Responsabilità amm ri liqudatori
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___________________________________________________________________
Da “Il Fisco” nn. 45-47-48/2008
La responsabilità e gli obblighi, nel sistema della
riscossione delle imposte sui redditi, degli
amministratori, dei liquidatori e dei soci
Di Alberto Buscema
Componente della Commissione di Studio – Area Iva e Indirette – del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili
1) Introduzione
L’ordinamento tributario è composto da numerose
discipline che regolano i vari momenti che riguardano
la vita dell’obbligazione tributaria.
Così, mentre vi sono varie disposizioni che
disciplinano la nascita dell’obbligazione tributaria,
ve ne sono altre che impongono al contribuente di
dichiarare al fisco l’avveramento del presupposto
impositivo e altre ancora che dispongono i modi in cui
estinguere tale rapporto obbligatorio.
E’ tuttavia nella riscossione che il fisco trova le
disposizioni a tutela del proprio diritto di credito; è
un settore delicato, nel quale sono disciplinati i vari
strumenti che l’erario ha a disposizione per conseguire
la ricchezza necessaria al funzionamento dello Stato.
Proprio per l’esigenza di salvaguardare le proprie
entrate, che costituiscono in gran parte i mezzi di
necessari al funzionamento della res pubblica, il
legislatore ha adottato strumenti sempre più incisivi.
Non passi inosservato che proprio negli ultimi due anni
una importante riforma del settore riscossione ha
inteso limitare ulteriormente le occasioni del fenomeno
noto come “evasione da riscossione”.
Anche in questa occasione di innovazione del sistema,
però, la norma che ci accingiamo ad esaminare non ha
subito modifiche, a riprova della sua efficacia
dimostrata in quasi trenta anni di vita.
Certo, vedremo che vi sono ancora molte questioni
interpretative controverse e che qui ci accingiamo a
comporre.
Tuttavia possiamo definire tale disposizione, se ben
interpretata, un vero e proprio baluardo a difesa degli
interessi del fisco; per alcuni, per la verità
esageratamente, una vera e propria garanzia personale
di liquidatori e amministratori a favore dell’erario.
2) Il sistema della riscossione: in particolare,
l’articolo 36
Le disposizioni sulla riscossione delle imposte, recate
dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, disciplinano le
diverse modalità con le quali l’erario entra in
possesso dei valori originati dall’applicazione dei
tributi.
Dicevamo che questo è l’ambito più delicato di tutto
l’ordinamento tributario, perché senza adeguate
disposizioni l’erario rischierebbe di vanificare
qualsiasi azione accertativa, magari ben condotta.
Uno dei sistemi utilizzati dal legislatore per
assicurare la riscossione delle imposte è quello di
ergere a “garanti” - in senso improprio -
dell’obbligazione tributaria alcuni soggetti che in
qualche modo si trovano in contatto con la ricchezza
prodotta e dovuta allo Stato.
Nella lettura del D.P.R. n. 602/1973 se ne individuano
diversi; sono dei veri e propri – e qui li definiamo
propriamente – “responsabili”, dell’esito dell’esazione
del credito tributario.
La responsabilità di questi soggetti, come vedremo
riguardo allo specifico articolo in esame, è di varia
natura.
In particolare, a disporre tali vincoli obbligatori
sono gli articoli 32, “Responsabilità solidale dei nuovi
possessori di immobili”, 33 “Responsabilità solidale per l’imposta locale
sui redditi” (imposta ormai abolita), 34 “Responsabilità solidale
per l’imposta sui redditi delle persone fisiche”, 35 “Solidarietà del
sostituto d’imposta” e 36 “Responsabilità ed obblighi degli
amministratori, dei liquidatori e dei soci”.
L’articolo 36, sul quale verte il presente lavoro, è
frutto dell’evoluzione normativa che ha avuto origine
dall’art. 14 del R.D. 28 gennaio 1929, n. 360, e si è
evoluta prima attraverso l’art. 45 del R.D. 17
settembre 1931 n. 1608 e poi in forza delle
disposizioni stabilite dall’art. 256 del T.U. 29
gennaio 1958 n. 645.
In tutti questi passaggi normativi la disposizione si è
affinata: nella versione originale si disponeva la sola
responsabilità dei liquidatori di società per le
imposte dovute in relazione ai risultati della
liquidazione; la stesura successiva specificava che la
responsabilità dovesse intendersi commisurata alle
attività della liquidazione distratte dai liquidatori;
successivamente questa veniva estesa agli
amministratori in carica all’atto dello scioglimento
della società, qualora non si fosse provveduto alla
nomina dei liquidatori.
Infine, giungendo alla penultima disposizione in
vigore, l’art. 256 del T.U. n. 645/1958 così disponeva:
” I liquidatori dei soggetti tassabili in base al bilancio che non adempiano
all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute
dal soggetto per il periodo della liquidazione e per quello anteriore,
rispondono in proprio del pagamento delle imposte stesse. La disposizione
contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica
all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto
alla nomina dei liquidatori”.
Come si può notare, confrontando la precedente versione
con l’attuale art. 36, vi sono numerose implementazioni
che riguardano:
1) l’estensione dei periodi d’imposta per i quali
i liquidatori rispondono verso l’erario, non più
identificati nel solo periodo della liquidazione e
quello anteriore ma “per il periodo della liquidazione e per quelli
anteriori”;
2) l’introduzione della condizione alla quale
subordinare la responsabilità, identificata dall’inciso
“se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano
beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari”;
3) la specificazione della misura della
responsabilità, commisurandola “all’importo dei crediti di
imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei
crediti”;
4) l’estensione della responsabilità ai soci o
associati che abbiano ricevuto “nel corso degli ultimi due
periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni
sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in
assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della
liquidazione;
5) l’introduzione della commisurazione della
responsabilità di soci o associati “nel limite del valore dei
beni stessi”;
6) l’estensione di tutte le responsabilità sin qui
indicate, eccettuate quelle a carico di soci e
associati, “agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli
ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione
operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attività sociali anche
mediante omissione nelle scritture contabili”.
Tutte queste previsioni normative verranno qui
attentamente analizzate al fine di delineare il quadro
completo delle responsabilità di ognuno di questi
soggetti, in qualche modo coinvolti nell’attività di
distrazione dei valori dovuti all’erario.
Prima di procedere all’analisi delle singole
disposizione bisogna, tuttavia, procedere ad inquadrare
la natura delle responsabilità alla quale soggiacciono
i diversi soggetti sopra richiamati.
Vedremo che vi sono state, e permangono, numerose
difficoltà, da parte sia della dottrina che della
giurisprudenza, ad inquadrare sistematicamente gli
istituti ai quali riferire detta responsabilità.
Come è noto l’ordinamento tributario non è un diritto
autonomo, a sé stante, che disciplina compiutamente
ogni situazione giuridica che intende regolamentare, ma
richiama, o può richiamare, integrandosi, istituti già
disciplinati da altri settori dell’ordinamento,
recependoli pedissequamente o in parte.
La difficoltà dell’interprete nel settore tributario è
quindi notevole, consistendo nella profonda conoscenza
di gran parte dell’ordinamento giuridico italiano e
richiedendo, pertanto, un vero e proprio sforzo
intellettuale.
La ricerca della migliore interpretazione possibile
richiede di conoscere quali sono state le principali
dispute della dottrina nei vari argomenti affrontati,
quali sono state le argomentazioni e come si è
orientata la giurisprudenza.
Una mole di informazioni che devono poi essere
elaborate e “personalizzate” dalla sensibilità del
giurista, che deve concludere il ragionamento
armonizzandolo con tutte le disposizioni coinvolte.
Vedremo che proprio questo procedimento dovrà essere
qui seguito e si darà conto dei vari sforzi che
dottrina e giurisprudenza hanno fatto per rendere
conciliabili posizioni che apparentemente tali non
sono.
Per non inquinare la genuinità di tali sforzi
ricostruttivi, e per non depotenziarne la persuasività,
farò integrale riferimento ai testi originali redatti
dalla migliore dottrina e alla Suprema Corte di
Cassazione che si sono occupate dell’argomento in
esame.
3) La natura della responsabilità de qua: civilistica o
tributaria?
La norma che stiamo esaminando, stabilisce che i
liquidatori e gli amministratori rispondono in proprio
del pagamento delle imposte dovute dalla società se
soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli
tributari o se assegnano danaro o altri beni ai soci
prima di avere soddisfatto crediti tributari.
Qualche riga sopra dicevamo che è fondamentale,
nell’esame di questa norma, stabilire la natura della
responsabilità di liquidatori e amministratori; proprio
su questa si sono concentrati i maggiori sforzi
interpretativi.
La parte rimanente della disposizione, ovvero quella
che tratta aspetti diversi da quelli strettamente
inerenti alla responsabilità dei soggetti coinvolti,
per quanto altrettanto necessaria alla completa
comprensione della norma, non ha dato luogo a
particolari dispute.
Lo sforzo maggiore, che ancora si intravede
specialmente nella giurisprudenza più recente, è quello
di stabilire la fonte di tali responsabilità e
amalgamarne principi che, come vedremo, appaiono spesso
inconciliabili.
La riconduzione dell’istituto al ramo pubblicistico
piuttosto che a quello privatistico produce conseguenze
diverse.
Per comprendere come si è svolto il confronto, sulla
natura della responsabilità dei soggetti indicati
all’art. 36, è necessario riportare le tesi di alcuni
autorevoli autori che si sono cimentati nella
ricostruzione dell’istituto in esame.
Diciamo subito che la disputa, che per alcuni versi è
ancora in atto, è tra i sostenitori della natura
fiscale e quella civile delle responsabilità qui
stabilite.
In passato la ricerca della natura, civilistica o
fiscale, della responsabilità di amministratori e
liquidatori, era determinata dalle esigenze di
carattere procedimentale dovendosi individuare la
competenza dell’Amministrazione Finanziaria o
dell’Autorità Giudiziaria ordinaria nell’accertarla.
Al tempo delle prime dispute dottrinali mancavano i
riferimenti previsti dal quinto comma della
disposizione in esame, che attribuiscono all’Agenzia
delle Entrate l’accertamento delle responsabilità.
Pertanto era necessario individuare l’autorità
competente ad occuparsi dei profili in questione; un
argomento importantissimo per quei tempi, perché un
errore di individuazione dell’organo accertante poteva
comportare l’invalidità del procedimento.
Tuttavia, anche dopo l’introduzione della disposizione
innovativa, rappresentata dal comma quinto,
dell’articolo 36, - che conferiva agli ex uffici delle
imposte (ora Agenzia delle Entrate) l’accertamento
delle responsabilità - restavano tutti i dubbi sulla
reale natura di queste responsabilità.
Questa incertezza ha portato vari autori a confrontarsi
sull’argomento.
La esposizione delle diverse opinioni dottrinali è
rintracciabile sia nell’opera di A. Monti, nel suo
saggio intitolato “La responsabilità nella normativa di diritto
tributario degli amministratori e dei liquidatori di società”, Giuffrè
Milano, 1991, pag. 40 e seguenti, che in quella di M.C.
Fregni, in “Obbligazione tributaria e codice civile”, Giappichelli
Editore, Torino, 1998, pag. 93 e seguenti.
I richiami ivi citati vengono qui di seguito riportati.
L’opinione di A.D. Giannini, espressa in “Istituzioni di
diritto tributario”, Milano 1960, pag. 88, sulla natura di
tali disposizioni, era che le stesse avessero natura
fiscale, partendo dall’ovvio presupposto che il
fondamento della disposizione fosse una norma
tributaria.
Sembra che la collocazione della stessa nell’ambito
della disciplina sulla “Riscossione delle imposte” fosse
sufficiente per tale autore a chiarirne l’intera
natura.
Questa posizione mi sembra invero criticabile, perché,
come abbiamo già avuto modo di esporre, e come
sottolinea la moderna dottrina tributaristica (R. Lupi,
“Diritto Tributario, parte generale”, Giuffrè, 1998, pag. 45- G.
Falsitta, “Manuale di Diritto Tributario”, parte generale, IV
ed, Cedam, pag. 174) nell’interpretazione di una norma,
così come nella sua formulazione, possono essere
richiamati concetti che trovano la loro fonte in altri
rami dell’ordinamento.
Questi si devono poter amalgamare anche alla norma in
questione.
Ancora più chiare le parole di E. De Mita, in “Interesse
fiscale e tutela del contribuente”, Giuffrè, 2000, pag. 196:
”Come è stato già rilevato da molto tempo da M.S.Giannini (e riconosciuto
dallo stesso Vanoni), nella disciplina dei rapporti e delle loro vicende il
diritto tributario non inventa nulla, ma utilizza regole e istituti di altri
campi, introducendo eventualmente delle deroghe finalizzate al
raggiungimento dei propri fini”.
Per meglio specificare il campo d’azione del
legislatore, in conformità a quanto evidenziato dalla
Corte Costituzionale, delle cui decisioni De Mita è
autorevole studioso, così egli prosegue a pag. 202:
“Nel rispetto della Costituzione le operazioni del legislatore tributario
rispetto agli strumenti offerti dal diritto civile possono essere le più varie:
a) può utilizzare gli istituti civilistici nella loro interezza; b) può utilizzarli
parzialmente, nel senso che può introdurre variazioni nella disciplina
civilistica; c) può interamente prescindere da essi”.
Sulla base di queste necessarie considerazioni, si può
condividere che la natura della norma in esame sia
fiscale se ci si vuole riferire solo all’ovvia radice,
ma se lo scopo è individuare la natura delle
disposizioni - nel caso che ci occupa rappresentata dal
fondamento delle responsabilità da questa stabilita -
si deve necessariamente indagare sui possibili
collegamenti con altri settori dell’ordinamento.
Quindi, più che sulla natura della disposizione, si
doveva indagare sui suoi contenuti, tentando di
approfondirne i caratteri, che vedremo essere
multiformi.
Diversamente da A.D Giannini, aderivano alla natura
civilistica della disposizione sia M. Romanelli, in
“L’obbligazione del liquidatore per il mancato pagamento dei debiti
d’imposta della società”, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin.,
1941,II, pag. 207, che V. Bompani, in “Contributo alla teoria
dell’obbligazione tributaria”, in Dir. Prat. Trib., 1935, I,
pag. 421 e seguenti.
Secondo quest’ultimo autore, in particolare, i
liquidatori sarebbero obbligati ad un risarcimento;
questo sarebbe originato invero “non già in dipendenza di un
iniziale rapporto con il bene oggetto (in senso finanziario) del tributo, ma
in conseguenza di un particolare comportamento doloso o colposo”.
E’ proprio quest’ultimo profilo ad interessare
maggiormente la dottrina; vedremo poi che anche la
giurisprudenza ha dimostrato incertezze interpretative,
assestandosi solo recentemente.
Tuttavia è interessante notare che Bompani, negando
qualsiasi riferimento al rapporto con il bene oggetto
del tributo, prende le distanze, pur non
espressamente, dall’istituto del “responsabile d’imposta”,
disciplinato dall’art. 64, comma 2, del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600.
Questa, come è noto, così dispone:
“Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento
dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili
a questi, ha diritto di rivalsa”.
Questa disposizione attiva la responsabilità solidale
ma, si badi bene, solo per fatti o situazioni
esclusivamente riferibili ai debitori d’imposta; la
responsabilità che qui emerge, lo vedremo meglio in
seguito, è, diversamente, attribuibile ad un fatto
proprio.
C’è proprio lo scollamento che il Bompani lascia
larvatamente intendere.
Tornando alle ricostruzioni tentate dalla dottrina,
quella recente, qui rappresentata dagli autori A.
Monti e M.C. Fregni, opp. cit., cerca di coniugare i
due diversi aspetti, in un tentativo di
razionalizzazione dell’istituto, separando l’aspetto
formale di tali responsabilità, che trova
regolamentazione in una norma tributaria, dall’aspetto
sostanziale, cioè la parte che disciplina gli effetti
della disposizione, di evidente natura civilistica.
A mio avviso questo è il tentativo meglio riuscito; in
altre parole, rifacendoci alla struttura
dell’ordinamento tributario, che nelle righe precedenti
è stata descritta come poliedrica, a cagione delle sue
possibili contaminazioni da parte di altri settori
dell’ordinamento generale, è corretto non fermarsi alla
semplice collocazione della norma ma indagarne la
natura, il contenuto.
Altrimenti dovremmo concludere che tutte le
disposizioni tributarie hanno esclusivamente natura
tributaria; invece l’assunto di partenza (si vedano
citazioni di R. Lupi, G. Falsitta ed E. De Mita sopra
riportate), sostenuto dalla migliore dottrina e
costantemente avallato dalle decisioni della Corte
Costituzionale, dimostra il contrario.
Stabilito che la norma ha effetti civilistici,
procediamo con la disamina.
E’ proprio su questi effetti che si evidenziano le
divisioni più marcate; c’è chi non vuole abbandonare la
natura fiscale pur accettando la teoria civilistica.
Così M. Miccinesi, “Solidarietà nel diritto tributario”, in Dig.
Comm., vol XIV, Torino 1997, pag. 453, sostiene la
natura fiscale della responsabilità dei liquidatori,
avallando l’idea che le teorie civilistiche “sono idonee
a cogliere il titolo giustificativo della responsabilità dei liquidatori (l’illecita
destinazione delle attività della liquidazione), ma non tolgono che fonte
della stessa sia la ricordata disposizione fiscale e che, correlativamente,
tale responsabilità si configuri nei termini di una coobbligazione solidale
(dipendente), il cui unico oggetto è rappresentato dal debito d’imposta”.
Miccinesi incorre nella svista di considerare l’oggetto
della responsabilità nel debito d’imposta; non si
accorge che la responsabilità dei soggetti citati non
si origina con il mancato pagamento del debito
d’imposta ma solo nel momento in cui questi distraggono
le attività dell’ente o società per fini diversi.
Il debito d’imposta è solo la misura massima del
risarcimento dovuto; quindi non è l’oggetto, restando
questo costituito dal fatto proprio degli
amministratori e dei liquidatori.
A quest’autore si critica anche la tesi della supposta
solidarietà tra società e rappresentanti (intesi come i
soggetti indicati dall’art. 36 nelle specifiche fasi
della vita sociale, amministratori e liquidatori),
poichè vi sono obbligazioni distinte, una che ha ad
oggetto il debito tributario e l’altra che ha ad
oggetto il fatto proprio.
Lo evidenzia bene l’inciso contenuto nel primo comma
dell’art. 36, nella parte in cui, facendo riferimento
ai liquidatori, dispone che questi “rispondono in proprio del
pagamento delle imposte”.
I successivi commi 2 e 4 rinviano a questa disposizione
per disciplinare la responsabilità degli
amministratori, che risulta così omologa.
Un altra autrice, M.C. Fregni, op. cit. pag. 96, si
impegna in un altro tipo di ricostruzione.
Questa sostiene che la ratio della norma sia
sostanzialmente civilistica, poiché le responsabilità
del liquidatore e dell’amministratore non sono
collegate ad un presupposto d’imposta, ad un fatto
espressivo di capacità contributiva, bensì ad un
comportamento illecito, e pone a carico di tali
soggetti un obbligo risarcitorio.
Fino a qui il ragionamento è condivisibile.
Tuttavia per la Fregni il contenuto della norma è
tributario, poiché posto integralmente dalla norma
tributaria senza alcun tipo di richiamo, né implicito
né esplicito, al codice civile; la norma, non subendo
alcun tipo di contaminazione civile, ha ad oggetto il
debito fiscale e non una responsabilità civilistica e
risarcitoria.
L’autrice conclude per inquadrare la responsabilità tra
quelle stabilite ex lege, secondo le norme degli artt.
1176 e 1218 c.c.: in particolare ritiene che
l’infrazione della norma in esame dia luogo a
responsabilità oggettiva, derivante dalla sussistenza
di attività nel patrimonio della società in
liquidazione e dalla distrazione di tali attività a
fini diversi dal pagamento delle imposte, e non
rilevano i requisiti soggettivi individuabili nel dolo
o nella colpa.
Per concludere la Fregni, di fronte alla prospettiva
del fisco di utilizzare sia la normativa civilistica
che quella fiscale, per perseguire liquidatori e
amministratori, sostiene la inapplicabilità della
normativa civilistica, senza tuttavia fornire una
motivazione.
Come detto, solo la prima parte della tesi della Fregni
è condivisibile.
Non così la seconda: la norma non ha ad oggetto un
debito fiscale ma questo è solo uno dei parametri di
commisurazione del danno causato all’erario, l’altro è
la misura della distrazione dell’attivo insieme alla
graduazione dei crediti.
Insieme stabiliscono il “quantum” di risarcimento
dovuto all’erario per il danno cagionatogli.
La responsabilità, invece, non ha ad oggetto il debito
fiscale, ma questo è il presupposto perché quella possa
originarsi.
Solo il fatto proprio dei liquidatori e degli
amministratori la fa sorgere.
Non si concorda nemmeno con la teoria sull’irrilevanza
dei requisiti soggettivi di dolo o colpa.
Quest’aspetto verrà approfondito nel prosieguo.
E’ a favore della teoria civilistica, invece, F.
Tesauro, in “La responsabilità fiscale dei liquidatori”, in Giur.
Comm., 1977, I, pag. 428; per questo autore, i
liquidatori non sono soggetti passivi d’imposta ma
sono “tenuti per una obbligazione di natura civilistica, che ha l’unica
particolarità di essere accertata e riscossa nei modi previsti per
l’obbligazione tributaria. Anche il contenzioso è quello previsto per le
obbligazioni tributarie, ma tutto ciò nulla toglie alla natura non tributaria
dell’obbligazione dei liquidatori”.
Prosegue affermando che l’obbligazione facente capo ai
liquidatori “nasce da un illecito: è la sanzione di un illecito e ha
funzione risarcitoria. Non è dunque una obbligazione tributaria in senso
tecnico sebbene le sue vicende (costituzione, estinzione ecc.) seguano
forme tributarie”.
L’autore, a mio avviso, coglie, sin qui, in pieno
l’interpretazione della norma.
Questo autore, tuttavia, prosegue sostenendo che -
scegliendo tra i diversi tipi di responsabilità
stabiliti dalle norme civili - si tratterebbe di
responsabilità di natura aquiliana e, come tale,
richiederebbe i requisiti della colpa o del dolo per
intergrarne gli estremi.
Quest’ultimo profilo sarebbe condiviso anche da G.
Falsitta, in “Natura ed accertamento delle responsabilità dei
liquidatori per il mancato pagamento delle imposte dirette dovute dagli
enti tassabili in base al bilancio”, in Riv. Dir. Fin sc. Fin.,
1963, I, pag. 260 e seguenti.
Non condivido questa impostazione: se si accetta il
richiamo alla natura civilistica della responsabilità
si deve accettarne anche l’intera disciplina.
Il Falsitta è giustificabile perché ha preso posizione
nel 1963, all’epoca in cui non esisteva ancora l’art.
36 ma vi era il suo precursore, l’art. 256 del T.U. 29
gennaio 1958 n. 645.
Qui la disposizione era meno precisa e anche la
giurisprudenza aveva concluso per la responsabilità
aquiliana.
Tuttavia non è accettabile la conclusione del Tesauro,
che scrive nel 1977, quindi nella vigenza del testo
attuale.
La formulazione attuale, molto circostanziata nel
descrivere il fatto che origina la responsabilità,
porta alla conclusione che si sia in presenza di un
fatto idoneo a produrre l’obbligazione e non di un
illecito generico.
Nella disciplina delle obbligazioni, e in particolare
nell’art. 1173 del codice civile, è stabilito che:
“Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro
atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
Se l’ordinamento giuridico, nella fattispecie qui
esaminata rappresentato dall’art. 36, stabilisce il
fatto idoneo a produrla (e quindi la valutazione sulla
ingiustizia del danno è già stata fatta dal
legislatore) questo deve essere ricondotto alla figura
della responsabilità contrattuale.
Pertanto non ci si può più riferire all’ipotesi
dell’obbligazione da fatto illecito.
Nel primo la valutazione sull’ingiustizia del danno è
stata soppesata dal legislatore mentre nel fatto
illecito è il giudice che deve stabilire se l’interesse
leso, per usare parole del F.Galgano, Diritto Privato,
Cedam, 2001, pag. 367 “è degno di protezione secondo
l’ordinamento giuridico e se la lesione, di conseguenza, costituisce un
danno <ingiusto> che deve essere risarcito”.
La responsabilità di liquidatori e amministratori è di
natura civilistica anche per A. Monti, op. cit. pag.
44, la quale, giustamente, sottolinea la frase
normativa che ne dispone la commisurazione all’importo
dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in
sede di graduazione dei crediti.
Per l’autrice, questa espressione “oltre a porre a carico dei
liquidatori l’obbligo di osservare nei confronti del fisco creditore l’ordine di
graduazione dei crediti, finisce altresì per chiarire il significato del quale
deve essere intesa la formula per la quale l’obbligo di pagare le imposte
sussiste per i liquidatori solo se esistano e nei limiti in cui esistano attività
da liquidare. Da quella espressione è dato infatti desumere che anche la
sanzione conseguente all’inosservanza di quest’obbligo trova il proprio
limite nel danno concretamente arrecato alle ragioni dell’erario”.
Ritengo condivisibile la esauriente posizione della
Monti nella parte in cui ritiene di natura civilistica
la responsabilità dei liquidatori e degli
amministratori in quanto non semplicemente commisurata
al debito fiscale del soggetto rappresentato, - la
quale commisurazione avrebbe consentito di definire la
posizione del liquidatore quale coobbligato dipendente
- ma calibrata sulla sussistenza di attivo non
ripartibile tra altri creditori muniti di privilegio di
grado superiore a quello tributario.
Inquadrare la questione in questo modo consente di
ripudiare, limitatamente a questo aspetto, la teoria
della coobbligazione tributaria poiché questa significa
obbligazione solidale relativamente al debito
d’imposta; mentre nel caso in esame si tratta di una
responsabilità per fatto proprio.
Insomma la tesi sulla responsabilità civilistica si
impone per coerenza; viene inoltre avallata
dall’interpretazione letterale della locuzione
“rispondono in proprio”.
Non appare, poi, controvertibile nella parte in cui
sanziona l’illecito nella misura del danno
effettivamente arrecato all’erario, cioè facendo
riferimento alla graduazione dei crediti e alla
presenza di attivo liquidabile.
Se il liquidatore ereditasse una situazione societaria
debitoria verso l’erario e attivo sufficiente solo a
coprire i crediti di grado superiore a quello fiscale,
nessuna responsabilità potrebbe mai attivarsi a suo
carico.
Vedremo che anche la giurisprudenza si è attestata su
questa linea interpretativa, insistendo sulla
configurazione di un rapporto obbligatorio autonomo e
distinto da quello tributario.
Le tesi di chi voleva ricondurre la responsabilità di
questi rappresentanti all’imposta del soggetto
rappresentato, interpretazione che avrebbe condotto
alla configurazione di una obbligazione solidale tra
questi nei confronti dell’erario, sono state rigettate.
Questa posizione interpretativa della giurisprudenza è
condivisibile limitatamente a questo aspetto del
problema.
Vedremo che vi sono altri aspetti sui quali ha assunto
una posizione criticabile, che si risolve assolutamente
in favore del fisco senza che ne sia esplicitata una
adeguata motivazione.
4) Fonte dell’ obbligazione, ovvero dal fatto illecito
alla obbligazione “ex lege”
Una volta stabilito che ci si trova di fronte ad una
responsabilità per danno ci si deve chiedere qual è la
fonte dell’obbligazione, ovvero stabilire se questa
abbia origine contrattuale oppure extracontrattuale.
Abbiamo già affrontato un diverso aspetto del problema
in sede di confutazione di un parte del pensiero del
Tesauro.
Tuttavia ora procediamo ad indagare una diversa
sfaccettatura del problema e per questo riproduciamo
qui sotto la disposizione civile, la lettura della
quale aiuta visivamente il lettore.
Per stabilire l’origine delle obbligazioni ci si deve
riferire all’articolo 1173 del codice civile, che
disciplina le fonti dell’obbligazione.
La disposizione in questione è così articolata:
”Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro
atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
Come si vede vi è una tripartizione delle fonti
dell’obbligazione e non ne sono previste altre.
Tuttavia vedremo che la dottrina, e la giurisprudenza
più recente continuano, ancora oggi, a fare
riferimento ad una fonte “impropria”: quella della
obbligazione “ex lege”.
Tale obbligazione troverebbe la sua fonte nella legge
e, quindi, la disposizione in esame, disciplinando
puntualmente il comportamento che i liquidatori e gli
amministratori devono tenere, sarebbe proprio la fonte
dell’obbligazione.
Questa conclusione sembra condivisa, o comunque
accettata de plano, senza opporre alcuna critica, sia da
A. Monti, op. cit. pag. 50, che da M.C. Fregni, op.
cit. pag. 97.
In giurisprudenza la Cassazione, sentenza n. 2079 del 4
marzo 1989, stabilisce “che il rapporto giuridico in forza del quale
il liquidatore e amministratore è tenuto a rispondere in proprio delle
imposte evase, non è fondato sul dolo o sulla colpa, ma ha la sua fonte in
una obbligazione ex lege …”.
Ancora la Cassazione, con sentenza n. 4765 del 10
novembre 1989, rileva: “Il fondamento di tale responsabilità si
rinviene nella inosservanza di una specifica obbligazione “ex lege” dell’ex
amministratore o del liquidatore nei confronti del fisco …”.
Seguono altre sentenze dello stesso tenore che hanno
consolidato l’orientamento della giurisprudenza in
questo senso.
Abbiamo, tuttavia, prima sottolineato quali sono le
fonti delle obbligazioni e tra queste non vi è alcun
richiamo alla legge.
Ed è proprio la ricerca del fondamento di tale assunto
che ha portato chi scrive a ricercarne la matrice,
essendo convinto che nell’art. 36 si potessero trovare
proprio gli estremi dei fatti idonei a produrre
obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico.
Questo dubbio ha permesso di chiarire che tale
ricostruzione, della obbligazione ex lege, è
indubbiamente un modo improprio di ricondurre le
obbligazioni derivanti da “ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” alla legge.
Infatti, come autorevolmente puntualizza il Galgano, in
“Diritto Civile e Commerciale”, vol. II, Le obbligazioni e i contratti,
tomo I, Cedam, 2004, pag. 35 :
”La legge non produce obbligazioni se non con la mediazione di atti o
fatti giuridici: sono questi, dunque, la fonte delle obbligazioni”.
Di più: per l’autore “l’incoerenza di questa figura appare
evidente se si considera che anche le obbligazioni da contratto e le
obbligazioni da fatto illecito sarebbero, a pari titolo, da considerare come
obbligazioni derivanti dalla legge, giacchè è pur sempre la legge che, ad
esempio, impone al compratore di pagare il prezzo della cosa comperata
(aer. 1498) ed è la legge che impone a chi ha commesso un fatto illecito di
risarcire il danno (art. 2043) Qui è agevole obiettare che la legge considera
il contratto di vendita un atto idoneo a produrre obbligazioni e che essa
attribuisce uguale idoneità al fatto che presenti i caratteri del fatto illecito.
Ma è non meno agevole dire, ad esempio, che l’obbligo a contrarre del
monopolista (art. 2597) non è una obbligazione ex lege, ma è una
obbligazione che deriva dal concorso di un fatto giuridico (l’esercizio di
una impresa in condizione di monopolio legale) e di un atto giuridico (la
richiesta di prestazioni dall’utente al monopolista)”.
Condivisibilmente, dunque, questo autorevole autore
riporta nella corretta sede l’inquadramento della
fattispecie, notando che la categoria delle
obbligazioni ex lege non sarebbero altro che un retaggio
culturale attinto dai codici dell’ottocento, i quali
prevedevano proprio la legge tra le fonti
dell’obbligazione.
Insomma, per concludere, le disposizioni dell’articolo
36 - nella parte in cui prevedono puntualmente i fatti
che originano la responsabilità di amministratori e
liquidatori - producono l’effetto di ricondurli
nell’alveo delle obbligazioni civili poiché così
dispone l’ordinamento giuridico.
5) Sulle teorie della responsabilità soggettiva od
oggettiva
Abbiamo sin qui dimostrato che la responsabilità
originata dall’art. 36 è di natura civile e che la
fonte dell’obbligazione è riconducibile ai fatti
puntualmente disciplinati da tale disposizione, come
tali considerati idonei a produrre il vincolo
giuridico.
Tuttavia, una volta chiariti questi ambiti, resta da
stabilire il “tipo” di responsabilità alla quale vanno
incontro i soggetti, liquidatori e amministratori, che
non adempiono al pagamento delle imposte dovute dal
loro rappresentato.
Per comprendere i termini del problema bisogna
innanzitutto individuare le norme che disciplinano le
conseguenze del mancato adempimento.
Poiché stiamo trattando di una obbligazione, le norme
di riferimento sono l’art. 1176, che stabilisce qual è
la diligenza richiesta nell’adempimento, e l’art. 1218,
che prevede i criteri di determinazione della
responsabilità del debitore inadempiente.
Queste due norme sono costantemente richiamate anche
dalla giurisprudenza che si è occupata della
responsabilità de qua.
La dottrina di fronteggia sulla ricostruzione teorica
degli effetti di queste due norme, per risolverne
l’apparente contrasto.
La disputa è stata impostata attorno a due teorie, la
teoria oggettiva e la teoria soggettiva:
1) la teoria soggettiva: secondo i sostenitori della teoria
soggettiva, il debitore non è responsabile se si è
comportato con diligenza. Questa visione valorizza
massimamente l’articolo 1176 del codice civile. In
base a questo assunto, per essere esonerati da
responsabilità si deve solo provare l’assenza di colpa,
cioè di avere tenuto una condotta diligente ;
2) la teoria oggettiva: gli assertori della teoria
oggettiva, invece, sostengono che il debitore non è
responsabile se prova che l’impossibilità sopravvenuta
della prestazione è dovuta a causa non a lui
imputabile.
Questa ricostruzione teorica esimerebbe il debitore da
responsabilità se riesce a provare:
1) innanzitutto qual’è il fatto specifico che ha
causato l’inadempimento;
2) che il fatto è dovuto ad un evento straordinario e
imprevedibile a lui non imputabile, ovvero il
cosiddetto caso fortuito.
In pratica, per quest’ultima teoria, il debitore
potrebbe anche riuscire a provare di essere stato
diligente, tuttavia non riuscire a provare l’evento
specifico oppure la sua inimputabilità: in tal caso
sarebbe ritenuto ugualmente responsabile.
Quest’ultimo criterio prescinderebbe dalla diligenza
del comportamento e attribuirebbe l’assenza di
responsabilità solo all’evento estraneo al dominio
dell’uomo.
Tuttavia, nel caso dell’articolo 36 qui in esame,
rendere un soggetto responsabile per il solo fatto che
riveste una carica (in questo si risolverebbe la
responsabilità perché il liquidatore ha l’obbligo di
assolvere il mandato q quindi di procedere alla
liquidazione dell’attivo e al pagamento dei debiti; ma
se la responsabilità non la si ricollega a colpa e
dolo, egli risponde anche per i debiti d’imposta che
non riesce a rintracciare, p.es. quelli originati dai
precedenti rappresentanti) sembra eccessivamente
oneroso e contrario al principio della diligenza, che
si trova positivamente stabilito nell’art. 1176.
Insomma, se l’articolo 1176 stabilisce qual è la
diligenza richiesta nell’adempimento, non sarebbe
consentito, nel comprendere i criteri di determinazione
della responsabilità del debitore inadempiente, leggere
l’art. 1218 dissociandolo completamente dall’art.
1176 .
E’ comunque interessante notare che la giurisprudenza
civile, diversamente da quella tributaria, fornisce una
interpretazione che aderisce alla teoria della
responsabilità soggettiva.
In questo senso, la Cassazione, sentenza del 30
ottobre 1986, n. 6404, in Giur. It., 1987, I, 1, c.
2060, sostiene che:
”in ipotesi di inadempimento contrattuale, la cui imputabilità è regolata
dall’art. 1218 c.c., norma da coordinarsi con il disposto dell’art. 1176 c.c.
sul grado di diligenza richiesta al debitore nell’adempimento, la prova
liberatoria che può fornire quest’ultimo non si sostanzia esclusivamente in
quella positiva del caso fortuito o della forza maggiore, ma può
considerarsi raggiunta ogni qual volta il debitore provi che l’esatto
adempimento è mancato nonostante egli abbia seguito le regole
dell’ordinaria diligenza”.
E’ opportuno, poi, evidenziare che è l’art. 1218 del
codice civile che pone a carico del debitore l’onere
della prova liberatoria.
Ciò premesso si deve osservare che la giurisprudenza
tributaria appare, sul punto, diversamente orientata.
Per la Commissione Tributaria Centrale, decisione del
12 luglio 1979 n. 9310, così come per la Cassazione a
Sezioni Unite, sentenza del 10 giugno 1978 n. 2925,
“incombe sul soggetto dichiarato responsabile l’onere di provare la
insussistenza dei presupposti della responsabilità”.
Tuttavia la CTC appena citata così definisce i
presupposti di responsabilità di liquidatori e
amministratori: “l’Amministrazione finanziaria, pertanto, la quale
provi la ricorrenza degli indicati elementi obiettivi (sussistenza di
attività nel patrimonio della società e distrazione di
tali attività da parte di liquidatori o amministratori
per fini diversi dal pagamento delle imposte dovute,
N.D.A.) , può far valere detta responsabilità senza necessità di
preventivo infruttuoso esperimento di azione esecutiva contro la società, a
prescindere da dolo o colpa dei liquidatori o di amministratori…”.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nella sentenza
del 4 marzo 1989 n. 2079, riferisce di un clamoroso
revirement interpretativo della giurisprudenza:
“Alla radice dell’espresso indirizzo giurisprudenziale (quello, cioè,
che considera il debito del rappresentante quale
originato da comportamento illecito per l’infrazione
della norma, N.D.A.) sta il rilievo che la responsabilità considerata
non è collegata all’inadempimento di una obbligazione tributaria, ma al
fatto proprio del liquidatore, individuato in talune decisioni nella condotta
dolosa o colposa del soggetto (cfr. Cass. 3021/71 e 1284/72 cit.), ma
successivamente puntualizzato nel senso che la responsabilità stessa trova
fonte in un rapporto obbligatorio autonomo e distinto da quello
tributario, non solidale né sussidiario, il quale nasce ope legis, per effetto
della sussistenza di “attività” nel patrimonio della società in liquidazione,
ovvero di quella per la quale si sia verificata una causa di scioglimento e
indipendentemente dall’apertura formale dello stato di liquidazione,
nonché per effetto della circostanza della distrazione di tali “attività”, da
parte dei liquidatori o amministratori, a fini diversi dal pagamento delle
imposte dovute (Cass. 1273/1976). Deve essere, pertanto, ribadito che il
rapporto giuridico in forza del quale il liquidatore e amministratore è
tenuto a rispondere in proprio delle imposte evase, non è fondato sul dolo
o sulla colpa, ma ha la sua fonte in una obbligazione ex lege, di cui il
liquidatore è responsabile secondo le norme comuni degli artt. 1176 e
1218 c.c. in relazione agli elementi obiettivi della sussistenza di attività nel
patrimonio della società in liquidazione e della distrazione di tali attività a
fini diversi dal pagamento delle imposte dovute (Cass. nn. 3270/1981,
2972/1977)”.
Questa sentenza non brilla per chiarezza concettuale:
infatti non si comprende la ragione per cui vi
sarebbero obbligazioni la cui responsabilità per
inadempimento è attribuibile solo in base agli elementi
soggettivi del dolo o della colpa e altre che sarebbero
disciplinate dagli artt. 1176 e 1218 c.c.
Invero, una volta stabilito che si tratta di una
obbligazione impropriamente definita “ope legis” – o come
sopra meglio specificato, per fatto idoneo a produrre
l’obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico
– (e comunque per ogni tipo di obbligazione civile,
sia contrattuale che extracontrattuale) gli artt. 1176
e 1218 cc. sarebbero sempre applicabili poiché
disposizioni disciplinanti ogni specie di
obbligazioni.
La giurisprudenza insiste in tale percorso
interpretativo e gli stessi concetti sono stati
ribaditi con la sentenza della Cassazione n. 9688 del
14 settembre 1995.
Anche altri autori ritengono poco coerente e poco
argomentato questo approccio.
Ecco cosa pensa la A. Monti, op. cit., pag. 111, nota
52, di queste motivazioni giurisprudenziali:
“A noi pare infatti che con l’espressione ora ricordata i giudici intendano
semplicemente sottolineare come la maggiore determinatezza del
comportamento richiesto dall’attuale disciplina rispetto a quella
previgente importi che le responsabilità in questione debbano ormai
venire inquadrate nell’ambito della cosiddetta responsabilità contrattuale,
anziché nell’ambito della cosiddetta responsabilità extracontrattuale
arrivando altresì alla conclusione (peraltro non necessaria) che
tratterebbesi di <responsabilità oggettiva>”.
Questa può sicuramente essere la chiave di lettura, ma
si evidenzi che la giurisprudenza citata non ne ha mai
dato contezza; sarebbe stato opportuno che i giudici
avessero evitato un così evidente salto argomentativo e
avessero permesso la lettura del loro celato
pensiero.
Certamente condivisibile, per concludere
sull’argomento, è la posizione della Monti – con la
quale vi è convergenza di vedute, seppure con
angolazioni diverse - nella parte in cui specifica che
da un eventuale inquadramento della questione in
termini di responsabilità contrattuale non ne
discenderebbe l’automatica conseguenza della
responsabilità oggettiva.
Abbiamo visto sopra che la diatriba è aperta tra
sostenitori della responsabilità oggettiva e della
responsabilità soggettiva; tuttavia quest’ultima sembra
prevalere in dottrina e negli altri settori della
giurisprudenza diversi da quella tributaria.
E appare la più conferente se non si vuole concludere
che la responsabilità non sarebbe più un fatto che
dipende dalla persona, dalla sua diligenza, dalla sua
correttezza – così ben rappresentate nel codice e
svilite improvvisamente da questa impostazione - ma
risulterebbe fuori dal proprio dominio, dal proprio
controllo, interpretazione che uscirebbe, oltretutto,
dalla tradizionale impostazione della nostra dottrina
in ambito di obbligazioni contrattuali.
Mi sembra una evidente forzatura quella tentata dalla
giurisprudenza nel sostenere da una parte
l’applicabilità degli artt. 1176 e 1218 del codice
civile per poi sostenere che non rilevano gli aspetti
soggettivi della responsabilità.
Perché gli altri settori della giurisprudenza giungono
a conclusioni diametralmente opposte nella lettura
degli stessi articoli?
Questo appare un mal riuscito tentativo di fare
convivere profili civilistici di responsabilità con
quelli tributari del preminente interesse fiscale.
Se l’ordinamento giuridico è unico o si individua una
diversa natura della disposizione, cioè quella
tributaria – ma abbiamo visto che la strada non è
percorribile - o, se si accede a quella civile, la si
deve percorrere fino in fondo.
Tertium non datur.
Insomma, o si condivide la tesi che la responsabilità
de qua è quella del responsabile d’imposta, oppure si
deve percorrere fino in fondo il sentiero civilistico.
Escludo, tuttavia, che tali soggetti possano essere
inquadrati quali responsabili d’imposta, poiché non
hanno alcuna possibilità di esercitare il diritto di
rivalsa garantito dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973.
Di questo non ne sono intimamente convinto solo io ma
anche la Corte di Cassazione, che esplicita il suo
pensiero nella sentenza 14 marzo 1978, n. 1273.
Per questi giudici:
”la rivalsa non è nemmeno ipotizzabile; l’obbligazione a carico del
liquidatore non si presenta quale conseguenza ineluttabile del mancato
pagamento da parte della società (obbligata principale), come accade
sempre in ogni ipotesi di responsabilità di imposta in senso proprio, e
l’interessato può evitare di incorrervi sol che si uniformi al comportamento
che il legislatore gli impone, astenendosi dal distrarre le attività sociali e
preoccupandosi eventualmente di presentare istanza di fallimento”.
La dottrina porta questa lettura ad ulteriori
conseguenze.
Per Lattanzi, Bollettino Tributario d’informazione,
1983, pag. 1671, il responsabile d’imposta è “colui che, ai
sensi dell’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973, risponde insieme ad altri per fatti
esclusivamente imputabili a questi e non anche a se stesso.
Non è dato intravedere, infine, la figura del responsabile d’imposta là dove
la responsabilità solidale del soggetto sia prevista nel contesto di norme
aventi carattere sanzionatorio. Ciò in quanto, per ciò solo, deve
ammettersi che il soggetto sia responsabile per fatto proprio e non per
fatto altrui”.
Tuttavia, anche se si continuasse a sostenere questa
linea interpretativa “ibrida” ci si deve rendere conto
delle implicazioni che comporta dal punto di vista
dell’interpretazione di preminenti valori
Costituzionali.
La responsabilità oggettiva de qua conseguirebbe alla
distrazione dei valori societari, o dell’ente, da parte
dei rappresentanti e per fini diversi dal pagamento del
debito d’imposta Ires, ritenendo che i liquidatori e
gli amministratori possano conoscere tutti i debiti
fiscali pregressi dell’ente, ovvero questi possano
essere in qualche modo quantificati.
Sul questo punto è la stessa sentenza della Cassazione,
14 marzo 1978, n. 1273, ad esporre il ragionamento:
”La responsabilità personale dei liquidatori non discende da una
negligenza nella individuazione oggettiva del debito e nella ricerca dei
creditori da soddisfare, e quindi da un comportamento colposo nello
svolgimento delle relative indagini, per la fondamentale ragione che i
debiti fiscali per imposte dirette non possono sfuggire anche al più
superficiale esame della contabilità sociale, essendo strutturalmente
connaturati alla esistenza della società.
La responsabilità dei liquidatori è obiettiva perché non è ammessa da
parte loro l’allegazione e la prova dell’ignoranza del debito fiscale,
trovando tale qualificazione la sua razionale giustificazione proprio nella
facilità del controllo da effettuare in materia”.
La motivazione fa leva sulla, assolutamente
contestabile, facilità di controllo e sulla
rintracciabilità del debito anche “al più superficiale esame
della contabilità sociale”.
Una lettura del genere sarebbe possibile se l’art. 36
si riferisse ai soli debiti originati rispettivamente
dalla dichiarazione dei redditi, e rimasti impagati, o
da accertamenti divenuti definitivi.
Ma allora si farebbe leva ancora una volta sul concetto
di colpa del liquidatore, perché qui sarebbe evidente!
Questo è il pensiero ricorrente nelle sentenze della
Suprema Corte.
Può essere interessante rilevare che non tutti la
pensano così.
Sul punto, per esempio, è di diverso avviso la
Commissione Tributaria Regionale di Roma, Sez. II,
sentenza del 20 marzo 1998, n. 2.
Il caso in questione riguardava due avvisi di
accertamento dei redditi relativi agli anni 1983/1984,
notificati al liquidatore alcuni giorni dopo l’avvenuta
cancellazione della società.
La sentenza è così motivata:
“Ciò premesso, osserva questa Commissione che secondo il costante
insegnamento della S.C. la responsabilità del liquidatore ex art. 36, D.P.R.
n. 602/1973 è una responsabilità per fatto proprio basata sulla esistenza
del debito tributario della società (Cass. nn. 2925/1978 – 549/1987 –
6477/1987 – 4765/1989). Non può, quindi, prescindersi da una condotta
colpevole del liquidatore.”
La lettura che questi giudici danno della disposizione
è quella che a mio avviso appare corretta.
Non si condividono le conclusioni alle quali poi la
sentenza giunge, e che qui commentiamo:
“Ne consegue che perché possa sussistere la responsabilità del liquidatore
questi deve conoscere l’esistenza della pretesa fiscale dell’amministrazione
nei confronti della società prima del completamento delle operazioni di
liquidazione. Nella specie è pacifico e non è contestato che il D.B.G. l’ha
avuta successivamente al completamento delle operazioni di liquidazione
ed alla cancellazione della società”.
Invero l’insorgenza del debito tributario avviene alla
data in cui si verifica il presupposto impositivo e non
dopo.
Ciò che veramente conta, per applicare correttamente il
principio della colpevolezza, non è che
l’amministrazione finanziaria se ne accorga ma che il
liquidatore non fosse in condizione, nonostante la sua
massima diligenza, di accorgersi dell’esistenza del
debito, perché, per esempio, originatosi in periodi
d’imposta in cui non era lui il rappresentante della
società.
Altrimenti vi sarebbe un facilissimo aggiramento della
norma: non vi sarebbe alcun problema a non pagare le
imposte dell’ultimo periodo d’imposta di liquidazione,
a tacer d’altro, perché il fisco non potrebbe che
accorgersi del debito successivamente alla cessazione
della società.
Tuttavia la sentenza appena citata è stata poi seguita
da una decisone autorevole della Corte di Cassazione.
Questa, sentenza del 17 giugno 2002, n. 8685, è così
argomentata:
“nella specie, costituiscono, invece, circostanze incontestate tra le parti
quelle secondo cui le attività di liquidazione addebitate all’intimato sono
state compiute negli anni 1978 e 1979, e secondo cui i debiti tributari, di
cui si chiede il pagamento ex art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, sono stati
iscritti nei ruoli del 1985 e del 1990; sicchè, difettano le condizioni
oggettive per l’esperibilità dell’azione di responsabilità, posto che
l’obbligazione legale prevista dalla più volte citata disposizione insorge
allorquando ricorrono gli elementi oggettivi della sussistenza di attività
nel patrimonio della società in liquidazione (o liquidata di fatto) e della
distrazione di tali attività a fini diversi dal pagamento delle imposte
dovute, vale a dire di imposte che abbiano acquisito i caratteri della
certezza e della definitività”.
La lettura delle sentenze sulla responsabilità
oggettiva rivelano profili irrazionali.
Come si può arrivare a sostenere l’oggettiva
responsabilità del liquidatore o dell’amministratore
fondandola sulla teoria oggettiva, che non ammette
quasi alcuna discolpa, e poi sostenere che il
rappresentante deve avere la conoscenza della pretesa
tributaria prima della cessazione della società per
essere dichiarato responsabile?
Non è una lettura consentita, mostra tutta la sua
debolezza, il suo dissidio logico.
E si pone in contrasto con le altre pronunce che
sostengono la facilità della verifica e quantificazione
del debito tributario in capo al liquidatore perché i
calcoli fiscali sarebbero semplici.
Si notano davvero gli sforzi dei giudici nel tirare una
coperta che, sostenendo la teoria oggettiva, resta
corta.
Si passa dall’intransigenza assoluta di chi vuole il
liquidatore come un “garante personale di tutta o parte
dell’obbligazione tributaria”, nei limiti della ripartizione
dell’attivo e della graduazione del credito,
indipendentemente da quando avviene la notifica
dell’avviso di accertamento e chi diversamente la
ritiene sussistere senza possibilità di “discolparsi” se
non per il fatto che il ruolo è stato notificato alla
società dopo la cancellazione.
Qui emergerebbe la massima contraddizione nella teoria
della responsabilità oggettiva: non si può utilizzare
il criterio della colpa se l’atto viene posto in
riscossione durante l’esistenza della società, per un
debito tributario non onorato dal liquidatore con
l’avvenuta ripartizione di attivo in misura
pregiudizievole, invece si può utilizzare il criterio
della colpa per giustificare il liquidatore se l’atto è
stato posto in riscossione (tramite la notifica del
ruolo che conferisce certezza e definitività) dopo la
cancellazione della società (a meno che non si voglia
introdurre una ulteriore variabile: che per debito
d’imposta nell’articolo 36 si sia inteso imposta
liquidata e quindi la responsabilità si origini solo
nel momento della certezza ed esigibilità del credito,
cui fa riferimento l’art. 14 del D.P.R. n. 602/1973. Ma
la lettera della norma non lascia dubbi sul fatto che
il legislatore ha disposto diversamente).
Utilizzando il criterio soggettivo ciò non avverrebbe
perché l’obbligazione tributaria sorge nel momento in
cui si verifica il presupposto d’imposta e il
liquidatore potrebbe giustificarsi di fronte
all’accertata pretesa solo dimostrando che non poteva
averne contezza utilizzando il criterio della
diligenza.
La responsabilità, così, verrebbe esclusa, per esempio,
se la contestazione fosse basata su presunzioni, come
tali non certamente basate su prove certe (magari
riguardanti i periodi d’imposta precedenti a quello in
cui il liquidatore è stato investito della carica) ;
oppure con contestazioni di operazioni non transitate
per la contabilità e contestate, magari, ad un altro
rappresentante.
Si tenga conto che il comma 1, dell’articolo in
questione, riferisce ai liquidatori la responsabilità,
sempre qualora ripartiscano l’attivo, per le imposte
originate anche in periodi d’imposta precedenti alla
liquidazione.
E quindi anni in cui poteva non esserci quel
liquidatore e non trovare alcuna traccia nella
contabilità delle operazioni sopra menzionate.
E allora: quale razionalità hanno simili ricostruzioni
interpretative?
Se la norma avesse un tale significato se ne
dimostrerebbe l’irragionevolezza, che condurrebbe alla
declaratoria di incostituzionalità.
Pertanto si impone l’interpretazione adeguatrice che
tenga in necessario conto del requisito soggettivo
della colpa o del dolo.
6) Rapporti tra l’obbligazione tributaria della società
e quella derivante dalla responsabilità di liquidatori
e amministratori
Abbiamo chiarito che la responsabilità di
amministratori e liquidatori è sì prevista da norme di
carattere tributario ma è sostanzialmente di natura
civilistica e comporta il risarcimento del danno
causato da questi soggetti all’erario, seppure nella
specifica misura indicata dall’articolo in esame.
E’ ora il momento di affrontare il vincolo che lega
l’obbligazione tributaria a carico della società alle
responsabilità del soggetto, liquidatore o
amministratore, che viola le disposizioni stabilite
dall’art. 36 sulla ripartizione dell’attivo.
In dottrina si assiste ad una contrapposizione di
teorie che tendono, rispettivamente, ad accomunare o a
dissociare i destini dei liquidatori e amministratori
con quelli della società inadempiente.
Abbiamo già affrontato i profili che caratterizzano
l’obbligazione di questi soggetti, concludendo che
questa non assume i caratteri del vincolo solidale;
tuttavia l’obbligazione risarcitoria dipende in qualche
modo dall’esistenza di un debito dell’ente
rappresentato, non adempiuto dal rappresentante.
Perlomeno questa è la conclusione alla quale giunge sia
la dottrina dominante che la giurisprudenza.
E in effetti è condivisibile e facilmente dimostrabile
l’esistenza di un vincolo, di una vera a propria
dipendenza, che si genera tra l’obbligazione tributaria
rimasta inadempiuta e l’obbligazione, per fatto
proprio, in capo al soggetto che non ha provveduto al
pagamento delle imposte distraendo le attività per
altri scopi.
E’, infatti, evidente, a parere di chi scrive, che non
vi potrebbe essere alcuna responsabilità del
liquidatore se non venisse ad esistenza il debito
tributario del soggetto rappresentato; e questo viene
(formalmente) ad esistere nel momento in cui viene
notificato all’ente l’atto di accertamento.
In altre parole, se quanto sin qui riportato dimostra
che la responsabilità di liquidatori e amministratori
deriva dal mancato adempimento di una obbligazione
civilistica, che sorge a carico di determinati soggetti
nel momento in cui questi distraggono risorse sociali
per scopi diversi da quelli di estinzione
dell’obbligazione tributaria, è ovvio che nessuna
responsabilità potrebbe esservi per i soggetti
rappresentanti che dovessero ripartire beni in assenza
di debiti d’imposta del rappresentato.
Fino a qui sembra che vi sia unanimità di vedute anche
in dottrina.
Puntualizzerei che questa responsabilità, come ho avuto
modo di esporre, non coinvolge in alcun modo
nell’obbligazione tributaria i soggetti rappresentanti,
poiché questa resta un vincolo a carico dell’ente
rappresentato conseguente ad una sua manifestazione di
capacità contributiva; insomma la responsabilità
dell’ente riguarda l’obbligazione tributaria
inadempiuta, quella dei rappresentanti ha ad oggetto il
danno causato all’erario per non avere destinato al
pagamento delle imposte le ricchezze dell’ente.
Quindi i due soggetti coinvolti sono vincolati da due
diverse forme di responsabilità, pur rilevanti nei
confronti dello stesso soggetto creditore, l’erario.
Giammai potrebbe avvenire, come vedremo è stato
sostenuto, che la responsabilità del rappresentante
derivi da un atto impositivo direttamente notificato al
rappresentante, senza che questo sia previamente
transitato per la sfera giuridica del rappresentato.
Tuttavia, nonostante la dottrina e la giurisprudenza
propendano per il vincolo di dipendenza
dell’obbligazione dei rappresentanti rispetto a quella
del rappresentato, si deve dare contezza di un altro
orientamento che rende autonome le azioni di recupero
dell’imposta, attribuendo all’erario il potere di
procedere direttamente nei confronti di liquidatori e
amministratori con l’atto che ne accerta le
responsabilità.
Questa dottrina, A. Parlato, “Il responsabile d’imposta”,
Milano, 1963, pag. 131 e seguenti, ritiene che, pur in
presenza di una responsabilità dei rappresentanti per
il loro fatto illecito, vi sarebbe un loro obbligo di
pagare le imposte in proprio e non insieme alla società
nel limite previsto dalla norma in esame.
Ciò sarebbe in particolare possibile nella fase
successiva alla cessazione della società e qui
troverebbe specifico fondamento nel fatto che il
liquidatore è responsabile dei debiti sociali rimasti
insoluti.
Insomma, secondo questa dottrina, se l’insolvenza
fiscale della società è stata determinata dal
liquidatore o dall’amministratore, questi ne
risponderebbero totalmente in proprio (nel senso sopra
e appresso precisati).
Da questo ragionamento ne conseguirebbe ovviamente, la
riferibilità ai liquidatori, in proprio, degli atti
accertativi senza previamente notificarli o procedere
alle iscrizioni a ruolo nei confronti della società.
Conclusione che abbiamo sopra confutato e che ci sembra
ripudiabile per la diversità della fonte
dell’obbligazione.
In dottrina, A. Monti, op. cit. pag. 97, giunge alla
più puntuale conclusione che il vincolo di dipendenza
che lega il rappresentante al rappresentato si origina
solo dopo la formazione del ruolo intestato alla
società o all’ente.
Ella avalla l’inestensibilità soggettiva del ruolo di
riscossione e che, già storicamente, la dottrina (tra
tutti E. Allorio, Diritto processuale tributario, pag. 147 e G.
Falsitta, Natura ed accertamento della responsabilità dei liquidatori,
pag. 142) avvertiva la necessità che i presupposti
specifici della responsabilità dei liquidatori
venissero autonomamente accertati attraverso le fasi di
un procedimento formale.
Questa conclusione sarebbe poi supportata a livello
normativo dalla combinata lettura degli artt. 36,
ultimo comma, il quale richiama l’art. 39, primo comma
dello stesso D.P.R. n. 602/1973.
Questo rinvio dimostrerebbe la necessità che all’avviso
di accertamento individuante le specifiche
responsabilità di amministratori e liquidatori dovesse
fare seguito un autonomo titolo esecutivo.
Insomma non sarebbe possibile rendere esecutivo nei
confronti di liquidatori e amministratori un ruolo
intestato alla società.
La lettura di queste norme, secondo la Monti,
porterebbe “alla conclusione che l’accertamento e la riscossione nei
confronti dei soggetti indicati all’art. 36 richieda sempre la previa
formazione di un ruolo intestato alla società o all’ente”.
Quindi nell’ordine, prima si accerta il debito
d’imposta in capo alla società; questo debito, qualora
non onorato, origina un ruolo intestato alla società.
Solo dopo aver verificato che vi sono i presupposti che
coinvolgono la responsabilità dei rappresentanti –
l’esistenza di un definitivo debito d’imposta, la
presenza di valori e il mancato rispetto della
graduazione dei crediti – si emetterebbe un apposito
avviso di accertamento al quale seguirebbe un autonoma
iscrizione a ruolo.
Anche A.E. Granelli, in un articolo apparso sul Bollettino
Tributario d’informazione, 1984, pag. 5, condivide
l’impostazione:
“Di particolare interesse è, poi, l’espresso rinvio della norma esame
(trattasi dell’art. 36, comma 6, NDA) all’art. 39, I° comma,
concernente gli effetti del ricorso contro il ruolo e la possibile sospensione
della procedura esecutiva; si desume, infatti, da tale norma, che la
declaratoria di responsabilità in tanto è possibile, in quanto l’imposta sia
stata iscritta a ruolo”.
Impostazione condivisibile che poi risulterà essere
stata seguita dalla giurisprudenza.
Allora vediamo come si è espressa la giurisprudenza
tributaria al riguardo.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza
del 3 giugno 1978 n. 2766, stabilisce che “debitore
dell’imposta è solo la società ed anzi la responsabilità del liquidatore
presuppone che il debito tributario della società sia diventato definitivo”.
Attenzione: è il procedimento di accertamento della
responsabilità del liquidatore che è subordinato
all’emissione del ruolo in capo alla società.
La responsabilità vera e propria si origina con la
distrazione dell’attivo in violazione della graduazione
dei crediti, lasciando insoluto il debito d’imposta già
originatosi.
Sempre la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza
del 4 marzo 1989 n. 2079, insistendo sulla natura non
tributaria della pretesa avanzata nei confronti di
liquidatori e amministratori, sostiene che “tale
responsabilità non trae(va) origine da un’obbligazione o coobbligazione
nel debito tributario, ma configura(va) una responsabilità per fatto
proprio, che presuppone l’esistenza, e la definitività, di quel debito”.
E’ interessante ed esaurientemente motivata la sentenza
della Cassazione del 10 novembre 1989 n. 4765:
“Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la responsabilità del
liquidatore, o dell’ex amministratore liquidatore di fatto, di un soggetto
tassabile in base a bilancio per il mancato pagamento delle imposte da
quest’ultimo dovute, non presuppone una coobbligazione nel debito
tributario ma soltanto un’obbligazione per fatto proprio, ancorché basata
sulla esistenza e la definitività di quel debito (sent. 24 gennaio 1981, n.
549; 19 maggio 1980, n. 3270; 9 giugno 1978, n. 2925). Il fondamento di
tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una specifica
obbligazione <ex lege> dell’ex amministratore o del liquidatore nei
confronti del fisco, avente ad oggetto il pagamento delle imposte della
società con l’attivo sociale; imposte accertate nei confronti del
contribuente – la società – con un procedimento al quale l’ex
amministratore liquidatore rimane personalmente estraneo, essendo egli
semplicemente tenuto, in detta sua veste, ad eseguire il pagamento dei
debiti dell’ente rispondendo per fatto proprio dell’eventuale inadempienza.
Non, dunque, coobbligazione nel debito tributario ma autonoma
obbligazione personale, nel presupposto della mera esistenza di quel
debito della società, che l’ex amministratore può disconoscere sotto il
profili della mancanza dei requisiti della certezza e definitività (cfr. Cass.,
sent. N. 6477 del 1986, sulla necessità dell’iscrizione del tributo a ruolo, a
titolo non provvisorio ma definitivo)”.
Nel tempo le sentenze si fanno ancora più precise; così
la Corte di Cassazione, sentenza 15 ottobre 2001 n.
12546:
”L’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore di una società con
riguardo ai crediti per imposta sul reddito delle persone giuridiche, i cui
presupposti si siano verificati a carico della stessa, ancorché accertati
successivamente, che l’art. 36, d.p.r. n. 602/73, al pari dell’abrogato art.
265, d.p.r. 29 gennaio 1958, n. 645, riconosce all’amministrazione
finanziaria nel caso che questi abbia esaurito le disponibilità della
liquidazione senza provvedere al loro pagamento, è esercitatile alla
duplice condizione che i ruoli in cui siano iscritti i tributi della società
possano essere posti in riscossione e che sia acquisita legale certezza che i
medesimi non siano stati soddisfatti con le attività della liquidazione
medesima (cfr.: Cass. civ., sez. un., sent. 6 maggio 1985, n. 2820; Cass. civ.,
sez. 1, sent. 7 giugno 1989, n. 2768; Cass. civ. sez. 1, sent. 14 settembre
1995, n. 9688).“
Tali principi vengono ribaditi nelle sentenze della
Corte di Cassazione del 17 giugno 2002, n. 8685 e del
17 giugno 2005, n. 13096.
Limitatamente a questo punto - il concetto di
pregiudizialità/dipendenza - si è raggiunta la piena
convergenza di vedute da parte di dottrina e
giurisprudenza.
7) Contestabilità dell’an e quantum della pretesa
fiscale, a carico del soggetto rappresentato, da parte
di liquidatori e amministratori
Un altro punto delicato che suscita interesse e divide
dottrina e giurisprudenza è quello che riguarda il
debito fiscale della società, dalla cui sorte poi
dipenderebbe quella dei soggetti rappresentanti.
Secondo la tesi sin qui esposta, vi sarebbe una
bipartizione delle responsabilità nei confronti
dell’erario: una della società o dell’ente che non
adempie all’obbligazione tributaria, quindi al debito
d’imposta, e l’altra di liquidatori e amministratori
che distraggono le ricchezze del rappresentato per fini
diversi dal pagamento delle imposte.
Abbiamo evidenziato che la definitività del debito
fiscale, caratterizzata dalla notifica del ruolo
all’ente o alla società, consente di attivare la
procedura stabilita dall’art. 36 a carico dei
rappresentanti qualora fosse dimostrata la presenza di
valori nell’ente al momento dell’insorgenza del debito
tributario e il soddisfacimento di crediti di ordine
inferiore a quelli tributari.
Sembrerebbe, quindi, che i liquidatori e gli
amministratori siano ritenuti responsabili del danno
causato all’erario commisurabile, come massimo,
all’importo del debito d’imposta dell’ente.
Ci si chiede, quindi: possono i rappresentanti
contestare il debito d’imposta che si è definito in
capo all’ente o società?
E’ indubbio, infatti, che un loro “diritto di difesa”
dovrebbe esserci, cioè che questi soggetti dovrebbero
poter contestare sia il fondamento della loro
responsabilità, dimostrando di avere agito
diligentemente nei confronti dell’erario, sia il
fondamento originante la pretesa risarcitoria,
conferendo loro la possibilità di contestare la
fondatezza della pretesa tributaria in capo al
rappresentato.
In questo modo sarebbe davvero garantito a questi
soggetti una difesa piena, sotto tutti i profili.
Per quanto riguarda il fondamento della loro
responsabilità abbiamo già riportato il pensiero della
giurisprudenza tributaria che dimostra di aderire a
teorie oggettive; ribadiamo che altra giurisprudenza
non è d’accordo, che la dottrina dominante è per la
teoria soggettiva e che quest’ultima meglio si
adatterebbe - a nostro avviso e con le ampie
argomentazioni esposte a favore di una lesione ai
principi costituzionali a cui condurrebbe una tale
lettura - ai requisiti di condotta richiesti
nell’adempimento delle obbligazioni, indicati dai
parametri di correttezza e diligenza.
Tuttavia per quanto riguarda la contestabilità da parte
di liquidatori e amministratori, dell’an e quantum
della pretesa tributaria a carico della società, si
assiste ad una chiusura totale da parte della
giurisprudenza muovendo dal presupposto che le fonti
delle due responsabilità sono diverse e quindi devono
restare separati anche i loro presupposti.
Questa argomentazione non convince perché è vero che le
fonti delle due obbligazioni sono diverse, una
tributaria basata sul principio di capacità
contributiva e l’altra risarcitoria fondata
sull’obbligazione “contrattuale”, ma queste sono legate a
doppio filo tale per cui solo se esiste la prima può
esistere la seconda e la misura della prima è un
parametro essenziale della seconda.
Se di una qualche responsabilità si deve essere
imputati si deve anche potere dare il modo al soggetto
di contestare l’esistenza e la quantificazione del
presupposto.
Tuttavia, almeno per ora, bisogna fare i conti con
questo atteggiamento giurisprudenziale assolutamente
dominante.
Vediamo, in dettaglio i ragionamenti esplicitati dalla
giurisprudenza sul tema; poi vedremo le conclusioni di
autorevole dottrina che divergono completamente, qui
assolutamente condivise.
La Corte di Cassazione, sentenza del 7 giugno 1989 n.
2767, ritiene che i rappresentanti delle società siano
tenuti, nei limiti stabiliti dall’art. 36, “al pagamento
dei debiti d’imposta accertati nei confronti dell’ente sociale per un titolo
autonomo di responsabilità, rispetto al quale l’obbligazione fiscale si pone
come un semplice presupposto di fatto, non controvertibile dallo stesso
amministratore”.
Più esplicita la Corte di Cassazione, sezione I, del 10
novembre 1989 n. 4765, che spiega quali sono le fonti
dell’obbligazione a carico dei rappresentanti:
“Il fondamento di tale responsabilità si rinviene nella inosservanza di una
specifica obbligazione <ex lege> dell’ex amministratore o del liquidatore
nei confronti del fisco, avente ad oggetto il pagamento delle imposte della
società con l’attivo sociale; imposte accertate nei confronti del
contribuente – la società – con un procedimento al quale l’ex
amministratore liquidatore rimane personalmente estraneo, essendo egli
semplicemente tenuto, in detta sua veste, ad eseguire il pagamento dei
debiti dell’ente rispondendo per fatto proprio dell’eventuale
inadempienza.”
Incidentalmente si esprime anche la Cassazione, sez. I,
con sentenza 14 settembre 1995 n. 9688:
“secondo la giurisprudenza di questa Corte incombe sul soggetto
dichiarato responsabile con il provvedimento di attuazione della pretesa
sanzionatoria l’onere di assumere l’iniziativa processuale volta ad ottenere
il controllo giurisdizionale e l’onere di provare l’insussistenza dei
presupposti – diversi dal debito d’imposta della società – di tale
responsabilità.”
Ancora facendo leva sulla diversità delle obbligazioni
in capo a società e rappresentanti che omettono di
onorare i debiti d’imposta della prima si esprime la
Cassazione con sentenza del 15 ottobre 2001, n. 12546:
“La natura e l’oggetto di tale responsabilità comportano, quindi, che, pur
dipendendo l’attualità della stessa dalla conseguita certezza e definitività
del debito tributario, l’obbligato è del tutto estraneo al procedimento
diretto all’accertamento del medesimo e che, conseguentemente, eventuali
ragioni di invalidità di tale procedimento non possono essere opposte dal
liquidatore o amministratore-liquidatore di fatto e rilevate dal giudice”.
Questo il contestabile panorama giurisprudenziale
sull’argomento.
In dottrina vi è chi, persuasivamente, sostiene la
diversa, e qui condivisa, teoria avversa secondo la
quale è invece necessario garantire al soggetto
rappresentante la possibilità di contestare la pretesa
fiscale dalla quale origina la sua responsabilità.
E’ ancora la A. Monti, op. cit., pag. 121 e seguenti,
che prende posizione sul tema partendo dal possibile
inquadramento della questione in termini di “solidarietà
dipendente”.
Constatando che alcuni rapporti giuridici facenti capo
a soggetti diversi vi possano essere vincoli di
pregiudizialità-dipendenza, riporta alcuna dottrina del
passato che era giunta alla conseguenza
dell’incontestabilità del giudicato formatosi sul
rapporto principale nei riguardi del soggetto titolare
del rapporto dipendente.
Il concetto di “cosa giudicata rispetto ai terzi”, continua la
Monti, è stato respinto dalla Corte Costituzionale con
la decisione 22 marzo 1971, n. 55.
Elaborando i concetti espressi da questa decisione la
dottrina ha chiarito come debba ritenersi ormai un
principio incontestabile “quello per il quale la disciplina di un
rapporto cosiddetto dipendente può considerarsi conforme al dettato
costituzionale soltanto qualora sia offerta al titolare del medesimo la
possibilità di difendersi contro giudicati formatisi sul rapporto principale
in seguito a giudizi ai quali egli non sia stato posto in condizioni di
partecipare, ovvero, a maggior ragione, contro atti amministrativi, pure
inerenti al rapporto principale, resisi incontestabili per effetto dell’inerzia
del titolare del relativo potere di impugnazione”.
Questa impostazione potrebbe essere derogata solo in
un, ovvio, particolare caso: quello in cui il
rappresentante ritenuto successivamente responsabile
della distrazione dell’attivo riceva l’atto impositivo
del soggetto principale.
Questo soggetto non sarebbe, diversamente, mai
vincolato se l’avviso di accertamento intestato al
debitore principale fosse notificato ad altri soggetti
(es. altri liquidatori o amministratori della stessa
società), perché non si garantirebbe al primo la
completa possibilità di difesa.
Insomma, posto che l’art. 36, sesto comma, richiama
l’articolo 39, primo comma, e che la combinata lettura
delle disposizioni dimostra che si può agire nei
confronti del rappresentante solo quando il debito
d’imposta è diventato definitivo, questi non deve
subire passivamente le conseguenze di atti che si sono
cristallizzati nella altrui sfera giuridica ma deve
poter essere posto nella condizione di contestarne la
fondatezza con riguardo alla sussistenza della sua
responsabilità.
Infatti sono legati a doppio filo, e credo che questa
affermazione sia incontrovertibile, i rapporti che
riguardano l’esistenza del debito d’imposta e la
responsabilità di amministratori e liquidatori di tal
che se non esiste il primo non esiste il secondo.
E allora se di profili di responsabilità si deve
parlare non si può pregiudicare la difesa del
responsabile sostenendo che l’obbligazione principale
riguardava un diverso soggetto e quindi non è più
contestabile, perché si esclude la possibilità di
contestare l’esistenza stessa della responsabilità
dipendente, o la sua misura.
8) La responsabilità dei soci o associati: le
differenze rispetto a quelle di amministratori e
liquidatori
Un altro punto di particolare interesse riguarda la
responsabilità che la norma in esame addossa ai soci o
associati, prevista dal comma 3.
Questa parte della norma appare abbastanza trascurata
dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
L’articolo include gli associati perché la disposizione
in esame si riferisce anche ai soggetti Ires e tra
questi vi sono anche le associazioni.
E’ bene, preliminarmente, chiarire che la disposizione
si riferisce tuttora all’imposta sul reddito delle
persone giuridiche nonostante questa non sia più in
vigore perchè sostituita dall’imposta sul reddito delle
società, per effetto del Decreto Legislativo 12
dicembre 2003, n. 344.
Proprio in base a questo provvedimento legislativo è
consentito di riferire le disposizioni dell’art. 36
all’Ires, nonostante l’omesso, e consueto per il
legislatore tributario, aggiornamento del testo.
Dicevamo che l’art. 36 coinvolge anche la
responsabilità di “soci e associati, che hanno ricevuto nel corso
degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione
danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno
avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della
liquidazione”.
Tale responsabilità riguarda il pagamento delle imposte
dovute dai soggetti Ires nel limite del valore dei beni
stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal
codice civile.
Anche l’analisi di questo periodo legislativo ha
portato la dottrina ad interrogarsi sulla natura della
responsabilità di questi soggetti.
Un autore, N. Dolfin, in “Profili innovativi della responsabilità
dei liquidatori, degli amministratori e dei soci, introdotta dall’art. 36 del
D.P.R. n. 602/1973”, in Riv. Fin. Sc. Fin., 1976, pag. 266,
sostiene che il fondamento della responsabilità dei
soci sarebbe da ricercare nel principio generale che
vieta l’indebito arricchimento, confermando in tal modo
la comune matrice civilistica delle responsabilità
stabilite dall’art. 36 e rifiutandone la configurazione
quale obbligazione tributaria.
L’applicabilità del principio generale, che vieta
l’indebito arricchimento, era stata riconosciuta, sia
dalla dottrina che dalla giurisprudenza, con riguardo
all’analoga previsione dell’articolo 2456, secondo
comma, del codice civile (ora art. 2495, secondo comma,
del codice civile).
Pertanto sarebbe configurabile anche nel caso in
questione.
Poiché tale disposizione è già specificamente prevista
dal codice civile, ci si potrebbe interrogare sulla
superfluità di ripetere la sostanzialmente analoga
disposizione nell’ambito tributario.
La domanda ha un suo fondamento logico e mirerebbe a
dimostrare che una lettura di tal genere renderebbe la
disposizione come inutiliter data.
Ma l’interprete deve sempre trovare una ragione per
salvaguardare la norma: nel caso che qui ci occupa, la
ragione sta nel concedere al fisco uno strumento più
consono nonché agevole rispetto all’esercizio di una
ordinaria azione civile.
La conferma di questa impostazione viene da A. Monti,
in una diversa opera rispetto a quella precedentemente
citata, “La responsabilità dei liquidatori, amministratori e soci
prevista dall’art. 36 D.P.R. n. 602/1973: gli aspetti sostanziali dell’istituto”,
in Rassegna Tributaria, n. 3, 1986, pag. 76.
Qui la Monti riferisce che è dalla stessa relazione
ministeriale al D.P.R. n. 602/1973 che si potrebbe
individuare la ratio della disposizione.
Lì si afferma che la configurazione di tale
responsabilità “adempie, in definitiva, ad una funzione analoga a
quella della revocatoria in sede civile”.
Questo riferimento permetterebbe di comprendere
l’intenzione del legislatore a predisporre uno
strumento con caratteristiche civilistiche ma snello,
facendo comunque salve le ulteriori azioni civilistiche
che la norma salvaguarda.
A questo punto ci si deve chiedere perché tali autori,
nonostante il blando e fugace riferimento contenuto
nella relazione ministeriale – che come è noto, in base
alle consolidate tesi di recente dottrina, non
costituisce un valido metodo di indagine della volontà
del legislatore – abbiano con sicurezza configurato la
norma in chiave civilistica, senza accennare a diverse
possibili ricostruzioni concettuali.
Invero, una verifica interpretativa dovrebbe essere
condotta sull’articolo 64 del D.P.R. n. 600/1973 per
stabilirne una eventuale applicabilità oppure sancirne
la definitiva esclusione.
L’articolo introduce la figura del <responsabile d’imposta>,
così individuandolo:
” Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento
dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili
a questi, ha diritto di rivalsa”.
Questa è una figura generale alla quale si possono
ricondurre specifiche disposizioni analiticamente poste
dal legislatore.
Per la Corte Costituzionale, sentenza 20 dicembre 2000,
n. 557, la legge può “stabilire prestazioni tributarie a carico,
oltrechè del debitore principale, anche di altri soggetti, purchè non
estranei al presupposto d’imposta, costituendo unico limite alla
discrezionalità del legislatore la non irragionevolezza del criterio di
collegamento utilizzato per l’individuazione dei predetti responsabili
d’imposta”.
Questo ragionamento deve essere confrontato con la
specifica disposizione, l’articolo 36.
Si evidenzia subito che la situazione dei soci e degli
associati non è analoga a quella dei liquidatori: per
questi ultimi vi sono elementi letterali che hanno
condotto, come già visto, sia la dottrina che la
giurisprudenza a considerarli responsabili in proprio.
Per costoro, come abbiamo avuto modo di precisare, la
disciplina in esame ha carattere sanzionatorio e non li
coinvolge nella garanzia strettamente impositiva.
Per i soci e gli associati, diversamente, non vi sono
riferimenti a fatti propri ma a meri ricevimenti di
beni e il limite della loro responsabilità è
parametrata al valore di quanto ricevuto.
Una disposizione simile, volta a garantire l’esazione
dei tributi e non, lo si ripete, a carattere
sanzionatorio, è quella rinvenibile nelle disposizioni
che trattano della cessione d’azienda.
Ci si riferisce in particolare all’articolo 14 del
D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
Qui si dispone che il cessionario di azienda sia
responsabile in solido con il cedente, entro i limiti
del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il
pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili
all’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due
precedenti.
Tuttavia la disposizione così prevede:
“L’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del
trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e
degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza”.
Per non ingenerare malintesi, è bene preliminarmente
chiarire perché la disposizione è collocata nella legge
sulle sanzioni amministrative e perché è stata
stabilita la solidarietà anche per queste.
In dottrina è S. Donatelli, in “Osservazioni sulla
responsabilità tributaria del cessionario d’azienda”, Rassegna
Tributaria, n. 2/2003, pag. 489, a spiegare che:
”Nella circostanza che il cessionario risponda solidalmente non solo per
l’imposta ma anche per le sanzioni si può chiaramente leggere una deroga
al carattere strettamente personale che connota la sanzione
amministrativa tributaria; difatti il cessionario si trova a rispondere per un
fatto altrui alla cui realizzazione non ha in alcun modo partecipato, se non
per il semplice acquisto dell’azienda”.
Chiarito quest’aspetto si deve procedere a giustificare
la mancata assimilazione della responsabilità dei soci
a quella del responsabile d’imposta.
Valorizzando i principi stabiliti dalla Corte
Costituzionale con la sentenza testè citata, l’unico
limite alla discrezionalità del legislatore è
costituito dalla non irragionevolezza del criterio di
collegamento utilizzato per l’individuazione dei
predetti responsabili d’imposta.
Il criterio di collegamento, nella fattispecie del
cessionario di azienda, è stato individuato sì dalla
cessione dell’azienda, cespite dal quale sono stati
ritratti i proventi che hanno originato la materia
imponibile e quindi il debito d’imposta, ma a questo il
legislatore ha ritenuto di dovere affiancare una
“esimente”, dipendente dalla volontà del cessionario,
specificando che la responsabilità d’imposta sia
limitata al debito risultante dagli atti
dell’amministrazione finanziaria.
Chiaramente questi atti possono e debbono poter essere
richiesti al cedente il quale li esibirà al
cessionario.
Insomma il legislatore non ha ritenuto sufficiente ad
originare la responsabilità del cessionario il mero
verificarsi dell’evento “oggettivo” ma gli ha conferito
la possibilità di tutelarsi.
Questa differenza, rispetto al caso che investe i soci
e gli associati, – soggetti sforniti di possibilità di
reazione di fronte ad una tale previsione - sarebbe a
mio avviso sufficiente a discostarne il trattamento e a
ripudiarne la configurazione quali responsabili
d’imposta.
Ad abundantiam evidenziamo che:
1) nell’art. 14, del D.Lgs. n. 472/1997, il
legislatore fa espressamente riferimento alla
solidarietà, mentre la disposizione in esame è
priva di tale definizione;
2) l’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973 prevede l’obbligo
di rivalsa, esperibile verso la società: ma questa
risulta impossibile, posto che ci si rivolge ai soci
solo dopo che il tentativo di riscossione nei confronti
della società è andato a vuoto, cioè i beni sono
fuoriusciti dalla sua sfera giuridica e non ci sono
attivi per onorare il debito d’imposta.
Si giunge, quindi, a giustificare l’assimilazione della
figura a quella civilistica degli “indebitamente arricchiti”,
così corroborando le tesi della dottrina sopra
riportata.
Volgiamo ora l’attenzione ad altri aspetti della
disposizione.
E’ interessante evidenziare che la responsabilità che
coinvolge i soci, diversamente da quella che riguarda i
liquidatori e gli amministratori, viene perimetrata in
due frazioni temporali: la prima decorre dai due
periodi d’imposta precedenti alla “messa in liquidazione”
fino a questa, mentre la seconda procede dall’inizio
della liquidazione fino alla cessazione dell’attività.
La disposizione precisa che, affinché possa essere
contestata la responsabilità dei soci, i beni devono
essere loro assegnati:
1) dagli amministratori, se la cessione avviene
nella prima frazione temporale. Il riferimento agli
amministratori è ovvio, perché in questa fase della
vita sociale sono loro i rappresentanti dell’ente.
2) dai liquidatori, se questa viene eseguita nella
seconda frazione temporale.
Anche qui il riferimento dovrebbe essere ovvio perché
la società deve essere formalmente in liquidazione.
Questa conclusione si ricaverebbe considerando il
riferimento testuale alla “messa in liquidazione” utilizzata
per delimitare il periodo esaminato al precedente punto
1). Tuttavia il comma 2, dell’articolo 36, fa
riferimento ad una estensione delle responsabilità dei
liquidatori agli amministratori in carica all’atto
dello scioglimento della società o dell’ente se non si
sia provveduto alla nomina dei liquidatori.
Sorge, quindi il dubbio se il termine liquidatori sia
da considerarsi in termini formali o sostanziali.
Per dirimerlo bisogna valorizzare il comma 4 della
disposizione in questione, che estende agli
amministratori, che abbiano compiuto nel corso degli
ultimi due periodi d’imposta precedenti alla “messa in
liquidazione” operazioni di liquidazione, le
responsabilità previste per i liquidatori.
Come si vede il legislatore fa riferimento alla formale
“messa in liquidazione” e intende semplicemente
differenziare la responsabilità dell’amministratore
<liquidatore di fatto> da quella stabilita dal secondo comma
“dell’amministratore in carica all’atto dello scioglimento della società o
dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori”
Una ulteriore differenza tra la responsabilità di
liquidatori e amministratori e quelle dei soci e
associati sta nel fatto che la prima è in proprio, cioè
deriva da una loro condotta personale che ha
trascurato le ragioni dell’erario, indipendentemente
dal fatto che ne consegua un loro arricchimento
(situazione, quest’ultima che si potrebbe verificare
se, per esempio, essi distraessero le somme dovute al
fisco per remunerare la loro opera prestata nei
confronti dell’ente o società, caso comunque assorbito
dalla maggiore responsabilità alla quale i
rappresentanti sono esposti); mentre la responsabilità
dei soci non riguarda una loro condotta ma un
arricchimento che non sarebbe stato realizzato in
assenza della condotta dei rappresentanti.
I soci, comunque, qualcosa hanno ricevuto e la loro
responsabilità si limita al valore di quei beni.
L’analisi delle responsabilità dei diversi soggetti
coinvolti segnala che i liquidatori - e gli
amministratori in carica all’atto dello scioglimento
della società o dell’ente se non si sia provveduto alla
nomina dei liquidatori - sono responsabili anche per
tutti i periodi d’imposta anteriori alla liquidazione,
cioè anche per i debiti originatisi in periodi
d’imposta in cui potevano non essere in carica (vi sono
casi in cui gli amministratori stessi vengono nominati
liquidatori dell’ente); mentre per i soci la
responsabilità può emergere solo limitatamente ad
alcuni periodi d’imposta, sopra segnalati .
Invece le responsabilità di amministratori e soci si
sovrappongono solo negli ultimi due periodi d’imposta
precedenti alla messa in liquidazione.
Ma né la misura del danno cagionato al fisco né il
titolo dal quale risulta la loro responsabilità,
distrazione di beni senza tener conto della graduazione
dei crediti da una parte indebito arricchimento
dall’altra, coincidono.
Tuttavia rispondono entrambi nei limiti dell’importo
del debito d’imposta rimasto insoluto.
Verrebbe da pensare che i beni assegnati ai soci, in
quanto distratti dal pagamento di debiti sociali,
dovrebbero (astrattamente) essere restituiti alla
società perché vincolati al pagamento dei suoi debiti.
E’ principio generale quello per cui alla ripartizione
dei conferimenti si procede solo dopo la soddisfazione
di tutti i debiti sociali.
Quindi si dovrebbe definire prioritaria l’esazione
delle imposte in capo ai soci, perché si sono
appropriati dei beni della società (magari in buona
fede).
Chiaramente, secondo il principio della
pregiudizialità-dipendenza che prima abbiamo esposto,
questo passaggio richiede che il debito della società
sia rimasto insoddisfatto.
La norma, infatti, dispone tale passaggio per tutti i
soggetti da essa elencati.
Abbiamo detto che il rapporto tra le responsabilità di
amministratori e soci si intreccia nei due periodi
d’imposta precedenti alla messa in liquidazione;
tuttavia la responsabilità dei primi è testualmente
subordinata all’effettuazione delle operazioni di
liquidazione mentre la lettura della parte normativa
che dispone sulla responsabilità dei secondi non fa
riferimento al tipo di operazioni dalle quali viene
originata l’assegnazione.
La distinzione potrebbe sembrare ovvia se si pensa, per
esempio, che il risultato civilistico può essere
conseguenza sia di operazioni ordinarie che di
liquidazione; infatti il periodo d’imposta precedente
la liquidazione e il primo di liquidazione ricadono
nello stesso esercizio sociale e l’eventuale utile che
si evidenzia è formato indistintamente da operazioni
ordinarie e da operazioni liquidatorie.
Tuttavia credo che l’intento del legislatore sia stato
quello di introdurre una presunzione di carattere più
ampio, valevole in un determinato e logico intorno di
tempo, che faccia ritenere possibile il compimento di
operazioni che, anche se non proprio definibili ed
identificabili come operazioni di sola e mera
liquidazione, possano essere state compiute in mezzo a
quelle di ordinaria gestione.
Se la contestazione all’amministratore, ai sensi del
quinto comma dell’articolo 36, deve contenere anche la
dimostrazione delle avvenute operazioni di
liquidazione, come detto non sempre nettamente
identificabili, la contestazione al socio riguarda solo
l’assegnazione ricevuta dall’amministratore in un
determinato arco temporale e in compresenza di un
debito tributario Ires.
In questo modo il legislatore ha tutelato massimamente
gli interessi erariali contemperando la diversa
responsabilità, in proprio dell’amministratore (più
gravosa), e per quanto ricevuto, dal socio.
Rendendo tuttavia la prima azione più “debole”, perché
il fisco deve dimostrare il compimento di operazioni di
liquidazione e la seconda più “forte”, perché basata su
una presunzione assoluta.
Si puntualizza che la responsabilità
dell’amministratore è sì subordinata al compimento
delle operazioni di liquidazione nell’arco temporale
dei due periodi d’imposta precedenti alla messa in
liquidazione ma comporta l’obbligo di pagare le imposte
dovute dalla società per tutti i periodi anteriori a
tale attività.
Non è, quindi, limitata ai debiti Ires originati nei
due periodi d’imposta precedenti alla messa in
liquidazione, ma è originata dal fatto che siano state
compiute operazioni di liquidazione in quell’arco
temporale.
Insomma quando comincia un’attività di liquidazione,
sia essa nei due anni antecedenti alla formale messa in
liquidazione che dopo, scatta l’obbligo dei
rappresentanti di privilegiare il pagamento dei crediti
Ires.
Invece per i soci la presenza di debiti tributari
insoddisfatti in tali periodi e la compresenza di
assegnazioni a loro destinate ne attiverà la
responsabilità, nei limiti di quanto ricevuto.
9) Estensione analogica ad altre imposte
Una curiosità che spesso sorge nell’analisi di questo
tipo di disposizioni è se la disciplina qui contenuta
sia estendibile ad altre imposte oppure agli interessi.
Ci stiamo riferendo alla possibilità di applicare
l’articolo 12 delle preleggi, rubricato quale
“Interpretazione della legge”, a casi simili.
Questo articolo permette di espandere l’applicazione
della disposizione a casi non previsti.
Se scorriamo il testo dell’articolo 36 ci accorgiamo
che la disposizione in esame si applica espressamente
per l’evasione dell’Ires e non si scorgono altri
riferimenti letterali ad imposte diverse.
Come è noto in diritto tributario la dottrina
prevalente tende ad escludere l’interpretazione
analogica nell’ambito del diritto sostanziale, quello
cioè che individua il presupposto impositivo.
Infatti se è vero che l’individuazione dell’indice di
capacità contributiva, ai sensi dell’articolo 53 della
Costituzione, può essere individuato liberamente dal
legislatore - essendo questi limitato solo dal
parametro anch’esso di rango Costituzionale della
ragionevolezza - è anche vero che l’articolo 23 della
Costituzione richiede un provvedimento legislativo
che disciplini con sufficienza i soggetti passivi, il
presupposto d’imposta, i criteri di determinazione
dell’imponibile e le aliquote da applicare.
Riportiamo il testo dell’articolo 23 per chiarezza:
“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se
non in base alla legge”.
Questo articolo pone un divieto alle prestazioni
patrimoniali non imposte dalla legge; secondo alcuni
autori vi sarebbe una conseguente impossibilità ad
estendere l’imposizione a fattispecie non direttamente
regolate dalla legge.
Il limite così individuato, seppur non incontestato in
dottrina, riguarda comunque il solo diritto
sostanziale.
In tema di riscossione, invece, tale divieto non opera
e si può tentare la ricostruzione analogica.
Per farlo bisogna però seguire le altre regole generali
dell’ordinamento.
Una tra queste è rappresentata dall’articolo 14 delle
preleggi che stabilisce il seguente principio:
“Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in essi considerati”.
Bisogna rilevare che la norma in esame, tranne la parte
in cui disciplina la responsabilità di soci e associati
(N.B.), ha carattere sanzionatorio e non permetterebbe
l’applicazione del procedimento analogico.
Inoltre questa disposizione risulta essere applicabile
ai soli casi ivi disciplinati e non ha carattere
generale.
In dottrina tale norma viene definita a fattispecie
esclusiva; per M.S. Giannini, “L’interpretazione e l’integrazione
delle leggi”, in “Riv. Dir. Fin.”, 1941, pag. 124, sono
tali le “norme, che riflettendo situazioni di fatto ben determinate, e
contenendone una qualificazione caratteristica ed esclusiva ed una
determinazione astratta di effetti giuridici altrettanto tipica ed esclusiva,
non possono per loro natura estendersi a fatti diversi”.
Si configurano in questa gli estremi della legge
eccezionale.
Insomma anche per questa via non si potrebbe sostenere
la possibilità di espansione della disposizione ad
altri casi.
Quindi, per gli interessi maturati sul debito
d’imposta questa non potrebbe essere utilizzata per
garantirne il recupero.
La riprova è in altri articoli 32, 33, 34 e 35 dello
stesso D.P.R. n. 602/1973: qui l’estensione della
responsabilità dei soggetti ivi menzionati è
espressamente applicabile agli interessi.
Per quanto riguarda le altre imposte, il percorso
interpretativo che conduce al divieto di analogia
poteva essere utilizzato fino al 1999.
Infatti, il D.Lgs. del 26 febbraio 1999, n. 46,
all’articolo 19 dispone che: “Le disposizioni previste dagli
articoli … omissis … 36 … omissis … del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, si applicano alle sole imposte sui
redditi”.
Questa disposizione limita espressamente la portata
dell’articolo 36 alle imposte sui redditi e chiarisce
definitivamente la impossibilità di applicazione ad
altre imposte.
10) La graduazione dei crediti
La responsabilità di amministratori e liquidatori si
integra
“se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano
beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari.
Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che
avrebbero trovato capienza in sede di graduazione di crediti”
Anche quest’aspetto della responsabilità si aggancia a
disposizioni civili ed è una ulteriore conferma degli
aspetti sostanzialmente civili di questa norma.
Riguardo all’originarsi della responsabilità in proprio
di amministratori e liquidatori bisogna ora indagare
sul significato di “graduazione dei crediti”, perché è
l’infrazione a tale regola che determina le gravi
conseguenze sopra evidenziate.
Il legislatore civile ha inteso stabilire una regola di
parità tra i creditori, prevedendo che essi abbiano
uguale diritto sul patrimonio del comune debitore.
A questa regola non soggiacciono i crediti per i quali
vi siano particolari cause di prelazione; queste,
stabilite dall’articolo 2471 del codice civile, sono: i
privilegi, il pegno e l’ipoteca.
I crediti assistiti da privilegio devono quindi essere
soddisfatti in via prioritaria rispetto a quelli
definiti chirografari, cioè sforniti di alcuna causa di
prelazione.
Non solo vi sono queste cause di prelazione, ma,
all’interno della categoria dei crediti privilegiati,
vi è un ordine che stabilisce la “graduatoria” di
soddisfacimento.
Da qui l’espressione “graduazione del credito”.
In altre parole, a seconda del tipo di credito
privilegiato vi sono crediti che hanno la priorità
rispetto ad altri e vengono quindi soddisfatti per
primi.
Per verificare l’ordine di soddisfabilità, e quindi
comprendere la posizione occupata dal credito
tributario, occorre riferirsi agli articoli 2777 e
seguenti del codice civile.
Ecco che se il liquidatore o l’amministratore
soddisfano crediti privilegiati di ordine superiore a
quello tributario non incorrono nella violazione
prevista dall’articolo 36 qui in esame, avendo
adempiuto agli obblighi imposti dalla legge.
Passiamo ora a definire il criterio di commisurazione
della responsabilità.
E’ lo stesso articolo 36, primo comma, a disporre che
questa sia commisurata all’importo dei crediti
d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di
graduazione di crediti.
Questa limitazione di responsabilità è possibile
derogando al principio generale stabilito dall’articolo
2740 del codice civile, che così dispone:
“Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi
beni presenti e futuri”.
E’, infatti, lo stesso comma 2 ad abilitare la
possibilità di deroga:
“Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi
stabiliti dalla legge”.
Tornando ad analizzare il momento in cui si origina la
responsabilità, si deve comprendere quando si
soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli
tributari.
Qui si deve chiarire che bisogna fare sempre
riferimento alle disposizione civili citate sopra
sull’ordine dei privilegi; tuttavia, per i creditori
che occupano la stessa posizione nell’ordine di
preferenza stabilito dal legislatore si applica il
criterio proporzionale, se non è possibile l’integrale
soddisfazione di tutti.
Questo principio è stabilito dall’articolo 2782 del
codice civile.
11) La società cessata, ovvero facciamo funzionare i
principi qui affermati
Se accogliamo l’interpretazione qui proposta molte
delle questioni che ancora sembrano controverse trovano
una semplice soluzione, in armonia con le diverse
“nature” espresse dall’articolo in esame.
Tra queste ancora irrisolta appare la questione della
società, o dell’ente, cessati.
La questione è stata affrontata dalla sentenza della
Corte di Cassazione del 17 giugno 2002 n. 8685.
Qui si afferma che:
“l’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore di una società con
riguardo ai crediti per imposta sul reddito delle persone giuridiche – i cui
presupposti si siano verificati a carico della stessa, ancorché accertati
successivamente, - che l’art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973 (al pari
dell’abrogato art. 265 del D.P.R. n. 645 del 1958) riconosce
all’amministrazione finanziaria, nel caso in cui il liquidatore (o
l’amministratore, nella fattispecie prefigurata dal comma 4 dello stesso
art. 36) abbia esaurito le disponibilità della liquidazione senza provvedere
al loro pagamento, è esercitatile alla duplice condizione che i ruoli, in cui
siano iscritti i tributi a carico della società, possano essere posti in
riscossione e che sia acquisita legale certezza che i tributi medesimi non
siano stati soddisfatti con le attività di liquidazione; che, nella specie,
costituiscono, invece, circostanze incontestate tra le parti quelle secondo
cui le attività di liquidazione addebitate all’intimato sono state compiute
negli anni 1978 e 1979, e secondo cui i debiti tributari, di cui si chiede il
pagamento ex art. 36 del D.P.R. n. 602 del 1973, sono stati iscritti nei ruoli
del 1985 e del 1990; sicchè difettano le condizioni oggettive per
l’esperibilità dell’azione di responsabilità, posto che l’obbligazione legale
prevista dalla più volte citata disposizione insorge allorquando ricorrono
gli elementi oggettivi della sussistenza di attività nel patrimonio della
società in liquidazione (o liquidata di fatto) e dalla distrazione di tali
attività a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute, vale a dire di
imposte che abbiano acquisito i caratteri della certezza e della definitività
… omissis”.
Il riferimento alla duplice condizione, l’esistenza dei
ruoli posti in riscossione a carico della società e la
legale certezza che i tributi ivi iscritti non sono
stati soddisfatti con le attività della liquidazione
non è presupposto della responsabilità
dell’amministratore poiché questa si origina quando il
liquidatore non abbia adempiuto all’obbligazione
tributaria distraendo attività in violazione
dell’ordine di graduazione dei crediti.
La lettura dell’articolo 36, come dimostrato, non fa
alcun riferimento alle imposte liquidate, come invece
stabilisce l’articolo 14 del D.P.R. n. 602/1973 quando
specifica quali iscrizioni a ruolo si possono fare a
titolo definitivo.
L’articolo 36 fa riferimento alle imposte dovute e
queste si originano all’atto del verificarsi dei
presupposti dell’obbligazione tributaria e non con il
ruolo.
Il diverso momento dell’esistenza dei ruoli posti in
riscossione a carico della società e la legale certezza
che i tributi ivi iscritti non sono stati soddisfatti
con le attività sono il presupposto per procedere
all’emissione dell’avviso di accertamento delle
responsabilità in capo all’obbligato dipendente; ma la
responsabilità è per l’inadempimento che si è
verificato quando la società era ancora in vita, nel
momento della sua liquidazione, ovvero nell’istante in
cui si sono pagati crediti di ordine inferiore a quello
tributario o assegnati beni ai soci e associati.
E’ questa la lettura che si deve dare ai commi 5 e 6,
dell’articolo 36, come dimostrato in questo lavoro.
Altrimenti, se si ritenesse vera la tesi della
Cassazione vi sarebbe una facile via di fuga al
pagamento delle imposte dovute dalla società.
L’evasione da riscossione verrebbe legalizzata e
chiunque potrebbe farla franca realizzando un utile
fiscale importante e avendo l’accortezza di mettere in
liquidazione la società e velocemente cancellarla, di
modo che l’iscrizione a ruolo non possa giungere nelle
mani del liquidatore che dopo la cessazione.
Non è questa la ratio dell’articolo 36 né si può così
interpretare sistematicamente il concetto di “debito
tributario”.
12) Conclusioni
Dell’articolo 36 si è dimostrata la sua vocazione
civilistica e le innovative responsabilità a cui vanno
incontro i vari soggetti che ruotano intorno agli enti
e alle società.
L’innovazione sta nella differenziazione di questa
disposizione rispetto alle altre che dispongono della
responsabilità.
Proprio questo aspetto ha messo in crisi molti studiosi
che, di fronte ad una nuova costruzione giuridica, non
sono riusciti immediatamente a coglierne la sua
specificità.
L’abitudine dei tributaristi era quella di cimentarsi
con figure quali quella del responsabile d’imposta, ma
questa nuova disposizione mal si attaglia a quella, siaper il carattere sanzionatorio che per l’impossibilità
di far valere la rivalsa.
Gli interessanti intrecci con la normativa civile hanno
anche permesso di evidenziare che in qualche caso la
scelta di spostare l’ambito delle responsabilità nel
settore tributario è stato determinato dalla snellezza
del procedimento.
Si è, inoltre, spiegato il motivo per cui non si può
ricorrere all’istituto in esame per fornire adeguata
tutela alla riscossione di imposte diverse.
Non lo consente il ricorso all’analogia, posto che
questa norma ha carattere eccezionale, né la specifica
previsione posta dal D.Lgs. n. 46/1999.
Gli aspetti più controversi sono quelli affrontati in
questo lavoro e in ogni passaggio si è cercato di
offrire le diverse interpretazioni fornite dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, ove rintracciabili,
accettandole o rifiutandole in forma critica senza mai
adagiarsi su concetti posti da altri ma, quando
condivisi, fornendo una nuova angolazione
interpretativa, corroborante la prima.
Insomma si è cercato qui di costruire un percorso
proprio, senza la ricerca dell’originalità a tutti i
costi ma nell’intento di conferire l’equilibrio che la
sensibilità di chi scrive sente sia necessario alla
norma.
Vedremo se la giurisprudenza che affronterà le future
controversie riscossive, originate dall’articolo in
questione, dimostrerà di condividere questa
impostazione o se continueranno a prevalere le attuali
tendenze.
Comunque sia in qualche modo bisognerà indicare ai
giudici che vi è irragionevolezza nelle interpretazioni
che da una parte inchiodano il liquidatore alla
“responsabilità oggettiva”, mentre dall’altra gli consentono
di farla franca perché non ha ricevuto il ruolo prima
della cessazione dell’ente.
La buona interpretazione, è risaputo, sta
nell’equilibrare situazioni contrapposte.