La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione, rimedi

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LIBRI DI ASTRID

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LIBRI DI ASTRID

ASTRID

La corruzione amministrativa. La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimediCause, prevenzione e rimedi

a cura diFrancesco Merloni e Luciano Vandelli

Passigli Editori

© 2010 Passigli Editori, via Chiantigiana, 62, Firenze-Antellawww.passiglieditori.it [email protected]

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INDICE

Introduzione 9 di Francesco Merloni e Luciano Vandelli

Parte Iil fenomeno e le sue cause

1. L’evoluzione della corruzione in Italia: evidenza empirica, fattori facilitanti, politiche di contrasto 37 di Alberto Vannucci2. Profi li economici della corruzione 69 di Vincenzo Visco Comandini3. Etica pubblica e disciplina delle funzioni amministrative 89 di Vincenzo Cerulli Irelli4. L’Italia e le politiche internazionali di lotta alla corruzione 109 di Silvio Bonfi gli

Parte IIgli strumenti di prevenzione e contrasto.

profili soggettiviA) Aspetti generali: regole per tutte le categorie di funzionari pubblici

5. I profi li costituzionali. Una nuova lettura degli articoli 54, 97 e 98 della Costituzione 129 di Guido Sirianni6. I profi li penali della corruzione e della maladministration 135 di Vito D’Ambrosio7. La protezione dei whistleblowers 167 di Fabrizio Gandini8. La responsabilità amministrativa e contabile e 175

la giurisdizione della Corte dei Conti di Filomena Terzini

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9. Le regole generali sull’imparzialità soggettiva del funzionario pubblico. L’accesso alla funzione 185

di Francesco Merloni10. Incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità 189 di Ferdinando Pinto11. Durata degli incarichi 207 di Benedetto Ponti12. Confl itti di interesse 215 di Guido Sirianni13. Doveri di comportamento 225 di Bernardo Giorgio Mattarella14. Responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici 245 di Pietro Barrera15. Incarichi successivi alla cessazione della funzione 255 di Francesco Merloni

B) Aspetti specifi ci (per le diverse categorie di funzionari pubblici)

16. I titolari di organi politici 261 di Guido Sirianni17. I funzionari professionali 281 di Francesco Merloni18. I soggetti con incarico fi duciario 295 di Francesco Merloni19. I componenti delle Autorità amministrative indipendenti 309 di Benedetto Ponti20. I magistrati 315 di Raff aele Sabato

Parte III

gli strumenti di prevenzione e contrasto: profili oggettivi.

controlli e trasparenza

21. I controlli. Profi li generali 337 di Antonio Brancasi

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22. Il ruolo della Corte dei Conti 347 di Francesco Battini23. Istituzioni locali, controlli interni e garanzie di legalità 365 di Pietro Barrera24. I controlli interni di regolarità e il ruolo dei Segretari comunali e provinciali 381 di Gian Candido De Martin e Marco Di Folco25. Una diversa ipotesi: il ritorno ai controlli esterni? 389 di Quirino Lorelli26. La trasparenza 403 di Francesco Merloni e Benedetto Ponti

Parte IV i settori «caldi»

27. L’urbanistica 423 di Paolo Urbani28. I contratti pubblici 437 di Maria Alessandra Sandulli e Arturo Cancrini29. La sanità 451 di Guido Carpani30. I servizi pubblici (in particolare locali) 469 di Adriana Vigneri

Parte Vindice riassuntivo delle proposte di astrid

31. Indice riassuntivo delle proposte 481 a cura di Francesco Merloni

Indice degli Autori 517

Indice particolareggiato 519

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Francesco Merloni e Luciano Vandelli

INTRODUZIONE

PREVENZIONE E REPRESSIONE DELLA CORRUZIONE: APRIRE UNA NUOVA PAGINA

1. Qualche considerazione preliminare«’a Fra’, che te serve?»«’a Eva’…come stai messo?»Accomunate da quei nomi confi denzialmente troncati, da quel

romanesco che si erge a simbolo delle connivenze nazionali, le due frasi segnano icasticamente le vicende pubbliche italiane de-gli ultimi decenni.

In realtà, sono trascorsi quaranta anni, tra il momento in cui la prima domanda venne diretta a Franco Evangelisti, attivissimo braccio destro di Giulio Andreotti, e quello in cui ad un peculiare sacerdote, don Evaldo, viene rivolta la seconda, per sapere quanti contanti sono disponibili nella cassaforte nascosta dietro un qua-dro della sacrestia.

Certo, i personaggi e le circostanze sono diversi, e molte cose sembrano cambiate: persino le tecnologie (si è affermato il tele-fonino), e i metodi investigativi (è divenuto corrente l’uso del-le intercettazioni). Eppure, le due frasi sembrano affi ancate da un medesimo familismo, da una medesima intimità in grado di coinvolgere e mescolare persone e interessi, sfera pubblica e sfera privata, funzionari e imprenditori, controllori e controllati, arbitri e giocatori.

In questo scenario, rimane sullo sfondo l’etica pubblica: quel-l’elemento fondamentale su cui si basa – o dovrebbe basarsi – il rapporto tra istituzioni e cittadini; quell’insieme di regole e prin-cipi di condotta cui si ispira – o dovrebbe ispirarsi – ogni com-portamento di chi opera nelle pubbliche amministrazioni, sia sul piano delle responsabilità politiche di governo così come nello svolgimento di compiti di gestione amministrativa; quel vincolo che obbliga non solo al rispetto delle leggi, ma anche a persegui-

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re gli interessi pubblici, tenendoli nettamente distinti da quelli privati; quel fattore che trascende gli stessi profi li giuridici per investire in maniera piena la sfera politica e quella culturale.

Del resto, l’etica pubblica si articola in una gamma plurale di profi li e livelli: riguardando, certamente, in primo luogo, le po-litiche anticorruzione, volte alla prevenzione ed al contrasto al-l’illegalità e alla corruzione; ma investendo, progressivamente, i temi della opposizione ad ogni condizionamento da interessi par-ticolari, a tutela dell’imparzialità, e della lotta agli sprechi ed alle ineffi cienze, a tutela del buon andamento, estendendosi a profi li quali il rispetto dell’orario di lavoro, i ritardi e le inadempienze, la scarsa considerazione per le esigenze dei cittadini, la inadeguata effi cienza e il carente rendimento.

In questa gamma, la corruzione costituisce, dunque, il livello più accentuato, la patologia massima; e ciò non soltanto nel si-gnifi cato tecnico attribuito al termine dal Codice penale, come reato preciso, ma anche, più in generale, nell’accezione comune-mente usata nel linguaggio comune, con riferimento a tutto ciò che costituisce degenerazione contrastante con l’interesse della collettività e produzione di vantaggi particolari nell’esercizio di cariche pubbliche.

Sotto questi profi li, la lotta alla corruzione e alla «malammini-strazione» può riguardare ogni aspetto di gestione dei servizi o co-munque di scelta concorrenziale; od ogni ipotesi di presentazione di istanze, da parte di privati, per esercitare un’attività od ottenere un benefi cio; oppure l’esercizio di poteri autoritativi, di controllo e sanzione nei confronti di attività svolte da persone o imprese.

Del resto, il contrasto alla corruzione ed alla «malamministra-zione» non solo assume i mezzi e gli strumenti più vari, ma anche i più diversi modi di atteggiarsi a seconda del modello ammini-strativo che si assuma quale riferimento: dalla neutralità (cui si ispira la tradizione del Civil Service britannico) alla responsabilità democratica (su cui si basa lo spoils system americano), dal di-segno verticistico della struttura gerarchica agli ambiti di garan-zia affi dati ad autorità indipendenti, dagli assetti maggiormente accentrati alle articolazioni più autonomistiche, dall’amministra-zione che gestisce direttamente a quella che regola e controlla attività svolte da altre.

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Su tutti questi profi li, si modulano variamente misure soggetti-ve (sui funzionari, in relazione a status, garanzia di indipendenza, responsabilità, sanzioni, ecc.) e misure oggettive (sull’attività, in relazione a procedimenti, controlli, regole di evidenza pubblica, ecc.) volte a collocare persone e azioni al riparo dell’ingerenza di interessi particolari. In riferimento ad entrambi, soggetti ed oggetti, criteri di trasparenza tendono a costituire il più effi cace antidoto a opacità e deviazioni.

Prospettive di questo tipo emergono nelle diverse analisi e classifi cazioni che intendono monitorare l’andamento della cor-ruzione e rappresentare la collocazione di ciascun Paese rispetto agli standard di corruzione, sia reale che percepita. Classifi cazio-ni che, pur assumendo una varietà di parametri e criteri, sono accomunate (1) dalle posizioni di bassa classifi ca costantemente assegnate all’Italia.

2. Evoluzione del fenomeno: le illusioni perduteNel nostro Paese, dunque, la corruzione e la «malamministra-

zione» sembrano segnare profondamente le vicende degli ultimi decenni. Eppure – lo hanno rilevato numerosi commentatori (2) – sarebbe improprio non cogliere l’importanza dei mutamenti che si sono verifi cati lungo questo periodo.

In effetti, sono cambiati caratteri sostanziali dei modi di opera-re e di svilupparsi delle attività corruttive. Determinate modalità sono quasi scomparse, altre sono divenute via via dominanti. E insieme a queste trasformazioni, è mutata – per diversi, fonda-mentali profi li – la percezione delle circostanze idonee a preve-nire e contrastare la corruzione. Anche da questa prospettiva, varie analisi e varie ipotesi si sono rivelate inadeguate; e l’effi cacia delle terapie immaginate si è progressivamente dissolta o, quanto meno, signifi cativamente stemperata, alla luce dell’esperienza.

Una prima analisi e linea di contrasto, ampiamente ed a lun-go condivisa, nel dibattito, ricollegava la diffusione dei fenomeni corruttivi all’assenza di alternanza nel sistema italiano, a quel pe-culiare sistema di potere basato su una «conventio ad excluden-

(1) … come risulta con evidenza nel contributo di Silvio Bonfi gli in questo volume.

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dum» (per riprendere la effi cace espressione di Leopoldo Elia) che rigidamente manteneva una parte delle forze politiche (con limitate varianti) nell’area governativa ed un’altra nell’area di op-posizione. In realtà, la crisi della c.d. «prima Repubblica» e della stagnazione democristiana che la contrassegnava hanno portato cambiamenti vistosi, nel sistema politico italiano: tra i quali, tutta-via, sarebbe davvero improprio includere risultati importanti sul piano dell’etica amministrativa.

Una seconda, strettamente connessa, chiave di lettura, tendeva a considerare determinante la assenza, nella nostra tradizione, di quel fondamentale modo di atteggiarsi del potere che gli anglo-sassoni chiamano «accountability». All’opposto, da noi era domi-nante una generale dispersione di poteri, decisioni e responsabili-tà, in un sistema politico in cui il cittadino veniva a trovarsi in una insormontabile diffi coltà nell’identifi care e nell’imputare scelte e decisioni all’uno o all’altro protagonista, potendo – anzitutto me-diante il proprio voto – premiare o punire i propri rappresentanti e i loro comportamenti.

A questi difetti si intese porre rimedio con una rilevante serie di interventi, di vario livello (nazionale, regionale, locale), natu-ra (costituzionale, legislativo, statutario…) e contenuto (forma di governo, sistema elettorale); ma tutti tendenti, in defi nitiva, ad una concentrazione di poteri su fi gure identifi cate – secondo una dinamica bipolare – da scelte in via di massima demandate al cor-po elettorale. In realtà, il cambiamento si è realizzato in forme e misure diverse, non senza incongruenze e contraddizioni: dal livello nazionale, ove si è basato essenzialmente su una revisione elettorale, che (sottraendo peraltro all’elettore la scelta del singolo parlamentare) tende a polarizzare nettamente le opzioni, al livello locale, dove sin dal ’93 si è affermata una solida forma di governo, incentrata sulla elezione diretta del sindaco; passando per il livel-lo regionale, dove una modifi ca costituzionale ha introdotto un analogo sistema, poi confermato da pressoché tutti gli statuti.

Una terza lettura ravvisava come causa fondamentale di cor-ruzione il rilievo e le dimensioni assunti dalle organizzazioni dei partiti. Organizzazioni costose, composte da migliaia di funziona-ri, con apparati capillarmente decentrati in sedi diffuse anche nei comuni più piccoli. Organizzazioni di questo tipo sono state via

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via – se non dissolte – drasticamente ridimensionate, sostituendo agli assetti tradizionali strutture ben più leggere, con un perso-nale dipendente ridotto ai minimi termini. Alla perdita di una parte rilevante degli oneri per stipendi, del resto, non ha corri-sposto alcuna parallela diminuzione dei contributi pubblici: né in via diretta (tramite i c.d. «rimborsi elettorali») né in via indiretta (ad esempio – ma certamente non soltanto – tramite i contributi agli organi di stampa). Eppure, a questa situazione, così macro-scopicamente mutata, non pare abbia corrisposto alcun sensibile decremento del tasso di corruzione: tutt’al più, ne sono mutati i benefi ciari, che sembrano ormai raramente identifi carsi con par-titi o altri soggetti collettivi, in una panoramica che sembra domi-nata da interessi individuali.

Sotto un quarto versante, il degrado amministrativo è tradizio-nalmente ricollegato alla complessità del sistema: basato su nor-mative pletoriche e farraginose, nelle quali facilmente possono an-nidarsi prevaricazioni e arbitrarietà. Dunque, anche sotto questo profi lo, si presentavano necessarie misure di semplifi cazione, qua-le imprescindibile strumento di liberazione di cittadini e imprese da una mole di regole, adempimenti ed obblighi che facilmente si presta a trasformarsi in occasione di indebita pressione. I carat-teri e gli effetti della complicazione legislativa e burocratica sono approfonditi, sotto una serie assai ampia e signifi cativa di profi li, da un recente Rapporto di Astrid; che tra l’altro, prende le mosse dalla considerazione – sottolineata già nella prefazione di Franco Bassanini – che l’infl azione normativa e l’elefantiasi burocratica, oltre a produrre costi ingiustifi cati e spesso insopportabili per im-prese e cittadini, determinano altri, rilevanti conseguenze negative, a partire, appunto, dal fatto di alimentare la corruzione (3).

Certamente, al tema delle semplifi cazioni, gli ultimi governi hanno inteso dedicare una particolare attenzione, quanto meno sotto i profi li programmatici, progettuali, comunicativi, media-tici. Dopo anni di enfasi, tuttavia, sarebbe davvero azzardato

(2) Il dato emerge con nettezza in varie analisi contenute in questo volume, a partire dal contributo di Alberto Vannucci.

(3) F. Bassanini, «Prefazione», in Astrid, La tela di Penelope. Primo Rapporto Astrid sulla semplifi cazione legislativa e burocratica, a cura di A. Natalini, G. Tiberi, Bologna, il Mulino, 2010, 9 ss.

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sostenere che i risultati abbiano corrisposto alle aspettative. Al proposito – senza richiamare qui la mole di elementi cui fa rife-rimento il Rapporto ora menzionato – può essere qui suffi ciente riportare una considerazione contenuta nell’ultima Relazione an-nuale al Parlamento (23 giugno 2010) dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. Settore condizionato – rilevava l’allora Pre-sidente dell’Autorità, Luigi Giampaolino – per un verso, da una «regolamentazione di mastodontiche dimensioni», composta da 615 articoli e 58 allegati (a fronte di direttive Ue che di articoli ne contano 150); per l’altro, da un importante e diffuso ricorso a pro-cedure in deroga (a partire, come è noto, dalla Protezione civile, con contrattazioni dirette estese dagli stati di emergenza ai grandi eventi, interpretati in una accezione assai ampia). Così, la com-plessità della normativa ha determinato non un impegnato sforzo per semplifi care le regole, ma una diffusa tendenza alla fuga dalla loro applicazione.

Né hanno esercitato qualche effetto di ridimensionamento del-la massa normativa le prassi di condizionamento delle procedu-re parlamentari, tra ricorso diffuso alla decretazione d’urgenza, maxi-emendamenti e chiusura del dibattito con voto di fi ducia (1.3 al mese, nell’ultimo biennio) (4). E ancora le leggi fi nanziarie continuano ad occupare centinaia di pagine, con numeri spropo-sitati di commi e di parole, mentre la Gazzetta Uffi ciale rigurgita di quasi 16.000 pagine di provvedimenti all’anno, in una «bulimia giuridica» che sembra incontrollabile (5).

Certo, rimane l’attesa dell’effetto riduttivo della legge c.d. «ta-glialeggi» (n. 246 del 2005). Ma la vicenda di questa è stata al-quanto travagliata; e lo stesso effetto abrogativo è stato rinviato, per ora, al 2012 (legge n. 69 del 2009).

Infi ne, merita richiamare l’affermazione secondo cui la corru-zione trova un terreno fertile laddove – come nel nostro Paese – esiste una presenza (ritenuta) eccessiva del settore pubblico, a scapito del mercato.

(4) Il dato è segnalato da M. Ainis, «Se il taglialeggi ci fa un baffo», in Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2010, cui merita rinviare anche per le argomentate considerazio-ni sulla distanza tra dichiarazioni di principio e prassi.

(5) L’espressione è di G. Tremonti, in riferimento a dati di Doing Business, in Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2010.

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Anche in questo caso, è arduo considerare la fondatezza del-l’affermazione in via generale, considerato che, nella concreta situazione italiana, di liberalizzazioni si è parlato molto, partico-larmente negli anni recenti; con risultati peraltro assai ondivaghi, ambigui e complessivamente modesti.

Di questo andamento dà ora riprova la classifi ca internazionale 2010 del grado di liberalizzazione conseguito dai vari Paesi, cura-ta dall’Istituto Bruno Leoni. Così, mentre latita la presentazione del disegno di legge annuale sulle liberalizzazioni, l’Italia in que-sta classifi ca compare in posizioni alquanto mediocri, riportando complessivamente un punteggio di 49, rispetto ai 100 punti asse-gnati ai casi di eccellenza, senza alcun miglioramento (e perfi no qualche arretramento) nei confronti con gli anni precedenti.

D’altronde, precisamente nelle aree segnate in cui maggior-mente incisero privatizzazioni, lo scalpore suscitato da vicende come Parmalat, Popolare di Lodi, Telecom, Fastweb, Finmecca-nica, ecc., sembrano aver ridimensionato fortemente l’aspettativa che dalle privatizzazioni stesse si potesse ripristinare, in qualche modo, un’etica pubblica (6). Così, nella concreta esperienza italia-na, in vari casi le privatizzazioni hanno esteso l’area del dispiegar-si non tanto delle dinamiche concorrenziali del libero mercato, quanto degli interessi di circoscritti gruppi di interesse.

Del resto, la riduzione della sfera pubblica raramente è stata perseguita con qualche coerenza e organicità; preferendosi, sem-mai, imputare a fantomatici vincoli costituzionali (a partire dal famigerato art. 41) la responsabilità di ostacolare ogni iniziativa di liberalizzazione e, persino, di semplifi cazione…

3. Precondizioni imprescindibili e interventi estemporaneiDel resto, ogni impostazione di politiche di contrasto alla cor-

ruzione non può non basarsi su alcune precondizioni imprescin-dibili. Che spaziano dall’adeguatezza degli strumenti di indagine alle garanzie di buon funzionamento della giustizia.

(6) M. Mucchetti, «Il mercato più oscuro», in Corriere della Sera, 14 luglio 2010: «l’idea che la mera privatizzazione dell’economia potesse restituirci un’eti-ca pubblica si è consumata nel falò delle vanità».

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È precisamente su piani di questo tipo, peraltro, che negli ulti-mi anni si sono adottate le misure più incoerenti e contraddittorie rispetto agli obbiettivi dichiarati; ed è su piani di questo tipo che il sistema mostra evidenti debolezze.

Il tema coinvolge, ad esempio, la tormentata vicenda del dise-gno di legge sulle intercettazioni, che impegna da un paio di anni il dibattito politico e i lavori parlamentari, oscillando tra le più varie soluzioni (da stretti limiti temporali ai divieti di pubblica-zione, dagli ostacoli procedurali alle maximulte agli editori, sino alle proibizioni per le intercettazioni ambientali, ecc.), e le più ri-levanti obiezioni, anzitutto di legittimità costituzionale; per fi nire in una via che, per ora, si presenta quanto meno impervia, ma che per vari osservatori costituisce un vero e proprio vicolo cieco.

Quanto alla giustizia, nessun argomento ha impegnato mag-giormente l’attivismo regolatore di Governo e Parlamento. Senza, tuttavia, alcuna ambizione di impostare una riforma in grado di affrontare organicamente i seri problemi strutturali dell’ordina-mento giudiziario italiano, ma sempre concentrandosi su specifi ci interventi volti a correggere regole determinate. Con obbiettivi troppo spesso coincidenti con posizioni e interessi personali di ben individuabili protagonisti della politica, e con contenuti og-gettivamente consistenti in elementi non di rafforzamento ma di delimitazione dei poteri e, semmai, di contenimento delle capaci-tà di azione della giustizia.

Così, tra leggi e decreti su «processi brevi», «legittimi impe-dimenti», «ammazza-processi» e altre anomalie, i mali endemi-ci della giustizia permangono inevasi; mentre l’Italia continua a fi gurare ai vertici delle classifi che internazionali sulla lunghezza dei processi e delle condanne per questi motivi da parte del Tri-bunale europeo dei diritti dell’uomo. Correlativamente, peraltro, i tempi della giustizia incidono pesantemente sulla posizione del nostro Paese nelle graduatorie in tema di competitività e di attra-zione degli investimenti, Per non parlare dei costi comportati dai risarcimenti da ritardo, in base alla c.d. «legge Pinto».

Gli effetti economici, naturalmente, non rappresentano che un aspetto della questione. E probabilmente non il più grave, se si considerano le conseguenze, appunto, in materia di contrasto ai fenomeni di corruzione e di «malamministrazione».

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Né può trascurarsi, tra le condizioni imprescindibili, l’impor-tanza della certezza delle regole e della loro applicazione. Tema, questo, che coinvolge certamente una variegata gamma di casi e fattispecie in cui sembra arduo registrare, nella prassi giudiziaria, un grado attendibile di certezza della pena; ma che implica ine-vitabilmente una esclusione di ogni provvedimento generale di vantaggio per coloro che hanno violato le regole. Le prassi sin qui adottate nel nostro Paese, invece, ammettono in vario modo atti che escludono o riducono gli effetti sanzionatori. Provvedimenti di indulto, così come – e soprattutto – condoni di ogni tipo: edi-lizi, valutari, fi scali, previdenziali… Prassi che hanno effetti lace-ranti non solo nei confronti del bene pubblico perseguito dalle regole violate (si pensi, ad esempio, all’interesse pubblico all’ordi-nata utilizzazione del territorio e alla tutela dell’ambiente rispetto ai condoni edilizi), ma anche e anzitutto sul bene generalissimo, appunto, della certezza del diritto.

4. Tra cronache scandalistiche ed esigenze di analisi organicaIn questo quadro di cambiamenti reali (come è avvenuto in

relazione, ad esempio, all’alternanza, alla personalizzazione del-le responsabilità istituzionali, al ridimensionamento del peso dei partiti), di riforme annunciate (dalle semplifi cazioni alle libera-lizzazioni), di interventi infausti (dagli strumenti di indagine alle regole processuali, fi no agli indulti e ai condoni) si colloca l’emer-genza morale che sembra ormai dominare le cronache così come le percezioni dei cittadini.

In questi termini, il sistema italiano si presenta sempre più tra-vagliato da scandali, compiacenze, complicità, collusioni, conti-guità; attraversato da trame, reti, reticoli, ragnatele di interessi; guastato da regalie, elargizioni, erogazioni, appropriazioni, inti-midazioni, nomine, prebende, appalti, commesse, consulenze; condizionato da faccendieri, factotum, mediatori, mestatori, mil-lantatori, collusi; bazzicato da caste, cricche, cupole, consorterie, comitati d’affari, clientele, parentele.

Un sistema in cui lo stesso Esecutivo si scompone, perdendo ministri e sottosegretari, tra confl itti di interessi, scandali, inter-cettazioni, dossier; con un Parlamento invischiato in una intricata

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adozione di discipline, lodi, scudi – sostanziali e processuali – che tendono alla ricerca di nuovi privilegi e impunità, alla limitazione degli strumenti di indagine, alla defi nizione di espedienti proce-durali o prescrizioni.

Una classe di governo che si sente infastidita, punzecchiata, bersagliata, braccata da un giornalismo aggressivo e antagonista; in grado di condurre una lunga guerriglia di disturbo, forte del sostegno di milioni di lettori.

E i temi della legalità scuotono dalle radici la principale for-za politica della maggioranza: all’esterno, arroccata nei confronti di ogni denuncia e richiamo alla legalità, comunque tacciati di moralismo, e sempre interpretati come «strumentalizzazione» e «speculazione»; e nel proprio ambito, lacerata dalle accuse a quei membri che, precisamente su questi aspetti, trascurano «il vincolo di solidarietà con i propri compagni di partito», come «fondamento imprescindibile dell’appartenenza ad una forza po-litica» (7).

A fronte di queste dinamiche, opera faticosamente – e spesso coraggiosamente – una magistratura accusata di strumentalizza-zioni politiche, gravata da assetti inadeguati, stretta tra divisioni correntizie e tentazioni corporative, scossa da casi di connivenza e collusione che lambiscono le sue fi le.

Così, un travolgente turbinio sembra investire ogni aspetto del-la vita pubblica, dall’etica della politica all’indipendenza della ma-gistratura, sino alla libertà di stampa. Mentre l’opinione pubblica – italiana e internazionale – assiste allo stupore di politici sdegnati perché qualcuno ha pagato la loro casa senza avvertirli, all’arro-ganza di ministri senza deleghe troppo indaffarati per potersi re-care davanti al tribunale dove sono processati, alla deferenza con cui funzionari e magistrati si appoggiano ad imbarazzanti cama-rille per ottenere promozioni o prebende. Un’opinione pubblica certamente preoccupata, turbata, indignata; ma anche infastidita da una sequenza di episodi ormai così nutrita e frequente da pro-vocare rischi di assuefazione, distrazione, noia.

(7) Così, il documento esaminato dall’Uffi cio di presidenza del Pdl il 29 luglio 2010.

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Di questi episodi non si occupa il presente libro.Il cui oggetto e il cui obbiettivo non sono certamente quelli

di ricostruire singole vicende (per questo esiste una pubblicistica assai vasta), ma si concentrano e convergono nel tentativo di co-gliere caratteristiche, profi li, logiche, dinamiche di fondo di feno-meni che si prestano radicati e persistenti, nella loro multiforme varietà e peculiarità; anche al fi ne di delineare – come vedremo – una serie di proposte.

Ciò che interessa, dunque, non sono mazzette, fondi svizzeri, plusvalenze, rolex d’oro, escort, attici, appartamenti scambia-ti, ristrutturati, regalati; non sono singoli casi o personaggi, ma l’emergenza determinata dalla corruzione amministrativa.

In effetti, «emergenza» è termine spesso usato, nel lessico cor-rente, in riferimento ai fenomeni degenerativi della nostra vita pubblica. Ed è termine certamente appropriato, se inteso non tanto come eventualità straordinaria e imprevista, ma come situa-zione altamente critica e pericolosa.

Una situazione da valutare al di là di ogni aspetto sensazionale e mediatico, cercando di coglierne pienamente l’importanza e la gravità.

5. Il disegno di legge governativo «anticorruzione» e i progetti parlamentari

5.1. Genesi e vicende di un progetto anomaloLa ricostruzione di elementi, dati, analisi sviluppata negli studi

che compongono questo volume non può ignorare i provvedi-menti in itinere, in questa materia; e particolarmente il disegno di legge «anticorruzione» (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica ammi-nistrazione, A.S., XVI, leg. n. 2156), approvato dal Governo il 1° marzo 2010, su proposta di cinque, importanti Ministri (anzitutto Alfano, poi Maroni, Bossi, Calderoli e Brunetta), e dopo un esa-me cui sono state dedicate ben due sedute.

Approvato con comprensibile orgoglio: il Presidente del Con-siglio ne ha dato ampia comunicazione e, giustamente, tutti i me-dia ne hanno ripreso i contenuti.

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In realtà, l’iter del provvedimento si è svolto in termini alquan-to atipici.

Anzitutto, non è stata prevista ed effettuata la trasmissione alla Conferenza Stato-Regioni-autonomie locali. Eppure il provvedi-mento si presenta destinato a vincolare – quanto meno per vari aspetti – anche le Regioni e gli enti locali; dunque la trasmissione per il parere della Conferenza è obbligatoria.

D’altronde, pur formalmente approvato all’inizio di marzo, il disegno di legge non è stato presentato al Senato che il 4 maggio successivo, ad oltre due mesi di distanza dalla seduta del Consiglio dei ministri. Un lasso di tempo eccezionalmente lungo, durante il quale il testo non risultava reperibile: in attesa, secondo qualche indiscrezione giornalistica, di una soluzione a contrasti tra mini-stri che consentisse effettivamente di defi nire il testo uffi ciale.

Nato in maniera anomala e claudicante, il disegno di legge ha proseguito in termini incerti e diffi coltosi il suo percorso parla-mentare; sino a far dubitare, già a pochi mesi dalla presentazione, di un defi nitivo affossamento (8).

Quanto agli obbiettivi, il disegno – come spiega il Comuni-cato stampa del Consiglio dei Ministri – per un verso risponde alla domanda di trasparenza e controllo proveniente dai cittadini e, dall’altro, adegua il sistema italiano agli standard internazionali, in funzione del mantenimento della credibilità del Paese. E non a caso, si parte proprio dalla necessità di attuare la Convenzione ONU contro la corruzione; tema davvero essenziale, per l’Italia, che nelle graduatorie internazionali sulla corruzione, come si è accennato, non fi gura certo nelle posizioni di eccellenza.

5.2. I contenutiNei contenuti (9), il disegno si concentra essenzialmente su cin-

que versanti:

(8) Cfr. gli interrogativi sollevati da V. Grevi, «Che fi ne ha fatto il disegno di legge sulla “lotta alla corruzione”?», in Corriere della sera, 28 luglio 2010.

(9) V. il Dossier elaborato dal Servizio Studi del Senato, XVI legislatura, Dise-gno di legge A.S. n. 2156 e abb. Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione, n. 216/II, giugno 2010. Cfr. il commento di G. Sirianni dal signifi cativo titolo Molto rumore per nulla, in hppt://www.astrid.eu, o in hppt://www.crusoe.it.

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a) piano nazionale anticorruzione; b) misure di trasparenza; c) controlli sugli enti locali;d) cause di incandidabilità;e) modifi che al codice penale.Si tratta di argomenti che, in parte, si sovrappongono a quelli

trattati da una serie di progetti di legge di iniziativa parlamentare; a partire da quelli presentati, in materia di contrasto alla corru-zione, dai senatori Baio e altri (Partito Democratico, A.S. n. 2044, 6 maggio 2010), Li Gotti e altri (Italia dei Valori, A.S. n. 2164, 6 maggio 2010), D’Alia (Udc, A.S. 7 maggio 2010), Finocchiaro ed altri (Partito Democratico, A.S. n. 2174, 11 maggio 2010).

Anche a questi, occorre dunque fare riferimento, nell’esporre i singoli profi li.

a) Piano nazionale anticorruzioneLe fi nalità fondamentali del Piano nazionale anticorruzione

si ricollegano ai principi delineati dalla Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione (ratifi cata dall’Italia con la legge 116 del 2009). Il Piano si basa su piani di azione elaborati dalle pub-bliche amministrazioni centrali che

a) forniscono una valutazione del diverso livello di esposizio-ne al rischio di corruzione degli uffi ci;

b) defi niscono gli interventi organizzativi per presidiare tale rischio;

c) specifi cano procedure appropriate per selezionare e forma-re i dipendenti chiamati ad operare in settori particolar-mente esposti alla corruzione, prevedendo, se del caso, la rotazione;

d) indicano le soluzioni anche normative e le attività volte a individuare tempestivamente ed a prevenire eventuali con-dotte illecite.

Alla elaborazione del Piano – affi data al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio – si affi anca, del resto, l’istituzione di una Rete nazionale anticorruzione, con compiti anche di valutazione e monitoraggio dell’idoneità delle misure adottate e della effettiva attuazione dei piani di azione;

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nonché un Osservatorio che cura l’analisi aggiornata dei fenome-ni corruttivi.

Nelle sue linee fondamentali, l’impostazione pare rifl ettere le fi nalità indicate della Convenzione ONU. Eppure non mancano elementi di perplessità.

Anzitutto, sotto un profi lo generale, l’attribuzione del compito di prevenire la corruzione è affi dato, secondo la Convenzione, ad un organo indipendente (art. 6). Questo organo è ora identifi cato, nel nostro Paese, con il Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio, dopo le note vicende che hanno portato alla soppressione dell’Alto Commissario per la preven-zione e il contrasto della corruzione e il trasferimento delle fun-zioni al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (d.p.c.m. 5 agosto e 2 ottobre 2008), nell’ambito del quale opera il Servizio anticorruzione e trasparen-za (SAeT).

Secondo il decreto, il Dipartimento opera «con autonomia e indipendenza dell’attività», nello svolgimento dei compiti anti-corruzione; ma – al di là di ogni migliore intenzione e atteggia-mento di chi ne rivesta la responsabilità – non è facile ritenere che una confi gurazione di questo tipo sia adeguata rispetto ai requi-siti richiesti dalla Convenzione ONU, che esigono una posizione dell’organo di effettiva indipendenza e autonomia, anche sotto il profi lo strutturale e non solo funzionale, «al riparo da ogni inde-bita infl uenza».

D’altronde, i termini in cui viene tratteggiato il Piano naziona-le e i compiti assegnati dal d.d.l. al Dipartimento della funzione pubblica sembrano tenere sullo sfondo ogni aspetto di enforce-ment, essendo concentrati e sostanzialmente circoscritti ad una funzione di analisi, informazione, elaborazione di idee e proposte a supporto delle scelte politiche: in questo richiamando da vicino quanto già la vigente disciplina (dpcm dell’ottobre 2008) assegna al Dipartimento, in materia di indagini conoscitive, di elabora-zione di «analisi e studi sull’adeguatezza e congruità del quadro normativo e dei provvedimenti messi in atto dalle amministra-zioni», di predisposizione di un piano annuale nazionale per la trasparenza dell’azione amministrativa, di monitoraggio, ecc.

Quanto alla rete chiamata a fornire al Dipartimento della fun-

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zione pubblica gli elementi conoscitivi e progettuali necessari, è da auspicare che produca risultati adeguati; anche se dalle pre-cedenti esperienze sembra emergere una certa ritrosia, da parte delle amministrazioni pubbliche, a fornire gli elementi previsti dalla legge. Così, se in via generale il sito della Funzione pub-blica (www.innovazione.it), registra un 21% delle amministrazio-ni tuttora carente rispetto alla completa attuazione delle regole sulla trasparenza, in relazione a curricula dei dirigenti, assenze, ecc. (legge 69 del 2009), su incarichi e consulenze, all’appello del-l’«anagrafe delle prestazioni» gestita dal Dipartimento manca il 40% delle amministrazioni pubbliche (10); mentre alla richiesta di dati sulle «auto blu» ha risposto il 26%, tra cui non fi gurano, a quanto risulta, importanti ministeri (11).

b) Misure di trasparenzaÈ certamente condivisibile il valore signifi cativo che il d.d.l.

attribuisce alla trasparenza. Già con la legge 15 del 2009 (art. 4, co. 6), del resto, la trasparenza è stata confi gurata come «livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbli-che a norma dell’art. 117, secondo co., lett. m), della Costituzio-ne». Trasparenza che, in quel contesto, si riferiva alle informazio-ni concernenti l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, gli indicatori relativi agli andamenti gestionali e l’utilizzo delle risorse, i risultati delle attività di misurazione e valutazione allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei prin-cipi di buon andamento e imparzialità.

In attuazione di questi indirizzi, il d.lgs. 150 del medesimo anno ha previsto, in particolare, la pubblicazione, nel sito di ogni am-ministrazione, di: programma triennale per la trasparenza e l’inte-grità; piano e relazione sulla performance; dati sui premi previsti ed effettivamente distribuiti; curricula e retribuzioni di dirigenti, titolari di incarichi di indirizzo, componenti degli organismi di valutazione; incarichi a dipendenti e a soggetti privati.

Ora, il d.d.l. anticorruzione estende la trasparenza ai procedi-

(10) Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2010.(11) Cfr. La Stampa, 26 giugno 2010; Corriere della sera, 25 luglio 2010.

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menti amministrativi, con particolare riferimento alle autorizza-zioni e concessioni, ai contratti per l’affi damento di lavori, for-niture e servizi, all’erogazione di sovvenzioni, contributi e altri vantaggi economici, ai concorsi per l’assunzione del personale e progressioni in carriera.

La mancata o incompleta pubblicazione, d’altronde, costi-tuisce violazione degli standard qualitativi, anche agli effetti di promozione della «class action» (d.lgs. 198 del 2009, art. 1) ed è valutata sotto il profi lo della responsabilità dirigenziale (d.lgs. 165 del 2001, art. 21).

Misure particolari riguardano i contratti (art. 3 e segg.), anche in questo riprendendo ed estendendo un indirizzo già delineato dal legislatore (cfr. il d.lgs. 163 del 2006, art. 7, e dalla disciplina di specifi ci interventi, peraltro non sempre attuate (12)).

Sotto questi profi li, il d.d.l. prosegue impostazioni e orienta-menti pienamente condivisibili, in base alla ricostruzione, argo-mentata in dottrina, della trasparenza come diritto, come risultato (misurabile), come strumento non solo per la tutela di posizioni soggettive, ma anche e anzitutto per il controllo democratico (13).

c) Controlli sugli enti localiUn’ampia parte del d.d.l. è dedicata ai controlli sugli enti locali,

sostituendo una nutrita serie di articoli del Tuel (d.lgs. n. 267 del 2000). Si riscrivono, così, le disposizioni relative ai responsabili dei servizi (art. 49), ai controlli interni (art. 147), si introducono nuovi articoli sui controlli di regolarità amministrativa e contabile (art. 147-bis), sul controllo strategico (art. 147-ter), sulle società partecipate (art. 147-quater), sulla qualità dei servizi (art. 147-quinquies), si ridisegnano i principi in materia di contabilità (art. 151), la disciplina del piano esecutivo di gestione (art. 169), del controllo di gestione (art. 196), della revisione economico-fi nan-ziaria (art. 234).

(12) Cfr., ad es., i decreti legge 39 e 135 del 2009, in relazione rispettivamente alla ricostruzione in Abruzzo e all’Expo Milano 2015, che demandano la disciplina di elenchi di fornitori e prestatori di servizi ad un d.p.c.m. non ancora adottato.

(13) V., ampiamente, F. Merloni (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2008, 5 ss. e passim.

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Nella sostanza, si tratta di una mera trasposizione a questa sede di contenuti tratti dal d.d.l. in materia di «Carta delle autonomie locali» (A.C. 3118). Disegno, quest’ultimo, che avrebbe dovu-to costituire il testo organico di adeguamento dell’ordinamento delle autonomie locali al quadro costituzionale introdotto, ormai dieci anni fa, dalla riforma del titolo V. Ma che è ormai costante-mente saccheggiato e bucherellato dai più vari provvedimenti, su argomenti numerosi e importanti: dalla composizione dei consigli e delle giunte (artt. 20 e 21) ai difensori civici (art. 16), sino alla soppressione delle circoscrizioni (art. 18), argomenti tutti antici-pati dalla fi nanziaria 2010 e dagli interventi urgenti concernenti gli enti locali adottati con il d.l. n. 2 del 2010; per non parlare dei problematici rapporti tra la disciplina delle funzioni fondamenta-li degli enti locali prevista nel d.d.l. e quella già approvata con la legge sul federalismo fi scale (l. 42 del 2009).

Nel merito, le disposizioni in materia di controlli possono essere utili, anche al fi ne di porre fi ne ai numerosi dubbi avanzati in que-sta fase di transizione; anche se, precisamente da questo punto di vista, l’estrapolazione da un’organica disciplina dell’ordinamento locale può costituire una soluzione tutt’altro che ottimale. Né, del resto, risulta proprio evidente quanto le disposizioni qui riportate rifl ettano fi nalità anticorruzione o scopi di altro tipo, a partire da quello di rafforzare gli strumenti di coordinamento della fi nanza pubblica e di controllo degli equilibri fi nanziari della gestione: il fatto che, nel transito dal d.d.l. sulla Carta delle autonomie a quel-lo sulla corruzione, il testo sia stato modifi cato (esclusivamente) per attribuire ora al Ministero dell’economia qualche competenza già demandata al Ministero dell’interno (cfr. testo dell’art. 151-Tuel) non sembra proprio confortare l’ipotesi che prevalgano preoccupazioni di contrasto a fenomeni corruttivi.

d) Cause di incandidabilitàSotto la denominazione «fallimento politico», il d.d.l. (art. 9)

include, oltre alla disciplina della dichiarazione di dissesto di co-muni e province, la sanzione dell’incandidabilità al Presidente della Giunta regionale che sia stato rimosso per atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, in base al (mai applica-to, in 40 anni) articolo 126 della Costituzione; ivi compreso – si

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precisa, facendo riferimento alla legge sul federalismo fi scale (14) – il grave dissesto delle fi nanze regionali. Anche in questo caso, in realtà, le preoccupazioni di controllo degli equilibri fi nanziari sembra dominare sulle fi nalità anticorruzione.

D’altronde, l’articolo non defi nisce puntualmente le nuove re-gole, limitandosi a stabilire i criteri e principi, delegando quindi il Governo. Delega che – riguardando un argomento (l’incandida-bilità), rientrante nella materia elettorale, riservata al Parlamento – non ha mancato di sollevare perplessità, anche nell’ambito del partito di maggioranza (15).

e) Modifi che al codice penaleL’adeguamento della disciplina dei reati contro la pubblica

amministrazione è previsto dalla Convenzione penale del Con-siglio d’Europa sulla corruzione, fi rmata a Strasburgo nel 1999. L’Italia, che pure l’ha sottoscritta, non l’ha mai ratifi cata. Anche in questa occasione, si omette sia di riformulare più attentamen-te le diverse fattispecie di reato sia di introdurne di nuove, dalla corruzione nel settore privato al traffi co d’infl uenze, accogliendo suggerimenti avanzati dalla dottrina (16), e proposte contenute in altri progetti di legge.

La via seguita dal d.d.l. governativo (art. 12) è, invece, più sem-plice e rustica, consistendo in un aggravamento delle pene – da un terzo alla metà – per una serie di delitti contro la pubblica am-ministrazione, dal peculato alla corruzione, nel presupposto che l’aggravamento stesso rafforzi l’effi cacia dissuasiva della norma penale.

Che si tratti di un presupposto generalmente valido risulta in realtà contestabile e contestato nelle scienze criminologiche; ma soprattutto risulta poco attendibile in Italia, dove l’applicazione

(14) Legge n. 42 del 2009, art. 17, co. 1, lett. e).(15) Cfr. l’intervento del senatore Pastore (PdL), nel Resoconto della seduta

congiunta della I e della II Commissione del Senato, 25 maggio 2010, n. 75.(16) Cfr. V. Grevi, «Che fi ne ha fatto il disegno di legge sulla lotta alla corru-

zione?», cit. Proposte di revisione della fattispecie di reato, anche sulla base del c.d. «Progetto Cernobbio», sono sostenute in P. Davigo, G. Mannozzi, La cor-ruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Roma-Bari, Laterza, 2007, 285 ss. Cfr., al prposito, V. Manes, «Manifesto e latente nella repressione delle fenomenologie corruttive», in Cassazione penale, 2009, n. 1, 454 ss.

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effettiva della pena edittale risulta assai rara, dove il sovraffol-lamento delle carceri si presenta come un problema strutturale (con gravi picchi di emergenza) (17), risolto da ogni tipo di trat-tamento riduttivo, da possibilità di accedere all’esecuzione della pena presso la propria abitazione (18), da periodici indulti; dove, in defi nitiva, le pene sono aleatorie, prescrivibili, amnistiabili, condonabili e patteggiabili (19)…

Precisamente in questa materia, si differenziano i d.d.l. 2174 (Finocchiaro) e 2164 (Li Gotti), che puntano ad un ridisegno complessivo della fattispecie penale (20), prevedendo una fattis-pecie unica del delitto di corruzione che include, tra l’altro, la condotta di concussione per induzione; mentre l’attuale ipotesi di concussione per costrizione è ricondotta al reato di estorsio-ne. Del resto, si introduce una specifi ca circostanza aggravante nell’ipotesi in cui un pubblico uffi ciale o incaricato di pubblico servizio commetta violenza o minaccia con abuso dei poteri o vio-lazione dei doveri inerenti alle proprie funzioni.

Si prevede, poi, la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffi ci e l’obbligo di provvedere ad una riparazione pecuniaria a favore dell’amministrazione, nonché un potenzia-mento delle misure patrimoniali, estendendo la confi sca obbli-gatoria dei beni; si sanziona il possesso ingiustifi cato di valori da

(17) I dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) se-gnalano, a luglio 2010, una presenza effettiva nelle carceri di un numero di oltre 68.000 detenuti su una capienza regolamentare di 44.568, con un sovraffolla-mento che supera il 30%: cfr. Sole 24 Ore, 19 luglio 2010.

(18) In questa direzione si muove nuovamente il d.d.l. presentato dal ministro Alfano, A.C. 3291-bis.

(19) … per riprendere la sequenza di aggettivi usata da A. Cordova, «Vi spie-go perché le norme anticorruzione non basteranno», in Liberal, 2 marzo 2010. Scetticismo, su un contrasto alla corruzione affi dato essenzialmente all’inaspri-mento delle pene, in un contesto processuale ineffi ciente, è stato espresso recen-temente, tra gli altri, dal Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino (Corriere della sera, 28 luglio 2010).

(20) In particolare, si prevede una fattispecie unica del delitto di corruzione, in cui è ricompresa ogni condotta del pubblico uffi ciale o incaricato di pubblico servizio che indebitamente riceve, per sé o per altri, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa, in relazione al compimento all’omissione o al ritardo di atti del suo uffi cio o servizio o al compimento di un atto o di un’attività contrari ai doveri dell’uffi cio o del servizio.

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parte di imputati per determinati reati; si introducono, poi, nuove fattispecie per la corruzione nel settore privato, e per il traffi co di infl uenze illecite (trading in infl uence), secondo la Convenzione penale di Strasburgo. Ulteriori disposizioni prevedono una nuova disciplina, tra l’altro, dei rapporti tra procedimento penale e pro-cedimento disciplinare, nonché dei casi, in senso estensivo, in cui condanne penali costituiscono causa ostativa a candidature alle elezioni, o all’assunzione di determinate cariche, o comportano sospensione e decadenza di diritto da cariche rivestite.

Su questa linea si colloca anche il d.d.l. 2168 (D’Alia), che nel prevedere anzitutto un aumento delle pene per reati contro la pubblica amministrazione, analogamente dispone, in caso di condanna, in ogni caso l’interdizione perpetua dai pubblici uffi ci, nonché una nuova disciplina della confi sca dei beni; introducen-do anch’esso i reati di traffi co di infl uenza e di corruzione nel settore privato.

Ancora, i due d.d.l. Finocchiaro e Li Gotti esonerano da re-sponsabilità penale gli uffi ciali di polizia giudiziaria che condu-cono «operazioni sotto copertura» al fi ne di acquisire elementi di prova in relazione a casi di corruzione. A queste operazioni dedica particolare attenzione, del resto, il d.d.l. Baio, che – at-tuando quanto previsto dalla Convenzione ONU – disciplina i fi nti tentativi di corruzione messi in atto, sotto un rigoroso con-trollo della magistratura e della polizia giudiziaria, per mettere alla prova amministratori e funzionari.

Ulteriori prospettive sono adottate dal d.d.l. D’Alia nel preve-dere l’applicazione necessaria della custodia cautelare in carcere per gravi reati contro la P.A.; o nell’introdurre il divieto di con-ferimento di incarichi, da parte delle pubbliche amministrazioni, a chi sia stato condannato, anche in via non defi nitiva, per deter-minati reati; o nel privare dell’elettorato – attivo e passivo – chi abbia riportato condanne defi nitive per analoghi reati; o ancora nell’affrontare il tema – divenuto assai caldo nello specifi co e tra-vagliato percorso legislativo – delle intercettazioni telefoniche, qui espressamente considerate per lo svolgimento delle indagini relative a reati contro la P.A.

Ancora, il d.d.l. Li Gotti prelude l’assunzione di incarichi di governo a coloro che siano stati rinviati a giudizio per questi

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ultimi reati o per reati contro l’amministrazione della giustizia, sancendo la nullità e l’ineffi cacia delle nomine eventualmente di-sposte; intervenendo, d’altronde, sul regime di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità prevedendo discipline articolate per i parlamentari, per i titolari di cariche regionali, per gli ammi-nistratori locali.

Su questi profi li, a partire dalla disciplina penale, si avrà modo di rifl ettere approfonditamente, nella ricerca qui pubblicata (21): che certamente ha inteso considerare l’importanza della repres-sione penale in ogni aspetto, puntando in realtà su nuove confor-mazioni di fattispecie, fi gure soggettive, aggravanti, pene accesso-rie, piuttosto che sul semplice aumento delle pene.

f) La «clausola di invarianza»Ancora un punto merita qualche considerazione. In un Paese

in cui la «tassa della corruzione» si aggira annualmente – secon-do le stime della Corte dei Conti – sui 60 miliardi, e ancora più elevati possono considerarsi i danni sulla competitività nazionale, la lotta alla corruzione continua ad ispirarsi ad una concezione a «costo zero». Signifi cativamente, il d.d.l. governativo si conclude con una generale «clausola di invarianza», secondo cui dall’esecu-zione della legge «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della fi nanza pubblica», mentre «le amministrazioni com-petenti provvedono allo svolgimento delle attività previste dalla presente legge con le risorse umane, strumentali e fi nanziarie di-sponibili a legislazione vigente» (22). Una frugalità puntualmente ribadita nelle disposizioni specifi che; preoccupate di precisare che, ad esempio, agli esperti chiamati ad operare come compo-nenti nell’Osservatorio sulla corruzione non solo non spetta alcun compenso, ma che è escluso persino ogni rimborso delle spese «a qualsiasi titolo sostenute»…

5.3. Qualche osservazioneComplessivamente, il disegno di legge governativo presenta

(21) V., infra, il contributo di Vito D’Ambrosio in questo volume.(22) «Una politica contro la corruzione che non costa nulla – annota G. Si-

rianni, nel commento sopra citato – non può che valere quello che costa».

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inadeguatezze rilevanti nelle soluzioni concretamente adottate, così come nella ampiezza degli argomenti trattati. In effetti, si li-mita ad occuparsi di alcuni, ben circoscritti profi li che si ricolle-gano alla corruzione: e signifi cativamente, la stessa Convenzione ONU, richiamata in relazione alla generale necessità che gli Stati elaborino, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, politiche di prevenzione della corruzione (art. 5), viene ignorata in aspetti di grande rilievo, dalla defi nizione dei presupposti per la candidatura e l’elezione ad un pubblico man-dato (art. 7.1) alle misure per la prevenzione dei confl itti di inte-resse (art. 7.4), sino agli strumenti per facilitare la segnalazione, da parte dei pubblici uffi ciali, dei casi di corruzione di cui siano venuti a conoscenza (art. 8.4), etc. etc.

In questo contesto, particolarmente in relazione a materie quali la disciplina di carattere penale o i casi di preclusione all’assun-zione o all’esercizio di funzioni istituzionali, i progetti di iniziativa parlamentare ampliano sensibilmente la gamma di proposte.

Queste ipotesi rappresentano ora una gamma di elementi, di spunti, di proposte per lo sviluppo di una discussione sostanziale tra le forze politiche che si presenta sempre più necessaria. E che sin qui è mancata: segnando, in questa materia, una convergenza e dei risultati ben distanti da quelli ora conseguiti (ed è, nella panoramica attuale, un segnale di ottimismo del tutto eccezionale e inconsueto) in relazione alle politiche antimafi a, con la recente (3 agosto 2010) approvazione all’unanimità, al Senato, del «Piano straordinario di contrasto alle mafi e».

6. La ricerca di AstridRispetto alla complessità dei temi relativi alla corruzione ammi-

nistrativa, il Gruppo istituito da Astrid all’inizio del 2009, in una ricerca che ha coinvolto sensibilità e competenze diverse, impe-gnando qualche decina di esperti, ha inteso compiere analisi del fenomeno e delle sue cause, non solo allo scopo di meglio cono-scerne le caratteristiche e le dinamiche, ma anche al fi ne di pro-porre una serie di possibili terapie. In queste attività, in relazione al metodo così come ai contenuti, del resto, si è potuta utilizzare l’esperienza, in particolare, di rilevanti precedenti, a partire da quella del Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione

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presieduto da Sabino Cassese, il cui Rapporto – presentato al Pre-sidente della Camera dei Deputati nell’ottobre 1996 – già offriva un’ampia serie di ipotesi di intervento legislativo (23).

L’analisi e la rifl essione, i cui esiti sono riportati nel presente volume, muovono da prospettive politologiche, economiche, giu-ridiche; per compiere quindi una attenta ricognizione degli stru-menti cui, nel nostro sistema così come nelle fonti internazionali, è possibile fare riferimento per prevenire e contrastare i fenomeni di corruzione e «malamministrazione». Si è così approfondita e discussa l’effi cacia di regole soggettive applicabili alla generalità dei funzionari pubblici, dalla ridefi nizione dei reati alla respon-sabilità amministrativa e contabile, dalle modalità di accesso alla funzione ai confl itti di interesse, dai doveri di comportamento alla responsabilità disciplinare, per passare agli aspetti specifi ci per le diverse categorie di funzionari pubblici (a partire da quelli politici ai professionali, sino ai magistrati).

Si sono poi analizzati gli strumenti oggettivi, quali la trasparen-za e i controlli, nelle varie forme e modalità; verifi cando quindi gli aspetti peculiari dei settori maggiormente esposti (con riferimen-to ad urbanistica, contratti, sanità, servizi pubblici).

Dalla rifl essione condotta da esperti di ciascun profi lo e dalla co-mune discussione è scaturita una articolata serie di 200 proposte.

Basate su una precisa attenzione agli orientamenti europei e internazionali: sulla piena utilizzazione degli strumenti di traspa-renza, in relazione a criteri, procedure, incarichi, redditi; sulla cura nel distinguere gli interessi, pubblici e privati, separando-li nelle diverse circostanze, sia durante l’esercizio della funzio-ne che in seguito alla sua cessazione; sulla predeterminazione di procedure e requisiti oggettivi per il conferimento di incarichi; sulla valorizzazione del merito, nell’accesso alla funzione e nello sviluppo di carriera; sulla limitazione della durata degli incarichi e dalla rotazione, nelle funzioni maggiormente esposte; sulla ele-vazione dei livelli di neutralità di criteri, procedure, organi; sulla

(23) Camera dei Deputati, Comitato di studio sulla prevenzione della corru-zione, Roma-Bari, Laterza, 1997. Dello stesso Cassese, del resto, cfr. già «“Ma-ladministration” e rimedi», in Foro italiano, 1992, V, 243; «Idee per limitare la corruzione politica», in Corriere giuridico, 1992.

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estensione e sul rafforzamento dei codici etici; sul superamento di ingiustifi cabili differenze in situazioni simili, ricomponendo le regole in discipline unitarie.

Si tratta di proposte diverse per incisività, importanza, innova-tività. Ma accomunate da un disegno organico e da una medesima logica, che tende – al di là e al di fuori da ogni condizionamento mediatico e di ogni sensibilità cronachistica – a ricostruire condi-zioni strutturali di migliore tutela del bene pubblico ed a generare comportamenti virtuosi nei pubblici funzionari.

Proposte che si traducono in misure amministrative e in regole, anzitutto – ma di certo non esclusivamente – legislative; ma con la piena consapevolezza della necessità che le regole siano elabo-rate, concepite e supportate da politiche coerenti, in un quadro condiviso che vada ben al di là dei confi ni e della durata di una determinata maggioranza di governo. E con la piena consapevo-lezza dei limiti che le regole amministrative inevitabilmente in-contrano, laddove non siano accompagnate da un reale e solido sostegno sul piano morale e culturale.

Al proposito, lo spirito che ha consentito, come si è accenna-to, l’adozione unanime di misure antimafi a, dovrebbe costituire il precedente cui ispirare le politiche anticorruzione.

In defi nitiva, nessuna politica di prevenzione e contrasto alla corruzione può presentare la minima possibilità di successo se non muove dalla piena, condivisa coscienza del carattere radica-to, penetrante e persistente di fenomeni in grado di ledere gangli fondamentali di funzionamento delle istituzioni repubblicane; e se, dunque, non superi e abbandoni ogni approccio propagan-distico, estemporaneo, partigiano, per fondarsi su basi comuni che puntino su coerenti politiche di lungo periodo. Il che non signifi ca negare l’utilità o, talora, la necessità di adottare misure a breve termine. Misure che valgano ad avviare processi, ma an-che a trasmettere concreti segnali: quali potrebbero derivare, ad esempio, da un inedito rigore, da parte di tutte le forze politiche, nella selezione delle candidature ad ogni carica e ad ogni livello.

Politiche di questo tipo e respiro – merita ancora sottolinear-lo – dovrebbero essere supportate da risorse adeguate; tenendo conto della dimensione dei valori economici in gioco e del danno procurato alla competitività del Paese, rispetto ai quali le risorse

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idonee a sostenere anche la più determinata azione di prevenzio-ne e contrasto risulterebbero modeste e comunque costituireb-bero un profi cuo investimento. D’altronde, oneri di questo tipo, ove le iniziative anticorruzione fossero attivate in termini effi caci, sarebbero ampiamente coperti – oltre che da entrate dirette, quali quelle da sanzioni pecuniarie – dai risparmi realizzabili (si pensi, ad esempio, all’incidenza di tangenti e mediazioni di ogni tipo sulla levitazione dei costi di infrastrutture, servizi, forniture).

Su questo piano, in questi anni non è mai mancata la voce del Presidente della Repubblica. Impegnata nel denunciare, con fran-ca nettezza, «oscure collusioni», «trame inquinanti», «squallide consorterie»; nel richiamare la necessità di affermare e consoli-dare «rigorose regole deontologiche», per recuperare il prestigio della magistratura; nel sostenere iniziative «che contribuiscono a formare, specie le giovani generazioni, ai valori della legalità»; nell’evocare e nell’esigere, «nelle travagliate vicende dello Stato di diritto nel nostro Paese», l’apertura di «una nuova pagina».

Ecco, è uno spirito di questo tipo che ha animato le ricerche, le discussioni, le conclusioni del gruppo di Astrid.

Nella speranza che le proposte espresse in questo volume pos-sano avere – senza alcuna enfasi e con grande attenzione alla real-tà delle cose – qualche utilità, nell’irrinunciabile sforzo di aprire quella «nuova pagina».

Parte IIL FENOMENO E LE SUE CAUSE

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Alberto Vannucci

L’EVOLUZIONE DELLA CORRUZIONE IN ITALIA: EVIDENZA EMPIRICA, FATTORI FACILITANTI,

POLITICHE DI CONTRASTO

1. L’analisi dello scambio corrotto: il contributo delle scienze so-cialiNelle scienze sociali, parallelamente alla crescita di interesse

sul tema della corruzione, si è sviluppato negli ultimi anni un di-battito su quali elementi siano rilevanti per defi nire tale concetto, qualifi cato in termini generali come forma di abuso di potere a fi ni privati da parte di un agente pubblico (1). Ci si è concentra-ti, in particolare, sulle caratteristiche della violazione – di norme legali, di interessi pubblici, di standard posti dall’opinione pub-blica – rispetto alla gamma di comportamenti accettabili per i funzionari e i rappresentanti pubblici. Si è da ultimo consolidata una nozione di corruzione quale fattore di distorsione all’interno di un rapporto del tipo principale-agente (2).

Entro qualsiasi organizzazione pubblica (o privata), infatti, sus-siste una relazione di natura contrattuale tra il soggetto delegato a prendere uno specifi co insieme di decisioni, l’agente, e il titolare degli interessi il cui soddisfacimento è stato delegato al primo, il principale. Negli Stati liberaldemocratici, in particolare, gli am-ministratori politici e di carriera sono agenti ai quali l’insieme dei cittadini – il «principale» esprimibile sinteticamente nella for-mula del «popolo sovrano» – ha delegato attraverso meccanismi diversi (elezioni, concorso, nomina) il perseguimento di interessi collettivamente rilevanti. Ogni agente naturalmente è portatore anche di interessi privati, che non necessariamente coincidono con quelli del principale collettivo, al quale può nascondere op-

(1) Cfr. J.G. Lambsdorff, Institutional Economics of Corruption and Reform, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, 16.

(2) Cfr. D. della Porta, A. Vannucci, Corrupt Exchanges, New York, Aldine de Gruyter, 1999.

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portunisticamente informazioni su caratteristiche e contenuti del-la propria attività. Così, nel delegare poteri e compiti all’agente, il principale predispone procedure e regole che delimitano i suoi margini di discrezionalità e si associano a vari meccanismi di con-trollo e di sanzione (penale, disciplinare, politica, sociale, ecc.) in caso d’inadempimento o di cattivo esercizio dei suoi poteri, per contenere rischi e costi di questo potenziale confl itto di interessi.

Si ha uno scambio corrotto nell’organizzazione pubblica quan-do in questo rapporto principale-agente si inserisce un ulteriore soggetto. L’intervento di un cliente o terza parte, il corruttore, induce l’agente pubblico ad aggirare in modo nascosto i vincoli posti da procedure e norme, in particolare il divieto di accettare compensi indebiti. Il corruttore, offrendo risorse nella propria di-sponibilità, sotto forma di tangente monetaria o di «altra utilità», riesce ad ottenere dall’agente decisioni a lui favorevoli, informa-zioni riservate, o una più generale «protezione» dei propri inte-ressi. Allo scambio uffi ciale principale-agente si va così a sovrap-porre una transazione occulta tra agente corrotto e corruttore, che altera i termini della relazione tra amministratori e cittadini, inducendo i primi a privilegiare interessi personali e del corrutto-re a scapito di quelli pubblici formalmente perseguiti.

Sostituendo un «mercato dell’autorità» ai processi di scelta pubblica conformi a norme e procedure, i corruttori cercano dunque di modifi care a proprio vantaggio la struttura dei dirit-ti di proprietà su risorse amministrate o soggette a regolazione dallo Stato, attraverso l’attività di agenti politici o burocratici cui sono delegati poteri e responsabilità (3). Così, ad esempio, la ge-stione della spesa pubblica o il potere d’interdizione e di licenza, cioè la facoltà di consentire o meno l’esercizio di certe attività private, producono condizioni artifi ciali di scarsità nell’accesso ai benefi ci pubblici e nel godimento di risorse private (4). Si creano così posizioni di rendita, i cui diritti di proprietà sono attribuiti

(3) Sulla corruzione come «mercato di autorità» cfr. S. Belligni, Il volto simo-niaco del potere. Scritti su democrazia e mercati di autorità, Torino, Giappichelli, 1998.

(4) Cfr. B.L. Benson, J. Baden, «The Political Economy of Governmental Corruption: the Logic of Underground Government», in Journal of Legal Stu-dies, 14, 1985, 391-410.

39

in base all’esito di procedure i cui esiti sono decisi o infl uenzati dagli agenti. Qualsiasi settore d’intervento pubblico è vulnerabile alla corruzione, nel momento in cui sono create ed allocate ren-dite (5):

a) l’acquisto di beni e servizi da soggetti privati, da parte dello Stato, a prezzi superiori di quelli di mercato;

b) la vendita o l’assegnazione selettiva a privati di beni, servizi e diritti (mediante trasferimenti, sussidi, licenze, concessioni, ecc.), in cambio di un controvalore inferiore al loro prezzo di mercato;

c) l’attività di enforcement, che attribuisce agli agenti pubblici il potere di imporre selettivamente costi, espropriare o ridurre il valore dei diritti privati. In questo caso l’agente assicura un be-nefi cio (una rendita) al destinatario della sanzione o del prov-vedimento per lui punitivo astenendosi dall’esercizio dei suoi poteri (o doveri) legalmente previsti.

Corrotto e corruttore si spartiscono, attraverso lo scambio oc-culto, i diritti di proprietà sulla rendita così creata, a danno del-la collettività. La corruzione è dunque un’attività particolare di «ricerca di rendita». Come dimostra l’ampia letteratura sul rent-seeking, si tratta di un gioco sociale a somma negativa, che impo-ne pesanti costi sociali alla collettività: una cattiva allocazione di risorse in attività improduttive, una distorsione dei meccanismi di mercato, un investimento in conoscenze legate ad attività pa-rassitarie, una crescita dell’incertezza sulla protezione dei diritti di proprietà (6).

I tentativi di spiegazione del grado di diffusione della corru-zione sono riconducibili a tre principali fi loni di ricerca. Il primo approccio, di matrice economica, considera le scelte di pagare o accettare tangenti frutto di un calcolo razionale, che dipende dalle aspettative relative ai costi (in particolare la probabilità di essere scoperti e la severità della sanzioni previste) e vantaggi at-

(5) Cfr. S. Rose Ackerman, Corruption. A Study in Political Economy, New York, Academic Press, 1978, 61-63.

(6) Cfr. A. Vannucci, R. Cubeddu, Lo spettro della competitività, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

40

tesi, confrontati con quello delle alternative disponibili (7). En-trano in gioco, in questo calcolo, le occasioni «istituzionali» di corruzione, che dipendono da una pluralità di fattori. Tra quelli più rilevanti, oltre all’effi cienza del sistema giudiziario, sono stati presi in esame i costi dell’attività di intermediazione politica; la sensibilità degli elettori ad eventuali «scandali» politici; il livello di intervento pubblico in campo economico e sociale; il grado di discrezionalità e di trasparenza dei processi decisionali pubblici; l’intensità della regolazione delle attività private; l’effi cienza dei meccanismi di controllo politico e amministrativo; le tendenze concorrenziali o collusive dei mercati economici e politici. Si pos-sono allora sintetizzare le principali variabili che infl uenzano il calcolo economico della corruzione nella formula C=M+D–T–A: il livello di corruzione (C) si associa alla presenza di posizioni monopolistiche di rendita (M) e all’esercizio di poteri discrezio-nali (D), ed è inversamente collegato al grado di trasparenza (T) e di accountability (A) (o responsabilizzazione) degli agenti, che dipende dalla circolazione di informazioni e dall’effi cacia dei con-trolli istituzionali e sociali sul loro operato (8).

Una diversa prospettiva, di matrice socio-culturale, si concen-tra invece su variabili come le norme etiche, i valori culturali, le tradizioni, il senso civico, lo «spirito di corpo» e il senso dello Stato dei funzionari. Questi fattori si rifl ettono nel cosiddetto «costo morale» della corruzione, il disagio psichico associato alla violazione della legge. In questa prospettiva la corruzione, al pari di altri atti illeciti, è tanto meno diffusa quanto maggiore è la forza delle convinzioni personali e delle cerchie sociali di riconoscimen-to – nello Stato, nel mercato o nella società – favorevoli al sistema di valori che sostiene il rispetto della legge (9). L’idea di fondo è che gli individui siano più o meno vulnerabili alla corruzione sulla base della struttura di valori sociali: la spinta alla corruzione si at-

(7) Cfr. G.S. Becker, «Crime and Punishment. An Economic Approach», in Journal of Political Economy, 76, 1968, 169-217.

(8) Cfr. R. Klitgaard, Controlling Corruption, Berkeley, University of Califor-nia Press, 1988.

(9) Cfr. A. Pizzorno, «La corruzione nel sistema politico», in D. della Porta, Lo scambio occulto, Bologna, il Mulino, 1992, 13-74.

41

tenua in quei contesti dove gli standard morali – sostenuti sia dal-la «pressione dei pari» che da credenze interiorizzate – sono più elevati. Per quanto favorevoli siano le occasioni, la presenza di barriere morali e sociali rappresenta così un vincolo decisivo alla diffusione degli scambi occulti, come sembra dimostrare l’ampia variabilità dei livelli di corruzione tra Paesi che pure presentano «strutture di occasioni» simili (10).

Il livello di diffusione della corruzione in un paese è infl uenza-to dalla combinazione di questi due insieme di variabili, i vantaggi economici attesi dai singoli attori e la distribuzione dei costi mo-rali nella società. Negli ultimi anni è emersa una terza prospettiva di analisi, di matrice neo-istituzionalista, che sottolinea anche la rilevanza delle dinamiche interne nelle reti di corruzione come variabile esplicativa utile a comprenderne la diffusione in un dato contesto politico-amministrativo (11). Il consolidarsi di informali «strutture di governo» e di meccanismi che garantiscono l’adem-pimento nelle transazioni corrotte rappresenta infatti un fattore cruciale di stabilità negli scambi occulti, alimentando la fi ducia tra le controparti e la stabilità nei patti illeciti. L’evoluzione della corruzione nel tempo, in altri termini, è un processo path depen-dent, nel quale alti livelli di diffusione delle pratiche illecite nel passato pongono le premesse per «rendimenti crescenti» delle medesime attività in periodi successivi, e viceversa. Per compren-dere la corruzione occorre allora considerare una serie di mec-canismi, come la presenza o meno di «competenze d’illegalità» tra gli attori coinvolti nello scambio occulto, l’emergere di norme non scritte e di «regole del gioco» che disciplinano i rapporti tra corrotti e corruttori, l’affermarsi di fi gure di mediatori e «garanti» del rispetto dei patti di corruzione (12).

Come si mostrerà nei prossimi paragrafi , dinamiche di questo tipo sembrano aver caratterizzato il caso italiano: il radicamento della corruzione sembra infatti rifl ettere per un verso l’ampiezza

(10) Cfr. D. della Porta, A. Vannucci, «The Moral (and Immoral) Costs of Corruption», in U. von Alemann (Hrsg.), Dimensionen politischer Korruption, Wiesbaden, VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2005, 109-134.

(11) Cfr. D. della Porta, A. Vannucci, Mani impunite, Roma-Bari, Laterza, 2007.

(12) Ibidem.

42

delle occasioni di profi tto illecito e la debolezza dei vincoli mo-rali, per un altro l’evoluzione di persistenti strutture informali di regolazione del funzionamento del mercato illegale, in grado di contenere rischi e incertezze degli scambi corrotti.

2. L’evoluzione della corruzione in Italia: alcuni dati di contestoLa corruzione tipicamente assume nella scena pubblica un

andamento carsico. Per sua natura occulto, il fenomeno emerge occasionalmente in superfi cie, di solito per breve tempo, in occa-sione di particolari vicende o inchieste giudiziarie che riescono a risvegliare l’attenzione dei mezzi di comunicazione e l’interesse della pubblica opinione. Ma perlopiù esso si sviluppa in profon-dità, invisibile agli occhi dei più, percepibile solo all’interno del-la ristretta cerchia di benefi ciari diretti o di collusi. Incrociando alcune fonti di informazione – sondaggi, rilevazioni statistiche, atti giudiziari, fonti giornalistiche – si possono tuttavia ricavare alcune indicazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dell’universo nascosto della corruzione italiana, formulando al-cune ipotesi su quali trasformazioni e linee di frattura ne abbiano caratterizzato l’evoluzione in questi ultimi decenni.

Le statistiche giudiziarie forniscono un quadro parziale della diffusione del fenomeno, mostrando la parte emergente di un ice-berg le cui dimensioni subacquee rimangono ignote. Al pari di altri «crimini senza vittime» – o meglio, di altri crimini dai costi sociali diffusi, aventi molte vittime inconsapevoli – lo scambio corrotto, quando si realizza con successo, non lascia «corpi del reato» né tracce visibili, né vi sono soggetti interessati a denun-ciarla. Il dato statistico rappresenta però un indicatore dell’am-piezza della «corruzione perseguita». Secondo fonti Istat il trend discendente è piuttosto chiaro. L’ammontare di persone coinvolte e reati denunciati per corruzione e concussione, in rapida cresci-ta dal 1992, è in diminuzione dopo il picco raggiunto nel 1995, quando ci sono stati quasi 2.000 crimini e oltre 3.000 persone de-nunciate. Un decennio dopo, nel 2006, i numeri sono ridotti a cir-ca un terzo per i crimini, della metà per le persone (cfr. Figura 1). I dati del ministero dell’interno, che comprendono una gamma più estesa di crimini (abuso d’uffi cio, peculato, frode nelle for-

43

niture pubbliche, ecc.), mostrano come questa linea di tendenza prosegua fi no al 2009: da 3.400 reati e 12.400 persone coinvolte del 2004 si passa a 1.300 reati e 5.500 persone del primo semestre 2009, che presenta uno dei livelli più bassi di «corruzione svelata» dal 1992 (cfr. Figura 2).

Figura 1. Reati e persone denunciate per i reati di corruzione e concussione: 1984-2004 (Fonte: nostra elaborazione da Statistiche giudiziarie penali, Istat).

Figura 2. Denuncie alle forze di polizia per reati di corruzione e concussione: 2004-2009 (Fonte: nostra elaborazione da dati Saet, Stralcio aggiornato dalla relazione al Parlamento, Roma, 19 febbraio 2010) (* dati non uffi ciali).

Il medesimo andamento, come prevedibile, caratterizza il nu-mero di condanne per reati di corruzione, per le quali il calo in proporzione risulta ancora più marcato. Si passa infatti da un massimo di oltre 1700 condanne per reati di corruzione nel 1996

reati denunciatipersone denunciate

1984

1985

1986

1987

1988

1989

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

3500

3000

2500

2000

1500

1000

500

0

341

223

296

192

258275

44

alle appena 239 del 2006, quasi un settimo di 10 anni prima, con una caduta verticale che si accentua a partire dal 2001 (cfr. Figura 3).

Un altro indicatore utilizzabile per stimare la diffusione della corruzione è fornito da sondaggi e rilevazioni statistiche, che mi-surano percezioni ed esperienze degli intervistati. Anche in que-sto caso le rilevazioni sono convergenti nel delineare la sensazione generalizzata di una recrudescenza del fenomeno. Tra il 2005 e il 2008, secondo Eurobarometro, la percentuale di cittadini italiani che ritengono la corruzione un problema rilevante è cresciuta dal 75 all’84%, l’89% ritiene queste pratiche piuttosto frequenti nel governo nazionale e nelle istituzioni. Nel 2009 la percentuale di cittadini italiani che nell’anno precedente hanno vissuto in prima persona l’esperienza di vedersi chiedere od offrire una tangente è pari al 17%, una tra le più alte in Europa (la media dell’Unione europea è del 9%), erano il 10% nel 2007 (cfr. Figura 4).

Il dato trova conferma nelle rilevazioni di Transparency Inter-national, l’Ong internazionale per la lotta alla corruzione il cui annuale «Corruption perception index», fondato sulle opinioni di osservatori privilegiati secondo analisi di 13 organizzazioni in-dipendenti, è utilizzato nella ricerca scientifi ca come il più affi -dabile proxy della diffusione del fenomeno. Il punteggio di 10 corrisponde alla completa trasparenza, 0 alla massima corruzio-

Figura 3. Numero di condanne per reati di corruzione e concussione in Italia: 1996-2006 (Fonte: nostra elaborazione da dati del Ministero della Giustizia, in Il feno-meno della corruzione in Italia: la mappa dell’Alto Commissario, Roma, 2007).

1714

12621331

809

1279

540466

654

434 454

239

– – – – – – – – – – – –

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006

45

Danimarca

Svezia

Regno Unito

Olanda

Irlanda

Francia

Finlandia

Germania

Belgio

Lussemburgo

Estonia

Slovenia

Malta

Cipro

Portogallo

media EU27

Spagna

Austria

Polonia

Repubblica Ceca

Grecia

Ungheria

Italia

Bulgaria

Lettonia

Slovacchia

Romania

Lituania

Figura 4. Percentuale di cittadini che negli ultimi 12 mesi si sono visti offrire o chiedere una tangente nel proprio Paese (Fonte: Eurobarometer, Attitudes of Eu-ropeans towards Corruption, 325, Brussels, November 2009).

1

3

3

3

3

3

3

4

4

5

5

6

6

7

8

9

10

13

14

15

16

17

17

17

18

22

27

27

46

ne: l’Italia con 4,3 nel 2009 totalizza il punteggio peggiore del-l’ultimo decennio. Dalla prima rilevazione del 1995 un baratro separa l’Italia dalle altre democrazie, una distanza che oltretutto va allargandosi, in una classifi ca dove tradizionalmente svettano per trasparenza i Paesi scandinavi, Nuova Zelanda e Singapore. Dopo un effi mero miglioramento tra il 2000 e il 2001, il punteg-gio dell’Italia ha seguito nel decennio un trend discendente, con un crollo dal 41esimo posto del 2006 al 63esimo del 2009. Nella comparazione internazionale l’Italia è considerata un Paese nel quale il ricorso alle tangenti è agli stessi livelli dell’Arabia Saudita, più frequente rispetto a Cuba, Turchia, Namibia, Malesia, Gior-dania, Botswana. Nell’Unione europea soltanto Grecia, Bulgaria e Romania totalizzano un punteggio peggiore, la Grecia è l’unico Paese che registra un calo superiore a quello italiano tra il 2008 e il 2009 (cfr. Figura 5). Che il pessimismo sia radicato lo atte-stano anche i sondaggi periodici di Corruption barometer, curati da Transparency International: se nel 2005 il 41% degli italiani prevedeva una crescita della corruzione nei successivi tre anni, contro appena un 12% di ottimisti, nel 2007 questa percentuale s’impenna al 61%.

Una fonte ulteriore di informazioni sulla corruzione è costi-tuita dai mezzi di comunicazione, che però – a parte casi ecce-zionali, almeno in Italia, di giornalismo d’inchiesta – si limitano a «fi ltrare» notizie di procedimenti giudiziari in corso. In questo modo viene resa visibile al pubblico una quota di episodi che per le loro caratteristiche – identità e numero di soggetti coinvolti, ammontare delle tangenti, ricadute, ecc. – hanno suscitato l’atten-zione dei mezzi di comunicazione, peraltro infl uenzata anche dal controllo politico o di gruppi economici sulla linea editoriale. Le rilevazioni disponibili confermano che dopo il big bang di «Mani pulite», quei pochi mesi nei quali televisioni e giornali hanno dato grande risalto all’emergente corruzione, si è realizzata dalla metà degli anni Novanta una rapida normalizzazione dell’offerta di no-tizie. Tra il 1992 e il 1994 in media ogni anno il quotidiano la Repubblica – secondo le ricerche di Franco Cazzola – ha presen-tato al pubblico 220 episodi di corruzione; scesi a 88 nel biennio successivo, a 44 tra il 97 e il 2000 (13). Negli ultimi due anni siamo a 29 casi appena, quasi un decimo appena di quelli di «Mani puli-

47

Figura 5. Indice di percezione della corruzione (CPI) nel 2009 nei Paesi EU-27 e G8 e confronto con il 2008 (10 = massima trasparenza; 0 = completa corruzione) (Fonte: Transparency International).

9,3 9,3

9,3 9,2

9 8,9

8,9 8,9

8,7 8,7

8,3 8,2

7,9 8

7,7 8

8,1 7,9

7,3 7,7

7,7 7,7

7,3 7,5

7,3 7,1

6,9 6,9

6,4 6,6

6,6 6,6

6,7 6,6

6,5 6,1

6,1 5,8

5,8 5,2

5,1 5,1

4,6 5

4,6 4,9

5,2 4,9

5 4,5

5 4,5

4,8 4,3

3,6 3,8

4,7 3,8

3,8 3,8

2,1 2,2

Danimarca

Svezia

Finlandia

Olanda

Canada

Lussemburgo

Germania

Irlanda

Austria

Giappone

Regno Unito

Stati Uniti

Belgio

Francia

Cipro

Estonia

Slovenia

Spagna

Portogallo

Malta

Ungheria

Polonia

Lituania

Repubblica Ceca

Lettonia

Slovacchia

Italia

Bulgaria

Grecia

Romania

Russia

CP 2008CP 2009

48

te», ma appena un terzo di quelli emersi tra il 1989 e il 1992 (cfr. fi gura 6). Nell’ultimo decennio nel sistema dei media il problema della corruzione, al di là di alcune episodiche e circoscritte fi am-mate, si è smaterializzato, fi nendo in un cono d’ombra:

È questo il miracolo italiano: dopo «Tangentopoli» il Paese non è mai stato così virtuoso, almeno in apparenza (14).

Quando si è parlato di corruzione ciò è accaduto quasi in via incidentale, come elemento che contribuiva a rinfocolare tensioni irrisolte tra classe politica e magistratura. Questo esito è imputa-bile per un verso alla presenza di meccanismi di condizionamento politico dell’informazione, ma anche all’innalzarsi della «soglia di scandalizzazione» del pubblico, ormai abituato – o indotto – a intravedere dietro qualsiasi indagine il sospetto di una strumen-talizzazione politica.

(13) Cfr. F. Cazzola, La corruzione in Italia e in ambito internazionale, data-re-port presentato al corso su «La prevenzione dell’illegalità nelle pubbliche ammi-nistrazioni», Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione, Bologna, dicembre 2009.

(14) Cfr. F. Cazzola, «Dopo “Tangentopoli”. Ovvero: storia di un paese mira-colato», in AA.VV., Politica e società. Studi in onore di Miguel Beltran, Madrid, Universidad Autónoma de Madrid, 2007.

Figura 6. Numero di casi riportati in media ogni anno dal quotidiano la Repubbli-ca: 1976-2008. (Fonte: dati 1976-2006 da F. Cazzola, La corruzione in Italia e in ambito internazionale, data-report 2009; dati 2007-8: nostra elaborazione).

220

34

105

67

10690 88

4432 29

1976-1982

1983-84 1985-86 1987-88 1989-91 1992-94 1995-96 1997-2000

2001-2006

2007-2008

49

3. La realtà nascosta della corruzione italianaSi possono ricavare alcune indicazioni sulle caratteristiche del-

la realtà nascosta della corruzione italiana attraverso la compa-razione dei sentieri evolutivi di questi tre profi li quantitativi del fenomeno: nell’ultimo decennio si riduce la corruzione persegui-ta, condannata e presentata al pubblico, mentre il fenomeno è percepito – e vissuto – in crescita.

(i) Se le percezioni e i sondaggi sulle esperienze personali ris-pecchiano la diffusione effettiva della corruzione, il fenome-no cresce negli anni in cui la spinta propulsiva delle inchieste tende ad esaurirsi, e sia incriminazioni che condanne diven-tano eventi via via più rari. Questo signifi ca che negli ultimi dieci anni si è allargata la forbice tra corruzione praticata e corruzione denunciata e perseguita, e dunque è lievitata la «cifra nera» della corruzione, l’ammontare di reati portati a compimento con successo (15). Dal momento che le condan-ne diventano in proporzione ancora più infrequenti, si può spiegare la rinnovata sensazione di impunità per i protagoni-sti, confermata dai toni di alcune intercettazioni telefoniche rese pubbliche. Ad esempio, osservano i giudici nell’inchie-sta sugli appalti della protezione civile:

i soggetti protagonisti oltre ad essere consapevoli del loro potere pressoché illimitato hanno anche una vera e propria sindrome di impunità; e così si è registrato […] che parlando con il fratello […] (imprenditore che lui voleva favorire ma che appariva rea-listicamente timoroso ritenendo la sua struttura poco adatta) gli riferisce senza mezzi termini che loro hanno licenza di uccidere e che possono fare e pigliare ciò che vogliono (16).

L’aspettativa di avere buone probabilità di farla franca inco-raggia l’adesione di amministratori, imprenditori e interme-diari alle reti della corruzione, un sistema chiuso e oligarchi-

(15) Ad analoghe conclusioni giungono Davigo e Mannozzi: «se ne deve de-durre che la “cifra nera” della corruzione in Italia prima di “Mani pulite” era elevatissima e che, con tutta probabilità, anche dopo “Mani pulite” continua ad attestarsi su livelli decisamente preoccupanti». Cfr. P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2007, 114.

(16) Cfr. Tribunale di Firenze, Ordinanza di custodia cautelare in carcere, proc. n. 1460/09, R.G.I.P., 8 febbraio 2010, 44.

50

co di scambio, in grado di assicurare alla ristretta cerchia di benefi ciari rendite consistenti (17).

(ii) La percezione ampiamente diffusa di una corruzione ram-pante non scaturisce dalla copertura dei mezzi di comunica-zione rispetto agli episodi emersi. Al contrario, nell’ultimo decennio la scarsa salienza del tema nei mezzi di comuni-cazione risulta inversamente proporzionale alla sfi ducia sull’onestà dei politici e degli amministratori. Una possibile spiegazione è che, nonostante il silenzio delle fonti uffi cia-li di informazioni, i canali informali di comunicazione e le esperienze dirette abbiano plasmato la percezione di un cli-ma di illegalità diffusa.

(iii) La caduta di attenzione mediatica nei confronti degli scan-dali collegati a vicende di corruzione è stato in proporzione ancora più marcato rispetto alla riduzione dei procedimenti giudiziari avviati. Oltre al condizionamento politico sui mezzi di comunicazione, da sempre denunciato da Freedom of the Press, può aver infl uito una sorta di effetto saturazione che, dopo la sovraesposizione di «Mani pulite», ha alzato il livello di tolleranza pubblica (18). Si è così smorzato il potere deter-rente che la semplice esposizione al sospetto della corruzione esercitava sulla classe politica, suscitando un giudizio pubbli-co – e una sanzione politica – ancor più temuto della sanzione penale per il suo effetto negativo sulla reputazione (19).

(17) Nel caso dei contratti pubblici, a titolo di esempio, l’extra-profi tto in-debito generato dalla corruzione ammonterebbe mediamente a circa il 40-50% del valore del contratto, come mostrano le prime risultanze delle inchieste sulle opere emergenziali, la comparazione tra i prezzi degli appalti milanesi pre e post-Mani pulite, il confronto tra il costo di opere pubbliche inquinate dalla corruzio-ne ed equivalenti realizzazioni in terra straniera.

(18) Secondo il rapporto annuale di Freedom of the Press l’Italia è al penultimo posto – seguita solo dalla Turchia – in Europa per quanto riguarda libertà e indi-pendenza dei mezzi di comunicazione, collocandosi tra i Paesi solo «parzialmente liberi». Le principali ragioni sono «l’insolitamente alta concentrazione della pro-prietà dei media per gli standard europei» e la crescente «interferenza del governo sul controllo dei media». Cfr. Freedom House, Freedom of the Press 2009, in http://www.freedomhouse.org/template.cfm?page=251&country=7631&year=2009.

(19) In questo quadro, come osserva Pizzorno: «è la denuncia pubblica che consegue all’indagine della magistratura, la vera punizione, non la sentenza»; questo meccanismo di giudizio pubblico produce però un effetto perverso: «se

51

(iv) Dalla comparazione tra il dato italiano e quello europeo nei sondaggi di Eurobarometro emerge un indicatore indiretto del livello relativamente elevato di assuefazione alla corruzio-ne (20).

Nel 2009 l’83% degli italiani ritiene la corruzione un

problema importante, una percentuale in lieve calo rispetto all’84 dell’anno precedente, ma comunque poco superiore alla media europea, che è del 78%. Negli stessi anni però le esperienze dirette di tangenti richieste o proposte cresceva-no considerevolmente, passando dal 10% al 17%, quasi il doppio della media europea (pari al 9%), ed ugualmente in crescita era la percezione della diffusione del fenomeno (con l’indice di Transparency in picchiata da 4,8 a 4,3, seconda peggiore performance europea). Se l’allarme sociale è stazio-nario o in diminuzione, e di poco superiore ai livelli europei, mentre la percezione e la pratica quotidiana aumentano in modo signifi cativo, raggiungendo quasi il doppio della me-dia europea, si ha il sintomo di un innalzamento della soglia di tolleranza sociale del fenomeno.

Riassumendo, lo scenario italiano è quello di una corruzione ca-pillare e sempre più frequentemente impunita, in un contesto nel quale la scarsa attenzione dei media si accompagna al crescente disinteresse o alla sfi ducia generalizzata verso l’onestà dell’intera classe politica. Affi orano però alcuni elementi di differenziazione tra «nuova» e «vecchia» corruzione, almeno a giudicare dalle ri-sultanze delle inchieste giudiziarie.

4. I principali fattori che favoriscono lo sviluppo della corruzio-ne sistemicaLa persistenza di alti livelli di corruzione in Italia è stata tra-

dizionalmente spiegata dall’infl uenza di molteplici macro-cause

i suoi esiti si infl azionano, perdono di valore. Come di quelle medicine di cui si dice “più te ne servi, meno ti servono”, così di queste indagini e avvisi di garanzia e rinvii a giudizio: più si susseguono, e meno vi si bada, e meno danno luogo a giudizi del pubblico che contino e durino»: cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, Roma-Bari, Laterza, 1998, 113-114.

(20) Cfr. Eurobarometer, Attitudes of Europeans towards Corruption, 325, wawe 72.2, Brussels, November 2009.

52

di natura politico-istituzionale, sociale ed economica. Tra quelle richiamate più di frequente vi sono:

(i) la mancata alternanza al governo nazionale di forze poli-tiche contrapposte, caratteristica della cosiddetta «prima Repubblica»;

(ii) gli alti costi dell’attività politica e le dinamiche infl azionisti-che del suo fi nanziamento;

(iii) la collusione di ceto dei magistrati e la neutralizzazione di altri organi di controllo;

(iv) la debolezza delle sanzioni politiche per i partiti e gli espo-nenti coinvolti negli scandali;

(v) la limitata indipendenza dei mezzi di informazione;(vi) il complesso di ineffi cienze, ritardi, vischiosità procedurali

della pubblica amministrazione;(vii) l’arbitrarietà di fatto di molti processi decisionali, favorita

dall’eccesso di regolazione formale che si traduce in incertez-za applicativa o in paralisi, autorizzando l’attribuzione di po-teri eccezionali o emergenziali, più esposti alla corruzione;

(viii) l’estensione e la rilevanza delle decisioni politiche nell’or-ganizzazione economica (ammontare di investimenti e spe-sa pubblica, esercizio di poteri di licenza e d’interdizione, potere di nomina a posti di direzione nella vita sociale ed economica);

(ix) l’infl azione normativa e regolativa, che nell’incertezza dei destinatari accentua il potere discrezionale di chi è chiama-to ad applicare o interpretare quelle norme;

(x) il formalismo delle procedure e dei controlli;(xi) la governance di natura «familiare» delle imprese e le dina-

miche collusive nei mercati;(xii) la prevalenza di relazioni di scambio, ad ogni livello, tra am-

ministratori politici e di carriera, piuttosto che di reciproco controllo;

(xiii) la presenza di organizzazioni criminali, col loro apparato militare di enforcement degli scambi corrotti;

(xiv) la mancanza di fi ducia dei cittadini nello Stato e la debolez-za del «senso civico»;

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(xv) la struttura dei valori sociali e le caratteristiche della cultura politica, orientate verso modelli particolaristici e familistici;

(xvi) la debolezza del «senso dello Stato» e dello «spirito di cor-po» tra gli amministratori pubblici (21).

Si tratta di fattori rilevanti, come dimostrano numerose ricer-che empiriche di tipo comparato (22). In Italia essi rimangono tuttora in larga misura attivi, se si eccettuano – a partire dalla metà degli anni Novanta – la realizzata alternanza al governo di schieramenti politici diversi, frutto anche di una riforma in senso maggioritario della legge elettorale, e gli effetti di alcune riforme amministrative improntate alla semplifi cazione delle procedure e alla de-regolazione (23).

La compresenza di questi fattori si tra-

duce allora in una persistente attrattiva esercitata dagli incentivi «economici» dei profi tti attesi dalla corruzione, non contrastata da adeguate barriere morali e criteri di riconoscimento sociale fa-vorevoli all’osservanza della legge: scarsità di «capitale sociale», mancanza di «cultura civica», radicamento del «familismo amora-le» sono alcune delle formule con le quali si è cercato, più o meno recentemente, di catturare le caratteristiche di questo tessuto di valori culturali favorevoli a svariate forme di illegalità diffusa (24). In sostanza, per un verso negli ultimi anni sono rimaste propizie le occasioni di corruzione, dall’altra non sembrano rafforzati i criteri culturali e sociali di «riconoscimento morale» delle condotte vir-tuose. Questi fattori rendono l’Italia – coi suoi livelli di corruzione percepita superiori a quelli di molti Paesi in via di sviluppo – un caso deviante nel panorama delle moderne liberaldemocrazie.

(21) Per una rassegna si vedano Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, Rapporto al Presidente della Camera dei deputati, Roma, Camera dei deputati, doc. CXI, n. 1, 26 ottobre 1996; D. Della Porta, A. Vannucci, Un paese anormale, Roma-Bari, Laterza, 1999.

(22) Per una rassegna cfr. J.G. Lambsdorff, Institutional Economics of Corrup-tion and Reform, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.

(23) Cfr. GRECO (Group of States Against Corruption), Evaluation Report on Italy, Strasburgo, 2 luglio 2009, in http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/greco/evaluations/round2/GrecoEval1-2(2008)2_Italy_EN.pdf, 39.

(24) Cfr. E.C. Banfi eld, The Moral Basis of Backward Society, New York, Free Press, 1958; G. Almond, S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and De-mocracy in Five Nations, Princeton, Princeton University Press, 1963; R.D. Put-nam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori,1993.

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Ma la spiegazione della capacità di adattamento e di resistenza delle reti della corruzione italiana chiama in causa anche dinami-che interne, endogene alle stesse reti della corruzione. Dall’analisi del materiale giudiziario emerge infatti come attraverso processi paralleli – di selezione e di apprendimento – si siano modifi ca-te le caratteristiche individuali di una parte degli attori operanti nell’universo sotterraneo della corruzione. In primo luogo, come osserva il giudice Davigo, gli effetti delle inchieste giudiziarie de-gli anni Novanta sono stati analoghi a quelli indotti da un proces-so di selezione naturale, eliminando corrotti e corruttori «meno abili» e inducendo così un miglioramento delle capacità adattive e predatorie dei superstiti nel nuovo ecosistema politico-ammini-strativo (25).

Si può osservare, in primo luogo, l’applicazione deliberata da parte di corrotti e corruttori di tecniche sempre più raffi nate per minimizzare razionalmente il pericolo di incorrere in controver-sie, o di sollevare le attenzioni degli organi di controllo. Se le cro-nache di «Mani pulite» descrivono rischiosi passaggi di buste o valigette piene di soldi, negli episodi emersi negli ultimi anni si utilizzano spesso metodi più sicuri ed effi caci di ripartizione dei profi tti. Le «tangenti pulite e contabilizzate» – così battezzate in un’intercettazione telefonica – possono assumere diverse forme, a seconda dei ruoli istituzionali e della spregiudicatezza dei benefi -ciari. Tanto per citarne alcune: la gestione tramite uomini di fi du-cia di conti «chiavi in mano» in paradisi fi scali, sui quali dirottare bonifi ci estero su estero; l’intestazione a prestanome o familiari di società fornitrici di improbabili consulenze ad enti pubblici; l’erogazione di prestazioni «in natura»; le partecipazioni socie-tarie incrociate, come camera di compensazione per la suddivi-sione dei proventi illeciti; la diluizione nel tempo dell’erogazione delle contropartite, così da allontanare il sospetto che di merce di scambio si tratti; l’assunzione fi ttizia di congiunti. «Imparata l’arte» della corruzione, i nuovi protagonisti operano professio-nalmente evitando il rischio di intercettazioni (attraverso l’impie-

(25) Cfr. G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani pulite, Roma, Editori Riuniti, 2003, 678.

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go di skype) (26), o magari cancellando la valenza penale del reato, attraverso la privatizzazione della forma giuridica degli enti che gestiscono le procedure e assegnano i contratti, come si è cercato di fare con la stessa «Protezione civile Spa», o creando situazioni di confl itto di interessi, che in questi anni si sono moltiplicate an-che a livello locale (27). Vale la pena rammentare che, nonostante le raccomandazione dell’Unione Europea e le disposizioni della Convenzione anticorruzione del Consiglio d’Europa, la corruzio-ne tra soggetti privati ancora non rientri tra i reati perseguibili secondo l’ordinamento italiano, mentre qualche dubbio sembra lecito sul rigore e sulla serietà della regolazione italiana delle si-tuazioni di confl itto di interessi.

La «nuova» corruzione presenta comunque un elemento chia-ve di continuità rispetto a quella «vecchia», svelata all’inizio degli anni Novanta: è ancora una corruzione in larga misura sistemica, nella quale scelte, condotte, stili, movenze, linguaggi degli attori sono incardinati entro copioni prefi ssati, seguono regole codifi ca-te, assecondano moduli familiari. È una corruzione, in altri termi-ni, regolata. Come si osserva nel rapporto del Greco:

La corruzione è profondamente radicata in diverse aree della pubblica amministrazione, nella società civile, così come nel setto-re privato. Il pagamento delle tangenti sembra pratica comune per ottenere licenze e permessi, contratti pubblici, fi nanziamenti, per superare gli esami universitari, esercitare la professione medica, stringere accordi nel mondo calcistico, ecc. […] La corruzione in Italia è un fenomeno pervasivo e sistemico che infl uenza la società nel suo complesso (28).

(26) A titolo di esempio, nella vicenda degli appalti della Protezione civile si prenda la conversazione nella quale uno degli indagati «fa capire al suo in-terlocutore che, attese queste preoccupanti notizie è opportuno continuare a mantenersi in contatto con skype, sistema di comunicazione notoriamente non intercettabile». Cfr. Tribunale di Firenze, Ordinanza, cit., 59.

(27) La presenza di situazioni di confl itto di interessi alimenta una forma di corruzione invisibile e – almeno in Italia – non rilevabile e penalmente persegui-bile, nella quale il corrotto e il corruttore coincidono nella medesima persona: la tangente non passa di mano in mano, ma diventa una partita di giro gestita dal medesimo soggetto, nella sua duplice veste di amministratore pubblico e porta-tore di interessi privati.

(28) Cfr. GRECO (Group of States against corruption), Evaluation Report on Italy, cit., 3, 6 (trad. mia).

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Non si tratta dunque di un mercato illegale caotico e disorga-nizzato. Al contrario, appaiono tuttora in vigore norme di com-portamento che realizzano alcune funzioni cruciali: facilitano l’identifi cazione di partners affi dabili; differenziano i ruoli nelle aggregazioni di corrotti e corruttori; accrescono i profi tti attesi dei processi decisionali, attenuano l’eventuale «disagio psicolo-gico» dell’illegalità; emarginano o castigano onesti e dissenzienti; socializzano i nuovi entrati alla «legge» della corruzione (29).

La «norma fondamentale» dell’invisibile ordinamento giuridico della corruzione sistemica sancisce l’ineluttabilità della tangente, ge-nerando l’aspettativa che il ricorso alla corruzione non possa essere evitato in cambio di qualsiasi «risorsa» di un qualche valore otteni-bile dalla struttura pubblica coinvolta nella rete di scambi occulti: appalti, licenze, concessioni, accelerazione di passaggi procedurali, informazioni riservate, controlli addomesticati, mancata contesta-zione di illeciti, in una casistica sterminata che si sovrappone all’in-tera gamma di attività pubbliche. Con le parole di un imprenditore:

All’[YYY] si paga praticamente chiunque, voglio dire anche a li-vello di commessi. […] Si paga sia la struttura dell’ente (il Mini-stro che presiede il consiglio di amministrazione dell’[YYY]) sia il sistema dei partiti. […] Sono in contatto con una serie pressoché innumerevole di imprenditori, e da tutti quelli con cui ho parlato di questi argomenti ho ricevuto le stesse informazioni (30).

Se la corruzione diventa una sorta di «profezia che si auto-avve-ra», alla sua «istituzionalizzazione» si accompagna la formazione di un vasto corollario di regole che fi ssano lo spettro di condotte accettabili e i meccanismi redistributivi delle rendite, automatici e sottratti a pericolose negoziazioni. Sono regole che stabiliscono come si ripartiscono le tangenti, quello che si può dire e quello che si può fare. Al termine di questo processo, chi partecipa al gioco della corruzione sistemica sa a quali interlocutori rivolgersi e la loro attendibilità, quali codici linguistici utilizzare, le percen-tuali da pagare, i parametri di spartizione o i criteri di rotazione tra imprese o partiti cartellizzati.

(29) Cfr. D. della Porta, A. Vannucci, Mani impunite, Roma-Bari, Laterza, 2007.(30) Cfr. P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., 266-267.

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Quello che contraddistingue la corruzione sistemica, dunque, è la compresenza di tre condizioni:

1) tutte – o quasi tutte – le attività entro una particolare orga-nizzazione pubblica sono fi nalizzate o collegate indirettamente alla riscossione di tangenti;

2) tutti – o quasi tutti – gli agenti pubblici sono coinvolti in una rete informale di relazioni, entro la quale norme non scritte, ma di comune conoscenza, regolano la distribuzione di pro-fi tti, funzioni e ruoli, tra cui la raccolta e redistribuzione delle tangenti; la socializzazione dei nuovi entrati; l’emarginazione o la «punizione» degli onesti; la protezione da intrusioni di or-gani di controllo; la defi nizione e la garanzia di adempimento delle norme interne;

3) tutti – o quasi tutti – gli agenti privati che hanno contatti con l’organizzazione pubblica conoscono le «regole del gioco» e sono disponibili a pagare tangenti per entrare nella rete della corruzione, avendo accesso alla ripartizione di rendite.

Si tratta di condizioni che hanno caratterizzato le vicende emer-se grazie alle inchieste di «Mani pulite», quando – con le parole di Mario Chiesa – si era affermata

la regola tacita che la tangente avrebbe gravato su tutto, dalla gran-de opera alla più piccola fornitura. Non si discuteva nemmeno più di mazzette. Prenderle per i politici è un fatto normale, per i politi-ci ma anche per i burocrati (31).

E che continuano a connotare le vicende degli ultimi anni, da-gli appalti per l’agenzia interregionale per il fi ume Po – nei quali

il sistema delle tangenti era talmente consolidato che venivano pa-gate dagli imprenditori senza essere neppure negoziate, quasi si trattasse di un atto dovuto. Ed erano accettate dai funzionari pub-blici senza battere ciglio (32)

– fi no al sistema gelatinoso di appalti della Protezione civile, ca-ratterizzati precisamente dalla

(31) Cfr. Panorama, 13 dicembre 1992, 45.(32) Cfr. la Repubblica, Cronaca di Torino, 20 febbraio 2003, 9.

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sistematicità delle condotte illecite e dei rapporti illeciti e di cointe-ressenza tra gli indagati e per le rilevantissime ripercussioni fi nan-ziarie ed economiche ai danni dello Stato (33).

Tra i meccanismi che garantiscono l’adempimento delle rego-le della corruzione sistemica assumono particolare importanza i soggetti che se ne fanno «garanti», appianando eventuali dispute e, qualora necessario, comminando sanzioni a chi intacca la stabi-lità delle relazioni. Grazie alla loro autorità, i protettori assicura-no che nei «mercati di autorità» che caratterizzano la corruzione italiana non vi siano intrusioni esterne e defezioni interne, ridu-cendo così i rischi del coinvolgimento personale (34).

In questo quadro, a segnare uno scarto tra «vecchia» e «nuo-va» corruzione è il mutato ruolo dei partiti. Nelle vicende di «Mani pulite» i partiti giocavano un ruolo cruciale di protezione del sistema, all’interno di un «triangolo di ferro» che vedeva coin-volte le strutture partitiche di vertice, cartelli di grandi imprese, burocrati di alto livello. Ad esempio, nelle confessioni dell’im-prenditore Vincenzo Lodigiani, attraverso i versamenti annuali di tangenti ai segretari amministrativi di Psi e Dc l’impresa

ha cercato di garantirsi trattando a livello centrale direttamente con le segreterie nazionali dei partiti. […]. Attraverso il predetto siste-ma la Lodigiani Spa di regola è riuscita ad evitare ostruzionismi da parte delle autorità locali nella gestione degli appalti.

Questo «cappello di copertura politica» non ha funzionato solo

in quei posti ove è venuta a mancare una leadership forte tale da garantire stabilità nei rapporti tra imprese e partiti(35).

A seguito della crisi che ha investito tutti i principali partiti della cosiddetta «Prima Repubblica», il potenziale di «protezione partitica» è venuto meno, accompagnata sul versante imprendito-riale da uno speculare processo di destrutturazione delle grandi

(33) Cfr. Tribunale di Firenze, Ordinanza, cit., 3.(34) Cfr. S. Belligni, Il volto simoniaco del potere. Scritti su democrazia e merca-

ti di autorità, Torino, Giappichelli, 1998.(35) Cfr. L. Musella, Clientelismo, Napoli, Guida, 2000, 9.

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imprese (36). Oggi, in caso di controversie o crisi interne – sem-pre possibili specie in tempi di «vacche magre», quando nelle fasi negative del ciclo economico è più diffi cile spremere dai bilanci pubblici rendite da spartire – la corruzione sistemica non può più trovare quale sponda di pacifi cazione il «foro arbitrale» dei par-titi che invece, fi no a «Mani pulite», incameravano nelle proprie strutture amministrative una quota di tangenti proprio in cambio di questi servizi di regolazione (37).

Se i partiti si defi lano, nuove fi gure di garanti subentrano però a regolare il funzionamento delle arene decisionali dove la corru-zione è di casa. Quella che emerge nelle inchieste degli ultimi anni, in altre parole, non è tanto una corruzione gelatinosa o liquida, come defi nita da commentatori e inquirenti per contrapporla a quella del passato, strutturata intorno all’obolo coatto versato dal-le imprese ai partiti. Dura ancora, è vero, la capacità degli scambi corrotti di permeare ogni interstizio dei processi decisionali – dal-le micro-tangenti all’usciere ai maxi-pagamenti per gli appalti mi-lionari – in quelle aree d’attività pubblica dove l’illegalità diventa regola. Ma è ancora una corruzione solida e ben strutturata, dove a seconda dei contesti il rispetto delle invisibili «regole del gioco» è assicurato dalla fi ducia reciproca, dalle aspettative e dagli inte-ressi convergenti degli attori coinvolti; oppure dall’intervento, in veste di garanti, di attori «specializzati», disposti ad impiegare risorse politiche, di reputazione, coercitive o economiche per dis-suadere dalla defezione o punire gli inadempienti: l’alto dirigente ministeriale oppure il faccendiere ben introdotto, l’assessore, il «boss dell’ente pubblico» o l’imprenditore dai contatti trasversa-li, il capofamiglia mafi oso o il leader politico.

Ad esempio, negli appalti della Protezione civile la funzione di «protettore» sarebbe stata ricoperta da un alto dirigente ministe-riale, avente la capacità

(36) La crisi dei partiti è stata indotta dal coinvolgimento della loro classe dirigente nelle inchieste giudiziarie, ma anche da una loro endogena debolez-za, causata anche dalla balcanizzazione in fazioni autonome, anche dal punto di vista della gestione contabile, che si erano aggregate intorno ai boss più abili e spregiudicati nel reinvestire i proventi della corruzione nella competizione intra-partitica (D. Della Porta, A. Vannucci, op. cit.).

(37) Cfr. P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., 58-61.

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di gestire il proprio potere ripartendo le proprie attenzioni tra più imprenditori di suo interesse e componendo eventuali situazioni di contrasto derivanti dal mancato soddisfacimento di aspettative concernenti l’aggiudicazione degli appalti, così evitando possibili denunce da parte di imprenditori scontentati (38).

In un’altra vicenda è un imprenditore a giocare un ruolo fon-damentale di controllo e di coordinamento:

Attraverso i suoi «agganci» politici, siano essi assessori e parlamen-tari, infl uiva ed interferiva sia nella fase «deliberativa» dell’appalto, che nella successiva fase (più propriamente tecnica) della predispo-sizione del capitolato speciale d’appalto […]. Ciò si rendeva pos-sibile utilizzano la fi tta rete di conoscenze e rapporti con persone inserite in ambienti istituzionali e in posti chiave (assessori, parla-mentari, tecnici, funzionari pubblici…) dalle quali […] otteneva l’ampia e tempestiva disponibilità ad assicurare l’esito favorevole delle indicende o indette gare d’appalto (39).

Ponendosi negli snodi cruciali delle nuove reti di corruzione, queste fi gure di garanti assicurano l’adempimento degli impegni, prevengono tensioni e attriti sull’osservanza delle norme, creano in ultima analisi condizioni per l’impermeabilità del sistema ad in-trusioni esterne e per la sua capacità di assorbire dissidi interni.

La natura impalpabile dei servizi di protezione, che prescin-dono da uno scambio contestuale tra tangenti e decisioni favore-voli ai corruttori, confi gura una forma più sottile e pericolosa di corruzione, caratterizzata da relazioni opache che si sviluppano in un ampio arco temporale, transazioni differite, garanzie incro-ciate di adempimento tra soggetti diversi. Una possibile strategia di contrasto di queste attività consiste nel confi gurare quale reato qualsiasi acquisizione indebita di denaro o di altra utilità da parte dell’agente pubblico, anche in assenza di atti che si associano a quel pagamento nei termini di uno scambio riconoscibile tra pro-messe e adempimento.

Per scardinare gli equilibri interni al patto di corruzione, inol-

(38) Cfr. Tribunale di Firenze, Ordinanza, cit., 65-6.(39) Cfr. Tribunale di Napoli, Ordinanza di applicazione di misura coercitiva, n.

16025/07 R.G.N.R., n. 8533/08, R.G. G.I.P., 16 settembre 2008, 14.

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tre, conviene alimentare il confl itto tra gli interessi, altrimenti convergenti, di corrotto e corruttore, introducendo elementi di sfi ducia e sospetto nella fase di preparazione e negoziazione del-l’accordo. Tra le proposte emerse nella letteratura (40), ad esem-pio, si è sottolineata la possibilità di differenziare in modo signifi -cativo le pene previste per i partecipanti alla corruzione a seconda di chi ha preso l’iniziativa, in modo da accentuare la latente con-fl ittualità interna al rapporto tra corrotto e corruttore.

5. Le organizzazioni mafi ose nel mercato della corruzioneL’attività criminale dei mafi osi e la corruzione, così come le in-

tese collusive che caratterizzano il settore degli appalti, si realiz-zano in ambiti distinti ma complementari. Si presentano, in altri termini, elementi sinergici che favoriscono l’intreccio di corruzio-ne, infi ltrazioni mafi ose, regolazione dei cartelli di imprese.

Le organizzazioni mafi ose vendono infatti servizi di «protezio-ne privata» in quei contesti nei quali la pressione estorsiva, la sfi -ducia, la natura illegale o informale delle relazioni generano una domanda di tutela dei precari «diritti» sulle risorse in gioco (41). Tra i mercati illegali nei quali può affi orare una domanda di pro-tezione e di informale «regolazione» particolare rilievo assumo-no proprio quelli della corruzione e delle intese collusive. Essi assumono un’importanza cruciale per le organizzazioni criminali per un duplice ordine di motivi: in essi si presentano grandi op-portunità di profi tto, dato l’ammontare di risorse allocate dagli enti pubblici (appalti e forniture sono la più rilevante attività eco-nomica legale in quei territori); essi forniscono l’opportunità di tessere una tela di relazioni con una gamma di attori strategici (amministratori politici e burocrati, professionisti, imprenditori), capaci di garantire ai mafi osi accesso a competenze, processi de-cisionali e informazioni riservate, accrescendone tanto il prestigio sociale che le speranze d’impunità.

Come si è visto, negli scambi corrotti vengono create e scam-biate rendite, mentre negli accordi di cartello si realizza un’intesa

(40) Cfr. J. Lambsdorff, Institutional Economics of Corruption and Reform, cit., 230-231.

(41) Cfr. D. Gambetta, La mafi a siciliana, Torino, Einaudi, 1992.

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restrittiva della concorrenza tra imprenditori che barattano offer-te concordate, oppure l’astensione dalla partecipazione alle gare, contro promesse di ricambiare in futuro con uguali condotte (42). Per quanto logicamente distinte, le attività degli attori coinvolti nella corruzione e negli scambi collusivi hanno un terreno d’inter-sezione, un «mercato comune» nel quale gli stessi amministratori pubblici, i mafi osi e gli imprenditori collusi offrono e domanda-no contestualmente garanzie di salvaguardia degli accordi e delle pretese maturate nelle diverse arene di scambio. La disponibilità dei servizi forniti in ciascuno di questi mercati, infatti, incrementa i profi tti attesi e riduce i «costi di produzione» negli altri. Questa complementarità è evidente nel caso della protezione mafi osa, che attenua l’incertezza e favorisce l’applicazione degli accordi illeciti di cartello e della corruzione. Allo stesso tempo, la salvaguardia dagli organi di controllo fornita da taluni amministratori politi-ci in cambio di tangenti rafforza le aspettative d’immunità dalle indagini dei mafi osi, migliorando la qualità dei servizi protetti-vi offerti, e così consolida le aspettative di adempimento fra gli imprenditori collusi. Il successo dei cartelli che si spartiscono le risorse destinate agli appalti pubblici, infi ne, permette di drenare un maggiore ammontare di risorse dai bilanci pubblici, ridistri-buendolo nel reticolo di scambi e pacifi cando eventuali tensioni, assicurando ai mafi osi un ulteriore canale di comunicazione per allacciare relazione con i soggetti che occupano gli snodi decisio-nali nella pubblica amministrazione.

La radicata presenza di organizzazioni mafi ose in almeno quat-tro Regioni del Sud Italia ha dunque modifi cato sotto diversi profi li i meccanismi di regolazione della corruzione osservabili in altre aree. In primo luogo, le quote di tangente da destinare ai diversi decisori e garanti appaiono defi nite da criteri sanciti dai «garanti» mafi osi, che – almeno in alcune fasi – ripartiscono i guadagni tenendo conto delle diverse istanze in gioco: le famiglie mafi ose locali, che hanno sede laddove si svolgono materialmente i lavori; l’organizzazione centrale; gli imprenditori; gli ammini-stratori pubblici (politici e burocrati) (43).

(42) Cr. A. Vannucci, Il mercato della corruzione, Milano, Società libera, 1997.(43) Come osserva Angelo Siino, in una prima fase «la percentuale era così

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In secondo luogo, la mafi a assicura una regolazione più estesa della corruzione e degli accordi di cartello, che permette di svi-luppare le transazioni lungo due assi. Il primo, orizzontale, assi-cura la generalizzazione degli scambi illeciti, che investono ogni appalto, senza possibile eccezione. Secondo Siino: «tutte le gare erano truccate, tutte, nessuna esclusa, da quella dei cento milio-ni a quella dei cento miliardi» (44). La seconda linea di sviluppo, verticale, investe invece le diverse fasi della procedura di appal-to. Il «governo» mafi oso degli scambi illeciti, infatti, interviene a monte, garantendo la stabilità degli equilibri politici fra i soggetti che sanciscono i criteri di allocazione delle risorse e di delega nei ruoli di autorità pubblica, fi no a comprendere la presentazione del progetto nei programmi elettorali o il suo fi nanziamento, ma anche nella fase successiva all’aggiudicazione, disinnescando l’in-tervento degli organi di controllo (45).

divisa: 2% la mafi a, 2% al gruppo andreottiano, lo 0,50% era per la commis-sione provinciale di controllo […]. Stiamo parlando del solo accordo provincia. Perché poi ce ne erano altri (TPAN, 776). Successivamente venne prevista, oltre alle tangenti pagate ai politici e alle locali famiglie mafi ose, una quota ulteriore dello 0,8% sul valore dell’appalto, la “tassa Riina”, da convogliare direttamente al nucleo centrale di Cosa Nostra, con cui coprire le uscite legate all’acquisto di armi, alle spese legali dei detenuti ecc. Antonino Giuffrè ricostruisce questo passaggio, a seguito del quale le gare al di sopra di un certo ammontare sono pas-sate al cosiddetto “Tavolino”, formato da imprenditori collusi: “Questo tavolo aveva appositamente la funzione di spartire sin dall’inizio i lavori garantendo le tangenti una volta che la gara fosse stata espletata ed appaltato i lavori agli uo-mini politici da un lato, e alla zona, alla famiglia mafi osa dove ricadeva il lavoro. Ora diciamo che in questo momento noi eravamo i supervisori dietro le quinte, questo lavoro veniva espletato da un cartello di imprese che si univano tra di loro e portavano avanti la spartizione dei lavori con il nostro bene placido [sic], e quando occorreva mettevamo ordine». Cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Direzione distrettuale antimafi a, richiesta di fermo di in-diziati di delitto contro Tolentino Angelo + 49, procedimento penale n. 3779/03 R.G.N.R./Dda, n. 1855/04, R.G./Gip, 1053.

(44) Tribunale di Palermo, processo De Eccher + 31, dichiarazioni del colla-borante Siino Angelo, 25 maggio-11 giugno 1998 (Archivio sonoro di Radio Ra-dicale, cass. 177797-177798, 179827, trascrizione a cura di Monica Centofante, in http://www.antimafi aduemila.it).

(45) Ancora Siino descrive la corruzione negli organi di controllo amministra-tivo, che «si risvegliarono perché a un certo punto e che fa, scherziamo? Tutti mangiano e noi no? Le commissioni di controllo, il Tar, anche la corte dei conti. Tutti. Nessuno escluso. Partecipavano alla mangiatoia. Il metodo era quello di frapporre un ostacolo. E immediatamente frapporre un ostacolo c’era anche la commissione provinciale di controllo che aveva istituito un tipo di cosa incredi-

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Viene infi ne assicurata maggiore stabilità del sistema di cor-ruzione e degli accordi collusivi, giacché la protezione mafi osa scoraggia le denunce e rafforza l’omertà. Come osserva Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia dell’impresa Rizzani de Eccher,

il sistema degli appalti funziona in Sicilia come funziona in Italia. La differenza è che in Sicilia c’è più disciplina. Che signifi ca? Signi-fi ca che in Sicilia, al contrario di quanto avviene in Italia, ogni tanto ci scappa il morto e la disciplina ne è una conseguenza (46).

Il sistema di regolazione mafi osa ha così attraversato indenne anche le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta:

a differenza che in altre Regioni d’Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo da inchieste riguardanti l’illecita gestione degli appalti hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’Autorità giudiziaria (47).

Ciò signifi ca che nell’evoluzione del sistema di corruzione in Sicilia e nelle altre Regioni ad alta densità mafi osa non c’è alcuna frattura tra un prima e un dopo «Mani pulite», quanto piuttosto una graduale evoluzione delle regole informali che hanno gover-nato le relazioni tra i soggetti mafi osi, politici e imprenditoriali coinvolti. Nell’ultimo decennio vi sono stati alcuni momenti di crisi, corrispondenti alla collaborazione di alcuni coordinatori e garanti mafi osi nelle inchieste giudiziarie, che tuttavia si sono ma-nifestati in tempi diversi, indipendentemente da quelli osservabili nel resto d’Italia. In queste Regioni il mercato della corruzione e delle intese collusive ha tuttavia mostrato migliori capacità di resistenza alle inchieste giudiziarie.

bile, cioè dal punto di vista, se io andavo prima a perorare la mia causa pagavo l’1%, se loro invece si accorgevano che nessuno poteva mandare, mandava la cosa così, senza essere raccomandata, loro facevano delle osservazioni in modo da lasciare la cosa in stand by e immediatamente dopo chiedevano non più l’1% quando uno andava per accordare la cosa ma il ben 2%». Cfr. Tribunale di Pa-lermo, processo De Eccher + 31, cit.

(46) Tribunale di Palermo, sentenza 2 luglio 2002, n. 2537 contro Buscemi An-tonino + 9, procedimento penale n. 937/96 R.G.T., n. 5902/95 R.G.N.C, 127.

(47) Tribunale di Palermo, estratti dall’ordinanza «mafi a e appalti» del Gip Renato Grillo nei confronti di Buscemi Antonino + 9, 2 ottobre 1997, in http:// www.bernardoprovenzano.net, 5.

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Negli ultimi anni l’evoluzione delle reti di corruzione nelle zone ad alta densità mafi osa sembra contraddistinta in Sicilia da spinte centrifughe, corrispondenti al fallimento della tendenza accentra-trice dei corleonesi e alla successiva strategia di «sommersione» delle attività criminali più esposte al rischio di coinvolgimento giudiziario, così da tamponare le falle aperte dalla defezione e dal pentimento di alcuni soggetti di primo piano. Al tempo stesso, sembra delinearsi una minore differenziazione di ruoli rispetto al periodo di massima espansione della sfera delle garanzie offerte dai mafi osi, con un maggiore interscambio di ruoli tra mafi osi, politici e imprenditori. Naturalmente, a ciò corrisponde un am-pliamento degli spazi autonomi di manovra per gli amministrato-ri corrotti e gli imprenditori collusi, mentre il rovesciamento di consolidati equilibri partitici ha posto inedite diffi coltà ai mafi osi, costretti a costruire nuovi legami in un mercato politico sempre più affollato, movimentato e incerto. Le organizzazioni mafi ose e i loro interlocutori politici e imprenditoriali non hanno smesso di cercarsi, intessere relazioni, organizzare cartelli e scambiare tan-genti, ma hanno strutturato in modo differente i loro rapporti, senza più alcuna pretesa di gestione verticistica come nel recente passato, seguendo piuttosto un modello di regolazione più locali-stico e reticolare, che si sta rivelando ugualmente effi cace.

6. Le politiche anticorruzione e l’eredità di «Mani pulite»Nella spiegazione del persistente radicamento della corruzio-

ne in Italia occorre considerare, accanto alle macro-variabili di natura culturale e istituzionale, l’importanza dei resistenti mec-canismi di «autogoverno» di queste reti di relazioni illecite. Nella realtà politico-amministrativa italiana pesa infatti l’eredità di una storia pluridecennale di corruzione pervasiva, che ha sviluppato prassi, aspettative, modelli di condotta, «competenze di illegali-tà» e criteri di legittimazione delle condotte illecite, condensando i principi di una vera e propria «cultura della corruzione», col suo retaggio di (dis)valori ben radicati nell’intera classe dirigente (48).

(48) Cfr. A. Pizzorno, La corruzione nel sistema politico, in D. della Porta, Lo scambio occulto, Bologna, il Mulino, 1992; D. della Porta, A. Vannucci, The Mo-

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Naturalmente ha pesato, e molto, anche l’amnesia della classe politica. Se è diffi cile incidere, almeno in tempi brevi, sugli orien-tamenti culturali diffusi che plasmano le barriere morali alla vio-lazione della legge, è possibile attuare riforme che rendono meno conveniente il ricorso agli scambi corrotti. La ricetta di qualsiasi effi cace politica di prevenzione della corruzione è ben conosciu-ta, e si fonda su diversi meccanismi: concorrenza nell’allocazione dei benefi ci che derivano dall’azione dello Stato; trasparenza dei processi decisionali; responsabilizzazione degli attori pubblici; controlli orientati al prodotto e non all’adempimento procedura-le; promozione della cultura della legalità (49). Specie sull’ultimo punto, per accrescere i costi morali della corruzione occorre inve-stire nella formazione etica dei dipendenti pubblici, promuoven-do – sia in sede di selezione del personale che di aggiornamento e specializzazione – modelli di attuazione concreta dei principi della cultura della legalità nell’attività amministrativa; in questo modo questa potrà tradursi in prassi operative, codici informali di condotta, strumenti di controllo sociale diffuso che ne facilitino la condivisione entro le cerchie sociali di riferimento degli agenti pubblici.

Al contrario, l’impulso riformatore è stato di fatto contrad-detto da oltre un decennio di provvedimenti bipartisan – dal de-potenziamento dei reati d’abuso d’uffi cio e di falso in bilancio alla riduzione dei tempi di prescrizione – che hanno ostacolato il perseguimento penale dei crimini di corruzione, alimentando un senso generalizzato di impunità. Nel rapporto del Greco que-st’ultimo aspetto viene enfatizzato particolarmente:

un’allarmante proporzione di tutti i procedimenti per corruzione è vanifi cata per la scadenza dei termini di prescrizione […]. C’è un’alta probabilità che la prescrizione scatti prima che il processo possa concludersi, anche quando vi sono forti indizi di colpevolez-za. Si tratta di una mancanza signifi cativa che chiaramente indebo-

ral (and Immoral) Costs of Corruption, in U. von Alemann (Hrsg.), Dimensionen politischer Korruption, Wiesbaden, VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2005.

(49) Ispirandosi a questi principi nel 1996 la «commissione Cassese» aveva presentato alla Camera dei deputati un rapporto contenente la proposta di oltre 120 misure specifi che per prevenire la corruzione, rimaste quasi del tutto inat-tuate. Cfr. Comitato di studio per la prevenzione della corruzione, Rapporto, cit.

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lisce l’effi cacia e la credibilità della norma penale. […] Inoltre, le sanzioni perdono molto del loro potere deterrente se la giustizia è così rallentata che l’accusato ha ottime probabilità di evitarle sem-plicemente grazie alla prescrizione (50).

Le tanto invocate – almeno negli anni Novanta – politiche anti-corruzione sono sfociate infatti in pochi provvedimenti dal blando valore simbolico, quasi sempre indotti dal recepimento tardivo di convenzioni internazionali. Il problema è stato completamente ri-mosso dal dibattito pubblico e dall’agenda istituzionale, al punto che oggi – si osserva ancora nella relazione del Greco –

l’Italia non ha un programma anti-corruzione coordinato. Nessuna metodologia è al momento in vigore per stimare l’effi cienza delle misure anticorruzione specifi camente indirizzate alla pubblica am-ministrazione (51).

Un sondaggio di Eurobarometro attesta che il 74% degli ita-liani ritiene che l’azione del governo sia ineffi cace nel contrasto alla corruzione, contro appena un 22% di giudizi positivi (52). Confi nata alla sfera della repressione penale, la lotta contro la corruzione ha alimentato tensioni istituzionali tra magistratura e classe politica, senza che si realizzasse alcuna modifi ca delle con-dizioni istituzionali che in Italia rendono il ricorso alle tangenti individualmente conveniente, socialmente tollerato, moralmente giustifi cabile. Epitome del fallimento è l’istituzione nel 2003 di un Alto Commissario per la lotta alla corruzione ad opera del se-condo governo Berlusconi, con una dotazione irrisoria di risorse, poteri inconsistenti e per giunta posto «alla dirette dipendenze funzionali» del Presidente del consiglio, contraddicendone così le necessarie garanzie d’autonomia. A scanso di equivoci nel 2008 l’Alto commissario è stato abolito, sostituendolo con un ancor più modesto – nella dotazione di risorse, ma anche nelle ambizio-ni – Servizio anticorruzione e trasparenza, stavolta alle dipenden-ze del Ministro della funzione pubblica (53).

(50) Cfr. GRECO (Group of States against corruption), Evaluation Report on Italy, cit., 15.

(51) Ibidem, 28.(52) Cfr. Eurobarometer, Attitudes of Europeans towards Corruption, cit.,46.(53) Cfr. A. Vannucci, «The Controversial Legacy of “Mani pulite”: A Critical

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Per queste ragioni l’eredità delle inchieste di «Mani pulite» ap-pare oggi controversa. All’enfasi sull’azione purifi catrice della ma-gistratura, nella quale per breve tempo la società civile è sembrata riporre le proprie speranze di rinnovamento, hanno fatto seguito ben presto la delusione per i risultati delle inchieste, falcidiate da prescrizioni sopravvenute per la vischiosità delle procedure giudiziarie, e il sospetto alimentato dalle contro-denuncie di un «disegno politico» dietro l’azione dei giudici. Di qui lo strascico di tensioni tra classe politica e potere giudiziario, il pessimismo ancor più radicato sull’onestà dell’intera classe dirigente, la de-legittimazione delle istituzioni pubbliche e la rinnovata tolleran-za nei confronti delle molte manifestazioni d’illegalità di massa. Questo processo si ricollega anche allo spegnersi dell’interesse dei mezzi di comunicazione e dell’elettorato per i temi attinenti alla «questione morale», sancito dai ripetuti successi elettorali di soggetti politici pregiudicati o sotto inchiesta. Ma dipende anche dal ruolo ambiguo della classe politica, che non facendosi carico di adeguate politiche anti-corruzione ha fi nito per abdicare – per incapacità o cattiva volontà – al proprio ruolo, delegando di fatto alla sola repressione penale la risposta istituzionale contro la cor-ruzione dilagante, ma nel contempo delegittimando l’azione dei magistrati e intralciandone l’attività con misure e provvedimenti aventi pesanti ricadute pratiche e simboliche sul malfunziona-mento del sistema giudiziario.

Analysis of Italian Corruption and Anti-corruption Policies», in Bulletin of Ita-lian Politics, 1, n. 2, 233-264.

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Vincenzo Visco Comandini

PROFILI ECONOMICI DELLA CORRUZIONE (*)

1. IntroduzioneIl tema della corruzione è in tutto il mondo attentamente stu-

diato dalla teoria economica, nel tentativo di fornire proposte effi -caci per estirpare questo fenomeno. Una delle caratteristiche della dottrina economica più recente nei confronti delle istituzioni è di unire analisi e metodi, provenienti da discipline tradizionalmente separate, che consentono una pluralità di punti di osservazione, tipici degli studi seguiti dal fi lone della Law & Economics.

La corruzione è un fenomeno sociale complesso, preesistente al capitalismo, nelle società occidentali coevo alla nascita della polis da cui è sorta la democrazia, ed è sorella bastarda della tas-sazione, da cui si distingue per il carattere di scambio nascosto e per la pervasività con cui si radica nella comunità. La teoria eco-nomica solo di recente ha iniziato ad occuparsene con sistematici-tà (1), ma sembra ancora mancare un quadro concettuale unitario, capace di spiegare non tanto i meccanismi con cui si diffonde e mantiene, studiati ormai con sempre maggiore dettaglio analiti-co, quanto piuttosto le interrelazioni fondamentali con il sistema economico e con le organizzazioni pubbliche da cui si origina, che risultano generare esiti diversi a seconda del contesto econo-mico e politico-istituzionale osservato. Ciò implica l’opportunità di focalizzare gli studi sia a livello macro, nei confronti fra Paesi, sia micro, attraverso analisi empiriche capaci di indagare come la corruzione può svilupparsi in condizioni diverse di un medesimo sistema di istituzioni (2).

(*) Desiderio ringraziare Alberto Vannucci per i commenti ricevuti.(1) Per una buona introduzione della letteratura economica si veda S. Aidt,

«Economic analysis of corruption: A review», in Economic Journal, 2003, vol. 113, 632-652.

(2) J. Svensson, «Who Must Pay Bribes and How Much?», in Quarterly Jour-nal of Economics, 2003, vol. 118, no. 1, 207-30; R. Di Tella, E. Schargrodsky, «The Role of Wages and Auditing During a Crackdown on Corruption in the City of Buenos Aires», in Journal of Law and Economics, 2003, vol. 46, no. 1, 269-292.

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La corruzione non è un’azione economica esplicita come la produzione, il consumo o il risparmio, bensì un outcome, un ri-sultato, socialmente indesiderato e indesiderabile, di una serie di comportamenti a monte che o ne determinano direttamente l’esistenza o comunque la favoriscono (3). La stessa defi nizione di corruzione, nel tentativo di ricomprendere in un unico termine fatti eterogenei, fi nisce per essere principalmente descrittiva.

La letteratura economica fa tradizionalmente risalire la corru-zione alle medesime ragioni dell’intervento pubblico, ovvero alle azioni dello Stato che cerca di risolvere, con proprie politiche, i cosiddetti fallimenti di mercato (market failures), e in particolare alle funzioni di regolazione dell’economia (4). Lo Stato, essendo gestito da esseri umani con motivazioni e interessi complessi, sia pubblici che privati, nel momento in cui cerca di massimizzare il benessere collettivo rischia continuamente di ricadere nelle medesime ineffi cienze cui cercava di porre rimedio (government failures). Sostenere che i pubblici uffi ciali e i politici dovrebbero sempre comportarsi conformemente all’interesse generale non implica né che essi lo facciano sempre, né che non lo facciano mai. In altre parole, la teoria mette in discussione l’idea di uno Stato comunque benevolente nel perseguire l’interesse pubblico, che crea invece uno spazio per la raccolta di tangenti, «mazzette», «stecche», «bustarelle» (bribes). La Pubblica Amministrazione, contrariamente allo Stato etico weberiano, non è una macchina né tantomeno un’azienda, e gli agenti che la rappresentano, poli-tici e funzionari, perseguono anche i loro interessi privati come il prestigio o la ricchezza, che li rende suscettibili di confl itti d’in-teresse e di abusi, anche perché, a differenza delle imprese, nello Stato l’incentivo della proprietà è assente.

Data questa premessa sul fenomeno corruttivo, assolutamen-te generale e ampiamente condivisa, fra gli economisti emergono

(3) J. Svensson, «Eight Questions about Corruption», in Journal of Economic Perspectives, Summer 2005, vol. 19, 3, 35-64.

(4) Una recente e completa rassegna della letteratura su corruzione e rego-lazione è F. Boehm, Regulatory Capture Revisited – Lessons from Economics of Corruption, Anti Corruption Training & Consulting (ACTC), and Research Cen-ter in Political Economy (CIEP), Universidad Externado de Colombia, working paper, 2007.

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posizioni diverse. Un primo approccio, seguito dai seguaci del-le scuole delle scelte pubbliche (Public Choice) e dell’Università di Chicago che ritengono che lo Stato vada tenuto quanto più lontano possibile dall’economia perché la regolamentazione dei mercati è comunque soggetta a «cattura» da gruppi di interesse organizzati (5), la corruzione è una patologia che nasce da un ec-cesso di intervento pubblico. Secondo alcuni degli esponenti più radicali di questa scuola, che hanno coniato il termine di «teoria del casello» per denotare il comportamento dei politici che crea-no volutamente ostacoli e regolamentazioni inutili e dannose al solo fi ne di ricavare tangenti e favori dalle imprese costrette a passarvi (6), riducendo al minimo il ruolo dello Stato e lascian-do operare i meccanismi di mercato, verrebbero meno i caratteri negativi della corruzione, anzi questa può, in alcune circostanze, essere considerata «effi ciente» (7). La corruzione è effi ciente, in senso economico, nei sistemi in cui c’è una presenza eccessiva e soffocante di burocrazia pubblica e le norme sono particolarmen-te rigide. In questi contesti le imprese offrono tangenti nel tentati-vo di superare l’impasse dovuta ai ricatti di politici e burocrati e, se il mercato per quanto corrotto è però concorrenziale, l’equili-brio che si raggiunge è quello in cui l’impresa più effi ciente offre la tangente più alta e si aggiudica il bene offerto dai corrotti (8).

(5) A. Downs, «An Economic Theory of Political Action in a Democracy», in Journal of Political Economy, 1957, vol. 65, no. 2, 135-150; G. Stigler, «The Theory of Economic Regulation», in Bell Journal of Economics and Management Science, 1971, vol. 2, no. 1, 3-21; G. Becker, «A Theory of Competition among Pressure Groups for Political Infl uence», in Quarterly Journal of Economics, 1983, vol. 98, no. 3, 371-400.

(6) H. De Soto, The Other Path, New York, Basic Books, 1989; S. Djankov, R. La Porta, F. Lopez de Silanes, A. Shleifer, «The Regulation of Entry», in Quar-terly Journal of Economics, 2002, vol. 117, no. 1, 1-37.

(7) N. Leff, «Economic Development through Bureaucratic Corruption», in American Behavioral Scientist, 1964, vol. 82, n. 2, 337-41; S. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven, Yale University Press, 1968. Un’interes-sante verifi ca empirica di questa tesi è di G. Méon, L. Weill, Is Corruption an Effi -cient Grease?, Laboratoire de recherche en gestion & economie, Université Louis Pasteur, Strasburgo, papier no. 6, 2008, da cui emerge che la corruzione funziona da «olio che ingrassa le ruote» dell’economia nei soli Paesi dove le istituzioni sono ineffi cienti o assenti, ma non in quelli dove le istituzioni funzionano bene.

(8) F. Lui, «An Equilibrium Queuing Model of Bribery», in Journal of Politi-cal Economy, 1985, vol. 93, n. 4, 760-81.

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Tale teoria utilizza, isolandoli dal contesto, alcuni elementi della teoria neo-istituzionale dei costi di transazione (9), secondo cui il benessere sociale è massimizzato rimuovendo gli ostacoli esistenti all’effettuazione delle transazioni: la tangente può così funzionare da lubrifi cante di uno scambio che, in sua assenza, non si sarebbe realizzato, e dunque è positiva per il sistema economico.

Le critiche a questa interpretazione di estremo laissez-faire non riguardano la coerenza dell’argomento che descrive, secondo il tipico approccio positivo all’economia (10), i comportamenti che gli uomini d’affari praticano normalmente in tutti i contesti in cui la corruzione è diffusa, quanto piuttosto tre aspetti assenti o scarsamente considerati dalla teoria:

i) la sottovalutazione (o addirittura la negazione) delle forti ester-nalità negative (11) generate dalla transazione corrotta;

ii) il giudizio di irrilevanza circa l’illegalità dell’oggetto scambia-to: non tutti i beni possono essere legalmente commerciati, o le azioni necessarie ad ottenerli come ad esempio corrompere giudici per far chiudere procedimenti penali o amministrativi a proprio carico;

iii) l’assenza del ruolo giocato dalle istituzioni e, più in generale, dal capitale sociale, ovvero da quell’insieme di norme formali o sostanziali che consentono ad una collettività di produrre una quantità positiva di beni pubblici (12). Alcune di queste

(9) Per una recente sintesi della teoria si veda O. Williamson, «The Economics of Governance», in American Economic Review, 2005, vol. 95, n. 2, 1-18.

(10) Diversamente da altre discipline, in economia l’approccio positivo, che ha fra i suoi padri nobili Karl Marx, si concentra sullo studio dei fenomeni economici per come sono nella realtà senza connotazioni o giudizi etici, quello normativo li analizza alla luce di come dovrebbero funzionare secondo la teoria neoclassica.

(11) Le esternalità (positive o negative) economiche denotano qualsiasi conse-guenza di una certa azione che non venga internalizzata in una transazione e nel suo prezzo, ma solo goduta (o subìta) da soggetti terzi senza che questi possano infl uire su di essa. L’inquinamento è l’esempio classico di esternalità negativa, la popolarità di un prodotto quello di esternalità positiva. Nel caso della corruzione, è evidente la presenza di esternalità, perché all’aumentare del numero di agenti corrotti, cresce l’incentivo per il singolo agente ad adeguarsi «all’andazzo» generale.

(12) L. Guiso, P. Sapienza, L. Zingales, Civic Capital as the Missing Link, mi-meo, March 2010.

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critiche sono state fatte proprie dall’economia neo-istituzio-nale (13), che ha inquadrato la corruzione come patologia sociale che riduce il benessere collettivo all’interno delle re-lazioni fra mercato, cittadini e istituzioni. Questo fi lone di studi ha sviluppato interessanti analisi sui meccanismi del suo funzionamento interno, ma, come vedremo nel § 6, è stato meno effi cace nel proporre politiche concrete sostenute da un quadro teorico unitario, anche perché più fattori (e dunque cause) concorrono a determinare il diffondersi di questa anti-ca patologia sociale.

2. Defi nizione di corruzioneSecondo una defi nizione largamente condivisa dagli scienziati

sociali, la corruzione consiste in un uso distorto degli uffi ci pub-blici al fi ne di trarne vantaggi personali (14). Tale denotazione presenta il vantaggio di includere in un’unica categoria fattispe-cie diverse, quali la vendita illegale di beni pubblici da parte dei funzionari corrotti, le tangenti nelle gare ad evidenza pubblica o l’appropriazione o distrazione di risorse pubbliche (15). Rispetto al termine «vantaggi personali» è importante ricordare che que-sti non sono solo meramente monetari, ma includono altri beni materiali e immateriali come lo status o il potere. Come osserva-

(13) Preceduti dai lavori seminali di S. Rose-Ackerman, Corruption. A Study in Political Economy, New York, San Francisco and London, Academic Press, 1978; S. Rose-Ackerman, Corruption and Government. Causes, Consequences, and Reform, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, alcuni esponenti della nuova economia istituzionale hanno applicato con sistematicità la teoria dei costi di transazione ai processi corruttivi: G. Lambsdorff, «Corruption and Rent-seeking», in Public Choice, 2002, vol. 113, 97-125; G. Lambsdorff, «Making Corrupt Deals: Contracting in the Shadow of the Law», in Journal of Economic Behavior & Organization, 2002, vol. 48, 221-241; G. Lambsdorff, M. Taube, M. Schramm (eds.), The New Institutional Economics of Corruption, London and New York, Routledge, 2005.

(14) J. Gardiner, «Defi ning Corruption», in A. Heidenheime, M. Johnston (eds.), Political Corruption. Concepts & Contexts, New Brunswick and London, Transaction Publishers, 2002, 25-40; J. Svensson, Eight Questions about Corrup-tion, cit., 20.

(15) F. Boehm, Regulatory Capture Revisited – Lessons from Economics of Cor-ruption, cit., osserva come questa defi nizione ricomprenda anche la corruzione nel settore privato, esclusa però dal presente lavoro perché riguardante le norme di governance interne alle imprese.

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to da Lambsdorff (16), le forme non monetarie di remunerazione sono spesso preferite alle monetarie in quanto meno tracciabili e di più diffi cile evidenza in sede processuale. Inoltre i benefi ci privati ottenuti dalla transazione corrotta non richiedono neces-sariamente di essere assegnati all’agente, in quanto è possibile trasferirli ad amici o a membri della sua famiglia. Ciò signifi ca che il ventaglio dei beni scambiati con la transazione illecita è ben più ampio di quello normalmente associato alla classica «stecca», potendo includere altre dimensioni immateriali di natura socia-le. Non a caso, nella seguente Tavola 1 desunta da Boehm (17) e Andvig et al. (18) che elencano le principali forme di corruzione, sono incluse alcune fattispecie – in particolare il favoritismo e il nepotismo – che taluni potrebbero ritenere solo laterali rispetto all’oggetto indagato, ma che non di meno, originandosi dal me-desimo contesto istituzionale anti-sociale e generando le medesi-me esternalità negative (patologiche) sul sistema economico e le istituzioni, costituiscono un continuum di comportamenti illeciti concettualmente non separabili dalla corruzione nella sua forma della tangente.

Un recente lavoro sperimentale di Bandiera, Barankay e Ra-sul (19) rafforza l’approccio della defi nizione allargata di corru-zione, perché segnala il ruolo fondamentale svolto dalle regole

(16) G. Lambsdorff, Making Corrupt Deals: Contracting in the Shadow of the Law, cit.

(17) F. Boehm, Regulatory Capture Revisited – Lessons from Economics of Cor-ruption, cit., 14.

(18) J. Andvig, O. Fjeldstad, I. Amundsen, T. Sissner, T. Soreide, Research on Corruption. A Policy Oriented Survey, Bergen, Chr. Michelsen Institute, 2000.

(19) O. Bandiera, I. Barankay, I. Rasul, «Social Connections and Incentives in the Workplace: Evidence from Personnel Data», in Econometrica, 2009, vol. 77, 1047-94. Gli autori hanno convinto uno dei principali produttori di frutta del Regno Unito ad effettuare un esperimento sulla remunerazione dei manager che controllano i raccoglitori: nel periodo iniziale i manager venivano pagati per un importo fi sso, mentre a partire da una certa data è stato aggiunto un premio ba-sato sulla produttività media dei raccoglitori gestiti da ciascuno di essi. Rilevando e misurando l’esistenza di connessioni sociali tra i manager e i raccoglitori (ad esempio, la comune origine di appartenenza), gli autori hanno mostrato come queste variabili siano capaci di predire con accuratezza la rete di amicizie tra i lavoratori e i manager, e che questa comporta una produttività più bassa (all’ami-co si danno incarichi meno gravosi) se mancano gli incentivi adeguati, mentre diventa ininfl uente se vengono adottati i giusti incentivi.

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presenti nel sistema per bloccare e distruggere gli effetti negativi del favoritismo. Ecco perché quest’ultimo, o il nepotismo (ovvero la sua versione tipica nelle società dove è presente il «familismo amorale» (20)) non sono altro che forme non monetarie, solo in apparenza attenuate, di corruzione. Infatti il favoritismo, in as-senza di regole effi caci che lo sanzionino giuridicamente e mo-ralmente, induce individui e imprese a investire tempo e denaro nella ricerca di connessioni, «agganci», piuttosto che a migliorare il proprio grado di effi cienza. Il favoritismo aumenta il carattere di agente patogeno della socialità quando è coniugato con il fa-

(20) Originariamente ideato da E. Banfi eld, The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe (Il), Free Press, 1958, in relazione a comportamenti osservati in Italia meridionale, il termine denota l’assenza di morale pubblica, dove i princìpi e le categorie del bene e del male rimangono, e vengono applicati, solo e uni-camente nell’ambito dei rapporti familiari. Alla società non si applicano invece criteri morali: tutto è ammesso, e non si forma alcuna accumulazione di capitale sociale («i panni sporchi si lavano in famiglia»). Ichino e Alesina nell’analizzarne gli effetti negativi sui sistemi economici, usano l’esempio del tipico comporta-mento socialmente amorale: «cucine linde e cartacce per strada». Si veda P. Ichi-no, A. Alesina, L’Italia fatta in casa, Milano, Mondadori, 2009.

Tavola : Le principali forme della corruzione.

Tangente Un comportamento illecito fornito in cambio di un pagamento monetario (la tangente)

Appropriazione indebita

Furto di risorse da parte di coloro che hanno la responsabilità di amministrarle

FrodeCrimine economico implicante truffa, inganno, falsifi cazione deliberata, manipolazione o appro-priazione dell’informazione

Estorsione Denaro, favori o risorse estratte utilizzando la violenza, la coercizione o il ricatto

FavoritismoAbuso di potere implicante una distribuzione delle risorse corrotta, e quindi una violazione del-l’effi cienza allocativa

NepotismoForma speciale di favoritismo, dove le decisioni sono distorte in favore di membri della famiglia o del clan

Fonte: Boehm adattato da Andvig et al.

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milismo amorale, perché crea un atteggiamento generalizzato di chiusura verso le strutture sociali più allargate (21) in cui interessi pubblici e privati riescono comunque ad armonizzarsi.

Interazione fra rete informale di relazioni personali (per la cui appartenenza è necessario comportarsi in modo da reciprocare i favori corrotti ricevuti), struttura delle motivazioni sociali (in particolare il successo economico raggiunto con qualsiasi mez-zo come status symbol), capacità tecnica dello Stato di punire la corruzione e grado di sviluppo dell’economia formale sono le va-riabili utilizzate da Parra-Segura (22) per costruire un interessante modello teorico-esplicativo del livello di corruzione esistente in un determinato Paese, con interessanti potenzialità di verifi ca em-pirica e capacità predittive.

Nonostante la diffi coltà di separare concettualmente il venta-glio di comportamenti eterogenei indicati nella Tavola 1, una di-stinzione utile è stata fatta da Franzini (23), che riconduce a due fattispecie diverse, con differente intensità negli effetti negativi sul sistema economico, la corruzione in senso proprio, in cui il costo è compensato dal vantaggio che si spera di ottenere, dall’estor-sione, che impone invece costi senza vantaggi. Tale distinzione è rilevante perché mentre la prima può essere presente in Paesi anche altamente sviluppati socialmente e civilmente, la seconda è prerogativa dei Paesi dove lo Stato di diritto è meno incisivo.

La dimensione polisemica della corruzione è mostrata anche da Svensson (24) che la defi nisce un risultato delle istituzioni le-gali, economiche, culturali e politiche vigenti in un determinato Paese quando non ci sono regole che la sanzionino effi cacemente. Le regole, sotto questo profi lo, possono favorire la corruzione sia se sono eccessivamente benevole oppure se sono esplicitamente dannose. Sono benevole quando gli individui pagano tangenti per evitare condanne o quando il loro rispetto è lacunoso, e danno-se quando vengono deliberatamente adottate politiche cattive da

(21) P. Ichino, A. Alesina, L’Italia fatta in casa, cit.(22) J. Parra-Segura, Social Networks, Achievement, Motivation and Corrup-

tion: Theory and Evidence, University of Cambridge, mimeo, 2009.(23) M. Franzini, «La corruzione come problema di Agenzia», in R. Artoni (a

cura di), Teoria economica ed analisi delle istituzioni, il Mulino, Bologna, 1993.(24) J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit., 36.

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parte di istituzioni corrotte, fi nalizzate all’estorsione di tangen-ti da cittadini che cercano di sfuggirvi (25). Tuttavia, non è tanto l’esistenza di buone regole il migliore deterrente alla corruzione, ma la loro effettiva e concreta applicazione, come mostrato in un lavoro empirico multipaese (26).

La corruzione ha un proprio parallelo nelle tasse. Entrambi i fenomeni sono accomunati dall’effetto distorsivo (27) che produ-cono sulle attività economiche, dal generare perdita di benesse-re (28), dal far deviare gli investimenti verso i Paesi con aliquo-te fi scali più basse e/o meno corrotti (29) e dall’essere entrambe soggette a equilibri diversi a seconda dell’effi cacia delle regole vigenti. L’equilibrio buono viene raggiunto quando tutti pagano le tasse e le tangenti sono mantenute al livello minimo perché vigono norme sociali condivise di biasimo per gli evasori fi scali e per corruttori e corrotti. L’equilibrio cattivo, invece, si genera quando l’evasione fi scale è diffusa, lo Stato collude con gli evasori e le tangenti sono una pratica formalmente vietata, ma ampia-mente diffusa fra gli agenti economici. Pur essendo di detrimento per lo sviluppo economico di lungo periodo, tasse e corruzione non hanno però necessariamente effetto negativo sul reddito (30),

(25) S. Djankov, E. Glaeser, R. La Porta, F. Lopez-de-Silanes, A. Shleifer, «The New Comparative Economics», in Journal of Comparative Economics, 2003, vol. 31, no. 4, 595-619.

(26) T. Herzfeld, C. Weiss, «Corruption and Legal (In)effectiveness: An Em-pirical Investigation», in European Journal of Political Economy, 2003, vol. 19, 3, 621-632.

(27) La Scienza delle fi nanze spiega che le imposte, anche se necessarie, sono comunque distorsive dell’economia e ineffi cienti dal punto di vista dell’alloca-zione delle risorse, perché alterano le scelte di consumo e produzione degli in-dividui. Si veda, ad es., M. Leccisotti, Lezioni di scienza delle fi nanze, Torino, Giappichelli, 2000, 6ª ed., cap. XIV.

(28) R. Fisman, J. Svensson («Are Corruption and Taxation Really Harmful to Growth? Firm Level Evidence», in Journal of Development Economics, 83 (1), 63-75, 2007), hanno calcolato empiricamente che un aumento dell’1% delle tan-genti abbassa del 3% il tasso di crescita delle imprese, ossia un effetto negativo tre volte superiore a quello osservato per un equivalente aumento delle imposte.

(29) S. Wei, «How Taxing is Corruption on International Investors?», in Re-view of Economics and Statistics, 2000, n. 82, 1-11.

(30) K. Blackburn, G.F. Forgues-Puccio, «Why is Corruption Less Harmful in Some Countries than in Others?», in Journal of Economic Behavior & Organi-zation, 2009, n. 72, 797-810.

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né sono sostituti reciproci (31): in alcuni casi ad aliquote fi scali elevate hanno corrisposto periodi di alta crescita economica (Stati Uniti e Paesi scandinavi negli anni Cinquanta e Sessanta); in altri (Cina e India oggi) nonostante la corruzione sia assai diffusa, si registra una crescita sostenuta (32). La corruzione si distingue in-vece dalla tassazione sul segreto, necessariamente da mantenere per consentire la collusione fra corruttore e corrotto, in cui le ri-sorse scambiate non sono redistribuite (33), né lo scambio corrot-to avviene generalmente in modo contestuale. Non così le tasse, che vengono pagate per fi nanziare attività delle pubbliche am-ministrazioni e prestazioni sanitarie e previdenziali a favore dei cittadini e che costituiscono per defi nizione risorse pubbliche. In ogni caso, il ruolo giocato dalle istituzioni appare cruciale.

3. Il ruolo delle istituzioniLe interrelazioni fra istituzioni e corruzione non sono di tipo

causale diretto: di per sé il grado di funzionalità delle istituzioni non è infatti correlato alla diffusione della corruzione – si pos-sono avere realtà istituzionali ineffi cienti ma oneste, così come istituzioni tecnicamente effi cientissime e insieme altamente cor-rotte (34) – quanto piuttosto di tipo indiretto, ugualmente impor-tanti. Va qui ricordata la nota distinzione fra government, ovvero le organizzazioni della pubblica amministrazione, e governance, ossia quell’«insieme di regole, norme e leggi scritte e non, ma co-

(31) È quanto emerge dalle ripetute verifi che statistiche di questa relazione, che risulta sempre non signifi cativa. Si veda J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit., 22, che ha aggiornato la base dati utilizzata da P. Mauro, «Cor-ruption and Growth», in Quarterly Journal of Economics, 1995, n. 110, 681-712.

(32) J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit, 21.(33) Un’eccezione sono i pagamenti pseudo-previdenziali alle famiglie appar-

tenenti al clan da parte della camorra a Napoli, che mostra le potenzialità eversi-ve di questa forma di criminalità organizzata.

(34) L’apparente paradosso è spiegato dalla teoria del comportamento selet-tivo del burocrate, in grado di agire, a seconda delle circostanze, in modo sia effi ciente che ineffi ciente, ovvero a benefi cio o a danno dei suoi superiori o degli altri stakeholders, senza che questi riescano ad accorgersene. Si veda A. Breton, R. Wintrobe, The Logic of Bureaucratic Conduct. An Economic Analysis of Com-petition, Exchange, Effi ciency in Private and Public Organizations, Cambridge, Cambridge University Press, 1982 (tr. it. La logica del comportamento burocratico, Bologna, il Mulino, 1988).

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munque socialmente condivise, rispettate di diritto o di fatto» (35). Le prime sono attori fi sici e organizzativi che realizzano le politi-che pubbliche, le seconde sono le modalità salienti con cui le inte-razioni vengono giocate in modo ripetuto nei contesti sociali (36). Rispetto alle istituzioni in quanto organizzazioni, il cui legame con la corruzione è concettualmente tenue anche se fattualmen-te importante (la pubblica amministrazione è infatti il contesto in cui avviene la corruzione), i sistemi di governance rivestono un ruolo fondamentale. Laddove le norme socialmente condivise – concetto affi ne a quello di capitale sociale (o civico) defi nito da Guiso, Pazienza e Zingales (37) – invece di richiedere un ruolo proattivo alle istituzioni-organizzazioni pubbliche (relegate alle sole funzioni di redistribuzione di spesa pubblica), si rivolgono a sistemi privati di governance, la corruzione, nelle molteplici mo-dalità mostrate nella precedente Tavola 1, ha modo di svilupparsi senza vincoli, incontrando il solo limite dell’utilità personale del privato incaricato di gestirli. In molte società arretrate, operano gestori delle controversie – nel Sud Italia tipicamente mafi a, ca-morra, n’drangheta, sacra corona unita – che utilizzano sistemi privati di governance attraverso il ruolo di intermediari che appli-cano gli accordi anche facendo uso della violenza (38).

Se, com’è il caso della mafi a, un intermediario esterno alla tran-sazione diretta delle parti fornisce governance esercitata attraverso la violenza, si genera un riconoscimento sociale che lo trasforma

(35) A. Dixit, «Governance Institutions and Economic Activity», in American Economic Review, 2009, vol. 99, n. 1, 6.

(36) M. Aoki, Towards a Comparative Institutional Analysis, Cambridge (Mass), MIT Press., 2001; O. Williamson, «Comparative Economic Organization: The Analysis of Discrete Structural Alternatives», in Administrative Science Quarterly 1991, vol. 36, n. 2, 269-296; A. Licht, «Social Norms and the Law: Why Peoples Obey the Law», in Review of Law and Economics, 2008, vol. 4, n. 3, 715-750.

(37) Secondo L. Guiso, P. Sapienza, L. Zingales, Civic Capital as the Missing Link, cit., il capitale sociale è defi nibile come «quell’insieme di credenze, valori condivisi e persistenti che aiutano un gruppo di individui a risolvere il problema dei beni comuni attraverso il perseguimento di attività di valore sociale». Il ca-pitale civico è soggetto a deperimento, se non nutrito da valori sociali positivi o condivisi, mentre si accresce all’aumentare del suo utilizzo.

(38) D. Gambetta, The Sicilian Mafi a, Cambridge, (Mass), Harvard University Press, 1993; J. Bray, «The Use of Intermediaries», in G. Lambsdorff, M., Tau-be, M. Schramm (eds.), The New Institutional Economics of Corruption, cit.; A. Dixit, Governance Institutions and Economic Activity, cit.

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in istituzione. Gambetta (39) defi nisce la mafi a come third party enforcer, perché consente che transazioni economiche semplici, che in un mercato con istituzioni «normali» si realizzerebbero facilmente, ma che in un contesto sociale dove la fi ducia fra gli individui è molto bassa sono invece destinate a fallire, vengano portate a termine grazie alla garanzia fornita (40). Il soggetto ter-zo può agire attraverso regole o leggi formali o informali, fornire informazioni, applicare sanzioni ai trasgressori del patto di cui si fa garante, se necessario, o per lui utile, anche con violenza. Il soggetto terzo ha dunque interesse e remunerazione propri: la sua onestà non è quindi automatica, e il suo profi tto ha un intervallo utile, suffi cientemente alto per mantenerlo onesto, suffi ciente-mente basso per evitare che le parti rinuncino ad utilizzarlo. Un corollario importante di questo modello è che non sempre au-mentare la durezza della punizione per coloro che deviano dalle regole è azione effi ciente, a volte serve solo ad accrescere il reddi-to di chi gestisce i business illegali.

4. Corruzione concorrenziale e monopolisticaVishny e Shleifer (41) spiegano gli effetti delle leggi socialmente

dannose, quando cioè il governo e i suoi agenti violano i diritti di proprietà (espropri, confi sche ecc.) o stabiliscono regolazioni o imposte ingiuste o ineffi cienti o fi no ad arrivare all’estorsione di tangenti nella concessione di licenze o autorizzazioni. La corru-zione discende qui direttamente dall’esercizio dei compiti della pubblica amministrazione che i funzionari svolgono per conto e a favore dei cittadini. Essi assumono la fi gura di monopolisti poiché sono gli unici incaricati dalla legge di esercitare questa funzione. Approfi ttando del monopolio, vendono privatamente i diritti di proprietà pubblici, intascando tangenti (42).

(39) D. Gambetta, The Sicilian Mafi a, cit.(40) L’esempio classico, di Gambetta, è quello dell’allevatore che vende ani-

mali al macellaio: il primo è tentato di vendere solo animali di cattiva qualità, il secondo sapendolo è tentato di non pagarlo. Solo con l’arrivo di Peppe il mafi oso che dà garanzie alle parti si riesce a mandare in porto la transazione.

(41) A. Shleifer, R. Vishny, The Grabbing Hand. Government Pathologies and Their Cures, Cambridge (Mass), Harvard University Press, 1998.

(42) Alcuni autori, in particolare M. Franzini, La corruzione come problema di

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La corruzione può avvenire con o senza furto. Nel primo caso il richiedente non paga nulla alla pubblica amministrazione che non si accorge neanche della sua esistenza, nel secondo paga in-vece una tariffa di uso del servizio che viene registrato. La corru-zione con furto è peggiore di quella senza furto, perché allinea gli interessi di corruttori e corrotti. Ecco perché gli investimenti dello Stato nei sistemi di rilevazione dei fl ussi delle attività della pubblica amministrazione sono importanti: i Paesi che dispon-gono di un buon sistema informativo delle attività (volumi, costi, ricavi) del settore pubblico, riducono infatti le probabilità che i loro funzionari corrotti riescano a farla franca. Laddove invece questi sistemi o non esistono o non funzionano, la corruzione ha facilità a prosperare (43).

Un’ulteriore importante dimensione è quella della forma di mer-cato delle corruzioni. Shleifer e Vishny (44) individuano tre diversi regimi di mercato della corruzione per ottenere concessioni o licen-ze pubbliche, in cui al richiedente conviene corrompere se la busta-rella è inferiore al benefi cio ricevuto dalla transazione corrotta:

a) assenza di corruzione su determinati beni (ad esempio in Italia, salvo rari casi isolati, non si ottiene la patente di guida corrom-pendo gli esaminatori o i funzionari della Motorizzazione, non

Agenzia, cit., fanno risalire la corruzione alle asimmetrie esistenti fra principale (cittadino) e agente (burocrate), di cui approfi tta il secondo ai danni del primo per massimizzare la propria personale utilità senza che quest’ultimo abbia modo di accorgersene. Il contributo più famoso di applicazione della teoria dell’agen-zia ai comportamenti burocratici è di J. Tirole, «Hierarchies and Bureaucracies: on the Role of Collusion in Organization», in Journal of Law, Economics and Organization, 1986, no. 2, 181-214, ma la sua piena applicabilità alla Pubblica Amministrazione è contestata da T. Moe, «Political Control and the Power of the Agent», in Journal of Law, Economics, and Organization, 2006, vol. 22, n. 1, 1-29, che ritiene la relazione principale-agente non duale, ma inserita in una rete di relazioni multiple e complesse, fra cittadini, politici, funzionari pubblici e im-prese che lavorano per il settore pubblico. In ogni caso tale teoria, ancorché non pienamente esaustiva del fenomeno corruttivo, ha però il merito di aver intro-dotto in modo strutturale e costante il rischio di opportunismo che caratterizza i comportamenti degli agenti.

(43) T. Andersen, «Government as an Anti-corruption Strategy», in Informa-tion Economics and Policy, 2009, vol. 21, 201-210.

(44) A. Shleifer, R. Vishny, The Grabbing Hand. Government Pathologies and Their Cures, cit.

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così, ancora oggi, in molti Paesi dell’est Europa), corrispon-dente all’equilibrio «buono»;

b) pagando una sola volta si ha la certezza di non dover ripagare in un momento successivo (una tantum);

c) pur pagando, non si ha la certezza di evitare di ripagare in fu-turo per lo stesso bene.

Il primo regime, quello socialmente desiderabile, è generato dalla forma classica di concorrenza fra gli agenti in presenza di istituzioni non dannose: un cittadino a cui viene chiesta una bu-starella per ottenere una patente di guida si può facilmente rivol-gere ad un altro agente non corrotto. Qui la probabilità di essere scoperti e sanzionati è così elevata (45) che la tangente viene offer-ta dal funzionario solo ad un prezzo elevatissimo, normalmente eccessivo rispetto alla domanda, e dunque l’equilibrio che si rag-giunge è quello di una società dove la corruzione, pur esistente, è però continuamente ricondotta al suo livello minimo.

Il secondo regime è quello della corruzione coordinata, in cui tutti sanno chi va corrotto, per quale ammontare e con quali esiti. La tangente è divisa fra gli agenti attraverso meccanismi autoritari e nessun agente può chiedere di più per sé: il funzionario pubbli-co di grado inferiore raccoglie e, in larga parte, redistribuisce tan-genti ai superiori, come mostrano Cahana e Qijun (46) in relazione al sistema cinese. Il corruttore non paga il singolo funzionario, ma il sistema. Qui la corruzione si avvicina al sistema impositi-vo, tant’è vero che in molti Paesi (Paesi dell’Est prima del crollo del muro di Berlino, gabelle e decime nel medioevo) non riesce a distinguersi chiaramente da questo, e però tangenti e tasse di-ventano sostituti reciproci, in quanto più le prime girano, meno vengono raccolte le seconde. Esempi di corruzione coordinata sono la Francia prerivoluzionaria dei Borboni, il Presidente Mar-cos nelle Filippine, l’Unione Sovietica, la Cina, la mafi a siciliana, il fascismo italiano. Il coordinamento della raccolta delle tangenti presuppone un ordine istituzionale vigente, parallelo a quello for-

(45) J. Andvig, K. Moene, «How Corruption May Corrupt», in Journal of Eco-nomic Behavior and Organization, 1990, vol. 13, 63-76.

(46) N. Cahana, L. Qijun, «Endemic Corruption», in European Journal of Po-litical Economy, 2010, vol. 26, 82-88.

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male, socialmente pericoloso perché invisibile all’esterno. Questo regime è associato a sistemi politici autoritari, ma il reddito, pur in presenza di corruzione, può anche crescere perché le tangenti rappresentano una effi ciente fonte alternativa (se non primaria) di accumulazione del capitale.

Il terzo regime è la corruzione concorrenziale: un sistema non coordinato, dove ogni agente agisce in modo indipendente dal-l’altro, e quindi l’ammontare delle tangenti non riesce ad esse-re massimizzato perché i burocrati e i funzionari corrotti, senza saperlo, si fanno concorrenza fra loro. Il ricavo totale non viene massimizzato perché i soggetti perdono il controllo delle quantità prodotte e i prezzi scendono. I cittadini vivono una situazione di elevata confl ittualità sociale perché non riescono a pianifi care la loro attività, soggetta a rischi continui di espropri casuali. In que-sti Paesi, di cui esempi tipici sono la camorra napoletana o i Paesi africani, la crescita del reddito è continuamente a rischio.

5. La cattura regolatoria e gli appalti pubbliciQuella parte della letteratura economica sulla corruzione che

considera l’intervento pubblico inutile o dannoso, concentra la propria attenzione sui profi li regolatori dei sistemi economici, che ritiene luogo per eccellenza di generazione di tangenti. L’ipote-si è che i regolatori, forti del loro ruolo di agenti informati nei confronti di un principale che fa fatica a valutarne i comporta-menti (47), spingano per farsi «catturare» dalle imprese regolate. Queste ultime hanno a disposizione un ventaglio di strumenti, non più limitati alla tangente monetaria, di cui i più noti sono: il revolving door (pantoufl age), ovvero posizioni o consulenze elevate per i funzionari pubblici quando lasciano l’incarico di regolatori; il rent seeking, ovvero la pressione (in genere dell’intera industria, più raramente di singole imprese) su assemblee elettive e pubbli-che amministrazioni per ottenere regolamentazioni favorevoli (48).

(47) D. della Porta, A. Vannucci, Corrupt Exchanges, New York, Aldine de Gruyter, 1999.

(48) A. Estache, D. Martimort, Politics, Transaction Costs, and the Design of Regulatory Institutions, Policy Research Working Paper 2073, World Bank, 1999.

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Shleifer e Vishny ipotizzano che una più intensa regolazione implichi necessariamente una maggiore corruzione, ma tale tesi sembra aver trovato quantomeno una smentita empirica in un la-voro econometrico che ha messo in relazione il grado di libertà economica e la corruzione dei Paesi osservati (49).

Boehm (50) propone una classifi cazione della corruzione rego-latoria, mostrata nella Tavola 2 che legge unitariamente le due di-mensioni. Nel primo caso la corruzione è quella burocratica clas-sica, nel secondo è di tipo legislativo, perché i richiedenti fanno pressioni collettive sulle assemblee elettive per ottenere favori per la propria industria, ovviamente a danno del resto della società. Il meccanismo tipico a disposizione di questa forma di corruzio-ne, che può essere semilegalizzata – la professione di lobbista è regolata negli Stati Uniti – è l’asimmetria sia di tipo informativo che nelle aree di costo e benefi cio. In genere il benefi cio privato generato dall’intervento legislativo favorevole (ottenuto con ampi fi nanziamenti al decisore politico) è concentrato sui soggetti be-nefi ciati, mentre il loro costo è tipicamente ripartito su un’area molto estesa, e dunque scarsamente percepibile dal contribuente o dal cittadino.

Tavola 2: Le forme della corruzione regolatoria.

Corruzione burocratica Corruzionelegislativa

Basso livello Alto livello

corruzione di basso profi lo

cattura regolatoria corruzione di alto profi lo

basso valore della transazione

valore medio della transazione

valore elevato della transazione

Fonte: Boehm.

(49) P. Graeff, G. Mehlkop, «The impact of economic freedom on corrup-tion», in European Journal of Political Economy, 2003, vol. 19, 605-620.

(50) F. Boehm, Regulatory Capture Revisited – Lessons from Economics of Cor-ruption, cit.

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Oggi la teoria economica, le istituzioni comunitarie e le Auto-rità indipendenti di regolazione della concorrenza e dei mercati concordano nel ritenere le gare ad evidenza pubblica uno stru-mento effi cace per attenuare i fenomeni corruttivi e incentivare le condizioni di effi cienza nella fornitura dei servizi pubblici. Il lavoro teorico seminale che ha costituito la giustifi cazione all’uso di questo strumento è quello di H. Demsetz (51) in cui i servizi pubblici vengono privatizzati e la loro fornitura ai cittadini viene assegnata attraverso una gara al ribasso per ottenere la concessio-ne: l’impresa più effi ciente è quella che se l’aggiudica a benefi cio di utenti e collettività. Williamson (52) ha descritto in un famoso saggio le ragioni – identifi cate nei costi di transazione – per cui la gara per l’assegnazione di una concessione di servizio pubblico, se teoricamente è lo strumento migliore, in pratica diffi cilmente riesce a raggiungere condizioni di effi cienza. Il fattore cruciale che mette a rischio gli esiti della gara sono i comportamenti op-portunistici dei suoi partecipanti, che in molti casi sanno sfruttare abilmente i costi di transazione che gravano sul banditore (asim-metrie informative, avversione al rischio e riluttanza da parte della stazione appaltante ad ammettere di aver sbagliato se la fornitura del bene o servizio si rivela ex post carente). Ciò può avvenire anche se non si è in presenza di fenomeni corruttivi espliciti, ma l’esito è sostanzialmente il medesimo (53), la corruzione viene di fatto incentivata. Questo limite non implica, ovviamente, che tut-te le gare ad evidenza pubblica generino risultati negativi, ma solo che le scelte di aggiudicazione debbono sempre valutare e scon-tare la presenza di tali comportamenti, e dunque non è vero che

(51) H. Demsetz, «Why Regulate Utilities?», in Journal of Law and Economics, 1968, vol. 11, 55-66.

(52) Il caso di studio era quello della gara per posa in opera e fornitura del servizio di TV via cavo, di competenza del comune di Oakland, in cui l’impresa che si era aggiudicata la concessione aveva posto in essere tutti gli accorgimenti necessari a vincerla, nascondendo abilmente le debolezze che l’avrebbero por-tata dopo pochi mesi a non rispettare gli impegni assunti, non senza aver prima ottenuto una revisione dei prezzi. O.E. Williamson, «Franchise Bidding for Na-tural Monopolies – In General and with Respect to CATV», in Bell Journal of Economics, vol. 7, no. 1, 73-104, ripubblicato in The Economic Institutions of Capitalism, New York, The Free Press, 1985 (tr. it. Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano, Franco Angeli, 1987.

(53) Tipicamente, rivedere ex-post al rialzo i prezzi defi niti nella gara.

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la fase ex ante (disegno del bando e procedura d’assegnazione) sia l’unica decisiva: conta, e molto, anche quella ex post, in parti-colare l’effi cacia degli strumenti per sanzionare i comportamenti diversi da quelli attesi.

6. Conclusioni: quali indicazioni di politica anticorruzione?Pur senza disporre di un quadro interpretativo unitario anche

perché l’incorporazione di concetti e variabili tradizionalmente non economici nei modelli è piuttosto recente, la teoria econo-mica sulle istituzioni fornisce però alcune interessanti e precise indicazioni di politica anticorruzione, talvolta in contrasto col senso comune.

È diffi cile, in generale, proporre ricette contro la corruzione valide in qualsiasi contesto: le stesse misure risultate effi caci in un determinato Paese possono fallire in un altro, non perché siano sbagliate, ma perché muta il quadro istituzionale, economico e delle relazioni interpersonali fra gli individui. È invece il combina-to disposto di politiche che intervengono su più fattori l’elemento che può risultare vincente. In ogni caso nei Paesi autoritari con defi cit di democrazia sostanziale, misurato dal livello di libertà dei mezzi di comunicazione (54), la corruzione appare più radicata e meno facilmente estirpabile perché l’asimmetria informativa, che ne è alla base, rigenera continuamente gli incentivi a colludere e a corrompere. Qui la strada obbligata è un mutamento del quadro politico-istituzionale.

Nei mercati a corruzione coordinata (55), dove un’autorità cen-trale unica, formalizzata o non (come il partito comunista nei Pae-si dell’Est o la mafi a in Italia), gestisce le attività illecite, aumen-tare le sanzioni invece di rappresentare un deterrente, accresce nella maggior parte dei casi il profi tto dei vertici dell’organizza-zione corrotta. In questo regime o l’organizzazione è parallela e antagonista allo Stato oppure è parte integrante di esso, in questo caso informale ma modellata su quella formale. In entrambi i casi il ripristino della legalità statuale o della democrazia, politica ed

(54) J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit., 30.(55) R. Vishny, A. Shleifer, The Grabbing Hand, cit.

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economica costituisce il presupposto necessario per ridurre la corruzione.

Aumentare le retribuzioni ai funzionari pubblici sembra, in ge-nerale, costituire un effi cace deterrente della corruzione, perché è un incentivo correttamente indirizzato all’agente, che riduce le motivazioni a lasciarsi corrompere. Nei Paesi occidentali questo legame sembra essere accertato, specie se in combinazione con una riforma della pubblica amministrazione che elimina eccessi di concentrazione di potere. Svensson (56) mostra che nella Sve-zia, oggi uno dei Paesi fra i meno corrotti al mondo, nel XVII e XVIII sec. i funzionari pubblici erano mal pagati e il Paese era considerato fra i più corrotti in Europa. Un aumento di retribu-zione dei funzionari pubblici e una effi cace riforma amministrati-va modifi carono poi il quadro.

Contrariamente all’idea, largamente diffusa fra gli economi-sti (57), che la corruzione si riduce all’aumentare della concorren-za esistente nei mercati dove operano le imprese, quest’ultima ap-pare un fattore secondario (58). La ragione è che la concorrenza è necessaria e auspicabile non fra le imprese che domandano favori corrotti, ma fra i funzionari-produttori che si lasciano corrompe-re (59). Maggiore è l’estensione del potere dei burocrati, più facile per loro esigere, o stimolare l’offerta, di tangenti. L’indicazione di politica che emerge su questo punto è dunque di ridurre il grado di monopolio esistente nell’esercizio di una determinata funzione amministrativa, di cui vanno sempre attentamente valutati costi e benefi ci di esclusività nel suo esercizio e, laddove possibile, crea-re forme di concorrenza o comunque di esercizio congiunto di funzioni.

Come il sistema ideale di imposte è quello che distorce meno l’economia, così il sistema ideale di repressione della corruzione è quello che altera meno le scelte degli agenti. È vero che, in diversi

(56) J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit., 32.(57) A. Ades, R. Di Tella, «Rents, Competition, and Corruption», in American

Economic Review, 1999, vol. 89, n. 4, 982-93.(58) J. Svensson, Eight Questions about Corruption, cit., 34.(59) Di Gioacchino, M. Franzini, «Bureaucrats’ Corruption and Competition

in Public Administration», in European Journal of Law and Economics, 2008, no. 26, 291-306.

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casi, la regolamentazione delle imprese viene attivata al solo sco-po di estrarre tangenti (60), ma lo scenario alternativo, quello di una società interamente deregolamentata, presenta ugualmente elevati costi sociali per tutti i numerosi casi in cui il mercato falli-sce. Qui la regolamentazione, per quanto a rischio di corruzione e «cattura», è comunque il minore dei mali.

(60) «Il risultato del controllo politico delle imprese privatizzate è un grande proliferare di corruzione in Paesi come l’Italia o le Filippine, dove le imprese private o privatizzate pagano un enorme ammontare di tangenti ai politici che le controllano tramite appropriate regolamentazioni»: A. Shleifer, R. Vishny, «Po-liticians and Firms», in The Grabbing Hand. Government Pathologies and their Cures, cit., cap. 9, 151-182.

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(1) Sui principi costituzionali dell’amministrazione pubblica a titolo meramente orientativo si v. M. Nigro, «La pubblica amministrazione fra costituzione formale e costituzione materiale», in Studi Bachelet, 1987, e in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1985, 162; U. Allegretti, «Pubblica amministrazione e ordina-mento democratico», in Foro italiano, 1984, V, 205; Id., «Imparzialità e buon an-damento della pubblica amministrazione», in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1993, VIII, 131; G. Berti, «Amministrazione e Costituzione», in Diritto amministrativo, 1993, 455; C. Pinelli, «Commento agli artt. 97 e 98», in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione, Roma-Bologna, 1994.

Vincenzo Cerulli Irelli

ETICA PUBBLICA E DISCIPLINADELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE

1. Premessa: l’«etica pubblica» e la questione della corruzioneLa Costituzione enuncia puntuali principi in ordine all’esercizio

delle pubbliche funzioni, segnatamente sul versante dell’ammini-strazione. L’art. 54, mentre, al 1° co. imputa a tutti i cittadini il dovere, peraltro elementare in ogni consociazione, di essere fedeli alla Repubblica e osservarne la Costituzione e le leggi, al 2° co., con riferimento ai «cittadini cui sono affi date funzioni pubbliche», stabilisce il più pregnante dovere «di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».

L’art. 97, com’è ben noto, prevede che la legge debba assicu-rare il buon andamento, e segnatamente l’imparzialità dell’ammi-nistrazione. E l’art. 98 afferma che i pubblici impiegati «sono al servizio esclusivo della Nazione».

Si tratta di principi che si riferiscono in genere ai pubblici agen-ti, cioè a coloro cui è imputato l’esercizio di funzioni pubbliche e segnatamente le funzioni di amministrazione (alle quali diretta-mente ci riferiamo) (1). Pubblici agenti come titolari di organi e di uffi ci, che possono essere sia a titolarità politica che a titolarità professionale. Uffi ci politici e uffi ci burocratici si alternano infatti nell’esercizio dell’amministrazione sia pure con competenze e re-sponsabilità diverse, come subito si vedrà.

Ciò pone immediatamente il problema dei diffi cili rapporti tra politica e amministrazione, problema centrale nella tematica del-l’etica pubblica, che si accentua in un sistema istituzionale come

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il nostro, nel quale il principio democratico è attuato, nella sua pie-nezza si direbbe, attraverso l’affermazione dell’autonomia costitu-zionalmente garantita degli enti del governo territoriale (Regioni, Province e Comuni), enti di emanazione diretta delle rispettive col-lettività territoriali di riferimento e governati da organi a titolarità politica. Enti, cui, d’altra parte, l’articolo 118 della Costituzione, conferisce in via di principio e per regola la titolarità delle funzioni amministrative. In questo contesto, nonostante i principi di sepa-razione (o distinzione) tra politica e amministrazione introdotti nel nostro ordinamento (di cui subito infra), la commistione tra funzio-ni pubbliche e funzioni amministrative (e tra i rispettivi organi) ren-de più problematica l’affermazione dei principi dell’etica pubblica.

L’etica pubblica (espressione questa il cui sostantivo non ha se non una lontana parentela con l’etica come scienza fi losofi ca) si può correttamente defi nire proprio attraverso le formule usa-te dalla Costituzione, assai più pregnanti, si direbbe, di quelle correntemente riscontrabili in dottrina: l’agire, cioè, da parte di ogni pubblico agente nell’esercizio delle funzioni che gli sono af-fi date, con disciplina ed onore, con imparzialità nei confronti del pubblico e attraverso un’azione che nel suo complesso si pone a servizio esclusivo della Nazione, cioè della collettività medesi-ma. L’etica pubblica (o etica nel servizio pubblico, secondo altra dizione) è defi nita come l’insieme dei principi e delle norme di comportamento corretto in seno all’amministrazione pubblica (per citare una defi nizione corrente); ciò che la Costituzione tra-duce nei principi ben più incisivi che si sono ricordati (2).

Il comportamento corretto dei pubblici agenti deve essere in-teso (e questo è un altro punto preliminare nella nostra tematica) come quello da osservarsi sia nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza (elemento questo che accomuna i pubblici agenti a ogni operatore nell’ambito di aziende e società private), sia nei

(2) Sull’etica pubblica, si v. B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà. Etica, po-litica, amministrazione, Bologna, 2007; S. Cassese, B.G. Mattarella, Democrazia e cariche pubbliche, Bologna, 1996; S. Cassese, «L’etica pubblica», in Giornale di diritto amministrativo, 2003, 1097; S. Cassese, «Maladministration», in Foro italiano, 1992, V, 243; S. Cassese, Lo Stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Roma, 1998; N. Bobbio, «La democrazia e il potere in-visibile», in Rivista italiana di scienza politica, 1980, 181.

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confronti del pubblico, cioè della collettività servita, alla quale i pubblici agenti sono legati da un diretto rapporto di servizio, si direbbe, contrappuntato da specifi ci doveri, che non si rinviene nell’ambito delle attività prestate nel settore privato.

L’etica pubblica defi nisce il corretto agire dei pubblici agenti al servizio della collettività, in tutta la sua pienezza, dal rispetto della legge sino alla soddisfazione ultima degli interessi protetti, delle giu-ste aspirazioni dei cittadini utenti, nel rispetto della loro dignità.

A fronte dei principi dell’etica pubblica, si pone la problematica della corruzione, che può essere predicata di un sistema di gover-no nel suo complesso (e nell’ambito di questo, del sistema ammi-nistrativo, del sistema giudiziario, ecc.) come qualifi cazione che si riferisce al funzionamento del sistema come tale, e nelle sue diverse articolazioni, nei confronti dei cittadini, degli amministrati, degli utenti, al cui servizio il sistema è rivolto; laddove esso opera pre-valentemente o nella gran parte dei casi, nell’interesse dei propri agenti, che per acquistare vantaggi e benefi ci in proprio, servono gli interessi di coloro che codesti benefi ci e vantaggi promettono ed erogano, anziché interessi della collettività («La funzione pub-blica viene svolta non nell’interesse pubblico, ma nell’interesse di privati, per assicurare loro guadagno»: Cassese). Ma la stessa qualifi cazione può essere predicata di singoli operatori ed agenti a fronte di specifi ci fatti, in genere sanzionati come reati.

Come si vede, si tratta di una problematica diversa, e in qual-che modo più ristretta rispetto a quella dell’etica pubblica; ché da una parte i fenomeni di corruzione sicuramente confl iggono con principi dell’etica pubblica (e perciò laddove c’è corruzione non c’è etica pubblica), ma, d’altra parte, apparati anche non corrotti, possono ciò nondimeno nel loro concreto funzionamento, e an-che nel comportamento dei singoli agenti, non rispondere nella loro azione ai principi dell’etica pubblica (3).

(3) Sulla corruzione, si v. G. Melis (a cura di), Etica pubblica e amministrazione. Per una storia della corruzione nell’Italia contemporanea, Napoli, 1999; F. Cazzola, «Corruzione», in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1992, 481; M. D’Alberti, R. Finocchiaro (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Bologna, 1994; D. Della Porta, A. Vannucci, Mani impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Bari, 2007.

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2. Per una «politica» dell’etica pubblicaIl problema dell’etica pubblica si pone, come problema di poli-

tica legislativa, a fronte dei fenomeni di cattivo e distorto servizio reso dall’amministrazione al pubblico (sino a quelli di corruzione vera e propria), al fi ne di individuare strumenti per rimediare al verifi carsi di codesti fenomeni, o almeno per ridurne l’impatto sul funzionamento del sistema di governo e segnatamente dell’am-ministrazione, attività concreta al servizio della collettività, che si svolge mediante rapporti con singoli soggetti portatori di interessi protetti; attività perciò più esposta rispetto alle altre funzioni di governo, alle cause che danno vita a codesti fenomeni. La cattiva amministrazione (c.d. maladministration) (4) si evidenzia, appun-to, nella massima patologia data dai fatti (singoli) di corruzione e di malversazione (che hanno rilievo penale); ma non si esaurisce in essi, ché involge tutta una serie di fenomeni che vanno dai ri-tardi nell’espletamento delle pratiche, alla scarsa attenzione alle domande dei cittadini, al mancato rispetto degli orari di lavoro, fi no alle stesse modalità di trattare le persone senza il dovuto ri-spetto e la necessaria gentilezza.

Il fenomeno, soltanto in piccola parte, riveste rilievo penale e per la gran parte attiene all’esigenza di buon andamento dell’am-ministrazione nel suo complesso e alla correttezza dei rapporti tra amministrazione e cittadini, esigenza fondamentale di funziona-mento dello Stato democratico.

Occorre sottolineare, su questo punto, che nello Stato demo-cratico il cittadino è presente nella cosa pubblica non solo at-traverso la partecipazione alla vita politica e attraverso il mecca-nismo della rappresentanza, ma anche (e soprattutto si direbbe) attraverso una sua attiva presenza nell’ambito dell’amministrazio-ne (che attiene alla vita quotidiana, ai problemi di ogni giorno). La c.d. demarchia (Benvenuti) rappresenta una forma più com-piuta di democrazia, che investe appunto, al di là della politica, il funzionamento dell’amministrazione (5).

Defi niamo politica dell’etica pubblica, l’insieme delle misure

(4) S. Cassese, «Maladministration», cit.(5) F. Benvenuti, Il nuovo cittadino. Tra libertà garantita e libertà attiva, Pado-

va, 1994; V. Cerulli Irelli, «I principi ispiratori della riforma amministrativa. Per un’amministrazione al servizio dei cittadini», in Aggior. sociali, 11/1998.

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e degli interventi (di carattere legislativo, ma anche consistenti di operazioni organizzative interne alle singole Amministrazioni, nonché operazioni di carattere formativo e culturale riferito alle diverse categorie di pubblici agenti) intesi a ottenere da parte dei pubblici agenti modalità di azione e comportamenti conformi ai principi dell’etica pubblica.

Le aree di intervento della politica dell’etica pubblica sono mol-teplici, e, si può dire, investono tutte le discipline dell’amministra-zione, sia sul versante dell’organizzazione (e non si dimentichi che la Costituzione impone al legislatore di organizzare i pubblici uffi ci, in modo da assicurarne il buon andamento, oltre che l’imparzialità dell’azione, formule nelle quali i principi dell’etica pubblica sono tutti contenuti); sia sul versante dell’attività (la cui conformità ai principi dell’etica pubblica deve essere, a sua volta, assicurata con adeguate norme, delle quali dev’essere controllato il rispetto nelle manifestazioni concrete). Ma emerge segnatamente sul versante soggettivo (cioè con riferimento a coloro che nell’ambito dell’am-ministrazione concretamente operano, i pubblici agenti) per ciò che attiene ai rapporti tra sfera privata (dei pubblici agenti stessi) e sfera pubblica (delle funzioni da essi esercitate nell’interesse del pubblico); nonché ai rapporti tra politica e amministrazione (cioè tra i pubblici agenti che operano nell’amministrazione, e perciò sono tenuti ad agire con obiettività e imparzialità al servizio del pubblico, in conformità alle norme del diritto obiettivo, e le or-ganizzazioni politiche, i partiti, e i loro singoli esponenti, la cui infl uenza tende alla soddisfazione di interessi di parte).

Entrambe queste aree possono essere considerate rischiose. Esse costituiscono il nucleo problematico dei rapporti (che possono dive-nire viziosi) dal quale scaturiscono i fenomeni di maladministration.

E la politica dell’etica pubblica è intesa appunto a prevenire questi fenomeni, operando attraverso opportune misure. Si tratta di un approccio del tutto diverso da quello penalistico (e anche, a livello inferiore, di quello disciplinare) inteso a reprimere i fatti una volta avvenuti (nei limiti in cui presentano un rilievo penale, ovvero disciplinare, limiti assai più ristretti di quelli nei quali si riscontra il fenomeno della cattiva amministrazione).

Il compito di colpire la corruzione è stato delegato alla magi-

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stratura, è all’applicazione del diritto penale come se non vi fosse il diritto amministrativo, nato storicamente per tutelare l’azione del-l’amministrazione pubblica» (Gustapane) (6).

Gli strumenti della politica dell’etica pubblica da utilizzare con specifi co riferimento alle due aree di intervento che abbiamo in-dicato, sono molteplici.

Preliminarmente si pone un problema di riordino normativo, o semplifi cazione normativa nel settore della pubblica amministra-zione. Da molto tempo si parla della politica della semplifi cazione normativa e passi avanti nella materia sicuramente sono stati fatti (dalla legge 241 del 1990, alle leggi Bassanini, sino ai più recenti provvedimenti sulla competitività) ma siamo ancora molto indie-tro e ci troviamo ancora di fronte, in molteplici manifestazioni dell’azione amministrativa, a delle normazioni estremamente per-vasive, in molti casi inutili, spesso sovrapposte e intricate tra i diversi livelli di fonti.

Il fenomeno si è amplifi cato anche per effetto del decentramen-to politico e amministrativo che ha caratterizzato il nostro ordi-namento negli ultimi decenni. Il trasferimento di importanti fun-zioni amministrative ai livelli di governo regionale e locale spesso non è stato accompagnato da una corrispondente soppressione di funzioni e compiti imputati agli altri livelli di governo dando luo-go perciò ad un aggravio del carico normativo. La pervasività del-la normazione, come ben sappiamo, non solo si pone in contrasto con il principio del buon andamento che si articola nel principio di economicità (e il conseguente principio di non aggravamento: art. 1, l. 241/90) ma opera anche come fattore di arbitrio da parte dei pubblici agenti e spesso di corruzione. L’intrico delle norme rende meno trasparente l’azione amministrativa per il cittadino, rende più facile mascherare dietro presunte diffi coltà normative volontà di non procedere se non a fronte di adeguati «ritorni».

Come condizione preliminare al fi ne di impostare correttamen-te una effi cace politica dell’etica pubblica, si pone quella di assi-curare, attraverso opportuni interventi normativi e contrattuali,

(6) E. Gustapane, «Per una storia della corruzione nell’Italia contempora-nea», in G. Melis (a cura di), Etica pubblica e amministrazione, cit., 27.

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trattamenti economici (direi anche, misure idonee ad assicurare uno status sociale adeguato alle funzioni svolte), in capo a funzio-nari e dirigenti, che siano competitivi con il settore privato ed ef-fettivamente relazionati alla maggiore o minore importanza delle funzioni svolte e alle conseguenti responsabilità. L’appiattimento salariale (e vorrei aggiungere, sociale) che caratterizza l’attuale assetto del pubblico impiego, non favorisce comportamenti dei pubblici funzionari orientati ai principi dell’etica pubblica.

In sostanza, si pone l’esigenza di rivedere lo statuto del pub-blico impiego, sia quanto alla disciplina delle retribuzioni che a quella delle carriere. Ma non è da trascurare l’organizzazione di luoghi di lavoro nonché gli aspetti di prestigio sociale che alle posizioni lavorative nell’ambito della pubblica amministrazione possono essere connessi.

Sul punto, si pone il problema di superare l’attuale situazione di disagio nella quale il pubblico impiegato spesso si trova, ab-bandonato, secondo la nota affermazione di Mosta, «all’arbitrio e al favoritismo dei politicanti» (7). Retribuzioni connesse in manie-ra diretta al merito delle prestazioni comportano l’introduzione di sistemi di valutazione del rendimento dei singoli dipendenti e segnatamente dei dirigenti, circa il raggiungimento dei risultati, l’attuazione dei programmi, i tempi di lavorazione, e così via, che, nonostante le numerose previsioni legislative, è di fatto del tutto carente. E un meccanismo di valutazione serio e imparziale, con-sente anche, ovviamente, la corretta articolazione delle carriere e il conferimento degli incarichi, sottratti appunto, all’arbitrio e al fa-voritismo. Un corretto sistema di valutazione consente di applicare opportuni incentivi alla produttività connessi ai risultati raggiunti.

Occorre stabilire una disciplina delle incompatibilità e delle astensioni suffi cientemente credibile; e affrontare anche il nodo dell’iscrizione ai partiti politici e più in generale della partecipa-zione all’attività politica, che nell’esperienza più recente si va dif-fondendo, con non poche conseguenze negative in ordine all’im-parzialità dell’amministrazione.

(7) V. cit., insieme ad altri utili riferimenti, da B.G. Mattarella, Le regole del-l’onestà, cit., 32 ss.

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3. Le regole per il corretto esercizio della funzione amministrativaIl complesso delle attività nelle quali si svolge la funzione am-

ministrativa, attività di carattere giuridico e di carattere materiale (operazioni) sono attività, com’è noto, non libere (cioè poste in essere nell’interesse dei soggetti agenti nel loro ambito di autono-mia decisionale), ma sono attività fi nalizzate alla cura di interessi della collettività. Ciò comporta una serie di principi e di criteri di azione elaborati, com’è noto, nel corso dell’esperienza formativa del diritto amministrativo negli ultimi due secoli.

Lo strumento tecnico dell’esercizio del potere, all’origine con-cepito per i casi nei quali l’azione amministrativa necessita del-l’esercizio dell’autorità (produzione di effetti nella sfera sogget-tiva di terzi a prescindere dal loro consenso) è divenuto via via strumento tecnico per l’esercizio di tutta l’azione amministrativa; in quanto, appunto, confi gurato come modulo d’azione caratte-rizzato da principi e criteri, che ne assicurano la fi nalizzazione alla cura degli interessi della collettività, nonché dei singoli portatori di interessi qualifi cati e garantiti dalla legge, ai quali allo stesso tempo viene assicurata piena tutela giurisdizionale.

Non c’è dubbio che ai fi ni di garantire un funzionamento com-ples sivo del sistema, nonché delle sue singole manifestazioni orien-tato ai principi dell’etica pubblica, requisito primario, di per sé non suffi ciente, ma in ogni caso necessario, è quello che l’azione amministrativa avvenga legittimamente, e cioè sulla base di quei principi e criteri. Non suffi ciente perché, come s’è accennato, i principi dell’etica pubblica vanno al di là della garanzia della le-gittimità dell’azione. Un’azione amministrativa in concreto può svolgersi legittimamente sul piano formale, ma ciò nondimeno senza un adeguato rispetto dei principi dell’etica pubblica. E così, il ritardo nei tempi dell’azione, un cattivo e non leale rapporto con gli interlocutori e con gli utenti, una non suffi ciente chiarezza delle motivazioni, e così via, sono fattori che possono non tradursi in illegittimità dell’azione, ma, ciò nondimeno, violare i principi dell’etica pubblica.

Possiamo perciò dire che il requisito della legittimità dell’azio-ne, è il requisito minimo per assicurare il rispetto dei principi del-l’etica pubblica, senza il quale siamo del tutto al di fuori da detto ambito; ma pur in presenza di detto requisito ci si può trovare di

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fronte a un andamento complessivo dell’amministrazione, o sin-golare, con riferimento a singoli comportamento, non conforme, o non del tutto conforme a detti principi.

Ad ogni modo, la legittimità è necessaria. Ed essa consiste fon-damentalmente in due requisiti che ogni manifestazione dell’azio-ne amministrativa deve possedere. Vorrei aggiungere, sia laddove essa si svolge secondo il modulo (ormai divenuto tipico) dell’eser-cizio del potere, sia laddove si svolge secondo moduli di diritto co-mune, che, applicati nell’ambito dell’amministrazione, diventano soggetti a regole derogatorie rispetto al diritto comune (si pensi ai procedimenti di aggiudicazione nella contrattualistica pubblica). Ciò sulla base del principio, fondamentale nell’organizzazione dello Stato democratico, che l’amministrazione, sempre e senza eccezioni, opera al servizio della collettività (e perciò non opera mai in una situazione di libertà intesa in senso proprio).

I due requisiti sono ben noti.Da una parte l’amministrazione deve rispettare la legge (il prin-

cipio di legalità inteso in senso stretto); dove per legge intendia-mo non la legge in senso formale ma l’ordinamento giuridico nel suo complesso composto di tutte le norme vigenti (il diritto og-gettivo), qualunque sia la fonte delle stesse. E ancora, il rispetto delle norme, che sono norme di diritto pubblico, è da intendere nel senso che tutte quelle vigenti (principi generali, norme gene-rali, norme puntuali) debbono essere specifi camente rispettate e non possono essere derogate a pena di illegittimità dell’azione. In diritto pubblico, tutte le norme sono cogenti, a differenza che in diritto privato. Ciò dà luogo, com’è noto, a un’estensione assai maggiore dell’area dell’illegittimità.

Sul punto, vi sono alcune eccezioni, nell’ordinamento positi-vo, laddove si tratta di violazioni di norme a carattere meramente formale che di per se stesse non abbiano dato luogo all’adozione di atti difformi, nella sostanza del loro contenuto, a quanto pre-scritto dalla normativa (art. 21-octies, l. n. 241/90).

Il secondo requisito è più incisivo, ed è propriamente il frutto, come è noto, dell’elaborazione scientifi ca e giurisprudenziale del-l’ultimo secolo o poco più, fondamentalmente per opera del Con-siglio di Stato (ché l’esigenza del rispetto delle norme in quanto tali, era predicabile anche nell’esperienza anteriore).

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Non è suffi ciente il rispetto delle norme per assicurare la legitti-mità dell’azione amministrativa. Occorre che, al di là del rispetto delle norme, le scelte in concreto adottate dall’amministrazione siano fi nalizzate alla cura degli interessi specifi camente ad essa attribuiti: interessi che in una realtà complessa come la nostra sono spesso plurimi, a volte tra loro confl iggenti, di diversa matri-ce, pubblica, collettiva, privata. Tra essi occorre una mediazione per poter arrivare a delle scelte, a delle decisioni concrete. Una mediazione che deve essere compiuta secondo criteri di ragio-nevolezza, senza privilegiare ingiustifi catamente un interesse nei confronti di altri, attraverso una adeguata e completa conoscenza della situazione di fatto nella quale si va ad incidere e in ordine alla quale tutti gli interessi coinvolti debbono essere acquisiti ed attentamente valutati. Ogni scelta deve essere ancorata a specifi ci motivi che debbono essere resi pubblici così da consentirne dal-l’esterno il sindacato e il controllo.

Questi criteri di azione (nei quali si traduce, com’è noto, la dottrina della discrezionalità amministrativa che si differenzia profondamente dalla libertà o autonomia privata) trovano la loro base costituzionale nel principio di imparzialità che tutti li riassu-me. Infatti, una azione imparziale non può che essere ragionevole, ancorata a dati correttamente acquisiti, non arbitraria, fi nalizzata a servire gli interessi della collettività; e così via.

Il principio di imparzialità accompagna quello di buon anda-mento e in parte con esso coincide (azione amministrativa impar-ziale è requisito indispensabile di buon andamento). Ma quest’ul-timo si compone di ulteriori requisiti di azione, perché impone il rispetto del principio di economicità che attiene fondamental-mente ai risultati dell’azione amministrativa (ottenere i miglio-ri risultati possibili con minore dispendio di mezzi e di tempi), quello di sana gestione fi nanziaria che impone ad ogni soggetto pubblico il rispetto dei vincoli di bilancio oggi resi più stringenti dall’esigenza del patto di stabilità; e ancora (e qui ci avviciniamo ai principi dell’etica pubblica) sempre con riguardo ai risultati, la migliore soddisfazione degli amministrati e degli utenti. Possiamo perciò affermare che mentre il principio di imparzialità attiene propriamente e strettamente alla legittimità dell’azione ammini-strativa (come quello di legalità che ne è il presupposto), il princi-

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pio di buon andamento attiene piuttosto al funzionamento com-plessivo del sistema amministrativo e ai risultati che esso produce nell’interesse della collettività.

I principi dell’azione amministrativa intesi nel loro complesso come regole di corretta amministrazione, al di là della mera legalità (che pure resta requisito minimo indispensabile), portati alle loro proprie conseguenze, possono coincidere, o tendono a coincidere con i principi dell’etica pubblica, che tuttavia conservano sempre un qualcosa di più laddove investono più direttamente, vorrei dire più affettuosamente (Allegretti parla di amministrazione «affettuo-sa») il rapporto con i singoli cittadini, con i loro specifi ci problemi e le diffi coltà della vita quotidiana; e attengono ancora al concreto funzionamento dei servizi (treni e autobus in orario e non troppo affollati, raccolta della nettezza urbana ad orari decenti, e così via) che spesso non sono investiti dalle regole giuridiche attinenti l’eser-cizio dell’amministrazione (sono enunciati, spesso solo enunciati, nelle carte dei servizi, di cui non è assicurato, attraverso adeguati strumenti di tutela, l’adempimento nell’interesse degli utenti) (8).

In primo luogo, la politica dell’etica pubblica deve dotarsi di strumenti capaci di assicurare, sul piano sostanziale, il rispetto dei principi dell’azione amministrativa, non solo formalmente inte-si, ma guardando al funzionamento complessivo del sistema, dal punto di vista degli utenti.

4. Il distorto rapporto dell’amministrazione con la politicaFondamentale nell’affrontare i temi dell’etica pubblica è, come

s’accennava, la questione (rilevante anche a tanti altri fi ni, anzi centrale nel diritto amministrativo moderno) del rapporto del-l’amministrazione con la politica.

Sul punto, occorre tener presente che nel nostro tipo di Stato,

(8) Si veda ora il d.lgs. n. 198 del 20.12.2009 recante disposizioni in materia di ricorso per l’effi cienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubbli-ci. Si v. anche la delibera n. 1 del 13.1.2010 della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, che, per gli standard temporali, qualitativi ed economici dei servizi pubblici, rinvia «a) alle previsioni di termini fi ssati da leggi o regolamenti; b) alle carte dei servizi esistenti, e agli even-tuali ulteriori provvedimenti in materia adottati dalle singole amministrazioni», nelle more dell’adozione delle Linee guida per la defi nizione degli standard di qualità (adottate ora con Delibera della Commissione del 24 giugno 2010 n. 88).

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retto dal principio democratico, le funzioni di governo della col-lettività sono in principio attribuiti ad organi che direttamente o indirettamente sono esponenziali della collettività stessa, designa-ti attraverso procedimenti elettorali. E le funzioni di governo si snodano secondo azioni concrete, «stipulate» nei loro contenuti fondamentali, con l’elettorato.

E nell’ambito degli apparati di governo, gli organi politici, ca-ratterizzati dal loro essere direttamente esponenziali della collet-tività e chiamati a rispondere ad essa del loro operato, sono posti al vertice del sistema. Ma ciascuna organizzazione di governo è composta da una serie (più o meno cospicua a seconda delle di-mensioni dell’ente e della vastità dei suoi compiti) di uffi ci ed organi cui sono preposti funzionari prescelti per le loro capacità tecnico-professionali e legati all’ente da un rapporto di lavoro sta-bile (personale burocratico-professionale, uffi ci burocratico-pro-fessionale). Quel personale, cui sopra s’accennava, che opera al «servizio della Nazione», pur essendo composto di semplici lavo-ratori dipendenti dislocati ai diversi livelli dell’organizzazione.

Negli ordinamenti moderni, la gran parte delle funzioni di amministrazione è attribuita a questi uffi ci ed organi a carattere tecnico professionale (quelli cui l’art. 97 della Costituzione rico-nosce una sfera propria di attribuzioni e di responsabilità).

Tuttavia, funzioni amministrative sono svolte da organi politici, e l’amministrazione nel suo complesso come funzione di governo della collettività non può certo essere avulsa dalle responsabilità della politica.

Si pone perciò su questo punto, una diffi cile questione che concerne i rapporti tra le due sfere, quella della politica e quella dell’amministrazione, le quali sono strutturalmente differenziate quanto al loro stesso essere, ma allo stesso tempo sono unite da un indissolubile legame. La politica è di parte, è parziale, è attività che si concretizza in organizzazioni quali i partiti che esprimono desideri, orientamenti, ideologie, di una parte della collettività (dell’elettorato), contrapposte a quelle che esprimono altre par-ti spesso contrapposte in maniera vivace, a volte esasperata. E perciò i programmi di azione, quelli che poi si concretizzano nel-l’azione di governo sono programmi condivisi da una parte della collettività e combattuti da altra parte.

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Mentre l’amministrazione per sua natura, come si è detto, è imparziale, è chiamata a servire oggettivamente gli interessi del-la collettività senza preferenza per alcuno inteso come singolo o come parte sociale.

Nei casi di maladministration, si verifi ca proprio questo fenomeno, che l’amministrazione, l’esercizio del potere amministrativo, come esattamente notato da Cassese, «non viene più percepito come un potere impersonale e neutrale, bensì come strumento di parte» (9).

Da ciò il diffi cile dilemma. Vi sono azioni di governo, come l’in-dirizzo o la legislazione che indubbiamente attengono alla sfera della politica. Attraverso di esse la parte politica vincente stabilisce i valori sociali come obbligatori per tutta la collettività attraverso la loro traduzione in norme giuridiche. Ma queste norme poi deb-bono tradursi in azione concreta e qui opera l’amministrazione: nell’azione concreta l’amministrazione, applicando le norme che pure sono frutto di posizioni di parte, deve tradurle in rapporti e atti giuridici concreti caratterizzati nel modo che si è detto, fonda-mentalmente dai principi che ruotano intorno all’imparzialità.

Tutto ciò impone la separazione o distinzione delle due sfere dell’azione di governo. La politica non può in quanto tale inve-stire l’amministrazione. Ma d’altro canto, questa distinzione o separazione non può essere, in principio, netta e assoluta (come viceversa avviene a proposito della giurisdizione). Perché la poli-tica (e perciò gli organi politici) è sempre responsabile di fronte alla collettività dell’andamento di tutta l’azione di governo (e per-ciò anche dell’amministrazione); segnatamente in un tipo di Stato quale il nostro, dove il principio democratico, come si accennava, si articola in un accentuato pluralismo istituzionale in virtù del quale si confi gurano come enti politici (direttamente rappresenta-tivi della rispettiva collettività alla quale rispondono per l’azione di governo complessivamente intesa) organizzazioni, come quelle locali, deputate essenzialmente alle funzioni di amministrazione. Perciò, anche laddove il principio della separazione o distinzione tra le due sfere vuole essere accentuato (come per certi aspetti nel vigente ordinamento) non può mai mancare un collegamento tra le due sfere. Detto collegamento, non può non tradursi nell’im-

(9) S. Cassese, «Maladministration», cit.

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putazione in capo agli organi politici di responsabilità e poteri (di diversa estensione e intensità) che si possono riassumere nella formula della direzione politica dell’amministrazione.

Sul punto, occorre tener presente che nella nostra Costituzione, emergono concezioni anche contraddittorie dei rapporti tra politi-ca e amministrazione; ché da una parte in essa si ribadisce il princi-pio proprio dello Stato parlamentare alle sue origini, che il Gover-no nel suo complesso e i ministri singolarmente sono responsabili dell’amministrazione di rispettiva competenza, anche nei singoli atti (art. 95); ciò che presuppone la titolarità di singoli poteri am-ministrativi nonché di strumenti, di direzione politica appunto, tali da consentire loro di rispondere per le funzioni esercitate dal com-plesso degli uffi ci. D’altra parte, secondo i fondamentali principi di cui all’articolo 97, l’amministrazione è concepita come una sfera di azione oggettiva affi data a specifi ci uffi ci dotati di competenza e responsabilità proprie che operano nell’ambito delle disposizioni di legge al servizio della Nazione. Un’amministrazione autocefala, si potrebbe dire, come suggeriva Nigro (10).

Questa contraddizione, almeno apparente, è stata di recente risolta attraverso l’applicazione del principio (cosiddetto) di se-parazione (ma meglio sarebbe dire di distinzione) della politica dall’amministrazione; che si è tradotto, appunto, nella distinzione di due sfere dell’azione amministrativa, quella della programma-zione dell’indirizzo e del controllo affi data agli organi politici, e quella della gestione amministrativa che avviene attraverso atti puntuali, affi data agli uffi ci e agli organi professionali.

Si badi bene, si tratta sempre, in entrambe le sfere, di atti espres-sione della funzione amministrativa (non di atti politici) e perciò comunque soggetti ai principi di cui sopra s’è detto. Tuttavia, s’è ritenuto che una possibile distorsione che la titolarità diretta di funzioni amministrative in capo agli organi politici (derivanti dal loro essere portati a posizioni di parte) potesse essere evitata, at-tribuendo loro quelle funzioni che per il loro contenuto generale e non puntuale e perciò meno coinvolto dalla cura di interessi particolari, meno possono incidere nel principio di imparziali-

(10) M. Nigro, La pubblica amministrazione fra Costituzione formale e Costi-tuzione materiale, cit.

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tà. Lasciando perciò alla responsabilità degli uffi ci professionali la gestione amministrativa puntuale, nella quale indubbiamente l’esigenza di uno stringente rispetto del principio di imparzialità si fa più pregnante.

Questa impostazione, in se stessa, appare sicuramente con-forme alle esigenze di una corretta politica dell’etica pubblica. Abbiamo visto infatti che proprio il distorto rapporto dell’ammi-nistrazione con la politica costituisce una delle cause principali, ovviamente non la sola, del funzionamento dell’amministrazione in difformità dei principi dell’etica pubblica. Staccare perciò la gestione amministrativa dall’infl uenza diretta della politica (salvo il corretto esercizio degli atti di programmazione e di indirizzo) rappresenta perciò un passo avanti signifi cativo di una effi cace politica dell’etica pubblica.

Tuttavia, l’affermazione del predetto principio e una sua appli-cazione puramente formalistica (cioè mediante la mera imputazio-ne differenziata delle funzioni rispettivamente agli organi politici e agli uffi ci professionali) certamente non basta. Anzi, possiamo dire che, per le ragioni che subito si mostrano, essa sta dando luogo a risultati contrari alle attese, proprio con riferimento ai principi dell’etica pubblica.

Infatti, perché il predetto principio possa funzionare in que-sta prospettiva, occorrono alcuni ulteriori requisiti che il vigente ordinamento non assicura, anzi, in qualche modo contraddice; e occorre altresì che la classe politica acquisisca essa stessa, nei concreti comportamenti, perciò al di là di quanto dispongono le norme, la convinzione che per il corretto funzionamento del siste-ma, essa a sua volta deve attenersi a principi di azione (che a loro volta sono principi dell’etica pubblica) nei confronti degli uffi ci professionali e dei loro agenti, tali da garantirne, nell’ambito della loro responsabilità, l’imparzialità dell’azione.

Anzitutto, la distinzione tra le due sfere di azione dev’essere rispettata, a partire da quella propria della politica. L’esigenza di un corretto esercizio della funzione di programmazione e di indi-rizzo affi data agli organi politici e rivolta agli uffi ci professionali, si deve tradurre nell’individuazione precisa degli obiettivi di azio-ne, dei tempi di realizzazione di questi obiettivi, dei mezzi dispo-nibili, nonché, ove necessario, dei criteri di massima da seguire

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nell’ambito dei procedimenti di amministrazione puntuale. Il tut-to deve essere esplicitato in atti resi pubblici, anche all’utenza, e mantenuti fermi per un tempo ragionevolmente lungo, tale da as-sicurare un’adeguata azione amministrativa da parte degli uffi ci. Gli atti di programmazione e di indirizzo non dovrebbero essere modifi cati se non a fronte di particolari e motivate esigenze. La direzione politica dell’amministrazione deve avvenire esclusiva-mente attraverso tali atti. E d’altra parte, solo con riferimento ad atti di questo tipo può poi valutarsi l’attività degli uffi ci ammini-strativi in sede di controllo.

Ciò comporta che al di là dell’adozione degli atti di indirizzo, non possa verifi carsi alcuna azione di infl uenza politica sulle sin-gole manifestazioni della gestione amministrativa, attraverso indi-cazioni puntuali, a maggior ragione se a carattere informale.

Nella realtà, queste regole, che non sono altro che la diretta applicazione del principio della separazione o distinzione sopra indicato, vengono costantemente ignorate e normalmente violate. Gli organi politici stentano ad adottare atti di indirizzo dotati dei caratteri sopra indicati. Il perché (a parte incapacità e indolenze di vario tipo) è molto chiaro: la formalizzazione dell’indirizzo in atti pubblici, completi di tutti gli elementi sopra indicati, costanti nel tempo, lega l’azione degli organi politici, ne limita la mano-vra sul complesso dell’amministrazione; e la conseguenza è che in luogo di codesti atti, che quando ci sono, sono estremamente generici perciò poco vincolanti, la direzione politica dell’ammi-nistrazione diventa infl uenza puntuale su singoli atti, su singole decisioni; infl uenza spesso del tutto informale, orale, telefonica, o in altre poco commendevoli forme. Ciò è, appunto, conseguenza, sul piano formale, di una violazione dell’obbligo di adottare spe-cifi ci atti di indirizzo, e sul piano sostanziale, della violazione da parte della classe politica delle regole dell’etica pubblica che ad essa impongono di non infl uenzare in concreto l’opera dell’am-ministrazione; cioè a fronte di situazioni concrete, dove il favorire o il sacrifi care l’uno o l’altro degli interessi in gioco, collegati al-l’una o all’altra parte politica, infrange con violenza il principio di imparzialità.

La seconda serie di questioni che rende non valido ai fi ni del-l’etica pubblica il principio della separazione come da noi appli-

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cato, riguarda la disciplina delle nomine dei funzionari agli uffi ci amministrativi.

Indubbiamente, il conferimento ai funzionari professionali degli incarichi di direzione almeno dei principali uffi ci ammini-strativi, sembra essere prerogativa propria degli organi politici (scegliere i migliori funzionari affi nché sia assicurato il buon anda-mento dell’amministrazione, ciò di cui la politica deve rispondere davanti alla collettività). E, d’altra parte, sembra spettare altresì alla responsabilità degli organi politici la valutazione dell’operato dei funzionari nominati ai diversi uffi ci al fi ne di stabilirne la per-manenza in carica ovvero la rimozione o il trasferimento ad altro uffi cio, a seconda delle esigenze obiettive della funzione.

Detto questo, tuttavia, emergono nel nostro sistema disfunzio-ni evidenti. Innanzitutto, la durata degli incarichi dirigenziali è assai breve e in genere cessa nell’ambito stesso della durata del mandato politico dell’organo nominante. Ciò comporta che lo stesso organo che ha nominato il funzionario o dirigente dispone della possibilità di confermarlo o rimuoverlo dall’uffi cio una volta scaduto il termine del rapporto. Da ciò è evidente l’infl uenza che l’organo politico può esercitare sul funzionario, consapevole que-sto, che dalla scelta del primo è condizionata la sua permanenza nell’uffi cio. A questo proposito, un possibile correttivo, a mio giudizio del tutto indispensabile, sarebbe quello di prolungare la durata minima degli incarichi e quantomeno assicurare che essa non va a scadere nel corso dello stesso mandato politico dell’or-gano nominante. In tal caso, il funzionario sarebbe consapevole del fatto che non dal primo dipende la sua permanenza nell’uffi -cio e perciò sarebbe meno disponibile a subirne l’infl uenza.

La disfunzione appare ancora più evidente laddove il rapporto d’uffi cio del funzionario è sottoposto (la casistica è divenuta am-plissima, soprattutto per l’uso che se n’è fatto a livello regionale e locale) al c.d. spoils system; laddove cioè la durata del rapporto d’uffi cio segue il mandato dell’organo politico: ognuno è legitti-mato a chiamare alla direzione degli uffi ci amministrativi funzio-nari di propria fi ducia (politica!).

Sul punto, la Corte costituzionale, com’è noto, ha di recente affermato alcuni importanti principi che possono essere assunti (anche al di là dell’applicazione al c.d. spoils system) come prin-

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cipi generali che regolano il sistema delle nomine agli uffi ci (v. part. n. 103, 104/07 (11)), in modo da svincolare i funzionari dalla soggezione al potere politico così da salvaguardarne l’imparzia-lità dell’azione (si tratta tuttavia di principi ben lontani da tro-vare generale applicazione): esigenza della continuità dell’azione amministrativa, ciò che comporta che l’interruzione del rapporto d’uffi cio possa avvenire solo a seguito di accentuata inadempien-za del funzionario, conferma o rimozione solo a seguito di obiet-tiva valutazione dei risultati dell’azione svolta (e perciò anche nel caso di spoil system il precedente titolare dell’uffi cio deve essere confermato se la sua azione risulta correttamente svolta).

È inutile ricordare che si tratta di questione ben nota e tante volte sottolineata in dottrina e nei pubblici dibattiti (con scarso riscontro nella concreta azione di governo), che la corretta ap-plicazione di questi principi presuppone a sua volta un corretto funzionamento del sistema di valutazione dei dirigenti e funzio-nari degli uffi ci; il che presuppone a sua volta, da una parte che le pubbliche amministrazioni abbiano al loro interno strutture di valutazione del personale imparziali ed effi cienti e tecnicamente attrezzate. Ma presuppone altresì, come sopra si è accennato, che gli organi politici esprimano la loro funzione di direzione politica dell’amministrazione attraverso atti di indirizzo e di programma chiari e precisi, resi pubblici nelle dovute forme, tali da vinco-larne l’azione nei confronti degli uffi ci; così da permettere una obiettiva valutazione dell’azione concreta di funzionari e dirigen-ti nel periodo considerato con riferimento ai parametri stabiliti da detti atti di indirizzo e di programma (valutazioni di carattere obiettivo, con riferimento esclusivo alle esigenze della funzione o del servizio, quali stabilite dai predetti atti).

(11) Corte cost., 23.3.2007 n. 103, in Giurisprudenza costituzionale, 2007, con nota di F.G. Scoca, «Politica e amministrazione nelle sentenze sullo spoils sys-tem», 984-1017; Corte Cost., 23.3.2007, n. 104, in Foro italiano, 2007, I, 1630, con nota di D. Dalfi no, «Dirigenza regionale e locale di vertice: il metodo delle relazioni tra politica e amministrazione e il giusto procedimento». Si v. anche il commento alle sentenze di F. Merloni, «Lo spoils system è inapplicabile alla diri-genza professionale: dalla corte nuovi passi nella giusta direzione», in Le Regioni, 2007, 835. Vedi di recente, ancora sullo spoils system, le sentenze della Corte costituzionale del 27.1.2010 n. 34 e del 24.6.2010 n. 224.

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Sul punto, la recentissima legislazione c.d. Brunetta qualche passo avanti tenta di farlo. Se ne vedranno i risultati (l. 15/09, artt. 2, 4, 2° c.) (12).

(12) È in corso la riforma dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pub-blico che va sotto il nome del Ministro Brunetta (l. 4 marzo 2009, n. 15; dlgs. 27 ottobre 2009, n. 150). Secondo tale testo, i sistemi di valutazione del personale risultano migliorati e rafforzati. Ma manca ancora la previsione di un adegua-to ancoraggio di ogni valutazione di funzionari e dirigenti, agli atti di indirizzo dell’autorità politica (la cui carenza, s’è visto, costituisce fattore principale del-l’ineffi cienza di ogni sistema di valutazione: se manca il parametro di confron-to!); manca altresì una precisa indicazione circa l’ancoraggio di ogni decisione in ordine alla conferma o alla rimozione dei titolari degli uffi ci agli obiettivi ri-sultati dell’attività di valutazione (v. tuttavia la recente delibera n. 89/2010 della Commissione per la valutazione, recante «indirizzi – sottoposti a consultazione – in materia di parametri e modelli di riferimento del sistema di misurazione e valutazione delle performance»). Nella stessa legge sono previste alcune norme in ordine all’esercizio delle funzioni di controllo da parte della Corte dei conti che tuttavia non ne modifi cano il carattere collaborativo. Infatti, l’accertamento di «gravi irregolarità gestionali» nonché di «gravi deviazioni da obiettivi, procedi-menti e tempi di attuazione, stabiliti da norme nazionali o comunitarie, ovvero di direttive del Governo» da parte della Corte, in sede di controllo sulla gestione, dà luogo alla facoltà in capo al Ministro (qui si tratta di Amministrazioni stata-li) di disporre «la sospensione dell’impegno di somme stanziate sui pertinenti capitoli di spesa». Il che signifi ca dunque, che neppure di fronte all’accertata illegittimità fi nanziaria di un atto dell’Amministrazione, questa abbia l’obbligo e non la facoltà di non darvi corso. E lo stesso vale per l’accertamento di altre irregolarità previste dalla norma (v. art. 11, 2° co., l. ult. cit.). Assai interessante nella l. n. 15/09, la previsione di una azione intesa alla tutela nei confronti delle Amministrazioni, di ogni interessato, per «violazione di standard qualitativi ed economici o degli obblighi contenuti nelle Carte di servizi», per «omesso eserci-zio di poteri di vigilanza, di controllo o sanzionatori», «violazione dei termini», «mancata emanazione di atti amministrativi generali». Azione di competenza del giudice amministrativo, che potrebbe ovviare ad alcuni dei problemi indicati nel testo; laddove si tratta di disfunzioni amministrative di vario tipo non aggredibili in base all’attuale assetto del contenzioso amministrativo. La disciplina di detta azione è stata successivamente articolata nel d.lgs. n. 198/09 cit.

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Silvio Bonfigli

L’ITALIA E LE POLITICHE INTERNAZIONALI DI LOTTA ALLA CORRUZIONE

1. IntroduzioneSoltanto di recente, anche a seguito della profonda crisi che

coinvolge le più avanzate economie mondiali, la lotta alla corru-zione è diventata una priorità nelle agende politiche internazio-nali.

È noto, infatti, che la corruzione, minando alla radice la fi ducia dei mercati e delle imprese, determina tra i suoi effetti una perdita di competitività per i Paesi interessati. I mercati corrotti non at-traggono fl ussi di capitali e sono conseguentemente caratterizzati da dinamiche di bassa crescita.

Se non combattuta adeguatamente, la corruzione produce quindi costi enormi, destabilizzando le regole dello Stato di di-ritto e del libero mercato, veri pilastri delle democrazie moderne. Inoltre, la corruzione spesso facilita le attività criminali, come il traffi co di droga ed il riciclaggio e alimenta il crimine transnazio-nale e i confl itti socio politici che minacciano la sicurezza regio-nale e globale.

Non meraviglia pertanto che i Paesi del G8, nel corso del Summit de l’Aquila (luglio 2009), abbiamo posto all’ordine del giorno la ne-cessità dell’adozione di effi caci politiche di contrasto per limitare gli effetti negativi generati dalla corruzione sulle economie mondiali.

Sempre all’Aquila, i Paesi del G8 hanno poi espressamente ri-conosciuto come le politiche di prevenzione della corruzione rap-presentino uno dei principali parametri per misurare l’effi cacia delle azioni di contrasto al fenomeno da parte delle moderne de-mocrazie. In sintesi, la lotta alla corruzione non può fondarsi sol-tanto o prevalentemente su misure repressive ma deve fare perno anche e soprattutto su effi caci azioni di prevenzione. Si è a tal fi ne convenuto che il c.d. 2009 Accountability Report, rapporto sullo stato dell’arte dei Paesi G8 in materia di lotta alla corruzione (1),

(1) L’Accountability Report comprende otto aree tematiche: la Convenzione

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includesse un approfondimento proprio sulle misure preventive anticorruzione adottate da ciascun Paese membro (2).

L’importante political statement del G8 in materia di lotta alla corruzione conferma come l’azione di contrasto alla corruzione abbia ormai trasceso gli ambiti nazionali per assumere una di-mensione internazionale, o meglio, transnazionale.

Effi caci politiche di contrasto alla corruzione devono quindi necessariamente combinare la prevenzione con la repressione e la cooperazione internazionale.

Si è più volte rilevato in questi anni come la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC) del 2003, di recente ratifi cata dal nostro Paese, rappresenti uno strumento «globale» contro la corruzione, sia per il suo ampio campo di applicazione (prevenzione, repressione, cooperazione internazionale, attività di recupero dei beni provento di illecito ed assistenza tecnica) sia per il numero di Paesi che ne fanno parte (ad oggi la Convenzione è stata ratifi cata da 143 Paesi).

Dalla seconda metà degli anni Novanta, altre importanti inizia-tive hanno assunto un ruolo centrale nel contrasto del fenomeno corruttivo: si richiamano in particolare le Convenzioni contro la corruzione elaborate in seno all’Organizzazione per la Coope-razione e lo Sviluppo Economico (OCSE), Consiglio d’Europa (COE) e Unione Europea (UE). L’adozione di specifi ci strumen-ti accompagnati dall’istituzione di meccanismi di controllo delle politiche di lotta alla corruzione, il Gruppo di Stati contro la Cor-ruzione (GRECO) presso il COE, il Gruppo di Lavoro (WGB) sulla corruzione dell’OCSE e, recentissimo, il progetto di istituire un meccanismo anticorruzione in ambito UE, progetto che va di pari passo con l’istituzione della rete europea delle agenzie anti-corruzione (European Anti-Corruption Network), rappresentano senz’altro ulteriori risposte al problema.

ONU contro la corruzione, la Convenzione OCSE contro la corruzione, il rici-claggio, la lotta ai paradisi fi scali, la trasparenza dei mercati fi nanziari, il recupero dei beni provento di illecito, la trasparenza negli accordi commerciali e l’assisten-za tecnica ai Paesi africani.

(2) Il rapporto è consultabile sul sito del G8 de l’Aquila http://www.g8ita-lia2009.it/static/G8_Allegato/2009_Accountability_Report_Final%5B1%5D.pdf.

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Quanto all’impegno italiano nel settore, vanno qui richiamati i principali fora internazionali che vedono l’attiva presenza del no-stro Paese: il GRECO e il WGB che, come detto, rappresentano i due più importanti meccanismi di lotta alla corruzione istituiti presso altrettante organizzazioni internazionali. Inoltre, dopo la citata legge di ratifi ca del 3 agosto 2009 n. 116, l’Italia partecipa con full status ai lavori della Conferenza degli Stati Parte della Convenzione ONU contro la corruzione.

Va subito detto, in premessa, come la partecipazione del no-stro Paese a queste importanti iniziative non riveste un carattere meramente formale ma comporta il preciso impegno ad assumere concrete iniziative per contrastare la corruzione.

Queste, in dettaglio, le principali attività a livello internazio-nale che vedono impegnata l’Italia nel settore della lotta alla corruzione: per ciascun settore verranno indicati gli obblighi e le raccomandazioni sulle quali il nostro Paese è chiamato ad ot-temperare.

2. La Convenzione Onu contro la corruzioneLa Convenzione ONU contro la Corruzione fi rmata a Merida

(Messico) nel 2003, entrata in vigore nel 2005, affronta il pro-blema della corruzione come fenomeno transnazionale, contri-buendo alla costruzione di un sistema di regole condivise e un allargamento del diritto internazionale. Dopo un ampio pream-bolo volto a richiamare l’attenzione degli Stati sulla serietà della minaccia rappresentata dalla corruzione e sulla necessità di un approccio congiunto e multidisciplinare per un’effi cace strategia di contrasto, e alcune disposizioni di carattere generale, la Con-venzione sviluppa cinque temi fondamentali: le misure di carat-tere preventivo, la criminalizzazione, la cooperazione internazio-nale, il recupero dei beni provento di illecito (c.d. asset recovery) e l’assistenza tecnica (3). Di particolare rilievo, poi, il meccanismo

(3) Tra i punti deboli della Convenzione vanno qui segnalati l’assenza di nor-me specifi che sul monitoraggio e sulle risorse per la sua implementazione e il carattere non vincolante di molte norme della Convenzione: tra queste, le norme sul fi nanziamento dei partiti politici, sulla corruzione nel settore privato e sulla protezione dei c.d. whistleblowers.

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di applicazione previsto nel titolo settimo, che istituisce, a decor-rere dell’entrata in vigore della Convenzione (intervenuta in data 14 dicembre 2005), una Conferenza degli Stati Parte con cadenza annuale, per monitorare l’applicazione e l’implementazione della Convenzione negli Stati, per favorire lo scambio di informazioni sui modelli e le tendenze della corruzione, sulle pratiche effi caci per prevenirla e per restituire i proventi del crimine nonché, più in generale, per formulare raccomandazioni per migliorare il te-sto della Convezione e la sua attuazione. La Conferenza, dunque, assume una valenza strategica per l’adozione ed attuazione delle politiche anti-corruzione e l’Italia, grazie all’intervenuta ratifi ca della Convenzione, ha per la prima volta partecipato come Stato Parte alla Terza Conferenza, svoltasi dal 9 al 13 novembre 2009 a Doha (Qatar).

Per l’importanza dell’evento, è qui opportuno brevemente ricordare come nel corso del recente vertice di Doha veniva fi -nalmente istituito il meccanismo di review della Convenzione sul quale gli Stati Parte non erano riusciti in questi anni a trovare un accordo così bloccando, di fatto, l’attuazione dello strumento pattizio.

Peraltro, il meccanismo di review istituito a Doha appare assai debole, soprattutto se raffrontato ad analoghi meccanismi previ-sti da altre organizzazioni internazionali (ci si riferisce al GRECO del COE e al WGB dell’OCSE): per esempio, un ruolo decisivo è stato riconosciuto allo Stato sottoposto a valutazione, al quale vengono di fatto attribuiti poteri di veto, comunque fortemente ostruzionistici nella procedura, il regime di pubblicità del rap-porto di valutazione ridotto ai minimi termini con un ruolo asso-lutamente marginale riconosciuto alla società civile ed al settore privato (cioè le componenti non governative) nella review. Infi ne, la sostanziale natura confi denziale del rapporto di valutazione o meglio la sua pubblicità condizionata completano il quadro appe-na descritto.

In senso positivo, tuttavia, rimane assorbente la considerazione che da Doha si sia comunque tornati con un meccanismo di va-lutazione che, per quanto debole, rappresenta un passo decisivo verso l’esecuzione di uno strumento complesso ed unico quale la Convenzione ONU contro la corruzione, ove si tenga conto della

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sua natura, del numero e delle disomogeneità politiche, socio-eco-nomiche e giuridiche degli Stati Parte coinvolti nel processo.

Quanto all’Italia, v’è in primo luogo da registrare l’avvenuta ra-tifi ca della Convenzione ONU che, come detto, è stata approvata con la recente legge n. 116 del 3 agosto 2009.

Tra le disposizioni più rilevanti introdotte dalla legge di rati-fi ca se ne richiamano due: l’articolo 5, che introduce due nuovi articoli nel codice di procedura penale (articolo 740-bis e 740-ter c.p.p.) che danno concreta esecuzione ad una delle parti più in-novative della Convenzione in merito alla cooperazione interna-zionale e cioè il c.d. asset recovery; rilievo fondamentale, inoltre, deve attribuirsi alla disposizione recata all’art. 6 della legge n. 116 del 2009, intitolato Autorità nazionale anti-corruzione con la quale si è inteso dare esecuzione alla previsione di cui all’articolo 6 della Convenzione, laddove si prevede per gli Stati Parte l’obbligo di assicurare l’individuazione di uno o più organismi con specifi che funzioni e compiti nel campo della prevenzione della corruzione.

Giova sul punto ricordare come, a seguito della soppressione avvenuta nell’agosto 2008 dell’Alto Commissario contro la Cor-ruzione, il Governo italiano abbia trasferito al Dipartimento del-la Funzione Pubblica (DFP) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri le funzioni di prevenzione nella lotta alla corruzione già attribuite all’Alto Commissario, con ciò anche reagendo alle istanze provenienti dai principali organismi internazionali di set-tore che avevano espresso forti riserve a seguito della soppressio-ne dell’Alto Commissario (4). Il tutto, come detto, ha poi trovato suggello normativo nell’art. 6 della legge di ratifi ca della Conven-zione ONU contro la Corruzione (5), norma che individuando

(4) Alla soppressione dell’Alto Commissario, disposta dal decreto-legge n. 112 del 2008, è seguita l’individuazione, in virtù del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2 ottobre 2008, del Dipartimento della funzione pub-blica quale soggetto cui devolvere le competenze del disciolto Alto Commissa-rio.

(5) La legge di ratifi ca della Convenzione ONU contro la corruzione (l. 3 ago-sto 2009 n. 116) all’art. 6 (Autorità nazionale anticorruzione), nel dare esecuzio-ne all’art. 6 della Convenzione ONU, recita che «1. È designato quale Autorità nazionale ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione il soggetto al quale sono state trasferite le funzioni dell’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazio-

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appunto il DFP come l’Autorità Nazionale per le politiche anti-corruzione ha dato espressa esecuzione agli obblighi in tal senso previsti dall’art. 6 della Convenzione (6).

La legge di ratifi ca, se da una parte è venuta a colmare una gra-ve lacuna del nostro ordinamento nel settore della lotta alla cor-ruzione, contribuendo a rafforzare l’immagine dello Stato italiano nel contesto internazionale, dall’altra rappresenta indirettamen-te la fonte di precisi obblighi a cui si dovrà dare esecuzione nei prossimi anni per meglio presidiare il settore pubblico e privato contro pratiche di natura corruttiva e, più in generale, di malad-ministration. Solo per rimanere nel settore della pubblica ammi-nistrazione, si segnalano in questa sede le importanti prescrizioni contenute nella Convenzione in materia di effi cienza, trasparen-za e meritocrazia nel pubblico impiego (art. 7), integrità e codici etici (art. 8), diritto di accesso e semplifi cazione delle procedure amministrative (art. 10) e partecipazione della società civile nelle politiche di prevenzione della corruzione nella pubblica ammini-strazione (art. 13). Inoltre, sempre per rimanere nel campo della prevenzione, la Convezione richiede interventi normativi in ma-

ne, ai sensi dell’art. 68, comma 6-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modifi cazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 2. Al soggetto di cui al comma 1 sono assicurate autonomia ed indipendenza nell’attività». La leg-ge di ratifi ca quindi, pur non individuando espressamente il DFP come autorità nazionale anticorruzione, lo individua per così dire «transitivamente» essendo il DFP l’ente al quale sono stati trasferiti le funzioni dell’AC a norma del citato d.p.c.m. 2 ottobre 2008.

(6) L’art. 6 della Convenzione ONU contro la Corruzione dal titolo «Organo o organi di prevenzione della Corruzione» dispone che «Ciascuno Stato assicu-ra, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, l’esi-stenza di uno o più organi, secondo quanto necessario, incaricati di prevenire la corruzione…». Il secondo comma dell’art. 6 continua statuendo che «Ogni Stato Parte, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, concede all’organo o agli organi di cui al paragrafo 1 del presente articolo, l’indi-pendenza necessaria a permettere loro di esercitare effi cacemente le loro funzioni al riparo da ogni indebita infl uenza e le risorse materiali ed il personale specializ-zato necessari, nonché la formazione di cui tale personale può avere bisogno per esercitare le sue funzioni …». Due osservazioni a commento dell’art. 6: la norma non esclude che all’interno di uno Stato ci sia più di un organo, uffi cio etc. che svolga attività di prevenzione della corruzione. La norma richiede però che l’or-gano o gli organi che svolgano attività di prevenzione della corruzione abbiano la necessaria indipendenza e le risorse umane e fi nanziare per la loro attività.

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teria di protezione delle persone che comunicano in buona fede i casi sospetti di corruzione sia all’interno della pubblica ammi-nistrazione che nel settore privato (c.d. whistleblowers – art. 33), nonché sul fenomeno del passaggio di alti funzionari dal settore pubblico a quello privato (c.d. pantoufl age, art. 12), che costitui-scono aspetti per i quali non è rinvenibile nel nostro ordinamento un’adeguata disciplina.

3. I rapporti col Consiglio d’Europa (Group of States against cor-ruption)L’Italia aderisce al GRECO (Gruppo di Stati contro la corru-

zione) dal 30 giugno 2007. Il Gruppo ha come principale obiet-tivo quello di monitorare il livello di conformità delle politiche degli Stati membri agli standards anticorruzione del Consiglio d’Europa. Il GRECO si propone inoltre di individuare eventuali carenze nelle politiche nazionali di settore, suggerendo le neces-sarie riforme legislative. Ciò avviene principalmente attraverso meccanismi di valutazione (peer reviews) e di pressione recipro-ca (peer pressure) tra gli Stati membri. Le procedure di controllo sono di tipo dinamico, attraverso continue valutazioni e follow-up per verifi care le politiche e il quadro normativo dei singoli Stati ed individuare eventuali lacune. Attualmente, sono 47 gli Stati che aderiscono al Gruppo, 46 Stati dell’area geografi ca europea più gli Stati Uniti (7). L’OCSE e l’ONU (Uffi cio contro la droga e il crimine) partecipano al GRECO con lo status di osservatori. Avendo l’Italia fi rmato ma non ratifi cato le due Convenzioni del Consiglio d’Europa contro la corruzione (8), la partecipazione

(7) Fanno parte del GRECO tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, con l’eccezione di San Marino.

(8) Due sono le Convenzioni del Consiglio d’Europa contro la corruzione: la Convenzione penale e quella civile. La Convenzione penale è stata adottata nel novembre 1998 e aperta alle fi rme il 27 gennaio 1999. La Convenzione rappre-senta uno degli strumenti pattizi più completi in materia. Essa prevede l’obbligo per gli Stati di punire la corruzione del settore pubblico e privato nonché una vasta gamma di reati tra cui la corruzione domestica e transnazionale, il traffi co di infl uenze, il riciclaggio e il falso in bilancio. La Convenzione prevede inoltre misure di diritto sostanziale e procedurale in materia di giurisdizione, trattamen-to sanzionatorio, responsabilità delle persone giuridiche, richiedendo inoltre la

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dell’Italia è quindi avvenuta attraverso un atto di adesione del nostro Governo al predetto Gruppo (9).

L’Italia è stata recentemente sottoposta a valutazione da parte del Gruppo. Si è trattato del primo esame in tema di lotta alla corruzione sostenuto dal nostro Paese in sede di Consiglio d’Eu-ropa. La c.d. procedura congiunta di primo e secondo ciclo di valutazione si è conclusa con l’approvazione del rapporto e delle sue raccomandazioni nel corso della 43ma assemblea plenaria del GRECO tenutasi a Strasburgo dal 29 giugno al 2 luglio 2009 (10). Il rapporto fi nale contiene 22 raccomandazioni divise tra il setto-re della repressione e quello della prevenzione della corruzione. Sul versante della repressione della corruzione si segnalano tre raccomandazioni di particolare rilievo:

creazione di agenzie specializzate per la lotta alla corruzione, la cooperazione tra le autorità di law enforcement, il controllo e la protezione dei testimoni e colla-boratori di giustizia. Tra i suoi punti deboli vi è l’assenza di misure a carattere preventivo, di norme sulla prescrizione e la possibilità per gli Stati membri di apporre riserve alla Convenzione. La Convenzione civile sulla corruzione è stata adottata a Strasburgo il 4 novembre 1999. Essa prevede dei meccanismi per il risarcimento dei danni derivanti dai reati di corruzione. La Convenzione disci-plina la corruzione del settore pubblico e privato, defi nendo in maniera piutto-sto ampia la condotta corruttiva. La Convenzione infi ne, prevede strumenti ed azioni di natura civilistica per le vittime dei reati di corruzione, prevedendo delle azioni di annullamento dei contratti oggetto di corruzione e la protezione dei whistleblowers. Il suo punto debole è costituto dalla assenza di misure contro l’opposizione del segreto bancario.

(9) Il nostro Paese ha giocato un ruolo di primo piano nel processo che ha portato alla istituzione del GRECO ed alla elaborazione delle due Convenzioni contro la corruzione del Consiglio d’Europa. L’Italia fu infatti rapporteur alla 19ª Conferenza dei Ministri della Giustizia tenutasi a La Valletta nel giugno 1994, Conferenza interamente dedicata al tema della lotta corruzione. La Conferenza adottò una risoluzione che proponeva, tra l’altro, l’istituzione in seno al Consi-glio d’Europa del Gruppo multi-disciplinare sulla Corruzione (GMC). Il Grup-po, istituito nel settembre 1994 dal Comitato dei Ministri del COE, iniziò i suoi lavori nel mese di marzo 1995. Dopo avere avuto la presidenza di uno dei due sottogruppi costituiti in seno al GMC, l’Italia ha avuto la presidenza del GMC dal 1996 al 2000, fi no a quando cioè il Gruppo ha ultimato i suoi lavori.

(10) Il primo ciclo di valutazione tratta i temi della indipendenza, specializza-zione e dei mezzi a disposizione degli Stati per prevenire e reprimere la corruzio-ne nonché il regime delle immunità. Il secondo ciclo di valutazione ha ad oggetto i temi del riciclaggio, pubblica amministrazione e persone giuridiche in rapporto al reato di corruzione.

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1) la dispersione in vari testi normativi delle previsioni in materia di corruzione, con la richiesta di procedere a un riordino anche attraverso un testo unico sulla corruzione;

2) l’asserita facilità con la quale in Italia i reati in materia di corru-zione cadono in prescrizione: il Gruppo chiede al nostro Paese di elaborare uno studio che verifi chi l’incidenza della prescri-zione sui reati di corruzione per determinarne le ragioni, la portata ed individuare le soluzioni al problema. I risultati dello studio dovranno essere resi pubblici;

3) l’opportunità della legge 124/2008 (c.d. Lodo Alfano). Su que-sto punto, il GRECO ha deciso di adottare una raccomanda-zione di carattere interlocutorio attesa la pendenza, al momen-to della valutazione, della questione di costituzionalità della legge (11).

Sempre nel campo della repressione della corruzione, altre rac-comandazioni del Gruppo riguardano l’organizzazione di pro-grammi di formazione specializzata per le Forze dell’Ordine per migliorarne la capacità di contrasto alla corruzione; la richiesta di rafforzare il coordinamento e lo scambio di conoscenze tra le varie forze investigative, compresa l’opportunità della istituzio-ne di meccanismi di coordinamento centrale per le indagini sulla corruzione (secondo il modello della Direzione Nazionale Anti-mafi a).

Il GRECO inoltre chiede all’Italia di valutare l’opportunità della introduzione nel nostro sistema penale di forme di confi sca in rem, non legate cioè alle sentenze di condanna e la messa in atto di meccanismi che consentano di verifi care l’effi cacia delle misure in tema di sequestro e confi sca dei proventi del reato di corruzione anche sotto il profi lo delle cooperazione giudiziaria internazionale.

Sul contrasto al riciclaggio, tra le raccomandazioni del Grup-po si segnala quella che chiede al nostro Paese di migliorare la cooperazione e lo scambio di informazioni (c.d. feedback) tra i

(11) Come noto, la sentenza della Corte costituzionale n. 262/2009 (successi-va alla approvazione del rapporto GRECO sull’Italia) ha dichiarato l’incostitu-zionalità della legge 124/2008.

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titolari dell’obbligo di denuncia delle operazioni sospette, l’Uni-tà di Informazione Finanziaria (Banca d’Italia) e gli investigatori; altra raccomandazione chiede all’Italia di valutare l’opportunità della introduzione di sanzioni in caso di ritardo di denuncia delle operazioni sospette da parte dei titolari del relativo obbligo di segnalazione.

In materia di falso in bilancio, le principali raccomandazioni del GRECO riguardano l’introduzione di sanzioni che siano ef-fettive, proporzionate e dissuasive, in osservanza ai principi della Convenzione del COE; altra raccomandazione riguarda l’oppor-tunità di introdurre misure (anche attraverso interventi legislativi e/o regolamentari) per migliorare le procedure di segnalazione ai competenti organi societari dei casi sospetti di corruzione e rici-claggio di denaro da parte dei commercialisti e revisori contabili.

Per quanto riguarda il settore della prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, il Gruppo chiede al nostro Paese:

1) l’elaborazione di un piano nazionale anticorruzione con la pre-visione del suo monitoraggio e valutazione della sua effi cacia;

2) che il SAeT (Servizio Anticorruzione Trasparenza che opera presso il DFP) si veda attribuita l’autorità e le risorse neces-sarie per valutare sistematicamente l’effi cacia dei sistemi am-ministrativi generali progettati per prevenire e rilevare la cor-ruzione, di rendere pubbliche tali valutazioni, e di formulare raccomandazioni per cambiamenti sulla base di tali valutazio-ni;

3) l’uniforme adozione di un codice di condotta per tutte le per-sone che svolgano funzioni amministrative (compresi i dirigen-ti e i consulenti);

4) l’adozione di un codice di condotta per i membri del Governo;5) l’adozione di standards uniformi in materia di confl itto di in-

teresse per le persone che svolgono funzioni amministrative (compresi i dirigenti e consulenti);

6) l’adozione di misure in tema del passaggio di funzionari dal settore pubblico al privato (c.d. pantoufl age);

7) un adeguato sistema di protezione per coloro che, in buona fede, segnalino i casi sospetti di corruzione all’interno della pubblica amministrazione (c.d. whistleblowing).

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Il meccanismo di follow-up previsto del Gruppo prevede che il nostro Paese riferisca per la data del 31 gennaio 2011 sulle misure adottate per dare esecuzione alle raccomandazioni del rappor-to (12).

4. I rapporti con l’Organizzazione per la cooperazione e lo svi-luppo economico (Ocse)L’OCSE è ormai da un decennio all’avanguardia nell’azione di

peer review e di controllo del livello di adeguamento degli Stati membri (tra cui tutti i Paesi del G7) ai principi sanciti dalla Con-venzione OCSE del 1997 sulla lotta alla corruzione nelle transa-zioni economiche internazionali (13).

La Convenzione OCSE è aperta ai Paesi che diventino par-te del gruppo di lavoro sulla corruzione istituito presso l’OCSE (WGB) (14). Un Paese che voglia partecipare al WGB deve co-munque soddisfare alcuni criteri, tra i quali avere in vigore una

(12) Il Rapporto è stato pubblicato sul sito web del GRECO il 16 ottobre 2009. La versione inglese del rapporto Italia è consultabile al sito http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/greco/evaluations/round2/GrecoEval1-2(2008)2_Italy_EN.pdf .

(13) L’origine delle azioni per combattere la corruzione nelle transazioni eco-nomiche internazionali viene tradizionalmente individuata nella iniziativa USA nata a seguito della adozione in quel Paese del Foreign Corrupt Practices Act (FCPA-1977). Tale legge ha previsto gravi sanzioni nei casi di corruzione dei funzionari pubblici internazionali, dei partiti politici e nelle situazioni di indebito vantaggio acquisite da imprese americane (o comunque operanti nel mercato americano) nelle operazioni economiche. In pratica, fi n dalla sua adozione, il FCPA ha esercitato un notevole impatto sul modo di fare affari delle imprese USA in ambito internazionale. La mancanza di analoghi strumenti negli altri Pae-si le cui imprese concorrevano con quelle americane sui mercati internazionali, ha posto queste ultime in una posizione di squilibrio nel commercio internazio-nale. Di qui la necessità, di cui gli americani si sono fatti paladini, di estendere il loro modello a livello internazionale. Per tale scopo l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) rappresentava il forum ideale per sensibilizzare e concentrare gli sforzi per convincere i Paesi più ricchi a crimina-lizzare la corruzione transnazionale.

(14) Il Gruppo, del quale fanno parte i rappresentanti dei 38 Paesi che hanno fi rmato la Convenzione, si riunisce a Parigi cinque volte all’anno e i suoi membri lavorano per assicurare che ogni Paese parte rispetti i suoi impegni secondo i termini stabiliti dalla Convenzione OCSE contro la corruzione. I rapporti e le raccomandazioni del WGB ai Paesi membri «set the standards» nella lotta alla corruzione transnazionale.

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normativa contro la corruzione domestica, punire il reato di cor-ruzione transnazionale, vietare la deducibilità delle tangenti, ave-re leggi adeguate in materia contabile, essere pronto a sottoporsi al rigoroso meccanismo di monitoraggio al quale vengono sotto-posti gli altri Paesi parte della convenzione, avere degli effettivi meccanismi di repressione della corruzione. Nel giungere a una decisione favorevole sulla ammissione, il WGB tiene inoltre in conto altri fattori quali l’infl uenza che il Paese può esercitare nella politica di sviluppo economico nella rispettiva area geografi ca, se sia cioè un relevant economic actor anche su scala regionale, o in settori particolari o strategici del commercio o della economia.

Tra le principali caratteristiche della Convenzione, la previsio-ne della punibilità della corruzione del pubblico uffi ciale stranie-ro con la defi nizione della relativa nozione (15); la sua applicazione alle operazioni economiche internazionali (operazioni commer-ciali ed investimenti) (16); imporre sanzioni effi caci, proporziona-te e dissuasive per le persone fi siche e giuridiche (17); regolare la giurisdizione su base territoriale e personale (18); proibire la de-ducibilità delle tangenti.

(15) La Convenzione delinea una nozione assai ampia di pubblico uffi ciale straniero. In tale concetto è ricompreso chiunque svolga una funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria in un Paese straniero; un dipendente di una impresa pubblica o a partecipazione pubblica nel quale il governo straniero detenga una posizione di controllo dominante; un funzionario in servizio presso una orga-nizzazione internazionale (Banca Mondiale, Banca Africana di sviluppo, Unione Europea, etc.).

(16) Il fi ne cioè di conseguire o conservare un affare o un altro vantaggio in-debito nell’ambito del commercio internazionale. Tale nozione non è limitata ai contratti di appalto ma anche all’ottenimento di vantaggi fi scali, doganali, giu-diziari, etc. nelle transazioni economiche internazionali. Il vantaggio economico potrà assumere qualsiasi forma e nessun riguardo viene attributo alle consue-tudini locali, alla «tolleranza» di tali pagamenti da parte delle autorità locali o alla asserita necessità di effettuare i pagamenti per poter fare affari nel Paese straniero (c.d. cost of doing business).

(17) Come noto, non tutti i Paesi OCSE riconoscono il concetto della respon-sabilità penale delle persone giuridiche (es. Germania ed Italia). In tali situazioni, si ricorre alla applicazione di sanzioni di natura amministrativa e\o civile. Tali san-zioni hanno comunque un forte valore dissuasivo atteso l’evidente rischio di «dan-no di immagine» per le imprese che si rendano responsabili di fatti di corruzione.

(18) L’offesa può essere commessa in tutto o in parte in uno Stato membro (principio di territorialità). Molti Paesi hanno anche giurisdizione nei casi in cui un loro cittadino commetta il reato in territorio estero (principio di personalità).

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La Convenzione richiede inoltre che ciascun Paese membro as-sicuri che le indagini e i processi aventi a oggetto casi di corruzio-ne transnazionale non vengano infl uenzati da considerazioni di interesse economico nazionale, dai possibili effetti sulle relazioni con un altro Stato o dall’identità delle persone fi siche o giuridiche interessate (art. 5); preveda adeguati termini prescrizionali per le indagini ed il perseguimento del reato di corruzione transnazio-nale (art. 6); preveda il reato di riciclaggio con riferimento al da-naro o proventi del reato di corruzione transnazionale nei casi in cui riconosca analogo reato di riciclaggio per il danaro o proven-ti del reato di corruzione domestica (art. 7); proibisca pratiche contabili e di auditing intese a facilitare e nascondere condotte di corruzione transnazionale. Viene a questo proposito espressa-mente vietata la redazione di conti e operazioni extrabilancio, la registrazione di spese inesistenti o di poste passive il cui oggetto non sia correttamente identifi cato, così come l’utilizzo di falsi do-cumenti, al fi ne di corrompere un funzionario pubblico stranie-ro o dissimulare la corruzione (art. 8); la Convenzione richiede inoltre l’adozione da parte degli Stati di meccanismi di pronta ed effettiva cooperazione internazionale nelle indagini e processi aventi ad oggetto il reato di corruzione transnazionale. Il reato di corruzione transnazionale dovrà essere un reato estradabile negli Stati membri della Convenzione (artt. 9 e 10).

Le fasi di valutazione (dopo le fasi 1 e 2 il WGB si appresta ad iniziare il terzo ciclo di valutazione) prevedono incontri e discus-sioni con rappresentanti della società civile e del settore privato. Il loro punto di vista sul rispetto dei principi della Convenzione viene tenuto in seria considerazione e costituisce un banco di pro-va per l’azione dei Governi degli Stati membri (19).

Tra questi Paesi Australia, Francia, Germania, UK e USA. Non è inoltre necessa-rio un nesso «fi sico» tra l’agente e la dazione di danaro: ad esempio, una telefo-nata o un fax col quale si autorizzi la dazione di danaro ad un pubblico uffi ciale in un Paese estero è suffi ciente per procedere penalmente.

(19) In occasione della ricorrenza del decimo anniversario della entrata in vigore della Convenzione contro la corruzione (9 dicembre 2009), l’Ocse ha adottato l’importante raccomandazione per il rafforzamento della lotta alla cor-ruzione transnazionale (Recommendation for Further Combating Bribery of Forei-gn Public Offi cials in International Business Transactions). La raccomandazione intende rafforzare l’azione dei 38 Stati Parte della Convenzione per prevenire,

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Per capire la «fi losofi a» della Convenzione OCSE è importante tenere presente il fatto che essa si occupa del solo lato attivo del patto corruttivo, la persona cioè che offre, promette o consegna danaro o altra utilità (corruzione attiva); la Convenzione non re-gola il lato passivo del patto corruttivo, la punibilità cioè del pub-blico uffi ciale. Come detto, il soggetto attivo può essere tanto una persona fi sica quanto una persona giuridica.

Altro elemento centrale della Convenzione è quello del mec-canismo previsto per il suo monitoraggio: tutti gli Stati membri devono sottoporsi al meccanismo di controllo stabilito dall’art. 12 della Convenzione: 2 Paesi membri (lead examiners) esami-nano un terzo Paese secondo una procedura di esame incrociato (peer review); il rapporto di valutazione, con le raccomandazioni viene poi sottoposto al WGB per la approvazione defi nitiva; è poi previsto un meccanismo di follow-up nel quale gli Stati membri presentano al WGB le misure adottate per ottemperare alle rac-comandazioni ricevute. I rapporti di valutazione sono pubblicati sul sito web dell’OCSE. Obiettivo del monitoraggio è di valutare sia la adeguatezza in abstracto della legislazione degli Stati mem-bri sia di determinare il livello di applicazione in concreto delle leggi; il WGB elabora poi i parametri per misurare i progressi dei Paesi e superare i problemi che si frappongono alle esecuzione dei principi della convenzione.

Quanto al nostro Paese, esso partecipa stabilmente al WGB fi n dalla sua istituzione. Nel 2004 l’Italia è stata sottoposta al secon-do ciclo di valutazione (c.d. Fase 2). Il rapporto di valutazione e le relative raccomandazioni sono poi state oggetto di due successivi esami di follow-up avvenuti nel 2006 e da ultimo nel 2007 (20).

Quanto alle raccomandazioni del WGB all’Italia sono princi-palmente tre i versanti di richiesto intervento: l’operatività della norma sulla concussione (art. 317 c.p.) nel settore delle operazio-

individuare e reprimere la corruzione nelle transazioni economiche internazio-nali. La raccomandazione include delle linee guida per il mondo della impren-ditoria internazionale in materia di etica, controlli interni e compliance. Il testo della raccomandazione è consultabile in http://www.oecd.org/document/13/0,3343,en_2649_34859_39884109_1_1_1_1,00.html.

(20) I rapporti di valutazione dell’Italia sono consultabili al sito http://www.oecd.org/document/24/0,3343,en_2649_34859_1933144_1_1_1_1,00.html.

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ni economiche internazionali, l’eccessiva durata dei processi e la prescrizione dei reati di corruzione, l’inadeguatezza delle sanzio-ni in materia di falso in bilancio.

Nonostante i diversi temi sul tappeto, l’attenzione del Gruppo in questi anni si è per lo più concentrata sulla raccomandazione in materia di concussione: all’esito della procedura di valutazione di Fase 2, il WGB aveva infatti segnalato come il reato di concussio-ne, prevedendo in sostanza la non punibilità del bribe giver (sep-pure costretto o indotto alla dazione dal pubblico funzionario), violasse l’art. 1 della Convezione (che prevede l’obbligo di sot-toporre a pena il corruttore di funzionari pubblici stranieri nelle transazioni economiche internazionali). Di qui l’incompatibilità del reato con la Convenzione e la raccomandazione al nostro Pae-se di intervenire sul punto. Il tema costituisce da anni uno dei punti più delicati e dibattuti nei rapporti tra il WGB e l’Italia. Forte è la pressione del WGB a che l’Italia dia esecuzione alla predetta raccomandazione, ad oggi, non implementata (21).

5. ConclusioniIl WGB e il GRECO hanno da poco celebrato solennemente

i loro primi dieci anni di vita, in pratica coincidenti con i primi dieci anni di vita delle Convenzioni OCSE e COE contro la cor-ruzione. Un primo, positivo, bilancio è quello di un alto grado di adesione degli Stati membri ai principi sanciti dalle Convenzioni e di attuazione delle raccomandazioni elaborate dai due mecca-

(21) Non risultano, allo stato, proposte di legge di iniziativa governativa in materia di concussione che vadano nel senso auspicato dal WGB. Nella prece-dente legislatura il Governo, anche per dare attuazione alla raccomandazione sulla concussione, era intervenuto col disegno di legge di ratifi ca ed esecuzione della Convenzione penale sulla corruzione fi rmata a Strasburgo il 27 gennaio 1997 (A.C. 3286) che, nell’ambito di una più articolata riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, prevedeva l’abrogazione del reato di concussione disponendo in particolare che le ipotesi di c.d. concussione mediante costrizione rifl uissero nel reato di estorsione (aggravata dall’abuso di poteri o della qualità di pubblico uffi ciale o incaricato di pubblico servizio) e quelle di concussione mediante induzione nel reato di corruzione. Nella presente legislatura sono state presentate alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare (A.C. 1786, A.S. 850) che ripropongono, sostanzialmente negli stessi termini del citato d.d.l. go-vernativo, l’abrogazione del reato di concussione dal nostro ordinamento.

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nismi di revisione che, nei rispettivi ambiti di competenza, hanno senz’altro contributo al rafforzamento degli standards normativi a livello internazionale nella lotta alla corruzione. Si ha oggi la con-sapevolezza che l’elaborazione di norme di diritto internazionale contro la corruzione avrebbe fallito i propri obiettivi senza ade-guati meccanismi di controllo che responsabilizzassero gli Stati, se necessario obbligandoli ad adeguarsi ai principi sanciti dalle Convenzioni ricorrendo nei casi più gravi a sanzioni in caso di non ottemperanza.

Altro discorso riguarda la concreta volontà degli Stati nella lot-ta alla corruzione sia domestica che internazionale. Sempre più spesso si assiste ad iniziative ad «alta visibilità» quali le adozioni di piani o strategie anti-corruzione o la fi rma di convenzioni inter-nazionali di contrasto al fenomeno. Peraltro, la reale volontà po-litica di contrasto al fenomeno deve misurarsi nel lungo periodo, in termini cioè di risorse umane e fi nanziarie messe a disposizione per l’attuazione delle riforme o ancora nella reale determinazione degli Stati a portare avanti le indagini e i processi per fatti di cor-ruzione domestica e internazionale.

Grazie anche a queste iniziative internazionali e allo sviluppo di effi caci meccanismi di controllo, si può senz’altro affermare che oggi vi è maggiore trasparenza e consapevolezza del proble-ma che in passato. Il patrimonio di informazioni e le best practices elaborate dai vari «attori» presenti sulla scena internazionale as-sumono un ruolo sempre più importante per i Paesi che vogliano intraprendere effi caci azioni di contrasto alla corruzione. La dif-fusione di informazioni aiuta inoltre gli Stati ad attrarre assistenza tecnica ed umana da altri Paesi che già si trovano in uno stadio più avanzato nella lotta alla corruzione.

Deve però rilevarsi come la proliferazione di Convenzioni imponga di aumentare la cooperazione tra le diverse organizza-zioni internazionali coinvolte nella lotta contro la corruzione. Se da un lato, infatti, va ribadita la centralità di effi caci meccanismi di valutazione quali appunto il GRECO ed il WGB in termini di affi dabilità, concretezza e partecipazione, bisogna dall’altro affermare con altrettanta forza la necessità di un loro adeguato coordinamento, magari attraverso la istituzione di una «cabina di regia» alla quale partecipino i rappresentati delle varie istituzioni

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(es. segretariato, presidenza, uffi ci legali) per evitare inutili du-plicazioni tra i vari meccanismi anticorruzione esistenti a livello internazionale. Quello che si vuole proporre è, in buona sostan-za, un coordinamento non soltanto delle attività del GRECO con quelle del WGB ma anche, in prospettiva, un coordinamento dei predetti Gruppi col meccanismo di revisione recentemente isti-tuito in sede di Convenzione ONU contro la corruzione e con l’analogo meccanismo che presumibilmente si realizzerà in sede comunitaria.

Infi ne, valgano alcune considerazioni con riferimento alla posi-zione assunta dal nostro Paese nel contrasto ai fenomeni corrutti-vi: oltre a quanto detto nei paragrafi precedenti, si richiama ancora una volta l’esigenza di assicurare uno spedito iter di approvazione delle ratifi che delle Convenzioni del Consiglio di Europa contro la corruzione, oltre che l’esecuzione delle norme comunitarie e pattizie che richiedono il recepimento nel nostro ordinamento dei reati della corruzione nel settore privato e del traffi co di in-fl uenze illecite. Sul piano, invece, più squisitamente organizzati-vo e delle prassi amministrative, merita particolare attenzione il settore dei pubblici dipendenti, con particolare riferimento alla formazione specifi ca sui temi dell’anticorruzione, alla rotazione per le fi gure particolarmente esposte al rischio di corruzione (c.d. rotation), alla maggiore trasparenza circa la posizione patrimonia-le e gli incarichi nonché ad un effettivo sistema di responsabilità disciplinare per i dirigenti e pubblici dipendenti (22).

Proprio dall’osservatorio internazionale si trae la conferma della necessità di risolvere le criticità tuttora presenti nella lotta alla corruzione con carattere di assoluta priorità per non lasciare l’Italia esposta a procedure di infrazione da parte dei principali organismi internazionali con prevedibili ricadute negative sulla immagine e competitività del nostro Paese e quindi sulla sua ca-pacità di attrarre capitali ed investimenti quanto mai importanti nell’attuale fase di crisi economica.

(22) Sul tema della responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici e sul rapporto tra procedimento penale e disciplinare si vedano le importanti novità introdotte dal recente decreto legislativo n. 150 del 27/10/2009 (Capo V) in at-tuazione della l. n. 15 del 4/3/2009.

Parte II

GLI STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO.

PROFILI SOGGETTIVI

A) Aspetti generali: regole per tuttele categorie di funzionari pubblici

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Guido Sirianni

PROFILI COSTITUZIONALI. UNA NUOVA LETTURA DEGLI ARTICOLI 54, 97 E 98 DELLA COSTITUZIONE

1. L’etica pubblica nella Costituzione repubblicanaLa diffusione della corruzione, per le sue caratteristiche quali-

tative e quantitative, evidenzia uno stato di sofferenza che coin-volge l’intero assetto istituzionale.

È dunque naturale di cercare nella Costituzione una guida ca-pace di orientare le condotte pubbliche e private volte a contra-stare effi cacemente i processi corruttivi.

La Carta costituzionale non si sottrae al problema della etica pubblica, ma lo affronta in modo originale, nella prospettiva di una democrazia pluralista.

L’etica pubblica non viene infatti dalla Carta assunta, in una prospettiva di stampo liberale, come una mera condizione di siste-ma presupposta o immanente, pre-giuridica e pre-costituzionale, né viene considerata come il prodotto automatico della osservanza delle leggi, adeguatamente sanzionato. Parimenti è del tutto estra-nea alla Carta ogni concezione autoritaria od organicistica di una etica pubblica scaturente dall’abbattimento dei confi ni tra privato e pubblico, evocatrice di funesti scenari di «Stato etico».

Nella prospettiva repubblicana, l’ordinamento democratico non può né disinteressarsi, né imporre una etica pubblica, ma deve tuttavia promuoverla, assumendola come un valore essen-ziale sociale e costituzionale di responsabilità personale, integrato nel sistema dei valori costituzionali, e conferendo ad essa la for-ma, variamente atteggiata, del dovere civico.

Lo snodo del programma di promozione dell’etica pubblica re-pubblicana, considerata per l’aspetto che qui più interessa, è rap-presentato dall’articolo 54 che, dopo aver prescritto ai cittadini (ovviamente, ed a maggior ragione, anche ai cittadini investiti di funzioni pubbliche) il dovere di fedeltà alla Repubblica, e di os-servarne la Costituzione e le leggi, richiede ulteriormente (comma secondo) a coloro cui sono affi date funzioni pubbliche «il dovere

di adempierle con disciplina ed onore» e di prestare giuramento, nei casi stabiliti dalla legge.

Tale precetto fondamentale, indirizzato ai funzionari, intesi in senso allargato come coloro ai quali sono affi date funzioni pub-bliche, non resta isolato, ma si integra con una serie di precetti costituzionali ulteriori: in particolare, la diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici (art. 28); il dovere dei pubblici impiegati di essere all’esclusivo servizio del-la nazione (art. 98); il precetto per cui i pubblici uffi ci vanno orga-nizzati in modo da assicurare il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione (art. 97).

L’etica pubblica viene dunque promossa sia sotto il profi lo sog-gettivo (la condotta personale prescritta agli agenti) sia sotto quel-lo organizzativo (la organizzazione pubblica non deve fare velo alla responsabilità, intesa in senso lato, degli agenti, ma viceversa, deve fondarsi su tale responsabilità), nella prospettiva democrati-ca di un ordinamento personalisticamente inteso nel quale sono i cittadini che governano ed amministrano la collettività.

2. Le letture riduzionistiche del dovere di disciplina e onoreIl dovere di disciplina ed onore, pur così solennemente affer-

mato dalla Carta, non ha tuttavia ricevuto una considerazione ed una attenzione adeguata, come confermano sia la poca attenzione della giurisprudenza, sia la frammentarietà – pur con importanti eccezioni – della rifl essione dottrinaria.

A ciò hanno concorso più circostanze. Certamente un ruolo preponderante ha avuto il peso di una tradizione giuspositivisti-ca, propensa a relegare ogni dimensione etica nell’ambito pre-giuridico. Forti remore sono venute dalla preoccupazione di se-gno garantista che una qualifi cazione giuridicamente pregnante ed espansiva del dovere di disciplina ed onore potesse aprire il varco a limitazioni del pieno godimento dei diritti riconosciuti ai pubblici dipendenti nella loro qualità di cittadini, e soprattutto a discriminazioni ideologiche, in una prospettiva di «democrazia protetta» estranea all’impianto della Costituzione italiana. Il con-creto prevalere, poi, nella vita politico-istituzionale, di un model-lo di democrazia che riservava ai partiti politici un forte, se non

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debordante, ruolo di mediazione ha infi ne alimentato un oggetti-vo disinteresse per la prospettiva di una maggiore responsabiliz-zazione individuale degli agenti pubblici, in una realtà dominata da apparati e attori collettivi.

Tali elementi hanno spinto verso letture riduzioniste, che han-no di fatto spento le potenzialità innovative compresse nel precet-to dettato dall’articolo 54, co. 2.

Nella lettura prevalente (Mortati, Barile), il dovere si risolve in un precetto etico, in un monito, certamente rilevante, ma di dub-bia valenza giuridica, o in una sorta di poco utile «metadovere» riassuntivo di doveri che trovano tuttavia in altre norme, costitu-zionali ed ordinarie, la loro fonte ed il loro limite. In ogni caso, nella ricostruzione del signifi cato dei termini di «disciplina» ed «onore» si è optato (Lombardi, Ventura) per soluzioni di sostan-ziale continuità rispetto ai tradizionali assunti del diritto pubbli-co: il dovere, quando riferito ai dipendenti pubblici, non farebbe che confermare la responsabilità disciplinare e il dovere di fedeltà all’amministrazione prescritti nell’ordinamento del pubblico im-piego (oltre che la responsabilità disciplinare, la norma avrebbe addirittura costituzionalizzato un assetto organizzativo di tipo ge-rarchico). Ma, anche quando si indirizza al personale politico, il dovere non aggiungerebbe nulla di nuovo, ribadendo, per un ver-so, un generico quanto innocuo precetto di onore, e per l’altro, la soggezione alle blande prescrizioni disciplinari poste a presidio del buon funzionamento di collegi ed assemblee.

Isolata è viceversa rimasta la lettura secondo la quale il dovere di disciplina ed onore rappresenterebbe una fedeltà qualifi cata (Lombardi), specifi cativa, per i funzionari, del generale dovere di fedeltà alla Repubblica, destinata a ricevere applicazione da parte del legislatore. Egualmente senza sviluppi diretti risulta la prospettiva che riconosce nell’articolo 54, co. 2, l’arco di volta di un nuovo disegno organizzativo, radicalmente opposto a quel-lo della tradizione, incardinato non più sulla fi gura dell’organo, ma su quella dell’uffi cio e del funzionario, inteso come colui che adempie una funzione pubblica disciplinatamente e cioè secondo regola, nell’ambito dell’uffi cio (Marongiu).

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3. La «riscoperta» dell’articolo 54Vari elementi inducono a riconsiderare il precetto di disciplina

ed onore, sottraendolo ad un lungo oblio. A fronte del dilagare di fenomeni corruttivi, di «malamministrazione» e di malcostu-me, ricompare con crescente frequenza, nel dibattito pubblico l’evocazione dell’articolo 54, comma secondo, ogni qual volta si intende richiamare l’esigenza che la condotta di coloro che sono investiti di funzioni pubbliche, si ispiri a regole di decoro adegua-te alla fi ducia in essi riposta, che vanno oltre l’ ossequio formale ed esteriore alle leggi. La dottrina, per parte sua, dimostra una rinnovata attenzione al tema (v., da ultimo, i contributi raccolti in F. Merloni e R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Franco Angeli, 2009).

La «riscoperta» del dovere di disciplina ed onore acquista un senso tanto più pregnante se essa non si esaurisce nel ribadire il valore etico e civile del precetto, cosa oggettivamente inconte-stabile, o nel riferire, correttamente, al dovere di disciplina ed onore, le prescrizioni di vario ordine ispirate da un intento di moralizzazione della vita pubblica. La sfi da sta nel verifi care se questo lascito costituzionale, dimenticato da decenni, può, una volta liberato dalla polvere e dai pregiudizi che lo hanno coperto, ritrovare la sua funzione precettiva e di indirizzo, in un contesto ordinamentale che, nel frattempo, ha subito grandi trasformazio-ni nella direzione del decentramento e della autonomia. La strada in questa direzione potrebbe essere meno certa che in passato: i pregiudizi giuspositivistici si sono stemperati; le diffi denze garan-tistiche sono venute meno e vengono rimpiazzate dalla preoccu-pazione di porre rimedio alla crisi della responsabilità; è svanita ogni pur relativa fi ducia nella capacità dei partiti di ergersi come garanti dell’etica del personale politico.

Alla ricerca di punti fermi, si può in primo luogo ritenere supe-rata la questione relativa alla natura giuridica o meno del dovere di disciplina ed onore. Esclusa la possibilità di considerarlo come una mera ridondanza del testo costituzionale, resta piuttosto da chiarire quale sia la portata del principio in questione.

Parimenti da respingere pare la lettura che riconosce nel dove-re una mera sintesi verbale di altri doveri ed altri principi dettati da altri precetti. In realtà tra l’articolo 54, co. 2, e i precetti rivolti

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ora agli uffi ci, ora ai funzionari, dagli articoli 28, 97, 98 della Co-stituzione, esiste una indubbia continuità, nel senso che ciascuno di essi presuppone ed implica l’esistenza degli altri (il pubblico impiegato non può essere all’esclusivo servizio della Nazione se non esercita le sue funzioni con disciplina ed onore e se l’uffi cio in cui opera non è ordinato in modo da assicurare buon andamento ed imparzialità). Questa circostanza non autorizza a ritenere che ciascuno di tali principi possa essere considerato superfl uo, per-ché immanente agli altri. Al contrario, si potrebbe sostenere che l’articolo 54, co. 2, anche in ragione della sua collocazione nel-l’ambito dei rapporti politici, e per la sua consequenzialità logica rispetto al principio di eguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffi ci ed alle cariche elettive, sancito dall’articolo 51, possa rap-presentare il riferimento unifi cante dei disparati precetti costitu-zionali concernenti i doveri e le responsabilità dei funzionari.

Quale è, dunque, il contenuto precettivo del dovere di disci-plina ed onore? I termini, per la loro vaghezza, lasciano all’inter-prete uno spazio fi n troppo esteso. Nell’intento di restringere il campo, pare opportuno notare che, se il dovere di disciplina ed onore si indirizza, per inequivoca volontà del Costituente, tanto ai funzionari onorari, quanto ai pubblici impiegati, il contenuto del medesimo dovere non può mutare o essere diversamente gra-duato per intensità, a seconda che esso riguardi gli uni o gli altri, come viceversa è stato prospettato nelle ricostruzioni dottrinarie prevalenti, ma deve restare sempre il medesimo. Se infatti, rom-pendo una tradizione di netta separazione, governanti e servitori pubblici assumono la nuova comune veste di cittadini-funzionari, ciò corrisponde alla precisa volontà di chiedere ad essi una pari responsabilità, e soprattutto una responsabilità che si gioca non più all’interno degli ordinamenti d’appartenenza, ma nel rappor-to con la collettività.

La «disciplina» evocata dall’articolo 54, co. 2, non può dunque essere appiattita nella responsabilità disciplinare interna a rap-porti più o meno intensi di supremazia speciale. Non avrebbe tuttavia molto senso sostituire alla responsabilità disciplinare altri doveri ed altri obblighi di contenuto specifi co, compilandone una sorta di elenco. Il dovere, sebbene si indirizzi alle persone dei funzionari, trova il suo nucleo nella affermazione di un principio

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che deve essere sviluppato negli ordinamenti attraverso una cate-na di deliberazioni.

Riconsiderata in tale luce, la «disciplina» assume il senso più arioso di regolarità, perizia, competenza, apprendimento (v. ad vocem S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, 1966). Essa, come suggerito da G. Marongiu, è «dovere obbiet-tivo ed insieme corredo personale delle attitudini per l’esercizio del dovere». In ultima analisi, ciò che la Costituzione chiede ai funzionari, è di essere capaci ed onesti. Non è cosa da poco: esi-gere capacità ed onestà, in cambio dell’affi damento ricevuto, è qualcosa che va molto oltre il dovere di rispettare le leggi.

Il dovere di disciplina ed onore, inteso in questi termini, si con-fi gura come un principio direttivo indirizzato principalmente al legislatore, da declinarsi in ogni momento del rapporto che uni-sce il cittadino e l’uffi cio, e non solo limitatamente all’esercizio della funzione: quindi nell’accesso agli uffi ci, la cui regolazione deve corrispondere all’esigenza di ammettere i capaci e gli onesti, nella condotta personale e, entro certi limiti, anche nei comporta-menti immediatamente successivi alla cessazione della funzione. Tale principio dovrebbe ovviamente trovare composizione e bi-lanciamento con altri principi, connessi ed opposti, assumendo carattere parametrico nel giudizio di legittimità delle leggi che disciplinano l’accesso alle cariche e lo stato giuridico dei funzio-nari.

In conclusione, la «riscoperta» dell’articolo 54, co. 2, della Co-stituzione, essenziale per ridefi nire in termini unitari una nozione di funzione pubblica, nell’ambito di un assetto organizzativo plu-ralista e federalistico passa per una fase destruens relativamente facile, diretta a sgomberare il campo da approcci che hanno in passato relegato la norma in una condizione di marginalità, ed una fase construens molto più diffi cile ed incerta, che richiede un ruolo attivo del legislatore, della giurisprudenza e della dottrina, in un percorso simile a quello che ha consentito, in epoca recente, la emersione del principio di imparzialità e buon andamento.

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Vito D’Ambrosio

I PROFILI PENALI DELLA CORRUZIONE E DELLA MALADMINISTRATION

1. L’antefatto. Dopo «Tangentopoli» e «Mani pulite»A leggere le cronache nazionali e le informazioni internazio-

nali, sembra che la corruzione nella pubblica amministrazione, e, forse meglio, nella vita pubblica italiana, non sia affatto scemata dall’epoca di «Mani pulite». A distanza di 18 anni dall’arresto di Mario Chiesa l’Italia, nelle classifi che internazionali dei Paesi interessati dalla corruzione, occupa uno degli ultimi posti: nella graduatoria mondiale, infatti, secondo l’organizzazione Transpa-rency International, nel 2007 l’Italia si colloca al 55esimo posto, scendendo di parecchio rispetto all’anno precedente. Sui 163 Paesi presi in esame da Transparency, in base a una sorta di pa-gella che va da 0 a 10, l’Italia ottiene un giudizio di insuffi cienza piena con il punteggio di 4.9, preceduta da Cile (23esimo), Corea del Sud (40esimo) e Costa Rica (47esimo).

Una prima, sconsolante, conclusione è, quindi, che gli stru-menti repressivi, compresi quelli più nominalmente dissuasivi, cioè la minaccia di irrogazione di sanzioni penali, non hanno avu-to effetto. Quello della corruzione – in senso lato e non tecnico – è perciò uno dei campi nei quali si dimostra la ineffi cacia di un approccio tradizionalmente sanzionatorio, sia pure al massimo livello, per reprimere o almeno contenere fenomeni dal robusto radicamento (1). Una valida politica di contrasto, perciò, va impo-stata in maniera molto più articolata, attenta e coordinata anche nel campo del diritto penale.

(1) Peraltro, in base alle condanne defi nitive, nell’87,6% dei casi sono sta-te irrogate pene fi no a due anni di reclusione (condizionalmente sospendibili), nell’8,8% dei casi pene tra due e tre anni (per le quali sono possibili misure alternative) e solo nel 3,5% dei casi le pene, superiori a tre anni, erano eseguibili in forma detentiva.

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2. L’ottica del diritto penaleL’oggetto giuridico. In una trattazione non specialistica, come

questa, possiamo condensare la nozione di oggetto giuridico del reato in quella dell’interesse «pubblico», in senso lato, che viene tutelato con la previsione di una sanzione penale (pena) per chi lo leda. L’oggetto giuridico, nozione per un certo periodo ritenuta superata, ha ripreso una posizione centrale nell’ambito del diritto penale, perché serve (soprattutto) a distinguere i reati, secondo varie chiavi di lettura. Una corretta individuazione dell’oggetto giuridico di un reato, quindi, è necessaria per qualsiasi applica-zione del diritto penale, inteso come accertamento di una condot-ta alla quale segue, in presenza di specifi ci elementi, l’irrogazione di una pena.

Un reato può avere un solo oggetto giuridico, perché previsto a tutela di un solo interesse, oppure una pluralità di oggetti giuridi-ci, essendo plurimi gli interessi protetti (ed infatti una distinzione dei reati li qualifi ca unioffensivi o plurioffensivi).

Da tali premesse è facile concludere che una eccessiva estensio-ne della nozione di oggetto giuridico comporta il rischio di una espansione inaccettabile della responsabilità penale, e, al contra-rio, una specifi cazione troppo minuziosa può restringere inaccet-tabilmente l’ambito delle condotte illecite.

2.1. L’oggetto giuridico nei reati contro la pubblica amministrazioneUn esempio per tutti: la dottrina e la giurisprudenza largamen-

te maggioritarie ritengono il peculato un tipico reato plurioffen-sivo, in quanto diretto alla lesione dell’interesse «patrimoniale» della Pubblica Amministrazione e dell’interesse, costituzional-mente previsto all’articolo 97, al buon andamento della P.A.; su questa linea interpretativa si è ritenuto costituire peculato l’uso del telefono d’uffi cio per conversazioni private, e, andando oltre, anche l’utilizzo di materiale della P.A., sostituendolo con altro di valore inferiore. Di recente, però una sentenza della Cassazione non ha ravvisato peculato, ma eventualmente abuso d’uffi cio, nel-la condotta del pubblico uffi ciale che ha utilizzato per fi ni suoi personali il collegamento ad internet del computer d’uffi cio, per-ché, essendo la tariffa utilizzata dalla P.A. forfettaria (c.d. tariffa fl at) non si è ravvisata una lesione dell’oggetto giuridico del reato,

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individuato soltanto nell’interesse patrimoniale della Ammini-strazione (2).

L’abnorme dilatazione dell’intervento giudiziario nell’ambito del funzionamento della P.A. portò ad una modifi ca nel 1990, con la legge 26 aprile 1990, n. 86, che seguì un doppio binario di intervento, da un lato ripensando la posizione privilegiata della P.A. nei confronti dei cittadini, e dall’altro inserendo elementi di specifi cazione e limitazione, volti a valorizzare i risvolti patrimo-niali dell’oggetto giuridico dei reati, che in tal modo si caratte-rizzavano meno di prima per l’infl uenza della condotta dei loro autori sul funzionamento della P.A. e, invece, più di prima per le conseguenze patrimoniali di tale condotta; in sostanza il corretto funzionamento della P.A. continuava ad essere tutelato, ma si ten-deva a sanzionare maggiormente quelle condotte che, incidendo sul funzionamento, producessero anche conseguenze patrimonia-li indebite, a vantaggio o a danno di privati e/o della stessa P.A. Così, per fare pochissimi esempi, come esplicazione del primo tipo di intervento, fu abrogato il delitto di oltraggio (art. 341 c.p.) che tanto aveva fatto discutere durante la fi ne degli anni Sessan-ta e l’inizio degli anni Settanta, all’epoca dell’«autunno caldo» e della contestazione studentesca; come caso tipico della seconda linea di intervento, basta il confronto tra il testo dell’articolo 326 c.p. (la rivelazione di segreti d’uffi cio) prima e dopo la modifi ca effettuata dall’art. 15 della l. 26 aprile 1990, n. 86. In seguito, con l. 16 luglio 1997, n. 234, si intervenne nuovamente sulla fi gura dell’abuso di uffi cio, tipizzandone ulteriormente l’ambito ed evi-denziando ulteriormente i rifl essi patrimoniali della condotta.

Si può quindi ben concludere che, in materia di concussione e corruzione, la montagna dei lavori ha partorito un piccolo topo-lino: la estensione del reato di concussione anche all’incaricato di pubblico servizio, unica modifi ca sostanziale introdotta dalla l. 26 aprile ’90, n. 86, attualmente vigente.

Tuttavia una importante riforma complessiva della materia vi è stata perché:

(2) Sulla questione, con numerosi richiami di dottrina e giurisprudenza, M. De Bellis, «Uso illecito del computer in uffi cio per connettersi ad internet: pecu-lato od abuso d’uffi cio?», in Cassazione penale, 2009, 3, 1009.

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– la l. n. 86/90, precisata dalla l. n. 181/92, non soltanto ha mi-gliorato le nozioni di pubblico uffi ciale. e di incaricato di pub-blico servizio, ed ha ridisegnato le altre fi gure dei reati contro la P.A. con una più corretta tipizzazione delle stesse, ma ha anche creato numerose ipotesi di condotte certamente richie-denti un intervento punitivo;

– la l. n. 234/97, che ha nuovamente modifi cato, e in modo so-stanziale, il reato di abuso d’uffi cio, anche se per molti versi criticabile, avendo reso di diffi cile applicazione pratica e priva di effettiva effi cacia la fattispecie tipica sotto il duplice profi lo degli accertamenti probatori e della riduzione della pena, spe-cie nei suoi effetti processuali, tuttavia ha ottenuto il risultato voluto dal legislatore: quello di impedire il sindacato del giudi-ce penale sui poteri discrezionali della P.A.

Ma un’altra, più sostanziale, critica va avanzata: nella riforma del 1990, infatti, non si volle trarre alcuna ispirazione dal dibattito che in quegli anni stava scuotendo il mondo della giustizia e della politica, in materia di collaborazione tra inquisiti ed inquirenti (mentre, probabilmente, la stessa «sordità» nel 1997 fu dovuta alla preoccupazione per una possibile ripetizione dei fenomeni di chiamate di correi verifi catisi nelle indagini di «Mani pulite»). In altri termini, reagendo al fenomeno di una ipertrofi a indub-biamente patologica dell’intervento giudiziario – però spesso si scambiavano sintomi e cause – si volle riportare il controllo sul funzionamento della P.A. in ambito fi siologico, ma si evitò, con uno strano, ma non inspiegabile, strabismo e ritardo strategico, di ricercare la introduzione di uno strumento che stava dando buona prova, cioè la collaborazione tra inquirenti ed inquisiti (che assai impropriamente fu ascritto a categorie morali, quali il pentitismo, invece che ad un assai più accettabile pragmatismo, ispirato da fenomeni di altri ordinamenti nazionali).

L’imponente proliferazione dei fenomeni corruttivi, che ha spinto anche il Governo ad impostare una strategia di intervento specifi co (non proprio apprezzabile, per la verità, come si dimo-strerà) costringe a riesaminare la strategia di contrasto in ogni ambito, compreso quello del diritto penale.

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Partendo da alcuni presupposti spesso dimenticati, va riaf-fermato che l’intervento penale deve conservare il suo carattere residuale, ma che, nonostante, o forse proprio per questo, deve rivestirsi di qualche carattere di novità, sia in materia di oggetto giuridico, che di condotta, che di persone e di apparato sanzio-natorio. Non – è bene chiarirlo – un diritto penale speciale, però, ma una contestualizzazione necessaria dei rifl essi penali di un tema di crescente importanza.

2.2. L’oggetto giuridico nel contesto costituzionaleNon si può affrontare correttamente nessuna analisi sulla P.A.

senza partire dalle prescrizioni e dalle indicazioni dell’articolo 97 della Costituzione, che va, se necessario, aggiornato, non trascu-rato o, peggio, dimenticato. E in tutta la sua articolazione. Così che siano salvaguardati non soltanto il buon andamento e l’im-parzialità della pubblica amministrazione (che si tratti, poi, di concetti separati o di una endiadi è problema che viene affrontato in altre parti di questo studio e da altre più specifi che capacità), ma anche il principio di organizzazione degli uffi ci secondo linee di distinzione e attribuzione di competenze, e, non ultimo, il va-lore del pubblico concorso come via privilegiata e quasi esclusiva di accesso alla pubblica amministrazione. Poste queste premesse, non ogni violazione di quei principi può dar luogo a responsabili-tà penale, ma certamente quelle più macroscopiche non possono/debbono essere sottratte al vaglio del giudice penale. In altre e più semplici parole: un’amministrazione che funzioni bene, che non dia sospetti di parzialità, nella quale responsabilità e competenze siano chiaramente distribuite e attribuite è un interesse generale, ormai sempre più rilevante nella nostra società complessa.

Altra, più delicata questione è quella del valore da attribuire ad una norma costituzionale molto trascurata, perché ritenuta margi-nale e quasi pleonastica, cioè l’articolo 54, con l’imposizione a chi esercita funzioni pubbliche del dovere di svolgerle con disciplina ed onore: in altra parte di questo studio si esaminano gli aspetti pubblicistici del tema, mentre in questa sede ci si può limitare ad accennarvi, per l’eventuale utilità in tema di oggetto giuridico.

Se si condividono le premesse poste, la conseguenza ovvia è che l’articolo 97 va contestualizzato, ossia la sua interpretazione

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non può ignorare le profonde trasformazioni socio-economico-giuridiche che si sono venute stratifi cando negli ultimi periodi. Per una concretizzazione dell’approccio, vanno riesaminati, per esempio, alcuni istituti cardine nella nostra materia, a cominciare dai criteri di distinzione delle condotte. Probabilmente quando il codice penale fu costruito, la differenza tra corruzione per atto d’uffi cio e per atto contrario ai doveri d’uffi cio (rispettivamente previste agli artt. 318 e 319) era chiara e sentita come necessaria, anche sotto il profi lo sanzionatorio. Ma oggi la conclusione po-trebbe (dovrebbe?) essere profondamente diversa.

Dalle cronache più recenti, infatti, emerge con disarmante e ri-badita chiarezza che, mentre la corruzione c.d. «propria» (per un atto contrario ai doveri di uffi cio) incide, distorcendola, sulla le-gittimità e regolarità dell’azione della P.A., la corruzione «impro-pria» (per compiere o per aver compiuto un atto dell’uffi cio) sem-pre più spesso deriva dal (ed approfi tta del) mal funzionamento della P.A. Tutte le volte, quindi, che la corruzione si sostanzia in uno scambio di favori, ed il favore del pubblico uffi ciale è un atto proprio del suo uffi cio, è molto elevata la probabilità che l’atto si inserisca in un procedimento amministrativo connotato da irre-golarità di vario tipo – da un uso scorretto della discrezionalità al prolungamento ingiustifi cato della procedure – così che, a voler usare un linguaggio impressivo, il corruttore non mira ad ottenere un vantaggio diretto dal corrotto, ma piuttosto cerca di evitare un danno possibile derivante da condotte formalmente non illecite, ma incidenti in misura molto negativa sui suoi diritti. Si ricordino, per esemplifi care, i casi, ormai di scuola, e molto frequenti nelle cronache, nei quali la promessa o la dazione di una «utilità» al pubblico uffi ciale è diretta ad evitare i rifl essi negativi di una pras-si ritardatrice degli atti, apparentemente solo irregolare, ma non illecita (questa rifl essione ultima dovrebbe portare ad un riesame dell’attenuante dell’articolo 318, co. 2, la c.d. corruzione propria susseguente, che prevede pene molto più miti per il pubblico uf-fi ciale che riceve retribuzione per aver compiuto un atto del suo uffi cio).

Uno degli effetti più negativi di questo fenomeno è che la spe-ditezza dell’azione amministrativa non è fruttuosa per il pubblico uffi ciale «infedele» (mentre è uno degli elementi cardine per un

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corretto funzionamento dell’intera società), e quindi non viene percepita come un valore da difendere o un obiettivo da raggiun-gere. E, elemento ancora più signifi cativo, non vi è, in genere, in-teresse a semplifi care le procedure inutilmente ed eccessivamente complesse, perché la complessità produce strutturalmente tempi lunghi. Parafrasando un vecchio detto, le procedure complicate possono danneggiare gli avversari, se lasciate immutate, e favo-rire gli amici, se semplifi cate o, ancor meglio, accelerate: a ciò si aggiunge che, troppo spesso, la semplifi cazione o l’accelerazione hanno un costo, che viene addossato a chi è in contatto con la P.A. in una posizione di svantaggio.

La situazione appena descritta, sia pure per rapidi cenni, pro-duce effetti che vanno in direzione esattamente contraria ai prin-cipi organizzativi e di funzionamento indicati dall’articolo 97 del-la Costituzione, e questa conclusione nega in radice la fondatezza della tesi dominante, di un disvalore sempre maggiore della cor-ruzione propria rispetto a quella impropria, e consiglierebbe, in una ricerca disincantata ed utilitaristica della soluzione al proble-ma, di non procedere ad una distinzione aprioristica della corru-zione in due categorie strutturalmente differenti, ma di unifi care la fi gura di reato, riservando alla graduazione del trattamento san-zionatorio la eventuale diversa offensività delle condotte illecite (ovviamente questa soluzione viene fortemente avversata da chi teme un eccessivo ampliamento della discrezionalità del giudi-ce in materia di trattamento sanzionatorio; ma questo è ambito molto delicato, sulle cui implicazioni un accenno di approfondi-mento è articolato subito avanti). O forse addirittura si potrebbe percorrere la via dell’unifi cazione tra tutte le fi gure di corruzione, per la unitarietà di oggetto giuridico (articoli 318, 319, 319-ter, 320 c.p.), prevedendo quelle che adesso sono fi gure autonome di reato come aggravanti dell’ipotesi di base: del resto una linea analoga di intervento unifi catore e semplifi catore fu seguito per la riforma del 1990 quando, con la nuova stesura dell’articolo 323, furono assorbite nella fi gura dell’abuso di uffi cio le vecchie ipote-si di reato del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’uffi cio. Sulla stessa linea era impostato un disegno di legge, varato dal governo il 12 ottobre 2007, e rimasto senza seguito, che prevedeva la ratifi ca della Convenzione del Consiglio d’Europa

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contro la corruzione, approvata il 27 gennaio 1999 a Strasbur-go. Uno spunto signifi cativo già adesso si potrebbe trarre dalla Convenzione dell’Onu, ratifi cata dalla legge 3 agosto 2009, n. 116 – sulla quale si rinvia al paragrafo successivo – che non fa alcuna distinzione tra atti contrari ai doveri e atti secondo i doveri di uf-fi cio (cfr. artt. 15 e 16, nei quali si usa, per descrivere la condotta illecita, l’espressione standard «compia o si astenga dal compire un atto, nell’esercizio delle sue funzioni uffi ciali», espressione uti-lizzata in tutte le convenzioni internazionali). La giustifi cazione deriva dalla contrarietà ai principi della nostra Costituzione di atti posti in essere con intenti di arricchimento patrimoniale, di-retto o indiretto, di chi li compie. Alle stesse conclusioni giunge una recente, ampia ed articolata proposta legislativa in esame al Senato (disegno di legge A.S. 2174, prima fi rmataria Finocchiaro, al quale si farà ancora riferimento), che arriva a scindere anche la fi gura della concussione, inserendo la concussione per induzione nella fattispecie della corruzione (art. 319) e la concussione per costrizione in quella dell’estorsione.

Ci si rende conto che una simile conclusione apre spazi notevo-li all’intervento dell’interprete della legge (gli studiosi certamen-te, ma soprattutto il giudice), però una strada diversa, che tendes-se a riportare nella previsione legislativa tutte le possibili ipotesi concrete, presenta l’elevato rischio di un contrasto tra norme, o addirittura di una soluzione fi nale opposta a quella voluta (basta ricordare il caso recente delle conseguenze assurde, in materia di politica criminale, dell’incrocio di previsioni tra politica delle sanzioni e distribuzione di competenze fra tribunali e corti d’as-sise, per cui il risultato fi nale è stata la necessità di un rinnovato intervento del legislatore per evitare la prescrizione o la scadenza dei termini di custodia cautelare per un numero non indifferente di gravi reati). Certamente i problemi diminuirebbero, e non di poco, se la tecnica legislativa, anche prendendo spunto da esempi stranieri, fosse meno approssimativa e insoddisfacente di quella adottata dal legislatore attuale.

2.3. I modelli stranieriI principali strumenti internazionali per la lotta alla corruzione

sono tre: la Convenzione dell’OCSE del 1997 contro la corruzione

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nelle transazioni economiche internazionali, la Convenzione del Consiglio d’Europa del 1999 contro la corruzione (le convenzioni sono in effetti due, una penale ed una civile, entrambe siglate a Strasburgo) e la Convenzione dell’ONU contro la corruzione del 2003. Va infi ne segnalata l’esistenza del GRECO, gruppo di Stati contro la corruzione, anch’esso risalente al 1999 (3).

Con la legge 3 agosto 2009, n. 116 si è data, fi nalmente, ratifi ca ed esecuzione alla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazio-ni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, nota come convenzione di Merida, (dal nome della città messicana nella quale avvenne la fi rma) fi rmata dallo Stato italiano il 9 dicem-bre 2003. Stando all’articolo 1, «Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratifi care la Convenzione» e, quindi, l’articolo 2 esplicita che «Piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione di cui all’articolo 1».

Ma, dopo aver espresso queste affermazioni, ormai standardiz-zate negli atti di questo tipo, ci si dimentica di dar loro seguito sostanziale. Infatti le modifi che apportate alla normativa interna sono soltanto quelle espressamente previste dalla legge, e cioè l’aggiunta all’ultimo comma dell’art. 322-bis c.p. sulla applicabi-lità della disciplina in materia ai reati commessi da membri degli organi e da funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 3 della legge), le integrazioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 sulla responsabilità delle persone giuridiche (art. 4), l’introduzione degli artt. 740-bis e 740-ter nel codice di procedura penale in materia di confi sca (art. 5). Resta del tutto trascurato il testo stesso della Convenzione, che pure è ricco di elementi che avrebbero dovuto trovare spazio nella nostra legislazione. Per esempio, rimane, come si diceva alla fi ne del precedente paragra-fo, (quasi) assolutamente privo di effetti lo sforzo defi nitorio della Convenzione, sia in generale (v. l’art. 2, intitolato espressamente «Terminologia», l’art. 3, nella parte in cui si occupa proprio di quello che defi niamo oggetto giuridico), statuendo che:

(3) Su tutti questi organismi, vedi l’ampia informazione e trattazione nel sag-gio di S. Bonfi gli, in questo volume, al quale si rinvia per la panoramica generale, mentre in questa sede ci si limita agli aspetti più strettamente penalistici.

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Ai fi ni dell’applicazione della presente Convenzione, non è ne-cessario, salvo disposizione contraria di quest’ultima, che i reati ivi indicati causino un danno od un pregiudizio patrimoniale allo Stato,

sia sulle singole fi gure di reato (v. artt. 15-20 per il settore pubbli-co e artt. 21 e 22 per il settore privato). Così che neppure da que-sta inaspettata circostanza fortunata – perché non era facilmente prevedibile una ratifi ca della Convenzione, dopo 6 anni di sonno – si è riusciti a trarre alcune importanti conseguenze ai fi ni di un contrasto effi cace ai fenomeni di corruzione.

Ma, sempre nell’ambito dei riferimenti stranieri, va evidenziata per la sua importanza la Convenzione di Strasburgo, approvata dal Consiglio d’Europa il 27 gennaio 1999 e non ancora ratifi cata dall’Italia, con una scelta del tutto incomprensibile, visto che la successiva Convenzione di Merida è stata ratifi cata, sia pure con grave ritardo.

3. L’oggetto giuridico rivisitatoSe l’oggetto giuridico, principale od esclusivo, è in generale,

l’imparzialità e il buon funzionamento della P.A., restano fuori dalle previsioni penali tutte, o quasi, le innumerevoli forme so-cietarie, che potremmo chiamare «miste», scelte dalla P.A. per operare nel campo e con gli strumenti del diritto privato. La c.d. privatizzazione, infatti, ha avuto come conseguenza, tra le altre, quella di sottrarre al controllo della giustizia penale il funziona-mento di una serie di persone giuridiche, alcune di notevole peso, che continuano ad utilizzare capitali pubblici, ma sono formal-mente governate da norme di diritto privato. Ci si riferisce a so-cietà erogatrici di servizi – gli esempi più macroscopici sono quelli delle (un tempo) Ferrovie dello Stato, adesso diventate Trenitalia, e delle Poste – che pesano notevolmente sui bilanci dello Stato (talora anche su quello delle Regioni), pur essendo sottoposte a responsabilità e controlli privatistici, e non più pubblicistici. Ma, sullo stesso piano possono essere poste altre società, con bilanci altalenanti – un esempio positivo è quello dell’Eni, uno molto negativo è invece quello dell’Alitalia, per non andare troppo in-dietro nel tempo con la Gepi – che si fa una certa fatica a ritenere

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escluse dal novero della P.A., dato che i loro risultati economici pesano sui conti pubblici.

Su questo stesso terreno vanno (andrebbero) esaminati i casi delle c.d. società partecipate, sempre più numerose nell’ambito delle autonomie locali – che riuniscono, a volte, i difetti tipici della P.A. e quelli delle società private – i cui organi decisionali, invece di essere chiamati a rispondere su entrambi i piani, spesso sfuggono alle maglie dell’uno e dell’altro tipo di responsabilità. La crescente diffusione del fenomeno ha comportato una prima reazione normativa, di importanza non marginale: nella bozza fi -nale del disegno di legge governativo «recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione» fi nalmente approdato all’esame del Senato – A.S. 2156 – con un incredibile ritardo su un tema che sembrava dover occupare uno dei primissimi posti nell’agenda governativa, nel Capo II «Disposizioni in materia di controlli su-gli enti locali» l’articolo 7, che contiene le modifi che al T.U. sugli enti locali – d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 – inserisce nel T.U. un articolo 147-quater, intitolato, signifi cativamente «Controlli sul-le società partecipate». A prescindere dal merito, sul quale altri proporrà approfondimenti, va rilevato che questo è uno dei pochi punti sicuramente positivi di un testo molto discutibile almeno per gli aspetti penalistici, come si approfondirà più avanti. Il le-gislatore, infatti, sia pure in un testo, licenziato a scatola chiusa dal Consiglio dei Ministri ed affi dato fi duciariamente al lavoro dei tecnici interministeriali (non si fi nisce di stupirsi davanti alla disinvoltura del legislatore, sia pure per così dire «secondario»), certifi ca la consistenza di un fenomeno, che ritiene ormai neces-sario disciplinare esplicitamente.

Gli spunti precedenti, ancora schematici, dimostrano la ne-cessità di una rifl essione generale sul fenomeno di queste fi gure societarie, al fi ne di predisporre una rete di controlli, volti a con-trastare eventuali tentazioni di incanalare a fi ni illeciti negli stru-menti «nuovi» l’attività di quella che era P.A. Fino ad ora, infatti, la giurisprudenza, affrontando la problematica della qualifi ca dei dipendenti di alcuni di questi enti, in applicazione degli articoli 357 e 358 del Codice penale – defi nizione di pubblico uffi ciale e di incaricato di pubblico servizio – ha svolto un’opera meritoria

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per fi ssare i reciproci rapporti tra fi nalità dell’ente e sua natura giuridica; i suoi interventi, però, si sono rivelati assolutamente insuffi cienti, anche perché la materia pretende un preliminare inquadramento legislativo (si noti, per esempio, che la residua «pubblicità» della natura dell’ente ha spinto la giurisprudenza a qualifi care come incaricati di pubblico servizio i suoi dipendenti, con la conseguenza, del tutto irrazionale, dell’applicazione di una pena diminuita a condotte che conservano tutti i connotati origi-nari di negatività). Né può ritenersi suffi ciente il ricorso alle pre-visioni, in materia di responsabilità delle società, contenute nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che pure ha rappresentato una novità importante. Il decreto, infatti, sanziona condotte criminose poste in essere da dipendenti dell’ente a vantaggio dell’ente stesso, pre-supponendo che l’ente si ponga come interlocutore della P.A. o del pubblico uffi ciale infedele, mentre nelle ipotesi di società di origine pubblica, ma «vestite» privatisticamente, spesso la con-dotta illecita dei dipendenti o degli organi della società è a danno dell’ente (si pensi, per esempio, al conferimento di incarichi o ad assunzioni «pilotate» come copertura di accordi corruttivi, oppu-re all’impegno dell’ente in attività palesemente svantaggiose). Lo sforzo di ampliare la responsabilità degli enti anche alle ipotesi appena indicate potrebbe, d’altronde, produrre il risultato positi-vo di eliminare alcuni aspetti criticabili della previsione originaria del d.lgs. 231 del 2001 (4) (5).

4. I soggettiOvviamente diffi coltà analoghe si pongono quando si affron-

ti il tema dei soggetti che possono commettere i reati contro la P.A. Il codice penale dedica il capo I del titolo II del libro II (dei delitti) ai «delitti dei pubblici uffi ciali contro la pubblica am-ministrazione», provvedendo, poi, ad estenderne l’ambito anche alla categoria degli incaricati di pubblico servizio: si tratta, quin-

(4) Per un esempio, v. F.C. Bevilacqua, «La natura problematica del profi tto confi scabile nei confronti degli enti», in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2009, 1114, con disamina delle diffi coltà applicative dell’istituto.

(5) Ed infatti il citato disegno di legge A.S. 2174 prevede, all’articolo 8, modi-fi che al decreto legislativo in questione.

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di, di una serie di reati c.d. propri, nel senso che possono essere commessi solo da alcuni soggetti e non da tutti. Quando, però, si passa all’individuazione dei soggetti, se ne dà una defi nizione, agli articoli 357 e 358, che appare sicuramente datata – anche se la normativa è stata modifi cata dalla legge 26 giugno 1990, n. 86 – e che può comportare conseguenze negative.

Assai più utile sarebbe una defi nizione che ricalcasse quella della convenzione ONU contro la corruzione, la quale, all’artico-lo 2, defi nisce il pubblico uffi ciale nei seguenti termini:

Si intende per «pubblico uffi ciale»:

i) qualsiasi persona la quale detenga un mandato legislativo, esecutivo, amministrativo o giudiziario di uno Stato Parte, che essa sia stata nominata o eletta, a titolo permanente o temporaneo, che essa sia remunerata o non remunerata, e qualunque sia il suo livello gerarchico;

ii) qualsiasi persona che eserciti una pubblica funzione, anche per un organismo pubblico od una pubblica impresa, o che fornisca un pubblico servizio, così come tali termini sono de-fi niti dal diritto interno dello Stato Parte e applicati nel ramo pertinente del diritto di tale Stato;

iii) ogni altra persona defi nita quale «pubblico uffi ciale» nel di-ritto interno di uno Stato Parte. Tuttavia, ai fi ni di alcune misure specifi che previste nel Titolo II della presente Con-venzione, si può intendere per «pubblico uffi ciale» qualsiasi persona la quale eserciti una pubblica funzione o fornisca un pubblico servizio, così come tali termini sono defi niti dal di-ritto interno dello Stato Parte e applicati nel ramo pertinente del diritto di tale Stato.

Una defi nizione così strutturata (che ricorre quasi uguale anche nelle altre due Convenzioni) farebbe venir meno alcune limitazio-ni della categoria ormai del tutto ingiustifi cabili, e aiuterebbe non poco l’interprete sia ad orientarsi nel campo assai scivoloso della responsabilità dei vertici apicali delle funzioni pubbliche, senza dover ricorrere all’istituto del concorso del soggetto estraneo nel delitto commesso dal pubblico uffi ciale, sia a risolvere corretta-mente la problematica relativa ai rapporti tra questi reati e i reati

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c.d. ministeriali (6), regolati dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1.

(6) Cfr., per il primo profi lo, una interessante pronuncia della Corte di Cas-sazione, sez. 6, sentenza n. 8854 del 20/05/1988 (ma leggasi 1998) Ud. (dep. 30/07/1998), Rv. 211998 Imputato: De Michelis G., «Ai sensi dell’art. 96 Cost. e dell’art. 1 della legge 16 gennaio 1989, n. 1, gli elementi che caratterizzano la categoria dei reati ministeriali sono la particolare qualifi cazione giuridica sogget-tiva dell’autore del reato nel momento in cui questo è commesso e il rapporto di connessione fra la condotta integratrice dell’illecito e le funzioni esercitate dal ministro, rapporto che sussiste tutte le volte in cui l’atto o la condotta siano comunque riferibili alla competenza funzionale del soggetto. Deve, quindi, rite-nersi che, non solo siano esclusi dalla categoria in questione quei reati in cui sia ravvisabile un mero rapporto di occasionalità tra la condotta illecita del ministro e l’esercizio delle funzioni, ma anche che non siano richiesti ulteriori requisiti per l’esistenza di tali reati, quali l’abuso delle funzioni o dei poteri o la violazione dei doveri di uffi cio (nella specie è stata ritenuta insussistente la qualifi cazione di reato ministeriale nella ipotesi di corruzione, commessa dal ministro in concor-so con pubblico uffi ciale – quale “intraneus” –, in relazione alla aggiudicazione di lavori pubblici stradali, dietro compensi illeciti, al di fuori di qualsiasi titolo ad intervenire da parte del ministro, per la sua specifi ca funzione, sugli appalti relativi).» Per il secondo problema, ancora fondamentale, una decisione delle Sezioni Unite Sez. U, Sentenza n. 14 del 20/07/1994 Cc. (dep. 01/08/1994) Rv. 198219 Imputato: De Lorenzo. «L’espressione “reati commessi nell’esercizio del-le loro funzioni” con la quale, nell’art. 96 della Cost. (come sostituito dalla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1), vengono defi niti i cosiddetti “reati ministe-riali” commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri, va intesa (conformemente a come vengono intese analoghe espressioni, caratterizzate dal riferimento all’esercizio delle funzioni, che si rinvengono, ad esempio, negli artt. 316, 341, 362, 476, 478,479, 480, 496, 617-ter c.p.), nel senso della riconoscibilità del rapporto di strumentale connessione previsto dal legislatore tutte le volte in cui l’atto o la condotta siano, comunque riferibili alla competenza funzionale del soggetto; ragion per cui sarebbe arbitrario tanto identifi care quel rapporto in un nesso di mera occasionalità con l’esercizio delle funzioni, quanto pretendere che esso sia arricchito di ulteriori elementi qualifi canti, come l’abuso dei poteri o delle funzioni, ovvero la violazione dei doveri d’uffi cio, non richiesti dalla legge nè suggeriti da una corretta interpretazione.

L’area dei cosiddetti “reati ministeriali”, previsti dall’art. 96 Cost., non è ridu-cibile ai soli “provvedimenti” formali assunti da un ministro nell’ambito della sua competenza, posto che una tale limitazione, oltre a non trovare giustifi cazione nel contenuto e nelle fi nalità dell’art. 96 Cost. (il quale si riferisce indifferentemente a tutte le ipotesi di reato previste dall’ordinamento, molte delle quali realizzabili soltanto con atti diversi dalla deliberazione di un provvedimento formale), tra-scurerebbe un aspetto di decisiva rilevanza, e cioè che la attività funzionale di un Ministro, nello ambito del dicastero da lui rappresentato e diretto, non si esau-risce nell’adozione di provvedimenti, ma comprende una serie di interventi che si sviluppano secondo un iter procedimentale più o meno complesso, nel quale possono confl uire contributi necessari od eventuali di altri organi o di altri uffi ci della stessa o di una diversa amministrazione».

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Sarebbe quindi preferibile una riformulazione unitaria delle ipotesi degli articoli 357 e 358 del Codice penale, che unifi chi le attuali fi gure del pubblico uffi ciale e dell’incaricato di pubblico servizio (la distinzione non è più attuale, le amministrazioni ope-rano con strumenti di tipo autoritativo o di tipo consensuale, ma i loro funzionari possono commettere reati nell’uno e nell’altro caso) e sia formulata nei seguenti termini:

Agli effetti della legge penale sono pubblici funzionari coloro i quali, nominati o eletti, a titolo permanente o temporaneo, remu-nerati o non remunerati, svolgono direttamente o contribuiscono allo svolgimento di pubbliche funzioni, normative, giurisdizionali, amministrative. Allo stesso fi ne sono pubblici funzionari i titolari di organi di in-dirizzo e i loro collaboratori, i titolari di incarico di coordinamento generale, i dirigenti e i dipendenti che operano presso gli organi dello Stato, presso le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, co. 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ovvero presso enti e so-cietà di diritto privato controllate da pubbliche amministrazioni e comunque esercenti attività di servizio pubblico o fi nalizzate all’in-teresse pubblico.

5. Le condotteMentre si cercano vie mirabolanti di contrasto alla corruzione,

ci si dimentica di aprire la fi nestra e guardare fuori di casa.Sia la Convenzione di diritto penale sulla corruzione del Con-

siglio d’Europa (1999), infatti, sia la Convenzione dell’ONU pre-vedono un reato, strettamente collegato a quello di corruzione, che nel nostro ordinamento non esiste: il c.d. traffi co di infl uen-za, che punisce chi, vantando conoscenze nell’amministrazione si propone come intermediario per il sollecito di pratiche in cambio di danaro o di favori per accelerarne l’iter o per ottenerne un van-taggio (art. 18 Convenzione ONU, art. 12 Convenzione di Stra-sburgo). La direttiva è stata già recepita da Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi, Finlandia, Svezia, Norvegia, Portogallo e Grecia, ma non dall’Italia. Eppure l’introduzione di tale fattispecie di reato permetterebbe di adeguare lo schema di incriminazione al nuovo assetto dei rapporti tra pubblico e privato nella gestione di beni e servizi pubblici. Inoltre riconoscerebbe un disvalore meritevole di

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sanzione penale anche al ruolo dell’intermediario privato, ipotesi assai frequente. Né si può qualifi care la condotta in esame come un caso particolare di millantato credito, previsto dall’articolo 346 c.p., perché le due ipotesi sono diverse, anche se «confi nanti».

Sulla falsariga delle due convenzioni, nonché di formulazioni di ordinamenti stranieri, si potrebbe, quindi, introdurre una nuo-va fi gura di reato, il «traffi co di infl uenza» (7), così strutturata:

1. Chiunque promette, offre o consegna ad un pubblico funzio-nario o a qualsiasi altra persona,direttamente o indirettamente, un vantaggio indebito affi nché il pubblico funzionario o la per-sona abusi della sua infl uenza reale o supposta con lo scopo di ottenere indebitamente da una autorità o da una amministra-zione pubblica, per l’istigatore originario dell’atto o per qual-siasi altra persona, riconoscimenti, impieghi, contratti o ogni altra decisione favorevole è punito…

2. È punito altresì il pubblico funzionario o qualsiasi altra perso-na che sollecita o accetta, direttamente o indirettamente, un vantaggio indebito per se stesso o per altra persona affi nché il pubblico funzionario o la persona abusi della sua infl uenza reale o supposta con lo scopo di ottenere indebitamente da una autorità o da una amministrazione pubblica a favore di qual-siasi persona riconoscimenti, impieghi, contratti o ogni altra decisione favorevole.

3. Se le condotte di cui ai commi 1 e 2 sono messe in atto da un pubblico funzionario, la pena è aumentata …

4. Se le condotte sono messe in atto in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

Altre ipotesi di carenze normative sono relative alle condotte di corruttela messe in opera in ambito privato. Secondo alcune indicazioni, con il decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, che ha modifi cato l’intero titolo XI del codice civile, relativo alle di-

(7) Anche il citato disegno A.S. 2174 introduce questa nuova fattispecie criminosa, con dizioni leggermente diverse, anche per la distinzione tra pubblico uffi ciale e incaricato di pubblico servizio, che in esso viene mantenuta.

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sposizioni penali in materia di società e di consorzi, si sarebbe prevista una forma di reato analogo alla corruzione nell’articolo 2635 del codice civile. Senza prendere posizione sul punto, sareb-be molto meglio, però, e molto più effi cace, seguire le indicazioni della Convenzione di Merida, che, agli articoli 21 e 22, defi nisce espressamente le ipotesi di corruzione (art. 21), e quella di sottra-zione di beni nel settore privato (art. 22).

Anche per queste fattispecie – corruzione nel settore privato – si potrebbe confi gurare una previsione normativa (8), parafra-sando le convenzioni internazionali, così articolata:

1. Chiunque promette, offre o concede, direttamente o indiret-tamente, un indebito vantaggio ad ogni persona che diriga un ente di diritto privato o lavori per tale ente, a qualunque titolo, per la suddetta o per un’altra persona, affi nché, in violazione dei propri doveri, essa compia o si astenga dal compiere un atto, arrecando danno all’ente o a terzi, è punito.

2. Alla stessa pena è soggetta qualunque persona che, dirigendo un ente di diritto privato o lavorando per tale ente, a qualun-que titolo, solleciti od accetti, direttamente o indirettamente, per sé o per altri, un indebito vantaggio al fi ne di compiere o di astenersi dal compiere un atto, in violazione dei propri doveri, arrecando danno all’ente o a terzi.

3. Alla stessa pena è soggetta altresì qualunque persona che, svol-gendo le attività indicate ai commi 1 e 2, sottrae beni, fondi o valori, o comunque ogni altra cosa di valore che sia stata a lei affi data in virtù delle sue funzioni.

6. Un diverso quadro sanzionatorio

6.1. La pena e le sanzioniL’ambito nel quale è più utile ed opportuno un deciso interven-

to riformatore è, senza dubbio, quello sanzionatorio.Senza voler affrontare il problema generale sotteso alle previ-

(8) A conclusioni e formulazioni analoghe giunge anche la proposta A.S. 2174, citata, che prevede un articolo 513-ter intitolato appunto corruzione nel settore privato.

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sioni sanzionatorie della legge penale, rimane ferma la premessa che la desolante limitatezza, nel nostro ordinamento, della ca-tegoria delle sanzioni penali ne impedisce l’effetto più effi cace, perché rende diffi cile il compito di chi intende individuare ed applicare la sanzione più adatta, cioè quella con un maggior po-tere deterrente.

Per restare nel nostro ambito, l’esperienza ha dimostrato che la sanzione penale classica, quella detentiva, non ha avuto alcuna effi cacia nel contrastare il fenomeno della corruzione. Le ragio-ni non sono poche, ma sicuramente se ne possono individuare due, cioè la attenuata effettività della pena e la grande distanza cronologica tra commissione del fatto e irrogazione di pena, che aumenta ancora se ci si riferisce alla esecuzione della sanzione (e tali conclusioni conservano validità anche in presenza di dati, sul-l’entità delle pena irrogate, quali quelli indicati alla nota 1).

Ecco il motivo per cui la strategia di contrasto adottata dal di-segno di legge governativo non offre alcuna speranza concreta di un miglioramento della situazione, in quanto ha scelto come risposta privilegiata nell’ambito della repressione penale quella di un inasprimento delle sanzioni detentive (quasi sempre, però, lasciando intatti i limiti massimi di pena, il che non modifi ca i termini della prescrizione). Un appropriato e mirato intervento in materia presuppone invece la individuazione degli interessi prin-cipali del soggetto responsabile del reato e quindi l’irrogazione di una sanzione che incida soprattutto su quegli interessi. Quelle che seguono, quindi, sono proposte che esulano in parte dai limiti tradizionali in materia di sanzioni penali, ma proprio perché e in quanto si pongono, in genere, come sanzioni diverse da quelle classiche. Del resto, avanzando queste proposte, si prosegue nel cammino già intrapreso – si veda per esempio il panorama san-zionatorio previsto dall’articolo 52 e seguenti del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in materie affi date alla competenza penale del giu-dice di pace – in altri ambiti, ma utilmente applicabili anche in questo specifi co.

Una riforma incisiva in materia di apparato sanzionatorio, quindi, si impone come strumento necessario, forse non solo in questo ambito, anche se a volte è suffi ciente una modifi ca delle misure già previste, per esempio in tema di misure cautelari.

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Una rifl essione sul tema, prodromica all’avanzamento di pro-poste di riforma, può quindi tranquillamente ignorare quello che una opinione pubblica disinformata (purtroppo, però, anche un legislatore disattento, miope o emotivamente ispirato sembra vo-ler percorrere sempre quella strada) ritiene il punto centrale, cioè la misura della sanzione, e soffermarsi invece su altri profi li, assai più signifi cativi ed effi caci dal punto di vista della dissuasione (il che non toglie valore agli sforzi di chi, aumentando minimi e mas-simi edittali, tenta almeno di innalzare il limite della prescrizione e di aumentare la percentuale di pene detentive da scontarsi in regime detentivo, secondo l’ispirazione alla base della più volte citata proposta A.S. 2174).

Prima, però, di proseguire nella trattazione, occorre una pre-messa, perfi no ovvia, ma spesso trascurata, sulla fi nalità specifi ca della sanzione. Senza, anche qui, affrontare un tema di notevole complessità, sulla funzione in astratto della pena – stabilita, tra l’altro, in via generale dall’articolo 27 della Costituzione, che co-munque attribuisce ad essa una ineliminabile e generale fi nalità di rieducazione – nella rifl essione successiva si tenterà di partire da un altro presupposto, quello di aumentare la forza dissuasiva del trattamento sanzionatorio in generale. Questo profi lo, divenuto ormai centrale, non può essere condizionato da approcci tradizio-nali, pur tenendo presenti, comunque, i limiti posti dagli articoli 25 e 27 della Costituzione.

Se, perciò, si vuole arrivare a costruire un quadro sanzionatorio «effi cace», bisogna individuare quali sono gli obiettivi da perse-guire, e le spinte da contrastare, tenendo presente che lo scopo principale è quello di recuperare funzionalità, effi cienza e legalità nell’azione della P.A. Per puntare a questo risultato bisogna elimi-nare i vantaggi della condotta «corruttiva» e neutralizzare gli stru-menti usati dai «corruttori» in senso lato, a cominciare da quello fondamentale, cioè la collocazione «interna» all’amministrazione di chi agisce. Quindi, in una sintesi estrema, bisogna trovare, ed usare, sanzioni che, oltre ad esercitare un effetto dissuasivo, reci-dano o attenuino il legame con la P.A., e, contemporaneamente, annullino gli effetti vantaggiosi (per gli autori dei reati) delle con-dotte poste in essere.

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6.2. Misure cautelari interdittiveLa struttura delle moderne legislazioni penali ha unanimemen-

te introdotto il principio di cautela, che può esprimersi come la necessità di attivare misure di difesa sociale a carico di chi si so-spetta sia autore di un reato, ma la cui responsabilità non sia stata ancora accertata. La misura prevista dall’articolo 289 c.p.p. (mo-difi cato con l’aggiunta dell’obbligo di previo interrogatorio del-l’indagato dalla legge 16 luglio 1997, n. 234) è appunto una mi-sura cautelare, del tipo interdittivo – che cioè vietano l’esercizio di un potere o di una attività – ma presenta alcune incongruenze che ne diminuiscono grandemente l’effi cacia. Innanzitutto essa non è applicabile per gli uffi ci elettivi ricoperti per diretta investi-tura popolare, cioè ad esempio, per il Sindaco, il Presidente della Provincia, il Presidente della Regione, ma lo è per un assessore (art. 289, co. 3, c.p.p.). Inoltre ha un termine massimo di durata, fi ssato dall’articolo 308, co. 2, in due mesi, salvo una rinnovazio-ne per esigenze probatorie, a norma dell’articolo 274, lett. a). Sia l’ipotesi di non applicabilità, sia la limitazione di una eventuale rinnovazione alle sole esigenze di tutela della prova, appaiono incomprensibili e ingiustifi cate. Se, infatti, la commissione del reato è legata al rapporto del reo con la P.A. o di inquadramento funzionale (pubblico uffi ciale o incaricato di pubblico servizio in senso stretto), o di esercizio di fatto di potere decisionale (per gli uffi ci elettivi ricoperti per diretta investitura popolare), è proprio quel rapporto che va prima sospeso, e poi, nei casi di accertata responsabilità, defi nitivamente interrotto. Ma, durante il periodo delle indagini, non ha alcun senso una sospensione limitata a due mesi, al di fuori di esigenze probatorie, tenuto conto sia dei tempi intollerabili della nostra giustizia, sia della necessità di salvaguar-dare anche le altre esigenze cautelari previste dall’articolo 274 c.p.p., cioè il pericolo di fuga e quello della reiterazione del reato. Una prima effi cace riforma, allora, va effettuata su questo istituto, aumentando la durata della misura in via generale e affi dandone la concreta fi ssazione alla discrezionalità del giudice, nell’ambi-to di un ragionevole limite massimo, che potrebbe anche restare quello fi ssato dall’articolo 308, co. 1, c.p.p. (il doppio dei termini previsti per la custodia cautelare).

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6.3. Le altre sanzioni: da pene accessorie a sanzioni amministrative accessorie

Se le misure interdittive sono, per defi nizione, temporanee e provvisorie, perché irrogate prima dell’accertamento della respon-sabilità, la vera e propria riforma, però, dovrebbe modifi care a fon-do il sistema, agendo su quella sanzione, l’interdizione dai pubblici uffi ci – attualmente inclusa tra le pene accessorie – che incide in maniera assai più effi cace sul rapporto tra condannato e P.A., pri-vando il condannato, tra l’altro, temporaneamente o in perpetuo, del diritto di elettorato e di eleggibilità, nonché di «ogni pubblico uffi cio, di ogni incarico […] di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico uffi ciale o di incaricato di pubblico servizio», come si legge nell’articolo 28, co. 1, numero 2, c.p. Per ottenere il massimo di effetto dissuasivo da questa misura, essa va strutturata non più come pena accessoria, ma come vera sanzione autonoma, e quindi svincolata dal limite di pena edittale e collegata, invece, ai parametri della gravità del reato, sia come condotta, che come conseguenze dannose della stessa. Una operazione, insomma, analoga a quella compiuta con l’introduzione, effettuata con l’arti-colo 224-bis del codice della strada, del lavoro di pubblica utilità nel caso di reati colposi commessi con violazione delle norme del codice della strada: anche questa sanzione, inizialmente prevista come condizione per la sospensione della condanna, poi come pena accessoria, è stata infi ne qualifi cata come sanzione amministrativa, analoga alla sospensione della patente di guida (9), per aumentare sia l’effi cacia della misura, sia il numero di strumenti per adattare il complessivo trattamento sanzionatorio al caso concreto (10).

Alla modifi ca della natura di questa sanzione va accompagnata, però, anche una modifi ca della durata massima della interdizione temporanea, che va fi ssata in misura superiore e non di poco a quella attualmente prevista (5 anni), e svincolata dal collegamen-to con la durata della pena principale – attualmente prevista dal-l’articolo 29 c.p. – mentre quella perpetua può restare ancorata

(9) Cfr. D. Potetti, «Il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 224-bis c. stra-da», in Cassazione penale, 2010, 1, 293.

(10) Vedi una panoramica degli atti parlamentari in materia sul sito http://www.anticorruzione.it.

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alla commissione di un reato punito con pena edittale elevata.Se, poi, la sanzione perde il suo carattere di pena accessoria,

diventando sanzione amministrativa atipica in conseguenza del reato, resterà applicabile anche nei casi in cui la pena accesso-ria attualmente non lo é (caso tipico quello di applicazione della pena su richiesta, regolato dall’art. 445 c.p.p.) e non verrà sospesa nel caso di sospensione condizionale della pena (cfr., in materia l’elaborazione giurisprudenziale assolutamente pacifi ca). Tali sta-tuizioni non potranno restare senza conseguenze anche nell’even-tuale giudizio disciplinare, che dovrà conservare (o riassumere) il carattere di giudizio «condizionato» dall’esito del giudizio penale (cfr. l’art. 69 del d.lgs. n. 150 del 2009).

Con questa riforma, in conclusione, l’accertamento di respon-sabilità penale non prelude soltanto all’applicazione di una pena principale, ma anche ad una sanzione che diminuisce grandemen-te la pericolosità sociale «specifi ca» del condannato.

Discorso a parte merita la eventuale introduzione di sanzioni atipiche, al di fuori dell’ambito strettamente penalistico, ma for-temente connesse al tipo di reati e di imputati dei quali si discu-te. Non apparirebbe per nulla né eccessiva, né ingiustifi cata, per esempio una sanzione di ineleggibilità a cariche elettive per chi sia stato condannato per aver commesso reati contro la P.A. (o alme-no i più gravi), in quanto conseguenza di un confl itto di interessi celato e con effetti distorsivi e volto ad impedirne una ulteriore operatività (sul punto e in relazione ad una sanzione che potrebbe apparire ispirata da analoghi intendimenti, introdotta dal disegno di legge governativo, si rinvia a quanto si dirà più avanti).

6.4. Gli interventi sulla misura della penaMa anche sulla misura effettiva della pena è possibile effettuare

interventi riformatori. Non appare tanto necessario, però, inter-venire sui limiti edittali della sanzione, quanto sul regime delle circostanze. In materia di circostanze comuni del reato, infatti, ne sono previste, sia tra quelle aggravanti sia tra le attenuanti, alcune che si applicano solo a determinate categorie di reati (per esempio delitti colposi, delitti contro il patrimonio). In materia di delitti contro la pubblica amministrazione, allora, siano essi commessi da pubblici uffi ciali o privati, andrebbero articolate

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specifi che previsioni di circostanze, sia aggravanti, sia attenuan-ti. Sembra adottare questa linea il testo del Governo, quando, all’articolo 12, prevede una circostanza aggravante specifi ca, in-troducendo un articolo 335-ter c.p., che aumenta le pene per il solo pubblico uffi ciale nel caso di atti particolarmente lesivi per la pubblica amministrazione, o commessi per conseguire erogazioni fi nanziarie dallo Stato, da altri enti pubblici, o dalle Comunità europee. Anche se non si comprende la ragione della limitazione dell’aumento di pena ai pubblici uffi ciali, cioè ad uno solo degli autori di un reato necessariamente pluripersonale, lo spunto an-drebbe raccolto e rafforzato, magari ascrivendo l’aggravante tra quelle ad effetto speciale, con le conseguenze connesse in tema di aumento della pena (sarebbe senz’altro infatti più effi cace un aumento maggiore di quello di un terzo previsto dalle aggravanti comuni, e servirebbe, oltretutto, ad innalzare il limite temporale della prescrizione) e di non sottoponibilità di tale nuova aggra-vante al giudizio di comparazione con le attenuanti.

In tema di circostanze attenuanti, infi ne, si potrebbe introdurne una speciale che, sulla linea di quella comune del c.d. ravvedimen-to attivo e del risarcimento del danno, prevista dall’articolo 62, n. 6, c.p., diminuisca maggiormente la pena nel caso di collabora-zione che rivesta caratteri di particolare importanza, come l’atte-nuante speciale in materia di traffi co di stupefacenti, per la qua-le, all’articolo 73, co. 7, si prevede una robusta riduzione di pena (dalla metà ai due terzi) per chi si adopera per bloccare l’attività delittuosa o collabora con l’autorità di polizia (analogamente l’A.S. 2174 prevede l’introduzione di circostanze aggravanti ed atte-nuanti specifi che).

Questa ultima osservazione ci introduce in un tema specifi co, che è stato ed è grandemente dibattuto in questa materia, cioè la necessità di interrompere il vincolo di solidarietà tra corrotto e corruttore.

6.5. Una questione irrisolta: la collaborazioneAnche con le riforme del 1990 e del 1997 non si è voluto modi-

fi care la dizione dell’articolo 321, che punisce il corruttore con la stessa pena del corrotto. Tale costante linea di politica giudiziaria rimane sempre più incomprensibile e del tutto controproducente.

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Nei reati di corruzione – in senso lato – ormai lo schema clas-sico di un rapporto a due tra corruttore e corrotto, è ampiamente superato nella realtà attuale, che sempre più spesso ci fa assistere ad accordi plurisoggettivi, relativi ad una pluralità indeterminata di atti della P.A., così che una corruzione antecedente può coesi-stere con una susseguente e vedere coinvolti più soggetti, in una specie di «fi liera di corruzione»; stesso fenomeno si sta producen-do in relazione all’utilità, offerta o attribuita al p.u., e le vicende più recenti offrono un ampio panorama della fantasia di corrut-tori e corrotti nell’individuare le possibili «controprestazioni» nei confronti del pubblico uffi ciale infedele. Data la complessità dei procedimenti amministrativi, la varietà di percorsi procedimenta-li della P.A. e, soprattutto, l’entità degli interessi coinvolti, è intui-tivo che il legame di omertà tra correi sia particolarmente solido. Altrettanto intuitivo, perciò e però, è l’interesse degli inquirenti a raccogliere il maggior numero possibile di elementi della condot-ta criminosa, sia per l’irrogazione di una pena proporzionale, sia e ancor più per evitare il ripetersi dei fenomeni.

La via per raggiungere il risultato desiderato è conosciuta da anni, e fu imboccata con decisione, dopo laceranti discussioni e confronti dialettici, nella strategia di contrasto alla criminalità or-ganizzata, prima di stampo terroristico, e poi di matrice mafi osa per giungere, infi ne, alla legge 13 febbraio 2001, n. 45, che ha mo-difi cato la normativa originale, cioè il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modifi cazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82. Alle stesse considerazioni si ispira, come abbiamo vi-sto, l’attenuante speciale in materia di traffi co di stupefacenti, per la quale, all’articolo 73, co. 7, si prevede una robusta riduzione di pena (dalla metà ai due terzi) per chi si adopera per bloccare l’attività delittuosa o collabora con l’autorità di polizia. I principi di queste normative specifi che, nonché di quella generale della circostanza attenuante dell’articolo 62, n. 6, che permette una riduzione di pena fi no ad un terzo per chi risarcisce il danno o si impegna ad eliderne o attenuarne le conseguenze dannose (in verità già attualmente applicabile anche ai reati contro la P.A.), opportunamente adattati e reciprocamente integrati, dovrebbero poter operare anche per la categoria dei reati in danno della P.A., se si scioglie il nodo della necessaria modifi ca in generale del trat-

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tamento sanzionatorio. La attuale formulazione dell’articolo 321, infatti, ha un senso e un effetto chiaramente di ostacolo all’attività degli inquirenti, mentre ne avrebbe uno addirittura opposto se accompagnata dalla previsione della applicabilità di sostanziosi benefi ci in caso di collaborazione, né può avere più lo stesso peso l’argomento di chi era contrario alla modifi ca, cioè della possibi-le moltiplicazione di condotte estorsive di contraenti con la P.A. insoddisfatti, i quali potrebbero vendicarsi calunniosamente in danno dei pubblici uffi ciali. La lunga esperienza giurisprudenzia-le in materia di valutazione di collaborazione di soggetti dal robu-sto curriculum criminale fa ritenere, ormai, abbastanza remota la suddetta possibilità.

Questa, in fondo, fu la ragione che indusse la Procura della Repubblica di Milano a contestare, per i fatti oggetto di indagine, il reato di concussione e non quello di corruzione, come invece scelse di fare la Procura di Roma. In effetti la linea processuale seguita dai p.m. milanesi, condivisa pienamente dai giudici del tribunale, era forse meno corretta tecnicamente, ma si rivelò assai più utile ai fi ni delle indagini. Infatti i soggetti privati, liberati dal timore di essere coimputati, decisero in larga misura di collabo-rare con gli inquirenti, fornendo una serie di elementi assai utili per l’accertamento di condotte illecite e degli autori delle stesse, mentre le indagini romane non portarono a risultati apprezzabili, proprio (o anche) per il timore dei soggetti privati di assumere la veste di indagati, a norma dell’articolo 321 c.p.

6.6. Un intervento successivo: l’annullamento per autotutelaSicuramente l’adozione di un provvedimento formalmente cor-

retto della P.A. che però sia viziato da un fi ne illecito dell’agente, pone il problema, a parte la sanzioni a carico del pubblico uffi cia-le infedele, del recupero della correttezza amministrativa. Si tratta di un caso classico nel quale la P.A. non ha solo la facoltà, ma il dovere di intervenire in sede di autotutela. Tale comportamento della P.A. è oggetto di specifi ca previsione nella Convenzione del-l’ONU all’articolo 34, nel quale si legge:

Tenuto debito conto dei diritti di terzi acquisiti in buona fede, ciascuno Stato Parte, conformemente ai principi fondamentali del

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proprio diritto interno, prende le misure volte a combattere le conseguenze della corruzione. In tale prospettiva, gli Stati Parte possono considerare la corruzione come un fattore pertinente in un procedimento giudiziario per decidere l’annullamento o la re-scissione di un contratto, il ritiro di una concessione o di ogni altro atto giuridico analogo o per prendere ogni misura correttiva.

Fatto salvo, naturalmente, il diritto al risarcimento del danno a carico del responsabile o dei responsabili (danno da risarcire sia al soggetto danneggiato, sia alla P.A. alla quale va rifuso il danno materiale ed anche quello morale).

7. Gli intrecci con la criminalità organizzata

7.1. Criminalità organizzata e «malamministrazione»Uno dei più lucrosi campi di attività della criminalità organizza-

ta (non solo italiana, ma soprattutto italiana) è sicuramente quello del cattivo funzionamento della P.A. Che si tratti di erogazioni illecite – nazionali ed europee – di appalti irregolari, di acquisti pilotati di beni o servizi, di concessioni ed autorizzazioni illegit-time, le vicende di questi ultimi anni stanno dimostrando quanto siano corposi gli interessi coinvolti. E certamente la maggior par-te di questi interessi sono attribuibili alla criminalità organizzata, che, direttamente o per interposti funzionari pubblici infedeli, in queste «distorsioni» del funzionamento della P.A. riesce ad inse-rirsi agevolmente, aumentando così ulteriormente gli introiti da investire in altre attività, non necessariamente illecite – tramite il riciclaggio – ma comunque molto redditizie.

Nello svolgimento di queste attività, ovviamente, le organizza-zioni criminali utilizzano gli strumenti e le modalità tipiche delle loro tradizioni; nello stesso modo, specularmente, l’opera di con-trasto va basata sull’utilizzazione della legislazione antimafi a, da applicare, previe le necessarie modifi che, anche alle fattispecie di «malamministrazione».

7.2. La perseguibilità dell’illecito arricchimentoNell’ampio panorama legislativo in tema di misure di preven-

zione patrimoniale, soggetto a continue modifi che, hanno fatto di recente ingresso anche le fattispecie corruttive. Infatti l’articolo

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12-sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con legge 7 agosto 1992, n. 356, prevede la possibilità di confi sca del denaro, dei beni o delle altre utilità, il cui valore sia sproporzionato rispet-to ai redditi dichiarati o alla attività economica in caso di condan-na o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 c.p.p., anche per i delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 320, 322, 322-bis, 325, ipotesi inserite dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296. La stessa legge ha esteso anche alle suddette ipotesi di reato, al co. 2-bis dello stesso articolo, l’applicazione delle disposizioni degli articoli 2-novies, 2-decies e 2-undecies della l. 31 maggio 1965, n. 575 (devoluzione allo Stato dei beni confi scati e norme per la loro amministrazio-ne), nonché la possibilità di confi sca per equivalente.

Da tali previsioni deriva anche l’incriminabilità di chi trasferi-sca fraudolentemente e fi ttiziamente denaro, beni od altre utilità «al fi ne di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali», condotta prevista dall’articolo 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, citato e punita con la reclusione da due a sei anni.

Essendo, infi ne, pacifi ca l’applicabilità ai delitti corruttivi del-l’aggravante prevista dall’articolo 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con l. 12 luglio 1991, n. 203 (11), gli stessi, se aggravati a norma del citato articolo 7, dovrebbero ritenersi contemplati dall’articolo 51, co. 3-bis c.p.p., con tutte le conseguenze di legge (ad esempio in tema di intercettazioni, secondo la disciplina ad oggi vigente).

7.3. Una ipotesi apparentemente minore: la distorsione degli in-canti

Data la diversa collocazione nel codice penale, al titolo II del libro secondo, intitolato «Dei delitti dei privati contro la pub-blica amministrazione» e la minore entità delle sanzioni edittali

(11) Cfr., in particolare, sulla applicabilità dell’aggravante dell’art. 7 al reato di corruzione, due sentenze della Cassazione, sez. 6, n. 11008 del 07 febbraio 2001 Ud. (dep. 21 marzo 2001) Rv. 218783 e sez. 6, sentenza n. 1946 del 14 maggio 1997 Cc. (dep. 24 luglio 1997) Rv. 208646, sentenze non recenti, ma non contra-state da altre successive.

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previste, per tradizione il discorso sulla corruzione, in senso lato, ignora i delitti che incidono, distorcendole, sulle procedure di ag-giudicazione concorsuale, la cui regolarità è tutelata proprio dagli articoli 353 e 354 c.p. Un primo accenno di ripensamento sul-l’importanza di queste previsioni incriminatrici lo si può cogliere nel testo del d.d.l. governativo anticorruzione, che, all’articolo 11, aggiunge, tra le ipotesi di incandidabilità ad una serie di cariche, elettive e non, anche quella di aver riportato condanna defi nitiva per il delitto previsto dall’articolo 353 c.p., cioè turbata libertà degli incanti. Ma è necessaria una presa di posizione molto più decisa, perché la distorsione dolosa degli esiti dei pubblici incanti, mediante violenza o minaccia, oppure con altri mezzi fraudolenti – compresi doni, promesse o collusioni – è attività, anche questa, tipica della criminalità organizzata. Così che, accanto ad ipotesi per così dire «normali» di reato, se ne possono presentare altre, molto più pericolose, attribuibili ad organizzazioni criminali, as-sai poco dissuase da pene assai tenuti (reclusione fi no a due anni e multa da 103 a 1.032 euro per l’ipotesi più grave dell’art. 353 e reclusione fi no a sei mesi o multa fi no ad 516 euro per quella più lieve dell’art. 354).

Una politica seria di contrasto ai fenomeni corruttivi, quindi, non può ignorare la necessità di un ripensamento anche su queste ipotesi di reato, con un aggravamento di pene assai maggiore di quella prevista dall’articolo 12, co. 1, lett. l) (da sei mesi più multa ad un anno al massimo), con la prevedibilità di forme aggravate di reato, e con l’inserimento, infi ne, delle ipotesi aggravate nella categoria dei reati corruttivi veri e propri, anch’essi aggravati.

8. Considerazioni conclusive

8.1. L’intervento governativoNon è possibile chiudere questa rifl essione senza prendere in

esame quello che fi nalmente è diventato il disegno di legge gover-nativo in materia. E più specifi camente le previsioni nell’ambito del diritto penale.

Prima di procedere all’esame delle singole questioni, però, va evidenziata la tecnica normativa peculiare di questo decreto, che defi nita una norma, ne condiziona l’applicazione pratica all’ema-

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nazione di ulteriori atti della P.A., o dei vertici politico-decisio-nali della stessa, rinviando così ad un futuro incerto l’entrata in vigore della disciplina apparentemente già adottata e, soprattutto, trasferendo la potestà legislativa effettiva dal legittimo titolare, il Parlamento, al circuito dell’esecutivo. Ci troviamo di fronte, cioè, ad una specie di legge-delega «clandestina», perché della legge-delega non ha la struttura e le caratteristiche fondamentali.

Un esempio di questa procedura è data dall’articolo 9, che, sotto il titolo inconsueto di «Fallimento politico», al suo co. 1 prevede una delega al Governo ed emanare, entro un anno, un decreto legislativo per disciplinare le ipotesi di incandidabilità del Presidente di una Regione che abbia compiuto gli atti previsti dall’articolo 126 della Costituzione (atti contrari alla Costituzio-ne o gravi violazioni di legge) o causato un grave dissesto delle fi nanze regionali.

Gli articoli 10 ed 11 del decreto modifi cano la disciplina per la elezione delle due Camere parlamentari e delle autonomie locali.

Con il primo articolo si prevede che la condanna defi nitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione per una serie di delit-ti, compresi quelli previsti dagli articoli 314, primo comma, 316, 316-bis, 317, 318, 319, 319-ter, 320 c.p., comporta la ineleggi-bilità per cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, salvo che intervenga riabilitazione. La perdita delle condizioni di eleggibilità comporta la decadenza dalla carica, di-chiarata dalla Camera di appartenenza.

L’articolo 11 disciplina la stessa materia con riferimento alle autonomie locali. Modifi cando l’art. 58 del T.U. sugli enti locali, (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che disciplina le ipotesi di incan-didabilità, aggiunge, al co. 1, lett. b) (ma forse dovrebbe leggersi lett. a)) i delitti di terrorismo, e al co. 1, lett. b) il delitto di turbata libertà degli incanti, come abbiamo già visto.

Le linee di fondo del decreto sono condivisibili, però vanno corrette alcune palesi incongruenze.

Il diverso trattamento tra le due ipotesi, infatti, è immediata-mente percepibile e razionalmente inspiegabile.

Non si capisce, infatti, in base a quale valutazione i parlamen-tari non sono eleggibili, soltanto per cinque anni, e soltanto se condannati per una serie di reati, ma a pene superiori a due anni

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di reclusione, mentre per gli enti locali viene comminata la incan-didabilità perpetua e, riguardo ad alcune categorie di reati, per il solo fatto di aver riportato condanna defi nitiva, indipendente-mente dalla pena irrogata.

Si ribadisce, comunque, la condivisibilità della scelta di far ri-fl uire anche in ambito di «carriera politica» le conseguenze di condanne per i reati in esame; sarebbe più opportuno, però, eli-minare le disuguaglianze tra le due ipotesi ed aggiungere i delitti previsti dagli articoli 353 e 354 all’elenco.

Gli articoli 12 e 13 del decreto disciplinano gli interventi in ambito più propriamente penale.

L’articolo 12, recante modifi che al codice penale, evidenzia che la strada scelta è quella, oltremodo tradizionale, dell’inaspri-mento delle pene detentive (a parte la palese incongruenza di in-nalzare i minimi e operare sui limiti massimi in misura tale da lasciare inalterati i termini della prescrizione, notevolmente ab-bassati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251), scelta dimostratasi del tutto ineffi cace alla luce di un’esperienza ormai ventennale. L’introduzione, inoltre, di una aggravante specifi ca, prevista dal-l’articolo 13 con l’introduzione di un articolo 335-ter, applicabile al solo pubblico uffi ciale «in caso di atti particolarmente lesivi per la pubblica amministrazione» o in presenza di condotte rivolte a far conseguire utilità fi nanziarie (contributi, fi nanziamenti, mutui agevolati o erogazioni dello stesso tipo), rimane di problemati-ca applicabilità in un delitto pluripersonale, come si è già detto, e di dubbia utilità, se non inserita, come abbiamo visto, in una complessiva riscrittura della disciplina in materia di circostanze aggravanti e attenuanti.

8.2. Considerazioni poco utiliParafrasando il titolo di un libro di Luigi Einaudi, si potreb-

bero concludere questa rifl essioni con alcune postille, certo non incoraggianti.

Se davvero si volesse porre rimedio ad un fenomeno così de-vastante come la corruzione, pubblica e privata, si potrebbe (do-vrebbe) mettere in campo una ampia serie di strumenti, e questa opera è ricca di suggerimenti.

Nessuno di questi strumenti, tuttavia, potrà avere speranze di

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successo per contrastare il fenomeno se non si procederà ad una modifi ca profonda del comune sentire su questa (e su altre) ma-teria, che incide sui diritti stessi di cittadinanza. E la modifi ca del comune sentire segue (può seguire) soltanto ad un’opera tenace di impegno e di esempio concreti, impegno ed esempio provenienti dall’alto, da chi dà l’impronta visibile al concreto atteggiamento di una società e di un Paese intero, al di là di differenze anche profonde su questioni particolari. Di questi esempi non sembra di trovare traccia suffi ciente nella fase attuale della nostra storia.

Una ultima rifl essione, particolarmente amara: se da un lato si proclama un impegno specifi co per contrastare i fenomeni di corruzione, sulla spinta di emergenze di cronaca, e dall’altro si predispongono provvedimenti volti a ridurre spazi e strumenti a chi questi fenomeni dovrebbe contrastare e prevenire – con la previsione di termini di prescrizione assolutamente irreali, la ri-duzione di operatività di uno strumento fondamentale di accer-tamento, come le intercettazioni, il depotenziamento dell’attività autonoma di indagine del pubblico ministero, la delegittimazione costante del potere dello Stato particolarmente e specifi camen-te impegnato nell’accertamento e perseguimento di reati – a che cosa si dovrà prestare maggiormente fede, ai proclami o alle at-tività concrete? E che cosa si può opporre alle indicazioni delle Convenzioni internazionali anti-corruzione che, tutte, auspicano un ragionevole periodo di tempo per la prescrizione dei reati di corruzione, suffi ciente per la svolgimento di indagini spesso mol-to complesse?

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Fabrizio Gandini

LA PROTEZIONE DEI WHISTLEBLOWERS

1. Alla ricerca di una defi nizione comune del whistleblowingNegli strumenti multilaterali in materia di corruzione adottati

dalle organizzazioni internazionali, tanto globali (Nazioni Uni-te (1)), che settoriali (Unione europea (2), Consiglio d’Europa (3), OCSE (4)), manca una defi nizione comune e vincolante del whi-stleblowing (d’ora innanzi: w.).

Al fi ne delle nostre rifl essioni, possiamo prendere in considera-zione la defi nizione generale del w. proposta da un recente studio commissionato dal Parlamento europeo (5):

the insider disclosure of what is perceived to be evidence of illegal conduct or other seriuos risks, out of or in relation to an organisa-tion’s activities including the work related activities of its staff (6).

(1) Convenzione contro la corruzione, aperta alla fi rma a Merida il 9 dicem-bre 2003.

(2) Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi fi nanziari delle Comunità europee, stabilito con atto del Consiglio dell’Unione europea del 27 settembre 1996; Secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi fi nanziari delle Comunità europee, stabilito con atto del Consiglio dell’Unione europea del 19 giugno 1997; Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, stabilita con atto del Consiglio dell’Unione europea del 26 maggio 1997.

(3) Convenzione penale sulla corruzione (ETS 173), aperta alla fi rma a Stra-sburgo il 27 gennaio 1999; Convenzione civile sulla corruzione (ETS 174), aperta alla fi rma a Strasburgo il 4 novembre 1999.

(4) Convenzione sulla lotta alla corruzione dei pubblici uffi ciali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, adottata a Parigi il 21 novembre 1997.

(5) Rohde-Liebenau, Whistleblowing Rules: Best Practice; Assessment and Revision of Rules Existing in EU Institutions, 12 maggio 2006, in http://www.eu-roparl.europa.eu/comparl/cont/site/calendrier/documents/3mai06/etude.pdf. Lo studio è stato commissionato all’A. dall’European parliamentary committee on budgetary control.

(6) Rodhe-Liebenau, op. cit., 16. V. anche Fraschini, Parisi, Rinoldi (a cura di), Protezione delle «vedette civiche»: il ruolo del whistleblowing in Italia, Mila-no, 2009; Transparency International, Alternative to Silence: Whistleblower Pro-tection in 10 European Countries, in http://www.transparency.org/publications/publications/alternative_to_silence_whistleblower.

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La fenomenologia del w. ha inoltre portato alla luce le seguenti distinzioni:– internal/external w., a seconda che il whistleblower (d’ora in-

nanzi: wb) riferisca quanto a sua conoscenza ad organi od isti-tuzioni interne o esterne all’organizzazione (7);

– inside/outside w., a seconda che il wb. appartenga, o meno, all’organizzazione;

– authorized/unauthorized w., a seconda che i fatti siano riferiti dal wb. a seguito, o meno, di una autorizzazione specifi camente rilasciata dall’organizzazione. L’unauthorized w., in particolare, comporta l’insorgere di un confl itto di doveri in capo all’insi-der wb.: da un lato il dovere di fedeltà/confi denzialità che lo lega alla organizzazione di appartenenza; dall’altro il dovere di riferire i fatti criminosi a sua conoscenza. In questa prospettiva la norma che disciplina la tutela del wb. dovrà provvedere a regolare il concorso tra i due obblighi, onde evitare che l’adem-pimento del dovere imposto a carico del wb. si risolva a suo danno. Come vedremo in seguito, si tratta del tema centrale affrontato dalle disposizioni degli strumenti internazionali in materia di w.;

– w. anonimo/non anonimo, a seconda che il wb. si renda o meno identifi cabile;

– wb. appartenente ad una organismo pubblico/privato. Nella esperienza dei Paesi di common law, che per primi hanno in-trodotto e disciplinato l’istituto, il modello di riferimento è il wb. appartenente ad un organismo privato. In quella prospet-tiva, il w. costituisce – in senso lato – uno strumento di corpora-te governance, nella consapevolezza del fatto che gli employees possono svolgere un ruolo fondamentale nell’assicurare l’inte-grità della corporation per la quale lavorano (8).Inoltre, vengono in considerazione anche:

(7) Su questa distinzione, v. per tutti R.T. De George, «Ethical Responsibili-ties of Engineers in Large Organizations. The Pinto Case», in Business and Pro-fessional Ethics Journal, v. 1, n. 6, 175-185, Fall 1981.

(8) Cfr. Mendes Aldrighi, «From Confl ict to Alignment of Interests: Structu-ring Internal Corporate Governance to Minimise Corruption Risks», in Transpa-rency International, GCR 2009, cit., 94.

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– l’oggetto del w., che può variare dai fatti costituenti reato ai meri organisational wrongdoings;

– la distinzione tra wb. e persona informata sui fatti/testimone, distinzione fondata sulla circostanza che il wb., in senso stretto, agisce di propria iniziativa, quando ancora le autorità preposte al law enforcement non hanno alcuna notizia dei fatti riferiti. Ai fi ni di queste brevi osservazioni limiteremo l’esame degli strumenti internazionali alle sole disposizioni a tutela dei wb. in senso stretto, senza soffermare la nostra attenzione su quelle disposizioni poste – più in generale – a tutela della incolumi-tà fi sica dei testimoni e delle persone che collaborano con la giustizia (9). È importante sottolineare tale distinzione: la pro-tezione dei wb., intesa in senso stretto, non è protezione della sua integrità fi sica, così come avviene per i testimoni. Piuttosto, viene in considerazione la protezione del suo rapporto di lavo-ro, del suo profi lo professionale e della sua carriera. Protezione che trova il suo fondamento nelle possibili ritorsioni da parte dell’organizzazione di appartenenza, sia in quanto fondate sul-la violazione del dovere di fedeltà/confi denzialità, sia fondate su altri motivi o addirittura infondate. In questo caso il bene da tutelare non è l’assicurazione e la genuinità della prova dichia-rativa, ma la continuità ed il normale svolgimento del rapporto che lega il wb. con l’organizzazione di appartenenza.Possiamo dunque concludere proponendo, con riferimento

alla materia della corruzione negli strumenti internazionali, la se-guente defi nizione convenzionale di whistleblowing:

la rivelazione di fatti che possono integrare la fattispecie astratta del reato di corruzione, fatta di propria iniziativa ed in forma non anonima da un soggetto appartenente ad una determinata orga-nizzazione (inside w.), privata o pubblica, alle competenti autorità esterne a tale organizzazione (external w.), anche in mancanza di una espressa autorizzazione in tal senso da parte della prima (unau-thorized w.), in quanto si tratti di fatti che presentano un momento di collegamento con l’attività dell’organizzazione.

(9) Cfr. art. 22 della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corru-

zione (Protection of collaborators of justice and witnesses) e l’art. 32 della Conven-zione ONU contro la corruzione (Protection of witnesses, experts and victims).

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2. Il whistleblowing negli strumenti di diritto internazionaleSulla base della defi nizione operativa proposta nel paragrafo

precedente, possiamo esaminare gli strumenti adottati dalle orga-nizzazioni internazionali in materia di corruzione, iniziando con le organizzazioni regionali/settoriali alle quali l’Italia appartiene.

Negli strumenti della Unione europea e dell’OCSE non sono pre-viste disposizione espressamente dedicata al w. o alla tutela dei wb.

Una disposizione in materia di tutela dei wb. è invece espressa-mente prevista dagli strumenti del Consiglio d’Europa in materia di corruzione, ed in particolare dall’articolo 9 della Convenzione civile sulla corruzione (10), che di seguito si riporta:

Article 9 – Protection of employeesEach Party shall provide in its internal law for appropriate protection against any unjustifi ed sanction for employees who have reasonable grounds to suspect corruption and who report in good faith their su-spicion to responsible persons or authorities.

In termini generali, la disposizione prevede un obbligo incon-dizionato (11) a carico degli Stati Parte di prevedere, nei rispettivi ordinamenti giuridici, misure di protezione per i wb. L’unico mar-gine di apprezzamento che viene lasciato agli Stati Parte è relativo alla individuazione delle misure più appropriate per conseguire lo scopo imposto dalla disposizione citata. La disposizione in esame non prevede alcuna distinzione tra tutela del wb. nel settore pri-vato e tutela del wb. nel settore pubblico, lasciando così intende-re come l’obbligazione sia inerente alla tutela del wb. in quanto tale, senza che possa venire in considerazione la natura pubblica o privata dell’organizzazione per la quale presta la propria opera.

Pur in mancanza di una defi nizione legale e vincolante dei wb., il modello di wb. al quale si riferisce implicitamente la disposizio-ne in esame è quello proposto nel § 1: insider w. (12), diretto ad una autorità esterna all’organizzazione, in forma non anonima ed avente ad oggetto fatti di reato (corruzione).

(10) Firmata ma non ancora ratifi cata dall’Italia.(11) Come si desume dall’inciso: «shall provide».(12) Cfr. il riferimento agli «employees».

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Dalla disposizione in esame, infi ne, si può agevolmente desu-mere che il modello di riferimento è quello dell’unauthorized w., modello che comporta il potenziale insorgere di un confl itto tra i doveri che incombono in capo al wb.: il dovere di fedeltà/con-fi denzialità, da un lato; il dovere di riferire i fatti corruttivi, dal-l’altro.

In questa prospettiva, l’articolo 9 provvede ad un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, prevedendo una prevalen-za condizionata del dovere di report sul dovere di confi denzialità. Il wb. deve essere tenuto immune da conseguenze solo quando ha ragionevoli motivi per sospettare l’esistenza di fatti corruttivi ed ha riferito tali fatti in buona fede. È importante sottolineare che la convenzione non richiede che il wb. abbia la certezza, più o meno qualifi cata, della sussistenza di episodi corruttivi, essendo suffi -ciente il mero sospetto. Non è pertanto richiesto che il wb. com-pia una sorta di indagine interna, coinvolgendo terze parti, per corroborare il proprio convincimento. A nostro avviso, sembra trattarsi di una combinazione tra uno stato oggettivo (ragionevoli motivi) ed uno stato soggettivo (la buona fede), che dovrà essere accertato con un giudizio ex ante.

Il rapporto esplicativo della Convenzione chiarisce che la tute-la prevista dalla Convenzione si estende solo ai casi di report fatti in buona fede, quando i wb. hanno: «reasonable ground to report their suspicion», e non si estende ai casi di «malicious report» (13), nei quali il wb. agisce in mala fede. Qualora sussistano tali requi-siti (ragionevoli motivi e buona fede), qualsiasi sanzione dovesse essere applicata al wb. (ad esempio: licenziamento, degradazione, ostacolo della progressione in carriera) sulla sola base dei fatti riferiti da quest’ultimo deve ritenersi ingiustifi cata, in quanto in quel caso il report dei fatti corruttivi alle competenti autorità esterne non può essere di per sé considerato una violazione del dovere di confi denzialità (14). In tutti gli altri casi, l’organizzazio-ne di appartenenza potrà invece legittimamente sanzionare il wb., invocando la violazione del dovere di fedeltà/confi denzialità.

(13) Cfr. Rapporto esplicativo, § 72, in http://conventions.coe.int/Treaty/en/Reports/Html/174.htm.

(14) Cfr. Rapporto esplicativo, cit., § 69.

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Rispetto alla defi nizione operativa proposta nel § 1 possiamo pertanto notare un importante elemento specializzante. Secondo l’articolo 9 della Convenzione de qua il wb. è solo e soltanto colui che, nel concorso degli altri elementi sopra ricordati, riferisce in buona fede fatti in ordine ai quali ha ragionevoli motivi di sospet-tare la sussistenza di episodi corruttivi.

Per quanto concerne le Nazioni unite, il tema del w. è trattato dalla Convenzione di Merida (2003) nell’articolo 33 (15), che di seguito si riporta:

Article 33– Protection of reporting persons.Each State party shall consider incorporating into its domestic legal system appropriate measures to provide protection against any unju-stifi ed treatment for any person who reports in good faith and on reasonable ground to the competent authorities any facts concerning offences established in accordance with this Convention.

La prima osservazione che deve essere fatta è che, a differenza dell’articolo 9 della Convenzione civile sulla corruzione del Con-siglio d’Europa, la disposizione in esame non crea alcun obbligo a carico degli Stati Parte. Piuttosto, l’articolo 33 della Convenzione di Merida si limita a prevedere la facoltà per gli Stati Parte di pre-vedere misure interne di tutela dei wb. L’unico obbligo, in senso lato, desumibile dall’articolo 33 è quello di considerare l’introdu-zione di tali misure nei rispettivi ordinamenti giuridici (16).

Tra le disposizioni che possono essere adottate a tutela dei wb. vengono in considerazione:

measures such as career protection, provision of psychological sup-port, institutional recognition of reporting, transfer within the same organization and relocation to a different organization. (17).

Anche nella Convenzione di Merida manca una defi nizione le-

(15) Ratifi cata dall’Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116.(16) Facoltà, e non obbligo, che si desume dall’inciso: «Shall consider incor-

porating». Cfr. United Nations Offi ce on Drugs and Crime, Legislative Guide for the Implementation of the Convention Against Corruption, New York, 2006, § 452, secondo il quale la disposizione in esame prevede un mero optional require-ment, nella forma della obligation to consider.

(17) Cfr. United Nations Offi ce on Drugs and Crime, cit., § 453.

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gale e vincolante del w. e del wb. Tuttavia, è agevole la ricostruzio-ne del modello (implicito) di riferimento: insider ed unauthorized w. (18), diretto ad una autorità esterna all’organizzazione, in forma non anonima ed avente ad oggetto i fatti di reato previsti dalla Convenzione. Si tratta, mutatis mutandis, dello stesso modello di riferimento della Convenzione civile sulla corruzione del Consi-glio d’Europa.

Anche nella prospettiva della Convenzione di Merida la que-stione centrale è quella del potenziale confl itto tra i doveri che ri-cadono sul wb. La soluzione è la stessa trovata dall’articolo 9 della Convenzione civile sulla corruzione: prevalenza condizionata del dovere di report sul dovere di confi denzialità/fedeltà.

3. La mancata protezione del whistleblowing nell’ordinamento italianoPrendendo ora in considerazione l’ordinamento interno, nel

diritto del lavoro mancano disposizioni ad hoc fi nalizzate alla pro-tezione dei wb., così come prescritto dagli strumenti internazio-nali sopra citati.

In particolare, né l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori (in materia di nullità degli atti discriminatori), né l’articolo 3 della legge 108/1990 (in materia di nullità del licenziamento discrimi-natorio) prevedono il w. quale motivo discriminatorio tipico, con la conseguente esclusione della relativa tutela per il wb.

Potrebbe inoltre dubitarsi della compatibilità della condotta del wb. con l’obbligo di fedeltà su di lui gravante in forza dell’arti-colo 2105 c.c. (19), e della possibilità di qualifi care il w. quale giu-sta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.

(18) Cfr. il riferimento agli «employees».(19) Cfr. Cass. 4 aprile 2005, Chimica S.p.a. c. Terzo: «Dal collegamento del-

l’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 cod. civ., con i principi generali di corret-tezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conse-guenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di confl itto con le fi nalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrime-diabilmente il presupposto fi duciario del rapporto».

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A tale proposito giova però rilevare che la giurisprudenza ha precisato che l’obbligo di fedeltà di cui all’articolo 2105 c.c. e quelli ad esso collegati di correttezza e buona fede, devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività lecita dell’impren-ditore,

non potendosi di certo richiedere al lavoratore la osservanza di det-ti obblighi, nell’ambito del dovere di collaborazione con l’impren-ditore, anche quando quest’ultimo intenda perseguire interessi che non siano leciti (20).

Ciò sembrerebbe escludere la violazione del dovere di fedeltà da parte del wb. almeno nel caso in cui costui riferisca condotte illecite, o costituenti reato, del datore di lavoro. La giurispruden-za inoltre ritiene la nullità del licenziamento non solo nei casi di discriminazione tipica previsti dalle leggi 604/1966 e 108/1990, ma anche nei casi nei quali il licenziamento sia stato determinato in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia (21).

In buona sostanza, il diritto vigente già sembra prevedere una rudimentale tutela del wb.

De iure condendo, potrebbe essere opportuno modifi care l’ar-ticolo 15 dello Statuto dei lavoratori nonché gli articoli 4 della legge 604/1966 e 3 della legge 108/1990, al fi ne di prevedere in modo espresso la nullità degli atti e del licenziamento discrimina-torio in danno del wb.

(20) Cfr. Cass. 16 gennaio 2001, Elite s.r.l. c. Dragonetti.(21) Cfr. Cass. 6 maggio 1999, Castaldo c. Achille Lauro Lines S.p.a.

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Filomena Terzini

LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVAE CONTABILE E LA GIURISDIZIONE

DELLA CORTE DEI CONTI

1. IntroduzioneNell’ambito dei corpi ed anticorpi apprestati dall’ordinamento

per garantire la qualità e la correttezza dell’operato della Pubblica Amministrazione un posto di primo piano è rivestito dal sistema della responsabilità amministrativa, che fa capo alla giurisdizione della Corte dei Conti.

Si tralascia volutamente, in questo contesto, la ricostruzione dell’evoluzione del sistema della responsabilità amministrativa e di come il giudizio dinnanzi alla Corte dei Conti, anche per effet-to dell’ormai lontana nel tempo regionalizzazione, determinata ad opera delle leggi 19 e 20 del 1994, si sia evoluto per effetto di interventi legislativi mai organici, che necessiterebbero senz’altro di una messa a punto (1), a partire dallo svolgimento delle fasi di indagine, sino alle modifi che di recente introdotte nell’istruttoria e negli altri passaggi fondamentali del processo contabile.

L’esame del sindacato operato dalla Corte dei Conti sul danno patrimoniale, e del suo concreto atteggiarsi nella realtà dei fatti, può fornire certamente elementi importanti di valutazione anche se, come si vedrà, è possibile riscontrare una estrema variabilità degli esiti dei giudizi che rende diffi cile scorgere un indirizzo uni-tario su fattispecie analoghe. Tale mancanza di indirizzi unitari rappresenta già di per sé un problema, essendo foriera di possibili disparità di trattamento tra amministrazioni, che in alcuni casi possono essere «messe in ginocchio» da indagini delle procure

(1) La necessità di una riforma della procedura del giudizio davanti alla Cor-te dei Conti è sottolineata anche nell’ultima relazione presentata dal Presidente della Corte dei Conti in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2010, ove si precisa che la procedura è attualmente disciplinata da norme ormai del tutto superate e inadeguate che, per ciò stesso, possono lasciare ampio spazio ad interpretazioni pretorie.

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per vicende di scarsa importanza, ed in altri, invece, uscire inden-ni a fronte di fenomeni di evidente maladministration.

La realtà attuale della responsabilità amministrativa è ben evidenziata nelle relazioni annuali del Procuratore generale del-la Corte dei Conti, presentate in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. In particolare, la relazione presentata nel 2009 evidenzia le principali tipologie di danno riscontrate nelle citazioni in giudizio depositate nell’anno 2008 (tra cui spiccano questioni connesse alla gestione del personale, le frodi comuni-tarie, l’erogazione di contributi e fi nanziamenti, l’uso indebito di beni mobili ed immobili e le consulenze esterne, queste ultime, nella misura del 6,5% del totale) nonché dati di particolare rilie-vo sull’entità dell’attività di indagine svolta (cfr. l’impressionante numero – 30.920 – delle istruttorie complessivamente aperte nel 2008 dalle procure regionali). I profi li di danno che emergono dalle relazioni delle singole procure regionali, peraltro, sono mol-to diversi tra loro (per esempio, nelle Regioni del Sud particolare rilievo assume la cattiva gestione dei fondi comunitari, mentre al Nord sono più frequenti altre fattispecie di danno).

2. Il sindacato della Corte dei Conti sulle consulenze: una casi-stica regionaleUn fenomeno trasversale, presente in tutte le realtà regionali,

è in ogni caso quello dell’attività della Corte dei Conti riguardan-te l’attribuzione di incarichi e consulenze, tanto per il numero delle citazioni per danno, quanto per il numero delle sentenze di condanna. Si tratta di una delle attività a più alto tasso di pro-blematicità, come dimostrano i dati riportati dalle ultime relazio-ni annuali delle procure regionali, confermate, da ultimo, anche nell’ultima relazione annuale presentata dal Procuratore generale della Corte dei Conti alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2010. Le illiceità compiute nel conferimento di incari-chi di consulenza vengono indicate quale fenomenica particolar-mente sensibile che presenta una diffusione territoriale piuttosto estesa, caratterizzata da un quadro normativo molto dettagliato e, talvolta, persino pervasivo. Ciononostante, le inosservanze sono frequenti, territorialmente diffuse, e mettono a nudo l’insuffi cien-za, nell’avversare fenomeni di maladministration, del solo fattore

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normativo, non accompagnato da protocolli interni specifi camen-te elaborati e dedicati al contrasto preventivo di anomalie.

L’ultima relazione propone una ricostruzione particolarmente accurata della normativa di riferimento, che si è stratifi cata nel corso del tempo, a partire dal d.lgs. 29 del 1993 (2), e che ha reso sempre più stringenti vincoli e condizioni per il ricorso alle con-sulenze esterne tentando, attraverso la loro riduzione quantitati-va, di arginare le fattispecie di danno erariale (3). Il principio ge-nerale, secondo cui le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di far fronte alle ordinarie competenze istituzionali col migliore e più produttivo impiego delle risorse umane di cui dispongono, si è tradotto, in pratica, nella sempre più dettagliata indicazione dei requisiti di legittimità degli incarichi esterni (4) e nell’ampliamen-to degli obblighi di trasmissione di atti e documenti alla Corte dei Conti (5).

(2) Il quadro generale di riferimento normativo della materia è aggiornato alle novità introdotte dal d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (c.d. decreto anticrisi), convertito in legge n. 102 del 2009, con il quale si è prevista la sottoposizione al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti di due ulteriori tipologie di atti, in aggiunta a quelle già indicate nell’art. 3, co. 1, della legge n. 20/1994 e cioè: 1) atti e contratti di conferimento di incarichi individuali, mediante contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria posti in essere da pubbliche amministrazioni; 2) atti e contratti concernenti incarichi di studio, consulenza e ricerca conferiti a soggetti estranei alle pubbliche amministrazioni.

(3) Il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di consulenze, in senso ancor più restrittivo, con il d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione fi nanziaria e di competitività economica»), prevedendo che, al fi ne di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decor-rere dall’anno 2011, la spesa per studi e incarichi di consulenza non possa essere superiore al 20% di quella sostenuta nell’anno 2009.

(4) In particolare, il d.l. 112/1998, convertito con l. 133/2008, con l’art. 46 ha riscritto il co. 6 dell’art. 7 del d.lgs. 165/2001 indicando quali requisiti di legitti-mità per il conferimento degli incarichi i seguenti: a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministra-zione conferente, a obiettivi e progetti specifi ci e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente; b) l’am-ministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualifi cata; devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione.

(5) L’art. 1, co. 11, della l. 311/2004 ha introdotto l’obbligo (ulteriormente disciplinato per gli enti locali dal successivo co. 42) di comunicazione alla Corte

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L’interesse delle pronunce della Corte in materia deriva, tut-tavia, non soltanto dalle dimensioni assunte recentemente dal fenomeno (le cui cause meritano indubbiamente specifi ca rifl es-sione), nonché dall’attenzione prestata dal legislatore, ma anche dalla diffusione dello stesso presso tutte le tipologie di enti pub-blici. Una analisi dettagliata delle pronunce delle sezioni regionali di controllo (anche tralasciando, quindi, l’esame delle pronunce d’appello), appare quindi di estrema utilità.

In questa prospettiva, si è proceduto ad effettuare una rico-gnizione, senza alcuna pretesa di esaustività, su un campione di sentenze di primo grado degli ultimi 14 anni, concentrando l’at-tenzione su tre sezioni regionali, selezionate secondo un criterio eminentemente di carattere geografi co (Lombardia, Emilia-Ro-magna e Calabria). La scelta di questo campione è stata deter-minata dall’intenzione di fornire un quadro in grado di rispec-chiare la situazione diffusa nelle diverse aree del Paese. Inoltre, il numero piuttosto elevato delle pronunce emesse in tali Regioni è apparso rilevante al fi ne di condurre un’analisi più completa e signifi cativa.

Lo strumento utilizzato per la ricerca è rappresentato dalla banca dati delle sentenze presente nel sito della Corte dei Conti.

L’attenzione si è concentrata, in particolare, su alcuni dati che appaiono signifi cativi al fi ne di valutare l’effi cacia dello strumento di controllo giurisdizionale della Corte dei Conti nella lotta alla maladministration. Trattasi, in particolare, dei seguenti elementi:

1) modalità di avvio delle indagini della Procura (segnalazioni, esposti, denunce, notizie di stampa, etc.);

2) oggetto dell’incarico di consulenza;3) ipotesi di danno erariale ed entità dell’eventuale danno patri-

moniale accertato;

dei Conti dell’attribuzione degli incarichi di studio e ricerca, ovvero di consu-lenze a soggetti estranei all’amministrazione in materie e per oggetti rientranti nella competenze della struttura burocratica dell’ente. Successivamente, l’art. 3, co. 56, della l. 244/2007, come sostituito dall’art. 46, co. 3, della l. 133/2008, ha stabilito la comunicazione per estratto alla Corte dei Conti dei regolamenti locali contenenti la disciplina dei limiti, dei criteri e delle modalità per l’affi damento di incarichi.

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4) esito del giudizio (condanna, o assoluzione ed eventuale rilievo della prescrizione);

5) tipologia di enti coinvolti.

Il primo dato comune emerso dalla ricerca consiste nella mag-giore concentrazione di pronunce sulle consulenze negli ultimi anni (2005-2009), piuttosto che nel decennio precedente: dato, quest’ultimo, che sembrerebbe derivare dall’inasprimento delle regole che presiedono al ricorso alle stesse consulenze.

Con riferimento alle modalità di avvio delle indagini, ad ec-cezione del maggior numero di casi in cui la Procura ha attivato autonomamente le indagini (ovvero, dei casi in cui la sentenza non riporta l’origine della denuncia), si rileva che:

– nella Regione Lombardia, su 11 pronunce di rilievo, tutte aven-ti ad oggetto incarichi di consulenza conferiti a soggetti esterni all’amministrazione pubblica, solo una ha preso avvio a seguito della trasmissione, da parte del responsabile di un servizio del Comune, della delibera di conferimento dell’incarico; in altre ipotesi, le indagini hanno fatto seguito alla pubblicazione di articoli di stampa che denunciavano possibili danni erariali. In-fi ne, in un solo caso, le indagini della Procura sono conseguite ad una nota della Ragioneria generale dello Stato derivante da specifi che attività di verifi ca di sua competenza;

– nella Regione Emilia-Romagna si segnalano invece diversi casi di esposti, relativi al conferimento di incarichi esterni, presenta-ti da consiglieri comunali. In alcuni casi l’esposto è anonimo;

– nella Regione Calabria, si individua un caso di segnalazione da parte dell’autorità giudiziaria penale, un altro caso di denun-cia da parte del responsabile dell’uffi cio, ed una segnalazione del nucleo regionale di polizia tributaria. Infi ne, in due casi, le indagini della procura sono conseguite ad una nota della Ra-gioneria generale dello Stato derivante da specifi che attività di verifi ca di sua competenza.Gli oggetti degli incarichi sono relativi ai più diversi ambiti e

riguardano, in particolare, la materia fi scale e tributaria, la sicu-rezza – nella fase di progettazione ed esecuzione dei lavori –, la difesa legale, la tutela dell’ambiente, l’edilizia e l’urbanistica.

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Quanto all’entità del danno erariale, si registra una fortissima varietà negli importi ed emerge chiaramente una prevalenza di casi in cui all’ipotesi di danno erariale formulata nell’atto di cita-zione, consegue una condanna per somme notevolmente ridotte, quale esplicazione del c.d. potere riduttivo.

Rilevante è il numero dei casi in cui alla citazione non consegue la condanna ma l’assoluzione. Questione, questa, che merita una attentissima rifl essione.

In relazione, infi ne, alla tipologia di enti coinvolti, si registra in Emilia Romagna una prevalenza del controllo sulle amministra-zioni locali (12 su 14; due casi vedono coinvolte Camere di com-mercio), in Calabria sulle amministrazioni sanitarie (8 su 14; 5 nei confronti di amministrazioni locali ed una nei confronti di un so-stituto procuratore della Repubblica), mentre una situazione più omogenea è quella che risulta in Lombardia, dove gli enti coinvolti sono talvolta enti locali, talaltra università o enti ospedalieri.

In conclusione, le numerose ipotesi esaminate dalle sezioni re-gionali della Corte dei Conti, in questi ultimi anni, appaiono piut-tosto eterogenee e danno l’impressione di un sindacato della Corte episodico, di certo non in grado di garantire in modo sistematico il rispetto dell’obiettivo della qualità e dell’effi cienza amministrativa nel delicato versante dell’apporto delle professionalità esterne alla realizzazione dei compiti affi dati alle pubbliche amministrazioni.

Del resto, questo carattere di episodicità deriva dalla natura stessa dell’attività giurisdizionale della Corte dei Conti, che non si occupa del quadro generale dell’assetto amministrativo e delle eventuali patologie riscontrate (attività di competenza delle sezioni di controllo), ma di singoli episodi, nascenti da specifi che notitiae criminis. Al riguardo, è indubbio che la scelta operata dal legislato-re, con l’avallo della Corte Costituzionale, di separare nettamente attività di controllo ed attività giurisdizionale rappresenta un forte limite all’attività delle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti, e necessiterebbe, probabilmente, di una rivisitazione (6).

(6) Sul punto si v. le considerazioni esposte dal Procuratore generale della Corte dei Conti, dott. Furio Pasqualucci, durante l’audizione svoltasi presso la Commissione parlamentare di inchiesta sull’effi cacia e l’effi cienza del servizio sanitario nazionale il 6 maggio 2009.

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Del resto, proprio l’assenza di un raccordo immediato e diretto tra esito del controllo ed attività giurisdizionale si riverbera sulle modalità con le quali le procure regionali avviano le proprie inda-gini, spesso derivanti da notizie di stampa o, addirittura, da esposti delle forze politiche all’opposizione rispetto a quelle che sono al comando dell’amministrazione interessata dall’indagine, la cui at-tendibilità appare, ovviamente, minata dalla fonte di provenienza.

Un altro elemento di criticità è dato dalle modalità con le quali la Corte dei Conti è tenuta ad applicare la (già di per sé rigida) legislazione in materia di attribuzione di incarichi e consulenze: si tratta di una applicazione che non può tenere conto delle pe-culiarità di ciascuna amministrazione e che non consente, quindi, di trarre dalla «giurisprudenza» della Corte indirizzi ed orienta-menti applicativi.

Un terzo elemento di criticità è dato dalla disciplina attuale del-l’obbligo di denuncia di reato, in capo ai responsabili dei servizi ed agli organi di vertice delle pubbliche amministrazioni, spesso non in grado di poter adempiere a questo dovere per la contiguità con gli organi politici. Tale elemento è stato rilevato anche dal Procuratore generale, nella relazione annuale per il 2009, nella quale ci si chiede per quale motivo, pur in presenza del citato obbligo, sono rare le ipotesi di giudizi avviati in applicazione di denunce di questo tipo.

Alla luce di questo quadro viene da chiedersi quali soluzio-ni siano possibili sul versante della giurisdizione della Corte dei Conti e sul diverso versante dei meccanismi di controllo interno che, a monte, dovrebbero presiedere alla correttezza delle consu-lenze.

Anche il Presidente della Corte dei Conti, nella relazione pre-sentata in occasione dell’anno giudiziario 2010 (cfr. § «I giudizi di responsabilità»), evidenzia come, anche in ragione di farra-ginosità procedurali e di carenze riscontrabili nella chiarezza e completezza delle regolazioni normative, i sistemi organizzativi pubblici fi niscano troppo spesso «con il non attivare previamente anticorpi interni», idonei ad ostacolare adeguatamente il verifi -carsi delle patologie, attribuendo così particolare rilevanza, nella lotta alla maladministration, al controllo giudiziale, per sua natura susseguente e repressivo.

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3. Il contesto attuale ed i possibili percorsi di riformaCome si è visto, diverse sono le questioni che emergono an-

che solo ad un approccio prevalentemente empirico. Colpisce, nel quadro evolutivo che è venuto caratterizzando nel tempo la giurisdizione amministrativa (e con particolare incidenza negli ultimi anni), la decisa connotazione assunta dalla funzione della Corte dei Conti quale funzione di «controllo sostanziale» della complessiva sfera pubblica (intesa in senso ampio, comprensivo di tutti i soggetti assimilabili alla Pubblica Amministrazione per effetto dell’elemento sostanziale della spesa di danaro pubblico). La Corte dei Conti si è via via affermata come principale baluardo nei confronti dei fenomeni e di cattivo uso delle risorse pubbli-che, in un momento storico in cui l’amministrazione pubblica e gli organi politici nel loro complesso sono colpiti da una potente e per ora irrisolta crisi di identità e di credibilità (7).

Da qui una conclusione preliminare, e l’indicazione di una pri-ma ipotesi di lavoro. L’interrogativo da porsi è se la giurisdizione di responsabilità contabile-amministrativa sia in grado, oggi, di rispondere alla domanda crescente di attenzione alla piena legit-timità dell’azione amministrativa e politica, e di effettivo rigore della spesa pubblica, attraverso i suoi strumenti, sanzionatori e repressivi, e per di più improntati anche ad una diffusa frammen-tarietà. La stessa Corte dei Conti, in numerose sedi ed occasioni uffi ciali, ha messo in forse questa capacità, richiamando l’atten-zione sui limiti di natura giuridica e di natura fattuale-organizza-tiva che si frappongono al pieno dispiegarsi della sua funzione giurisdizionale.

Tra i limiti di ordine giuridico, l’accento è posto sulle diffi col-tà che discendono all’attività di prevenzione dalla necessità della sussistenza di un danno concreto ed effettivo, già prodottosi, per-ché possano esplicarsi le citazioni o quantomeno le attività pre-liminari delle Procure. Non va dimenticato, come è stato sottoli-neato nella sopra citata relazione del Presidente della Corte dei Conti (anno giudiziario 2010), che la Corte Costituzionale con varie sentenze (tra le altre, cfr. sentenza n. 337 del 2005) ha posto

(7) Molti e accurati riferimenti al riguardo si trovano nel contributo di Fran-cesco Battini in questo volume.

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un chiaro confi ne, stabilendo che l’azione delle Procure presso la Corte dei Conti deve riguardare un fatto ben preciso e deter-minato, quale possibile fonte di responsabilità amministrativa (le decisioni del giudice contabile costituiscono indubbiamente la ri-sultante di condotte individuali, posto che la giurisdizione riguar-da responsabilità soggettive e personali e si esercita su di esse, e non su fenomeniche di tipo sistemico); laddove invece il controllo su gestioni, in base alle norme, ha un campo di accertamento po-tenzialmente esteso a 360 gradi.

Sotto altro profi lo, vengono evidenziati i limiti discendenti dal-l’esclusione, per espressa statuizione normativa, della colpa lieve come elemento psicologico della condotta dannosa.

Sotto questo profi lo appare molto critica e destinata a creare conseguenze di disorganicità ulteriore la disposizione, contenuta nell’articolo 6, co. 7, del d.l. n. 78/2010 citato, secondo la quale l’affi damento di incarichi in misura superiore al limite stabilito dalla norma (20% rispetto alla spesa sostenuta nel 2009), costi-tuisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale, intendendo con ciò affermare la sussistenza dell’addebitabilità del danno indipendentemente dall’elemento psicologico tenuto dall’autore della condotta amministrativa. Ne consegue che al giudice contabile non residua alcun margine di apprezzamento sull’elemento psicologico dell’autore del danno, perché questo è valutato direttamente a livello legislativo.

A queste problematiche si aggiunge, come già rilevato, l’incer-tezza che deriva dall’effettiva conoscenza dei fatti dannosi, a cau-sa del non corretto esplicarsi dell’obbligo di denuncia da parte dei soggetti tenuti a tale adempimento. Ancora, e con particolare vigore, sono emersi problemi nel rapporto tra le strutture della Corte dei Conti che espletano funzioni di controllo e le Procure laddove, come è noto, è preclusa la denuncia dei fatti dannosi da parte della struttura di controllo a quella di indagine. Il problema non è teorico: basti solo riandare con la mente ai dati illustra-ti nella relazione di apertura dell’anno giudiziario per avere una rappresentazione del fenomeno Ma, appunto, proprio le dimen-sioni del fenomeno, oltre ad un certo senso di disagio, suggerisco-no la necessità di tenere in considerazione come si svolgono, nella realtà concreta dei fatti, i procedimenti decisionali della pubblica

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amministrazione, per giungere, sia pure con approssimazione, alla conclusione che come non c’è una amministrazione pubblica «unica», così non possono essere considerati sullo stesso piano processi decisionali tra loro diversissimi. È del tutto evidente che una cosa sono le decisioni di localizzazione di grandi interven-ti infrastrutturali, o le decisioni di macro-organizzazione (come quelle che determinano, per esempio, l’assetto del servizio sanita-rio regionale), altra cosa sono le procedure auto-dirette, destinate cioè ad incidere solo sulla organizzazione interna degli enti che le adottano. Gli eventi distorsivi hanno, con ogni probabilità, origi-ni e cause diverse, come diverso è certamente l’«equilibrio» tra l’apporto decisionale della politica e l’apporto decisionale della tecnostruttura. In alcuni casi, il problema può nascere esclusi-vamente dal defi cit organizzativo reale del plesso amministrativo chiamato ad operare.

Tenendo conto di questi elementi, occorre chiedersi se la strada può essere quella di modifi care l’attuale regime giuridico della re-sponsabilità amministrativo-contabile, potenziando gli strumenti istruttori e repressivi della Corte dei Conti, anche mediante una rivisitazione del rapporto tra attività di controllo e attività giuri-sdizionale; oppure, se si deve procedere nella direzione di un di-verso e più articolato sistema delle responsabilità, che tenga conto della dimensione delle amministrazioni, della diversa complessità dei procedimenti e che punti al contempo ad una decisa riquali-fi cazione tecnica degli apparati e delle strutture, quale strumento per prevenire i fenomeni distorsivi sopra citati. Si tratta di due strade che, del resto, non sono di per sé incompatibili e che pos-sono essere percorse contestualmente.

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Francesco Merloni

LE REGOLE GENERALI SULL’IMPARZIALITÀSOGGETTIVA DEL FUNZIONARIO PUBBLICO.

L’ACCESSO ALLA FUNZIONE

1. Per un approccio generale alla disciplina dello status dei fun-zionari pubbliciLe garanzie di imparzialità dei funzionari pubblici, intesi nel

senso più ampio, sono oggetto di una disciplina discontinua e squilibrata, che è il frutto del depositarsi di normative aventi fi -nalità diverse.

Si consideri, ad esempio, che la disciplina relativa ai titolari di organi politici è quasi del tutto coincidente con le regole sull’ac-cesso alla funzione (ineleggibilità e incompatibilità), mentre sul versante degli organi amministrativi la disciplina della posizione del dirigente è quasi interamente ricavata, per estensione, dalla disciplina generale dei pubblici dipendenti ed è poco attenta al profi lo dell’accesso alla funzione.

In questa sede si suggerisce un approccio unitario, volto a con-siderare lo status del funzionario pubblico in rapporto alle diver-se fasi di esercizio della funzione affi data: accesso, svolgimento, incarichi successivi.

La tematica dello status dei funzionari pubblici sarà qui trattata dapprima in modo generale, per considerare tutti gli strumen-ti utilizzati e utilizzabili. Seguirà un’analisi articolata dello status delle diverse categorie di funzionari, con proposte di riforma, che dovrebbero essere inserite in una visione integrata delle esigenze di imparzialità di ciascuna categoria.

Nell’approccio generale si considereranno tre momenti del rap-porto tra il funzionario pubblico e la funzione che gli è affi data: il primo è quello dell’accesso alla funzione. Si tratta qui di garantire non solo la qualità, la competenza, della persona in rapporto alle attività che sarà chiamato a svolgere, ma anche la non titolarità di interessi particolari che già di per sé, per la dimensione degli interessi o per la loro evidente confl ittualità con l’interesse ge-nerale, possano portare alla esclusione del soggetto dall’accesso

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alla carica (alla funzione). Gli strumenti in uso sono, per le cari-che elettive, la ineleggibilità e l’incandidabilità, per gli incarichi a contenuto professionale la non conferibilità (non nominabilità); per tutti vi sono, poi, le cause di incompatibilità (il funzionario regolarmente eletto o nominato non può accedere alla carica per il permanere di situazioni di confl itto di interesse. Il secondo momento è quello dello svolgimento della funzione, per il quale vengono in rilievo diversi profi li: la durata e la rinnovabilità degli incarichi, il regime delle incompatibilità (per i confl itti che so-pravvengono nel corso dell’esercizio della funzione impedendo il permanere in carica) e degli strumenti di gestione delle situazioni di confl itto puntuale, non permanente (doveri di dichiarazione e di astensione). Sempre per la fase dello svolgimento della funzio-ne vengono poi in rilievo i doveri di comportamento che l’ordina-mento fa discendere sul funzionario, in servizio e fuori servizio, in stretto collegamento con i caratteri della funzione svolta; ad essi è connessa la responsabilità disciplinare (che si dovrebbe muovere su un piano diverso e complementare rispetto a quella penale). Il terzo momento, infi ne, riguarda la fase successiva allo svolgi-mento della funzione e tocca gli incarichi che il funzionario possa assumere dopo aver svolto la funzione.

2. L’accesso alle funzioni pubblicheIl regime di status è mirato a prevenire l’accesso alla funzione

pubblica da svolgere a persone non in grado di svolgerla in modo imparziale perché titolari di interessi particolari (politici, econo-mici, di gruppi) che si debbano considerare come suscettibili di condizionare in modo improprio le attività di cura degli interessi pubblici connessi alla funzione.

Anche in questo campo si registra la netta distinzione di discipli-na tra organi politici (e fi gure connesse) e funzionari professionali.

Per questi ultimi la discriminante di fondo sta nel reclutamento per concorso e nella costituzione di un rapporto di lavoro che, pubblicistico o privatistico che sia, è sempre di tipo esclusivo. Poiché il funzionario professionale è legato da un rapporto esclu-sivo con l’amministrazione poco importa sapere se egli non sia co-munque, ancora prima della costituzione del rapporto, titolare di

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interessi particolari in potenziale confl itto con l’imparzialità. Ciò conduce la disciplina vigente a non preoccuparsi di fi ssare cause di non accesso alla carriera (al concorso) o di non attribuibilità degli incarichi dirigenziali (per i funzionari di carriera). Questo limite, già grave in via generale, appare inaccettabile nel caso di conferimento di incarichi dirigenziali a persone non legate da un rapporto di lavoro esclusivo: si pensi ai c.d. «dirigenti esterni», che non a caso hanno dato luogo a derive e forzature di tipo fi du-ciario. In rapporto alla concreta funzione affi data con l’incarico si dovranno individuare le cause che impediscono il conferimento dell’incarico dirigenziale.

Ma la dirigenza c.d. «esterna» non costituisce il solo strumento di aggiramento dell’obbligo costituzionale di reclutamento per concorso dei funzionari professionali. Si pensi alla adozione di soluzioni organizzative solo formalmente privatistiche (la costitu-zione di fondazioni o le società di capitali in controllo pubblico) nelle quali il reclutamento può avvenire secondo criteri di carat-tere privatistico fi duciario o personale.

In questi casi la soluzione ipotizzabile potrebbe consistere nel-la estensione dell’istituto dell’organismo di diritto pubblico: non solo l’obbligo di procedure di evidenza pubblica per la selezione del contraente, ma anche l’obbligo di reclutamento con procedu-re concorsuali aperte e di accertamento competitivo delle neces-sarie competenze professionali, accompagnato da una più attenta disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali, che esclu-da da tale conferimento persone che siano (o siano state in tempi recenti) titolari di interessi particolari in confl itto con la funzione da svolgere.

Per gli organi politici l’approccio della disciplina vigente è op-posto e speculare: l’attenzione è tutta sui regimi di ineleggibilità e incompatibilità: il primo in realtà calibrato soprattutto sulla tutela della libera scelta dell’elettore e il secondo sulla necessità di assi-curare la piena dedicazione dell’eletto o del nominato alla carica. Con il risultato, in entrambi i casi, di trascurare le situazioni di grave e conclamato confl itto di interessi con l’esercizio imparziale della carica, che sembrano invece imporre una preventiva e ri-gorosa esclusione (in termini di incandidabilità) in casi di grave confl itto di interessi.

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Approccio analogo va seguito con riferimento ai soggetti con incarico fi duciario, soprattutto quando tale incarico comporta lo svolgimento di compiti di gestione a amministrazione attiva che richiedono la stessa imparzialità che il rapporto di lavoro profes-sionale dei dirigenti dovrebbe garantire. Proprio perché al con-fi ne con le due categorie di riferimento, lo status di questi sog-getti, quanto alle limitazioni al conferimento dell’incarico, resta altamente indefi nito: in quanto funzionari onorari sono assimilati agli organi politici ma subiscono limitazioni molto minori sia in termini di ineleggibilità/incandidabilità che di incompatibilità e non nominabilità; in quanto vicini alla posizione dei funzionari professionali (per l’esercizio di funzioni gestionali) viene ad essi impropriamente esteso un regime fondato sul rapporto esclusivo di lavoro con l’amministrazione per loro inesistente.

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Ferdinando Pinto

INCANDIDABILITÀ, INELEGGIBILITÀ E INCOMPATIBILITÀ

1. IntroduzioneIl fatto stesso che, nonostante, da ben oltre un secolo, sia pre-

sente nel nostro ordinamento, un articolato sistema delle ineleg-gibilità e delle incompatibilità e nonostante le nuove e robuste regole in tema di incandidabilità, introdotte più di recente, e, an-cora, le disposizioni in tema di confl itto di interessi, si continui a parlare della necessità di strutturare un apparato (normativo?) a tutela dell’etica nella politica, dimostrerebbe già di per sé il falli-mento di un sistema, e delle sue regole, fondato sull’obiettivo di realizzare quel valore.

Di fronte ad una tale constatazione, la più logica delle osser-vazioni sarebbe nel senso di ritenere che le limitazioni che con-seguono da tali regole non dovrebbero essere riconducibili a ragioni d’ordine etico, ma a motivi di carattere funzionale; esse sarebbero, cioè, più limitatamente, volte a «garantire che l’uffi cio sia svolto con la dedizione necessaria e ad impedire il cumulo di determinati mandati».

In questo senso, le norme non avrebbero il signifi cato che co-munemente ad esse si attribuisce come deterrente per evitare che le istituzioni possano essere inquinate da interessi privati o in-quinata la stessa volontà degli elettori, ma la diversa fi nalità di consentire l’effi cienza dei processi decisionali delle istituzioni che avrebbero, allora, un valore in sé.

L’osservazione è, forse – almeno parzialmente – condivisibile, ma fa nascere (almeno) due domande. La prima, se l’affermazione sia altrettanto valida per la valutazione che della stessa normativa si faceva in passato; la seconda, se, per il futuro, non sia possibile che le regole relative alle cause ostative all’elezione rivestano, o riprendano a rivestire, (anche esse) un ruolo per consentire alla politica di (ri)scoprire una sua etica.

È ovvio che, in ogni caso, anche a voler dare una risposta po-sitiva alle domande appena poste, centrale, e comunque priorita-

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rio, resta il problema di una modifi ca che parta dall’interno del sistema; di un’etica, cioè, che pervada istituzioni e regole prima che esse diventino norme, anche attraverso la moralità dei com-portamenti dell’eletto in un rapporto tra quest’ultimo e chi lo elegge, che non si riduca, come spesso accade, a mero sinallagma privatistico.

Pur tuttavia, quando tutto questo non si riesce spontaneamen-te a realizzare, è compito del legislatore – e, in defi nitiva, dello studioso – indicare strade e comportamenti obbligati ad una poli-tica che non sappia trovare solo in se stessa le regole del corretto rapporto con il corpo elettorale.

2. L’ineleggibilità e l’incompatibilità nell’evoluzione della disci-plinaLe norme sull’ineleggibilità e l’incompatibilità erano, origi-

nariamente, accanto a quelle morali, anch’esse norme etiche in quanto, nel contesto in cui nascevano, e coerentemente ad esso, tendevano a garantire il corretto sviluppo della volontà elettora-le – le ineleggibilità – e il corretto esercizio della funzione – le incompatibilità – intesi come valori conseguenti e prodotti dai principi che informavano la società dell’epoca,

Lo schema appariva semplice e lineare, come, tutto somma-to, (almeno relativamente) semplici e lineari apparivano i princi-pi che governavano la società liberale dell’800 che quelle norme avevano prodotto. Come, in estrema sintesi, il mercato doveva essere libero, così, quasi come conseguenza inevitabile, libera, e pienamente libera, doveva essere l’espressione della volontà del corpo elettorale nel momento in cui veniva effettuata la scelta dei suoi rappresentanti.

Di qui le norme sul c.d. divieto della captatio benevolentiae, che prevedevano divieti idonei ad evitare che il libero mercato – in senso propriamente tecnico – dei voti venisse alterato. Il candida-to è, in questa prospettiva, un soggetto che vende il proprio pro-dotto al consumatore-elettore, ma che non può, proprio perché il mercato deve, per sua stessa natura, essere aperto a tutti (la sua essenza è nel fatto stesso che sia aperto a tutti), godere di posizio-ni di primazia che rendano il mercato (in)naturalmente propenso

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all’acquisto di un prodotto in luogo di un altro. Di qui le nor-me che impediscono, al titolare di posizioni che possano infl uire sull’elettorato, di poter svolgere la propria campagna elettorale godendo, appunto, di quelle posizioni e potendo perciò condi-zionare una scelta nel consumatore/elettore diversa da quella che egli avrebbe altrimenti fatto nell’ordinario rapporto tra qualità e prezzo – inteso come idoneità della proposta politica presentata e capacità della sua realizzazione – che egli avrebbe dovuto libe-ramente valutare.

Analogamente, nell’esercizio del mandato, l’eletto avrebbe do-vuto svolgere la sua attività solo in funzione di quanto risultante nel «mercato» elettorale da cui egli è emerso e non in funzione del proprio interesse. Di qui le norme in tema di incompatibilità volte, appunto, a garantire che l’interesse tutelato sarebbe stato il solo interesse di tutti, e, dunque, del consumatore/elettore, e non dei (soli) produttori.

Si tratta di uno schema semplice e, in questo senso, etico, nella misura in cui i valori della società dell’epoca coincidono con i valori che si traducono nella norma e di cui rappresentano la sin-tesi. Etica è, in questo senso, coerenza con un sistema dei valori percepiti come positivi e che, proprio in quanto tali, sono consi-derati idonei ad ispirare anche la vita delle istituzioni politiche e democratiche esattamente come ispirano altri comportamenti ed approcci ad altre realtà fattuali.

3. La mancata applicazione e le continue modifi che della disci-plinaIl vero problema è nell’applicazione, al succedersi nel tempo

e al mutare delle circostanze di fondo che lo avevano ispirato, di questo schema, che (al di là di alcune sue anomalie, che, in taluni casi, confondevano tra loro situazioni di ineleggibilità e di incompatibilità, anomalie che saranno poi, nel tempo, corrette) era sì coerente, ma lo era all’epoca in cui era stato strutturato e in funzione dei suoi valori. Le medesime normative verranno, cioè, sostanzialmente ed acriticamente ripetute negli anni, in al-cuni casi anche con l’esatta loro riproduzione verbale, pur nel mutare dei principi ispiratori della società e senza mai ripensare

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ai fondamenti che le avevano provocate. Esse fi niranno, perciò, per perdere la loro espressione di valori etici in quanto valori ca-paci di permeare la società in uno schema liberamente ed effetti-vamente sentito dalle istituzioni che, in defi nitiva, queste ultime si limitavano a recepire.

Le norme saranno, così, tralaticiamente ripetute negli anni in cui gli aggiustamenti saranno, semmai, oltre che dal contingente, motivati dall’esigenza di evitare l’applicazione della norma per ca-tegorie e soggetti con un susseguirsi di deroghe ai principi gene-rali del tutto incompatibile con l’impianto originario della norma e che, anzi, con questo, in taluni casi, fi niranno per scontrarsi.

In questo senso, due esempi appaiono particolarmente indica-tivi, a riprova di come le nuove normative siano ispirate da esigen-ze del tutto diverse rispetto a quelle conseguenti alla necessità di omogeneizzarsi con valori eticamente condivisibili.

Il primo è relativo ai motivi ispiratori della riforma – o presun-ta tale – del 1981, provocata dalla (sola) necessità di consentire l’elezione di categorie che, altrimenti, avrebbero partecipato al «mercato» dell’elezione proprio in quella posizione di primazia e/o confl itto di interesse che le norme avevano cercato di evitare. È noto, infatti, che la riforma venne ispirata dalla esigenza di con-sentire l’eleggibilità e/o la compatibilità dei dipendenti dell’appe-na riformato sistema della Sanità, che avrebbero altrimenti subito la sanzione (della ineleggibilità) altrimenti prevista dalla norma.

Il secondo esempio è dato dalla circostanza di un sempre più frequente intervento del legislatore ex post, attraverso, cioè, in-terventi che, adottati successivamente al verifi carsi delle cause di ineleggibilità e incompatibilità, hanno reso legittimo ciò che originariamente non lo era. La pratica è stata, in tal senso, tanto diffusa che in taluni casi si è persino provveduto con un decre-to legge, tanto clamorosamente privo dei requisiti dell’urgenza da essere, con estrema solerzia, dichiarato incostituzionale dalla Corte (è il noto caso di un sindaco condannato per peculato e, pertanto, addirittura incandidabile).

Per meglio dire, l’etica originaria di un mercato libero, è stata progressivamente sostituita dalla (non) etica di un mercato conti-nuamente alterato, volto più a tutelare situazioni a protezione di categorie, piuttosto che dei consumatori-elettori.

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Due gli ordini di ragioni, tra loro sostanzialmente non sovrap-ponibili, ma entrambi concorrenti a stemperarne le fi nalità origi-narie, che possono essere identifi cati.

La norma nasce, infatti, in un contesto di principi che è venu-to, nel tempo, profondamente a modifi carsi, ma senza che questo abbia comportato una modifi ca dei valori ispiratori nella nuova (temporalmente) normativa, che, come si è detto, rimane, nei suoi contenuti fondamentali, sempre uguale a se stessa. Cambiato, cioè, il contesto che informa la società nei suoi rapporti più profondi la norma è rimasta ancorata al vecchio con una evidente discrasia tra principio regolatore e sistemi ormai non più governabili con i me-desimi metodi. Il «mercato» è venuto riarticolandosi, divenendo sempre più complesso, ed ha assunto in sé nuove regole e nuovi protagonisti, che chiedono non più l’ammissione ad un mercato libero, ma, piuttosto, protezione, mentre la norma è rimasta fi ssa-ta in funzione di un antico, ormai travolto, assetto. Nell’epoca del-l’energia nucleare, la norma sembra più pensata – sia permesso il paragone – in funzione della macchina a vapore, chiamata a disci-plinare locomotive non elettriche nel mondo dei voli a reazione.

Si è, dunque, perduto qualsiasi contatto tra la realtà da regola-mentare e la regola stessa, divenuta, nel tempo, spesso un mero orpello da rispettare e, soprattutto, proprio perciò, tale da non poter più garantire, perché ormai ontologicamente inidonea, che il sistema della politica e della sua rappresentanza non venga per-meato da quelle alterazioni, nel momento elettorale e nell’eserci-zio della funzione, che originariamente si mirava ad evitare.

Se a ciò si aggiunge la regola della deroga, a cui si è fatto poc’an-zi riferimento, si ci accorge della mancanza di qualsiasi possibilità di realizzare, attraverso la (attuale) normativa, una qualsiasi fun-zione etica, se etica è innanzitutto il rispetto di regole generali, valevoli per tutti e soprattutto tali da non poter essere modifi cate in funzione del particolare.

4. La riscoperta dell’incandidabilità nella disciplina degli anni NovantaIn verità, il sistema ha, ad un certo punto della sua storia, riac-

quistato, seppur sotto un diverso aspetto e con un diverso conte-

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nuto, una forma etica anche se diversa da quella da cui originaria-mente era stato ispirato. Il riferimento è all’epoca in cui nascono, a cavallo del 1990, le norme in tema di incandidabilità. È un mo-mento storico in cui il Paese sente forte il richiamo alla necessità che principi etici prevalgano nuovamente in una vita politica che sembra li abbia abbandonati.

L’attacco al sistema democratico subisce, in quel periodo, il suo momento più forte nell’unione di una teoria stragistica (si pensi agli attentati mafi osi) con una teoria del malaffare (sta nascendo «Tangentopoli») che raggiunge momenti in cui le regole e il loro rispetto appaiono quasi assenti. Di qui un’esigenza che permea il Paese, tale da portare alla creazione del nuovo istituto della in-candidabilità che, proprio perché nuovo e non mera ripetizione del precedente, si pensa possa dare risposte all’esigenza di etica che emerge in quegli anni.

In questo caso le norme appaiono, in alcuni casi, addirittura tanto forti da essere ritenute giustifi cabili, secondo quanto dirà la Corte costituzionale, in funzione esclusivamente del momento storico in cui nascono tanto che in alcuni casi saranno, di fatto, corrette dalla stessa Corte. Si tratta di norme ritenute così per-vase dall’emersione di valori ritenuti costituzionalmente rilevanti da poterne addirittura superare altri, capaci di far venir meno lo stesso principio dell’articolo 51 della Costituzione, sino ad allora inteso come valore predominante su cui modellare i restanti.

Non è questa la sede per discutere della correttezza del model-lo sotto il profi lo del suo contenuto, quanto piuttosto l’occasione per sottolineare come a quel momento e in quell’epoca storica le norme sulla incandidabilità abbiano rappresentato, e in par-te rappresentano, l’occasione per una riscrittura in senso etico dei principi, con la creazione di nuove barriere per l’ingresso nel mercato, sempre in senso esclusivamente tecnico, della politica, per soggetti che ontologicamente non sono ritenuti eticamente idonei a parteciparvi.

Il fatto che tali norme trovino applicazione sostanzialmente solo nei confronti della competizione elettorale locale, per cui il paradosso che qualcuno sia candidabile al Parlamento nazionale ma non al proprio consiglio di circoscrizione, è, peraltro, il mi-glior indice di come la (ri)emersione di un principio etico sia stata

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vista di cattivo occhio da una classe politica che oramai da anni cerca di sottrarvisi. Al fondo l’idea che le regole si debbano scri-vere sempre per gli altri e che da esse chi le scrive debba essere tenuto esente. Approccio questo che può essere giustifi cato solo sul presupposto che o le regole siano considerate inidonee a risol-vere il problema per cui sono state pensate – in questo caso rag-giungere l’obiettivo che le istituzioni della politica siano rette da persone nei confronti delle quali il giudizio morale sia positivo – o piuttosto che, proprio perché idonee a realizzare quell’obiettivo, si debba essere strumento per un privilegio e dunque consentire a qualcuno di sottrarsi dalla realizzazione del valore perseguito. In entrambi i casi, però, si determina un vulnus irreparabile nei confronti dell’idea stessa che la norma possa essere strumento per un’etica nella scelta dell’elettorato.

Sono note, sul punto, le obiezioni all’estensione delle regole sull’incandidabilità ai membri del Parlamento, basate sul dato te-stuale dell’articolo 65 della Costituzione, che, inteso quale norma speciale, prevede le sole ipotesi dell’incompatibilità e dell’ine-leggibilità. Obiezioni che, però, poco convincono, anche non considerando le opinioni della Corte costituzionale, secondo la quale l’incandidabilità andrebbe considerata come una «partico-larissima causa di ineleggibilità». Dai lavori preparatori è, infatti, univoca l’indicazione secondo cui la legge cui fa riferimento l’art. 65 non esaurisca tutti i casi di ineleggibilità, che sono, invece, regolati dall’attuale art. 48, che prevede, appunto, limitazioni al diritto di voto, e, dunque, anche all’elettorato passivo, nei casi di indegnità morale previsti dalla legge.

Altrettanto nota è la posizione della Corte costituzionale che ha sostanzialmente ritenuto legittimo come principio il sistema della «doppia velocità» delle cause ostative all’elezione sul pre-supposto che le situazioni normate siano diverse tra loro.

A rilevare però non è tanto il problema della giustifi cazione del-le norme in funzione della loro più o meno discutibile legittimità, quanto piuttosto la scelta di merito che ne è alle spalle. Le scelte etiche attengono, infatti, sempre le seconde e non le prime.

Alle considerazioni che precedono va aggiunto il profi lo della particolare rilevanza che assume, per il tema che qui interessa, il principio della giurisdizione domestica che, consentendo, di fat-

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to, alla classe politica nazionale di difendersi da sé, determina una ulteriore manifestazione della diseguaglianza. La particolarità del giudizio, poi, davanti alla Corte, che ha come parametro la norma più favorevole impedendo l’estensione delle cause di incandida-bilità, renderebbe del tutto privo di effetti anche l’eventuale que-stione, anche ammesso che essa venga sollevata all’interno della giurisdizione domestica.

5. Per una disciplina unitaria, fondata sulla incandidabilitàIn questo quadro – seppur defi nito in estrema sintesi – occorre

domandarsi se la normativa sulle cause ostative all’elezione possa, e con quali contenuti e a quali condizioni, per il futuro assumere (nuovamente) una funzione etica e non semplicemente effi cienti-stica legata alle contingenze del momento.

Quanto fi nora detto rende possibile, e sostanzialmente conse-guenziale, la risposta sistemica che entrambe le comprenda.

La prima condizione da realizzare, per consentire alla norma-tiva sulle cause ostative di riassumere un suo ruolo etico come in-dicatore di valori, è la costruzione di un sistema capace di fi ssare principi unitari idonei ad informare tutte le competizioni eletto-rali sul presupposto che non possano che essere unitari i principi che reggono la selezione del personale politico. La distinzione può semmai avvenire in relazione alle specifi che modalità con cui la funzione si esercita in relazione ai diversi livelli territoriali della rappresentanza (in questo senso la stessa competenza regionale), ma non nella fase di selezione delle candidature.

La distinzione della legislazione, tradizionalmente operata in funzione dei diversi livelli di governo, sembra più un pigro adat-tamento al passato in cui le elezioni amministrative e quelle poli-tiche sono state sempre normate in distinti testi legislativi, che la conseguenza di un riesame delle motivazioni che avevano portato alla distinzione. Ciò a tacere della considerazione che le normative elettorali nascevano come normative nazionali, progressivamente in qualche modo adattate alle esigenze locali, in funzione della organizzazione degli enti territoriali particolarmente complessa nei primi anni dell’unità. Inoltre, le normative pur formalmente distinte tra loro lo erano assai meno nella sostanza e inconcepibile

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era la possibilità che interi istituti, come avverrà poi per l’incandi-dabilità, venissero previsti in alcune ipotesi di competizione elet-torale e non in altri. Il criterio ispiratore delle norme (di tutte le norme) era, come si è detto, sempre il medesimo nell’adesione ai principi del liberalismo classico che non ammettevano altro che la libera competizione – nel mercato economico come nella politica – e che il prodotto che ne sarebbe derivato non avrebbe dovuto essere utile altro che al consumatore/elettore.

In questa prospettiva, non si può non pensare ad una riforma che muova dalla incandidabilità fondandone l’elemento attorno al quale ricostruire l’intero tema delle cause ostative all’elezione. Seppur dogmaticamente giustifi cabile, la differenza tra incan-didabilità, intesa come impossibilità ad essere candidato, e ine-leggibilità, come impossibilità ad essere eletto, diviene, nei fatti, diffi cilmente percepibile ed è oggi semplicemente il frutto del-l’originaria nascita delle norme, quando l’ineleggibilità era l’unico istituto a valere prima della candidatura. In quel quadro norma-tivo di incandidabilità neppure si parlava ritenendosi suffi ciente per questo aspetto la disciplina penalistica (le pene accessorie) o quella civilistica (si pensi alle norme sul fallimento).

È stata, dunque, un’occasione perduta il fatto che, quando l’istituto è stato strutturato, non sia stato ritenuto utile ed oppor-tuno ricondurre ad unità istituti che avevano un indubbio comu-ne denominatore.

È evidente che l’incandidabilità si rifl ette sulle caratteristiche personali del singolo, mentre l’ineleggibilità attiene al modo come il singolo usa dei poteri e delle funzioni che esercita, utilizzo che può avvenire prescindendo da ogni valutazione della fi gura del singolo. Pur tuttavia, in entrambe le situazioni si può rintracciare un comune denominatore dato dalla alterazione della competi-zione elettorale nella sua fase genetica, vuoi per la inidoneità del singolo in quanto tale – e, dunque, in astratto – vuoi per l’inido-neità del singolo in quanto inserito in un determinato sistema di funzioni e di poteri – e, dunque, in concreto; di un singolo, cioè, che è anche egli moralmente da sanzionare in quanto utilizzatore di un sistema e di uno strumentario fi nalizzato alla alterazione della (libera) competizione elettorale. D’altro canto, la situazione di ineleggibilità, così come confi gurata, può comportare, addi-

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rittura, il paradosso di qualcuno che si candida, pur sapendo di non poterlo fare in virtù di un divieto volto ad evitare l’altera-zione della competizione elettorale e che, proprio attraverso la propria candidatura, riesca comunque ad alterarla. Un esempio, fra i tanti, può valere per tutti ed è il caso di chi, rivestendo ruoli di vertice all’interno delle aziende «municipalizzate», si candidi al consiglio comunale e, dopo la dichiarazione della sua ineleg-gibilità, venga nominato (logicamente dimettendosi dalla carica ma ex post, dopo aver cioè usato dei poteri ad essa connessi nel corso della campagna elettorale) assessore, e magari alle imprese partecipate, dalla coalizione alla cui vittoria egli ha contribuito, a volte, in maniera determinante.

È evidente come, in questa prospettiva, lo spostamento sul ver-sante dell’incandidabilità si presenterebbe particolarmente utile.

6. Affi dare la valutazione delle cause ostative prima del voto ad un giudice terzoSi deve, dunque, ipotizzare un sistema che riunifi chi gli istituti

e tenga conto delle particolari connessioni che entrambi i profi -li svolgono nei confronti del corpo elettorale, che, nel ricorrere dell’una o dell’altra situazione, sarebbe chiamato a svolgere una scelta falsata, o comunque fortemente condizionata, nel momento della determinazione dei soggetti della rappresentanza politica.

Lo spostare sul versante della incandidabilità il focus del pro-blema – anche per l’elementare considerazione che, se qualcuno non è eleggibile, neppure si comprende perché comunque sia autorizzato a correre nella competizione elettorale – ha una ul-teriore conseguenza di particolare importanza ed interesse, che contribuirebbe a ricucire quel rapporto di identità dei valori fra cittadino ed eletto a cui pure le norme dovrebbero essere ispirate. L’incandidabilità, infatti, emerge sin dal momento che precede l’apertura in concreto della campagna elettorale, laddove viene valutata (o, almeno, può essere) in sede di presentazione della candidatura e dunque da soggetti estranei alla competizione elet-torale.

La conseguenza di tale impostazione, in sostanza, potrebbe evitare l’utilizzo di quella giurisdizione domestica, di cui già si è

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detto, che spesso ha portato a risultati che, con tutta probabilità, non avrebbero retto di fronte a nessun giudice terzo.

Sul punto, non si può non esprimere dubbi e perplessità sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato, e della stessa Cassazione, che, anche di recente, ritenendo comunque assorbibile nell’ambi-to della giurisdizione domestica anche la fase della presentazione delle liste per le elezioni nazionali, ha reso ancor meno traspa-rente il sistema, completamente ormai rimesso ad una dinamica politica da cui sempre più diffi cilmente emergono valori comuni e sempre più valori che sono il mero risultato dello scontro tra maggioranza e minoranza.

Una rivisitazione delle cause ostative che si manifestino prima del concreto esercizio del voto, non può, peraltro, se effettiva-mente vuole innovare il sistema e non essere percepita come un momento estraneo, se non inutile, non tener conto di come sia cambiata la società e i suoi valori rispetto al tempo in cui le norme nacquero. Il mondo in cui le cause di ineleggibilità hanno origine, infatti, è un mondo che non solo non conosce ancora, tra gli altri, i fenomeni dei grandi strumenti di informazione di massa, dei moderni aggregati fi nanziari, del sistema industriale multinazio-nale, ma addirittura neppure conosce dei grandi partiti di massa. Grave è che le categorie, nate in quel contesto, siano state poi acriticamente ripetute, senza sostanzialmente nulla aggiungere negli anni, in cui la norma, quasi bloccata dal feticcio secondo cui l’eleggibilità è la regola e l’ineleggibilità è l’eccezione, non ha sa-puto comprendere come i fenomeni appena descritti possano in-cidere sulla libera scelta degli elettori, almeno quanto, se non più, rispetto alle ipotesi tradizionalmente recepite dalla normativa.

Quest’ultima si presenta, in sostanza (e, come tale, del tutto inidonea a rappresentare qualsiasi forma di indirizzo etico), ric-ca di contraddizioni e, addirittura, in alcuni casi, sconcertante o paradossale nei suoi contenuti. Si pensi alle ineleggibilità previste per il Parlamento nazionale, che continuano a trovare la loro giu-stifi cazione partendo dal presupposto di un sistema in cui esiste-va un rapporto tra l’elettore e l’eletto, attraverso il sistema della preferenza o, al limite, del collegio unico, che oggi non ha alcun senso nella prospettiva in cui, come effi cacemente è stato detto, i parlamentari non sono più eletti ma nominati.

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Si pensi, ancora, al paradosso, tutto frutto dell’esercizio del-la giurisdizione domestica, secondo il quale la possibilità di fare, nello stesso tempo, il sindaco di una città di medie o grandi di-mensioni e il parlamentare è rimesso, prescindendo dalle giusti-fi cazioni «formali» del fenomeno, nei fatti, alla «accidentalità» dell’aver assunto una carica prima di un’altra. Si può, così, fare il sindaco se si è prima parlamentare ma non si può fare il par-lamentare se si è prima sindaco, in un quadro in cui, alla luce delle considerazioni appena fatte, evidentemente assai più com-plicata, e abbisognevole di poteri che inducano l’elettore al voto, è la competizione elettorale comunale di quanto non sia quella per il Parlamento nazionale, che dipende dalla mera collocazione nell’ordine della lista, così che sarebbe giustifi cabile, semmai, il contrario di quanto oggi avviene.

7. Una disciplina differenziata delle incompatibilitàAll’interno di un quadro unitario nella defi nizione delle cause

ostative che si manifestano prima della competizione elettorale, si può, peraltro, distinguere e rimettere alla legislazione di settore le sole incompatibilità. In questo caso, quello che tecnicamente è ritenuto il c.d. «confl itto di interesse» – se di questo e solo di que-sto effettivamente si tratta – non può che essere valutato ex post e in funzione delle situazioni che si verifi cano di volta in volta. Il rapporto con l’apparato statale e l’apparato locale determina, infatti, diversità che presuppongono conseguenti diversità nella regolamentazione.

Anche su questo punto occorre però intendersi nella necessità di un ammodernamento del sistema e valutare quali siano i valo-ri che in concreto si intendano perseguire. L’utilizzo, infatti, del confl itto di interesse, inteso come impossibilità a svolgere ruoli e competenze che hanno una qualche attinenza con l’amministra-zione globalmente considerata, o con la stessa attività legislativa, può fi nire per determinare una situazione a tutto vantaggio dei professionisti della politica o, al limite, di chi è ormai già uscito dal mercato del lavoro.

In sostanza, se si vuole che la società partecipi con tutta la sua po-tenzialità all’interno delle istituzioni pubbliche, così da determina-

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re valori comuni ad entrambi, e non un rapporto di subordinazione dell’una all’altra, occorre non irrigidire le norme e (forse) consen-tire partecipazioni che in passato non sarebbero state ritenute pos-sibili, alla vita delle pubbliche istituzioni. Ancora una volta, però almeno con riferimento alla amministrazione, il nuovo va compre-so nei suoi esatti signifi cati e la distinzione tra attività di gestione e attività di indirizzo politico, qualora fosse riportata alle sue esatte dimensioni, come evidenziato più volte dalla Corte costituziona-le, dalla magistratura ordinaria, dalla Giustizia amministrativa e dalla stessa Corte dei Conti, può svolgere un ruolo fondamentale. Il difetto principale dell’attuale norma è nuovamente nell’igno-rare le novità degli ultimi anni e nel restare ancorata a principi ormai non più esistenti.

L’esempio della lite pendente può essere particolarmente indi-cativo nella misura in cui non si comprende perché il consigliere comunale debba rinunziare ad una lite con l’Amministrazione, in cui magari ha ragione da vendere, la cui la gestione gli è totalmen-te preclusa.

In questa prospettiva l’incompatibilità non dovrebbe risolver-si in termini di divieto a ricoprire la carica, quanto, piuttosto, in termini di trasparenza nella gestione dell’apparato pubblico ed ef-fettiva garanzia a che l’attività di gestione sia fi nalmente scevra da condizionamenti, e si svolga nella pienezza delle attribuzioni tipica di una burocrazia (di carriera), che riscopra il valore della propria funzione indipendentemente dall’indirizzo politico contingente.

8. Dalla ineleggibilità alla incandidabilitàSe le considerazioni che precedono sono vere, non resta, però,

a questo punto, che trarre una inevitabile conseguenza: le cause di ineleggibilità dovrebbero (tutte) trasformarsi in cause di incan-didabilità.

A fondamento dell’unifi cazione starebbe, come si è anticipato, la considerazione che, tanto nei casi che si defi niscono oggi come cause di ineleggibilità, tanto nei casi che attualmente sostanziano l’incandidabilità, vi sarebbe la medesima considerazione negativa sulle attitudini morali di chi intende ricoprire le cariche elettive. In un caso, quello dell’attuale incandidabilità, la considerazione

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sarebbe oggettiva. Il fatto stesso, cioè, di aver subito una condan-na per delitti di particolare allarme sociale, costituirebbe di per sé una valutazione della personalità del singolo. Nell’altro caso, quello cioè che oggi attualmente sostanzia ipotesi di ineleggibili-tà, la considerazione sarebbe soggettiva, nel senso che non è tanto la situazione oggettivamente considerata a rilevare, ma, piuttosto, l’utilizzo che si intende fare della posizione assunta in funzione della competizione elettorale.

Non è, dunque, oggetto di «riprovazione», per fare un esem-pio, l’essere Uffi ciale generale della Forze armate in una certa cir-coscrizione elettorale, ma l’utilizzo da parte del singolo di quella posizione, al fi ne di alterare la competizione elettorale.

In entrambe le ipotesi ricorrerebbe, dunque, quella situazione che si è detto essere il vero fondamento delle cause ostative al mandato, non tanto da ricercarsi nell’articolo 51 o nell’articolo 65 della Costituzione, quanto, piuttosto, nell’articolo 48, che ap-punto disciplina le regole, come dell’elettorato attivo, anche di quello passivo.

A fondamento di una siffatta ricostruzione la considerazione, anch’essa anticipata, secondo la quale non si riesce a compren-dere che senso avrebbe una costruzione secondo la quale si do-vrebbe consentire a chi non può essere eletto di partecipare co-munque alla competizione elettorale. La partecipazione, infatti, è in funzione del successo e della, almeno potenziale, assunzione della carica, come resta per l’incompatibilità, mentre non ha al-cun senso razionale in sé considerata. Ancora una volta, il fatto che l’istituto sia nato come ineleggibilità ha una spiegazione di ca-rattere sostanzialmente storico. In un’epoca, cioè, in cui forte era il deterrente rappresentato dal divieto previsto dalla norma (del-l’ineleggibilità), era fi nanco scontato che chi eleggibile non era, non si candidasse alle elezioni, se non altro perché in un sistema elettorale sostanzialmente più limitato rispetto all’attuale, e retto da regole moralmente diverse, era impensabile che l’ineleggibile non avesse, come conseguenza della sua presentazione, avvenuta comunque in dispregio della norma, altro risultato se non quello della riprovazione e, dunque, di un effetto negativo anche per il raggruppamento che ne aveva consentito, in qualche modo, la partecipazione.

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D’altro canto, le norme sull’ineleggibilità nascono in un sistema in cui è ancora il singolo, e non l’organizzazione a cui appartie-ne, a godere del consenso, nel senso che quest’ultimo non ha co-munque effetto nei confronti di un partito o di una aggregazione più vasta, esaurendosi in sé, diversamente da quanto non avverrà poi in seguito con i grandi partiti organizzati di massa. In quel contesto la situazione appariva suffi cientemente defi nita laddove, da un lato, le norme sull’ineleggibilità che svolgevano il proprio ruolo nei confronti di soggetti nei cui confronti diretti la forma di riprovazione morale, dall’altra, le norme relative alle pene ac-cessorie – tra queste, evidentemente, quelle tipiche dell’inibizione a ricoprire cariche pubbliche – funzionavano come due perfetti momenti complementari, che chiudevano le elezioni nell’ambito di un processo, almeno formalmente, libero e anch’esso lineare.

Spostare sull’istituto dell’incandidabilità l’intero catalogo delle cause ostative all’elezione, nei termini in cui si è detto, gioverebbe anche a dare chiarezza ad una situazione che continua a rimanere non priva di ombre, proprio nel rapporto tra cause di incandida-bilità e pene accessorie, che, a ben vedere, nella sostanza, confl ui-scono entrambe verso la capacità elettorale del singolo, senza che, sotto il profi lo dogmatico-formale, si possa ricostruire una netta linea di distinzione, almeno nella percezione dei più.

Un’ulteriore considerazione renderebbe necessaria una rilettu-ra del fenomeno, con la chiave di lettura della incandidabilità.

Tra incandidabilità e ineleggibilità resta, infatti, oltre alle dif-ferenze di cui si è detto, una fondamentale ulteriore distinzio-ne. Mentre, infatti, l’ineleggibile che partecipa alla competizione elettorale non rifl ette la propria posizione nei confronti della lista all’interno della quale è inserito, l’incandidabile rifl ette la sua po-sizione sull’intera lista in cui è inserito.

Per l’incandidabilità, infatti, si applica il principio secondo il quale l’espressione di preferenza nei confronti di chi è in candi-dabile, vitiatur et vitiat anche il voto di lista. Annulla, cioè, tutti i voti per la lista, che riportano la preferenza a favore di quel can-didato.

Della vicenda, oltre che per una complessa situazione che ha riguardato un listino regionale di un Presidente regionale, seppur nel contrasto tra quanto disposto tra la sentenza di primo grado

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e quella di appello, si è fatta applicazione anche recentemente, quando il Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione sici-liana ha affermato, appunto, il principio secondo il quale, poiché non sarebbe ricostruibile ex post, per carenza di una sostanziale autonomia tra il voto di lista e quello di preferenza, l’orientamen-to volitivo dell’elettore, non sarebbe possibile discernere se questi abbia inteso principalmente votare la lista o lo specifi co candida-to. Di qui, la conseguenza che, se i voti per quel candidato sono nulli, allora di essi non può essere fatto alcun uso e debbono esse-re considerati tamquam non essent.

Di qui anche la possibile messa in discussione dell’intera com-petizione elettorale, laddove quei voti fossero stati essenziali al fi ne di determinare la vittoria nella competizione elettorale. Ipo-tesi, quest’ultima, che si verifi ca nel caso in cui i contrapposti schieramenti siano diversifi cati da pochi voti, come accade non solo, più o meno di frequente, nelle competizioni locali, ma come può accadere, anche, per l’elezione del Parlamento nazionale (si pensi alle elezioni politiche del 2008).

Spostare, dunque, sul terreno dell’incandidabilità l’intero com-plesso delle cause ostative all’assunzione delle cariche pubbliche dovrebbe costituire, allora, forse, non solo un’ipotesi, ma addirit-tura un obbligo.

9. Conclusioni (non ottimistiche)I segnali affi nché il processo descritto non resti una mera aspi-

razione, ma si sostanzi in un complesso normativo che riscriva dall’origine, e soprattutto in funzione dei tempi, le regole in tema di ineleggibilità e incompatibilità, appare, peraltro, quanto mai problematico e, in defi nitiva, con scarse possibilità di essere ap-provato.

Già nella scorsa legislatura, un disegno di legge con il quale si intendeva aggiungere al d.p.r. n. 357/1961 l’articolo 6-bis, che avrebbe esteso l’incandidabilità anche per i candidati al Parla-mento nazionale, non ha trovato alcuna base di accordo. Nell’at-tuale legislatura, nel marzo del 2010 si è verifi cata una vicenda, tipicamente italiana, che sfi ora il paradosso. Il Consiglio dei Mi-nistri, infatti, con un comunicato del 2 marzo del 2010, ha dato

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atto dell’approvazione di un disegno di legge in tema di lotta alla maladministration, in cui veniva, appunto, riletta la fi gura dell’in-candidabilità.

Se questi sono i segnali di un sistema che non riesce neppure a decidere come, e in che modo, rileggere – semplicemente rileg-gere – l’istituto dell’incandidabilità, è evidentemente scarsamente ipotizzabile la possibilità di una modifi ca sostanziale dell’istituto delle cause ostative, che sembrano destinate a continuare a rima-nere in vigore nella loro struttura essenziale, fi glia di un’epoca ormai fi nita per sempre.

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Benedetto Ponti

DURATA DEGLI INCARICHI

1. PremessaIl tema ed il rilievo della «durata» nel tempo degli incarichi

pubblici, con riferimento alle misure volte alla prevenzione ed al contrasto dei fenomeni di corruzione e di maladministration, va letto secondo due diverse angolazioni, a seconda che si parli di incarichi «politici» – ovvero incarichi direttamente (attualmente la circostanza più ricorrente) o indirettamente elettivi – o di inca-richi «amministrativi» (o «tecnici», secondo una più diffusa, ma invero inesatta terminologia). Per i primi, si pone infatti – sia per ragioni di carattere sistematico, sia per ragioni di diritto positivo – un problema relativo alla durata eccessiva di permanenza nel-l’incarico; nel caso degli incarichi dirigenziali si pone, invece, il problema – inverso – di una durata insuffi ciente dell’incarico.

2. Incarichi politiciQuanto agli incarichi di natura politica, il problema della loro

durata, e della stabilità dei relativi organi di governo, ha costitui-to per lungo tempo (certamente, per tutto l’ultimo tratto della «Prima Repubblica») il problema istituzionale per eccellenza. Alla scarsa durata, continuità, stabilità degli esecutivi (ma an-che degli stessi collegi elettivi) erano riconnessi buona parte dei «mali» cronici dell’amministrazione italiana, frutto di una inca-pacità di progettare e portare avanti politiche di medio e lungo periodo conseguente alla strutturale instabilità delle compagini governative a tutti i livelli (con le connesse rifl essioni critiche che si appuntavano sul meccanismo elettorale proporzionale puro ed il modello parlamentare, poco o per nulla corretto). La «Seconda Repubblica» (o, se la denominazione non convince, tutto il perio-do successivo al 1993) si è, quindi, venuta caratterizzando per la realizzazione di meccanismi elettorali ed istituzionali che garan-tissero, a tutti i livelli di governo (sebbene con differenti gradi di successo, con particolare riguardo al livello nazionale), stabilità

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e durata degli organi politici, in particolare mediante l’introdu-zione di soluzioni istituzionali fi nalizzate (mediante la introdu-zione della elezione diretta di Sindaco, Presidente di Provincia e, successivamente, Presidente della Giunta regionale) a stabilizzare l’esecutivo, sia svincolandolo dalla iniziale fi ducia dell’assemblea rappresentativa (per altro a maggioranza coerente garantita – sal-vo ipotesi residue) sia salvaguardandolo da una possibile sfi ducia successiva (fortemente disincentivata dalla generale previsione della regola simul stabunt). Pertanto, e con particolare riferimen-to ai livelli regionale e locale (ma, stante la vigente legge elettora-le, le considerazioni che seguiranno non appaiono inappropriate nemmeno con riferimento al livello nazionale), attualmente non sussiste affatto un problema di «durata» (come presupposto della continuità e della stabilità degli organi di governo, e dei relativi incarichi). Si tratta, semmai, di verifi care se, ed in che misura, sussista un problema inverso, di durata (sub specie di permanenza in carica) eccessiva: se, detto in altri termini, i meccanismi che garantiscono stabilità e durata nel tempo dei mandati elettorali non fi niscano per rappresentare (anche) causa (o occasione) di deterioramento nella gestione della cosa pubblica, fi no ai possibi-li esiti della corruzione (in senso ampio) e della maladministration in genere.

Il discorso, così impostato, merita poi una ulteriore distinzione, dal momento che l’introduzione della elezione diretta dei «capi» delle amministrazioni (locali e regionali) ha dato luogo a diffe-renti fattispecie elettive (sebbene tra loro strettamente collegate, come già evidenziato): l’elezione dei vertici dei governi e l’elezio-ne dei componenti delle assemblee. Una distinzione che (ai nostri fi ni) acquista ulteriore valenza sul piano positivo se si considera che mentre nel caso degli vertici degli esecutivi, sono già previste delle regole che mirano a porre rimedio ai rischi connessi ad una durata «eccessiva» di permanenza nell’incarico (da più tempo e con maggiore rigore, per le amministrazioni locali – con il divieto generalizzato di un terzo mandato consecutivo – mentre l’analoga soluzione per il livello regionale è di più recente introduzione e di più incerta portata precettiva), niente a questo proposito è previ-sto per le cariche elettive presso le assemblee (locali, regionali, né tanto meno con riferimento al Parlamento). Così che il discorso

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acquista, inevitabilmente, una duplice valenza: quali ragioni mi-litino a favore del (o contro il) mantenimento delle limitazioni già previste per gli incarichi elettivi di vertice; ovvero se esistano ragioni nel senso dell’introduzione di similari limitazioni quanto alla durata degli incarichi elettivi nelle assemblee.

La ratio del limite dei due mandati consecutivi non è, di per sé, una misura anticorruzione: l’istituto mira, in prima istanza, a salvaguardare il corretto rapporto tra eletti/o ed elettori, onde evitare che (stante anche la dinamica di personalizzazione della carica insita nel meccanismo dell’elezione diretta) la permanenza in una posizione di «potere» venga piegata esclusivamente a fi ni di mantenimento e allargamento del consenso, ciò che potrebbe alterare le condizioni di partenza della competizione elettorale (la c.d. incumbency), ostacolerebbe il ricambio delle classi politiche e l’alternanza di governo, con il rischio di una autoperpetuazione nella carica. Rischio tanto più concreto dal momento che l’assetto istituzionale assunto dai governi regionali e locali disegna una no-tevole primazia in capo al responsabile monocratico dell’ammini-strazione, a fronte di una tendenziale marginalizzazione delle as-semblee elettive. L’istituto si spiega, dunque, anche in termini di meccanismo di ricambio (necessitato) proprio con riferimento al centro di elaborazione dell’indirizzo politico e di propulsione del-l’intera dinamica istituzionale. Contro tale istituto ricorrono, sem-pre più spesso, una serie di obiezioni che si possono riassumere in una analisi costi/benefi ci dall’esito non soddisfacente. I costi sa-rebbero rappresentati dalla dispersione di esperienza amministra-tiva e di conoscenza diretta dell’amministrazione (e del contesto di governo) nel caso di un amministratore costretto a non rican-didarsi; a questo, si aggiungerebbero la deresponsabilizzazione e la perdita di leadership in costanza del secondo mandato. Sempre secondo questa tesi, i benefi ci (di cui si è già detto) non sarebbero poi effettivamente tali, dal momento che questi riguarderebbero il solo vertice monocratico, ma non coinvolgerebbero la classe politica. Detta analisi non appare del tutto persuasiva: quanto alla stabilità/perpetuazione delle classi dirigenti (con particolare ri-guardo al livello regionale e locale), che vanifi cherebbe in buona misura l’intento dell’istituto, va detto che questa sottolineatura sposta (semmai) il discorso sui limiti eventualmente da introdur-

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re anche con riferimento alle cariche elettive d’assemblea (vedi infra), anche se rispetto a questa problematica non è indifferente (anzi, è decisivo) l’assetto del sistema elettorale nel suo complesso (per cui una misura di ricambio etero-imposta si giustifi ca in mi-sura tanto maggiore quanto minore è il grado di effettiva apertura e di contendibilità della competizione per l’accesso alle cariche elettive). Ma è la lettura in termini di «costi» imposti del limite del doppio mandato a non risultare convincente, soprattutto in termi-ni di ricadute sulle politiche (e le misure) anticorruzione, che qui ci occupano. Ora, è del tutto evidente che la stabilizzazione della medesima persona in posizione di responsabilità e di sovraordina-zione rispetto all’amministrazione comporta il consolidarsi di un determinato assetto di rapporti, conoscenze, ed anche di interessi (il che è del tutto legittimo, fi siologico in un sistema che prevede il collegamento diretto tra una persona ed il coagularsi di una maggioranza di governo). Tuttavia, tale situazione rappresenta anche il brodo di coltura ideale per l’attivazione di meccanismi di riduzione dei controlli, aggiramento delle regole, consolidamento di rapporti «alterati» e «patologici» con gli interessi che gravita-no attorno all’amministrazione: un rischio che diventa crescente (in termini esponenziali) al crescere della permanenza di quel de-terminato assetto di interessi e di relazioni al governo: il vertice monocratico può anche (per ventura) non essere direttamente e personalmente responsabile delle scorrettezze e degli illeciti che vengono a maturazione, ma la sua permanenza in carica ne co-stituisce il presupposto, e la garanzia di funzionalità. Si tratta di capire se questi rischi (ampiamente documentati nella letteratura giuridica e sociologica) siano effettivamente più che compensati dalla accumulazione di esperienza e conoscenza che si rende pos-sibile in capo al vertice monocratico dell’amministrazione. Ora, a parte che questi presunti vantaggi costituiscono parte del pro-blema appena sottolineato (il consolidarsi di reti di interessi e di conoscenze), in generale l’argomento costituisce nient’altro che una abdicazione alla dinamica della personalizzazione (ed alla sua degenerazione), soprattutto nelle realtà territoriali di dimensioni medie e grandi. Le forze politiche, cioè, rinunciano del tutto alla loro vocazione di selezionare, e portare a maturazione energie da destinare al governo della cosa pubblica (anche a fi ni di ricambio

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generazionale), e preferiscono mettersi al traino (ed al riparo) di una personalità dal forte impatto comunicativo e del sistema di potere che essa è capace di costruire dalla propria posizione isti-tuzionale. Né si può sostenere che l’assenza di elaborazione e di mediazione politica venga compensata da quella messa in campo «personalmente» dal candidato: infatti, nelle realtà di dimensione demografi ca media e grande, ben diffi cilmente il rapporto con la città (la Provincia o la Regione) si sviluppa direttamente tra eletto ed elettori, ma è fatalmente mediato dai canali di informazione e di comunicazione di massa.

Probabilmente, proprio a partire da questa considerazione, merita quantomeno una considerazione, la richiesta di un ripen-samento circa il limite del doppio mandato con riferimento ai pic-coli Comuni (sotto la soglia dei 5.000 abitanti): qui infatti il sinda-co ha un rapporto di carattere effettivamente «personale» con la popolazione, ed inoltre (date le ridotte dimensioni demografi che) è più elevato il costo in termini di (conseguenze derivanti dalla) dispersione di esperienza amministrativa. Fatta, però, questa li-mitata eccezione, pare che le fi nalità di contrasto alla corruzione ed alla maladministration militino a tutto favore del mantenimen-to del doppio mandato (e semmai, per il suo rafforzamento, con particolare riferimento al livello regionale).

Le medesime considerazioni, poi, potrebbero militare a favore della introduzione di un qualche limite anche per quanto con-cerne la reiterazione delle cariche elettive assembleari, sebbene in questo caso il collegamento tra permanenza in carica ed i fe-nomeni di «incrostazione» del potere appaiono più ampiamente dipendenti dai meccanismi e dalle dinamiche elettorali, così che appare preferibile concentrare gli sforzi su questo fronte (legisla-zione elettorale in senso ampio, disciplina della comunicazione politica, sistemi di fi nanziamento), piuttosto che introdurre rime-di sussidiari (quali il limite del numero dei mandati) a soluzioni poco appaganti (per usare un eufemismo) sul fronte del sistema elettorale.

3. Incarichi dirigenzialiIl tema della durata degli incarichi sul fronte della dirigenza

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amministrativa muove da una premessa (e in una direzione) op-posta rispetto a quella degli incarichi «politici». Infatti, l’intro-duzione del principio di distinzione ha corrisposto a quella che è stata defi nita la «precarizzazione» degli incarichi di responsabilità delle strutture amministrative: dalla regola dell’incarico a tempo indeterminato (ossia, della consequenzialità piena tra rapporto di servizio e rapporto d’uffi cio) si è passati alla regola dell’incarico a tempo determinato (anche brevissimo, in determinati «frangenti» legislativi). Si tratta, in questo caso, di valutare l’impatto di una durata eccessivamente breve dell’incarico (dirigenziale) in termini di politiche/misure anticorruzione.

Di recente, anche la giurisprudenza costituzionale ha chiarito la relazione che intercorre tra una durata congrua dell’incarico dirigenziale (insieme ad una soluzione di continuità presidiata da adeguate garanzie) e la realizzazione del principio di buon anda-mento. Si tratta, quindi, di una giustifi cazione di una durata mini-ma «non (eccessivamente o irragionevolmente) breve» in termini di garanzia di effi cienza e di effi cacia dell’azione amministrativa (si noti che in questo modo, la Corte ha in qualche modo fat-to giustizia di alcune correnti giurisprudenziali che tendevano a giustifi care anche la durata breve dell’incarico dirigenziale come misura idonea ad assicurare la necessaria «coesione» tra indirizzo politico e gestione amministrativa, a sua volta strumentale pro-prio al buon andamento).

Tuttavia, ciò non esime dalla opportunità di rilevare gli effetti di una durata eccessivamente «breve» dell’incarico dirigenziale anche sulla garanzia dell’imparzialità. A questo fi ne, occorre in primo luogo muovere dalla considerazione per cui l’ottenimento di un incarico dirigenziale (anche per il dirigente professionale) costituisce un indubitabile «interesse», sia in termini strettamente economici, sia su un piano più generale di prestigio e di carrie-ra. Pertanto, ottenere e mantenere un incarico costituisce, a tutta evidenza, una delle principali leve motivazionali a disposizione della «politica» nei confronti della dirigenza (non a caso, è anche in questi termini che si sviluppano le dinamiche della c.d. respon-sabilità dirigenziale). La durata dell’incarico costituisce, date que-ste premesse, uno dei fattori che contribuiscono a determinare come questa leva concretamente è posta in grado di operare, e

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con quali effetti potenziali. Incarichi brevi o brevissimi (uno/due anni) rendono più frequente (permanente, ad esempio nel caso di incarichi di durata semestrale) il rischio di non ottenere un rinno-vo dell’incarico (o un incarico equivalente), ovvero accentuano la «dipendenza» del dirigente dalle scelte del personale politico (o del dirigente superiore). Ma l’effetto non è solo questo (che pure è quello di più immediata evidenza). La breve durata dell’incarico impedisce anche – di fatto – che la scelta in merito al rinnovo (o meno) dell’incarico (ed in generale, sullo sviluppo della carrie-ra) sia operata in base alla valutazione della «prestazione» fornita dal dirigente nell’esercizio delle sue funzioni, e dei risultati con-seguiti. Pertanto, tale scelta fi nirà per dipendere in primo luogo dal gradimento goduto (o ottenuto) presso il personale politico titolare del potere di nomina (che per altro, data la breve durata, sarà più probabilmente il medesimo che ha anche conferito l’in-carico). Ora, in questa situazione, il gradimento (prevalentemente slegato dall’effettiva qualità della prestazione funzionale, anche per le ragioni già sottolineate) sarà determinato da fattori ulte-riori (rispetto al merito), e tra questi rientra la condiscendenza o la non opposizione a pratiche corruttive, quando non la attiva partecipazione alle stesse. In questo senso, la durata eccessiva-mente breve degli incarichi dirigenziali può determinare le con-dizioni «organizzative» e «sistemiche» favorevoli allo sviluppo di pratiche corruttive, in particolare quando queste siano promosse o supportate, all’interno dell’amministrazione, dal personale di derivazione politica.

Diverso è il caso in cui il singolo dirigente è promotore o pro-tagonista «in proprio» della pratica corruttiva. In questo caso, è piuttosto la permanenza eccessiva nel medesimo incarico a co-stituire un rischio, perché consente il consolidamento e anche la diffusione della pratica. Qui, tuttavia, il rimedio non consiste tanto nella brevità dell’incarico, quanto semmai nel principio di periodica rotazione (soprattutto con riferimento alle funzioni più «calde» ed «esposte» alla corruzione), ed in generale nella effi ca-cia dei sistemi di controllo sull’amministrazione.

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Guido Sirianni

CONFLITTI DI INTERESSI

1. IntroduzioneI fi ltri che pretendono di assicurare in via preventiva una sepa-

razione netta tra interessi personali e funzione hanno una effi ca-cia relativa, nel senso che non possono escludere che, in concreto, situazioni di confl itto possano egualmente verifi carsi allorché il funzionario si trova nella condizione di decidere, o di partecipare ad una decisione che incide specifi camente nella sfera degli inte-ressi personali o di congiunti. Il rimedio predisposto dall’ordina-mento è rappresentato dalla previsione di un dovere generale di astensione dall’esercizio della funzione attribuita, sanzionato in termini di responsabilità personale dell’agente e di invalidazione dell’atto.

Tale strumento incontra tuttavia molti limiti: esso ha una forza dissuasiva solo relativa, condizionata dalla forza e dalla rilevanza degli interessi in gioco; la effettività delle sanzioni (comminabili a seguito di procedure comunque complesse) presuppone l’esi-stenza di controlli intensi o la reazione di controinteressati. Ul-teriori ostacoli possono venire dalla natura degli atti (il confl itto di interessi è più riconoscibile negli atti con i quali si curano inte-ressi puntuali, che non in quelli generali), come dallo status degli agenti (es., l’immunità parlamentare per i voti dati e le opinioni espresse).

A tutto ciò va aggiunto che l’astensione, in ogni caso, è un ri-medio che consente di ovviare a situazioni di confl itto circoscrit-te, occasionali; laddove il confl itto è, viceversa strutturale, la sola risposta possibile è la incompatibilità.

Da tali defi cienze, che il venir meno di un assetto organizzati-vo modellato secondo uno schema gerarchico o para-gerarchico rende ancora più vistose, scaturisce l’esigenza di affrontare la pro-blematica del confl itto di interessi attraverso strumenti più affi na-ti, ed in particolare imponendo all’agente di rendere preventiva-mente noti, nell’uffi cio e fuori dell’uffi cio, gli interessi di cui egli

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sia portatore; di conformare la sua condotta, nell’uffi cio e fuori dell’uffi cio, a regole di correttezza e di prudenza, nel rapporto con gli interessi propri e di terzi; di rispettare, nell’esercizio del dovere di astensione, prescrizioni procedurali che ne assicurino un rispetto sistematico, con il diretto coinvolgimento dell’uffi cio cui il funzionario è addetto.

2. I doveri di dichiarazione degli interessiIn premessa, occorre evidenziare la inadeguatezza dei doveri di

trasparenza attualmente richiesti ai funzionari:a) relativamente a parlamentari, consiglieri regionali, amministra-

tori locali (i consiglieri provinciali ed i consiglieri dei Comuni con più di 50.000 abitanti o capoluogo di Provincia), e ad una serie di titolari di cariche fi duciarie (presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali di istituti ed enti pubblici, anche economici di nomina governativa o ministe-riale; Presidenti, Vicepresidenti, amministratori delegati di società al cui partecipino per più del 20% lo Stato e gli enti pubblici; Presidenti, Vicepresidenti, amministratori delegati di enti e istituti privati alle cui spese di gestione concorrano, per più di 50%, lo Stato o gli enti pubblici; i direttori generali delle aziende autonome dello Stato; i direttori generali delle aziende speciali dei Comuni capoluogo di Provincia o con più di 100.000 abitanti) i doveri di trasparenza sono fermi alla di-sciplina introdotta, all’indomani dello scandalo P2, dalla legge n. 441 del 1982.

I limiti di tale disciplina sono evidenti: in primo luogo, la pla-tea dei soggetti obbligati presenta esclusioni ingiustifi cabili (es., gli amministratori degli enti locali minori) e comunque rispecchia un assetto della organizzazione pubblica statale e locale che, nel corso di quasi quaranta anni, ha subito radicali trasformazioni. In secondo luogo, già al momento della appro-vazione della legge si è evidenziata la inadeguatezza dell’ob-bligo di dichiarazione, rispetto all’obbiettivo di assicurare una effi cace trasparenza, sia per quanto concerne il suo oggetto (la dichiarazione riguarda unicamente le proprietà immobiliari ed azionarie, le quote di società e le cariche societarie, oltre che i redditi IRPEF e non si estende né alla situazione patrimoniale

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e ai redditi dei familiari, salvo che questi vi consentano, né ad altri elementi essenziali, quali le liquidità, le attività professio-nali, le consulenze, gli incarichi), sia relativamente alla possibi-lità di controllarne la veridicità e di sanzionarne il rispetto; sia, infi ne, in termini di garanzia di una effettiva accessibilità ai dati da parte dei cittadini. Il fallimento della legge 441 è del resto comprovato dal fatto che, da un quarantennio, le dichiarazioni si esauriscono in un adempimento rituale che non assicura nes-suna reale vigilanza sugli interessi e sui confl itti di interesse del personale politico e para-politico, utilizzato dai media solo per stilare insignifi canti graduatorie dei redditi.

Gli ordinamenti di Camera e Senato obbligano gli eletti a di-chiarare incarichi, funzioni, attività, allo scopo di consentire l’accertamento di situazioni di ineleggibilità e di incompatibi-lità. I regolamenti delle rispettive Giunte per le elezioni (art. 15 Camera; art. 18 Senato) dispongono che tali dichiarazioni, riguardanti cariche ed uffi ci di ogni genere, le attività profes-sionali ed imprenditoriali, debbano essere rese entro un breve termine dalla prima seduta, o dalla proclamazione, e riservano alla Giunta la facoltà di sollecitare chiarimenti ed integrazioni. Le sanzioni sono assenti nel regolamento della Camera ed assai blande in quelle del Senato (il Presidente della Giunta può in-formare dell’inadempienza il Presidente dell’Assemblea, per-ché assuma non meglio specifi cate «determinazioni del caso»). In ogni caso, le dichiarazioni sono documenti interni della Giunta di cui non è prevista la pubblicazione in atti o bollettini parlamentari, ai quali i cittadini non hanno accesso.

Sostanzialmente simili sono i doveri di dichiarazione richiesti nei regolamenti consiliari regionali (v. ad es. art. 8 e ss. del Reg. Consiglio Reg. Lombardia, d.C.r. VIII/840 del 2009).

La disciplina relativa alla contestazione delle cause di incom-patibilità ed ineleggibilità del Tuel (art. 69) non pone in capo agli eletti un obbligo di dichiarazione simile a quello vigente per deputati e senatori, sicché un eventuale dovere di tal gene-re può sussistere solo ove previsto dai regolamenti consiliari.

b) I titolari di cariche di governo sono gravati di un doppio one-re di dichiarazione. Essi, infatti, rientrano tra i soggetti tenuti

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ad effettuare le poco signifi cative dichiarazioni richieste dalla legge n. 441 del 1982, anche nel caso in cui non cumulano il mandato parlamentare, e devono inoltre dichiarare alla Auto-rità garante per la concorrenza e del mercato, a norma della legge sul confl itto di interessi, n. 215 del 2004, le situazioni di incompatibilità in cui versino e le proprie attività patrimoniali, comprese le partecipazioni azionarie. Le stesse dichiarazioni, ove attengano ad incompatibilità ed interessi nel settore delle comunicazioni devono essere inoltre trasmesse alla Agcom.

Il dovere di dichiarazione prescritto dalla legge n. 215/2004 soddisfa le esigenze di trasparenza in termini meno labili di quello della legge n. 441/1982, essendo espressamente fi na-lizzato al controllo sui confl itti di interesse. Le dichiarazioni sono infatti ricevute e controllate da una Autorità indipenden-te, che, nell’esercizio della funzione regolamentare attribuitale, ha disposto una accurata modulistica, aggiornata in base alla esperienza proprio allo scopo di assicurare la disponibilità di informazioni complete e signifi cative. Nondimeno, tre paio-no essere le principali carenze del quadro normativo: in pri-mo luogo l’obbligo di dichiarazione richiesto (a differenza di quanto avviene nella legge 441) al coniuge ed ai familiari entro il secondo grado non è provvisto di sanzione, il che produce, come lamentato dalla Agcm nelle sue relazioni alle Camere,

una lacuna normativa che ostacola di fatto la funzione di controllo della Autorità, limitandola ai soli parenti che spontaneamente ri-spettano la legge.

In secondo luogo, l’osservanza dei doveri di dichiarazione non è, di fatto, sanzionata dalla legge, la quale (art. 8) si limita a disporre che l’Autorità dia comunicazione delle irregolarità ai Presidenti delle Camere, e ad avvisare che chi non renda le dichiarazioni, o le renda in modo incompleto o inveritiero incorre nel reato di cui all’articolo 328 c.p. In terzo luogo, ed è questa la lacuna più grave, le dichiarazioni non sono rese pubbliche, in modo né totale, né parziale, ma sono coperte dal segreto d’uffi cio. I cittadini non hanno, dunque il diritto di sa-pere, ma devono solo confi dare ciecamente nell’operato delle autorità custodi del confl itto di interessi.

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c) Relativamente alle altre tipologie di funzionari – essenzialmen-te professionali – specifi ci doveri di dichiarazione di situazio-ni personali, incarichi etc. sussistono solo in quanto prescritti nell’ambito di particolari status (ad es. magistrati, membri di autorità indipendenti). In ogni caso, tali doveri, corrispon-denti all’intento di rendere più stretta la vigilanza del rispetto del dovere di dedicazione esclusiva all’uffi cio e dei regimi di incompatibilità, si collocano all’interno di relazioni di natura disciplinare e non hanno una dimensione esterna all’uffi cio. I dati raccolti dalle dichiarazioni non sono cioè destinati alla pubblicazione, o comunque accessibili all’esterno.

L’Anagrafe delle prestazioni istituito presso il Ministero del-la funzione pubblica raccoglie i dati relativi agli incarichi e le consulenze, soggetti ad autorizzazione (nominativi, natura, durata, retribuzione) conferiti a dipendenti pubblici e soggetti esterni che tutte le amministrazioni pubbliche sono obbligate a trasmettere annualmente (art. 53 d.lg. n.165 del 2001). Tale documentazione, essenziale ai fi ni della conoscenza del feno-meno e del controllo della spesa pubblica, ha una destinazione essenzialmente interna, anche se la disciplina (art. 53, co. 16) prescrive che il Dipartimento della funzione pubblica relazio-ni annualmente al Parlamento ed adotti non meglio precisate «misure di pubblicità e trasparenza».

Una prospettiva nuova, nel senso di una trasparenza non solo interna, ma esterna, è aperta dal recentissimo art. 21 della legge n. 69 del 2009 (c.d. «legge Brunetta»), che impone ad ogni am-ministrazione di pubblicare sul proprio sito internet le retribu-zioni, il curriculum vitae ed i recapiti istituzionali dei dirigenti. Ciò segna un apprezzabile progresso nel senso di una maggiore disclosure: in modo, sia pure implicito, la norma richiede alle amministrazioni di costituire un data base pubblico completo, aggiornato e verifi cato dei curricula dei propri dirigenti, che, logicamente, dovrebbero includere informazioni non frivole, ma utili a dare rassicurazione ai cittadini relativamente alla capacità professionale ed al disinteresse dei dirigenti. Sempre implicitamente si deve dedurre che tale data base può essere predisposto solo in quanto i dirigenti siano obbligati a dichia-rare in modo sistematico e controllato i propri dati. La norma

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ha, dunque, il pregio di aprire una prospettiva innovativa, ma il limite di non articolarla in modo adeguato, con la chiarezza e la forza capaci di superare le prevedibilmente strenue resistenze di apparati e funzionari, il che può aprire il varco ad una sua applicazione mediocre e demagogica (i cittadini potrebbero cioè trovare nei siti internet anziché dati signifi cativi concer-nenti i dirigenti, stucchevoli curricula autocelebrativi ed elen-chi di stipendi) o lasciata alla buona disposizione delle singole amministrazioni.

3. La trasparenza degli interessi dei funzionari pubbliciL’obbiettivo di accrescere la trasparenza «esterna», oltre che

«interna» degli interessi dei funzionari, attraverso obblighi di di-chiarazione richiede che, anche in questo ambito si operi una ri-voluzione «copernicana», assumendo che la trasparenza costitui-sca non eccezione, ma regola generale. La trasparenza va assunta cioè come un dovere proprio non solo degli uffi ci, ma anche degli agenti, rappresentando, per costoro, lo svolgimento del dovere costituzionale di disciplina ed onore richiesto ai funzionari dal-l’articolo 54, co. 2, della Costituzione, in una prospettiva coope-rativa, prima che autoritativa.

Il dovere di trasparenza degli interessi dovuto dai funzionari potrebbe così atteggiarsi:– obbiettivo: le dichiarazioni dovrebbero assolvere fi nalità pluri-

me, ed in particolare prevenire ed evidenziare le situazioni di confl itto anche solo potenziale tra interessi personali e funzio-ne; richiamare i funzionari alla tenuta di una condotta diligente ed onorata; agevolare un controllo sociale diffuso, capace di corroborare il rapporto di fi ducia e di affi damento dei cittadini nei confronti dei funzionari; consentire una accurata vigilanza, sul rispetto dei doveri di astensione e sui regimi di incompatibi-lità da parte degli uffi ci nei quali i funzionari sono incardinati;

– i soggetti obbligati: essendo esplicazione dell’articolo 54, co. 2, della Costituzione, il dovere di dichiarare sistematicamente i propri interessi dovrebbe investire, per legge, tutti i funzionari, elettivi come professionali, quale che sia la natura delle funzio-ni affi date;

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– i dati sensibili oggetto della dichiarazione (cariche ed uffi ci, pubblici e privati, redditi, patrimoni, professioni, attività eco-nomiche, interessi, etc.): dovrebbero essere individuati e spe-cifi cati, attraverso un bilanciamento col diritto alla privacy, in ragione del rilievo e delle caratteristiche della funzione affi da-ta, nell’ambito di ciascun ordinamento, nel rispetto dei crite-ri di necessità, di precauzione, di proporzionalità, di effettiva utilizzabilità e comprensibilità; linee-guida generali, fi ssate a livello nazionale, dovrebbero assicurare la coerenza d’insieme dei regimi, la garanzia di standard inderogabili di trasparenza e di privacy; la comparabilità dei dati;

– dati relativi a coniuge, parenti, conviventi: devono essere co-municati dal funzionario dichiarante, cui dovrebbe afferire ogni corrispondente responsabilità;

– responsabilità: pur connotato in senso cooperativo, il dovere di dichiarazione dovrebbe essere provvisto, per le violazioni più gravi, di sanzioni severe, comprendenti la decadenza dalla carica;

– gestione delle dichiarazioni: la gestione delle dichiarazioni dovrebbe essere affi data, nell’ambito di ciascun ordinamen-to, ad uffi ci dotati della necessaria indipendenza; a tali uffi ci andrebbe affi dato il compito di predisporre griglie specifi ca-tive dei dati sensibili e modulistica; di fornire ai dichiaranti la opportuna assistenza; di accertare il contenuto e di sollecitare chiarimenti, correzioni, integrazioni; di contestare le violazioni e di proporre le sanzioni; di predisporre relazioni periodiche pubbliche; di proporre gli eventuali correttivi regolamentari; di segnalare le incompatibilità rilevate;

– pubblicità delle dichiarazioni: in via di principio, le dichia-razioni dovrebbero essere rese pubbliche, a cura dell’organo gestore, in forme che ne assicurino l’effettiva conoscibilità (in-ternet). Le deroghe devono essere motivate.

4. Il dovere di astensioneIl dovere di astensione è già imposto ai funzionari pubblici da

norme penalistiche ed amministrativistiche, e pertanto sarebbe

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inopportuno o superfl uo ribadire un obbligo vigente, che alimen-terebbe la confusione introducendo una nozione di confl itto di interessi che si sovrapporrebbe a quelle elaborate dalla giurispru-denza.

I termini dell’obbligo legale di astensione potrebbero tuttavia essere estesi nell’ambito di precetti contenuti nei codici etici, in-cludendo situazioni nelle quali l’astensione si connette a regole di prudenza, di correttezza, di buona immagine.

A tale ampliamento della astensione dovrebbe accompagnarsi la adozione di misure volte ad assicurane un rispetto pieno, in termini non solo formali, esteriori, ma sostanziali.

Ai fi ni di un più rigoroso rispetto dei doveri di astensione, di scarsa utilità può risultare la istituzione di controlli amministrativi esterni specifi camente fi nalizzati a verifi care se determinati fun-zionari, nell’esercizio delle loro attribuzioni, si siano o meno atte-nute al rispetto del dovere di astensione, come quello che la legge «Frattini», n. 215 del 2004, ha affi dato alla Agcm relativamente ai confl itti di interesse dei titolari di cariche di governo. Controlli di questo genere si sovrapporrebbero a quelli ordinari, di caratte-re tanto amministrativo quanto giurisdizionale, diffi cilmente po-trebbero prevedere misure effi caci, e richiederebbero comunque il dispiegamento di una anacronistica attività di verifi ca a tappeto. Capovolgendo tale prospettiva, appare viceversa preferibile pun-tare sulla prevenzione, attraverso la pubblica registrazione degli interessi e la procedimentalizzazione dell’esercizio del dovere di astensione, nell’intento di responsabilizzare in modo più marcato non solo il funzionario, ma anche l’uffi cio. Ciò premesso:

– potrebbe essere opportuno precisare, sul piano normativo, che il dovere di astensione sussiste anche laddove particolari status escludano la responsabilità per i voti dati nell’esercizio delle funzioni (parlamentari, consiglieri regionali), e che esso investe anche le funzioni affi date agli organi politici;

– potrebbe essere opportuno prescrivere, nell’ordinamento degli uffi ci e nei codici etici procedure così articolate:a) obbligo del funzionario, non appena possa dubitare del-

l’esistenza di una possibile situazione di confl itto (un fu-mus), di astenersi cautelativamente dall’esame della pratica,

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e di investire l’organo superiore o comunque preposto;b) dovere dell’organo superiore o comunque preposto di de-

cidere nei casi dubbi se sussiste una situazione di confl itto, di designare in caso affermativo il funzionario supplente, di garantire la totale e sostanziale estraniazione dalla cura dell’affare del soggetto in confl itto;

c) facoltà del funzionario di astenersi, ove reputi comunque di trovarsi, secondo la propria coscienza, in situazione di confl itto;

d) facoltà dell’organo superiore o comunque preposto di at-tivarsi di uffi cio o a seguito di denunce e segnalazioni da parte di cittadini e di terzi;

e) ove possibile, integrare il dovere di astensione con il potere di ricusazione;

f) l’organo superiore o comunque preposto, laddove sussista una situazione di interesse rilevante che non determina tut-tavia obbligo di astensione, può disporre che la situazione di rilevante interesse sia segnalata negli atti del procedi-mento deliberativo;

g) previsione di sanzioni disciplinari.

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Bernardo Giorgio Mattarella

DOVERI DI COMPORTAMENTO

1. IntroduzioneUna volta che un cittadino ha assunto una carica pubblica, egli

è soggetto a una serie di regole di comportamento, che nel loro complesso costituiscono esplicazione della previsione fondamen-tale dell’articolo 54 della Costituzione:

i cittadini cui sono affi date funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore.

Questa previsione, nella sua semplicità e con un linguaggio or-mai un po’ fuori moda, è importante, perché distingue i funzio-nari pubblici, per un verso, dalla generalità dei cittadini e, per un altro verso, dai lavoratori privati.

Dal primo punto di vista, tutti i cittadini – recita il primo com-ma dello stesso articolo – devono rispettare la Costituzione e le leggi: non è poco ma, per i funzionari pubblici, non è tutto; i fun-zionari pubblici devono fare qualcosa di più, devono mettere una particolare cura nell’adempimento della funzione loro affi data, devono quasi essere di esempio per gli altri cittadini. Dal secondo punto di vista, la previsione costituzionale fa sì che i doveri dei funzionari pubblici non derivino solo da accordi, come i contratti di lavoro, ma anche da determinazioni unilaterali contenuti in atti come le leggi e i codici di comportamento, che danno contenuto all’obbligo di comportarsi con disciplina e onore: non che i lavo-ratori privati non debbano comportarsi con disciplina e onore, ma non hanno un obbligo costituzionale di farlo, i loro doveri derivano solo dai loro contratti di lavoro.

L’articolo 54 offre la base per la defi nizione degli speciali do-veri dei funzionari pubblici. Altre norme della Costituzione ne ispirano il contenuto. Tra esse, in primo luogo, quelle che impon-gono a questi soggetti di servire onestamente la Nazione. Questo termine è usato in tre articoli della Costituzione: due di questi tre articoli servono ad assoggettare le due grandi categorie di funzio-

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nari pubblici – i politici e i dipendenti – al servizio dei cittadini. A norma dell’articolo 67,

ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

A norma dell’articolo 98, «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Entrambe le norme mirano a far sì che la condotta dei funzionari pubblici, elettivi o di carriera che siano, sia ispirata alla tutela dell’interesse generale e non alla tutela di interessi di parte. Queste previsioni, quindi, servono a bilanciare altre previsioni costituzionali, che potrebbero altrimenti giusti-fi care parzialità e privilegi: per i politici, l’appartenenza a partiti politici non deve far perdere di vista il dovere di servire tutti i cittadini; per gli impiegati, il principio della responsabilità mini-steriale non deve pregiudicare quello di imparzialità.

Se il primo dovere dei funzionari pubblici è quello di servire i cittadini, non possono stupire previsioni come quella dell’articolo 2, co. 1 e 5, del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, a norma delle quali

il dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la Nazione con disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’ammi-nistrazione

e

il comportamento del dipendente deve essere tale da stabilire un rapporto di fi ducia e collaborazione tra i cittadini e l’amministra-zione. Nei rapporti con i cittadini, egli dimostra la massima dispo-nibilità e non ne ostacola l’esercizio dei diritti.

Tutte le regole di comportamento, in effetti, possono essere ri-condotte all’idea di servizio a favore dei cittadini.

Occorre, però, esaminare più nel dettaglio le regole di com-portamento delle diverse categorie di funzionari pubblici. Queste regole sono poste da molti atti di vario tipo e hanno ambiti di applicazione diversi. Il modo migliore per esaminarle è conside-rare i diversi problemi ed esigenze, che esse mirano a risolvere o a soddisfare. Ciò consentirà di verifi care come le stesse esigenze si

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pongono spesso in modo analogo, e a volte in modo diverso, per le diverse categorie di funzionari. Nelle pagine che seguono, dunque, si esamineranno dapprima i diversi problemi che si pongono nel-la defi nizione delle regole di comportamento dei funzionari pub-blici, valutando il modo in cui essi sono risolti nell’ordinamento vigente. Successivamente, si proporrà un bilancio della disciplina vigente, considerando i diversi atti normativi in cui le regole di comportamento sono contenute. Saranno considerate le principali categorie di funzionari pubblici: i politici, gli altri funzionari ono-rari, i dipendenti pubblici e, in particolare, i magistrati.

2. L’adeguatezza dell’impegnoUna prima esigenza, che le regole di condotta dei funzionari

pubblici devono tendere a soddisfare, è quella di assicurare un ade-guato impegno, in termini di tempo e di energie, da parte del fun-zionario pubblico nello svolgimento dei compiti inerenti alla sua funzione. Quest’esigenza trova un’enunciazione generale nell’arti-colo 2, co. 3, del codice di comportamento dei dipendenti pubblici:

Nel rispetto dell’orario di lavoro, il dipendente dedica la giu-sta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze, si impegna ad adempierle nel modo più semplice ed effi ciente nell’interesse dei cittadini e assume le responsabilità con-nesse ai propri compiti.

Ma, naturalmente, essa non riguarda solo i dipendenti, ma an-che i funzionari onorari, come i titolari di cariche politiche.

L’obiettivo dell’impegno adeguato può essere conseguito con diversi strumenti. Per i politici, lo strumento principale è l’incom-patibilità, istituto che può servire a diversi scopi: oltre che a que-sto, in particolare, può servire a prevenire il confl itto di interessi. L’incompatibilità può sussistere tra diverse cariche pubbliche o tra cariche pubbliche e private.

Come è noto, nel nostro ordinamento la relativa disciplina è risalente e inadeguata, in particolare per quanto riguarda i par-lamentari: il loro elevato tasso di assenteismo dipende non solo dalla dinamica dei rapporti tra Governo e Parlamento, che può dare una sensazione di inutilità dei lavori parlamentari, ma anche dalla quantità di ulteriori impegni politici e professionali dei par-

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lamentari stessi. Mancano norme che regolino la possibilità dei parlamentari di svolgere attività imprenditoriali e professionali. Simili norme dovrebbero essere equilibrate e non troppo restrit-tive, per evitare di allontanare persone capaci dalla vita politica, ma dovrebbero comunque assicurare un adeguato impegno nel-lo svolgimento dell’attività politica. Vi sono, invece, norme che limitano la possibilità di rivestire contemporaneamente diverse cariche politiche, per esempio quella di parlamentare e di sinda-co: ma si tratta di norme spesso violate, con la benedizione degli organi parlamentari di controllo, a cui spetterebbe di farle rispet-tare. Sarebbe utile, quindi, da un lato, aggiornare la disciplina delle incompatibilità dei parlamentari (e analogo discorso si potrebbe fare per le Regioni e per gli enti locali, nel quadro delle rispettive autonomie); dall’altro, affi dare il controllo sul suo rispetto a un orga-no estraneo alla sfera politica e non governato da maggioranze po-litiche (per i membri del Parlamento potrebbe ben trattarsi della Corte costituzionale, secondo una proposta spesso avanzata).

Migliore di quella relativa ai parlamentari, anche se incompleta sotto il profi lo dei controlli e delle sanzioni, è la disciplina delle incompatibilità dettata per i membri del Governo dalla legge n. 215 del 2004. Si tratta della nota «legge Frattini» sul confl itto di interessi, legge fasulla e votata all’ineffi cacia per quanto riguarda il confl itto di interessi, ma utile per la disciplina dell’incompati-bilità. Si tratta, peraltro, di una disciplina dettata allo scopo di preservare l’indipendenza dei ministri più che allo scopo di assi-curarne un impegno adeguato.

Il Parlamento non si preoccupa molto di questo problema, con riferimento ai propri componenti, e non se ne è preoccupato mol-to neanche per i componenti dei consigli e delle giunte regionali. I principi dettati dalla legge n. 165 del 2001, emanata in attuazione dell’art. 122 della Costituzione, infatti, sono molto ragionevoli, in generale e – in particolare – con riferimento all’incompatibilità. Ma anche questa disciplina dell’incompatibilità è volta a far sì che le leggi regionali assicurino l’indipendenza dei politici regionali, piuttosto che l’adeguatezza del loro impegno. Eppure, come per i parlamentari nazionali, ci si dovrebbe almeno porre il problema di assicurare che per i consiglieri e gli assessori regionali la relati-va carica sia l’impegno primario, e non un titolo onorifi co o una

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prebenda. Naturalmente, possono ben essere le singole Regioni a farsi carico di questa esigenza.

Lo stesso può dirsi per il personale politico degli enti locali: la pur analitica disciplina delle incompatibilità, contenuta nel te-sto unico degli enti locali (decreto legislativo n. 267 del 2000) è fi nalizzata a garantirne l’indipendenza da interessi esterni (e in questa chiave se ne dirà in seguito) e non a imporre loro un cer-to impegno. In questo caso, peraltro, la scelta legislativa appare ragionevole: sia perché nella maggior parte degli enti locali l’im-pegno degli amministratori non è tale da escludere altre attività lavorative (né lo è di regola la loro retribuzione), sia perché gli enti di maggiori dimensioni, per i quali il problema può porsi, possono ben provvedere con i propri statuti e regolamenti. Non a caso, il testo unico contempla sia l’ipotesi di aspettativa, sia i per-messi retribuiti per gli amministratori locali che abbiano rapporti di lavoro dipendente.

Per quanto riguarda gli altri funzionari onorari, è diffi cile fare un discorso unitario, per via della loro eterogeneità. Molti incari-chi in enti e organi pubblici costituiscono esplicazione di attività professionale, quindi l’esclusione di altre attività professionali è diffi cilmente proponibile. Per altri, come quelli in molte Autorità indipendenti, vi sono divieti di svolgimento di altre attività, che sembrano dettati più a tutela dell’indipendenza (per prevenire i confl itti di interessi) che dell’effi cienza. Colpisce, però, l’eteroge-neità della disciplina, anche tra diverse Autorità indipendenti: si confronti, per esempio, la disciplina rigorosa dettata per i com-ponenti delle autorità di regolazione dei servizi pubblici, quella opposta dettata per i componenti della Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e quella intermedia dettata più recentemente per la Commissione per la valutazio-ne, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe estendere alcune regole essenziali di incompatibilità, già previste per alcune Autorità indipendenti, alle altre. Sarebbe ragionevole anche stabilire una correlazione tra retribuzione e im-pegno nella carica, richiedendo un impegno esclusivo per gli inca-richi con retribuzioni al di sopra di un certo limite.

Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, il problema è normal-mente risolto vietando ulteriori attività lavorative e richiedendo la

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preventiva autorizzazione per le attività occasionali: nel pubblico impiego, la regola è quella dell’esclusività, salvo le ipotesi margi-nali di impiego a tempo determinato e categorie particolari, come quella dei professori universitari a tempo defi nito, che rinunciano a una quota della propria retribuzione in cambio della libertà di svolgere un’attività professionale. Si tratta di un sistema alquanto rigido, che comporta costi burocratici non irrilevanti in termini di procedure di autorizzazione e controllo. Ma si tratta forse di una scelta necessaria, in difetto di meccanismi incentivanti volti a pro-muovere effi cacemente l’impegno dei dipendenti: esso potrebbe essere reso più elastico, lasciando ai dipendenti maggiore libertà nell’uso del proprio tempo libero, se il sistema di valutazione e di premi all’effi cienza garantisse comunque un impegno adeguato da parte dei dipendenti.

Per quanto riguarda, in particolare, i magistrati, il problema si pone raramente, perché le norme – a tutela della loro indipen-denza – impongono un regime molto restrittivo, che rende molto improbabile che le loro altre attività, eventualmente autorizzate, richiedano un impegno tale da pregiudicare lo svolgimento delle loro funzioni. Al contrario, le attività spesso svolte, come quella scientifi ca e un limitato impegno didattico, possono avere effetti positivi su di esso. Un’eccezione riguarda probabilmente alcune ipotesi relative ai magistrati amministrativi, il cui impegno didat-tico ed editoriale assume a volte dimensioni tali da far dubitare di quale sia la loro attività prevalente e da temere l’aggiramento del divieto di svolgere attività d’impresa. Sebbene la ricchezza di esperienze dei suoi componenti sia sempre stata un punto di forza della magistratura ordinaria, servirebbero regole più stringenti e maggiore vigilanza sul loro rispetto.

3. L’effi cienzaNaturalmente, non basta dedicare la giusta quantità di tempo

ed energie allo svolgimento della propria funzione: occorre anche impiegarli profi cuamente, svolgendo la funzione stessa in modo effi ciente.

L’effi cienza dei politici nello svolgimento delle loro funzioni, per ovvie ragioni, non è facilmente misurabile, né è bene che sia

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misurata da soggetti diversi dagli elettori, anche perché i para-metri utilizzati – per esempio il numero di proposte di legge o di mozioni presentate – sono per lo più ingannevoli. Ci sono, natu-ralmente, regole di comportamento inerenti allo svolgimento dei lavori degli organi politici (per esempio, leggere ciò che si fi rma) e ai rapporti con gli elettori (per esempio, rispondere alle lettere), ma non è certo il caso di controllare il loro rispetto. È giusto, però, che i politici stessi, di propria iniziativa o su impulso dei partiti, informino gli elettori dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, anche in relazione ai propri programmi elettorali. Dove non ba-stano i rapporti personali, la rete internet offre molti strumenti per farlo: siti, blog, newsletters e simili. Da questo punto di vista, è auspicabile che siano i partiti politici a chiedere ai propri rappre-sentanti di adottare simili strumenti di trasparenza e ad offrire loro il proprio supporto, in modo che l’effi cienza dei politici sia, se non misurata, apprezzata dagli elettori.

Lo stesso ragionamento può valere per molti altri funzionari onorari, il cui operato può essere valutato dai soggetti che li eleg-gono o nominano, oltre agli strumenti di controllo a volte previsti per i singoli organi, come la decadenza per la mancata adozione di determinati atti o per la ripetuta assenza alle riunioni di un organo collegiale.

Per altre categorie di funzionari pubblici, come quelli legati da un rapporto di lavoro con un’amministrazione, l’attività è meno libera e l’effi cienza è più facilmente declinabile in norme organiz-zative e anche in norme di condotta, come quelle contenute nel codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che richiedono al dipendente innanzitutto di essere realmente al servizio dei citta-dini:

il dipendente limita gli adempimenti a carico dei cittadini e delle imprese a quelli indispensabili e applica ogni possibile misura di semplifi cazione dell’attività amministrativa, agevolando, comun-que, lo svolgimento, da parte dei cittadini, delle attività loro con-sentite, o comunque non contrarie alle norme giuridiche in vigore (art. 2, co. 6).

Ulteriori previsioni sono più genericamente volte a promuove-re l’effi cienza:

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salvo giustifi cato motivo, non ritarda né affi da ad altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spet-tanza;nel rispetto delle previsioni contrattuali, il dipendente limita le as-senze dal luogo di lavoro a quelle strettamente necessarie (art. 10, co. 1 e 2).

Si tratta di previsioni che traducono in norme di comporta-mento individuale principi e regole relativi all’organizzazione e al funzionamento delle amministrazioni.

Poiché, poi, il buon funzionamento delle amministrazioni ri-chiede il rispetto delle rispettive competenze e dei relativi princi-pi costituzionali, è altresì stabilito che,

nello svolgimento dei propri compiti, il dipendente rispetta la di-stribuzione delle funzioni tra Stato ed enti territoriali. Nei limiti delle proprie competenze, favorisce l’esercizio delle funzioni e dei compiti da parte dell’autorità territorialmente competente e fun-zionalmente più vicina ai cittadini interessati (art. 2, co. 7).

A differenza di quello dei politici, il rendimento dei dipendenti pubblici può non solo essere declinato in norme più specifi che, ma anche soggetto a controlli, il cui esito può avere rilievo su diversi piani, compreso quello della retribuzione e della responsa-bilità disciplinare, soprattutto a seguito della riforma operata dal decreto legislativo n. 150 del 2009. Il codice di comportamento, sia pure con espressioni che andrebbero aggiornate a quelle usate da questo decreto, si preoccupa di tradurre anche questa esigenza in regole di comportamento:

il dirigente ed il dipendente forniscono all’uffi cio interno di con-trollo tutte le informazioni necessarie ad una piena valutazione dei risultati conseguiti dall’uffi cio presso il quale prestano servizio. L’informazione è resa con particolare riguardo alle seguenti fi nalità: modalità di svolgimento dell’attività dell’uffi cio; qualità dei servizi prestati; parità di trattamento tra le diverse categorie di cittadini e utenti; agevole accesso agli uffi ci, specie per gli utenti disabili; semplifi cazione e celerità delle procedure; osservanza dei termini prescritti per la conclusione delle procedure; sollecita risposta a reclami, istanze e segnalazioni (art. 13).

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Per quanto riguarda i magistrati, infi ne, il tema dell’effi cienza è ovviamente delicato, sia perché la misurazione del rendimen-to della relativa attività è diffi cile, sia perché essa va operata in modo da garantirne l’indipendenza. La tutela dell’indipendenza, negli ultimi decenni, ha fatto premio sull’esigenza di garanzia. È probabile ed auspicabile che in futuro le norme e gli organi di go-verno si facciano maggiormente carico di questa esigenza. Il tema, peraltro, va al di là dell’oggetto di questo scritto.

4. L’imparzialitàL’imparzialità è evidentemente un principio fondamentale,

enunciato dall’articolo 97 della Costituzione, per i dipendenti pubblici. Nella normale condotta del dipendente, si traduce so-prattutto nella parità di trattamento, alla quale è dedicato l’artico-lo 13 del codice di comportamento:

il dipendente, nell’adempimento della prestazione lavorativa, assi-cura la parità di trattamento tra i cittadini che vengono in contatto con l’amministrazione da cui dipende. A tal fi ne, egli non rifi uta né accorda ad alcuno prestazioni che siano normalmente accordate o rifi utate ad altri. Il dipendente si attiene a corrette modalità di svolgimento dell’attività amministrativa di sua competenza, respin-gendo in particolare ogni illegittima pressione, ancorché esercitata dai suoi superiori.

Per i magistrati, naturalmente, l’imparzialità assume un signifi -cato ancora più forte.

Essa non assume lo stesso valore, invece, per i politici. Non che essi possano fare favoritismi o disparità di trattamento nel disporre di risorse pubbliche. Essi, però, nell’adozione delle loro decisioni, devono ovviamente operare scelte, sulla base di orien-tamenti legittimamente «di parte». Anche i politici, peraltro, de-vono rispettare l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni e, quindi, astenersi da pressioni indebite su di esse e da condotte da «partito di occupazione», secondo la felice espressione di Leo-poldo Elia. Il concetto è ben espresso dall’articolo 78, co. 1, del testo unico degli enti locali:

Il comportamento degli amministratori, nell’esercizio delle proprie

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funzioni, deve essere improntato all’imparzialità e al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori […] e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni.

Da questo punto di vista, le norme che consentono forme di spoils system favoriscono oggettivamente comportamenti contrari al principio di imparzialità: a tutela dell’imparzialità amministra-tiva, esse andrebbero combattute, sia al livello legislativo sia al livello di regole di comportamento dei politici.

Per gli altri funzionari onorari, l’imparzialità si pone in termini variabili, ma spesso in termini più simili a quelli propri dei dipen-denti pubblici che a quelli propri dei politici, dato che le cariche da essi ricoperte sono spesso cariche di governo in amministra-zioni pubbliche. Ciò vale a maggior ragione, naturalmente, per i componenti delle Autorità indipendenti, per i quali l’esigenza di imparzialità si pone in modo simile a come per i magistrati.

5. L’indipendenzaLe attività ulteriori rispetto allo svolgimento della funzione

pubblica, che il funzionario svolga, possono costituire un pro-blema anche se esse non lo impegnano a tal punto da distrarlo dalla funzione stessa (problema di cui al par. 2). Esse possono, infatti, legarlo professionalmente a soggetti, i cui interessi siano in confl itto con quelli pubblici o, comunque, siano affetti dal-la sua attività di rilievo pubblicistico, generando la tentazione di favoritismi e scambi di favori. Ciò, ovviamente, può determinare condizionamenti che compromettono la sua indipendenza nello svolgimento della funzione.

Anche questo problema si pone per tutte le categorie di funzio-nari pubblici. Per quanto riguarda i politici, anche in questo caso il rimedio principale è l’istituto dell’incompatibilità, utilizzato per le diverse categorie di titolari di cariche politiche. Per i parlamen-tari, come già rilevato, la disciplina è del tutto antiquata.

Per i membri del Governo, la disciplina è migliore, vietando lo svolgimento di attività imprenditoriali e professionali. Essa, peral-tro, è, come già accennato, incompleta sotto il profi lo dei controlli e delle sanzioni. La legge attribuisce agli organi dei relativi ordi-

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namenti professionali il compito di far valere il divieto di esercizio di attività professionali e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato quelli di accertare la sussistenza di situazioni di incompatibilità e di promuovere la rimozione o la decadenza dalla carica o uffi cio incompatibile, la sospensione del rapporto di impiego incompatibile e la sospensione dall’iscrizione in albi e registri professionali. Queste previsioni possono evitare che il titolare di cariche di governo abbia incarichi pubblici incompati-bili e svolga attività professionali incompatibili, ma non possono impedire di svolgere attività di impresa: di fronte al titolare di cariche di governo che mantenga la qualità di imprenditore o una carica in una società per azioni, l’Autorità antitrust non sembra avere armi. Occorrerebbe introdurre sanzioni per l’inosservanza del divieto di svolgere attività private incompatibili con la cari-ca pubblica: sia agendo sul versante pubblico (con la decadenza dalla carica di governo o con l’invalidità degli atti compiuti e la responsabilità civile di chi li avesse posti in essere), sia agendo su quello privato (con sanzioni pecuniarie a carico dell’impresa, con la revoca o sospensione dell’autorizzazione o della concessione amministrativa, sulla base della quale essa svolgesse eventualmen-te la propria attività, con la decadenza dalla carica eventualmente ricoperta dall’interessato in una società). Molte di queste sanzioni potrebbero essere irrogate da organi giurisdizionali e, quindi, la loro applicazione sarebbe stata in buona parte sottratta alle in-fl uenze politiche.

Per quanto riguarda il personale politico delle Regioni, la già citata legge quadro n 165 del 2004 pone alcuni semplici e buoni principi, stabilendo che l’incompatibilità va prevista dalle leggi regionali:

in caso di confl itto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e altre situazioni o cariche, comprese quelle elettive, suscettibile, anche in relazione a peculiari condizioni delle Regioni, di compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero il libero espletamento della carica elettiva; …in caso di confl itto tra le funzioni svolte dal Presidente o dagli altri componenti della Giunta regionale o dai consiglieri regionali e le

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funzioni svolte dai medesimi presso organismi internazionali o so-pranazionali;

ed eventualmente in caso di lite pendente con la Regione.Alcune buone regole sono poste anche per gli amministratori

locali. L’articolo 78 del relativo testo unico stabilisce che

i componenti la Giunta comunale competenti in materia di urbani-stica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato;

al Sindaco ed al Presidente della Provincia, nonché agli assessori ed ai consiglieri comunali e provinciali è vietato ricoprire incari-chi e assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza dei relativi Comuni e Province.

Per gli altri funzionari onorari, anche in questo caso, è diffi cile fare un discorso generale, perché le regole variano da ente a ente e da autorità ad autorità. Ma si può notare una lacuna particolar-mente grave, che riguarda il personale degli uffi ci di diretta col-laborazione dei ministri e degli organi di vertice di altri enti. Essi occupano posizioni di grande rilievo e delicatezza, con funzioni di decisione e di mediazione di interessi, ma non ci sono regole volte a tutelare la loro indipendenza da questi interessi e neanche forme di incompatibilità: non è raro che essi abbiano, contempo-raneamente, anche altri incarichi e neanche che svolgano attività professionali, che possono facilmente generale confl itti di interes-si. È un aspetto di una carenza più generale, a cui occorrerebbe porre rimedio: occorre defi nire in via generale i doveri dei titolari e degli addetti agli uffi ci di staff dei vertici delle amministrazioni.

Va ancora osservato che l’indipendenza del pubblico funzio-nario può essere messa in pericolo non solo dallo svolgimento di attività ulteriori rispetto allo svolgimento delle funzioni d’uffi cio, ma anche da altri fattori, come la partecipazione ad associazioni, operanti nell’ambito di interesse dell’amministrazione e la rice-zione di regali o ospitalità da parte di soggetti interessati, con i quali egli ha rapporti per ragioni d’uffi cio. Come dimostrato dalla

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cronaca recente, le norme al riguardo sono carenti, in particolare per i politici, e sarebbero quanto mai opportune.

Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, vi sono le regole del codice di comportamento dei dipendenti pubblici: in ordine alla partecipazione ad associazioni, esso impone obblighi di traspa-renza, stabilendo che

il dipendente comunica al dirigente dell’uffi cio la propria adesione ad associazioni ed organizzazioni, anche a carattere non riservato, i cui interessi siano coinvolti dallo svolgimento dell’attività dell’uffi -cio, salvo che si tratti di partiti politici o sindacati;

e tutela la libertà di associazione, prevedendo che

il dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associa-zioni ed organizzazioni, né li induce a farlo promettendo vantaggi di carriera (art. 4).

In ordine alla ricezione di regali, il codice prevede che il dipen-dente

non accetta da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni o altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento dei propri compiti d’uffi cio

e

non accetta incarichi di collaborazione con individui od organizza-zioni che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un in-teresse economico in decisioni o attività inerenti all’uffi cio (art. 7);

non chiede, per sé o per altri, né accetta, neanche in occasione di festività, regali o altre utilità salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefi -ci da decisioni o attività inerenti all’uffi cio;

non chiede, per sé o per altri, né accetta, regali o altre utilità da un subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado. Il dipendente non offre regali o altre utilità ad un sovraordinato o a suoi parenti entro il quarto grado, o conviventi, salvo quelli d’uso di modico valore (art. 3).

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Infi ne, l’indipendenza del funzionario richiede che egli sia di-sinteressato, nel senso proprio del termine: che egli non abbia in-teressi, coinvolti nella propria attività, diversi da quello pubblico, che deve perseguire. Finora si è fatto riferimento a ipotesi in cui il funzionario è esposto all’infl uenza di interessi altrui. Ma a turbare il corretto svolgimento delle sue funzioni può essere anche un interesse proprio del funzionario: questa è l’ipotesi del confl itto di interessi. In questa sede, peraltro, non ci si sofferma su questo tema, per il quale si rinvia al relativo contributo.

6. Trasparenza e riservatezzaUna serie di problemi ulteriori, inerenti ai rapporti tra funzio-

nari pubblici e cittadini, riguarda l’uso delle informazioni delle quali i primi siano in possesso per ragioni d’uffi cio. Il problema si pone in termini molto diversi per i politici e per gli altri fun-zionari pubblici, per via della concezione tradizionale basata sul principio di responsabilità ministeriale, in base alla quale i politici rispondono ai cittadini dell’operato delle amministrazioni, men-tre i dipendenti sono tenuti al segreto nei confronti dei cittadini, dovendo invece fornire tutte le informazioni richieste ai vertici politici. Questa concezione si è a lungo tradotta in un’assenza di regole relative ai politici e in un obbligo di segreto a carico dei dipendenti. La situazione è però mutata, per un verso, a causa della diffusione di obblighi di trasparenza a carico dei politici e, per un altro verso, per l’affermarsi del principio della trasparenza amministrativa.

La trasparenza imposta ai politici – in particolare ai parlamen-tari – riguarda non lo svolgimento delle loro funzioni, ma essen-zialmente informazioni relative ai loro redditi e ai loro interessi fi -nanziari. Esse vengono periodicamente pubblicate, anche se sotto questo aspetto, in Italia, il livello di trasparenza è ben più basso di quello imposto ai parlamentari di ordinamenti come gli Usa, la Germania e il Regno Unito. Non vi sono, invece previsioni sulla trasparenza dell’attività inerente allo svolgimento del mandato elettivo, che peraltro è in gran parte pubblica.

Norme in materia di trasparenza degli interessi fi nanziari e di informazioni come i redditi, gli incarichi e il curriculum vitae sono

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state introdotte, negli ultimi anni, anche per varie categorie di di-pendenti pubblici, in particolare per quelli di livello dirigenziale. Da ultimo, il decreto legislativo n. 150 del 2009 ha stabilito che alcune informazioni, come i curricula e le retribuzioni dei dirigen-ti, siano pubblicati sul sito istituzionale di ciascuna amministra-zione. Peraltro, il codice di comportamento dei dipendenti pub-blici prevede già obblighi di trasparenza, per tutti i dipendenti e, in particolare, per i dirigenti: per i primi è stabilito l’obbligo di informare il dirigente dell’uffi cio dei rapporti di collaborazione retribuiti dell’ultimo quinquennio, con particolare riferimento a quelli intercorsi con soggetti che abbiano interessi in attività o de-cisioni inerenti alle pratiche a lui affi date; per i secondi è previsto l’obbligo di comunicare all’amministrazione, prima di assumere le proprie funzioni,

le partecipazioni azionarie e gli altri interessi fi nanziari che possano porlo in confl itto di interessi con la funzione pubblica che svolge e dichiara se ha parenti entro il quarto grado o affi ni entro il secon-do, o conviventi che esercitano attività politiche, professionali o economiche che li pongano in contatti frequenti con l’uffi cio che egli dovrà dirigere o che siano coinvolte nelle decisioni o nelle atti-vità inerenti all’uffi cio (art. 5).

Nel complesso, i pubblici funzionari devono accettare un sacri-fi cio per la loro riservatezza, una minore tutela dei loro dati per-sonali. Questo sacrifi cio è giustifi cato alla luce degli articoli 54, 67 e 98 della Costituzione: i pubblici funzionari devono compor-tarsi «con disciplina e onore» e devono essere pronti ad accettare controlli sull’adempimento di questi doveri; essi sono «al servizio della Nazione» e devono sottoporsi al controllo dei cittadini.

Più in generale, la trasparenza amministrativa ha determinato un progressivo spostamento del confi ne tra l’area coperta dall’ob-bligo del segreto d’uffi cio e quella coperta dal diritto alla traspa-renza. La relativa previsione del testo unico sul pubblico impiego del 1957 è stata riformulata, come è noto, in occasione dell’in-troduzione della disciplina del diritto d’accesso nel 1990. La sua portata è ulteriormente ridotta, ovviamente, dalle previsioni della legge n. 15 e del decreto legislativo n. 150 del 2009, in materia di «accessibilità totale», cioè di pubblicità, delle informazioni ine-

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renti all’organizzazione e all’attività amministrativa. Anche que-sta evoluzione trova un riscontro nel codice di comportamento, a norma del quale il dipendente

favorisce l’accesso degli stessi alle informazioni a cui abbiano titolo e, nei limiti in cui ciò non sia vietato, fornisce tutte le notizie e in-formazioni necessarie per valutare le decisioni dell’amministrazio-ne e i comportamenti dei dipendenti (art. 2, co. 5).

Le informazioni amministrative, peraltro, continuano a dover essere utilizzate solo nell’interesse dei cittadini e non per altri sco-pi: il codice ricorda infatti che «il dipendente […] non utilizza a fi ni privati le informazioni di cui dispone per ragioni di uffi cio» (art. 2, co. 4).

La trasparenza, infi ne, riguarda non solo i contenuti delle co-municazioni ai cittadini, ma anche i modi di essa: è per questo che, sempre a norma del codice di comportamento, «nella reda-zione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile» (art. 11, co. 4).

7. L’immagine dell’amministrazioneNei rapporti tra i funzionari pubblici e i cittadini, c’è l’esigen-

za di fornire ai secondi le informazioni necessarie, ma c’è anche l’esigenza di non distorcere la percezione dell’amministrazione e di non danneggiarne ingiustifi catamente l’immagine. Un’ulteriore area di doveri dei funzionari pubblici, di conseguenza, attiene alla cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazio-ne può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti in materia di responsabilità per danno all’immagine del-l’amministrazione.

Per i funzionari onorari, peraltro, il dovere di custodire l’im-magine dell’amministrazione non si traduce in specifi ci obblighi di comportamento: per essi, di regola, il danno all’immagine del-l’amministrazione assume rilievo solo in seguito alla commissione di reati ed è, quindi, la conseguenza della violazione di norme

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penali e non di specifi che norme volte a tutelare questo valore.Per i dipendenti pubblici, invece, vi sono regole specifi che,

contenute nei codici di comportamento. Per quanto riguarda lo svolgimento delle mansioni, il codice di comportamento dei di-pendenti pubblici stabilisce che

il dipendente in diretto rapporto con il pubblico presta adeguata attenzione alle domande di ciascuno e fornisce le spiegazioni che gli siano richieste in ordine al comportamento proprio e di altri dipendenti dell’uffi cio. Nella trattazione delle pratiche egli rispetta l’ordine cronologico e non rifi uta prestazioni a cui sia tenuto mo-tivando genericamente con la quantità di lavoro da svolgere o la mancanza di tempo a disposizione (art. 11, co. 1).

Si tratta, come è evidente, di previsioni volte a promuovere non solo il corretto funzionamento delle amministrazioni, ma anche la percezione di esso. Nella stessa prospettiva può essere valutata la previsione secondo la quale

il dipendente non prende impegni né fa promesse in ordine a de-cisioni o azioni proprie o altrui inerenti all’uffi cio, se ciò possa ge-nerare o confermare sfi ducia nell’amministrazione o nella sua indi-pendenza ed imparzialità (art. 11, co. 3).

L’immagine dell’amministrazione può essere lesa anche dai comportamenti riprovevoli dei pubblici funzionari nella vita pri-vata. Si tratta peraltro, come è facile intuire, di un aspetto parti-colarmente delicato e diffi cile da disciplinare, per diverse ragio-ni: perché regole di condotta nella vita privata determinano pur sempre un’intromissione del datore di lavoro pubblico nell’atti-vità extralavorativa del funzionario; perché simili regole possono essere espressione di un approccio moralistico o paternalistico alla condotta dei funzionari pubblici, che può non essere condi-viso; perché valutare la correttezza dei comportamenti privati, e quindi le relative violazioni, è molto più diffi cile che valutare la correttezza del comportamento in servizio, e rischia di tradursi in valutazioni arbitrarie.

Occorre però ricordare la specifi cità dei funzionari pubblici e del loro statuto giuridico: quanto mai opportuno, al riguardo, è il richiamo al dovere di comportarsi con onore, richiesto dall’ar-

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ticolo 54 della Costituzione. Il bilanciamento tra queste oppo-ste esigenze non è facile. Non a caso, regole di comportamento dettagliate si hanno solo per determinate categorie di dipendenti pubblici, come quelli appartenenti ai corpi militari, i quali sono sottoposti a una disciplina più rigorosa. Il codice di comporta-mento dei dipendenti pubblici, invece, si limita a porre un divieto di approfi ttare indebitamente della propria posizione:

nei rapporti privati, in particolare con pubblici uffi ciali nell’eserci-zio delle loro funzioni, non menziona né fa altrimenti intendere, di propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all’im-magine dell’amministrazione (art. 9).

Un ultimo problema, inerente ai rapporti esterni e all’immagi-ne dell’amministrazione, attiene ai rapporti con la stampa. Anche a questo riguardo, ci sono esigenze diverse da contemperare, es-sendo coinvolti la libertà di manifestazione del pensiero e la liber-tà di stampa. Anche a questo riguardo, non vi sono regole per i politici, per i quali i rapporti con la stampa e la facoltà di critica costituiscono elementi essenziali dello svolgimento delle funzioni d’uffi cio. Ve ne sono, invece, nei codici di comportamento, che bilanciano variamente gli interessi in gioco: quello generale dei dipendenti pubblici è abbastanza liberale, stabilendo che

salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagi-ne dell’amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente dell’uffi cio dei propri rapporti con gli organi di stampa (art. 11, co. 2).

Per i magistrati ordinari, il codice etico dell’Associazione na-zionale magistrati privilegia ancora più decisamente la libertà del magistrato di avere rapporti con la stampa rispetto all’esigenza di riservatezza:

il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla pro-pria attività di uffi cio. Quando non è tenuto al segreto o alla ri-servatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo uffi cio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fi ne di ga-rantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto

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di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati. Fermo il principio di piena libertà di mani-festazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa (art. 6).

Ben più rigoroso, per esempio, è il codice etico dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, secondo il quale

il dipendente non intrattiene rapporti con gli organi di stampa. Nel caso in cui sia destinatario di richieste di informazioni o chiari-menti da parte di organi di stampa, ne informa tempestivamente il responsabile dell’uffi cio presso il quale presta servizio (art. 8).

8. Il giuramentoAll’inizio di questo contributo si è fatto riferimento all’articolo

54 della Costituzione, come fondamento di un corpo di princi-pi e regole di comportamento peculiari dei pubblici funzionari, che li distinguono rispetto agli altri cittadini e, in particolare, dai lavoratori del settore privato. La formulazione dell’articolo 54 è completata dalla previsione secondo la quale i funzionari pubblici prestano giuramento nei casi previsti dalla legge. Si tratta di una previsione coerente con quell’idea: il giuramento può costituire un momento solenne, nel quale il funzionario si fa esplicitamente carico di questa peculiarità e dello status particolare che consegue all’assunzione di una carica pubblica e che lo distingue dagli altri cittadini. Si tratta di un ulteriore obbligo, strumentale alle regole di comportamento proprie del funzionario, che gli può essere im-posto: coerentemente, la Costituzione pone una riserva di legge sulle relative previsioni.

Attualmente non esiste una previsione legislativa generale al riguardo, ma solo previsioni relative a singole categorie di funzio-nari, come i ministri e i magistrati. In un disegno di legge recente-mente presentato al Parlamento, peraltro, il Governo ha ipotizzato che tutti i dipendenti pubblici, all’atto della prima assunzione in un’amministrazione pubblica, prestino un giuramento di fedeltà. Si tratta di una proposta che può essere valutata favorevolmente: certamente il giuramento non è una misura decisiva in termini di

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lotta alla corruzione e all’ineffi cienza, ma può costituire un ele-mento utile nella costruzione di una migliore consapevolezza dei doveri dei pubblici funzionari.

I dettagli della proposta, peraltro, sollevano qualche perplessi-tà. In primo luogo, il giuramento è previsto solo per i dipendenti pubblici e non per i funzionari onorari: ma perché non richiederlo anche a tutti coloro che assumano una carica politica? In secondo luogo, la previsione che il giuramento avvenga «davanti al diri-gente dell’uffi cio o a un suo delegato» – quindi, possibilmente, davanti a un funzionario di livello non particolarmente elevato, né di grande autorevolezza – rischia di svilire la solennità del mo-mento: per un momento così importante, perché non richiedere la presenza del vertice dell’amministrazione? In terzo luogo, la formula prevista fa riferimento all’«interesse dell’amministrazio-ne», mentre sarebbe preferibile giurare fedeltà all’interesse dei cittadini: i funzionari pubblici – è bene non dimenticarlo – sono al servizio esclusivo della Nazione.

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Pietro Barrera

RESPONSABILITÀ DISCIPLINAREDEI DIPENDENTI PUBBLICI

1. La responsabilità disciplinare come strumento di contrasto della corruzione e della «malamministrazione»L’esercizio del «potere disciplinare» può contribuire all’azione

di prevenzione e contrasto della corruzione negli uffi ci pubblici, e in generale dei fenomeni di «mala amministrazione»? La rispo-sta non può che essere positiva: è una leva parziale, limitata (non tocca la sfera politica), ma ha il pregio di chiamare in causa la re-sponsabilità individuale di ogni dirigente e dipendente pubblico, e di segnalare comportamenti che – senza (ancora) violare la legge penale – creano però l’humus favorevole per deviazioni ben più gravi. In questo senso può essere accolta con favore l’enfasi che la c.d. «riforma Brunetta» riserva alla materia. Questa del resto è una delle «chiavi di lettura» dell’intero disegno riformatore: a fronte di una diagnosi severa – una pubblica amministrazione sfi -brata dal diffuso malcostume individuale – il legislatore propone una strategia a tutto campo volta a rafforzare la responsabilità dei singoli. Da un lato l’inedita (almeno per il personale di qualifi ca non dirigenziale) attenzione alla misurazione e valutazione del-la performance individuale e alla correlata gestione dei sistemi premianti (fi no a prescrivere che sia destinata «alla performan-ce individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo»); dall’altro – appunto – il nuovo vigore del potere disciplinare. Insomma, carota e bastone. È lecito dubitare di un approccio concettuale che fi nisce per far coincidere il successo di una grande organizzazione con la somma dell’impegno dei componenti, sottovalutando il peso di altri «fattori» – dalla fun-zionalità dell’organizzazione alla qualità della formazione – e tut-tavia, a fronte di un generalizzato «allentamento» delle regole, pur vigenti (e talora severe), ben si comprende la sollecitazione per un «nuovo clima». Le disposizioni in materia disciplinare del d.lgs. n. 150/2009 non impongono infatti nuovi precetti compor-tamentali, né tutto sommato aggravano le sanzioni in modo par-

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ticolarmente rilevante. Hanno piuttosto l’obiettivo di restituire effettività al potere disciplinare e alle correlate responsabilità, per scongiurare una distanza troppo grande tra il codice disciplinare formale e quello reale. Si spiega così l’attenzione prevalente alle disposizioni procedurali, più che alle norme sostanziali, e l’insie-me dei precetti (innovativi) volti a responsabilizzare i dirigenti titolari del potere disciplinare. Quando poi – in modo episodico e senza alcuna ambizione di esaustività – l’accento si sposta sul diritto sostanziale, balza agli occhi un limite forte, del resto già esplicito nella legge delega: la preoccupazione che domina l’im-pianto normativo è la lotta all’assenteismo, al «fannullonismo», insomma ai comportamenti connotati da un «non fare», piuttosto che dal «fare male» o fare in modo lesivo di (altri) diritti e interes-si individuali e collettivi. È il punto su cui dobbiamo concentrare l’attenzione.

2. La responsabilità disciplinare tra legge e contrattazione collet-tivaL’intervento «pesante» del legislatore obbliga però ad una ri-

fl essione preliminare. Più di un commentatore si è chiesto se in questa, come in altre materie affrontare dal riformatore del 2009, la (sostanziale) rilegifi cazione ne abbia mutato i paradigmi, fi no a porre serie questioni di ordine costituzionale. C’è da dubitare, in particolare, dell’attualità e della

correttezza dell’inclusione della responsabilità disciplinare nell’or-dinamento civile, e non nell’organizzazione amministrativa […] soprattutto perché le disposizioni (del d.lgs. n. 150/2009, ndr.) de-scrivono, per i dipendenti pubblici, un quadro normativo alquanto diverso da quello della responsabilità disciplinare dei dipendenti privati (1).

Insomma, come per altre parti del «decreto Brunetta», è pos-sibile che ad un certo punto «la quantità diventi qualità», e cioè

(1) B.G. Mattarella, «La responsabilità disciplinare», in Giornale di diritto amministrativo, n. 1/2010, 37.

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il numero e la rilevanza delle disposizioni «speciali», rivolte al solo settore del lavoro pubblico, fi niscano per rompere l’unita-rietà dell’ordinamento civile, che ovviamente ammette specifi che discipline per diversi settori, ma sempre ancorate ad un ceppo comune di regole e valori riconducibili ai principi lavoristi del-la Costituzione. Per questo la dottrina da tempo aveva segnalato come, in regime di contrattualizzazione, i contratti collettivi

soli possono individuare le infrazioni disciplinari e le relative san-zioni (tant’è vero che) anche le norme del codice di comportamen-to sono assistite da sanzioni disciplinari solo se l’Aran riesce ad imporne il recepimento nei contratti collettivi (2).

Il dubbio è rafforzato dalla discutibile previsione posta al pri-mo comma dell’articolo 40/165, secondo cui, in materia disci-plinare, «la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge» (non ha quindi potenzialità innovatrici, sia pure nel rispetto di norme «inderogabili» ex artt. 1339 e 1419 c.c.).

La risposta «tecnica» del legislatore fa leva su quelle norme del codice civile. Se infatti resta vero che «i rapporti individuali di lavoro […] sono regolati contrattualmente» e che spetta alla contrattazione collettiva determinare «i diritti e gli obblighi diret-tamente pertinenti al rapporto di lavoro», non muta il fondamen-to civilistico della responsabilità disciplinare (con la conseguente devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative). Le nuove numerose disposizioni legislative (l’art. 55 del d.lgs. 165 è sostituito da ben dieci nuovi articoli!) non concretizzano insom-ma una rilegifi cazione (intesa come «ri-pubblicizzazione») della materia, ma – qualifi candosi espressamente come «disposizioni a carattere imperativo» (l’art. 55.1 richiama proprio gli artt. 1339 e 1419, co. 2) – si limitano a fi ssare i capisaldi inderogabili dalla regolazione contrattuale.

Il problema deve però essere impostato diversamente. Si può dire (chi scrive ne è convinto) che le sacrosante preoccupazioni

(2) S. Battini, «Rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni», in Di-zionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, 4825.

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del legislatore, derivanti dalle sconfortanti esperienze passate, po-tevano essere affrontate con una maggiore e più coerente deter-minazione delle parti pubbliche nella defi nizione e nella gestione delle norme contrattuali. Si poteva (si doveva) concretizzare la responsabilità disciplinare anche per i dirigenti; si dovevano de-fi nire procedimenti più snelli, effi caci, rigorosi; in alcuni casi era anche possibile, e per qualche verso doveroso, tornare sul codi-ce disciplinare sostanziale, alla luce di nuove patologie e nuove sensibilità (3). Insomma, gli obiettivi perseguiti dal legislatore potevano essere raggiunti anche sul tavolo contrattuale, con un pizzico di volontà e di determinazione in più, senza rischiare di compromettere l’equilibrio legge/contratto, e conseguentemente il riferimento alla materia dell’ordinamento civile.

3. I caratteri specifi ci della responsabilità disciplinare nel settore pubblicoRestavano però, e restano comunque, almeno due profi li che

oggettivamente distinguono la materia disciplinare nel settore pubblico, ancorché contrattualizzato, da quanto avviene nell’am-bito delle imprese private.

Il primo profi lo è di natura sostanziale. La remota stagione della concezione «pubblicistica», quando il potere disciplinare appari-va come estrinsecazione della posizione di «supremazia speciale» dell’amministrazione e della simmetrica «soggezione speciale» dei dipendenti pubblici (4), non era segnata solo da una pervi-cace cultura autoritaria. Si fondava piuttosto su una nozione alta e nobile dei doveri spettanti a quanti ricoprono uffi ci pubblici o esercitano pubbliche funzioni. Del resto, non è proprio l’articolo 54 della Costituzione a ricordare (anche) ai funzionari pubblici il dovere di adempiere le funzioni loro affi date «con disciplina ed onore»? È il solo articolo – insieme agli artt. 105 e 107 sulla re-

(3) Una prova, pur limitata, è stata data dal recente CCNL per i dirigenti del comparto Regioni – enti locali (22 febbraio 2010): il negoziato tra le parti, avvia-to ben prima – e «a prescindere» – della «riforma Brunetta», aveva già posto le premesse di una prima defi nizione della responsabilità disciplinare dei dirigenti, con qualche spunto interessante proprio per i temi qui trattati.

(4) C. De Marco, «Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato», in Giustizia Amministrativa Siciliana, 1998, n. 3, 906 e ss.

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sponsabilità disciplinare dei magistrati – a segnalare un profi lo di responsabilità diverso e ulteriore rispetto alla triade evocata dal-l’articolo 28 («penale, civile e amministrativa»); una responsabili-tà di condotta, di comportamento, persino di «stile». Dobbiamo leggere quel richiamo come una mera esortazione retorica, o c’è (si vuole) qualcosa di più? Rifl essioni analoghe, e ancor più pun-tuali, si possono sviluppare a partire da altre norme costituzio-nali. A lungo si è discusso sul «servizio esclusivo della Nazione» cui l’articolo 98 chiama gli «impiegati pubblici». Sovente è stato banalizzato, riferendolo semplicemente alla esclusività del rap-porto di lavoro; altre volte è stato letto come reiterazione enfatica del precetto di imparzialità dell’articolo 97 (la Nazione = tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua) (5). Chi ne ha richiamato l’origine storica, nel dibattito della Costituente, vi ha colto uno dei più solidi fondamenti del principio di distinzione tra funzioni politiche e gestione amministrativa, in opposizione alla subordinazione (politica e giuridica) al regime pro tempore che il fascismo aveva imposto a tutti i dipendenti pubblici (6). Ma anche dietro a quelle brevi parole c’è qualcosa di più: c’è l’im-magine del «servitore dello Stato», del civil servant, di colui che non può, non deve (e non vuole) «servire Dio e Mammona» (7). Può non piacere il richiamo ad una «particolare devozione verso lo Stato (8)», ma certamente c’è il richiamo a tutta intera la tavola dei valori costituzionali (9).

(5) Sul nesso tra «servizio esclusivo della Nazione» e principio costituzionale di imparzialità, cfr. Corte cost., n. 103/2007; cfr. inoltre F. Bassanini, «Indirizzo politico, imparzialità della Pubblica amministrazione e autonomia della dirigen-za», relazione al convegno Il ruolo del dirigente quale garante dell’imparzialità amministrativa, Firenze, 13 giugno 2008.

(6) Cfr. C. Pinelli, «Commento all’art. 98, 1° comma», in Commentario della Costituzione, fondato da G Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna, Za-nichelli, 1994, 412 ss.

(7) Matteo, 6,24; Luca, 16,13.(8) Così G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano,

Giuffrè, 1967, 176.(9) C. De Fiores, «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazio-

ne? Brevi considerazione sulla dimensione costituzionale del pubblico impiego tra privatizzazione del rapporto di lavoro e revisione del titolo V», in Diritto pubblico, n. 1/2006, 149 ss.

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Era dunque comprensibile, e non il semplice retaggio di an-tiquate concezioni dello Stato, la nozione pubblicistica della re-sponsabilità disciplinare, che ne rintracciava il fondamento in un insieme di «doveri speciali» gravanti sul dipendente pubblico in ragione della sua specialissima relazione con le istituzioni pubbli-che, con il maneggio di beni e risorse della collettività, con l’eser-cizio di funzioni capaci di incidere in misura rilevante sui diritti e gli interessi degli altri cittadini. C’era però anche il rovescio della medaglia. La coppia «supremazia-soggezione speciale» consenti-va infatti una sostanziale indeterminatezza del potere punitivo e sembrava autorizzare un controllo generalizzato sulla sfera per-sonale – la vita privata – dei lavoratori pubblici. Com’è evidente, il problema non era solo il rischio di una grave e illegittima com-pressione di diritti e libertà (civili, sindacali, politiche) dei dipen-denti pubblici, in spregio ad altre non meno importanti norme costituzionali (2, 3, 21, 39, 49, 97: lo stesso terzo comma dell’art. 98, per quanto è dato di leggervi in controluce), ma una generale subordinazione degli apparati professionali della P.A. al potere (politico), sia pure mediata dal richiamo ai doveri costituzionali. Insomma, la «speciale devozione per lo Stato», come fondamento della responsabilità disciplinare, poteva tradursi (e non di rado si tradusse), per aberrante eterogenesi dei fi ni, in una minaccia permanente sulla «missione di imparzialità» che la Costituzione stessa assegna ai «professionisti dell’amministrazione».

4. Responsabilità disciplinare e doveri di comportamentoPer questo è stata giusta, opportuna, necessaria l’innovazione

portata dalla «contrattualizzazione» del lavoro pubblico, anche per il profi lo particolare che qui esaminiamo. Ma quei valori, quei «doveri pubblici» che abbiamo ricordato, debbono per questo sparire dall’orizzonte, tornando nel limbo delle proclamazioni retoriche? Le cronache giudiziarie ci ricordano che l’attenzione ai valori dell’imparzialità e del buon andamento, della legalità e della correttezza dell’azione amministrativa, non è mai troppa. Se mai c’è stato, non è certo questo il momento per abbassare la guardia, per banalizzare il richiamo ai valori costituzionali: 2, 54, 97, 98… Non c’è contraddizione con il fondamento civilisti-

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co e contrattuale della responsabilità, se la parte datoriale – che in questo ambito rappresenta (deve rappresentare) gli interessi pubblici – ha ben chiari gli obiettivi da raggiungere nella defi ni-zione del codice disciplinare. Se pone insomma come contenuto necessario del contratto individuale di lavoro il rispetto di norme comportamentali (non solo, ovviamente, per i profi li di rilevanza penale) coerenti con lo statuto della funzione pubblica. In parte ciò si realizza con la defi nizione unilaterale del codice di com-portamento (art. 54, del d.lgs. 165), ma paradossalmente il suo valore appariva più netto nella vecchia formulazione del terzo comma dell’articolo 55 («ferma restando la defi nizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento…»). Ci dobbiamo insomma rammaricare che molti «codici» contrattuali e le stesse «norme imperative» stabilite dal d.lgs. 150 dedicano scarsa attenzione a quella tavola dei valori: bene combattere l’as-senteismo, giustissimo il rigore contro i «fannulloni», ma siamo sicuri che solo queste siano le patologie gravi e più diffuse nelle amministrazioni pubbliche? Non è un po’ triste e singolare, e sin-tomo di una insuffi ciente meditazione ed organicità nella elabora-zione delle norme legislative, che, poche settimane dopo l’entrata in vigore della tanto attesa legge per la «ottimizzazione del lavoro pubblico», con un altro provvedimento, si suggerisce di reintro-durre il giuramento di fedeltà (alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, ai doveri dell’uffi cio e al «pubblico bene»), per tutti i dipendenti della pubblica amministrazione (10)?

Il punto, insomma, sta nell’ordine delle priorità che l’autore – sia esso il legislatore, o il tavolo del contratto nazionale – pone al centro del codice disciplinare. L’accettazione di doni inusuali o imbarazzanti da parte di imprese o cittadini che intrattengono (o desiderano intrattenere!) rapporti con l’amministrazione, l’uso «privatistico» di beni pubblici, la gestione opaca di procedimen-ti che dovrebbero essere votati alla più scrupolosa imparzialità (si tratti del concorso pubblico per le assunzioni, o di una gara

(10) Art. 21, d.d.l. A.C. 3209, recante Disposizioni in materia di semplifi cazio-ne dei rapporti della Pubblica amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codifi cazione in materia di pubblica amministrazione.

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d’appalto, o della concessione di contributi o sussidi), la gestione sapiente delle informazioni di cui si dispone nell’uffi cio per favo-rire questo o quello: sono comportamenti considerati dai codici disciplinari, sanzionati con la dovuta gravità, anche quando non raggiungono la soglia della responsabilità penale? Qualche novi-tà, importante e positiva, si è registrata nel primo CCNL sotto-scritto dopo la riforma (peraltro ad esito di trattative cominciate da tempo) (11): forse è la prova che buone innovazioni si pote-vano ottenere anche sul tavolo negoziale. Tuttavia, se quella di-sattenzione sui profi li etici dei comportamenti c’è stata – come dubitarne? – non sembrano adeguati né l’approccio unilaterale (la legge, il codice di comportamento approvato-imposto dall’am-ministrazione), né l’approccio negoziale (i codici disciplinari fi n qui defi niti dai contratti). Forse è giunto il momento di alzare il tiro, di sollecitare una rifl essione ampia, che coinvolga insieme la politica, i dirigenti e dipendenti pubblici, le organizzazioni sinda-cali, ma anche i cittadini organizzati, le associazioni, i movimenti civici. Un buon banco di prova potrebbe essere l’impegno per una «revisione condivisa» proprio del codice di comportamen-to di cui all’articolo 54 del d.lgs. 165. Se è vero – è un’altro dei tratti caratterizzanti della riforma – che il coinvolgimento della «cittadinanza attiva» è l’unica risorsa disponibile per rompere i rischi di autoreferenzialità delle dinamiche interne alla P.A., per-ché non lanciare (e accettare) la stessa sfi da sul piano dei codici di comportamento? Codici, al plurale, perché l’iniziativa dovrebbe diffondersi ad ogni livello, prendendo sul serio il percorso già indicato dai commi 5, 6 e 7 del medesimo articolo 54. Perché il legislatore del 2009, così attento alla responsabilità disciplinare, non ha dedicato alcuna attenzione a quell’articolo? Probabilmen-te lo riteneva scontato, poco incisivo, o inutilmente declamatorio. Se così fosse, non è forse il momento giusto per renderne più stingenti ed effi caci i precetti, con un rigoroso impianto sanzio-

(11) Ci si riferisce al CCNL dell’area della dirigenza del comparto Regioni ed enti locali, sottoscritto defi nitivamente il 22 febbraio 2010: per la prima volta è stato defi nito il «codice disciplinare» dei dirigenti, raccogliendo il (blando) invi-to dell’art. 21/165; non a caso il CCNL è diventato subito il punto di riferimento insuperabile per i contratti della dirigenza di ogni altro comparto.

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natorio?È però vero che una rifl essione ampia e aperta su cosa si debba

considerare «anti-etico» nella vita delle amministrazioni pubbli-che potrebbe riservare qualche sorpresa: ci si dovrebbe misurare su valori condivisi (o prevalenti) in una società inquieta, preoccu-pata, spesso corporativizzata e segnata da paure irrazionali e da pulsioni individualiste, in cui la ricerca (e offerta) di favori troppo spesso sopravanza la rivendicazione (e la tutela) dei diritti. Ma hic rodhus hic salta: se non si costruisce un solido consenso sociale intorno ad alcuni valori, è vana la speranza di imporli d’imperio a milioni di dipendenti pubblici!

5. L’obbligatorietà dell’azione disciplinareL’ultimo profi lo su cui conviene prestare attenzione (e qui in-

vece la risposta del decreto 150 è sostanzialmente convincente) riguarda l’obbligatorietà dell’azione disciplinare.

Nel settore privato – è stato scritto – il potere disciplinare è libera-mente esercitabile dal datore di lavoro, con i limiti eventualmente posti dai contratti collettivi e nel rispetto dei principi elaborati dal-la giurisprudenza

mentre «nel settore pubblico il suo esercizio è spesso doveroso» perché

non risponde (soltanto) ad una logica aziendalistica, ma – almeno in parte – alla logica pubblicistica del perseguimento di interessi generali (12).

La differenza è importante: il datore di lavoro pubblico non può, non ha il diritto di disinteressarsi del buon andamento del-l’«azienda», perché non è sua, perché è un «bene pubblico», non può dimenticare i valori che (anche) il potere disciplinare dovreb-be presidiare, né può trascurare il principio di imparzialità nella gestione di quel potere («nell’impiego privato la scelta datoriale di sanzionare o meno il lavoratore è discrezionale, nei limiti del divie-

(12) B.G. Mattarella, La responsabilità disciplinare, cit.(13) L. Busico, «La responsabilità dei pubblici dipendenti ed il potere disci-

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to di discriminazioni e del rispetto della parità di trattamento» (13)). Ne consegue la doverosità giuridica (e non solo l’opportunità sul piano dell’effi cienza dell’azione amministrativa) di assicurare l’ef-fettività della responsabilità disciplinare, anzitutto imponendo ai dirigenti di esercitare il potere datoriale loro assegnato ogni volta che se ne verifi chino i presupposti. Le scelte operate dal legislato-re – rafforzare i poteri disciplinari spettanti a ciascun dirigente, e gravarlo di una specifi ca responsabilità in ordine al loro effettivo esercizio – vanno nella giusta direzione, e si possono collegare al dovere di concorrere «alla defi nizione di misure idonee a preveni-re e contrastare i fenomeni di corruzione e a controllarne il rispet-to da parte dei dipendenti». Resta il sapore agro di una minaccia («punisci o sarai punito», sembra recitare l’art. 55-sexies, co. 3, del d.lgs. 165), ma non è sbagliato il principio: è sbagliata sem-mai l’immagine che può derivarne, di un dirigente teso ad essere soprattutto il «custode e controllore» dei dipendenti, piuttosto che il leader, l’animatore e il promotore dell’impegno collettivo di tutti i collaboratori.

plinare», in http://www.diritto.it, 5.11.2009; cfr. inoltre Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 febbraio 2007, n. 536: «il ragionamento in base al quale viene individuata la sanzione da applicare nei confronti di un dipendente pubblico […] Deve tener conto anche della necessità di punire equamente tutti i responsabili, proporzio-nalmente con le rispettive colpe».

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Francesco Merloni

INCARICHI SUCCESSIVIALLA CESSAZIONE DELLA FUNZIONE

1. IntroduzioneLo svolgimento di incarichi successivi al termine di svolgimento

della funzione affi data è rilevante ai fi ni della garanzia dell’impar-zialità.

Due i profi li più rilevanti:

a) Il c.d. pantoufl age, cioè lo svolgimento di incarichi, pubblici e privati, che possano far dubitare del precedente esercizio im-parziale della funzione;

b) il rientro nell’amministrazione, in particolare l’affi damento di funzioni amministrative che richiedono imparzialità, dopo aver svolto funzioni politiche o fi duciarie (o in imprese private).

2. Lo svolgimento di incarichi dopo la cessazione della funzioneSotto il primo profi lo una particolare attenzione è stata dedi-

cata al fenomeno nell’ordinamento francese con riferimento ai funzionari professionali.

Si è adottata una legislazione restrittiva quanto alla possibilità di distacco di funzionari presso imprese private nel corso della carriera, ma soprattutto si è introdotto il principio del «delai de vi-duité» (letteralmente «lutto vedovile»), cioè del necessario rispet-to di un congruo periodo di tempo (cinque anni) tra la cessazione del servizio presso l’amministrazione e lo svolgimento di incarichi presso imprese private che essi abbiano, in servizio, controllato o sovvenzionato. Un sistema analogo può essere adottato anche da noi, adattando i periodi all’importanza delle funzione pubblica esercitata (o del concorso dato all’esercizio della funzione)

Tra le imprese private vanno ricomprese anche gli enti pub-blici economici e le società in controllo pubblico, da un lato per-ché esse sono imprese private come le altre e quindi portatrici di interessi che per il regolatore o il sovvenzionatore sono sempre

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interessi particolari; dall’altro perché particolarmente delicato è il rapporto tra amministrazioni e enti o società da esse controllati. Il fenomeno della cattura del regolatore (di un servizio pubblico ad esempio) da parte del regolato è particolarmente grave in questi casi.

Ma il tema, a ben vedere, tocca anche i titolari di organi politici o i soggetti con incarichi fi duciari. Tutti questi funzionari sono in grado di orientare l’esercizio delle funzioni loro affi date, in preva-lenza di indirizzo, ma in qualche caso anche di gestione, a favore di interessi particolari. Ministri, assessori, parlamentari o consi-glieri, presidenti di enti pubblici quando passano a svolgere inca-richi in imprese private (anche a controllo pubblico) pregiudicano anch’essi l’affi damento che il cittadino ha nella loro imparzialità.

3. Il rientro nell’amministrazioneQuanto al secondo profi lo, si tratta di rivedere con attenzione

tutti i casi nei quali un funzionario professionale, dopo aver svolto un incarico di natura politica o fi duciaria debba rientrare nell’am-ministrazione per svolgervi funzioni che invece presuppongono un maggiore grado di imparzialità. Un funzionario che abbia rico-perto la carica di assessore ovvero una carica fi duciaria in un’am-ministrazione o in un ente pubblico o in una società in controllo pubblico può non apparire così imparziale rispetto all’apparte-nenza politica che con quell’incarico ha mostrato. Lo stesso vale per il funzionario professionale che abbia svolto, per un periodo, incarichi in imprese private, se il suo rientro nell’amministrazione avvenisse in uffi ci che esercitano poteri di controllo o di contribu-zione economica sulla impresa nella quale ha operato.

In questi casi, qualora non sussistano più gravi cause che im-pongono la cessazione dal servizio, in generale si può ricorrere a rimedi analoghi a quelli individuati per il pantoufl age: la fi ssazione di adeguati periodi di «raffreddamento» (o di «lutto vedovile») nei quali a questi funzionari posso essere conferite solo funzioni che non richiedono particolari gradi di imparzialità (compiti di staff per chi rientra provenendo da incarichi politici o fi duciari; compiti in settori e per funzioni pubbliche del tutto lontane dal settore di interesse curato, per chi proviene da incarichi in im-

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prese private); periodi decorsi i quali il funzionario può vedersi assegnate funzioni gestionali e amministrative senza pregiudicare la sua immagine di imparzialità.

4. L’applicazione delle regole e il relativo controlloIn questo campo (ma il discorso può essere esteso ad altri stru-

menti) si tratta di stabilire in che modo fi ssare le regole, anche al fi ne di renderne non troppo rigida l’applicazione. Si potrebbe pensare alla legge per fi ssare i principi generali, anche perché ogni limitazione delle posizione di libertà dei funzionari è soggetta a riserva di legge, rinviando la individuazione dei singoli casi e delle sanzioni a normativa secondaria.

Utile si può rivelare, poi, una costante opera di interpretazio-ne e adeguamento dei comportamenti e dei casi, con una com-missione nazionale (si potrebbe pensare alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (1)) che svolgesse i compiti delle Commission de déon-tologie francesi, dando consigli alle amministrazioni sull’esistenza effettiva di casi di pantoufl age, ovvero sui regolamenti da adottare per prevenire questi fenomeni.

(1) Prevista dalla legge n. 150 del 2009 e poi istituita dal d.lgs. n. 150 del 2009.

Parte II

GLI STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO.

PROFILI SOGGETTIVI

B) Aspetti specifi ci (per le diversecategorie di funzionari pubblici)

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Guido Sirianni

I TITOLARI DI ORGANI POLITICI

1. I membri del ParlamentoNell’ambito degli statuti propri alle differenti tipologie del per-

sonale politico, quello dei membri del Parlamento, che dovrebbe assolvere ad una funzione esemplare, è, viceversa il più macrosco-picamente sprovvisto di strumenti di protezione della dimensione etica.

Le ragioni di tale vuoto, che vanno ben oltre i vincoli derivanti dal particolare status accordato dalla Costituzione ai parlamentari e dalla autonomia organizzativa e regolamentare propria delle As-semblee, affondano, come bene evidenzia F. Pinto nel suo contri-buto, in un anacronistico affi damento nella attitudine moralizza-trice dei regimi di ineleggibilità e di incompatibilità; affi damento tanto più ingiustifi cabile dal momento che tali istituti, nel corso dei decenni, non sono stati mai rivisti ed aggiornati, e sono co-munque affi dati alle cure di una giurisdizione domestica opaca e fortemente politicizzata.

Per superare questo stato di cose, per «cambiare pagina», come è stato auspicato, non pare suffi ciente una opera, ormai tardiva, di revisione delle fattispecie e delle procedure (del tutto insoddisfa-centi) della giurisdizione domestica, ma è necessario andare oltre, ritarando i fi ltri d’accesso alla funzione parlamentare, allestendo strumenti di risoluzione dei confl itti di interesse, imponendo ri-gorosi obblighi di trasparenza, predisponendo un corpo di regole etiche corrispondente alle peculiarità proprie della attività parla-mentare.

Relativamente all’accesso alla funzione parlamentare (ma la stessa considerazione può riferirsi a tutte le cariche elettive) va rimarcato come il rinvio alla legge contenuto negli articoli 51 e 65 della Costituzione, richieda uno stretto bilanciamento tra il di-ritto all’elettorato passivo, il principio di disciplina ed onore (art. 54, co. 2), il principio di imparzialità e buon andamento (art. 97), la regolarità della competizione elettorale. I requisiti di accesso

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alle cariche elettive, come alle carriere professionali, dovrebbero dunque assolvere ad una adeguata funzione selettiva, escluden-do coloro che non possono assicurare che la cura delle funzioni affi date avvenga nei termini costituzionalmente richiesti. Vicever-sa, nel corso dell’esperienza repubblicana tale selettività, anziché rafforzarsi, si è andata diluendo: in ambito legislativo si è assistito ad un processo di lenta riduzione dell’area delle ineleggibilità a favore di quella delle incompatibilità (Long); nella stessa direzio-ne è andata la «giurisprudenza parlamentare», attraverso la prassi della c.d. «conversione» delle cause di ineleggibilità in incompa-tibilità sopravvenute e per via di un sistematico appiattimento delle cause di ineleggibilità economiche nelle similari fattispecie di incompatibilità.

In un auspicabile ricupero di effettiva attitudine selettiva, la ineleggibilità, nel suo senso originario e più severo di incandida-bilità e cioè di vizio che colpisce la candidatura e, se non pron-tamente rilevato, invalida la stessa elezione, dovrebbe ritrovare centralità, tra i requisiti di accesso (1). Ma anche le incompatibi-lità meriterebbero un ripensamento che vada oltre il «travaso» più o meno ampio delle fattispecie in ipotesi di ineleggibilità. Le incompatibilità, dettate da una congerie confusa di norme conte-nute nella stessa Costituzione, in discipline specifi camente riferite ai parlamentari (la «legge Sturzo» ed il T.U.) e in una miriade di disposizioni particolari, assolvono alla funzione di prevenire ora confl itti di funzioni, ora confl itti di interessi, ma hanno sempre carattere speciale: la compatibilità costituisce, per così dire, la norma e l’incompatibilità l’eccezione.

Nell’ambito di una rivisitazione della materia sarebbe opportu-no, anche in questo caso, «voltar pagina» ed infrangere un antico tabù, affermando che anche i membri del Parlamento, del pari dei titolari di cariche di Governo, debbano dedicarsi esclusiva-mente alla cura dell’uffi cio ad essi attribuito. Tale principio di esclusività dovrebbe essere accompagnato, secondo il modello della l. 215 del 2004, da un ellittico generale divieto, sanzionato con la decadenza dal mandato parlamentare, di ricoprire cariche, uffi ci, funzioni in enti di diritto pubblico ed in enti lucrativi o di

(1) Nei termini suggeriti dal contributo di F. Pinto, in questo volume.

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rilievo imprenditoriale, di esercitare impieghi o lavori pubblici o privati, attività professionali e di lavoro autonomo, e dalla indivi-duazione delle necessarie deroghe (a partire da quelle relative alla assunzione di cariche di Governo).

Le ragioni che vengono comunemente addotte avverso questa prospettiva moralizzatrice, già sperimentata in Spagna, ed al cen-tro del dibattito politico in Gran Bretagna – il fatto di avvantag-giare un deteriore «professionismo politico» – appaiono invero superabili: il mandato parlamentare, per essere esercitato adegua-tamente, nei termini richiesti dagli articoli 54, co. 2, e 97 Costi-tuzione, richiede un impegno totale e non consente distrazioni e diversioni ed è logico che chi accetta una candidatura ne debba essere ben consapevole; l’entità cospicua della immunità parla-mentare si giustifi ca proprio col carattere assorbente, «a tempo pieno», dell’impegno richiesto. Né va trascurato che il professio-nismo politico – cosa del tutto diversa dalla professionalità politi-ca – per un verso non ha trovato, in sessanta anni di storia repub-blicana, un valido argine nello status «liberale» riconosciuto ai membri del Parlamento, e per l’altro ha cause d’ordine differente (a partire dal pantoufl age).

Va da sé che la gestione del regime di dedicazione esclusiva, ed in particolare la verifi ca della sussistenza delle condizioni che au-torizzano deroghe, la contestazione delle violazioni e la dichiara-zione di decadenza in caso di mancata opzione dovrebbero essere affi date, stante il vincolo posto dall’articolo 66 della Costituzione, nell’ambito della organizzazione di ciascuna Camera, ad organi e procedure assai più affi dabili, in termini di pubblicità, obbiettivi-tà, imparzialità, tempestività di quelle che caratterizzano l’attuale disciplina della verifi ca dei poteri, prendendo in considerazione la possibilità di riservare un ruolo istruttorio ad esperti esterni indipendenti.

Sempre in tema dell’accesso all’uffi cio parlamentare, dovrebbe essere valutata la possibilità e la opportunità di introdurre con legge l’obbligo di prestare giuramento, già previsto dallo Statuto albertino, ma non confermato dalla Costituzione repubblicana. Benché la questione sia delicata, non può non apparire singolare, tanto più nel momento in cui il giuramento dei funzionari pub-blici, dopo un periodo di oblio, torna in auge, la circostanza che

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il giuramento sia imposto per la generalità delle cariche politiche, giurisdizionali, amministrative, ma non per quelle parlamentari.

Il confl itto di interessi è completamente ignorato, rimosso, o addirittura negato dallo statuto dei membri del Parlamento, tan-to che non se ne trova traccia nei regolamenti parlamentari. In sostanza, si presume che i membri del Parlamento, per il fatto stesso di essere regolarmente eletti e di non versare in situazioni di incompatibilità non possono mai trovarsi in una situazione di confl itto di interessi, rilevante sul piano giuridico, relativamen-te alla deliberazione di uno specifi co atto. Tale vuoto normativo risulta tanto più grave dal momento che gli strumenti offerti in via generale dall’ordinamento per sanzionare i confl itti sono, nel caso in cui il confl itto si verifi chi nell’ambito della attività parla-mentare, del tutto inadeguati. Anche i membri del Parlamento, in quanto pubblici uffi ciali, sono destinatari dell’obbligo penalistico posto dall’articolo 323 c.p., ma ben diffi cilmente potrebbero es-sere perseguiti, stante l’immunità accordata dall’articolo 68 della Costituzione per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Tantomeno sussiste, per gli atti delle Came-re, la possibilità di una invalidazione dell’atto deliberato in una situazione di confl itto, analoga a quella esistente per gli atti am-ministrativi.

In effetti, la concreta possibilità di confl itti di interessi nell’am-bito della attività parlamentare, (come nell’esercizio di ogni pote-re pubblico), che è sotto gli occhi di tutti, non può essere celata sotto il velo mitico della rappresentanza parlamentare; neanche è possibile negare a priori che possa sussistere confl itto di inte-ressi relativamente alla partecipazione ad un atto normativo, dal momento che gli atti normativi inerenti alla funzione di governo (decreti legislativi, decreti legge, disegni di legge, emendamen-ti) opportunamente rientrano già, come conferma l’AGCM, nel-l’ambito del dovere di astensione sancito, per i titolari di cariche di governo, dall’articolo 3 della l. n. 215 del 2004.

Non paiono dunque sussistere ostacoli insuperabili, di carat-tere soggettivo o oggettivo, che impediscano l’inserimento, nel-l’ambito dei regolamenti parlamentari, di un obbligo generale di astensione analogo a quello vigente per i titolari di cariche di go-verno, per tutti i casi in cui l’atto abbia una incidenza specifi ca e

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preferenziale sul patrimonio e gli interessi del parlamentare, dei familiari, di imprese e società controllate. Le diffi coltà riguardano piuttosto l’allestimento, necessariamente all’interno delle Camere, di strumenti che permettano di vigilare adeguatamente sull’effet-tiva osservanza del dovere di astensione e di sanzionare, sul piano disciplinare, la violazione degli obblighi diretti e strumentali. Un sistema effi cace di controllo richiede, in particolare, il coinvolgi-mento attivo di ciascun membro del Parlamento, che dovrebbe segnalare tempestivamente la circostanza di essere portatore di un interesse personale in possibile confl itto, astenendosi dal par-tecipare all’esame ed alla deliberazione dell’atto, o sospendendo tale partecipazione nei casi dubbi. Le procedure parlamentari, a loro volta, in particolare quelle relative alla assegnazione di incari-chi, al giudizio di convalida, annullamento e decadenza, all’esame delle autorizzazioni richieste ai sensi dell’articolo 68 della Carta costituzionale dovrebbero subire i necessari adattamenti.

Il dovere di astensione, quale ipotizzato, potrebbe soddisfare l’esigenza di prevenire e, nel caso sanzionare i soli confl itti di in-teresse in senso proprio, che si verifi cano solo nel caso, possibile, ma non certo frequente, in cui l’atto abbia una incidenza sull’inte-resse che possa qualifi carsi specifi ca e preferenziale. I confl itti di interesse in senso lato, quelli in cui l’interesse non può dirsi spe-cifi co e preferenziale, o è potenziale, che costituiscono l’aspetto più rilevante del fenomeno, in senso tanto etico quanto politico, dovrebbero trovare risposte non sul piano propriamente legale, ma piuttosto all’interno di codici etici, nell’ambito di regole di condotta personale volte ad assicurare trasparenza alle forme in cui si manifesta l’ingaggio tra interessi particolari e personali e l’attività parlamentare.

Tra i doveri propri dello status di parlamentare dovrebbe rien-trare quello di dichiarare pubblicamente in modo regolare e fede-le interessi, incarichi, redditi e patrimoni, fonti di fi nanziamento della attività politica e delle campagne elettorali. Si sono già in-dicate le carenze dei distinti doveri di dichiarazione attualmente prescritti dalla legge n. 441 del 1982 (relativamente alle situazioni patrimoniali) e dai regolamenti delle Giunte per le elezioni (rela-tivamente agli incarichi). Per correggere tali defi cienze sarebbe opportuno non procedere per aggiustamenti particolari, ma ope-

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rare piuttosto un riassetto complessivo della materia, nell’ambito di discipline legislative e regolamentari, nel solco delle variegate esperienze consolidatesi nella generalità degli ordinamenti parla-mentari.

In questa sede non è possibile prospettare in termini compiuti come i doveri di trasparenza dei membri del Parlamento dovreb-bero essere riformulati in modo unitario. In ogni caso, gli obbli-ghi di dichiarazione dovrebbero essere defi niti in termini molto precisi e dettagliati e dovrebbero essere provvisti di adeguate sanzioni; le dichiarazioni dovrebbero essere soggette a controlli e verifi che e rese pubbliche in modo completo e senza reticenze; la gestione delle dichiarazioni dovrebbe essere affi data, in modo unitario, ad organismi appositi, provvisti di una adeguata orga-nizzazione e fortemente caratterizzati in termini di indipendenza ed obbiettività.

Nell’adempimento delle funzioni, i membri del Parlamento dovrebbero conformare la propria condotta ai precetti contenuti in appositi codici etici, come raccomanda (punto 15) la risolu-zione del Consiglio d’Europa (97)24 e, in termini più generici, l’articolo 8, co. 2, della Convenzione UNCAC del 2003. Tali co-dici dovrebbero assolvere alla delicata funzione di svolgere, re-lativamente al mandato parlamentare, i doveri costituzionali di disciplina ed onore richiesti dall’articolo 54 della Costituzione ad ogni funzionario, integrando i doveri di natura legale. L’ampia esperienza maturata in molti paesi di common law (USA, Gran Bretagna, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda etc.) può costituire un prezioso punto di riferimento per la individuazione e la so-luzione dei complessi problemi che la creazione di un codice di etica parlamentare comporta (il procedimento di formazione; la identifi cazione dei precetti che possono essere inclusi nei codici e di quelli che vanno specifi cati nell’ambito di regolamentazioni e «guide»; il rapporto tra tali fonti e il sistema delle fonti legali ed interne; la individuazione degli organismi di vigilanza; la defi ni-zione delle possibili sanzioni).

Col venir meno del mandato (per fi ne legislatura, per dimis-sioni o per esercizio di opzione) l’ex membro del Parlamento riacquista la sua piena legittimazione ad accedere a cariche e fun-zioni, pubbliche e private. Sotto questo profi lo, lo status di par-

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lamentare diverge profondamente da quello di titolare di carica di governo (gli ex ministri sono soggetti ai limiti post mandato stabiliti tanto dalla «legge Sturzo», quanto dalla «legge Frattini»). Tale divario non pare spiegarsi se non opinando che i titolari di cariche di governo, per l’uffi cio ricoperto, possano essere esposti più dei parlamentari alla tentazione di esercitare le proprie attri-buzioni per aprirsi il varco a carriere future.

Tale giustifi cazione non è tuttavia condivisibile, sia perché anche le importanti funzioni parlamentari ben possono essere piegate ad interessi personali di carriera, sia perché i divieti post mandato trovano la loro ragion d’essere non solo nell’intento di prevenire possibili confl itti di interesse, ma anche in quello di scoraggiare eccessive concentrazioni personali di potere, tanto sincroniche (divieto di cumulo) quanto diacroniche (passaggi, senza soluzione di continuità da una carica all’altra).

Si dovrebbe dunque valutare l’opportunità di introdurre, an-che per i parlamentari, limitazioni post mandato, di durata ragio-nevole, relative quantomeno ad alcune delle attività, delle cariche e degli uffi ci assunte come cause di incompatibilità e di incandi-dabilità, (in particolare, le incompatibilità stabilite a carico dei parlamentari dagli articoli 1, 2, 3 e 4 della «legge Sturzo» rela-tivamente a cariche ed uffi ci di nomina governativa; cariche ed uffi ci presso soggetti che gestiscono servizi per conto dello Stato o fi nanziati in modo ordinario o in istituti di credito; attività di patrocino, assistenza e consulenza di imprese nei loro rapporti o nelle vertenze con lo Stato).

2. I membri del GovernoLa nominabilità a cariche di governo non si presta a preclusioni

preventive del genere della incandidabilità e della ineleggibilità, anche se l’importanza dei ruoli sollecita in modo palese la neces-sità che ad essi possano accedere soggetti che possano adempierle con la disciplina e l’onore costituzionalmente richieste.

Il vaglio di tali qualità è dunque rimesso alla prudenza del Capo dello Stato e del Presidente del consiglio ed al giudizio politico delle Camere.

In una Repubblica parlamentare, nella quale comunemente

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accedono a cariche governative personalità politiche che sono membri del Parlamento, i fi ltri che operano per costoro fungono da fi ltro anche per le cariche di governo. Tali fi ltri possono risul-tare tanto più effi caci in una prospettiva di riforma, quale quella che qui si auspica, che ne prevede il rafforzamento attraverso la incandidabilità.

In tale contesto, sarebbe opportuno prevedere, nell’ambito della l. 23 agosto 1988, n. 400 che, all’atto della nomina siano pubblicati accurati curricula del Presidente del Consiglio e dei Ministri, redatti in base a griglie predeterminate, che riportino i dati relativi alle esperienze politiche, culturali, professionali, ai redditi, interessi e patrimoni.

Data l’assenza di limitazioni all’accesso, le incompatibilità as-solvono ad una funzione essenziale per prevenire ed impedire i confl itti di interesse.

Il regime di incompatibilità delle cariche di governo è disci-plinato, in termini solo apparentemente rigorosi, dalla legge 20 luglio 2004, n. 215, articolo 2. La lacuna più evidente, a tutti nota, è rappresentata dal fatto che, con palese ipocrisia, le incompatibi-lità sono riferite esclusivamente allo svolgimento di attività lavo-rative, cariche, uffi ci, anche di minimo rilievo ed impegno, e non anche alle situazioni patrimoniali o al controllo di imprese e so-cietà che per le loro dimensioni quantitative e per le caratteristi-che qualitative comportano un rischio elevatissimo di interferen-ze tra interesse privato e mandato governativo capaci di alterare lo stesso funzionamento del sistema democratico. Non può essere ministro chi eserciti funzioni di gestione in società lucrative, ma può esserlo l’azionista di maggioranza che, di fatto, è il suo datore di lavoro. Tale anomalia è inscindibilmente legata alle particolari vicende politiche degli ultimi venti anni e potrà essere sanata solo quando il protagonista di queste vicende sarà uscito di campo.

Una ulteriore carenza concerne il regime sanzionatorio. La leg-ge infatti attribuisce alla Agcm (art. 6) il compito di accertare le situazioni di incompatibilità e di vigilare sul rispetto dei divieti, promuovendo l’adozione di misure di rimozione e decadenza dal-la carica e dall’uffi cio incompatibili, la sospensione dei rappor-ti di impiego o di lavoro, la sospensione dall’iscrizione da albi e registri, ma nulla dispone a carico del membro di governo che

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persista nella situazione di incompatibilità. Logica vorrebbe che, in simili condizioni la situazione di incompatibilità, se non risolta con la opzione (le dimissioni dalla carica di governo o l’abban-dono della attività incompatibile) determini ex lege la decadenza dalla carica di governo, dichiarata dalla autorità che ha operato la nomina.

Sotto altro profi lo, un ulteriore aspetto debole della vigente disciplina è dato dalla scelta di esternalizzare il controllo delle incompatibilità. Tale esternalizzazione, in sé positiva (il controllo per il fatto di essere devoluto alla Agcm acquista un crisma di obbiettività), per la sua drasticità, si risolve nella completa dere-sponsabilizzazione del Presidente del consiglio dei ministri, nel suo naturale ruolo di garante della qualità del personale della squadra di governo, da esso proposta o nominata, nei confronti del Parlamento e della opinione pubblica: palesemente, il rispetto dei regimi di incompatibilità è affare che investe il governo ed il suo vertice, e non riguarda solo il singolo titolare di carica di governo. Alla vigilanza dell’Agcm si dovrebbe dunque affi ancare una rigorosa vigilanza interna alla istituzione governo.

I titolari di cariche di governo sono funzionari onorari che non operano all’interno di una relazione di supremazia speciale, ma di relazioni di natura funzionale, secondo gli schemi della direzione e del coordinamento. L’assenza di relazioni gerarchiche o para-gerarchiche ha impedito storicamente la stessa confi gurabilità di doveri riconducibili o approssimabili alla responsabilità discipli-nare caratteristica del pubblico impiego.

Il dovere di fedeltà alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le funzioni nell’interes-se esclusivo della Nazione richiesto nella formula di giuramento (art. 1, co. 3, l. 23 agosto 1988, n. 400) ed il dovere di dedicazione esclusiva alla cura degli interessi pubblici (art. 1, l. 20 luglio 2004, n. 215), laddove essi non si traducono in obblighi giuridici sanciti da fonti primarie e secondarie e da atti di direttiva, restano impre-cisati e sono, nella sostanza, affi dati alla prassi, al costume politico ed alle sensibilità individuali.

Le regole non scritte di deontologia nella condotta dei membri del governo assolvono, nella generalità degli ordinamenti, ad una funzione estremamente rilevante, per il buon funzionamento del-

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la vita democratica, e dunque ben si comprende come allorché le prassi divengono malferme ed il costume politico scade, emerga la aspirazione a ricostituire una cornice di certezze.

Anche per il Governo della Repubblica si propone dunque, in analogia a quanto realizzato nell’ordinamento di altri Paesi, e come oggetto di una specifi ca raccomandazione (XV) del Rap-porto GRECO (2009) sull’Italia, la necessità di costituire un cor-po, per quanto possibile chiaro e completo, di regole di condotta etica che vadano a colmare l’amplissima area grigia compresa tra liceità ed illiceità.

La fi ssazione di un codice etico, capace di guidare la condotta dei membri del governo, postula la soluzione di delicati problemi (il suo fondamento legale, la sua forma, i contenuti, la individua-zione dei soggetti incaricati di vigilare sulla sua osservanza e di adottare eventuali sanzioni) che esulano dalla portata di queste note. Il percorso è sicuramente stretto (il codice etico non può istituire una sorta di responsabilità disciplinare incompatibile col disegno costituzionale della organizzazione del Governo; il co-dice non può risolversi in una trasmutazione di precetti etici in obblighi legali).

Spunti di grande interesse possono essere tratti dal Codigo de buen gobierno spagnolo, approvato nel 2005 (che si indirizza an-che alle alte cariche dello Stato) e soprattutto dal Ministerial Code britannico del 1997, recentemente rivisto e ampliato dal nuovo governo Cameron-Clegg, che propone una accurata specifi ca-zione dei principi cui deve conformarsi la condotta dei Ministri: principio di collegialità; dovere di rispondere e di essere chiama-ti a rispondere in Parlamento delle proprie politiche, decisioni ed atti; obbligo di fornire al Parlamento informazioni complete e veritiere e di correggere prontamente ogni inavvertito errore, sanzionato con le dimissioni; il dovere di massima apertura nei confronti del Parlamento e dei cittadini, nei limiti della legge; il dovere di chiedere ai funzionari di dare alle Commissioni par-lamentari attente, complete e veritiere informazioni, nel rispetto dei doveri e delle responsabilità stabiliti dal codice del Civil Servi-ce; il dovere di impedire che alcun confl itto sorga, o possa appari-re, tra doveri pubblici ed interessi personali; il divieto di ricevere doni o ospitalità che possano compromettere o possano apparire

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compromettenti; l’obbligo di non operare indebite confusioni tra la funzione governativa e quella parlamentare; il divieto di utiliz-zare le risorse di governo per fi nalità di partito; il rispetto della imparzialità dei pubblici funzionari ed il divieto di chiedere ai funzionari qualsiasi condotta che possa confi ggere con i doveri imposti dal codice del Civil Service.

Tanto l’accesso alla carica, quanto lo svolgimento della funzio-ne dovrebbero essere accompagnati da precipui obblighi legali di trasparenza, essenziali strumenti di contrasto delle incompatibili-tà e dei confl itti di interesse.

Luci ed ombre dei doveri di dichiarazione prescritti dalla l. 20 luglio 2004, n. 215 ai membri del governo sono state già rap-presentate in un precedente contributo al presente volume. Tale disciplina potrebbe essere emendata con qualche limitata ma ben mirata correzione, e cioè allargando effettivamente (con la previsione di sanzioni) l’obbligo di dichiarazione alle situazioni patrimoniali del coniuge e dei familiari, e prevedendo parimenti sanzioni serie (fi no alla decadenza) a carico dei membri del gover-no che non ottemperano agli obblighi di dichiarazione. È tuttavia prioritario disporre che le dichiarazioni presentate alla Agcm, an-ziché rimanere coperte dal segreto d’uffi cio, siano rese pubbliche e messe a disposizione dei cittadini, del Parlamento e del Gover-no nella loro integralità.

I membri del governo, del pari di ogni pubblico funzionario, sono soggetti ai doveri di astensione imposti da precetti penalisti-ci ed amministrativistici. Ad essi si aggiunge lo specifi co dovere (art. 1 della l. 20 luglio 2004, n. 215) di astenersi dal porre in essere atti e dal partecipare a deliberazioni collegiali in situazione di confl itto di interessi (art. 1), sul quale vigila l’Agcm.

L’esperienza attuativa – come le stesse relazioni semestrali in-viate dalla Agcm al Parlamento rilevano – conferma la fondatezza dei gravi dubbi emersi già nel corso dell’iter formativo della legge. In particolare, la legge (art. 3) richiede, perché possa integrarsi una situazione di confl itto di interesse, non solo una incidenza specifi ca e preferenziale sul patrimonio del titolare della carica, ma anche un «danno per l’interesse pubblico» che l’Autorità non è per sua natura in grado di riscontrare. Nota sul punto la III Relazione semestrale della Autorità alle Camere: «Resta irrisolto

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il problema di stabilire a chi spetta la confi gurazione dell’interesse pubblico la cui lesione fa scaturire i poteri sanzionatori. La leg-ge sembra delegare questa competenza alla Autorità, ma ci siamo chiesti se si tratti di area tradizionalmente riservata al potere poli-tico».

Ove pure l’Autorità superasse lo scoglio di una probatio diabo-lica, l’accertamento non produrrebbe comunque, secondo quan-to dispone la legge (art. 6, co. 9), nessun effetto sanzionatorio concreto: non si prevedono infatti misure a carico di chi abbia operato in confl itto di interessi, e neanche nella forma minimale della pubblicazione degli esiti dell’accertamento, che devono es-sere invece comunicati dalla l’Autorità unicamente ai Presidenti delle Camere.

Per risultare più credibile ed applicabile la legge 215 (una legge «fasulla» (2)) richiederebbe una profonda revisione (ad es. ren-dendo pubbliche le dichiarazioni degli interessi, oggi coperte dal segreto d’uffi cio; prescrivendo che gli atti dei procedimenti di controllo della Agcm siano pubblicati; sanzionando la violazio-ne del dovere di astensione, nei casi più gravi, con la decadenza dalla carica; rimettendo alle sole Camere il potere di giustifi care la condotta in ragione dell’interesse pubblico, secondo lo schema previsto dalla disciplina dei reati ministeriali).

Il miglioramento del controllo «esterno», affi dato alla Agcm, non esclude comunque la necessità di allestire anche all’interno del Governo, controlli e procedure volte a prevenire l’insorgere di confl itti di interesse. Se il dovere di astensione, come è evi-dente, non investe solo responsabilità individuali, ma coinvolge l’intero apparato di Governo, occorre colmare una grave lacuna normativa (nel corpo della disciplina della attività di Governo e la organizzazione della Presidenza del Consiglio dettata dalla l. 400 del 1988 non si trova neanche un accenno ai confl itti di interesse), istituendo un regime di vigilanza che assicuri sia la pronta e com-pleta estraniazione dall’atto e dal procedimento deliberativo di chi sia o possa essere in confl itto, sia l’individuazione del soggetto

(2) Secondo la giusta defi nizione di G.B. Mattarella nel suo contributo a que-sto volume.

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o dell’organo al quale la funzione deve essere devoluta.Nell’ambito di tale vigilanza interna, dovrebbero rientrare an-

che i confl itti di interesse potenziali.I divieti post-mandato riguardanti i titolari di cariche di go-

verno sono oggetto di una confusa e carente disciplina risultante dalla sovrapposizione della legge n. 60 del 1953 (art. 6) e della legge n. 215 del 2004 (art. 2, co. 4).

La c.d. «legge Sturzo» vieta a coloro che abbiano rivestito fun-zioni di governo, entro un anno dalla cessazione, di assumere ca-riche o funzioni in associazioni ed enti che gestiscono servizi per conto dello Stato o della pubblica amministrazione, o fi nanziati ordinariamente, in modo diretto o indiretto dallo Stato.

Tale divieto, in sé drastico (esso è generale e prescinde da qual-siasi collegamento alla natura effettiva delle funzioni di governo già esercitate), oltre che non assistito da controlli e da sanzioni, ha una portata limitata, non estendendosi né alle cariche ed agli uffi ci in enti pubblici o privati, per nomina o designazione del Governo o di organi della Amministrazione dello Stato, né alle cariche e le funzioni in enti privati che, sebbene non rivestenti la veste di gestori di servizi, o di benefi ciari di fi nanziamento ordi-nari, operino in stretto collegamento con l’Amministrazione (es. imprese appaltatrici di opere e servizi).

Tali defi cienze sono solo parzialmente corrette dalla legge 215, la quale proroga infatti ai dodici mesi successivi alla cessazione della carica le incompatibilità previste per i titolari di carica di governo, con l’effetto di estendere i divieti a situazioni ulteriori rispetto alla assunzione di cariche e le funzioni presso soggetti che gestiscono servizi o sono fi nanziati in modo ordinario (e cioè cariche ed uffi ci in enti pubblici, anche commerciali; cariche ed uffi ci in società lucrative o di rilievo imprenditoriale; esercizio di attività professionali o di lavoro autonomo a favore di soggetti pubblici e privati). Le incompatibilità, nel corso della proroga, restano inalterate quando si riferiscono a rapporti con enti pub-blici, anche economici, mentre subiscono un sostanziale depo-tenziamento nel caso di rapporti (cariche, uffi ci, prestazioni pro-fessionali) con società con fi ne di lucro: la legge prescrive infatti che il divieto scatti, in questo caso, solo se le società operano in misura prevalente in settori connessi con la carica ricoperta.

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In sostanza, le norme della l. 215 determinano un raffredda-mento effettivo del pantoufl age nei passaggi da cariche di governo a cariche o incarichi professionali presso enti di diritto pubblico, anche economici, ma non nei passaggi da cariche di governo a cariche o prestazioni presso imprese private, se non nei casi in cui si possa verifi care (con tutte le diffi coltà interpretative che ciò comporta) che l’impresa opera, in una misura che possa essere considerata prevalente, in un settore già affi dato alle cure dell’ex titolare della carica di governo.

I divieti post-mandato stabiliti dalla legge 215, a differenza di quelli disposti dalla legge Sturzo, sono affi dati al controllo della Agcm. Si tratta però di un controllo disarmato, sia perché agli ex titolari di carica non è fatto obbligo di segnalare gli incarichi e gli uffi ci alla Autorità (come notato nella sua II Relazione semestrale alle Camere), sia perché non sono previste sanzioni (salvo l’invali-dabilità degli incarichi, che può riguardare solo quelli presso enti pubblici).

In conclusione, la materia delle incompatibilità post mandato dei titolari di cariche di governo meriterebbe, per la sua impor-tanza una disciplina, non solo univoca, ma anche più accurata e completa. La durata dei divieti, perché si possa determinare un reale effetto di raffreddamento nei passaggi di carica, dovrebbe essere almeno biennale; le cariche assunte nel corso del biennio dovrebbero essere obbligatoriamente comunicate alla Agcm (o assoggettate a preventiva autorizzazione); gli esiti delle procedure di accertamento della Agcm dovrebbero essere resi pubblici; le violazioni dovrebbero comportare serie sanzioni pecuniarie, rap-portate all’entità degli emolumenti conseguiti.

3. Gli amministratori regionali e localiGli enti locali e le Regioni, per la loro prossimità ai cittadini,

e per la natura delle funzioni sono naturalmente sovraesposti al condizionamento, degli interessi, delle clientele, del familismo ed al pericolo di infi ltrazione da parte di organizzazioni criminali.

Le notazioni che seguono suggeriscono alcune possibili misure volte a migliorare la resistenza ai fenomeni corruttivi del perso-nale politico locale. Si tratta, beninteso, di indicazioni di larga

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massima, che dovrebbero trovare svolgimento nell’ordinamento regionale e locale, facendo salve le esigenze sia di autonomia, sia di integrazione in una strategia di contrasto alla corruzione coe-rente, unitaria ed estesa all’intero ordinamento repubblicano.

Relativamente all’accesso alle cariche elettive, appare oppor-tuno valorizzare lo strumento della incandidabilità, per ragioni di semplifi cazione e di effi cienza (3). Conseguentemente alcune situazioni, che nella vigente legislazione comportano la ineleggi-bilità o la incompatibilità dovrebbero essere ascritte alla incan-didabilità, mentre le ineleggibilità e le incompatibilità residue dovrebbero essere oggetto di una attenta revisione, con cancella-zioni ed integrazioni.

L’accesso alle cariche politiche regionali e locali dovrebbe esse-re subordinato alla prestazione di giuramento di fedeltà alla Re-pubblica, con una generalizzazione del dovere di giuramento che, allo stato, riguarda inspiegabilmente solo i consiglieri delle Regio-ni differenziate, i sindaci ed i presidenti delle giunte provinciali.

Gli ordinamenti regionali e l’ordinamento degli enti locali op-portunamente dovrebbero disporre, sul modello della l. 215/2004, che, analogamente alle cariche di governo nazionale e, come qui si propone, a quelle parlamentari, anche quelle di Presidente della Giunta, di assessore regionale, di Sindaco di grandi città o Presi-dente di Provincia richiedano una dedicazione esclusiva alla cura degli interessi pubblici, e siano dunque incompatibili in via gene-rale con ogni carica, uffi cio, professione. Regioni ed enti locali, nella loro autonomia statutaria, potrebbero estendere l’ambito di applicazione della esclusività.

L’esclusività dell’impegno richiesto, a garanzia della piena de-dizione e della imparzialità, comporterebbe ove si seguisse il mo-dello offerto per i titolari di cariche di governo dall’art. 2 della «legge Frattini», il divieto di:

– ricoprire cariche o uffi ci pubblici diversi dal mandato politico o non inerenti al medesimo;

– ricoprire cariche o uffi ci e svolgere altre funzioni comunque

(3) Già evidenziate nel contributo di F. Pinto, in questo volume.

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denominate in enti di diritto pubblico, anche commerciali;– ricoprire cariche o uffi ci o altre funzioni comunque denomina-

te ovvero esercitare compiti di gestione in società aventi fi ni di lucro o in attività di rilievo commerciale;

– esercitare attività professionali o di lavoro autonomo, anche gratuite;

– esercitare qualsiasi tipo di impiego o lavoro pubblico;– esercitare qualsiasi tipo di impiego o lavoro privato;– l’imprenditore individuale deve nominare uno o più institori ai

sensi dell’art. 2203 e ss. c.c.

a) codice etico Nello svolgimento delle funzioni, i titolari degli organi politici

delle Regioni e degli enti locali dovrebbero conformare la pro-pria condotta ai precetti di appositi codici etici.

Ciascuna Regione e Provincia autonoma dovrebbe deliberare un proprio codice etico, in conformità a linee-guida fi ssate dalla Con-ferenza Stato-Regioni, sentita la Commissione per la valutazione, la trasparenza e la integrità delle amministrazioni pubbliche.

Comuni e Provincie dovrebbero deliberare e pubblicare pro-pri codici etici, in conformità a disposizioni di legge emanate ai sensi dell’articolo 117, co. 2, lett. p), Costituzione, sentite l’An-ci, l’Upi e la Commissione per la valutazione, la trasparenza e la integrità delle amministrazioni pubbliche.

La vigilanza sul rispetto del codice etico dovrebbe essere affi -data ai capi delle amministrazioni ed ai Presidenti degli organi consiliari, affi ancati da una commissione bipartisan integrata da un esperto esterno di comprovata integrità. La attività di vi-gilanza dovrebbe essere annualmente resocontata al Consiglio e resa pubblica.

Nella applicazione del codice etico dovrebbe trovare applica-zione il principio del contraddittorio; le eventuali controversie interpretative potrebbero essere devolute alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e la integrità delle ammini-strazioni pubbliche.

Il codice etico dovrebbe prevedere sanzioni (ammonimento, censura, sospensione dalle funzioni fi no a tre mesi) graduate secondo la gravità dell’addebito.

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b) registro degli interessi Ogni ente territoriale politico, senza eccezioni, dovrebbe isti-

tuire e regolamentare, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, un registro pubblico unico degli interessi dei soggetti titolari dei propri organi politici, accessibile a tutti i cittadini e pubblicato in modo idoneo (internet).

La tenuta del registro degli interessi dovrebbe essere affi data ad una commissione bipartisan, integrata da un esperto di com-provata integrità.

Una funzione di garanzia andrebbe comunque riconosciuta al Presidente della giunta regionale, al Presidente della Provin-cia, al Sindaco ed ai Presidenti dei rispettivi consigli.

I piccoli Comuni potrebbero curare la tenuta del registro attra-verso forme associative e di collaborazione.

Gli obblighi di registrazione dovrebbero comunque compren-dere:– la situazione reddituale propria e dei familiari e conviventi;– le attività patrimoniali, ivi comprese le partecipazioni azio-

narie, e le attività patrimoniali detenute nei tre mesi prece-denti l’assunzione della carica;

– gli impieghi ed il lavoro pubblico e privato;– le cariche e gli uffi ci, pubblici e privati;– le attività professionali e di lavoro autonomo.

Gli obblighi di registrazione dovrebbero essere più severi per i titolari di organi di governo.

L’obbligo di registrazione degli interessi dovrebbe essere adem-piuto al momento dell’accesso alla carica e rinnovato annual-mente, ad ogni signifi cativa variazione ed alla scadenza della carica.

L’obbligo di registrazione dovrebbe essere assistito da sanzioni (ammonimento, censura, sospensione dalle funzioni fi no a tre mesi) graduate in ragione della gravità dell’addebito.

c) dovere di astensione L’ordinamento degli enti locali impone agli amministratori un

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espresso obbligo di astensione per i confl itti di interesse intesi in senso stretto (art. 78, co. 2, Tuel). Ove non espressamen-te previsto, un obbligo analogo, con opportuni adattamenti, dovrebbe essere prescritto nell’ambito dell’ordinamento delle Regioni e delle Province autonome.

I codici etici dovrebbero prescrivere doveri di astensione più ampi, dettati da criteri di prudenza, di correttezza, di buona immagine, relativamente alle situazioni nelle quali, pur in as-senza di un interesse diretto o preferenziale, possa ravvisarsi la potenzialità o un dubbio di confl itto.

Al fi ne di assicurare un accurata vigilanza sul rispetto del do-vere di astensione, resa più agevole dalla disponibilità dei dati contenuti nel registro pubblico degli interessi, e dei parametri di comportamento fi ssati nel codice etico, potrebbe essere op-portuno:– conferire espressamente al Presidente della Giunta regiona-

le, della Provincia, al Sindaco ed ai Presidenti dei rispettivi organi consiliari la responsabilità di vigilare sul rispetto del-l’obbligo di astensione da parte di assessori e consiglieri;

– procedimentalizzare l’esercizio del dovere di astensione, nei termini già suggeriti, imponendo agli amministratori regiona-li e locali l’obbligo di segnalare la possibilità di un confl itto;

– prescrivere sanzioni, quali la censura e la sospensione, nel caso di mancata segnalazione delle situazioni di possibile confl itto ed in quello di violazione del dovere di astensione.

Divieti particolari. Il divieto fatto ai componenti della giunta comunale competenti in materia di urbanistica, edilizia e lavori pubblici di esercitare attività professionale in materia di edili-zia privata e pubblica (art. 78, co. 3, Tuel) dovrebbe riguardare il territorio della Provincia e non quello comunale.

d) incarichi successivi Appare essenziale introdurre divieti post-mandato, allo stato

del tutto assenti, per scoraggiare scambi corrotti e per limitare il pantoufl age.

Le limitazioni post-mandato potrebbero riguardare la possibi-lità di accedere a determinati impieghi pubblici ed a determi-

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nate funzioni pubbliche (le situazioni potrebbero coincidere con quelle che, secondo le norme vigenti, determinano la ine-leggibilità: magistrati che esercitano le loro funzioni nel ter-ritorio; i dipendenti del Comune e della Provincia; direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario A.s.l. sono, secondo la normativa vigente, incandidabili).

Il divieto per degli amministratori locali di ricoprire incarichi o di assumere consulenze presso enti ed istituzioni dipendenti e comunque sottoposti al controllo e alla vigilanza dei relativi Comuni e Province (art. 78, co. 5, Tuel) potrebbe essere util-mente esteso oltre il termine di cessazione della carica, per la durata di un triennio.

Limitazioni post mandato ulteriori potrebbero riguardare la possibilità di ricoprire funzioni che, secondo le norme vigenti, comportano ineleggibilità o incompatibilità «di affari» (cariche di rappresentante legale e dirigente di strutture convenzionate al servizio sanitario; cariche di amministratore o dirigente in imprese appaltatrici di lavori e servizi con partecipazione di minoranza comunale e provinciale; titolarità, cariche di am-ministratore o dirigente in enti ed imprese che percepiscano sovvenzioni in tutto o in parte facoltative, che superino il 10% delle entrate annuali).

La possibilità di accedere ad incarichi e consulenze presso il Comune e la Provincia, o presso enti ed imprese controllate, partecipate, fi nanziate, dovrebbe essere preclusa, per un bien-nio, ai candidati non eletti.

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Francesco Merloni

I FUNZIONARI PROFESSIONALI

1. I dipendenti non dirigentiCome è noto tutta la disciplina di status, anche sotto il profi lo

delle garanzie di imparzialità dei funzionari è costruita intorno alla fi gura generale del pubblico dipendente (il diritto positivo usa molto raramente la categoria di «funzionario pubblico»). Ri-vedere questa disciplina è indispensabile, quindi, non solo per-ché essa continua ad essere presa come punto di riferimento, ma perché molti dipendenti partecipano, sia pure in misura diversa, all’esercizio delle funzioni pubbliche.

Il problema generale: il concorso di disciplina pubblicistica e privatistica. Non vi sono dubbi sulla disciplina pubblicistica delle ineleggibilità/incompatibilità, così come non è in discussione la disciplina privatistica dei diritti connessi alla prestazione lavorati-va. Residua il campo della defi nizione dei doveri connessi all’im-parzialità e alla relativa responsabilità disciplinare, per il quale la soluzione può consistere nelle predeterminazioni per legge dei principi e dei limiti da porre alla disciplina posta nel contratto collettivo.

Non tutti i pubblici dipendenti concorrono nella stessa misura allo svolgimento della funzione. Si va da categorie che svolgono solo compiti operativi e manuali senza alcun concorso (operai), che non richiedono che poche disposizioni sull’imparzialità, fi no ai dipendenti funzionari in senso stretto cioè funzionari che par-tecipano da vicino alle attività di esercizio della funzione, in parti-colare i funzionari cui sono affi date le funzioni di responsabile del procedimento. È con riferimento a questi ultimi che va calibrata la disciplina di status volta a garantire l’imparzialità.

Quanto all’accesso alla funzione, la problematica coincide con l’accesso alla carriera e con la progressione in carriera. Non rile-vano incarichi giuridicamente signifi cativi. Il dipendente di cui qui ci occupiamo può al massimo essere designato quale respon-sabile del procedimento, incarico che si deve ritenere automati-

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camente conferibile a tutti i dipendenti che abbiano raggiunto un determinato livello professionale, senza dover fi ssare particolari regole per il conferimento della funzione.

Per l’accesso alla carriera (ai ruoli) va ribadito e rafforzato il principio della inderogabilità assoluta della selezione per pubbli-co concorso per tutti i dipendenti che sono chiamati a svolgere attività di concorso allo svolgimento di una funzione pubblica. A questo fi ne occorre garantire con maggiore attenzione l’indi-pendenza delle commissioni di selezione: non basta che ne siano fuori politici e sindacalisti; anche gli esperti e i funzionari profes-sionali devono esser in maggioranza esterni all’amministrazione. Occorre, poi, rafforzare i requisiti di ammissibilità per l’accesso al concorso, dal punto di vista delle qualità etiche e morali del can-didato (esclusione di coloro che abbiano riportato la pena della interdizione dai pubblici uffi ci (1)).

Per l’accesso ai vari livelli della carriera va ribadito il principio del concorso anche per i passaggi successivi all’accesso iniziale, vietando in via defi nitiva concorsi riservati o che prevedono pun-teggi preferenziali agli interni. Attenzione va posta soprattutto al passaggio tutto interno dai diversi livelli non dirigenziali alla dirigenza.

Quanto allo svolgimento della funzione, si tratta di vedere se la durata del contratto di lavoro con l’amministrazione possa incide-re su quei dipendenti che partecipano più da vicino all’esercizio della funzione. La regola per i pubblici dipendenti è di una dura-ta a tempo indeterminato, che va rafforzata. I contratti a tempo determinato non sono di per sé in contrasto con le funzioni pub-bliche affi date, sempre che l’accesso sia avvenuto per concorso. Poiché però si può trattare di un concorso meno selettivo e co-munque di un rapporto precario, il divieto di prorogarlo entro un certo limite non è solo una misura di effi cienza ma una misura di garanzia di imparzialità: il funzionario precario è anche il più soggetto a pressioni e intromissioni indebite.

Per la compatibilità con altri incarichi, pubblici e privati, l’unica disciplina vigente è quella dell’articolo 53 del d.lgs. n. 165 del

(1) Come rivista nelle proposte avanzate da V. D’Ambrosio nel suo contributo a questo volume.

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2001, che fi ssa una blanda disciplina fondata sulla necessità di au-torizzazione per l’attribuzione da parte di altre amministrazioni o da soggetti privati di incarichi retribuiti.

Questa disciplina non si applica:

a) ad alcune categorie (magistrati, avvocati e procuratori dello Stato) soggetti ad una disciplina speciale che individua «gli in-carichi consentiti e quelli vietati » (co. 3);

b) ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale (ai pro-fessori universitari a tempo defi nito).

Nel caso a) la speciale disciplina sembra fondata sulle particola-ri esigenze di imparzialità di queste categorie. Nel caso b) invece si rafforza l’impostazione che vuole l’incompatibilità come strumen-to per garantire che il dipendente a tempo pieno dedichi comple-tamente la propria prestazione lavorativa all’amministrazione.

Questa impostazione va superata, sicuramente per i dipenden-ti che svolgono direttamente, come proprio compito, funzioni pubbliche (i dirigenti), ma anche per la generalità dei dipendenti pubblici. Occorre infatti porre attenzione, sia per i dipendenti a tempo pieno che per quelli a tempo parziale, a situazioni di in-compatibilità che non riguardino tanto la prestazione lavorativa, quanto l’imparzialità, da garantire soprattutto per i dipendenti che partecipino più direttamente all’esercizio della funzione (ad esempio i responsabili del procedimento). Proviamo a ipotizzare alcune situazioni:

a) lo svolgimento di attività, retribuite o meno, presso imprese private o lo svolgimento in proprio di attività professionali, se queste possono incidere negativamente sull’imparzialità del funzionario, ad esempio se l’impresa o l’attività professionale è soggetta a regolazioni o contribuzioni economiche da parte dell’amministrazione da cui il funzionario dipenda;

b) lo svolgimento di incarichi politici (ad es.: Sindaco, assessore, consigliere comunale) o di incarichi di tipo fi duciario presso enti pubblici o società in controllo pubblico; in questi casi l’incarico comporta la esplicita appartenenza del funzionario ad uno schieramento politico, con i connessi rischi di una sua immagine esterna non del tutto imparziale, ovvero comporta

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dubbi sulla capacità del funzionario di decidere imparzialmen-te laddove l’ente locale o in genere l’ente presso il quale si svol-ge la sua funzione sia coinvolto in una decisione dell’ammini-strazione da cui il funzionario dipenda.

Per la generalità dei dipendenti il sistema delle autorizzazioni può essere mantenuto. Esso è infatti più fl essibile rispetto ad una predeterminazione rigida per legge delle cause di incompatibilità. Le autorizzazioni, però, devono essere rilasciate da un organismo indipendente rispetto alla stessa amministrazione e sulla base di una consolidata casistica (sul modello delle Commissions de déon-tologie francesi)

In ogni caso, anche in presenza di un’autorizzazione, deve esser meglio disciplinato il dovere di astensione (2), che il dipendente dovrà osservare in tutti i casi in cui il suo incarico, per quanto au-torizzato, venga a porsi in confl itto con lo svolgimento dei suoi compiti

La compatibilità con l’appartenenza a partiti politici deve ri-tenersi in generale sempre ammessa, in considerazione del con-tributo relativamente modesto che il dipendente dà all’esercizio della funzione, sempre, però, a condizione che il dipendente non ostenti questa sua appartenenza.

Per il confl itto di interessi in senso stretto, quello che può ve-rifi carsi al di fuori dei casi di svolgimento di incarichi esterni (per la titolarità di interessi propri del dipendente), valgono le consi-derazioni e le proposte avanzate in via generale: dovere di comu-nicazione e di astensione.

Quanto ai doveri di comportamento, va distinto tra doveri in ser-vizio e doveri fuori servizio. Per i primi si considerino i doveri di:– assiduità;– riservatezza;– disponibilità al cittadino (comportamenti vessatori);– moralità nell’esercizio della funzione;– non accettazione regali;– non accettazione favori per sé o parenti fi no al IV grado.

(2) Così come rivisitato in via generale secondo le proposte avanzate da G. Sirianni nel suo contributo a questo volume.

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Con riferimento ai doveri di comportamento da imporre ai funzionari, resta da determinare quali doveri debbano essere formulati in termini di responsabilità disciplinare, e quali invece debbano essere individuati solo con codici etici

Quanto agli incarichi successivi al termine di svolgimento del-la funzione (pantoufl age) per la generalità dei dipendenti si può pensare ad un divieto, per un anno successivo dalla cessazione dal servizio, di assumere incarichi in imprese private sottoposte a po-teri di regolazione o di contribuzione economica da parte del set-tore dell’amministrazione in cui il dipendente ha prestato servizio negli ultimi tre anni (divieti assistiti da sanzioni amministrative).

Anche oltre il periodo di «raffreddamento», si può anche pensare di limitare (per periodi: cinque anni) la possibilità che le imprese private si facciano rappresentare, nei loro rapporti con l’amministrazione, da dipendenti cessati dalle funzioni dalla stes-sa amministrazione negli ultimi cinque anni.

2. I dirigenti, interni e esterniCi si occupa qui di coloro che si vedono attribuire compiti di

amministrazione e gestione (i.e. le funzioni dirigenziali): in primo luogo i funzionari professionali dipendenti dell’amministrazione con qualifi ca dirigenziale, ma anche i dipendenti dell’ammini-strazione privi di tale qualifi ca (si consideri, ad esempio, il caso dei Comuni privi di personale dotati di qualifi ca dirigenziale: art. 109, co. 2, Tuel) e i soggetti esterni all’amministrazione

Per dirigente interno è da intendersi qualunque soggetto do-tato di qualifi ca dirigenziale operante presso le pubbliche ammi-nistrazioni, iscritto ad un albo nazionale della dirigenza (proposta che potrebbe essere estesa ad ogni livello di governo (3)).

Le considerazioni e proposte che seguono sono in qualche caso differenziate tra dirigenti interni e dirigenti esterni

Per l’accesso alla funzione si è distinto tra accesso alla carriera e conferimento dell’incarico dirigenziale.

Quanto all’accesso alla carriera il discorso vale evidentemente

(3) La proposta è stata avanzata da G. D’Alessio e F. Parisi, «Accesso, forma-zione e assetto unitario della dirigenza», in G. D’Alessio (a cura di), L’ammini-strazione come professione, Bologna, il Mulino, 2008, 93-110.

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per la dirigenza interna. Qui il principio del concorso, affermato per la generalità dei dipendenti, va reso inderogabile per tutte le amministrazioni, di qualsiasi livello: è comunque indispensabile uno specifi co concorso per l’accesso alla qualifi ca dirigenziale.

Anche per il passaggio alle fasce superiori della dirigenza vale il principio della selezione tra diversi concorrenti: non è suffi ciente l’avere trascorso periodi di servizio nelle fasce inferiori, occorre una trasparente selezione per titoli e colloquio.

Il conferimento dell’incarico dirigenziale deve essere sottoposto ad una attenta revisione, sia sotto il profi lo della identifi cazione delle cause che possono impedire in via preventiva il conferimen-to, sia sotto il profi lo delle procedure di conferimento. Questa attenzione è dovuta soprattutto agli incarichi che comportino lo svolgimento di funzioni di amministrazione e gestione, per i quali si richiede, evidentemente, un notevole grado di imparzialità.

Per i dirigenti interni, la necessità di rendere maggiore la distan-za tra lo svolgimento delle funzioni inerenti all’incarico dirigenziale per le quali la legge richiede il massimo dell’imparzialità e lo svolgi-mento di incarichi pubblici o privati che possono far legittimamente dubitare che gli interessi legati a tali incarichi non infl uiscano, con-dizionandolo impropriamente, sull’esercizio della funzione pubbli-ca affi data impone di introdurre nuove cause di non conferimento.

Ad esempio si potrebbe stabilire che l’incarico non è conferi-bile a coloro che:

a) abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche o incarichi, anche gratuiti, presso imprese o abbiano svolto attività pro-fessionali, se l’impresa o l’attività professionale è soggetta a regolazioni o contribuzioni economiche da parte dell’ammini-strazione da cui il dirigente dipenda, con particolare riguardo per il conferimento della titolarità degli organi competenti alla adozione degli atti relativi;

b) abbiano la proprietà o il controllo di imprese (in proprio o attra-verso coniuge e stretti familiari) soggette a regolazioni o contri-buzioni economiche da parte dell’amministrazione da cui il diri-gente dipenda, con particolare riguardo per il conferimento della titolarità degli organi competenti alla adozione degli atti relativi;

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c) svolgano o abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche o incarichi pubblici elettivi di carattere politico o fi duciario: que-sta causa di non conferimento vale in modo pieno se l’incari-co/carica si è svolto presso l’amministrazione di appartenenza, mentre le limitazioni al conferimento possono essere graduate negli altri casi, in ragione dei livelli e degli ambiti territoriali coinvolti (es: un ex sindaco non appare nominabile ad incarico dirigenziale nella Provincia cui appartiene il Comune; mentre lo stesso problema non si pone per un incarico presso un uffi -cio centrale di amministrazione statale);

d) siano stati candidati, non eletti, a cariche pubbliche elettive nei tre anni precedenti; anche in questo caso va distinto tra la candi-datura ad una carica presso la stessa amministrazione (divieto as-soluto) o presso amministrazioni diverse (gradualità dei limiti);

e) abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche sindacali per gli incarichi in uffi ci preposti alla politica o alla gestione del per-sonale (dell’amministrazione, perché la gestione del personale dell’uffi cio è parte naturale del lavoro dirigenziale).

Per gli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazio-ne, si tratta di intervenire in modo articolato, ma molto rigoroso.

In primo luogo va chiarito ancora che questi incarichi non co-stituiscono uno strumento per gli organi politici per immettere nell’amministrazione quote di dirigenti «fedeli». L’incarico non è di natura fi duciaria, ma eminentemente professionale. L’ammi-nistrazione nomina un dirigente che non proviene né dalla stes-sa amministrazione né dall’albo nazionale della dirigenza solo quando non sia possibile reperire le competenze professionali indispensabili per l’incarico da conferire. Come si comprende appare diffi cilmente giustifi cabile, in questo quadro, l’affi damen-to di incarico dirigenziale (in quota esterni) a dipendenti della stessa amministrazione non dirigenti, perché contravviene alla fi nalità propria dello strumento e perché si presta ad una lettura fi duciaria dell’incarico. Tale soluzione potrebbe essere accetta-bile solo come misura transitoria: l’incarico dovrebbe avere una durata breve, non prorogabile e dovrebbe essere fi nalizzato al-l’espletamento di procedure ordinarie di reclutamento di fi gure dirigenziali. In caso di esigenze di urgenza, l’incarico deve avere

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durata brevissima, in attesa dello svolgimento della selezione (la selezione non può essere bypassata con motivazioni di urgenza: preferibile l’interim, ma sempre di durata brevissima fi nalizzata all’espletamento delle procedure).

In secondo luogo il conferimento dell’incarico deve essere ac-compagnato da cautele maggiori di quelle prima indicate per i dirigenti interni. Per quelli esterni, infatti, non funziona la garan-zia classica del rapporto di lavoro professionale a tempo indeter-minato. Il dirigente esterno proviene, per defi nizione, dal settore privato o dal mondo delle professioni. La possibilità che esso si faccia diretto portatore, nell’esercizio della funzione, di interessi particolari è molto più elevata.

L’incarico dirigenziale, pertanto, non dovrebbe essere conferi-to a coloro che:

a) abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche o incarichi, anche gratuiti, presso imprese o abbiano svolto attività pro-fessionali, se l’impresa o l’attività professionale è soggetta a regolazioni o contribuzioni economiche da parte dell’ammini-strazione, con particolare riguardo per il conferimento della ti-tolarità degli organi competenti all’adozione degli atti relativi;

b) abbiano la proprietà o il controllo di imprese (in proprio o at-traverso coniuge e stretti familiari), se le imprese sono soggette a regolazioni o contribuzioni economiche da parte dell’ammini-strazione, con particolare riguardo per il conferimento della ti-tolarità degli organi competenti alla adozione degli atti relativi;

c) svolgano o abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche o incarichi pubblici elettivi di carattere politico o fi duciario. Per i dirigenti esterni questa causa deve essere applicata in modo pieno. La possibile diretta provenienza da un incarico di na-tura politica e fi duciaria, oltre ad essere in contraddizione con la natura professionale dell’incarico, fa sorgere legittimi dubbi sulla imparzialità del dirigente esterno, almeno sotto il profi lo della non condizionabilità da parte di interessi politici;

d) siano stati candidati, non eletti, a cariche pubbliche elettive nei tre anni precedenti; vale quanto detto al punto precedente.

Quanto ai requisiti e al procedimento dì conferimento dell’in-

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carico si deve ancora distinguere tra dirigenti interni ed esterni.Per i primi i requisiti devono essere formulati in modo tale da

garantire la qualità dei partecipanti alla selezione, ed allo stesso tempo la più ampia partecipazione al procedimento stesso (no a requisiti troppo dettagliati, come quelli formulati sul profi lo del nominando).

Il procedimento deve essere più formalizzato: sollecitazione pubblica; analisi del curriculum; verifi ca dei requisiti e delle even-tuali cause di non conferibilità dell’incarico; colloquio; atto mo-tivato; il tutto assistito da trasparenza e pubblicità delle diverse fasi di selezione (ci sono i presupposti già nella legge n. 15/2009, che esclude la tutela della riservatezza per quanto riguarda i dati personali dei dirigenti).

È interesse generale che la platea dei soggetti che possono aspi-rare/concorrere al conferimento dell’incarico dirigenziale sia la più ampia possibile (tra i dirigenti professionali dell’albo nazio-nale della dirigenza). Si ribadisce la necessità che l’indicazione di criteri di scelta seri e rigorosi sia formulata in modo tale da consentire la partecipazione al procedimento di una pluralità di soggetti; essenziale in questo senso è il ritorno ad una struttura-zione unifi cata del ruolo dirigenziale.

Quanto alla titolarità del potere di conferimento dell’incarico si possono senz’altro rendere compatibili le esigenze di attuazio-ne dell’indirizzo politico con quelle dell’imparzialità.

Se accompagnato da misure di trasparenza non solo in esito alla procedura, ma durante lo svolgimento della selezione, anche il mantenimento del potere di nomina ai soli organi politici (in parti-colare agli organi con funzioni esecutive) può essere accolto.

Ma si può prevedere che nel procedimento alcune fasi siano affi date ad organismi indipendenti, volti a valutare solo la com-petenza professionale dei candidati all’incarico, salvo riservare la scelta fi nale all’organo politico.

Così come si può prevedere che gli atti organizzativi distingua-no, in rapporto alle competenze da svolgere, tra i diversi organi per i quali scegliere il titolare, in modo da accentuare la compo-nente tecnico-professionale della scelta per gli organi che abbia-no questo carattere (per questi la stessa nomina potrebbe essere lasciata ad un organismo tecnico e indipendente).

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Le esigenze di selezione pubblica e di trasparenza sono, per i dirigenti esterni, ancora più pressanti, soprattutto per quanto riguarda la verifi ca dei requisiti professionali e della inesistenza di cause ostative al conferimento. In particolare occorre vigilare che non si realizzino i passaggi diretti da interessi privati o politici in confl itto con l’imparzialità.

Anche quanto alla titolarità del potere di nomina si può pen-sare che, pur lasciando questo agli organi politici, vi siano dei passaggi di controllo interno più rigorosi (prevedendo un parere di organismi tecnici o di commissioni parlamentari o consiliari).

Il procedimento di selezione dei dirigenti (interni ed esterni) non può essere assimilato alla selezione per concorso dei dipen-denti per l’accesso alla carriera, prima della conclusione del con-tratto. A disciplina vigente vi è distinzione tra la giurisdizione del giudice amministrativo per il concorso di accesso (art. 63, co. 4) e del giudice ordinario per la esecuzione del contratto di lavoro. Per «il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali» lo stesso articolo 63, co. 1, riserva le relative controversie al giudi-ce ordinario. Quindi si deve ritenere che sia il procedimento di selezione che l’atto di conferimento dell’incarico abbiano natura privatistica, anche se in questo caso l’autonomia privata dell’am-ministrazione può essere limitata da norme di legge.

Su questo punto si registrano, anche nel gruppo Astrid, opinio-ni diverse. Secondo alcuni, l’attuale disciplina va cambiata perché la confi gurazione di questo procedimento di selezione come pro-cedimento pubblicistico ad evidenza pubblica, avrebbe il vantag-gio di consentire un sindacato da parte di un giudice, quale il g.a., sicuramente più attrezzato. Il bando con il quale è indetta la selezione potrebbe essere autonomamente impugnato. Resta comunque da considerare l’opinione di chi sostiene che, qualora la legge dovesse imporre una adeguata predeterminazione dei re-quisiti, anche il giudice ordinario sarebbe in grado di svolgere un sindacato adeguato, in certa misura anche più penetrante.

Se passiamo ora allo svolgimento della funzione, diversi sono i profi li da considerare.

In primo luogo la durata dell’incarico.Sulla discussione ampiamente sviluppatasi negli ultimi anni, tra

tempo determinato e tempo indeterminato non si intende tornare

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ancora una volta. La stessa Corte costituzionale ha stabilito che, di per sé, un incarico di durata predeterminata non è in contrasto con le esigenze di imparzialità.

Il problema si sposta allora sulla quantifi cazione del periodo, in modo da ridurre al minimo i pericoli di condizionamento del dirigente da parte dell’organo politico che conferisce l’incarico. La durata, quindi, dovrebbe essere comunque superiore al man-dato dell’organo politico nominante. Così come nessuna nomina dovrebbe essere effettuata, nell’ultimo anno di mandato degli or-gani politici.

Nel caso di conferimento dell’incarico a dirigenti esterni non esistono motivi per una durata più breve o, peggio, per una coin-cidenza con il mandato dell’organo politico nominante. L’incarico deve avere la durata necessaria per lo svolgimento di quei compiti per i quali l’amministrazione non dispone di dirigenti idonei (o non se ne trovano nell’albo nazionale della dirigenza).

In secondo luogo la disciplina della conferma e della revoca anticipata dell’incarico. Per tutti i dirigenti (interni e esterni), alla scadenza, l’incarico si intende rinnovato (sempre per una durata superiore all’incarico politico), salvo provvedimento motivato di non conferma. La non conferma «secca» senza la giustifi cazione di una rotazione degli incarichi e quindi senza l’attribuzione di un diverso incarico, deve essere adeguatamente motivata soprattutto in caso di valutazione negativa quanto al raggiungimento degli obiettivi (solo se gli obiettivi sono stati effettivamente formulati, vedi modifi che Brunetta al 165/2001). La revoca anticipata costi-tuisce invece un provvedimento ancor più radicale, che altera di per sé i rapporti tra politica e amministrazione: essa deve essere motivata non solo con una valutazione negativa sulla stessa pos-sibilità di raggiungere i risultati, ma può avvenire anche per gravi ineffi cienze, per gravi irregolarità della gestione, per gravi viola-zioni delle regole sulle incompatibilità e sui confl itti di interesse, e solo con atto motivato (e con garanzie di contraddittorio per l’interessato).

Se passiamo a considerare le compatibilità dell’incarico diri-genziale con altri incarichi, pubblici e privati, l’attuale situazio-ne, di un regime di incompatibilità che è del tutto coincidente con quello fi ssato per la generalità dei dipendenti, deve essere

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superata, perché i dirigenti non sono più, come i dipendenti, dei collaboratori all’esercizio della funzione, ma ne sono i titolari in via esclusiva. Si tratta di stabilire anche per i dirigenti il regime speciale fi ssato per i magistrati e per gli avvocati dello Stato: non più una generica possibilità per le amministrazioni di autorizzare gli «incarichi retribuiti», ma una disciplina che in positivo indivi-dui gli incarichi consentiti e quelli vietati.

Questa disciplina si dovrebbe fondare, quindi, su un regime di predeterminazione dei casi di sicura incompatibilità e su un sistema di autorizzazione per i casi di minore rilievo (e impatto sulla posizione di imparzialità del dirigente). Il tutto assistito da organismi indipendenti di verifi ca (sul modello delle Commis-sions de déontologie francesi), che esprimano pareri sull’effettivo verifi carsi dei casi di incompatibilità predeterminati dalla legge, e rilascino le autorizzazioni negli altri casi.

Le incompatibilità, che possono verifi carsi per i dirigenti nel corso dello svolgimento dell’incarico, vanno calibrate in analogia al regime di non conferibilità dell’incarico. Il dirigente non può assumere cariche o incarichi in imprese private soggette a regola-zione o a contribuzioni economiche da parte dell’amministrazio-ne, in particolare se gli atti relativi sono di competenza dell’orga-no di cui è titolare. A questo fi ne non basta più il solo carattere esclusivo del rapporto di lavoro, perché sempre più spesso si adottano sistemi di distacco del dirigente presso imprese private. Particolare cautela deve essere posta agli incarichi che potreb-bero essere considerati come la naturale proiezione dell’incarico, quali ad esempio la nomina quale componente degli organi di enti pubblici economici o di società in controllo pubblico (da parte della stessa amministrazione). La cautela è giustifi cata dai ricor-renti fenomeni che rivelano come questi legami, in luogo di costi-tuire un rafforzamento del controllo pubblico, rappresentino in realtà altrettante forme di cattura dell’amministrazione da parte degli interessi delle imprese. Va sancita anche la incompatibilità piena con l’assunzione (che può avvenire anche tramite parenti) della proprietà o del controllo di imprese in esame.

Delicato, ma da affrontare con decisione, è il tema della com-patibilità con la politica. Da escludersi, per i motivi già visti, la compatibilità con incarichi e cariche pubbliche elettive, almeno

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per le amministrazioni locali che insistano nello stesso territorio (se il dirigente opera in un’amministrazione regionale o locale), mentre più attenuata la incompatibilità tra un incarico dirigenzia-le nazionale e cariche politiche regionali o locali. La bussola della disciplina deve essere sempre quella della tutela non solo della effettiva posizione di imparzialità del dirigente ma anche della sua immagine (il dirigente deve apparire imparziale, la sua posizione nel decidere sugli atti di esercizio della funzione che gli è affi data non può essere messa in dubbio a causa della sua esplicita appar-tenenza politica). Anche la compatibilità con cariche direttive in partiti politici è da mettere in dubbio, applicandosi comunque criteri di gradualità e proporzionalità, mentre la partecipazione semplice ai partiti politici, purché non ostentata, è da considerarsi sempre ammessa.

Diverso il tema del regime delle ineleggibilità/incandidabilità del dirigente a cariche politiche. Se è ineleggibilità si tratta di una materia, quella elettorale (la tutela del libero orientamento del-l’elettore), che non spetta a noi trattare in questa sede. Se invece si propende (per i motivi esposti dal contributo di Ferdinando Pinto) per un esteso regime di incandidabilità, qui ci si avvicina di molto al tema delle incompatibilità, motivate le une e le altre dalla fi nalità di garantire al massimo la posizione imparziale del dirigente. In questa prospettiva si potrebbe, ad esempio, affer-mare la ineleggibilità/incandidabilità, almeno per un congruo periodo di «raffreddamento» (due anni dalla cessazione dell’in-carico dirigenziale), dei dirigenti statali al Parlamento nazionale, dei dirigenti regionali al consiglio regionale e ai consigli degli enti locali del territorio della Regione, dei dirigenti degli enti locali al consiglio del proprio ente (e di enti locali in un più vasto territo-rio), con differenziazione del regime, in rapporto alla dimensione del Comune.

Quanto al confl itto di interessi in senso stretto, le misure pro-poste in via generale (4) si applicano con particolare rigore al diri-gente titolare di organo amministrativo, proprio perché con i suoi atti svolge funzioni pubbliche in modo imparziale. In questi casi, salva la individuazione di doveri più specifi ci, incombono sul fun-zionario gli obblighi di: dichiarazione del proprio stato patrimo-niale e degli interessi economici (propri e dei familiari stretti); di

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separazione dalla cura diretta dei propri interessi; di astensione.Quanto ai doveri di comportamento, le regole valide per i di-

pendenti sono applicate con maggiore rigore per i dirigenti.Per quanto riguarda gli incarichi successivi al termine dì svolgi-

mento della funzione (il pantoufl age), il periodo di raffreddamento che abbiamo indicato in un anno per la generalità dei dipendenti deve essere congruamente ampliato (tre anni) per i dirigenti.

Non si pongono, infi ne, particolare problemi di rientro in am-ministrazione, dal momento che l’incarico è di natura esclusiva-mente professionale. Il dirigente, dopo il periodo di svolgimento dell’incarico, può senza limitazioni passare ad altri incarichi (nel-la stessa amministrazione o in altre) ovvero a compiti di staff. Di-verso il caso del dirigente che rientri nell’amministrazione dopo aver svolto un incarico di natura politica o fi duciaria (casi trattati nei relativi contributi).

(4) Si veda il contributo di G. Sirianni, in questo volume.

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Francesco Merloni

I SOGGETTI CON INCARICO FIDUCIARIO

1. IntroduzioneNell’ampia categoria intermedia tra gli organi politici e i fun-

zionari professionali, che defi niamo come i soggetti con incarico fi -duciario, l’analisi ravvicinata dello status giuridico è qui articolata per tre sottocategorie, individuate in relazione ai contenuti delle funzioni svolte, in qualche caso di supporto alle decisioni degli organi di indirizzo politico, in altri casi di svolgimento di funzioni di carattere gestionale. Queste sottocategorie sono:

a) i componenti degli uffi ci di diretta collaborazione, che com-

prendono oltre alle segreterie e ai gabinetti, anche tutte le fun-zioni di staff, svolte individualmente (consulenti) o in strutture (commissioni, gruppi di lavoro);

b) i soggetti con incarico fi duciario amministrativo di vertice, quali i segretari generali dei ministeri, i capo di dipartimento, i direttori generali di ente pubblico o di Regioni, enti locali o enti regionali e locali;

c) i soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto profes-sionale, quali i direttori, generali, amministrativi e sanitari delle Asl, i direttori delle Agenzie, gli amministratori di enti pubblici (nazionali, regionali e locali), gli amministratori di designazio-ne pubblica nelle S.p.a. in controllo pubblico.

Per tutte queste categorie, come è noto, si è adottata la fi gura del funzionario onorario, analoga a quella del funzionario pro-fessionale, ma da essa distante per l’assenza di un sottostante rapporto di lavoro esclusivo. Per defi nire le nostre proposte si opererà per differenza rispetto a quanto previsto per i funzionari professionali, in particolare per i dirigenti.

2. I componenti degli uffi ci di diretta collaborazioneNegli uffi ci di diretta collaborazione la fi gura del capo dell’uf-

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fi cio assume una rilevanza particolare e quindi, nella misura del possibile, si cercherà di distinguere questa posizione da quella degli altri addetti agli uffi ci.

Per quanto riguarda l’accesso alla funzione, trascurati gli aspetti di accesso alla carriera e di progressione in carriera, perché spes-so gli incarichi fi duciari sono conferiti a soggetti non provenienti dalla carriera dirigenziale, si tratta di esaminare con cura i profi li relativi al conferimento dell’incarico.

In generale questi incarichi, anche se la legge esclude lo svol-gimento di compiti di coordinamento della dirigenza o la diretta intromissione nelle decisioni riservate ai dirigenti professionali, hanno una notevole rilevanza se non altro sullo svolgimento dei compiti di indirizzo politico (si pensi alla predisposizioni di disegni di legge o alla individuazione degli obiettivi per l’azione dei diri-genti) che possono incidere signifi cativamente su interessi pubbli-ci e privati, non dovrebbero essere conferiti a persone che abbiano particolari e specifi ci interessi economici, che abbiano cioè avuto nei tre anni precedenti, incarichi o cariche in imprese sottoposte a regolazione o a contribuzione economica da parte dell’ammini-strazione (nel suo insieme, senza distinzione di settori o uffi ci).

L’appartenenza politica di per sé non dovrebbe costituire un ostacolo, dal momento che l’incarico ha carattere fi duciario. Non sembra necessario porre limiti in relazione ad incarichi pubblici elettivi o ad incarichi sindacali. Restano però importanti profi li di imparzialità, non solo nel periodo di svolgimento dell’incarico, ma soprattutto nel momento di rientro nell’amministrazione di appartenenza.

Per quanto riguarda i magistrati amministrativi e contabili ai quali spesso questi incarichi sono conferiti, occorre prevedere il collocamento fuori ruolo (1) come obbligatorio, ma solo per incari-chi di capo dell’uffi cio. In ogni caso, per tutti i magistrati ammini-strativi va introdotto il limite di massimo cinque anni di incarichi di carattere fi duciario ogni dieci anni.

(1) Questione connessa, ma diversa è, dal punto di vista del funzionamento effi ciente delle magistrature interessate, se non sia opportuno predeterminare un limite al contingente di personale di magistratura amministrativa collocabile fuori ruolo: nel tempo il limite si è molto ampliato.

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Quanto ai requisiti e al procedimento di conferimento, i primi possono essere predeterminato solo se si procede ad una selezio-ne per la individuazione del candidato (nel caso, più frequente, di nomina diretta, prevale il carattere fi duciario del rapporto).

Qualche maggiore limite può essere posto per il procedimento di nomina almeno sotto il profi lo della trasparenza: si può pensa-re alla necessaria pubblicità da dare all’incarico, da adottarsi con atto motivato (durata e retribuzione), alla persona dell’incaricato (pubblicazione del curriculum vitae e della situazione patrimonia-le). Questa pubblicità deve essere assicurata da parte degli organi nominanti, alla generalità dei cittadini, ma in modo particolare alle assemblee elettive.

Quanto allo svolgimento della funzione, la questione della du-rata si pone in modo diverso rispetto ai funzionari professionali. La durata dell’incarico non può che esser coincidente, al mas-simo, con quella del mandato dell’organo politico che nomina, con decadenza automatica (spoils system). Anche la revoca è ad nutum, con atto che può essere motivato anche con il semplice venir meno della fi ducia.

Per la compatibilità con altri incarichi, presso soggetti pubblici e privati, si tratta, evidentemente di incarichi che possono esse-re attribuiti nel corso dello svolgimento dell’incarico. Da vietare incarichi presso imprese private che abbiano rapporti con l’am-ministrazione, da limitare al massimo le autorizzazioni a svolgere altri incarichi (qui prevale il profi lo della garanzia della prestazio-ne lavorativa, questi incarichi, che sottraggono i destinatari da im-portanti funzioni, presuppongono, anche se non si stabilisce un sottostante rapporto di lavoro esclusivo, una dedicazione piena allo svolgimento dei compiti). In realtà, in tema di autorizzazione ad incarichi esterni il discorso vale per gli addetti agli uffi ci di diretta collaborazione, non per i relativi capi, per i quali l’unico organo cui affi dare il potere di autorizzazione sarebbe quello po-litico. Si tratta di una soluzione da scartare. Per i capi non resta che la via della predeterminazione degli incarichi consentiti e di quelli vietati.

Lo svolgimento di incarichi elettivi minori o di cariche poli-tiche non è di per sé in contrasto con le funzioni degli addetti agli uffi ci di diretta collaborazione, anche se qualche limite deriva

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dall’appartenenza eventuale di questi soggetti alla magistratura, amministrativa o contabile.

Per gli incarichi relativi a uffi ci di diretta collaborazione non si propongono particolari cause di ineleggibilità/incandidabilità, salvo forse qualche ipotesi di «raffreddamento» tra la fi ne dell’in-carico e la candidatura.

Per il confl itto di interessi in senso stretto non sembrano es-servi profi li specifi ci per i membri degli uffi ci di diretta collabo-razione.

Poiché questi funzionari, nonostante il carattere fi duciario e spesso apertamente «politico» dell’incarico, partecipano, da vici-no, allo svolgimento di funzioni pubbliche, ad essi si deve ritenere incombano i doveri di comportamento in via generale stabiliti per i dipendenti pubblici (e in via speciale per i dirigenti). Il maggiore ostacolo in questa direzione è rappresentato dall’assenza di un rapporto di lavoro sottostante con l’amministrazione, che impe-disce sia l’estensione a queste fi gure dei doveri che l’attivazione di una responsabilità disciplinare. Ma anche nei casi in cui un rapporto venga stabilito, questo è fondato su un contratto parti-colare, con la seria diffi coltà ad applicare doveri e responsabilità disciplinare (2). Per superare queste diffi coltà ben può immagi-narsi una disposizione di legge che in via generale, in diretta ap-plicazione dei principi di disciplina e onore dell’articolo 54 della Costituzione (3), estenda ai funzionari «fi duciari», abbiano essi lo status di funzionari professionali o di funzionari onorari, gli stessi doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio, fi ssati per i funzionari professionali (per i dirigenti). In questo modo (o con soluzioni analoghe) si darebbe ai doveri di comportamento un valore pienamente giuridico e attivale in termini di responsabilità disciplinare, anche se per questa qualche diffi coltà si ritrova nella

(2) Sui doveri di comportamento e la responsabilità disciplinare dei soggetti con incarico fi duciario si veda F. Merloni, «L’etica dei soggetti con incarico fi -duciario», in F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, Milano, Franco Angeli, 2009, 88-107.

(3) Da ricordare anche la posizione di R. Cavallo Perin, «L’etica pubblica come contenuto di un diritto degli amministrati alla correttezza dei funzionari», in F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), op. cit., 147-161, che ritiene l’art. 58 direttamente applicabile.

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individuazione dell’organo competente all’accertamento dei com-portamenti devianti e alla irrogazione delle sanzioni. Nel rappor-to tra organo politico e addetti agli uffi ci di diretta collaborazione (compresi i consulenti) tali compiti spetterebbero evidentemente all’organo politico nominante, che ha a disposizione, come «san-zione», lo strumento della revoca. Il compimento di atti contrari a doveri fi ssati per legge rientrerebbe (salvo il compimento di veri reati) nella rottura del rapporto fi duciario.

In ogni caso, a colmare gli eventuali vuoti di risposta in termini strettamente giuridici, resta sempre di grande utilità fare uso di codici etici (si veda l’esempio dei codici di condotta britannici per gli special advisors), rimessi all’applicazione degli stessi interessati e degli organi politici.

Quanto agli incarichi successivi al termine di svolgimento della funzione, per il pantoufl age si tratta di assicurare una immagine di imparzialità anche a questi soggetti soprattutto se, per i com-piti loro affi dati, essi possono incidere signifi cativamente, in via diretta (con atti immediatamente incidenti) o indirettamente (con atti di indirizzo per l’azione dei dirigenti) su interessi pubblici o privati. Anche in questo caso un adeguato periodo di raffredda-mento (almeno tre anni) prima di assumere cariche in imprese private è opportuno.

Particolarmente delicato, come si è visto, il tema del rientro nell’amministrazione.

I capi degli uffi ci di diretta collaborazione, se dirigenti, non possono essere nominati dirigenti, nella stessa amministrazione, per compiti operativi o di gestione per almeno due anni dalla cessazione dell’incarico (vanno in staff). Se magistrati, al rientro, sono addetti per almeno due anni a funzioni non attinenti alle materie trattate durante l’incarico (in rapporto all’articolazione delle materie delle sezioni giurisdizionali e consultive).

3. I soggetti con incarico fi duciario amministrativo di verticeProcediamo per differenza con la categoria appena esaminata.

I soggetti di cui qui ci occupiamo hanno un incarico sicuramente fi duciario, ma è legittima una maggiore aspettativa di imparzialità nell’esercizio di compiti che sono particolarmente delicati. Qui

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l’interazione con l’amministrazione, cioè con i dirigenti è sicura e particolarmente intensa, con rischi di vera e propria intromissio-ne nelle decisioni riservate alla dirigenza.

Quanto alle cause di non conferimento dell’incarico, oltre alla titolarità di interessi in imprese private cha abbiano avuto, nei tre anni precedenti, o abbiano rapporti con l’amministrazione (nel suo insieme) qualche limitazione deve essere posta nei rapporti con la politica, sia per quanto riguarda le cariche elettive che per le cariche nei partiti politici (in essere o ricoperte nei tre anni precedenti). Limiti vanno posti, in considerazione degli specifi ci compiti affi dati anche in rapporto alle cariche sindacali (in essere o ricoperte nei tre anni precedenti).

Quanto ai requisiti e al procedimento di conferimento, per i primi è necessario predeterminarne alcuni (per esempio l’appar-tenenza a categorie predeterminate, quali: magistrati, professori universitari, dirigenti pubblici e privati con anzianità e esperienza pregressa minima) perché, se l’incarico resta di tipo fi duciario, esso ha, rispetto alla prima sottocategoria, un contenuto più pro-fessionale (sicuramente sotto il profi lo manageriale); per il secon-do è necessaria almeno la piena trasparenza sull’intera procedu-ra: pubblicità da dare all’incarico, da adottarsi con atto motivato (durata e retribuzione), alla persona dell’incaricato (pubblicazio-ne del curriculum vitae e della situazione patrimoniale), da assi-curare alla generalità dei cittadini, ma in modo particolare alle assemblee elettive.

Quanto allo svolgimento della funzione, per la durata vale lo stesso principio già espresso: durata coincidente, al massimo, con quella del mandato dell’organo politico che nomina, con deca-denza automatica (spoils system). La revoca è ad nutum, con atto che può essere motivato anche con il semplice venir meno della fi ducia.

Per la compatibilità con altri incarichi, pubblici e privati, val-gono considerazioni analoghe alla sottocategoria precedente: vietati gli incarichi presso imprese private che abbiano rapporti con l’amministrazione, escluso il meccanismo di autorizzazione che andrebbe posto in capo all’organo politico nominante con un grave stravolgimento dei rapporti. Anche per gli incarichi am-ministrativi di vertice lo svolgimento di incarichi elettivi mino-

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ri o l’assunzione di cariche politiche o sindacali non è di per sé in contrasto con le funzioni affi date, anche se qualche maggiore cautela deve essere posta proprio in considerazione dei compiti svolti, che spesso interferiscono con l’azione amministrativa dei dirigenti e richiedono un tasso maggiore di imparzialità.

Per questi incarichi non si pongono particolari cause di ineleg-gibilità/incandidabilità, salvo forse qualche ipotesi di «raffredda-mento» tra la fi ne dell’incarico e la candidatura.

Per il confl itto di interessi in senso stretto la posizione dei sog-getti con incarico amministrativo di vertice è particolare: raramen-te essi saranno chiamati ad adottare in proprio atti che possano incidere su interessi, siano essi atti degli organi di indirizzo o atti degli organi di gestione. Ma il ruolo di queste fi gure è rilevante quanto a potere di infl uenzare le scelte dell’amministrazione. Gli obblighi riguardano, quindi soprattutto la dichiarazione di una eventuale situazione di confl itto. Quanto agli obblighi di astensio-ne, più che la mancata partecipazione alle riunioni nelle quali gli atti sono adottati, si tratta di fi ssare un generale dovere di astener-si da qualunque comportamento che possa essere collegabile agli interessi di cui si è titolare.

Sull’estensione dei doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio, anche a questi funzionari, nonostante il carattere fi duciario dell’incarico (anche se meno apertamente «politico» della precedente sottocategoria) valgono le considerazioni già esposte al punto precedente: estensione dei doveri dei dirigenti professionali per legge o con gli atti di organizzazione generale dell’amministrazione interessata (il regolamento di organizzazio-ne di un ministero o di un’amministrazione locale, ad esempio) e previsione di una responsabilità disciplinare attivabile soprattut-to in termini di revoca dall’incarico da parte dell’organo politico nominante. In ogni caso resta l’utilità di fare uso di codici etici (appositi codici etici o i codici etici della dirigenza professionale), sul rispetto dei quali debba vigilare l’organo politico nominante, che ha a disposizione, come «sanzione», soprattutto lo strumento della revoca.

Per il pantoufl age i rischi sono più rilevanti. Si tratta di soggetti che, per le loro competenze professionali, si direbbe normalmen-te, transitano dal settore pubblico al settore privato, in generale

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per apportarvi le proprie capacità di gestione manageriale di rile-vanti complessi organizzativi. Particolarmente lungo deve essere pertanto il periodo di raffreddamento (cinque anni dalla cessa-zione del servizio) prima che da un’amministrazione pubblica si possa assumere incarichi in imprese private sottoposte a poteri di regolazione o di contribuzione economica da parte dell’ammini-strazione.

Altrettanta attenzione deve essere posta al rientro nell’ammini-strazione. Se dirigenti, a questi soggetti non possono essere con-feriti incarichi dirigenziali operativi e di gestione nella stessa am-ministrazione per almeno due anni dalla cessazione dell’incarico. Naturalmente questo limite non ha senso se si rientra in un’am-ministrazione diversa.

4. I soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto profes-sionaleQuesta terza sottocategoria, presenta tratti di ulteriore dif-

ferenziazione rispetto alle altre. I soggetti cui sono conferiti gli incarichi sono soprattutto scelti in base alla loro competenza professionale. Il loro mandato è conferito da organi politici, ma non sulla base di un rapporto fi duciario di tipo politico, bensì professionale. Il prescelto è colui che dà le maggiori garanzie del raggiungimento degli obiettivi. La disciplina del loro status deve essere particolarmente mirata in rapporto alla natura dei compiti affi dati. Questi compiti sono, molto spesso (a differenza delle due sottocategorie precedenti) di tipo gestionale, pienamente assimi-labili alla posizione dei dirigenti professionali nelle amministra-zioni pubbliche.

Le discipline che qui si sono ipotizzate sono tutte di natura pubblicistica. Nelle pubbliche amministrazioni ciò può porre qualche problema nel rapporto con le discipline privatistiche del rapporto di lavoro, ma si tratta di diffi coltà superabili, poiché siamo sempre in presenza di limiti, di diritto pubblico, che con-cernono l’esercizio delle funzioni pubbliche (non la prestazione lavorativa).

Nella sottocategoria che ora passiamo ad esaminare troviamo soggetti che svolgono i loro incarichi in strutture dalla incerta

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natura giuridica. Se per le Asl, nonostante diversi elementi della vigente disciplina legislativa, si può concludere che siamo in pre-senza di enti pubblici (anche se molto speciali), non altrettanto si può dire per gli amministratori delle società in controllo pubbli-co, che restano soggetti di diritto privato, anche se affi datari di compiti connessi al raggiungimento di fi nalità di pubblico inte-resse (si pensi ai casi delle società affi datarie di servizi pubblici).

Nelle pagine seguenti si opererà in questo modo: per gli enti pubblici (Asl, Agenzie, enti pubblici economici) si seguirà lo schema di base, mentre per le società in controllo pubblico ci si limiterà alla disciplina del conferimento dell’incarico. In questo modo non si ipotizzano normative invasive dell’autonomia priva-ta delle società, ma solo regole sul conferimento dell’incarico, da porre in capo alle amministrazioni (e ai loro organi politici) che hanno il relativo potere.

Quanto all’accesso alla funzione, qui rilevano solo le eventuali cause di non conferibilità dell’incarico.

Sono da ritenersi non nominabili a queste cariche coloro che abbiano la proprietà o il controllo di imprese (in proprio o attra-verso coniuge e stretti familiari) ovvero che abbiano svolto, nei tre anni precedenti, incarichi o cariche in imprese private che ab-biano avuto o abbiano rapporti con l’ente o la società in controllo pubblico che deve conferire l’incarico; lo stesso divieto di con-ferimento riguarda coloro che abbiano svolto, nei tre anni prece-denti, cariche o incarichi pubblici elettivi o di carattere politico e fi duciario o siano stati, nei tre anni precedenti, candidati non eletti a cariche o incarichi pubblici elettivi, ovvero abbiano ricoperto, nei tre anni precedenti, cariche direttive in partiti politici.

Anche l’aver svolto, nei tre anni precedenti, cariche sindacali nello stesso ente preclude il conferimento dell’incarico.

L’indipendenza rispetto ad interessi economici che possono infl uenzare impropriamente l’esercizio delle funzioni pubbliche esercitate da queste amministrazione è un bene da tutelare, an-che rispetto agli amministratori di società in controllo pubblico. Non si dimentichi che queste società sono, dal punto di vista della disciplina comunitaria sui contratti pubblici, organismi di dirit-to pubblico tenuti alla scelta dei contraenti mediante procedure competitive.

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Anche la indipendenza rispetto alle appartenenze politiche è indispensabile. Qui non c’è solo da garantire la imparzialità nel-lo svolgimento di funzioni gestionali, ma occorre rompere la co-stante interconnessione tra mondo politico e sistema degli enti e delle imprese pubbliche. Se un soggetto ha svolto cariche politi-che (elettive o nei partiti) deve attendere un congruo periodo di raffreddamento prima di passare ad incarichi gestionali che com-portano l’essere e l’apparire imparziali. I settori della sanità e dei servizi pubblici (specie locali) sono quelli in cui si verifi cano i più vasti fenomeni corruttivi, grazie alla piena permeabilità che oggi caratterizza i rapporti tra i due settori.

Quanto ai requisiti e al procedimento di conferimento le con-siderazioni avanzate per la precedente sottocategoria valgono, rafforzate, per questa: l’incarico non può che essere conferito a persone che abbiano dei precisi requisiti professionali, in rap-porto ai compiti da svolgere. Tali requisiti devono esser prede-terminati nelle discipline sul conferimento dell’incarico. Qui si deve poi prevedere una procedura selettiva aperta, con un bando, con la presentazione dei curricula, con la valutazione dei candida-ti anche mediante colloqui pubblici, da parte di commissioni di selezione composte da esperti e tecnici, con l’esclusione di rap-presentanti politici e sindacali (come per i concorsi pubblici). La decisione fi nale deve essere lasciata agli organi politici, perché spetta ad essi comporre la verifi ca dei requisiti di partecipazione alla selezione e la valutazione delle competenze professionali con una quota residua di «fi duciarietà», ma sulla base di rose pro-poste dalle commissioni tecniche di selezione. Alla procedura si applicano, ovviamente, tutte le regole di trasparenza già più volte indicate: pubblicità da dare all’incarico, da adottarsi con atto mo-tivato (durata e retribuzione), alla persona dell’incaricato (pub-blicazione del curriculum vitae e della situazione patrimoniale), da assicurare alla generalità dei cittadini, ma in modo particolare alle assemblee elettive.

Quanto allo svolgimento della funzione, per la durata, visto il contenuto prevalentemente professionale dell’incarico (e il carat-tere professionale della fi ducia riposta nel nominato), la durata deve essere indipendente da quella dell’organo politico nominan-te. È in ogni caso esclusa la decadenza automatica (niente spoils

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system). Può essere prevista una revoca anticipata, con atto mo-tivato, fondato sul mancato raggiungimento degli obiettivi o su gravi irregolarità nello svolgimento dell’incarico. Il venir meno della fi ducia politica non è suffi ciente.

Per la compatibilità con altri incarichi, pubblici e privati è da seguirsi l’unica strada già indicata per le sottocategorie prece-denti: la predeterminazione degli incarichi consentiti e di quelli vietati. In questi casi, infatti, che si tratti di enti pubblici o di società private in controllo pubblico non è pensabile che l’organo politico che ha conferito l’incarico, che tra l’altro opera in altra sede e non a diretto contatto con l’interessato possa autorizzare di volta in volta l’attribuzione di incarichi esterni. Nell’opera di predeterminazione vanno quindi esclusi sia gli incarichi e le ca-riche in imprese private che abbiano regolari rapporti con l’ente o la società in cui si opera, sia gli incarichi pubblici elettivi, gli incarichi direttivi in partiti politici.

In materia di ineleggibilità/incandidabilità esistono già delle li-mitazioni con riferimento ai soli direttori generali, amministrativi e sanitari delle Asl. Poiché la ratio è comune all’intera sottocate-goria queste limitazioni possono essere estese a tutti i soggetti qui considerati che pertanto non sarebbero eleggibili al Parlamento nazionale (per tre anni dal termine dell’incarico), al Consiglio regionale, provinciale, comunale, e di loro forme associative nel territorio delle Asl o dell’ente o della Spa (per tre anni dal termine dell’incarico).

Per il confl itto di interessi in senso stretto la posizione dei sog-getti con incarico amministrativo di vertice è totalmente diver-sa da quelle precedenti. Si tratta di soggetti titolari di funzioni pubbliche di gestione (negli enti pubblici) ovvero di compiti ge-stionali privati, ma che incidono sulla cura di interessi pubblici (nelle società private in controllo pubblico affi datarie di servizi pubblici).

Gli obblighi di dichiarazione e di astensione, da ritenersi parti-colarmente signifi cativi per soggetti che hanno un rilevantissimo potere decisionale, diretto e indiretto, incombono sicuramente negli enti pubblici, accompagnati dal principio di nullità degli atti adottati in violazione. Nelle società private è da ritenersi ap-plicabile la disciplina del codice civile in materia di confl itto di

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interessi degli amministratori (art. 2391 c.c.) che può condurre alla invalidazione delle deliberazioni cui si sia partecipato. Nulla impedisce che la notizia del compimento da parte degli ammini-stratori della società di atti in confl itto di interessi possa dar luogo all’esercizio dei poteri di rimozione anticipata dalla carica da par-te dell’assemblea (nel nostro caso da parte dell’amministrazione nominante). In entrambe i casi la constatazione di una situazione di confl itto di interesse deve condurre ad un generale dovere di astenersi da qualunque comportamento che possa essere collega-bile agli interessi di cui si è titolare.

I doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio, incom-bono anche su questi funzionari, sicuramente negli enti pubblici. In questi ultimi, però, appare diffi cile attivare una vera e propria responsabilità disciplinare, vista la distanza l’organo politico che ha conferito l’incarico e l’ente nel quale il soggetto fi duciario svol-ge funzioni apicali. Nello stesso ente, quindi è diffi cile individua-re il soggetto che possa avviare un procedimento di accertamento delle violazioni ai doveri e di irrogazione delle sanzioni.

Nelle società private in controllo pubblico è diffi cile anche solo ipotizzare dei doveri di comportamento diversi da quelli che in-combono sugli amministratori secondo il codice civile.

In ogni caso resta l’utilità di fare uso di codici etici (appositi co-dici etici o i codici etici dettati per la dirigenza professionale delle amministrazioni pubbliche). Qui, però, a differenza dei dirigenti, l’accertamento delle eventuali violazioni spetta all’organo politico nominante, che ha a disposizione, come «sanzione», soprattutto lo strumento della revoca.

Per quel che riguarda gli incarichi successivi al termine di svol-gimento della funzione, sicuramente ci sono rischi di fenomeni di pantoufl age per i soggetti che svolgono i loro incarichi in enti pub-blici, in considerazione dei rilevanti poteri di cui godono (si pensi a un D.G. di Asl o a un Direttore di un’agenzia fi scale). Qui il periodo di raffreddamento, prima di assumere incarichi o cariche in imprese che abbiano avuto nel periodo dell’incarico rapporti con l’ente dovrebbe essere sicuramente lungo (cinque anni dalla cessazione dell’incarico).

Nelle imprese private in controllo pubblico il divieto andreb-be limitato a quelle sole imprese che abbiano partecipato a gare

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per l’affi damento, da parte della società «pubblica», di contratti pubblici.

Per quel che riguarda, infi ne, il rientro nell’amministrazione oc-corre distinguere tra il rientro, con compiti gestionali, nella stessa amministrazione o in altre amministrazioni. Per la prima qualche limite appare opportuno, non tanto per aver svolto un incarico di carattere fi duciario. Si è già illustrato il carattere non politico, ma professionale di questa fi duciarietà; il rientro nell’ammini-strazione non fa sorgere dubbi sulla imparzialità del funziona-rio. L’unico motivo di opportunità sta nell’aver svolto compiti di sovraordinazione diretta rispetto a dirigenti tra i quali si rientra per collaborare su una base paritaria. Meglio, in questi casi, un periodo, sia pur breve (un anno) di raffreddamento in una diversa amministrazione. Se il rientro avviene in amministrazioni diverse da quella in cui si è svolto l’incarico non vi sono motivi per intro-durre limitazioni.

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Benedetto Ponti

I COMPONENTI DELLE AUTORITÀAMMINISTRATIVE INDIPENDENTI

1. I componenti degli organi di verticeÈ ricorrente, sia nel dibattito scientifi co sia sul piano della

concreta proposta legislativa (1), l’opzione per un intervento di riforma di carattere sistematico, che dovrebbe coinvolgere tutte (o quasi) le amministrazioni indipendenti, al fi ne di uniformarne i caratteri «strutturali», ritenuti troppo diseguali e disallineati nel-l’esperienza positiva, tali cioè da non garantire adeguatamente la posizione di indipendenza che dovrebbe invece – secondo queste proposte – caratterizzare (assimilandole) la posizione delle varie autorità. Le rifl essioni e le proposte che seguono non intendono prendere posizione sulla opportunità o meno di un intervento si-stematico ed unifi cante (a volte, ma non sempre accompagnato dalla asserita necessità di fornire una «copertura» costituzionale alla fi gura istituzionale delle authorities), anche perché non vanno nemmeno sottovalutate le obiezioni di coloro che in questi tenta-tivi di «uniformazione» dello statuto delle autorità hanno anche intravisto il rischio di una menomazione o «normalizzazione» dei caratteri dell’indipendenza, in modo particolare nei confronti dell’esecutivo (2). Pertanto, ci limiteremo a ragionare sulle misu-re utili a rinforzare o completare le garanzie dell’indipendenza «soggettiva» dei componenti delle autorità, quale misura precau-zionale essenziale per impedire rapporti falsati e non trasparenti (quando non patologici) con i diversi interessi coinvolti (politici, burocratici, economici e sociali), senza che tali proposte debbano necessariamente tradursi (in tutti i casi) in interventi organici e di carattere sistematico, anche se ciò resta comunque possibile (ed

(1) Ad esempio, si v. il d.d.l. di riordino delle Autorità indipendenti predispo-sto dal Governo nel corso della XV legislatura (A.S. 1366).

(2) Si professa favorevole ad un approccio riformatore sistematico e «di qua-dro», evidenziandone i difetti ed i pericoli, M. D’Alberti, «Il valore dell’indipen-denza», in Astrid, Arbitri dei mercati, Le Autorità indipendenti e l’economia, a cura di M. D’Alberti, A. Pajno, Bologna, il Mulino, 2010.

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in certi casi, condivisibile, come la recente esperienza positiva sta a dimostrare (3)).

Quanto all’accesso alla funzione, la problematica attiene so-stanzialmente ai criteri ed alle modalità con le quali procedere alla individuazione ed alla nomina dei componenti delle autorità. Un primo elemento riguarda la declinazione dei requisiti etici e professionali indispensabili per l’accesso alla carica. Dal punto di vista etico, la normativa fa spesso riferimento al requisito della «notoria» o «indiscussa» indipendenza: tale proclamazione, se è utile a livello sistematico anche a fi ni di inquadramento istituzio-nale delle fattispecie, lo è assai meno in termini selettivi, dato che è assai arduo (se non concretamente impossibile) il sindacato su di una attitudine etico-morale (l’indipendenza) che appartiene essenzialmente al foro interno della persona (4). Sul fronte dei re-quisiti professionali, invece, è possibile fare molto di più, anche in considerazione del fatto che le attuali formulazioni legislative (nell’interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza) lasciano troppo spazio alla discrezionalità (all’arbitrio?) dei soggetti no-minanti. Da questo punto di vista, si tratta di riformulare i cri-teri in maniera tale da assicurarne ad essi un grado maggiore di cogenza e di vincolatività, tale da potersi tradurre (quantomeno nelle ipotesi di violazioni più gravi) anche in un sindacato ed in una censura di carattere giurisdizionale (ma anche, perché no?, in sede preventiva, magari introducendo un parere obbligatorio da parte di soggetti «terzi», quali la Corte costituzionale, il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, etc.).

Riguardo alle procedure di nomina, occorre superare tutte

(3) È il caso dell’art. 47-quater della l. 28 febbraio 2008, n. 31 – conversione in legge del d.l. 31 dicembre 2007, n. 2 – che ha esteso a sette anni la durata degli incarichi presso la Consob, il Garante per la protezione dei dati personali e l’Au-torità per la vigilanza sui contratti pubblici, e li ha resi non rinnovabili.

(4) Sulla riconducibilità dell’indipendenza personale alla classe dei fatti umani non manifestativi, e dunque sulla radicale inidoneità ad essere oggetto di mani-festazione/osservazione sociale e, quindi, di rilievo giuridico immediato, si v. B. Ponti, «La nozione di indipendenza nel diritto pubblico», in Diritto. Pubblico, 2006, in part. § n. 10; nello stesso senso R. Titomanlio, Autonomia ed indipen-denza delle authorities: profi li organizzativi, Milano, Giuffrè, 2000, 330, secondo il quale «è diffi cile trovare una defi nizione soddisfacente di indipendenza, in quanto essa si pone essenzialmente come requisito morale, diffi cilmente verifi cabile».

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quelle modalità (attualmente previste in una pluralità di ipote-si) che consentono ai partiti, o a parti politiche in coalizione, di individuare autonomamente una quota dei (quando non tutti i) componenti da nominare: l’intesa tra i Presidenti delle Camere; il voto limitato da parte delle assemblee, la scelta direttamente imputabile al Consiglio dei ministri o al suo Presidente. Si tratta, cioè, di introdurre modalità di nomina a dinamica non-partisan, ossia tale da costringere in ogni caso maggioranza ed opposizio-ne (o comunque un’amplissima maggioranza delle rappresentan-ze parlamentari) a trovare un accordo su ciascuna nomina, nella consapevolezza (tuttavia) che simili meccanismi (ad esempio, il parere vincolante da parte dei due terzi dei componenti di un collegio rappresentativo) possono disincentivare fortemente il prevalere di logiche spartitorie, ma non scongiurarle del tutto (di qui il ruolo della trasparenza, v. infra).

Quanto alla procedura, è essenziale, innanzitutto per il successo dei correttivi appena illustrati, che tutta la vicenda della proposta, selezione e successivamente della scelta dei soggetti da nominare si svolga nella più ampia e completa condizione di trasparenza. A cominciare dalla possibilità di avanzare candidature; alla audizio-ne pubblica dei candidati di fronte ai collegi titolari del potere so-stanziale di nomina (5); fi no alla massima pubblicità e diffusione da garantire ai curricula dei candidati. La trasparenza e la pubbli-cità della fase di nomina, così come della scelta effettuata a valle, sono essenziali per far sì che venga a maturazione (certamente ad un grado più elevato di quanto non avvenga oggi) la responsabi-lità giuridica e politica – di fronte all’opinione pubblica – per le nomine effettuate: ciò comporterebbe una maggiore responsabi-lizzazione in capo ai titolari del potere di nomina, così come una più forte ed autorevole investitura in capo ai soggetti nominati.

Quanto allo svolgimento della funzione, è ampiamente rico-nosciuta come preferibile una durata dell’incarico di almeno 7 anni, unitamente al divieto di rinnovo. Altro accorgimento, che consentirebbe di diluire ulteriormente il legame tra nominante e nominato, è quello di prevedere un meccanismo di ricambio

(5) Si v. ancora M. D’Alberti, Il valore dell’indipendenza, cit.

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parziale e progressivo dei componenti: ciò fi nirebbe per costrin-gere la maggioranza non-partisan ad accordarsi su pochi candida-ti ogni volta (scongiurando ulteriormente le logiche spartitorie); consentirebbe inoltre un rinnovo graduale nelle competenze e nelle professionalità, in modo da garantire anche la continuità e la funzionalità dell’organo (che invece possono venire a soffrire per effetto di rinnovi integrali delle cariche).

Con riferimento alle regole di incompatibilità con altri incarichi, occorre estendere in tutti i casi la più rigida incompatibilità con qualsiasi incarico retribuito, sia pubblico che privato; il divieto di accesso alla carica per coloro che abbiano ricoperto incarichi in partiti politici o cariche elettive quantomeno nel biennio preceden-te (nonché l’incompatibilità con tali incarichi durante il mandato).

Con particolare attenzione vanno poi calibrate le incompa-tibilità successive al mandato: ferma restando l’opportunità di estendere (ove possibile e ragionevole) le ipotesi di incompati-bilità successiva nel caso di incarichi o rapporti con imprese o soggetti direttamente coinvolti dall’esercizio delle funzioni (per almeno tre anni), occorre valutare anche l’ipotesi di includere nel divieto anche l’accesso a determinate cariche politiche di carat-tere elettivo. Il periodo di «raffreddamento» successivo alla sca-denza dell’incarico (almeno due anni) dovrebbe poi riguardare anche l’eventualità di un passaggio immediato ad un’altra autori-tà: sia per ovviare all’aggiramento delle ragioni che sconsigliano il rinnovo dell’incarico, sia per evitare il consolidarsi di «carriere» parallele (senza con ciò determinare inevitabilmente una disper-sione di esperienze nel frattempo maturate).

Quanto ai doveri di comportamento, si tratta di superare l’at-tuale frammentarietà ed incertezza che caratterizza il quadro dei doveri di carattere «etico» che gravano attualmente sui componen-ti delle autorità (per effetto dell’adozione di codici da parte delle medesime autorità (6)). Occorre, in questo senso, rendere obbliga-toria la adozione dei codici di comportamento, e giuridicamente vincolanti le relative prescrizioni, assistite da sanzioni effettive.

(6) Sul punto, si v. B. Ponti, «L’etica degli amministratori “indipendenti”», in F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, Roma, Franco Angeli, 2009, nonché in Astrid Rassegna, n. 6/2010.

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2. I funzionari addetti delle AutoritàSul fronte dei funzionari al servizio delle autorità, quanto all’ac-

cesso, al di là della regola del concorso (là spesso i funzionari sono in comando o in distacco), occorre prestare le dovute cautele nel caso di incarichi a tempo determinato ad «esterni», soprattutto in relazione alla provenienza degli incaricati (da imprese regolate; da amministrazioni vigilate, etc.).

Quanto alle incompatibilità ed al divieto di incarichi esterni, questi vanno calibrati e declinati con particolare attenzione alle funzioni esercitate, ed ai soggetti con i quali più o meno diretta-mente le autorità vengono in contatto.

Pari attenzione va posta alle regole relative al pantoufl age, per i periodi immediatamente successivi alla cessazione di un incarico, ovvero alla messa a riposo.

Sul fronte dei doveri di comportamento, la diffusione di codici di comportamento specifi ci adottati dalle diverse autorità va raf-forzata, sancendo la piena vincolatività delle relative prescrizioni per tutti i funzionari (a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro intrattenuto con l’autorità).

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Raffaele Sabato

I MAGISTRATI

1. Premessa: la diversità di problematiche per ciascuna magi-straturaUna rifl essione in ordine ai profi li di etica pubblica, in funzione

della prevenzione dei fenomeni corruttivi e di confl itto di interes-si, non può avere ad oggetto, ad un tempo ed entro un unico oriz-zonte giuridico-politico, tutte le magistrature del nostro Paese.

Le caratteristiche differenziali di ciascuna delle diverse magi-strature professionali, ordinaria e speciali, da un lato, e dall’al-tro dei magistrati onorari, quanto ai profi li – rilevanti per il tema deontologico – delle procedure di accesso alla funzione, dello svolgimento della «carriera», dei (più o meno intensi) controlli preventivi (di carattere autorizzativo) o successivi (di carattere disciplinare), dell’effettività di un’autoregolamentazione a mezzo di «codici etici» condivisi e delle prassi relative al disimpegno di incarichi successivi allo svolgimento della funzione impongono infatti, senza dubbio, trattazioni separate; ciò nell’attesa di un ef-fettivo avvicinamento di status tra le diverse magistrature a più riprese prospettato.

Ai magistrati onorari (1) ed alle magistrature speciali (2), il cui

(1) Trattasi di fi gure assai eterogenee, tutte astrattamente, e necessariamen-te, con funzioni ad tempus, prima tra esse quella dei giudici di pace (magistrati onorari questi oramai assai numerosi – più di quelli ordinari – che, in virtù di successive proroghe di funzioni, hanno visto un limitato ricambio); ma debbono aggiungersi ad essi i magistrati onorari di tribunale ed i vice procuratori onorari, i non togati chiamati ad integrare, come esperti, le sezioni specializzate agrarie, i tribunali dei minorenni, ed altri organi giudiziari specializzati; inoltre, devono ricordarsi i giudici onorari aggregati, che hanno costituito le c.d. sezioni «stral-cio» per la defi nizione dell’arretrato civile, sezioni queste in via di defi nitiva sop-pressione.

(2) Il complesso Consiglio di Stato-Tribunali amministrativi regionali, la Cor-te dei Conti (oggi operante su basi regionali) e gli organi di giustizia militare (in virtù di recente riforma ridimensionati, invece, nella loro articolazione territoria-le) sono le magistrature speciali che sono state espressamente conservate dalla Costituzione (artt. 103 e 125 Cost.). Accanto ad esse si pongono le Commissioni

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ordinamento invero pone problematiche più pregnanti ai fi ni che ne occupano, le quali depongono nel senso di riforme, non potrà essere dedicato, stanti i limiti della presente trattazione, altro che qualche breve cenno.

Sempre nei limiti del presente abbozzo di rifl essione, per quan-to riguarda la magistratura ordinaria, invece, si prenderà atto del-la sostanziale suffi cienza del quadro ordinamentale, per invocare un lavoro di revisione sulla normativa in tema di procedimento disciplinare e, in generale, sulla cultura deontologica della pro-fessione.

Sul tema dei «codici etici», infi ne, si tratteggeranno dei dati di carattere internazionale e comparatistico, utili a fondare future proposte.

2. La magistratura onorariaIn rapporto alle magistrature onorarie, le principali problema-

tiche si pongono, senza dubbio, in merito all’assetto del giudice di pace.

Dall’istituzione di tale magistratura onoraria – avvenuta in vir-tù della legge fondamentale n. 374 del 1991, attuata però solo nel 1995 quanto alla competenza civile, e seguita da decreto le-gislativo del 2000 n. 274 attuativo della competenza penale – il funzionamento della stessa è stato accompagnato, da un lato, da pressanti istanze di detta magistratura tese alla stabilizzazione, tradottesi in proroghe dei termini di durata massima degli incari-chi; dall’altro, da confl itti istituzionali con l’avvocatura, i cui orga-nismi hanno sovente posto in luce i profi li di criticità del quadro normativo in materia.

In estrema sintesi, gli aspetti maggiormente negativi sono rav-visati:

tributarie, oggetto di due principali riforme normative, che sopravvivono alla Costituzione in virtù di una interpretazione della VI disp. trans. Cost. secondo cui potrebbero essere tenute in vita, se adeguatamente revisionate, magistrature speciali costituite in epoca antecedente il 1948. A determinati fi ni, poi, può es-sere considerata magistratura speciale, pur se con sue peculiarità, l’Avvocatura dello Stato.

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– nel reclutamento – in virtù delle disposizioni dell’art. 4 della legge del 1991 – per soli titoli, senza alcuna forma di esame, attraverso un tirocinio di soli sei mesi, sotto la responsabilità di un unico magistrato affi datario;

– nell’abbassamento a soli 30 anni, ad opera di novellazione del 1999, della soglia di età prevista dall’art. 5 della legge del 1991 per la partecipazione al concorso, ciò che ha comportato una vera e propria «mutazione genetica» dell’originario profi lo di tale giudice non togato, dapprima giudice «della terza età», ciò che ne rafforzava le doti di imparzialità e di indipendenza eco-nomica rispetto allo svolgimento della funzione, oltre a garan-tirne una seppur generica esperienza professionale e una qual certa distanza dai ranghi dell’avvocatura; oggi, invece, talvolta anche proveniente dalle schiere di neo-laureati che non han-no potuto fruire di suffi ciente formazione sul campo, e quasi sempre – per il resto dei casi – avvocato non privo di un in-serimento sul territorio, in virtù, come si dirà subito, di labili incompatibilità;

– nella riduzione delle incompatibilità, dapprima alquanto rigo-rose, ad opera dell’art. 8 della legge del 1991, sempre a seguito della novella del 1999; in particolare, gli avvocati non possono esercitare le funzioni di giudice di pace nel solo circondario in cui esercitano la professione forense, ciò che però preclude ad essi, se iscritti ad altro albo, stante l’effi cacia nazionale del-l’iscrizione, di patrocinare nella zona, solo ciò essendo vietato dinanzi all’uffi cio cui sono addetti, e nei gradi superiori di giu-dizio dei processi iniziati in quell’uffi cio (v. co. 1-ter di detto art. 8);

– nel sistema di indennità – previsto dall’art. 11 di detta legge del 1991, e solo in parte rivisto – basato sul numero di provvedi-menti emessi (c.d. «cottimo» giudiziario);

– nell’esenzione dal pagamento del contributo unifi cato (per iscrizione a ruolo) per le cause di minore entità economica.

Il coacervo di tali aspetti ha dato luogo, in particolare nel me-ridione del Paese, a fenomeni di scarsa trasparenza nello svol-gimento delle funzioni del giudice di pace, con inchieste sia amministrative del Consiglio Superiore della Magistratura, sia

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penali da parte di più Procure della Repubblica. Tra gli altri, sono emersi fenomeni di:

– proposizione di cause, soprattutto seriali, in funzione della moltiplicazione delle indennità spettanti al giudice di pace, grazie anche all’esenzione – obiettivamente costituente un mo-ral hazard – delle cause di minor valore dal contributo unifi ca-to (3);

– frazionamento della domanda di giustizia in domande plurime, sia ai fi ni dell’incremento delle indennità ai giudici non pro-fessionali, sia ai fi ni della moltiplicazione delle spettanze dei difensori; il contenzioso separato ha dato luogo a «fi loni» di cause di minima entità soprattutto nei confronti della pubblica amministrazione, di aziende erogatrici di servizi pubblici, delle compagnie di assicurazioni, ecc.; il fenomeno è stato tanto rile-vante da dar luogo a interventi legislativi (4) ed alla statuizione, da parte delle sezioni unite della Cassazione, dell’abusività dei processi artatamente frazionati, da dichiararsi improcedibili anche nei gradi successivi (5);

– condotte, ritenute penalmente rilevanti, di interessi di giudici non togati in contenzioso da loro medesimi trattato e deciso, con aggiramento delle disposizioni in tema di incompatibilità.

(3) Dopo che la legge fi nanziaria per il 2005 aveva abolito l’esenzione per i procedimenti in equità (prevedendo però un solo simbolico contributo di euro 30, tuttora vigente), la legge 23 dicembre 2009, n. 191 (fi nanziaria per il 2010) all’art. 1, co. 212, ha previsto opportunamente l’abolizione dell’esenzione dei ricorsi al giudice di pace in materia di opposizione a sanzioni amministrative (per violazioni del codice della strada). Una proposta di rimodulazione del contributo con fi nalità anti-distorsive, alla luce di un’apposita analisi economico-giuridica, potrebbe formare oggetto di ulteriore studio.

(4) Può ricordarsi, in proposito, la modifi ca introdotta al co. 2 dell’art. 113 c.p.c. ad opera del decreto-legge n. 18 del 2003 (c.d. «salvacompagnie») teso a sottrarre al giudizio di equità, rendendo dunque appellabili le decisioni, all’epo-ca solo suscettibili di cassazione, le cause aventi ad oggetto contratti di massa, ed in particolare quelli assicurativi; e la modifi ca dell’art. 151 disp. att. c.p.c., ad opera del decreto legislativo n. 40 del 2006, nel senso di imporre ai giudici di pace come obbligatoria la riunione della cause anche riguardanti solo le medesi-me questioni; di tale norma sarebbe da valutarsi l’effettiva attuazione.

(5) V. Cass. SS.UU. n. 23726 del 15 novembre 2007, con statuizione ribadita, a sezione semplice, da Cass. n. 24539 del 20 novembre 2009 e, a Sezioni Unite, da Cass. n. 26961 del 22 dicembre 2009.

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Andrebbe altresì approfondito, nella sua natura ed entità, il fenomeno della formazione di una vera e propria «giurisprudenza separata» del giudice non togato, in opposizione talvolta concla-mata con principi interpretativi consolidati o comunque diffusi, soprattutto in occasione di contenzioso seriale, in quanto tale dante luogo all’erogazione di cospicue indennità a favore dei giu-dicanti, contenzioso che avrebbe visto meno chances di sviluppo in caso di adozione di indirizzi giurisprudenziali diversi.

Le proposte da formularsi al riguardo, e che non possono svilupparsi adeguatamente, dovrebbero muovere nel senso di eliminare ogni profi lo di rischio morale insito nell’attuale siste-ma, attraverso un integrale ripensamento della giustizia di pace, che non dovrebbe più svolgersi – come in atto – in uffi ci separati dai Tribunali, sotto il coordinamento di un magistrato anch’egli onorario ed una solo blanda sorveglianza del Presidente del Tri-bunale, ma inserirsi – in futuro – in una visione di un «uffi cio del giudice» composto da un magistrato togato, che ne avrebbe la responsabilità, e di uno o più referendari, anche onorari, cui verrebbe affi dato il contenzioso più semplice, con rigide incom-patibilità e con indennità fi sse, salvo il controllo di produttività successivo. Un progetto del genere, a costi assai limitati, potrebbe essere avviato attraverso una fusione nei Tribunali degli attuali uffi ci dei giudici di pace, nel contesto di una razionalizzazione della distribuzione territoriale che anch’essa potrebbe accrescere la trasparenza, rendendo meglio comparabili i prodotti giurispru-denziali dal punto di vista qualitativo e quantitativo.

Quanto all’accesso alle funzioni, la procedura di reclutamen-to (al pari di quelle relative agli altri magistrati onorari di cui, per brevità, non è qui possibile occuparsi) appare eccessivamente localistica (traducendosi in un parere del Consiglio giudiziario del distretto, valutatore non distante dall’ambiente da cui pro-mana l’istanza dell’interessato, normalmente un avvocato o un ex funzionario, cui il Consiglio Superiore della Magistratura nella massima parte dei casi si adegua), nonché troppo fondata sui soli titoli (posto che l’effi cacia selettiva del tirocinio è assai ridotta). Potrebbe, sull’argomento, pensarsi ad una procedura abilitativa nazionale, anche sulla base di test selettivi, ed ad un colloquio concorsuale in sede locale, che responsabilizzi gli stessi magistrati

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togati cui i «referendari» dovrebbero affi ancarsi; linee operative, queste, che del resto sono seguite in numerosi Paesi esteri (6).

Analoghe criticità si riscontrano nei procedimenti disciplinari, svolti innanzi ai locali Consigli giudiziari e solo formalmente re-cepiti dal CSM.

3. Le magistrature specialiL’argomento della prevenzione di confl itti di interessi e dell’in-

centivazione di comportamenti corretti in riferimento alla posi-zione delle magistrature speciali è tra i più delicati, in funzione delle alte funzioni affi date, in particolare, al Consiglio di Stato ed alla Corte dei Conti. La posizione di imparzialità e di trasparenza di tali magistrature speciali, dunque, non può essere affrontata con piglio esclusivamente giornalistico (7); neppure, però, può sottacersi che

tradizionalmente proprio su questi due organi si appunt[ino] i so-spetti (se non di dipendenza, certo) di legami molto stretti con i vertici del potere esecutivo, anche a cagione della tradizione storica dei due istituti, di cui è rimasta traccia nella nomina governativa di una parte dei loro componenti (8).

La riforma di cui alla legge n. 205 del 2000 ha – al fi ne di accre-scere l’indipendenza della giurisdizione del complesso Consiglio

(6) Sul punto, si v. il § 65 del Parere n. 6 (2004) del Consiglio consultivo dei Giudici europei (CCJE) al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, sul tema de Il processo equo di durata ragionevole ed il ruolo del giudice nel processo, tenuto conto delle modalità alternative di risoluzione delle controversie, che affer-ma che «Il CCJE nota che un’autentica riduzione dei compiti non appropriati oggi affi dati al giudice può aversi soltanto fornendo al giudice assistenti, con adeguato curriculum di studi giuridici (“clerks” o “referendari”), a cui il giudice possa delegare, sotto il controllo e la responsabilità dello stesso giudice, lo svol-gimento di attività specifi che quali ricerche di legislazione e giurisprudenza, la redazione di documenti semplici o standardizzati, nonché le relazioni con gli av-vocati o il pubblico»; si v. altresì i §§ 14 e 19 del Parere n. 11 (2008) del CCJE, sul tema de La qualità delle decisioni giudiziarie; entrambi i Pareri sono consultabili su http://www.coe.int/ccje.

(7) Un esempio del recente dibattito giornalistico può considerarsi l’articolo dell’8 ottobre 2009 Consiglio di Stato e di casta, di E. Fittipaldi, leggibile ancora in http://espresso.repubblica.it/dettaglio/consiglio-di-stato-e-di-casta/2111881.

(8) Così S. Bartole, Il potere giudiziario, Bologna, il Mulino, 2008, 32.

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di Stato/TAR – inserito membri laici, eletti separatamente dalle due Camere, nel Consiglio di Presidenza istituito, quale organo di ga-ranzia, dalla legge n. 186 del 1982 e successive modifi cazioni; tale Consiglio è sentito in tema di assegnazioni di nuovi consiglieri al Consiglio di Stato, anche sulla base di nomine governative, e sull’ef-fettuazione dei concorsi anche relativi al reclutamento nei TAR.

Un analogo Consiglio di Presidenza è stato creato – seppur con competenze principalmente concentrate sui profi li disciplinari – per la Corte dei Conti con legge n. 117 del 1988, anche in tale consesso essendo inseriti alcuni membri laici prescelti dai Presi-denti delle Camere.

In riferimento alla Corte dei Conti e, soprattutto, al Consiglio di Stato, il dibattito critico si incentra, oltre ai predetti profi li con-cernenti il reclutamento soprattutto dei consiglieri di Stato (9) (di-battito sopito, ma non superato, a seguito dell’introduzione del parere del Consiglio di Presidenza) anzitutto, sul cumulo, negli stessi organi, di funzioni anche diverse da quelle giurisdizionali; problematica che permane anche se, ad es., le funzioni consultive del Consiglio di Stato, aventi ad oggetto spesso provvedimenti poi oggetto di sindacato giurisdizionale, sono affi date a sezioni diverse da quelle giudicanti.

Assai liberale, poi, è stato tradizionalmente l’indirizzo dell’orga-no autorizzante i magistrati speciali a svolgere, pendenti le funzio-ni, incarichi di componenti di organi amministrativi e di controllo di enti e società, di comitati e consigli inseriti nell’amministrazio-ne, di componenti o, più spesso, presidenti di collegi arbitrali (10).

(9) Si richiama, per la manifestazione di un atteggiamento prudente della Corte costituzionale, la sentenza n. 177 del 6-19 dicembre 1973. Sul punto S. Bartole, op. cit., 22, richiama le conclusioni dell’indagine a suo tempo svolta da Harold Laski circa la preferenza goduta in Gran Bretagna da coloro che avevano affi ancato il governo ai fi ni della nomina «politica» a giudice.

(10) Il Consiglio superiore della magistratura ordinaria invece – anche quan-do la legge prevedeva la possibilità per i magistrati di quel plesso giurisdiziona-le di assumere incarichi arbitrali – dagli anni ’80 ha costantemente contrastato l’assunzione di tali incarichi, denegando le autorizzazioni in proposito richieste (per una sorta di «storia» delle posizioni assunte dal CSM, fi no a prefi gurare il confl itto di attribuzioni col legislatore, v. la Risoluzione del CSM 12 marzo 1997, in http://www.csm.it). Pari atteggiamento negativo il CSM ancor oggi manifesta nei confronti di incarichi in enti che comportino scelte di mediazione o di diretta amministrazione, ovvero di risoluzione di controversie.

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Ancora, può menzionarsi il forte interscambio tra posizioni negli organi giurisdizionali e posizioni nella pubblica amministra-zione, spesso in posizioni apicali o di diretta collaborazione con i ministri; parimenti, si registra un rilevante accesso di alti dirigenti dell’amministrazione al Consiglio di Stato, sulla base delle cenna-te previsioni di legge che consentono l’accesso stesso su nomina governativa.

Quanto, infi ne, ai fenomeni di vera e propria devianza, taluni procedimenti penali relativi a fatti collegati all’obiettiva vicinanza tra mondo degli affari ed amministrazione hanno riguardato, pur-troppo, anche esponenti delle giurisdizioni speciali.

Se nella presente sede non pare plausibile, per la limitatezza dell’oggetto dell’indagine, neppure abbozzare proposte concrete di miglioramento dell’attuale assetto – proposte che dovrebbero comunque contemplare signifi cativi interventi legislativi, forse, ma non necessariamente, anche di livello costituzionale – pare co-munque opportuno menzionare che la linea vettoriale dovrebbe essere quella del rafforzamento delle garanzie di indipendenza di tutti i magistrati amministrativi (sia quelli che svolgono funzioni consultive, sempre più caratterizzate dalla imparzialità e neutra-lità, sia quelli che svolgono funzioni giurisdizionali). A questi fi ni andrebbero rivisti i sistemi di reclutamento con l’assoluta pre-valenza del reclutamento per concorso e ridimensionando forte-mente, se non eliminando del tutto, il potere di nomina governa-tiva. Quanto agli incarichi esterni andrebbero da un lato vietati quelli suscettibili di menomare l’indipendenza e l’imparzialità della funzione svolta e rivista in modo più rigoroso la disciplina sulla partecipazione di magistrati a collegi arbitrali prevedendo il conferimento da parte dell’organo di autogoverno (11) secondo criteri prestabiliti di rotazione, evitando così ogni designazione ad opera delle parti sia pubbliche che private.

Mentre può, da altro punto di vista, prescindersi da conside-

(11) Quanto alla eventuale revisione della disciplina della composizione e del funzionamento di un tale organo di autogoverno, sia consentito rinviare al Parere n. 10 (2007) del CCJE su I consigli di giustizia al servizio della società, in http://www.coe.int/ccje. Può essere opportuno menzionare che ai lavori preparatori ha partecipato l’associazione europea dei giudici amministrativi.

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razioni in merito alla giurisdizione militare (per la quale l’art. 2, co. 603, della legge fi nanziaria n. 244 del 2007 ha previsto una sostanziale riduzione di sedi e di organico, con assorbimento de-gli esuberi nella magistratura ordinaria), posto che ciò pare pre-ludere ad una successiva, piena unifi cazione delle giurisdizioni, qualche considerazione deve svolgersi in merito alle Commissioni tributarie, le quali come detto sono sopravvissute alla Costituzio-ne in virtù di una tendenza interpretativa largheggiante e sono state dotate anch’esse dal legislatore di un organo esponenziale, il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, di cui agli artt. 17 ss. del decreto legislativo n. 545 del 1992.

Al riguardo, al di là della cennata questione di natura giuscosti-tuzionalistica, deve osservarsi che il profi lo critico fondamentale riguarda la presenza nelle Commissioni – ancor oggi e nonostante veementi dibattiti pubblici (12) – di avvocati e dottori commercia-listi (oltre che di soggetti diversi, tra i quali perfi no ex dipendenti dell’amministrazione delle fi nanze, che conservano stretti legami con essa, anche per l’assenza della previsione di un periodo di intervallo). Solo a far tempo dal 2001, in virtù di una modifi ca apportata all’art. 8 del decreto n. 545 dalla l. n. 342 del 2000, in astratto sarebbero incompatibili con le funzioni giudicanti tribu-tarie le posizioni di coloro che, tra i dottori commercialisti e gli avvocati, esercitano la consulenza o la rappresentanza in giudizio nella stessa materia. Da detto momento, la polemica si è, però, come prevedibile, spostata sul sussistere di detta incompatibilità a mezzo di soggetti collegati (13).

Anche tali problematiche paiono risolvibili solo in un approc-cio di fusione della giurisdizione tributaria nella giurisdizione ordinaria, di cui sembrano essere segni premonitori, da un lato,

(12) Il dibattito pubblico sulle commistioni tra attività di consulenza tributa-ria da parte di professionisti, anche per il tramite di soggetti collegati, e la loro presenza nella Commissioni, ha indotto il Consiglio di presidenza ad adottare risoluzioni prevedenti un monitoraggio delle incompatibilità, allo stato ancora in itinere; signifi cativo sul punto è il contenzioso avverso i relativamente pochi provvedimenti di decadenza pronunciati, v. ad es. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3366 del 29 maggio 2009 e n. 466 del 2 febbraio 2010.

(13) A fattispecie come quella descritta sono riconducibili le decisioni del Consiglio di Stato ultt. citt., opportunamente rigorose.

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la soppressione – salvo che per i giudizi pendenti – della Com-missione tributaria centrale, con la costituzione di una sezione tributaria della S.C., dall’altro, l’approccio restrittivo adottato dalla Corte costituzionale di fronte all’ampliamento da parte del legislatore della competenza delle Commissioni, competenza che – si afferma – in tanto può ritenersi conforme a Costituzione in quanto limitata alle sole controversie di natura tributaria (14).

4. La magistratura ordinariaLa legge n. 150 del 2005 di riforma dell’ordinamento giudi-

ziario di cui al regio decreto n. 12 del 1941 – come attuata dai decreti delegati che ad essa seguivano, ed il tutto poi quale ri-sultante dalle modifi cazioni di cui alla legge n. 111 del 2007 – ha profondamente inciso sui profi li normativi rilevanti ai fi ni della trattazione, in riferimento alla magistratura ordinaria, dei temi re-lativi alla prevenzione dei comportamenti in confl itto di interessi e corruttivi in generale.

In particolare, aderendo in parte alle sollecitazioni dell’avvoca-tura penale, veniva realizzata una netta separazione delle funzioni requirente e giudicante; se a ciò corrispondeva un effetto di mi-glioramento dell’immagine di imparzialità, si realizzava nel 2009 – per l’impedimento a trasferimenti – una sostanziale «desertifi -cazione» delle procure della Repubblica, ora ampiamente carenti in organico, tanto da doversi prevedere norme in tema di trasferi-mento d’uffi cio e deroghe nelle assegnazioni di giovani magistra-

(14) In tal senso, non possono essere attribuiti alle Commissioni controversie relative ad entrate di natura non tributaria, pur se il relativo atto sia adottato dall’Amministrazione fi nanziaria. Per richiamare solo alcuni degli arresti recenti, può menzionarsi che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 36 del 2006, ha stabilito che la giurisdizione tributaria, «deve ritenersi imprescindibilmente col-legata» alla «natura tributaria del rapporto» e non può essere ancorata «al solo dato formale e soggettivo, relativo all’uffi cio competente ad irrogare la sanzio-ne». Sulla scia di siffatta interpretazione, ribadita nelle successive sentenze della Corte costituzionale n. 64 e 130 del 2008, anche le Sezioni Unite della S.C. hanno ridefi nito il proprio orientamento stabilendo che se il «… necessario ancoraggio alla natura tributaria del rapporto è il fondamento della legittimità costituzionale della giurisdizione tributaria… bisogna affermare che in tanto il giudice tributa-rio potrà conoscere delle relative controversie in quanto le stesse siano attinenti ad una pretesa tributaria.» (Cfr. Cass., S.U., 5 giugno 2008, n. 14831).

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ti. Venivano poi riviste le procedure di progressione di carriera, rese molto più rigorose, e le procedure disciplinari, in particolare prevedendosi la tipizzazione degli illeciti, l’«obbligatorietà» del-l’azione disciplinare e la possibilità per il Ministro della giustizia di sottoporre, in dissenso con la Procura generale presso la S.C., atti disciplinari al CSM. Veniva, ancora, istituita – allo stato senza esiti concreti – la Scuola Superiore della Magistratura, retta da un comitato direttivo composto anche di esperti giuridici esterni.

Tale contesto di riforme, ancora in ampia parte da mettersi alla prova dei fatti, e già oggetto di annunci di ulteriori revisioni, si inserisce in un quadro in cui il profi lo etico della magistratura italiana è scosso dal coinvolgimento, nell’ambito di alcuni dei principali procedimenti penali balzati agli onori delle cronache nell’ultimo ventennio, di magistrati indagati (e talora condanna-ti). Da tale appannamento sul piano etico non paiono esenti – in base a recenti cronache – gli stessi componenti dell’organo di au-togoverno.

Dall’analisi relativa a tali fattispecie si evince che – essendo ri-mossi, per la magistratura ordinaria, in virtù della legge o della prassi amministrativa del Consiglio Superiore della Magistratu-ra, numerosi dei fattori generatori di prossimità tra il ruolo giu-diziario ed il mondo degli affari (essendo previsto un concorso pubblico di accesso, ed essendo sostanzialmente vietati, per i magistrati ordinari, incarichi arbitrali, di componenti di organi o commissioni aventi funzioni anche solo consultive, se connesse alla diretta amministrazione o alla soluzione di controversie, ecc., ed essendo consentiti, in pratica, i soli distacchi presso la pubbli-ca amministrazione e gli incarichi di insegnamento, oltre poche altre tipologie di funzioni extragiudiziarie) – la possibile devian-za si annida o in comportamenti individuali o «nelle maglie» del sistema ordinamentale, il cui strumentario preventivo non viene messo in grado di funzionare per assenza di meccanismi di sensi-bilizzazione e di early warning.

Quanto al sistema disciplinare, se lo stesso – alla luce delle sta-tistiche degli ultimi anni – pare davvero effi ciente, posto che i casi all’esame della sezione disciplinare del CSM hanno registrato un notevole incremento, devono peraltro registrarsi le critiche rivol-te ad esso – anche sulla scia di recenti casi di cronaca – quanto ad

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idoneità a «garantire allo stesso tempo la credibilità dell’ordine giudiziario e l’indipendenza dei magistrati»; in particolare, si è notato che

negli ultimi anni l’iniziativa disciplinare, che fa capo al ministro della Giustizia e al Procuratore generale, sembra orientarsi pre-valentemente verso la sanzione di violazioni di carattere formale, soprattutto in tema di termini per il deposito

dei provvedimenti giudiziari, valutando i ritardi accumulati dai singoli magistrati

in maniera isolata e del tutto avulsa dal contesto organizzativo e lavorativo dell’uffi cio. Scarsa o nulla è stata, invece, l’attenzione ai temi dell’organizzazione degli uffi ci e della responsabilità dei diri-genti.

Si è dunque registrata la

forte impressione […] che l’azione disciplinare si muova (…) [se-condo] un modello di magistrato burocrate, pavido, attento ai nu-meri e agli aspetti formali del proprio lavoro piuttosto che all’esi-genza di rendere giustizia (15).

(15) Così il «forte» comunicato-stampa della Giunta esecutiva centrale del-l’Associazione nazionale magistrati del 23 luglio 2010, in http://www.associazio-nemagistrati.it, emanato a seguito dell’esercizio da parte del Procuratore gene-rale presso la S.C. dell’iniziativa disciplinare «nei confronti del Presidente della Corte d’Appello di Milano, non accompagnata da alcuna richiesta cautelare», in relazione alle indagini sulla cosiddetta «P3» nell’ambito delle quali sarebbe emerso l’esercizio di pressioni su componenti del CSM per la nomina del Presi-dente stesso; nel caso di specie, l’esercizio dell’azione disciplinare, rendendo im-possibile la parallela attività amministrativa del CSM, è stata letta come idonea a «fi ni[re] di fatto per sottrarre al Consiglio superiore della magistratura l’iniziati-va su una vicenda che ha gettato grave discredito sull’istituzione giudiziaria e per rendere impossibile una risposta rapida e pronta a tutela della credibilità della magistratura». La stessa ANM, affrontando i limiti emersi nel sistema discipli-nare all’epoca del c.d. caso «De Magistris», ricorda nel comunicato cit. che «già in occasione della nota vicenda che coinvolse gli uffi ci di Salerno e Catanzaro», nell’ambito della quale erano stati adottati provvedimenti disciplinari rigorosis-simi nei confronti di magistrati calabresi e salernitani criticati per le modalità di svolgimento delle indagini, la stessa associazione aveva richiesto «più volte e a gran voce almeno analogo rigore nei confronti di quelle situazioni di opacità, di collusione e di connivenza che erano all’origine di quelle vicende e che pure emergevano in tutta la loro evidenza».

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Ne deriva che i profi li di carattere normativo su cui pare possi-bile intervenire afferiscono alla riduzione del numero degli illeciti disciplinari, in funzione di una maggiore attenzione agli illeciti collegati a scarsa trasparenza e contiguità ad interessi privati nella vita personale e professionale del magistrato. Altre messe a punto dei profi li ordinamentali non potrebbero essere che secondarie. Invero, la crisi che si registra, nei comportamenti dei magistrati ordinari, afferisce, più che al dato formale, alla cultura deontolo-gica della categoria (16).

Rappresentando il lavoro sulla cultura deontologica – quale creazione di un habitus volto a prevenire, nelle apparenze ancor prima che nell’effettività, occasioni di cadute etiche – una rifl es-sione avanzata, la stessa potrà valere per tutti i plessi giurisdizio-nali, anche per quelli – e massime per la magistratura onoraria – per i quali, come detto, le riforme ordinamentali sono un prius.

Al tema deontologico, dunque, ed in particolare alla necessità di rafforzare, per ciascuna magistratura, il ruolo svolto dal «co-dice etico» o da comitati di etica, può dedicarsi la parte fi nale di questo intervento.

(16) Ed infatti il dibattito pubblico attualmente concernente la magistratura ordinaria, lungi dall’appuntarsi – al di là dei casi singoli segnalati – sui profi li di incompatibilità per contiguità di interessi di natura economica, normalmente di rilievo penale, si appunta su altri profi li. Se le recenti notizie di cronaca han-no posto in luce possibili permeabilità del sistema di autogoverno, tema questo su cui andrebbero svolti approfondimenti deontologici, il tema più dibattuto è senz’altro quello della partecipazione del magistrato alla vita politica, attraverso l’assunzione di funzioni amministrative o parlamentari. Sul punto, può segnalarsi il recente comunicato del 17 febbraio 2010 (su http://www.associazionemagi-strati.it) con cui la Giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati, in occasione di candidature di magistrati nelle recenti competizioni amministrative, ha ritenu-to che il tema della credibilità della magistratura non possa essere disgiunto da quello dell’inopportunità della partecipazione alla vita politica dei magistrati nei luoghi dove abbiano esercitato la giurisdizione, per evitare il rischio di indebite strumentalizzazioni dell’attività svolta. Se il diritto all’elettorato passivo non può essere negato ai magistrati, la Giunta ha tuttavia auspicato una seria rifl essione, anche attraverso la programmata revisione del codice deontologico (v. infra), sulle modalità di accesso del magistrato alla vita politica e amministrativa e sul rientro in servizio di coloro che abbiano svolto un mandato elettorale.

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5. Un profi lo comune: un ruolo per i «codici etici» (17)La prima categoria ad adottare, in Italia, un codice etico (18) fu

quella dei magistrati ordinari, soli – almeno all’epoca, nel 1994 – fra i magistrati dei Paesi europei di tradizione romano-germanica.

La redazione di tale codice si ricollega ad una vicenda norma-tivo-istituzionale del tutto peculiare, in quanto con la nota legge n. 421 del 1992 il Parlamento delegava il governo ad emettere un decreto legislativo che abilitasse la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sentito il parere dei sindacati, ad adottare un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, destinato ad essere pubblicato, consegnato al dipendente al mo-mento dell’assunzione e recepito nei contratti collettivi; senonché con decreto legislativo n. 546 del 1993 (19), integrativo del decreto legislativo n. 29 del 1993, veniva introdotta una disposizione se-condo la quale anche le associazioni di categoria delle magistra-ture e dell’Avvocatura dello Stato avrebbero dovuto adottare un «codice etico», da sottoporre all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata.

La previsione di un siffatto obbligo di redazione di un codice etico suscitò subito perplessità di ordine costituzionale: la legge di delegazione del 1992, infatti, non prevedeva l’adozione di co-dici etici per i magistrati, per i quali anzi la legge ribadiva l’assog-gettamento alla normativa vigente, prevista dai rispettivi ordina-menti. Il governo aveva dunque ecceduto rispetto alla delega. Da altro punto di vista, poi, si poteva notare che, visto che la nostra Costituzione, all’art. 108, prevede una riserva di legge in tema di norme sull’ordinamento giudiziario, un codice etico simile a quello previsto per i dipendenti per la pubblica amministrazione non poteva assumere, per i magistrati, signifi cato paragonabile a quello assunto dai codici per i pubblici impiegati.

(17) Il testo riprende, di qui innanzi, con aggiornamenti, talune argomentazio-ni sviluppate in R. Sabato, «Il codice etico dei magistrati italiani: un esempio per l’Europa», in AA.VV., Cento anni di Associazione Magistrati, Milano, IPSOA, 2009, 106 ss.

(18) Il testo del codice può leggersi in http://www.associazionemagistati.it.(19) Per i «codici di comportamento» per i dipendenti delle pubbliche ammi-

nistrazioni, v. poi l’art. 54 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (già art. 27 del decreto legislativo n. 80 del 1998, che sostituiva il decreto n. 29 del 1993).

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L’Associazione Nazionale Magistrati, peraltro avente natura privata e quindi indebitamente avvicinata ad organi pubblici te-nuti al medesimo adempimento, decideva di adottare comunque un codice etico (20), utilizzando l’occasione «offerta» da un qua-dro normativo che pur poneva tanti dubbi. Invero, agli inizi degli anni ’90 la questione della moralità negli affari pubblici era esplo-sa in Italia con grande forza ed i magistrati ritenevano di non po-tersi sottrarre all’onere di indicare, dinanzi all’opinione pubblica, le regole minime di comportamento nelle quali si riconoscevano.

La discussione sull’individuazione di tali regole – si riteneva – poteva essa stessa contribuire alla crescita della consapevolezza dei magistrati dei loro doveri nei confronti della collettività.

Infi ne, l’elaborazione di un codice etico dei magistrati poteva costituire stimolo per l’adozione di regole deontologiche anche delle altre professioni legali, che all’epoca ne erano sfornite (21).

(20) N. Rossi, «L’elaborazione del codice etico dell’ANM», in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse, R. Sabato (a cura di), Deontologia giudiziaria – Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, Napoli, Jovene, 2006, 206 ss.

(21) Ad es. il codice deontologico forense – con valenza disciplinare – fu approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997. Le magistrature speciali si dotavano di codici sulla falsariga di quello dei magistrati ordinari. L’impatto del codice etico adottato dall’ANM nel 1994 è stato rilevante anche sulle altre magistrature europee, prive, all’epoca, di analoghi testi deonto-logici. La diffusione del codice etico si deve essenzialmente alla circostanza che il Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) dedicava il suo Parere n. 3, nel 2002, sempre in http://www.coe.int/ccje, ai problemi della deontologia e della responsabilità dei giudici. Il Parere si basava su un rapporto del magistrato fran-cese Denis Salas, nominato specialista sul tema da parte del Consiglio d’Europa, assistito da Harold Épineuse. Il rapporto approfondiva, con un apposita rico-gnizione basata anche sulle risposte a questionari predisposti dal CCJE, le molte differenziazioni esistenti in Europa in materia di deontologia giudiziaria semplifi -cando, si distingueva tra Paesi in cui l’attenzione alla deontologia giudiziaria era di tipo prevalentemente disciplinare, ove esistevano codici deontologici, adottati al fi ne di fornire la norma sostanziale da applicare ai giudici disciplinari, e Paesi in cui non esistevano codici, traendosi la norma disciplinare prevalentemente dalla giurisprudenza dell’organo preposto all’applicazione delle sanzioni disciplinari ai giudici. Caso a parte era quello italiano, espressamente considerato, ove coesi-steva – con una impostazione del secondo tipo – un codice etico, nato entro la nota vicenda giuridico-istituzionale assai peculiare, adottato dall’Associazione dei Magistrati, che espressamente dichiarava che il codice si poneva su un piano di-verso da quello giuridico-disciplinare. Su questo retroterra, in sintesi, si inseriva il Parere n. 3 del CCJE che, deliberato dal Plenum del CCJE e poi oggetto di presa d’atto da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, affermava che:

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È sicuramente rilevante notare che il codice etico consta di 14 articoli che, come è stato notato, «ricomprendono la totalità dei comportamenti dei giudici e dei P.M., inclusi i capi degli uf-fi ci» (22). È stato altresì notato che la denominazione di codice è essa stessa non appropriata, trattandosi per lo più dell’espressio-ne di principi, talvolta generali.

Oltre all’enunciazione, nel preambolo, della separatezza di pia-ni su cui operano le norme deontologiche, prive di effi cacia giuri-dica e che esprimono solo le regole etiche cui, secondo il «comu-ne sentire» dei magistrati, deve ispirarsi il loro comportamento, il testo contiene alcuni principi e, poi, regole relative ai rapporti del magistrato con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, ai doveri di operosità e di aggiornamento professionale, di buon utilizzo delle

– il rispetto da parte del giudice di principi deontologici rigorosi è una contropar-tita naturale dei poteri importanti di cui dispone il giudice nella società di oggi;

– anche se accavallamenti e interazioni sono incontestabili, le norme deontolo-giche e disciplinari devono rimanere distinte; le prime norme, quelle deon-tologiche, esprimono la capacità della professione di rifl ettere sulla sua fun-zione; sono delle «norme di autocontrollo» che implicano il riconoscimento che l’applicazione della legge non ha niente di meccanico e che necessita di un reale potere di apprezzamento, che però pone i giudici in un rapporto di responsabilità nei confronti di loro stessi e dei cittadini;

– i principi deontologici devono essere emanazione degli stessi giudici.Il Consiglio consultivo dei giudici europei col proprio Parere incoraggiava,

in questa prospettiva, la costituzione in seno al corpo giudiziale di «comitati di etica», cui sia riconosciuto un ruolo consultivo, ai quali i giudici potrebbero ri-volgersi in caso di dubbio sulla compatibilità di un comportamento o di un’at-tività con la loro posizione di giudice. Questi organi potrebbero essere stabiliti, per esempio, sotto l’egida dell’Associazione dei magistrati. Dovrebbero essere in ogni caso distinti e dovrebbero perseguire obiettivi diversi dagli organi incaricati di sanzionare le violazioni disciplinari. Il Parere n. 3 del Consiglio consultivo, ed il codice etico italiano con esso, riceveva attenzione pubblica in molti Paesi europei. In particolare, in Francia venivano organizzate iniziative di diffusione da parte dell’École Nationale de la Magistrature (ENM) e dell’Institut des Hautes Études sur la Justice (IHEJ).

Al codice etico italiano si sono richiamati, sempre in

Francia, i lavori della «Commission de réfl exion sur l’éthique dans la magistratu-re» (denominata «Commission Cabannes» dal nome del suo presidente, M. Jean Cabannes, Primo Avvocato generale onorario presso la Corte di Cassazione), isti-tuita dal Ministero della giustizia nel maggio 2003.

(22) Così D. Salas, Le renouveau du débat sur l’éthique du juge, in D. Salas, H. Epineuse (sous la direction de), L’éthique du juge: une approche européenne et internationale, Paris, Dalloz, 2003, 11; per la situazione in Francia, v. anche G. Canivet, J. Joly-Hurard, La déontologie des magistrats, Paris, Dalloz, 2004.

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risorse dell’amministrazione, di non utilizzazione delle informa-zioni d’uffi cio a fi ni non istituzionali. Esso prosegue con la regola-mentazione dell’adesione dei magistrati ad associazioni, dei doveri di indipendenza, imparzialità e correttezza; della condotta da te-nersi nell’esercizio delle funzioni, sia quanto al giudice che quanto al pubblico ministero, che infi ne quanto ai capi degli uffi ci.

Per espressa previsione del codice, è possibile un suo adegua-mento nel tempo; e sul punto è opportuno segnalare che, all’esito di un dibattito concernente anche recenti vicende coinvolgenti magistrati, in data 7 aprile 2010 si è riunita, per la prima volta, una commissione dell’Associazione con il compito di proporre un adeguamento, tra l’altro, del testo deontologico.

In merito all’applicazione concreta (e quindi alla rilevanza) as-sunta dal codice etico predisposto dall’ANM è opportuno sotto-lineare che il codice stesso dichiara espressamente di collocarsi «su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica de-gli illeciti disciplinari». In molti casi, l’inosservanza delle norme contenute nel codice non raggiungerà la soglia dell’illecito disci-plinare; in altri casi, potrà costituire addirittura l’indice della vio-lazione di norme penali.

Il fatto che a volte si intersechino i piani etico, da un lato, e disciplinare o penale, dall’altro lato, a volte invece i due piani restino separati, non signifi ca che il codice sia irrilevante (23).

Una diversa sovrapposizione di piani si verifi cava in quanto il codice assumeva una vitalità – per così dire – «indesiderata» dai suoi autori nella stagione della riforma dell’ordinamento giudizia-rio, cristallizzatasi, in materia di procedimento disciplinare rela-tivo ai magistrati, con il d.lgs. n. 109 del 2006, coordinato con le leggi n. 269 del 2006 e n. 111 del 2007. In estrema sintesi, il codice etico è servito da base (talvolta, anche eccessivamente, testuale) per la redazione delle nuove norme disciplinari, ispirate, almeno teoricamente, dalla fi nalità di raggiungere una «tipicità» degli il-leciti disciplinari dei magistrati. Così, molte delle disposizioni che

(23) Per un inquadramento giuridico-fi losofi co delle norme deontologiche per i magistrati, D. Bifulco, «Deontologia giudiziaria, disciplina ed interpretazione della legge: territori (limitrofi ) da recintare con cura!», in Politica del diritto, n. 4, 2004, 617 ss.; per un richiamo, v. anche L. Aschettino, D. Bifulco, «Introduzio-ne», in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse, R. Sabato (a cura di), op. cit., 3.

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dovevano stimolare verso comportamenti «eccellenti» venivano utilizzate impropriamente per porre degli obiettivi disciplinari, invece da regolarsi secondo un metro di «minimo» etico (24). Le problematiche, non del tutto eliminate dal legislatore del 2007, poste da tale commistione tra deontologia e disciplina, sono af-fi date in vista di una soluzione alla giurisprudenza della Sezione disciplinare del CSM e delle Sezioni Unite della Corte di Cassa-zione che, attraverso l’interpretazione sul punto, potrà sceverare fi no a che punto l’originaria funzione «propulsiva» delle norme del codice possa formare la base di un addebito disciplinare.

Invero, il codice è essenzialmente uno strumento di autocontrol-lo, destinato ad operare in primo luogo all’interno della categoria, con esiti per loro natura non manifesti. Pur trattandosi di «norme effettive», esse esprimono nella sostanza come la categoria profes-sionale intende gestire i comportamenti dei propri appartenenti.

Il codice si assegnava, altresì, e storicamente ha avuto una fun-zione di benchmark, di strumento cioè di controllo da parte dei cittadini e degli altri operatori professionali, che – facendo rife-rimento al codice – hanno la possibilità di distinguere il giudice laborioso, corretto, preparato, imparziale e indipendente, vitaliz-zando la credibilità della magistratura, ovvero anche stimolando la presentazione di doglianze contro lo Stato o lo stesso giudice, anche solo ai fi ni della sua valutazione di professionalità, in caso di mancanze (25). È evidente, dunque, la funzione anche di early warning che la diffusione del documento può avere.

Va poi riconosciuto che, nella vigenza dell’ordinamento giu-diziario dell’epoca, il codice etico intendeva avere, ed ha avuto, una funzione «interpretativa» di norme giuridiche. Se costituiva

(24) Per condivisibili critiche all’operato del legislatore, a partire dalla legge delega n. 150 del 2005, v., ad es., L. Chieffi , «Discrezionalità interpretativa e re-gole deontologiche», e A. Patrono, «La rifl essione dell’ANM sulla deontologia», entrambi in L. Aschettino, D. Bifulco, H. Epineuse, R. Sabato (a cura di), op. cit., rispettivamente, 40 e 45. Per la necessità di tracciare confi ni rigorosi tra etica giudiziaria e disciplina v., anche per richiami teorici e comparatistici, E. Bruti Liberati, «Responsabilità, imparzialità, indipendenza dei giudici in Europa», in op. ult. cit., 137 s.

(25) Sia consentito, sul punto, rinviare a R. Sabato, «Le Code éthique italien entre déontologie et discipline», in D. Salas, H. Epineuse (sous la direction de), op. cit., 99.

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illecito disciplinare – come era previsto dalla disciplina «elastica» dell’art. 18 della c.d. legge sulle guarentigie di cui al r.d.l. n. 511 del 1946 – la violazione dei doveri o la condotta che renda il magistrato non meritevole della considerazione di cui deve godere o che leda il prestigio dell’ordine giudiziario, è evidente che le regole di deon-tologia, che esprimevano la nozione collettiva dei concetti di «pre-stigio», «considerazione», «doveri» del magistrato, potevano e do-vevano essere utilizzate al fi ne di interpretare le regole disciplinari, anche se i livelli di deontologia e disciplina restano separati (26).

Il CSM, dal canto suo, nella convinzione che la sensibilità ai problemi di etica professionale dovesse e potesse svilupparsi at-traverso la formazione iniziale e continua sui temi deontologi-ci, dedicava alla formazione alla deontologia – parallelamente a quanto operato dalle altre istituzioni europee di formazione giu-diziaria – numerosi incontri di studio destinati tanto ai magistrati in tirocinio che a quelli in carriera. A questo sforzo di «formazio-ne alla deontologia» si affi ancava, così, la visione di una «deon-tologia della formazione», nel senso che il codice stesso favoriva una considerazione del CSM come propulsore delle necessarie at-tività di aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, gestite in maniera indipendente, la partecipazione alle quali deve percepirsi come obbligo etico, anzi uno dei principali obblighi etici unitamente a quelli dell’imparzialità e correttezza.

Una proposta ulteriore che può formularsi in questa sede, an-che ai fi ni di stimolare la funzione di early warning del codice, è l’istituzione da parte dei magistrati associati di uno o più comitati di etica, preposti a diffondere tra i cittadini il contenuto del codi-ce, a stimolare le rifl essioni in materia ed a trattare in via consul-tiva e preventiva problematiche deontologiche.

Può infi ne notarsi che la complessa esperienza relativa al codice etico adottato dalla magistratura ordinaria può essere ampiamen-te utilizzata nell’opera, che si rivela a questo punto necessaria, di revisione dei codici etici già adottati per le magistrature speciali e per quella onoraria.

(26) Per una esemplifi cazione, sia consentito rinviare a R. Sabato, «Il codice etico dei magistrati italiani: un esempio per l’Europa», cit., 109 s.

Parte III

GLI STRUMENTI DI PREVENZIONE E CONTRASTO.

PROFILI OGGETTIVI.CONTROLLI E TRASPARENZA

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Antonio Brancasi

I CONTROLLI. PROFILI GENERALI

1. I controlli amministrativi e la lotta alla corruzioneI controlli presentano, in via generale, almeno due caratteristi-

che che consentono di riscontrarvi i presupposti per portare alla luce e poter contrastare i fenomeni di corruzione e maladmini-stration.

La prima di queste caratteristiche è di tipo strutturale, nel senso che si può defi nire controllo l’attività mediante la quale viene va-lutato ed apprezzato qualcosa (l’oggetto del controllo) utilizzan-do determinati criteri di riferimento (parametro del controllo). Muovendo da questa defi nizione, è suffi ciente assumere a para-metro del controllo la legalità, e nella specie le regole che vietano comportamenti collusivi ed i principi di imparzialità e buon an-damento, per poter riconoscere che l’esercizio dei controlli può fornire un qualche apporto al problema che ci interessa: questi infatti, nel prendere in considerazione quanto ne costituisce l’og-getto, forniscono conoscenza circa l’agire dell’amministrazione e qualifi cano questa conoscenza mediante una valutazione, un giu-dizio circa l’osservanza delle regole che si diceva.

L’altra caratteristica dell’attività di controllo è di mantenere una propria identità e di restare separata dalla funzione del provvedere pur svolgendosi talvolta al servizio di questa. Questa separazione emerge con chiarezza a livello di attività amministrativa, dove al-l’amministrazione di controllo si contrappone l’amministrazione attiva sia sotto il profi lo procedimentale che organizzativo. Infatti, l’atto di controllo è conclusivo di un proprio procedimento e non può mai consistere in una decisione che sostituisca o modifi chi altre decisioni, ma può semmai soltanto interdire tali decisioni o sollecitare loro modifi che. Sul piano organizzativo, questa sepa-razione implica sempre alterità tra il soggetto controllato e quel-lo controllore, non foss’altro perché il secondo non dispone dei poteri che al primo competono. In defi nitiva, la valutazione, che consegue dalla applicazione del parametro del controllo a ciò che

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ne costituisce l’oggetto, non è mai una mera autovalutazione ed in questo stanno i presupposti per poter rinvenire nel controllo l’attitudine a contrastare i fenomeni di corruzione e maladmini-stration.

Tutto ciò non signifi ca peraltro che l’attitudine dei controlli a contrastare la corruzione e la maladministration ricorra intrinse-camente, sempre e comunque, poiché è a tal fi ne necessario che l’attività di controllo sia congegnata in certi modi in luogo di altri. I profi li che, al riguardo, appaiono rilevanti attengono all’oggetto ed alle modalità di svolgimento del controllo, al parametro utiliz-zato dal controllo ed alla posizione organizzativa dell’organo che lo esercita.

2. L’oggetto del controlloIn ordine all’oggetto del controllo bisogna riconoscere che la

corruzione e la maladministration scaturiscono dai comportamen-ti di chi è preposto ad amministrare e rispetto a ciò il controllo sui singoli atti appare strumento abbastanza inadeguato, tenuto conto che non sempre i comportamenti collusivi producono atti ed anche quando ciò avviene non sempre il comportamento del-l’autore dell’atto si riverbera nella illegittimità di questo. D’altra parte, anche nel caso in cui l’intento sia di assicurare che chi am-ministra metta nella gestione della cosa pubblica la stessa cura che riserverebbe nel gestire il proprio patrimonio, bisogna constatare che non è l’emanazione di soli atti legittimi a garantire un esito del genere, così come non è la pluralità di atti legittimi a confi -gurare come legittima la relativa attività complessiva. Semmai si può pensare che l’atto, e la sua illegittimità, può talvolta segnalare l’esistenza di elementi indiziari su comportamenti di tipo disdice-vole che possono averlo prodotto.

Una maggiore attitudine a far emergere fenomeni di corruzione e maladministration sembrerebbero averla i controlli sull’attività complessiva, giacché in questo caso oggetto del controllo è un qualcosa di ben più onnicomprensivo che può giungere a com-prendere direttamente anche i comportamenti dei singoli opera-tori. In realtà, ciò è vero a certe condizioni, nel senso che diventa, a tal fi ne, rilevante sotto quale profi lo l’attività viene considera-

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ta. Se infatti oggetto del controllo sono i risultati dell’attività, si ripropongono appieno le riserve mosse ai controlli sugli atti, in quanto a poter svelare i comportamenti individuali è la conside-razione del modo in cui l’attività è svolta piuttosto che i risultati con essa conseguiti.

3. Le modalità di svolgimento del controlloQuanto poi alla seconda variabile, quella relativa alle modalità

di svolgimento dei controlli, appaiono assolutamente inadegua-ti, per almeno due motivi, quelli a carattere preventivo. Bisogna infatti tener presente che sarebbe velleitaria e controproducente l’idea di contrastare la corruzione mediante misure che, invece di dissuadere dal praticarla, pretendano addirittura di impedirla ma-terialmente: velleitario perché riesce diffi cile immaginare l’effi ca-cia di misure di questo tipo; controproducente perché un intento del genere indurrebbe a sottoporre l’attività dell’amministrazione a limitazioni, vincoli e controlli che fi nirebbero per paralizzarla. L’altro motivo che rende inadeguato il controllo preventivo sta nell’effetto che ha di determinare il coinvolgimento del control-lore nell’attività, nelle decisioni, degli atti del controllato; coin-volgimento che di fatto fi nisce per attenuare sia le responsabilità del secondo sia quella posizione di alterità del primo che, come diremo, è condizione perché il controllo riesca a far emergere i fenomeni di corruzione e maladministration.

Del resto, al ridimensionamento avvenuto nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso nei controlli preventivi sugli atti non si riuscirebbe a dare spiegazione diversa dalla acquisita consapevo-lezza della inadeguatezza di entrambe queste due caratteristiche. Ed infatti non è un caso che questo ridimensionamento abbia fat-to seguito all’emersione della corruzione come problema nazio-nale e sia stato accompagnato con l’introduzione di forme nuove di controllo pensate anche con la pretesa di dare una risposta proprio a questo problema. Basti pensare che in occasione della introduzione dei controlli interni sulla attività è stato istituito il controllo di regolarità amministrativo-contabile degli atti di spesa con l’avvertenza però che può essere preventivo esclusivamente nel caso in cui ciò sia espressamente previsto dalla legge e che,

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anche in questo caso, non può mai essere preclusivo dell’effi cacia dell’atto, perché questa deve comunque dipendere da una deci-sione adottata dall’organo di amministrazione attiva. Nella stessa direzione è stato trasformato, a livello statale, il controllo delle Ragionerie centrali (ora Uffi ci centrali del bilancio): l’effi cacia dell’atto è subordinata alla avvenuta registrazione (che verifi ca il rispetto del bilancio), ma, nel caso in cui siano riscontrati altri profi li di illegittimità, la Ragioneria deve limitarsi a segnalarli al-l’organo che ha adottato l’atto e, decorsi dieci giorni dalla regi-strazione, l’atto acquista comunque effi cacia. Quanto poi ai con-trolli esterni, l’introduzione del controllo della Corte dei Conti sull’attività di tutte le amministrazioni pubbliche ha accompagna-to e seguito la riduzione delle ipotesi di controllo preventivo degli atti dell’amministrazione statale e la riduzione e poi soppressione degli analoghi controlli sugli atti di Regioni ed EE.LL.

4. Il parametro del controlloIn ordine all’altra variabile, quella relativa al parametro dei

controlli, quelli di legittimità sono maggiormente in grado di svelare direttamente fenomeni collusivi e di maladministration, dal momento che fenomeni del genere conseguono dalla violazio-ne di precise regole giuridiche. Messa in questi termini, bisogna concludere che non c’è da inventare nulla, perché il sistema dei controlli esterni sull’attività, quale previsto dalla l. n. 20 del 1994, già attribuisce alla Corte dei Conti il compito di verifi care «la le-gittimità e la regolarità delle gestioni».

Bisogna però aggiungere che il controllo esterno esercita-to dalla Corte dei Conti sull’attività di tutte le amministrazioni, comprese quelle territoriali, può servire allo scopo non soltanto allorché rivolto a verifi care la legalità e regolarità della gestione, ma anche nel caso in cui sia esercitato nella forma del controllo di funzionalità, e cioè assuma a base dell’attività valutativa parame-tri di effi cacia, effi cienza ed economicità. Logicamente, in questo caso, l’esito negativo del controllo non signifi ca di per sé che vi sia stata violazione dell’imparzialità o che vi sia stata corruzione, ma fornisce un semplice indizio poiché la scarsa funzionalità di una amministrazione può dipendere da comportamenti non rispettosi

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delle regole e di certe regole, ma può anche essere la conseguenza di altri fattori, non ultimo l’inettitudine di coloro che agiscono; certamente la scarsa funzionalità segnala una situazione patolo-gica, che merita di essere indagata ulteriormente per accertare i fattori che l’hanno determinata e tra questi fattori possono anche esserci appunto fenomeni di corruzione o di maladministration.

L’utilizzazione, ai nostri fi ni, del controllo di funzionalità ripro-pone il problema della necessità che l’indirizzo politico predeter-mini in maniera suffi cientemente puntuale i fi ni all’agire dell’am-ministrazione, fornendo così i parametri del controllo. Bisogna però notare che questa esigenza riguarda sicuramente i profi li della effi cienza e, ancor più, della effi cacia che altrimenti farebbe-ro perdere oggettività al controllo; mentre per l’economicità un rischio del genere non ricorre, o ricorre in misura minore, quanto meno se si accetta l’idea che essa consiste nel pieno impiego dei fattori produttivi e fornisce quindi di per sé un parametro ogget-tivo al controllo. Inoltre, questa esigenza, oltre ad essere limitata alla effi cienza ed effi cacia, è attualmente abbastanza soddisfatta dall’ordinamento che, mediante la disciplina sia dei bilanci pub-blici che del rapporto politica-amministrazione, ha introdotto numerosi strumenti rivolti proprio ad assicurare che l’indirizzo politico fornisca esplicite indicazioni suffi cientemente precise da costituire il parametro del controllo.

Alla stessa stregua del controllo di funzionalità, può essere utilizzato sia il controllo contabile che quello sugli atti. Anche in questi casi l’esito negativo del controllo è un semplice indizio sulla eventualità di una patologia dietro la quale potrebbe esserci corruzione o maladministration. Infatti il controllo contabile ac-certa la corretta tenuta delle scritture ed è rivolto a verifi care che i risultati da queste rappresentati siano veritieri: ciò signifi ca che l’esito negativo di questo tipo di controllo dimostra la scarsa tra-sparenza dell’amministrazione, che, a sua volta, può essere voluta proprio per occultare comportamenti deprecabili. Analogamente il controllo sui singoli atti è in grado di evidenziare illegittimità che, specialmente se relative allo svolgimento della istruttoria ed alla conseguente mancanza di imparzialità, possono derivare da comportamenti collusivi.

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5. La posizione organizzativa dell’organo di controlloL’ultima variabile, che riguarda la posizione organizzativa del-

l’organo di controllo, richiama la distinzione tra controlli interni ed esterni e viene, generalmente, risolta muovendo dall’idea che il rapporto di controllo intercorre necessariamente tra due orga-nismi: quello che controlla e quello che ha adottato l’atto o svolto l’attività oggetto del controllo. In un contesto del genere a quali-fi care il controllo come interno o esterno sarebbe semplicemen-te l’appartenenza o meno dei due organi al medesimo apparato. Questa idea di controllo sembra però corrispondere soltanto ad alcuni modelli, ed in particolare potrebbe apparire idonea a rap-presentare la situazione dei controlli preclusivi sugli atti, nei qua-li, in effetti, ad entrare in rapporto sembrerebbero essere soltanto l’organo di controllo e quello che ha emanato l’atto, giacché la misura del controllo non è semplicemente un giudizio, una valu-tazione ma consiste in una decisione che fa assumere al controllo una sorta di autosuffi cienza, in quanto di per sé suffi ciente a ri-muovere le difformità al parametro del controllo.

Anche, però, con riguardo a questo tipo di controllo, il criterio dell’appartenenza o meno allo stesso apparato risulta insuffi cien-te: certamente erano esterni i controlli esercitati dai Co.Re.Co su-gli EE.LL. perché si trattava di organi delle Regioni, cioè di un altro ente pubblico; così come certamente sembrerebbe interno il controllo esercitato sugli atti di ciascun ministero dai rispettivi Uffi ci centrali del bilancio; mentre è sicuramente esterno il con-trollo della Corte dei Conti sugli atti dell’amministrazione statale, perché, in questo caso, l’organo di controllo non è annoverabile tra quelli di tale amministrazione ed è estraneo al potere ammi-nistrativo. Che dire, però, del controllo svolto dal collegio dei revisori dei conti di un ente pubblico, tenuto conto che esso è in-terno all’ente ma è, anche, esterno agli apparati amministrativi, in quanto istituzionalmente collocato tra questi e l’organo politico collegiale (consiglio di amministrazione) o assembleare (consiglio dell’ente territoriale)? Se si dovesse seguire il criterio dell’appar-tenenza o meno dell’organo di controllo al medesimo ente biso-gnerebbe accedere ad una gradazione del carattere esterno del controllo e si perverrebbe comunque a risultati sicuramente poco signifi cativi ai nostri fi ni, perché attenti soltanto al dato formale

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della imputazione dell’atto di controllo ad organo del medesimo o di altro apparato rispetto a quello a cui sono imputati gli atti o le attività oggetto del controllo.

Ma vi è di più, nel senso che anche relativamente ai control-li preclusivi sugli atti, appare abbastanza fuorviante l’idea che il relativo rapporto intercorra soltanto tra due organismi, il con-trollore ed il controllato. Infatti, anche in questo tipo di controlli ricorre, in realtà, una entità che sovrasta entrambi gli organismi, dal momento che effetti preclusivi del genere si giustifi cano a tu-tela dell’interesse dell’ordinamento alla legalità (nel caso in cui la legittimità sia il parametro del controllo) o dell’interesse di un soggetto terzo (generalmente lo Stato) ad affermare il proprio indirizzo politico (nel caso in cui il merito sia il parametro del controllo).

Sicuramente il modello del rapporto di controllo intercorrente tra due organismi è inadeguato a rappresentare i controlli sul-l’attività. In questi casi, la misura del controllo è costituita da un referto o da una segnalazione che l’organo di controllo effettua ad altro organo (il destinatario degli esiti del controllo), affi nché questo rimuova o sanzioni la rilevata difformità al parametro del controllo. Il referto interviene in un rapporto, non più tra due, bensì tra tre organismi: il controllore, colui che ha posto in essere l’atto o l’attività oggetto del controllo e colui a cui è destinato il referto ed a favore del quale, quindi, il controllo è svolto. Il secon-do ed il terzo di questi organismi possono talvolta coincidere, ma spesso sono diversi ed è su queste variabili che appare più utile, quanto meno ai nostri fi ni, costruire la distinzione tra interno ed esterno, nel senso di qualifi care come esterni i controlli esercitati nell’interesse di un terzo, di un organismo diverso da quello la cui attività è sottoposta a controllo.

6. Controlli esterni, non collaborativi, successivi, a campioneQuesta più articolata classifi cazione aiuta a spiegare in che sen-

so si può riscontrare nei controlli-referto un carattere collaborati-vo. Siccome l’organo di controllo non può spingersi oltre la valu-tazione ed il giudizio su quanto sottoposto a controllo (altrimenti eserciterebbe una differente funzione e cesserebbe di essere orga-

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no di controllo), la rimozione o sanzione delle rilevate difformità al parametro del controllo richiede l’esercizio di un potere che spetta all’organo destinatario degli esiti del controllo, per cui l’ef-fi cacia del controllo viene riposta in un reale rapporto di collabo-razione tra i due organi. In altri termini, il carattere collaborativo del controllo caratterizzerebbe il rapporto del controllore non con il controllato, quanto piuttosto con l’organo destinatario del referto (che nel controllo esterno è terzo rispetto al controllore ed al controllato).

Dal momento che non è certo pensabile che i fenomeni di cor-ruzione e maladministration possano essere contrastati mediante forme di autocorrezione, i controlli che possono semmai servire a conseguire esiti del genere sono esclusivamente quelli che, nei termini che si sono detti, presentano carattere esterno.

D’altra parte i controlli interni servono a supportare l’azione dell’amministrazione, ad aiutarla ad effettuare le scelte più ade-guate; mentre, sul terreno della legalità è diffi cile immaginare vi sia un problema di supportare l’amministrazione, di aiutarla a ri-spettarla, così come a venire in rilievo non è tanto l’adeguatezza delle scelte quanto piuttosto la conformità di queste alle rego-le. Addirittura, l’adeguatezza delle scelte è misurata in relazione alla loro capacità di soddisfare l’interesse pubblico e se questo interesse viene poi identifi cato con quello dell’amministrazione, dell’ente pubblico, dello Stato si può ben giungere al paradosso di ipotizzare che i comportamenti più adeguati potrebbero essere proprio quelli meno corretti: del resto la c.d. «ragion di Stato» sta ad indicare cose non molto diverse.

D’altra parte, che i controlli interni siano concepiti come stru-mento a servizio della stessa amministrazione per perseguire i fi ni che essa si è data e non tanto per rispettare vincoli e regole che le sono imposti, lo conferma lo stesso ordinamento: nella disciplina dei controlli interni, (art. 1, co. 6, del d.lgs. n. 286/1999) è sta-bilito, infatti, che i risultati del controllo di gestione sono riferiti esclusivamente ai vertici dell’amministrazione e che, in generale, i controllori interni sono esentati dall’obbligo di denuncia; quanto poi alla valutazione dei dirigenti ed al controllo strategico è addi-rittura stabilito che i relativi esiti devono restare segreti, in quanto vanno riferiti «in via riservata» ai vertici politici.

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A fronte della constatazione che gli unici controlli in grado di contrastare la corruzione e la maladministration sono quelli esterni, bisogna però tener conto della attuale tendenza ad una certa commistione tra controllo esterno ed interno, nel senso che il primo, nonostante abbia come destinatario un soggetto di-verso da quello autore dei comportamenti che ne sono oggetto, viene molto spesso concepito in termini collaborativi, di ausilio cioè proprio all’autore dell’attività su cui il controllo è esercitato. Questa nozione di controllo collaborativo, inizialmente elaborata dalla Corte costituzionale e poi sviluppata dalla Corte dei Conti, è servita a sciogliere due nodi problematici ma ha fi nito per com-promettere il senso del carattere esterno del controllo.

I nodi problematici che ha cercato di risolvere riguardano, per un verso, l’esigenza di trovare nel modo di svolgimento del con-trollo la conferma della sua netta separazione rispetto alla giurisdi-zione di responsabilità e, per altro verso, l’esigenza di riconoscere la possibilità di un controllo di funzionalità anche in mancanza della predeterminazione di obiettivi alla attività dell’amministra-zione che possano fornire il parametro al controllo. Ma l’idea del controllo collaborativo tradisce la funzione che dovrebbe svolgere il controllo esterno e lo rende meno idoneo a garantire l’osservan-za della legalità, non foss’altro perché la collaborazione rende pur sempre il controllore corresponsabile dell’attività controllata e lo rende partecipe delle scelte di chi tale attività esercita, cosicché diventa diffi cile immaginare che il controllore riesca a segnalare problemi di maladministration ed è molto più probabile che ciò avvenga in realtà soltanto nell’eventualità che il rapporto collabo-rativo si sia deteriorato e diventato confl ittuale. È per questo che, relativamente al controllo esterno, vi è da diffi dare del controllo collaborativo ed è preferibile, specialmente da parte della Corte dei Conti, un controllo più severo, austero, più distaccato.

Un controllo del genere potrebbe essere quello di tipo ispet-tivo, realizzato mediante verifi che sul campo dell’attività gestoria esercitata da un apparato o relativa alla cura di determinati inte-ressi pubblici. Un controllo, quindi, assolutamente non cartolare, che si eserciti innanzi tutto mediante la individuazione dei docu-menti da esaminare, che assuma le caratteristiche dell’inchiesta e che non abbia altre pretese di quella di produrre un referto. Gli

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effetti deterrenti dovrebbero conseguire proprio dal referto, che, mettendo in luce i fenomeni patologici e senza doversi far carico di individuare le responsabilità, sappia dar conto alla collettività di quanto avvenuto e riesca a fornire la notizia criminis agli organi preposti ad individuare e perseguire le responsabilità. Quindi un controllo successivo sull’attività, che utilizza parametri di legitti-mità ma anche di funzionalità ma che, principalmente, si atteg-gia a controllo esterno perché svolto non nell’interesse di chi è controllato bensì di altri, e cioè di coloro a cui il controllato deve politicamente rendere conto o degli organi preposti a sanzionare eventuali responsabilità.

Logicamente il controllo di tipo ispettivo non può che essere a campione, per cui si pone il problema di come giungere ad in-dividuare le situazioni da considerare. Si possono immaginare, al riguardo, vari sistemi da utilizzare anche in maniera congiunta. Oltre a meccanismi di rotazione eventualmente accompagnati dalla casualità del sorteggio, gli elementi indiziari che possono emergere dagli altri tipi di controlli (specialmente quelli sugli atti e quelli sulla attività in termini di risultati) dovrebbero orientare la composizione del campione. Inoltre, non va dimenticato che, in generale, i controlli servono anche a dare una risposta a fenomeni di allarme sociale e che, in particolare, i controlli ispettivi possono essere il modo per rimarcare la presenza delle istituzione a fronte di fenomeni del genere: in considerazione di ciò, si può immagi-nare che la costruzione del campione da sottoporre ad ispezione sia costruito anche tenendo conto dei fenomeni di maladministra-tion segnalati, in maniera fondata o meno, dai media.

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Francesco Battini

IL RUOLO DELLA CORTE DEI CONTI

1. La natura unitaria dei controlli della Corte dei ContiÈ forse una notazione scontata, ma è doveroso avvertire che,

quando nei corridoi della Corte dei Conti risuona, seppur sussur-rata, la parola «controllo», ecco che subito dalle stanze fuoriesce gente in assetto d’arme, chi intonando un Te Deum o la Marcia Reale, chi canticchiando la Marsigliese o l’Internazionale. Non mancano, come intuiva Modesto Della Porta, solerti tromboni che si industriano ad accompagnare entrambe le fazioni.

Alla Corte, in altre parole (ma anche al di fuori di essa, sep-pur con meno protervia), sono tuttora in corso guerre di religione per affermare il predominio dell’una o l’altra di due tipologie di controllo che si presumono antitetiche, il controllo preventivo di legittimità su singoli atti e quello successivo sulla gestione dei bi-lanci. Anche in questo scritto, pertanto, sarà necessario valutare il ruolo della Corte, nella prevenzione e contrasto della maladmini-stration, considerando separatamente, in termini di comparazio-ne, l’una o l’altra modalità di controllo.

L’ambizione di chi scrive, tuttavia, è quella di negare la suppo-sta contrapposizione e di affermare che il controllo della Corte dei Conti ha, in realtà, natura unitaria e che la sua fi nalità è in ogni caso quella di ausiliare gli organi elettivi (e, per essi, le comunità rappresentate) nelle valutazioni di sana e regolare gestione delle risorse pubbliche.

Tale funzione si esplica non soltanto attraverso referti periodici ai parlamenti, aventi ad oggetto gestioni continuative, ma anche con l’esercizio di poteri che consentono, nel corso della gestione, di segnalare ai governi e alle amministrazioni, con la dovuta tem-pestività, le opportune o necessarie correzioni gestionali o ammi-nistrative.

Il nesso di ausiliarietà che lega la Corte agli organi elettivi si compendia essenzialmente nella creazione di una trasparenza ge-stionale asseverata dall’indipendenza dell’Istituto. E, tra gli stru-

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menti che agevolano la tempestività delle misure di auto-correzio-ne – e costituiscono un indispensabile complemento del controllo gestionale – un ruolo di preminente risalto è anzitutto riservato al controllo preventivo di legittimità su atti (addirittura costituzio-nalizzato quanto agli «atti del governo», in attuazione dei quali le irregolarità o i rischi gestionali possono moltiplicarsi); ma a tale strumento si affi ancano (o lo sostituiscono, quando esso non ri-sulti compatibile con l’autonomia del soggetto interessato), i c.d. «avvisi» ai governi o alle amministrazioni, non a caso contemplati (senza le inutili complicazioni previste dalla legge n. 15 del 2009) da tutte le normative generali che disciplinano il controllo della Corte, ad iniziare dal testo unico del 1934 e per fi nire con la legge fi nanziaria del 2006, commi 166 e seguenti.

Ad una concezione unitaria del controllo, quale ora esposta, conduce anzitutto una lettura non preconcetta dell’art. 100 della Costituzione, che inequivocabilmente stabilisce per tutte le forme di controllo da esso disciplinate (compresa anche quella del con-trollo preventivo su atti), l’esito del referto al Parlamento. Della necessità di accompagnare al referto poteri di immediato inter-vento correttivo – la cui eventuale effi cacia interdittiva deve però essere rimuovibile da parte degli organi responsabili della gestio-ne – può prendersi anche atto, al di là della logica, con la lettura dei lavori di preparazione del testo costituzionale.

Tutto ciò riaffermato, non è un fuor d’opera sottolineare subito che la funzione di trasparenza gestionale assegnata complessiva-mente al controllo della Corte è di per se stessa una importante garanzia, il cui peso concreto, nella prevenzione e correzione dei fenomeni di maladministration qui considerati, dipende, certo, dalla professionalità di chi crea trasparenza, ma anche, e forse in misura maggiore, dall’uso che di quest’ultima vogliono o possono fare i parlamenti e le comunità rappresentate.

Contrariamente a quanto si insegnava nei vecchi manuali, il controllo della Corte non può incidere sulla responsabilità di chi amministra e non può pertanto comportare direttamente sanzio-ni, se non una rimuovibile sospensione di effi cacia di taluni atti ed in ipotesi particolari. Le sanzioni vere alla cui irrogazione esso concorre sono quelle che i parlamenti possono comminare ai go-verni, nella loro funzione primigenia di controllo politico, nonché

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quella che le comunità rappresentate possono infl iggere alle mag-gioranze elettorali.

Se si afferma che, in contrasto con basilari principi costituzio-nali, il descritto circuito democratico più non funziona, occorre sperare che il fenomeno sia temporaneo e riconoscere che, co-munque, non deriva da carenze di chi opera o del come è operata la trasparenza gestionale. Rimuovere o danneggiare una garanzia apre sempre le porte all’irrompere o al consolidarsi di effetti alta-mente indesiderabili e, talora, irreversibili.

2. Controlli sugli atti e controlli sui risultatiDurante i lavori della Costituente, a chi si preoccupava dei

possibili effetti negativi del controllo preventivo venne tra l’altro risposto (Mortati) che l’autonomia decisionale del governo era fatta salva dalla registrazione con riserva. Ciò dovrebbe far rifl et-tere; ma, al di là di questo, motivi storici e logici portano a ritene-re – contrariamente a recenti interpretazioni stimolate dalla legge n. 102 del 2009 – che il controllo preventivo di legittimità su atti della Corte sia tendenzialmente incompatibile con l’autonomia dei soggetti diversi dallo Stato (e non ad esso legati da rapporti di tipo gerarchico).

Ciò non toglie, tuttavia, che per altre strade la Corte possa va-lutare anche la legittimità di singoli atti, per segnalare la necessità di correzioni («avvisi» agli organi di indirizzo, più spesso però utilizzabili a fronte di rischi gestionali) e poi per riferire agli or-gani elettivi sulla congruità o eventuale insuffi cienza dei rimedi attivati. A rendere ciò possibile concorrono in primo luogo i po-teri istruttori degli organi di controllo e alcune modalità del con-trollo stesso (istruttorie sul campo ex lege n. 131 del 2003; per gli enti sovvenzionati, art. 12 della legge n. 259 del 1958), ma anche estemporanee disposizioni di legge che impongono alle ammini-strazioni pubbliche l’invio alla Corte di particolari categorie di atti.

Non è neppure da escludere, infi ne, che forme di controllo preventivo analoghe o paragonabili a quelle sugli atti dello Stato possano essere previste da norme di rango costituzionale (statuti, per tali profi li superati, di alcune Regioni ad autonomia speciale;

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ora soppressi artt. 125 e 130 Cost.), ovvero istituite in via con-venzionale (ulteriori forme di collaborazione tra enti territoriali e Sezioni regionali di controllo, ex lege n. 131 del 2003; richiesta del Governo di attivare controlli preventivi temporanei, ai sensi della legge n. 20 del 1994). Notazione, quest’ultima, che potrebbe consentire a chi si ostina a vedere differenze sostanziali tra agget-tivazioni normative (controllo ausiliario e controllo collaborativo) di riservare il termine collaborazione ai contatti, in corso d’eser-cizio, tra Corte e governi, laddove ausiliaria la Corte resterebbe, correttamente, nei confronti dei soli parlamenti.

Ha poco senso, in defi nitiva, interrogarsi sulla maggiore o mi-nore effi cacia, ai fi ni che qui interessano, del controllo preventivo rispetto a quello sulla gestione, mentre è semmai da chiedersi se, nella lotta alla corruzione, un contributo sensibile può essere for-nito dall’esame di (sola) legittimità di singoli atti.

Nei vivaci dibattiti innescati dalla riforma del 1994 (legge n. 20), vi fu chi provò a dimostrare l’idoneità dei controlli su atti a combattere la corruzione rilevando una maggiore diffusione delle patologie penali nei settori (il riferimento era agli enti territoriali) non soggetti al controllo preventivo della Corte. La circostanza – a tacer d’altro addotta, ma non provata – era semmai idonea a comprovare una maggiore effi cacia dei controlli preventivi della Corte rispetto a quelli, anch’essi preventivi, esercitati all’epoca da altri organi sugli atti dei Comuni. Fu facile inoltre replicare che l’eventuale maggior diffusione di fenomeni corruttivi si prestava ad essere imputata ad altri fattori, quali, ad esempio, l’assenza dei controlli di un organo interno-esterno, quale, per le amministra-zioni dello Stato, è la Ragioneria generale, ovvero i sistemi elettivi degli amministratori e di reclutamento dei pubblici funzionari, gli effetti della maggiore «vicinanza», in sede locale, tra amministrati e amministratori, gli stessi criteri di aggregazione e variabilità del-le maggioranze politiche.

La conclusione logica di quella sterile querelle fu comunque nel senso che una comparazione seria potrebbe semmai essere condotta, anche sotto lo specifi co profi lo del potenziale contrasto alla corruzione, tra «sistemi» di controllo e chiamare dunque a confronto un sistema decisamente sbilanciato a favore dei con-trolli di legittimità su atti (o di procedimento), quale risultava

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essere quello italiano prima della riforma del 1994, e un sistema invece basato, in analogia alle scelte effettuate nei restanti Paesi industrializzati, sulla diffusione e il potenziamento di controlli di risultato (affi ancati, come si è visto, da strumenti di verifi ca in corso di svolgimento, anche aventi ad oggetto singoli atti). E, al riguardo, si osservò che, se proprio si desiderava ridurre la com-parazione tra sistemi ad una analisi quantitativa della maggiore o minore diffusione delle patologie penalistiche, un confronto pro-bante poteva già essere quello tra l’Italia e gli altri Paesi, con risul-tati (s’era, all’epoca, nel pieno dello scandalo di «Tangentopoli») che certamente avrebbero confortato la necessità di aggiornare il nostro sistema.

3. La scarsa effi cacia dei controlli preventivi per la lotta alla cor-ruzione e alla maladministrationIn diverse sedi chi scrive ha espresso al riguardo una sua perso-

nale valutazione, secondo cui sarebbe utopistico (se non auto-re-ferenziale) attribuire al controllo preventivo di legittimità su atti, e, più in generale, a controlli procedimentali, effetti di concreta prevenzione nei confronti di quei fenomeni corruttivi che, noto-riamente, agiscono a monte dell’atto, senza che nulla possa trape-lare dalla forma di quest’ultimo.

Gli atti che rispecchiano la maladministration sono anzi quelli che meglio di altri curano il rispetto delle procedure; e il fatto che una (nuova) estensione dei controlli di legittimità su atti sia richiesta spesso proprio dalla categoria dei gestori potrebbe al limite dimostrare che il «timbro» di legittimità della Corte è da qualcuno desiderato come lasciapassare anche per atti che sono conseguenza o prezzo di corruzione o concussione.

L’infi ltrazione malavitosa nell’amministrazione pubblica può metaforicamente paragonarsi ad una mini-invasione da parte di nemici che indossano impeccabilmente la divisa e i segni di ri-conoscimento dei militari del Paese vittima, ne parlano perfetta-mente la lingua e conoscono le varie parole d’ordine. Del fenome-no non può fi siologicamente avvedersi una verifi ca «di frontiera», condotta sui veicoli e sui segni distintivi usati dagli invasori, oc-correndo semmai avere un quadro monitorato del loro compor-

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tamento successivo e del loro rapportarsi con le strategie generali del Paese invaso.

È bene chiarire che ciò non comporta un giudizio globale di inutilità dei controlli di legittimità (o di procedimento, contrap-posti a quelli di risultato) ai fi ni della prevenzione del malcostume amministra tivo, dal momento che le regole procedimentali su cui si esercitano le verifi che in parola garantiscono soprattutto una corretta fi nalizzazione dell’attività amministrativa.

Appare anzi possibile ritenere, in tale prospettiva, che anche i controlli di legittimità tutelano, al fondo, sia pure indirettamente, i risultati dell’azione amministrativa e che la loro peculiarità risiede nel fatto che essi strutturalmente prendono in considerazione una fase iniziale o intermedia del ciclo produttivo dell’amministrare, valutandone la conformità ad uno schema precostituito, laddove le verifi che di risultato incidono direttamente su questo ultimo, di norma valutandolo secondo una serie aperta ed elastica di para-metri di riferimento e guardando al ciclo nella sua interezza.

Queste considerazioni, ove siano ritenute accettabili, riducono ulteriormente la distanza e la contrapposizione tra due tipologie di controllo che si pretendono distinte, rafforzando la tesi di un controllo unitario sulla sana e regolare gestione, il cui esito è il referto ma che può conoscere fasi interlocutorie fi nalizzate alla segnalazione di irregolarità o di rischi gestionali ed allo stimolo all’adozione di misure correttive. In tale visione, dalla quale oc-correrà prendere anche le mosse in tema di rapporti tra controlli e azione inquirente delle Procure della Corte, si giunge ad affer-mare che tutto il controllo della Corte è preventivo, nel senso che esso mira a prevenire, e non a sanzionare, le irregolarità e i rischi gestionali.

È soprattutto da questo tipo di considerazioni che nasce il pes-simismo di fondo sul ruolo che rivestono o che potrebbero rive-stire i controlli della Corte in tema di contrasto alla corruzione. I sistemi di controllo esterno non sono costruiti in questa ottica e fi nalizzarli alla scoperta di illeciti signifi cherebbe snaturarli.

È in linea teorica possibile che la trasparenza gestionale crea-ta dai controlli esterni della Corte sia d’ausilio e di stimolo alla ricerca e alla punizione, a fi ni anche di prevenzione, di soggetti responsabili di delitti contro l’amministrazione. Ma è un fatto, e

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non è senza ragione, che non si conoscano, o che siano rarissimi, casi nei quali l’azione penale, o anche quella contabile, abbiano preso le mosse da deliberazioni di controllo preventivo di legitti-mità, o anche da referti sulla sana gestione.

4. L’infi ltrazione di interessi particolariSi è prima parlato di infi ltrazioni malavitose paragonabili ad

una ben camuffata invasione di agenti nemici. Gli episodi di cor-ruttela di volta in volta evidenziati dalle indagini penali obbligano infatti ad interpretare tali vicende, come si è avuta occasione di precisare anni or sono, non in termini di aggiramento di linee fortifi cate, ma in termini, per l’appunto, di infi ltrazione. Il feno-meno è quello dell’interesse illecito che si accompagna o, ancor peggio, si sostituisce all’interesse pubblico cui è formalmente di-retta l’azione amministrativa; e che, rivestendo le forme tipiche di quest’ultima, ed anzi avvalendosene, in modo da usufruire delle agevolazioni eventualmente previste dall’ordinamento, persegue invece il risultato criminoso.

Un paragone forse più calzante di quello sopra proposto può riferirsi alle difese immunitarie di un organismo eluse da virus capaci di impadronirsi del DNA di cellule amiche. È chiaro che a cogliere e prevenire tali fenomeni degenerativi a poco può valere un rafforzamento o una intensifi cazione dei controlli di conformi-tà. Qualcosa di più utile potrebbe semmai emergere dalle valuta-zioni critiche di qualche referto gestionale.

La gara indetta per la costosa realizzazione di un’opera non strettamente necessaria o per la progettazione di interventi così lontani nel tempo da renderne di certo obsoleti i risultati sono sintomi che non dovrebbero sfuggire ad un serio controllo di tipo gestionale e che una verifi ca di legittimità su atti, seppur potesse coglierli, non ne sarebbe abilitata. La gara pilotata a priori ver-so un’aggiudicazione predeterminata marcia spesso su ben oliati binari procedimentali ed ottiene necessariamente il visto di legit-timità; altrettanto può accadere per la gara aggiudicata a prezzi più alti di quelli di mercato, a meno che non siano previsti mec-canismi formali di confronto, peraltro spesso aggirabili attraverso accordi tra imprese concorrenti.

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Negli esempi fatti, che ovviamente non esauriscono l’elenco, un controllo procedimentale è destinato ad imbattersi in atti for-malmente ineccepibili e la cui illiceità può semmai sospettarsi aliunde e a posteriori, attraverso «indizi» che solo un controllo sui risultati è teoricamente idoneo a cogliere.

La ripetitività dell’aggiudicazione di commesse ad un ristretto numero di ditte, e la «distribuzione» tra di esse degli esiti favore-voli; la frantumazione tra più appalti utilizzata per sfuggire all’ob-bligo di una gara formale; il pareggio del bilancio ottenuto con esternalizzazioni, sono tutte evenienze che possono emergere da un controllo effettuato su cicli gestionali e che in tal caso vanno ovviamente segnalate all’organo elettivo di competenza, con re-ferti (o avvisi) disponibili sul sito della Corte da parte di chiunque ne abbia interesse.

Essenziale è poi la considerazione che il controllo della Corte, sia in caso di referto che in caso di avviso, non si arresta a tali esiti, ma può e deve verifi care, successivamente, se le misure corretti-ve suggerite siano state concretamente adottate e se esse possano ritenersi congrue.

5. Controlli amministrativi e azione penalePuò dirsi, in conclusione, che sintomi teoricamente utili al-

l’azione penale di contrasto alla corruttela sono più facilmente desumibili in sede di controlli generali sulla sana gestione, in ra-gione sia del più ampio oggetto su cui essi si estrinsecano, sia della fl essibilità dei parametri di riferimento. La minor probabilità che sintomi analoghi emergano anche da controlli di legittimità su singoli atti deriva, per contro, dalla loro fi siologica parcellizzazio-ne e dalla semi-rigidità dei parametri, che con diffi coltà o ritardo potrebbero semmai adeguarsi in funzione delle patologie di volta in volta da contrastare.

Ma va soprattutto ribadito che valutare i sistemi di control-lo esterno alla stregua della loro maggiore o minore effi cacia nel contrasto ai fenomeni corruttivi è frutto di un’erronea concezione del ruolo dei controlli esterni, dal momento che essi solo indiret-tamente e occasionalmente possono contribuire alla prevenzio-ne di comportamenti illeciti ed agevolare indagini che restano di

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esclusiva competenza di altri apparati, in primis la magistratura penale.

Da un lato, infatti, va considerato che la maggior parte degli illeciti commessi da pubblici amministratori è perpetrata con mo-dalità tali da sfuggire a qualsiasi sistema di controlli gestionali o amministrativi; dall’altro, che le garanzie offerte da questi ultimi riguardano valori diversi, quali la trasparenza della gestione, la legalità del procedimento ed il buon andamento dell’amministra-zione, valori che l’ordinamento protegge in quanto tali, e non in quanto accidentalmente connessi o utili a potenziare la tutela pe-nale.

Quest’ultima, in altre parole, si muove su terreni diversi da quelli su cui agiscono i controlli, anche allorché essi hanno ad og-getto la legittimità. E ne è riprova non soltanto la frequente pos-sibilità che un atto illegittimo, o una gestione non ottimale delle risorse, non concretino fattispecie penalmente rilevanti, ma anche la constatazione che alcuni reati contro la pubblica amministra-zione risultano commessi nel pieno rispetto della formale legit-timità, e talora perfi no senza pregiudizio per la «sana» gestione, come ebbe a verifi carsi nel caso Lockheed. Può aggiungersi che la normativa valutaria italiana disciplina il pagamento all’estero di compensi di mediazione senza troppo preoccuparsi delle ricadute penali previste dall’ordinamento del Paese estero interessato.

6. La fi nalizzazione dei controlli esterni alla prevenzione della corruzioneÈ opportuno ora sottolineare che quanto sinora esposto costi-

tuisce una sorta di relazione di minoranza, perché all’interno della Corte (ma sintomi analoghi iniziano a cogliersi al di fuori di essa, anche a tacere delle sorprese che in materia fornisce di continuo il legislatore), lo scarso contributo fornito dai controlli esterni alla prevenzione dei fenomeni di corruttela è visto non come fi siolo-gica conseguenza dei diversi valori così garantiti, ma come una inammissibile debolezza del sistema, da ovviarsi attraverso il con-ferimento ad esso di una oggi inesistente «effettività».

La proposizione sfocia essenzialmente in due tipi di proposta: da un lato una intensifi cazione ed una estensione dei controlli

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di legittimità su atti (ritenuti per defi nizione più «effettivi», in quanto muniti di sanzione); dall’altro, una diretta fi nalizzazione dei controlli gestionali alla ricerca di comportamenti illeciti da segnalare agli organi inquirenti.

È notevole, sia detto per inciso, che quest’ansia di proiettare il controllo sulla ricerca di illegittimità o illiceità trionfa in Italia proprio dopo che la Conferenza di Parigi delle Istituzioni supe-riori di controllo ha raccomandato nel 2009, in relazione alla crisi economica in atto, di concentrare i controlli sui risultati e sulla effi cacia delle politiche di emergenza, e non tanto sulla rispon-denza alle norme; ciò che, secondo la Conferenza, pone problemi di confronto con gli economisti e comporta fortissimi impegni di formazione, soprattutto per le Istituzioni basate sul modello delle Magistrature, giacché la formazione fi nanziaria macroeconomica diventa strumento essenziale anche per la mera valutazione della correttezza formale di politiche non ortodosse.

Senza troppo diffondersi nella critica di recenti e specifi che di-sposizioni di legge, tutte, d’altronde, implacabilmente appostate da qualche furbesca manina in emendamenti di testi legislativi «blindati», vale solo la pena di rilevare che tutte le rivendicazioni di «effettività» dei controlli e quasi tutte le innovazioni concre-tamente poi introdotte da norme fuori sistema riguardano sol-tanto il controllo sulle autonomie territoriali, laddove assai meno bisognosi di rattoppi sono giudicati, apparentemente, i controlli successivi sulla gestione delle amministrazioni dello Stato (o degli enti sovvenzionati).

Dalle relazioni che la Corte invia al Parlamento nazionale sulla gestione delle amministrazioni dello Stato (tra le recenti può ci-tarsi, a caso, quella sul ponte di Messina), ed anche da ciò che le Sezioni riunite osservano, in audizioni apposite, sulla attendibilità dei calcoli e delle previsioni poste a base delle manovre fi nanzia-rie, emergono critiche assai pesanti e segnalazioni di criticità il più delle volte poi disattese: ma a nessuno degli addetti ai lavori viene in mente di pretendere effettività anche in tali casi.

La fi nanza locale, d’altronde, ha inciso nell’ultimo biennio sul peggioramento del defi cit pubblico per circa lo 0,1% e non regge l’ipotesi che le pretese di maggior rigore siano giustifi cate dall’en-tità delle risorse amministrate. Neppure è vero, inoltre, che i re-

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ferti adottati dalle Sezioni regionali di controllo della Corte siano «inutili», in quanto depotenziati dal carattere «collaborativo» del controllo. Per prima cosa, dire collaborativo (con gli organi elet-tivi) signifi ca dire ausiliario e, pertanto, collaborativi, o ausiliari, se si preferisce questa locuzione, sono tutti i controlli della Corte (rectius, tutte le modalità in cui si estrinseca il controllo, unitario, della Corte; si è prima rilevata la teorica possibilità di riservare semmai il termine collaborazione agli strumenti che consentono alla Corte contatti con i governi nel corso dell’esercizio).

Le Sezioni regionali, secondo una recente statistica, hanno in secondo luogo adottato nel 2009 circa 6.000 delibere e il grado di adesione delle amministrazioni alle osservazioni ivi formulate ri-sulta alto, come testimoniato dalle verifi che effettuate a posteriori sulla congruità delle auto-correzioni apportate.

Una sola delle possibili interpretazioni del fenomeno sembre-rebbe dunque sopravvivere: quella secondo cui, anche attraverso una rimodulazione dei controlli, gli apparati centrali mirano a riconquistarsi gli ambiti decisionali perduti con l’assetto di tipo federalistico assunto dalla Repubblica. Il nemico combattuto, in altre parole, potrebbe proprio essere l’autonomia degli enti ter-ritoriali.

Ma è una seconda circostanza a sminuire probabilmente la gra-vità dell’assunto: non è un mistero che molte delle disposizioni «indagate» provengono direttamente dalla Corte. Può preoccu-pare che il legislatore dia spazio a tali non uffi ciali interferenze; ma l’ostilità per il controllo c.d. collaborativo potrebbe almeno in parte ridursi ad un episodio della lunga guerra ingaggiata, all’in-terno dell’Istituto, dai nostalgici del (solo) controllo di legittimità, ovvero rivelarsi un tentativo di dare veste al detto – che non a caso circola nei corridoi della Corte – secondo cui il vero control-lo sarebbe, a ben guardare, proprio quello delle Procure.

7. Controlli e azione inquirente delle Procure della Corte dei ContiDue parole ancora, pertanto, sui rapporti tra controlli ed azio-

ne inquirente delle Procure della Corte dei Conti. La Consulta ha nel 1995 avvertito sulla necessità (a pena di incompatibilità

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costituzionale tra controlli esterni ed autonomia dei soggetti con-trollati) di tenere separate le due funzioni. Sempre più diffusa all’interno della Corte dei Conti è tuttavia l’opinione che occorra in qualche modo superare tale raccomandazione.

È ferma opinione di chi scrive che asservire il controllo alla giurisdizione equivarrebbe non soltanto a snaturarlo, ma anche a declassare il lavoro dei (pochi) magistrati addetti alla funzio-ne. Ma al di là anche di questioni legate a posizioni di orgoglio professionale (occorrerebbe non dimenticare che l’attribuzione alla Corte di funzioni giurisdizionali ha una ragion d’essere solo perché l’Istituto svolge funzioni di controllo), va qui ribadito che il problema intero è in realtà mal posto.

Il controllo sulla (sana) gestione si esercita essenzialmente sui rischi, guarda al futuro, non ai peccati ed al passato. Se le veri-fi che si imbattono in una illegittimità, la prendono in considera-zione per segnalare l’esigenza di correzioni, al fi ne di evitare che l’errore possa ripetersi o che se ne consolidino le conseguenze negative. Sono al controllore estranee le fi nalità della caccia. La «sana» gestione deve anche essere regolare, ma soprattutto deve essere tale da garantire gli equilibri di bilancio e la profi cuità delle spese.

Se si fuoriesce dai controlli sulla gestione delle autonomie ter-ritoriali, d’altra parte, l’osteggiata separazione tra le due essenziali funzioni della Corte non sussiste, tanto che la Procura generale partecipa al giudizio di rendicontazione sulla gestione dello Stato e i referti al Parlamento delle Sezioni centrali di controllo sono di fatto trasmessi alla Procura anche con eventuale segnalazione dei fenomeni da approfondire. Ciononostante, neppure tali controlli contribuiscono di fatto ad orientare indagini da parte dell’orga-nismo inquirente.

La notazione sembra suffi ciente a dimostrare la fondatezza del-la tesi qui esposta; e l’insistenza con la quale – anche in questo caso per i soli controlli sulle autonomie territoriali – continua ad essere affermata l’opportunità di aggirare il comandamento della Corte costituzionale avvalora il sospetto di una diffusa sindrome di accentramento.

Una tesi più raffi nata tende poi oggi a distinguere, nell’ambito dei controlli qui in esame, le valutazioni di regolarità da quelle

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esprimibili in termini di effi cienza e solo per le prime pretende-rebbe un collegamento funzionale con le Procure. Ma nel con-trollo di regolarità si vorrebbero comprese anche le verifi che di signifi catività delle scritture contabili e sul rispetto di parametri quantitativi, oltre che le valutazioni dei rischi connessi alle parte-cipazioni societarie o alle scelte di strumenti per l’indebitamen-to.

Va detto dunque che il controllo verrebbe in sostanza così ri-battezzato nella sua quasi interezza, ma non per questo reso ma-gicamente compatibile con l’autonomia degli enti territoriali. E per quel poco che residuerebbe (il c.d. controllo di effi cienza), le autonomie sarebbero libere – e assai probabilmente e comprensi-bilmente propense – a provvedere per proprio conto.

La tesi è dunque elegante, ma rema contro il tentativo di con-ferire al controllo natura unitaria e conduce, nella sostanza, alla totale distruzione del sistema edifi cato dalla legge n. 131 del 2003 e al venir meno dell’esigenza stessa di una ramifi cazione sul terri-torio dei controlli della Corte.

8. Giurisdizione contabile e giurisdizione penaleSe scarsi, per i motivi esposti, sono purtroppo gli elementi in-

formativi che è dato ricavare, circa i fenomeni corruttivi, attraver-so i controlli di legittimità su singoli atti, e se dagli stessi controlli di risultato, aventi ad oggetto la sana e regolare gestione, possono tutt’al più emergere meri sintomi di illiceità, di fatto poco utili per gli organi inquirenti, fonte certamente più utile di approfon-dimento dei fenomeni stessi potrebbe per contro essere la giu-risdizione contabile esercitata dalla Corte stessa, soprattutto in relazione ai legami che essa intreccia con l’azione penale.

La sinergia tra le due giurisdizioni potrebbe teoricamente agire in ambedue le direzioni, ma, nel concreto, è quasi sempre il pre-vio giudizio penale che fornisce a quello contabile gli elementi del danno erariale, o aggiungendo a quelle penali una altrettanto o talora più temuta sanzione economica, ovvero, in alcuni casi, sostituendo una sanzione penale impossibile da erogare.

Una complessiva visione delle caratteristiche e dei risultati della giurisdizione contabile è annualmente offerta dalla Rela-

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zione tenuta dal Procuratore generale della Corte in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma elementi parziali e maggiormente approfonditi possono se del caso ricavarsi dalle Relazioni che i Procuratori regionali parimenti approntano per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso le singole Sezioni giurisdizionali regionali della Corte.

Dai dati offerti dall’ultima Relazione del Procuratore gene-rale, può evincersi che sul totale delle sentenze di primo grado pronunciate nel 2009 quelle con notitia damni proveniente da un previo giudizio penale per reati contro la pubblica amministrazio-ne (corruzione) costituiscono l’11,7%, seppur con una incidenza aggiuntiva, pari al 5,3%, delle sentenze aventi ad oggetto danni all’immagine.

Va tuttavia tenuto conto che la stragrande maggioranza delle condanne pronunciate dalla Corte si basano sull’elemento sog-gettivo della colpa (grave), laddove i rari casi di affermata presen-za del dolo si riferiscono spesso ad un «dolo contrattuale», cioè inadempimento volontario di vincoli contrattuali, non coinciden-te con il dolus malus che caratterizza la corruzione e del quale si occupa il giudice penale. Ciò comporta che, come prima os-servato ed al di là del danno all’immagine, di cui si dirà poi, la giurisdizione contabile supplisce spesso ad ipotesi nelle quali la condanna penale non può intervenire, ad iniziare da quelle in cui l’assoluzione penale – che in passato sarebbe stata pronunciata per insuffi cienza di prove – non è motivata in modo tale da esclu-dere l’accertamento di un danno e la sua possibile imputabilità per colpa grave ad alcuni responsabili.

La possibile sinergia tra le due funzioni assume profi li partico-lari allorché si versi nel c.d. danno all’immagine, creato piuttosto recentemente dalla giurisprudenza contabile con l’avallo della Cassazione.

Da poco, interventi del legislatore molto criticati dagli addetti alla funzione hanno drasticamente ridotto l’ambito di applicazio-ne del danno all’immagine facendo esclusivo riferimento ai casi in cui esso si rapporti a sentenze penali di condanna. È lecito supporre che tale scelta costituisca una reazione alle tendenze espansive della precedente giurisprudenza contabile, secondo la quale il danno all’immagine dell’amministrazione non era solo un

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criterio di valutazione aggiuntiva di un danno patrimoniale ingiu-stamente arrecato, ma costituiva (e costituisce) una fattispecie di danno immateriale a sé stante, pertanto imputabile anche nelle ipotesi in cui manchi del tutto un danno patrimoniale in senso stretto.

Una strada intermedia potrebbe reperirsi meditando su una fattispecie recentemente profi latasi, nella quale, accertata in sede penale la elargizione, da parte di un privato, e l’accettazione, da parte di un funzionario pubblico, di regalie di valore ingente, ma accertata anche l’assenza di un riferimento ad una particolare operazione, non soltanto non era stato possibile ravvisare, a fron-te di un intento generico di ottenere favoritismi, il confi gurarsi di un reato, ma neppure s’era ritenuta automaticamente provata la sussistenza di un danno patrimoniale. Quantomeno in casi del genere, sarebbe logico riconoscersi la perseguibilità del danno al-l’immagine in assenza non soltanto di un danno patrimoniale ma anche di una condanna penale, pur tenendo eventualmente ferma l’obbligatorietà di un previo giudizio penale.

9. La scarsa attenzione al ruolo della giurisdizione contabile nel-la lotta alla corruzioneLa ricordata relazione del Procuratore generale in occasione

della inaugurazione dell’anno giudiziario 2010, ha sottolineato l’importanza dei problemi inerenti al danno erariale connesso alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, ricono-scendo peraltro che il ruolo della giurisdizione contabile risulta in tali ipotesi non limitato alla sola determinazione del danno patri-moniale, ma anche di quello non patrimoniale, arrecato all’imma-gine dell’ente di appartenenza.

Sulla base di tali considerazioni, ha lamentato che l’articolo 17, co. 30-ter, della legge n. 102 del 2009 preveda oggi, come già pri-ma notato, che l’azione risarcitoria per danno all’immagine sia esercitabile nel solo caso di condanna da previo giudizio penale.

Circa il numero delle denunce presentate nel 2009 riguardo a presunti reati di corruzione, concussione e abuso di uffi cio, ha rilevato poi diffi coltà di confronto e coordinamento tra i dati provenienti dalle Procure regionali della Corte e quelli forniti da

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fonti diverse, quali il Ministero per la pubblica amministrazione, Servizio anticorruzione e trasparenza (SaeT), il Ministero dell’in-terno, i Comandi generali dell’arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di fi nanza. Seppur con tale avvertenza, la relazione del Procuratore generale ha ritenuto attendibile la segnalazione di un deciso aumento delle denunce per fatti di corruzione e con-cussione, computando in oltre duemila i casi che dovranno essere comunicati alle Procure regionali della Corte ai sensi dell’articolo 129 delle norme attuative del c.p.p. Quantifi ca infi ne in 92 le cita-zioni in giudizio emesse dalle Procure per fattispecie inerenti ad ipotesi corruttive.

È un fatto, giustamente lamentato dalla magistratura contabi-le, che in nessuna delle varie proposte legislative presentate in Parlamento per fronteggiare adeguatamente il fenomeno del-la corruzione si faccia affi damento sul ruolo della giurisdizione della Corte. È utile pertanto osservare che, sul contributo che la giurisdizione contabile può assicurare alla lotta contro la malad-ministration, pesano alcune rilevanti storture, la prima delle quali è la facoltà, recentemente concessa ai condannati in primo grado (eccettuati i casi di dolo), di ottenere prima della discussione del-l’appello, a domanda, una riduzione cospicua (dal 70% al 90%) dell’addebito.

Il rimedio, oltre che incentivare gli appelli, di certo attenua l’ef-fi cacia dissuasiva che, soprattutto in alcuni contesti delinquenzia-li, può riconoscersi alle sanzioni pecuniarie. Essa inoltre concede al Presidente della Sezione di appello una discrezionalità ampia, che si somma a quella proveniente dalla facoltà della Corte di valutare equitativamente il danno, nel giudizio, e di fare ricorso al potere riduttivo. Pone problemi, infi ne, sul piano della parità di trattamento, perché la domanda di riduzione è concessa al solo condannato in primo grado, laddove di essa non può giovarsi chi, assolto in primo grado, viene poi condannato in appello.

Una recente relazione della Corte ha peraltro ritenuto il feno-meno di dimensioni ridotte, perché i soggetti che si considerano ingiustamente condannati preferiscono di norma sperare in una possibile assoluzione in appello. Ma l’istituto meriterebbe quan-tomeno di essere meglio disciplinato, ad evitare anche che l’entità delle somme quantifi cate da sentenze in primo grado di condanna

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possa di fatto costringere a chiedere la riduzione anche a fronte di errori riconoscibili, riscontrabili nella quantifi cazione del dan-no. Sarebbe equo in tal caso che l’accettazione della domanda di riduzione da parte del Presidente della Sezione d’appello possa rinviare, per ciò che riguarda il profi lo della quantifi cazione del danno da risarcire, alle eventuali correzioni del giudice di secon-do grado, se non altro ad evitare che chi ha preferito affrontare il giudizio di merito possa godere di «sconti» superiori a quelli del c.d. condono.

La concreta effi cacia della giurisdizione contabile nella preven-zione dei fenomeni corruttivi va anche valutata tenendo conto che, secondo un’indagine esterna condotta sulle sole sentenze di appello del periodo 2001-2006, e, attraverso esse, sulle sentenze appellate, il danno è risultato connesso alla corruzione, alla dazio-ne di tangenti e ad altri reati soltanto nel 12,8% dei casi in primo grado e nel 5,1% dei casi in appello.

Inoltre, è emerso dall’indagine che di tutti i condannati in pri-mo grado il 62% è assolto in appello e che il danno riconosciuto dalle sentenze di primo grado rappresenta mediamente un terzo di quello inizialmente contestato dalle Procure regionali, laddo-ve, rispetto a quest’ultimo, il danno riconosciuto in appello co-stituisce non più del 5,4% (3,6% se il pregiudizio ha riguardato amministrazioni centrali, 7,7% per gli enti locali).

Una ancor più grave distorsione di cui tener conto deriva poi dalla percentuale, tuttora disperante, delle relative riscossioni. Ri-spetto al misero 1,0% che negli anni Novanta risultava riscosso, rispetto agli accertamenti effettuati da giudicati della Corte, la semplifi cazione delle procedure del 1998 avrebbe migliorato la situazione, secondo valutazioni della Corte, ma non molto oltre il 10,0% dei casi.

A proposito, infi ne, del rapporto potenzialmente bidirezionale che lega la giurisdizione contabile a quella penale, può ritenersi negativo che l’azione della Corte segua, quasi sempre, il giudizio penale, poco contribuendo ad arricchire il numero dei fenomeni indagati. Per ottenere risultati diversi, occorrerebbe tuttavia rea-gire alla storica e fi siologica tendenza delle Procure della Corte ad agire sul versante dei comportamenti colposi, a costo talora di estendere la nozione di colpa grave, oggi perseguibile, anche

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ad errori anteriormente imputati a colpa lieve, ed ottenere un privilegiato orientamento delle indagini contabili su fattispecie teoricamente passibili di infi ltrazioni o pressioni da parte della criminalità organizzata, ovvero indicative di accordi illeciti tra im-prese. Le fonti che potrebbero fornire al riguardo utili elementi informativi andrebbero in tal caso ricercate anche nella sinergia con i sistemi di controllo interno, previo adeguato potenziamen-to, in particolare, dei controlli di tipo ispettivo.

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Pietro Barrera

ISTITUZIONI LOCALI, CONTROLLI INTERNIE GARANZIE DI LEGALITÀ

1. L’abbaglio «manageriale»Che non ci sia una relazione diretta e proporzionale tra la

quantità e complessità dei controlli e il tasso di legalità ed «etici-tà» dell’amministrazione è un dato storicamente provato. Il gorgo di «Tangentopoli» si è sviluppato, e alla fi ne è esploso, quando i Co.Re.Co. erano in piena attività, i segretari comunali e provin-ciali apponevano il loro «parere di legittimità» su ogni atto del-l’amministrazione locale, e il reticolo di controlli interni ed ester-ni, preventivi e successivi, di legittimità e di merito, era ancora dominato dalla tradizione gerarchica che soffocava ogni spazio di autonomia. Per questo non è comprensibile la nostalgia con cui qualcuno guarda ai «bei tempi» dei controlli esterni, a fronte di nuovi inquietanti episodi di cronaca giudiziaria. Quella ricetta l’abbiamo già sperimentata, ed è fallita.

Saremmo tentati di sostenere addirittura il contrario: è l’ecces-siva complessità dell’azione amministrativa a produrre il migliore brodo di cultura per la corruzione. Più sono i «passaggi», più numerosi sono i trabocchetti; e in ogni trabocchetto si cela la pos-sibilità di una scorciatoia, diventa redditizio «ungere le ruote». In questo senso non hanno torto le mozioni approvate dal Senato della Repubblica il 14 aprile scorso, quando impegnano il Go-verno

ad implementare il processo di semplifi cazione normativa e ammi-nistrativa […] con l’intento di ridurre quelle duplicazioni di fun-zioni e quelle sovrapposizioni di competenze che ostacolano una chiara identifi cazione delle responsabilità» (1).

È altrettanto vero però che vent’anni di semplifi cazioni ammi-nistrative e di razionalizzazione dei sistemi di controllo non hanno

(1) Così, rispettivamente, nelle mozioni 1-00236, Benedetti Valentini e altri, e 1-00265, Mazzatorta e altri.

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affatto cancellato rischi, tentazioni, e concretissimi esempi di dif-fusa maladministration. Non sono sintomi confortanti se sempre più spesso la dottrina giuridica è costretta ad occuparsi di etica pubblica (2), se il Governo sente il dovere di elaborare un disegno di legge «per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione» (3), e il Senato di approvare specifi ci atti di indirizzo (4). Probabilmente, all’acritica delega ad un barocco sistema di controlli amministrativi si è so-stituito un simmetrico abbaglio: la convinzione che bastasse una «rivoluzione manageriale», proiettare l’amministrazione verso la cultura dei risultati e dell’effi cienza, per recuperare un accettabile livello di legalità dei comportamenti pubblici. Il sistema dei con-trolli (interni ed esterni) ha spostato (avrebbe dovuto spostare) il baricentro dell’attenzione dalla legittimità formale alla performance sostanziale delle amministrazioni, per inverare un circuito di ef-fettiva responsabilità dinanzi ai cittadini, precondizione di una solida etica pubblica. Ma, di nuovo, le cose non sono andate nel senso sperato. Dovremmo allora domandarci, in modo brutale: si può essere effi cienti e ladri? Diciamolo meglio: si può contempe-rare una buona dose di disonestà individuale con la capacità di offrire comunque una buona qualità e quantità di servizi ai citta-dini? Ci sono esempi clamorosi che ci obbligano ad una risposta senz’altro affermativa: si pensi al Comune di Fondi (Lt), e ad altri Comuni sciolti per infi ltrazioni della criminalità organizzata, che dimostrano un’apprezzabile effi cienza in ambito locale – il cen-tro storico riqualifi cato, nuove opere pubbliche, gestione effi cace dei servizi di igiene urbana – ripagata (ovviamente) dal voto dei cittadini, e tuttavia sono in modo altrettanto evidente orientati a favorire interessi criminali. Anche senza estremizzare (lascian-do insomma da parte la versione brutale, «ladri ed effi cienti»),

(2) Cfr. F. Merloni, «L’etica della dirigenza pubblica», in G. D’Alessio (a cura di), L’amministrazione come professione, Bologna, il Mulino, 2008, 201; F. Merlo-ni, Al servizio della nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, Fran-co Angeli, 2009; L. Vandelli (a cura di), Etica pubblica e buona amministrazione. Quale ruolo per i controlli?, Milano, Franco Angeli, 2009.

(3) Disegno di legge A.S. 2156, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione..

(4) Senato della Repubblica, seduta del 14 aprile 2010.

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arriviamo alle stesse conclusioni. «Pilotando» una gara, si può comunque affi dare l’appalto ad una ditta apprezzata e di gran-de qualità tecnica; nel concorso pubblico si può ben favorire un candidato molto preparato, semplicemente evitandogli il rischio dello scivolone casuale, sempre in agguato nelle nostre compli-cate procedure di reclutamento; l’uso abnorme e disinvolto della trattativa privata non è detto che non possa portare addirittura ad un’accelerazione dei lavori e/o delle forniture, e dunque (nel bre-ve periodo, quello che più interessa l’opinione pubblica) ad un miglioramento degli standard di effi cienza. Del resto alzi la mano quell’amministratore pubblico che nemmeno una volta nella vita si è trovato a pensare che l’imparzialità e il buon andamento, in-vece che parti di un binomio virtuoso, sembrano esigenze con-trapposte, da contemperare – se va bene – in un punto di equili-brio mediano (insomma, quanto più si è imparziali quanto meno si è effi cienti, e viceversa). Conosciamo tutti la risposta scolastica, che ci spiega come l’imparzialità – il concorso pubblico, la gara d’appalto – è funzionale al buon andamento, perché consente di selezionare il candidato più preparato, l’offerta migliore, l’impre-sa più affi dabile. Eppure molte volte pare il contrario: sembra che il risultato migliore, in termini di qualità, affi dabilità, e dunque di effi cienza ed effi cacia, possa essere raggiunto proprio aggirando le formalità dell’evidenza pubblica.

2. Altre illusioni: l’alternanza e l’autonomiaL’abbaglio «manageriale» è stato accompagnato da altre due

illusioni. La speranza che bastasse «sbloccare» il sistema politico, consentendo a maggioranze competitive di alternarsi alla guida dell’amministrazione (di quel Comune, di quella Regione), per ridurre le degenerazioni intrinseche ad ogni «sistema di potere» senza ricambio. E la convinzione che praticando e tutelando gelo-samente l’autonomia delle istituzioni territoriali si sarebbero co-stretti gli amministratori a «rendere conto» del proprio operato alle rispettive comunità. Nuove ingenuità: se il blocco di potere ha favorito, ovunque nel mondo, la prepotenza e l’arroganza dei governanti, è altrettanto vero che una distorta logica della com-petizione bipolare può produrre (e spesso ha prodotto) una sorta

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di «alternanza dei torti»: tocca a me, dopo aver vinto le elezioni, ricompensare i miei elettori, gli imprenditori «della mia parte», persino i ragazzi che hanno dato una mano nella campagna elet-torale. Così come è drammaticamente vero che il sacrosanto prin-cipio di autonomia si è tradotto, in larghe parti del Paese, nella subalternità delle amministrazioni ai condizionamenti della cri-minalità organizzata, e un po’ dovunque nella tentazione di ridur-re gli ambiti della concorrenza per «proteggere» imprese e realtà locali (5). Sintetizzando: non hanno avuto successo le scorciatoie politiche, né la «cultura dei risultati» – quand’anche praticata con suffi ciente coerenza – ha posto un argine adeguato a pratiche (a dir poco) disdicevoli. In altre parole, la riqualifi cazione del siste-ma dei controlli interni in una (indispensabile, preziosa) prospet-tiva manageriale, di orientamento al «cliente», interno ed esterno, non basta, almeno nell’immediato, a promuovere con pari incisi-vità la legalità dell’azione amministrativa.

3. Trasparenza e integrità nella «legislazione Brunetta»La legislatura in corso sembra avvertire il peso di questi pro-

blemi. Non potremo dedicare troppa attenzione ai provvedimenti che, nel momento in cui scriviamo queste note, non sono ancora approvati (6), o sono ancora nel limbo degli annunci e delle buone intenzioni (7), ma già qualche rifl essione si può abbozzare sulle riforme più ambiziose giunte in porto. Già nella precedente legi-slatura, e di nuovo in primi importanti provvedimenti del 2008-2009, la scommessa si è concentrata essenzialmente sulla tra-

(5) Un pessimo segnale, in questo senso, è la norma sulla «territorializzazio-ne» dei concorsi, prevista dall’art. 51 del d.lgs. 150/2009; la convinzione che il federalismo sia la strada principale da percorrere per ripristinare responsabilità (e dunque legalità) traspare con evidenza nella già citata mozione 1-00265 appro-vata dal Senato il 14 aprile 2010.

(6) Si pensi al d.d.l. A.C. 3209, recante Disposizioni in materia di semplifi ca-zione dei rapporti della pubblica amministrazione con cittadini e imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle amministrazioni pubbliche e per la codifi cazione in materia di pubblica amministrazione.

(7) Ci riferiamo, ovviamente, al già citato d.d.l. A.S. 2156, che si è già carat-terizzato per un avvio particolarmente tormentato: approvato in Consiglio dei ministri il 1° marzo 2010, ed annunciato con grande enfasi, è stato presentato in Parlamento ben due mesi dopo!

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sparenza di assetti e procedimenti amministrativi: rendere tutto pubblico e accessibile, per lo più attraverso i siti istituzionali, per favorire il controllo diffuso e dissolvere la nebbia dove alligna la cattiva amministrazione (8). Certamente però il clima è cambiato con la c.d. «riforma Brunetta» (con questa espressione sbrigativa e «giornalistica» possiamo comprendere la legge delega ed ambe-due i decreti legislativi che l’hanno seguita (9)). Non è obiettivo di queste pagine esaminare o valutare una riforma così ambiziosa, per i rifl essi che ha sull’organizzazione del lavoro pubblico o sulle relazioni sindacali; restiamo piuttosto ai sintomi di una nuova at-tenzione ai temi della legalità, che pure si colgono qua e là, in un progetto che ha l’ambizione di restituire «effi cienza e trasparenza alle pubbliche amministrazioni». Tre sono i passaggi chiave:

a) l’impegno richiesto ai dirigenti (generali) di concorrere «alla defi nizione di misure idonee a prevenire e contrastare i feno-meni di corruzione e a controllarne il rispetto da parte dei di-pendenti» (10);

b) la previsione, in ogni amministrazione, di un «programma triennale per la trasparenza e l’integrità», che indichi, tra l’al-tro, le iniziative per garantire «la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità» (11);

c) la costituzione di una «sezione per l’integrità nelle amministra-zioni pubbliche» presso la Commissione centrale, chiamata a guidare il processo di implementazione della riforma (12).

Non sono impegni di poco conto, che valgono a temperare il rischio di una lettura rozzamente «produttivistica» della riforma. Se torniamo all’interrogativo provocatorio («effi cienti e ladri»?), la risposta sembra saggia ed equilibrata: non basta «fare di più»,

(8) Disposizioni in tal senso sono disseminate nelle «leggi fi nanziarie» per il 2007 e il 2008 (nn. 296/2006 e 244/2007), nel decreto legge n. 112/2008 conver-tito nella legge n. 133/2008, e nella legge n. 69/2009).

(9) Legge 4 marzo 2009, n. 15; d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150; d.lgs. 20 dicem-bre 2009, n. 198.

(10) Art. 38 (modifi che all’art. 16/165).(11) Art. 11, co. 3.(12) Art. 13, co. 8.

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occorre fare bene, nel rispetto di regole poste a tutela di beni e valori pubblici essenziali. Anzitutto l’uguaglianza dei cittadini, e poi la trasparenza del mercato, la qualità intrinseca dell’ammini-strazione e (dunque) della democrazia. Il dibattito che ha seguito la pubblicazione del d.lgs. n. 150/2009 non pare però dedicare a questi aspetti la giusta centralità. Forse era inevitabile, ma i temi della legalità e dell’integrità sembrano i «parenti poveri» rispetto al rilievo che hanno assunto altre questioni: la riconquista degli spazi di «unilateralità datoriale» a fronte della pervasività delle relazioni sindacali, la meritocrazia nella distribuzione di incentivi e possibilità di carriera, la misurazione e valutazione delle presta-zioni collettive e (soprattutto) individuali dei dipendenti pubblici. Sembra insomma che la tensione alla legalità dell’agire ammini-strativo, proprio perché precondizione di ogni positiva innova-zione, sia percepita come ovvia, scontata, non degna di una spe-ciale preoccupazione, o si debba ridurre ad alcuni adempimenti organizzativi e tecnologici. Tutto sommato anche la prima delibe-razione in tema di trasparenza (13), adottata dalla Commissione che ha il compito di guidare l’implementazione della riforma, non è particolarmente incisiva e non trasmette un senso di allarme: c’è da sperare che, istituita davvero la «sezione per l’integrità», cresca l’attenzione e, tramite la rete degli OIV (14), si diffonda ad ogni livello.

Forse però è riduttivo concentrarsi sulle poche disposizioni del decreto che esplicitamente «chiamano in causa» l’integrità versus la corruzione: è piuttosto l’impianto complessivo della riforma che deve essere valutato alla luce delle esigenze di legalità. In que-sto senso, a me pare che siano ancora una volta tre i profi li più interessanti. Il primo riguarda l’attenzione alla responsabilità in-dividuale, in specie disciplinare, di ciascun dirigente o dipenden-te pubblico: ne abbiamo parlato in altra parte di questa ricerca; non c’è dubbio, però, che un buon sistema di valutazione attento ai comportamenti di tutti e di ciascuno può offrire un contributo

(13) Delibera n. 06/2010, Prime linee di intervento per la trasparenza e l’inte-grità, su http://www.civit.it.

(14) Anch’essi chiamati a promuovere e attestare «l’assolvimento degli obbli-ghi relativi alla trasparenza e all’integrità» (art. 14, co. 4, g)).

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importante ai fenomeni degenerativi. Il secondo profi lo ha invece a che fare con il coinvolgimento attivo dei cittadini, auspicato e promesso in più passaggi del decreto 150, e presupposto del nuovo modello di azione collettiva previsto dal decreto n. 198/2009 (15). L’idea di fondo è semplice e convincente: se l’autoreferenzialità è la causa principale del fallimento dei sistemi di valutazione e/o di controllo interno, e non è possibile rimediare con nuovi controlli esterni (men che meno con un «grande fratello» capace di misu-rare e valutare tutto), si deve imboccare la strada del controllo diffuso. Suscitare, con le opportune iniziative di comunicazione e coinvolgimento, l’attenzione di un «terzo incomodo» – i cittadini, «singoli o associati» – per impedire pratiche di bassa lega, accordi corporativi, favoritismi e clientele nascosti dall’opacità dell’ammi-nistrazione (16). Questo è l’obiettivo che si vuole perseguire con «la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della performance» (art. 11, co. 3, del d.lgs. 150), con il coinvolgimento ex ante delle associazioni di consumatori e utenti nel programma triennale per la trasparenza (ibidem, co. 2), e con la previsione di un (inedito e diffi cile) controllo diffuso sulla contrattazione de-centrata integrativa (art. 40-bis, co. 4, del d.lgs. 165). Tutto bene, ma con un rischio che occorre scongiurare: è infatti possibile che, in una società frammentata e passivizzata, solo gli interessi più forti, più organizzati, più determinati siano in grado di farsi sen-tire, di incidere e «pesare». Il pericolo è ancor più evidente con l’azione collettiva (ancora tutta da decifrare): invece di essere la leva a disposizione dei cittadini «deboli» per reagire a ineffi cienze o prepotenze della pubblica amministrazione, potrebbe tradursi nello strumento di alcuni «poteri forti» (lobbies legali, ma persino

(15) D.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, Attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’effi cienza delle amministrazioni e dei conces-sionari di servizi pubblici.

(16) «Il controllo sociale… è il solo e vero potente strumento “di mercato” che il cittadino ha in mano: il fatto che non lo possa esercitare pienamente toglie effettività al processo democratico e priva il sistema delle autonomie locali del-l’unico vero motore di cambiamento di cui si potrebbe disporre»; così S. Pozzoli, Il sistema dei controlli negli enti locali, tra democrazia e territorialità, rielaborazio-ne del testo elaborato per l’audizione presso la V Commissione della Camera dei deputati, il 14 aprile 2010.

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poteri criminali) per condizionarla ed «orientarla» ai propri inte-ressi. È un rischio che spetta a tutti fronteggiare: alle amministra-zioni, affi nando gli strumenti e le forme del coinvolgimento «civi-co», e alle associazioni e movimenti che si muovono nella società civile, spesso ancora in modo fragile, sporadico o litigioso.

4. La «riforma Brunetta» e la sua applicazione da parte degli enti territorialiLa terza «idea forte» del decreto Brunetta, a cui conviene

prestare attenzione, non sembra a prima vista aver nulla a che fare con i temi che qui trattiamo. Si tratta del meccanismo pro-posto agli articoli 16 e 31 per l’adeguamento degli ordinamenti delle amministrazioni territoriali ai principi generali disposti dal legislatore. Stabilito che solo poche disposizioni hanno un vero carattere precettivo, perché espressione della potestà legislativa esclusiva dello Stato, quegli articoli chiamano Regioni, Province e Comuni (e le amministrazioni del servizio sanitario nazionale) ad adeguarsi ad alcuni «principi generali dell’ordinamento», rintrac-ciabili in altre disposizioni espressamente richiamate. In caso di mancato adeguamento entro il termine perentorio del 31 dicem-bre 2010, si applicheranno nelle amministrazioni inadempienti tutte le disposizioni del decreto, anche se altrimenti riferite alle sole amministrazioni statali. La questione è delicata: se è lecito dubitare della correttezza costituzionale di norme statali «ce-devoli» in materia riservata alla potestà legislativa regionale (in ipotesi: organizzazione amministrativa) (17), non c’è dubbio però che il meccanismo abbia una sua forza persuasiva. Non a caso le rappresentanze associative delle autonomie non ne hanno con-testato la logica di fondo. Forse, poi, i dubbi di legittimità sono meno solidi sul fronte della potestà regolamentare di Comuni e Province ex articolo 117, co. 6, della Costituzione, considerato che ormai da vent’anni l’ordinamento degli enti locali auspica un «metodo della legislazione» che enunci espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile alla loro autonomia norma-

(17) Cfr. L. Antonini, Sono ancora legittime le normative statali cedevoli?, in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti.

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tiva, distinguendoli evidentemente dalle disposizioni cedevoli e derogabili (18). Del resto nessuno ha gridato allo scandalo quando – in tema di reclutamento del personale – la legge ha affermato esplicitamente che la normativa statale, pignola e dettagliatissi-ma, deve essere rispettata dalle amministrazioni locali (solo) «in mancanza di disciplina regolamentare […] o per la parte non di-sciplinata da essa» (19).

Ecco il punto che qui interessa: si può seguire lo stesso me-todo per assicurare agli ordinamenti locali un suffi ciente grado di attenzione ai temi dell’imparzialità, della trasparenza dei pro-cedimenti, del contrasto alla cattiva amministrazione? La strada della legislazione statale cedevole può insomma costituire un sag-gio punto di equilibrio tra le ragioni dell’autonomia (normativa e organizzativa) e quelle del rigore e dell’effettività nella tutela di valori fondamentali per la convivenza civile? In nuce la risposta c’è già, se anche le disposizioni dell’articolo 11 in tema di tra-sparenza (e di azione per «la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità») sono parte del quadro delineato dall’articolo 16 per l’adeguamento degli ordinamenti locali, ma si tratta – lo ab-biamo già detto – di affermazioni generali, giuste ma necessaria-mente poco «stringenti». Non basta evidentemente proclamare, reiterare in modo solenne, le esigenze di trasparenza e integrità, e neppure impegnare le amministrazioni a predisporre un pro-gramma triennale. Si tratta piuttosto di entrare nella concretezza dell’attività amministrativa: il regolamento dei contratti, il rego-lamento di contabilità (compresa la parte relativa al controllo di gestione), le norme per la concessione di contributi o sussidi ex articolo 12/241. Anzitutto, insomma, le regole da seguire, prima ancora dei controlli da sviluppare: la defi nizione dei parametri di legalità, premessa indispensabile di ogni verifi ca successiva.

Mi rendo ben conto dei rischi che si corrono con questa ipotesi di lavoro. Se è vero che persino nella «stagione degli statuti», subi-to dopo la legge 142 del ’90, molte amministrazioni si accontenta-

(18) Così art. 1.3, d.lgs. 267/2000, ma di rispetto dei (soli) principi stabiliti dalla legge parlava già la legge 142/1992 a proposito dell’autonomia statutaria di Comuni e Province.

(19) Art. 89, 4 c., d.lgs. 267/2000.

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rono di copiare gli schemi predisposti da solerti case editrici, cosa potrebbe accadere a fronte di una produzione normativa esterna, con la forza persuasiva della provenienza statale, in ambiti così intimamente legati alle specifi cità di ciascun contesto locale? Il rischio c’è, inutile negarlo; l’autonoma potestà normativa degli enti locali, costituzionalizzata da meno di un decennio, potrebbe tornare ad assopirsi, alla faccia di tanta retorica federalista. Ma è altrettanto vero che le amministrazioni sarebbero sfi date alla prova di una «autonomia adulta», capace di distaccarsi dai mo-delli preconfezionati in base a ragionamenti espliciti, motivazioni trasparenti, valori ed obiettivi davvero condivisi dalle rispettive comunità. E verrebbe meno l’ipotesi – purtroppo niente affat-to rara – di amministrazioni che semplicemente non hanno quei regolamenti, non li hanno mai elaborati, e governano «a vista» senza che nessuno se ne curi (e quando si vive senza regole, non c’è controllo che tenga!).

La strada della normativa statale cedevole ha del resto offerto buone prove proprio nel caso, già citato, della normativa concor-suale: non sono poche le amministrazioni che in materia hanno deciso di esercitare la propria autonomia, defi nendo regole per le procedure di reclutamento sensibilmente diverse da quelle det-tate dal d.p.r. 487/1994, e interpretando con il giusto coraggio i «principi» deducibili dall’articolo 35 del d.lgs. 165. Non a caso, nonostante l’eccezione prevista dall’articolo 3, co. 2, della legge 241/1990, quelle stesse amministrazioni hanno ritenuto necessario motivare in modo puntuale e articolato le deliberazioni approvati-ve dei regolamenti.

5. I controlli interniCon un approccio simile si potrebbero affrontare i nodi orga-

nizzativi dei controlli interni. Com’è noto la questione è stata po-sta, con la consueta confusione, in successive iniziative legislative del Governo: dapprima nel d.d.l. per la c.d. «Carta delle autono-mie», poi nel provvedimento «per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella P.A.». Non è possibile, in questa sede, una disamina attenta di ipotesi che, al momento in cui scriviamo, hanno appena iniziato il proprio iter parlamenta-

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re. Siano però consentite tre osservazioni, in particolare alla luce della trasposizione delle norme sui controlli interni degli enti lo-cali nel disegno di legge «anticorruzione». L’accelerazione è già criticabile per il messaggio politico (vorrei dire: subliminale) che trasmette: a differenza degli anni di «Tangentopoli», questa volta l’allarme corruzione non era esploso nelle amministrazioni locali; piuttosto in particolari ambiti statali (e/o nelle procedure «ecce-zionali»). Reagire con un rafforzamento dei controlli nei Comuni e nelle Province sembra dunque pretestuoso, un «parlar d’altro», indicare un bersaglio minore quando non si ha la capacità (o la voglia) di colpire il bersaglio grosso. Sindaci e Presidenti avrebbe-ro di che indignarsi, se lo scatto di orgoglio di un Parlamento fi -nalmente attento ai fenomeni di corruzione e di illegalità dovesse trasformarsi nel desiderio di mettere proprio loro sul banco degli imputati. Ma anche il merito appare poco convincente. Non vo-lendo affatto negare che (anche) nelle amministrazioni territoriali ci sono tentazioni e deviazioni, dovremmo insomma domandarci se i rimedi indicati sono adeguati. Non pare proprio.

È indubbio, anzitutto, che non è una buona idea frammentare il disegno riformatore di istituzioni locali, che ancora attendono un riassetto coerente con la revisione costituzionale del 2001. Per-sa nelle nebbie la scommessa lanciata nel 2003 con la c.d. «legge La Loggia» (20), falliti i tentativi della successiva legislatura (21), ora la partita sembrerebbe affi data a c.d. «disegno di legge Cal-deroli» (22), ma per una ragione o per l’altra le ambizioni di una riforma «organica» svaporano, e parti consistenti trovano altre strade. Così è stato per l’ordinamento del personale, con enormi

(20) Legge 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordina-mento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

(21) C.d. «d.d.l. Lanzillotta», A.C. 1464, recante Delega al Governo per l’at-tuazione dell’art.117, secondo comma, lett. p) della Costituzione, per l’istituzione delle città metropolitane e per l’ordinamento di Toma capitale della repubblica. disposizioni per l’attuazione dell’articolo 118, commi primo e secondo della Costi-tuzione e delega al Governo per l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

(22) A.C. 3118, recante Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplifi cazione dell’ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrativa, Carta delle autonomie locali, razionalizzazione delle Province e degli Uffi ci territoriali del Governo. Riordino di enti ed organismi decentrati.

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rifl essi sui modelli organizzativi e sullo stesso sistema dei controlli interni ed esterni, affrontato dal Ministro Brunetta con la legge n. 15/2009 e il successivo d.lgs. n. 150/2009. Poi è stata la volta del decentramento infracomunale, dei difensori civici, degli assetti di vertice degli apparati professionali, e (persino) della composizione degli organi di governo, terremotati dalla legge fi nanziaria 2010, «aggiustati» pochi giorni dopo con il decreto-legge n. 2/2010, e affi dati a precetti ancora diversi con la legge di conversione (23). Lo stralcio delle norme sui controlli interni risponde alla stessa logica: l’ordinamento locale – in spregio a delicato equilibrio di-segnato nel 2001 dalla Costituzione – diventa oggetto di scorri-bande legislative secondo le emozioni del momento. Così, però, inevitabilmente si perde lo sguardo d’insieme, e vacilla la coeren-za del sistema. Qualche esempio: non è singolare che, mentre la legge n. 15/2009 ha affi dato esplicitamente a Sindaci e Presidenti di Provincia il compito di nominare gli organismi di valutazione, il «d.d.l. Calderoli» (ovviamente presentato di concerto con lo stesso ministro Brunetta) assegna tale responsabilità ai consigli? Ed è possibile disgiungere l’ordinamento della dirigenza, la disci-plina dei controlli interni e le norme sul vertice amministrativo locale – segretari e direttori generali – senza valutarne le interazio-ni, senza neppure immaginare un fi lo di coerenza? Infi ne, si può ragionare compiutamente sul regime dei controlli interni, senza ancorarlo ad una solida rifl essione sulla forma di governo locale, anzitutto sul rapporto tra assemblea elettiva e vertice monocra-tico – Sindaco, Presidente – tenendo conto delle peculiarità del sistema elettorale locale? Questo metodo di legiferare, oltre ad essere poco rispettoso del disegno costituzionale, è inevitabilmen-te foriero di ulteriori diffi coltà, che richiederanno nuovi aggiusta-menti, in una spirale della frammentazione che è esattamente il contrario della «stabilità normativa» di cui avrebbero bisogno le istituzioni locali.

(23) La successione è impressionante: da un lato il già citato «d.d.l. Caldero-li» (A.C. 3118), peraltro presentato formalmente alla Camera solo il 13 gennaio 2010, dall’altro la legge 23.12.2009, n. 191 (legge fi nanziaria 2010), poi il d.l. 25 gennaio 2010, n. 2, e infi ne la legge di conversione 26.3.2010, n. 42: quattro testi, tutti di iniziativa governativa, che in meno di tre mesi indicano risposte diverse ai medesimi cruciali interrogativi sugli assetti delle istituzioni locali!

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Infi ne, la congruità delle soluzioni proposte. Se larghissima parte del provvedimento «anticorruzione» è dedicata ai controlli negli enti locali, poche (e niente affatto originali) sono le dispo-sizioni che potrebbero avere a che fare con la sua fi nalità. Il con-trollo strategico o il controllo sulla qualità dei servizi (a proposi-to, non ne aveva già parlato l’art. 28 del d.lgs. 150?) cosa hanno a che fare con la lotta alla corruzione e all’illegalità? Il nesso si può trovare solo se si cede ancora all’abbaglio «effi cientista»: la «responsabilità di risultato» come leva suffi ciente per sollecitare correttezza, legalità e rigore etico nei comportamenti. Il d.d.l. ri-propone un sistema barocco di controlli interni, il rafforzamento del ruolo e dei compiti del segretario comunale e provinciale, e fi nisce per affi dare l’obiettivo di «garantire la legittimità, la re-golarità e la correttezza dell’azione amministrativa» al c.d. «con-trollo di regolarità amministrativa e contabile». Nulla di nuovo sotto al sole: per gli atti deliberativi di competenza degli organi di governo, il controllo si sostanzia nel parere di regolarità tecnica del responsabile del servizio («attestante la legittimità, la rego-larità e la correttezza») e in quello di regolarità contabile del re-sponsabile del servizio fi nanziario, a cui si aggiunge un controllo a campione, ex post, curato dal segretario; per le determinazioni dirigenziali, la sottoscrizione del dirigente che adotta il provvedi-mento è comprensiva di un «parere di congruità» che ne attesti la rispondenza alla normativa vigente, il rispetto dei criteri di eco-nomicità ed effi cienza, il comprovato «confronto competitivo» con parametri esterni, ecc. Non mi sembra una grande novità: la motivazione del provvedimento non doveva forse già esplicitare questi ed altri contenuti, per chiarire il percorso logico e giuridico che aveva condotto alla decisione? L’unica innovazione, dunque, è il controllo successivo su alcuni atti: qualche ente già lo faceva, e sarebbe assai più utile sulle determinazioni dirigenziali – con cui si approvano bandi di gara o di concorso, si decide la stipulazione dei contratti, si concedono contributi o altri benefi ci, con un pro-cedimento rapidissimo, neppure presidiato da adeguate regole di pubblicità legale (24) – piuttosto che sulle deliberazioni, adottate

(24) Nel senso del dovere di pubblicare all’albo pretorio anche le determina-zioni dirigenziali, cfr. Cons. Stato, n. 1370 del 15 marzo 2006.

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con un procedimento che già prevede la vigile presenza del segre-tario. Ma resta il dubbio: se non ha funzionato a dovere (fi no al 1997) il preventivo «parere di legittimità» del segretario, perché l’impresa dovrebbe ora riuscire al controllo successivo?

6. Alla ricerca di altre stradeForse anche su questo fronte – nell’ambito di un provvedimen-

to organico di attuazione costituzionale – si dovrebbero tentare altre strade. I controlli successivi, a campione, possono essere uti-li, se esterni, se affi dati ad una magistratura indipendente, organo della Repubblica e non dello Stato. Potrebbero insomma essere svolti dalla Corte dei Conti, o da nuove «sezioni consultive» isti-tuite presso i TAR (25), ma con una precondizione: la drastica ri-duzione e semplifi cazione degli adempimenti informativi che oggi gravano le amministrazioni locali, in forza di una congerie di nor-me che si affastellano l’una sull’altra, senza mai abrogare le pre-cedenti (26). Persino alcune (sagge) ipotesi della «riforma Brunet-ta» (27) si scontreranno con questa caotica realtà, che appesantisce inutilmente l’attività amministrativa, esaspera gli amministratori e non consente, alla fi ne, nessuna lucida valutazione. Va da sé che l’esito di tali controlli dovrebbe avere conseguenze assai severe sulla posizione di quanti – segretario, dirigenti, revisori dei conti, ma anche componenti degli organi di governo – hanno avuto par-te nel provvedimento censurato; ne potrebbero derivare, insom-

(25) L’ipotesi, non nuova, di istituire «sezioni consultive» presso i tribunali amministrativi regionali, è tornata all’attenzione con il convegno promosso dalla Fondazione ASTRID e dalla Fondazione MAGNA CARTA l’11 novembre 2009, sul tema La giustizia amministrativa che verrà. Organizzazione e funzionalità al servizio del paese.

(26) Cfr. G. D’Auria, «La nuova Corte dei “Conti”», in M. Gentile (a cura di), Lavoro pubblico: ritorno al passato?, Roma, Ediesse, 2009, 69; assai polemico in proposito («riempie gli enti di questionari, indagini, direttive, interpretazioni, raccolta di dati per banche dati inesistenti…») il «manifesto dei capi del persona-le», in RU-risorse umane nella pubblica amministrazione, n. 4-5/2009, 17.

(27) Ci riferiamo alla disposizione prevista all’art. 31, co. 5, circa la trasmis-sione alla Conferenza unifi cata («anche al fi ne di promuovere l’adozione di even-tuali misure di correzione e migliore adeguamento») di atti e documenti delle amministrazioni territoriali attestanti le modalità di implementazione dei nuovi istituti «meritocratici» prescritti dalla riforma.

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ma, sanzioni disciplinari, radiazione da albi professionali, nuove cause di ineleggibilità. Quanto al modello dei controlli (davvero) interni, il legislatore potrebbe scrivere «di più» e di meno al tem-po stesso: da un lato defi nire con assoluta precisione soggetti e procedimenti di ogni fase del controllo interno, dall’altro consen-tire all’autonomia statutaria e regolamentare di derogare motiva-tamente alla disciplina statale, fermo il rispetto di alcuni principi generali. Insomma, disciplina statale puntuale, ma cedevole. E si potrebbe affi dare ai Consigli regionali delle autonomie locali – che ancora stentano a trovare un ruolo effi cace – il compito di acquisire i regolamenti comunali e provinciali in materia di con-trolli interni, accendendo i rifl ettori sulla loro adeguatezza, sulle lacune, sulle incongruenze.

Un ruolo importante potrebbero averlo anche i revisori dei conti. Qualche anno fa si tentò, sempre in modo episodico e pres-soché casuale, di gravarli di compiti ulteriori di controllo inter-no, diversi dai profi li tipici della revisione contabile (e aziendale), probabilmente in ragione di due loro peculiarità: il rapporto con l’assemblea elettiva (e, persino, grazie al sistema di elezione, con l’opposizione) e la necessaria iscrizione ad albi professionali (con le conseguenti regole deontologiche e disciplinari). È un’altra strada che è possibile perseguire: un organo di controllo interno, eletto dal consiglio, composto da fi gure professionali predeter-minate e presidiate da specifi ci ordinamenti (anche) disciplinari, che sia in grado di intervenire a campione, sempre ex post, su deliberazioni o determinazioni, per rilevarne profi li di illegittimi-tà sostanziale, violazione del principio di imparzialità, impropria commistione di interessi pubblici e privati.

Resta la necessità di trovare un fondamento costituzionale a simili proposte di lavoro. La lett. p) dell’articolo 117 non lascia molti spazi, se non si accoglie una nozione assi «elastica» delle funzioni fondamentali. Una strada – per la verità un po’ spericola-ta – è stata ormai battuta molte volte, con il riferimento ai «livelli essenziali»: esemplare è il caso della legge 69/2009, per la parte in cui innova l’articolo 29 della legge 241/1990. Sempre meglio, vorrei dire, del richiamo apodittico ad (auto qualifi cati) «principi generali dell’ordinamento» (com’è stato nel d.lgs. n. 150/2009). Forse, però, il punto da cui partire potrebbe essere il secondo

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comma del 120, valorizzando sia il profi lo sostanziale («la tutela dell’unità giuridica», come quadro di valori che va oltre «l’incolu-mità e la sicurezza pubblica») che quello metodologico («le pro-cedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione»). Sono riferimenti importanti e solenni, che potrebbero suscitare un impegno comune delle istituzioni (una «leale collaborazione» ex ante) per defi nire regole e strumenti effi caci che, senza fru-strare la dimensione dell’autonomia, affronti con pari energia la sfi da della legalità (o, come oggi si preferisce dire, dell’integrità) in tutte le pubbliche amministrazioni.

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Gian Candido De Martin e Marco Di Folco

I CONTROLLI INTERNI DI REGOLARITÀ E IL RUOLODEI SEGRETARI COMUNALI E PROVINCIALI

1. Le fonti di disciplina dei controlli interni di regolaritàL’emersione di una fattispecie di controllo di regolarità ammi-

nistrativa e contabile tipologicamente distinta dai controlli interni a carattere gestionale costituisce il frutto di una scelta operata dal d.lgs. n. 286/1999. In precedenza, infatti, il d.lgs. n. 29/1993 aveva bensì esteso a tutte le amministrazioni pubbliche, generalizzan-do esperienze settoriali proprie soprattutto dell’apparato statale, l’obbligo di istituire, laddove mancanti, servizi di controllo inter-no ovvero nuclei di valutazione; ma a tali organismi era imputata una funzione sostanzialmente unitaria, nella quale erano destinate a confl uire molteplici operazioni valutative concernenti la com-parazione tra costi e rendimenti, la realizzazione degli obiettivi posti dagli organi di indirizzo politico, la corretta ed economica gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità e il buon andamen-to dell’azione amministrativa. Con la riforma della fi ne degli anni Novanta dello scorso secolo, dunque, le verifi che di regolarità am-ministrativa e contabile assumono una propria autonoma carat-terizzazione rispetto al controllo di gestione, a quello strategico e alla valutazione del personale con incarico dirigenziale, sulla base di una scelta puntualmente confermata – per quanto attiene alle autonomie locali – dal testo unico di cui al d.lgs. n. 267/2000 (di seguito Tuel).

La disciplina statale dei controlli di regolarità attualmente vigente risale, dunque, ad una legislazione antecedente alla riforma del Ti-tolo V della Parte seconda della Costituzione operata dalla legge co-stituzionale n. 3/2001; né essa appare travolta dal d.lgs. n. 150/2009 il quale ha ad oggetto i controlli interni di performance. Ciò impone, in via preliminare, di verifi care la tenuta della predetta disciplina a fronte dei profondi mutamenti intervenuti sul terreno delle fonti di regolazione dell’ordinamento comunale e provinciale.

Le coordinate del nuovo quadro costituzionale di riferimento

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vanno ricostruite attorno a tre elementi fondamentali: l’abroga-zione dell’articolo 128 della Costituzione che in precedenza de-mandava a leggi dello Stato, generali e di principio, la confor-mazione dell’autonomia locale; la limitazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato ai soli profi li concernenti la legisla-zione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, co. 2, lett. p), Cost.); la previsione, per la prima volta in norme della Carta repubblicana, di uno specifi co potere locale di autoordinamento a mezzo di statuti e regolamenti (artt. 114, co. 2, e 117, co. 6, Cost.). Ne discende, nella sostanza, il tramonto della nozione uni-taria e uniforme di ordinamento degli enti locali, come complesso di principi fi ssati in via generale dal legislatore statale.

In questo contesto l’individuazione delle fonti di disciplina dei controlli interni si apre a diverse opzioni che ricostruiscono diffe-rentemente il ruolo della legge statale, di quella regionale e della normazione locale. Una prima ipotesi potrebbe consistere nel far perno su una confi gurazione istituzionale delle funzioni fonda-mentali, intese come quelle fi nalizzate essenzialmente a garantire il funzionamento dell’ente locale; di conseguenza i controlli in-terni continuerebbero a ricadere nella competenza del legislatore statale. Un’impostazione siffatta, però, si fonderebbe su un’inac-cettabile espansione dei poteri ordinamentali dello Stato verso gli enti locali che risulta scarsamente compatibile con l’abrogazione dell’articolo 128 della Costituzione e con l’espressa previsione costituzionale del potere statutario e regolamentare locale. Pari-menti inaccettabile è l’idea che della materia sia oggi investito, in via residuale, il legislatore regionale, sulla base di una soluzione che si porrebbe in contrasto col principio del pluralismo istituzio-nale paritario scolpito dall’articolo 114, co. 1, della Costituzione Risulta allora preferibile opinare che il baricentro della disciplina dei controlli interni debba collocarsi nelle fonti locali. Ciò, per al-tro, non equivale a negare al legislatore statale la possibilità di porre taluni principi di sistema, specie con riguardo all’articolazione dei controlli interni; possibilità che appare sostenibile muovendo dalla natura amministrativa della funzione di controllo interno e, per que-sta via, dalla sua inerenza alle funzioni fondamentali, senza che di queste ultime debba necessariamente darsi una caratterizzazione in

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chiave istituzionale. Nella prospettiva che qui si reputa nettamente preferibile, dunque, desta non poche perplessità il disegno di leg-ge per l’attuazione dell’articolo 117, co. 2, lett. p), della Costituzio-ne attualmente all’attenzione della Camera dei deputati (di seguito A.C. 3118), nella misura in cui detta una disciplina dei controlli di regolarità ben più penetrante di quella oggi contenuta nel Tuel.

2. Caratteri dei controlli di regolaritàNell’affrontare il tema dei caratteri dei controlli di regolarità

il nodo principale è relativo alla questione se gli aggettivi «am-ministrativa» e «contabile» che il legislatore statale impiega per contrassegnarli debbano essere interpretati come un’endiadi o se, viceversa, essi conservino una propria autonomia concettuale. È questa, all’evidenza, un’alternativa rilevante, dalla quale paiono dipendere la maggiore o minore ampiezza dell’ambito oggettivo del riscontro e l’inquadramento degli obiettivi che lo stesso si propone. La prima impostazione, infatti, suggerisce che la verifi ca di regolarità debba limitarsi agli atti direttamente o indirettamente implicanti rifl essi fi nanziari. Non si nega, ovviamente, che la legit-timità dell’attività amministrativa debba essere assunta a parame-tro delle operazioni valutative; tuttavia il controllo di regolarità, unitariamente inteso, è comunque annoverato, in questo caso, fra gli strumenti rivolti a circondare di garanzie l’impiego di danaro pubblico da parte degli amministratori e ad assicurare trasparenza e verifi cabilità alle operazioni di gestione dell’attività amministra-tiva che abbiano comportato dispendio di risorse pubbliche.

La seconda opzione amplia signifi cativamente l’ambito di espli-cazione del controllo che si dispiegherebbe al di là dei soli profi li fi nanziari, fi no a ricomprendere più generali fi nalità di garanzia di tenuta del principio di legalità nelle amministrazioni locali; tutto ciò anche in chiave, per dir così, di contrappeso al superamento dei controlli eteronomi di legittimità sugli atti delle istituzioni lo-cali operato dalla riforma del Titolo V. In altri termini, per questa via, all’interno dei genus dei controlli di regolarità sarebbe pos-sibile distinguere, anche sotto il profi lo dell’imputazione a plessi organizzativi diversi, due species: quella del controllo di regola-rità contabile, da svolgere presumibilmente in via preventiva e

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preordinato alla verifi ca della correttezza dell’attività sul piano fi nanziario; e quella del controllo di regolarità amministrativa, da sviluppare – come si vedrà – probabilmente in chiave successiva e fi nalizzato alla garanzia del principio di legalità.

Alcune considerazioni paiono militare a favore dell’ipotesi da ultimo accennata. Anzitutto il Tuel, nel defi nire gli scopi dei con-trolli di regolarità afferma, con formula ampia, che essi mirano ad assicurare la legittimità, la regolarità e la correttezza dell’attività amministrativa. Per altro verso non pare suffi ciente a deporre in senso contrario la circostanza che il legislatore disciplini assieme i controlli di regolarità amministrativa e contabile; tale scelta, in-fatti, potrebbe essere posta in relazione non tanto con la loro in-scindibilità, quanto col fatto che i medesimi presentano caratteri peculiari rispetto a quelli gestionali, a partire dall’incidenza non su attività complessivamente riguardate ma su singoli atti. Infi ne va rilevato che il campo d’intervento demandato alle fonti locali in materia risulta suffi cientemente ampio da consentire di artico-lare un controllo di regolarità amministrativa distinto da quello di regolarità contabile, senza che risultino per ciò violati i prin-cipi stabiliti dal legislatore statale. Del resto l’osservazione delle concrete esperienze mostra esattamente come un assetto del tipo di quello appena prefi gurato risulti tutt’altro che infrequente nel-l’autonormazione locale; la quale, in effetti, in molti casi prevede una distinzione netta tra le due species, affi dando la prima (quella del controllo di regolarità contabile) ai responsabili dei servizi fi -nanziari o ai revisori, la seconda (quella del controllo di regolarità amministrativa) ai segretari comunali/provinciali.

3. Il ruolo del segretario comunale/provinciale in ordine ai con-trolli di regolaritàAnche prendendo spunto dalle discipline locali appena richia-

mate, si potrebbe sostenere che uno specifi co ruolo del segretario comunale/provinciale sia ipotizzabile principalmente con riguar-do ai controlli di regolarità amministrativa in senso stretto. In tema occorre anzitutto osservare che il Tuel non contiene partico-lari indicazioni in merito, se non per affermare che, nel caso in cui l’ente locale sia sprovvisto dei responsabili dei servizi, il parere di

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regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione sottoposta al consiglio o alla giunta che non costituisce mero atto di indirizzo spetta al segretario in relazione alle sue competenze. Viceversa si-gnifi cative novità potranno provenire dall’eventuale approvazione di un recente disegno di legge (1). Più precisamente, il disegno di legge articola il controllo di regolarità amministrativa e contabile in due fasi: l’una, a carattere preventivo, si sostanzia nel parere di regolarità tecnica di ogni responsabile di servizio e nel parere del responsabile del servizio fi nanziario, chiamato altresì ad apporre il visto attestante la copertura fi nanziaria dell’atto; l’altra, di tipo successivo, concernente gli atti che implicano rifl essi fi nanziari e da svolgere sotto la direzione del segretario.

Prescindendo dagli sviluppi che si prefi gurano de iure conden-do, l’ipotesi di lavoro posta in queste pagine, consistente nell’im-putazione del controllo di regolarità amministrativa al segretario, va corroborata attraverso una rapida ricostruzione delle linee evolutive che hanno contrassegnato l’organo.

Quella del segretario è fi gura tradizionalmente presente nell’or-ganizzazione comunale e provinciale, con compiti rivolti a garan-tire la legittimità dell’azione amministrativa dell’ente locale; essa, tuttavia, ha subito radicali trasformazioni, specie ad opera della l. n. 127/1997 (le cui disposizioni sono poi rifl uite nel Tuel), che ha determinato il passaggio dal modello del funzionario statale dota-to essenzialmente di attribuzioni di garanzia a quello del massimo funzionario dell’ente locale titolare anche di competenze «mana-geriali». In particolare, per effetto delle innovazioni intervenute nella seconda metà degli anni Novanta, il segretario instaura un rapporto di impiego con l’Agenzia autonoma per la gestione del-l’albo dei segretari comunali e provinciali, nonché un rapporto organico a tempo determinato con l’ente locale. Quest’ultimo, poi, soprattutto a salvaguardia dell’autonomia dell’ente, è carat-terizzato da consistenti elementi di fi duciarietà: la nomina spetta al Sindaco/Presidente della Provincia e l’incarico, salva l’ipotesi della revoca, ha durata corrispondente a quella del vertice mono-cratico dell’ente. Per parte sua la giurisprudenza ha avuto modo

(1) Approvato dalla Camera il 30 giugno 2010 e assegnato al Senato, con la numerazione A.S. 2259.

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di rimarcare la forte coloritura politico-fi duciaria delle procedure accennate, sottolineando, ad esempio, che il sindaco neo eletto il quale intenda nominare un nuovo segretario non è tenuto ad adottare un provvedimento di non conferma del precedente e non ha l’onere di motivare l’opzione della sostituzione. Sotto il profi lo delle funzioni è invece da richiamare la possibilità per il segretario di rivestire altresì la carica di direttore generale.

Sarebbe tuttavia con ogni probabilità eccessivo sostenere che il rapporto tra il segretario e l’organo politico di vertice dell’ente locale si risolva interamente nell’area dell’intuitus personae e della managerialità. Al riguardo va anzitutto tenuto presente che il Tuel, a limitazione della discrezionalità della scelta, assicura la sussistenza di specifi ci requisiti professionali del segretario che va nominato tra gli iscritti in un apposito albo, al quale si accede per pubblico con-corso e sulla base di un’abilitazione concessa dalla Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale ovvero dalla sezione autonoma della Scuola superiore dell’amministrazione dell’interno. Inoltre la revoca può essere disposta, previa deliberazione di giunta e attraverso provve-dimento motivato, solo per violazione dei doveri di uffi cio. Per altro verso non va trascurato che il segretario è pur sempre titolare di compiti di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente locale in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamen-ti. Proprio la conservazione di un ruolo di garanzia ha indotto la giurisprudenza ad affermare che la discrezionalità nella scelta del segretario non ne infi cia l’obbligatoria presenza nell’organizzazione dei Comuni e delle Province e che sussistono, sub specie di gravi e persistenti violazioni di legge, i presupposti per la rimozione del sindaco il quale non abbia avviato la procedura di nomina.

Con la riforma del Titolo V si pone l’ulteriore questione della tenuta di una disciplina statale e, pertanto, uniforme delle fi gura segretariale. La diffi coltà a ricondurre tale disciplina nell’ambi-to della competenza legislativa esclusiva dello Stato sugli organi di governo e sulle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane ha alimentato la tesi per la quale la materia sarebbe oggi di pertinenza del legislatore regionale in via residua-le o delle fonti locali; prospettiva, quest’ultima, tuttavia respinta

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dal giudice amministrativo il quale ha sostenuto l’impossibilità per lo statuto locale, inquadrato alla stregua di fonte piattamente secondaria, di derogare alla legge.

Anche a non voler aderire agli orientamenti che fanno leva su una visione, verosimilmente anacronistica, dello statuto locale quale atto normativo caratterizzato da un rapporto di mera subor-dinazione gerarchica alla legge, la necessità di una fi gura assimila-bile a quella del segretario potrebbe essere sostenuta muovendo dall’esigenza di garantire l’osservanza nelle istituzioni locali dei principi costituzionali sulle pubbliche amministrazioni e, in parti-colare, del principio di legalità. A ben guardare, però, resta aperto il problema se queste essenziali fi nalità vadano assicurate attraver-so un modello organizzatorio individuato, per tutti gli enti locali, dal legislatore statale; o se esse debbano inverarsi per il tramite di scelte autonomamente operate da ciascuna istituzione locale.

Pur nella consapevolezza delle obiezioni discendenti dai profi li di fi duciarietà che connotano il rapporto del segretario col Sinda-co/Presidente della Provincia, specie laddove egli svolga altresì le funzioni di direttore generale, la possibilità di ricostruire, anche dopo la novella costituzionale del 2001, l’organo qui in oggetto attorno ad attribuzioni rivolte ad assicurare il rispetto dei principi di imparzialità, buon andamento e legalità/legittimità dell’azione amministrativa sembra giustifi care l’imputazione ad esso del con-trollo di regolarità amministrativa in senso stretto. Si tratta però, a questo punto, di sviluppare alcune osservazioni in ordine ai carat-teri del riscontro, mettendo in evidenza le principali alternative che si pongono nella disciplina del medesimo.

In primo luogo, quanto al parametro, va riaffermata una con-cezione ampia del principio di legalità, coerente con l’assetto del-le fonti in un ordinamento policentrico e paritario. Il riscontro, cioè, deve mirare a verifi care il rispetto non solo delle leggi (statali e regionali), ma anche degli statuti e dei regolamenti locali, da considerare atti normativi costitutivi dell’ordinamento generale della Repubblica, anche a fronte delle riduttive tendenze a repu-tarli atti formalmente amministrativi o produttivi di mere norme «interne». D’altra parte, che le fonti locali siano idonee ad inte-grare il principio di legalità è tesi che può essere sostenuta anche alla luce del fatto che esse sono approvate dalle assemblee elettive

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degli enti locali. Non è neppure da escludere, infi ne, che il con-trollo possa mirare ad accertare l’osservanza dei criteri di corretta redazione degli atti amministrativi.

In secondo luogo, occorre stabilire il carattere preventivo o suc-cessivo del controllo, chiarendo se il medesimo debba collocarsi nel procedimento di formazione dell’atto o se debba riguardare atti già perfetti. Nella direzione del carattere successivo paiono deporre diverse considerazioni: il disfavore progressivamente manifestato dall’ordinamento, sul terreno della legislazione ordi-naria prima e della revisione costituzionale poi, verso i controlli preventivi di legittimità di tipo eteronomo; la necessità di salva-guardare l’autonomia gestionale della dirigenza, da intendersi estesa alla valutazione della conformità dell’atto alle norme giuri-diche; la natura collaborativa e autocorrettiva della verifi ca che, in questo senso, fa sistema con i controlli interni di gestione.

In terzo luogo, le fonti locali dispongono di ampio margine di manovra anche in ordine alla delimitazione dell’ambito oggettivo del controllo. Così, ad esempio, anche in relazione alle caratteri-stiche dimensionali dell’ente, potrebbe prevedersi che il riscontro riguardi non tutti gli atti amministrativi, ma solo una parte di essi, da scegliere in base a criteri da defi nire; e che la verifi ca possa essere altresì attivata su impulso delle minoranze consiliari.

In quarto ed ultimo luogo, si profi la la questione degli esiti del controllo. La già affermata natura collaborativa del medesimo porta ad escludere che esso possa avere fi ni sanzionatori e a ri-tenere che debba confl uire in un’attività di referto; la quale, poi, pare doversi indirizzare non solo agli organi politici di vertice del-l’ente e, in particolare, al Sindaco/Presidente della Provincia re-sponsabile in ordine al conferimento degli incarichi dirigenziali. Sarebbe infatti opportuno, come oggi prefi gurato dall’A.C .3118, che le risultanze del controllo siano portate a conoscenza degli stessi dirigenti e responsabili dei servizi, che potrebbero utilizzar-le in funzione autocorrettiva, nonché dei revisori dei conti e degli organi di valutazione dei risultati dei dipendenti. In questa chia-ve il controllo di regolarità amministrativa, fa, ancora una volta, sistema con quelli di gestione, apportando elementi utili ad una verifi ca complessiva dell’attività amministrativa dell’ente locale anche sotto il profi lo della conformità alle norme giuridiche.

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Quirino Lorelli

UNA DIVERSA IPOTESI:IL RITORNO AI CONTROLLI ESTERNI?

1. I controlli sulle autonomie territoriali e la soppressione dei controlli esterniNella Costituzione italiana del 1948 coesistevano almeno tre

categorie generali di controllo: controlli costituzionali tra poteri dello Stato, controlli politici tra poteri dello Stato, controlli tra poteri dello Stato e delle autonomie locali. Tralasciamo in que-sta sede l’analisi, pur fondamentale, delle prime due categorie e soffermiamoci invece sul sistema dei controlli sulle autonomie territoriali, cercando di verifi care se la introduzione di una rete di controlli esterni agli enti territoriali possa rappresentare un ele-mento necessario di tenuta di un ordinamento istituzionale che muove verso un federalismo prevalentemente economico e fi sca-le, prima che politico.

Il problema dell’effettività dei controlli in uno all’esigenza di una rete di controlli non giurisdizionali – volti, per un verso, alla salvaguardia della legalità e, per altro, alla affermazione dei principi di effi cienza, effi cacia, economicità dell’amministrazione – assume una sua particolare forza a livello regionale e locale, dopo che la riforma del Titolo V della Costituzione e l’avvio di un percorso di trasformazione dello Stato in senso federale (a partire dall’elemento fi scale), hanno spostato sempre più le decisioni di spesa pubblica sulle autonomie territoriali.

Tradizionalmente il controllo sulle autonomie territoriali, che includeva un controllo sugli organi e sull’attività amministrativa ed il controllo delle leggi regionali nell’interesse nazionale, risul-tava connaturale alla nozione di Stato unitario (1).

La Costituzione del 1948, pur connotata dal principio di demo-craticità e da un pluralismo partitico nel governo del Paese, era improntata ad una nozione di Stato unitario, connotato al proprio

(1) A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1984, 14ª ed., 523, a proposito del controllo sugli organi.

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interno da un pluralismo di poteri, centrali e locali, ma comunque tesi al bene della collettività situata sull’intero territorio nazionale. Una nozione di Stato in cui il potere pubblico era teoricamente uni-co, unitario ancorché allocato presso diversi centri di esercizio (2), bilanciati tra il Governo – che perdeva, rispetto all’epoca precosti-tuzionale, il proprio ruolo di unico rappresentante delle sorti dello Stato – e le Regioni, ma in cui la funzione di indirizzo politico, attri-buita al primo era garante dell’unità della volizione dello Stato.

In tale visione il controllo esterno sugli atti degli enti pubblici era da ritenersi normale «in quanto le persone giuridiche minori svolgono un’attività che interessa più o meno direttamente lo Sta-to o altre persone giuridiche pubbliche e i controlli servono ap-punto per vigilare ed intervenire, caso per caso, affi nché l’ente si mantenga nei limiti della legge o perché vi ritorni o vi proceda se li abbia superati o trascurati». In tal modo «l’organo di controllo tutela in ogni singolo atto l’interesse dello Stato – o dell’ente che ha i poteri di controllo – alla legittimità e talora alla convenienza degli atti dell’ente controllato» (3).

Il sistema dei controlli era dunque improntato ad una rete di controlli del «centro» sui diversi centri di esercizio del pubblico potere e quindi sulle «periferie», territoriali o meno, in funzione di tutela della supremazia statale espressa attraverso la funzione di indirizzo politico del Governo. Detti controlli sono da inten-dersi nel senso giuspubblicistico del termine, come connaturali alla nozione di Stato inteso come organizzazione primaria, inclu-

(2) Si ricordi che la nozione propugnata nel periodo fascista da illustrissimi autori, risultava improntata ad una visione totalizzante del Governo, come porta-tore esclusivo dell’interesse collettivo. Secondo Mortati, che riprendeva le teorie tedesche dello Smend, nell’ordinamento dello Stato moderno la determinazione delle direttive politiche, propria dell’attività di governo, «dev’essere, in modo necessario, accompagnata da una serie di poteri, che consentono all’organo da cui esse promanano di ottenere che lo svolgimento dell’attività degli altri organi si adegui, pur nella necessaria libertà degli atteggiamenti particolari, alle esigen-ze supreme imposte da quelle direttive. Riesce impossibile pensare mantenuta l’unità della volizione dello Stato senza una tale attività che raggruppi intorno ai fi ni generali le volontà singole: solo a tale condizione ed entro questi limiti è possibile ammettere l’esistenza di una pluralità di organi autonomi» (C. Mortati, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Milano, Giuffrè, 2000, 11, ristampa (ed. or. 1931)).

(3) Corte Cost., 21-26 gennaio 1957, n. 24.

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sivo di tutte le organizzazioni pubbliche (4), come ricostruita da Mortati (5) o, in epoca precostituzionale, da Brunialti (6).

Secondo molti osservatori la riforma costituzionale del 2001 avrebbe determinato il superamento di detta concezione mono-litica dello Stato, in favore di una visione moderna e rispettosa delle autonomie territoriali. Elemento centrale di tale passaggio viene rinvenuto nella abolizione dei controlli del «centro» sulle «autonomie».

Ora è però che la riforma del Titolo V della Costituzione e le leggi di riforma successive – non ultima quella del 2009 sul fede-ralismo fi scale – non hanno realmente avviato una demolizione della nozione di unitarietà dell’organizzazione primaria pubblica ma si sono limitate a mutare il nome e, in piccola parte, la strut-tura genetica di quest’ultima, trasmutandola da Stato in Repub-blica. Con ciò si intende che il nostro ordinamento continua a prevedere attribuzioni esclusive ed ampie sfere organizzative affi -date allo Stato, inteso nella nuova accezione di componente della Repubblica, divenuta essa organizzazione primaria pubblica: così nelle materie di cui all’articolo117 della Costituzione, ma anche in relazione all’attuazione dei principi fondamentali della Prima Parte della Carta.

(4) È appena il caso di ricordare che il riferimento è alla nozione di Stato come persona giuridica territoriale sovrana (così ad es. in F. Pergolesi, Diritto costituzionale, Bologna, U.P.E.B., 1949) o come «comunità politica, a fi ni ge-nerali, non rivolta a una specifi ca fi nalità” (G. Balladore Pallieri, Diritto costi-tuzionale, Milano, Giuffrè, 1949), composto dai tre elementi del territorio (o elemento materiale), del popolo (o collettività dei cittadini, elemento personale) e dell’ordinamento giuridico sovrano (o elemento formale). In questa accezio-ne dunque include, ingloba in se ogni organizzazione pubblica diversa, incluse quelle territoriali.

(5) Lo Stato è «l’ordinamento giuridico a fi ni generali esercitante il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti» (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1991, 10ª ed., 23 e segg.)

(6) A. Brunialti, voce «Territorio dello Stato», in Il Digesto italiano, Torino, 1912-1916, vol. XXIII, Parte Prima, 930 e passim che, in apertura della voce, ribadiva il carattere di onnicomprensività e totalità dello Stato, il quale «si com-pone di tre distinti elementi: un’accolta di uomini, un vincolo giuridico ed un territorio», ma è «il vincolo giuridico, vinculum iuris, Zusammengehörigkeit, che tiene uniti gli abitanti sopra il territorio, e può essere di varia natura e forma, come sono infi nitamente varie le costituzioni degli Stati».

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L’organizzazione primaria pubblica è, dunque, nella Costi-tuzione in vigore, la Repubblica già contemplata quale soggetto giuridico supremo nei primi dodici articoli della Costituzione del 1948 e (ri)defi nita quanto alla sua struttura dall’articolo 114 della Costituzione.

Ancora oggi l’unitarietà nazionale continua ad essere tutelata attraverso vari strumenti posti nelle mani dello Stato, (e dunque di una delle componenti la Repubblica): dalla previsione di com-petenze legislative concorrenti delle Regioni – in cui lo Stato si riserva la determinazione dei principi fondamentali – al potere sostitutivo dell’articolo 120, co. 2, della Costituzione, al controllo dello Stato sugli organi di cui all’articolo 126 della Carta (seppur inattuato), fi no alle modalità di composizione della Corte costi-tuzionale e dello stesso Parlamento che, a rigor di logica, in un modello puramente federale o confederale, dovrebbero essere eletti con la partecipazione delle diverse componenti territoriali espressione dei correlati interessi (7).

In questi termini il compito di custode dei valori nazionali con-divisi e dei diritti fondamentali appare mantenuto saldamente in capo allo Stato, ancorché questo appaia nell’articolo 114 della Costituzione «retrocesso» da portatore di quel principio organi-co dello Stato, «che il Leibniz chiamò ragione suffi ciente della propria esistenza» (8), a componente della Repubblica (9).

Ciononostante sul versante dei controlli la riforma del Titolo V ha invece inteso negare un ruolo portante dello Stato rispetto alle altre componenti della Repubblica e tale circostanza appare per-lomeno singolare alla luce del sostanziale mantenimento in capo

(7) In modelli teorici federali o confederali di Stato, l’organo costituzionale di rappresentanza comune non può prescindere dagli interessi delle diverse compo-nenti lo Stato, cioè le Regioni, se la federazione è tra queste, od altri livelli di go-verno territoriale, da cui una Camera delle Regioni od una Camera delle Autono-mie. Analogamente l’organo che giudica della costituzionalità delle leggi – incluse quelle delle componenti non statali della federazione o della confederazione – non può prescindere da una componente che sia espressione di queste ultime.

(8) G. Arcoleo, Diritto costituzionale, Milano, Mondadori, 1935, 57.(9) Ad ulteriore conferma costituzionale di ciò è anche il mantenimento del-

la formulazione originaria dell’art. 5 Cost., dove le autonomie locali sono rico-nosciute e promosse e dunque non appaiono ontologicamente primigenie quali componenti della Repubblica al pari dello Stato (e, forse, delle Regioni).

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allo Stato di mezzi diversi a garanzia dell’unitarietà nazionale, cui abbiamo fatto cenno. A ciò si è accompagnata l’introduzione di norme svariate che hanno fi nito con il demolire la categoria giuri-dica del controllo in senso tradizionale, come primo baluardo del principio di legalità, in favore di una nozione di controllo atecni-ca ed agiuridica, nella quale vengono ricomprese attività proprie dell’amministrazione attiva e, quindi, ontologicamente estranee al controllo (10). Bisogna però distinguere nettamente l’attività di controllo – svolta nell’interesse supremo della collettività – da altre attività, collaterali al funzionamento degli apparati ammini-strativi pubblici, fi nalizzate a garantire l’assoluzione dei principio di buon andamento dell’amministrazione o dei principi di econo-micità, effi cienza, effi cacia dell’azione amministrativa.

Non è possibile assimilare l’attività di controllo all’attività di consulenza, ma nemmeno rinvenire nel controllo una natura col-laborativa rispetto all’operato o alle attività del controllato, atteso che ne sarebbe snaturata la funzione stessa che è quella di tutelare un interesse superiore, di garantire l’applicazione della norma, di salvaguardare il principio di legalità. Il controllo si differenzia da qualunque attività consulenziale o collaborativa perché garanti-sce beni, interessi, valori propri non del soggetto controllato ma della collettività o, comunque, di soggetti terzi, diversi.

Non è dunque nell’ossequio al principio di autonomia delle componenti della Repubblica che va rinvenuto il reale fondamen-to della soppressione dei controlli esterni sulle amministrazioni, sui loro atti e le loro attività, giacché se così fosse, si sarebbero dovute operare ben altre modifi che al sistema di bilanciamento dei poteri e di defi nizione di contrappesi tra «centro» e «peri-ferie», come, in parte, si era tentato con lo sfortunato progetto costituzionale di devolution del novembre 2005.

Molto probabilmente sono state dunque ben altre le ragioni

(10) Il controllo è connaturato alle organizzazioni sociali e sorge dall’esigenza di dar conto di comportamenti soggettivi agli altri consociati: esso è funzionale alla coesione sociale, intendendo per tale la vis, l’interesse comune, posto a base di ogni organizzazione pluripersonale. Il controllo, sia che riguardi una o più attività, sia che attenga la verifi ca di organi od organizzazioni, sia infi ne che si svolga su singoli comportamenti, è caratterizzato da un fi ne superiore, di natura generale.

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fondanti la soppressione dei controlli amministrativi, assai meno alte, tradotte, sotto il profi lo teorico, nella prevalenza del princi-pio di effi cacia dell’azione amministrativa a discapito di quello di legalità (11), nonché nel tentativo di affermazione di suffi cienza del principio di responsabilità politica quale rimedio alle ineffi -cienze, alla maladministration ed anche agli eventuali disservizi o carenze e lacune nella realizzazione di quei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» costituzionalmente tutelati (artt. 117 e 120 Cost.).

Tuttavia non è chi non veda come l’eliminazione di ogni forma di controllo esterno sulle amministrazioni anche non statali (12), tutela né l’interesse nazionale, inteso come insieme di valori co-muni e condivisi, espressi nei principi indefettibili della Costitu-zione e nelle leggi del Parlamento, né, a ben vedere, il sistema del-la Repubblica delle autonomie se dall’assenza di controlli derivano fenomeni di maladministration, se non di vera e propria corruzione ed innalzamento della spesa pubblica che fi niscono con l’incedere negativamente sulle fi nanze delle amministrazioni territoriali più «sane», chiamate a concorrere alla fi nanza nazionale.

Se, infatti, è la singola amministrazione, ad ogni livello, titolare

(11) All’eliminazione dei controlli di legittimità sugli atti non si è sostituito un sistema di controlli di legalità sull’azione amministrativa, svolta tanto a livello centrale, quanto a livello locale. Il riformato testo costituzionale (e, fi nora, nem-meno la legislazione ordinaria) ha previsto meccanismi certi di garanzia della legalità – da intendersi come certezza delle regole che soprassiedono all’azione, che la indirizzano e la fi nalizzano al bene della collettività intera – dell’azione delle amministrazioni pubbliche che sostituisse la categoria giuridica del con-trollo sugli atti.

(12) Nel sistema delineato dalla Carta del 1948, era previsto un sistema di controlli di legalità e di costituzionalità, che venivano esercitati dal centro sulle autonomie territoriali. Questo sistema prevedeva:

a) un controllo sugli organi delle Regioni (art. 126);b) un controllo dello Stato sugli organi dei Comuni e delle Province discipli-

nato da ultimo, dalle previsioni degli artt. 141 e segg. del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e, prima e per quasi un secolo, dagli artt. 149 e 323 del d.lgs. 4 febbraio 1915, n. 148 e dall’art. 315 del d.lgs. 3 aprile 1934, n. 383;

c) un controllo di costituzionalità sugli statuti e sulle leggi regionali (art. 117, co. 1°, 123, 127);

d) un controllo sull’attività amministrativa delle Regioni e delle autonomie locali (artt. 125 e 130), comprendente il controllo di legittimità e di merito sugli atti amministrativi delle autonomie territoriali e quelli fi nanziari e di gestione.

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di propri poteri di entrata e di spesa, a dover organizzare forme di verifi ca della legalità dell’azione amministrativa e dell’effi cienza ed effi cacia delle scelte comportanti utilizzo di risorse pubbliche, è evidente che essa tenderà sempre più ad essere autoreferenziale e, comunque, ad esaltare valori e disvalori della collettività (rec-tius: degli elettori) di riferimento. Questo comporta che l’applica-zione ed il rispetto di norme di relazione, che, devono presumersi condivise, fi nisce con l’essere rimessa, per quanto attiene alla sfe-ra dei rapporti tra cittadini ed amministrazione, alla volontà po-litica di quest’ultima, senza che sia più possibile alcun intervento correttivo da parte di organi terzi, garanti dell’interesse generale e del principio di legalità (13).

Di per sé la scissione tra unitarietà dello Stato ed unitarietà dell’amministrazione non comporta, in società caratterizzate da una forte coesione sociale e dal rigoroso ed innato rispetto della legge, problemi sulla tenuta complessiva del sistema. Ogni ammi-nistrazione persegue distinti obiettivi, individua differenti prio-rità nel tentativo di soddisfacimento dei bisogni delle collettività di riferimento e se i bisogni sono diversifi cati non v’è ragione per continuare a sostenere l’unitarietà, anche concettuale, degli appa-rati che devono soddisfarli.

Ciò richiede però perlomeno che ciascuna amministrazione garantisca il rispetto di regole certe e, soprattutto, dei principi fondamentali della Costituzione.

(13) Invero il principio di legalità non deve essere assicurato esclusivamente dalla minaccia della sanzione penale e quindi garantito dalla continua verifi ca della regolarità a fi ni penali dell’azione amministrativa; tantomeno e sotto diver-so profi lo, può essere il giudice l’unico soggetto in grado di verifi care la corretta applicazione delle norme e, soprattutto, l’attuazione dei bisogni della collettività, dei cittadini, delle imprese. Il principio di legalità deve invece essere garanti-to sempre, anche mediante interventi correttivi che impediscano il verifi carsi di situazioni extra ordinem, lesive dell’ordinamento penale o dei diritti e degli interessi della collettività e dei soggetti che la compongono. Il neminem ledere dell’azione amministrativa è molto al di sotto della soglia di legalità, nel senso che allorché si giunge all’intervento del giudice sono stati lesi interessi propri dell’or-dinamento giuridico (come nel caso dei reati contro la pubblica amministrazio-ne) o dei consociati. La soglia di legalità non può giammai essere fi ssata alla sola applicazione del principio del neminem ledere, ma deve garantire che l’azione amministrativa persegua il benessere della collettività intera, in applicazione del principio di uguaglianza.

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Governo delle realtà territoriali ed eliminazione del potere sta-tale di controllo non possono signifi care altro che adeguamen-to dell’azione amministrativa ai bisogni delle collettività, i quali variano a seconda delle condizioni culturali, economiche, sociali dell’area geografi ca di riferimento; al contrario pare inammissibi-le attribuire alle amministrazioni territoriali (e centrali) anche la facoltà di eludere o, peggio, di disconoscere la portata costituzio-nale di alcuni diritti della persona, nonché del fondamentale prin-cipio di uguaglianza, realizzando in modo diverso sul territorio della Repubblica un sistema di diritti costituzionalmente tutelati che la Costituzione vuole unitario (ancora una volta il richiamo è agli articoli 117 e 120 della Costituzione ed ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (14)).

L’eliminazione dei controlli esterni sull’attività delle ammini-strazioni territoriali può concretare, in società caratterizzate non solo da forti disuguaglianze economiche e sociali a seconda del territorio, ma anche da un elevato senso di incertezza normativa, se non di vera e propria diffusa tendenza ad eludere la portata im-perativa della norma, il rischio di ledere, se non di disconoscere, il principio di uguaglianza, concorrendo alla defi nizione di aree geografi che in cui la tutela di taluni diritti fondamentali sia mino-re o peggiore rispetto ad altre, in ragione del diverso atteggiarsi delle amministrazioni locali.

D’altro canto e guardando ai risultati, la soppressione dei con-trolli esterni non ha minimamente comportato un recupero di ef-

(14) Sul punto vi è pure che la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha escluso la possibilità di diversifi care l’attuazione di principi comunitari fonda-mentali all’interno del territorio nazionale da parte di organismi di governo loca-le. Più precisamente è stato ricordato come «gli artt. 39 CE e 43 CE devono esse-re interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di un ente federato di uno Stato membro, come quella che disciplina l’assicurazione contro la mancanza di autonomia, istituita dalla Comunità fi amminga con il decreto 30 marzo 1999, che limita l’iscrizione al regime previdenziale e il benefi cio delle prestazioni che esso prevede alle persone che risiedono nel territorio ricompreso nella competenza di tale ente ovvero esercitano un’attività lavorativa nel territorio medesimo pur ri-siedendo in un altro Stato membro, in quanto tale limitazione incida su cittadini di altri Stati membri o su cittadini dello Stato medesimo che abbiano esercitato il loro diritto alla libera circolazione all’interno della Comunità europea» (Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande sezione, sentenza 1° aprile 2008, causa C-212/06).

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fi cienza degli apparati pubblici, atteso che, l’applicazione di tutte le grandi riforme dell’amministrazione, ha operato in Italia a macchia di leopardo, fi nendo con l’aggravare, in alcune realtà geografi che non marginali, problemi di effi cienza e di legalità del sistema (15).

Nemmeno può essere sottaciuto che la sola autocorrezione del-l’amministrazione agli esiti di controlli interni (16) – in uno alla (quasi) esclusività del principio di responsabilità politica dell’elet-to – ha un evidente limite: ove a livello locale sussistano condizioni economiche, culturali, sociali diversifi cate ed ove la classe politi-ca espressa dalle collettività più svantaggiate sia caratterizzata da scarso senso civico, il risultato è la proliferazione di situazioni di illegalità diffusa che, certo, possono essere nemmeno attenuate da sistemi di controllo interno all’amministrazione. Ed, ancora una volta, le negative conseguenze di tali situazioni di maladministra-tion, di diffusa corruzione, di mancato contenimento della spesa pubblica corrente, sono comunque destinate a produrre effetti sull’intera Repubblica, almeno sotto il profi lo della compatibilità economica di tali conseguenze con la fi nanza pubblica allargata vincolata da precisi obblighi comunitari (17).

(15) Anche sotto il profi lo della economicità dell’azione amministrativa, che è immediatamente misurabile in quanto legato all’andamento della spesa corren-te delle amministrazioni pubbliche, la soppressione dei controlli amministrativi non ha apportato alcun benefi cio: la spesa corrente delle amministrazioni, specie di quelle territoriali non statali, continua a crescere costantemente ed inesorabil-mente, quella per investimenti produttivi langue, mentre i percorsi immaginati di federalismo fi scale debbono fare i conti con una situazione di stagnazione economica e di scarsa capacità di incremento della ricchezza nazionale.

(16) Il controllo interno rimane parte della funzione di amministrazione atti-va, atteso che:

– i controllori sono nominati dal controllato, sia nel controllo di gestione, sia nei controlli contabili e fi nanziari affi dati ai revisori dei conti;

– i procedimenti di controllo rimangono totalmente interni all’amministrazione;– gli esiti dell’attività di controllo rinviano alla successiva manifestazione di

volontà dell’amministrazione (o dell’organo) controllato, il quale può non con-formarsi alle indicazioni da essi rinvenienti;

– anche ove siano rinvenute illegittimità od illegalità gli organi interni di con-trollo non possono modifi care l’atto od incidere direttamente sulle attività (anzi l’art. 2, co. 3 del d.lgs. 286/1999 lo vieta espressamente);

– in alcun caso gli esiti dei controlli interni – in ispecie se non collimanti con la voluntas agendi politica dei vertici – sono destinati a divenire pubblici od acces-sibili a terzi.

(17) Suggestiva è la letteratura straniera. Si veda, tra tanti, You, Jong-Sung,

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I molteplici tentativi recenti di recuperare alla nozione di con-trollo delle attività di tipo correttivo, interne all’amministrazione, non valgono a modifi care i caratteri generali della nozione giu-ridica di controllo (18), in assenza dei quali ci troviamo di fron-te a fenomeni di amministrazione attiva, ben diversi per natura e funzione e, dunque, appartenenti alla categoria dei fenomeni logici, trattandosi di null’altro che di giudizi (19): tali sono i con-trolli interni, oggi ingiustamente assurti a categoria concettuale del diritto amministrativo e ritenuti equivalenti e sostitutivi delle tradizionali attività di controllo esterno ed imparziale.

2. Per un ritorno ai controlli esterniEsistono, invece, diverse istanze che concorrono alla necessità

di introduzione di un sistema di controlli esterni, diversi da quel-lo giudiziario, sull’attività e gli atti dell’amministrazione, in specie quando, come accade in massima parte, ad essi sia conseguente una spesa pubblica, un utilizzo di risorse pubbliche.

In primo luogo vi è la necessità di garantire, a livello dell’Unio-

Corruption as Injustice, Paper prepared for presentation at 2006 Annual Meeting of Midwest Political Science Association, Chicago, April 20-23, 2006 e la lettera-tura ivi citata in chiusura.

(18) In primo luogo, il controllo necessita di una differenziazione (e quindi una possibile contrapposizione) di organi e di volontà. L’organo controllante è sempre diverso dall’organo cui si riferisce il comportamento sottoposto a con-trollo e questo requisito è in correlazione col requisito della sanzione. In secondo luogo, l’esercizio dell’attività di controllo deve comportare il riesame dell’attivi-tà sottopostavi, sicché il controllo assume «di fronte all’attività controllata, un generale carattere correttivo, sussidiario e consecutivo, nel senso che per sua natura, quello sussegue questa» (cfr. U. Forti, «I controlli dell’amministrazione comunale», in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di diritto ammi-nistrativo, vol. II, parte II, Milano, Società Ed. Libraria, 1915, 609 e ss.). In terzo luogo, i risultati del giudizio logico compiuto dall’organo controllante devono concretarsi in una manifestazione di volontà dell’organo stesso che deve pro-durre effetti giuridici positivi sull’effi cacia dell’attività stessa, «oppure se quel-la rispondenza non v’è, tende a garantire l’osservanza delle norme stesse». Tale garanzia di osservanza «si ottiene di solito, coll’infl uire in senso negativo sulla giuridica effi cacia della attività controllata; ma, in qualche caso, anche per mezzo di provvedimenti che toccano la persona del funzionario o infl uiscono sulla sua qualità di organo».

(19) Sul punto F. Cammeo, «La competenza della IV Sezione sugli atti ammi-nistrativi delle autorità non amministrative», in Giurisprudenza Italiana, 1903.

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ne Europea, l’univocità ed unitarietà delle decisioni nazionali che, quindi, non possono comportare un diverso atteggiarsi dei governi territoriali su materie quali la concorrenza o la libertà di circolazione di beni, servizi e lavoratori, di pertinenza comuni-taria. In tal senso pare suffi ciente rammentare che nei confronti dell’Unione europea e con riferimento ai relativi obblighi non è consentito agli Stati membri di elevare ad autorità di governo le Regioni (ovvero altre autonomie territoriali) «senza pregiudicare l’equilibrio istituzionale previsto dal Trattato» (20). Come infatti costantemente ribadito dalla Corte di Giustizia, «un’autorità di uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situa-zioni del proprio ordinamento giuridico interno, ivi comprese quelle che derivano dall’organizzazione costituzionale dello Stato stesso, per giustifi care l’inosservanza degli obblighi derivanti dal diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 10 giugno 2004, causa C-87/02, Commissione/Italia, Racc. pag. I-5975, punto 38, e 26 ottobre 2006, causa C-102/06, Commissione/Austria, non pubblicata nella Raccolta, punto 9)» (21).

È evidente che siffatta uniformità nell’applicazione delle di-sposizioni del Trattato non riguarda solo il livello legislativo, ma, necessariamente, anche quello amministrativo, rimanendo, in altri termini, assolutamente precluso ad ogni amministrazione,

(20) Corte di Giustizia CE, Grande sezione, sentenza 2 maggio 2006, causa C-417/04 – per il cui commento cfr. L. Segni, in Giornale di diritto amministrativo, n. 4/2007, 371 – ha affermato che «il ricorso di un ente regionale o locale non può essere assimilato al ricorso di uno Stato membro poiché la nozione di Stato membro, ai sensi dell’art. 230, secondo comma, CE, comprende le sole autorità di governo degli Stati membri. Tale nozione non può estendersi agli esecutivi di Regioni o di altri enti infrastatali, senza pregiudicare l’equilibrio istituzionale previsto dal Trattato», confermando una propria giurisprudenza limitativa (ordi-nanza 1º ottobre 1997, causa C_180/97, Regione Toscana/Commissione, Racc., I_5245, punti 6 e 8, nonché sentenza 22 novembre 2001, causa C_452/98, Ne-derlandse Antillen/Consiglio, Racc., I_8973, punto 50). Nel caso di specie la Regione siciliana chiedeva l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 8 luglio 2004, con la quale quest’ultimo aveva dichiarato irricevibile il suo ricorso diretto all’annullamento della decisione della Commissione 5 settembre 2002, che chiudeva l’intervento fi nanziario del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) relativo al grande progetto «Autostrada Messina-Palermo» (FESR n. 93.05.03.001). La Corte ha respinto il ricorso della Regione Sicilia, condannandola alle spese.

(21) Corte di Giustizia CE, Grande sezione, sentenza 1° aprile 2008, cit.

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l’adozione di atti e lo svolgimento di attività contrarie agli obbli-ghi comunitari (22). L’introduzione di un sistema di controlli non giurisdizionali esterni sulle amministrazioni, centrali e territoriali, potrebbe garantire una migliore ed uniforme applicazione delle norme comunitarie, concorrendo all’osservanza uniforme sul ter-ritorio nazionale degli obblighi derivanti dal diritto comunitario, prima che l’inosservanza si traduca in una lesione di diritti sogget-tivi od interessi legittimi.

In secondo luogo l’attività di controllo sulla spesa pubblica non può essere limitata al mero controllo successivo sulle gestioni, di-segnato dalla legge n. 20/1994 ed affi dato alla Corte dei Conti, at-teso che tale attività – completamente priva di effettività e di san-zione – si è rivelata inidonea a garantire non solo la legalità delle scelte, ma nemmeno la economicità ed effi cacia della stesse.

Il controllo sulla spesa – anche se svolto a fi ni di coordinamen-to della fi nanza pubblica ex art. 117, co. 3, e 119, co. 2, della Co-stituzione – è necessariamente ed ontologicamente un controllo sulle procedure di formazione, cioè sulla conformità a parametri giuridici e di contabilità pubblica; tale controllo non può che ave-re natura sanzionatoria ed impeditiva rispetto al distorto, ineffi -ciente, illecito utilizzo di risorse pubbliche e non può limitarsi ad aeree considerazioni sulla sua conformità alle leggi di principio e di programma, come invece previsto dalla legge n. 20/1994.

Alla luce degli obblighi comunitari fi nanziari – in primis quello sul divieto di defi cit eccessivi – le previsioni legislative vigenti, tanto della richiamata legge n. 20/1994, quanto della successiva legge n. 131/2003, quanto, infi ne, quelle contenute nelle leggi fi -nanziarie degli ultimi dieci anni, si rivelano assolutamente insuffi -cienti, non contemplando alcuna possibilità di intervento a salva-guardia della fi nanza pubblica e del sistema tributario (e men che meno a salvaguardia della legalità dell’azione amministrativa),

(22) Peraltro proprio in una questione relativa all’esercizio della pesca in Ita-lia, la Corte di Giustizia ha anche ricordato che «non si può ritenere che semplici prassi amministrative, per loro natura modifi cabili a discrezione dell’ammini-strazione e prive di adeguata pubblicità, costituiscano valido adempimento degli obblighi incombenti agli Stati membri nel contesto dell’applicazione dei rego-lamenti comunitari» (Corte di Giustizia CE, Settima Sezione, 29 ottobre 2009, causa C-249/08).

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materie sulle quali lo Stato continua a dover dettare i principi fondamentali (art. 117 Cost.).

L’esperienza di controlli soft, che prescindono dalla verifi ca de-gli atti di spesa, affi dati agli apparati ministeriali (Ministero del-l’Economia e Ragioneria dello Stato) si è rivelata completamente insuffi ciente a garantire fi nanze pubbliche sane e defi cit non ec-cessivi dell’aggregato pubblico, come imposto dall’art. 104 del Trattato. Proprio le norme del Trattato fondamentale dell’Unione Europea impongono l’effettività di un sistema unitario di control-li sulla spesa pubblica nell’interesse della Repubblica, unitaria-mente intesa (23).

In terzo luogo vi è il dato empirico relativo alla prova sinora data dai controlli interni alle amministrazioni quali strumenti di tutela della legalità, effi cienza, effi cacia, economicità dell’azione amministrativa: sui risultati e la prova da tali controlli data si rin-via ad altre parti del presente volume.

3. Per controlli esterni preventivi e sanzionatoriA questo punto si tratta di comprendere come possa essere

strutturato, almeno sotto il profi lo teorico, un sistema organico di controlli esterni, terzi rispetto agli interessi delle amministrazioni (e degli amministratori), portatori di interessi generali.

Tale sistema dovrebbe presentare perlomeno le seguenti carat-teristiche:

– essere previsto in Costituzione od in una apposita legge raffor-zata;

– rimanere indipendente da tutti i livelli di governo, centrali, de-centrati e territoriali e dunque svincolato dal potere politico; dunque possedere caratteristiche di professionalità e terzietà;

– garantire autonomia nelle proprie decisioni rispetto agli inte-

(23) Il Trattato, infatti prevede sia un obbligo di conformazione dei sistemi giuridici interni di ciascuno Stato membro della Unione europea alle disposizioni giuridiche comunitarie, sia un ulteriore obbligo di rispettare gli obblighi fi nan-ziari comunitari (il Patto di Stabilità) in capo allo Stato unitariamente inteso: ciò rende imprescindibile un controllo unitario delle attività di spesa di queste articolazioni.

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ressi di cui è portatrice l’amministrazione ed imparzialità nelle scelte;

– le relative decisioni dell’organo di controllo dovrebbero risul-tare immediatamente esecutive e munite di effettività, salvo il ricorso del controllato al giudice amministrativo avverso la de-cisione di controllo;

– risultare territorialmente articolato e svolgere un controllo ob-bligatorio su alcune categorie predeterminate di attività e ge-stioni pubbliche con caratteri anche repressivi e sanzionatori degli amministratori.

Il modello esistente più affi ne pare quello delle authorities che, comunque, andrebbe integrato quanto all’aspetto della professio-nalità dei componenti, che andrebbero selezionati per concorso pubblico, e sotto quello della effettività delle decisioni.

In un momento di avvio dell’ennesimo tentativo di ammoder-namento dello Stato l’avvio di un dialogo tra forze politiche sul punto potrebbe essere prova di buona volontà comune quanto all’ammodernamento delle amministrazioni pubbliche, sempre più scollate dalla società civile e dalle esigenze delle imprese e dei cittadini.

403

Francesco Merloni e Benedetto Ponti

LA TRASPARENZA

1. PremessaTra gli strumenti oggettivi di lotta alla corruzione, dopo i con-

trolli viene in primo piano la trasparenza.Nei controlli un soggetto sottopone alcune attività ad una

verifi ca di conformità ad un parametro e adotta una misura. I controlli, si è visto, costituiscono quindi uno strumento utile per l’emersione dei fenomeni e come intervento sui fenomeni per cor-reggerli.

La trasparenza (1) è presupposto per la attivazione di una ulte-riore forma di controllo, diffuso e generalizzato, dei cittadini sul-l’operato dell’amministrazione. È mirata ad attivare la responsa-bilità politica, ma se attivata ampiamente è essa stessa strumento di emersione di fenomeni di corruzione e maladministration.

2. Gli scopi della trasparenzaLa trasparenza, dal punto di vista che qui ci interessa, ha due

fi nalità di fondo:

a) la funzionalità delle amministrazioni: il cittadino ha diritto di sapere come l’amministrazione usa delle risorse a disposizione, quali risultati ottiene, con quali costi;

b) l’imparzialità: se l’amministrazione è trasparente è possibile far emergere vicende di cattiva amministrazione, di condiziona-mento improprio nella cura dell’interesse pubblico.

(1) Per una ridefi nizione della nozione di trasparenza, si veda il complesso di studi raccolti nel volume F. Merloni (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2008.

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3. Gli strumenti della trasparenza

3.1. L’accessoA lungo per il nostro legislatore (e per buona parte della dottrina

italiana del diritto pubblico) la trasparenza coincide semplicemente con l’accesso. Ovvero si ottiene la trasparenza dell’amministrazio-ne essenzialmente solo attraverso l’esercizio del diritto di accesso.

È il cittadino che si attiva per ricercare le informazioni che gli servono: per tutelare i propri interessi, per controllare democra-ticamente l’amministrazione. Grazie alle informazioni ottenute, il cittadino apre una fi nestra sull’amministrazione, rendendola trasparente.

Come è noto si confrontano due concezioni dell’accesso:

A) l’accesso potenzialmente generalizzato, da parte di chiunque e su qualunque oggetto (2);

B) l’accesso limitato, da parte dell’interessato, ai soli fi ni della tutela di una situazione giuridica soggettiva di cui sia titolare.

Il diritto di accesso si confronta con i diritti alla riservatezza: dei soggetti privati (privacy); delle amministrazioni pubbliche (cura dell’interesse pubblico).

3.2. La pubblicitàDiversamente dall’accesso, a fronte di un diritto di informazio-

ne (di essere informato oltre che di informare altri) riconosciuto in via generale a tutti i cittadini (a «chiunque») incombe sull’am-ministrazione un dovere/obbligo di porre a disposizione del citta-dino le informazioni necessarie.

Il rapporto amministrazione/cittadino è ribaltato rispetto al-l’accesso: è la legge che stabilisce contenuto e limiti dei diritti dei cittadini e degli obblighi dell’amministrazione. È la legge a risolvere il confl itto tra esigenze di conoscibilità generalizzata e tutela della riservatezza, individuando quali informazioni, anche consistenti in dati personali, sono soggette a pubblicazione. È

(2) È l’impostazione USA che riecheggia nello slogan «your right to know», e che caratterizza sostanzialmente tutti gli interventi normativi in materia (fi no ai più recenti), a partire dal Freedom of Information Act del 1966 (nella stessa direzione Francia, 1978, e Regno Unito, 2000).

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poi l’amministrazione, sulla base delle indicazioni legislative (non solo in ordine ai contenuti, ma anche relativamente ai tempi ed agli strumenti di pubblicazione) che attua la legge individuando nel concreto le informazioni da diffondere.

La pubblicità ha subito una forte rivalutazione come strumento di trasparenza in virtù della rivoluzione tecnologica, con la mas-siccia introduzione di tecnologie informatiche e telematiche.

Se prima essa poteva essere considerata uno strumento limitato (utilizzata solo ai fi ni di certezza legale: notifi cazioni, pubblica-zioni ad effi cacia territorialmente e temporalmente limitata), con l’applicazione delle ICT essa diviene strumento potenzialmente illimitato, nello spazio e nel tempo.

Siamo quindi in grado di valutare meglio vantaggi e svantaggi dell’uno e dell’altro strumento di trasparenza.

Vantaggi e svantaggi dell’accesso: i pregi stanno nella libertà del cittadino, che stabilisce in autonomia di quali informazioni ha bi-sogno (per sé e per i propri concittadini); gli svantaggi si possono identifi care:

– nei costi: più l’accesso è generalizzato, più costi impone, sia al cittadino sia all’amministrazione;

– nell’incertezza: con la richiesta di accesso alle informazioni si apre una fase spesso contenziosa con l’amministrazione;

– nell’occasionalità della trasparenza realizzata: questa dipende dalla richiesta del cittadino che si è fatto parte attiva, che può non corrispondere, e comunque non è in condizione di fare fronte alle esigenze oggettive di trasparenza.

Tra i vantaggi della pubblicità possiamo considerare i seguenti:

– i costi sono predeterminabili; con le tecnologie informatiche i costi coincidono con quelli di individuazione delle informa-zioni da diffondere e di immissione nei siti informatici delle amministrazioni;

– vi è maggiore certezza: l’amministrazione diffonde le informa-zioni che la legge impone di diffondere, il cittadino può attivare strumenti di controllo sull’operato dell’amministrazione senza doversi preoccupare (a monte) di individuare e procurarsi le informazioni a ciò necessarie;

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– la confl ittualità è risolta in via preventiva: è la legge ad indivi-duare quali informazioni sono oggetto della pubblicazione.

Tra gli svantaggi:

– l’individuazione degli obblighi di pubblicità/pubblicazione da parte del legislatore può sacrifi care il diritto alla riservatezza (privata e pubblica);

– l’amministrazione potrebbe non curare adeguatamente la qua-lità delle informazioni diffuse (informazioni inesatte, eccesso di informazioni, informazioni non comprensibili);

– l’amministrazione può fare un uso strumentale (ad esempio propagandistico) delle informazioni diffuse.

4. Il modello italiano di trasparenzaSe il legislatore italiano, con la legge n. 241, sembrava puntare

tutto sullo strumento dell’accesso, fi n dall’inizio fu chiaro che lo strumento, pure in grado di realizzare una forma di trasparen-za, era fortemente limitato. Paradossalmente, proprio mentre si sviluppavano le ICT, che sicuramente semplifi cano l’opera delle amministrazioni nella garanzia dell’accesso, la legislazione di cor-rezione della legge n. 241 (adottata nel 2005) è andata nel senso di una ulteriore restrizione. Si tratta delle note limitazioni di carat-tere soggettivo (solo il titolare di un «interesse diretto, concreto e attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso») che porta-no ad escludere, anche esplicitamente, l’uso del diritto di accesso con fi nalità di «controllo generalizzato» (art. 24, co. 3); cui si ag-giungono le limitazione di carattere oggettivo: sono individuate le categorie di documenti non accessibili per legge, con la possibilità di integrare la elencazione con regolamenti.

Corrispettivamente lo strumento fondamentale di trasparenza diviene la pubblicità (in particolare la diffusione delle informa-zioni mediante i siti delle pubbliche amministrazioni). Seguiamo schematicamente questa evoluzione.

4.1. La disciplina precedente la «legislazione Brunetta»Una prima apertura nella nuova direzione era già contenuta

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nella legge n. 241, all’art. 26 (obbligo di pubblicazione) (3). Si tratta di una norma molto generica che, all’epoca in cui fu scritta, prescindeva dalla evoluzione informatica (si pensava ad una pub-blicità con mezzi tradizionali), ma che cominciava a delineare la strada: l’elencazione per legge di atti e documenti detenuti dalle amministrazioni di cui si stabiliva l’obbligo di pubblicità. Signifi -cativo il terzo comma: per gli atti pubblicati l’accesso è realizzato e la pubblicità assorbe l’accesso.

Invece di lasciare al cittadino l’iniziativa della ricerca delle in-formazioni utili, vi provvedono la legge e l’amministrazione.

Il successivo importante passaggio è stato il codice dell’ammi-nistrazione digitale (4) (art. 54), che ha disciplinato il contenuto obbligatorio dei siti delle pubbliche amministrazioni (5), stabilen-do anche, al terzo e quarto comma, il principio della gratuità e affi dabilità delle informazioni (6).

(3) «1. Fermo restando quanto previsto per le pubblicazioni nella Gazzetta Uffi ciale della Repubblica italiana dalla legge 11 dicembre 1984, n. 839, e dalle relative norme di attuazione, sono pubblicati, secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti, le direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione, sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti di una pubblica amministrazione ovvero nel quale si determina l’interpretazione di norme giuridiche o si dettano disposizioni per l’applicazione di esse.

2. Sono altresì pubblicate, nelle forme predette, le relazioni annuali della Commissione di cui all’articolo 27 e, in generale, è data la massima pubblicità a tutte le disposizioni attuative della presente legge e a tutte le iniziative dirette a precisare ed a rendere effettivo il diritto di accesso.

3. Con la pubblicazione di cui al co. 1, ove essa sia integrale, la libertà di ac-cesso ai documenti indicati nel predetto co. 1 s’intende realizzata.»

(4) Emanato con il d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82.(5) «I siti delle pubbliche amministrazioni centrali contengono necessaria-

mente i seguenti dati pubblici:l’organigramma, l’articolazione degli uffi ci, le attribuzioni e l’organizzazione

di ciascun uffi cio anche di livello dirigenziale non generale, i nomi dei dirigenti responsabili dei singoli uffi ci, nonché il settore dell’ordinamento giuridico riferi-bile all’attività da essi svolta, corredati dai documenti anche normativi di riferi-mento;

l’elenco delle tipologie di procedimento svolte da ciascun uffi cio di livello dirigenziale non generale, il termine per la conclusione di ciascun procedimento ed ogni altro termine procedimentale, il nome del responsabile e l’unità organiz-zativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento fi nale, come individuati ai sensi degli articoli 2, 4 e 5 della legge 7 agosto 1990, n. 241;

408

È poi intervenuta una signifi cativa legislazione intermedia, pri-ma della legge e del decreto «Brunetta»: nella legge fi nanziaria del 2008 si è imposta la pubblicazione, a pena di ineffi cacia degli atti, degli incarichi presso le amministrazioni pubbliche e delle relati-ve retribuzioni (7); nel d.l. n. 112 del 2008 si è imposto l’obbligo di pubblicazione delle autorizzazioni rilasciate ai dipendenti (8); nella legge n. 69 del 2009 (9) è prevista la trasparenza sulle retri-

le scadenze e le modalità di adempimento dei procedimenti individuati ai sensi degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241;

l’elenco completo delle caselle di posta elettronica istituzionali attive, speci-fi cando anche se si tratta di una casella di posta elettronica certifi cata di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68;

le pubblicazioni di cui all’articolo 26 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché i messaggi di informazione e di comunicazione previsti dalla legge 7 giugno 2000, n. 150;

l’elenco di tutti i bandi di gara e di concorso;l’elenco dei servizi forniti in rete già disponibili e dei servizi di futura attiva-

zione, indicando i tempi previsti per l’attivazione medesima».(6) «3. I dati pubblici contenuti nei siti delle pubbliche amministrazioni sono

fruibili in rete gratuitamente e senza necessità di autenticazione informatica.4. Le pubbliche amministrazioni garantiscono che le informazioni contenute

sui siti siano conformi e corrispondenti alle informazioni contenute nei provvedi-menti amministrativi originali dei quali si fornisce comunicazione tramite il sito.»

(7) Legge 244 del 2007 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge fi nanziaria 2008) (art. 3, co. 44):

«Nessun atto comportante spesa ai sensi dei precedenti periodi può ricevere attuazione, se non sia stato previamente reso noto, con l’indicazione nominativa dei destinatari e dell’ammontare del compenso, attraverso la pubblicazione sul sito web dell’amministrazione o del soggetto interessato».

(8) Decreto legge n. 112 del 2008, convertito in legge, con modifi cazioni, dal-l’art. 1, co. 1, legge 6 agosto 2008, n. 133, «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplifi cazione, la competitività, la stabilizzazione della fi nanza pubblica e la perequazione tributaria» (art. 61, co. 4, che ha modifi cato l’art. 53, co. 12, 13, 14 e 16 del d.lgs. n. 165 del 2001):

«12. Entro il 30 giugno di ciascun anno, le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi retribuiti ai propri dipendenti sono tenute a comunicare, in via telematica o su apposito supporto magnetico, al Dipartimento della funzione pubblica l’elenco degli incarichi conferiti o autorizzati ai dipen-denti stessi nell’anno precedente, con l’indicazione dell’oggetto dell’incarico e del compenso lordo previsto o presunto».

(9) «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplifi cazione, la competiti-vità nonché in materia di processo civile (art. 21, co. 1): “Ciascuna delle pubbli-che amministrazioni di cui all’ articolo 1, co. 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modifi cazioni, ha l’obbligo di pubblicare nel proprio sito internet le retribuzioni annuali, i curricoli, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri telefonici ad uso professionale dei dirigenti e dei segretari comunali e

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buzioni dei dirigenti e sui tassi di assenza e di maggiore presenza del personale.

4.2. La «legislazione Brunetta»Con la vera e propria legislazione «Brunetta» si fa un ulteriore

passo, rilevante, sul piano della defi nizione della nozione generale di trasparenza.

Ci si riferisce tanto alla legge n. 15 del 2009 (10) che al relativo decreto delegato, che da un lato riproduce la defi nizione generale della legge (11) e dall’altro contiene una nuova elencazione degli

provinciali nonché di rendere pubblici, con lo stesso mezzo, i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale distinti per uffi ci di livello dirigenziale”».

(10) Art. 4, co. da 6 a 9: «6. La trasparenza costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a norma dell’articolo 117, secondo co., lett. m), della Costituzione.

7. Ai fi ni del comma 6 la trasparenza è intesa come accessibilità totale, an-che attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, degli indicatori relativi agli andamenti gestio-nali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta in proposito dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità.

8. Le amministrazioni pubbliche adottano ogni iniziativa utile a promuovere la massima trasparenza nella propria organizzazione e nella propria attività.

9. All’articolo 1, co. 1, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, è aggiunto, in fi ne, il seguente periodo: “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica e la relativa valutazione non sono oggetto di protezione della riservatezza personale”».

(11) Art. 11 (Trasparenza), co. da 1 a 3:«1. La trasparenza è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo stru-

mento della pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità. Essa costituisce livel-lo essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione.

2. Ogni amministrazione, sentite le associazioni rappresentate nel Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, adotta un Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, da aggiornare annualmente, che indica le iniziative previste per garantire:

a) un adeguato livello di trasparenza, anche sulla base delle linee guida ela-

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obblighi di pubblicità da attuarsi nei siti istituzionali delle ammi-nistrazioni (12).

Vediamo rapidamente le novità più rilevanti. Sul piano delle defi nizioni, si afferma che la trasparenza consiste nella «accessibi-lità totale». Ciò signifi ca che i dati pubblicati sono accessibili da parte di chiunque, che l’accessibilità non può essere limitata da aspetti tecnologici (digital divide), che l’accessibilità deve essere garantita come qualità delle informazioni secondo i principi di utilità, obiettività, integrità (nel senso di completezza) come in-dividuati anche dal codice dell’amministrazione digitale: qualità dei dati in sé (esattezza, disponibilità, accessibilità e riservatezza); qualità dell’informazione aggregata (accessibilità, elevata usabili-tà, interoperabilità, completezza delle informazioni, chiarezza di

borate dalla Commissione di cui all’articolo 13;b) la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità.3. Le amministrazioni pubbliche garantiscono la massima trasparenza in

ogni fase del ciclo di gestione della performance».(12) Art. 11, cc. 8 e 9:«8. Ogni amministrazione ha l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzio-

nale in apposita sezione di facile accesso e consultazione, e denominata: “Trasparenza, valutazione e merito”:

a) il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità ed il relativo stato di attuazione;

b) il Piano e la Relazione di cui all’articolo 10; (performance);c) l’ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e

l’ammontare dei premi effettivamente distribuiti;d) l’analisi dei dati relativi al grado di differenziazione nell’utilizzo della pre-

mialità sia per i dirigenti sia per i dipendenti;e) i nominativi ed i curricula dei componenti degli Organismi indipendenti

di valutazione e del Responsabile delle funzioni di misurazione della per-formance di cui all’articolo 14;

f) i curricula dei dirigenti e dei titolari di posizioni organizzative, redatti in conformità al vigente modello europeo;

g) le retribuzioni dei dirigenti, con specifi ca evidenza sulle componenti va-riabili della retribuzione e delle componenti legate alla valutazione di ri-sultato;

h) i curricula e le retribuzioni di coloro che rivestono incarichi di indirizzo politico amministrativo;

i) gli incarichi, retribuiti e non retribuiti, conferiti ai dipendenti pubblici e a soggetti privati.

9. In caso di mancata adozione e realizzazione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità o di mancato assolvimento degli obblighi di pubblicazione di cui ai commi 5 e 8 è fatto divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti preposti agli uffi ci coinvolti».

411

linguaggio, reperibilità, affi dabilità, semplicità di consultazione, qualità, omogeneità, conformità ai documenti originali).

In secondo luogo si prevede di dare pubblicità a «ogni aspet-to dell’organizzazione». Si deve ritenere che nella nozione di or-ganizzazione rientrino pertanto sia l’elemento oggettivo (le fun-zioni/complessi di attività predeterminate in vista della cura di fi nalità di interesse generale: funzioni-scopo), le competenze (la distribuzione delle attività di esercizio di una funzione tra organi della stessa amministrazione), i caratteri degli organi (in rapporto alle competenze affi date), le discipline sul funzionamento degli organi (obiettivi, collaborazione, coordinamento, controlli), le tipologie dei procedimenti (passaggi, termine), sia l’elemento sog-gettivo (il titolare dell’organo, il responsabile del procedimento, il personale addetto, le informazioni personali rilevanti: accesso, curriculum, incarichi svolti, patrimonio, retribuzioni, di base e ac-cessorie; posizione quanto responsabilità disciplinare e penale).

Quanto, poi, alle «forme diffuse di controllo» che sono consi-derate come il normale risultato della trasparenza, in questo modo si compie quel processo di progressiva accentuazione della distan-za tra pubblicità e accesso: mentre nella trasparenza/pubblicità il controllo diffuso è una fi nalità pacifi camente assunta, con riferi-mento al diritto di accesso il controllo generalizzato è vietato.

Vi è, infi ne, il riferimento della trasparenza al «buon andamen-to e imparzialità». Per la prima volta in un testo legislativo si af-ferma con chiarezza che la trasparenza è strumento di attuazione dei valori costituzionali dell’art. 97. Vi sono, però, dei limiti.

Il buon andamento, che deve essere inteso come funzionalità complessiva delle amministrazioni pubbliche (effi cienza, effi cacia ed economicità), nella «legislazione Brunetta» è predicato soprat-tutto come «performance» individuale (dei dipendenti, dei diri-genti). In questo senso va, ad esempio, la sostituzione dei servizi di controllo interno con l’«organismo indipendente di valutazio-ne della performance».

Qui si legge una volontà di un uso strumentale della traspa-renza come «pressione» dei cittadini sui funzionari pubblici (in particolare sui dirigenti). Se tutte le rilevazioni di performance, insieme ai dati sulle retribuzioni, di posizione e di risultato, sono resi pubblici, ciò secondo la nuova normativa costituisce una for-

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ma di stimolo diretto sul funzionario perché sia più diligente nella dedizione al lavoro e nell’effettuazione della prestazione lavora-tiva. Resta meno al centro del «controllo diffuso dei cittadini» il risultato dell’azione amministrativa in quanto tale e, soprattutto, l’attivazione della responsabilità politica degli organi di indirizzo.

In questa prospettiva occorrerà che vengano meglio precisati gli obblighi di pubblicità su quegli aspetti dell’organizzazione e dell’azione amministrativa che sono in grado di attivare la respon-sabilità, in sede di indirizzo e di controllo sui risultati degli organi politici.

L’imparzialità appare declinata soprattutto come «integrità» del funzionario. Come si comprende dalla impostazione genera-le di questo nostro lavoro, si tratta di un approccio che nel suo complesso va condiviso. L’organizzazione non è solo il modello organizzativo o le competenze degli uffi ci, ma le persone fi siche titolari degli organi e i funzionari pubblici che collaborano allo svolgimento della funzione.

Per il momento, però, anche l’integrità del funzionario non vie-ne adeguatamente articolata, ma ci si limita a prevedere la neces-saria predisposizione da parte delle pubbliche amministrazioni di un «Programma triennale per la trasparenza e l’integrità», per la redazione del quale vengono date indicazioni molto generi-che (13), che richiedono una progressiva opera di precisazione.

Non si parla, infatti, né del regime delle limitazioni all’accesso alla funzione, né delle incompatibilità e dei confl itti di interesse che possono insorgere nello svolgimento della funzione, né dei doveri che incombono sui funzionari (ai vari livelli e per le diver-se attività svolte) o dei controlli e delle verifi che attivate non più in rapporto alla prestazione lavorativa (la performance), ma allo svolgimento imparziale delle funzioni affi date.

Relativamente a tutti questi aspetti, che abbiamo individuato nei precedenti capitoli, vanno articolati gli obblighi di trasparenza.

(13) Secondo l’art. 11, co. 2, del d.lgs. n. 150 del 2009, il Programma «da ag-giornare annualmente, […] indica le iniziative previste per garantire:

a) un adeguato livello di trasparenza, anche sulla base delle linee guida ela-borate dalla Commissione di cui all’articolo 13;

b) la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità».

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Va comunque apprezzata la volontà di non lasciare una previ-sione di legge ad un’attuazione priva di strumenti operativi e di verifi ca. Se non si è in grado di defi nire subito in che cosa consista l’integrità e quali siano gli obblighi di trasparenza ad essa connes-si, si prevede un obbligo per le amministrazioni di provvedervi, demandando ad una struttura apposita sia l’indicazione dei criteri per la formulazione dei piani triennali, sia il monitoraggio sulla loro effettiva adozione (vedi infra).

Restano da affrontare, brevemente, due aspetti: da un lato l’estensione dell’applicazione degli obblighi di trasparenza; dal-l’altro gli strumenti che sono stati istituiti per indirizzare e guida-re il processo di implementazione della nuova disciplina.

4.3. L’applicazione degli obblighi di trasparenza nelle amministra-zioni diverse da quelle statali

Nel disciplinare nuovamente la trasparenza, sia sotto il profi lo dell’accesso che sotto il profi lo della pubblicità, il legislatore si è preoccupato di fondare l’estensione degli obblighi di trasparenza a tutti i livelli di governo in cui si articola la Repubblica sui titoli di competenza legislativa, così come identifi cati dal nuovo artico-lo 117 della Costituzione.

Per l’accesso, il nuovo articolo 29 della legge n. 241, così come modifi cato dalla legge n. 15 del 2005 e dalla legge n. 69 del 2009 utilizza ampiamente, in generale per il procedimento amministra-tivo e in particolare per l’accesso, il titolo competenziale della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (14).

Per la pubblicità, l’articolo 11 del d.lgs. n. 150, cioè la norma che dispone in materia di trasparenza, si applica sicuramente a

(14) «2-bis. Attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione le disposizioni della presen-te legge concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un respon-sabile, di concluderlo entro il termine prefi ssato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti.

2-quater. Le Regioni e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti ammini-strativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assi-curate ai privati dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui ai commi 2-bis e 2-ter, ma possono prevedere livelli ulteriori di tutela».

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tutte le amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali. Per l’applicazione a Regioni ed enti locali occorre guardare alle di-sposizioni del d.lgs. n. 150 relative all’applicabilità del decreto, cioè all’articolo 16 (15) e all’articolo 74 (16). Da queste disposizioni si ricava, da un lato, che la legge non intende imporre l’intera nor-mativa sulla trasparenza/pubblicità agli enti territoriali e dall’altro che, quando invece intende farlo, il titolo competenziale utilizzato è lo stesso dell’accesso: la determinazione dei livelli essenziali.

Sotto il primo profi lo, non tutto l’articolo 11 costituisce un vincolo per le amministrazioni territoriali. Resterebbero fuori: il Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (co. 2) e le conseguenze in caso di mancata adozione (co. 9); il Piano e la Relazione sulla performance (co. 6); la istituzione della sezione «Trasparenza, valutazione e merito» e gli obblighi di pubblicazio-ne sul sito (co. 8).

Sotto il secondo profi lo la applicazione ai due strumenti di tra-sparenza della riserva in materia di livelli essenziali pone qualche problema, il primo dei quali si può così sintetizzare: sono l’acces-so e la pubblicità delle prestazioni? Che cosa nella trasparenza è prestazione e cosa è organizzazione dei modi per garantirla? È adeguata questa riserva in rapporto alla specifi ca caratteristica delle prestazioni, consistenti nella diffusione di dati informativi?

Nella fi losofi a della riserva allo Stato della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, lo Stato garantisce a tutti l’ugua-glianza sostanziale nel godimento dei diritti.

A questo fi ne predetermina i risultati da ottenere, ma lascia gli enti territoriali liberi di individuare i modi (l’organizzazione) per garantire quei livelli. In questa prospettiva si potrebbero identi-fi care come prestazioni i contenuti (accessibilità totale, organiz-zazione, controllo diffuso); gli oggetti (di nuovo il co. 8), mentre

(15) Art. 16 (Norme per gli Enti territoriali e il Servizio sanitario nazionale): «1. Negli ordinamenti delle Regioni, anche per quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e degli enti locali trovano diretta applicazione le disposizioni dell’articolo 11, co. 1 e 3».

(16) L’art. 74 (Ambito di applicazione): «1. Gli articoli 11, co. 1 e 3, da 28 a 30, da 33 a 36, 54, 57, 61, 62, co. 1, 64, 65, 66, 68, 69 e 73, co. 1 e 3, rientrano nella potestà legislativa esclusiva esercitata dallo Stato, ai sensi dell’articolo 117, secondo co., lett. l) ed m), della Costituzione».

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resterebbero fuori i modi: la costituzioni di specifi ci uffi ci, la im-postazione dei siti, il Programma triennale per la trasparenza.

Ma i limiti della soluzione non si fermano qui. Il ricorso che ad essa si fa (per quanto ampiamente in voga, anche nei progettati interventi in materia di lotta alla corruzione (17)) non rappresenta uno strumento utile alla costituzione di un patrimonio di cono-scenze unitario, omogeneo e completo sui fenomeni della corru-zione. In primo luogo, il titolo competenziale di cui alla lett. m) dell’articolo 117 della Costituzione può essere impiegato esclu-sivamente nei casi di una prestazione rivolta ai cittadini (come nel caso della diffusione di informazioni a fi ni di trasparenza), mentre non sarebbe utilizzabile nel caso della costituzione di ban-che dati, basi conoscitive, reports non immediatamente fi nalizzati alla diffusione pubblica (come nel caso di fl ussi informativi ad uso interno); d’altra parte, la stessa fi nalizzazione in termini di prestazione può comportare una serie di problematiche quanto alla capacità/profondità conoscitiva, dal momento che il tipo di prestazione può infl uire in modo signifi cativo sulle caratteristiche delle informazioni da erogare. Per fare solo un esempio, si pensi ai limiti che la tutela dei dati personali impone alla diffusione delle informazioni (in particolare tramite il web): ciò che ha condotto ad esiti paradossali, e non del tutto convincenti, come la esclu-sione dalla tutela della riservatezza dei dati concernenti lo svolgi-mento delle prestazioni e la relativa valutazione di chiunque sia addetto ad una funzione pubblica (18). Inoltre, la declinazione di un obbligo di carattere informativo in termini di livello essenziale della prestazione comporta (strutturalmente) una sua formulazio-ne in termini di risultato, ossia in modo spesso non suffi ciente-mente dettagliato (in relazione alle modalità di rappresentazione,

(17) Si fa riferimento al d.d.l. «Disposizioni per la prevenzione e la repressio-ne della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione» (S. 2156) presentato il 5 maggio 2010, che nell’introdurre ulteriori ipotesi di pubblicazione nei siti delle pubbliche amministrazioni, declina il relativo obbligo in termini di livello essenziale della prestazione (trasparenza), sebbene poi si preoccupi di demandarne la più precisa e dettagliata individuazione ad uno specifi co regola-mento governativo (cfr. art. 2, co. 1, 2 e 6).

(18) Sul punto, si v. E. Carloni, «La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa», in Studi in onore di G. Palma, in corso di pubblicazione.

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alla specifi ca individuazione delle grandezze da rappresentare, alla scansione temporale, etc.) rispetto all’obiettivo (di cui qui si discute) di conseguire, in merito a determinati fenomeni, una co-noscenza basata su dati certi, completi, aggiornati, omogenei per strutturazione (e quindi comparabili), a prescindere dal livello organizzativo o territoriale cui si riferiscono.

Il ricorso alla defi nizione (ed imposizione) di standard infor-mativi mediante la individuazione di livelli essenziali si spiega, in buona parte, con la limitata considerazione (rispetto alle mede-sime fi nalità) riservata dal legislatore nazionale alla competenza/funzione di coordinamento dei dati. Da più parti si ritiene che tale competenza esclusiva costituisca solo la espressione del riconosci-mento in capo allo Stato di una potestà di armonizzazione tecnica (informatica e statistica) dei dati delle pubbliche amministrazio-ni (ossia, relativamente al come devono essere trattati i dati), in quanto tale inidonea a consentire allo Stato di individuare anche quali informazioni sottoporre ad un determinato trattamento (ad esempio, la loro raccolta secondo un certo schema logico/rappre-sentativo) da parte di tutte le amministrazioni che compongono la Repubblica. Si tratta, tuttavia, di una conclusione sostanzialmen-te errata, frutto principalmente di una lettura del nuovo Titolo V della Costituzione a partire dalle categorie maturate nell’esperien-za precedente (19). Al contrario, è la stessa giurisprudenza costi-tuzionale ad aver chiarito, in una serie oramai consolidata di pro-nunce (20), che accanto al coordinamento informatico e statistico (che costituiscono effettivamente manifestazioni di un coordina-mento di natura tecnica), la lett. r) dell’art. 117 della Costituzione

(19) A proposito del dibattito sulla confi gurazione della funzione statale di coordinamento dei dati delle pubbliche amministrazione, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione, sia consentito rinviare a B. Ponti, «I dati di fonte pubblica: coordinamento, qualità e riutilizzo», in F. Merloni (a cura di), La tra-sparenza amministrativa, cit., 405 ss.

(20) A cominciare dalla sentenza n. 376 del 2003 la Corte costituzionale ha costantemente riconosciuto alla competenza legislativa statale in parola la possi-bilità di tradursi nell’imposizione di obblighi informativi a carico delle ammini-strazioni, ritenuti non lesivi dell’autonomia locale e regionale (compresa quella speciale), in quanto espressione di un «coordinamento meramente informativo»: cfr. C.; n. 36/2004; n. 35 e 417/2005; n. 240 e n. 339/2007; n. 159/2008 e n. 246/2009. La fi nalità prevalente è quella del monitoraggio/controllo della spesa pubblica, ma non è l’unica.

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sancisce anche una funzione di coordinamento informativo (21), in base alla quale la legislazione statale ben può imporre allo Stato, alle Regioni ed agli enti locali (senza con ciò violare l’autonomia costituzionalmente garantita a questi ultimi) obblighi informativi quali la formazione, la trasmissione ovvero la pubblicazione di determinati dati, quando ciò sia funzionale alla realizzazione o alla tutela di un interesse costituzionalmente protetto (come nel caso, ricorrente, degli obblighi informativi connessi ad esigenze di monitoraggio sull’andamento della fi nanza pubblica).

Di qui la proposta di utilizzare in modo più consapevole e mirato lo strumento del coordinamento informativo per individuare quali informazioni (nella disponibilità delle amministrazioni) si ritengono utili per costituire e mantenere nel tempo una conoscenza del feno-meno completa, aggiornata, consistente ed omogenea sul territorio nazionale, e per imporne – a tutti i livelli – la raccolta secondo mo-dalità standardizzate e la comunicazione agli organi competenti in materia. Si noti che, così facendo, si potrebbe completare (e portare a sistema) il quadro delle informazioni che già sono oggetto di ob-blighi di trasmissione/pubblicazione, sia ad altri fi ni (si pensi ai dati relativi agli andamenti della spesa), sia con fi nalità perfettamente in linea con le esigenze del contrasto della maladministration: (per fare un altro esempio, si pensi agli obblighi informativi già posti in capo alle stazioni appaltanti dal codice dei contratti).

Insomma, se il presupposto per qualsiasi credibile politica di contrasto dei fenomeni corruttivi parte da una adeguata cono-scenza del fenomeno, ovvero dalla qualità delle informazioni di-sponibili (perché complete, aggiornate, signifi cative, omogenee, paragonabili), una delle risposte che si possono ragionevolmente mettere in opera consiste nell’uso più consapevole degli strumen-ti ordinamentali già disponili, a cominciare dal concreto e mirato esercizio della funzione di coordinamento informativo dei dati delle pubbliche amministrazioni.

(21) Sull’autonoma confi gurazione della funzione di coordinamento informa-tivo, si v. ancora B. Ponti, «I dati di fonte pubblica: coordinamento, qualità e riutilizzo», cit., passim., e Id., «Coordinamento e governo dei dati nel pluralismo amministrativo, in Informatica e diritto», in M. Pietrangelo (a cura di), Scritti in memoria di Isabella D’Elia Ciampi, Napoli, E.S.I., 2009, 423.

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La conclusione del nostro ragionamento: la riserva in base alla determinazione dei livelli essenziali non è suffi ciente per assicu-rare la piena applicazione, in tutte le amministrazioni, degli ob-blighi di trasparenza, sia per l’accesso che per la pubblicità. Lo Stato, anche se non vi ha espressamente provveduto nella recente disciplina in materia resta sempre titolare del potere di coordina-mento dei dati e può utilmente esercitarlo nella determinazione dei modi per garantire la trasparenza. Attraverso nuove disposi-zioni di legge, ma già nella determinazione dei contenuti minimi del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, che deve essere considerato, sotto questi aspetti, come un obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche, nessuna esclusa.

4.4. Gli strumenti di vigilanza sul rispetto degli obblighi di traspa-renza

In una disciplina che sembra orientare la trasparenza quasi esclusivamente sul versante della pubblicità vi è un concreto ri-schio di trascurare il potenziale democratico di controllo costi-tuito dall’accesso: il cittadino ha diritto di andare alla ricerca di ciò che manca, che non è stato pubblicato. L’accesso ai fi ni di garanzia deve andare al di là di quanto è pubblicato. Resta neces-saria una riforma delle regole sull’accesso, nella direzione di un ampliamento sia sul versante della legittimazione soggettiva, che su quello dei documenti accessibili.

La trasparenza/accesso alle informazioni che abbiamo consi-derato rilevanti ai fi ni della lotta alla corruzione e alla maladmini-stration è un completamento indispensabile della pubblicità.

A prescindere da questa auspicata evoluzione del diritto di ac-cesso, gli strumenti di verifi ca restano quelli individuati dalla leg-ge n. 241: in primo luogo la Commissione nazionale per l’accesso, dotata però, attualmente, di meri compiti consultivi, e il ricorso al giudice amministrativo.

Si segnala anche il rischio che la designazione dell’attuale di-sciplina dell’accesso, con le restrizione già segnalate, come livel-lo essenziale delle prestazioni possa costituire un arretramento rispetto a situazioni di maggiore tutela dell’accesso, anche nella forma dell’accesso generalizzato (come nel caso dell’accesso alle informazioni ambientali). Il timore, ad esempio, è che gli enti lo-

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(22) Con il rischio concreto, tuttavia, che il Garante sia portato a dare prevalen-za, in ragione della sua mission istituzionale, alle esigenze della riservatezza e della tutela dei dati personali rispetto a quelle della conoscibilità, mediante l’accesso.

(23) «8. Presso la Commissione è istituita la Sezione per l’integrità nelle ammi-nistrazioni pubbliche con la funzione di favorire, all’interno della amministrazio-ni pubbliche, la diffusione della legalità e della trasparenza e sviluppare interventi a favore della cultura dell’integrità. La Sezione promuove la trasparenza e l’inte-grità nelle amministrazioni pubbliche; a tale fi ne predispone le linee guida del Programma triennale per l’integrità e la trasparenza di cui articolo 11, ne verifi ca

cali – che pure sono tenuti a garantire ai cittadini l’accesso a tutte le informazioni di cui sono detentori – fi niscano per sentirsi ob-bligati a garantire solo l’accesso previsto nella legge n. 241.

Quanto alla vigilanza sul comportamento delle amministrazio-ni in relazione all’esercizio dei loro doveri in connessione all’eser-cizio del diritto di accesso, le strade per rafforzarla sono due:

a) si mantiene l’attuale articolazione tra la Cada e il Garante del-la privacy, realizzando però l’indipendenza organizzativa della Cada, e fornendole i necessari poteri di disclosure;

b) si riconducono i compiti (rafforzati) della Cada o presso il Ga-rante della privacy (in ragione della già dimostrata attitudine a regolare il trattamento delle informazioni pubbliche, ma co-munque nell’ottica del diritto di accesso come prevalentemente come strumento di tutela soggettiva (22)) o presso la CiVIT, allo scopo di rafforzare una visione unitaria della trasparenza, e di un ampliamento in questo senso del ruolo del diritto di accesso.

Mentre per gli obblighi di pubblicità fi n qui individuati nel co-dice dell’amministrazione digitale non venivano previste autorità di controllo (dei comportamenti delle amministrazioni) e di ga-ranzia (dei diritti dei cittadini alle informazioni pubbliche), per i nuovi obblighi stabiliti dalla legislazione Brunetta è stata istituita (art. 13 d.lgs. n. 150) la «Commissione per la valutazione, la tra-sparenza e l’integrità (CiVIT)», Commissione che presenta alcuni tratti organizzativi che ne dovrebbero garantire l’indipendenza. All’interno della Commissione è prevista la costituzione di una «Sezione per l’integrità» (art. 13, co. 8), che ha tra gli altri il com-pito di predisporre le «linee guida del Programma triennale per l’integrità e la trasparenza» (23).

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Va segnalato che la nuova Commissione ha il compito (cfr. art. 13, co. 2 (24)) di concordare con gli enti territoriali la realizzazione dei quelle attività che la legge non ha considerato come immedia-tamente vincolati. Quello che non è imposto agli enti territoriali è negoziato con essi, secondo lo schema ormai classico dell’adegua-mento al modello nazionale «per adesione».

La CiVIT si pone quindi come l’interlocutore diretto di tutte le amministrazioni pubbliche perché esse rispettino gli obblighi di trasparenza previsti dalla legislazione vigente, soprattutto sul ver-sante della pubblicità sui siti della pubbliche amministrazioni.

Spetta alla Commissione e alla sua Sezione per l’integrità de-fi nire in modo progressivamente sempre più preciso quali infor-mazioni mettere a disposizione dei cittadini ai fi ni della garanzia dell’imparzialità. La nozione ancora generica di «integrità» potrà meglio precisarsi nell’opera di guida nella defi nizione di Program-mi triennali per la trasparenza e l’integrità, nella verifi ca della loro attuazione.

A questo fi ne sono necessari alcuni interventi:

a) la introduzione di adeguate garanzie organizzative a completa-mento della indipendenza soggettiva della Commissione;

b) l’attribuzione alla Commissione di risorse e capacità operative adeguate;

c) un forte coordinamento tra la Commissione e le altre autorità di garanzia della trasparenza (Garante della privacy e Cada), nonché con il Cnipa, ai fi ni del coordinamento dei dati infor-mativi delle pubbliche amministrazioni.

l’effettiva adozione e vigila sul rispetto degli obblighi in materia di trasparenza da parte di ciascuna amministrazione».

(24) «2. Mediante intesa tra la Conferenza delle Regioni e delle Province auto-nome, l’Anci, l’Upi e la Commissione sono defi niti i protocolli di collaborazione per la realizzazione delle attività di cui ai commi 5, 6 e 8». Ricordiamo di che si tratta: il comma 5 si occupa del coordinamento degli organismi indipendenti di valutazione. Non entra nel meccanismo della loro nomina, ma sulla base del-l’intesa, li può coordinare; il comma 6 fi ssa i compiti della Commissione, che riguardano evidentemente tutti gli adempimenti della legge; il co. 8 prevede la «Sezione per l’integrità», che ha tra i propri compiti quello della predisposizione delle linee guida per i Piani triennali.

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Parte IV

I SETTORI «CALDI»

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Paolo Urbani

L’URBANISTICA

1. Lo stato dell’arteLe recenti e numerose vicende giudiziarie che hanno coinvolto

gli amministratori locali in merito ad operazioni di riconversione o trasformazione urbana, nelle quali – a giudizio del giudice pe-nale – si ravvisano fenomeni di concussione, corruzione o abuso d’uffi cio e comunque l’emergere di confl itti tra interessi pubblici ed interessi privati, richiedono di approfondire ed indagare sul-l’ordinarsi dell’azione della pubblica amministrazione attraverso moduli consensuali nella pianifi cazione urbanistica.

Da almeno un quindicennio l’ordinamento urbanistico – che trova fondamento nell’attribuzione ai poteri pubblici della pote-stà di conformazione dei suoli attraverso lo strumento del piano urbanistico – va subendo una lenta ma costante modifi ca dei modi di formazione delle scelte e delle tecniche di pianifi cazione.

Le ragioni di queste trasformazioni vanno ricercate sia nella legislazione statale sia in quella regionale recenti, nelle quali in luogo dell’imperatività delle scelte urbanistiche va sostituendo-si – attraverso accordi – la ricerca del consenso con gli interessi privati sin dalla fase della determinazione degli assetti urbanistici o successivamente in quella della concreta operatività delle pre-scrizioni di piano.

Le convenzioni urbanistiche (1) – che costituiscono l’archeti-po dell’accordo pubblico/privato nella pianifi cazione urbanisti-ca – sono, in verità, fenomeno consolidato da più di un secolo e vedono un rapporto assai trasparente tra P.A. e privati lì dove le prescrizioni del PRG, rinviando al piano di dettaglio, già indicano le volumetrie ammesse, la destinazione d’uso delle aree mentre la convenzione regola gli oneri tra le parti.

(1) Che M.S. Giannini defi niva «centauriesse» poiché fi n dagli Anni ’30 fi gu-re giuridiche anomale («Prefazione» a V. Mazzarelli, Le convenzioni urbanistiche, Bologna, il Mulino, 1979).

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Ma il problema non è quello degli accordi a valle delle pre-scrizioni urbanistiche ma quello ben più complesso degli accordi a monte delle prescrizioni o, come si potrebbe dire, della code-terminanzione pubblico-privato delle prescrizioni urbanistiche. Problema che, ricadendo sulla potestà pianifi catoria dei Comuni, sembrerebbe mettere in discussione non solo l’imperatività delle scelte urbanistiche nonché la potestà discrezionale della pubblica amministrazione, ma di incidere anche sul principio di legalità.

Nei confronti di questa consolidata posizione espressa da più parti, sembra potersi affermare, tuttavia, che il problema va pro-spettato ormai da una angolatura diversa che vede, in una società complessa, l’azione dei poteri pubblici, specie nella pianifi cazio-ne degli assetti territoriali, retta ove possibile, dal principio di consensualità come legittimazione del potere (2), lì dove l’ammi-nistrazione abbandona l’autoritatività a favore della ricerca del consenso, tesa al miglior assetto degl’interessi in campo.

Non solo con i privati, ma anche tra pubblici poteri: basti pen-sare all’art. 15 della l. 241/90 ed all’uso di quest’istituto nell’am-bito delle politiche pubbliche di sviluppo dei territori locali. Gli accordi quadro, le intese di programma previsti dalle politiche di programmazione tra Stato, Regioni ed enti locali sia per l’attua-zione di interventi infrastrutturali sia per l’implementazione dei programmi comunitari, convergono tutti verso forme di ammini-strazione consensuale tra poteri pubblici a fi ni di risultato.

E guardando alla legislazione urbanistica ormai si prevedono varie tipologie di accordi che qui cito solo per memoria:

– accordi perequativi;– accordi compensativi;– accordi premiali o di scambio;– accordi ad evidenza pubblica.

Si tratta, qui, di accordi tra pubblico e privato previsti nei casi di disciplina perequativa del PRG, o dalla legislazione statale (art. 16, l. 179/92 per il programma integrato d’intervento che

(2) F. Pugliese, «Risorse fi nanziarie, contestualità ed accordi nella pianifi ca-zione urbanistica», 69, in F. Pugliese, E. Ferrari (a cura di), Presente e futuro della pianifi cazione urbanistica, AIDU, Milano, Giuffrè, 1999.

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attiene agli accordi premiali o di scambio), di accordi sostitutivi di provvedimento riferibili al caso della compensazione urbani-stica indotti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 179/99, o quelli previsti dalla legislazione regionale nel caso di forme di concorrenzialità disciplinate dall’amministrazione locale – anche direttamente nei piani regolatori – tra più operatori privati per la soluzione migliore e più vantaggiosa da individuare per l’asset-to di specifi che aree e la composizione degli interessi pubblici e privati. (Emilia Romagna, l. reg. n. 19/1998, Norme in materia di riqualifi cazione urbana) (3). Il problema quindi esiste e va affron-tato adeguatamente.

2. Le ragioni del ricorso alla consensualitàÈ, allora, utile indicare alcuni punti essenziali che hanno por-

tato a questo nuovo modo di esercizio del potere con riferimento proprio alla pianifi cazione urbanistica.

In primo luogo «la riconversione urbana»: ovvero si ripensano parti di città esistenti per cambiarne destinazione e riqualifi carne i servizi.

Il mercato preme per questi interventi e la legislazione li am-mette per la prima volta (l. 179/92).

I progetti di riqualifi cazione non possono essere proposti che dai privati poiché la trasformazione delle aree di loro proprietà dev’essere per questi economicamente conveniente, altrimenti c’è inerzia, mentre i relativi piani attuativi hanno natura negoziale.

La riqualifi cazione richiede adeguamento di standards di qua-lità e di servizi che l’amministrazione non può soddisfare diretta-mente e così si affi da al privato per coprirne i costi.

Qui si pone il tema delle risorse fi nanziarie come limite all’azio-ne amministrativa e, nello stesso tempo, come giustifi cazione di scelte legislative che propendono a favore proprio della codeter-minazione degli assetti urbani.

(3) Sia consentito rinviare a P. Urbani, Territorio e poteri emergenti, Le poli-tiche di sviluppo tra urbanistica e mercato, Torino, Giappichelli, 2007; P. Urbani, «Dell’urbanistica consensuale», in Rivista Giuridica di Urbanistica, 2005, 221; P. Urbani, «Pianifi care per accordi», in Rivista Giuridica di Edilizia, 4/2005, 177.

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A tale proposito, la Corte costituzionale (sent. 283 del 1993) chiamata a giudicare della costituzionalità dell’indennizzo espro-priativo, aveva a suo tempo affermato che la grave congiuntura economica può conferire un diverso peso al bilanciamento degli interessi confl iggenti e che questa giustifi cava la disciplina legislati-va dell’articolo 5-bis del d.l. 333/1992 (ora dichiarata incostituzio-nale dalla Corte costituzionale nella sent. 348/07) che permetteva una liquidazione indennitaria pari alla metà del valore dei suoli.

Nel caso dell’urbanistica consensuale il limite delle risorse fi nan-ziarie opera nello stesso senso, anche se a rovescio, poiché per otte-nere una adeguata urbanizzazione dell’area ed una qualità dei luo-ghi di vita e di lavoro, l’amministrazione tende a ripagare l’azione dei privati attraverso la concessione di diritti edifi catori premiali.

Il tema riguarda quei programmi di riqualifi cazione urbana che sono in deroga al piano regolatore, e che sembrano ormai la pras-si, attraverso i quali i Comuni rinnovano solo parti di città senza rinnovare l’intero piano.

Negli schemi di accordo risulta evidente la proposta d’iniziati-va privata, la necessaria individuazione dell’interesse pubblico da parte del Comune, il contenuto costituito dallo scambio tra volu-mi edifi catori ed opere pubbliche a favore dell’amministrazione.

Da una parte il potere pubblico cerca di migliorare la qualità degli assetti urbani; dall’altra la crisi fi nanziaria dei Comuni giu-stifi ca l’accordo con il privato, per il quale vi è ormai un deciso favor del legislatore, che appunto parla di promozione di tali pro-grammi da parte dei Comuni.

Ma poiché anche l’accordo deve essere giustifi cato in rapporto al raggiungimento di fi nalità di pubblico interesse, come si può misurare l’interesse pubblico?

L’esperienza in atto ci dimostra che tutte le trasformazioni sono in contrasto con i piani vigenti, necessitando quindi la variazione urbanistica del piano e, per tali motivi, alcuni Comuni hanno adot-tato «fuori» dai piani delibere che tendono a fi ssare astrattamente i parametri dello scambio, qualora dovesse presentarsi la proposta privata, stabilendo ad es. quale percentuale in opere e volumi deb-bano andare a favore dei privati o a favore del pubblico.

Credo che queste esperienze stiano mostrando gravi limiti sia perché condizionano la discrezionalità del potere pubblico nel-

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l’individuazione dell’interesse pubblico in concreto, sia perché si prestano ad essere «regole» sul metodo che tendono però a porsi a monte delle scelte pianifi catorie contraddicendo il principio che la pubblica amministrazione esercita discrezionalmente i poteri di conformazione dei suoli nel piano.

In breve, quando l’amministrazione ritiene ammissibile una proposta di riconversione urbana presentata da promotori privati deve valutarla nel suo insieme, tenere ben presente l’individua-zione dell’interesse pubblico in concreto che giustifi chi la ripiani-fi cazione dell’area interessata.

Peraltro, a fronte di vari tentativi delle amministrazioni di pre-determinare in astratto i termini dello scambio attraverso delibere consiliari – ovvero in breve, tanti diritti edifi catori, tante opere pubbliche – questo orientamento ha incontrato recentemente qualche giudizio negativo da parte della giurisprudenza ammini-strativa lì dove si è affermato, ad es., che

non è sulla base di un rapporto meramente quantitativo che può valutarsi la rispondenza o meno all’interesse pubblico nella scelta di ricorrere al programma integrato d’intervento dovendo piutto-sto considerarsi se gli interventi di nuova edifi cazione (maggioritari o minoritari che siano) siano funzionali agli obiettivi di carattere pubblico (Cons. di Stato, Sez. IV, 2985/2008).

La predeterminazione in astratto dei benefi ci e degli oneri – calcolata in termini economici a carico del privato o a vantag-gio dell’amministrazione – previsti nelle deliberazioni consiliari, a prescindere dai luoghi del territorio comunale nei quali possono presentarsi richieste di trasformazione urbana, rovescia il princi-pio della pianifi cazione poiché il contenuto del progetto urbano è determinato dall’equilibrio economico fi nanziario dell’intervento e non dalle concrete esigenze di quel territorio.

3. Le innovazioni della legge fi nanziaria per il 2008 e la legge n. 133/2008Ma la disamina delle tematiche urbanistiche nelle quali al cen-

tro si pone lo scambio tramite accordi pubblico/privato non fi ni-sce qui poiché la legge fi nanziaria per il 2008 (l. 244/007) – art. 2, cc. 258-259 – contiene alcune disposizioni il cui obiettivo è quello

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di rispondere alle esigenze delle amministrazioni comunali per garantire migliori dotazioni territoriali. È previsto, in primo luo-go, che, nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici e quindi non in deroga al piano urbanistico – in aggiunta alle aree necessarie per garantire gli standards urbanistici di cui al d.m. 1444/1968, siano defi niti ambiti (non più zone), la cui trasforma-zione è subordinata alla cessione gratuita, da parte dei proprietari singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare al-l’edilizia residenziale sociale (cosiddetto standard di servizio) in rapporto al fabbisogno locale ed in relazione all’entità edifi catoria della trasformazione. In tali ambiti è possibile prevedere anche l’eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato.

Se si può fare una critica, a tale pur lodevole disposizione, è quella di non aver individuato, come per gli altri standards urba-nistici (verde pubblico attrezzato, parcheggi etc.) una misura mi-nima dello standards di edilizia sociale, prevedendone l’esistenza ma lasciando alla contrattazione pubblico-privato la sua quantifi -cazione nei diversi ambiti. Sul punto va segnalata la l. reg. Puglia n. 12 del 2008 che per prima ha disciplinato la materia nell’am-bito dei piani urbanistici comunali provando a fi ssare un tetto massimo rispetto al contenuto dello scambio edifi catorio.

Negli stessi ambiti, inoltre, sempre secondo l’art. 2, co. 259, della legge fi nanziaria, è possibile localizzare interventi di «rinno-vo urbanistico ed edilizio, di riqualifi cazione e miglioramento del-la qualità ambientale degli insediamenti» ad iniziativa dei privati (in buona sostanza qualunque ipotesi pianifi catoria) prevedendo, in cambio, una premialità volumetrica che, tuttavia, non può su-perare i limiti dell’incremento massimi della capacità edifi catoria prevista per gli ambiti stessi. Si tratta di una disposizione che non innova rispetto all’originario contenuto del Programma integra-to d’intervento di cui all’art. 16 della l. 179 del 1992 d’iniziativa privata che, se accolto dall’amministrazione, può essere oggetto di variante al piano regolatore generale. Qui la novità sta nel fat-to che tali interventi plurimi – oggetto di proposte urbanistiche – sono riportati all’interno del piano regolatore che potrebbe fi s-sare già direttamente le condizioni generali (non però le prescri-zioni effettive) di trasformabilità degli ambiti e gli elementi dello scambio pubblico privato, evitando così il contrasto con il piano.

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A queste disposizioni vanno ad aggiungersi quelle relative al cosiddetto «piano-casa» di cui alla l. 133/2008, artt. 11 e 13, ove anche qui sono previsti interventi edilizi, i cui contenuti si basano per lo più su accordi pubblico-privato anche complessi poiché ammettono premialità agli operatori in rapporto alla realizzazione di housing sociale (la vecchia edilizia economica e popolare), di servizi, spazi pubblici etc.

Attraverso l’urbanistica per «accordi» la legislazione mira così ad introdurre moduli convenzionali pubblico-privato, il cui contenuto è fi nalizzato a soddisfare la carenza di servizi e di opere di urbaniz-zazione nelle aree urbane. In particolare, a risolvere (ma non solo) la questione delle abitazioni per le fasce di popolazione a basso reddi-to, tornata ad assumere carattere emergenziale dopo l’esaurimento dei fi nanziamenti per l’edilizia pubblica a seguito dell’eliminazione dei fondi Gescal (legge fi nanziaria 549/1995 e 448/2001) ed il decli-no dei piani di edilizia economica e popolare (4).

4. La maladministrationI fenomeni criminali richiamati all’inizio sono sempre esistiti

specie nel sub-settore dell’edilizia ma hanno assunto oggi un peso maggiormente rilevante nell’urbanistica con riguardo ai casi sem-pre più frequenti di ripianifi cazioni parziali del territorio comu-nale attraverso programmi o piani di riconversione urbana.

Alla base di questi ultimi vi è il favor del legislatore per la pre-sa in considerazione da parte della pubblica amministrazione di proposte di riassetto di aree urbane dismesse, obsolete o da ri-qualifi care sulle quali la stessa amministrazione, in funzione della soddisfazione dell’interesse pubblico, si accorda con i privati per determinare il miglior assetto delle aree in questione e procedere, quindi, alla modifi ca dello strumento urbanistico.

Il nucleo centrale del procedimento è costituito, di norma, da forme di accordi procedimentali ex art 11 l. 241/90 prodromici alla delibera del consiglio comunale di variazione del piano nei quali – come è evidente fi n dalla prima espressa norma legislativa

(4) Sia consentito sul punto rinviare a P. Urbani, «Le politiche abitative per le fasce più deboli. Le nuove modalità per assicurare il servizio pubblico casa», in Rivista Giuridica di Urbanistica, 2006, 389.

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in tal senso, art. 16 della l. 179/92 – l’attribuzione di diritti edifi -catori o la modifi ca di destinazione d’uso dei volumi esistenti si correla all’interesse pubblico costituito dalla realizzazione di beni pubblici o servizi, extra oneri di urbanizzazione, cui si obbligano i privati a favore della P.A. in cambio dell’urbanizzazione dell’area interessata.

In tal modo lo scambio entra a pieno titolo nel procedimento urbanistico ed il contratto «sostituisce» o determina il contenuto del provvedimento. Sia consentito rilevare, inoltre, che dopo la modifi ca della l. 241/90 che non limita ai soli casi previsti dalla legge la possibilità di ricorrere all’accordo sostitutivo di provve-dimento, è presumibile che questi ultimi prevalgano sugli accordi procedimentali.

Già si è detto che la crisi fi nanziaria dei Comuni diviene il pre-supposto della legittimazione dell’agire della pubblica ammini-strazione nell’urbanistica tramite accordi poiché in tal modo si ottengono opere di urbanizzazione e servizi senza oneri per la collettività. È evidente che in questi casi aumenta la possibilità di fattispecie penalmente rilevanti ovvero di reati di corruzione o di concussione da parte non solo dei dirigenti ma soprattutto degli organi politici dei Comuni. Fenomeni, diversi da quelli assai noti in edilizia, di corruzione per un atto d’uffi cio (rilascio di un permesso di costruire) o di concussione (ad es. mancato accerta-mento in caso di opera abusiva).

Le ragioni di questo emergere di fattispecie criminose deriva soprattutto dalla mancanza di trasparenza e di pubblicità pre-ventiva degli accordi e specialmente – come già rilevato – dalla diffi coltà di misurare l’interesse pubblico in rapporto ai benefi ci concessi ai privati, di talché scambi ineguali celano sempre la pos-sibilità che l’agente pubblico ricavi un vantaggio illecito in ragio-ne del contenuto dell’accordo.

Per meglio argomentare, va sottolineato che, fi nora, le proposte urbanistiche sono sempre in contrasto con il piano ed il riassetto non incontra limiti normativi ma è esposto all’equilibrio econo-mico e fi nanziario dell’intervento ammesso bilanciato da opere urbanizzative extra oneri.

È evidente che la già ampia discrezionalità del Comune nella conformazione dei suoli prevista dall’ordinamento, cui si ricon-

431

nette la determinazione del quid e del quomodo del provvedimen-to, lascia ulteriore spazio a trattative sotterranee tra operatore privato ed amministratori pubblici.

5. Modeste proposte per prevenireQuali possono essere i suggerimenti per contenere il fenomeno

e riportare nella legalità l’agire delle amministrazioni locali?In primo luogo va comunque chiarito che dev’essere comple-

tamente superato il «pregiudizio» nei confronti del ricorso agli accordi procedimentali o sostitutivi di provvedimento poiché – come si è visto – la legislazione urbanistica considera pienamente legittimi tali accordi ed anzi ne prevede l’uso necessario nei casi richiamati proprio al fi ne della determinazione delle prescrizioni. In altre parole, senza l’apporto dei privati non è possibile per la P.A. determinare il contenuto della prescrizione poiché si lega ad un «fare del privato» che non può essere defi nito in astratto o inaudita altera parte.

Questo signifi ca che tale pregiudizio dev’essere superato an-che da parte del giudice penale. Gli accordi sono una modalità di esercizio del potere amministrativo, altro è entrare nel merito del contenuto degli accordi ed accertare che vi siano fatti penalmente rilevanti.

Detto questo, si possono solo abbozzare alcune indicazioni di metodo.

5.1. La partecipazione alla determinazione degli accordi urbanisticiIn primo luogo le amministrazioni dovrebbero sottoporre le

proposte oggetto di accordi pubblico/privato a forme di parte-cipazione anche attraverso udienze pubbliche poiché non è suf-fi ciente il «giusto procedimento» previsto dopo l’adozione della variante urbanistica ove chiunque abbia interesse può presentare le proprie osservazioni. Questo permette di sottoporre a valuta-zione i termini dello scambio ovvero quali opere di urbanizza-zione secondaria rispondano alle specifi che esigenze della città o dell’area interessata, quali oneri (in termini di volumi edifi catori e di mix delle funzioni ammesse) l’amministrazione s’impegna a concedere ai privati. La partecipazione può essere foriera di pro-poste alternative rispetto al contenuto dell’accordo. Nel caso che

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ci riguarda la partecipazione, ai fi ni della valutazione della con-gruità della proposta, deve essere assicurata prima che la forma-zione della volontà dell’amministrazione sia defi nitiva.

Parte della dottrina e della giurisprudenza (5) hanno posto il problema – ai sensi dell’articolo 13 della l. 241/90 – della inap-plicabilità delle disposizioni del capo III «partecipazione al pro-cedimento»

all’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianifi cazione e pro-grammazione per le quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione.

Tuttavia, altra dottrina (6) ha ampiamente dimostrato che la disposizione non costituisce un divieto alla stipula degli accordi nella pianifi cazione urbanistica e non impedisce quindi alle pub-bliche amministrazioni di prevedere forme di partecipazione – del tipo di quelle previste per i procedimenti individuali – anche per quelli prima richiamati. Peraltro, come è noto, gli accordi nella materia urbanistica sono in rapidissima espansione e solo chi non si occupa del settore può continuare a dire che l’istituto è nel di-ritto amministrativo (e nel diritto urbanistico) ancora residuale.

5.2. Disciplinare il procedimento per la formazione delle proposte di riconversione urbana

In secondo luogo sarebbe opportuno adottare «regolamenti» sugli accordi che ne fi ssino il procedimento (non il contenuto «astratto» dello scambio) oltre quanto previsto dall’articolo 11, 1-bis e 4-bis della l. n. 241/90 disciplinando la presentazione delle proposte, la loro documentazione (progetto preliminare, o plano-

(5) Cass., Sez. Un., 11 agosto 1997, n. 7452, rep. 1998, in Foro Italiano, voce «Edilizia e urbanistica», n. 298; Id., 25 novembre 1998, n. 11934, in Foro Ita-liano; rep. 1998, voce «Edilizia e urbanistica», n. 297. Contra, Tar Lonbardia 9 maggio 1997, n. 573, in Trib. Amm. reg., 1997, I, 2380.

(6) A. Travi, «Accordi tra proprietari e comune per modifi che al piano re-golatore ed oneri esorbitanti», in Foro Italiano, V, 2002, 274 s.; S. Civitarese, «Sul fondamento giuridico degli accordi in materia di fi ssazione delle prescri-zioni urbanistiche», in F. Pugliese, A. Ferrari (a cura di), Presente e futuro nella pianifi cazione urbanistica, cit., 163. P. Urbani, Urbanistica consensuale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

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volumetrico, elencazione di opere, servizi, volumetrie richieste, mu-tamento della destinazione d’uso, compatibilità dell’intervento con vincoli eteronomi, procedimento di VAS etc.). Questo, ad esempio, per poter meglio individuare i semplici casi di abuso d’uffi cio.

5.3. Dallo straordinario all’ordinario. Rimettere al centro il piano urbanistico

In terzo luogo è necessario riportare il regime degli accordi urbanistici nell’ordinario e non nello straordinario (7).

Occorre cioè tornare a ragionare di scambi edifi catori nelle scelte di piano e non in deroga al piano.

Nell’ordinamento italiano il provvedimento di piano è espres-sione dell’attività autoritativa della pubblica amministrazione, soggetta a forme di partecipazione pubblica in funzione mera-mente collaborativa, e la determinazione degli assetti spetta alla decisione unilaterale dell’amministrazione caratterizzata da impe-ratività. L’attività di piano è attività di apposizione di prescrizioni che conformano la proprietà o il territorio.

Le esigenze del mercato richiedono soluzioni urbanistiche fl es-sibili e rapide ma queste contrastano non solo con lo zoning che costituisce la più antica tecnica di razionalità del piano ma anche con l’imperatività dello stesso piano urbanistico che nel determi-nare la destinazione d’uso dei suoli pretende di interpretare gli sviluppi futuri dell’economia locale.

Oggi il piano non può essere più «regolatore» nel senso rigido del termine ma deve aprirsi alla codeterminazione degli assetti con gli interessi privati acquisendo quella fl essibilità che permette le migliori soluzioni urbanistiche nel momento in cui queste con-cretamente si manifestano.

(7) P. Urbani «La riconversione urbana: dallo straordinario all’ordinario», in E. Ferrari (a cura di), L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato, Milano, Giuffrè, 2000. Ma questa affermazione può essere velleitaria poiché – a meno che non vi sia un vincolo di legge cosa che non è – l’amministrazione comunale può sempre nell’ambito della propria discrezionalità e misurando la proposta con l’interesse pubblico, decidere di variare lo strumento urbanistico in funzione della soddisfazione di interessi generali per la collettività. In defi nitiva, le indica-zioni che seguono hanno la fi nalità di tracciare una diversa strada virtuosa che le amministrazioni locali possono percorrere nell’esercizio dei poteri amministrati-vi più legati al consenso che all’imperatività dell’azione amministrativa.

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Ma è proprio il contenuto di quella concertazione pubblico/privato che deve essere fi ssata preventivamente dal piano urba-nistico, altrimenti il piano è sostituito dal contratto. Ma laddove è necessario un ordinamento a tutela dell’interesse generale le nor-me non possono essere sostituite dal contratto. Ciò è contrario al principio di legalità ed al fi ne della cura degli interessi pubblici perseguito dai pubblici poteri (8).

Si pone cioè sempre il problema di come poter misurare l’in-teresse pubblico in concreto in rapporto allo «scambio» con gli interessi privati. In altri Paesi europei – ad es. la Germania – la le-gislazione (9) già da tempo ha affi ancato alla disciplina generale de-gli accordi nella legge generale sul procedimento amministrativo, una regolamentazione dei «contratti urbanistici» rientranti nella categoria dei contratti di diritto pubblico ove sono attentamen-te disciplinate le fattispecie nelle quali amministrazione e privati concordano le scelte di trasformazione ai fi ni di una loro integrale urbanizzazione anche dal punto di vista della tutela ambientale. I cardini di questi scambi sono individuati dal legislatore tedesco nel nesso di casualità, nel rispetto del principio di proporzionalità, nel divieto di arricchimento, nella tutela del contraente più debole (che potrebbe essere, a seconda dei casi urbanistici, a volte il pri-vato, ma anche il Comune), nella necessaria forma scritta. Si tratta come è evidente, di criteri e parametri generali tesi ad evitare il «commercio delle potestà amministrative» da un lato ma, dall’al-tro, ad offrire sia al giudice amministrativo, ma anche al giudice penale elementi di riferimento certi per verifi care in concreto la legittimità e la liceità del contenuto degli accordi in discorso.

Lo scarno contenuto dell’articolo 11 della l. 241/90 e l’equivo-cità dell’articolo 13 non giovano alla disciplina dell’urbanistica consensuale e sarebbe auspicabile invece che se ne prevedesse una regolamentazione autonoma. Ad esempio, nella legge di prin-cipi in materia di governo del territorio, al di là della loro ammis-

(8) G. Rossi, Il gioco delle regole, Milano, Adelphi, 2006, 23.(9) Codice urbanistico federale (BauGB) (1987) più volte modifi cato nel

1997, 2001 e 2004 che al § 11 introduce la categoria dei «contratti urbanistici». Sul punto, più diffusamente, E. Buoso, «Gli accordi tra amministrazione comu-nale e privati nel diritto urbanistico tedesco: i contratti urbanistici», in Rivista Giuridica di Urbanistica, n. 3/2008, 356 s.

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sibilità come previsto nei testi di legge presenti nuovamente in Parlamento, se ne potrebbe individuare non solo il loro ancorag-gio ai principi indicati dal caso tedesco (cui andrebbero aggiunti per il caso italiano il principio di partecipazione e quello della concorsualità), ma anche le fattispecie ammissibili sia per fi ssar-ne i limiti, sia per legittimarne defi nitivamente il ricorso da parte delle amministrazioni locali.

6. Due soluzioni concreteIn attesa di una espressa disciplina, le soluzioni prospettate

possono essere diverse e tutte legate alla primaria soddisfazione dell’interesse generale senza compromettere l’interesse dei priva-ti e lo sviluppo economico della città. Soluzioni che presuppon-gono che, per determinate aree, il piano preveda la possibilità di ricorrere ad accordi pubblico/privato fi ssando le condizioni della trasformazione però già nel piano attraverso un’analisi della rendita edilizia ovvero del plusvalore generato dal mix delle tra-sformazioni ammesse e della posizione strategica delle aree. Sulla base di questi dati preventivi il piano può prevedere lo scambio tra opere private e opere pubbliche per la città.

La prima soluzione consiste nel prevedere nelle aree interes-sate un plafond minimo di trasformazioni, cui può aggiungersi una premialità volumetrica nel caso d’impegno dei privati alla realizzazione di opere di mecenatismo (10) richieste dal Comu-ne e già individuate ad es. nel programma triennale delle opere pubbliche. La centralità dell’area e l’incremento di valore che i beni costruiti possono assumere nel tempo spingerà certamente gli operatori privati ad accettare le ipotesi di scambio proposte dal piano. Il punto centrale – quello cioè di parametrare la volu-metria premiale al costo delle opere pubbliche – è già fi ssata dalle disposizioni del piano. Va osservato qui che in ossequio al codice dei contratti pubblici (art. 32, co. 1, lett. g), e art. 122, co. 8) (11) il ricorso necessario all’evidenza pubblica per tutte le opere di

(10) P. Urbani, Urbanistica consensuale, cit.(11) Sia consentito rinviare a P. Urbani, L. Passeri, Guida al codice dei contratti

pubblici (integrato dal terzo correttivo), Torino, Giappichelli, 2009.

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urbanizzazione potrebbe modifi care in parte i termini economici dell’accordo da sottoscrivere.

La seconda soluzione, più radicale, consiste nel prevedere che le aree – perimetrate dal piano – siano di un rilievo strategico tale da imporre un confronto concorrenziale tra più operatori sul-la base di un progetto urbano preliminare deciso dal Comune al fi ne di determinare il migliore assetto urbanistico dell’area in termini di volumetrie e servizi per la collettività. Le aree possono essere pubbliche o private ed in quest’ultimo caso i proprietari o partecipano alla gara con gli operatori privati o in caso d’inerzia vengono espropriati. È quanto previsto ad es. dalla l. reg. Emilia Romagna 19/1998, mod. dalla l. reg. 6/2009, Norme in materia di riqualifi cazione urbana o dalla l. reg. Marche 16/2005, Disciplina degli interventi di riqualifi cazione urbana e indirizzi per le aree pro-duttive ecologicamente attrezzate (12).

7. ConclusioniIn conclusione, mentre dev’essere completamente superato il

«pregiudizio» nei confronti dell’intervento dei privati a sostegno del miglioramento delle dotazioni territoriali all’interno del piano urbanistico e che quindi il concorso di risorse pubbliche e priva-te ha piena legittimità nella pianifi cazione urbanistica attraverso il ricorso all’amministrare per accordi, è chiaro che deve essere riconosciuto al privato l’obiettivo lato sensu privatistico del pro-fi tto. Le trasformazioni urbane devono uscire dallo straordina-rio e ritornare nell’ordinaria disciplina del piano regolatore nel senso prima richiamato, inserendole in uno scenario strategico della complessiva pianifi cazione dell’intero territorio comunale, restituendo così all’amministrazione comunale un’adeguata pon-derazione degl’interessi pubblici e privati non esposta al rischio di scambi ineguali ma di scambi leali già predeterminati nel piano urbanistico (13). In altre parole introdurre nell’azione amministra-tiva nuove regole, nuove responsabilità.

(12) In http://www.pausania.it.(13) F. Curti (a cura di), Lo scambio leale, negoziazione urbanistica e offerta

privata di spazi e sevizi pubblici, Roma, Offi cina, 2006.

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Maria Alessandra Sandulli e Arturo Cancrini

I CONTRATTI PUBBLICI

1. Il rilievo dato dalla normativa europea e nazionale al reato di corruzione negli appalti pubbliciIl tema che ci viene chiesto di affrontare presenta profi li di

grandissima complessità, che non è evidentemente possibile ana-lizzare nei ridotti margini consentiti a questo contributo.

Ci limiteremo pertanto a tracciare un quadro estremamente sintetico delle principali problematiche che la materia presenta, tentando di ipotizzarne qualche possibile soluzione.

È indubbia l’attenzione che tanto l’Unione europea quanto il legislatore nazionale italiano hanno rivolto al fenomeno della corruzione connesso alla contrattualistica pubblica. Tale sensibi-lizzazione si è concretizzata con una serie di misure normative fi nalizzate ad azzerare il fenomeno criminoso; specialmente in Italia, dopo la c.d. «Tangentopoli», sono state individuate diverse misure restrittive che, soprattutto, ma non soltanto, attraverso la normativa di settore, hanno inteso arginare l’accordo illecito negli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

Concentrando l’analisi sugli anni più recenti, il sistema norma-tivo europeo e nazionale si presenta variegato e così riassumibile.

Innanzitutto, la Direttiva 2004/18/CE, avente ad oggetto il coordinamento delle procedure di affi damento dei contratti pub-blici, all’art. 45 (Situazione personale del candidato o dell’offe-rente), nell’individuare le cause di esclusione dalle gare di appal-to, indica la condanna defi nitiva per il reato di corruzione fra le circostanze in presenza delle quali gli ordinamenti nazionali non possono ammettere la partecipazione; così l’art. 45, § 1, lett. b):

È escluso dalla partecipazione ad un appalto pubblico il candidato o l’offerente condannato, con sentenza defi nitiva di cui l’amministra-zione aggiudicatrice è a conoscenza; per una o più delle ragioni elen-cate qui di seguito: […] b) corruzione, quale defi nita rispettivamente all’articolo 3 dell’atto del Consiglio del 26 maggio 1997 ed all’articolo 3, paragrafo 1, dell’azione comune 98/742/GAI del Consiglio.

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In sede di attuazione della suddetta Direttiva, il legislatore na-zionale delegato, nel d.lgs. n. 163/06 (c.d. codice degli appalti pubblici) (1) ha incluso all’art. 38, co. 1, lett. c), fra i reati che

(1) Fra le opere scritte in materia di contratti pubblici, vedi: A. Angeletti (a cura di), La riforma dei lavori pubblici. Commentario, Torino, Utet, 2000; A. Bar-gone, S. Richter (a cura di), Manuale del diritto dei lavori pubblici: la riforma e i procedimenti di attuazione, Milano, Giuffrè, 2001; S. Cassese (a cura di), Trat-tato di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2003; L. Carbone, F. Caringella, G. De Marzo (a cura di), L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici: il D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554; D.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34 e D.M. 19 aprile 2000, n. 145. Commentario, Milano, Ipsoa, 2000; F. Caringella, G. De Marzo, M. Bella (a cura di), La nuova disciplina dei lavori pubblici: dalla legge quadro alla Merloni-quater, le norme speciali e la nuova potestà regionale, Milano, Ipsoa, 2003; A. Carullo, Lezioni di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam, 2005; A. Carullo, A. Clarizia, La legge quadro in materia di lavori pubblici, Padova, Cedam, 2004; A. Carullo, G. Iudica, et al., Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, Padova, Cedam, 2009; V. Cerulli Irelli (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo. Commento alla l. 21 luglio 2000 n. 205, Torino, Giappichelli, 2000; M.P. Chiti, G. Greco (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, 2 voll., parte generale e parte speciale, Milano, Giuffrè, 2007; A. Cianfl one, G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano, Giuffrè, 2003; R. De Nictolis (a cura di), I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Milano, Giuffrè, 2007, 3 voll.; L. Fiorentino, C. Lacava (a cura di), Le nuove direttive europee sugli appalti pubblici, Milano, Ipsoa, 2004; C. Fran-chini (a cura di), «I Contratti con la Pubblica Amministrazione», in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, Utet, 2007, 2 voll.; C. Franchini, F. Tedeschini (a cura di), Una nuova pubblica amministrazione: aspetti problematici e prospettive di riforma dell’attività contrattuale, (volume in ricordo di M. Pallottino), n. 18 della collana diretta da E. Picozza, R. Lener, Torino, Giappichelli, 2009; F. Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam, 2002; R. Garofoli, M.G. Amo-rizzo, G. Buffone, V. de Gioia, D. Giannuzzi, R. Vaccaro, La tutela in tema di appalti pubblici: il contenzioso alla luce del d.lgs. 163/2006, Napoli, EsseLibri Simone, 2007; R. Garofoli, V. De Gioia, Codice degli appalti di lavori pubblici: annotato con giurisprudenza, determinazioni dell’autorità di vigilanza LL.PP. e riferimenti bibliografi ci, Milano, Giuffrè, 2004; R. Garofoli, G. Ferrari, Codice degli appalti pubblici annotato con la dottrina, giurisprudenza e formule, Roma, Neldiritto editore, 2009; R. Garofoli, M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo dirit-to degli appalti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella Legge comunitaria n. 62/2005, Milano, Giuffrè, 2005; L. Giampaolino, M.A. Sandulli, G. Stancanelli (a cura di), Commento alla legge quadro sui lavori pubblici sino alla «Merloni-ter», Milano, Giuffrè, 1999; L. Giampaolino, M.A. Sandulli, G. Stancanelli (a cura di), Commento al regolamento di attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Milano, Giuffrè, 2001; M.S. Giannini, Diritto amministrativo, 2 tomi, Milano, Giuffrè, 1993; Giurdanella, Commento al Codice dei contratti pubblici, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2008; M. Greco, A. Massari, Il nuovo codice dei contratti pubblici, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2006; Id., Il secondo de-

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certamente comportano la mancanza di requisiti generali del par-tecipante alla gara, anche il reato di corruzione, recependo lette-ralmente l’intero paragrafo 1 del surrichiamato art. 45.

Da tale previsione, in ambito ermeneutico la giurisprudenza ha più volte desunto il carattere vincolante delle predette fattispecie ipotesi di reato ai fi ni dell’esclusione dalle gare d’appalto. In par-ticolare, è stato peraltro affermato che nel caso in cui il bando e il disciplinare di gara non contengano alcuna espressa prescrizione di indicare in modo specifi co le eventuali sentenze di condanna per i reati di partecipazione a un’organizzazione criminale, corru-zione, frode, riciclaggio, con correlata comminatoria di esclusio-ne, ma si limitino ad un generico riferimento alle condizioni di cui all’art. 38, co. 1, lett. da a) a m-quater) (2), del codice, è illegittima

creto correttivo al codice dei contratti pubblici. Commento al d.lgs. 31 luglio 2007, n. 113, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2007; M. Mazzone, C. Loria, Ma-nuale di diritto dei lavori pubblici, Roma, Jandi Sapi, 2005; M. Pallottino (a cura di), Saggi e materiali di diritto pubblico dell’economia, Roma, Kappa, 2005; E. Picozza, Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, Cedam, 1997; D. Rubino, «L’appalto», in F. Vassalli (diretto da), Trattato di diritto civile italiano, Torino, Utet, 1980; G.L. Rota, G. Rusconi (a cura di), Codice dei contratti pub-blici, Torino, Utet, 2007, 2 voll.; F. Saitta (a cura di), Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Padova, Cedam, 2008; M.A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (diretta da), Trattato sui contratti pubblici, Milano, Giuffrè, 2008; M.A. Sandulli (a cura di), L’azione amministrativa: commento alla L. 7 ago-sto 1990, n. 241 modifi cata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, Giuffrè, 2005; M. Sanino, Commento al codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, Torino, Utet, 2006; G. Santaniello (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, vol. VII, S. Buscema, A. Buscema, I contratti della pubblica amministrazione, Padova, Cedam, 2008; F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008; F. Titomanlio (a cura di), Codice dei Contratti pubblici e norme correlate, Roma, IF, 2008; R. Villata (a cura di), L’appalto di opere opubbliche, Padova, Cedam, 2001; P. Virga, Diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2001, voll. 2; G. Zgagliardich, Subappalto e leg-gi antimafi a nei lavori pubblici, Milano, Giuffrè, 1996; A. Cancrini, V. Capuzza, Lezioni di legislazione delle opere pubbliche, Roma, Aracne, 2009; A. Cancrini, P. Piselli, V. Capuzza, La nuova legge degli appalti pubblici. Commentario al codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, 6ª ed., Roma, Igop, 2010.

(2) Cfr. sul tema dell’art. 38 del codice: R. Greco, «Le cause soggettive di esclusione», in R. Garofoli, M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo diritto degli ap-palti pubblici nella direttiva 2004/18/CE e nella Legge Comunitaria n. 62/2005, Milano, Giuffrè, 2005, 575 e ss.; M. Ragazzo, I requisiti di partecipazione alle gare e l’avvalimento, Milano, Giuffrè, 2008, 145 e ss.; V. Capuzza, «Considerazioni di diritto penale in materia di appalti pubblici alla luce del D.Lgs. n. 163/06», in

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l’esclusione dell’impresa che non ha specifi cato l’inesistenza di sentenze di condanna per i predetti reati, in quanto anche tali tipologie di reati sono riconducibili alla previsione generale della stessa norma in tema di reati ostativi della partecipazione ai pub-blici appalti, salva soltanto l’esclusione di qualunque valutazione discrezionale da parte della P.A. (3).

La giurisprudenza amministrativa ha invero affermato che laddove l’art. 38, co. 1, lett. c) dispone che è comunque causa di esclusione la condanna per i reati di partecipazione ad un’or-ganizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, non sta ad indicare tipologie di reati diversi da quelli genericamente indicati nella prima parte della norma (Reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale), quanto piuttosto, nell’ambito di questi, i reati, in ordine ai quali la sta-zione appaltante è priva di qualsiasi potere discrezionale di va-lutazione, nel senso che alle sentenze di condanna per uno o più degli stessi si connette un effetto automatico di preclusione della partecipazione ai pubblici appalti (4).

Da ultimo, va precisato che il Consiglio dell’Ocse il 16 ottobre 2008 ha adottato una Raccomandazione con la quale ha individua-to alcuni principi per la valorizzazione dell’integrità negli appalti pubblici. La Raccomandazione invita i Paesi membri a rafforzare la lotta contro la frode e la corruzione nelle varie fasi dell’appalto, affrontando i rischi che hanno un enorme peso economico. Tra le indicazioni formulate, in particolare: per contrastare la corru-zione le amministrazioni devono necessariamente migliorare la governance mediante l’effettiva trasparenza delle procedure ad evidenza pubblica e attraverso una concreta garanzia della par condicio dei concorrenti alla gara; è raccomandata la supervisio-ne dei progetti da parte degli organismi indipendenti, anche con l’applicazione delle sanzioni; i Governi devono garantire meglio l’informazione sui contratti e prevedere meccanismi di più rapida soluzione delle controversie relative alle gare di appalto; è fi ssato

Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, n. 1/2007; V. Capuzza, «Figure di procedura penale negli appalti pubblici», in Rivista Amministrativa R.I., 3-4, 2007.

(3) T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, 15 giugno 2009, n. 1076.(4) Idem.

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nel 2011 un follow-up per i Paesi membri della Ocse per valutare e confrontare l’applicazione dei principi fi ssati dalla Raccoman-dazione (5).

C’è da precisare che per quanto riguarda i punti due e tre della Raccomandazione Ocse, in attuazione della Direttiva c.d. ricorsi (n. 2007/66/CE), il Legislatore delegato italiano ha emanato il decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, che prevede modifi che nel senso sopra indicato negli artt. 11 e 79 del codice appalti, inse-rendo anche l’art. 243-bis relativo alle informative circa l’intento di proporre ricorso giurisdizionale.

2. La normativa italiana sugli appalti: caratteri della «legge Mer-loni». Automatismo e garanziaCome già accennato, nel 1994 l’emergenza del fenomeno c.d. di

«Tangentopoli» aveva creato la necessità di prevedere nelle gare d’appalto pubblico il meccanismo che attraverso l’automatismo garantisse la minore discrezionalità possibile alle diverse fi gure chiamate a disciplinare le singole gare (Responsabile del procedi-mento, membri delle Commissioni, etc).

In tale ottica, si pensi a quanto era previsto nella legge n. 109/1994: come criterio di aggiudicazione il solo massimo ribas-so offerto dai concorrenti sull’importo fi ssato a base di gara; il divieto di operare varianti in corso d’opera al progetto esecutivo oggetto del contratto d’appalto, tranne che in ristretti casi previsti tassativamente dalla legge stessa; la non ammissione della trat-tativa privata, se non in pochissime ipotesi stringenti e previste dall’art. 24 della l. n. 109/94; l’esclusione automatica delle offerte anormalmente basse.

Si può, dunque, dire che con la «legge Merloni» era stata scel-ta la via del c.d. meccanicismo, al fi ne: di evitare di ricadere nel-la condotte delittuose commesse nell’allora recente passato e di consentire ai funzionari (obiettivamente impauriti nell’agire) di poter operare e provvedere in garanzia.

(5) Vedi per la fonte http://www.itaca.org; vedi anche in http://www.edilpor-tale.com

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3. La sempre maggiore discrezionalità tecnica dell’amministra-zione appaltanteIn generale, l’esercizio del potere amministrativo è caratteriz-

zato dalla cosiddetta discrezionalità che, come è noto, non si so-stanzia nell’autonomia bensì viene ad essere vincolata nel fi ne e nella ragionevolezza dell’agire stesso (6); e in tal senso, ne è con-sentito il sindacato esterno. In tale cornice viene alla luce un pro-blema, quello cioè dei fatti per i quali la scelta dell’amministrazio-ne è esercitata fra più soluzioni, eventualmente anche «tecniche» possibili; tali ipotesi che si caratterizzano per lasciare al soggetto decidente larghi margini di opinabilità, sono state defi nite dalla dottrina come esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, cui si riconnette in parte il sindacato giurisdizionale.

Ed è proprio su tale aspetto che la materia degli appalti, carat-terizzata in nuce dall’interferenza con le materie ingegneristiche e di architettura e comunque da scelte di natura economica e tec-nica, si è aperta nel tempo all’attuazione di scelte discrezionali in ottemperanza a norme, soprattutto speciali di gara, che lasciano quegli ampi margini di opinabilità in capo alla stazione appaltante o alla commissione giudicatrice.

Nello specifi co, superata l’emergenza, sono stati, infatti, man mano reintrodotti dal legislatore (7) nella stessa «legge Merloni» quegli istituti che erano stati di fatto sospesi, facendosi strada una nuova stagione caratterizzata sempre più dalle scelte discrezionali dell’amministrazione appaltante.

In tale direzione rilevano: la reintroduzione del criterio di ag-giudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa (8); la

(6) V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, 2ª ed., Torino, Giappichelli, 2010, 286.

(7) Si pensi soprattutto alle normative di fonte primaria che, per i lavori pub-blici, nel tempo si sono succedute: l. 2 giugno 1995, n. 216 (c.d. Merloni-bis); l. 18 novembre 1998, n. 415 (c.d. Merloni-ter); l. 1° agosto 2002, n. 166 (c.d. Merloni-quater); il d.lgs. n. 163/06 (c.d. codice dei contratti pubblici), nato su impulso delle Direttive U.E. n. 17 e 18/2004 (cfr. art. 25 della l. n. 62/2005 – Co-munitaria 2004).

(8) L’art. 81 del codice degli appalti è norma descrittiva dei due criteri di scelta dell’offerta migliore: il criterio del prezzo più basso (art. 82) ed il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (art. 83); la norma apre le disposi-zioni sulla procedura di aggiudicazione, così come nel dettaglio hanno operato i

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previsione della valutazione dell’offerta anomala (9); l’introdu-zione generalizzata delle ordinanze della protezione civile che consentono di operare in deroga; il ritorno e l’ampliamento delle

successivi articoli. L’amministrazione può scegliere senza più i vincoli normativi preesistenti (previsti nella passata disciplina per l’offerta economicamente più vantaggiosa) quale dei due criteri adottare nella singola gara. La disposizione è valida per ogni tipologia di appalto pubblico.

In relazione all’offerta economicamente più vantaggiosa va precisato che nel sistema previgente, una delle innovazioni della Legge Merloni-quater è stata quel-la di aver introdotto (sebbene con particolari limitazioni) il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa anche per gli appalti sotto soglia comunitaria. Prima della l. n. 166/2002 l’utilizzo di tale criterio d’aggiudicazione era ammesso solo per le concessioni e per l’appalto-concorso, cioè per quelle procedure in cui risulta indispensabile l’apporto progettuale dei concorrenti, quale che fosse l’importo dei lavori.

Con la Merloni-ter e la Merloni-quater il quadro era stato ulteriormente modi-fi cato ed ampliato; in particolare, la l. n. 415/98 aveva reso non tassativo l’elenco degli elementi di valutazione, mentre la l. n. 166/02 aveva ampliato la possibilità di utilizzo del criterio in oggetto. In particolare, ai sensi dell’attuale art. 21 della Legge Quadro, comma 1-ter, aveva consentito l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa anche per il pubblico incanto e per la licitazio-ne privata, al ricorrere però dei seguenti presupposti: a) che si trattasse di appalti di importo superiore alla soglia comunitaria; b) che si trattasse di appalti in cui, per la prevalenza della componente tecnologica o per la particolare rilevanza tec-nica delle possibili soluzioni progettuali, si ritenesse che la progettazione avrebbe potuto essere utilmente migliorata con integrazioni tecniche proposte dall’appal-tatore (cfr. V. Capuzza, «Profi li giuridici su: la Commissione giudicatrice nell’ap-palto-concorso; il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Appli-cabilità all’asta pubblica ed alla licitazione privata alla luce della Sentenza della corte di giustizia CE C-247/02», Quaderni I.G.O.P., n. 02, Roma 2005). Per le procedure di scelta mediante pubblico incanto o licitazione privata aventi i sud-detti connotati, tale criterio di aggiudicazione rimaneva facoltativo in luogo di quello del prezzo più basso. Sull’illegittimità di tali limitazioni per adottare il cri-terio dell’offerta economicamente più vantaggiosa aveva interloquito la sentenza della Corte di Giustizia della CE del 2004, C-247/02. Dopo l’emanazione della direttiva 2004/18/CE, il legislatore nazionale con la legge 18 aprile 2005, n. 62 all’art. 25 ha obbligato espressamente il Governo al rispetto dei principi e criteri direttivi esistenti ed in particolare alla compilazione di un unico testo normativo e soprattutto (art. 25, co. 1, lett. d) all’adeguamento della normativa proprio alla sentenza della Corte di Giustizia della CE datata 7/10/2004 C-247/02.

(9) Dopo l’intervento del d.lgs. n. 152/2008 (c.d. III Decreto Correttivo del codice appalti), la disciplina attuale (art. 122, co. 9) stabilisce che per lavori d’im-porto inferiore o pari a 1 milione di euro quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, la stazione appaltante può prevedere nel bando l’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia.

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ipotesi della trattativa privata (10); la fi gura del contraente gene-rale nella «legge obiettivo» (11); l’utilizzo dell’appalto concorso e dell’appalto integrato, che nella «legge Merloni» erano stati di fatto quasi completamente eliminati (12).

Si tratta in altri termini di elementi che depongono per una sostituzione dell’automatismo con regole sempre più fortemente discrezionali.

A ciò deve anche aggiungersi che la gran parte delle Ammi-nistrazioni opera in concreto ex art. 125 del codice appalti con contratti in economia (non di rado determinando condotte illecite mediante i frazionamenti illegittimi degli importi), che per loro natura si contraddistinguono per il fatto di non prevedere una gara formale. Da ciò emerge che gran parte dei contratti stipulati nel nostro Paese sembra estranea alle regole dell’evidenza pubbli-ca con tutte le conseguenze che se ne possono trarre in ordine alla legittimità e alla liceità dei procedimenti esperiti.

Importante è precisare che la giurisprudenza amministrativa ha più volte riconosciuto che nelle procedure indette per l’aggiu-dicazione di appalti pubblici in capo all’Amministrazione residua sempre, a prescindere da una regola esterna dettata da disposizio-ni di legge, di regolamento o rinvenibile nella disciplina speciale di gara, un margine di discrezionalità tecnica che, nel prudente apprezzamento della stazione appaltante, può investire le com-ponenti dell’offerta nella loro serietà e congruità, in relazione al-

(10) Attualmente vigente sono l’art. 57 e l’art. 122 co. 7 del d.lgs. n. 163/06, che recependo le Direttive Comunitarie ha ampliato le ipotesi in cui è legittimo il ricorso dalla procedura negoziata. Da ultimo, con l’art 1, co. 10-quinquies della l. n. 201 del 2008, il Legislatore ha inserito nell’art. 122 del Codice (che disciplina il sotto-soglia comunitario) il comma 7-bis in cui è previsto che i lavori di importo complessivo pari o superiore a 100.000 euro e inferiore a 500.000 euro possono essere affi dati dalle stazioni appaltanti, a cura del responsabile del procedimento, nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparen-za, e secondo la procedura prevista dall’articolo 57, co. 6; l’invito deve essere rivolto ad almeno cinque soggetti, se sussistono aspiranti idonei in tale numero.

(11) La normativa che era contenuta nel d.lgs. n. 190/2002 è oggi contenuta, con modifi che, nel codice appalti, dall’art. 161.

(12) L’appalto integrato previsto dal codice degli appalti è privo delle limita-zioni previste nell’art. 19 della l. n. 109/94 e s.m.i., ma l’articolo che disciplina tale procedura nel Codice (art. 53, co. 2 lett. b) è stato sospeso nella sua vigenza, per i settori ordinari, fi no dell’entrata in vigore del nuovo regolamento ex art. 5 del d.lgs. n. 163/06.

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l’oggetto della gara ed alle modalità di esecuzione del contratto, e che consente di disporre l’esclusione di offerte che presentino all’evidenza aspetti di inattendibilità (13).

In tal senso, allora, l’automatismo delle scelte affermato dalla prima «legge Merloni», da un punto di vista patologico ha visto affermarsi i fenomeni corruttivi con accordi illeciti che si sono basati proprio sulla matematicità dei risultati.

L’evoluzione della disciplina degli appalti, determinata dalle esi-genze d’innalzamento dei livelli progettuali e ingegneristici, ha sem-pre più lasciato spazio alla discrezionalità della stazione appaltante nell’ambito della quale, dal versante negativo, il controllo e la veri-fi ca hanno assunto più indefi niti margini. Anche in questo modello il rischio risiede allora nella possibile presenza di accordi illeciti che rimangano nascosti nelle valutazioni di merito; appare necessario, perciò, imporre un più effettivo obbligo di motivazione di ogni provvedimento secondo i criteri dettati dalle norme di azione.

Più in generale, i suddetti rischi possono essere analizzati nel-l’ambito di due dei principali istituti che dopo l’entrata in vigore del codice sono stati interamente rivisitati e ampliati.

3.1. Criteri di aggiudicazione negli appalti e discrezionalità tecnica della P.A.

Nella nuova normativa nel d.lgs. n. 163/06 i criteri di aggiudi-cazione sono il prezzo più basso e l’offerta economicamente più vantaggiosa, criterio, quest’ultimo, che è stato reso facoltativo dal codice degli appalti, senza più alcuna limitazione (14).

Con riferimento alla scelta del criterio di aggiudicazione, l’Au-torità per la vigilanza sui contratti pubblici, nella Determinazione dell’8 ottobre 2008, n. 5, ha riconosciuto che

rientra nella discrezionalità tecnica delle stazioni appaltanti che de-vono valutare l’adeguatezza rispetto alle caratteristiche oggettive e specifi che del singolo contratto, applicando criteri obiettivi che ga-rantiscano il rispetto dei principi di trasparenza, di non discrimina-zione e di parità di trattamento e assicurino una valutazione delle offerte in condizioni di effettiva concorrenza.

(13) Consiglio Stato, Sez. V, 18 settembre 2009, n. 5597.(14) Cfr. Corte di Giustizia C-247/02 e art. 25 della l. n. 62/05. Vedi l’art. 81 e

l’art. 83 del «codice De Lise».

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Come già rilevato, i fenomeni corruttivi fi no a tali modifi che sono emersi maggiormente nella valutazione con il massimo ri-basso (unitamente ad altre fattispecie penali minori, quali la tur-bativa d’asta e le false dichiarazioni) (15). In proposito, va pure precisato che, secondo la più recente giurisprudenza, non rientra nei poteri del giudice amministrativo vagliare nel merito la bontà del giudizio di anomalia effettuato dalla stazione appaltante, dal momento che, nell’ambito delle procedure per l’affi damento de-gli appalti pubblici, il subprocedimento inerente all’accertamento dell’anomalia dell’offerta costituisce esplicitazione paradigmatica proprio della discrezionalità tecnica, suscettibile di sindacato giu-risdizionale solo sotto i profi li della manifesta illogicità e/o irra-gionevolezza, del difetto di istruttoria, della carenza motivaziona-le ovvero del travisamento dei fatti (16).

Peraltro, come già accennato, fatta salva la maggiore adegua-tezza che, per tanti profi li, presenta il criterio dell’offerta econo-micamente più vantaggiosa (si pensi all’innalzamento della qua-lità e delle garanzie nelle progettazioni), i pericoli che anche tale criterio presenta non vanno comunque sottovalutati, proprio per non rischiare di azzerarne i vantaggi (legati ad una valutazione dell’offerta che abbraccia, oltre al prezzo, altri elementi, qualita-tivi e quantitativi). Come ribadito anche dalla recentissima giu-risprudenza in riferimento alle procedura in cui è obbligatoria

(15) Come conseguenza, è stato affermato come dalla percezione, da parte di agenti pubblici, di tangenti in attuazione di un patto corruttivo per spartire, median-te la rivelazione dei prezzi base delle gare, appalti pubblici tra un ristretto gruppo di appaltatori, escludendone gli altri mediante fi ttizi inviti alle aste, emergono sia danni correlati all’aumento dei prezzi di aggiudicazione e dei costi delle opere, sui quali gli appaltatori trasferivano gli oneri della corruzione, che danni all’immagine e alla reputazione dell’ente pubblico appaltante (C. Conti, Sez. I, 03 aprile 2002, n. 102).

(16) T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 08 ottobre 2009, n. 5207; conforme: T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 29 gennaio 2009, n. 525. Inoltre, è stato affer-mato dai giudici che, implicando il giudizio di anomalia valutazioni di carattere tecnico, tale giudizio ben può essere sindacato dal giudice, anche con il supporto di un c.t.u. o di un verifi catore, onde verifi care la correttezza dell’iter logico, del-l’impianto motivazionale, l’esattezza dei presupposti di fatto e dell’applicazione delle regole tecniche; ove, tuttavia, la regola tecnica non sia univoca, essendo altrettanto valide diverse soluzioni tecniche, il giudice e il c.t.u. (o verifi catore) non possono sostituirsi all’amministrazione che sia pervenuta ad una soluzione tecnica che, ancorché opinabile, sia tuttavia accettabile secondo lo stato dell’arte e della tecnica (Consiglio Stato, Sez. VI, 20 aprile 2009, n. 2384).

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l’adozione di tale criterio di scelta, la natura non vincolante del-la progettazione preliminare e la possibilità per i concorrenti di proporre soluzioni alternative migliorative comporta l’ampia di-screzionalità della Commissione di gara nell’esame e nella valuta-zione delle proposte, con conseguente insindacabilità della scelta effettuata, sempre che la scelta delle soluzioni tecniche alternative non contrasti con i criteri fondamentali fi ssati nel bando e che la valutazione tecnica del progetto sia immune da vizi logici (17).

Il pericolo di questo modello è tuttavia in ciò che il fenome-no criminale, anche della corruzione, possa inserirsi, con meno evidenza, nella maggiore discrezionalità che la legge attribuisce in questo caso ai componenti della Commissione (art. 84 del codice). Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa è, infatti, caratterizzato da una valutazione complessa e di più voci a cui vie-ne attribuito un peso espresso in centesimi e il prezzo è uno dei diversi elementi su cui viene formulata l’offerta del concorrente.

In altri termini il rischio è in questo caso che la gara bandita con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa si trasfor-mi in una vera e propria trattativa privata in cui la stazione è in gra-do di scegliere a prescindere dall’offerta, chi sarà l’aggiudicatario.

3.2. La negoziazione nella trattativa privata: ampliamento delle ipotesi e discrezionalità nelle scelte mediante gara informale. Obbligo della motivazione

È noto che l’art. 24 della legge n. 109/94, e s.m.i., è stato abro-gato dal d.lgs. n. 163/06, e s.m.i., il quale disciplina la procedura negoziata negli artt. 56, 57 e 122.

In linea generale, nella trattativa privata – a differenza di quan-to si verifi ca per le altre procedure di scelta del contraente pub-blico, aperte o ristrette (già asta pubblica o licitazione privata) – il legislatore non ha tipizzato alcun procedimento amministrativo né una particolare modalità di individuazione dell’affi datario: essa avviene quindi con caratteri per molti versi analoghi a quelli delle trattative intercorrenti tra privati.

A fronte dell’eccezionalità del ricorso alla procedura negoziata (e della scarsezza degli importi entro i quali tale istituto è ammis-

(17) TAR. Puglia, Bari, Sez. I, 24 febbraio 2009, n. 399.

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sibile), il legislatore accorda, appunto, ampia libertà e discrezio-nalità di scelta dell’iter e delle regole da seguire e, per l’effetto, del soggetto con cui contrarre.

In altri termini, la procedura negoziata è un procedimento me-diante il quale l’amministrazione decide di concludere il contratto e sceglie il contraente secondo la disciplina estremamente ridotta contenuta nel codice, per il resto regolandosi come farebbe qual-siasi altro operatore sul mercato.

La stessa gara informale accennata dall’art. 57, co. 6, non è connotata da una disciplina articolata e compiuta; si svolge me-diante un invito che è rivolto alle imprese che sono maggiormente gradite, sotto il profi lo delle capacità tecniche ed operative, alla P.A. e al responsabile del procedimento. Questo signifi ca che nor-mativamente l’invito si caratterizza come libera scelta esercitata della stazione appaltante, la quale è tenuta solamente ad invitare imprese risultanti da informazioni desunte dal mercato. Inoltre, la negoziazione svolta mediante gara informale è comunque per-meata dalla massima libertà di forma; nonostante la norma nulla dica in più, la giurisprudenza ha peraltro correttamente ritenuto legittimo che l’amministrazione

con apposita previsione nella lettera d’invito, si riservi di espletare la negoziazione fi nale non soltanto con l’impresa migliore offeren-te, ma, per es., con le migliori due o tre classifi cate

sottolineando che

anzi, è auspicabile, perché per tale via si attua anche nella negoziazio-ne fi nale una concorrenza effettiva, mentre nel caso della negoziazio-ne con un unico soggetto questo è scarsamente indotto a migliorare signifi cativamente le condizioni da lui proposte con l’offerta (18).

In defi nitiva, si può quindi affermare che l’Amministrazione è comunque libera di rinegoziare i termini con le migliori imprese invitate e, in defi nitiva, di aggiudicare discrezionalmente la gara all’impresa ritenuta – alla fi ne – la miglior offerente.

In una procedura aperta o ristretta l’Amministrazione non ha alcun margine di negoziazione con le imprese e, con il criterio del

(18) Mazzone-Loria, Manuale di diritto dei lavori pubblici, cit., 273-274.

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massimo ribasso, deve aggiudicare obbligatoriamente l’appalto a chi ha presentato il ribasso più elevato; viceversa, in una procedura negoziata ben può l’amministrazione «legittimamente» affi dare la gara all’impresa che ritiene discrezionalmente la migliore dopo la negoziazione tra le due o tre imprese rimaste in competizione. Ciò che si vuol mettere in evidenza è che la possibilità di negoziazione – tipica di ogni procedura negoziata, sempre che sussista un’adegua-ta, logica motivazione che cristallizzi l’iter logico-giuridico seguito dall’amministrazione – sminuisce la rilevanza dei ribassi e prima ancora l’idea di infl uenzarne eventualmente la stima. Pertanto, il fenomeno corruttivo può incunearsi nelle pieghe delle scelte e del-la negoziazione dell’amministrazione, specie per le gare informali, pur in presenza delle condizioni che ne legittimano il ricorso.

4. Alcune linee per tracciare possibili soluzioniDallo scenario e dalle problematiche che qui si è tentato sin-

teticamente di delineare, appaiono alcune linee che, de iure con-dendo, potrebbero contribuire all’arginamento delle evidenziate patologie, specie di corruzione, presenti nell’ambito della con-trattualistica pubblica.

Innanzitutto, appare evidente la necessità, in assoluta controten-denza con quanto sta avvenendo, di una riappropriazione all’in-terno della P.A. delle funzioni che oggi sono quasi completamente delegate ai privati. Specularmente, v’è la necessità di garantire una effettiva formazione dei quadri della P.A. Come recentemente au-spicato dalla miglior dottrina, in forza del fatto che ogni iniziativa di rinnovamento degli apparati amministrativi presuppone che a cominciare dalla classe dirigente vi sia chiara preparazione sia tecnica che professionale, 1a fi gura soprattutto del dirigente deve essere ridefi nita e costruita «in modo da esaltarne le capacità deci-sionali, la responsabilità e l’autonomia operativa» (19) e aderente, come impronta teorica solida, ai «valori di imparzialità, di merito e di responsabilità propri della dirigenza pubblica» (20).

(19) G. D’Alessio, «Accesso, formazione e assetto unitario della dirigenza», in Astrid, L’amministrazione come professione. I dirigenti pubblici tra spoils system e servizio ai cittadini, a cura di G. D’Alessio, Bologna, 2008, 93.

(20) Ibidem, 95.

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Nemmeno va sottovalutato l’obiettivo vantaggio che si trarreb-be dall’utilizzo effettivo delle Centrali di committenza (anche se il modello della CONSIP non ha completamente funzionato, va pur detto, tuttavia, che è stato avversato spesso ingiustifi catamente).

Ciò in quanto trasferire su una centrale di committenza pub-blica la gestione della gara potrebbe garantire alta professionalità (che oggi solo alcune stazioni appaltanti possono avere) e terzietà di giudizio (rispetto al favore che talune stazioni appaltanti tenta-no oggi di attribuire all’imprenditoria locale).

In altri termini pochi organismi si occuperebbero delle gare ed alle stazioni appaltanti sarebbe lasciato il compito (oggi affronta-to inadeguatamente) di gestire il contratto in fase esecutiva una volta individuato mediante gare l’aggiudicatario.

In quest’ottica, andrebbe evidenziata l’effettiva utilità di dare maggior rilievo alla fase dell’esecuzione e della gestione dei con-tratti pubblici, cui si dovrebbe associare una obiettiva intensifi ca-zione del controllo di gestione.

Si noti a tale proposito che, fi no ad ora, le Direttive dell’U.E., e quindi l’interesse della Commissione europea nei contratti pubblici, si sono interessate unicamente al coordinamento delle procedure di affi damento; nessuna normativa ha riguardato, inve-ce, la fase della gestione contrattuale vera e propria, che in buona sostanza è il vero obiettivo, sia delle stazioni appaltanti sia delle imprese.

A monte, come è stato sottolineato anche in diversi articoli del codice dei contratti pubblici con prescrizioni vieppiù sanziona-torie, deve sussistere una maggiore rigidità nel pretendere un’ef-fettiva qualifi cazione delle imprese e al contempo una nuova nor-mativa, coordinata semmai fra i diversi Stati membri, anche per la fase d’esecuzione del contratto, nella quale ancora sussistono regole giuridiche indubbiamente risalenti nel tempo. Per questo, si attende, altresì, il nuovo regolamento ex articolo 5 del codice, che singolarmente, dopo ormai quattro anni, non ha ancora visto la luce.

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Guido Carpani

LA SANITÀ

1. L’azienda sanitaria e la sua governanceL’evoluzione della organizzazione del servizio sanitario nazio-

nale (Ssn) dalla sua nascita (legge 23 dicembre 1978, n. 833) ad oggi è stata caratterizzata da un progressivo accentramento della governance delle aziende sanitarie (prima unità sanitarie locali-Usl poi aziende sanità locali-Asl, ma le stesse considerazioni valgono per le aziende ospedaliere-Ao) nelle mani di una sola persona (il direttore generale) e da una dichiarata intenzione di sottrarre alla politica la gestione delle aziende stesse. Il processo, iniziato sulla fi ne degli anni Ottanta, con la c.d. aziendalizzazione della loro ge-stione, ha caratterizzato in modo del tutto peculiare la riforma del 1992. L’Usl, «struttura operativa dei Comuni, singoli o associati, e delle comunità montane» (art. 15, co. 1 della l. 833/1978), prov-vista originariamente di (almeno) due organi, l’uno di indirizzo (l’assemblea generale) e l’altro di gestione (il comitato di gestio-ne), diviene nel 1992 «ente strumentale della Regione» dotato «di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica» con il compito di provvedere ad assicurare i livelli di assistenza «uniformi» (su tutto il territorio nazionale e di cui il Ssn si fa garante) nel proprio ambito territoriale con due organi: il direttore generale ed il collegio dei revisori (art. 3, cc. 1, 2 e 4 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502). Il carat-tere aziendale dell’Usl, già affermato in sede di legge delega (23 ottobre 1992, n. 421, art. 1, co. 1, lett. d)) e ripreso dal decreto le-gislativo 7 dicembre 1993, n. 517 (art. 4, co. 1, lett. a)) accentua il carattere determinante della gestione incentrata in un unico orga-no: «tutti i poteri di gestione, nonché la rappresentanza dell’Usl sono riservati al direttore generale» a cui spetta tra l’altro

verifi care, mediante valutazioni comparative dei costi, dei rendi-menti e dei risultati, la corretta ed economica gestione delle risorse attribuite ed introitate nonché l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa

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(co. 6, art. 3, come risulta dalle modifi che apportate al decreto legislativo n. 502 dal ricordato d.lgs. 517/1993). La regionaliz-zazione del servizio sanitario, rafforzata dal decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, chiarisce il rapporto tra la Regione e l’azienda sanitaria ed accentua il profi lo aziendale della gestio-ne di quest’ultima. Ai sensi dell’art. 3, co. 1, e dell’art. 8-bis del decreto legislativo n. 502 – come risultante dalle modifi che del 1999 (1) – sono le Regioni i titolari del servizio, mentre l’Usl (ora-mai Azienda unità sanitaria locale-Ausl) è un semplice erogatore, peraltro non esclusivo, delle prestazioni (2). L’Ausl, dotata di per-sonalità giuridica pubblica ed autonomia imprenditoriale, si or-ganizza attraverso un apposito «atto aziendale di diritto privato» adottato dal direttore generale, informa la propria attività a criteri di effi cacia, effi cienza ed economicità ed è tenuta al rispetto del vincolo di bilancio (art. 3, co. 1-ter). L’eliminazione della pregres-sa elencazione delle «sei autonomie» a favore di quella imprendi-toriale accentua il carattere aziendale della responsabilità di chi la governa in ordine alla quantità e qualità dei servizi erogati. Al direttore generale spetta la nomina del direttore amministrativo e del direttore sanitario (art. 3, co. 1-quinquies), che lo coadiuva-no nell’esercizio delle funzioni affi dategli, come pure quella dei «responsabili delle strutture operative dell’azienda» (art. 3, co. 1-quater). L’attribuzione al direttore generale della gestione com-plessiva e di tutti i poteri di gestione non signifi ca che questi sia l’unico ed esclusivo centro motore dell’azienda; piuttosto su di lui si concentra la responsabilità dell’andamento dell’azienda

riguardata nel suo insieme, negli aspetti più essenziali e strategici attinenti alla preordinazione di programmi, piani, obiettivi prio-ritari e relative risorse, ed al controllo dei risultati, al pari di ogni organo di vertice di amministrazioni pubbliche destinatarie della riforma di cui al decreto legislativo n. 165 del 2001» (3).

(1) D’ora in poi, il richiamo ad articoli e commi senza altra specifi cazione si deve intendere riferito al d.lgs. 502/1992 nel testo vigente a seguito delle modifi -che ed integrazioni successivamente intervenute, fi no ad oggi.

(2) C. Corbetta, voce: «Aziende sanitarie locali», in Dizionario di diritto pub-blico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, vol. I, 629.

(3) N. Speranza, «Il principio di distinzione tra compiti dell’organo di vertice e compiti della dirigenza nelle aziende sanitarie», in Sanità pubblica, n. 2, 2002, 171.

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Il direttore generale ha funzioni di indirizzo dell’attività azien-dale (si pensi alle nomine, ai piani, ai regolamenti ed all’atto aziendale) e talora di gestione. L’atto aziendale, espressione del-l’autonomia organizzativa e funzionale dell’azienda nell’ambito dei principi e criteri fi ssati dalla Regione (art. 2, co. 2-sexies, lett. b), esprime bene l’autonomia imprenditoriale di cui al co. 1-bis dell’art. 3. Esso determina il riparto di competenze tra le strutture aziendali e quindi l’ambito di responsabilità della dirigenza che vi è preposta; detta le regole organizzative; la missione dell’azienda. Un atto di organizzazione, strumentale alla assunzione di respon-sabilità per la gestione del direttore generale, che esprime bene «l’attitudine manageriale del vertice aziendale» (4) che lo adotta e quindi la professionalità della dirigenza chiamata a risponde-re, tramite la verifi ca dei risultati, degli obiettivi assegnati. L’atto aziendale funge da strumento duttile per calibrare, di volta in vol-ta, a seconda della realtà amministrativa dell’azienda, dei bisogni di salute cui quest’ultima è chiamata a corrispondere, del conte-sto normativo regionale in cui opera, la distinzione tra indirizzo aziendale (proprio del direttore) e attività di gestione, adeguando il sistema organizzativo alle esigenze che mutano (5).

2. La concentrazione dei poteri nelle mani del direttore generaleL’organizzazione delle aziende sanitarie è del tutto peculiare

e non trova analogie nell’ordinamento con riguardo alla concen-trazione della governance nella fi gura di un (solo) organo mono-cratico. La disciplina delle agenzie recata dall’art. 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 prevede sì la fi gura del direttore generale con ampi poteri di gestione e relative responsabilità, ma

(4) B. Ponti, «L’atto aziendale e i vincoli regionali all’autonomia imprendi-toriale delle Asl/AO: la differenziazione organizzativa come test del processo di aziendalizzazione», in A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, Mi-lano, Franco Angeli, 2008, 51-52 e 66 ss.

(5) «Alla guida tramite procedure si sostituisce… quella basata sull’attribu-zione di responsabilità: i singoli operatori dispongono di maggiore libertà d’azio-ne salvo poi doverne rendere conto» (G. Sanviti, «Commento all’art. 3-bis», in F. Roversi Monaco (a cura di), Il nuovo servizio sanitario nazionale, Rimini, Mag-gioli, 2000, 111).

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ad essi si contrappongono precisi poteri ministeriali di vigilanza ed indirizzo che si sostanziano nell’approvazione degli atti prin-cipali, nella emanazione di direttive, nella possibilità di acquisire dati e notizie e di disporre di ispezioni per accertare l’osservanza delle prescrizioni impartite. Nelle agenzie fi scali (6) al direttore, «scelto in base a criteri di alta professionalità, di capacità manage-riale e di qualifi cata esperienza nell’esercizio di funzioni attinenti al settore operativo dell’agenzia», si affi anca un comitato di ge-stione «composto da quattro membri e dal direttore dell’agenzia, che lo presiede». In questo caso però, a differenza di quanto si dispone in via generale per le agenzie dove il comitato coadiu-va il direttore nell’esercizio delle sue funzioni, esso è chiamato a deliberare sullo statuto, sui regolamenti e gli altri atti di carattere generale relativi al funzionamento dell’agenzia, sui bilanci pre-ventivi e consuntivi, i piani aziendali e le spese che impegnano il bilancio dell’agenzia, anche se ripartite in più esercizi, per importi superiori al limite fi ssato dallo statuto. Il direttore sottopone alla valutazione del comitato di gestione le scelte strategiche aziendali e le nomine dei dirigenti responsabili delle strutture di vertice a livello centrale e periferico (artt. 67-68 del d.lgs. 300/1999). Una posizione, quella del comitato, non dissimile al consiglio di am-ministrazione dell’Agenzia del farmaco (art. 48, co. 4 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modifi che dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, nonché art. 6, del decreto del ministro della salute 20 settembre 2004, n. 245), al quale sono affi dati ampi poteri deliberativi.

3. Il rapporto tra Regione e direttore generale

3.1. I presupposti per la nomina. Le disposizioni di leggeLa legge 30 novembre 1998, n. 419 qualifi ca il rapporto che

intercorre tra il direttore e la Regione «di natura privatistica e fi duciaria» (art. 2, co. 1, lett. u)). La nomina regionale può cade-

(6) Anche l’Agenzia del demanio, trasformata in ente pubblico economico dal decreto legislativo 173/2003, ha un comitato di gestione con compiti delibe-rativi (art. 6, co. 5 dello statuto).

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re su quanti, a seguito di pubblicazione di apposito avviso, han-no mostrato interesse a ricoprire l’incarico e sono in possesso di un diploma di laurea e di una esperienza almeno quinquennale di direzione tecnica o amministrativa in enti, aziende, strutture pubbliche o private, in posizione dirigenziale con autonomia ge-stionale e diretta responsabilità delle risorse umane, tecniche o fi nanziarie, conseguita nei dieci anni precedenti la pubblicazione dell’avviso (art. 3-bis, co. 3). L’art. 3, della l. 419/1998 (che mo-difi ca il co. 6, dell’art. 3), nel precisare che il provvedimento re-gionale di nomina non ha necessità di dare conto di «valutazioni comparative» tra gli aspiranti, conferma la necessità che sia ade-guatamente motivato. La laurea «utile» per la nomina non deve necessariamente afferire ai settori giuridici o economici, o ancora a quelli sanitari, e l’esperienza di direzione può essere stata matu-rata in strutture di piccole dimensioni operanti in ambiti diversi (e distanti) da quello sanitario. Si tratta quindi di una scelta scar-samente ancorata al possesso di specifi che competenze professio-nali; ne sia riprova che i

nominati… devono produrre, entro diciotto mesi dalla nomina, il certifi cato di frequenza del corso di formazione in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione sanitaria

organizzato dalla Regione (art. 3-bis, co. 4).

3.2. Limiti alla durata dell’incaricoIl rapporto di lavoro del direttore generale (al pari di quelli dei

direttori amministrativo e sanitario) è regolato da un contratto di diritto privato di durata minima di 3 e massimo di 5 anni (art. 3-bis, co. 8). Se la soglia minimale di durata del contratto garanti-sce al direttore generale un tempo congruo per il conseguimento degli obiettivi individuati al momento della nomina (o almeno di parte di essi) (7) ed è presupposto per una verifi ca dei risultati non irragionevole, l’assenza di limiti alla durata del governo aziendale

(7) Secondo dati recenti (C. Carbone, «La mobilità dei direttori generali», in E. Anessi Pessina, E. Cantù (a cura di), Rapporto OASI 2003, Cergas, Milano, Egea, 333) la durata media della permanenza in carica di un direttore generale di una azienda sanitaria pubblica è di 3 anni e 3 mesi, «un orizzonte di gestione

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può consentire, nel tempo, il realizzarsi di una eccessiva contigui-tà tra il direttore e gli interlocutori privati dell’azienda, terreno fertile per il maturare di scelte non sempre scevre da condiziona-menti e propizio al prevalere di interessi di parte, se non frutto di disegni corruttivi opposti all’interesse dell’amministrazione. La qualità e quantità dei poteri affi dati al direttore gli consentono, infatti, di acquisire un peso, una visibilità ed una infl uenza nel contesto ove opera l’azienda in grado di confi gurarlo come un operatore rilevante nelle dinamiche che guidano l’acquisizione del consenso e la contemperazione degli interessi, insomma un attore rilevante nelle dinamiche politico-istituzionali ed economi-che locali. In tale prospettiva, se suscita perplessità la scelta regio-nale di portare da 3 ad 1 anno la durata minima dell’incarico che costringe ad una verifi ca degli obiettivi «entro il secondo mese antecedente la scadenza dell’incarico» (8), va valorizzata l’espe-rienza maturata nella legislazione regionale di limitare il numero degli incarichi di preposizione all’organo di direttore della stessa azienda sanitaria (9). Il limite al numero dei mandati di direzione generale di una Ausl o Ao ovvero quello dettato alla durata com-plessiva dell’incarico relativamente alla stessa azienda può essere accompagnato dalla possibilità, per la Regione, di non privarsi di un «manager sperimentato» che ha dato buona prova di sé, chia-mandolo a dirigere altra struttura sanitaria (10).

probabilmente troppo limitato, considerando i tempi necessari alla realizzazione di un “progetto di gestione” in aziende, come quelle sanitarie, caratterizzate da molteplici elementi di complessità e/o gli effetti di blocco dei progetti e delle innovazioni e l’emergere di atteggiamenti difensivi che accompagnano l’apertura della fase, spesso lunga, di incertezza sulla permanenza del DG in carica». Vedi anche Cons. di Stato, Sez. V, 19 ottobre 2005, n. 5836 (in Ragiusan, 2006, fasc. 265-266, 24).

(8) L.reg. Lombardia n. 33/2009, art. 12, co. 3 e 6.(9) Ad esempio l’art. 37 della l.r. Toscana 40/2005 introduce il limite dei 3

mandati consecutivi nello stesso incarico presso la medesima azienda; la durata di quest’ultimo non può comunque superare i 10 anni complessivi (c. 7 aggiunto dall’art. 37, co. 4 della l.r. 60/2008); l’art. 19, co. 1 della l.r. Sicilia 14 aprile 2009 fi ssa il limite di un solo rinnovo, nella stessa azienda, per la durata del primo mandato (triennale) di direttore generale.

(10) L’art. 7, co. 3-bis della l.r. 31/1997, della Regione Lombardia consente alla giunta di modifi care gli incarichi conferiti ai direttori generali di giunte sani-tarie «quanto alla sede di assegnazione» dando vita ad una mobilità interazien-dale obbligatoria per il direttore «contrattualizzato» (la mancata accettazione

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3.3 Fiduciarietà del rapporto e professionalità del direttoreIl rapporto instaurato tra il direttore e la Regione è caratte-

rizzato da rilevanti profi li di fi duciarietà. Il potere di nomina è attribuito ad un organo politico, senza che il relativo provvedi-mento preveda una scelta condizionata da valutazioni tecniche. La scelta si basa (con prevalenza più o meno determinante) sulla affi dabilità del candidato, con l’obiettivo di dar vita a un rappor-to essenzialmente collaborativo che richiede non tanto (o non solo) una particolare qualifi cazione professionale del prescelto, e quindi una guida esclusivamente «tecnocratica» dell’azienda, quanto piuttosto (o altresì) una direzione «affi dabile» e quindi fi duciaria secondo una logica non distante dalle regole privatisti-che della gestione aziendale: è nominato chi si ritiene idoneo ad attuare l’indirizzo politico della Regione e tale nomina è «mani-festazione della potestà di indirizzo e di governo della Regione nel settore sanitario» (11), coerentemente con la natura sub-regio-nale dell’azienda. La fi duciarietà del rapporto, giustifi cata dalla responsabilità regionale di garanzia del contenuto necessario e suffi ciente dell’obbligo di servizio pubblico sanitario (individua-to dai LEA) (12), può essere terreno fertile per un’utilizzazione degli ampi poteri del direttore non rispettosa delle regole della imparzialità e della buona amministrazione, nonché per la formu-lazione, da parte dei preposti agli organi regionali, di richieste al management aziendale tese a compiere scelte o tenere comporta-menti gestionali contrari alla legge. Nella prospettiva di rafforzare il carattere professionale della fi gura del direttore generale senza ridurre totalmente lo spazio di libera scelta della Regione, può essere riproposta (13) la istituzione di un elenco nazionale di aspi-

del reincarico su altra azienda dopo l’originario contratto costituisce giustifi cato motivo per la risoluzione del contratto).

(11) R. Ferrara, «Organizzazione e principio di aziendalizzazione nel servizio sanitario nazionale: spunti problematici», in C. Bottari, P. Tullini (a cura di), La dirigenza sanitaria. Amministrativisti e lavoristi a confronto, Rimini, Maggioli, 2004, Quaderni della Spisa, n. 14, 65.

(12) N. Aicardi, «La sanità», in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto ammi-nistrativo, Diritto amministrativo speciale, tomo I, Le funzioni di ordine, le funzio-ni di benessere, Milano, Giuffrè, 2003, 657.

(13) Art. 3, co. 10, del d.lgs. 502/1992 poi riformulato dall’art. 4 del d.lgs. 517/1993 ed abrogato dall’art. 1 del d.l. 512/1994.

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ranti alla carica di direttore generale tenuto ed aggiornato sulla scorta di valutazioni trasparenti ed imparziali, al quale fare acce-dere chi è in possesso di specifi ci requisiti professionali e cultura-li (14). La scelta del direttore rimane regionale, l’amministrazione centrale si fa solo carico di selezionare, tra gli aspiranti, coloro che posseggono i requisiti (minimi?) di competenza e le capacità indispensabili per assolvere all’incarico, nonché verifi care che tali requisiti non vengano meno nel tempo. Una sorta di verifi ca della «legittimazione professionale» di chi aspira a ricoprire il ruolo di direttore generale per evitare che l’incapacità di un preposto de-legittimi la funzione in quanto tale, un contributo al «consolidarsi di un ceto professionale di manager pubblici che sembrano avere focalizzato le proprie competenze nella conduzione delle aziende sanitarie pubbliche» (15). L’elenco unico nazionale amplia altresì lo spettro regionale della scelta (non limitata ai soli aspiranti re-gionali) e facilita una sorta di mobilità interregionale dei direttori. I criteri per l’accesso e l’aggiornamento dell’elenco nazionale pos-sono altresì tenere conto degli esiti della valutazione dell’operato dei direttori (che spetta alle Regioni) e rilevare in occasione del rinnovo dell’incarico o della preposizione ad altra azienda.

3.4. Incompatibilità e ineleggibilitàLa legge disciplina in modo puntuale le cause di incompatibi-

lità con l’incarico di direttore generale e quelle di ineleggibilità conseguenti ad averlo ricoperto (artt. 3-bis, co. 10, e 3, co. 9). Nel primo caso si tratta di disposizioni pubbliciste che pongono limiti «esterni» all’autonomia negoziale che sta alla base del contratto di diritto privato tra la Regione e il direttore: «la carica di diretto-re generale è incompatibile con la sussistenza di altro rapporto di

(14) Art. 4 dell’AS 1954, Disegno di legge di iniziativa dei Sen. Marino ed altri recante Disposizioni in materia di sicurezza e qualità dell’assistenza sanitaria (23 dicembre 2009). Non mancano Regioni (vedi recentemente la l.r. Puglia 4/2010) che hanno istituito un elenco di candidati regionali idonei a ricoprire l’incarico di direttore generale di aziende o istituti del servizio sanitario regionale-Ssr; gli idonei debbono partecipare ad un corso di formazione manageriale per potere divenire «nominabili» (art. 24).

(15) M. Del Vecchio, C. Carbone, «Stabilità aziendale e mobilità dei Direttori Generali nelle aziende sanitarie», in E. Anessi Pessina, E. Cantù (a cura di), Rap-porto OASI 2002, Cergas, Milano, Egea, 270.

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lavoro, dipendente o autonomo». Altre ragioni di incompatibilità muovono dalla necessità di salvaguardare la terzietà del direttore rispetto alle formazioni politiche locali e nazionali (art. 3, co. 9:

la carica di direttore generale è incompatibile con quella di mem-bro del consiglio e delle assemblee delle Regioni e delle Provin-ce autonome, di consigliere provinciale, di Sindaco, di assessore comunale, di Presidente o di assessore di comunità montana, di membro del Parlamento» (16))

o di evitare confl itti (anche solo potenziali) che possono sorgere in presenza di interessi economici privati contrapposti a quelli aziendali. Come accade allorché si operi nell’ambito Ssr sotto il controllo o la vigilanza dell’azienda («l’esistenza di rapporti an-che in regime convenzionale con la Usl presso cui sono esercitate le funzioni») o in presenza di posizioni giuridiche soggettive di vantaggio (in ragione di consulenze o altri rapporti economici: si pensi, ad es. ai contratti di forniture) originante da operatori che «svolgono attività concorrenziali» con l’azienda, nel senso, probabilmente, di rivestire la fi gura di erogatori (a carico del Ssn) di prestazioni che ben potrebbero essere rese dall’azienda stes-sa. Si tratta di ragioni di incompatibilità non differenti da quelle dettate per i dipendenti pubblici legati da un tipico «rapporto professionale» con la P.A. (17) e tese ad evitare confl itti di interes-se, disfunzioni e inconvenienti pregiudicanti il buon andamen-to dell’amministrazione pubblica o a contravvenire al vincolo di esclusività del rapporto. Il co. 9 dell’art. 3 reca altresì una causa di non nominabilità (per colui che, candidatosi, non sia stato eletto), limitatamente alle Usl «comprese, in tutto o in parte, nel collegio elettorale nel cui ambito si sono svolte le elezioni»; essa opera nei 5 anni dallo svolgimento delle elezioni stesse. Ciò

a garanzia dell’immagine di imparzialità del direttore generale, che non può essere visto, questa volta dal cittadino utente del servizio sa-nitario, come uomo evidentemente legato ad una parte politica (18).

(16) Rimangono esclusi dagli incarichi incompatibili, senza apparente motivo, quelli di assessore regionale e provinciale.

(17) Art. 53 del decreto legislativo 165/2001, e successive modifi che e integra-zioni, e art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica n. 3/1957.

(18) F. Merloni, «Gli incarichi dirigenziali nelle Asl tra fi duciarietà politica

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Seguono infi ne cause di ineleggibilità a salvaguardia del libero convincimento dell’elettore che potrebbe subire condizionamenti da chi – per l’esercizio della funzione di direzione dell’azienda sanitaria – detiene notevoli ed importanti poteri in ordine a scelte che possono risultare rilevanti per il personale aziendale, per i fornitori e soggetti privati che, pur sotto il controllo e la vigilan-za dell’Usl, concorrono all’erogazione dell’assistenza sanitaria a favore dei cittadini del territorio, nonché per le scelte compiute in ordine alle modalità erogative delle prestazioni. Gli «assistiti» dell’Usl sono infatti gli stessi cittadini elettori e le prestazioni ad essi erogate non solo assicurano il rispetto del diritto alla salute (art. 32 Cost.), ma consentono di rimuovere gli (eventuali) ostaco-li che si frappongono all’effettiva partecipazione (di tutti) alla vita sociale, economica e politica del Paese (art. 3, co. 2, Cost.).

La disciplina vigente andrebbe piuttosto completata con di-sposizioni volte a limitare l’assunzione di incarichi presso i refe-renti pubblici o privati dell’azienda al momento della cessazione dell’incarico di direzione di quest’ultima. Si tratta di estendere all’ex direttore generale, per un circoscritto periodo (da 1 a 3 anni), le limitazioni all’autonomia negoziale già previste in vigen-za del contratto di lavoro con l’azienda relativamente a consulen-ze, collaborazioni, rapporti di lavoro e professionali a favore di soggetti privati che abbiano (o abbiano avuto) una qualche rela-zione economica (contratti, convenzioni, strutture accreditate o convenzionate, ecc.) con l’Ausl o l’Ao, ovvero con associazioni di categoria di imprese (ad es. farmaceutiche), di professionisti (me-dici, infermieri, ecc.) o comunque rappresentative del personale dipendente e di chi svolge attività libero professionale (si pensi a medici e pediatri di base) in favore dell’azienda sanitaria.

La disciplina degli incarichi successivi al termine dello svolgi-mento della funzione (c.d. pantoufl age) potrebbe riguardare non solo il direttore generale ma anche i direttori amministrativo e sanitario.

e competenze professionali», in A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilancio, cit., 104.

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(19) I direttori amministrativo e sanitario insieme al direttore generale danno vita alla direzione strategica, anello di congiunzione tra il livello politico regio-nale e il nucleo operativo dell’azienda a cui spetta defi nire la strategia aziendale e facilitarne l’implementazione da parte dell’organizzazione: C. Carbone, «La mobilità delle direzioni strategiche delle aziende sanitarie», in E. Anessi Pessina, E. Cantù (a cura di), Rapporto OASI 2008. L’aziendalizzazione della sanità in Italia, cit., 287.

3.5. La procedimentalizzazione delle scelte aziendali. Il ruolo dei direttori sanitario ed amministrativo

Nella diversa prospettiva di operare all’interno dell’azienda, così da limitare la discrezionalità delle scelte del direttore generale e di concorrere all’assunzione di scelte ponderate, legittime e traspa-renti, possono essere valorizzate le fi gure dei direttori sanitario e amministrativo (19). Essi, fermo restandone la scelta ad opera del direttore generale, dovrebbero essere tratti dalle fi la della dirigen-za pubblica o comunque strutturata dell’azienda (per rafforzare l’autonomia), e solo ad essi, salvo ipotesi eccezionali, dovrebbe essere riservato il potere di proposta degli atti di gestione di com-petenza del direttore generale. Tale proposta, fatta salva la piena disponibilità e responsabilità del direttore a cui si rivolge in ordine alle scelte aziendali, concorre a procedimentalizzare le scelte di gestione consentendo ponderazione e visibilità delle ragioni che le hanno orientate ed una corresponsabilità, sia dal punto di vista della legittimità che della opportunità, dei «dirigenti proponenti» in ordine alle defi nitive determinazioni assunte. Un obiettivo, quel-lo della corresponsabilità, più facilmente conseguibile nel caso in cui la scelta dei preposti alle direzioni sanitarie ed amministrative dovesse rivolgersi (solo) alla dirigenza strutturata dal Ssn.

3.6. La verifi ca dei risultatiPoiché all’atto della nomina a ciascun direttore la Regione as-

segna

aggiornandoli periodicamente, gli obiettivi di salute e di funziona-mento dei servizi, con riferimento alle relative risorse, ferma restando la piena autonomia gestionale dei direttori stessi (art. 3-bis, co. 5)

tali criteri devono essere determinanti già alla prima verifi ca pre-vista «trascorsi diciotto mesi dalla nomina», che sarà condotta

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sentito il parere del sindaco o della conferenza dei sindaci o anco-ra della conferenza per la programmazione sanitaria e socio-sani-taria nel caso di azienda ospedaliera: si tratta infatti di una tappa determinante nel rapporto del direttore con la Regione che deve procedere o meno alla conferma del nominato entro i tre mesi successivi (quindi entro 21 mesi dalla nomina) (art. 3-bis, co. 6). I tempi della «prima verifi ca», il coinvolgimento degli enti locali nella procedura che dovrà chiudersi con la conferma o la cessa-zione del rapporto, la necessità di predeterminare i criteri della valutazione, sono aspetti che il legislatore delegato sottrae alla autonomia regionale ed alla dinamica del rapporto fi duciario con il direttore. Essi inducono la Regione ad esplicitare gli obiettivi assegnati al «proprio» direttore così da coinvolgere nella verifi ca dei risultati attesi anche gli enti locali, generalmente esclusi, dalla riforma del 1992, dalla gestione del servizio sanitario e «rimessi parzialmente in gioco» nel 1999. L’esplicitazione degli obiettivi convenuti tra le parti concorre a «correggere» un rapporto in-stauratosi su prevalenti profi li di fi duciarietà, così che, in caso di una eventuale sua risoluzione (mancata riconferma), il contraente «più debole» (il direttore generale) possa chiedere ragione del «licenziamento anzitempo» e quindi attivare una tutela in caso di decisione immotivata o pretestuosa. «Una fondamentale e impre-scindibile istanza di garanzia insita in tutti i procedimenti basati su poteri discrezionali suscettibili di estrinsecarsi con provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei destinatari; un’istanza che va salvaguardata anche in mancanza di espressa enunciazione nor-mativa» (20). Sulla scorta dello stesso ragionamento va rafforzato il carattere tecnico e trasparente del procedimento di tale verifi ca così da poter trarre da quest’ultima utili elementi per misurare l’effettiva capacità manageriale del direttore generale sulla base dei risultati conseguiti evitando una loro impropria utilizzazione,

(20) N. Speranza, M. Ricciardi, «Il rapporto di lavoro del direttore generale e dei direttori sanitario ed amministrativo», cit., in S. Dragonetti, A. Pozzi, M. Ricciardi, N. Speranza, Il personale delle aziende sanitarie, Milano, Giuffrè, 2002, 38, dove si sostiene altresì che quella del direttore sarebbe una posizione di in-teresse legittimo di fronte ai provvedimenti sanzionatori assunti dalla Regione in base a poteri di ampia discrezionalità.

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da parte della Regione, per motivare la conferma o la risoluzione dell’incarico. Una garanzia per il direttore sottoposto a valutazio-ne che lo aiuta ad essere meno vulnerabile alle esigenze o pres-sioni del contesto politico ed istituzionale a cui si rapporta. La Regione potrebbe decidere di supportare l’esercizio delle proprie competenze in ordine alla verifi ca dei risultati di gestione, con la creazione di una apposita struttura imparziale, dotata di spiccate competenze tecniche (stante la pluralità dei piani rispetto ai quali è possibile apprezzare i risultati conseguiti dalle aziende sanitarie pubbliche) a cui demandare la misurazione delle performance e dei risultati di gestione conseguiti rispetto agli obiettivi indivi-duati. Qualora il legislatore statale rendesse obbligatoria tra le Regioni una tale soluzione organizzativa (attraverso la fi ssazione di un puntuale principio fondamentale della materia «tutela della salute», ai sensi dell’art. 117, co. 3, Cost.), tale organismo potreb-be proporsi come interlocutore capace di concorrere alla sele-zione di metodologie condivise (a livello interregionale), sia per l’individuazione degli obiettivi che per la misurazione dei risultati (alla pluralità dei ricordati piani consegue, infatti, la diffi coltà di determinare sistemi condivisi di misurazione dei risultati) (21) pre-supposto per consentire valutazioni comparative omogenee sulla cui scorta impostare una utile mobilità dei direttori tra le varie Regioni. In tale dinamica potrebbe essere recuperato e meglio precisato il ruolo degli enti locali nell’ambito del procedimento di valutazione. Il loro «parere» potrebbe consentire di fare emergere il grado di soddisfazione dell’utenza rispetto alle esigenze di salu-te della popolazione, all’effettiva erogazione delle prestazioni dei LEA, al grado di integrazione tra i servizi sanitario e sociale. Se la prevista predeterminazione degli obiettivi non mette al riparo da una loro individuazione astratta, tale da rimettere sostanzialmen-te alla discrezionalità della Regione (competente sia alla nomina che alla valutazione dei risultati) la scelta sulla prosecuzione o meno del rapporto sulla scorta di valutazioni diverse dai risultati conseguiti rispetto alle attese, è pur vero che non vi sono alterna-

(21) M. Del Vecchio, M. Barbieri, «I processi di valutazione dei direttori ge-nerali delle aziende sanitarie pubbliche: primi spunti di ricerca», in E. Anessi Pessina, E. Cantù (a cura di), Rapporto OASI 2001, cit., 169.

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tive alla strada scelta del legislatore, che si dimostra l’unica idonea ad impostare una valutazione discrezionale ma non arbitraria.

D’altra parte, il rafforzamento del carattere tecnico e profes-sionale della fi gura del direttore generale è una via obbligata per le Regioni. La Corte costituzionale infatti (22), mostrando di non aderire a ricostruzioni del rapporto tra Regione e direttore ge-nerale basate solo su vincoli fi duciari e quindi tese a fare cessare l’incarico conferito al primo allo scadere degli organi regionali che ne operarono la proposizione al governo dell’azienda (23), accentua la natura tecnica dell’attività aziendale, la necessità di salvaguardare il cittadino utente da scelte di gestione irrazionali o aliene dai vincoli d’imparzialità e buon andamento che potrebbe-ro essere conseguenti a forme di irragionevole precarietà o di to-tale dipendenza politica del vertice aziendale. Insomma una linea ricostruttiva non estranea alla (pregressa) giurisprudenza della Corte che aveva sottolineato la interferenza reciproca tra «diritti» ed «organizzazioni» predisposte per la loro soddisfazione, così che «l’organizzazione deve considerarsi anche sul lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incedente su di essi» (24).

4. Scelte gestionali

4.1. La valorizzazione della risorse interne dell’aziendaVenendo alle proposte riguardanti l’organizzazione della

azienda si deve riprendere quanto osservato sul ruolo dell’atto aziendale di diritto privato in ordine all’organizzazione e al fun-

(22) Corte costituzionale, sent. n. 104 del 2007, n. 351 del 2008 e 34 del 2010 (il testo delle prime due decisioni è rinvenibile rispettivamente in Giurisprudenza costituzionale, 2007, 1017 ss. e 2008, 3865 ss).

(23) Si tratta della legislazione regionale sullo spoils system: Regione Lazio, art. 55, co. 4 dello statuto approvato l’11 novembre 2004 e art. 71 della l.r. 17 febbraio 2005, n. 9; Regione Calabria, art. 50, co. 6 dello statuto approvato il 19 ottobre 2004 e art. 1 della l.r. 3 giugno 2005, n. 12; Regione Abruzzo, art. 1 della l.r. 12 agosto 2005, n. 27. Non mancano ipotesi di spoils system mascherato (M. Perrone, «Spoil system delle Asl a giudizio», in Il sole 24 ore, 11 febbraio 2010, 35): Legge regionale Abruzzo 26 settembre 2009, n. 17, art. 5, co. 1 e legge regio-nale Sardegna 7 agosto 2009, n. 3, art. 12, co. 8.

(24) Corte costituzionale, sent. 27 novembre 1998, n. 383, in Giurisprudenza costituzionale, 1998, 3323.

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zionamento dell’azienda (art. 3, co. 1-bis). La sua idoneità di ri-partire le competenze tra le strutture aziendali e a individuare, di conseguenza, le responsabilità, ne fa uno strumento idoneo a promuovere una sorta di de-concentrazione delle competenze ge-stionali del direttore generale ed a promuovere una equilibrata distribuzione delle responsabilità. Si tratta di un obiettivo teso a produrre un coinvolgimento della c.d. dirigenza professional nelle scelte manageriali (25), a valorizzare i vari centri di responsabi-lità (e competenza) attraverso procedure defi nite, anche al fi ne di contrastare comportamenti antigiuridici o comunque non in-formati al rispetto delle disposizioni di legge e delle regole della buona gestione. Insomma, se si deve tenere fermo il passaggio da una direzione collegiale dell’azienda ad un organo monocratico dotato di ampi poteri, almeno si induca quest’ultimo a valorizzare le risorse (gruppo dirigente) presenti in azienda, affi dando alle varie strutture organizzative adeguati spazi decisionali o acqui-sendone le professionalità attraverso il loro coinvolgimento nei processi decisionali più importanti e «sensibili». In tale senso si muove il co. 12 dell’art. 3, allorquando prevede l’obbligatorietà della consulenza tecnica sanitaria del Consiglio sanitario, tra l’al-tro, per gli investimenti decisi dal direttore generale relativamen-te alle attività tecnico-sanitarie.

Nella medesima prospettiva non va scartata la proposta di ac-crescere il ruolo del collegio di direzione che, ai sensi dell’art. 17, oggi coadiuva il direttore generale nel governo delle attività cliniche, nella programmazione e valutazione delle attività tecni-co-sanitarie e nell’alta integrazione sanitaria, nell’organizzazione e sviluppo dei servizi, nell’utilizzo delle risorse umane, e concor-re alla predisposizione dei programmi formativi, alla defi nizione delle soluzioni organizzative per l’attuazione dell’attività libero-professionale intramuraria, nonché alla valutazione dei risultati

(25) Ciò vale anzitutto per le professionalità sanitarie: «resta da chiedersi se l’idea di garantire il diritto alla salute insieme all’effi cienza attraverso la conviven-za della professionalità sanitaria con la capacità gestionale sia ancora una soluzio-ne sulla quale vale la pena investire»: A. Pioggia, «Il ruolo del top management e della dirigenza di line di sanità: modelli di distribuzione del potere decisionale negli atti aziendali», in A. Pioggia et al., Oltre l’aziendalizzazione del servizio sa-nitario. Un primo bilancio, cit., 99.

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conseguiti rispetto agli obiettivi. Tale organismo, composto dai vertici delle strutture aziendali, potrebbe infatti, opportunamente potenziato, «svolgere un ruolo di utile controllo sull’azione della direzione aziendale e sulle conseguenze di una sua eccessiva po-liticizzazione» (26).

4.2. La gestione centralizzata degli approvigionamentiSegue la stessa logica di de-concentrazione delle competenze

del direttore generale, ma questa volta per portarle fuori dal peri-metro aziendale, anche l’introduzione di forme strutturate di ge-stione degli approvvigionamenti delle aziende sanitarie e la previ-sione di processi di cooperazione, più o meno obbligatori, tra le aziende d’una medesima Regione per l’esercizio di tale attività.

Si tratta di un fenomeno che si sta diffondendo in gran parte dei Ssr (27), sia sulla scorta di puntuali recenti indicazioni del legisla-tore statale (28), che per effetto dei precipui impegni assunti nelle Regioni che hanno sottoscritto i c.d. piani rientro. Sotto il profi lo organizzativo si va dalle unioni facoltative di acquisto tra azien-de sanitarie, alla creazione di veri e propri enti autonomi, sotto il profi lo gestionale, per la gestione accentrata delle procedure di approvvigionamento (29). All’aggregazione della domanda do-vrebbe accompagnarsi lo sforzo di professionalizzare gli operato-ri, puntando alla confi gurazione di vere e proprie fi gure di buyer pubblico (con necessità di specifi ca formazione), all’adozione di

(26) C. De Pietro, A. Prenestini, «Governance professionale nelle aziende sanitarie pubbliche: il ruolo del Collegio di direzione e del Consiglio dei sanita-ri», in Rapporto OASI 2008, cit., 323. Ruolo e funzioni del collegio di direzione sono valorizzati dal progetto di legge in materia di governo delle attività cliniche approvato (in testo unifi cato) in sede referente dalla Commissione affari sociali della Camera il 27 aprile 2010.

(27) M. Brusoni, M. Marsilio, «La gestione centralizzata degli approvvigio-namenti nei sistemi sanitari regionali», in Rapporto OASI 2007, Cergas, Milano, Egea; M. Brusoni, G. Cappellaro, M. Marsilio, «Processi di accentramento degli approvvigionamenti in sanità: una prima analisi di impatto», in Rapporto OASI 2008, cit.

(28) Art. 1, co. 158 della legge fi nanziaria per il 2006 (legge 23 dicembre 2005, n. 266) e art. 1, co. 449 e 455 della legge fi nanziaria per il 2007 (legge 27 dicem-bre 2006, n. 296).

(29) M. Frey, M. Meneguzzo, G. Fiorani (a cura di), La sanità come volano dello sviluppo economico Pisa, Edizioni ETS, 2010, 240.

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metodi e tecniche di valutazione dei beni e servizi da acquisire (health technology assessment), alla integrazione tra acquisti e lo-gistica (piattaforma e-health e mandato elettronico). L’obiettivo è quello di contenere la spesa: alla riduzione del prezzo, che do-vrebbe conseguire all’aumento di volume di beni/servizi richiesti ed al potere contrattuale della stazione appaltante, si dovrebbe aggiungere la riduzione dei costi – personale, tempi, numero di gare effettuate, ecc. – per l’espletamento delle connesse attività. È stato altresì sottolineato come un’effi cace programmazione del-la spesa ne consenta un governo razionale, evitando proroghe e rinnovi di contratti (si pensi alla c.d. clausola di estensione che consente all’ente che ha effettuato una gara per un certo importo e con qualifi cazioni ad esso rapportate di estendere il contratto ad altra azienda) o illegittimi frazionamenti degli importi (per sot-trarsi a gare formali) se non in casi del tutto eccezionali.

La creazione di centrali di committenza, consentendo il matu-rare in essa di una specializzazione nelle procedure di acquisizio-ne dei beni e servizi, le rende capaci di opporsi, grazie alle compe-tenze possedute, ad indebite pressioni; il più ampio volume degli acquisti da conseguire, in ragione del servizio reso a più aziende sanitarie, insieme alla riduzione e razionalizzazione delle «stazio-ni appaltanti» consente di approntare procedure trasparenti (o di concentrare gli sforzi per realizzarle), presupposto di un loro controllo più effi ciente, riducendo l’incidenza di comportamenti opportunistici o difformi dalla normativa e dalla disciplina del codice degli appalti (decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163).

Il mancato rispetto delle regole e la presenza di corruzione concorrono altresì ad una sleale alterazione delle condizioni con-correnziali.

L’esistenza di imprese che benefi ciano della maladministration può uccidere le imprese oneste, costringendole ad uscire dal mer-cato (30).

La semplifi cazione delle procedure, la pubblicità dei bandi/avvisi di gara, degli aggiudicatari e dei partecipanti alla stessa,

(30) Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitu-re, Relazione annuale 2009, 208.

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dell’inizio dell’esecuzione del contratto e della sua durata, delle sospensioni e varianti concesse, dei subappalti, della gestione del contenzioso accompagnato da un sistema di qualifi cazione degli operatori economici basato su parametri oggettivi sono il presup-posto di un sistema dove si realizza l’equo bilanciamento tra l’esi-genza di fl essibilità della domanda ed il rispetto dei fondamentali principi di parità, trasparenza e concorrenza (31).

(31) Cfr. art. 9 della Convenzione contro la corruzione, adottata dalla assem-blea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, ratifi cata dalla legge 3 agosto 2009, n. 116 che ne ha altresì dato esecuzione nel nostro ordina-mento.

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Adriana Vigneri

I SERVIZI PUBBLICI (IN PARTICOLARE LOCALI)

1. IntroduzioneNel campo dei servizi pubblici si richiede particolarmente la

diffusione della cultura della competitività, della trasparenza e della parità di trattamento, sia che si pratichi – per lo più median-te società – l’autoproduzione del servizio, sia che si faccia ricorso al mercato Si considerano servizi pubblici locali le attività di ser-vizio a fruizione individuale, e quelle ad esse strumentali, soggette a regolazione in forza di una decisione di assunzione da parte di un soggetto pubblico (ente locale) il quale assicura che la presta-zione sia resa, mediante un’impresa pubblica o mediante obblighi di prestazione a carico di una (o più) imprese private, derivanti da contratti di servizio. I settori rilevanti sono quelli che il legisla-tore ha chiamato industriali (energia, gas, trasporti (TPL), rifi uti, ciclo idrico), cui si aggiungono i servizi che i Comuni decidono di rendere alla popolazione in regime di servizio pubblico (es. mer-cati, parcheggi) (1). Si tratta di gestioni in regime di monopolio o quasi monopolio. Con la conseguenza che per lo più, e al di fuori dell’autoproduzione del servizio, se consentita, si applica la c.d. concorrenza per il mercato. Il livello del rispetto della legalità nel-l’ambito dei servizi pubblici locali è piuttosto basso. In parte ciò è dovuto ai frequenti mutamenti della legislazione e alle continue proroghe dei termini previsti, ma per il resto alla resistenza agli interventi di riforma. L’AVCP ha constatato nel settore idrico che su 61 gestioni in house esaminate, 39 possono essere considerate conformi alla normativa comunitaria e 22 – un terzo – non con-formi. Giudizi complessivi si trovano nella Relazione n. 13/2008 della Corte dei Conti, Stato dei controlli della Corte dei Conti sugli organismi partecipati dagli enti locali e nei pareri ex 23-bis, co. 4,

(1) Rapporto 2007 sulle società partecipate dagli enti locali - Centro Studi Unioncamere.

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dell’Agcm, da cui risulta la presenza negli enti locali di notevole confusione nell’inquadramento normativo delle proprie attività.

2. La qualità della legislazioneL’articolo 23-bis del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, conv. con mod.

in l. 6 agosto 2008 n. 133; e l’articolo 15 del d.l. 25 settembre 2009 n. 135, conv. con mod. in l. 20 novembre 2009 n. 166, di parzia-le modifi ca dell’articolo 23-bis, introducono – in estrema sintesi – una piccola rivoluzione nelle modalità di affi damento della ge-stione di servizi pubblici locali. Alla modalità ordinaria (gara), si aggiunge in via derogatoria, se sussistono condizioni che impedi-scono il ricorso al mercato, la possibilità di utilizzare il modello in house, attraverso una rigorosa procedura che coinvolge l’Agcm. Ma il 23-bis è solo apparentemente generale. In realtà esclude vari settori, non è chiaro con quale indirizzo, mentre ha il merito di defi nire un breve e chiaro periodo transitorio. Inoltre – se a prima vista l’aspetto qualifi cante è dato dalla valutazione delle condizio-ni di mercato – lo schema di regolamento (2) ne modifi ca i presup-posti, sia pure per il solo settore idrico. Tuttavia, se si ammette la compatibilità con i principi della concorrenza dell’attestazione di effi cienza del gestore attuale, non si vede perché un tale metodo non potrebbe essere utilizzato per tutti i settori. Si tratta in sintesi di una legislazione che – oltre ad essere continuamente oscillante tra autoproduzione, liberalizzazione, privatizzazione e tra disci-plina generale e disciplina settoriale – è gravemente carente sotto altri profi li, essenziali per servizi destinati ad assicurare la coe-sione sociale. Dal punto di vista che qui interessa, l’intrico delle norme statali rende ondivago e poco affi dabile l’indirizzo politico e meno trasparenti le scelte delle amministrazioni responsabili. Produce diffi coltà obiettive, ma fornisce anche ragioni di inerzia e di irresponsabilità.

3. La proliferazione societariaLa proliferazione ha almeno due aspetti. L’autonomia locale

(2) Adottato dal Consiglio dei Ministri il 17 dicembre 2009.

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nell’utilizzazione del modulo societario ha prodotto la crescita esponenziale delle società degli enti locali nei settori più vari; sol-tanto una parte di tali società essendo utilizzata per la produzione di servizi al pubblico. Questo fatto in sé può essere il prodotto di cattiva amministrazione (la vera ragione della costituzione del-la società è altra dall’effi cienza e duttilità dello strumento) e a sua volta produrre cattiva amministrazione, sotto il profi lo della crescita della spesa, della crescita di un ceto di sotto-governo e di pratiche clientelari. Spesso la scelta di costituire una società è dovuta a) alla fuga dalle procedura di evidenza pubblica; b) alla fuga dal patto di stabilità. L’uscita dal modello azienda pubblica per assumere le forme delle società di capitali ha poi dato luo-go alla diffi coltà di porre limiti all’attività di queste società che, pur essendo affi datarie dirette nel «Comune madre», hanno ben presto scoperto il vantaggio di aggiungere a questa attività altre analoghe per Comuni o aziende pubbliche, costituendo proprie distinte società, fi no ad operare anche all’estero. Confl itto che è stato individuato ed impedito soltanto con l’articolo 13 del d.l. 248/2006 e succ. mod. Ora il medesimo principio si trova inserito nell’art. 23-bis, co. 9, e si applica quindi, oltre alle società «stru-mentali», alle utilities.

4. Il fattore «concorrenza»L’ordinamento vigente consente, con presupposti diversi e

nome settoriali differenziate, l’utilizzazione sia delle gestioni in house, sia delle gare per selezionare un gestore terzo, sia infi ne della forma ibrida della società mista. Si debbono quindi conside-rare le possibilità di maladministration sia nelle gestioni in house, sia nelle gestioni miste, sia nelle gare e successive gestioni. La con-trapposizione tra le gestioni dirette e altri modelli che applicano regole di concorrenza, al fi ne di stabilire, in ipotesi, che le regole di concorrenza proteggono da molte forme di maladministration, non appare utile. Non è possibile tracciare un netto confi ne tra il mondo della concorrenza e quello in cui la concorrenza è assente. In secondo luogo, mentre è possibile valutare i diversi rischi che si presentano nelle pubbliche selezioni di gestori, ovvero nelle de-cisioni di organizzare gestioni in house, non è possibile creare una

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graduatoria della pericolosità sociale delle diverse modalità. Vero è piuttosto che il cattivo funzionamento presenta nei due casi ca-ratteri diversi. Infi ne, un tentativo di graduatoria non potrebbe avere come conseguenza – in ipotesi – minori dosi di concorren-za, la cui applicazione dipende direttamente da norme di livello costituzionale. In questa sede non resta che tentare di suggerire le correzioni che nei diversi casi possono creare un ambiente meno favorevole alle deviazioni nell’azione amministrativa e nella ge-stione.

5. Ruoli dell’ente locale e confl itti di interesseI dati cui si è fatto riferimento (nota 1) mostrano che sono di

gran lunga prevalenti le società a controllo pubblico, alcune del-le quali quotate in borsa. L’ente locale da solo o con altri enti locali è spesso proprietario o comproprietario o proprietario di maggioranza del soggetto gestore. È in ogni caso il titolare del servizio, responsabile politicamente nei confronti della colletti-vità del suo funzionamento e anche talvolta della sua esistenza, e quindi tutore degli interessi degli utenti. È sempre, in parte o in gran parte, il regolatore e il dominus delle procedure di gara, cui partecipano società dello stesso ente. È spesso il proprietario di reti ed impianti, ovvero la proprietà è stata trasferita alle società di gestione in mano pubblica. Ne deriva l’esistenza di interessi tra loro in confl itto. La creazione delle società (non a caso proliferate anche al di fuori delle utilities) è determinata anche dalla possibi-lità di acquisire o distribuire posizioni di potere, talvolta a fi ni di riequilibrio politico; dall’utilizzazione di procedure privatistiche, specie nella provvista del personale, dalla possibilità di aggirare i vincoli della fi nanza pubblica. L’interesse proprietario dell’ente locale (3) e il suo limitato orizzonte geografi co sono in confl itto con altri interessi promossi dalla legislazione nazionale (gestioni di bacino, crescita dimensionale delle imprese). L’interesse politi-

(3) Nelle gestioni in house – che continueranno in maggiore o minore misura – si ha la «necessaria confusione» tra indirizzo politico amministrativo e gestione, che pure le norme dicono di voler evitare. Negli ATO (idrico e rifi uti) il comune è contemporaneamente parte dell’autorità di governo dell’ambito e comproprie-tario del gestore o dei gestori.

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co alla difesa dell’occupazione delle ex municipalizzate, quando non anche alle assunzioni clientelari, confl igge con le esigenze di economicità ed effi cienza della gestione (tendenziale copertura dei costi con le tariffe).

6. I problemi specifi ci delle società misteLa società mista «tradizionale», per l’elevata discrezionalità

nella scelta del socio e per il carattere riservato delle trattative che hanno facilitato la conclusione di patti parasociali sfavorevoli per l’ente locale, è stata spesso espressione e possibile fonte di malad-ministration. L’articolo 23-bis ha imposto che la gara per la scelta del socio abbia a oggetto anche o prevalentemente la gestione del servizio o parte di esso e ha posto limiti rigorosi sull’oggetto sociale, sulla durata, sulla necessità di nuova gara, se si amplia o modifi ca l’oggetto sociale, e ha precluso a tale società di acquisire altri servizi per tutta la durata della gestione. Si può concludere che d’ora in poi la società mista, se correttamente applicata, non è più una specifi ca occasione di compromissione degli interessi pubblici in gioco. Restano tuttavia aperti alcuni interrogativi, per l’indubbia complessità del modello (4), con riferimento in parti-colare al caso di trasformazione delle attuali società in house in società miste (ex co. 8, dell’articolo 23-bis), che può determinare una sostanziale continuità della gestione in house, con il socio pri-vato che svolge ruoli minori (5). L’ampia probabilità che al socio siano affi dati compiti limitati rischia di svuotare le fi nalità della norma.

(4) Il caso più semplice è quello della nascita della società contemporanea-mente alla selezione del socio con cui costituirla. Il caso più frequente invece sarà l’ingresso di un socio privato in una società pubblica preesistente, dato anche il grande sviluppo delle società in house in seguito alle norme del 2003 e il favor per la conservazione degli affi damenti in corso (art. 23-bis, co. 8, lett. a) che dovreb-be produrre molte nuove società miste.

(5) Il modello muta rispetto a quello esaminato dal Consiglio di Stato (pare-re della Sezione II, n. 467/2007) e dalla Corte di giustizia (sentenza 15 ottobre 2009, Acoset/ATO Ragusa). Siamo più in armonia con un regime in cui la gestio-ne in house sia prevista come ordinaria, che con un sistema che – bene o male – la considera derogatoria ed eccezionale.

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7. Le incompatibilità. La scelta degli amministratori delle societàLe nomine degli amministratori delle società in tutto o in par-

te pubbliche sono state fatte spesso all’interno del ceto politico escluso dalle principali cariche locali, per garantirsi rapporti fi -duciari o equilibri politici di giunta. Qualche regolamento locale ha procedimentalizzato le nomine (6), ma con attenzione più ai requisiti di esperienza che alla prevenzione dei confl itti d’interes-se e alla separazione delle funzioni. Ora per la prima volta la legi-slazione introduce delle regole, unico strumento con cui si distin-guono le funzioni di regolazione da quelle di gestione. Le nuove norme (7) tuttavia hanno riguardo a un solo aspetto: evitare che la scelta degli incaricati in materia di gestione di società partecipate avvenga tra i soggetti legati – o che siano stati legati nei tre anni precedenti – all’ente che ha appaltato il servizio (8).

Sulla composizione delle commissioni di gara, lo schema di regolamento esclude: chi ha già svolto o svolge funzioni nella ge-stione del servizio messo a gara (co. 4, art. 8); chi ha rivestito (nei 2 anni precedenti) la carica di amministratore locale (ex art. 77 Tuel) dell’ente che mette a gara il servizio (co. 5); chi nella veste di commissario di gara ha concorso, con dolo o colpa grave, ad atti illegittimi (co. 6) (9); gli amministratori e i dipendenti dell’en-te locale che bandisce la gara, se alla stessa partecipa una società dello stesso ente (co. 8). Disposizione quest’ultima da coordinare

(6) Artt. 42, co. 2, lett. m) e 50, co. 8 del Tuel.(7) Art. 8 dello Schema di regolamento, co. 1, 2 e 3.(8) «Gli amministratori, i dirigenti e i responsabili degli uffi ci o dei servizi

dell’ente locale, nonché degli altri organismi che espletano funzioni di stazione appaltante, di regolazione, di indirizzo e di controllo di servizi pubblici locali, non possono svolgere incarichi inerenti la gestione dei medesimi servizi. Il di-vieto si applica anche nel caso in cui dette funzioni sono state svolte nei tre anni precedenti il conferimento dell’incarico inerente la gestione dei servizi pubblici locali» (c. 1 dell’art. 8 dello Schema di regolamento). Il divieto è esteso a coniuge, parenti ed affi ni entro il quarto grado, e a consulenti e collaboratori dell’ente locale. In Conferenza Unifi cata (29 aprile 2010) l’Anci ha chiesto la soppressione del co. 3 dell’art. 8, secondo cui non possono essere nominati amministratori di società partecipate coloro che nei tre anni precedenti hanno ricoperto la carica di amministratore, con la seguente motivazione: «tale incompatibilità si basa su incarichi pubblici precedenti e cassati, disponendo una specie di retroattività».

(9) Accertato con sentenza non sospesa (art. 8, co. 6, dello schema di rego-lamento).

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con la prima voce (co. 4), non potendo essere nominato chi ha svolto, come amministratore o dipendente o consulente, qualsiasi funzione inerente alla gestione del servizio. Non è risolto il pro-blema delle gare cui partecipa una società dello stesso ente che la bandisce (compresa l’Autorità d’ambito, costituita dagli stes-si enti locali proprietari delle società di gestione). La soluzione proposta dall’articolo 8, co. 8, non è suffi ciente, la scelta è pur sempre affi data all’ente locale interessato, con il solo limite di non poter nominare componenti interni (10).

8. La scelta dei dirigenti e dei revisori dei contiMancano del tutto regole sulle incompatibilità dei dirigenti e

sui relativi procedimenti. Mancano anche analoghe regole sulla scelta dei revisori dei conti. Ai revisori dei conti dell’ente locale ora l’articolo 8, co. 9, dello schema di regolamento affi da la vigi-lanza sull’applicazione del contratto di servizio e sulle sue varia-zioni in ogni caso in cui la società sia partecipata dall’ente locale. A parte la mancanza di competenza specifi ca in capo all’organo di revisione, che costituisce un problema per le attività di con-trollo che l’ente locale esercita sulle società, va segnalata la prassi di premiare con la nomina a revisore delle società il revisore del Comune che non ha creato problemi. Di qui l’esigenza, nel du-plice interesse, dell’ente locale e delle società, di impedire per un congruo periodo che chi ha fatto il revisore dell’ente sia nominato revisore di una delle società partecipate.

(10) Le soluzioni della legislazione regionale (nella materia trasporti) sono più incisive; consistono, in sintesi, nel trasferimento della competenza a svolgere le gare (attribuita alla Regione: l.r. Veneto, n. 25/1998, e succ. mod., art. 1-ter; l.r. Umbria n. 37/1998, art. 22, co. 6-quinquies), oppure nella costituzione di Auto-rità regionali con il compito di svolgere anche l’espletamento delle procedure di gara (l.r. Emilia Romagna, n. 30/1998, art. 18; l.r. Puglia, n. 18/2002, art. 25), ma si tratta di Autorità i cui membri sono nominati dalla Giunta. Ma le Regioni sono competenti a rispondere a tale problema o non deve provvedere la legge statale? Nel frattempo l’Anci ha chiesto in Conferenza Unifi cata (29 aprile 2010) la soppressione del co. 8 dell’art. 8, con la stessa motivazione riportata sopra alla nota 8.

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9. La provvista del personale da parte delle società pubblichePer lungo tempo la provvista del personale delle società total-

mente pubbliche o maggioritarie è stata sottratta a qualsiasi for-ma di disciplina pubblicistica. Assenza di regole che ha agevolato una non rigorosa politica del personale. Soltanto nel 2008 (11) è stata introdotta la norma che impone alle società in house che gestiscono servizi pubblici di adottare criteri e modi per il reclu-tamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al co. 3, dell’articolo 35, del d.lgs. n. 165/2001. Mentre le altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo hanno – non è chiaro il motivo – il meno stringen-te obbligo di adottare criteri e modalità nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità. Sono escluse le società quotate nei mercati regolamentati. Il d.l. n. 78/2009, conv. in l. n. 102/2009 ha esteso alle società con partecipazione di controllo ti-tolari di servizi senza gara, che sono organismi di diritto pubblico o strumentali della P.A., gli stessi divieti e limitazioni sull’assun-zione di personale che valgono per le pubbliche amministrazioni.

10. Le gare nei servizi pubblici localiIl tema è complesso: vi sono i contratti di appalto con cui si

forniscono servizi da parte dell’ente locale e gli affi damenti senza gara; le concessioni di servizio pubblico per un gestore terzo; le gare per la scelta del socio di società mista affi dataria diretta, le gare gestite dalle società in house, che dovrebbero essere appalti e spesso sono concessioni (12). Progressivamente la procedura di

(11) Art. 18 d.l. n. 112/2008, conv. con mod. in l. n. 133/2008, integrato da art. 19, co. 1, d.l. n. 78/2009, conv. in l. n. 102/2009.

(12) Secondo le regole generali, se l’ente locale usa i contratti di appalto per assicurare il servizio, ne deve applicare la relativa disciplina, con le distinzioni sopra e sotto soglia. Se si tratta, come nella maggior parte dei casi, di concessione di servizio, le disposizioni del codice non si applicano (art. 30, co. 1, del codice appalti) ed è suffi ciente una gara informale.

Se la gara è gestita da una società in house o in controllo pubblico cui è affi dato un servizio al pubblico, si tratterà di enti che operano nei settori del-l’acqua, dell’energia termica, dell’elettricità, dei trasporti, ai quali si applica una disciplina speciale più fl essibile e con minori vincoli procedurali (artt. 206 e ss. del codice appalti). A parte vanno considerate le società miste, per le quali la

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evidenza pubblica si è affermata nella legislazione, ed è stata in-trodotta come regola da osservarsi anche da parte delle società in tutto o in parte pubbliche concessionarie di servizi pubblici, comprese quelle previste dall’articolo 113, del Tuel (art. 32, co. 1, lett. c) del d.lgs. n. 163/2006), poiché producono beni e ser-vizi non destinati a essere collocati nel mercato in condizioni di concorrenza (13). Lo spazio occupato dagli affi damenti mediante gara è stato fi n qui modesto (14). Anche nei casi di procedure con-

gara per la scelta del socio è stata introdotta dalla legislazione del 2003 ed estesa a regola generale dalla giurisprudenza amministrativa. Ma si trattava di gare che non avevano ad oggetto la scelta di un gestore del servizio. Soltanto nel 2008 si è richiesto che la procedura competitiva ad evidenza pubblica «abbia ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifi ci compiti operativi connessi alla gestione dal servizio» (art. 23-bis, co. 2, lett. b)). Dedicato alle gare nei servizi pubblici locali in genere è l’art. 113, co. 7, del Tuel, improvvidamente mutilato dalla Corte costituzionale (272/2004). E ora l’art. 23-bis, comma 1, 6 e 7 e art. 3 dello Schema di regolamento. Accanto vi è la disciplina di setto-re. Nell’impossibilità di esaminare nel dettaglio previsioni e vuoti di previsione, enunciamo i principali problemi che si sono posti, rilevanti dal punto di vista di una buona amministrazione: procedura aperta o anche ristretta? Possibilità di negoziazione in fase di gara e di rinegoziazione dopo la gara? Con riguardo alle gare per la scelta del socio, peso del prezzo pagato per le azioni a fronte dell’of-ferta relativa alla gestione del servizio?

(13) L’attuale formulazione dello schema di regolamento (art. 6, co. 2) esclude dall’applicazione del codice appalti le società miste costituite con modalità diverse da quelle previste dal 23-bis, co. 2. Non è chiara la ragione della norma. Se si vuol dire che le miste pubblico privato destinate ad operare nel mercato non hanno l’obbligo di applicare il codice dei contratti, è già scritto nel relativo art. 32, co. 3 (che fa riferimento alla produzione di beni e servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in condizioni di libera concorrenza). Nulla si dice se la con-cessione comprende anche lavori, su cui resta in vigore l’art. 113, co. 5-ter.

(14) Nel settore idrico, in cui più avanzata è l’attuazione degli ATO, la situa-zione al 2008 è: 34% in house, 14% società quotate, 13% società miste, 7% (6 gestioni) concessione a terzi (il restante 32% è costituito da proroghe di gestioni precedenti, da gestioni salvaguardate ed altro). Nei rifi uti, nel periodo 2004-2009 si hanno 38 gare per la sola raccolta e solo 21 gare per la gestione integrata. Le gestioni comunali dirette (in economia o mediante impresa pubblica) nel 2007 sono ancora 1.547 + 3.738, complessivamente 4.285. Le gestioni di operatori privati 2.816. Il che dà conto anzitutto della frammentazione del settore. Nella distribuzione del gas naturale, in cui si è ancora nella fase transitoria, in attesa dell’introduzione degli ambiti territoriali minimi in cui espletare le gare, si sono svolte 235 gare. I dati disponibili riguardano 140 gare. Nel TPL sono ancora prevalenti i casi di affi damento diretto o in house. Il ricorso alle procedure con-corsuali è concentrato in alcune Regioni del Centro-Nord, mentre in 8 Regioni non è stata svolta alcuna gara.

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corsuali quasi sempre è risultato vincitore l’incumbent, talora as-sociato con altri soggetti. Il numero dei concorrenti è stato molto basso e l’Agcm ha rilevato nel 2007 accordi anticoncorrenziali tra 15 società di gestione (15).

11. Necessità di regolazione e mancanza di strutture di governo locale

A parte il settore del gas naturale, secondo la normativa vigen-te, la regolazione è locale, in capo al singolo ente o alle Autorità d’ambito nel settore idrico e nei rifi uti (16). Di fatto tali Autorità sono espressione dei vecchi proprietari o delle relative società. Nei trasporti le soluzioni variano in relazione alla legislazione re-gionale. L’ente locale deve, direttamente o indirettamente, fi ssare le tariffe (tali da assicurare ai producers rendite adeguate a coprire gli investimenti, ma non eccessive), assicurare il livello di qualità dei servizi, gestire correttamente le gare. È evidente che un par-ticolare confl itto di interessi è presente in quest’ultimo caso (ma non manca neppure nei precedenti). Sono emerse tutte le diffi col-tà di una regolazione locale in capo a soggetti non indipendenti, privi delle necessarie competenze tecniche, inadeguati a fare va-lutazioni comparate tra gestori e quindi ad utilizzare tecniche di regolazione comparata. Le diffi coltà sono oggettive (asimmetrie informative, esigenze di servizio universale variabili, obiettivi am-bientali, esigenze di fl essibilità del contratto), ma non superabili dal singolo ente locale, anche di rilevanti dimensioni (mentre per i Comuni minori e negli ambiti non è ancora chiaro quale ente locale – non contaminato dal confl itto d’interessi – assumerà i compiti di governo). Le conseguenze possono tradursi in catti-va gestione del servizio, ma soprattutto in esborsi non dovuti di denaro pubblico o rincari delle tariffe, fi no al rischio di perde-re la proprietà di opere che dovrebbero diventare pubbliche, a

(15) C. Bentivogli et al., «I servizi per la mobilità urbana», in M. Bianco, P. Sestito, I servizi pubblici locali, Bologna, il Mulino, 2010, 71. Nello stesso volume, sugli accordi di cartello, 314.

(16) Le Autorità d’ambito per il settore idrico si sono costituite in tutto il ter-ritorio nazionale e hanno costituito un’associazione, l’ANEA. Nel settore rifi uti il processo è molto più arretrato.

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fi ne gestione. Se lo svolgimento delle gare non è gestito in modo imparziale, competente e quindi autorevole, l’intera prospettiva della legislazione più recente è compromessa, meglio consentire la libera scelta dell’autoproduzione del servizio, meno nociva di gare gestite al buio da amministrazioni pubbliche non attrezzate.

12. Le criticità in sintesi e i possibili rimediI servizi pubblici locali sono connotati dalla coesistenza in capo

agli enti locali di posizioni che generano confl itti d’interesse non del tutto eliminabili. Si aggiungano: la frammentazione dei merca-ti, le grandi diversità nei costi e nelle tariffe, l’assenza di una rego-lazione nazionale e l’inadeguatezza degli apparati locali a svolgere compiti di regolazione attraverso i contratti di servizio. Mancano spesso le strutture di governo dei servizi esternalizzati, dalla scelta della modalità di gestione alla capacità di predisporre bandi di gara e contratti di servizio, di redigere patti parasociali, di indi-rizzare e controllare le società in house, di controllare le gestioni proprie ed esterne. Le utilities, anche se in house, esprimono nei fatti un elevato grado di indipendenza. Da un punto di vista na-zionale, manca la determinazione dei livelli essenziali delle presta-zioni e degli standard minimi di qualità dei principali servizi. Man-cano criteri che – trattandosi di monopoli locali – consentano il confronto comparativo tra gestioni, e defi niscano l’equa remunera-zione degli investimenti. Gli stessi utenti non sono adeguatamente tutelati.

Sui singoli aspetti è possibile individuare integrazioni o modifi -che migliorative all’attuale legislazione.

Parte V

INDICE RIASSUNTIVO DELLE PROPOSTE DI ASTRID

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INDICE RIASSUNTIVO DELLE PROPOSTE

a cura di Francesco Merloni

1. PremessaIn questo capitolo si riassumono in forma di elenco sistemati-

co le diverse proposte di ASTRID. Le proposte sono frutto del lavoro collettivo del Gruppo di lavoro e ne esprimono l’opinione largamente condivisa.

Per chi fosse interessato a conoscere le proposte avanzate a conclusione dei singoli contributi (che sono più numerose e arti-colate di quelle qui sintetizzate), potrà trovarle nei saggi pubbli-cati sul sito di Astrid.

2. Gli elementi di contestoNel formulare le proposte il Gruppo di lavoro ha adottato il

metodo di concentrarsi su alcuni specifi ci profi li di cambiamento, dando per acquisiti alcuni elementi di contesto, che in realtà sono ancora lungi dall’essersi realizzati.

Si pensi alle condizioni «politiche» generali per l’avvio di un’organica politica di contrasto alla corruzione, quali un assetto dei poteri istituzionali rispettoso degli equilibri tra poteri dello Stato, un diverso assetto del sistema politico, con l’attenuazio-ne delle conseguenze più traumatiche dell’adozione del sistema elettorale maggioritario, l’effettiva e piena condivisione bipartisan della necessità di una coerente e costante lotta alla corruzione e alla maladministration.

Così come si danno per acquisite condizioni generali di opera-tività delle principali organizzazioni coinvolte: gli organi politi-ci, le amministrazioni, le magistrature, gli organismi di controllo e di garanzia, le amministrazioni indipendenti. Per tutte queste istituzioni le proposte che qui avanziamo presuppongono l’ade-guata funzionalità (si pensi alle necessità di rafforzare le capacità tecniche delle amministrazioni, per potenziarne le capacità di in-dirizzo, di vigilanza, di contrattazione non subalterna), così come la piena attuazione delle più signifi cative riforme (si pensi solo

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alla distinzione tra competenze degli organi politici e degli orga-ni amministrativi, al divieto dello spoils system per i funzionari professionali, alla ricerca di maggiore effi cienza e produttività del personale pubblico).

Sul versante dei costi, si ripete quanto si è detto nell’introdu-zione: una lotta alla corruzione «a costo zero» è una rinuncia al-l’attivazione di effi caci strumenti di contrasto. Se anche non vi fossero le condizioni per un rilancio generale degli investimenti volti al miglioramento complessivo dell’effi cienza delle istituzioni pubbliche coinvolte, almeno si rende necessario un forte inve-stimento specifi co, con l’attribuzione di risorse aggiuntive fi na-lizzate alla realizzazione degli interventi di contrasto che qui si ipotizzano.

3. L’allineamento dell’Italia alle politiche internazionaliIl punto di partenza è quello dell’adeguamento dell’ordina-

mento italiano alle politiche internazionali. Si tratta quindi di:

1. Ratifi care le Convenzioni del Consiglio di Europa contro la cor-ruzione.

2. Recepire nel nostro ordinamento le norme comunitarie e pattizie sulla corruzione nel settore privato e sul traffi co di infl uenze ille-cite.

3. Formulare e avviare una vera ed effettiva politica organica anti-corruzione, di lungo periodo, adottata e realizzata in modo bi-partisan, a tutti i livelli di governo, da parte di tutte le istituzioni democratiche.

4. Investire risorse adeguate nella lotta alla corruzione, fi nanziate con i risparmi della mancata corruzione e con i proventi delle sanzioni pecuniarie.

4. Le grandi linee di una politica organicaUna tale politica si fonda su almeno quattro grandi linee di

intervento: in primo luogo la necessaria opera di prevenzione dei fenomeni corruttivi; in secondo luogo l’adozione di strumenti che consentano l’emersione dei fenomeni; in terzo luogo un’azione

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costante nel tempo di repressione dei comportamenti rilevati; in quarto luogo agire per un’attiva e continua promozione dei valori dell’etica pubblica e della necessità (e convenienza) della ridu-zione se non eliminazione della corruzione e della maladministra-tion.

A ciascuna di queste linee è dedicato un paragrafo che sintetiz-za le proposte di ASTRID.

Come premessa generale alle proposte, sulla base del metodo di lavoro seguito, occorre:

5. Unifi care la nozione di funzionario pubblico alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 54, 97 e 98.

6. Rivedere in modo unitario lo status di tutti i funzionari pubblici: titolari degli organi politici, soggetti con incarico fi duciario, fun-zionari professionali, funzionari delle amministrazioni indipen-denti, magistrati.

7. Rileggere, per ciascuna categoria di funzionari pubblici, l’intera disciplina di status, dalle condizioni di accesso alla carriera (dove esista) e all’incarico, alle condizioni di svolgimento delle funzio-ni affi date, ai vincoli da porre successivamente alla cessazione della carica.

Il metodo che il Gruppo ha adottato per esaminare i limiti della disciplina vigente e per avanzare nuove proposte di innovazione dovrebbe, a nostro avviso, essere seguito dal legislatore per realiz-zare l’auspicato organico intervento di lotta alla corruzione.

A) Prevenire la corruzione

A.1. Evitare l’accesso alle cariche pubbliche di soggetti che hanno interessi particolari in contrasto con l’interesse ge-nerale; gestire i confl itti di interesse che non implicano la cessazione dalla carica.

A.1.1. Evitare lo stesso insorgere del confl itto (ineleggibilità, in-candidabilità, non nominabilità).

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Accesso a cariche politiche8. Riunifi care gli istituti dell’ineleggibilità e dell’incandidabilità,

prevedendo ipotesi di incandidabilità al Parlamento o negli enti territoriali (o la non nominabilità negli enti, pubblici e privati, ad essi riferibili), nel caso di condanna per i delitti ‹‹corruttivi›› (compresi quelli degli artt. 353 e 354).

9. Dettare in materia una disciplina unitaria, che non distingua tra Parlamento nazionale e assemblee elettive regionali e locali.

10. Determinare cause di incandidabilità non solo in rapporto alle condanne penali riportate (o alla pena accessoria dell’interdi-zione dai pubblici uffi ci), ma anche in rapporto alla titolarità di specifi ci interessi in radicale contrasto con l’assunzione della carica elettiva.

Accesso alla carriera di pubblico dipendente11. Ribadire e rafforzare il principio dell’inderogabilità assoluta

della selezione per pubblico concorso per tutti i dipendenti che sono chiamati a svolgere attività che concorrono allo svolgi-mento di una funzione pubblica. A questo fi ne occorre:

a) garantire con maggiore attenzione l’indipendenza delle com-missioni di selezione: non basta che ne siano fuori politici e sindacalisti; anche gli esperti e i funzionari professionali devono esser in maggioranza esterni all’amministrazione;

b) rafforzare i requisiti di ammissibilità per l’accesso al concor-so, dal punto di vista delle qualità etiche e morali del can-didato (esclusione di coloro che abbiano riportato la pena dell’interdizione dai pubblici uffi ci);

c) ribadire il principio del concorso anche per i passaggi succes-sivi all’accesso iniziale;

d) introdurre un divieto generale e invalicabile per concorsi riservati o che prevedono punteggi preferenziali agli interni per l’accesso alla dirigenza e ai livelli professionali che sono preordinati alla dirigenza e che svolgono compiti amministra-tivi di maggiore concorso allo svolgimento della funzione;

e) limitare rigorosamente la proroga di rapporti di lavoro a tempo determinato.

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Accesso alla carriera dirigenziale12. Rendere il principio del concorso, affermato per la generalità

dei dipendenti, inderogabile per tutte le amministrazioni, di qualsiasi livello: è comunque indispensabile uno specifi co con-corso per l’accesso alla qualifi ca dirigenziale.

13. Introdurre il criterio del concorso/selezione per titoli per il pas-saggio alla prima fascia dirigenziale (non suffi cienza del servi-zio prestato per incarico).

Conferimento degli incarichi dirigenziali14. Escludere dal conferimento dell’incarico dirigenziale dirigenti

interni che siano in posizioni tali da far presupporre uno strut-turale confl itto di interessi (proprietà o controllo o incarichi presso imprese soggette a regolazioni o contribuzioni econo-miche da parte dell’amministrazione da cui il dirigente dipen-da; svolgimento, nei tre anni precedenti, di cariche o incarichi pubblici elettivi di carattere politico o fi duciario o candidatura senza elezione alle stesse cariche, da graduare in rapporto alla vicinanza con l’amministrazione.

15. Rafforzare il carattere esclusivamente professionale della «di-rigenza esterna»; durata limitata e preordinata alla copertura stabile delle competenze professionali mancanti; divieto di con-ferimento a dipendenti della stessa amministrazione; passaggio ad una nozione più ampia di dirigenza interna che comprenda i dirigenti di tutte le amministrazioni pubbliche, inseriti in un albo nazionale della dirigenza pubblica (nazionale e regiona-le/locale); rafforzare le cause di non conferibilità dell’incarico dirigenziale ad alcune tipologie di soggetti «esterni» (in parti-colare quelli provenienti da imprese soggette a regolazioni o contribuzioni economiche da parte dell’amministrazione).

16. Affi dare il potere di nomina alternativamente ad organi politici (ma sulla base di una procedura selettiva nella quale può essere prevista una selezione per merito da parte di organi professio-nali) ovvero a commissioni a composizione solo professionale.

17. Stabilire il divieto di conferimento di incarichi dirigenziali nel-l’ultimo anno di mandato dell’organo politico nominante.

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18. Eliminare le forme e le pratiche di spoils system per gli incari-chi dirigenziali professionali.

19. Introdurre dei meccanismi che prevedano la rotazione dei pub-blici dipendenti con responsabilità decisionali nei settori parti-colarmente esposti al rischio di corruzione.

Conferimento di incarichi fi duciari

a) Uffi ci di diretta collaborazione

20. Escludere dal conferimento dell’incarico coloro che abbiano particolari e specifi ci interessi economici, che abbiano cioè avuto nei tre anni precedenti, incarichi o cariche in imprese sottoposte a regolazione o a contribuzione economica da parte dell’amministrazione (nel suo insieme, senza distinzione di set-tori o uffi ci).

21. Prevedere il collocamento fuori ruolo come obbligatorio per i magistrati amministrativi, ma solo per incarichi di capo del-l’uffi cio. In ogni caso va introdotto il limite di massimo cinque anni di incarichi di carattere fi duciario ogni dieci anni.

b) I soggetti con incarico fi duciario amministrativo di vertice

22. Disciplinare le cause di non conferimento dell’incarico, per ti-tolarità di interessi in imprese private che abbiano avuto, nei tre anni precedenti, o abbiano rapporti con l’amministrazione (nel suo insieme) o per rapporti con la politica, sia per quanto riguarda le cariche elettive che per le cariche nei partiti politici (in essere o ricoperte nei tre anni precedenti). Limiti vanno posti, in considerazione degli specifi ci compiti affi dati anche in rapporto alle cariche sindacali (in essere o ricoperte nei tre anni precedenti).

23. Predeterminare i requisiti di conferimento, quali l’appartenen-za a categorie prescelte (p. es.: magistrati, professori universi-tari, dirigenti pubblici e privati con anzianità e esperienza pre-gressa minima).

24. Predeterminare il procedimento di conferimento dell’incari-co, dando piena trasparenza sull’intera procedura: pubblicità

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da dare all’incarico, da adottarsi con atto motivato (durata e retribuzione), alla persona dell’incaricato (pubblicazione del curriculum vitae e della situazione patrimoniale).

c) I soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto professio-nale

25. Limitare preventivamente, per gli amministratori di enti pub-blici e Spa in controllo pubblico, la conferibilità dell’incarico, con l’esclusione di coloro che abbiano la proprietà o il controllo di imprese (in proprio o attraverso coniuge e stretti familiari) ovvero che abbiano svolto, nei tre anni precedenti, incarichi o cariche in imprese private che abbiano avuto o abbiano rappor-ti con l’ente o la società in controllo pubblico presso la quale debbono svolgere l’incarico; coloro che abbiano svolto, nei tre anni precedenti, cariche o incarichi pubblici elettivi o di carat-tere politico e fi duciario o siano stati, nei tre anni precedenti, candidati non eletti a cariche o incarichi pubblici elettivi, abbia-no ricoperto, nei tre anni precedenti, cariche direttive in partiti politici; abbiano ricoperto, nei tre anni precedenti, cariche sin-dacali nello stesso ente.

26. Predeterminare i requisiti e il procedimento per il conferimen-to dell’incarico: procedura selettiva aperta, con un bando, con la presentazione dei curricola, con la valutazione dei candidati anche mediante colloqui pubblici, da parte di commissioni di selezione composte da esperti e tecnici, con l’esclusione di rap-presentanti politici e sindacali (come per i concorsi pubblici); decisione fi nale degli organi politici.

Componenti degli organi delle Autorità amministrative indipen-denti

27. Rendere più vincolanti e sindacabili i requisiti di professionali-tà indispensabili per l’accesso alla carica.

28. Estendere i meccanismi di nomina a dinamica bipartisan (ad esempio, con il parere favorevole della maggioranza di due terzi dei componenti di un collegio rappresentativo). Prevedere un rinnovo parziale e progressivo degli incarichi.

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29. Assicurare la massima trasparenza e pubblicità alla procedura di nomina; consentire pubbliche candidature; pubblicazione dei curricoli dei candidati.

Magistrati onorari

30. Reclutare i giudici di pace mediante una procedura di abilita-zione di carattere nazionale, anche sulla base di test selettivi, seguita da un colloquio concorsuale in sede locale, ai fi ni della «responsabilizzazione» dei magistrati togati titolari dell’Uffi cio.

Magistrati amministrativi

31. Ridimensionare la quota di consiglieri di Stato di nomina go-vernativa (sempre che non si intenda eliminarla), assicurando in ogni caso una rigorosa verifi ca di professionalità specifi ca.

A.1.2. Escludere dalla carica in seguito all’insorgere del confl itto

Incompatibilità come causa che impedisce il permanere in carica in caso di confl itto sopravvenuto.

32. Differenziare per livelli di governo solo le cause di incompati-bilità. Una volta trasferite nell’incandidabilità le cause ostative all’accesso alla funzione, le incompatibilità resterebbero come segnale di un confl itto di interessi da disciplinare con la tra-sparenza nell’emersione degli interessi e con l’astensione dalla partecipazione alla procedura decisionale condizionata dal con-fl itto.

Parlamentari

33. Le cariche parlamentari, analogamente alle cariche di governo, dovrebbero richiedere una dedicazione esclusiva e dovrebbero essere incompatibili con ogni carica o uffi cio pubblico o privato, con l’esercizio di attività economiche, professionali, lavorative, salvo particolari e giustifi cabili deroghe.

34. Il giudizio delle Camere sulle cause di ineleggibilità ed incom-patibilità dovrebbe svolgersi secondo modalità capaci di assicu-rarne la trasparenza, l’obbiettività, l’imparzialità, la tempesti-

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vità, affi dando le funzioni istruttorie ad esperti indipendenti e consentendo la possibilità di un riesame delle decisioni per motivi di legittimità.

Membri del Governo

35. L’incompatibilità con le cariche di governo prevista dalla l. n. 215 del 2004 relativamente allo svolgimento di attività lavora-tive ed alla titolarità di cariche ed uffi ci, dovrebbe essere estesa al controllo di imprese che per dimensioni o natura possano comportare elevate possibilità di confl itto di interessi. La man-cata cessazione di attività incompatibili dovrebbe comportare la decadenza dalla carica di governo.

36. Introdurre sanzioni per l’inosservanza, da parte dei membri del Governo, del divieto di svolgere attività private incompatibili con la carica pubblica, sia a carico dell’interessato, sia a carico dell’impresa.

37. Il controllo sul rispetto delle cause di incompatibilità andrebbe affi dato a un organo estraneo alla sfera politica.

Amministratori regionali e locali

38. La carica di consigliere regionale, Presidente della Giunta regio-nale, assessore regionale, e quelle di Presidente della Provincia e di sindaco di grandi città dovrebbe richiedere una dedicazione esclusiva ed essere incompatibile con ogni altra attività, carica ed uffi cio, pubblico o privato.

Dipendenti pubblici

39. Stabilire l’incompatibilità tra rapporto di lavoro a tempo inde-terminato e lo svolgimento di attività, retribuite o no, presso imprese private o lo svolgimento in proprio di attività profes-sionali, se l’impresa o l’attività professionale è soggetta a rego-lazioni o contribuzioni economiche da parte dell’amministra-zione da cui il funzionario dipenda.

40. Rivedere con attenzione la compatibilità con lo svolgimento di incarichi politici o di incarichi di tipo fi duciario presso enti pubblici o società in controllo pubblico (in particolare le società controllate dall’amministrazione di appartenenza).

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Dirigenti

41. Individuare in senso più rigoroso (rispetto alla disciplina dei dipendenti) i casi di incompatibilità, rispetto agli interessi di tipo economico e alla politica.

42. Particolare attenzione alla nomina in enti e società di capitale controllati dall’amministrazione di appartenenza.

Soggetti con incarico fi duciario

43. Stabilire l’incompatibilità piena tra incarico amministrativo di vertice o di amministratore di ente o Spa in controllo pubblico con incarichi pubblici elettivi e con incarichi direttivi in partiti politici.

a) In particolare per la sanità

44. Stabilire una soglia minimale di durata del contratto del diret-tore generale al fi ne di garantire un tempo congruo per il conse-guimento degli obiettivi individuati al momento della nomina.

45. Limitare il numero degli incarichi di preposizione all’organo di direttore della stessa azienda sanitaria, al fi ne di realizzare un’opportuna rotazione degli incarichi.

46. Istituire un elenco nazionale di aspiranti alla carica di direttore generale tenuto ed aggiornato sulla scorta di valutazioni traspa-renti ed imparziali, al quale fare accedere chi è in possesso di specifi ci requisiti professionali e culturali.

47. Stabilire la non nominabilità a direttore generale per chi pro-viene da soggetti privati che abbiano (o abbiano avuto) una qualche relazione economica (contratti, convenzioni, strutture accreditate o convenzionate, ecc.) con l’Asl, ovvero con associa-zioni di categoria di imprese (ad es. farmaceutiche), di profes-sionisti (medici, infermieri, ecc.) o comunque rappresentative del personale dipendente e di chi svolge attività libero profes-sionale (si pensi a medici e pediatri di base) in favore dell’azien-da sanitaria.

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Componenti degli organi delle Autorità amministrative indipen-denti

48. Estendere le fattispecie di incompatibilità assoluta nel corso dell’incarico.

Magistrati onorari

49. Rivedere, nella direzione dell’irrigidimento, le ipotesi di in-compatibilità dei giudici di pace.

A.1.3. Gestire i confl itti potenziali nel mantenimento della carica/inca-rico

A.1.3.1. Individuare gli incarichi esterni compatibili con il mante-nimento della carica/incarico

Dipendenti pubblici

50. Mantenere, per tutti i dipendenti pubblici, il regime delle au-torizzazioni, affi date, però, ad organismi indipendenti rispetto alla stessa amministrazione e sulla base di una consolidata ca-sistica.

Dirigenti

51. Estendere ai dirigenti il regime speciale del conferimento degli incarichi fi ssato per i magistrati e per gli avvocati dello Stato: non più una generica possibilità per le amministrazioni di auto-rizzare gli «incarichi retribuiti», ma una disciplina che in posi-tivo individui gli incarichi consentiti e quelli vietati, fondata su un regime di predeterminazione dei casi di sicura incompatibi-lità e su un sistema di autorizzazione per i casi di minore rilievo (e impatto sulla posizione di imparzialità del dirigente).

Soggetti con incarico fi duciario

52. Predeterminare per i capi degli uffi ci di diretta collaborazione e per gli incarichi amministrativi di vertice, gli incarichi esterni che possono essere attribuiti nel corso dello svolgimento del-l’incarico. Da vietare incarichi presso imprese private che ab-

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biano rapporti con l’amministrazione, da limitare al massimo le autorizzazioni a svolgere altri incarichi.

Soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto professionale

53. Predeterminare gli incarichi conferibili a amministratori di enti pubblici e di Spa in controllo pubblico, con esclusione degli incarichi e delle cariche in imprese private che abbiano regolari rapporti con l’ente o con la Spa in cui si opera.

Magistrati amministrativi

54. Vietare ai magistrati (sia di primo grado che di appello) l’assun-zione di incarichi esterni suscettibili di incidere sull’indipen-denza e l’imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni.

55. Stabilire per legge limiti agli anni complessivi di fuori ruolo (ad es., non oltre il 25% dell’anzianità di carriera), prevedendo dei limiti particolari per la durata della posizione di fuori ruolo per l’assunzione dell’incarico di capo di uffi cio di diretta collabora-zione con organi di indirizzo politico.

56. Rivedere la disciplina di partecipazione di magistrati a collegi arbitrali, prevedendo il conferimento da parte dell’organo di autogoverno secondo criteri prestabiliti di rotazione, evitando così ogni designazione ad opera delle parti, sia pubbliche che private.

Magistrati ordinari

57. Semplifi care e irrigidire le regole in tema di assunzioni di inca-richi extragiudiziari, al fi ne di attenuare il clientelismo interno ed esterno alla magistratura, i rapporti preferenziali con centri politici ed economici, nonché il rischio morale connesso a re-munerazioni aggiuntive rispetto alla base stipendiale, ad esem-pio: – eliminando o riducendo l’ambito delle «autorizzazioni» del CSM (e degli altri organi di autogoverno) attraverso la pre-visione di categorie di attività liberamente assumibili (lezioni, conferenze, collaborazioni scientifi che o editoriali) e attività sempre vietate; – istituendo un albo dal quale possano attin-gere, per tempi predeterminati ed a rotazione, con eventuale sorteggio, le Amministrazioni interessate ad impiegare magi-

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strati fuori ruolo di diversa anzianità ed esperienza previamen-te dichiarata ed accertata (ad es. per le posizioni nel Ministero della Giustizia, negli altri ministeri, presso commissioni parla-mentari); – prevedendo che le remunerazioni ulteriori rispetto alla base stipendiale (ad eccezione dei rimborsi di spese vive e diritti d’autore) siano riversate in apposito fondo da ripartirsi tra tutti i magistrati.

A.1.3.2. Disciplinare in modo rigoroso i doveri di dichiarazione e astensione in caso di confl itto di interessi che, per qualità e dimensioni, può pregiudicare l’imparzialità di una decisione, ma non comporta il mancato accesso o la rimozione dalla carica.

58. Rivedere tutte le discipline sullo status dei funzionari pubbli-ci al fi ne di introdurre una specifi ca e rigorosa disciplina dei doveri di dichiarazione e di astensione in caso di confl itto di interessi.

Doveri di dichiarazione59. Imporre, per legge, il dovere di dichiarare sistematicamente i

propri interessi, a tutti i funzionari, elettivi come professionali, quale che sia la natura delle funzioni affi date.

60. Fissare a livello nazionale linee-guida generali per l’individua-zione dei dati sensibili oggetto della dichiarazione (cariche ed uffi ci, pubblici e privati, redditi, patrimoni, professioni, attività economiche, interessi, ecc.), nel rispetto dei criteri di necessità, di precauzione, di proporzionalità, di effettiva utilizzabilità e comprensibilità; tali linee guida dovrebbero assicurare la coe-renza d’insieme dei regimi, la garanzia di standard inderogabili di trasparenza e di privacy; la comparabilità dei dati.

61. Prevedere per le violazioni più gravi del dovere di dichiarazio-ne, sanzioni severe, comprendenti la decadenza dalla carica.

62. Affi dare la gestione delle dichiarazioni, nell’ambito di ciascun ordinamento, ad uffi ci dotati della necessaria indipendenza.

63. Assicurare la pubblicità delle dichiarazioni, a cura dell’organo gestore, in forme che ne assicurino l’effettiva conoscibilità (siti

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internet delle amministrazioni). Le deroghe devono essere mo-tivate.

Parlamentari

64. I doveri di trasparenza dei membri del Parlamento dovrebbero essere riformulati in modo unitario riguardando redditi e patri-moni personali e dei familiari, cariche, uffi ci e funzioni.

Membri del Governo

65. Le dichiarazioni relative alle situazioni patrimoniali rese dai titolari di cariche di governo all’Agcm dovrebbero obbligato-riamente comprendere i dati dei familiari e dovrebbero essere rese pubbliche.

66. Correggere la legge n. 215/2004 nella parte in cui richiede la presenza di uno specifi co danno per l’interesse pubblico; è suffi -ciente il confl itto in sé; i procedimenti di accertamento del con-fl itto da parte dell’Agcm e gli esiti delle istruttorie dovrebbero essere resi pubblici.

67. Il controllo sui confl itti di interesse svolto ex post dall’Agcm non esclude la necessità di allestire, all’interno della Presiden-za del consiglio, organi e procedure atte a prevenire i confl itti ed a dare evidenza alle situazioni di confl itto anche solo poten-ziale tra interessi personali ed uffi cio.

Amministratori regionali e locali

68. Ogni ente territoriale politico, senza eccezioni, dovrebbe isti-tuire e regolamentare, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, un registro pubblico unico contenente i dati re-lativi ai redditi e patrimoni personali e familiari, impieghi ed attività lavorative, cariche ed uffi ci, attività professionali e di lavoro autonomo dei propri amministratori.

Magistrati ordinari

69. Rendere effettiva – con normativa da estendersi a tutte le ma-gistrature – la trasparenza delle situazioni patrimoniali, attual-mente attuata nei soli confronti dell’autogoverno, imponendo

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se del caso, con revisione degli attuali criteri in tema di privacy, la dichiarazione anche delle attività e dei patrimoni dei prossi-mi congiunti.

Doveri di astensione70. Precisare, sul piano normativo, che il dovere di astensione sus-

siste anche laddove particolari status escludano la responsabi-lità per i voti dati nell’esercizio delle funzioni (parlamentari, consiglieri regionali), e che esso investe anche le funzioni affi -date agli organi politici.

71. Precisare che il dovere riguarda l’intera vicenda amministrativa legata alla decisione assunta in confl itto, al dovere di astensio-ne deve corrispondere un diritto di ricusazione, il dovere deve essere accompagnato non solo dalla nullità degli atti compiuti, ma anche da sanzioni disciplinari, fi no alla decadenza nei casi più gravi.

Parlamentari

72. I regolamenti parlamentari dovrebbero prescrivere a carico dei membri delle Camere un generale dovere, analogo a quello vi-gente per i membri del Governo, di astensione dalla partecipa-zione all’adozione di atti che abbiano un’incidenza specifi ca e preferenziale sul patrimonio e gli interessi propri, dei familiari e delle imprese controllate.

Membri del Governo

73. Rafforzare il dovere di astensione da parte dei membri del go-verno: la violazione dovrebbe comportare la decadenza dalla carica o le dimissioni.

Amministratori regionali e locali

74. Le Regioni e le Province autonome, nei rispettivi ordinamenti, dovrebbero disporre a carico dei propri amministratori un ge-nerale obbligo di astensione analogo a quello prescritto per gli amministratori locali dall’art. 78 Tuel.

75. I codici etici delle Regioni e degli enti locali dovrebbero pre-

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scrivere doveri di astensione anche nelle situazioni in cui, pur in difetto di un interesse diretto e preferenziale, si possa sospet-tare la possibilità di un condizionamento da parte di interessi personali e familiari.

Dirigenti

76. Rafforzare per i dirigenti i doveri di dichiarazione e di astensio-ne: salva l’individuazione di doveri più specifi ci, dichiarazione del proprio stato patrimoniale e degli interessi economici (pro-pri e dei familiari stretti); di separazione dalla cura diretta dei propri interessi; di astensione, in ogni fase del procedimento, a partire dalla constatazione del confl itto di interessi.

A.2. Fissare durate accettabili delle cariche/incarichi pubblici; re-sponsabilizzare gli attori pubblici, stabilendo con maggiore chia-rezza e rigore doveri e condotte accettabili.

A.2.1. Rivedere la durata delle cariche/incarichi

Organi politici

77. In via generale vanno riviste le durate delle cariche politiche elettive, la reiterabilità dei mandati e il cumulo tra mandati elettivi diversi, per esempio estendendo a tutte le cariche poli-tiche il limite del doppio mandato, al fi ne di non mantenere in carica per tempi eccessivamente lunghi persone che potrebbero rappresentare in modo stabile interessi particolari e diversi dal-l’interesse generale.

Dirigenti

78. Predeterminare la durata dell’incarico dirigenziale a carattere professionale e non fi duciario, che, in ogni caso, deve essere superiore al mandato dell’organo politico nominante.

79. Rivedere la disciplina delle conferme e delle revoche anticipa-te dall’incarico dirigenziale, con esclusione del relativo potere nel caso di mancata formulazione preventiva e per tempo degli obiettivi. La non conferma «secca» adeguatamente motivata

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soprattutto in caso di valutazione negativa per mancato rag-giungimento degli obiettivi. La revoca anticipata fondata su una valutazione negativa sulla stessa possibilità di raggiungere i risultati, ma anche per gravi ineffi cienze, per gravi irregolarità della gestione, per gravi violazioni delle regole sulle incompati-bilità e sui confl itti di interesse, e solo con atto motivato (e con garanzie di contraddittorio per l’interessato).

Componenti degli organi delle Autorità amministrative indipen-denti

80. Fissare una durata lunga dell’incarico (almeno sette anni), da considerarsi non rinnovabile.

Magistrati amministrativi

81. Per i Presidenti di TAR, introdurre per legge limiti tempora-li alla permanenza nella medesima sede (tenendo anche conto delle dimensioni degli uffi ci giudiziari).

A.2.2. Predeterminare i doveri giuridici di comportamento as-sistiti da forme di effettiva responsabilità per tutti i funzionari pubblici82. Stabilire con legge in via generale, in diretta applicazione dei

principi di disciplina e onore dell’articolo 54 Cost., l’estensione a tutti i funzionari pubblici, comprendenti anche i funzionari onorari, degli stessi doveri di comportamento, in servizio e fuo-ri servizio, fi ssati per i funzionari professionali.

Titolari di organi politici

83. Introdurre norme di comportamento a tutela dell’indipenden-za del personale politico dagli interessi privati.

84. Migliorare il livello di trasparenza dei titolari di organi politici, sia in ordine agli interessi fi nanziari, sia in ordine all’attività relativa allo svolgimento del mandato.

Soggetti con incarico fi duciario

85. Disciplinare con legge in via generale, in diretta applicazione

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dei principi di disciplina e onore dell’articolo 54 Cost., l’esten-sione ai funzionari «fi duciari», abbiano essi lo status di funzio-nari professionali o di funzionari onorari, gli stessi doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio, fi ssati per i funzio-nari professionali (per i dirigenti).

Dipendenti

86. Rivedere il catalogo dei doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio; individuare i doveri da fi ssare con disposizioni normative (di legge o di legge e contratto collettivo), che danno luogo a precise ipotesi di responsabilità disciplinare, da distin-guere dalle fattispecie di reato penale.

Dirigenti87. Applicare con maggiore rigore per i dirigenti le regole valide

per i dipendenti quanto ai doveri di comportamento, in servizio e fuori servizio.

Componenti degli organi delle autorità amministrative indipen-denti

88. Rendere obbligatoria l’adozione di codici di comportamento giuridicamente vincolanti ed assistiti da sanzioni per i compo-nenti delle autorithies.

A.2.3. Promuovere l’adozione da parte dei diversi corpi di funzio-nari pubblici di Codici etici come misura preventiva89. In via generale promuovere ed estendere l’uso di codici etici e

di condotta, privi di sanzioni giuridiche, ma dotati di sanzioni effi caci da parte del gruppo di appartenenza: codici delle am-ministrazioni, ma anche codici che vincolano appartenenti alla medesima categoria di funzionari pubblici.

Organi politici

90. Le Camere dovrebbero dotarsi di appositi codici etici, che pre-vedano l’invito ai parlamentari ad astenersi dal partecipare all’adozione di atti che possano anche solo potenzialmente ap-parire in confl itto di interessi, richiedendo in ogni caso che la

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situazione di rilevante interesse sia segnalata e resa pubblica tempestivamente nell’ambito del procedimento.

91. Il Governo, in analogia a quanto realizzato nell’ordinamento di altri Paesi, e come oggetto di una specifi ca raccomandazione (XV) del Rapporto GRECO (2009) sull’Italia, dovrebbe do-tarsi di un codice etico riguardante la condotta dei titolari di cariche di governo.

92. Ciascuna Regione e Provincia autonoma dovrebbe delibera-re un proprio codice etico, in conformità a linee-guida fi ssate dalla Conferenza Stato-Regioni, sentita la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche.

93. Comuni e Province dovrebbero deliberare e pubblicare propri codici etici, in conformità a disposizioni di legge emanate ai sensi dell’art. 117, c.2, lett. p). Cost., sentite l’Anci, l’Upi e la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche.

Soggetti con incarico fi duciario

94. Per gli uffi ci di diretta collaborazione e per gli incarichi am-ministrativi di vertice, promuovere l’adozione di codici etici (sull’esempio dei codici di condotta britannici per gli special advisors), rimessi all’applicazione degli stessi interessati e degli organi politici.

95. Per i soggetti con incarico fi duciario professionale, predetermi-nare i doveri di comportamento, con l’adozione di codici etici, la cui violazione possa dare luogo a provvedimenti di rimozio-ne anticipata dall’incarico.

Funzionari professionali

96. Individuare, per dipendenti e dirigenti pubblici, i doveri di ca-rattere solo etico, rimessi alla valutazione di organismi costitui-ti tra gli stessi dipendenti pubblici.

502

A.2.4. Estendere a tutti i funzionari pubblici l’obbligo del giura-mento97. I membri del Parlamento, nell’accedere alla carica dovrebbero

prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica e di esercitare il proprio mandato nell’esclusivo interesse generale. Formula possibile:

«Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne leal-mente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione».

98. L’obbligo di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica ri-chiesto ai Sindaci, ai Presidenti delle Province ed ai consiglie-ri delle Regioni differenziate dovrebbe essere esteso a tutti gli amministratori.

99. Prevedere il giuramento di tutti i funzionari pubblici dinanzi al vertice dell’amministrazione o istituzione. Formula possibile:

«Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne leal-mente la Costituzione e le leggi, e di esercitare le funzioni a me affi date nell’interesse esclusivo della Nazione e nel rispet-to dei doveri di disciplina, onore e imparzialità».

A.3. Limitare rigorosamente il fenomeno del «pantoufl age»100. Introdurre in via generale il principio di un «periodo di raffred-

damento» tra la cessazione dello svolgimento della funzione pubblica e l’assunzione di incarichi (pubblici, ma soprattutto privati) che facciano ipotizzare un improprio condizionamen-to nel precedente esercizio della funzione. Il principio riguar-da tutti i funzionari pubblici.

101. Porre particolare attenzione all’assunzione di incarichi pres-so imprese private qualora queste imprese abbiano avuto o abbiano rapporti particolarmente stretti con l’amministrazio-ne di provenienza (affi datarie di servizi pubblici, di contratti pubblici, concessionarie di beni o utilità pubbliche).

102. Rinviare la fi ssazione dei periodi di raffreddamento a disci-pline particolari, pubblicistiche, adottate dalle singole ammi-nistrazioni, al fi ne di graduare la misura all’importanza delle funzioni svolte.

503

103. Disciplinare, con la previsione di adeguati periodi di raffred-damento, il rientro nell’amministrazione di funzionari che abbiano svolto incarichi, soprattutto di natura politica, ma anche nel settore privato, che possano fare dubitare dell’im-parzialità nell’esercizio delle funzioni pubbliche affi date.

Parlamentari

104. Per un biennio dal termine del mandato dovrebbe essere pre-cluso agli ex parlamentari l’accesso a determinate cariche ed uffi ci.

Membri del Governo

105. I limiti post-mandato previsti a carico dei membri del Go-verno dovrebbero essere riordinati e rafforzati, anche sotto il profi lo sanzionatorio e della durata temporale (perlomeno biennale) in modo da assicurare un effettivo raffreddamento nel passaggio da cariche governative a nuove cariche ed uffi ci pubblici o privati.

Amministratori regionali e locali

106. Appare essenziale introdurre rigorosi divieti post-mandato, di durata almeno biennale, al fi ne di scoraggiare scambi corrotti e di frenare comunque il pantoufl age.

Funzionari professionali

107. Vietare al dipendente pubblico, per un anno successivo dal-la cessazione dal servizio, di assumere incarichi in imprese private sottoposte a poteri di regolazione o di contribuzione economica da parte del settore dell’amministrazione in cui il dipendente ha prestato servizio negli ultimi tre anni.

Dirigenti

108. Ampliare congruamente (tre anni) per i dirigenti il periodo di raffreddamento che abbiamo indicato in un anno per la gene-ralità dei dipendenti per l’assunzione di incarichi successivi al termine dì svolgimento della funzione.

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Soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto professionale

109. Estendere al direttore generale delle Asl, per un circoscrit-to periodo successivo al termine del suo mandato (da 1 a 3 anni), le limitazioni all’autonomia negoziale già previste in vigenza del contratto di lavoro con l’azienda relativamente a consulenze, collaborazioni, rapporti di lavoro e professionali a favore dei soggetti privati che abbiano avuto stretti rapporti con l’azienda.

A.4. Estendere la concorrenza come misura preventiva110. Favorire condizioni di effettiva concorrenza nei processi di al-

locazione dei benefi ci che derivano dall’azione dello Stato.

A.5. Applicare il principio di trasparenza111. Assicurare e promuovere ad ogni livello, anche mediante l’uti-

lizzo di strumenti informatici, la massima trasparenza nell’or-ganizzazione e nell’azione pubblica, in particolare nelle «aree sensibili» al rischio corruzione (attività contrattuale, pianifi -cazione urbanistica e territoriale, procedure concorsuali, ecc.), non solo per quanto attiene agli aspetti procedurali, ma anche nella giustifi cazione delle ragioni e nella valutazione degli esiti conseguiti dall’intervento pubblico. La trasparenza come misura accessoria alle misure di tipo preventivo.

A.6. Retribuire adeguatamente i funzionari pubblici112. Evitare quanto più possibile retribuzioni basse ai funzionari

pubblici, che da sempre costituiscono il più forte incentivo alla corruzione.

A.7. Ridurre l’eccessiva discrezionalità delle decisioni pubbliche113. Ridurre i casi di eccessiva e immotivata discrezionalità nelle

scelte; laddove la discrezionalità sia necessaria sottoporre le relative decisioni ad adeguati controlli di prodotto.

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A.8. Misure preventive nel settore dell’ urbanistica114. Distinguere nettamente tra accordi nella determinazione dei

contenuti dei piani urbanistici e accordi per l’attuazione delle previsioni di piano.

115. Gli accordi per la determinazione dei contenuti dei piani ur-banistici («contratti urbanistici», rientranti nella categoria dei contratti di diritto pubblico) dovrebbero essere disciplina-ti con legge statale.

116. Aggravare il procedimento in caso di accordi urbanistici (non in materia di opere pubbliche) in deroga alle previsioni dei piani urbanistici. Eventuali accordi in deroga dovrebbero es-sere oggetto di procedure speciali.

117. Disciplinare il procedimento degli accordi oltre quanto previ-sto dall’art. 11, commi 1-bis e 4-bis, della l. n. 241/90 discipli-nando la presentazione delle proposte.

118. Rafforzare l’autonoma capacità di pianifi cazione e di nego-ziazione dei Comuni, anche attraverso forme specifi che di assistenza tecnica (della Regione, della Provincia) in sede di negoziazione degli accordi, sia di pianifi cazione che attuativi.

A.9. Misure preventive nel settore dei contratti pubbliciPer le procedure di evidenza pubblica per l’aggiudicazione di for-niture, lavori e servizi (resi all’amministrazione):

119. Aumentare la vigilanza sui bandi (pareri obbligatori dell’Au-torità).

120. Imporre una maggiore rigidità nel pretendere un’effettiva qualifi cazione delle imprese.

121. Sottoporre ad uno speciale regime di controlli successivi e di trasparenza tutte le procedure ad evidenza pubblica. La mag-giore discrezionalità lasciata alle amministrazioni in attuazio-ne dell’ordinamento comunitario va compensata da una mag-giore responsabilità, delle amministrazioni e dei funzionari che adottano le decisioni.

122. Utilizzare al massimo le centrali di committenza.

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123. Concentrare l’attenzione delle amministrazioni nella gestione dei contratti, con poteri di controllo effettivi sull’esecuzione del contratto, con la massima trasparenza sull’esercizio di questi poteri, con controlli sulle attività di gestione del con-tratto.

A.10. Misure preventive nel settore della sanità124. Generalizzare, rendendola obbligatoria, la creazione di cen-

trali di committenza, consentendo il maturare in essa di una specializzazione nelle procedure di acquisizione dei beni e ser-vizi, le rende capaci di opporsi, grazie alle competenze posse-dute, ad indebite pressioni.

A.11. Misure preventive nel settore dei servizi pubblici (locali)125. Migliorare la capacità di gestire le gare, ad esempio preveden-

do durate non troppo lunghe dei contratti (il collegamento con gli investimenti è per lo più un falso problema); se la pro-cedura di gara si svolge ad un livello sovra comunale questo agevola di per sé la possibilità di creare organizzazioni dotate delle necessarie competenze.

126. Garantire l’effettività dell’applicazione del Codice appalti da parte delle società in house e delle società miste pubblico-pri-vato, indipendentemente in questo secondo caso dalla quota di partecipazione pubblica. La disciplina più recente aiuta in tal senso, ma le vie di elusione sono molteplici. Non si tratta di migliorare la legislazione, ma la sua concreta applicazione.

127. Garantire la corretta utilizzazione della società mista, com-battendo la tentazione di: a) continuare ad acquisire più che altro soci fi nanziari; b) ampliare in corso di rapporto l’ogget-to della società; c) prorogare la durata senza ripetere la gara; combattendo l’uso opportunistico/clientelare delle società in genere. Anche qui, non si tratta di migliorare la legislazione ma la sua concreta applicazione.

128. Assicurare la massima trasparenza possibile: sui bilanci delle società e sui rapporti tra l’ente locale e la società di gestione. Dovrebbe essere conosciuto l’intero contratto di servizio.

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B) Fare emergere i casi di corruzione

B.1. Sul piano oggettivo, delle azioni delle istituzioni e ammini-strazioni pubbliche.

B.1.1. Controlli esterni129. Attivare o rafforzare controlli orientati al prodotto e non al-

l’adempimento procedurale, in grado di evidenziare decisioni in contrasto con l’interesse pubblico.

130. Stabilire, in via generale, che tutti i controlli (di legalità/rego-larità, di funzionalità, contabili) possono contribuire ad evi-denziare fenomeni di corruzione e di maladministration.

131. Introdurre, per tutte le amministrazioni pubbliche, controlli esterni, successivi, a campione, non collaborativi; se già esi-stenti, fi nalizzare tali controlli anche all’individuazione e se-gnalazione di fenomeni corruttivi e di amministrazione non imparziale.

132. Finalizzare tali controlli all’interesse generale alla legalità e imparzialità dell’azione delle amministrazioni, escludendo ogni utilizzazione a fi ni di imposizione di indirizzi politici di autorità esterne o di diverso livello di governo (no ai controlli conformativi).

133. Svolgere i controlli solo successivamente alla vicenda ammini-strativa in esame, a campione, o casuale o fondato su notizie o segnalazioni (provenienti dall’interno dell’amministrazione, vedi i whistleblowers, ovvero dall’esterno, come le notizie di stampa).

134. Svolgere i controlli nell’interesse generale alla legalità del-l’azione amministrativa e alla cura dell’interesse pubblico, non impropriamente condizionato da interessi particolari.

135. Fermo restando che i controlli gestionali si esercitano essen-zialmente sui rischi di complessivo squilibrio economico-fi -nanziario, privilegiare maggiormente, nelle analisi settoriali, la valutazione e il monitoraggio di sintomi che l’esperienza lega alla possibile presenza di illeciti (ripetitività delle aggiu-dicazioni, costosa programmazione di opere non strettamente necessarie o destinate all’obsolescenza etc.).

508

B.1.2. Controlli interni (enti locali)136. Promuovere l’autonoma defi nizione dei parametri di legalità,

premessa indispensabile di ogni verifi ca successiva, valoriz-zando l’autonomia normativa degli enti locali (il regolamento dei contratti, il regolamento di contabilità (compresa la parte relativa al controllo di gestione), le norme per la concessione di contributi o sussidi ex art. 12/241).

137. Garantire l’effettiva indipendenza degli organismi di valuta-zione nominati presso gli enti locali.

138. Rinviare alla disciplina autonoma la regolazione dei controlli interni nel quadro di una legislazione statale inderogabile per le norme di principio (soggetti e procedimenti di ogni fase del controllo interno) e cedevole per le parti di dettaglio.

139. Affi dare ai Consigli regionali delle autonomie locali il compi-to di acquisire i regolamenti comunali e provinciali in materia di controlli interni, verifi candone l’adeguatezza, le lacune, le incongruenze.

140. Confermare e rafforzare i compiti di garanzia del segretario comunale e provinciale (di collaborazione e di assistenza giu-ridico – amministrativa nei confronti degli organi dell’ente locale in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti).

141. Conferire con chiarezza natura collaborativa e autocorrettiva delle verifi che del segretario sugli atti e sulle attività, successi-ve alle decisioni amministrative assunte dai dirigenti.

142. Affi dare alle fonti locali la predeterminazione dell’ampiezza dei poteri di verifi ca del segretario.

143. Indirizzare i referti in esito alle verifi che non solo agli organi politici di vertice dell’ente e, in particolare, al Sindaco/Presi-dente della Provincia responsabile in ordine al conferimento degli incarichi dirigenziali, ma anche agli stessi dirigenti e re-sponsabili dei servizi.

B.1.3. Trasparenza144. Precisare gli obblighi di pubblicità su quegli aspetti dell’or-

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ganizzazione e dell’azione amministrativa che sono in grado di attivare, attraverso il «controllo diffuso dei cittadini», la responsabilità, in sede di indirizzo e di controllo sui risultati, degli organi politici.

145. Precisare i contenuti del «Programma triennale per la tra-sparenza e l’integrità», che dovrebbe riguardare, tra l’altro, non solo il regime delle limitazioni all’accesso alla funzione, delle incompatibilità e dei confl itti di interesse che possono insorgere nello svolgimento della funzione, dei doveri che in-combono sui funzionari (ai vari livelli e per le diverse attività svolte), ma anche i controlli e le verifi che attivate non più in rapporto alla prestazione lavorativa (la performance), ma allo svolgimento imparziale delle funzioni affi date.

146. Utilizzare in modo più consapevole e mirato lo strumento del coordinamento informativo di cui all’art. 117, c. 2, lett. r), Cost. per individuare, con legge e con altri atti normativi statali, quali informazioni (nella disponibilità delle ammi-nistrazioni) si ritengono utili per costituire e mantenere nel tempo una conoscenza del fenomeno completa, aggiornata, consistente ed omogenea sul territorio nazionale.

147. Non puntare, ai fi ni della trasparenza, sul solo strumento del-la pubblicità. Resta necessaria una riforma delle regole sul-l’accesso, nella direzione di un ampliamento sia sul versante della legittimazione soggettiva, che su quello dei documenti accessibili.

148. Rafforzare la vigilanza sul comportamento delle amministra-zioni in relazione all’esercizio dei loro doveri in connessione all’esercizio del diritto di accesso.

149. Dare pubblicità all’esito dei controlli. Destinatari del control-lo sono: a) le stesse amministrazioni, in particolare gli organi di indirizzo politico e vigilanza (le commissioni assembleari di garanzia, presiedute da esponenti delle minoranze), per-ché adottino le misure necessarie per correggere il cattivo funzionamento dell’amministrazione; b) il giudice della re-sponsabilità amministrativa e contabile, per l’accertamento di violazioni di legge e l’irrogazione delle sanzioni; c) il giudice penale, per l’accertamento e la repressione dei reati.

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150. Sottoporre l’intera procedura di negoziazione degli accordi nel settore dell’urbanistica a specifi che misure di trasparenza, pubblicando tutti i documenti e consentendo l’accesso ad essi ad ogni cittadino interessato, in rapporto alle diverse fasi del-la negoziazione, prima della decisione fi nale.

151. Sottoporre ad uno speciale regime di controlli successivi e di trasparenza tutte le procedure ad evidenza pubblica. La mag-giore discrezionalità lasciata alle amministrazioni in attuazio-ne dell’ordinamento comunitario va compensata da una mag-giore responsabilità, delle amministrazioni e dei funzionari che adottano le decisioni.

B.2. Sul piano soggettivo, dei comportamenti dei funzionari pub-blici:152. Introdurre elementi di «sfi ducia» per rompere il patto implici-

to di solidarietà tra corrotto e corruttore, con adeguate misure che investono sia la sfera della repressione penale che quella delle pubbliche amministrazioni, ad esempio predisponendo strumenti premiali per chi si dissocia dalle pratiche corrutti-ve.

153. Prevedere una diminuzione di pena notevole in analogia con la circostanza prevista in materia di stupefacenti (contributo di notevole importanza per la scoperta e l’interruzione del-le attività criminose). Applicare un’ulteriore diminuzione di pena a chi sceglie di collaborare, secondo la disciplina attuale applicata ai collaboratori di giustizia.

154. Assicurare la protezione e fornire incentivi a chi denuncia in buona fede l’altrui corruzione (il whistleblower).

155. Introdurre una generale defi nizione di whistleblowing:«La rivelazione di fatti che possono integrare la fattispecie

astratta del reato di corruzione, fatta di propria iniziativa ed in forma non anonima da un soggetto appartenente ad una determi-nata organizzazione (inside whistleblowing), privata o pubblica, alle competenti autorità esterne a tale organizzazione (external whistleblowing), anche in mancanza di un’espressa autorizzazione in tal senso da parte della prima (unauthorized whistleblowing),

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in quanto si tratti di fatti che presentano un momento di collega-mento con l’attività dell’organizzazione».

156. Nelle pubbliche amministrazioni escludere dalla responsabi-lità disciplinare (per violazione del dovere di fedeltà e con-fi denzialità), ma anche da ogni conseguenza sulla carriera e sull’attribuzione di incarichi, i dipendenti pubblici che hanno fondati motivi per sospettare fenomeni di corruzione e che riportano in buona fede i loro sospetti alle persone e alle au-torità responsabili.

157. Nel settore privato modifi care l’art. 15 dello Statuto dei la-voratori nonché gli articoli 4 della legge 604/1966 e 3 della legge 108/1990, al fi ne di prevedere in modo espresso la nul-lità degli atti e del licenziamento discriminatorio in danno del dipendente che riveli, alle stesse condizioni (fondati motivi e buona fede) fatti corruttivi.

C) Colpire con continuità la corruzione

C.1. Azione penale158. Riunire in una sola previsione tutte le attuali fi gure di reati

‹‹corruttivi››, mantenendo le distinzioni vigenti solo ai fi ni della graduazione della sanzione da irrogare.

159. Ridefi nire una fi gura unica di pubblico uffi ciale, ispirandosi alle convenzioni internazionali (specie a quella dell’ONU, recepita con legge dall’Italia). In tal modo scompare la distin-zione tra pubblico uffi ciale e incaricato di pubblico servizio. Possibile defi nizione:

«Agli effetti della legge penale sono pubblici funzionari coloro i quali svolgono direttamente o contribuiscono allo svolgimento di pubbliche funzioni, normative, giurisdizionali, amministrative. A tal fi ne sono pubblici funzionari i titolari di organi di indirizzo e i loro collaboratori, i titolari di incarico di coordinamento gene-rale, i dirigenti e i dipendenti che operano presso gli organi dello Stato, presso le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, co. 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ovvero presso enti e socie-tà di diritto privato controllate da pubbliche amministrazioni e

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comunque esercenti funzioni pubbliche, attività di servizio pub-blico o fi nalizzate all’interesse pubblico».

160. Prevedere che le sanzioni penali siano aggravate nel caso di reato connesso a funzioni autoritative.

161. Prevedere ipotesi di reato analoghe anche per i privati in am-bito privato (artt. 21 e 22 Convenzione ONU). Possibile defi -nizione:

«1. Chiunque promette, offre o concede, direttamente o indi-rettamente, un indebito vantaggio ad ogni persona che diriga un ente di diritto privato o lavori per tale ente, a qualunque titolo, per la suddetta o per un’altra persona, affi nché, in violazione dei propri doveri, essa compia o si astenga dal compiere un atto, ar-recando danno all’ente o a terzi, è punito…

2. Alla stessa pena è soggetta qualunque persona che, dirigendo un ente di diritto privato o lavorando per tale ente, a qualunque titolo, solleciti od accetti, direttamente o indirettamente, per sé o per altri, un indebito vantaggio al fi ne di compiere o di astenersi dal compiere un atto, in violazione dei propri doveri, arrecando danno all’ente o a terzi.

3. Alla stessa pena è soggetta altresì qualunque persona che, svolgendo le attività indicate ai commi 1 e 2, sottrae beni, fondi o valori, o comunque ogni altra cosa di valore che sia stata a lei affi data in virtù delle sue funzioni».

162. Introdurre il reato di «traffi co di infl uenze», ispirandosi al-l’art. 18 della Convenzione dell’Onu. Possibile defi nizione:

«1. Chiunque promette, offre o consegna ad un pubblico fun-zionario o a qualsiasi altra persona, direttamente o indirettamen-te, un vantaggio indebito affi nché il pubblico funzionario o la persona abusi della sua infl uenza reale o supposta con lo scopo di ottenere indebitamente da un’autorità o da un’amministrazione pubblica, per l’istigatore originario dell’atto o per qualsiasi altra persona, riconoscimenti, impieghi, contratti o ogni altra decisio-ne favorevole è punito…

2. È punito altresì il pubblico funzionario o qualsiasi altra per-sona che sollecita o accetta, direttamente o indirettamente, un vantaggio indebito per se stesso o per altra persona affi nché il

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pubblico funzionario o la persona abusi della sua infl uenza reale o supposta con lo scopo di ottenere indebitamente da un’autorità o da un’amministrazione pubblica a favore di qualsiasi persona riconoscimenti, impieghi, contratti o ogni altra decisione favore-vole.

3. Se le condotte di cui ai commi 1 e 2 sono messe in atto da un pubblico funzionario, la pena è aumentata…

4. Se le condotte sono messe in atto in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali, la pena è aumentata da un terzo alla metà».

163. Aumentare i termini massimi di durata della misura cautela-re interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico impiego o servizio, portandoli fi no al doppio di quelli previsti per la custodia cautelare. (art. 308, co. 1, c.p.p.).

164. Ridefi nire le pene accessorie in generale (o almeno dell’inter-dizione dai pubblici uffi ci) come sanzioni amministrative.

165. Parifi care la disciplina (applicabilità) dell’interdizione dai pubblici uffi ci a quella delle sanzioni amministrative già esi-stenti (sospensione della patente di guida), aumentandone notevolmente i termini di durata, collegati alla gravità della condotta e delle conseguenze, e non più soltanto alla durata della pena principale.

166. Prevedere una diversa struttura delle circostanze del reato a) collegando un aggravamento di pena superiore a quello stan-dard di un terzo (circostanza ad effetto speciale) all’impor-tanza dell’interesse leso e alla gravità della condotta, nonché, per il pubblico uffi ciale, alla qualità rivestita e b) concedendo una diminuzione di pena notevole in analogia con la circo-stanza prevista in materia di stupefacenti (contributo di note-vole importanza per la scoperta e l’interruzione delle attività criminose). Applicare un’ulteriore diminuzione di pena a chi sceglie di collaborare, secondo la disciplina attuale applicata ai collaboratori di giustizia. Mantenere l’attuale formulazione dell’articolo 321 c.p., la cui effi cacia sarebbe però condiziona-ta dal regime delle circostanze.

167. Ampliare l’applicazione della normativa anti-mafi a (confi sca del denaro e dei beni dalla provenienza non giustifi cata, pu-

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nibilità del fraudolento trasferimento dei valori, applicabili-tà dell’aggravante speciale di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991) anche ai delitti in materia di incanti (artt. 353 e 354 c.p.), prevedendo contemporaneamente un apprezzabile aumento della pena edittale.

168. Prevedere ipotesi di ineleggibilità o di incandidabilità (scelta preferibile) al Parlamento o negli enti locali (o nelle entità ad essi riferibili) nel caso di condanna per i delitti ‹‹ corruttivi ›› (compresi quelli degli artt. 353 e 354).

169. Prevedere un congruo aumento del periodo di prescrizione per questi reati, e l’inapplicabilità agli stessi degli eventuali limiti alle intercettazioni telefoniche, informatiche ed ambientali.

C.2. Giurisdizione contabile170. Relativamente ai legami tra giurisdizione contabile ed azione

penale, intensifi care, per quanto possibile, l’esame delle fatti-specie dolose, al di là del c.d. dolo contrattuale.

171. In materia di danno all’immagine, abrogare o modifi care l’art. 17, co. 30-ter, della legge n. 102 del 2009, quantomeno riconoscendo, pur nell’obbligatorietà di un previo giudizio pe-nale, la perseguibilità del danno all’immagine in assenza non soltanto di un danno patrimoniale ma anche di una condanna penale.

172. Abrogare o modifi care profondamente la norma che oggi con-sente ai (soli) condannati in primo grado di ottenere prima della discussione dell’appello uno «sconto» ingente sull’en-tità della condanna, ma a prescindere dalle correzioni che il giudice di secondo grado può successivamente apportare alla quantifi cazione del danno ed alle percentuali di causalità.

173. Ovviare defi nitivamente alle perduranti diffi coltà di riscossio-ne delle condanne irrogate.

C.3. Azione disciplinareQuanto alla repressione nelle pubbliche amministrazioni, si

tratta di attivare un’effettiva e effi cace responsabilità disciplinare

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che colpisca i comportamenti illegittimi dei funzionari pubblici di maggiore gravità rispetto alle previsioni dei codici etici e diversi da quelli sanzionati penalmente.

Funzionari professionali

174. Rafforzare, sotto il profi lo della violazione dei doveri attinenti all’imparzialità nell’esercizio della funzione, i procedimenti di attivazione della responsabilità disciplinare, oggi previsti soprattutto a garanzia della prestazione lavorativa.

175. Rafforzare l’obbligatorietà dell’azione disciplinare e consoli-dare la recente disciplina legislativa (leggi «Brunetta») sul-l’autonoma attivazione del procedimento disciplinare rispetto all’azione penale.

176. Disciplinare, con legge e con rinvio ai contratti collettivi, i procedimenti disciplinari secondo il principio della segnala-zione delle infrazioni da parte del dirigente e l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni (nei casi più gravi) da parte di organismi indipendenti dall’amministrazione.

177. Promuovere una «revisione condivisa» del codice di compor-tamento di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendendo-ne più stingenti ed effi caci i precetti, con un rigoroso impianto sanzionatorio.

Magistrati amministrativi

178. Adeguare la disciplina della responsabilità disciplinare, tipiz-zando gli illeciti, anche tenendo conto della confi gurazione degli illeciti applicabili ai magistrati ordinari.

Magistrati ordinari

179. Ridurre, in funzione di maggiore effi cacia del sistema discipli-nare, gli illeciti disciplinari, eliminando quelli di natura pura-mente formale collegati oggettivamente, ad es., ai ritardi nei depositi dei provvedimenti, da valutare nell’ambito dei conte-sti dei singoli uffi ci; rafforzando, invece, le previsioni di illeciti disciplinari collegati ad opacità nella vita personale e professio-nale dei magistrati; rivedendo il concorso dei poteri di iniziati-

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va cautelare dei titolari dell’azione disciplinare e del CSM.180. Rivedere le sanzioni disciplinari e penali per comportamenti,

da parte di magistrati su sollecitazione di altri magistrati, af-ferenti ad interferenze, favoritismi e segnalazioni nella tratta-zione degli affari giudiziari, nonché acquisizione e diffusione di notizie in ordine a procedimenti in corso; inasprire altresì le medesime sanzioni per interferenze, anche di soggetti ester-ni, sull’attività di autogoverno.

C.4. Controlli esterni181. Rendere rigorosa la disciplina degli effetti dei controlli ester-

ni. L’esito di tali controlli dovrebbe avere conseguenze […] severe (sanzioni disciplinari, radiazione da albi professionali, nuove cause di ineleggibilità) sulla posizione di quanti – se-gretario, dirigenti, revisori dei conti, ma anche componenti degli organi di governo – hanno avuto parte nel provvedimen-to censurato.

D) Promuovere la condanna sociale della corruzione

182. Diffondere la cultura della lotta alla corruzione nelle pubbli-che amministrazioni, anche con l’adozione di codici etici. Un segnale in questa direzione dovrebbe provenire dall’alto, dagli organi politici nelle amministrazioni.

183. Promuovere ed estendere l’uso di codici etici e di condotta, privi di sanzioni giuridiche ma dotati di sanzioni effi caci da parte del gruppo di appartenenza: codici delle amministrazio-ni, ma anche codici che vincolano appartenenti alla medesima categoria di funzionari pubblici.

184. Promuovere la condanna sociale del nepotismo e del favori-tismo, che vanno considerati comportamenti socialmente di-struttivi che favoriscono la corruzione.

185. Fornire in modo trasparente ai mezzi di comunicazione, nel rispetto dei diritti di riservatezza, pubblica e privata, informa-zioni costanti e corrette sulle vicende di corruzione: da parte del giudice penale, così come delle amministrazioni interessate.

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186. Creare canali privilegiati per lo scambio di informazioni tra i mezzi di comunicazione, l’organismo nazionale anti-corruzio-ne e la CiVIT (in quanto autorità indipendente).

187. Promuovere l’adozione di moduli di insegnamento di etica pubblica nelle scuole e nei corsi universitari di formazione in vista dell’accesso alle funzioni pubbliche.

188. Investire nella formazione etica dei dipendenti pubblici, promuovendo – sia in sede di selezione del personale che di aggiornamento e specializzazione – modelli di attuazione concreta dei principi della cultura della legalità nell’attività amministrativa.

5. L’organizzazione della lotta alla corruzioneLa politica nazionale di lotta alla corruzione va completata con la creazione di un’adeguata rete di organismi e con la valorizzazione a fi ni dell’attuazione della politica di organismi esistenti.

Giurisdizione penale

189. Istituire una «Direzione nazionale anticorruzione», con l’at-tribuzione ad essa di compiti di coordinamento e di scambio di informazioni e di conoscenze tra i magistrati delle procure addetti alla lotta alla corruzione.

Giudici di pace

190. Riorganizzare l’uffi cio del giudice di pace, da inserire stabil-mente presso i Tribunali sotto la sorveglianza di un magistra-to «togato».

Giurisdizione contabile

191. Potenziare gli strumenti istruttori e repressivi della Corte dei Conti, anche mediante una rivisitazione del rapporto tra atti-vità di controllo e attività giurisdizionale, promuovendo una decisa riqualifi cazione tecnica degli apparati e delle strutture.

192. In materia di denunce e per fi nalità di coordinamento e moni-toraggio, ovviare alla disparità dei dati che provengono dalle Procure regionali della Corte, dal Ministero per la pubblica

amministrazione, dal Ministero dell’interno e dai Comandi generali dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di fi nanza.

Azione disciplinare

193. Istituire une rete nazionale di «organismi indipendenti per l’integrità dei funzionari professionali», che si occupino di violazioni alla disciplina sulle incompatibilità, sugli incarichi conferibili e sui doveri di comportamento dei funzionari, co-stituita da un organismo unico competente per i funzionari delle amministrazioni statali e per gli enti pubblici nazionali e un organismo per ciascuna Regione, competente per i funzio-nari della Regione, degli enti locali e dei relativi enti dipen-denti.

194. Affi dare alla CiVIT le funzioni di coordinamento e suppor-to per la comparazione delle attività svolta dagli «organismi indipendenti per l’integrità», al fi ne di individuare in modo omogeneo i comportamenti più gravemente lesivi del princi-pio di imparzialità.

Controlli

195. Affi dare i controlli (esterni) ad organi distinti e in posizio-ne di indipendenza rispetto agli apparati amministrativi che assumono le decisioni sottoposte al controllo; tale posizione può derivare da una collocazione degli organi di controllo ef-fettivamente esterna all’amministrazione ovvero, qualora essi siano appartenenti alla stessa amministrazione, dal ricono-scimento di posizioni di effettiva indipendenza personale dei componenti degli organi.

196. Rivedere la disciplina degli organi di revisione amministrati-va e contabile interni, assicurando la piena indipendenza dei revisori dall’amministrazione presso la quale operano. Sop-primere i poteri di designazione, da parte dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, di propri funzionari negli organi di revisione degli enti vigilati.

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Trasparenza

197. Realizzare un forte coordinamento tra la CiVIT e le altre au-torità di garanzia della trasparenza (Garante della privacy e Cada), nonché con il Cnipa, ai fi ni del coordinamento dei dati informativi delle pubbliche amministrazioni.

198. Organizzare la vigilanza sul rispetto del diritto di accesso, lungo due strade alternative: a) si mantiene l’attuale arti-colazione tra la Cada e il Garante della privacy, realizzando però l’indipendenza organizzativa della Cada, e fornendole i necessari poteri di disclosure; b) si riconducono i compiti (rafforzati) della Cada o presso il Garante della privacy (in ra-gione della già dimostrata attitudine a regolare il trattamento delle informazioni pubbliche, ma comunque nell’ottica del diritto di accesso come prevalentemente come strumento di tutela soggettiva) o presso la CiVIT, allo scopo di rafforzare una visione unitaria della trasparenza, e di un ampliamento in questo senso del ruolo del diritto di accesso.

Servizi pubblici (locali)

199. Istituire un’Autorità indipendente di regolazione o ampliare le competenze dell’Autorità dell’energia (Aeeg), fi no a com-prendere il settore idrico e i rifi uti (i trasporti dovrebbero ave-re un regolatore a sé stante). Dovrebbe trattarsi di un’Autorità nazionale (né statale, né regionale), sia per garantire diritti di cittadinanza non differenziabili localmente; sia perché l’Auto-rità dovrebbe essere unica ma consentire la compartecipazio-ne delle Regioni, di cui non si può disconoscere la competenza (salvo che per la tutela della concorrenza e la defi nizione dei livelli essenziali). Porre l’Autorità di regolazione in grado di: a) valutare – con appositi strumenti comparativi – l’effi cien-za e l’economicità delle imprese; b) garantire adeguati livelli di qualità; c) monitorare la diffusione e fruizione dei servizi; d) defi nire un sistema tariffario certo e trasparente; e) tute-lare gli interessi degli utenti; f) monitorare l’attuazione dei contratti di servizio; g) emanare all’occorrenza provvedimenti individuali diretti a verifi care ed assicurare il rispetto delle regole.

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Coordinamento nazionale delle politiche

200. Istituire un organismo nazionale per il coordinamento delle politiche attive di lotta alla corruzione, nella forma di una amministrazione «nazionale», composta da rappresentanti dello Stato, delle Regioni e degli enti locali. Si tratta di un organismo diverso dalla CiVIT, che è dotata di indipendenza e svolge funzioni imparziali in materia di integrità e di traspa-renza.

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INDICE DEGLI AUTORI

Pietro Barrera, Direttore del Centro Luigi Pianciani - Centro didattico permanente della Provincia di Roma, docente di Di-ritto amministrativo nell’Università di Roma «La Sapienza».

Francesco Battini, Presidente di sezione della Corte dei Conti.Silvio Bonfigli, Magistrato ordinario. Vice Alto Commissario

anti-corruzione dal 2007 al 2008; attualmente lavora al Ser-vizio Anticorruzione e Trasparenza (SAeT) presso il Diparti-mento della Funzione Pubblica.

Antonio Brancasi, Professore ordinario di Diritto amministra-tivo nell’Università di Firenze.

Arturo Cancrini, Avvocato - Studio legale Associato Cancri-ni-Piselli di Roma; docente di legislazione opere pubbliche nell’Università di Roma «Tor Vergata».

Guido Carpani, Consigliere della Presidenza del Consiglio. Segretario delle Conferenze Stato-Regioni ed unifi cata sino al 2001; attualmente è collocato fuori ruolo presso la Presidenza della Repubblica. Docente di diritto sanitario.

Vincenzo Cerulli Irelli, Professore ordinario di Diritto am-ministrativo nell’Università di Roma «La Sapienza», già Pre-sidente della Commissione bicamerale per l’attuazione delle riforme amministrative.

Vito D’Ambrosio, Magistrato ordinario. È sostituto Procurato-re generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione.

Gian Candido De Martin, Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Roma Luiss «G. Carli», Direttore del Centro di ricerca sulle Amministrazioni pubbli-che «Vittorio Bachelet».

Marco Di Folco, Docente a contratto di Diritto delle autono-mie territoriali nell’Università di Roma Luiss «G. Carli»

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Fabrizio Gandini, Magistrato ordinario.Bernardo Giorgio Mattarella, Professore ordinario di di-

ritto amministrativo nell’Università di Siena e nella Scuola su-periore della pubblica amministrazione, sede di Roma.

Quirino Lorelli, Consigliere della Corte dei Conti, docente a contratto di Diritto dell’economia e di diritto amministrativo nell’Università della Calabria dal 1999 al 2008, collaboratore esterno della Commissione parlamentare antimafi a nella XV legislatura

Francesco Merloni, Professore ordinario di Diritto ammini-strativo nell’Università di Perugia.

Ferdinando Pinto, Professore ordinario e direttore del Dipar-timento di Diritto amministrativo nell’Università Federico II di Napoli.

Benedetto Ponti, Assegnista di ricerca nell’Università di Perugia.Raffaele Sabato, Magistrato ordinario presso il Tribunale di

Napoli, componente del Bureau e Past President del Consiglio Consultivo dei Giudici europei presso il Consiglio d’Europa.

Maria Alessandra Sandulli, Professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Roma «Tre».

Guido Sirianni, Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Perugia.

Filomena Terzini, Direttore generale della Direzione affari isti-tuzionali e legislativi della Regione Emilia-Romagna.

Paolo Urbani, Avvocato, Professore ordinario di Diritto ammi-nistrativo insegna Diritto urbanistico in varie università.

Luciano Vandelli, Professore ordinario di Diritto amministra-tivo nell’Università di Bologna.

Alberto Vannucci, Professore di Scienza politica e Analisi del-le politiche pubbliche nell’Università di Pisa.

Adriana Vigneri, Professoressa ordinaria di Diritto pubblico, già Sottosegretario al Ministero dell’Interno.

Vincenzo Visco Comandini, Economista della regolazione, docente a contratto di Economia delle Istituzioni nell’Univer-sità di Roma «Tor Vergata»

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INDICE PARTICOLAREGGIATO

Introduzione. Prevenzione e repressio-ne della corruzione: aprire una nuova

pagina di Francesco Merloni e Luciano Vandelli

1. Qualche considerazione preliminare pag. 9 2. Evoluzione del fenomeno: le illusioni per- dute » 11 3. Precondizioni imprescindibili e interventi estemporanei » 15 4. Tra cronache scandalistiche ed esigenze di analisi organica » 17 5. Il disegno di legge governativo «anticorru- zione» e i progetti parlamentari » 19 5.1. Genesi e vicende di un progetto ano- malo » 19 5.2. I contenuti 20 5.3. Qualche osservazione » 29 6. La ricerca di Astrid » 30

Parte Iil fenomeno e le sue cause

1. L’evoluzione della corruzione in Italia: evidenza empirica, fattori facilitanti, politiche di contrasto,

di Alberto Vannucci 1. L’analisi dello scambio corrotto: il contri- buto delle scienze sociali » 37 2. L’evoluzione della corruzione in Italia: al- cuni dati di contesto » 42 3. La realtà nascosta della corruzione italiana » 49 4. I principali fattori che favoriscono lo svi- luppo della corruzione sistemica » 51

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5. Le organizzazioni mafi ose nel mercato del- la corruzione pag. 61 6. Le politiche anticorruzione e l’eredità di «Mani pulite» » 65

2. Profili economici della corruzione,di Vincenzo Visco Comandini

1. Introduzione » 69 2. Defi nizione di corruzione » 73 3. Il ruolo delle istituzioni » 78 4. Corruzione concorrenziale e monopolistica » 80 5. La cattura regolatoria e gli appalti pubblici » 83 6. Conclusioni: quali indicazioni di politica anticorruzione? » 86

3. Etica pubblica e disciplina delle fun-zioni amministrative,di Vincenzo Cerulli Irelli

1. Premessa: l’«etica pubblica» e la questione della corruzione » 89 2. Per una «politica» dell’etica pubblica » 92 3. Le regole per il corretto esercizio della fun- zione amministrativa » 96 4. Il distorto rapporto dell’amministrazione con la politica » 99

4. L’Italia e le politiche internazionali di lotta alla corruzione,di Silvio Bonfi gli

1. Introduzione » 109 2. La Convenzione Onu contro la corruzione » 111 3. I rapporti col Consiglio d’Europa (Group of States against corruption) » 115 4. I rapporti con l’Organizzazione per la co- operazione e lo sviluppo economico (Ocse) » 119 5. Conclusioni » 123

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Parte IIGli strumenti di prevenzione e contrasto.

profili soggettivi

A) Aspetti generali: regole per tuttele categorie di funzionari pubblici

5. I profili costituzionali. Una nuova lettura degli articoli , e della Costituzione,di Guido Sirianni

1. L’etica pubblica nella Costituzione repub- blicana pag. 129 2. Le letture riduzionistiche del dovere di di- sciplina e onore » 130 3. La «riscoperta» dell’articolo 54 » 132

6. I profili penali della corruzione e della MALADMINISTRATION,di Vito D’Ambrosio

1. L’antefatto. Dopo «Tangentopoli» e «Mani pulite» » 135 2. L’ottica del diritto penale » 136 2.1. L’oggetto giuridico nei reati contro

la pubblica amministrazione » 136 2.2. L’oggetto giuridico nel contesto co-

stituzionale » 139 2.3. I modelli stranieri » 142 3. L’oggetto giuridico rivisitato » 144 4. I soggetti » 146 5. Le condotte » 149 6. Un diverso quadro sanzionatorio » 151 6.1. La pena e le sanzioni » 151 6.2. Misure cautelari interdittive » 154 6.3. Le altre sanzioni: da pene accessorie a sanzioni amministrative accessorie » 155 6.4. Gli interventi sulla misura della pena » 156

526

6.5. Una questione irrisolta: la collabora- zione pag. 157 6.6. Un intervento successivo: l’annulla- mento per autotutela » 159 7. Gli intrecci con la criminalità organizzata » 160 7.1. Criminalità organizzata e «malammi- nistrazione» » 160 7.2. La perseguibilità dell’illecito arricchi- mento » 160 7.3. Una ipotesi apparentemente minore: la distorsione degli incanti » 161 8. Considerazioni conclusive » 162 8.1. L’intervento governativo » 162 8.2. Considerazioni poco utili » 164

7. La protezione dei WHISTLEBLOWERS,di Fabrizio Gandini

1. Alla ricerca di una defi nizione comune del whistleblowing » 167 2. Il whistleblowing negli strumenti di diritto internazionale » 170 3. La mancata protezione del whistleblowing nell’ordinamento italiano » 173

8. La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione della Corte dei Conti, di Filomena Terzini

1. Introduzione » 175 2. Il sindacato della Corte dei Conti sulle con- sulenze: una casistica regionale » 176 3. Il contesto attuale ed i possibili percorsi di riforma » 182

9. Le regole generali sull’imparzialità soggettiva del funzionario pubblico. L’accesso alla funzione, di Francesco Merloni

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1. Per un approccio generale alla disciplina dello status dei funzionari pubblici pag. 185 2. L’accesso alle funzioni pubbliche » 186

10. Incandidabilità, ineleggibilità e incom- patibilità, di Ferdinando Pinto

1. Introduzione » 185 2. L’ineleggibilità e l’incompatibilità nell’evo- luzione della disciplina » 190 3. La mancata applicazione e le continue mo- difi che della disciplina » 191 4. La riscoperta dell’incandidabilità nella di- sciplina degli anni Novanta » 193 5. Per una disciplina unitaria, fondata sulla incandidabilità » 196 6. Affi dare la valutazione delle cause ostative prima del voto ad un giudice terzo » 198 7. Una disciplina differenziata delle incompa- tibilità » 200 8. Dalla ineleggibilità alla incandidabilità » 201 9. Conclusioni (non ottimistiche) » 204

11. Durata degli incarichi, di Benedetto Ponti

1. Premessa » 207 2. Incarichi politici » 207 3. Incarichi dirigenziali » 211

12. Conflitti di interesse,di Guido Sirianni

1. Introduzione » 215 2. I doveri di dichiarazione degli interessi » 216 3. La trasparenza degli interessi dei funziona- ri pubblici » 220 4. Il dovere di astensione » 221

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13. Doveri di comportamento,di Bernardo Giorgio Mattarella

1. Introduzione pag. 225 2. L’adeguatezza dell’impegno » 227 3. L’effi cienza » 230 4. L’imparzialità » 233 5. L’indipendenza » 234 6. Trasparenza e riservatezza » 238 7. L’immagine dell’amministrazione » 240 8. Il giuramento » 243

14. Responsabilità disciplinare dei dipen-denti pubblici,di Pietro Barrera

1. La responsabilità disciplinare come stru-mento di contrasto della corruzione e della

«malamministrazione» » 245 2. La responsabilità disciplinare tra legge e contrattazione collettiva » 246 3. I caratteri specifi ci della responsabilità di- sciplinare nel settore pubblico » 248 4. Responsabilità disciplinare e doveri di com- portamento » 250 5. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare » 253

15. Incarichi successivi alla cessazione della funzione,di Francesco Merloni

1. Introduzione » 255 2. Lo svolgimento di incarichi dopo la cessa- zione della funzione » 255 3. Il rientro nell’amministrazione » 256 4. L’applicazione delle regole e il relativo con- trollo » 257

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B) Aspetti specifi ci (per le diverse categoriedi funzionari pubblici)

16. I titolari di organi politici,di Guido Sirianni

1. I membri del Parlamento pag. 261 2. I membri del Governo » 277 3. Gli amministratori regionali e locali » 274

17. I funzionari professionali, di Francesco Merloni

1. I dipendenti non dirigenti » 281 2. I dirigenti, interni e esterni » 285

18. I soggetti con incarico fiduciario, di Francesco Merloni

1. Introduzione » 295 2. I componenti degli uffi ci di diretta collabo- razione » 295 3. I soggetti con incarico fi duciario ammini- strativo di vertice » 299 4. I soggetti con incarico fi duciario ad elevato contenuto professionale » 302

19. I componenti delle Autorità ammini-strative indipendenti, di Benedetto Ponti

1. I componenti degli organi di vertice » 309 2. I funzionari addetti delle Autorità » 313

20. I magistrati,di Raffaele Sabato

1. Premessa: la diversità di problematiche per ciascuna magistratura » 315 2. La magistratura onoraria » 316 3. Le magistrature speciali » 320

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4. La magistratura ordinaria pag. 324 5. Un profi lo comune: un ruolo per i «codici etici» » 328

Parte IIIGli strumenti di prevenzione e contrasto:profili oggettivi. Controlli e trasparenza

21. I controlli. Profili generali, di Antonio Brancasi

1. I controlli amministrativi e la lotta alla cor ruzione » 337 2. L’oggetto del controllo » 338 3. Le modalità di svolgimento del controllo » 339 4. Il parametro del controllo » 340 5. La posizione organizzativa dell’organo di controllo » 342 6. Controlli esterni, non collaborativi, succes- sivi, a campione » 343

22. Il ruolo della Corte dei Conti, di Francesco Battini

1. La natura unitaria dei controlli della Corte dei Conti » 347 2. Controlli sugli atti e controlli sui risultati » 349 3. La scarsa effi cacia dei controlli preventivi

per la lotta alla corruzione e alla maladmini- stration » 351 4. L’infi ltrazione di interessi particolari » 353 5. Controlli amministrativi e azione penale » 354 6. La fi nalizzazione dei controlli esterni alla prevenzione della corruzione » 355 7. Controlli e azione inquirente delle Procure della Corte dei Conti » 357 8. Giurisdizione contabile e giurisdizione pe- nale » 359 9. La scarsa attenzione al ruolo della giurisdi- zione contabile nella lotta alla corruzione » 361

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23. Istituzioni locali, controlli interni e garanzie di legalità,di Pietro Barrera

1. L’abbaglio «manageriale» pag. 365 2. Altre illusioni: l’alternanza e l’autonomia » 367 3. Trasparenza e integrità nella «legislazione Brunetta» » 368 4. La «riforma Brunetta» e la sua applicazio- ne da parte degli enti territoriali » 372 5. I controlli interni » 374 6. Alla ricerca di altre strade » 378

24. I controlli interni di regolarità e il ruo-lo dei Segretari comunali e provinciali,di Gian Candido De Martin e Marco Di Folco

1. Le fonti di disciplina dei controlli interni di regolarità » 381 2. Caratteri dei controlli di regolarità » 383 3. Il ruolo del segretario comunale/provincia- le in ordine ai controlli di regolarità » 384

25. Una diversa ipotesi: il ritorno ai con-trolli esterni?,di Quirino Lorelli

1. I controlli sulle autonomie territoriali e la soppressione dei controlli esterni » 389 2. Per un ritorno ai controlli esterni » 398 3. Per controlli esterni preventivi e sanziona- tori » 401

26. La trasparenza, di Francesco Merloni e Benedetto Ponti

1. Premessa » 403 2. Gli scopi della trasparenza » 403 3. Gli strumenti della trasparenza » 404 3.1. L’accesso » 404 3.2. La pubblicità » 404

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4. Il modello italiano di trasparenza pag. 404 4.1. La disciplina precedente la «legisla- zione Brunetta» » 406 4.2. La «legislazione Brunetta» » 409 4.3. L’applicazione degli obblighi di tra-

sparenza nelle amministrazioni diver- se da quelle statali » 413 4.4. Gli strumenti di vigilanza sul rispetto degli obblighi di trasparenza » 418

Parte IV I settori «caldi»

27. L’ urbanistica, di Paolo Urbani

1. Lo stato dell’arte » 423 2. Le ragioni del ricorso alla consensualità » 425 3. Le innovazioni della legge fi nanziaria per il 2008 e la legge n. 133/2008 » 427 4. La maladministration » 429 5. Modeste proposte per prevenire » 431 5.1. La partecipazione alla determinazio- ne degli accordi urbanistici » 431 5.2. Disciplinare il procedimento per la

formazione delle proposte di ricon- versione urbana » 432 5.3. Dallo straordinario all’ordinario. Ri- mettere al centro il piano urbanistico » 433 6. Due soluzioni concrete » 435 7. Conclusioni » 436

28. I contratti pubblici, di Maria Alessandra Sandulli e Arturo Cancrini

1. Il rilievo dato dalla normativa europea e nazionale al reato di corruzione negli ap-

palti pubblici » 437 2. La normativa italiana sugli appalti: carat-

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teri della «legge Merloni». Automatismo e garanzia pag. 441 3. La sempre maggiore discrezionalità tecnica dell’amministrazione appaltante » 442 3.1. Criteri di aggiudicazione negli appalti e discrezionalità tecnica della P.A. » 445 3.2. La negoziazione nella trattativa priva-

ta: ampliamento delle ipotesi e discre-zionalità nelle scelte mediante gara in-

formale. Obbligo della motivazione » 447 4. Alcune linee per tracciare possibili soluzio- ni » 449

29. La sanità,di Guido Carpani

1. L’azienda sanitaria e la sua governance » 451 2. La concentrazione dei poteri nelle mani del direttore generale » 453 3. Il rapporto tra Regione e direttore genera- le » 454 3.1. I presupposti per la nomina. Le di- sposizioni di legge » 454 3.2. Limiti alla durata dell’incarico » 455 3.3. Fiduciarietà del rapporto e professio- nalità del direttore » 457 3.4. Incompatibilità e ineleggibilità » 458 3.5. La procedimentalizzazione delle scel-

te aziendali. Il ruolo dei direttori sani- tario ed amministrativo » 461 3.6. La verifi ca dei risultati » 461 4. Scelte gestionali » 464 4.1. La valorizzazione della risorse interne dell’azienda » 464 4.2. La gestione centralizzata degli approv- vigionamenti » 466

30. I servizi pubblici (in particolare locali), di Adriana Vigneri

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1. Introduzione pag. 469 2. La qualità della legislazione » 470 3. La proliferazione societaria » 470 4. Il fattore «concorrenza» » 471 5. Ruoli dell’ente locale e confl itti di interes- se » 472 6. I problemi specifi ci delle società miste » 473 7. Le incompatibilità. La scelta degli ammini- stratori delle società » 474 8. La scelta dei dirigenti e dei revisori dei conti » 475 9. La provvista del personale da parte delle società pubbliche » 476 10. Le gare nei servizi pubblici locali » 476 11. Necessità di regolazione e mancanza di strutture di governo locale » 478 12. Le criticità in sintesi e i possibili rimedi » 479

Parte VIndice riassuntivo delle proposte di Astrid

31. Indice riassuntivo delle proposte, a cura di Francesco Merloni

1. Premessa » 483 2. Gli elementi di contesto » 483 3. L’allineamento dell’Italia alle politiche in- ternazionali » 484 4. Le grandi linee di una politica organica » 484 5. L’organizzazione della lotta alla corruzione » 517

Indice degli autori » 521

Indice particolareggiato » 523

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Volumi pubblicati:

Libri di ASTRID, Passigli Editori, Firenze

Costituzione una riforma sbagliata, a cura di Franco Bassanini, 2004

Sviluppo o declino, a cura di Luisa Torchia e Franco Bassanini, 2005

Gli sportelli unici per le attività produttive: fallimento o rilancio?, a cura di Bruno Dente e Franco Bassanini, 2007

La riforma elettorale, di Enzo Cheli, Franco Bassanini, Cesare Pinelli, Stefano Passigli et al., 2007

Semplifi care l’Italia. Stato, Regioni, Enti locali, a cura di Franco Bassanini e Luca Castelli, 2008

Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore, a cura di Caterina Cittadino, 2008

Per una moderna democrazia europea. L’Italia e la sfi da delle riforme isti-tuzionali, a cura di Franco Bassanini e Roberto Gualtieri, 2009

Governare l’economia globale. Nella crisi e oltre la crisi, a cura di Giuliano Amato, 2009

Il fi nanziamento dell’Europa. Il bilancio dell’Unione e i beni pubblici euro-pei, a cura di Maria Teresa Salvemini e Franco Bassanini, 2010

I nodi delle reti. Infr astrutture, mercato e interesse pubblico, a cura di Paola M. Manacorda, 2010

Studi e Ricerche scelti da ASTRID, Passigli Editori, Firenze

L’Europa legittima. Principi e processi di legittimazione nella costruzione europea, di Nicola Verola, 2006

Dignità umana e Stato costituzionale. La dignità umana nel costituziona-lismo europeo, nella Costituzione italiana e nelle giurisprudenze europee, di Mario Di Ciommo, 2010

536

Paper di ASTRID, Passigli Editori, Firenze

Il sistema radiotelevisivo. Dieci proposte di riforma, a cura di Enzo Cheli e Paola M. Manacorda, 2006

Per un nuovo ordinamento giudiziario, a cura di Elena Paciotti, 2006

La Rai del futuro, di Paolo Gentiloni, Giuliano Amato, Enzo Cheli, Leo-poldo Elia et al., 2007

I referendum elettorali, di Giuliano Amato, Gaetano Azzariti, Franco Bassanini, Enzo Bianco et al., 2007

Gli indicatori di competitività dell’economia italiana nel quadro del proces-so di Lisbona, a cura di Pippo Ranci e Andrea Forti, 2009

Quaderni di ASTRID, edizioni Il Mulino, Bologna

Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Confe-renza Intergovernativa, a cura di Franco Bassanini e Giulia Tiberi, 2003

L’attuazione del federalismo fi scale. Una proposta, a cura di Franco Bassa-nini e Giorgio Macciotta, 2004

Verso il federalismo. Normazione e amministrazione nella riforma del Tito-lo V della Costituzione, a cura di Vincenzo Cerulli Irelli e Cesare Pinelli, 2004

La Costituzione europea. Un primo commento, a cura di Franco Bassanini e Giulia Tiberi, 2004

Welfare e federalismo, a cura di Luisa Torchia, 2005

Verso l’Europa dei diritti. Lo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giusti-zia, a cura di Giuliano Amato e Elena Paciotti, 2005

I tempi della giustizia. Un progetto per la riduzione dei tempi dei processi civili e penali, a cura di Elena Paciotti, 2006

Università e sistema della ricerca. Proposte per cambiare, a cura di Marco Cammelli e Francesco Merloni, 2006

Le virtù della concorrenza. Regolazione e mercato nei servizi di pubblica utilità, a cura di Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri, 2006

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Lo Stato compratore. L’acquisto di beni e servizi nelle pubbliche amministra-zioni, a cura di Luigi Fiorentino, prefazione di Franco Bassanini, 2007

Per far funzionare il Parlamento. Quarantaquattro modeste pro po ste, a cura di Andrea Manzella e Franco Bassanini, 2007

L’amministrazione come professione. I dirigenti pubblici fr a spoils system e servizio ai cittadini, a cura di Gianfranco D’Alessio, 2008

Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, a cura di Franco Bassanini e Giulia Tiberi, 2008

La riforma del welfare. Dieci anni dopo la «Commissione Onofr i», a cura di Luciano Guerzoni, 2008

La sfi da dell’energia pulita. Ambiente, clima e energie rinnovabili: proble-mi economici e giuridici, a cura di Alfredo Macchiati e Giampaolo Rossi, 2009

Arbitri dei mercati. Le Autorità indipendenti e l’economia, a cura di Marco D’Alberti e Alessandro Pajno, 2010

La costituzione economica: Italia, Europa, a cura di Cesare Pinelli e Ti-ziano Treu, 2010

Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, a cura di Franco Bassanini e Giulia Tiberi, Edizione rivista e aggiornata, 2010

La tela di Penelope. Primo Rapporto Astrid sulla semplifi cazione legislati-va e burocratica, a cura di Alessandro Natalini e Giulia Tiberi, 2010

La sanità in Italia. Organizzazione, governo, regolazione, mercato, a cura di Claudio De Vincenti, Renato Finocchi Ghersi e Andrea Tardiola, 2010

Ricerche di ASTRID, Il Sole-24 Ore, Milano

La salute e il mercato. La ricerca farmaceutica tra Stato, industria e citta-dini, a cura di Giorgio Macciotta, 2008

Libri di ASTRID, Maggioli Editore, Rimini

La sicurezza urbana, a cura di Alessandro Pajno, 2010