibili’,

diremmo noi. Il compito dello Stato è allora quello di circoscrivere uno spazio

delimitato dove la mano invisibile possa muoversi, incrementando la logica del

profitto con un ragionevole criterio di sopravvivenza. Nel dettaglio, la proposta di

Hösle è l’attuazione di una riforma tributaria, cioè un sistema di tasse ecologiche

tese alla salvezza dell’ambiente, che ha il pregio di unire lo sprono dell’utile

personale a un principio morale. La riforma dovrebbe essere però compensata da

sgravi fiscali in altri ambiti per le aziende; necessiterebbe di una trasformazione

graduale; comporterebbe l’abolizione delle sovvenzioni statali (in molti casi mere

azioni riparatrici per conservare lo status quo). In questo senso l’economia politica,

oltre a definire le condizioni generali adeguate al mercato, deve intervenire nella

formazione di imprenditori “verdi”, consapevoli dei rischi a lungo termine della

38 Ivi, p. 20

39 Ivi, p. 167

20

crisi ambientale40. Mediante un’economia ecologico-sociale di mercato, per il

filosofo, è possibile arginare la disoccupazione di massa e la distruzione

dell’ambiente, i due mali più gravi dello Stato sociale moderno.

Hösle mette in luce anche le obiezioni che si possono muovere alla riforma.

In primo luogo, il pericolo di ingiustizia sociale derivante dal fatto che inquinare,

ad esempio, diverrebbe un privilegio dei ricchi. L’autore ribatte però che per

scongiurare una catastrofe naturale saranno necessarie delle limitazioni frugali

aldilà delle invidie personali. Inoltre, si potrebbero prevedere dei sussidi economici

dello Stato sociale a tutela dei più deboli. In secondo luogo, la riforma nuocerebbe

le aziende sul piano della concorrenza internazionale. Per ovviare a questa

problematica Hösle preme sulla priorità di incrementare gli accordi internazionali,

evitando forme di protezionismo e la chiusura dello Stato mercantile (anche se

istituire dogane ecologiche potrebbe risultare utile). Insomma, «nell’era della crisi

ecologica il fatto che vi sia un’economia mondiale cui però non corrisponde uno

Stato mondiale è particolarmente pericoloso.41»

In seguito il ragionamento di Hösle si sposta su questioni di politica interna,

anche se riconosce che sarà fondamentale in questo caso la pressione che la società

riuscirà a esercitare verso i reggenti: «L’inerzia dei politici dà adito al timore che si

farà poco, a meno che un numero sempre maggiore di cittadini ben informati e

caparbi non sottoponga proposte concrete ai politici e agli amministratori

responsabili.42» Per prima cosa comunque, egli appoggia l’idea della famiglia di

piccole dimensioni: occorre limitare il diritto di avere figli, attraverso la libera scelta

o tramite la coercizione dello Stato. Per questo serve un uso assennato di pratiche

quali anticoncezionali e sterilizzazione, anche se egli si dichiara per ragioni morali

contrario all’aborto. Oltre a ciò, l’autore sancisce l’obbligo delle istituzioni di

informare l’opinione pubblica circa le problematiche ambientali. Lo Stato di diritto

sociale e democratico, dichiara, deve diventare uno “Stato ecologico” e, di

40 A pag. 124 Hösle postula che il diritto alla vita delle generazioni future è più fondamentale del

diritto a un posto di lavoro.

41 Ivi, p. 126

42 Ivi, p. 165

21

conseguenza, la conservazione del pianeta e i diritti delle generazioni future devono

diventare un obbligo per la filosofia dello Stato. Infatti, la possibile distruzione

dell’umanità o il pericolo di catastrofi naturali sono sintomi di una impellente

emergenza politica, che gli enti di diritto pubblico devono farsi carico per la tutela

dell’ambiente. La conservazione dei fondamenti naturali della vita è d’altronde la

condizione necessaria della sopravvivenza dello Stato di diritto.

Per tale motivo è necessario correggere la tradizionale bipartizione giuridica

persone-cose, che riflette la dicotomia cartesiana res cogitans/res extensa.

Viceversa, è importante che anche il regno dell’organico acquisti dignità ontologica

in virtù del valore intrinseco degli animali, degli ecosistemi, dei biotopi, delle specie

e, infine, dell’uomo stesso. Parimenti, bisognerebbe revisionare il concetto di

proprietà, mediante un aggiornamento della nozione fichtiana di proprietà basata

sull’uso che preveda proprietari parziali di un bene comune. Diversamente dalla

concezione hegeliana, fondata sulla proprietà illimitata di una singola struttura

psichica, che soggiace all’ideale di autonomia della moderna soggettività borghese.

Nel concreto c’è bisogno quindi di leggi a tutela delle risorse rinnovabili quali il

mare o la foresta pluviale, come recita il noto mantra per cui «la Terra ci è solo stata

data in prestito dai nostri figli». Un ulteriore scottante problema concerne invece lo

smaltimento dei rifiuti, specialmente nella “società usa-e-getta” del Primo Mondo.

Per risolvere tale dilemma si potrebbe pensare, afferma Hösle, a una separazione

tra contenitore (che resta di proprietà del produttore) e contenuto (alla mercé del

consumatore). Ad ogni modo, per lui bisogna rivedere il concetto di responsabilità,

avanzando l’ipotesi di una diritto penale ecologico.

Scendendo più in profondità nel discorso, egli propone la figura di un tutore,

come previsto dal diritto civile, per proteggere gli interessi delle generazioni future

e della natura, facendo progredire la lotta per la conquista della democrazia. A tale

proposito, dovrebbe rientrare nella Costituzione la salvaguardia dell’ambiente

come fine dello Stato. Inoltre, alla Corte Costituzionale dovrebbe spettare una

particolare competenza legislativa (seppure in casi eccezionali, per non minare il

principio della separazione dei poteri). Insomma, le vicende ecologiche devono

divenire faccende dei tribunali amministrativi, penali e civili, per cui servono anche

nuove competenze dei giudici.

22

A livello nazionale, risulta impellente per i Governi rivalutare il Ministro

dell’Ambiente, per esempio potenziandone il bilancio; l’autodisciplina del lusso e

un’adeguata formazione della classe dirigente rappresentano altri essenziali

correttivi. A livello locale, l’amministrazione della casa e della città deve orientarsi

verso una urbanistica in armonia con la natura, tramite un approvvigionamento

energetico decentrato, il riutilizzo dei rifiuti e una riconversione dell’agricoltura. Il

grattacielo e la metropoli sono per l’autore il simbolo della negazione astratta del

limite e della misura, tipica dell’età contemporanea.

E se l’odierna democrazia liberale non risulta all’altezza di tutto ciò, Hösle

ammette anche la possibilità di “provvedimenti straordinari”, mettendo in luce

l’ambiguità del rischio di guerre ecologiche o il pericolo di una eco-dittatura.

«Ritengo che un’ecodittatura, anzi una lotta furibonda tra varie ecodittature per la

spartizione delle ultime risorse […] costituisca un pericolo assolutamente reale, e

proprio per questo ritengo che la rapida introduzione delle riforme necessarie sia un

obbligo morale imprescindibile.43». Ancora, «per i paesi del Primo Mondo poche

cose sarebbero moralmente più umilianti di un intervento militare nelle loro ex

colonie al fine di salvaguardare l’ambiente; tuttavia mi sembra che non si possa

negare, almeno a istituzioni internazionali, il diritto di muovere simili guerre

ecologiche.44»

Con ciò arriviamo alla sezione di politica estera, in cui il pensatore parla di

una politica ambientale delle relazioni internazionali, un “Piano Marshall per la

salvezza dell’ambiente”. Hösle afferma: «In seguito alla crisi ecologica l’istituzione

di enti internazionali dotati di un reale potere coercitivo ha assunto un carattere

d’urgenza che finora essa non rivestiva.45» A livello globale, infatti, l’ideale

kantiano dello Stato universale per attuare l’idea di diritto deve concretizzarsi

nell’economia mondiale, e nella cooperazione tra Stati circa le armi atomiche e la

crisi ecologica. Le questioni del Terzo Mondo e dell’asincronia dello sviluppo

hanno a che fare con la colonizzazione e con la distruzione dell’ambiente; il

43 Ivi, p. 168

44 Ivi, p. 164

45 Ivi, p. 156

23

problema dell’eurocentrismo però si scontra pure con le classi dirigenti corrotte del

sud del mondo. Occorre perciò estendere la teoria stoica della oikeiosis, offrendo

assistenza ai paesi in via di sviluppo e limitando il principio di sovranità

dell’occidente, espressione del dominio universale della soggettività moderna. Si

avverte dunque l’esigenza di un contrattualismo tra paesi ricchi e poveri.

Per concludere, alla luce delle analisi di Jonas e Hösle, mi sembra che una

valida soluzione per arginare la crisi ambientale sia quella di coniugare la nozione

di Cura che il primo individua nel rapporto tra genitori e figli, con quella di oikos

del secondo. La cura della casa ci permette in definitiva di passare dal “benessere”

della Società dei Consumi a un reale ben-essere psicofisico, in cui l’uomo ritrova il

fondamentale equilibrio con la terra che lo sostiene.