Gli ottant'anni di F.P. Casavola: cronaca di due giornate, in SDHI. 78 (2012) pp. IX-LXI
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LXXVIII 2012
PONTIFICIUM INSTITUTUM UTRIUSQUE IURIS
FACULTAS IURIS C IV IL I S
STUDIA ET DOCUMENTA
HISTORIAE ET IURIS
DIRECTOR
✠ HENRICUS DAL COVOLO
REDACTOR
FRANCISCUS AMARELL I
A SECRETIS
SEBAST IANUS PACIOLLA
LATERAN UNIVERS ITY PRESS
I N D E X
– Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola. Cronaca di due giornate, acura di Francesco Amarelli e Francesca Galgano . . . . IX
STUDIA
JOSEPH GEORG WOLF, Bussen, Einkommen und Preise . . . . . 3
GIUSEPPINA MARIA OLIVIERO NIGLIO, Lo status femminile nei ca-noni conciliari e nella legislazione tardoantica . . . . . . . . 23
PAOLA LUIGIA CARUCCI, Questioni di paternità nel diritto d’età impe-riale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
LUCIA FANIZZA, Cultura aristocratica e amministrazione della provinciaasiatica. Scaevola, Tubero, Cicero . . . . . . . . . . . . 87
MAURIZIO D’ORTA, La traccia del diritto naturale dai fondamenti clas-sici alla tarda antichità . . . . . . . . . . . . . . . . 103
ARÁNZAZU CALZADA, Reversio in potestatem de las res furtivae et vipossessae . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167
CARMELA RUSSO RUGGERI, Gaio, la parafrasi e le ‘tre anime’ diTeofilo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197
M. LUISA LÓPEZ HUGUET, Domicilium liberti. Precisiones sobreuna supuesta limitación de la libertad domiciliaria . . . . . . 221
SARA LONGO, Gai. 3.145 e la locatio in perpetuum degli agri vec-tigales municipum . . . . . . . . . . . . . . . . . 255
VIRGINIA ABELENDA, Protección del ‘consumo sustentable’ en la regula-ción del regimen romano de derivación de aguas públicas . . . . 323
DOCUMENTA
– No¥moi secolari tradotti ex lingua rhomaea in lingua siriaca (tradu-
zione a cura di Francesca Galgano) . . . . . . . . . 349
† LUCIO BOVE, Saulus autem, qui et Paulus (SAYLOS DE¥ , OKAI PAYLOS: Act. Ap. 13.9): nativo di Tarso in Cilicia, giudeoellenizzato della diaspora e civis romanus . . . . . . . . . 397
VI Index
NOTAE
DONATO ANTONIO CENTOLA, Riflessioni sulla problematica dellamotivazione della sentenza nel processo romano . . . . . . . . 407
FAUSTO GIUMETTI, La difesa in giudizio: spigolature plautine . . . 429
ANA ISABEL CLEMENTE FERNÁNDEZ, Sobre el origen y el significadodel verbo latino augeo . . . . . . . . . . . . . . . . 445
EVENTA
LEANDRO POLVERINI, Rostovcev e Mommsen . . . . . . . . . 469
– Lo ‘Spartaco’ di Aldo Schiavone. Le letture di Paolo Mieli e Marc Fu-maroli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 495
VARIA
ANDREA DE MARTINO, Il ruolo degli studi di storia del diritto nellaformazione del giurista . . . . . . . . . . . . . . . . 507
FEDERICO FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Il potere politico nel pensiero diIsidoro di Siviglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 513
ALFREDO MORDECHAI RABELLO, Sulla Mishnà ed il capitolo VIIdi Bavà Metzi’à: sull’ingaggio di operai . . . . . . . . . . 539
VALERIO MASSIMO MINALE, L’Ekloge Isaurica e il mondo slavo: ri-flessioni sulla continuità in Russia . . . . . . . . . . . . 563
BELEA SIMION, La civiltà e la giurisprudenza nei territori della Daciaromana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 577
– La commemorazione di Luigi De Sarlo tenuta da Feliciano Serrao il 13marzo 1990 nell’Università di Pisa . . . . . . . . . . . . . 595
ANTIQUITAS POSTERIOR
[a cura di Salvatore Puliatti, Ulrico Agnati e Federica De Iuliis] 601
RECENSIONES LIBRORUM
J. DUBOULOZ, La propriété immobilière à Rome et en Italie. I-IV siècles(Luigi Capogrossi Colognesi) . . . . . . . . . . . . 631
PAOLA BIANCHI, Iura-Leges. Un’apparente questione terminologica dellatarda antichità. Storiografia e storia (Lucio De Giovanni) . . . 639
ALFREDO MORDECHAI RABELLO, Ebraismo e diritto. Studi sul Di-ritto Ebraico e gli Ebrei nell’Impero Romano (Emanuele Stolfi) . 642
FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, Ritratti italiani. Individualità e ci-viltà nazionale tra XVIII e XXI secolo (Vincenzo Galgano) . . 658
VIIIndex
ANTONIO FERNÁNDEZ DE BUJÁN, Derecho publico romano (Alfonso
Agudo Ruiz) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 664
AGLAIA MCCLINTOCK, Servi della pena. Condannati a morte nellaRoma imperiale (Antonio Banfi) . . . . . . . . . . . . 685
FABIANA TUCCILLO, Studi su costituzione ed estinzione delle servitù neldiritto romano. Usus, scientia, patientia (J. Michael Rainer) . . 690
ALEJANDRO GUZMÁN BRITO, El derecho como facultad en la Neoe-scolástica española del siglo XVI (Francisco Cuena Boy) . . . 695
ALFONSO CASTRO SÁENZ, Cicerón y la jurisprudencia romana. Unestudio de historia juridica (Francisco Cuena Boy) . . . . . 702
ANTHONY GRAFTON, GLENN W. MOST AND SALVATORE SET-
TIS, The Classical Tradition (Giorgia Zanon) . . . . . . . 712
CHRONICA
– Aequum iudicium e processo romano della tarda antichità: princìpi gene-rali e tecniche operative (Federico Pergami) . . . . . . . . 721
– The Society of Law Teachers of Southern Africa & the Southern AfricanSociety of Legal Historians. 2011 Conference: «Fraud and corruptionin the private and public sphere». Un manuale per la tarda antichità.Stellenbosch University 17-19 January 2011 (Carla Masi Doria) 743
– Ricordo di Mario Talamanca presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’(Giovanni Finazzi) . . . . . . . . . . . . . . . . . 745
– Lingue e testi tecnici antichi (Oriana Toro). . . . . . . . . . 755
– IX Convegno Internazionale ARISTEC. Scienza giuridica, interpreta-zione e sviluppo del diritto europeo (G. Guida e S. Galeotti) . . 757
GRATA RERUM NOVITAS
– Politica antica (Francesca Reduzzi Merola) . . . . . . . . 769
IN MEMORIAM
– Giuliano Crifò (Stefano Giglio, Carlo Lorenzi e Marialuisa Na-
varra) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 773
– Perdite dolorose (Francesco Amarelli) . . . . . . . . . . . 817
LIBRI IN EPHEMERIDE ACCEPTI
[a cura di Donato Antonio Centola, Giovanni Papa, Giuseppina
M. Oliviero Niglio, Raffaele Basile e Lorena Atzeri] . . 819
GLI OTTANT’ANNI DI FRANCESCO PAOLO CASAVOLA
CRONACA DI DUE GIORNATE
a cura di
Francesco Amarelli e Francesca Galgano
La sera dell’11 gennaio dell’anno passato, ospiti, in un bell’albergo partenopeo,di un prestigioso club rotariano della città, alcuni amici, auspice Luigi Cavalli, avvo-cato e past president del sodalizio, si son dati appuntamento per parlare del libro diFranco Casavola dal titolo Ritratti italiani. Individualità e civiltà nazionale tra XVIII e XXIsecolo. Ad illustrarlo Vincenzo Galgano, Procuratore Generale presso la Corte diAppello. Dalle sue parole, e da quelle poche pronunciate da chi ha curato questepagine, emerse però sùbito che la presentazione del libro era stata soltanto unpretesto per augurare in anticipo all’autore buon compleanno: una ricorrenza,questa, che il giorno dopo sarebbe stata solennizzata, proprio a ottant’anni esattidalla nascita, nell’Aula Pessina della Facoltà di Giurisprudenza della ‘Federico II’ econ grande rilievo sulle pagine de Il Mattino e su quelle delle edizioni napoletane deIl Corriere della Sera e Repubblica aperte dagli affettuosi interventi di Biagio DeGiovanni, Luigi Labruna e Carlo Franco.
Davanti a S. Em.za il Card. Crescenzio Sepe e al cospetto del Prefetto AndreaDe Martino, del Sindaco Rosetta Iervolino, dell’Assessore regionale alla UniversitàGuido Trombetti, di Fulvio Tessitore già Rettore della ‘Federico II’ e del Rettoredell’Università Suor Orsola Benincasa Francesco De Sanctis e di numerosissimi altricolleghi e amici (tra cui i vertici, oltre quelli militari, della magistratura, del foro, edella Facoltà che lo ebbe preside), Lucio De Giovanni, che ne ha ereditato la caricadi ampissimo, ha dato, innanzi tutto, lettura del messaggio indirizzatogli dal Quiri-nale, col quale Giorgio Napolitano ha voluto sottolineare il rigore, la coerenza,l’equilibrio e l’indipendenza sempre esibiti da Franco Casavola nel suo servizio infavore dell’Università italiana e delle istituzioni repubblicane.
Hanno poi voluto testimoniare il loro affetto, con il loro dire e i loro ricordi,Giuseppe Camodeca, Stefano Cianci, Giacomo De Cristofaro, Giuseppe Giliberti,Francesco Lucrezi, Antonio Palma, Angelo Puglisi, Vincenzo Scarano Ussani eTullio Spagnuolo Vigorita.
Le parole qui immediatamente riprodotte sono invece quelle che FrancoCasavola ha voluto pronunciare in chiusura dell’intenso pomeriggio:
Eminenza, Signor Sindaco, Signor Prefetto, Autorità, Colleghi, Amici,
ho un senso di colpa per aver incomodato tante persone per un evento
privato quale è un compleanno. Non avrei mai ceduto dinanzi alla inizia-
tiva di onoranze accademiche, fedele al modello di maestri come Mario
Lauria e Francesco de Martino, che seppero evitarle. Ma ho capitolato
per una festa di famiglia, che riunisce quei figli particolari che sono gli
allievi. Non avrei immaginato l’eco che i miei ottanta anni avrebbero
avuto sui media. Debbo ringraziare Biagio de Giovanni e Luigi Labruna
per quanto hanno scritto su Il Mattino e Il Corriere del Mezzogiorno, interpre-
tando quel che mi è capitato di fare fin qui.
X Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Ma se devo dare a me stesso insieme a voi un significato a questo
amarcord, occorre che ripensiamo gli anni della contestazione giovanile,
dal ’68 in avanti.
La nostra età di allora era vicina a quella dei nostri studenti, così come
prossime erano tra loro le età degli assistenti e di noi giovani professori. Si
vivevano le stesse idee e speranze, e bisogni di cambiamento. In primo
luogo avvertivamo che il modello tradizionale della lezione cattedratica
era anacronistico in aule che ospitavano migliaia di studenti. Decidemmo
di sostituire la lezione con gruppi seminariali, in cui gli studenti potessero
svolgere relazioni preparate anche su testi diversi dai manuali, e discutere
con i docenti assegnati a quel gruppo. Sparivano assistenti e professore, i
primi venivano indicati come collaboratori del secondo. Tutti insieme
svolgevamo la funzione docente. Era una prima attuazione sperimentale
di quella istanza caldeggiata dalla neonata associazione dei professori, che
si usava chiamare del Docente unico. Qualcuno di quei seminari per il
prevalere di orientamenti critici decamparono in controcorsi. Il problema
stava infatti oltre il modulo di comunicazione didattica. Era non più accet-
tabile la tripartizione di Storia, Istituzioni e Diritto romano. Andava
risolta mescolando società, economia, cultura intellettuale e materiale, per
intendere il diritto antico come forma generale dell’organizzazione collet-
tiva e ricavarne il valore etico, che ne consentiva la sopravvivenza fino ai
nostri giorni nella civilizzazione occidentale. Dunque quell’esperienza un
po’ allegra e tumultuaria era in realtà fondata su riflessioni meditate e già
allora responsabili di mutamenti metodologici ed epistemologici delle
discipline romanistiche, che dovevano di lì a poco seguire, e vedere
proprio da Napoli partire, dal congresso su Gaio nel suo tempo del 1965, una
trasformazione europea dei nostri studi.
Non a caso questa festa di compleanno personale che si è voluta cele-
brare forse con qualche enfasi è anche estesa ad un compleanno trenten-
nale dei Giuristi adrianei, finiti di raccogliere nel 1980, e che ora l’Erma di
Bretschneider va a rieditare ad apertura di una collana di testi classici del
pensiero romanistico del Novecento, cui si è voluto dare il titolo di Incuna-bula mentis, di iniziazione per una formazione intellettuale di giuristi consa-
pevoli della storicità del diritto antico, come di ogni diritto per qualunque
tempo e società umane.
Accompagnando i miei ottant’anni con i trenta dei Giuristi adrianei mi
sembra di avere qualche ragione di essere scusato per il disturbo che
questa riunione potrebbe aver arrecato ai programmi personali di
ciascuno di voi in questo 12 gennaio che nel 1931 ha dato inizio alla mia
vita.
Ringrazio i miei allievi e collaboratori del bel tempo della nostra
comune giovinezza, che oggi ne hanno riacceso la nostalgia, ma anche
una meritoria e non inutile memoria.
XICronaca di due giornate
Un mese dopo, il 23 febbraio, è stato invece il Laterano il luogo dei festeggia-menti.
Accolti da Gianluigi Falchi e dall’estensore di questi pochi tratti, si sono alter-nati alla tribunetta dell’Aula Pio XI della Pontificia Universitas Laternensis, conintensità di affetti e accenti commossi, Renato Quadrato, Maria Campolunghi,Valerio Marotta e Lorenzo Franchini. Chi scrive e Aldo Schiavone hanno infineconsegnato al festeggiato il primo volume della nuova collana intitolata Incunabulamentis. Testi chiave per una formazione di giurista e aperta dalla riedizione di Giuristiadrianei.
Il pubblico è stato quello delle grandi occasioni: da S. Em.za il Card. Vallini aS. Em.za il Card. Farina; da Colombo a De Mita, Ruperto, Nocilla, Monorchio,Bernabei, Gnagnarella, Vari, Meoli, Panebianco; da Siniscalchi a Laurini; daGarbarino a Saporito, Acocella; da Lipari a Ferrara; da Bellini a Brutti, Marrone,Fabbrini, Campitelli, Marasco, Luchetti, Puliatti, Polara, Costabile, Bianchini,Bassanelli, Giliberti, Fusco, Lanza, Lovato, Giglio, Giachi, Pergami, Baccari; daBove fino al più giovane degli allievi della ‘Federico II’, a rappresentare, insieme atantissimi altri, gli amici e i colleghi delle sedi di Milano Statale e Bocconi, Genova,Alessandria, Bologna, Firenze, Urbino, Macerata, Perugia, Napoli ‘Fed. II’, Salerno,Bari, Reggio Calabria, Palermo.
Le pagine che seguono servono a dar conto dei quattro interventi, delle paroleconclusive pronunciate dal festeggiato, ma, prima ancora, di quelle con cui il Magni-fico Rettore S. Ecc.za Mons. Enrico dal Covolo ha introdotto il pomeriggio con ilsuo saluto.
Dopo aver ricordato gli anni spesi in Laterano lungo la prima metà
degli anni Ottanta del secolo scorso innovando l’insegnamento di Iusromanum e dopo aver dato lettura della bella lettera di commiato inviata da
Casavola, appena chiamato alla Consulta, all’allora Rettore S. Ecc.za
Mons. Pietro Rossano, Monsignor Rettore ha così proseguito: «Casavolacontinua a essere un buon esempio per tutti noi. L’assenza di vanità e d’invidia, insiemealla discrezione gli hanno consentito di svolgere, sopra le parti e nell’interesse del Paese, ilruolo di giudice costituzionale e di presidente della Corte, ma anche di presidente del-l’Enciclopedia Italiana e di garante dell’editoria in un momento drammatico per il gior-nalismo democratico. Giurista, ma anche giudice e custode inflessibile della Costituzione,egli è ancor oggi un protagonista dell’Italia migliore, l’Italia capace di coniugare la fedecristiana, vissuta e professata senza compromessi, con la dottrina della laicità dello Statoe dell’autonomia delle realtà terrestri».
FRANCESCO PAOLO CASAVOLA: ‘PERSONA’ TRA LOGOS, PATHOS, ETHOS
Sono emozionato, perché ho la gioia, e il privilegio, di festeggiare il
compleanno del mio maestro: maestro non solo di studi, ma anche di
vita, e la cui nascita, il 12 gennaio, coincide con la data in cui è nato mio
padre. Una felice congiuntura astrale, una coincidenza, se posso dire, di
‘paternità biologica e paternità scientifica’, che ha segnato il percorso del-
la mia esistenza: umana, culturale e accademica; sì, anche accademica,
perché devo a Lui se sono rimasto all’univesità a svolgere, a continuare a
svolgere, il mio lavoro di docente, in quell’intreccio di Berufung e
Bildung, le immagini che Casavola, nel rievocare in Index 1995 la figura di
XII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Lauria e Ormanni, maestro e allievo, adopera per indicare ‘didattica e
ricerca’. Era il 1965 e, dopo avere pubblicato alcuni articoli, ero impe-
gnato in una ricerca di taglio monografico sul tignum iunctum: tema che,
anch’esso, secondo una prassi allora alquanto diffusa nell’accademia, di
assegnare, anzi quasi imporre, ai giovani studiosi gli argomenti su cui
svolgere le ricerche, mi era stato affidato dal professore de’ Robertis, al
quale devo, dopo la tesi di laurea con lui, il mio accesso alla carriera
universitaria: iniziata così con lavori dati e non scelti, pur appartenendo
io, come Franco Casavola dice di sé, di Biagio de Giovanni e di Alberto
Auricchio, ad «una generazione ... che non ha amato farsi assegnare il
compito dai Maestri», pur rispettandoli e venerandoli: «uomini nuovi
rispetto al mondo accademico», «tre amici stretti ... chiamati Trinità»,
nella rievocazione, colorita, che ne ha fatto De Giovanni su Il Mattino del-
lo scorso 12 gennaio, e che «si ritrovano insieme, ormai in cattedra, dopo
gli anni di studi napoletani» a insegnare nella Facoltà giuridica barese,
come ancora Casavola scrive nel 1983, nel ricordare Alberto, l’amico
«improvvisamente» scomparso, approdato a Bari nel suo peregrinare qua
e là, dopo Urbino e Macerata. Il tema che mi era stato assegnato era
complesso, ostico e scomodo: per la difficoltà in sé, e a causa della
esiguità delle fonti e perché all’argomento aveva dedicato appena un
anno prima, il 1964, un bel libro un collega napoletano, Generoso
Melillo. Il che rendeva il mio lavoro ancora più arduo oltre che – perché
non dirlo? – accademicamente sconsigliabile. Ebbene, sfiduciato, anzi
disperato, perché, dopo alcuni mesi di intensa e febbrile indagine, non
riuscivo a cavare un ragno dal buco, a trovare nulla che potesse giustifi-
care una nuova pubblicazione, non dico una monografia ma neppure
uno straccio di articolo, mi rivolsi al professor Casavola confessandogli il
mio sconforto e manifestandogli la volontà, sì la volontà, e nonostante
fossi già assistente di ruolo, di abbandonare l’università e cercare di intra-
prendere un’altra strada, magari quella della magistratura, scelta con
successo da alcuni dei miei colleghi di corso. Dopo aver sentito il mio
sfogo, con quella capacità di ascolto che è propria della sua indole, della
sua humanitas – che per lui, sotto la scorta di Gellio (N.A.13.7.1) «non è
soltanto benignità e filantropia» ma «paideia» e cioè «erudizione ed
educazione alla virtù» (Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d. C.: ilsenso del passato, in Sententia legum tra mondo antico e moderno, I, Napoli, 2000,
111) – il Professore cercò di rincuorarmi, esortandomi a proseguire, a insi-
stere, perché, mi disse – ripeto le sue testuali parole: come potrei dimenti-
carle? – «lei è capace di inventarsi i frammenti»: sì, disse proprio così,
«inventarsi i frammenti», pensando forse all’invenire della lingua latina. Mi
lasciò, sul momento, allibito, sconcertato. Ma quelle Sue parole, che
esprimevano una fiducia illimitata nelle possibilità di quel giovane
studioso, suscitarono in me tanta di quella energia che mi ributtai con
XIIICronaca di due giornate
una determinazione inimmaginabile nell’indagine, riuscendo, non so
neppure come, a individuare, meglio a «trovare» (per restare nell’area
semantica dell’inventare – invenire), una nuova chiave di lettura del tema –
confortata da un passo della Parafrasi di Teofilo, trascurato dagli studiosi
dell’argomento – che mi consentì di realizzare l’impresa. Ma non senza
affanno. Portai, infatti, a conoscenza di Casavola la mia ipotesi di lavoro,
speranzoso, anzi persuaso, di ottenerne il placet, in un incontro tenuto
nella sua stanza alla Casa dello studente di Bari e da lui sottoposta ad una
verifica severa, anzi severissima, condotta con una esegesi minuziosa delle
fonti e con una padronanza dell’istituto straordinaria, quasi mostruosa,
stupefacente per uno studioso, pur del suo calibro, ma chiamato a misu-
rarsi per la prima volta col tema. Dopo una lunga, anche movimentata
discussione – come la ricordo quella serata, a tratti, non esagero, dram-
matica perché il dialogo, anzi di fatto un monologo per lo sfinimento del-
l’interlocutore, pareva ormai avviato sempre di più, e inesorabilmente,
verso una stroncatura del lavoro – ad una mia osservazione, sommessa,
fatta in extremis, per disperazione, in articulo mortis mi verrebbe da dire –
legata alla presenza in uno, il solo, dei pochissimi testi in materia, del
vocabolo pretium, unanimemente interpretato come duplum e non già come
equivalente pecuniario del tignum, come invece sembrava a me – Casavola
ebbe un momento di esitazione, di dubbio, di meditazione – fu, il suo, un
rapido, silenzioso, interrogarsi – e dopo una pausa, quasi all’improvviso,
ebbe a dirmi: «Ha ragione lei». E me lo disse con un’espressione felice,
quasi liberatoria: che rivelava il travaglio da lui vissuto, diviso tra il
dovere di un giudizio scrupoloso – riflesso di quell’«impegno culturale e
ideale», del «rigore» riconosciutogli anche dal Presidente della Repub-
blica nel suo messaggio augurale – e il bisogno, un’esigenza profonda-
mente sentita, di non deludere l’aspettativa fiduciosa del giovane allievo.
Fu per me un momento indescrivibile. Era notte fonda e, ancora incre-
dulo, in preda ad una emozione grandissima, tornai a casa, correndo e
saltando per la gioia. E per strada pensavo, con gratitudine e affetto (anzi
amore), a quel docente, venuto da Napoli, entrato per caso nella mia vita,
che non era, non lo era ancora, accademicamente parlando, il mio
maestro, ma che lo era diventato allora, in quell’occasione, con la forza
edificante del suo comportamento: esemplare per grandezza di mente e
di cuore, per la capacità di guidare e di donare. Avevo finalmente
scoperto – ma era solo la conferma di una sensazione che avevo avvertito
fin dal primo incontro – la persona a cui affidare la mia persona: un
«giurista a misura d’uomo», riprendendo la bellissima immagine da lui
coniata per Vincenzo Arangio Ruiz, su Il Mattino del 2 febbraio 1984,
nell’esaltare l’opera di un «giurista e romanista», assai diverso dagli altri,
tra «tutti i grandi maestri della romanistica italiana ... il più moderno, e
vicino, attraverso le sue pagine, a ciascuno di noi, intento a soccorrerci
XIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
con la sua incantevole amabile affettuosa intelligenza in una conversa-
zione interiore, che non interromperemmo mai». È, sì, l’elogio che Casa-
vola fa di Arangio, ma che sembra scritto, senza volerlo, per se stesso:
quasi un ritratto autobiografico. Ho raccontato questo episodio, ma
potrei raccontarne tanti altri, ripercorrendo con la memoria e, lo
confesso, con grande nostalgia, i quarantanove anni – a pensarci, quasi
mezzo secolo – di vita trascorsi sotto la sua guida, da quando, nei primi
mesi del 1962, l’ho conosciuto. Come dimenticare ad esempio quanto mi
sia stato vicino, in occasione della libera docenza, venendo apposta a
Roma da Napoli, dove era stato trasferito già da due anni, e nonostante i
suoi impegni via via sempre più numerosi: prezioso sia nella scelta deli-
cata dell’argomento su cui fare la lezione, sia nell’aiutarmi a prepararla
fin quasi all’alba. E indugerei sui ricordi ovviamente non per parlare di
me, ma soltanto perché attraverso la mia esperienza personale, dal
racconto dei gesti e dei comportamenti di cui sono stato testimone e
beneficiario, emerge la figura di Casavola, il suo modo di essere: non
quello che appare ad un allievo devoto, che gli deve quello che è oggi, ma
quale è nella realtà il Casavola noto a tutti, rispettato da tutti, amato da
tutti. Molti, allievi e non, si sono giovati del suo aiuto, del suo incoraggia-
mento e della sua sapienza. In tanti lo hanno testimoniato nel festeggiarlo
a Napoli, circa un mese fa, il 12 gennaio, per il suo compleanno,
narrando gli incontri che si svolgevano, e con frequenza, a casa sua. Che
non era solo il luogo di residenza della famiglia, ma la domus, una sorta di
«oracolo della comunità» (totius oraculum civitatis), nella rappresentazione
metaforica che, in un passo del De oratore (1.45.200), citato anche da Casa-
vola nel Gaio nel suo tempo (Sententia legum, I, 19), Cicerone fa della casa di
Quinto Mucio Scevola, come «attestano la porta e il vestibolo ... giornal-
mente visitati da un gran numero di cittadini e da personaggi ragguarde-
volissimi» (cotidie frequentia civium ac summorum hominum splendore celebratur).Non era dunque solamente il domicilio privato, il posto in cui abitava e
abita con la sua famiglia, ma rappresentava una sorta di ‘seminario’ la
sede in cui studiosi si ritrovano, si radunano, si riuniscono sotto la guida
del maestro per discutere di ricerca e anche di didattica. Mi viene alla
mente Sesto Elio, amplissimus et clarissimus vir, famoso per il «grande
cuore» (egregie cordatus homo) e per la «sagacia» (catus), come, sempre Cice-
rone citando Ennio, lo ritrae in una notissima pagina del De oratore(1.45.198): pronto a mettere a disposizione dei suoi concittadini, o passeg-
giando per il foro o ricevendoli in casa, il suo sapere e la sua saggezza:
doti che si riscontrano in Casavola. La casa diventava dunque lo spazio in
cui si incontravano gli allievi del maestro – come è emerso nella manife-
stazione del 12 gennaio, dalle testimonianze dei discepoli e collaboratori
napoletani –, l’ambiente ideale per Casavola dove continuare a svolgere il
magistero esercitato nei luoghi pubblici: un docere inteso non in un senso
XVCronaca di due giornate
strettamente pedagogico, ma in un’accezione più ampia, aperta: un
compito che può estrinsecarsi con molte sfaccettature, «col consiglio, le
esortazioni, le domande, lo scambio di idee, e talvolta leggendo insieme e
ascoltando», potendo così «migliorare gli altri» (meliores facere), nella
descrizione che Cicerone – non mi stanco di citarlo – fa, in una sequenza
di ben sei verbi, e al gerundio, ritmata da un susseguirsi di si: monendo,cohortando, percontando, communicando, una legendo, audiendo (Orator 42.144). Un
modo di lavorare e stare insieme, in gruppo, in una sorta di cenacolo in
cui tutti sono un po’ attori, pur se accompagnati, ma in maniera discreta,
da colui che li guida: e che, muovendosi come uno di loro, da pari a pari,
li coinvolge, li associa a sé, assimilandosi a loro fin quasi ad oscurare la
propria individualità, il proprio io. Sembra di vedere «la viva scena della
comunità dei discepoli, attivamente diretta dal maestro e riassunta per la
tensione del comunicare dalla persona di lui», disegnata da Casavola,
ancora nel Gaio nel suo tempo (Sententia legum, I, 23) nell’illustrare la partico-
larità dell’insegnamento gaiano, caratterizzato dall’uso continuo del ‘noi’,
in una dimensione collettiva del lavoro, un plurale di «modestia», non di
‘maestà’. Vi si può scorgere, in qualche modo, la maniera di fare di Casa-
vola, la sua umiltà che è pari alla sua grandezza: «Tutti i grandi sono
modesti», Alle grossen Männer sind bescheiden, afferma Lessing nelle sue
Lettere sulla letteratura contemporanea. E Casavola fa parte, si potrebbe dire
riprendendo una riflessione di Seneca (Ep. 52.8), della schiera, purtroppo
non folta, di «coloro che insegnano con la loro vita» (qui vita docent) e «non
contenti di dirci ciò che dobbiamo fare ... ce ne danno l’esempio con le
loro azioni» (qui cum dixerunt quid faciendum sit probant faciendo). Ma c’è una
differenza, e non da poco, rispetto a quegli antichi giureconsulti. Che il
‘nostro’, nella sua casa, non se ne stava seduto su di un trono, sedens insolio (immagine usata da Cicerone: De legibus 1.3.10 e De oratore 3.33.133),
su di una sedia elevata («l’alto seggio», direbbe Dante: Inf. 1.128), e
dunque in una posizione di preminenza, di superiorità rispetto agli altri,
gli auditores: ma sedeva in mezzo a loro, inter pares. Io non ho partecipato a
quegli incontri con i suoi allievi napoletani, perché vivevo a Bari. Ma ho
potuto godere, in quanto ‘studioso fuori sede’, di un privilegio non
minore, anzi maggiore, poiché quando avevo bisogno di recarmi da lui
per sottoporgli i miei scritti, avevo il Maestro tutto per me. E non solo per
alcune ore, ma a volte anche per giorni, quando si trattava della lettura e
correzione di un lavoro monografico. Sì, per giorni: due, e talora anche
tre, nonostante i suoi tanti impegni, di insegnante, preside e poi di giudice
costituzionale. Giorni che io trascorrevo nella sua abitazione, come fossi
della famiglia: circondato dall’affetto dei suoi, della signora Luisa, consorsomnis vitae, e di Paola e Peppino, gli amatissimi figli, che ho visto nascere e
crescere in serenità ed armonia. Sono stati momenti bellissimi, che hanno
segnato la mia vita. E non sarò mai sufficientemente grato al mio maestro
XVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
per ciò che mi ha donato in tanti anni sia sul piano umano che scientifico.
Ebbene, in quel luogo, in questo clima, io sono cresciuto, mi sono
formato, ‘educato’ – uso il verbo pensando alla sua radice, educere – fino a
divenire, come, con una benevolenza non comune, nel riferirsi – nella
Postfazione al terzo volume della raccolta dei suoi scritti (Sententia legum tramondo antico e moderno, Napoli, 2004, 569) – agli ‘scolari’ a lui ‘venuti
dall’insegnamento barese’, ha voluto chiamarmi, in una sorta di Berufung
senza tempo, con la magnanimità di cui è capace, ‘successore degno e
fedele nella cattedra di Istituzioni’.
Prescindendo, ovviamente, dal destinatario, che è beneficiario ancora
una volta di un dono così grande da parte del maestro da suscitare un non
lieve imbarazzo, desidero soffermarmi un po’ sui due termini da lui
adoperati, ‘degno’ e ‘fedele’: vocaboli usati non a caso, e che apparten-
gono al lessico interiore di Casavola. Termini molto vicini, complemen-
tari, e che insieme disegnano una mappa dei comportamenti, tracciano
un’etica del vivere anche accademico. C’è, a questo proposito, un passo
che desidero leggere, tratto dal corpus dei suoi scritti, dai quali emerge in
filigrana una sorta di biografia, una narrazione della sua vita, che non
attiene soltanto al piano letterario, ma che tocca quello, più profondo, del
mondo intimo, che è il territorio dei sentimenti, dell’affetto, dell’anima.
Il brano, nel quale ricorre tra l’altro, e usato non casualmente, il
termine ‘degno’, è estrapolato ancora una volta dal ricordo di Alberto
Auricchio. E riguarda la maniera in cui Casavola, insieme a Biagio e
Alberto – gli ormai famosi inseparabili componenti del trio – viveva il
rapporto con i maestri, l’ ‘orgoglio’, come scrive, «di stare accanto a
uomini che riconoscevamo superiori, non umiliazione adulatoria, osten-
tata per propiziare i padroni delle nostre carriere». «Dunque», continua,
«dinanzi ai Maestri eravamo come provinciali a Roma» (mi piace questa
immagine, assai suggestiva, che mi fa pensare, mutatis mutandis, al giurista,
anche lui in un certo senso provinciale a Roma, studiato a fondo, come si
vedrà meglio in seguito, da Casavola: che lamenta il giudizio spesso nega-
tivo, ingeneroso, espresso da una parte della dottrina romanistica su
Gaio, «ridotto ... ad «una modesta figura di studioso di provincia»,
secondo una tesi, quella della ‘provincialità’, rivelatasi ‘inconsistente’). «E
tuttavia», prosegue Casavola nella sua riflessione, «capivamo che non
l’imitazione ci avrebbe reso degni di loro» – eccolo il vocabolo cruciale! –
«ma l’utilizzazione del loro insegnamento per battere nuove strade con
nuovi metodi e nuove ipotesi. D’istinto eravamo portati a crescere, diven-
tando, con gradualità biologica, diversi da loro. Ci siamo resi conto più
tardi, guardando a generazioni più giovani ed incalzanti, che la ricerca
della somiglianza rischia la parodia, e che quella della contrapposizione
ad ogni costo sfiora la situazione complessuale del parricidio». Che bella
pagina, quale testimonianza: una stupenda, mirabile, lezione di vita. C’è
XVIICronaca di due giornate
in questo straordinario frammento, quasi un manifesto del pensiero di
Casavola, un insegnamento, e un monito: l’invito, rivolto al discepolo, a
difendere, sì, la propria libertà autonomia indipendenza, a non lasciarsi
sopraffare, dominare dai maestri, traendo invece da loro stimoli, incentivi
ad andare avanti verso nuovi traguardi; ma si avverte al contempo il
richiamo ad un comportamento leale, ‘fedele’ – l’altro termine che Casa-
vola accompagna a «degno» – ad una condotta rispettosa dell’auctoritas,di chi – è sempre Casavola che parla – «aveva nella propria mente più
notizie, più esperienze, più sapere di quanto l’età non potesse aver
concesso a lui»: l’avvertimento a non cadere in un facile ribellismo, assu-
mendo un atteggiamento di disubbidienza preconcetta, di trasgressione
sconsiderata. C’è saggezza, e tanta, in quelle parole. Nel raccontare di sé,
della propria esperienza – un racconto che assume a tratti il tono anche
di una confessione – Casavola esorta a non eccedere, a non esagerare.
Invita insomma alla misura, al modus, alla moderatezza, che è caratteri-
stica della sua persona: un valore che si ritrova in Gaio quando esorta a
«non usare male il proprio diritto», come sollecita a fare, e con un nondebemus che ha una forte valenza morale, in un passo importante delle
Istituzioni (1.53), la cui rilevanza non è sfuggita all’occhio acuto e sensi-
bile del maestro, il quale, nell’occuparsi nel 1968, di «Potere imperiale e statodelle persone tra Adriano ed Antonino Pio» (in Sententia legum, I, 61 ss.), non
manca di dedicare la sua attenzione al documento, che contiene il
commento che il giurista adrianeo riserva all’intervento di Antonino Pio
diretto a limitare, coercere, il potere del padrone sugli schiavi, a punirne la
sevizia, se smisurata (supra modum), esaltando la linea «lungimirante» del
principe, che mira a contenere sia «la soggezione al potere paterno», sia
«la soggezione al potere schiavistico», e «garantisce che né l’una né
l’altra giungeranno più ad annientare l’esistenza fisica di un essere
umano»: «una sorta di habeas corpus da opporre ... contro le angustie e le
oppressioni della società patriarcale e schiavistica» (p. 64). In questa
visuale c’è la consapevolezza che – scrive ancora Casavola – «lo schiavo è
persona, è uomo, e come tale ha un ius suum che il padrone non deve
disconoscergli». E si giunge così ad uno dei temi sentiti, il più sentito: il
tema della persona, o persona umana, come talvolta preferisce dire, con
una specificazione che implica il «nesso tra homines e personae» («I dirittiumani», in Sententia legum, III, 349). E che è il tema della dignità dell’uomo,
‘dignità umana’ come si legge con una specificazione solenne, non certo
enfatica, nell’art. 41 comma 2o della Costituzione, che è – e qui si sente
anche la passione del giurista attento ai valori della nostra Carta – «il
prototipo e la fonte di tutti i diritti fondamentali, nella qualificazione
tedesca, inviolabili nell’aggettivazione presente nella Costituzione
italiana»: diritti che «sono riconosciuti e garantiti, sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua «personalità» (art. 2), onde assicurare «il pieno
XVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
sviluppo della persona umana» (art. 3 co. 2), e il suo «rispetto» (art. 32
co. 2). La dignità dell’uomo è, infatti, una proprietà morale, un valore
assoluto, non negoziabile, una prerogativa che gli deriva dalla natura, dal
fatto di essere innanzitutto un essere umano, dalle sue qualità, dal suo
status, dal rispetto che egli ha di sé e che genera negli altri.
La persona è argomento centrale del pensiero di Casavola: è il
nocciolo della sua cultura, professione di fede, della sua stessa esistenza.
Non c’è differenza fra l’intellettuale e l’uomo, lo studio e la vita. In lui i
due aspetti si intrecciano, si fondono. Sono il mezzo per la ricerca della
verità. Ma la persona è un tema cruciale anche in Gaio – il giurista non a
caso valorizzato da Casavola – uno dei cardini della sua ideologia. E
infatti, modificando una linea antica che poneva l’eredità al primo posto
nella sistematica del ius, il giurista colloca la «persona» al primo posto,
assegnandole un ruolo di preminenza nell’ordinamento, facendone il
centro dell’intera costruzione giuridica nella molteplicità dei suoi aspetti.
Una innovazione profonda, una vera rivoluzione che tende ad orizzon-
tare il diritto – ‘tutto il diritto’, omne ius come ripeterà più tardi, riecheg-
giando il Gaio di Institutiones 1.8, Ermogeniano, e rivelando, nonostante la
distanza temporale, un’affinità, una ‘sorta di vicinanza ideale’ con ‘il più
antico maestro’, come perspicacemente nota Elio Dovere, altro compo-
nente dell’ampio circolo culturale di Casavola – indirizzandolo verso il
suo destinatario naturale, l’uomo, a beneficio del quale è stato posto.
Hominum causa secondo Ermogeniano (D. 1.5.2), hominum gratia per Gaio,
come si evince da D. 22.1.28.1, il passo in cui affrontando la ‘vecchia
questione’ del partus ancillae, il giurista adrianeo critica con veemenza,
qualificandola ‘assurda’, la posizione di quanti consideravano i nati da
una schiava ‘frutti’, e cioè cose, al pari dei nati dagli animali (pecudum fetus)e degli altri prodotti provenienti da loro, come il latte il pelo la lana. E,
nell’imprimere al problema un taglio antropologico, una novità rispetto
all’orientamento giurisprudenziale anteriore, quello rappresentato da
Bruto e al quale pure sembra rifarsi – motiva la esclusione dei figli della
schiava dal novero dei fructus appellandosi alla natura – un richiamo che
non si trova in nessun altro giurista, né prima né dopo di lui – una naturache, osserva, omnes fructus rerum ... comparaverit, «ha creato tutti i frutti delle
cose», hominum gratia, «per amore degli uomini». L’uso della parola causa o
gratia può sembrare, a prima vista, una mera curiosità filologica, una sotti-
gliezza se non proprio una sofisticheria, ma non lo è. Indugio sul punto
solo perché il dubbio relativo alla eventuale differenza di significato fra le
due preposizioni, l’una, causa, con valore meramente ‘causale’, l’altra,
gratia, con un suono diverso, di tono solidaristico, fu – un evento per me
indimenticabile, uno dei momenti più alti ed emozionati di tutta la mia
vita – l’occasione di un dialogo, breve ma bellissimo, con Sua Santità
Giovanni Paolo II avvenuto nel maggio del 1996, a margine dell’XI
XIXCronaca di due giornate
Colloquio Internazionale Romanistico Canonistico su «Etica e diritto
nella formazione dei moderni ordinamenti giuridici», svoltosi proprio qui,
nello stesso magnifico luogo in cui ho oggi l’onore di parlare, congresso al
quale partecipò anche Casavola. Di quell’incontro c’è traccia in un mio
breve studio sulla «Solidarietà nel mondo antico», pubblicato in un
volume di scritti in onore di Giovanni Paolo II, Omaggio dei giuristi a SuaSantità nel XXV anno di Pontificato (Le vie della giustizia. Itinerari per il terzomillennio, Roma, 2003, 537 s.). Ne faccio menzione perché in quella
raccolta – un florilegio di riflessioni di oltre 420 autori, tutti compatti nel
condividere l’esigenza di utilizzare l’arma del diritto per tutelare l’uomo e
per promuovere il dialogo fra i popoli – c’è, non poteva mancare, uno
scritto di Casavola con un titolo, Se tutto il mondo desse ascolto alla voce delPapa, che racchiude speranza, auspicio, esortazione, supplica: un lavoro in
cui, nel riassumere il discorso tenuto da Giovanni Paolo II al Corpo
Diplomatico nel gennaio 2001 – una sollecitazione forte ai «grandi leaders
della vita civile del mondo» per, come scrive, richiamarli «tutti alle verità
incontestabili dei fini propri alla natura umana», Casavola cita le parole
pronunciate dal Pontefice: «Ogni uomo è mio fratello» (pag. 1000). È un
messaggio, un appello che ci riporta al tema della persona che, nella
visione di Casavola, è l’asse attorno al quale far ruotare i temi, fondamen-
tali, dell’uguaglianza e della giustizia: argomenti, valori, che ricorrono
continuamente nei suoi scritti, e non soltanto in quelli che compaiono in
riviste scientifiche, atti di congresso ecc., e cioè in luoghi destinati ad un
pubblico ristretto, specialistico, ma anche negli interventi che hanno come
destinataria una platea diversa, più vasta, quella dei cittadini che
comprano e leggono i giornali: i quotidiani, in particolare Il Mattino di
Napoli, e Il Messaggero di Roma, sui quali Casavola è solito scrivere, anche
due volte la settimana, con articoli che, nonostante il taglio giornalistico,
hanno spessore e dignità culturale non inferiore a quella degli scritti ospi-
tati in altre sedi. Ebbene, fra i tanti articoli pubblicati negli ultimi mesi da
Casavola, ce n’è uno, apparso il 27 dicembre 2010 su Il Mattino, che desi-
dero citare, meritevole di una particolare attenzione, e non solo per il
contenuto ma per il tema in sé. Perché riguarda, sì, un compleanno –
l’occasione che ci vede qui riuniti a festeggiare Casavola – il compleanno
però non di una persona, ma di una intera comunità: l’anniversario del
nostro Paese, dell’Italia, la «patria nostra», come Casavola tiene a chia-
marla nel concludere un suo lavoro del 2001, Patria italiana e diritto, in cui
afferma con forza che «il diritto prima che strumento di governo di una
collettività nazionale è valore etico di una comunità» e, osserva, che «se le
vie della politica non possono non essere plurime e talora indispensabil-
mente e sanamente antagoniste» – un’etica dell’agire politico che oggi è,
ahinoi, del tutto ignorata, anzi mortificata, umiliata – «la via del diritto,
secondo una antichissima metafora, non può che essere una, aperta e
XX Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
bene illuminata sulla quale tutti possono andare sicuri di muoversi in una
casa comune» (Sententia legum, III, 527). Per uno strano, beneaugurante
gioco del destino, una coincidenza di tempi stagioni vicende, gli ottan-
t’anni di Casavola, iniziati nel 1931, collimano con i centocinquant’anni
dell’Unità d’Italia, iniziati nel 1861 – l’articolo uscito su Il Mattino, e collo-
cato non a caso, per il suo pregio, in prima pagina, s’intitola: «Unità
d’Italia con esame di coscienza». Il discorso si apre con una domanda –
ma è tale solo apparentemente –: «A che cosa servono i compleanni se
non per ricordare la vita trascorsa e comprendere come e perché essa è
giunta alla data che ne apre un altro tratto per l’avvenire? Questo vale
per ciascuna esistenza personale, non può non valere per la storia di una
grande nazione». Prosegue, con l’intonazione amara di un’aspettativa
delusa, tradita: «Avremmo desiderato che per i tre cinquantenni del-
l’Unità d’Italia, al di là delle iniziative di celebrazioni, si fossero sollevate
domande radicali, tali da commuovere l’opinione pubblica, che appare
oggi smemorata del passato remoto e recente, oppure incline a cedere alle
lusinghe di scrittori che prediligono la storia dei se, fino a sognare una o
più Italie senza unità. Occorreva porsi da tempo la meta di studi destinati
ad una paideia italiana, una educazione degli italiani alla conoscenza
critica della nazione, dei suoi processi formativi, culturali, sociali, econo-
mici, amministrativi, politici, spirituali». Continua, a pagina 12, con un
altro interrogativo, e dello stesso tenore, sconfortato: «Stiamo ispirando la
nostra convivenza nazionale ai valori spirituali ed etico-politici, prima che
giuridici, della Costituzione?»; e va avanti con un avvertimento: «Se il
centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita deve essere onorato, lo
sia con un esame di coscienza collettivo che risponda alla domanda se per
caso non stiamo dimenticando l’eguaglianza dei cittadini, la giustizia
sociale, il diritto al lavoro, la libertà di coscienza, la libertà della scienza e
della scuola, il diritto all’ambiente e alla pace». È un passaggio cruciale, in
cui riappare puntuale in Casavola il richiamo a quei «diritti umani costi-
tuzionalmente inviolabili», al cui futuro bisognerebbe badare con molta
attenzione: uno ‘sguardo’ senza il quale, avverte concludendo l’articolo,
«la festa del compleanno della nostra Patria, per noi, suoi figli, sarà occa-
sione di scontata retorica o di rabbia». È un documento di grande inten-
sità, nel quale si ritrovano tutti i temi cari a Casavola: un elenco di diritti
non violabili, ‘sacri’ verrebbe da dire, ma in un’accezione ovviamente
laica: un catalogo che ricalca il quadro dei valori che la nostra Costitu-
zione considera essenziali, primari. Ebbene, in questo discorso, un memo-
randum per il tono vibrante, di implorazione e insieme di denuncia, c’è,
in sintesi, Casavola: l’uomo, il cittadino, il cultore della scienza giuridica
nelle vesti varie, ma vicine, di insegnante storico giudice costituzionale. È
il Casavola che medita sulle «ragioni dell’uomo e del mondo normativo
che lo circonda»; che «interroga l’antico, ne scruta le tensioni, ne riper-
XXICronaca di due giornate
corre l’ansia conoscitiva» (p. XV): una ricerca che non si consuma, «non
può esaurirsi tutta nel passato, ma deve riconsegnare lo storico del diritto
al proprio presente, rendendolo uomo fra gli uomini, cittadino fra i citta-
dini»: come ebbe a scrivere, uso il verbo al passato nel ricordo dell’amico
scomparso, e con l’ammirazione e l’affetto grandissimo che lo legava al
maestro che festeggiamo, Federico D’Ippolito nella sua nota, una prefa-
zione ai tre tomi di Sententia leguum (p. XXIV). Pure in questa lettura, che è
anche testimonianza di un allievo riconoscente, risulta l’impegno, la
premura di Casavola per il tema della «persona», il «primo dei diritti
umani», come ha cura di sottolineare, titolandone così la prima parte, nel
saggio su «I diritti umani»: che si apre con l’analisi del «termine persona»,
e che «costituisce», come si legge nelle battute iniziali (p. 347), «un nodo
semantico centrale nella cultura dell’uomo occidentale e, attraverso
questo, nella civilizzazione del mondo»; che «raccoglie ... sia l’individuo
concreto e particolare nei ruoli manifesti della relazionalità sociale, sia
l’essenza della dignità e il corredo delle profonde vocazioni e universali
istanze dell’essere umano». E ancora: «L’oscillazione tra il singolo e la
specie congiunge e mescola natura e storia, fatti e valori: persona umana e
contemporaneamente l’umanità che è presente in ognuno di noi e la
figura individuata in una formazione sociale. Non è per caso che i
maggiori impieghi linguistici di persona si siano verificati nell’ambito del
diritto e della teologia, cioè nel sapere che ordina la vita sociale degli
uomini, e in quello che tende a pensare, in termini accessibili all’uomo, la
vita di Dio». Il che rende ‘indispensabile’ ripercorrere il cammino della
parola, rifacendone il lungo, avventuroso tragitto, che muove, come si sa,
dal teatro, dalla maschera nell’etimologia fornita da Gavio Basso e giun-
taci tramite Gellio – etimo di cui, per Casavola, «non c’è ragione di dubi-
tare» – e avente la funzione di amplificare la voce dell’attore sulla scena,
accrescendone il suono. Ora, la maschera nasconde i volti di coloro che la
portano, occultandone le differenze. Dietro lo schermo, «l’indumento del-
la bocca», indumentum oris come la raffigura lo scrittore latino, gli individui
perdono la loro identità, sembrano tutti uguali. Ebbene, della enorme
potenzialità concettuale della parola persona si rende conto Gaio (è sempre
il giurista rivalutato da Casavola) che, adoperandola nel campo giuridico,
se ne serve per indicare, in un impiego in cui si avverte l’influenza della
cultura stoica, ogni essere umano, indipendentemente dal suo status. Èun’iniziativa importante, e nella quale si manifesta la linea culturale,
l’ideologia dell’intellettuale adrianeo, contrario alle discriminazioni
vigenti nella società e nell’ordinamento giuridico di Roma: che contrap-
pone liberi e schiavi (nella rappresentazione che dei ‘tre generi’ di uomini
Ulpiano fa in D. 1.1.4, il genus dei servi è descritto come contrarium a quello
dei liberi: liberi et his contrarium servi), distingue cittadini e stranieri, separa
maschi e femmine. È l’inizio di una nuova era, in cui anche gli schiavi, res
XXII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
per il ius, vengono considerati uomini: «sono, sì, schiavi, ma pur sempre
uomini», servi sunt, immo homines, come afferma Seneca nella sua famosis-
sima «equazione» (Ep.47) – la parola è di Casavola – che rappresenta «la
sfida dell’egualitarismo stoico alle tavole sociali e giuridiche della disugua-
glianza, che confina lo schiavo tra gli oggetti del patrimonio» (I dirittiumani, 349). È una raffigurazione ricca di pathos, e con la quale, mediante
l’avverbio immo volto a rettificare l’assunto precedente (servi sunt), Seneca
asserisce invece l’appartenenza degli schiavi al genere umano: immohomines. Perché, come si adopera a dire nella stessa Epistola (47.10), lo
schiavo non è diverso, per natura, dall’uomo libero. Essendo infatti «nato
dagli stessi semi» (ex isdem seminibus ortum), egli può «godere dello stesso
cielo» (eodem frui caelo), «respirare, vivere e morire in egual modo» (aequespirare, aeque vivere, aeque mori). È una riflessione in linea con l’idea che tutto
ciò che si vede «è un tutt’uno» (unum est), «in cui è compresa ogni cosa
divina ed umana» (quo divina atque humana conclusa sunt); che gli uomini sono
«membri di un grande corpo» (membra ... corporis magni), «parenti per
natura» (natura nos cognatos edidit), «creati con gli stessi elementi e per gli
stessi fini» (cum ex isdem et in eadem gigneret). È l’immagine di una società
umana universale, una «società ... molto simile a una volta di pietre»
(societas ... lapidum fornicationi simillima est), «che cadrebbe se le pietre non si
sostenessero a vicenda, reggendo così tutta la volta» (quae casura nisi in vicemobstarent, hoc ipso sustinetur). Una metafora assai efficace, che segue, nella
trama del discorso di Seneca, la citazione di un verso di Terenzio, da
tenere, raccomanda il filosofo di Cordoba, «nel cuore e sulla bocca» (inpectore et in ore): «sono uomo e penso che nulla che riguardi l’uomo mi sia
estraneo»: verso famosissimo (Il punitore di se stesso, 77: homo sum, humaninihil a me alienum puto), che può essere elevato a emblema dell’umanesimo,
ricordato più volte, e non soltanto dagli antichi, pagani e cristiani – Cice-
rone lo cita in tre luoghi, De off. 1.30, De leg. 1.33, De fin.3.63, in due dei
quali, nel De legibus e nel De finibus, se ne serve con un richiamo alla
natura, che è comune a tutti gli uomini e crea, come si ritiene da parte
degli stoici, «una reciproca solidarietà fra loro»; Ambrogio nel De officiis3.7.45, Agostino in Ep. 155.4 – ma anche da scrittori di epoca più recente,
come Montaigne e Herder. È una posizione che può stupire in uno scrit-
tore pagano, e che assomiglia all’idea cristiana dell’unità del genere
umano e dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio che Paolo di
Tarso, l’apostolo attento alla cultura stoica, secondo Wendland, sostiene e
divulga: come emerge dalle sue Lettere, a cominciare dal brano, notis-
simo, della lettera ai Galati (3.28: «Non vi è Giudeo né Greco, non vi è
servo né libero, non vi è maschio né femmina»), testimonianza significa-
tiva dell’antropologia cristiana dell’eguaglianza, che Casavola ama citare,
e non una sola volta. La rammenta una prima volta in una relazione
tenuta, nell’agosto del 1987, all’«Europäisches Forum Alpbach» sui termini
XXIIICronaca di due giornate
‘eguaglianza’ e ‘giustizia’ nell’esperienza giuridica romana e nella giuri-
sprudenza costituzionale italiana (Sententia legum, III, 63 ss.), ritenendola la
matrice culturale dello «statuto originario dell’eguaglianza» anche nelle
«ideologie rivoluzionarie» (p. 70). È un assunto, quello di San Paolo, che
si ritrova nella lettera ai Colossesi (3.11: «Non vi è né Greco né Giudeo, ...
barbaro, Scita, schiavo, libero») e che ritorna, in un’ottica universalistica,
nell’affermazione che tutti, come si legge nella prima lettera ai Corinti
(12.12-13; 20) «formano un unico corpo ... che ha, però, molte membra»:
«un corpo intero, connesso e unito strettamente da tutte le giunture di cui
è provvisto», come è scritto nella lettera agli Efesini (4.16). È una visuale
che si lega, per l’appunto, allo stoicismo, che insegna la fratellanza e la
solidarietà fra gli uomini, l’appartenenza di «tutti gli uomini» – omneshomines, come si esprime Gaio sia nelle Istituzioni (1.9) sia nelle Res cotti-dianae (D. 41.1.1 pr.) – al ‘genere umano’ (genus humanum): altra immagine
adoperata sempre da questo giurista, vicino anche lui alla dottrina stoica,
per raccogliere, in una rappresentazione onnicomprensiva, l’insieme degli
esseri umani, senza distinzioni. Ebbene, «l’ingresso dello stoicismo»,
come osserva Casavola, «è nella storia delle idee l’evento che illumina di
un grande valore l’unità del genere umano» ; e segna il passaggio
«dall’ecumene stoica all’ecumene imperiale», come recita il titolo di un
discorso da lui pronunciato in Campidoglio il 21 aprile 2003: uno
scenario nel quale, dice, «potrà poi esprimersi, in una radicale assunzione
di realtà e non per una proclamazione utopica, la fede cristiana di Paolo»
(Sententia legum, III, 559 s.): e qui torna la menzione del frammento tratto
dall’Epistola ai Galati, 3.28. È la strada dei diritti umani, la via per
combattere le discriminazioni, tutte, e non soltanto quella fra liberi e
schiavi. Un disegno che – è il proposito di Gaio – si affida alla «ragione
naturale», la quale, come il giurista adrianeo si affanna a sostenere in
varie occasioni, fonda «il diritto comune a tutti gli uomini», «ispira le
leggi e i costumi di tutti i popoli» (Inst.1.1). Ed è una linea che collima
con la visione politico-universalistica di Adriano – è famoso l’elogio di
Elio Aristide dell’impero come «un’unica grande città» – e di Marco
Aurelio, per il quale «gli Stati sono come le singole case di un’unica
città». È, questo, «lo schema rappresentativo della cosmopoli stoica», che
Gaio, tra i giuristi romani, è «l’autore che più consapevolmente sembra
avere assimilato»: come sostiene Casavola in quel suo splendido lavoro,
che non mi stanco di citare, su Cultura e scienza giuridica nel secondosecolo d.C. (Sententia legum, I, 166). Naturalis ratio che è «la chiave di volta
dell’architettura giusnaturalistica gaiana», come la descrive Aldo Schia-
vone (Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, 491 nt.17), altro
allievo di Casavola, sia pure, per così dire, discipulus communis, come risulta
dalla dedica a più amici e maestri che si legge negli Studi sulle logiche deigiuristi romani.
XXIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Non a caso, nel «grande sforzo di razionalizzazione del diritto» che
caratterizza il pensiero giurisprudenziale di questa età, «la ricerca delle
rationes è presente», nota Casavola (Sententia legum, I, 127), «in Gaio più che
in alcun altro giurista del secolo»: i giuristi «adrianei» (così li chiama tutti,
unificandoli in una denominazione che «vuole esprimere un dato cultu-
rale, non cronologico») come precisa nella Prefazione al libro licenziato
nell’estate del 1980: un libro «corredato da amplissime Note di prosopografiae bibliografia», curate, ha l’amabilità di sottolineare, «con rara competenza,
da Giacomo De Cristofaro, mio collaboratore ed assistente», e dedicato –
un particolare da segnalare anche per la motivazione, densa di significato
– «a tutti i maestri della romanistica italiana, che nel volgere di pochi
anni, consegnandoci il ricordo del loro insegnamento, hanno reso più
acuta la responsabilità del nostro». Lo studio delle rationes, che qualche
giureconsulto, Nerazio in particolare, ritiene – ma per Casavola a torto –
un esercizio pericoloso, potenzialmente «eversivo», è invece in Gaio
un’utile occasione di verifica del ius, di ammodernamento di istituzioni
sociali «provenienti da un passato remotissimo» (Sententia legum, I, 121 s.).
È «ricerca di un collegamento tra società e diritto» (p. 127), ed è lo stru-
mento di cui Gaio si avvale soprattutto per opporsi al trattamento disu-
guale che l’ordinamento giuridico romano riservava alle donne, la cui
«condizione è in molti campi inferiore a quella degli uomini»: in multisiuris nostri articulis deterior est condicio feminarum quam masculorum, come attesta
Papiniano in un documento dai toni aspri (D. 1.5.9), di una «schiettezza
un po’ brutale», come lo giudica J. H. Michel in uno scritto su L’inférioritéde la condition féminine. È un impegno, quello del giurista, volto non certo ad
una impensabile, impraticabile equiparazione dei sessi, ma tendente per
lo meno a migliorare la situazione delle donne, le quali, nell’ottica di
Musonio Rufo, intellettuale anche lui di formazione stoica, «ricevono
dagli dei lo stesso logos dei maschi». E Casavola, nel suo lavoro, attende a
scrutare i movimenti di Gaio, a coglierne le istanze, le inquietudini, a
seguirne i passi. Senza pregiudizi – libero dai condizionamenti di una
dottrina per troppo tempo refrattaria al nuovo, e mosso anche dal fatto,
strano, e da lui puntualmente evidenziato, di «una presenza umana, tanto
attiva e pur completamente ignorata dai contemporanei e dai posteri
immediati, che esplode improvvisa alla fama nella legge delle citazioni e
guadagna la più alta fortuna nelle scuole di Oriente e di Occidente» (Gaionel suo tempo, in Sententia legum, I, 18) – Casavola esamina i testi gaiani, li
interroga, e scopre una faccia del giurista prima sconosciuta. Segnala la
sua critica, aspra, all’opinione corrente (quae vulgo creditur) che giustifica la
tutela muliebre con «la suggestionabilità del temperamento che espone le
donne ai raggiri altrui e che perciò era giusto che fossero sorrette dal
controllo del tutore»: una «spiegazione» che Gaio ritiene «apparente e
non vera, dal momento che le donne adulte amministrano da sé i propri
XXVCronaca di due giornate
affari e il tutore interviene solo per adempiere ad una formalità, e spesso
egli è persino costretto da una ingiunzione del pretore a prestare suo
malgrado la propria auctoritas» (Sententia legum, I, 121). È la traduzione,
letterale ma elegante, che Casavola fa di Inst. 1.190, un passo celebre, nel
quale «applicando il metodo delle rationes», l’istituto della tutela mulierisrivela il suo anacronismo, denuncia la sua inattualità e, annota Casavola,
«si vanifica in un insensato rituale» (p. 122). Ma l’apporto di Casavola ad
una esplorazione serena del pensiero di Gaio non si ferma qui. Indagando
ancora nel tema della parentela, dei legami familiari, rileva un altro
importate contributo del giurista, diretto a contrastare la concezione
tipica, tradizionale della famiglia romana «come aggregato agnatizio,
fondato sulla posizione di potere del padre» e a sostenere un’idea di
«famiglia vissuta, nella sua più immediata naturalità, da tutte le altre
nazioni» (p. 119): un modello lontano da un costume maschilista e in linea
con una visione della parentela non più legata ad un criterio artificiale,
l’agnatio, ma fondata sul vincolo di sangue, la ratio sanguinis come la chiama
Gaio in D. 38.8.2. È una svolta epocale nella cultura romana: l’acquisi-
zione della consapevolezza che ci sono diritti fondati sulla natura, iuranaturalia, che vanno rispettati, tutelati: diritti che «la ragione civile non
può caducare», non può «corrompere»: civilis ratio naturalia iura corrumperenon potest, come Gaio afferma, icasticamente, in D. 4.5.8 e Inst. 1.158,
rivendicando il ruolo dinamico della ragione naturale che, «nella misura
in cui ... è strumentale alla critica dell’ordinamento giuridico esistente ...
si pone come attuale e creativa», secondo l’esegesi, magistrale, che Casa-
vola fa dei testi relativi (p. 120). E anche questa è una peculiarità della
posizione gaiana, che Casavola ha avuto il merito di evidenziare, scor-
gendo pure nella «sintassi» del giurista «l’energia di una disposizione
simpatetica dello scrittore per il termine universale che limita l’ordina-
mento particolare. Vi si esprime cioè», è sempre Casavola che scrive anzi
parla, «quella fede nelle due patrie – Roma per il cittadino, il mondo per
l’uomo – che nell’apparente serenità della formulazione di Marco Aurelio
nasconde il dramma della ragione in questo secolo, l’inquietudine intellet-
tuale più intensa, il senso di costrizione indotto dall’ordinamento partico-
lare, percepito come gabbia, oltre la quale la natura è libertà». E così,
attraverso Gaio, dando voce alla sua voce, Casavola riesce a registrare la
crisi di un regime arretrato che, come quello decemvirale, in materia di
successione intestata, «è rigorosamente coerente con l’organizzazione
agnatizia e gentilizia della società originaria»: un ius che il giurista giudica
strictum e causa di iniquitates (Inst. 3.18, 25). L’attenzione che Casavola
dedica alle rationes che, come scrive, «non vengono identificate ontologica-
mente, ma verificate nella comprensibilità e accettabilità dell’opera loro
da parte di ciascun uomo», non si ferma al versante storico, all’indagine
del romanista, ma si ritrova nella sua esperienza di giudice costituzionale,
XXVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
la funzione che Casavola – votato dal Parlamento con un suffragio
larghissimo, pressoché unanime, un vero plebiscito, segno di una stima
generale – è stato «chiamato» (uso il verbo nella sua accezione autentica,
quasi religiosa, di «vocazione») a svolgere. Ebbene, nell’esercizio di
questo compito, un officium delicatissimo, Casavola ha sempre usato quel
«penetrante strumento di osservazione e di valutazione», come lo defi-
nisce, «quale è quello della ragionevolezza» (Sententia legum, III, 73). E la
ragionevolezza – rationabilitas nella lingua latina – nel rinviare alla sua
radice ratio, indica non solo un criterio giuridico ma anche una virtù
morale: un contegno che richiede prudenza, saggezza, fronesis: una capa-
cità dianoetica che, come insegna Aristotele nell’Etica Nicomachea (VI,
5.1140, 25), è la capacità di «decidere ciò che è bene e utile»
(taù ...aßgauaù kaıù symfe¥ronta). Che non è, beninteso, un giudicare a proprio
piacimento, arbitrariamente, ma un deliberare con equilibrio, col buon-
senso, grazie anche all’«autopoiesis della ragionevolezza» che, come scrive
Jörg Luther nella voce Ragionevolezza (delle leggi), apparsa nel Digesto delleDiscipline Pubblicistiche (XII, 1997, 343), «sta nel pretendere un controllo
sulle funzioni del legislatore che non degeneri in co-legislazione e nel
sottoporre il proprio giudizio alla critica della società aperta degli inter-
preti della costituzione» e «deriva dal fatto che si esclude l’infallibilità non
solo del legislatore ma anche quella del controllore». È una visione non
miracolistica della ragionevolezza, ma una concezione misurata, sarei
tentato di dire «umana»: una «virtù» che, come dice Tommaseo, «ha
l’idea del possibile ... piuttosto che quella del vero». Ed è la virtù che, per
la discrezione che lo caratterizza, e che è nello stesso tempo rigore equani-
mità serenità, Casavola ha cercato sempre di praticare nel ruolo di
giudice delle leggi, nelle tante decisioni, sentenze o ordinanze, da lui
redatte, e che «devono essere motivate e argomentate persuasivamente
secondo ragione», come ha ribadito lo scorso 21 febbraio, in un articolo
pubblicato su Il Mattino nel difendere, e con forza, la funzione particolare
della Consulta che, a differenza del Parlamento, luogo in cui «le delibera-
zioni ... si reggono sui numeri», decide invece con una logica profonda-
mente diversa dal momento che «dove si discute in termini di diritto la
forza della ragione non deve scambiarsi con le quantità aritmetiche». Tra
queste pronunce mi piace citare la sentenza n. 183 del 10-18 febbraio
1988, in tema di adozione: l’istituzione che per P.A. Fenet, autore di una
raccolta completa dei lavori preparatori del Codice Napoleone, «le Code
de la nature», secondo Cambacérès, ed elogiato da Casavola (Dallaproprietà alla solidarietà: appunti per una riflessione in tema di diritti individuali, inSententia legum, III, 367 ss., part. nt. 3), è «l’immagine vivente della
natura», natura che è «la terra ferma» su cui costruire l’edificio della legi-
slazione civile, con la conseguenza che, in materia di filiazione, «una legi-
slazione conforme a natura non può tollerare discriminazioni tra figli
XXVIICronaca di due giornate
naturali e legittimi». Ebbene, nell’esprimersi, nella veste di relatore, nel
giudizio di legittimità dell’art. 79, primo comma, della legge 4 maggio
1983 n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), Casa-
vola considera «palese l’intento del legislatore italiano ... di accostarsi alle
prescrizioni» della Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967 che,
all’art. 8 n. 3, «esige ... che tra adottante ed adottando intercorra quel
divario di età che è naturale nel rapporto genitori – figli». E ricorda che
in questa norma «è ... riecheggiata la regola romana», conservata nella
compliazione giustinianea, secondo cui «l’adozione imita la natura»
(adoptio naturam imitatur), che «sarebbe mostruoso il fatto che il figlio sia più
grande del padre» (pro monstro est ut maior sit filius quam pater), con l’ovvia
conseguenza che l’adottante debba «precedere di diciotto anni» (decem etocto annis praecedere) l’adottato (Inst. 1.11.4). Una regola che è servita al legi-
slatore italiano del 1983 per adeguarsi alla Convenzione europea. Ho
citato questa sentenza perché il Casavola giudice, nel motivare la deci-
sione, e rafforzarla, ricorre anche all’antico, torna per un po’ ad indossare
la veste dello storico del diritto, facendo coincidere nella sua persona due
ruoli, parti, figure, quella del romanista e quella del giurista. Torna così
indietro nel tempo, non certo con l’intento di attualizzare il passato, di far
coincidere l’ieri e l’oggi in un’assurda illusione di continuità ma, nella
consapevolezza della distanza e non solo cronologica tra l’olim e l’hodie, col
proposito di risvegliare la nostra memoria, prendendo dal passato ciò che
è entrato nella nostra cultura e ha contribuito a costruire la nostra attua-
lità. Forse in quel suo operare si sono rese comprensibili le parole che
nell’inverno del 1951, quando con uno «sparuto gruppetto» di altri debut-
tanti, all’età di vent’anni, entrava quale allievo interno nell’Istituto di
diritto romano dell’Università di Napoli, sentì pronunciare da Mario
Lauria, che ne era allora il direttore: «Non vogliamo farvi diventare
romanisti, ma giuristi». Parole che, confessa Casavola nel ripercorrere
nella Postfazione a Sententia legum alcune tappe del suo cammino (III,
567 ss.), «non hanno mai cessato di inseguirmi, divenendo sempre più
chiare nel loro significato a mano a mano che la vita si è inoltrata negli
studi, nell’insegnamento, nelle responsabilità pubbliche». E così,
continua, «quella frase di Mario Lauria ... è compresa da me, oggi, come
non lo fu né poteva esserlo allora», nel senso che «il diritto, anche quello
che ad una visione sistematica e costituzionale appare come legiferato è
nel momento della sua interpretazione applicativa, diritto controverso e
casistico, cioè giurisprudenziale. Ha importanza secondaria la qualità
formale della fonte di questo diritto, la scienza o la giurisdizione. Il nucleo
essenziale è rappresentato dall’essere il diritto giurisprudenziale non un
comando, ma un’argomentazione ... Non è sufficiente che la legge sia
razionale, occorre che sia ragionevole. E la ragionevolezza della legge va
dimostrata in ordine al caso da regolare» (pp. 571-572). E dunque col
XXVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
tempo, col trascorrere della vita, il Casavola non più ventenne «comincia
a comprendere la direzione verso cui è stata volta», e a individuarne «con
maggior chiarezza le suggestioni che l’hanno guidata» (pag. 571). Eppure
quel giovane, anche a voler ammettere che all’inizio della sua attività
scientifica non potesse capire se il programma enunciato da Lauria fosse
«troppo modesto o troppo ambizioso» sfuggendogli «la dimensione dei
due termini, romanista e giurista», doveva sin da allora (e ancor prima) –
a giudicare dai risultati via via conseguiti: brillanti in tutti i ruoli, svariati,
da lui ricoperti – già possedere in sé doti straordinarie di ingegno e
saggezza, di lungimiranza (prudentia). Qualità che non si acquistano con
l’età ma con l’intelligenza, non aetate verum ingenio apiscitur sapientia, come
nota Plauto nel Trinummus (367-368) perché «l’età può solo offrire condi-
mento, ma è la saggezza a fornire il cibo all’età» (sapienti aetas condimentum,sapiens aetati cibust). Una massima che si ritrova in Persio, il quale nella
quarta Satira, riferendosi ad Alcibiade, nell’esaltarne attraverso Socrate
«l’ingegno» e «l’assennatezza», scrive che «giunsero veloci, prima della
barba»: ingenium et rerum prudentia velox ante pilos venit (4-5).
Qual’è il messaggio, ma anche insegnamento ammonimento e
auspicio insieme, che viene da Franco – permettetemi di chiamarlo ora,
soltanto una volta, per nome, violando una regola, non solo accademica,
che pure amo rispettare – dal suo pensare e dal suo agire, di persona e di
giurista? Lo si può trarre dalla pagina che chiude la sua Postfazione.
Dopo aver osservato che «la crisi novecentesca del codice e più in generale
della legislazione ha fatto riascoltare come un monito, e non soltanto una
definizione, le parole di Celso ‘ius est ars boni et aequi ’», e che perciò «il
diritto è un sapere operativo che realizza i valori etici del bene con quelli
logici di una equilibrata argomentazione», nel proporre l’esempio del
giurista – il «modello umano», come scrive, «che i romani indicavano
come prudens, cioè saggio» – conclude con l’aspirazione ad una scientia iurische, uscendo «dalle angustie accademiche», «sappia contribuire tramite
gli allievi propri ed altrui, a dare alla società il bonum et aequum, la giustizia
che attende e che ha diritto di ottenere». Parole di alto valore, morale e
culturale, che sintetizzano, con rara efficacia, il significato del suo magi-
stero, il suo credo. Il credo di una vita. Una vita trascorsa nel professare e
additare principi modelli valori, riassumibili in tre parole: logos, pathos,ethos. Che sono le «chiavi» – come Casavola ha scritto di recente in Munu-scula (Napoli 2010, 41 ss.) nel commemorare, insieme ad altri studiosi
(colleghi, amici, allievi), Luigi Amirante, più precisamente nel «Come
ricordare Luigi Amirante»: che è il titolo esatto della memoria, ove
l’avverbio pare esprimere il proposito di non limitarsi ad una lettura delle
opere pubblicate o inedite ma di «tentare di comporre cose lette e cose
vissute», sembra implicare il desiderio di ritrarre nella maniera più bella e
autentica la figura di un altro «significativo componente» di «quel vivace
XXIXCronaca di due giornate
* Si riporta integralmente, anche nel tono discorsivo, il testo predisposto per il 23 febbraio,
senza i tagli apportati all’ultimo momento per esigenze organizzative. Le doppie virgolette nella
trattazione dell’inedito di Casavola indicano citazioni letterali dal ciclostilato.
sodalizio napoletano» – e cioè, insomma, gli strumenti di cui dispone lo
storico per leggere un passato che «non è mai del tutto passato»: «il logosper la ricostruzione razionale di eventi e istituzioni; il pathos per svelare la
consapevolezza emotiva degli antichi; l’ethos per intendere la lezione
morale, che dal passato anche il più remoto raggiunge il presente».
Ebbene, sono questi gli ideali, gli stessi che nel suo vivere quotitiano,
nell’operosità scientifica e civile di tutti i giorni, ha praticato il Maestro
che festeggiamo, «uomo di fede cattolica ma di spirito laico», «testimone
esemplare del nostro tempo e della vita sana delle nostre istituzioni, che ha
servito con sobrietà, dignità e onore negli snodi (anche etici) più ardui e
delicati che vi siano», come ha detto di lui sul Corriere del Mezzogiorno, Luigi
Labruna nel celebrarne «l’etica della longevità»: l’espressione adoperata
proprio da Casavola anni addietro, nell’omaggiare «i vecchi, questi
vecchi» – si riferiva, tra gli altri vegliardi a Francesco De Martino – che,
affermava, «vanno tenuti cari». Ed è ciò che, riprendendo il suo invito, ci
proponiamo di fare oggi noi per lui, augurandogli, col cuore colmo di
gratitudine e di amore, di vivere bene e a lungo: di trascorrere una senectus‘viridis’, per dirla con Virgilio (Aen. 6.304), e cioè verde, vigorosa, e
‘cervina’, con Giovenale (14.251), e cioè lunghissima: come quella del cervo
che, com’è noto, secondo la credenza popolare viveva quattro volte più
della cornacchia, la quale, a sua volta, viveva per nove generazioni umane
(saeclis ... novem nella poesia di Ovidio: Amores 2.6.35), e quindi, in totale,
trentasei volte più dell’uomo [RENATO QUADRATO].
IL GIUSTINIANO DEL PROFESSÓR CASAVOLA*
Al dato anagrafico che costituisce l’occasione si richiama il cartoncino
d’invito. Il professor Casavola pretende di essere un ottantenne. È credi-
bile? Se non ne conoscessimo la tranquilla semplicità, verrebbe da sospet-
tare una sorta di civetteria. Una straordinaria vivezza intellettuale, che
non disdegna tratti di ironia divertita; vigorìa; aspetto; il suo essere
sempre se stesso (antitesi dell’invecchiare): quando gli ottanta sono come i
suoi, è traguardo invidiabile e dunque da celebrare.
È un gran piacere essere qui, insieme con tanti altri, a festeggiare
Franco Casavola: in questi, e per questi, magnifici ottant’anni; per
quanto, lungo di essi, egli ha saputo darci. Poter poi ricostruire, pur in
minima parte e per un profilo assai specifico, la sua vicenda intellettuale è
un onore. Ne ringrazio gli organizzatori.
XXX Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Nel programmare l’incontro, a ciascuno è stato dato un compito senza
vincolarci con titoli specifici. Al mio intervento tuttavia una denomina-
zione mi è piaciuto darla, per un particolare interesse al tema affidatomi.
Nei limiti concessi, propongo un viaggio nel tempo. No, non fino al
sesto secolo dopo Cristo. Al centro di quanto dirò non è Giustiniano in sé,
ma appunto un Giustiniano secondo Casavola. Voglio riportarvi indietro
solo cinquant’anni o poco meno: un soffio nella storia, per chi maneggia
secoli; non pochi, se rapportati alle nostre vite. E parlare di un inedito.
Napoli, Facoltà di Giurisprudenza, anno accademico 1963-1964,
Corso di Esegesi delle fonti giuridiche.
Per loro natura i corsi di lezioni nascono sotto il segno dell’effimero.
Non perché non lascino un segno. Anzi, oltre che sugli uditori (ognuno
ricorda lezioni indimenticabili, in qualsiasi ordine di studi), possono inci-
dere sullo stesso docente influenzandone il percorso. Li dico effimeri in
quanto per lo più non ne resta traccia materiale. Quando vengano river-
sati in un libro, saranno però altro. Di qui il fascino di certi corsi fine otto-
cento o primo novecento, «raccolti dallo studente y», «rivisti dal prof. x»;
ci fanno ‘assistere’ a lezioni i cui partecipanti sono ormai polvere.
Del corso di cui voglio parlare la traccia materiale c’è: il fascicolo
ciclostilato in cui lo ha raccolto un uditore di allora. Che vi indica sia il
titolo sia il docente (Le costituzioni ‘de conceptione’ e ‘de confirmatione Digestorum’;prof. Francesco Paolo Casavola), ma del proprio nome non dà conto.
Lascio da parte l’identità del raccoglitore. Oggi, si diverte a descriversi
come «studente, nudo e crudo, di diciannove anni» con «uso maldestro
del ciclostile».
Concentriamoci sulle lezioni, che il fascicolo mette in grado di cono-
scere.
A quanti incontri esse assommassero non è ricostruibile, né il testo
rivela loro collocazione e ruolo nell’insegnamento di Esegesi. Potremmo
ipotizzare che costituissero il ‘lavoro sul campo’, un exemplum, particolar-
mente significativo, per insegnare il modo di avvicinarsi alle fonti. Una
conferma può darla il notevole spazio riservato ai testi. Con fine accorgi-
mento vengono inseriti nella trama del discorso così da agevolarne la
comprensione, ma sono rigorosamente in latino senza accompagnamento
di traduzione (ormai obbligata: viene nostalgia di quei primi anni
Sessanta...).
A fronte delle sedici pagine si resta sorpresi di quanti temi, e sfaccetta-
ture problematiche, ne scaturiscano. E lo stile, si badi, non è compresso.
La scrittura si snoda pacata, chiara, arricchita di indicazioni bibliogra-
fiche, di richiami di altre posizioni. A sostenere le affermazioni del
docente, le citazioni testuali di cui ho appena detto, frequenti e ampie:
consentono all’interlocutore (di oggi e di allora) il confronto di prima
mano fra le parole antiche e il senso che ne ricava chi le analizza.
XXXICronaca di due giornate
Un «Sommario» in prima pagina scandisce quattro paragrafi: primo e
ultimo dedicati rispettivamente a Deo auctore e a Tanta-De¥dwken; due inter-
medi a Omnem. L’ambito di indagine è così delimitato: le due costituzioni
relative al Digesto che danno il titolo – la seconda di esse, peraltro, è all’in-
tera compilazione che fa riferimento – prese però in considerazione insieme
con la costituzione per la riforma degli studi giuridici, riforma che proprio
l’aver portato a compimento il disegno compilatorio rende possibile.
Se dalla seconda metà degli anni Sessanta il Casavola studioso nel
guardare ai giuristi romani comincia a proporre «una linea metodica
diversa da quelle comunemente sperimentate» (come poi scriverà in una
valutazione conclusiva), sullo scorcio della prima metà di quegli anni il
Casavola docente tèsta con i suoi studenti un modo diverso anche di avvi-
cinarsi alla «opera di compilazione svolta da Giustiniano». Parlo di
‘testare’ per segnalare l’impegno di didatta. Accantonando più facili
strade tralatizie, con rispetto e fiducia nelle capacità di quei giovani –
ancora ignari di novità e rilevanza della prospettiva – li coinvolge in un
discorso, scientifico, che gli preme.
La linea di indagine sul «pensiero giuridico romano» si arricchisce via
via di ulteriori contributi (è ben noto), fino a sfociare nel 1980 nella raccolta
di saggi risalenti e ultimi. L’altra linea, invece – intorno al pensiero compi-
latorio, vorrei dire – non trova altrettanto compiuta trattazione sul piano
delle pubblicazioni: se non per qualche aspetto e in alcuni lavori.
Anche per questo l’inedito risulta di notevole interesse. Testimonia,
certamente, del rilievo che Casavola attribuisce alla educazione giuridica.
Ma testimonia altresì di una determinata direzione di ricerca – originale,
importante – che egli in queste lezioni delinea.
«Problema principale» da «considerare in relazione all’opera di
compilazione», scrive, è «perché sia sorta una tale iniziativa e da quale
idea-forza sia stata alimentata». A spiegazioni meramente psicologistiche
(quasi in chiave di vanagloria imperiale), a rinunzie a capire se non con
mere congetture adducendo carenza di fonti, egli contrappone come testi-
monianza decisiva la Deo auctore: in cui questa idea-forza «facilmente si
rintraccia»; in cui si possono «scoprire i motivi reali che animarono
Giustiniano nel suo grandioso progetto».
Con una prospettiva di questo tipo mi trovo in speciale sintonia, ‘per
fatto personale’. Essa è di conforto al modo in cui io stessa ho considerato
l’insieme delle costituzioni che aprono la compilazione: come una sorta di
manifesto programmatico. Anche se al conforto, confesso, è frammisto il
sollievo che si tratti di un inedito; diversamente, il mio di Giustiniano
forse (non esagero) non avrebbe visto la luce.
Ma la sintonia, mi scuso per l’autocitazione, non credo mi faccia
forzare l’impostazione di Casavola. Non si tratta di una singola afferma-
zione estrapolata dal contesto e così caricata di un significato che potrebbe
XXXII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
non avere. La collocazione in apertura di queste frasi, la loro stessa formu-
lazione ne attestano un ruolo centrale in quanto si verrà poi sostenendo. È
una dichiarazione preliminare di intenti, una chiave di lettura offerta a chi
voglia seguire il ragionamento. Contestualmente, comporta la necessità di
sgombrare il campo da altre, e più condivise, prospettive di indagine. E
viene esplicitamente menzionato il «criterio seguito da alcuni autori» inte-
ressati soprattutto al modo di procedere nei lavori ‘codificatori’. Non è
quanto Casavola cerca nelle testimonianze compilatorie, in specie nelle tre
costituzioni messe al centro della analisi. Alla compilazione egli si avvicina
appunto alla ricerca della idea che la sostiene.
Non solo. Pur nella succinta enunciazione, a me pare che della nuova
prospettiva si diano anche altri segnali. Applico ad essi parole usate
dall’autore per i lavori sui giuristi e che ho appena ricordate: vi si può
cogliere «una linea metodica diversa da quelle comunemente sperimen-
tate». Ne farò subito cenno. Ma voglio premettere che dietro il fascicolo –
ne sono convinta – stanno uno studio ben più ampio, una meditazione
approfondita, che non hanno trovato, né qui, né (mi sembra) altrove,
intera espressione.
La lettura del nostro ciclostilato ha risvegliato in me una sorta di eco:
qualcosa che mi è occorso di ascoltare due o tre anni fa dallo stesso Casa-
vola e che ora intendo meglio, anche nella implicazione del tanto lavoro
che traspare.
In una presentazione che egli ha avuto la gentilezza di fare al secondo
volume della mia ricerca su Giustiniano, la sua conoscenza di queste
costituzioni mi era apparsa così puntuale, così ponderata che ne serbo
speciale ricordo: una valutazione ‘dal di dentro’, tale da sorprendere pur
conoscendo la cultura di Casavola. Ben al di là di un corredo della
memoria che tali testi rappresentano per i romanisti, era qualcosa di
diverso anche dalla frequentazione ravvicinata per uno studio specifico.
Era un vero e proprio dialogo con Giustiniano, quello a cui assiste-
vamo. Casavola lo intesseva con qualche scarno appunto e senza bisogno
di testi sottomano: trascorrendo in un filo unitario da una costituzione
all’altra e circolarmente tornando soprattutto a Deo; citando parola per
parola il dire dell’imperatore; interpretandone gli intendimenti.
Oggi, potendo collegare le inedite lezioni partenopee di Esegesi e il
‘dialogo con Giustiniano’ a cui ho avuto la ventura di assistere, vorrei
esprimere con una metafora la sensazione che ne traggo: che nel fiume
delle ricerche di Casavola questo pur importante affluente sia stato atten-
tamente esplorato, ma senza poi arrivare a una mappatura conclusiva.
Fortuitamente? Volontariamente? Impossibile per me avanzare anche
solo una ipotesi.
Mi limito a trasmettere piuttosto i segnali di cui dicevo. In breve, a
causa del tempo a disposizione, ma anche dell’essere per lo più indica-
XXXIIICronaca di due giornate
zioni. L’ambito non consente all’autore di svilupparle, anche se le avva-
lora costantemente con testimonianze e considerazioni che non posso ora
richiamare.
Il filo conduttore che Casavola, alla ricerca della idea-forza della
compilazione, sembra individuare nei testi è l’auctoritas imperiale. Auctoritasche implica considerazione identica per letteratura giurisprudenziale e per
testi legislativi, ambedue «egualmente soggetti» ad essa. Auctoritas che
risulta unico metro di autenticità («autentico per Giustiniano tutto e solo
ciò che può essere riferito» ad essa): un criterio «incomprensibile, per
noi», la cui «giustificazione scientifica» si trova nella trasformazione
propter utilitatem rerum. Auctoritas che in certo senso fonda perfino il ricono-
scimento da parte di Casavola di brani, o anche di testi, come «opera
personale dello stesso Giustiniano»; nessun altro, osserva, «avrebbe osato
scrivere» così, su generali ed eserciti, guerra e pace, status della res publica,perfino su Dio stesso e sul suo intervento. Auctoritas che appunto si collega
alla «auctoritas divina»: da cui deriva, cui è subordinata.
A questa costante presenza della divinità Casavola dà grande rilievo.
Dalla «funzione» del diritto, «realizzare, in terra, la dispositio divina»
come «giusto ordine di tutti gli elementi», egli trae la propria conclusione
che «alla base dell’opera compilatoria c’è innanzi tutto un motivo di
ordine teologico». Nella formulazione ripetuta che solo «l’aiuto divino»
può far realizzare l’impresa, coglie una vera convinzione; la lègge come
«espressione sincera e passionale di un credente in Dio». Invece rimane
fuori del suo orizzonte di ipotesi che a questa fede ritenuta autentica – gli
interessi giustinianei per la teologia sono noti, così come la conoscenza del
relativo «linguaggio» – possa quantomeno intrecciarsi un accorgimento
politico (una compilazione realizzata per volontà di Dio risulta sottratta
alle critiche).
Peculiare è anche il punto di vista secondo cui Casavola guarda all’in-
tervento sull’«ordinamento didattico universitario» da parte di Giusti-
niano (oltre Deo che con «una certa sicurezza» può dirsi «opera
personale» dell’imperatore, anche Omnem, che ne condivide «identità stili-
stiche» e «metafore simili», gli «può essere attribuita»). Ne «emergono»,
egli nota, «due prospettive»: «l’una normativa», come «costituzione [...]
di un corpo unitario, coerente, utile ai bisogni dell’applicazione del
diritto»; «l’altra», invece, «riguardante l’insegnamento del diritto». Se la
normazione imperiale in questo campo non può ritenersi una novità, ora
non solo risulta «maggiore» l’attenzione ma è presente un profilo «ignoto
nell’età classica». Al di là dell’intento riconosciuto di una «politica di
istruzione popolare» come emerge in Tanta 12, nel segnalare inoltre che
Giustiniano «incoraggiando e favorendo la scienza giuridica» «tenta di
reagire» a un precedente «indirizzo» che l’aveva «messa in disparte»,
tuttavia Casavola nega un «interesse culturale» nelle direttive di Omnem.
XXXIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Accredita invece – è il tratto nuovo – uno «scopo strettamente collegato
all’amministrazione dello Stato». La necessità di «uomini ben preparati e
idonei ad occupare i posti loro assegnati» viene a modificare anche il
«reclutamento» per le cariche «più importanti»: che si sposta (è rilevante)
dai retori ai «cultori e studiosi del diritto». Proprio qui «interesse e scopo
della riforma», che Casavola riscontra «affermato esplicitamente» in
Omnem 6. «A Giustiniano preme avere giuristi ben preparati, perché è di
questi che si serve nell’amministrazione dello Stato».
Ancora, il nostro autore non si limita a disinteressarsi – rimanda
infatti ad altri studiosi – di procedimenti di lavoro e di tempi occorsi,
stilemi consueti in ricerche sul Corpus iuris.Appare lontano anche da una altra visione tradizionale: che pure
sembrerebbe la più consona a chi, come lui, nei propri studi ha fatto
perno sulla giurisprudenza (l’importanza di altri filoni di ricerca non
contraddice la centralità data ai giuristi). Casavola non guarda al Digesto
come scrigno giurisprudenziale. Davanti alla «stanza del tesoro» (per
ricorrere alla immagine savigniana) a suscitargli interesse non è solo
quanto contiene. Da indagare, sono i motivi che hanno indotto a
costruirla, il suo «perché»: seguendo un’altra strada. Egli viene così non
solo a indicarla, ma comincia pure a tracciarla.
E però (l’ho già detto) egli non percorre sino in fondo – tramite tutte
le costituzioni del gruppo; per l’intera compilazione – questa nuova strada
di «perché», di «idee-forza», di «motivi», di «scopi». E non mi risulta sia
stata ancora percorsa da altri a d d e n t r o i tria volumina compilatorii a
enuclearne strutture, funzioni (come per il nostro codice civile si è fatto di
recente: penso a Severino Caprioli).
Nell’avviarmi alla conclusione, esco dall’ambito affidatomi. Faccio
riferimento alla nuova collana, Incunabula mentis.Alla digressione mi spingono due motivi.
La necessità di un grazie, intanto. In una iniziativa napoletana –
accanto a Casavola, ideatori e fondatori sono Franco Amarelli e Lucio De
Giovanni – si è voluto far entrare, con amabilità e garbo tre ‘estranei’,
come siamo i miei colleghi amici carissimi Fusco e Lanza ed io stessa.
Anche a loro nome il ringraziamento, vorrei dire ufficiale, per questo coin-
volgimento: spontaneo, generoso, paritario. Per tutti, ringrazio Amarelli.
Anche perché è proprio lui – si può adesso rivelarlo – lo studente «nudo e
crudo» che ha raccolto e ciclostilato le lezioni di Casavola, le ha conser-
vate, ce le ha trasmesse permettendoci di conoscerle.
Poi, e su questo chiudo, il desiderio di segnalare un legame: fra i primi
due volumi, Riccobono e Casavola, che si rieditano.
Mi limito a un profilo specifico nei Lineamenti della Storia delle fonti. Sono
stata educata da Orestano a tenere in grande considerazione questo libro
del suo Maestro, importante per tanti versi: non libro da capezzale
XXXVCronaca di due giornate
* Con la semplice aggiunta delle note a pie’ di pagina, riproduco il testo letto, il 23 febbraio
2011, nella Pontificia Università Lateranense.
(secondo la formula francese), ma vero e proprio «libro da scrittoio» da
avere a portata di mano. Pure, nel curarne la ripubblicazione, mi ha
colpito per la prima volta qualche frase che proprio non ricordavo.
Mi è apparso così più emblematico il collegamento con Giuristiadrianei, implicito nel far uscire contestualmente i volumi nelle due linee di
Incunabula.Nota Riccobono (e tornerà a ripeterlo) che «lo stile e la lingua dei
giuristi romani sono stati poco studiati». Poi subito aggiunge: «Ed anche
la personalità dei singoli giuristi non è stata finora convenientemente illu-
strata». Ambedue i rilievi sono di grande interesse; in particolare il
secondo richiederebbe di esser commentato anche in rapporto al supera-
mento dell’interpolazionismo nel suo pensiero. Ma è sulla conclusione che
se ne trae che voglio qui porre l’accento. Riccobono si apre al futuro e
dichiara: «Sono, questi, compiti che le nuove generazioni sono chiamate
ad assolvere».
Fra i primi ad assolverli – e da par suo – ci sarà appunto Casavola:
che inizierà a dedicarvisi tre lustri dopo. Quando un Riccobono ottanta-
cinquenne licenzia la seconda edizione con la chiamata a operare, Casa-
vola è diciottenne.
Non dico che intendesse così rispondere all’invito riccoboniano.
Sperso nella miriade di informazioni che il libro offre, potrebbe non
avergli dato alcun rilievo.
Colgo un simbolico ‘passaggio di fiaccola’: fra singoli studiosi come fra
generazioni.
Alla stregua – voglio ricordarlo – di quello che lo stesso Casavola
adombra nella Prefazione a Giuristi adrianei: da un lato, ricordando all’ini-
zio che i saggi raccolti hanno «influenzato altrui nuove e proficue ricer-
che»; dall’altro, chiudendo con la dedica «a tutti i maestri della romanisti-
ca italiana, che nel volgere di pochi anni, consegnandoci il ricordo del
loro insegnamento, hanno reso più acuta la responsabilità del nostro»
[MARIA CAMPOLUNGHI].
ORGANIZZAZIONE FAMILIARE, DIRITTO ROMANO E REALTÀ PROVINCIALI
NEL II SECOLO: LA PROLUSIONE NAPOLETANA DEL 1968*
La presenza di Francesco Paolo Casavola a Napoli e nella sua Univer-
sità è il nodo che lega la mia vita a un’importante tradizione di studi.
Pertanto, quando Franco Amarelli mi ha invitato a prender parte a questa
XXXVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
3 Per questa data vd. F. CASAVOLA, Potere imperiale e stato delle persone tra Adriano e Antonino Pio,in Labeo 14 (1968) 251, in nota *.
4 Difatti, l’anno seguente, il 1977, Egli succedette al proprio Maestro – Francesco De
Martino – come ordinario di Storia.5 Il suo tema principale fu il pensiero giuridico d’età adrianea e antonina.6 Soprattutto per merito di chi lo condusse: Enzo Scarano Ussani.7 In Iura 27 (1976) (pubblicato nel 1979) 17-32.
festa per l’ottantesimo compleanno del Professore, non ho esitato
nemmeno un attimo. E il suo suggerimento di scegliere, quale principale
oggetto del mio intervento, la prolusione napoletana dell’anno accade-
mico 1967-1968, la lezione che celebrò l’inizio dei corsi della seconda
cattedra di Istituzioni di diritto romano, mi è subito parso davvero prezioso.
Il 23 marzo del 19683 frequentavo ancora le scuole elementari: sicché
di questa prolusione non ho, né posso avere, alcun ricordo, ma tante volte
ho letto e riletto le sue versioni a stampa.
Inoltre, l’8 novembre del 1976 (il mio primo giorno d’Università) ho
ascoltato le ultime lezioni inaugurali del Professore, rispettivamente come
supplente di Storia del diritto romano e ordinario della seconda cattedra di
Istituzioni4.Quegli anni sono già stati celebrati – con affetto e ampia partecipa-
zione – a Napoli il 12 gennaio, poco più d’un mese fa. E, fra gli oratori,
quasi tutti, un tempo, giovani collaboratori della cattedra di Storia, alcuni
hanno ricordato i seminari che caratterizzarono, per oltre un decennio,
l’insegnamento di questa disciplina.
Il seminario5 mi fece apprezzare6 il valore della conoscenza critica che
dovrebbe sempre connotare l’insegnamento universitario. Leggemmo e
scrivemmo molto in quei mesi (da novembre a maggio). Studiammo
perfino lavori scientifici non ancora dati alle stampe. Leggemmo in foto-
copie, elaborate da una Rank-Xerox, diavoleria tecnologica del tempo, la
versione manoscritta (non dattiloscritta) di un articolo del Professore poi
pubblicato con il titolo Scienza, potere imperiale, ordinamento giuridico nei giuristidel II secolo7.
Il seminario e (non vorrei dimenticarle) le lezioni di Istituzioni del
Professore mi fecero percepire l’enorme distanza che separa l’autentico
diritto romano, nel suo divenire storico, da quel che studiavamo sul
nostro, peraltro ponderoso, manuale di diritto privato romano.
Oggi, dopo quasi trentacinque anni, è ancora in questione, in fondo, la
possibilità di progettare una didattica del diritto romano non ancorata alla
dogmatica della pandettistica. Nel nostro insegnamento dovremmo recu-
perare (come in parte si tentò di fare in quegli anni) il contesto reale, il
mondo reale del tecnicismo romano. Ma prevale purtroppo, oggi ancor
più di ieri, la mera descrizione normativa delle Istituzioni: il che, invero, per
un primo orientamento potrebbe senza dubbio fornire un ottimo servizio,
XXXVIICronaca di due giornate
8 F. C. VON SAVIGNY, La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza, trad. it.
Verona 1857, rist. an. Bologna 1968, 177 s.9 Sottoscrivo, pertanto, quel che, a tal proposito, ha sostenuto D. MANTOVANI, Il diritto
romano dopo l’Europa. La storia giuridica per la formazione del giurista e del cittadino europeo, in Scopi e Metodidella Storia del Diritto e Formazione del Giurista Europeo. Incontro di studio. Padova 25-26 novembre 2005, a
cura di L. GAROFALO, Napoli 2007, 71.10 F. CASAVOLA, Giuristi adrianei, con Note di prosopografia e bibliografia sui giuristi del II secolo d. C.
di G. DE CRISTOFARO, Napoli 1980: questo saggio è alle pp. 197-226.11 Dunque si tratta – ed è, probabilmente, quasi inutile ribadirlo – di una valutazione pura-
mente soggettiva.
ma, se poi non si vuol fare altro, anche questo studio, come già notava a
suo tempo il Savigny8, risulterebbe quasi del tutto inutile. Il parallelismo
dei corsi (di diritto privato romano e di diritto privato) si è convertito, per
molti, nell’errata convinzione che è precisamente in quest’analogia la
ragione che giustifica la permanenza del diritto romano nei curricula degli
studi giuridici. Ma così non è: al contrario, il diritto romano ha, può avere
un senso, nelle Facoltà di Giurisprudenza, solo se il suo studio è in grado di
mostrare ai giovani discenti che il diritto, la produzione di regole, è (o
almeno dovrebbe essere) frutto di uno sforzo intellettuale9.
Potere imperiale e stato delle persone tra Adriano e Antonino Pio è il titolo di
questa prolusione, pubblicata, per la prima volta, in Labeo 14 (1968).
Non diversamente da ogni altro saggio raccolto, nel 1980, in Giuristiadrianei10, anche in questo scritto i giureconsulti e Celso, in particolare,
occupano quasi per intero la scena, pur condividendola, talvolta, con i
principes e la loro cancelleria. Questo libro, nel suo complesso, si propo-
neva di elaborare un’immagine dei giuristi romani differente da quella
definita, già con la scuola storica, dalla Romanistica del XIX e del XX
secolo; una storiografia estremamente tendenziosa, sia ben chiaro, che
intendeva radicare, nella vicenda storica del diritto romano, il proprio
modello di scienza del diritto, isolando, pertanto, il fenomeno giuridico da
tutti gli altri aspetti che condizionano la realtà.
Potere imperiale e stato delle persone è suddiviso in undici brevi paragrafi,
che toccano, nel loro insieme, tre principali tematiche: a. patria potestas e
limiti del suo esercizio alla luce dell’attività normativa di Adriano; b. il
senatoconsulto, di cui fu ispiratore il medesimo princeps, sulla filiazione da
unioni matrimoniali tra persone di diverso status di cittadinanza e di
libertà; c. la dominica potestas e le garanzie di protezione definite dal potere
imperiale per tutelare il «diritto alla vita» dei servi.La parte, per me11, più interessante di questa prolusione è lo studio dei
contenuti normativi del senatoconsulto adrianeo sulle unioni matrimoniali
di persone di differente status: e su di essa mi soffermerò, anche per
ragioni di tempo, quasi esclusivamente.
XXXVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
12 In Munuscula. Scritti in ricordo di Luigi Amirante, a cura di E. Dovere, Napoli 2010, 46.13 Quest’opera, come ha ricordato M. BRETONE, La campana di vetro verde, Torino 2010, 20,
nei primi anni ’50 era studiata a Napoli per l’esame di Filosofia del Diritto.14 Ho citato un famoso brano della della lettera dedicatoria a Filippo Serafini pubblicata
nell’esordio della sua Storia del diritto romano (1878), riedita, con una presentazione di R. Martini,
in versione anastatica, Camerino 1982, VI-VII.
A ben vedere, quest’articolo è soprattutto una storia, certamente
parziale (come ogni storia), della romanizzazione dell’Impero e delle élitesprovinciali nei primi decenni del II secolo.
Pur prendendo avvio da una lettura del I Commentario delle Istituzionidi Gaio, esso giunge infine a definire i principali problemi giuridico-sociali
posti, in età adrianea e antonina, dalla romanizzazione.
Vi si percepisce immediatamente lo sforzo di non degradare lo studio
del diritto romano a mera descrizione di regimi normativi succedutisi nel
tempo. In tal modo, implicitamente (ossia senza alcuna aperta professione
metodologica), si afferma che la storiografia è sempre conoscenza di fatti e
di esperienze ben precisi.
Il debito della scuola romanistica napoletana nei confronti di Bene-
detto Croce è incontestabile: lo ha ribadito recentemente lo stesso
professor Casavola nel suo Come ricordare Luigi Amirante12. In un incipit del
Settimo quaderno di lezioni, edito nel 1989, di Una storia giuridica di Roma del
compianto Luigi Amirante, leggiamo questo brano della Filosofia dellapratica di Benedetto Croce13: «La vera storia del diritto di un popolo (del
diritto realmente eseguito, e non di quello solo formulato nelle leggi e nei
codici, e che spesso è rimasto più o meno lettera morta), non può non
essere tutt’uno con la storia sociale e politica di quel popolo: storia tutta
giuridica ossia economica, storia di bisogni e di lavoro».
In queste parole, tuttavia, sebbene io condivida le intenzioni di chi le
ha adoperate in epigrafe della propria Storia giuridica, potrebbe nascon-
dersi, se esse fossero assunte davvero nel loro tenore letterale, un grave
rischio per la nostra disciplina.
Non vorrei essere frainteso. Anch’io, lo ribadisco, convengo con
quanto, a suo tempo, scrisse Guido Padelletti sulla storia del diritto e sui
suoi scopi; e Guido Padelletti fu uno dei primi, se non il primo, a inse-
gnare questa disciplina nelle Università della nostra Nazione: «Compito
della storia del diritto è cogliere, innanzi tutto, il legame intimo fra le
diverse parti del diritto, e fra questo e le condizioni economiche, sociali e
morali di un’epoca determinata»14.
Cionondimeno, non vi è chi non veda come le affermazioni del Croce
poc’anzi ricordate trovino eco, in fondo, in quel che disse Arnaldo Momi-
gliano, nel 1963, durante il primo congresso della Società italiana di
Storia del diritto:
XXXIXCronaca di due giornate
15 Più avanti, nel testo degli Atti, si legge: «... Si può oggi pensare che la storia della lettera-
tura, la storia dell’arte, la storia della scienza e la storia della religione possano conservare una
qualche autonomia, in quanto radicate in diverse attività degli individui. Non si può più pensare
a una autonomia della storia del diritto che è per sua natura una formulazione di rapporti sociali
radicati in molteplici attività umane. E se in certe società si ha una classe di giureconsulti con
speciali regole di condotta e di ragionamento, anche questo è un fenomeno sociale da interpre-
tare». E ancora «Gran parte di ciò che si chiama sociologia del mondo antico è poi costume o
diritto, visto in disposizione sincronica piuttosto che diacronica. Almeno per il mondo antico,
appena si dimenticherà la distinzione tra storia e diritto, si dimenticherà anche la distinzione tra
storia e sociologia». Cito da A. MOMIGLIANO, Le conseguenze del rinnovamento della storia dei dirittiantichi, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Firenze 1966, 21 s. e nt. p. 23 (questa rela-
zione, che inaugurò il I Congresso della Società italiana di Storia del Diritto, fu tenuta il 18 dicembre
1963) = in A. MOMIGLIANO, Sui fondamenti della storia antica, Torino 1984, 186 ss.
«Immagino – voglio immaginare – che siamo qui per celebrare un
avvenimento storico di qualche importanza, la fine della storia del diritto
come branca autonoma della ricerca storica»
Per ragioni di tempo, non posso proseguire oltre nella lettura di questo
brano chiaramente provocatorio e, peraltro, molto noto, del grande storico
piemontese15. Ma, secondo il Momigliano e gli studiosi che ne hanno fatto
proprie le impostazioni, la storia del diritto dovrebbe confondersi con la
storia generale, in una delle sue differenti specialità. Il diritto sarebbe
soltanto un riflesso del sociale: esso ricomprenderebbe l’insieme di quei
territori nei quali si pongono in essere le attività umane, e non avrebbe,
dunque, un proprio specifico oggetto e, di conseguenza, una propria storia.
Non condivido queste conclusioni.
Al contrario, a mio parere, la storia del diritto conserva una dimen-
sione che le è propria e che nessun’altra disciplina, dalla storia generale
alla sociologia o all’antropologia, può contenderle.
Il giuridico, con il suo linguaggio, le sue norme e la sua lunga durata,
che non è mai quella degli altri fenomeni sociali, costituisce un àmbito
particolare.
Ma vi è un elemento ulteriore. Il diritto si rapporta certamente a refe-
renti concreti, ma esso – come ha più volte sottolineato il compianto Yan
Thomas – agisce a sua volta su questi referenti per trasformarli, allo stesso
modo nel quale ogni tecnica sociale trasforma la società alla quale essa si
rivolge, ma sulla quale, allo stesso tempo, essa opera.
Lo storico del diritto, anche quando deve confrontarsi con uno speci-
fico contesto storico (il regno adrianeo e i problemi indotti dal diffondersi
della civitas Romana), dovrebbe sempre tener conto, così come ha fatto
Francesco Paolo Casavola in Potere imperiale e stato delle persone, della lunga
durata entro la quale vivono determinate istituzioni.
Patria potestas, filiazione legittima, ius conubii: istituti rispetto ai quali
anche il princeps, per quanto titolare del medesimo potere normativo del
XL Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
16 Sul punto recentemente, e con osservazioni che condividerei, R. QUADRATO, Gaio e lalegum interpretatio, ora in Gaius dixit: la voce di un giurista di frontiera, Bari 2010, 314 s.
17 Mi permetto di rinviare al mio La cittadinanza romana in età imperiale. (secoli I – III d. C.). Unasintesi, Torino 2009, 62 s.
populus nel suo momento comiziale, non può sconfessare, sovvertendole,
regole fondamentali del diritto esistente, senza al contempo disarticolare,
per esempio, i meccanismi che regolano – è proprio il caso della patriapotestas – le successioni mortis causa.
Non si tratta, dunque, di mero conservatorismo, se a questo termine si
attribuisce una valenza esclusivamente ideologica16. In un ordine giuridico
come quello romano, l’innovazione nella continuità impone, proprio nel
momento in cui occorre corrispondere a nuovi bisogni sconosciuti in
passato, di muoversi per linee quasi esclusivamente interne alla tradizione
del sapere giuridico, del quale anche la cancelleria imperiale è in sostanza
espressione. Non è un caso, in fondo, che la stessa cancelleria imperiale, al
pari dei giuristi (e, perfino, in epoca tardoantica, per quanto emerge dalle
costituzioni raccolte nel Teodosiano in materia di diritto di famiglia e del-
le successioni) adoperi spesso, quale strumento di trasformazione del
diritto esistente, un artificio come la fictio, una tecnica che permette l’inno-
vazione, senza, però, contestare l’intangibilità dei principii del ius.Direi, pertanto, che non si può fare autentica storia del diritto, senza
ripercorrere mentalmente il medesimo itinerario a suo tempo seguito dal
giurista, dal funzionario della segreteria a libellis ovvero dal legislatore.
Solo se si muove entro questi confini, lo storico del diritto può, anzi deve,
ritenersi un giurista.
Tra i differenti aspetti toccati da questa prolusione napoletana del
1968, magnifica, dal punto di vista letterario, come ogni altro scritto del
Professore, appaiono particolarmente importanti, per approfondire il
tema della romanizzazione, le riforme del regime normativo della filia-
zione legittima introdotte da un senatusconsultum adrianeo.
Questo provvedimento abrogò alcune disposizioni della lex Minicia.Grazie alle informazioni trasmesseci dalle Istituzioni di Gaio, è possibile
definire il regime normativo che disciplinava la filiazione nelle unioni tra
Romani e stranieri.
Si diventava cittadini soprattutto per nascita. I figli concepiti in un
matrimonio legittimo secondo il ius romano, qualora cioè i genitori fossero
entrambi cives ovvero la madre, benché straniera, godesse, in base a un
trattato, di conubium – ossia della capacità matrimoniale –, divenivano per
ciò stesso cittadini. Ai figli di padre ignoto, una cittadina trasmetteva,
secondo le regole del ius gentium, il proprio statuto17. I concepiti, in un
matrimonio legittimo, perché fondato su un reciproco ius conubii, con un
peregrinus o con un Latinus, seguivano la condizione del padre.
XLICronaca di due giornate
18 Vd. V. MAROTTA, La cittadinanza romana cit. 63.19 Ma, in presenza di un’ampia lacuna del palinsesto Veronese, si tratta di una mera conget-
tura. In Gaius 1.78 si può, senza dubbio, integrare [così gli editori dei FIRA2 Pars Altera. Auctores(G. BAVIERA) 24] in tal modo: <peregrini> parentis. In ogni caso il confronto di questo passo gaiano
con il contenuto di tante sezioni dello Gnomon dello Ídios Lógos rende altrettanto verosimile anche
l’integrazione <deterioris>.20 E tutto questo mediante l’impiego della fictio, ovvero, per meglio dire, del meccanismo
dell’equiparazione: tamquam si ex peregrina eum procreasset.
Fu appunto Adriano a tentar di definire, mediante un senatoconsulto,
la condizione dei nati da unioni senza conubium18, che, di per se stesse,
sarebbero state inidonee a fondare una famiglia legittima. Una lex Minicia– di età quasi certamente anteriore alla guerra sociale (forse del 121 a. C.)
– colpiva le unioni tra cittadini romani e stranieri, attribuendo alla prole
la cittadinanza del genitore straniero (ossia lo statuto <deterioris>19 parentis).Questo senatoconsulto stabilì che i figli nati dall’unione di una cittadina
romana con uno straniero fossero legittimi.
Adriano e il Senato non abolirono, dunque, la norma della lex Minicia(che decisamente contrastava con la regula iuris gentium, per la quale,
invece, il nato avrebbe dovuto, in casi come questi, seguire la condizione
della madre), ma si limitarono a dichiarare la legittimità della filiazione,
attenuando lo spirito punitivo della legge repubblicana.
Il fine della riforma, come ha scritto Francesco Paolo Casavola, fu
quello di salvare la famiglia che lo straniero avesse inteso costituire unen-
dosi a una Romana.
In tal modo il principe, qualificando il figlio del peregrinus iustus patrisfilius («figlio legittimo del padre») (Gaius 1.77), pose consapevolmente
(come ha osservato Francesco Paolo Casavola) una norma sovra-nazio-
nale, che incideva, allo stesso tempo, sull’ordine giuridico romano e su
quello delle altre comunità politiche dell’Impero20.
Per me le osservazioni del professor Casavola sul senatusconsultumadrianeo, che disciplinava la filiazione da unioni matrimoniali tra persone
di diverso status di cittadinanza, rappresentano da tempo un punto fermo,
dal quale vorrei prender le mosse per definire lo sfondo sociale, entro il
quale tale provvedimento deve essere collocato. Concedetemi, pertanto,
una digressione, della quale spero possiate comprendere il senso alla fine
del mio intervento.
La mera disamina dei contenuti normativi di questo senatusconsultumnon permette di percepire i veri intendimenti politici di Adriano e dei suoi
consiglieri.
Se vogliamo individuarli, occorre confrontarsi, allo stesso tempo,
anche con le peculiari condizioni sociali delle province e, in particolare,
delle province dell’Oriente grecofono, ove la prevalente tradizione elle-
XLII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
21 Ma anche nella Gallia Chomata, nelle Germanie e nelle regioni danubiane.22 Gaius 1.95-96.23 A tal riguardo il recente libro di D. KREMER, Ius Latinum. Le concept de droit Latin sous la
République et l’Empire, Paris 2006, 116 e nt. 22, definisce un quadro interpretativo pienamente
condivisibile.
nica aveva decisamente sbarrato la strada, a differenza di quel che
accadde nelle province occidentali, alla diffusione del ius Latii.Devo, certamente, spiegarmi meglio. Nella parte occidentale dell’Im-
pero, in special modo nella Narbonense e nella penisola iberica21, la
concessione del ius Latii accelerò, già a partire dagli ultimi decenni del I
secolo d. C., il diffondersi contestuale della civitas Romana. L’esercizio di
una magistratura (Latium minus) e, al più tardi fra Traiano e Adriano, il
semplice ingresso nella curia municipale di una città dotata di Latiummaius22 comportavano la naturalizzazione del notabile, dei suoi genitori,
della moglie, dei figli e dei nipoti. Il diritto latino determinava, fin dalla
prima generazione, il formarsi di un nucleo di cittadini, coincidente
fondamentalmente con l’élite locale della comunità.
Nelle province dell’Occidente, al tempo di Adriano, i ceti egemoni
cittadini, tra i quali si reclutavano i quadri delle magistrature locali,
avevano in gran parte la cittadinanza romana. Il resto della popolazione,
quantomeno nelle regioni più vicine, per cultura e abitudini, ai Romani
d’Italia, aveva ottenuto il ius Latii, che permetteva di stabilire unioni
matrimoniali legittime (iustae nuptiae) con i Romani.Un Romano che sposava una Latina generava cittadini romani sui
quali era titolare della patria potestas. In questo specifico contesto, e, solo in
minima parte, in conseguenza degli interventi adrianei, i membri delle
élites dirigenti locali dell’Occidente non incontravano veri ostacoli per
costituire una famiglia e procurarsi, così, una discendenza legittima23.
Ma, nell’Oriente ellenofono, in assenza di un istituto come il ius Latii,normali relazioni di scambio matrimoniale tra membri delle aristocrazie o
tra semplici concittadini non sempre avrebbero potuto intrecciarsi senza
ostacoli. Solo in questo contesto può, a pieno, comprendersi la portata e
l’importanza della norma del senatusconsultum adrianeo secondo la quale
sarebbe stato iustus patris filius anche chi fosse nato dal matrimonio di uno
straniero, privo di conubium, con una Romana.Anche in Oriente un cospicuo numero di aristocratici locali, i magi-
strati e i liturgoi delle póleis, ottenne la civitas Romana. Cionondimeno, dal
momento che la maggior parte della popolazione non poteva fruire, a
differenza di quanto accadeva in Occidente, del ius Latii o di altri disposi-
tivi in egual misura efficaci, non esisteva un diritto di matrimonio romano
legittimo tra i nuovi Romani o le nuove Romane e i loro concittadini, per
esempio, di Efeso, Smirne o Sardi.
XLIIICronaca di due giornate
24 Ma ciò dipendeva, probabilmente, dal contenuto normativo della specifica lex provinciaeche definiva gli statuti delle comunità ricomprese in ciascun regolamento provinciale.
25 Ricorderei anche l’oratio divi Hadriani sui beni ereditari rivendicati dal Fiscus: Gaius 2.285.26 Tr. it. (modificata in alcuni punti) di M. MOGGI, Fondazione Valla, Milano 2003. Questo
testo di Pausania può anche chiarire il senso di H.A. Vita Pii 8.5 hereditates eorum qui filios habebantrepudiavit. Gaius 2.218 e 2.285 non non fanno alcuna menzione della disposizione antoniniana
riferitaci dal Periegeta. Sul passo di Pausania vd. E. VOLTERRA, Sulla condizione dei figli dei peregrinicui veniva concessa la cittadinanza romana, ora in Scritti giuridici, con una nota di lettura di M. TALA-
MANCA, II. Famiglia e successioni, Napoli 1991, 250; D. CHERRY, The Minician Law: Marriage and the
Si pose, perciò, un grave problema per i figli dei neo-Romani generati
in un’unione con cittadini locali: poiché entrambi i coniugi avevano la
cittadinanza della medesima pólis avrebbero potuto generare figli legittimi
per il diritto greco locale24. Tuttavia, per l’ordine giuridico romano, essi
sarebbero stati senz’altro spurii. Pertanto esclusivamente in questo quadro
si può comprendere la portata del nostro senatusconsultum, per il quale
sarebbe stato iustus patris filius anche chi fosse nato dal matrimonio di uno
straniero, privo di conubium, con una Romana.Ma se a esser cittadino romano era l’uomo, la situazione, per certi
versi, era ancor più difficile: ogni matrimonio di un neo-Romano con una
cittadina locale non Romana non sarebbe stato legittimo secondo il diritto
romano, creando, di conseguenza, figli di padre ignoto privi della civitas.Oltretutto questi bambini neppure avrebbero potuto essere adottati,
perché a un Romano era interdetto prender per figlio un non Romano,
né avrebbero potuto essere onorati, in linea di principio, con un legato (o,
perfino, con un fedecommesso dopo Vespasiano)25, perché un cittadino
poteva disporne solo in favore di un concittadino. Che questa situazione
comportasse, nelle province ellenofone, conseguenze sociali drammatiche
emerge, peraltro, da un provvedimento di Antonino Pio, riferitoci dalla
Periegesi di Pausania. L’imperatore, che intendeva addolcire la condizione
dei figli rimasti peregrini mentre i loro padri erano divenuti cittadini
romani, aveva assunto le proprie determinazioni, guardando esclusiva-
mente (per quanto emerge dal tenore letterale della testimonianza di
Pausania) alle province e alle póleis di lingua e cultura greca.
Leggiamo questo testo:
Descriptio Graeciae 8.43.5 «Ma tale imperatore lasciò anche un altro
provvedimento degno di ricordo. Secondo una regola del diritto, coloro
che fra i sudditi dei Romani avevano ottenuto la cittadinanza romana,
mentre i loro figli continuavano ad appartenere alla grecità (tò Hellenikón),non potevano fare altro che assegnare i loro beni a estranei oppure incre-
mentare le ricchezze dell’imperatore. Antonino permise anche a costoro
di lasciare la loro eredità ai figli, preferendo mostrarsi benevolo nei
confronti degli altri piuttosto che conservare una regola del diritto utile
alle sue sostanze ...»26.
XLIV Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
Roman Citizenship, in Phoenix 44 (1990) 260; Chr. HABICHT, Pausanias’ Guide to Ancient Greece,Berkeley – Los Angeles – London 1998, 124. Per seguire le tracce della politica del diritto
adrianea su tali temi, sarebbe opportuna, su di un altro versante, una nuova lettura dell’Epistuladi questo princeps a Ramnius Martialis (FIRA2 Pars prima, Leges, n. 78, 428 ss.), con la quale si
concesse ai figli dei soldati e dei veterani nati durante il servizio militare dei genitori la bonorumpossessio unde cognati: vd., per gli aspetti, a mio parere, più interessanti E. VOLTERRA, Sulla condi-zione cit., in Scritti II cit. 254 ss.
27 Mi permetto di rinviare ancora una volta al mio La cittadinanza cit. 145-149, 156-160.
Pausania tace, ovviamente, sullo strumento tecnico impiegato dal prin-
cipe e dalla sua cancelleria per risolvere questo problema e rendere così
effettivo il privilegio concesso ai Greci: ma possiamo essere ragionevolmente
sicuri del fatto, riagganciandoci in tal modo a quel che prima si diceva sulle
tecniche della giurisprudenza e della stessa cancelleria imperiale, che, in
questo caso, il princeps abbia ordinato ai governatori di concedere un’appo-
sita formula ficticia. Saremmo dunque, se così fosse, sul piano del ius honorarium.
I gruppi dominanti delle città greche d’Oriente costituivano, forse, un
insieme di cugini in parte Romani, in parte cittadini locali, con una significa-
tiva percentuale di Romani illegittimi? È una domanda del tutto plausibile.
La mancanza di conubium, in una medesima comunità, può anche
produrre questi effetti, determinando in aree, come le province grecofone
dell’Asia minore, una crescita esponenziale di nascite illegittime o
d’unioni endogamiche tra linee di parentela egualmente in possesso della
cittadinanza romana.
Per stabilire in quale misura tali regole dell’ordine giuridico romano
influenzassero, nel II secolo, le strategie demografiche e matrimoniali dei
gruppi aristocratici delle province ellenofone, le schede raccolte, anche e
soprattutto quelle epigrafiche, non sono ancora in numero tale da costi-
tuire una base sufficientemente ampia per definire un campione statistico
davvero significativo.
Viceversa, siamo certi che, in Egitto, le norme, introdotte dal potere
imperiale per regolare i rapporti matrimoniali fra i differenti ghéne o
tágmata, ossia fra i differenti gruppi nei quali era suddivisa la popolazione
non romana di questa provincia, hanno determinato un forte incremento,
in specie fra i ceti privilegiati d’origine greca della chora, delle pratiche
endogamiche e, perfino, dei matrimoni adelfici, poi duramente repressi
dalle autorità romane, dopo la constitutio Antoniniana, nella seconda metà
del III secolo27.
Questo senatusconsultum adrianeo rappresenta un primo tentativo,
certamente non radicale, di affrontare i problemi determinati dal diffon-
dersi, entro le medesime comunità, di statuti civici differenti.
Anche in questo caso si percepisce un segno della speciale attenzione
dei principes nei confronti di quel che Pausania, sulla base di una lunga
XLVCronaca di due giornate
28 Riscontrabile, a mia conoscenza, già in Erodoto: vd. F. HARTOG, Lo specchio di Erodoto,Milano 1992, 185 ss.
29 Vd., per l’appunto, la raccolta di saggi intitolata L’empire Gréco-romain, Paris 2005.
tradizione28, definiva tò Hellenikón. Questa serie ininterrotta di decisioni
normative (dal senatusconsultum adrianeo sulla filiazione al provvedimento
di Antonino Pio ricordato nell’ottavo libro della Periegesi) si propone, in
fondo, sempre il medesimo fine: rispettare l’identità greca, favorendo, al
contempo, l’integrazione dei ceti dirigenti delle póleis nella civitas Romana.È senza dubbio così: il II secolo (da Adriano a Marco Aurelio) può
davvero definirsi, volendo adoperare l’espressione congegnata da Paul
Veyne, il secolo dell’«Impero Greco-Romano»29.
È una ricerca, la mia, ancora in fieri.Vorrei dedicarla, una volta conclusa, a Francesco Paolo Casavola, e
non soltanto per affetto o per riconoscenza. Chi ha avuto la pazienza
d’ascoltarmi e ha, al contempo, letto il testo di questa prolusione, può veri-
ficare quanti temi da me, oggi, toccati, siano in essa presenti almeno in nuce.Di una cosa, in ogni caso, devo esser grato al professor Casavola,
come tutti coloro che, più da vicino o più da lontano, si sono formati alla
Sua Scuola: da Lui abbiamo imparato che è possibile, anzi, in alcune
circostanze addirittura doveroso, travalicare le frontiere della nostra disci-
plina, il diritto romano, conservando nondimeno intatta la nostra identità
di storici del diritto [VALERIO MAROTTA].
CASAVOLA DOPO LA CORTE COSTITUZIONALE
Io sono, in tutti i sensi, l’ultimo tra gli allievi, i collaboratori del prof.
Casavola. L’ultimo, sicuramente, in ordine cronologico, ed anzi l’unico che
egli abbia acquisito in epoca successiva al suo novennale incarico alla Corte
Costituzionale, conclusosi nel 1995.
A me oggi è stato chiesto proprio di riferire della nostra comune espe-
rienza in questi ultimi quindici anni; esperienza che rileva sia sotto il
profilo scientifico-romanistico sia sotto il profilo generalmente culturale,
ed istituzionale, dato che il prof. Casavola non più giudice costituzionale
ha poi assolto – lo ricordo – rispettivamente alle funzioni di Garante per
l’Editoria, di Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana-Treccani,
di Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Per la verità la prima volta io lo incontrai quand’ero ancora studente,
nel dicembre del 1992. Allora mi occupavo del gruppo giovanile del-
l’Unione Giuristi Cattolici Italiani, ed è proprio al convegno annuale di
quest’associazione, a Roma, che ebbi modo di ascoltare una delle sue
tante ariose, mirabili relazioni. Ne rimasi affascinato. Ma non potevo
XLVI Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
30 Istituzioni di diritto romano, anno accademico 1995-1996.31 F. CASAVOLA, Studi sulle azioni popolari romane. Le ‘actiones populares’, Napoli 1958, 15.
immaginare, neppure nelle mie più ottimistiche previsioni, che, qualche
tempo dopo, egli mi avrebbe attratto a sé per aiutarlo nello svolgimento
del suo primo incarico romanistico dell’età post-Corte costituzionale,
all’Università L.U.M.S.A. di Roma30. Io mi ero laureato da poco alla
Cattolica di Milano e, nonostante la frequentazione del Dottorato pado-
vano coordinato dal prof. Burdese (recentemente scomparso: alla sua
memoria colgo l’occasione per rivolgere un commosso, grato pensiero),
accademicamente ero nato in seno alla scuola giusromanistica fondata a
suo tempo da Gabrio Lombardi, cui il prof. Casavola era stato, come si
sa, molto legato, e con i cui allievi, diretti od indiretti, io avrei continuato
sempre a lavorare: cito il prof. Luraschi, il prof. Negri, il prof. Bona (il
quale, «messo a suo tempo in cattedra da Casavola», come egli amava
ricordare, mi aveva scientificamente avviato allo studio del ius pontificium);
cito ancora il prof. Falchi ed il prof. Valditara. Quest’ultimo insegna
nell’Università dove sono attualmente incardinato, la Europea di Roma,
di cui è qui presente il Rettore, Padre Paolo Scarafoni, che saluto e
ringrazio; ed è presente anche il prof. Antonio Palma, col quale colà
egualmente lavoro e del quale, a sua volta, è noto il pregresso, significa-
tivo sodalizio col prof. Casavola, per vie napoletane: il cerchio dunque,
sotto questo profilo, si chiude.
Il mio rapporto sorge quindi, come si è detto, col Casavola romanista
e col Casavola romanista eminentemente si svolge. Ma la collaborazione
con lui, da subito frequente, si fa addirittura costante, quotidiana dal
momento in cui egli, nel 1999, mi chiama ad assisterlo alla Presidenza del-
l’Enciclopedia Treccani, alla quale alcuni mesi prima il Presidente della
Repubblica lo aveva nominato. Devo trasferirmi definitivamente a Roma,
consapevole del grande, ed immeritato, onore che il Professore così mi
faceva, ma anche un po’ preoccupato dal rischio di trascurare, almeno in
parte, gli interessi romanistici. «Lo attenueremo il più possibile», mi
rispose il Presidente, e così fu, grazie a lui.
Ricordo di interi pomeriggi trascorsi in Treccani a parlare di diritto
romano. Ricordo in particolare di quando, dopo la morte di Bona, il
Professore si mostrò generosamente disponibile a riprendere in mano i
miei «lavori in corso». Trattavano, in fin dei conti, di temi a lui da tempo
cari: basti rammentare la celebre diade casavoliana sacra privata-familiaria/sacra publica-popularia31. E si deve al prof. Casavola se proprio lo studio di
quest’ultimi ebbe in me il sopravvento, accompagnato però da unasa-
piente correzione di rotta: ovvero l’inquadramento delle mie ricerche
XLVIICronaca di due giornate
32 F. MÜNZER, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart 1920.33 H. H. SCULLARD, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford 1951.34 F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a. C., Trieste 1962. Se mi è consentito preci-
sarlo, i miei scritti che più risentono di questa impostazione – diretta a dimostrare come l’attività
interpretativa della giurisprudenza pontificale fosse spesso influenzata dall’intento di salvaguar-
dare interessi d’altro genere, di natura politica e, persino, economica – sono l’articolo A propositodel ‘votum ex incerta pecunia’ del 200 a. C., in Archivio Giuridico 221 (2001) 159 ss., e le due monografie
Voti di guerra e regime pontificale della condizione, Milano 2006, e Aspetti giuridici del pontificato romano.L’età di P. Licinio Crasso (212-183 a. C.), Napoli 2008.
35 F. P. CASAVOLA, ‘Sententia legum’ tra mondo antico e moderno, I. Diritto romano, Napoli 2000.36 Napoli 2006.37 Vd. nt. 15, alle pp. 35-43.38 Vd. ancora p. 20 della stessa opera.39 Pubblicato in ‘Munera parva’. Studi in onore di B. Ulianich, Napoli 1999, 211 ss.40 Pubblicato in Index 32 (2004) 423 ss.41 Studium 100, 4-5 (2004) 687 ss. (doppio volume volume tematico, dedicato a Il Tempo).42 Diritto@Storia 4 (2005).
sul ius pontificium nel più generale contesto inerente allo stato delle rela-
zioni politiche, sociali e culturali della Roma di fine III-inizio II secolo
a. C., coll’attingere all’esperienza di autori come Münzer32, Scullard33,
Cassola34. Ricordo anche del tempo che il Presidente, pur preso da
gravosi impegni d’altro genere, riusciva ancora a dedicare agli studi roma-
nistici. È arduo tentare una sintesi dei suoi numerosi contributi, scritti sui
più svariati argomenti, risalenti agli ultimi quindici anni: in parte essi sono
stati ricompresi nella raccolta di Sententia legum35, ma in parte no (quelli
successivi al 2000). Sul Casavola Maestro di metodo cito per esempio
l’agile studio monografico Dal diritto romano al diritto europeo36 (che, per la
discussione dell’apparato critico, reca persino – bontà sua – traccia
testuale della mia collaborazione)37, nel quale, in ordine a problemi oggi
molto dibattuti da tutti noi, il Presidente prende autorevolmente posi-
zione, rivolgendo un appello affinché la riflessione sui fondamenti romani-
stici del diritto continentale non si risolva nell’«ennesima metempsicosi»38
del diritto romano, e si apra invece a più ampie e significative prospettive
di portata costituzionale. Sul Casavola Maestro di merito (storico) cito per
esempio Lo spazio nell’esperienza giuridica del mondo antico39, affresco al
contempo avvolgente e penetrante su un tema saliente di storia del-
l’antichità, qual è la nozione dello spazio, indagata a partire dal dato fisico
(terra), e via via – per il tramite della concettualizzazione (e, starei per
dire, della spiritualizzazione) giuridica – fino alla simbologia dell’apparte-
nenza, alla simbologia della spaziatura, ai confini, entro i quali coman-
danti militari o imperatori filosofi vagano e fuori dai quali si può, d’altra
parte, scontare l’esilio. Ma su un tema affine si rammenti anche Dall’ecu-mene stoica all’ecumene imperiale40, e d’altronde il breve, ma denso, contributo
sul tempo (Il tempo del diritto, pubblicato, nello stesso anno 2004, in
Studium41 e poi in Diritto@Storia42, rivista ‘on line’ del prof. Sini), ove, in
XLVIII Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
43 All’espressione ‘actio’ deve infatti attribuirsi, per l’età arcaica, il mero significato di «rito
formalizzato», da ritenersi comprensivo, dunque, anche di atti che noi tradizionalmente classifi-
chiamo come negoziali; ciò che hanno opportunamente evidenziato alcuni autori, di cui si
richiama qui, in particolare, R. SANTORO, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in AUPA 30
(1967) 103 ss., spec.te 287 ss., 290 ss. (ove compare un elenco di actiones non contenziose), ‘Actio’ indiritto antico, in Poteri, ‘negotia’, ‘actiones’ (Atti Copanello 1982), Napoli 1984, 201 ss., e Il tempo ed il luogodell’ ‘actio’ prima della sua riduzione a strumento processuale, in AUPA 41 (1991) 281 ss., al quale anche
rinvio per un’attenta disamina delle fonti su cui edifica quest’assunto.44 Ora pubblicato in F. P. CASAVOLA, Ritratti italiani. Individualità e civiltà nazionale tra XVIII e
XXI secolo, Napoli 2010, 171 ss.45 Storia della Scienza, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2001, IX ss.46 Ora pubblicato in F. P. CASAVOLA, Ritratti cit. 19 ss.
apertura, Casavola formula un rilievo destinato a rivelarsi di importanza
cruciale per la prosecuzione dei miei studi: ossia quello della valenza
propriamente rituale del tempo scandito, al pari dei certa verba e dei certagesta, per solito ritenuti i soli elementi essenziali delle antiche actiones(intendendosi, quest’ultimo termine, nel suo significato non soltanto
processuale)43.
Altri scritti, come quelli su Giorgio La Pira, romanista, costituente, sindaco44,
si collocano per così dire a metà strada tra la produzione universitaria e
quella ‘treccaniana’, in cui Casavola mette a frutto tutto il suo talento di
storico, o intellettuale, generalista. Se mi è consentito esprimere ancora il
senso del mio ammirato uayma¥zein verso la sapienza del Maestro, debbo
dire che ne trovai impressionante la versatilità culturale, ossia la totale
facilità con cui, in seno ad un istituto enciclopedico, egli passava da una
disciplina all’altra, firmando autorevolmente le prefazioni alle più diverse
opere (degna di memoria è per esempio quella alla Storia della Scienza45, che
fu presentata all’Accademia dei Lincei) o introducendo, in maniera
sempre brillante, i numerosi convegni organizzati in Sala Igea (altrettanto
memorabile, in proposito, è per esempio il discorso Dalle biografie individualiall’identità nazionale46 pronunciato da Casavola nel novembre del 2000, in
occasione della presentazione fatta al Presidente Ciampi dell’unica opera
che autenticamente abbia il valore di una biografia nazionale, ossia il
Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani). Bisogna peraltro rilevare
che l’ambiente dell’Enciclopedia era tra i più impegnativi su cui si potesse
essere incaricati di sovrintendere. Lì si svolgeva una triplice dialettica:
quella scientifica, tra i rappresentanti delle varie discipline e delle varie
tendenze culturali, o politico-culturali; quella politico-istituzionale, perché
si tratta pur sempre della sola istituzione culturale che faccia direttamente
riferimento alla Presidenza della Repubblica; quella economica, perché
l’Enciclopedia Italiana era nel frattempo diventata anche una s.p.a.,
governata da super-manager spesso indifferenti a quelle che il mondo del-
ILCronaca di due giornate
47 Più esattamente, il prof. Casavola fu nominato Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia
Italiana – Treccani per un quinquennio (1998-2003), confermato per il quinquennio successivo
(2003-2008), con proroga di un ulteriore anno (2008-2009).48 Vd. qui in particolare la voce Maschi, Carlo Alberto, in Dizionario Biografico degli Italiani,
LXXI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2008, 560 ss.49 Pubblicata come Enciclopedia Treccani, X voll., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
2010.50 Vd. soprattutto Per uno spiritualismo nuovo, in Studium 98,1 (2002) 51 ss.; cfr. ‘Conoscere è ricor-
dare’, in Studium 104,4 (2008) 509 ss.51 Vd. A. MARCHESI, La prospettiva di un nuovo ‘umanesimo integrale’, in L’Osservatore romano, 27
aprile 2002, 3.
la cultura rappresentava come delle ‘priorità’, avendone anzi essi – a torto
o a ragione – di proprie. Tale triplice dialettica si faceva sovente molto
accesa. Ma non si ha ricordo di un solo frangente in cui il prof. Casavola,
durante tutta quella decennale esperienza47, non fornisse il suo apporto
autorevole, spesso definitivamente rasserenante, ispirato a principi di alto
e saggio equilibrio, si trovasse egli a presiedere il Consiglio scientifico
(composto, fra gli altri, da Premi Nobel, Accademici dei Lincei, ex-Presi-
denti della Repubblica) o il Consiglio di amministrazione. Io, per parte
mia, «vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro», cercavo di fornirgli il mio
aiuto, al vertice sia dell’Enciclopedia sia dell’A.I.C.I. (Associazione delle
Istituzioni di Cultura Italiane), di cui Casavola assunse la Presidenza per il
triennio 2000-2003. Ed intanto redigevo le voci romanistiche del Dizio-nario Biografico48 e della nuova Enciclopedia generale49, oltre a rinfocolare
un’antica passione: quella per il pensiero di Giovanni Gentile, fondatore
della Treccani, e di Emilio Betti, cercando, in particolare, di conciliare
certi spunti tratti dall’idealismo del primo, concepiti in chiave attuale, con
il messaggio cristiano, così come anche il Professore mi aveva consigliato
di fare. Ne uscirono dei saggetti50 che tuttavia, una volta pubblicati, non
mi facevano dormire la notte: io cattolico, infatti, avevo il timore di essere
caduto nell’eterodossia. Il Presidente mi diceva di non preoccuparmi; ma
per tranquillizzarmi pienamente occorse, di lì a poco, l’Osservatore romano,con un articolo di terza pagina51.
Concludo. La collaborazione col prof. Casavola prosegue anche oggi,
sia in imprese romanistiche sia in altro (ultimamente, per esempio, nell’atti-
vità di coordinamento dei lavori diretti alla prossima pubblicazione dei
Diari di Fanfani). A lui sono grato, a lui devo tutto. Spesso ciascuno di noi si
dà un gran daffare, in proprio, si affanna per dare il meglio di sé: ed è giusto
che sia così. Ma bisogna riflettere sul fatto che la nostra vicenda, professio-
nale ed umana, qualunque ne sia poi lo sbocco futuro, ancor più spesso è
fatalmente segnata dalle decisioni che per noi furono prese non da noi
stessi, ma dai Grandi. Almeno a me, nel mio piccolo, è successo così. Grazie,
Professore, e buon Ottantesimo compleanno [LORENZO FRANCHINI].
L Gli ottant’anni di Francesco Paolo Casavola
FRANCISCI PAULI CASAVOLA GRATIARUM ACTIO
Che la Pontificia Università Lateranense abbia voluto affiancarsi
all’Università Federico II di Napoli festeggiando il compimento dei miei
ottant’anni è motivo per me di viva gratitudine, per l’onore che mi si
rende. Quando ci si inoltra tanto nel corso della vita, accade, volgendosi
verso il proprio passato, di scorgervi il vissuto di diverse filiere, da quelle
intime, nella famiglia paterna e poi nella propria, a quelle nel mondo
esterno degli studi, delle attività professionali e dei legami sociali. Ognuno
di questi percorsi ci sembra abbia assorbito ogni nostra energia al punto
da oscurare quelli paralleli. Solo nel ricordo compaiono date dell’uno che
richiamano come un’eco eventi di un altro. Così il mio primo insegna-
mento nell’Università di Bari è accompagnato dal pathos della nascita dei
miei figli, e il ritorno nella Federico II a Napoli dalle tensioni già politiche
degli studenti contestatori e della attenzione acutissima per i miei giuristi
adrianei. Quando Gabrio Lombardi mi propose di accettare l’insegna-
mento di Ius romanum in questo Ateneo lateranense mi parve che i fili
della mia vita si stessero disordinando o almeno aggrovigliando. Non mi
era mai piaciuto vivere in due città e francamente non simpatizzavo con
la battuta di un illustre maestro che il volume più compulsato dai profes-
sori universitari italiani fosse l’orario ferroviario. Ho sempre avuto in
mente la autobiografia di Edward Gibbon nelle pagine che lodano la
tranquilla stanzialità degli studiosi di Oxford. Accettai per il prestigio dei
romanisti che avevano insegnato nella Lateranense da Betti a Riccobono
a Frezza a Lombardi, ma anche per la diversità che avvertivo di una isti-
tuzione non nazionale, ma internazionale, non laica, ma della Chiesa
cattolica. Ho avuto qui una classe di studenti in maggioranza afro-asiatici.
Insegnare diritto romano a chi non aveva nel bagaglio della scuola secon-
daria una adeguata conoscenza del mondo greco-romano significava
ancor più impegnarsi in due direzioni apparentemente divergenti: stori-
cizzare quel diritto e contemporaneamente rivelarne il valore universale.
Rispetto agli studenti napoletani, parlare a nigeriani e indiani valeva
scoprirsi professori sempre meno dotti e sempre più con lo stupore di
Alice nel paese delle meraviglie. Comparazione e filosofia servivano più di
dogmatica europea e di filologia latina.
Ecco perché, passando dalle aule della Federico II a queste della Late-
ranense e viceversa, è stato per me come un nuovo apprendistato, che ha
modificato la forma tradizionale dei miei studi. Non bastava fare appren-
dere quel che già sapevo, ma fare ‘intendere’ quel che cominciavo ad inten-
dere in modo nuovo io stesso.
In una università del centro della cattolicità mi sentivo anche più
libero di esprimere quella religiosità che non può essere ostentata in una
cattedra laica. Ed è stata anche questa per me occasione di una scoperta,
LICronaca di due giornate
di un’etica dei giuristi romani quasi presaga e parallela dell’etica cristiana.
In una società delle disuguaglianze degli uomini fra liberi e schiavi, un
diritto progressivamente tutore di spazi di libertà e di uguaglianza fino a
diventare fra la remota antichità e la nostra modernità fondamento razio-
nale di una età dei diritti di tutti gli esseri umani.
Ho fatto del mio meglio prima di questo compleanno. Ma le occasioni
stimolanti sono venute dalla fortuna o dal caso o meglio dalla Prov-
videnza. E debbo ringraziare Questa prima di tutti noi, o meglio nella
Provvidenza tutti coloro che mi sono stati maestri, allievi e amici cui ho
corrisposto per la mia parte come ho potuto, non come forse avrei dovuto
e voluto.
Elenco alcuni dei tanti che ho incontrato qui, fra il 1981 e il 1986, dai
Rettori Mons. Biffi e Mons. Rossano a Monsignor Agostino Ferrari
Toniolo, a Padre Robleda, a Pio Ciprotti, a Falchi, Bonomo, Fabbrini,
Bucci, Campitelli e chiedo indulgenza per la memoria di un ottuagenario,
perché lo spazio del cuore è più grande e contiene ancora più volti e voci
che non nomi. Auguro ai maestri di oggi e ai loro discepoli quanto
sperano e meritano, e permettetemi di citarne due per tutti: Franco
Amarelli e Francesca Galgano. E quanti hanno parlato di me Maria
Campolunghi, Valerio Marotta, Lorenzo Franchini, Renato Quadrato,
Aldo Schiavone, Gianluigi Falchi, spero non mi facciano erubescere –
avrebbe scritto Giustiniano – per il troppo affetto. Per la strada, ormai per
me lunga, abbiamo perduto colleghi e amici chiamati quando Dio ha
voluto ad abitare il mondo misterioso della verità. Non nominiamoli, ma
preghiamoli, ciascuno quello che ha avuto più vicino, perché intercedano
per noi, per quel molto o poco tempo che ci resta, a non tradire la buona
riuscita della nostra operosa giornata.
Monsignor Rettore voglia benedirci.