Il danno da ritardo: regime e responsabilità civile ed amministrativa.

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SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER LE PROFESSIONI LEGALI Università di Macerata Università di Camerino Il danno da ritardo: regime e responsabilità

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S C U O L A D I S P E C I A L I Z Z A Z I O N EP E R L E P R O F E S S I O N I L E G A L I

Università di MacerataUniversità di Camerino

Il danno da ritardo: regime e responsabilità

INDICE

Introduzione pag. 1

CAPITOLO I:

INTERESSE, RESPONSABILITA’ E RITARDO

1. Responsabilità extracontrattuale e da contatto

qualificato: verso l’art. 2 bis legge n.241/1990

pag. 4

2. L’interesse procedimentale: una tipologia dubbia

pag. 9

CAPITOLO II:

IL DANNO DA RITARDO

1. Il valore “tempo” e l’obbligo di provvedere

pag. 12

2. L’acceso dibattito sul ritardo fino alla novella del

2009 pag. 14

3. La struttura del ritardo come illecito ex art. 2043

c.c. pag.18

L’ingiustizia del danno e nesso di causalità

L’elemento soggettivo: in particolare la colpa

Giurisdizione e danno risarcibile

CAPITOLO III:

PROBLEMATICHE CONNESSE AL SILENZIO

1. Il silenzio inadempimento e il rapporto con il

risarcimento del danno da ritardo pag. 28

2. Concludendo: pregiudizialità amministrativa ed

autonomia della pretesa risarcitoria

pag.32

BIBLIOGRAFIA

INTRODUZIONE

L’innovazione dell’art.2 bis della legge 241 del 1990 ad opera della legge 69/2009

stringe la morsa nei confronti dell’amministrazione colpevole di inerzia e la obbliga a

risarcire.

La lettura della nuova disposizione normativa permette di appurare come il “fattore

tempo” abbia acquisito progressivamente massima rilevanza nell’attività

amministrativa e nella valutazione della legittimità della medesima.

Premesso che, nel momento in cui il procedimento segua obbligatoriamente ad

un’istanza o debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il

dovere di concluderlo attraverso l’adozione di un provvedimento espresso, l’art. 2 bis

legge 241/1990 obbliga la P. A. nonché tutti i soggetti privati preposti all’esercizio di

attività amministrative, al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’inosservanza

colposa o dolosa del termine di conclusione del procedimento.

L’ampia previsione stabilita dall’art.7 legge 69/2009 ha originato il suddetto art. 2 bis,

reintroducendo il termine generale di 30 giorni per la conclusione del procedimento

(salva diversa individuazione normativa) e riproponendo la norma sulla procedura del

silenzio di cui all’art. 21 bis della legge n.1034/1971 (legge TAR), ora art. 31 e117 d. lgs

104/2010.

Tutto ciò accade a distanza di oltre un decennio dalla legge delega n.59/1997 (legge

Bassanini) che, all’art.17 comma 1 lett. f, prevedeva a carico della pubblica

amministrazione un obbligo di indennizzo automatico e forfettario a favore del privato

in caso di mancato rispetto del termine finale del procedimento, di mancata o ritardata

adozione del provvedimento ovvero di incompleto assolvimento di obblighi e

prestazioni imposti alla stessa amministrazione. La legge Bassanini rappresentava una

previsione normativa collocata in un più ampio progetto di razionalizzazione e riassetto

della struttura organizzativa dei pubblici uffici con la finalità di potenziare gli strumenti

idonei a realizzare un’azione amministrativa più efficiente, efficace ed economica;

questi scopi comunicavano l’esigenza di monitorare i costi ed i risultati dell’attività

amministrativa, a partire dal rispetto dei termini del procedimento e dal loro sbocco

provvedimentale. Si trattava di un indennizzo slegato da qualsiasi elemento soggettivo

e fondato esclusivamente sul pregiudizio obiettivo cagionato dal ritardo o dal mancato

rispetto dei termini ed agganciato per celerità a parametri prefissati dal legislatore.

Nonostante si fosse utilizzata la formula indennitaria, già allora non poteva negarsi la

natura risarcitoria delle conseguenze derivanti dagli inadempimenti della P.A.

Non vi potevano esser dubbi sul fatto che il mancato rispetto dei termini o la mancata

adozione del provvedimento finale comportassero un’incisione di interessi del privato

collocabili nel procedimento; si mirava a tutelare in maniera anticipata l’interesse

legittimo nella sua fase formativa, quando poteva esser assimilabile ad un’aspettativa

verso la conclusione del procedimento. In tale veste l’indennizzo previsto della legge

Bassanini si giustificava con la volontà di colpire la violazione del principio di continuità

e necessità dell’azione amministrativa ed assicurare una sanzione alla lesione del

principio dell’affidamento sorto in capo ai destinatari del provvedimento.

La previsione normativa dell’art.17 comma1 lett. f della legge Bassanini purtroppo è

rimasta inattuata, ma rappresenta, in un qual modo, l’antecedente storico-giuridico del

“danno da ritardo” sancito dall’art. 2 bis della legge 241/1990, che mira a risolvere

concretamente e normativamente il problema dell’inerzia dell’amministrazione dando

vita ad un illecito aquiliano: infatti, il danno ingiusto legato all’inosservanza del

termine, unitamente all’elemento soggettivo doloso o colposo, nonché la previsione di

un termine prescrizionale quinquennale conducono a ritenere l’art. 2043 c.c fattore

guida nell’individuazione degli elementi costitutivi del “danno da ritardo”.

Appurato ciò occorre comprendere come l’innovazione in esame si inserisca nell’attuale

contesto normativo e giurisprudenziale, volgendo uno sguardo alla natura della

responsabilità dell’amministrazione, agli elementi strutturali dell’illecito derivante dal

ritardo, al suo rapporto con la procedura avverso il silenzio inadempimento ed ai

recenti risvolti processuali introdotti dal d.lgs.104/2010.

CAPITOLO I:

INTERESSE, RESPONSABILITA’ E RITARDO

RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE E DA CONTATTO QUALIFICATO: VERSO IL 2 BIS

LEGGE 241/1990

Uno dei grandi meriti dell’entrata in vigore della legge abolitrice del contenzioso

amministrativo (legge n. 2248/1865) è stato sicuramente l’aver infranto l’autoritarismo

amministrativo assoluto, assoggettando al sindacato giurisdizionale l’esercizio dei

poteri pubblici che si fosse risolto in un’indebita compressione della sfera giuridica del

privato: si giunse, così, al riconoscimento della responsabilità civile della pubblica

amministrazione.

Il problema che si pose, sin dai primi tempi di vigenza della legge del 1865, fu quello di

individuare la natura della responsabilità civile della P.A; quest’ultima, infatti, opera

esclusivamente attraverso organi cui sono preposte delle persone fisiche, i dipendenti,

che possono essere gli unici autori materiali dell’illecito. Occorreva per questo stabilire

un criterio di imputazione che ricollegasse all’amministrazione la responsabilità per il

fatto di questi ultimi.

Il criterio che appariva più conforme al caso era quello fondato sul mandato o sulla

rappresentanza, il quale però consentiva di imputare al soggetto pubblico i soli effetti

dell’atto, che rimaneva legato materialmente all’azione del dipendente-persona fisica1.

Questa soluzione non era coerente con l’idea, allora prevalente, che qualificava il

rapporto di pubblico impiego come proiezione esterna della potestà organizzatoria

pubblica: il dipendente era inteso come longa manus dell’amministrazione. La

1Cfr. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, p.131 e ss.

convinzione che si trattasse di una responsabilità per fatto altrui sembrò trovare

conferma nella previsione dell’art. 2049 c.c, ma fu ben presto evidente che tale

soluzione era incompatibile con i principi regolatori dell’azione amministrativa poiché

non poteva configurarsi una culpa in vigilando o in eligendo dell’amministrazione, in

quanto illogica rispetto ai controlli ed ai procedimenti idonei a garantire la legittimità

dell’esercizio della potestà pubblica2.

Decisivo fu il ruolo svolto dalla Costituzione che tramite gli art. 28, 103 e 113 fissò il

principio della responsabilità diretta della P. A: si abbandonò lo schema del mandato o

della rappresentanza e così dottrina e giurisprudenza ritennero nel rapporto tra ente e

dipendente non vi fosse una separazione di soggetti, una dualità soggettiva, ma si

realizzasse una vera e propria immedesimazione organica, tale da giustificare

agevolmente la possibilità di una responsabilità diretta della P. A3.

La storica sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione sancendo la tutela

risarcitoria per la lesione degli interessi legittimi, giunse pertanto a riconoscere in capo

alla P. A. la responsabilità da atto illecito.

In merito alla natura della suddetta responsabilità, in dottrina e giurisprudenza varie

sono state le ricostruzioni operate. Si sono affermate quattro posizioni: la tesi della

responsabilità extracontrattuale, la tesi della responsabilità da contatto sociale

qualificato, la tesi che considera la responsabilità della P. A come atipica e costituente

un terzium genus, nonché la tesi della responsabilità precontrattuale

dell’amministrazione. Le prime due sono quelle maggiormente coinvolte nella

trattazione ed analisi del “danno da ritardo”; infatti a seconda dello schema di

responsabilità condiviso, mutano le conseguenze in tema di colpa e di elementi

costitutivi dell’illecito, nonché muta il profilo risarcitorio.

La tesi della responsabilità extracontrattuale della Pubblica Amministrazione ha avuto

la sua origine nella già citata sentenza n.500/1999 della Corte di Cassazione, che, da un

2 Cfr. V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2010, p. 244 e ss.

3 Cfr. E. Casetta, cit., cap. V, par.1.

lato, ha stabilito la responsabilità da atto illegittimo identificando la lesione di interessi

legittimi come lesione del bene della vita sostanziale, dall’altro, ha qualificato il danno

cagionato come ingiusto e pertanto sussumibile nell’art. 2043 c.c., da interpretarsi

come norma in grado di tutelare ogni lesione di qualsiasi bene della vita e, non solo, la

lesione del diritto soggettivo. Tale orientamento si è evoluto sia sotto il profilo

dell’elemento psicologico da riconoscere in capo alla P.A, sia sotto il profilo del danno

risarcibile che varia se ad essere leso è un interesse legittimo pretensivo o oppositivo4.

La tesi della responsabilità extracontrattuale è oggi da considerarsi prevalente visto che

la legge 69/2009, modificando l’art. 2 bis della legge 241/1990 ha introdotto il

cosiddetto “danno da ritardo” ed ha previsto una responsabilità per colpa in capo

all’amministrazione, strutturata in modo tale da esser più facilmente ascritta nel

paradigma normativo sancito dall’art. 2043 c.c.

Rimandando l’analisi del ritardo come illecito ex art. 2043 c. c., che verrà affrontata in

seguito, occorre far menzione del fatto che la tesi della responsabilità extracontrattuale

della P. A è stata fortemente criticata e non condivisa dalla totalità della dottrina e

giurisprudenza.

Si ritiene, infatti, che la P.A ed il cittadino non siano soggetti estranei, ma parti di un

procedimento amministrativo: mancherebbe, quindi, il dato fondante la responsabilità

extracontrattuale, ossia l’estraneità delle parti al rapporto. Per tale motivo si è

elaborata la teoria della responsabilità da contatto amministrativo qualificato.

Una parte della giurisprudenza della Cassazione5 e una parte dei giudici del Consiglio

di Stato aderendo all’indirizzo che inquadra la responsabilità da contatto

amministrativo nell’ambito di quella contrattuale hanno, pertanto, ritenuto che per la

ripartizione dell’onere della prova occorra riferirsi all’art.1218 c.c.6; ma occorre far un

passo indietro.

4 Cfr. V. Molaschi, Responsabilità extracontrattuale, responsabilità precontrattuale e responsabilità da contatto, in Foro it., 2002, III, 4 e ss.

5 Cfr. Cass. sez. I, n.157/2003.6 Cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 4239/2001.

La responsabilità da contatto nasce in sede civilistica attraverso l’opera dalla

giurisprudenza. Si segnala per importanza la sentenza Corte di Cassazione che ha

qualificato come contrattuale la responsabilità del medico dipendente da una struttura

pubblica al fine di assicurare una più intensa tutela al danneggiato con particolare

riferimento alla prova dell’elemento psicologico della colpa7.

Il Consiglio di Stato ha ripreso tale elaborazione per fornire una tutela a quelle

situazioni giuridiche di interesse che si originano dall’iter procedimentale, ma che non

coincidono con l’utilità primaria che il privato aspira a realizzare attraverso il

provvedimento amministrativo finale.

Con la creazione della formula della responsabilità da contatto si pone l’attenzione

sulla relazione specifica esistente tra la P.A ed il privato, che deriva dalla sussistenza di

un procedimento e che non può risolversi semplicemente attraverso lo schema della

responsabilità aquiliana, avente come presupposto che il danno derivi da un soggetto

che è estraneo alla sfera giuridica del danneggiato e non legato a quest’ultimo da un

rapporto giuridico preesistente.

La relazione qualificata che intercorre per tutto il corso del procedimento tra

amministrazione e privato sarebbe, per i fautori di quest’impostazione teorica, idonea a

far sorgere degli obblighi la cui fonte non deve esser ricercata nel campo della

responsabilità della P. A. per attività provvedimentale, ma nell’affidamento ingenerato

nel terzo, da cui nasce l’obbligo di protezione verso lo stesso nello svolgimento

dell’attività pubblica.

In altri termini il provvedimento e la sua formazione presentano delle caratteristiche

peculiari, derivanti dall’innesto su un rapporto giuridico nuovo e complesso dal quale si

originano affidamenti ed aspettative: questo genera in capo alla pubblica

amministrazione un dovere di comportamento i cui confini sono delineabili non solo in

base alle norme che disciplinano l’esercizio del potere, ma anche sulla base di criteri

atti a valutare l’attitudine a pregiudicare l’affidamento al legittimo esercizio di tal

potere.

7 Cfr. Cass. sez. III, n.589/1999.

Nel momento in cui viene leso l’affidamento, si pensi proprio al caso in cui la P. A non

rispetti i termini di conclusione del procedimento generando il ritardo, nasce, in base

alle suddette argomentazioni, una responsabilità sui generis del soggetto pubblico,

definita da contatto amministrativo qualificato ed assimilata a quella contrattuale per

inadempimento dell’obbligazione, che, nel caso di specie, non discenderebbe dal

contratto, ma dalla legge, a seguito della violazione dei principi di buona fede,

correttezza e trasparenza e (di riflesso) dei doveri di imparzialità e buon andamento

sanciti dall’art. 97 cost. e desumibili dalla legge 241/1990.

La mancanza di un contratto non ostacolerebbe la qualificazione della responsabilità in

esame come contrattuale, visto che l’art. 1173 c.c. annovera tra le fonti delle

obbligazioni “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità all’ordinamento

giuridico”. Pertanto l’obbligo risarcitorio in tal caso deriverebbe non dalla lesione del

bene della vita, ma dalla violazione di regole procedimentali il cui rispetto diviene

imprescindibile per tutelare l’affidamento del privato8. Questa ricostruzione potrebbe

esser intesa anche come un forte imput verso l’erosione degli antichi privilegi a favore

del’amministrazione e consentirebbe ai giudici di utilizzare uno strumento di tutela più

incisivo attraverso l’applicazione dei criteri di accertamento della colpa di cui all’art.

1218 c.c. nonché il più favorevole termine prescrizionale decennale della responsabilità

contrattuale. Tale ricostruzione teorica della responsabilità della P. A presenta però

alcuni aspetti problematici ed incerti.

Un primo punto d’ombra è costituito dalla natura ibrida di tale responsabilità che

sembra collocarsi a cavallo tra quella extracontrattuale e quella contrattuale, correndo

il rischio di aver creato in via giurisprudenziale una responsabilità speciale che

parteciperebbe dei tratti somatici dell’una e dell’altra.

La seconda perplessità concerne la qualificazione dell’obbligo di protezione nascente

dall’affidamento del privato. Tale obbligo, infatti, ha natura procedimentale e la sua

violazione genererebbe responsabilità indipendentemente da fatto che l’attività

dell’amministrazione sia vincolata o discrezionale, poiché il suo contenuto non è il

8 Cfr. E. Casetta, cit., p. 652-654.

conseguimento del bene della vita, ma il solo affidamento nel rispetto da parte della P.

A dei doveri di buona fede, correttezza e trasparenza. Questo assunto, investendo la

natura dell’interesse legittimo ed il suo rapporto con l’interesse procedimentale,

indurrebbe a rileggere le situazioni giuridiche soggettive interessate ricollegandole alla

coppia diritto-obbligo.

Tenendo presenti tali premesse occorre ricordare che un’ipotesi di dubbia

qualificazione, per la quale si è maggiormente parlato di responsabilità della pubblica

amministrazione da contatto sociale qualificato, è proprio il “danno da ritardo”,

introdotto dalla novella del 2009.

L’ INTERESSE PROCEDIMENTALE: UNA TIPOLOGIA DUBBIA

Una tipologia di interesse particolare e di difficile collocazione è costituita dall’interesse

procedimentale che ha carattere formale poiché non si ricollega direttamente ad un

bene della vita a differenza degli interessi oppositivi e interessi pretensivi, che

presentano natura sostanziale.

L’interesse procedimentale è tale poiché ha come contenuto il rispetto di quelle regole

formali, sancite dalla legge 241/1990, che governano l’azione amministrativa nell’iter

procedimentale preordinato all’adozione di un provvedimento. La sua natura è

caratterizzata dalla strumentalità all’acquisizione o al mantenimento del bene della

vita. Secondo il dettato della sentenza n. 500/99 della Cassazione, a rigor di logica, non

se ne potrebbe ammettere la risarcibilità, possibile solo per la lesione dell’interesse

legittimo inteso come posizione di vantaggio del privato in relazione ad un bene della

vita; sembrerebbe, infatti, mancare una pretesa diretta e concreta nei confronti della P.

A, un‘utilità effettiva conseguibile dal privato.

Detto ciò, la vera novità in merito alla possibile risarcibilità dell’interesse

procedimentale, è costituita dalle tesi prospettate con riferimento alla responsabilità da

contatto amministrativo, (trattata in precedenza) che, oggi, a seguito dell’introduzione

del danno da ritardo ex art. 2 bis legge n. 241/90, sembra aver nuovamente acquisito

centralità nel dibattito dottrinale giurisprudenziale. Si arriva ad ammettere la

risarcibilità dell’interesse procedimentale considerando il contatto tra privato ed

amministrazione come fonte di un obbligo di protezione; violando la regola

procedimentale la P.A lede l’affidamento del terzo condannandosi al ristoro del danno.

Tale teoria non è condivisa da tutti e coinvolge in primis la natura della legge n. 241/90.

Si è pensato che occorra verificare se la disciplina del procedimento amministrativo

debba intendersi quale regolamentazione del potere o del comportamento

amministrativo; in tal ultima ipotesi una parte minoritaria della dottrina ha ritenuto

che la situazione del privato non potrebbe definirsi interesse legittimo, ma si avrebbe

un vero e proprio diritto soggettivo a fronte del quale sussisterebbe in capo

all’amministrazione un dovere di buona fede e correttezza9.

Altro orientamento è quello che ritiene più corretto che la legge n.241/90 disciplini

l’esercizio del potere, e che, quindi, non attribuisca né diritti, né obblighi. Al massimo il

procedimento amministrativo, secondo la teoria del contatto sociale, sarebbe fonte di

doveri di correttezza mediati dall’esercizio del potere autoritativo, con la conseguenza

che la P.A, se l’interesse pubblico lo esigesse, potrebbe riservarsi di decidere

diversamente, senza incorrere in responsabilità e se si verificasse una lesione si

giungerebbe al limite ad affermare in capo all’amministrazione un responsabilità

extracontrattuale, conseguente alla violazione del neminem ledere; il dovere di

correttezza si risolverebbe nel comparare gli interessi in gioco secondo buona fede,

ossia rispettando i doveri di imparzialità, correttezza, trasparenza ed efficienza

dell’azione amministrativa10.

Premesso questo sembra possibile riconoscere come unico interesse procedimentale

risarcibile ed elevato al rango di bene della vita, il tempo; esclusa quest’isolata ipotesi

9 Cfr. A. Di Maio, Rapporti senza potere e potere senza rapporti: ancora sul riparto tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, in Corr. Giur., 2004, 6 , p.781.

10 Cfr. F. Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore puntualizzazione, in Foro It., 2003, p.79 e ss.

introdotta con l’art. 2 bis della legge n.241/90, si tende ad escludere la risarcibilità dei

meri interessi procedimentali senza che essi trovino un aggancio diretto ed immediato

ad un bene della vita. Volendoli considerare un’autonoma voce di danno si correrebbe il

rischio di duplicare i risarcimenti nel caso in cui alla lesione del mero interesse

procedimentale si legasse anche quella dell’interesse sostanziale al conseguimento del

bene della vita.

CAPITOLO II:

IL DANNO DA RITARDO

IL VALORE “TEMPO” E L’OBBLIGO DI PROVVEDERE.

L’innovazione apportata dalla previsione normativa dell’art. 2 bis legge n.241/1990

nonché l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo con la relativa

confluenza dell’art. 21 bis legge n.1034/1971 nell’art.31 c.p.a (che sembra segnare il

venir meno della figura del commissario ad acta) dimostrano come il termine per

provvedere previsto, dall’art.2 legge n.241/1990, così come più volte novellato,

costituisca l’unico lasso temporale concesso alla P. A. per adempiere all’obbligo di

provvedere, con conseguente equiparazione dell’inerzia all’inadempimento.

Proprio con riferimento al decorso del tempo ed alla violazione dell’obbligo di

concludere il procedimento nei termini si evince come il fattore temporale assuma

progressivamente valore precipuo nel panorama amministrativo a seguito della novella

del 2009; basti pensare ad esempio che il rispetto dei termini per la conclusione del

procedimento rappresenta un elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale

e di esso si tiene conto ai fini della corresponsione delle retribuzioni di risultato.

Il rispetto dell’art. 2 legge n.241/90 costituisce oggi un dato attinente ai livelli essenziali

delle prestazioni che l’amministrazione deve rendere ai privati: infatti, solo le previsioni

dello stesso sono divenute di esclusiva competenza dello Stato ai sensi dell’art 117 Cost.

Pertanto l’osservanza del termine è parametro di valutazione e di misurazione

dell’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e già nel 2005 il

legislatore dimostrava di rivolgere particolare attenzione alla tempistica

procedimentale con la previsione della comunicazione al privato del termine di avvio e

di chiusura del procedimento11.

Diviene naturale, quindi, connettere il fattore tempo e la tematica del “danno da

ritardo” con l’obbligo di provvedere promanante dall’art. 2 legge n.241/1990 il quale

afferma che “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero11 Cfr. E. Casetta, cit., pag. 427-433.

debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di

concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. Allo stesso tempo

sembra opportuno fare una riflessione per capire se tale obbligo sussista solo in

presenza di una legge o di un regolamento che lo impongano o se sia evincibile, pur in

assenza di un’esplicita previsione, anche dal sistema di disciplina dei rapporti tra privati

e pubbliche amministrazioni. Tale sistema, infatti, costituisce quel fondamento

normativo di portata generale ricavabile dai principi di necessità dell’agire

amministrativo, quando esso sia portatore di funzioni e compiti che consentono anche

ai privati di poter conseguire posizioni di vantaggio se coincidenti con l’interesse

pubblico. In altri termini l’obbligo di provvedere esisterà e farà sorgere in capo al

privato un interesse all’ottenimento del provvedimento anche in mancanza di

un’espressa statuizione di legge, purchè la situazione soggettiva del privato coesista e si

affianchi anche ad un interesse della pubblica amministrazione.

L’individuazione dell’obbligo di provvedere spesso risulta esser impresa non facile; basti

pensare all’ipotesi di un’istanza del privato che tenda la rilascio di un provvedimento

discrezionale nell’an: in tal caso la discrezionalità può consentire all’amministrazione di

non avviare il procedimento. Un’altra ipotesi potrebbe ravvisarsi nella richiesta di

estensione del giudicato da parte di chi, pur essendo portatore di un interesse

collettivo, non abbia partecipato al processo nel quale si è formato il giudicato di cui

chiede l’estensione: la giurisprudenza del Consiglio di Stato ritiene per ragioni di

certezza giuridica non sussistere l’obbligo a provvedere; analogamente non sussiste

tale obbligo in caso di assenza di interesse specifico del privato che presenti una

denuncia o nell’ipotesi di istanza manifestamente infondata12.

Alla luce di ciò può concludersi affermando che l’obbligo a provvedere e concludere il

procedimento trova la sua fonte non solo nelle norme di legge o di regolamento, ma

anche nei principi generali che governano l’azione amministrativa, in particolare il

principio di certezza giuridica; al contrario tale dovere non sussiste nei casi di istanza

esorbitante dalle esigenze di ampliamento della sfera giuridica del privato, di istanza

12Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n.4592/2001.

pretestuosa o istanza presentata ad un’amministrazione incompetente13. Nelle residue

possibilità la P. A deve provvedere ed il ritardo, il silenzio, l’inerzia protratta

costituiscono un illecito sanzionabile secondo la previsione del nuovo art. 2 bis legge

n.241/1990.

L’ACCESO DIBATTITO SUL RITARDO FINO ALLA NOVELLA DEL 2009

Scaduto il termine di conclusione del procedimento il privato può imbattersi in tre

possibilità.

La prima è che l’inerzia della pubblica amministrazione perduri e la legge non

attribuisca al silenzio alcun significato, il che comporta che esso non possa venir

interpretato come silenzio assenso o silenzio rigetto. In tal evenienza il sistema

normativo metteva a disposizione del privato l’art. 21 bis legge n.1034/1971 (Legge

TAR), oggi art. 31 e 117 d. lgs n.204/2010 (c.p.a), uno strumento ad hoc per giungere il

tempi brevi all’adozione dell’atto da parte della P. A.

La seconda e la terza possibilità possono verificarsi rispettivamente quando la pubblica

amministrazione emani in ritardo un provvedimento favorevole oppure quando essa ne

emani uno sfavorevole, anche a seguito del giudizio instaurato avverso il silenzio.

Nei casi evidenziati si pone chiaramente in essere il problema della risarcibilità del

danno causato dal ritardo nell’emanazione dell’atto o dal silenzio perdurante (qualora

13 Cfr. V. Cerulli Irelli, cit., p.312 e ss.

il privato cittadino decida di non attivare la procedura propulsiva predisposta dall’art

21 bis).

L’inerzia ed il silenzio della P. A acquistano rilevanza decisiva in merito ad una

responsabilità risarcitoria della medesima nel momento in cui l’istanza rimasta inevasa

sia idonea a dar origine ad un procedimento oppure quest’ultimo debba esser iniziato

d’ufficio: in queste ipotesi, infatti, l’art. 2 legge n. 241/1990 prescrive che le pubbliche

amministrazioni hanno l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento

espresso.

La stessa giurisprudenza ha spesso ricordato che, a prescindere dall’esistenza di

apposite prescrizioni che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza

non palesemente abnorme proveniente dai privati, non vi è dubbio che in un regime di

trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo trova la propria ragion d’essere ogni

volta in cui le esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un

provvedimento espresso nel rispetto del dovere di correttezza e buon amministrazione

sancito dall’art. 97 Cost., in rapporto al quale il privato vanta un’aspettativa legittima e

qualificata rispetto ad un’esplicita pronuncia14.

In questo quadro il dato dirompente è caratterizzato dalla possibilità per il privato di

rivolgere alla P. A. una richiesta risarcitoria del danno da ritardo nell’emanazione del

provvedimento;

ipotesi che riguarda anche il caso del silenzio perdurante dell’amministrazione.

Il legislatore del 2009 con la legge 59 introducendo l’art. 2 bis nella legge n.241/1990

ha preso esplicita posizione nell’annoso dibattito sorto tra giurisprudenza e dottrina

circa la possibilità di riconoscere un’azione risarcitoria per il mero ritardo, a

prescindere dall’indagine della spettanza del bene della vita costituente l’oggetto del

provvedimento richiesto.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n.7/2005 si è pronunciata in

senso negativo ritenendo risarcibile il “danno da ritardo” solo nell’ipotesi di

provvedimento favorevole al privato, e, nello stesso senso, in caso di protratto silenzio,

14 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n.2318/2007.

solo sulla base di un giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita oggetto

dell’istanza del cittadino15. Tale ultima ipotesi, occorre precisare, si imbatte nelle

difficoltà che sorgono nel momento in cui il giudizio prognostico sull’esito finale del

procedimento debba effettuarsi nei casi di discrezionalità dell’esercizio del potere

amministrativo.

La precedente posizione giurisprudenziale, ripresa ultimamente da Consiglio di Stato

nel 200816, si fonda sui cardini concettuali promananti dalla nota sentenza n. 500/1999

della Corte di Cassazione che, inaugurando la stagione del risarcimento del danno da

lesione di interesse legittimo quale danno contra ius, lo ricollegava strettamente al

bene della vita; pertanto nell’ipotesi degli interessi pretensivi conseguenti ad un istanza

del privato, il risarcimento del danno sarebbe stato concesso solo se, attraverso un

giudizio prognostico, il bene della vita negato illegittimamente dalla P. A fosse stato

considerato dovuto.

Tal orientamento aveva trovato maggiore seguito rispetto ad un altro, comunque

sostenuto da autorevole giurisprudenza, secondo il quale si ammetteva la risarcibilità

del danno prodotto dal mero ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa

azionata con l’istanza avanzata nei confronti dell’amministrazione, mirando a

garantire in primis la tutela piena dell’interesse del cittadino al rispetto dei termini del

procedimento. Si riteneva, infatti, come già affermato in precedenza, che la legge

241/1990 con la serie di obblighi procedimentali di correttezza previsti a carico della P.

A. instaurasse un rapporto diretto tra quest’ultima ed il privato, comportando la

configurazione di una responsabilità di natura contrattuale da “contatto qualificato”.

Questo orientamento è stato espressamente sostenuto dall’ordinanza di rimessione

all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 875/05, nella quale si è incentrata

l’attenzione sulla rilevanza del bene “tempo”, come bene della vita sostanziale,

meritevole di autonoma tutela giuridica rispetto al bene oggetto dell’istanza.

15 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n. 7/2005.

16 Cfr. Cons. Stato, sez. IV, n.248/2008.

Si affermava che “l’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione

amministrativa, nel panorama economico e nella moderna concezione del rapporto

amministrativo, sembrava essere meritevole di tutela in sé considerato, non essendo

sufficiente relegare tale tutela alla previsione ed all’azionabilità di strumenti processuali

di carattere propulsivo che si giustificano solo nell’ottica del conseguimento dell’utilità

finale, ma appaiono poco appaganti rispetto all’interesse del privato a vedere definita

con certezza la propria posizione in relazione ad un’istanza rivolta

all’amministrazione17”. Seguendo tale impostazione il rispetto dei tempi del

procedimento assurge in via autonoma a “bene della vita” risultando svincolato da

qualsiasi ulteriore interesse procedimentale.

Riguardo tale tesi giurisprudenziale, autorevole dottrina è giunta ad affermare la

sussistenza di due distinti beni della vita nel momento in cui un privato rivolga

un’istanza alla P.A: in primo punto il bene sostanziale oggetto dell’istanza, in secondo

luogo il rispetto dei tempi certi del procedimento. Ne deriverebbe necessariamente che

nell’ipotesi di mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento, il privato,

che ne risulti danneggiato, potrà adire il giudice per chiedere il risarcimento del danno

indipendentemente da contenuto del provvedimento. Occorre precisare che questa

ricostruzione del danno da ritardo non si fonda su una responsabilità di natura

contrattuale della P. A, ma sul presupposto che l’inosservanza del dovere di concludere

il procedimento nel termine configuri un danno ingiusto perché non in iure, ossia

cagionato dalla mancato rispetto di una prescrizione normativa posta a supporto della

legittimità dell’azione amministrativa18.

Sempre in ordine a tale dibattito occorre far riferimento ad una recente decisione nel

2009 del Consiglio di Stato che aveva ad oggetto la mancata tempestiva adozione di un

provvedimento tariffario, la quale, essendo intervenuta con grande ritardo ed in un

momento successivo a quello in cui la stessa P. A aveva posto a carico del gestore di un

aeroporto l’obbligo di inizio del servizio, aveva a questi impedito di chiedere ai terzi (di

regola altri vettori aerei) tale corrispettivo comportando così un costo di attivazione del17 Cons. Stato, sez. IV, ord. Di rimessione ad Ad. Plenaria, n.875/2005.18 Cfr. V. Cerulli Irelli, cit., p. 362 e ss.

servizio effettivamente e ingiustificatamente sostenuto. Si trattava, pertanto, di una

controversia su danno da ritardo, in cui la contestazione aveva ad oggetto la mancata

e tempestiva attivazione del potere autoritativo e non l’illegittimità dei contenuti

dell’atto, poi positivamente adottato e da cui scaturiva il riconoscimento della spettanza

del bene della vita che “sostanzializzava” e rendeva risarcibile l’interesse pretensivo

correlato al provvedimento. In questa decisione il Consiglio di Stato ha tenuto a

precisare che “l’illegittimità non era ascritta al comportamento dilatorio, ma alla

violazione di una norma procedimentale propriamente riferibile all’esercizio del potere,

sicché ben poteva ravvisarsi un’illegittimità dell’azione amministrativa pubblicistica,

indipendentemente dal contenuto del provvedimento”19.

In questo dibattuto panorama dottrinale e giurisprudenziale è intervenuto il 2 bis legge

n.241/1990 che sembra dirimere la questione prevedendo il risarcimento del danno in

conseguenza dell’inosservanza del termine di conclusione del procedimento, sia in caso

di ritardo che di silenzio, senza alcun limite in ordine al contenuto dell’atto finale,

facendo propria la tesi volta a tutelare l’interesse del cittadino alla certezza dei tempi

dell’azione amministrativa autonomamente considerata.

Di conseguenza il mancato rispetto dei tempi procedimentali, nel caso di mero ritardo

qualifica il danno come ingiusto e legittima ad agire per il risarcimento,

indipendentemente dall’impugnazione del silenzio. Sebbene il problema della

pregiudiziale amministrativa sia stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di

Cassazione nel senso della non necessaria esperibilità del previo giudizio caducatorio

rispetto a quello risarcitorio (anche se la giustizia amministrativa è di avviso opposto),

la legge ha positivizzato una tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza in merito alla

pregiudiziale amministrativa nel caso di silenzio o inerzia della P. A, secondo la quale i

due giudizi mirano a raggiungere un diverso obiettivo: quello sul silenzio è volto ad

ottenere l’utilità- provvedimento finale, quello risarcitorio è finalizzato ad ottenere

esclusivamente il ristoro per il pregiudizio derivante della violazione dell’interesse al

rispetto dei termini del procedimento.

19 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 65/2009.

LA STRUTTURA DEL RITARDO COME ILLECITO EX 2043 C. C

La fattispecie risarcitoria del “danno da ritardo” così come predisposta dalla legge

69/09 col nuovo art. 2 bis risulta esser di natura extracontrattuale.

L’articolo citato afferma che “le pubbliche amministrazioni ed i soggetti privati preposti

all’esercizio delle attività amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto

cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di

conclusione del procedimento. Le controversie relative all’applicazione del presente

articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto

al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni”. Come abbiamo visto, si era

ipotizzata una responsabilità da contatto sociale qualificato, che avrebbe seguito le

regole della responsabilità contrattuale, ma la presenza di un termine prescrizionale di

cinque anni, nonché l’esplicito richiamo che l’art. 2 bis opera nei confronti dell’art. 2043

c.c. lasciano poche incertezze sulla natura sua extracontrattuale20.

La nuova fattispecie risarcitoria mostra, pertanto, di recepire pienamente

l’impostazione che ancora il risarcimento del danno al ritardo o al silenzio della P. A.

indipendentemente dal contenuto dell’atto.

La base portanti dell’illecito è costituita da una condotta omissiva consistente

nell’inosservanza colposa o dolosa dei termini del procedimento che abbia causato al

privato un “danno ingiusto”.

Spicca l’autonomia di tal fattispecie risarcitoria rispetto al contenuto dell’atto

amministrativo: infatti la norma mostra forte disinteresse verso quest’ultimo perché al

di fuori dell’ipotesi risarcitoria e non causalmente legato all’individuazione del danno

ingiusto.

Il bene protetto dalla fattispecie normativa risulta esser la certezza dei tempi

procedimentali, mirando così a salvaguardare la progettualità del privato e l’assetto di

interessi che lo stesso possa aver stabilizzato e preordinato in relazione ai tempi del

procedimento.

Si analizzano di seguito gli elementi costitutivi della struttura del 2 bis legge 241/90.

Ingiustizia del danno e nesso di causalità

Il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento è sanzionato dall’art. 2

bis legge n.241/90 quando cagioni una lesione alla sfera giuridico-patrimoniale del

privato che interagisce con la pubblica amministrazione.

20Cfr. E. Casetta, cit., p. 654.

Il danno risentito dal cittadino è ingiusto perché derivante dall’inosservanza ad opera

del soggetto pubblico dei termini stabiliti dall’ordinamento per la legalità dell’agire

amministrativo. Proprio in merito all’ingiustizia del danno occorre ricordare come

l’impostazione tradizionale ammettesse solo il risarcimento per la lesione di diritti

soggettivi perfetti. La sentenza n.500/1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione

ha travolto tale assunto ed ha definitivamente sancito la risarcibilità del danno

susseguente all’ingiusta lesione di interessi legittimi sia oppositivi che pretensivi. Questa

storica sentenza ha segnato l’approdo di quell’evoluzione giurisprudenziale che, in

ordine alla tematica della responsabilità ex art. 2043 c.c., aveva segnato il passaggio

da una concezione “tipica” dell’illecito, fondata sul danno ingiusto unicamente legato

alla lesione di diritti soggettivi assoluti, ad una concezione “atipica” che fondava sulla

violazione del principio del neminem ledere il risarcimento di qualsiasi danno

qualificato ingiusto in sede di verifica giudiziale della meritevolezza degli interessi lesi,

in via autonoma dalla loro formale qualificazione come diritti soggettivi.

Il mancato rispetto del termine del procedimento deve essere causalmente collegato al

pregiudizio economico subito dal privato a seguito del ritardo della P. A. In questo caso

si tratterà di appurare il rapporto di causazione che intercorre tra l’inadempimento

della P. A. (o del soggetto privato preposto all’esercizio dell’attività amministrativa)

consistente nella condotta omissiva dolosa o colposa che genera il cosiddetto ritardo

nell’adozione del provvedimento ed il danno subito dal privato. Anche qui occorre

specificare che la conosciuta insufficienza normativa già sperimentata in sede penale

non può non essere riscontrata anche in quella amministrativa21. Le teorie della

condicio sine qua non o della causalità adeguata non sembrano costituire degli

approdi sicuri. Delle indicazioni sembrano giungere dalla giurisprudenza della Corte

dei Conti che nell’accertamento della responsabilità contabile sembra scorgere la base

normativa negli articoli 41 e 42 del codice penale integrati dall’art. 1223 c. c che

stabilisce che “il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve

21 Cfr. E. Casetta, cit., p.662.

comprendere la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne

siano conseguenza diretta ed immediata”22.

L’elemento soggettivo: in particolare la colpa.

In tema di elemento psichico quale fattore costitutivo dell’illecito extracontrattuale

occorre innanzitutto chiarire il quadro generale in cui si viene a collocare la colpa o il

dolo della P. A nel mancato ossequio ai tempi del procedimento.

Innanzitutto il problema dell’elemento psichico si pone nell’ipotesi di attività funzionale

della pubblica amministrazione, essendone scontata la verifica nel caso di

comportamento materiale o di atto paritetico del dipendente. Anche in tale ottica

assumono rilievo decisivo i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione nella

sentenza n.500/99.

Fino a quel momento la questione della prova della colpa della P. A veniva affrontata

dalla giurisprudenza in termini semplicistici, in quanto si riteneva che la sola

illegittimità dell’atto, laddove il dipendente avesse violato norme di servizio o agito con

eccesso di potere, fosse sufficiente a fondare il giudizio di colpevolezza

dell’amministrazione. Si assisteva ad una colpa in re ipsa connaturata alla semplice

adozione o esecuzione di un atto illegittimo.

La sentenza n. 500/99, oltre ad aver sancito la risarcibilità del danno anche per lesione

di interessi legittimi, è giunta a disconoscere l’ orientamento precedente che si

dimostrava non più coerente con la nuova dimensione della responsabilità civile

dell’amministrazione imposta dalla rilettura del danno ingiusto e dalla verifica di una

colpa che trascende la dimensione fisica e personalistica del dipendente per investire lo

stesso modo di organizzarsi e di operare di tutto l’apparato pubblico23.

22 Cfr, E. Casetta, cit., p.662.

23 Cfr. F. G. Scoca, cit., p. 764-765.

La colpa, pertanto, non poteva più esser fondata esclusivamente sulla violazione di

norme puntuali che disciplinano l’azione amministrativa, ma doveva fondarsi anche

sull’inosservanza dei principi generali che governano l’esercizio del potere pubblico

quali imparzialità, correttezza, affidamento e buon andamento: questo appare il punto

di approdo della rivoluzione che ha colpito l’assetto organizzativo e operativo degli

apparati pubblici.

Basti pensare che oggi, in seguito alla riforma del 1993, ma ancor di più alla luce della

novella del 2009, la stessa responsabilità dei dirigenti, ai quali si imputano atti illeciti,

deve esser valutata secondo i criteri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, a

dimostrazione del fatto che la responsabilità civile dell’amministrazione non può non

coinvolgere l’intero suo apparato organizzativo e gestorio che ne esplicita l’agire

concreto.

La Cassazione configurando la P. A come organizzazione sembra accogliere una

nozione oggettiva di colpa derivante dal mancato rispetto di regole obiettive, ma,

seguendo tal impostazione dogmatica, si potrebbe vanificare la necessità di

commisurare il comportamento illecito dell’amministrazione al parametro della

diligenza dell’uomo medio, ampliando in maniera abnorme lo spettro di responsabilità

della stessa. Per ovviare a tale problematica si può far riferimento all’insegnamento

delle stesse Sezioni Unite che invocano il rimedio dell’errore scusabile come causa di

esenzione dalla colpa che consentirebbe di delimitare l’ambito della responsabilità in

cui la P. A potrebbe incorrere. Per errore scusabile dovrebbe intendersi quello frutto

dell’applicazione di norme di dubbia interpretazione o di formulazione incerta, quello

che si sia dimostrato inevitabile a causa della complessità dei fatti che

l’amministrazione deve valutare, quello causato dall’influenza determinante di

comportamenti di altri soggetti oppure in caso di illegittimità derivante da una

successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata 24.

L’impostazione fissata dalla sentenza delle Sezioni Unite del 1999 e la nozione di colpa

oggettiva che ne derivava non ha convinto la giurisprudenza successiva. I dubbi emersi

24 Cfr. Cass. Sez. Unite, n. 500/1999.

al riguardo sono stati i più vari; nello specifico si è criticata l’ambiguità del riferimento

ai principi di buona amministrazione quali canoni per desumere la colpa dell’apparato

e si è ritenuto che ipotizzare una colpa di organizzazione o per mancato corretto

esercizio della funzione pubblica significasse ancorare il giudizio di colpevolezza a

parametri evanescenti circa l’elemento psicologico che il ricorrente aveva l’onere di

provare25.

Queste premesse rispecchiano i due principali orientamenti giurisprudenziali in tema di

accertamento dell’elemento psicologico nella responsabilità per danno da ritardo.

Infatti collocandosi tale responsabilità nell’ambito extracontrattuale si richiede che il

bene della vita conseguito in modo differito sia supportato dal fatto altrui quantomeno

colpevole26.

Si evidenzia, pertanto, un primo filone giurisprudenziale secondo il quale sul privato

che sia stato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo, o nel caso

in esame dall’inerzia della P. A, non gravi l’onere di fornire delle prove che dimostrino la

colpa dell’apparato pubblico; si ritiene esser sufficiente invocare l’illegittimità del

provvedimento o della mera inattività, la quale assumerà la funzione di indice

presuntivo della colpa, oppure allegare delle circostanza ulteriori che possano

evidenziare che non si è trattato di un errore scusabile. Questa tesi giurisprudenziale

trova un forte approdo in una recente pronuncia del Consiglio di Stato che ha

affermato che fermo restando l’inquadramento della maggior parte delle fattispecie

della responsabilità dell’amministrazione all’interno della responsabilità

extracontrattuale, non è richiesto al privato danneggiato da un provvedimento

amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell’elemento

soggettivo. In conseguenza di ciò “pur non essendo configurabile, in mancanza di

un’espressa previsione normativa, una presunzione generalizzata di colpa

dell’amministrazione per i danni conseguenti un atto illegittimo o comunque ad una

25 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n.1514/07.

26 Cfr. Tar. Lazio, n.2694/2008.

violazione delle regole, possono operare invece le concrete regole di comune esperienza

e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie27”.

Traslando tale statuizione nel caso del mancato rispetto dei termini di conclusione del

procedimento, il privato cittadino danneggiato potrà limitarsi ad invocare la semplice

illegittimità del ritardo quale indice presuntivo della colpa o anche allegare delle

circostanze che dimostrino come la violazione dell’art. 2 legge n.241/1990 non sia

legata ad un errore scusabile. Secondo tale impostazione spetterà all’amministrazione

provare il contrario.

Tale orientamento ha avuto minor seguito e frequenza rispetto all’enunciato di

principio che disconosce l’imputazione della responsabilità nei confronti della P. A

fondata sul mero dato oggettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, obiettando

che si estenderebbe in modo abnorme il perimetro di imputabilità

dell’amministrazione, ponendo come suo unico requisito un’inammissibile presunzione

di colpa.

Secondo l’assunto in esame il giudizio di responsabilità deve aver come presupposto

l’accertamento della colpa in concreto del soggetto pubblico, configurabile nel

momento in cui l’esecuzione dell’atto illegittimo o l’inerzia si sia materializzata come

conseguenza della violazione di regole proprie dell’attività amministrativa, ricavabili

dai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, dell’inosservanza di norme

di legge in punto di celerità, efficacia, efficienza e trasparenza e del mancato ossequio

ai principi generali di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza28.

In altri termini il privato che fronteggi l’inerzia perdurante dell’amministrazione dinanzi

ad una sua istanza o sia destinatario di un provvedimento, favorevole o non, emanato

successivamente alla scadenza del termine di conclusione del procedimento non si

dovrà limitare ad invocare l’illegittimità di tale condotta, ma sarà gravato dall’onere di

addurre delle prove che dimostrino almeno la sussistenza di una colpa in concreto

dell’amministrazione, ossia che il ritardo sia dovuto, nel particolare caso di specie, alla

27 Cons. Stato, sez. VI, n.1732/2009.

28 Cfr. Cons. Stato , Ad. Plenaria, n. 13/2008.

colposa inosservanza del dettato dell’art. 2 legge n.241/90 connaturata alla violazione

dei principi di portata generale che governano l’agire amministrativo.

La giurisdizione ed il danno risarcibile

L’art. 2 bis della legge n.241/1990 attribuisce le controversie relative al risarcimento del

danno derivante all’inosservanza colposa o dolosa del termine di conclusione del

procedimento amministrativo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Tale statuizione è confluita e ribadita nell’art. 133 del d. lgs 104/2010, comma 1 n.1.

Il fatto che l’inerzia o il ritardo della pubblica amministrazione, poiché collegati

all’esercizio di poteri autoritativi, fossero da ricomprendere nella giurisdizione del

giudice amministrativo era già stato sancito dal Consiglio di Stato nel 2005. In tale

decisione si rispondeva al dubbio avanzato con l’ordinanza di rimessione all’Adunanza

Plenaria, che l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento integrasse un

“comportamento omissivo” lesivo di diritti soggettivi e pertanto conoscibile solo da

giudice ordinario, soprattutto dopo la sentenza n. 204/04 della Corte Costituzionale con

la quale si stabiliva il preciso limite che il legislatore doveva rispettare nel delineare le

materie devolute alla giurisdizione esclusiva amministrativa: esse dovevano porsi come

materie “particolari” rispetto a quelle rientranti nella giurisdizione di legittimità e

dovevano partecipare della loro stessa natura, contrassegnata dal fatto che la P. A, non

ponesse in essere dei meri comportamenti materiali, ma agisse come “autorità”29.

L’Adunanza Plenaria risolse la problematica questione affermando che nell’ambito del

danno da ritardo “non si è di fronte a <<comportamenti>> della pubblica

amministrazione invasivi dei diritti soggettivi del privato in violazione del principio del

neminem ledere, ma si è in presenza della diversa ipotesi del mancato tempestivo

soddisfacimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di assolvere adempimenti

pubblicistici, aventi ad oggetto lo svolgimento di funzioni amministrative. Si è, perciò, al

cospetto di interessi legittimi pretensivi, che ricadono, per loro intrinseca natura, nella

giurisdizione del giudice amministrativo30.

Il fatto che la P. A, dinanzi ad un istanza o dovendo d’ufficio avviare un procedimento,

non abbia rispettato il termine previsto dalla legge n.241/1990 non integra un mero

comportamento materiale, che esula dall‘agire pubblico e lede un diritto soggettivo di29 Cfr. Corte Cost., n. 204/2004.30 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n.7/2005.

un terzo, ma costituisce un inadempimento agli obblighi derivanti dall’esercizio del

potere pubblico attribuito dal legislatore all’apparato amministrativo; la P.A agisce in

veste “autoritativa” e, pertanto, in capo al privato sussiste un interesse legittimo al

rispetto dei tempi procedimentali che se leso legittima il risarcimento del danno.

Per quanto attiene alla quantificazione del danno bisogna dire che esso non è in re

ipsa, non discendendo automaticamente dalla scadenza del termine di conclusione del

procedimento. L’ordinanza del Consiglio di Stato di rimessione all’Adunanza plenaria

del 2005 affermava che “il danno dovrà esser provato secondo gli stringenti parametri

dell’art. 2043 c.c. e non potrà ovviamente essere quello che discende dalla mancata

emanazione del provvedimento, ma solo quello che sia derivato al privato dalla

situazione di incertezza protratta oltre il termine, in altri termini, ciò che si definisce

interesse negativo”31.

In termini generali si è affermato che, trattandosi di lesione di interesse legittimo

pretensivo, il danno investirà il ritardo nell’adozione del provvedimento ampliativo della

sfera privata richiesto o la perdita di chances favorevoli. La liquidazione del danno

andrà a coprire il pregiudizio economico quale danno emergente e lucro cessante,

derivante dalla ritardata emanazione del provvedimento richiesto.

In tempi recentissimi (2001) è intervenuta una pronuncia nella quale il Consiglio di

Stato afferma che “l’inerzia della P. A nel provvedere su un’istanza del privato assume

particolare valenza negativa, con la conseguenza che risulta valorizzata e potenziata

ogni forma di tutela, compresa quella risarcitoria, per i danni da ritardo estensibili

anche alle conseguenze di detto ritardo sull’integrità fisica del cittadino”32. Questa

statuizione deriva dal fatto che, recependo l’orientamento della Cassazione33, il

Consiglio di Stato giunge a ritenere il danno biologico da ritardo come una species del

genus danno non patrimoniale e lo considera risarcibile purchè la lesione del diritto

costituzionale alla salute sia grave. Il rispetto dei termini del procedimento è

considerato una prestazione essenziale in base all’art. 117 comma 2 Cost., pertanto la

31 Cons. Stato, ord. di rimessione ad Ad. Plenaria, n.875/2005.32 Cons. Stato, sez V, n. 1271/2011.

33 Cfr. Cass. Sez. Unite, n. 26972/2008.

sua inosservanza è qualificabile come grave violazione. Ecco che tale sentenza assume

una grande importanza, soprattutto in prospettiva, poiché il Consiglio di Stato giunge a

considerare il danno non patrimoniale discendente in modo diretto dalla lesione di un

diritto inviolabile immediatamente risarcibile a prescindere da un’indagine sulla sua

gravità e sulla tollerabilità sociale del pregiudizio arrecato in concreto34.

Sempre in tema di quantificazione del risarcimento il giudice amministrativo deve tener

conto delle disposizioni contenute nell’art. 30 del codice del processo amministrativo.

Più in particolare il legislatore ha stabilito, ispirandosi all’art. 1227 c.c, che il giudice, in

sede di determinazione del danno, deve tener ben presente se il fatto colposo del

creditore possa aver concorso nel provocare la lesione e, tra l’altro, l’autorità giudicante

non dovrà disporre alcun risarcimento nel caso in cui emerga che il creditore avrebbe

potuto evitare o sminuire il danno usando gli ordinari strumenti di tutela predisposti

dall’ordinamento.

Infine, sotto il profilo processuale, può aggiungersi che nel caso in cui venga

riconosciuta la responsabilità dell’amministrazione, il giudice può adottare una

sentenza di condanna in forma generica, fissando i criteri di liquidazione secondo i

quali si giunga poi ad un accordo quantificativo tra P. A e privato35. Tale meccanismo

predisposto dall’art.35 d.lgs. 80/98, oggi è interamente confluito nell’art. 34, comma 4,

del d.lgs. 104/2010.

34 Cfr. Cons. Stato , sez. V, n.1271/2011.

35Cfr. F. G. Scoca, cit., p. 769-770.

CAPITOLO III:

PROBLEMATICHE CONNESSE AL SILENZIO

IL SILENZIO-INADEMPIMENTO E IL RAPPORTO CON IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA

RITARDO

Fuori dai casi in cui la condotta omissiva della pubblica amministrazione assume un

valore legale tipizzato, si configura il silenzio-inadempimento nel momento in cui la P.

A, pur essendo obbligata per legge o per regolamento o per atto amministrativo, a

provvedere sull’istanza del privato che miri ad ottenere un vantaggio o un ampliamento

della sfera giuridica, rimanga inerte. In questa ipotesi la legge non attribuisce alcun

significato positivo o negativo all’omissione della P. A e per questo il legislatore

appronta un mezzo ad hoc per permettere al privato di tutelarsi pur in mancanza di un

atto amministrativo da impugnare.

Pertanto i fattori principali per la ricorrenza del silenzio-inadempimento sono la

proposizione di un’istanza di rilascio di un provvedimento ampliativo da parte di un

soggetto che sia in una posizione qualificata e la presentazione della medesima

all’autorità competente con le forme ed i termini prescritti dalla legge. Ricorrendo tali

presupposti si configura in capo alla P. A. la nascita di un obbligo a provvedere in senso

positivo o negativo se si versa in ambito di potere discrezionale, in senso positivo se

verranno riscontrati i requisiti per l’adozione di un provvedimento vincolato. Se tale

obbligo rimane disatteso dall’inerzia del soggetto pubblico si avrà il silenzio-

inadempimento o silenzio-rifiuto a provvedere36.

Mentre il silenzio significativo ha sin dall’inizio trovato la propria disciplina nella legge,

quello inadempimento è stato, dapprima, al centro di un’elaborata giurisprudenza e,

poi, con l’introduzione dell’art. 21 bis legge TAR, con le novelle del 2005 e del 2009 ed

infine con il d. lgs 104/2010, ha trovato consacrazione positiva come rimedio

giurisdizionale.

In origine si applicò l’art. 25 d.p.r n. 3/1957 sugli impiegati civili dello Stato: secondo

tal disposizione in presenza di un obbligo di provvedere della P. A. rimasto inevaso

dopo 60 giorni dall’istanza di rilascio dell’interessato, quest’ultimo, previa formale

notifica di un atto di diffida e messa in mora, con conseguente concessione di uno

spatium deliberandi ulteriore non inferiore a 30 giorni, trascorso invano anche tale

termine, poteva adire il giudice amministrativo, per ottenere una declaratoria

accertativa dell’inerzia che imponesse alla P.A. di pronunziarsi. Si trattava di una vera e

propria azione di accertamento dell’inadempimento dell’amministrazione culminante

con una sentenza dichiarativa, ma anche ordinatoria37.

36 Cfr. V. Cerulli Irelli, cit, p.362 e ss.37 Cfr. S. Cassese, Trattato di Diritto Amministrativo, Milano, 2003, p.908 e ss.

L’amministrazione per adeguarsi al giudicato doveva adottare un provvedimento

negativo o positivo e nel caso di perdurante inerzia era possibile ricorrere al giudizio di

ottemperanza.

Le prime modifiche a quest’assetto del silenzio-inadempimento si ebbero con

l’introduzione della legge n. 241/1990. Si è rinvenuto, infatti, nell’originaria

formulazione dell’art.2, un preciso appiglio normativo rispetto all’obbligo

dell’amministrazione di attivare il procedimento su istanza del privato, e soprattutto, di

concluderlo con un provvedimento espresso e motivato nei termini stabiliti in via

regolamentare o, sussidiariamente, dalla legge.

La lettura dell’art. 2 legge n. 241/1990 induce a ritenere che non sia più necessaria la

previa diffida e messa in mora dell’amministrazione, qualora il termine sia trascorso

invano, poiché la sua semplice scadenza già segnerebbe l’inadempienza della P.A.

Nell’iter legislativo realizzato per combattere l’inerzia dell’amministrazione un rilevante

passo in avanti fu realizzato dalla legge di riforma del processo amministrativo n.

205/2000.

Essa introdusse l’art 21 bis nella legge TAR, che consentiva al privato di reagire alla

condotta omissiva dell’amministrazione con ricorso al giudice amministrativo che

decideva in Camera di Consiglio, uditi i difensori, entro 30 giorni dalla scadenza del

termine per la proposizione o dalla data fissata per ulteriori adempimenti istruttori.

L’introduzione dell’art. 21 bis fu rilevante soprattutto perché ripropose a chiare lettere

la disputa sull’oggetto del processo amministrativo. Si rinvenivano infatti due

contrapposti orientamenti: l’uno che propendeva per la tesi del processo sull’atto e

l’altro che optava per il processo sul rapporto. Era problematico stabilire se il T.A.R.

doveva limitarsi ad accertare la decorrenza del termine entro cui l’amministrazione

avrebbe dovuto provvedere, o se potesse spingere il suo sindacato alla fondatezza della

domanda, condannando, in caso di esito positivo, la P. A all’adozione di un atto che

assicurasse al ricorrente il conseguimento del bene vita oggetto della pretesa38.

38 Cfr. V. Cerulli Irelli, cit, p.362 e ss.

Per risolvere i contrasti giurisprudenziali emersi al riguardo si pronunciò l’Adunanza

Plenaria del Consiglio di Stato la quale dimostrò di condividere l’assunto secondo cui,

nel giudizio sul silenzio ex art. 21 bis, la cognizione del giudice amministrativo doveva

esser circoscritta al solo accertamento dell’inerzia dell’apparato pubblico. Il Consiglio

ritenne che il dato letterale della norma identificasse l’oggetto del processo nel silenzio,

senza far alcun riferimento alla pretesa sostanziale, cosicché la brevità dei termini e la

snellezza del rito mal si conciliavano con l’accertamento della pretesa stessa, per cui

era imposto il solo obbligo di provvedere secondo l’art. 2 legge n. 241/90; tra l’altro il

Consiglio ribadì che nel processo amministrativo il controllo sulla legittimità dell’atto

amministrativo o dell’inerzia era la regola, mentre i casi di ingerenza del giudice nel

merito amministrativo erano eccezionali e tassativamente previsti dalla legge39.

Oggi l’articolo 21 bis legge TAR è refluito nell’art. 31 e 117 del d. lgs n.104/2010 (c.p.a),

che rivisitando il giudizio sul silenzio ha espressamente legittimato il giudizio sulla

fondatezza dell’istanza solo in presenza di attività vincolata dell’amministrazione o

quando risulta che non vi siano residui margini di esercizio della discrezionalità e non

siano necessari adempimenti istruttori.

Il Codice del processo amministrativo, pertanto, si è dimostrato in linea con la tesi del

Consiglio di Stato.

Fatte queste premesse si può volgere l’attenzione proprio al rapporto tra giudizio sul

silenzio e risarcimento del “danno da ritardo” per comprendere in quali limiti sia

possibile innestare una pretesa risarcitoria sul giudizio oggi disciplinato dagli art. 31 e

117 c. p. a.

A tal proposito le questioni sono due: l’autonomia relativa al pregiudizio causato dalla

mera violazione del termine per provvedere, la seconda riguarda il ristoro del danno

causato dal ritardo nell’adozione di un atto vincolato e perciò dovuto.

Come si è già chiarito il pregiudizio causato dalla violazione del termine di conclusione

del procedimento si atteggia, indubbiamente, a lesione di un interesse legittimo, la cui

risarcibilità è stata scritta nella storica sentenza della Cassazione n. 500/99, per la

39 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n.1/2001.

quale la lesione deve esser commisurata al bene della vita oggetto della pretesa. In

questo caso la tutela è alla conservazione del bene vita rappresentato dal rispetto

dell’art. 2 della legge n. 241/90: l’inosservanza di tale norma lede l’interesse legittimo

del privato ed è risarcibile, anche perché costituzionalmente protetta dal richiamo

rinvenibile negli articoli 29 e 117 della Costituzione secondo cui il rispetto dei termini

procedimentali attiene ai livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato deve erogare ai

cittadini. Seguendo tal assunto si giunge ad ammettere un danno in re ipsa collegato al

mero ritardo provato, dal quale deriva l’ammissibilità sia una domanda di risarcimento

del danno innestata nel giudizio sul silenzio inadempimento, sia una domanda

autonoma.

Il problema, però, si scorge nell’ipotesi di inerzia su un’istanza relativa al rilascio di un

atto vincolato, poiché siamo in presenza di un danno da ritardo per mancata o

ritardata adozione di un provvedimento dovuto e, quindi, di un bene della vita. In

questo caso la domanda risarcitoria può agganciarsi al giudizio sul silenzio ex art. 31

c.p.a, ma occorrono riflessioni differenti; diverrebbe, infatti, fondamentale innanzitutto

il giudizio sulla fondatezza dell’istanza, poiché ad esso conseguirebbe l’accertamento

che l’atto sia o no effettivamente dovuto; a questo punto, si passerebbe a verificare che

la mancata o ritardata adozione abbia prodotto un danno riferibile al mancato

conseguimento del bene della vita. Innestare una pretesa risarcitoria nel giudizio sul

silenzio in caso di attività vincolata della P. A avrebbe, quindi, come conseguenza che la

quantificazione del danno non potrebbe prescindere dall’ottenimento del

provvedimento stesso e, quindi, da una cognizione della fondatezza dell’istanza, poiché

il danno andrebbe commisurato a tutto il tempo in cui il soggetto è stato privato del

bene della vita dovutogli40.

Se si tratta di attività discrezionale della P. A si è in presenza di un atto non dovuto ed il

giudice dovrà pronunciarsi esclusivamente sul ritardo e sulla violazione dell’obbligo di

provvedere.

40 Cfr. Il Sole 24 ore, Il codice del processo amministrativo, in Guida al diritto, settembre2010.

Considerando tali limiti riscontrabili dalla lettura dell’art. 31 c.p.a oltre che l’incertezza

del quantum debeatur in caso di atto dovuto, sembra apparire più opportuno e

consigliabile inoltrare la pretesa risarcitoria successivamente al giudizio sul silenzio e

dopo che il provvedimento richiesto sia stato adottato.

CONCLUDENDO: PREGIUDIZIALITA’ AMMINISTRATIVA E AUTONOMIA DELLA PRETESA

RISARCITORIA

Come si è affermato nel corso della trattazione la mancata osservanza del termine di

conclusione del procedimento fissato dalla legge sul procedimento amministrativo, in

base al nuovo art. 2 bis della medesima, comporta che il ritardo sia qualificato come

ingiusto e legittima ad agire per il risarcimento del danno.

Inizialmente si dubitava circa la necessità o meno del previo esperimento della

procedura avverso il silenzio stabilita dall’art 21 bis della legge TAR (oggi art. 31 e 117

c. p. a) rispetto alla proposizione della domanda risarcitoria del “danno da ritardo”.

Tale problematica appare venuta meno a seguito del superamento della pregiudiziale

amministrativa e dal nuovo assetto stabilizzato dal d. lgs n.104/2010.

Occorre pertanto una breve ricostruzione della vicenda inerente la pregiudizialità.

Il fervido dibattito in merito alla pregiudiziale amministrativa si scatenò all’indomani

della nota pronuncia n. 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione, che, come già visto,

abiurarono l’orientamento negativo sulla risarcibilità del danno connesso alla lesione

di interessi legittimi, che si era ormai pietrificato da oltre mezzo secolo.

La giurisprudenza ordinaria, sulla scia dei principi enunciati nella sentenza de qua, ha

ritenuto di accogliere il principio del superamento della pregiudiziale amministrativa

deducendolo dall’abrogazione, effettuata dal legislatore del 1998, di tutte le norme che

tale pregiudiziale postulavano in maniera assoluta, in particolare si pensi all’art. 13

legge n.142/1992 in tema di appalti, in base al quale la domanda di risarcimento del

danno era proponibile innanzi al giudice ordinario solo da chi avesse ottenuto

l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo41. L’esplicita

abrogazione di tali disposizioni, che stabilivano una tutela articolata su un doppio

grado di giudizio, costituiva un argomento a favore dell’impostazione affermata dalla

Cassazione, che in varie occasioni aveva ribadito come la pregiudiziale amministrativa

mostrasse evidenti lacune e fosse legata ad un processo impugnatorio storicamente

finalizzato alla tutela delle sole posizioni giuridiche soggettive lese da un

provvedimento amministrativo; un sistema che non sembrava aver minimamente in

conto le ipotesi in cui sia proprio l’assenza di un provvedimento espresso o il ritardo

nella sua adozione a costituire il presupposto cagionante il danno risarcibile.

41 Cfr. F. G. Scoca, cit, p. 762 e ss.

Inoltre il giudice di legittimità riteneva che l’art. 24 Cost. comportasse per il legislatore

l’obbligo di garantire a colui che adisce l’autorità giudiziaria, una tutela piena ed

effettiva42, ne derivava che la pregiudiziale amministrativa poteva rappresentare un

violazione di tal principio, soprattutto nel caso in cui la semplice declaratoria di

illegittimità dell’azione o dell’inerzia della P. A. non comportasse alcuna utilità effettiva

per il privato che avesse ragione.

La giurisprudenza amministrativa si assestò ben presto su un una posizione del tutto

contraria a quella seguita dalla Corte di Cassazione. L’orientamento principale fu

espresso e culminò nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2003 dove si è

enunciato l’assunto secondo cui il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo in

via generale la cognizione del risarcimento del danno senza distinguere tra

giurisdizione generale di legittimità e giurisdizione esclusiva43. In tal ottica l’azione di

risarcimento del danno si riteneva ammissibile solo a condizione che fosse impugnato

tempestivamente il provvedimento illegittimo o (traslando tale tesi nell’argomento in

esame) l’inerzia della P. A e che fossero coltivati con successo i rispettivi giudizi. Le

motivazioni addotte a sostegno dal Consiglio di Stato erano che: l’autonoma

proposizione della domanda risarcitoria svincolata dal previo annullamento dell’atto

illegittimo avrebbe comportato l’esercizio di un potere disapplicativo non attribuito da

alcuna norma al giudice amministrativo; si sarebbe generata un’asimmetria giuridica

se si fosse ammesso il rimedio aquiliano in favore di un atto o un’omissione della P. A.

non impugnate preventivamente, poiché questi sarebbero divenuti inoppugnabili, ma

avrebbero potuto ancora esser censurati per la loro lesività, facendo venir meno la

certezza giuridica; il dato letterale ricavabile dall’art. 7 legge n. 1043/1971, qualificando

le questioni risarcitorie collegate all’agire illegittimo dell’amministrazione come

consequenziali rispetto all’annullamento, riconosceva in modo implicito che il ristoro

del danno presupponesse non un semplice accertamento incidentale, ma un vero e

proprio giudizio44.42 Cfr. Cass. Sez. Unite, n.500/99.

43 Cfr. F. G. Scoca, cit, p.662-663.44 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n.4/2003.

Tali argomentazioni del Consiglio di Stato trovavano un forte ostacolo negli art. 24 e

113 Cost. che impongono la necessità di una difesa giurisdizionale piena ed effettiva e

non ammettono un diverso tipo di tutela tra diritti soggettivi e interessi legittimi.

L’annoso dibattito è stato superato dall’introduzione del nuovo codice del processo

amministrativo operata con d. lgs n.104/2010, che ha consacrato la possibilità di

attivare la pretesa risarcitoria in via autonoma rispetto al ricorso per l’annullamento

del provvedimento illegittimo o rispetto al ricorso avverso l’inerzia ingiustificata della P.

A. Come si può notare in merito agli strumenti di tutela del privato avverso l’azione

illegittima della P. A il nuovo codice annovera in modo generale: l’azione costitutiva di

annullamento (art.29) con i suoi risvolti demolitori dell’atto amministrativo e

conformativi al legittimo esercizio del potere, soprattutto in riferimento agli interessi

pretensivi, nonchè l’azione di condanna (art 30), della quale quella risarcitoria

costituisce una delle varie specificazioni, che può esser intentata congiuntamente con

l’azione di annullamento o in via autonoma45.

Questo nuovo approdo normativo sancito dal codice del 2010 ha dei risvolti anche in

merito al tema del risarcimento del danno sancito dall’art 2.bis legge 241/90.

Per questi motivi dinanzi ad un’istanza del privato o ad un procedimento attivato

d’ufficio che non si siano conclusi con un provvedimento espresso nel termine stabilito

dall’art.2 della legge su procedimento del 1990, il privato potrà instaurare dinanzi al

giudice amministrativo un autonomo giudizio per il risarcimento del “danno da

ritardo”, indipendentemente dall’attivazione di una controversia avverso il silenzio della

P. A.

L’art 30 c.p.a, commi 1 e 4, afferma, infatti, che l’azione di condanna nei casi di

giurisdizione esclusiva (tra le cui materie è appunto compreso il risarcimento del danno

da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento) può

esser proposta anche in via autonoma; il termine di decadenza di centoventi giorni per

proporre la relativa azione non decorre finchè perdura l’inadempimento e, nel caso di

45 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n. 3/2011.

ritardo, inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per

provvedere46.

Si può concludere affermando come il compromesso dettato dalle innovazioni

apportate dal d. lgs n. 104/2010 per il superamento della pregiudizialità miri a

garantire la certezza dei rapporti giuridici prevedendo un termine di decadenza

raddoppiato (120 giorni) rispetto a quello ordinario, per la proposizione dell’azione

risarcitoria autonoma (decorrente dalla conoscenza dell’ atto o dal fatto), ma

contestualmente imponga al giudice amministrativo di tener conto, nella liquidazione

del quantum debeatur, oltre che delle circostanze fattuali e del comportamento

complessivo delle parti, anche dei danni che il privato leso avrebbe potuto evitare

usando l’ordinaria diligenza, azionando gli ordinari mezzi di tutela, in base a quanto

disposto da art. 1227 c. c.

Tale previsione, come ribadita in una recentemente dal Consiglio di Stato (n.3/2011),

rivela un’indole particolarmente penalizzante se si tiene conto della natura in un certo

senso sanzionatoria che la pervade, soprattutto quando impone al giudice di verificare

l’uso della diligenza necessaria per scongiurare l’aggravarsi del danno cagionato

dall’amministrazione al privato.

In tal ottica non sembra esser un caso l’affermazione secondo cui la soluzione

codicistica si sia in fin dei conti trasformata in una “pregiudiziale mascherata”, poiché il

timore di una drastica riduzione dell’entità del risarcimento dettata dall’omessa

attivazione dello strumento demolitorio o della preventiva azione avverso il silenzio (nel

caso di inerzia della P. A), indurranno il privato quasi sempre a farvi ricorso47.

Avv. Davide Pellegrino

46 Cfr. Il codice del processo amministrativo, in Guida al diritto, settembre 2010.

47 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plenaria, n.3/2011.

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