Gli inganni della tradizione. Una silloge di Gregorio Magno nel quadro delle relazioni fra Carolingi...

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Gli inganni della tradizione * . Una silloge del Registrum di Gregorio Magno nei rapporti fra Carolingi e papato e nel dibattito sulle immagini sacre. I. Nel 1987 Francis Clark pubblicò la monografia The Pseudo-Gregorian Dialogues, in cui intendeva dimostrare che i Dialogi non furono scritti da Gregorio Magno ma da un membro della cancelleria pontifica intorno alla fine del secolo VII, periodo a cui risalgono le prime attestazioni di quest’opera. La tesi di Clark è stata oggetto di scrupolose smentite. Non è stato invece possibile contestare la risultanza storico-culturale che emergeva dalle sue ricerche, ossia la scarsa considerazione dedicata alla figura di Gregorio, in particolare nella penisola italica, fra la fine del secolo VII e il secolo VIII. Più di recente Alan Thacker e Conrad Leyser hanno ribadito l’assenza in Roma di memorie biografiche e cultuali relative a Gregorio almeno fino al pieno secolo IX, localizzandone invece il persistere e poi il proliferare nelle isole britanniche e in Gallia. Un fenomeno che per gli scritti gregoriani trova validi riscontri negli studi di Bruno Judic sulla diffusione della Regula Pastoralis e del Registrum, dalla morte di Gregorio fino alla fine del secolo VIII. Ugualmente da segnalare è la rilettura proposta da Yitzhak Hen del progetto pipinide-carolingio di riforma della liturgia franca in senso romano-gregoriano che Hen ritiene, a mio parere con qualche forzatura, di carattere esclusivamente propagandistico. Considerate in una prospettiva di aggiornamento storiografico queste ricerche hanno avuto il pregio di affrontare il problema della trasmissione della tradizione gregoriana prescindendo da teleologismi interpretativi e mettendone piuttosto in luce il carattere discontinuo. La ricerca qui presentata vuole arricchire lo spettro delle problematiche ora ricordate. Nelle pagine che seguono prenderò in esame una silloge tratta dal Registrum epistolarum di Gregorio Magno di cui analizzerò anzitutto genesi e struttura (parr. II-III). Ne considererò successivamente il significato nell’ambito del processo « d’émulation autour de * L’articolo, comprensivo di note, sarà pubblicato nel numero cinquantasei (2015) di Studi Medievali. Desidero ringraziare la Redazione di Studi Medievali per il consenso ad anticiparne la lettura su www.academia.edu.

Transcript of Gli inganni della tradizione. Una silloge di Gregorio Magno nel quadro delle relazioni fra Carolingi...

Gli inganni della tradizione*.

Una silloge del Registrum di Gregorio Magno nei rapporti fra Carolingi e

papato e nel dibattito sulle immagini sacre.

I.

Nel 1987 Francis Clark pubblicò la monografia The Pseudo-Gregorian

Dialogues, in cui intendeva dimostrare che i Dialogi non furono scritti da

Gregorio Magno ma da un membro della cancelleria pontifica intorno alla fine

del secolo VII, periodo a cui risalgono le prime attestazioni di quest’opera. La

tesi di Clark è stata oggetto di scrupolose smentite. Non è stato invece possibile

contestare la risultanza storico-culturale che emergeva dalle sue ricerche, ossia

la scarsa considerazione dedicata alla figura di Gregorio, in particolare nella

penisola italica, fra la fine del secolo VII e il secolo VIII. Più di recente Alan

Thacker e Conrad Leyser hanno ribadito l’assenza in Roma di memorie

biografiche e cultuali relative a Gregorio almeno fino al pieno secolo IX,

localizzandone invece il persistere e poi il proliferare nelle isole britanniche e in

Gallia. Un fenomeno che per gli scritti gregoriani trova validi riscontri negli

studi di Bruno Judic sulla diffusione della Regula Pastoralis e del Registrum,

dalla morte di Gregorio fino alla fine del secolo VIII. Ugualmente da segnalare

è la rilettura proposta da Yitzhak Hen del progetto pipinide-carolingio di

riforma della liturgia franca in senso romano-gregoriano che Hen ritiene, a mio

parere con qualche forzatura, di carattere esclusivamente propagandistico.

Considerate in una prospettiva di aggiornamento storiografico queste

ricerche hanno avuto il pregio di affrontare il problema della trasmissione della

tradizione gregoriana prescindendo da teleologismi interpretativi e mettendone

piuttosto in luce il carattere discontinuo. La ricerca qui presentata vuole

arricchire lo spettro delle problematiche ora ricordate. Nelle pagine che seguono

prenderò in esame una silloge tratta dal Registrum epistolarum di Gregorio

Magno di cui analizzerò anzitutto genesi e struttura (parr. II-III). Ne considererò

successivamente il significato nell’ambito del processo « d’émulation autour de * L’articolo, comprensivo di note, sarà pubblicato nel numero cinquantasei (2015) di Studi Medievali. Desidero ringraziare la Redazione di Studi Medievali per il consenso ad anticiparne la lettura su www.academia.edu.

l’oeuvre de Grégoire » che coinvolse il papato e i Carolingi alla fine del secolo

VIII, in particolare nella disputa intorno alla funzione delle immagini sacre

(parr. IV-VII).

II.

Con l’eccezione delle sei epistole inserite da Beda nell’Historia

Ecclesiastica Gentis Anglorum la Collectio Pauli è la più antica silloge tratta dal

Registrum che ci sia pervenuta. La Collectio costituisce la prima unità

codicologica del miscellaneo SANKT-PETERBURG, Publicnaja Bibliotheka im.

M. E. Saltykova Shchedrina, F. v. I. 7. Riporta cinquantaquattro epistole ‒ di cui

una in versione interpolata, l’Ep. 148 [147] e una copiata due volte ‒ ed è così

denominata in ragione del suo compilatore, Paolo Diacono. Per

l’identificazione dell’autore ci si è basati sulla lettera di dedica della silloge, che

contiene suggestioni ricorrenti nelle opere del dotto longobardo. La lettera ci

consente inoltre di conoscere il committente della Collectio, il potente abate di

Corbie e consigliere di Carlo Magno Adalardo, e di ricavare informazioni sulle

vicissitudini e sui criteri che ne hanno accompagnato la stesura e la correzione.

In apertura il Diacono si rammarica di non aver potuto incontrare Adalardo

l’estate precedente, durante un viaggio compiuto nella regione in cui l’amico

risiede. Spiega inoltre che la scarsità di risorse e a una malattia protrattasi da

settembre fino a Natale, gli hanno impedito di procedere nel compito

affidatogli. Ora tuttavia la raccolta è pronta ma nell’inviarla Paolo chiede ad

Adalardo di adottare alcune cautele. Egli ha potuto rileggere ed emendare solo

trentaquattro lettere, in alcune delle quali sono ancora presenti delle lacune

segnalate con una notazione a margine. Sarà dunque compito dell’abate di

Corbie integrarle ed emendare le lettere restanti. Infine Paolo invita l’amico a

vigilare affinché la Collectio non sia diffusa senza controllo.

Questi riferimenti, le caratteristiche grafiche del manoscritto, gli interventi

di correzione e la strutturazione del materiale epistolare hanno originato diverse

ipotesi su dove, quando e in quali circostanze sia avvenuta la stesura del SANKT-

PETERBURG, Publicnaja Bibliotheka im. M. E. Saltykova Shchedrina, F. v. I. 7.

Gli studiosi che hanno dato maggior peso ai contenuti della lettera di dedica

hanno proposto come localizzazione o un’istituzione religiosa transalpina, con

datazione agli anni del soggiorno del Diacono presso la corte di Carlo Magno

(782-786/7), oppure Montecassino nei primi anni settanta del secolo VIII.

Coloro che hanno privilegiato i criteri paleografico-codicologici tendono invece

a situare in Friuli, o comunque nel nord Italia, il luogo di compilazione della

Collectio e a datarne la composizione intorno al 787 e comunque non più tardi

della fine del secolo VIII. Un sostanziale accordo riguarda invece la

responsabilità di Paolo Diacono nella scelta del materiale tratto dal Registrum e

il riconoscimento della sua come una delle due mani che intervengono a

correggere il manoscritto.

Alla luce di un lungo e minuzioso lavoro preparatorio, nella sua

introduzione all’edizione critica del Registrum per il C. C. S. L., Dag Norberg

ha proposto una terza e più radicale ricostruzione, affermando che la Collectio

nacque dalla fusione di tre raccolte diverse, P1 (Epp. nn. 1-37 della raccolta),

P2 (Epp. nn. 38-51) e Appendix (Epp. nn. 52-54), di cui solo la prima è

attribuibile a Paolo Diacono. Non mi risulta che la tesi di Norberg sia stata

sottoposta a un’accurata disamina nonostante sia stata accolta anche dai

successivi editori del Registrum. Prima di procedere in questo senso è tuttavia

opportuno stabilire alcuni punti fermi rispetto alle ricostruzioni fin qui

considerate.

Anzitutto possiamo scartare una localizzazione transalpina e l’arco

temporale che ne consegue. A ingannare gli studiosi è stato l’accenno nella

lettera ad Adalardo al viaggio compiuto da Paolo illis in partibus vale a dire, si

è pensato, verso Corbie. Va tuttavia ricordato che Adalardo, nel decennio 781-

790, periodo che travalica l’arco di anni trascorso da Paolo nel regno franco

(782-786/7), visse nel regno italico in veste di tutore del giovane re Pipino. Un

incontro fra i due aveva quindi più probabilità di avvenire dopo il ritorno di

Paolo in Italia (786/7) piuttosto che prima di tale data. Ed è ugualmente molto

più plausibile che la meta del viaggio di Paolo fosse l’Italia nord-orientale, forse

davvero il Friuli, con un itinerario che lo avrebbe portato vicino alle sedes

regiae di Pavia e Verona, dove Adalardo prevalentemente risiedeva. Se

accettiamo questa ipotesi, inoltre, è possibile far collimare le risultanze

paleografiche e temporali generalmente più accreditate e le notizie contenute

nell’epistola di dedica. La presenza del Diacono in un ente religioso dell’Italia

del nord al momento della stesura e della revisione della Collectio spiegherebbe

infatti le caratteristiche grafiche del manoscritto, l’altezza cronologica della sua

compilazione ma altresì la difficoltà di Paolo, in quanto ospite, nel reperire

risorse per procedere più speditamente nel lavoro.

Per quanto riguarda Montecassino e gli anni settanta del secolo VIII

questa ipotesi si fonda sulla congettura che nel periodo in cui vi si era ritirato

Adalardo possa aver conosciuto Paolo. Per contro occorre osservare che nel

manoscritto della silloge non sono rilevabili caratteristiche grafiche che possano

rimandare allo scriptorium del monastero. È infine alquanto singolare che a

fronte di un presunto interesse pregresso verso Gregorio e i suoi scritti, non vi

siano accenni o eco di questi nella produzione del Diacono anteriore al ritorno

in Italia e che invece egli dia rilievo alla figura del papa, citando tra l’altro le

sue epistole, nelle sue ultime opere: la Vita sancti Gregorii Magni (B. H. L.

3639) e l’Historia Langobardorum.

Da questa prima discussione risulta dunque ribadita la collocazione nel

nord Italia dello scriptorium in cui fu compilata la silloge e ulteriormente

circoscritto l’arco temporale: fra il 786/7, ritorno di Paolo in Italia, e il 790,

anno in cui Adalardo ritornò a Corbie portando con sé la silloge, come dimostra

la nota di possesso del manoscritto.

Veniamo alla ricostruzione proposta da Norberg. La tesi del filologo

svedese si fonda sulle seguenti discrepanze fra il primo gruppo di lettere (P1) e

gli altri due (P2 e Appendix): che in ventinove epistole di P1 la datazione è

posta in calce; che la maggior parte delle epistole in P1 sono riportate in ordine

cronologico; che quasi tutte le lettere di P2 presentano, dopo il titulus, un breve

regesto del contenuto; che in tre casi in P2 il destinatario è indicato con

l’accusativo; che, sempre in P2, alcuni tituli presentano una formulazione

diversa da quelli di P1. Secondo Norberg dunque a Paolo deve essere attribuito

solo il primo gruppo di lettere, che mostra un più alto indice di coerenza

formale e strutturale.

Ora, mentre le epistole contenute in P1 sono tratte dai libri V e XI del

Registrum, quelle contenute in P2 provengono tutte dal libro II. Non si può

quindi stabilire con certezza se la presenza dei regesti, l’uso dell’accusativo e la

formulazione dei tituli siano da attribuirsi al presunto compilatore di P2 oppure

a iniziative del/dei redattore/i del libro II del Registrum a cui Paolo si è

semplicemente adeguato nella sua trascrizione. Anche le due argomentazioni

più forti di Norberg presentano alcuni limiti. La datazione in calce alle epistole

dovrebbe essere assunta come criterio dirimente se rilevabile esclusivamente in

P1, ma così non è. Essa è in effetti presente, seppure con incidenza minore,

anche in P2 e ciò implicherebbe l’adozione di una medesima prassi da parte di

due compilatori diversi che avrebbero operato in tempi e circostanze diversi. Si

consideri inoltre che la somma di tali occorrenze, trentatré, è vicinissima al

numero di epistole che Paolo dichiara di aver riletto ed emendato, trentaquattro.

Si può allora pensare che proprio l’inserimento della datazione in calce facesse

parte delle correzioni apportate durante la revisione della Collectio.

Altre osservazioni riguardano l’ordinamento cronologico. In P1

quest’ultimo è rispettato nelle prime ventisei lettere, viene però meno nelle

successive tre per poi essere nuovamente ripristinato e infine ancora disatteso.

Ma un andamento non dissimile è constatabile anche in P2. Diversamente da

Norberg possiamo ritenere che proprio il carattere discontinuo di queste

sequenze, quando vengano messe a confronto con i contenuti e i destinatari

delle relative epistole, ci indichi quale fu il criterio-guida adottato da Paolo

Diacono nella sua trascrizione. E cioè che mentre consultava il Registrum egli

abbia proceduto a selezionare le missive per argomento e destinatario, seguendo

le indicazioni di Adalardo, e mantenendo inalterata la cronologia laddove

gruppi di lettere coerenti rispetto a tali parametri lo fossero anche per datazione.

Consideriamo ad esempio le prime sedici lettere della Collectio (tutte del 594-

595) indirizzate, tranne una, a personaggi appartenenti alle élites bizantine. Qui

la successione cronologica viene per così dire ‘a traino’ di quello che è il filo

conduttore delle missive: le relazioni tutt’altro che serene di Gregorio con

l’imperatore, i vescovi orientali e gli ufficiali bizantini. Analogamente si può

dire per le epistole nn. 17-19 (del 795), nn. 22-26 e nn. 30-34 (del giugno 601) –

che documentano i rapporti di collaborazione fra il papa, l’episcopato e i

prìncipi franchi –; delle epistole nn. 43-46, (del 591-592) in cui, a fronte della

latitanza imperiale, Gregorio assume il controllo delle milizie bizantine; e delle

epistole nn. 47-51 (del 592) che riguardano l’attività amministrativa e

giurisdizionale svolta sui patrimonia e sulle diocesi poi confiscate alla chiesa di

Roma dall’imperatore Leone III nel 732. Analizzato in questa prospettiva

l’intero corpus della Collectio Pauli si rivela estremamente coerente, poiché la

ripartizione per macro-tematiche ora rilevata corrisponde a quella dei libri del

Registrum consultati da Paolo. Dal libro V egli ha tratto le missive di argomento

‘bizantino’, dall’XI quelle di argomento ‘franco’, dal II quelle relative alle

incombenze amministrative, militari e giurisdizionali, a cui ha infine aggiunto,

attingendo a una fonte diversa, le Epp. IX, 148 interpolata e XI, 10 in cui

Gregorio discute sulla funzione delle immagini sacre.

Altri due argomenti a favore di questa ricostruzione sono ricavabili

dall’epistola ad Adalardo. Nel manoscritto della Collectio il signum vitii, la cui

presenza indica trattarsi di epistole sicuramente rilette ed emendate da Paolo, è

rilevabile a margine delle Epp. V, 30, 36, 38, 39, 40, 42, 49, 63 e XI, 36 e 52.

Dunque, nella sua pur incompleta revisione, egli ha ancora una volta adottato un

criterio tematico, concentrandosi in prevalenza sulle missive relative ai rapporti

fra Gregorio e le élites bizantine. Consideriamo infine la raccomandazione a

vigilare sulla diffusione della silloge. Non credo possa trattarsi di un ulteriore

scrupolo filologico, poiché Paolo distingue chiaramente i loca in quibus minus

habetur, ossia i passaggi lacunosi, da altri (aliqua) di cui è meglio che i minus

idonei non vengano a conoscenza. Ma nella Collectio è proprio fra le missive

contenute in P2 e Appendix che troviamo affermazioni o passaggi in grado di

destare qualche perplessità. Ad esempio l’Ep. II, 28 [33], in cui Gregorio ordina

ai magistri militum Maurizio e Vitaliano di prendere ostaggi e saccheggiare i

territori intorno a Narni come rappresaglia contro i Longobardi, e l’Ep. II, 50

[33], dove suggerisce ai conduttori dei patrimonia di Sicilia di corrompere gli

ufficiali addetti alla leva. Altri fraintendimenti potevano infine essere generati

dalla versione interpolata dell’Ep. IX, 148, la cui natura e i cui contenuti

meritano un esame approfondito.

III.

Il destinatario è il monaco longobardo Secondino. La lettera originale

inizia con un breve speculum sulla vita monastica in cui Gregorio si sofferma

sulle tentazioni della carne, a cui lo stesso Secondino si dice sottoposto, seguito

da una discussione sulle cause dello scisma tricapitolino e sul destino

ultraterreno dei bambini morti prima di ricevere il battesimo.

Nell’interpolazione quest’ultimo passo è soppresso e sono sviluppati altri due

argomenti.

Il primo concerne il reintegro nell’ordinamento ecclesiastico dei sacerdoti

lapsi, prassi verso la quale Gregorio viene presentato come favorevole, a patto

che abbiano sostenuto un’adeguata penitenza. Nello sviluppare le sue

argomentazioni l’interpolatore si ispira con buona probabilità a motivi

autenticamente gregoriani. Se a un primo sguardo la condiscendenza attribuita a

Gregorio poteva risultare incompatibile con la severa censura che di norma egli

applicava agli ecclesiastici indegni è vero che in altre circostanze, in particolare

nei confronti di monaci e abati, egli tendeva a mostrarsi più conciliante. Così ad

esempio nell’Ep. V, 4 Gregorio acconsentiva a reintegrare Giorgio, presbitero e

abate di San Teodoro, « in monasterio locoque suo » poiché « longa hic est apud

nos paenitentia afflictus ». In questa prospettiva la posizione attribuita a

Gregorio dall’interpolatore poteva essere fatta passare come autentica in quanto

risultante dell’estensione, anche al clero, di prassi già adottate per le istituzioni

monastiche.

La seconda parte dell’interpolazione riguarda le immagini sacre e presenta

Gregorio come un fervente iconodulo. Egli loda la devozione di Secondino

verso le immagini e la fomenta inviandogli due icone con i ritratti di Cristo e

della Vergine e di san Pietro e san Paolo. Sottolinea come attraverso la memoria

le immagini sappiano incentivare la tensione verso Cristo e ne giustifica

l’adorazione ‒ altro punto che poteva suscitare perplessità, dal momento che

nell’epistola successiva della Collectio (XI, 10) tale pratica era vietata.

Nell’interpolazione, per contro, l’adorazione delle immagini era giustificata in

ragione del suo carattere transitivo, dalla rappresentazione al prototipo: « nos

quidem non quasi ante divinitatem ante ipsam (l’immagine) prosternimur, sed

illum adoramus quem per imaginem aut natum aut passum vel in throno

sedentem recordamur ».

Anche in questa sezione è individuabile un riferimento a un originale di

Gregorio. L’espressione « ipsa pictura quasi scriptura » rimanda chiaramente

alla dottrina sviluppata per correggere gli eccessi iconoclasti di Sereno di

Marsiglia (Ep. XI, 10), che indicava nelle immagini il corrispettivo cognitivo

per gli illetterati di ciò che la scrittura rappresentava per i dotti. Se poi la

consideriamo in una prospettiva più articolata è lecito affermare che questa

parte dell’interpolazione sia stata volutamente costruita come complemento

dell’ epistola a Sereno di Marsiglia, per dimostrare che in favore del culto delle

immagini già Gregorio Magno si era espresso con argomentazioni simili a

quelle sostenute dal papato durante la prima disputa iconoclasta.

Nell’interpolazione, lo status socio-culturale e le relazioni intrattenute dai

due interlocutori consentivano di ‘nobilitare’ la funzione delle immagini. Di

dimostrare che, diversamente da quanto affermato nella lettera a Sereno, esse

non erano solo destinate a irrobustire la fede di idioti, ignorantes, imperiti e

nescientes ma potevano essere oggetto della devozione di un monaco zelante e

di un papa e doctor ecclesiae. Considerazioni analoghe valgono per le

argomentazioni in favore delle immagini. Nell’epistola a Sereno la funzione

memorativa delle immagini era sottesa piuttosto che enunciata e si accennava

solo brevemente alla loro capacità di sollecitare la compunctio. E ciò poiché a

Gregorio interessava dimostrare che la presenza nelle chiese di immagini e cicli

narrativi era parte integrante di un percorso pedagogico-didattico ‘guidato’, con

lo scopo di rappresentare avvenimenti e personaggi sul cui significato i fedeli

illetterati erano già stati edotti attraverso la pastorale e la liturgia. La

connessione immagine-memoria (recordatio, recordari, ad memoriam

reducere), per contro, costituisce il nerbo dell’interpolazione, in quanto da essa

procedono sia la capacità delle immagini di infiammare (inardescere,

recalescere) nel fedele l’amore per Cristo sia, dal momento che tale

connessione è agganciata unicamente alla figura di quest’ultimo, di giustificare

la forma di ossequio a esse tributato (adorare).

Ne risulta, come per la questione dei sacerdoti lapsi, una rielaborazione

che se da un lato era costruita per risultare coerente con il pensiero di Gregorio,

in quanto ne riprendeva nuclei sostanziali (il rapporto scriptura-pictura) e ne

amplificava altri (la memoria e la compunctio), dall’altro se ne discostava su

alcuni punti importanti. Gregorio collocava l’esperienza cognitiva indotta dalle

immagini in un contesto pubblico, la chiesa, e la subordinava all’acquisizione

da parte degli indocti di preconoscenze che erano state impartite loro dal clero.

Nell’interpolazione tale mediazione veniva invece a mancare per indicare

piuttosto, in linea con quanto affermato dagli iconoduli nel secolo VIII, la liceità

di un culto privato e di un rapporto personale fra icona e fedele. Un altro scarto

sostanziale riguardava la possibilità di adorare le immagini.

Questa affermazione, più che come effetto di una scelta consapevole

dell’interpolatore, risale alla tendenza a distinguere sempre meno, nella prassi

come nel lessico, la devozione che poteva essere tributata solo alla divinità

(adoratio/adorare) da quella che si poteva rendere alle immagini

(veneratio/venerari). Per quanto concerne il lessico possiamo constatare che

nell’Occidente latino tale fenomeno è innescato da due attitudini strettamente

concomitanti. La prima è legata alla dottrina del transitus dell’omaggio,

inizialmente ammessa solo nei confronti di Cristo e progressivamente estesa ad

altre entità celesti. Una dottrina tra l’altro spesso giustificata associando le

immagini a oggetti effettivamente passibili di adorazione, quali la croce e le

reliquie. La seconda riguarda invece la traduzione in latino dei testi in lingua

greca che costituivano il nucleo più rilevante delle auctoritates citate in favore

del culto delle immagini. Nelle versioni in latino di questi testi, almeno già a

partire dal concilio romano del 731, la prassi era di tradurre con adorare verbi

di significato diverso e senza distinguere a quale tipo di ossequio essi si

riferissero. Entrambe queste componenti sono presenti nella lettera interpolata a

Secondino in cui l’oggetto dell’adorazione è Cristo, i doni inviati da Gregorio

comprendono, oltre alle due icone, una croce e una reliquia di san Pietro, e la

giustificazione dell’adorazione delle immagini appare ricalcata su un’auctoritas

greca citata in traduzione negli atti dei concili romani del 731 e del 769: la

Quaestio XXXIX dello Pseudo Atanasio.

Cerchiamo infine di stabilire dove e quando fu redatta l’interpolazione.

Come terminus ante quem è sempre stata accettata una dichiarazione di papa

Adriano I secondo la quale la lettera fu esibita dal vescovo Erulfo di Langres

durante il concilio del 769. Come vedremo anche più avanti questa

affermazione, che suggeriva una localizzazione geografica oltre che temporale

dell’interpolazione, solleva alcuni dubbi. Va infatti notato che a proposito della

convocazione dei vescovi franchi al concilio del 769 il Liber Pontificalis,

particolarmente dettagliato a riguardo, riporta che Stefano III « direxit Franciae

partes ad excellentissimos viros Pipinum, Carulum et Carulomannum (…)

Sergium antedictum, secundicerium (…) deprecans atque adhortans (…) ut

aliquantos episcopos gnaros et in omnibus divinis scripturis atque sanctorum

canonum institutionibus eruditos ac peritissimos dirigerent ad faciendum in

hanc Romanam urbem concilium pro eadem impia novi erroris ac temeritatis

praesumptione, quam antefatus Constantinus apostolicae sedis pervasor ausus

est perpetrare ». Nessun accenno dunque alla possibiltà che nel concilio si

intendesse deliberare anche sul culto delle immagini: considerazione

comprovata dal fatto che se ne discusse solo in coda alla terza sessione,

limitandosi a ratificare le risoluzioni del 731. Il che induce a chiedersi quale

ragione potesse avere Erulfo di Langres di portare con sé la lettera interpolata.

Di maggior aiuto può essere invece una ricostruzione dei riferimenti

testuali a cui l’interpolatore si ispira. Si è già detto sopra della lettera di

Gregorio a Sereno di Marsiglia e della Quaestio XXXIX dello Pseudo Atanasio,

entrambe presenti nei florilegia di parte iconodula e citate, unitamente

all’assimilazione fra immagine, croce e reliquie, nei concili del 731 e 769. Lo

stesso vale sia per la locuzione « ab re non facimus si per visibilia invisibilia

demonstramus », che rimanda a due passi di Dionigi l’Areopagita circa la

possibilità di rappresentare con la pittura le cose celesti, sia per l’affermazione

che e, attraverso la memoria, le immagini erano in grado di suscitare la

compunctio. L’interpolatore conosce infine un altro testo presente nei florilegia:

gli Actus Silvestri. Ciò è dimostrabile a partire dalla singolare espressione,

surtaria, usata nell’interpolazione per definire le icone che Gregorio invia a

Secondino. Stando a Du Cange surtaria è una corruzione della parola scutaria,

usata per indicare immagini a mezzo busto, raffigurate su un supporto rotendo,

dette anche thoracida/thoracicla. Grazie alle ricerche di Wilhelm Levison e

Horst Fuhrmann sappiamo che nella versione B degli Actus proprio con

thoracicla erano indicati i ritratti di san Pietro e san Paolo che papa Silvestro

mostra all’imperatore Costantino affinché vi riconosca i due apostoli che gli

erano apparsi in sogno. Ma possiamo anche andare oltre la semplice sinonimia.

L’unica altra fonte indipendente dalla lettera interpolata in cui sia presente la

parola surtaria è il falso noto come Revelatio Stephani, composto intorno

all’830 dall’abate di Saint-Denis Ilduino. Nella Revelatio papa Stefano II

racconta che mentre si trovava nel regno franco era caduto malato. I medici

ormai disperavano di salvarlo quando, prostrato in orazione nella chiesa di

Saint-Denis, gli erano apparse tre figure: « et vidi ante altare (…) Petrum et (…)

Paulum, et nota mente illos recognovi de illorum surcariis et ter beatum

domnum Dyonisium », dietro intercessione del quale a Stefano è promessa la

guarigione. Il passo ricalca senza dubbio la prima parte degli Actus Silvestri

nella versione B2, con cui ha in comune il verbo recognoscere e la procedura di

identificazione delle apparizioni. Stante la loro indipendenza, l’uso della parola

surtaria nell’Ep. IX, 148 interpolata e nella Revelatio si può spiegare a partire

dall’esistenza di una fonte comune, gli Actus Silvestri nella versione B2, in cui

surtaria era usato come variante di thoracicla. Da notare infine che

nell’interpolazione viene introdotta la figura del diacono Dulcidio al quale,

sempre sulla falsariga degli Actus, è affidato il compito di trasmettere le icone.

Gli elementi fin qui raccolti ci permettono dunque di formulare un’ipotesi

sulla stesura dell’interpolazione diversa da quella tradizionalmente accettata.

Che Erulfo di Langres, o comunque un franco, fosse in grado di produrre un

testo così aderente alle posizioni del papato lo si può escludere, poiché prima

del 769 il clero franco risulta poco informato sulle linee guida papali in materia

di culto delle immagini e poiché per tutto il secolo VIII i florilegia su cui tali

linee si fondavano non ebbero alcuna circolazione al di fuori di Roma. Più

verosimilmente l’interpolatore era un membro dell’équipe incaricata di

raccogliere, o come in questo caso di creare ex novo, la documentazione con cui

il papato intendeva dimostrare la liceità del culto delle immagini. Più difficile è

stabilire una datazione precisa per la redazione. Gli elementi fin qui raccolti

imporrebbero di considerare il 731 come terminus post quem e come terminus

ante quem l’arco di anni in cui si colloca la compilazione della Collectio Pauli.

D’altra parte se l’affermazione sopra ricordata di papa Adriano risulta

pretestuosa riguardo l’origine dell’interpolazione, potrebbe invece non esserlo

del tutto per quanto concerne la datazione. È possibile che la lettera sia stata

effettivamente preparata nelle immediate vicinanze del concilio del 769 e poi

inserita nel florilegium, ampliato in due occasioni (770 e 774/775), su cui

Adriano basò le argomentazioni contenute nella sinodica inviata in occasione

del secondo concilio di Nicea (785) e nell’Hadrianum, lo scritto in cui ribadiva

la correttezza dogmatica di Nicea II contro le critiche dei teologi franchi. Da

questo florilegium, e non dal Registrum, infine Paolo Diacono trascrisse le due

lettere di Gregorio concernenti il culto delle immagini, il che spiega la presenza

nella Collectio dell’Ep. IX, 148 interpolata in luogo della versione originale.

IV.

All’origine della Collectio Pauli sono dunque rilevabili due forme di

manipolazione: una consapevole, la selezione per temi operata da Paolo

Diacono, e una inconsapevole, l’inserimento dell’Ep. IX, 148 nella forma

interpolata. Le implicazioni di quest’ultima risulteranno chiare più avanti,

quelle relative alla prima le ho esaminate in un’altra sede. Ne riprendo qui

l’argomentazione centrale integrandola con alcuni aggiornamenti.

La compilazione della Collectio dimostra la volontà dei Carolingi di

sfruttare la tradizione gregoriana anche per fini politici puntuali. I nuclei che la

strutturano infatti replicano e giustificano, proiettandolo nel passato, il

complesso di impegni assunti nei confronti del papato: difesa da Longobardi e

Bizantini; esistenza, per contro, di un legame preferenziale fra i vertici delle

istituzioni franche e il vicario di san Pietro; sostegno fornito alle rivendicazioni

papali sui patrimonia e le giurisdizioni sottratte da Leone III. Assunti di tanto

più urgente irrobustimento se consideriamo che la committenza della Collectio

avviene in concomitanza con la terza discesa di Carlo Magno in Italia, volta a

intervenire contro Arechi di Benevento e i suoi alleati bizantini e quindi

potenzialmente capace di modificare gli assetti geo-politici della penisola.

Elaborata come strumento per sostanziare le rivendicazioni nei confronti di

determinati avversari, la Collectio Pauli ci indica altresì in quale direzione si

stessero evolvendo i rapporti fra gli alleati.

Secondo Judic questa « émergence carolingienne de l’épistolaire gregorien

», di cui la Collectio Pauli costituisce un momento genetico, trova la sua

collocazione naturale fra altri due testi-chiave per gli sviluppi politico-culturali

della prima età carolingia. La Dionysio-Hadriana, raccolta di canoni fatta

compilare da Adriano I per Carlo Magno e il Codex Carolinus, che riporta le

missive inviate dal papato ai Pipinidi-Carolingi e le cui prime lettere esprimono

« une association qui évoque furieusement la correspondance de Grégoire le

Grand ». A ben vedere, tuttavia, solo in apparenza la compilazione di questi tre

testi rispecchia un’effettiva continuità nei rapporti franco-papali. Mentre infatti

l’acquisizione della Dionysio-Hadriana rientra ancora nell’ambito di un

paradigma in cui è il papa, a cui è stata affidata la custodia della tradizione

cristiana, a trasmettere i testi che ne sono fondamento, la Collectio Pauli è

invece frutto di un accesso diretto ai documenti su cui quella tradizione si

fondava. Sempre nel contesto della spedizione del 787 sono rilevabili due

iniziative analoghe: la riforma dell’omiliario in senso gregoriano e la richiesta

di una copia della Regula Benedicti da parte di Carlo Magno che, dopo aver

messo in fuga Arechi, aveva posto sotto il suo controllo Montecassino. Se la

compilazione della Collectio Pauli aveva in prima istanza uno scopo

strumentale, all’insieme di queste iniziative possiamo attribuire un significato

simbolico e progettuale. Simbolico poiché al riconoscimento del papato e del

monachesimo benedettino come istituzioni-cardine della cristianità si

accompagnava la facoltà di Carlo Magno, loro protettore in quanto capo militare

vittorioso, di attingere a quelle tradizioni, che erano pur sempre ‘ricchezze’,

senza alcuna mediazione. Progettuale in quanto comportava lo spostamento e il

successivo sfruttamento di tali ricchezze al di là delle Alpi, nel quadro della

riforma ecclesiastico-culturale intrapresa dai Pipinidi-Carolingi. Questo

orientamento, che mirava a ribadire quali fossero i rapporti di forza che in quel

tempo innervavano l’alleanza franco-papale, implica due importanti corollari.

Il primo concerne il rapporto tra chi elabora la propaganda e chi ne è

l’oggetto. Nelle lettere di Gregorio Magno e in quelle dei suoi successori

l’oggetto della propaganda papale sono i Franchi, di cui si vuole ottenere l’aiuto

e la collaborazione. Nella Collectio Pauli e nel Codex Carolinus, costruiti a

partire dallo stesso materiale, questo rapporto viene invece invertito, al punto

che nessuna delle due raccolte dovrebbe essere considerata come una fonte

‘romana’ ma come strumento della propaganda politica, culturale e militare

franca avente per oggetto il papato.

Il secondo riguarda il ruolo del papa come caput ecclesiae e i presupposti

che giustificavano tale concezione. Fin dai tempi dell’attività missionaria di

Wynfrith/Bonifacio (716-754), periodo a cui risale il consolidamento delle

relazioni fra Pipinidi-Carolingi e papato, il riconoscimento del primato del

vicario di san Pietro si era fondato su un processo che Klaus Schatz ha definito

di progressiva ‘sacralizzazione’ della tradizione romano-cristiana di cui al papa

era stata affidata la custodia. Secondo Schatz tale concezione derivava da una

archaische Religionsverständnis peculiare delle popolazioni barbare

convertitesi al cristianesimo, in cui era la perfetta adesione formale ai riti e alla

liturgia a determinarne l’efficacia. Da qui la necessità di trovare un garante

ultimo delle norme di fede. Benché io ritenga che questa concezione abbia ben

poco di arcaico, essendo variamente declinata da tutte le istituzioni

altomedievali, papato compreso, concordo pienamente con Schatz quando ne

esamina le conseguenze ultime. E cioè che per i Franchi il primato del papa era

di carattere consultivo rispetto a un complesso di testi, norme e dogmi, ma non

implicava alcun riconoscimento al vicario di san Pietro di interpretare quella

tradizione o intervenire nel governo della chiesa in veste di autorità suprema.

In questo gioco di ruoli, il cui protocollo era stato fissato quando tra i

Franchi e Roma esisteva ancora l’‘intercapedine’ rappresentata dal regno

longobardo, le iniziative intraprese da Carlo Magno intorno al 787 immettono

una regola nuova ma fondata su un presupposto collaudato. Il radicalismo della

tradizione che i Franchi avevano posto a giustificazione della funzione svolta

dal papato apriva la strada alla possibilità di derogare alla mediazione svolta da

quest’ultimo, stante la possibilità di accedere direttamente alla documentazione

originale. Il ricorso agli scritti di Gregorio Magno, che erano insieme tradizione

romana e ortodossia cristiana, è un indicatore importante di questo mutamento

di equilibri. In particolare l’introduzione nella Collectio Pauli della lettera a

Sereno di Marsiglia e dell’Ep. IX, 148 interpolata dimostra la volontà dei

Carolingi di dotarsi degli strumenti con cui intervenire in prima persona nella

disputa sulle immagini a fianco del papa, se non in sostituzione o persino in

opposizione a esso. « Quod contra beati Gregorii instituta sit imagines adorare

seu frangere, et quia vetus et novum testamentum et poene omnes precipui

doctores ecclesiae consentiunt beato Gregorio in non adorandis imaginibus »,

questo il principio programmatico enunciato nel capitolo L del Capitulare

Adversus Synodum, un elenco di ottantacinque contestazioni alle deliberazioni

di Nicea II, inviato ad Adriano I intorno al 790 e poi sviluppato nell’Opus

Caroli Regis Contra Synodum (Libri Carolini).

V.

Nel rifiuto da parte dei Carolingi di riconoscere la validità di Nicea II si

accavallano ragioni e implicazioni molteplici. Rispetto al nostro ambito di

indagine le più importanti sono: che tipo di funzione fosse attribuita alle

immagini e in quali termini vada intesa la ricusazione di Nicea II nell’ambito

delle relazioni franco-papali.

La tesi dei teologi franchi era che la presenza delle immagini nelle chiese

avesse esclusivamente un fine esornativo. In quanto create dalla mano

dell’uomo, nella gerarchia degli oggetti del culto cristiano esse non potevano

che collocarsi all’ultimo posto, poiché non possedevano né la funzione salvifica

delle Sacre Scritture, né la potenza simbolico-spirituale della croce e delle

particole eucaristiche, né la materialità sacrale delle reliquie. Le immagini non

erano dunque in grado di aprire alcun canale fra mondo celeste e mondo terreno

né di ingenerare un processo di elevazione spirituale nello spettatore. Né era

pensabile, in ragione del loro carattere fittizio, che a esse si potesse tributare una

qualche forma di devozione. Non solo. Carol Heitz ha rilevato l’esistenza di una

‘eclissi’ nella rappresentazione di Cristo nelle miniature a partire dal 780,

dunque prima dell’accendersi della disputa con il papato, che si protrae fino

all’810. E sempre per i decenni a cavallo fra i secoli VIII e IX Matthias Exner

ha dimostrato il persistere di un disinteresse per la pittura murale, in particolare

per i cicli figurativi, disinteresse che viene meno solo a partire dal secondo

quarto del secolo IX. Questi orientamenti nei confronti dell’iconografia sacra, a

cui non erano estranee preoccupazioni di natura pastorale, dimostrano che con il

Capitulare Adversus Synodum e l’Opus Caroli si volle codificare anche sul

piano teorico un atteggiamento variamente diffuso nella prassi.

Per quanto attiene i rapporti con il papato si è cercato di dimostrare che

all’origine del Capitulare e dell’Opus Caroli vi fu un fraintendimento e che

comunque in nessun caso, con quegli scritti, Carlo Magno intendesse minare

l’autorità del vescovo di Roma. Si tratta di un’argomentazione che tuttavia si

scontra con una premessa ineludibile, e cioè che negare la validità di Nicea II

implicava di per sé contestare il papa. Che poi per garantire un minimo spiraglio

di mediazione si sia evitato di attaccare la persona di Adriano è vero, ma ciò

non toglie che i contenuti della sinodica del 785 furono sottoposti ad aspra

critica, che nel Capitulare il re e il clero franco abbiano assunto una posizione

chiaramente autonoma rispetto al papa e alla chiesa di Roma e che Adriano

fosse ben consapevole di essere l’oggetto delle obiezioni in esso contenute.

Tanto più che ancora nell’825 i religiosi che su ordine di Ludovico il Pio

stilarono un libellus sulle immagini nel quadro della seconda disputa iconoclasta

non esitarono ad attribuire ad Adriano le deviazioni dottrinali di Nicea II e a

condannarne la pervicace difesa contro le obiezioni sollevate da Carlo Magno.

Nel Capitulare Adversus Synodum l’adozione della lettera di Gregorio a

Sereno di Marsiglia come unico referente in grado di esprimere l’ortodossia in

materia di immagini – i teologi franchi non citano, verosimilmente perché

ancora non ne conoscono i contenuti, l’Ep. IX, 148 interpolata – avviene in

linea con l’esplicitarsi degli orientamenti fin qui descritti. Sul piano dottrinale,

aderendo in toto al principio secondo il quale le immagini non dovevano né

essere distrutte né adorate, la chiesa franca dichiarava la propria autonomia

nello scegliere la via regia, la strada maestra da percorre per non cadere negli

eccessi iconoclasti e iconoduli verificatisi in Oriente. Nei confronti di Adriano

essa si poneva come sorta di compromesso, in quanto riconoscimento esplicito

della superiorità della tradizione romano-papale, ma altresì come potenziale

deterrente, in quanto l’eventuale ricusazione delle posizioni franche avrebbe

implicato anche quella dell’autorità di Gregorio.

VI.

Questa dunque la prospettiva franca. Per quanto concerne quella di

Adriano I va anzitutto ricordato che intorno alle immagini si erano andati

sviluppando due discorsi convergenti. Uno più circostanziato geograficamente,

legato alla committenza iconografica come parte integrante delle iniziative con

cui il papato aveva voluto ribadire la propria centralità nella vita della città di

Roma intesa come complesso urbano e sociale. L’altro di più ampio respiro,

essendovi coinvolto l’impero, in cui istanze dottrinali e politiche finivano

necessariamente per sovrapporsi. Occorre allora fare un passo indietro e partire

dalla sinodica inviata a Costantino VI e alla madre Irene. Nell’825 si dirà che

conteneva « testimonia (…) valde absona et ad rem, de qua agebatur, minime

pertinentia », giudizio in buona sostanza confermato da alcuni studiosi

contemporanei. Le testimonianze in favore delle immagini addotte da Adriano

sono in effetti il risultato di una spigolatura di prammatica del florilegium

approntato all’inizio del suo pontificato, e fungono più che altro da cerniera

rispetto alle articolazioni principali della lettera, che contengono una serie di

rivendicazioni di carattere politico.

Nella convocazione del concilio di Nicea è indubbio che Adriano avesse

intravisto l’occasione di riaffermare la centralità della chiesa di Roma in seno

alla cristianità universale. Da qui un’azione che era stata di sganciamento dalla

tutela sempre più pervasiva esercitata da Carlo Magno, unico motivo

ragionevole, questo, del perché Adriano nemmeno lo informò della

convocazione del concilio, e di apertura a un riallineamento istituzionale e

religioso con l’impero. Lo scopo della sinodica era indicare agli imperatori i

presupposti necessari affinché ciò fosse possibile.

Nella sezione iniziale Adriano afferma che con il ripristino della

venerazione delle immagini i nomi di Costantino VI e Irene saranno associati a

quelli di Costantino I ed Elena « qui fidem hortodoxam promulgaverunt atque

sanctam catholicam et apostolicam spiritualem matrem vestram Romanam

ecclesiam exaltaverunt et cum ceteris horthodoxis imperatoribus utpote caput

omnium ecclesiarum venerati sunt ». Se la prima urgenza di Adriano è

affermare il primato della chiesa romana, l’evocazione di Costantino e della

madre costituisce anche il dispositivo attraverso il quale egli intende dimostrare

che tale primato si collega intimamente alla funzione svolta dalle immagini

negli exordia della chiesa di Roma. Questa asserzione si sviluppa a partire dalla

conversione di Costantino com’è narrata negli Actus Silvestri.

Negli Actus l’imperatore è ammalato di lebbra e i sacerdoti pagani,

incapaci di guarirlo, gli consigliano di immergersi in una vasca colma di sangue

di neonato ma egli, di fronte allo strazio delle madri, rifiuta. Quella stessa notte

gli appaiono in sogno san Pietro e san Paolo, che su mandato di Cristo lo

invitano a chiedere l’aiuto di papa Silvestro e gli ingiungono di convertirsi al

cristianesimo dopo aver ottenuto la guarigione. Costantino convoca Silvestro al

quale « percunctabatur qui isti essent dii Petrus et Paulus, qui illum visitarent

(…). Silvester respondit: “Hi quidem dii non sunt, sed idonei servi Christi et

apostoli (…)”. Cumque haec et his similia augusto diceret papa, interrogare

coepit augustus, utrumnam istos apostolos haberet aliqua imago expressos, ut ex

pictura disceret hos esse quos revelatio docuerat. Tunc sanctus Silvester misso

diacone imaginem apostolorum exhiberi praecipit. Quam imperator aspiciens

ingenti clamore coepit dicere ipsos esse quos viderat nec debere iam differe

episcopum ostensionem piscinae, quam istos promisisse suae saluti memorabat

».

In questa narrazione in cui, con numerosi tagli rispetto alla versione

originale, la conversione e il battesimo di Costantino avvengono

immediatamente dopo aver riconosciuto san Pietro e san Paolo, l’ostensione

delle immagini comporta una serie di implicazioni. Anzitutto esse sono in grado

di modificare la natura dell’esperienza vissuta da Costantino durante la notte ‒

non si è trattato di un semplice sogno ma di una vera e propria revelatio ‒ e di

quella delle due apparizioni: non dei, come da lui creduto, ma apostoli di Cristo.

Questa presa di coscienza da parte dell’imperatore è possibile poiché gli sono

mostrati i veri ritratti degli apostoli, nei quali le sembianze raffigurate

corrispondono a quelle celesti e il cui possesso dimostra che è papa Silvestro a

detenere i veri e originali fondamenti della tradizione apostolica. Nel

raggiungere tale consapevolezza Costantino compie un percorso di

apprendimento molto simile a quello descritto da Gregorio Magno. Costantino

infatti, ricordando le fisionomie che gli sono apparse, impara (discere) ciò che

la revelatio voleva in effetti insegnargli (docere), ossia che fino a quel momento

ha creduto in idola, rappresentazioni materiali di cose che non esistono. Per

contro san Pietro e san Paolo sono storicamente esistiti, lo provano i loro ritratti,

ed esistono ancora nel mondo ultraterreno, lo prova la revelatio: la religione

cristiana è quindi l’unica fede autentica. Consapevolezza questa che innesca in

lui la decisione di farsi battezzare. « Ecce » prosegue Adriano « ut praemissum

est, sanctorum figurae ab ipsis sanctis fidei nostrae rudimentis apud omnes

fuerunt christianos atque in ecclesiis (…) quatinus gentilitas paganorum (…) ab

idolorum cultura et daemonum simulacris ad verum christianitatis lumen atque

amoris dei culturam verti deberet », enunciazione a suggello della quale viene

citata l’epistola di Gregorio a Sereno di Marsiglia.

L’assioma costruito da Adriano afferma dunque l’esistenza di una

tradizione, quella delle immagini in quanto oggetto di venerazione (per

Silvestro e i cristiani) e strumento di conversione (per Costantino), posta a

fondamento della nascita della chiesa di Roma e dunque delle relazioni fra

papato e impero. Da questa tradizione gli imperatori iconoclasti si erano

discostati nonostante gli appelli dei predecessori di Adriano. Le implicazioni dei

binomi Costantino I-Costantino VI ed Elena-Irene risultano a questo punto

chiare, poiché al lustro che quell’assimilazione poteva inizialmente suggerire si

sovrappone, alla luce del brano degli Actus Silvestri, lo svelamento della

condizione di necessità in cui in entrambi i casi l’istituzione imperiale si era

trovata nei confronti del papato. Per Costantino I si era trattato di guarire dalla

lebbra e sfuggire al castigo ultraterreno, per Costantino VI e Irene di ottenere la

partecipazione di Adriano a Nicea II e la sua successiva approvazione. E ciò

implicava riconoscere che quella romana era l’unica hortodoxa fides, senza

aderire completamente alla quale il concilio non sarebbe stato riconosciuto

come ecumenico, sancendo il rientro di Bisanzio nell’alveo della cristianità

universale.

A partire da questa posizione di forza Adriano detta una serie di

condizioni a cui è subordinata la partecipazione della chiesa di Roma a Nicea II.

Ancora una volta il riconoscimento del primato petrino, la pubblica

sconfessione del concilio di Hieria, garanzie sulla salvaguardia dei legati papali

e la restituzione dei patrimonia e delle giurisdizioni usurpati dagli imperatori

iconoclasti. Quest’ultima richiesta si ricollega al tentativo di sganciamento nei

confronti di Carlo Magno. All’autonomia istituzionale rivendicata da Adriano

attraverso la partecipazione a Nicea II (a Carlo egli scriverà che il concilio si era

svolto sotto la direzione e il patrocinio del papato), si accompagnava il tentativo

di agire indipendentemente anche sul piano politico, cercando di riottenere

direttamente dall’impero ciò che l’alleato franco non era riuscito ad acquisire in

dieci anni di presenza nella penisola italiana.

È stato osservato che la partecipazione di Adriano I al dibattito sul culto

delle immagini avvenne sempre in risposta a iniziative altrui, prima degli

imperatori bizantini poi di Carlo Magno. Mentre tuttavia nella sinodica Adriano

muoveva, o pensava di muovere, da una posizione di vantaggio,

nell’Hadrianum, redatto fra il 790 e il 792 per contestare le tesi del Capitulare

Adversus Synodum, egli si trova costretto ad assumere una posizione che era al

contempo di difesa di Nicea II e del papa come caput ecclesiae e interprete della

tradizione romano-cristiana.

Per far fronte a entrambe queste esigenze Adriano ricorre ampiamente

agli scritti di Gregorio Magno. Nella difesa delle deliberazioni di Nicea II è

tuttavia constatabile la stessa limitatezza di approccio presente nella sinodica.

Nell’Hadrianum in effetti l’incapacità dei redattori di prescindere dal

florilegium su cui per decenni si era basata la difesa del culto delle immagini si

sommava a quella, non sappiamo quanto volontaria, di comprendere il senso di

molti dei capitula stabiliti dai teologi franchi. Da qui una serie di risposte che

sono spesso inconsistenti, pretestuose o addirittura eccentriche. Nel cap.

XXXVI, per esempio, alla contestazione che gli apostoli non hanno mai

promosso l’adorazione delle immagini Adriano replica che a quel tempo visse

Dionigi l’Areopagita e che costui scrisse in favore delle immagini. Nel cap.

XLIX, alla domanda su quale sia la differenza fra « imago et similitudo sibe

aequalitas », il papa controbatte affermando che si tratta di un sofisma e che « in

sancta vero (…) ecclesia humilibus datur gratia ». Il cap. LIII afferma che «

mulier in synodo docere non debet », in riferimento agli interventi di Irene nel

corso dell’ultima sessione di Nicea II. Adriano risponde con gli esempi di Elena

nella discussione fra papa Silvestro e i dodici savi ebrei contenuta negli Actus

Silvestri e della principessa Pulcheria, a cui papa Leone I inviò le sue lettere

durante il concilio di Calcedonia. Esempi non pertinenti in quanto in entrambe

le occasioni le donne si limitarono a presiedere alle riunioni senza mai prendere

la parola.

Più efficace è invece la polemica che ruota intorno al rapporto fra

immagini, tradizione gregoriana e primato papale. Qui Adriano ha buon gioco

nello sfruttare una debolezza implicita nella scelta dei teologi franchi di

assumere la lettera a Sereno di Marsiglia come unico riferimento normativo. Le

numerose citazioni di scritti gregoriani che costellano l’Hadrianum intendono

dimostrare che sull’argomento il doctor et pater si è espresso in circostanze e

forme diverse, con una complessità di cui invece non si è colpevolmente tenuto

conto. Nell’assumere una posizione dottrinale, è il messaggio di Adriano, non

basta poter accedere direttamente alla tradizione, occorre anche saperla

esaminare e interpretare.

Per quanto concerne l’adorazione delle immagini il fulcro delle

argomentazioni è ovviamente l’Ep. IX, 148 interpolata. Nel citarla per la prima

volta, come si è detto, Adriano afferma che fu portata a Roma nel 769 da Erulfo

di Langres e che era indirizzata a Secondino servus Dei inclausus Galliae. La

precisa collocazione cronologica, l’identità del latore e l’etnia “franca” di

Secondino sono espedienti con cui Adriano intende denunciare il voltafaccia

dell’episcopato franco, che pure aveva partecipato al concilio del 769 e ne aveva

sottoscritto gli atti e rimarcare l’incapacità degli autori del Capitulare Adversus

Synodum, che non erano stati in grado di vagliare a fondo nemmeno la

documentazione che li concerneva direttamente dal punto di vista etnico-

territoriale. Ma sull’autorità di Gregorio si fonda altresì la dimostrazione che le

immagini non hanno solo una funzione esornativa, ma possono rappresentare le

vere sembianze dei santi e permettere il loro riconoscimento in sogni e visioni –

asserti alla base dei contenuti politici della sinodica – e sollecitare la pietà dello

spettatore attraverso la memoria, come stabilito nella lettera a Secondino, nei

concili del 731 e del 769, nella sinodica del 785 e a Nicea.

Su questo nesso di secolare continuità e coerenza dell’azione papale si

sviluppa la responsio di Adriano più vibrante per toni e impianto ideologico.

Alla domanda « ut scientes nos faciant, ubi in veteri vel novo testamento aut in

sex synodalibus conciliis iubeatur imagines facere vel factas adorare » Adriano

risponde con veemenza che « nos quidem infra scientes facimus, sicuti iam

fecimus, quia et in veteri et in novo testamento sive in sex synodalibus conciliis

semper venerandas fuerunt sacras imagines et factas inter sancta sanctorum

titulabantur ». Le ragioni di questa consapevolezza sono dispiegate, con una

chiara elusione rispetto al nocciolo della domanda, enumerando tutte le

iniziative di promozione e committenza iconografica sostenute dai papi in

coincidenza con i primi sei concili ecumenici a cui segue una serie di

ammonimenti destinati a Carlo Magno. I concili, afferma Adriano, sono sempre

stati riuniti per fronteggiare l’eresia. Quelli convocati dai suoi immediati

predecessori, così come Nicea II, intendevano rimediare a un torto originato

dall’arroganza degli imperatori orientali che avevano preteso di deliberare in

materia di fede andando contro la chiesa catholica et apostolica. Contestando il

secondo concilio di Nicea Carlo si accingeva a compiere un uguale sopruso ma

doveva sapere che Adriano non si sarebbe lasciato piegare: « nequaquam nobis

quispiam terminos patrum nostrorum transgredi facere valebit neque novitatem

vocum inponere, sed in ea orthodoxam fidem, quam suscepimus, manentes et

olitana traditione amplectentes (…). Nullum qualibet iam exinde contrarium

sermonem suscipientes, neque ratione reddentes ». Inoltre il re dei Franchi

faceva bene a ricordare quale autorità fosse stata concessa ai sacerdoti. Come

aveva scritto Gregorio l’incremento nella conoscenza delle Sacre Scritture era

prerogativa esclusiva dei sancti doctores, che divoravano i propri nemici e ne

abbattevano la superbia con sassi scagliati dalla fionda, « quid namque per

fundam, nisi sancta ecclesia figuratur? ».

Stante la radicalità delle rispettive posizioni – dei teologi franchi nel

negare l’adorazione e la correttezza di Nicea II, di Adriano nel sostenerne i

contenuti e il ruolo svolto dal papato nel dibattito sulle immagini – l’ultima tesi

del Capitulare Adversus Synodum e la risposta corrispondente dimostrano che

in fin dei conti anche il dibattito dottrinale era sottoposto alle leggi della

Realpolitik. Il capitulum si apre con una dichiarazione perentoria. Il papa e la

chiesa di Roma devono sapere che sulle immagini il re e il clero franco

riconoscono unicamente l’autorità di Gregorio Magno nella forma della lettera a

Sereno di Marsiglia « quia sensum sanctissimi Gregorii sequi in hanc epistolam

universalem catholicam ecclesiam Deo placitam a indubitanter libere profitemur

». Perciò Carlo Magno permetterà di creare le immagini, « adorare vero eas

nequaquam cogimus, qui noluerint ». Un’affermazione quest’ultima

particolarmente importante. In primo luogo ci illumina sulle implicazioni

politiche insite nella contestazione di Nicea II. Al di là delle ricadute religiose e

cultuali, recepire il deliberato che costringeva i fedeli ad adorare le immagini

significava per Carlo imporre ai Franchi una norma costrittiva stabilita

dall’impero, il che era un fatto inaccettabile. In secondo luogo poiché comporta

un piccolo cedimento nei confronti del papato. Nessuno sarà obbligato ad

adorare le immagini, se non vuole, ma se volesse farlo per libera scelta non gli

sarà impedito.

L’andamento della risposta di Adriano si sforza di reiterare questo gioco

di rigidezza e condiscendenza con risultati decisamente più contraddittori.

In chi ha sostenuto una tesi così sacra et veneranda – tesi accusata di

incongruenza nel c. L – Adriano non può che riconoscere la persona

dell’ortodosso re dei Franchi, a cui l’ennesimo elenco di citazioni non viene

indirizzato per insegnargli qualcosa – sempre in precedenza, cc. XVI e X (70),

era stato insinuato il contrario – ma per ricordargli i capisaldi della dottrina

gregoriana. La costruzione di questa piattaforma di convergenza per le istanze

di entrambe le parti si porta dietro una mirabile rilettura del senso della sinodica

del 785 e di Nicea II. È stato assumendo il pensiero di Gregorio come unica

linea guida che Adriano ha composto la sinodica e raccolto le auctoritates in

essa contenute. E quando Irene e Costantino l’avevano letta immediatamente

avevano convocato il concilio « et sic synodum istam secundum nostram

ordinationem fecerunt (…). Et sicut pro eisdem imaginibus sancti Gregorii

sensum et nostrum continebatur, ita et ipsi in eadem synodo definitionem

confessi sunt ». Il ruolo svolto dalla patristica greca, dai teologi e dal clero

bizantini in sessant’anni di discussioni sul culto delle immagini viene cancellato

in un colpo. Anche se si è tenuto in Oriente Adriano intende dimostrare che

l’autorità istituzionale su impulso della quale Nicea II si era svolto e la

tradizione che lo aveva informato risiedevano in Occidente: « et ideo ipsam

suscepimus synodum ». Lo stesso a questo punto potrebbe fare Carlo a cui

veniva offerta, se non la prova definitiva della legittimità di Nicea II,

quantomeno la scappatoia formale per accettarne le deliberazioni, che non

avevano nulla di ‘greco’ ma risultavano dalla totale adesione del papa, degli

imperatori e del clero bizantino al sensum sancti Gregorii.

Tuttavia, conoscendo il proprio interlocutore Adriano vuole premunirsi

contro ogni evenienza, anche a costo di smentire quanto ha sostenuto con

dispiego di energie e testimonia. Subito dopo aver proclamato la paternità

gregoriano-papale di Nicea II Adriano sembra fare retromarcia. È vero, ha

accolto il concilio, ma vi è stato costretto in ragione dei suoi doveri pastorali nei

confronti delle tot milia animae orientali cadute nell’eresia. A Carlo, che non è

sottoposto a tale vincolo, è dunque lasciata aperta anche la strada di proseguire

nella sua contestazione. Tanto più che Adriano, implicitamente rafforzando

l’idea che a Nicea non tutto si fosse svolto correttamente, afferma di non aver

ancora ratificato il concilio. In linea di principio poiché teme una ricaduta di

Bisanzio nell’eresia, di fatto poiché non è stata ancora assolta una delle

condizioni imposte nella sinodica: il reintegro di Roma nel possesso dei

patrimonia e delle giurisdizioni. In caso di mancata convergenza intorno alla

piattaforma ‘gregoriana’ ne viene dunque immediatamente prospettata un’altra,

su cui Carlo e Adriano potevano collaborare: richiamare fermamente

l’imperatore a restituire beni e diocesi sotto pena di scomunica. Eventualità

questa che avrebbe consentito a Carlo di permanere nel suo ruolo di unico re

ortodosso di una dominazione di respiro universale.

Fare dei patrimonia l’oggetto di un negoziato bilaterale con l’impero e il

re dei Franchi, con la giustificazione che il primato petrino non poteva essere

pieno se la chiesa di Roma non rientrava in possesso di ciò che le spettava di

diritto la dice lunga sulle priorità di Adriano, nonostante egli affermi di preferire

la salvezza delle anime e la stabilità della fede, che non possedere beni terreni. «

Era vero proprio l’incontrario » ha scritto Girolamo Arnaldi.

VII.

Se lo guardiamo in una prospettiva di esercizio dell’autorità e nell’ambito

delle relazioni fra papato e Carolingi l’itinerario che abbiamo seguito fin qui

trova il suo punto di arrivo nel concilio di Francoforte del 794 dove, alla

presenza dei legati papali, il secondo concilio di Nicea fu ufficialmente

condannato. Carlo Magno si arrogò dunque il diritto di deliberare in materia di

fede anche in disaccordo con il papato, un’acquisizione che trasmetterà a

Ludovico il Pio, suo figlio e successore. Nell’825, all’atto di intervenire nella

seconda disputa iconoclasta, non solo furono denunciate le responsabilità di

Adriano nello svolgimento di Nicea II ma, sulla scorta di quel precedente,

l’imperatore franco insistette, presso i suoi rappresentanti a Roma, affinché

blandendo papa Eugenio II lo convincessero ad aderire alla dottrina elaborata

dall’episcopato franco. Rispetto al padre Ludovico aveva imparato solo un po’

più di diplomazia.

Una rivincita tuttavia Adriano la ottenne. L’assunzione di Gregorio

Magno come autorità assoluta nel Capitulare Adversus Synodum costrinse i

teologi franchi a recepire almeno una parte delle sue obiezioni e a ricalibrare le

proprie tesi in base ai contenuti dell’Ep. IX, 148 interpolata, un falso nato in

ambiente romano e confluito involontariamente nella Collectio Pauli.

Senza voler istituire un nesso di consequenzialità rigida fra influsso

esercitato dalla lettera interpolata, orientamenti iconografici di età carolingia, ed

esperienza delle immagini vorrei almeno segnalare due possibili prospettive di

ricerca.

Abbiamo visto che la scarsa rilevanza delle immagini nelle pratiche

devozionali e il loro essere relegate a una funzione meramente decorativa

scaturivano anche da orientamenti concretamente operanti nei decenni a cavallo

fra i secoli VIII e IX. Ma proprio in conseguenza del dibattito sulle immagini

tali orientamenti iniziarono a modificarsi. In virtù dell’acquisizione dell’Ep. IX,

148 interpolata occorreva riconoscere alle immagini almeno un’altra funzione,

quella memorativa. Anche se non viene citata esplicitamente l’influsso della

lettera a Secondino è individuabile già nell’Opus Caroli e che la si considerasse

un testimonium autentico lo dimostra il fatto che fu inserita fra quelli citati

nell’assemblea dell’825. Clelia Chazelle ha dimostrato l’incidenza esercitata

dall’Opus Caroli sui trattati in tema di immagini composti nel secolo IX, trattati

in cui era riconosciuta la funzione memorativa delle immagini in relazione alla

devozione. Varrebbe dunque la pena indagare se questa trasformazione da una

concezione ‘statica’ a una ‘dinamica’ del rapporto fra immagine e spettatore

possa aver influenzato anche le iniziative iconografiche e decorative che si

svilupperanno nel secolo IX.

Sempre sul tema immagine-memoria un altro percorso può essere

sviluppato a partire dalla seguente considerazione. Se ciò che distingue

un’immagine sacra da una qualsiasi altra è il fatto che di fronte alla prima si

compiono una serie di gesti, va notato che in linea di principio questa

performance avviene in senso unidirezionale, cioè dal fedele verso l’immagine

e attraverso di essa al soggetto raffigurato. Ma il conferimento alle immagini

della capacità di insegnare agli illetterati, di sollecitare la pietà attraverso il

ricordo e modificare il significato di certe esperienze cognitive dimostrava che il

flusso fra mondo terreno e celeste incanalato dalle rappresentazioni era

bidirezionale. Anche il fedele diveniva infatti oggetto di una performance.

Thomas Noble ha rilevato la scarsità di attestazioni di immagini miracolose in

Occidente fino alla fine del secolo VIII. Anche in questo caso si può pensare

che la dottrina elaborata in risposta a Nicea II possa aver influenzato gli sviluppi

successivi, nella direzione di una moltiplicazione delle possibili performance

esercitate da entità celesti sul fedele per tramite dell’immagine, miracoli

compresi.

Un ultimo ordine di considerazioni riguarda la tradizione, la sua

manipolazione e la sua trasmissione.

Se la compilazione della Collectio Pauli e il successivo contrasto con

Carlo Magno avevano dimostrato ad Adriano i rischi insiti nella possibilità che

altri, per di più se politicamente eminenti, si rivolgessero dirattamente alle fonti

della tradizione romana, gli avevano fornito anche un suggerimento. In

concomitanza di quel frangente Adriano fece approntare una raccolta (R nelle

edizioni critiche) di 686 epistole tratte dal Registrum. All’inizio vi fece copiare

il Credo di Gregorio, fornendo a quelle lettere la forza di decreti. A fronte

dell’impossibilità di impedire l’accesso all’epistolario gregoriano era possibile

almeno veicolarne un accoglimento ‘controllato’ e ideologicamente orientato ‒

R era pur sempre il risultato di una cernita intenzionale da parte della curia

romana ‒ e ribadire chi ne fosse il legittimo depositario. La possibilità di

accedere a una collezione che era al tempo stesso ampia e più maneggevole

dell’originale ne determinò la fortuna e la diffusione a danno dell’originale

corpus epistolare gregoriano, poiché da quel momento in avanti R sostituì il

Registrum come fonte delle raccolte successive. Da R nell’876 Giovanni

Immonide copiò le missive inserite nella Vita Gregorii [B. H. L. 3641-3642] e a

quest’ultima, come ha dimostrato Ovidio Capitani, attinsero Pier Damiani e

Gregorio VII nell’ambito della riforma ecclesiastica e della polemica con

l’impero. Per quanto riguarda il ricorso all’autorità di Gregorio Magno

attraverso le sue missive esiste dunque un nesso causale, alla cui origine si pone

una catena di manipolazioni, che lega un’iniziativa dei Carolingi ad alcuni degli

orientamenti espressi dal papato nella seconda metà del secolo XI.

Per Carlo Magno, al contrario, il radicalismo della tradizione si era

rivelato un’arma a doppio taglio. Se infatti a partire da esso si poteva mettere in

discussione quanto stabilito dal papa in carica, ci si trovava obbligati a

sottostare a quanto aveva sostenuto uno dei fondatori di quella tradizione, anche

se in realtà non l’aveva detto. Su questo dispositivo, in cui tradizione e autorità

collimavano, si fondava la possibilità di elaborare un falso e fornirgli credibilità,

ma altresì quella di ricomporre antinomie e contraddizioni. Quando all’inizio

del secolo IX la Collectio Pauli cominciò a essere trasmessa insieme con una

raccolta che conteneva la versione originale dell’Ep. IX, 148 i copisti non

avvertirono alcuna incongruenza nel fatto che esse presentassero due redazioni

diverse: furono trascritte entrambe. Lo stesso vale sessant’anni più tardi per

Incmaro di Reims quando, nell’Opusculum LV Quaestionum, affermò che nella

lettera a Sereno di Marsiglia e in quella a Secondino papa Gregorio Magno

aveva scritto che le immagini non dovevano essere né adorate né distrutte.

Spostiamoci ancora più avanti. Nel 1990 Hans Belting ha scritto: « in tutte le

fonti medievali ricorre sempre il lemma memoria. Ma a quale memoria ci si

riferisce? Già Gregorio Magno disse che, “come la scrittura”, la pittura ci

conduce al ricordo. (…). Nella celebre nona lettera, lo stesso Gregorio dice

concisamente che si venera colui “che l’immagine richiama alla memoria da

neonato o da morto, ma sempre nella sua gloria celeste” (aut natum aut passum

sed et in throno sedentem) ». Sulla funzione delle immagini nel pensiero di

Gregorio Magno l’anonimo interpolatore del secolo VIII è riuscito a ingannare

anche uno dei più autorevoli fra i ‘moderni’.