Diavoli di Nuraiò - Flavio Soriga

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Diavoli di Nuraiò Il Maestrale Flavio Soriga

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Diavoli di Nuraiò

I l Maestrale

Flavio Soriga

Tascabili . Narrativa

Flavio Soriga

Diavoli di Nuraiò

Il Maestrale

EditingGiancarlo Porcu

Grafica e impaginazioneNino MeleImago multimedia

© 2001 Edizioni Il MaestraleRedazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 NuoroTelefono e Fax 0784.31830E-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.com

Prefazione

Poco importa se siano sardi di Nuraiò Villasor Serra-manna oppure siciliani di Grammichele Valguarnera Ser-radifalco, i “Diavoli” di Soriga hanno la scarlatta sfra-ghìs d’un DNA isolano. Nascono muoiono impazziscono sfre-giati e decorati dall’Insula che gli si appiccica addosso comeil tatuaggio d’un’aquila reale sul dorso d’un ergastolano ola medaglia d’oro sulla tomba del Milite Ignoto.

Lapilli di lava ruttati dallo stomaco infuocato d’un Vul-cano o pupille marine sfrattate da Oceano padre o dalle nin-fette, sue figlie, le Oceanine occhioglauco, recitano la trabal-lante palliata della vita viaggiando, per trazzere di pol-vere, in un viaggio di sola andata, clandestini passeggeridentro un baule di cartone, con le borchie in finto oro, dovemaschere coturni parrucche spilazzate e falli giganti into-nano nuovi epicedi per canovacci vecchi, vecchie fatture perun malocchio nuovo.

Creature plioceniche, quelle di Soriga, risorte come i dino-sauri della fantascienza da un fossile dormiente cromosoma,attori da Mimiambi, che ruzzolano si ubriacano o sempli-cemente sognano, nell’affollato vagone-merci della prosa, illibero metro della poesia.

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II Edizione 2003

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA© EDIZIONI IL MAESTRALE 2000 - NUORO

ISBN 88-86109-49-0

porta se si tratta d’una specie animale, l’ovis musimon, od’una specie umana, l’insulae homo.

L’ebbrezza linguistica del menadismo diavolesco viene fre-nata da Soriga, l’Autore non s’avventura, tiene salde le re-dini e sceglie l’asfalto d’un lingu-ato comune alfabetizzanteche, solo quando svia per mulattiere “sarde”, raggiunge unakoinè di grande suggestione.

Silvana Grasso

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Esseri mimo e mithopoietici, che saccheggiano l’epos d’unageografia emarginata ed emarginante, figli d’un dio mino-re, prometei e vagabondi, aedi e truffatori, Titani e Fran-cischeddi, compari d’un dimoniu malladittu che li guariscedalla pazzia con la fattura bianca, e poi lucidi e saggi li con-segna al nuovo demonio-cancro che li ucciderà.

Demoni sacri santi e guaritori, questi di Soriga, violatidalla violenza della Storia, guardati a vista dall’occhio em-pio di due empi guardiani, Kratos e Bia, intrappolati nellaplacenta buia dell’Insula, da cui nessuno fugge davvero, el’avventura, per ignote rotte di libertà, si segna solo con l’in-visibile inchiostro della fantasticheria sulla cartina consuntadel desiderio.

Dall’Isola non si salva nessuno, non si salvano i diavolidella sarda Nuraiò, come non si salvano i diavoli della si-cula Grammichele, non si salvano i figli che “sniffano e be-vono un mucchio di birra senza vomitare” come non si sal-varono i padri che andavano a messa, prendevano la comu-nione, e “giocavano a carte felici di poter bestemmiare”.Diavoli di ieri e di oggi, di Nuraiò o Serradifalco, dan-nati nel cilicio sanguinario d’un diritto d’onore che diso-nora, che divora la carne ma tiene in piedi il gigante di pa-glia e non gli fa succhiare l’aspro della polvere, nel preci-pizio della caduta.

Condanna e salvazione per diavoli che sono angeli, perangeli che sono diavoli, arsi da una morale che non disseta,da un unguento sociale che non sana, affetti dalla mucil-lagine di topoi antropologici, che forestieri annoiati visita-no alla ricerca delle specie rara, l’apax di natura, poco im-

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A Donatellache sa che non ci sono regole

ma vale lo stesso la pena giocare

a Giovannapaola, Elio, Raffaela, Giosuè

a tutti i diavoli che provano,e non riescono,

a scappare da Nuraiò

Uno

Adesso ho i chili che mi zavorrano a terra e non mi ri-cordo neppure come facessi a trovarmi bello, ma moltianni fa non ero questo pizzaiolo grasso con le mani di-strutte, e scappavo veloce per le stradine d’Europa sfug-gendo alle pattuglie di una decina di paesi, più velocedi qualunque Polizei.

Sopra il forno a legna tengo la foto di mio padre,buonanima, che quand’ero poco più che bambino mele dava con un frustino di nervo di bue, e faceva bene,perché andavo al tabacchino della vecchietta e ruba-vo le Nazionali, sfuse, oppure fermavo i bambini piùpiccoli di me e mi facevo dare gli spiccioli che aveva-no avuto di resto. Non mi dava soldi, il vecchio, e iomi arrangiavo, ero un bastardo e pochi anni ancora eavrei potuto uccidere qualcuno per una carta troppofortunata, come in uno squallido West fuorimano efuoritempo.

Avevo il mento lungo e degli occhi infuocati, lo soperché me lo diceva la mia ragazza di allora, Carla Pil-loneddu, che aveva quattordicianni ma due tette chebastavano per cinque.

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Questo è l’unica cosa buona che hai fatto, diceva ilvecchio mentre si preparava per andare al lavoro, conla camicia bianca consumata ma quasi pulita, vai aguadagnarti il pane adesso, mi gridava prima di chiu-dere la porta, lasciandomi lì a far colazione col caffel-latte, io bevevo tutto in tre sorsi e scappavo da Ma-riedda Trunchelinna a giocare a ramino con altri treperditempo che come me non avevano orti dove su-dare, mica era colpa mia se mio padre era impiegatoal comune! Mariedda ci odiava perché bestemmiava-mo più dei grandi, non consumavamo niente e spor-cavamo per terra con la buccia dei semi di zucca.Malladíttusu, gridava, maledetti, ma io lo so che a memi voleva bene perché ero bellixeddu come il figlioche le era nato morto, dieci anni prima, e quando an-davo al bar e non trovavo nessuno che mi facesse gio-care me lo diceva, oh Gabrielleddu, tu non li devi se-guire a quei ragazzi, quelli sono marmaglia, baga-múndusu, figli di nessuno, tu sei bellino… e miguardava negli occhi e le vedevo le lacrimucce chequasi scendevano. Quando sei zitto zitto e guardi aigrandi che giocano sembri avere capito tutto, tu, aquindici anni che c’hai, io ti vedo che sei su pru’ sci-du, il più sveglio e veloce di tutti, e ancora un po’ ete ne andrai da Nuraiò, perché è troppo piccolo que-sto posto per te, dalle retta a Mariedda, che quegliocchi li ha già visti, e in questo bar di gente che sicrede GesùCristo ne passa, eh, ogni giorno, poi ti di-cono che si è fatto ammazzare in Continente, o che ha

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Fogu téisi me is ógusu, diceva, ci hai il fuoco negliocchi, e io non volevo mai fermarmi quando decidevalei, e m’incazzavo anche, ma insomma mi porti inquesto schifo di domixedda in mezzo all’orto di tuozio e vuoi che mi fermi adesso, eh! Vi conosco io a voiragazze, le dicevo, e non mi fermavo.

Dieci anni dopo l’olandese mi ha detto la stessa co-sa, che ci avevo il fuoco dentro gli occhi, e quella vol-ta ero io a sentirmi tutto bruciare mentre lei lo dice-va, volevo che me lo dicesse per sempre, e dài, volevodirle, mandala affanculo questa fattoria da quattrosoldi, pioggia otto mesi l’anno e puzza di merda divacca attaccata ai muri, il cielo che sembra che sei inprigione anche quando stai in campagna a respirarel’erba, lascia stare tutto e scappa con me, corriamo inSardinia e ti compro quattro tanche profumate di mirtoe oleandri a Pula, così puoi vedere il mare mentre co-gli i pomodori, e non avremo vacche dalla merda puz-zolente ma caprette da latte a cui darai i nomi trat-tandole come figlie.

Ma non glie l’ho detto, e chi ero io? Un ventenne as-satanato della vita che non dormiva una settimana nellostesso posto, senza un fiorino in tasca e con le calze bu-cate e spesso sporche, magro e misterioso come un cri-sto incazzato, ma pur sempre povero e solo al mondo.

Mio padre mi diceva che neanche gli zingari, mi vo-levano, e mi lasciava lividi lunghi tre dita sulle gambemagrissime che avevo, ormai finite le elementari e lemedie.

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mortale, ma loro neanche immaginano i posti in cuisono passato io, Gabriele Pintus, quando avevo la lo-ro età e non avevo mai visto nulla ma non mi mera-vigliavo mai di niente, una volta un commissario diBarcellona me l’ha detto: “Usted parece haber vividotres veces”, mi ha detto, mentre un suo ragazzo miteneva le braccia incrociate dietro la schiena e un al-tro mi colpiva in pancia e sul petto con un bastone dilegno di quercia. Lei sembra aver vissuto tre volte,non si scompone per niente, sembra aver già visto esentito ogni cosa, era un poeta quel fascista di poli-ziotto, mica come certi polizei idioti che c’erano inGermania, con la faccia da bambocci piena di lentig-gini e bianca come mozzarella.

Ridevano, tutti e tre, quel giorno di pioggia a Bar-cellona, e scommettevano su quanti colpi avrei presosenza urlare, e quando ho superato la cifra più alta han-no incominciato ad incazzarsi, hanno detto che non erapossibile, poi sono svenuto e non mi ricordo più.

Di haschisch ne ho portato, eh, mica solo in Spagna,in Grecia se ti acchiappavano ti buttavano in un bucodi cinque metri senza nessuna luce, e una volta che miè successo passavo il tempo a pensare ai nomi di tuttele strade di Nuraiò, perché quando non hai niente e tisenti un cane schifoso che sta per morire, e sai che nonc’è nessuno che ti cercherà e ti aiuterà, quando non c’èniente di buono a cui pensare, almeno devi cercare diricordare le cose che conosci, che sono tue almeno unpo’ perché ti ricordi tutte le luci e i colori e persino i

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messo incinta la più bella di Giba e adesso deve la-vorare nell’orto del padre di lei, lì nel Sulcis dove laterra è maledetta, e dopo dieci anni ritorna nel barcon i pantaloni che non gli si chiudono tanto è gras-so, e gli occhi che non dicono più niente, neancheammiccullu, e mi dice oh Mariedda tu non invecchimai, e Mariedda gli versa il birroncino e pensa chetutti i GesùCristo finiscono in croce, prima o poi, maalmeno tu bellixeddu ce la devi fare, vattene a Ca-steddu a cercarti un bel lavoro, vai a farti impararel’elettricista da Giuanni Maboi, che quello ha lavo-rato anche a Roma e le cose le sa, vai e digli che vuoiimparare il lavoro per andartene a Cagliari, che tuorto non ne hai e qualcosa la devi fare, vedrai che tiimpara, poi ci parlo anch’io e vedrai che lo convinco.

Poverina, Mariedda, io le rubavo i chinotti che te-neva nel magazzino, entravo da un buco strettissimoche c’era in un angolo, coperto da una cassa di birrevuote, mettevo le mani avanti, la spostavo di lato epassavo veloce nel buco, magro magro com’ero, soloio ci potevo passare, afferravo tre o quattro bottigliettee me ne riuscivo, chissà se se n’è mai accorta, se nonci ha mai voluto credere perché un figlio non può ru-bare a sua madre, magari ogni tanto mi credeva dav-vero suo figlio che è nato morto, chi lo sa.

Adesso parlo di calcio con i ragazzi che vengono aprendere le pizze per la famiglia, invidio i loro anfibie i giubbotti da motociclista, se mi avessero vestitocosì a quindicianni mi sarei sentito ancora più im-

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prende questo argentino dal coltello facile. Ma poimi si era rotta la biella del Due Cavalli, appena su-perata la frontiera con l’Olanda, e avevo dovuto con-tinuare un po’ a piedi un po’ a passaggi, ed ero arri-vato in quel paesetto contadino alle otto di sera, cheera già buio da tanto tempo, puzzavo di sigarette senzafiltro, ero partito senza mangiare nulla e adesso mo-rivo di fame, arrivato davanti a quella specie di fat-toria da cartolina, con le vacche e le galline e il recin-to ordinato e tutto,

busso a quel portone con la paura che chiamino di-rettamente la polizei, o come diavolo si chiamerà inOlanda. Invece esce questa ragazza che mi ipnotizza emi fa entrare in casa, non mi chiede niente ma solo seho fame, mi dice che suo padre è morto la settimanaprima, e se ho un padre, e se gli voglio bene, e parlain un tedesco miracolosamente morbido, così diversoda quello di Hannover, e anche se non capisco tuttolei va piano e capisce da sola quali parole deve ripete-re, anche tre volte, cerca di aiutarmi con l’inglese per-sino, e io la guardo con gli occhi spalancati e mi dicoche dovrei ricominciare a pregare, e anche ad andareda Nostrosignore la domenica. Insomma questa ra-gazza ha una maglietta bianca che non dimenticheròpiù, che si incrocia sul petto e si può vedere una bellafetta di quelle bellezze, io con le ragazze non sapevomai cosa dire, specialmente lì che parlavo con le quat-tro frasi che sapevo, e invece questo angelo mi guardae parla, parla solo lei e mi guarda con gli occhi che

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riflessi, e soprattutto devi pensarci se sei in una galeragreca e sui quattro muri ci cresce il muschio e senti itopi squittire e non sai neppure se prima o poi ti in-terrogherà un qualche giudice idiota per condannartia morire in quel posto o se morirai tu, da solo, perscelta o per fare prima.

Gabriele Pintus non è mai morto in galera però,perché ci aveva il diavolo dentro la testa tanto avevavoglia di girare il mondo e vedere, Gabriele Pintusche non era mai uscito da Nuraiò fino ai sedicianni.Eppure un giorno avrei voluto smettere di girare, ilgiorno in cui volevo solo portarmi via quella bion-dina olandese con gli occhi azzurri come il mare diPula, quella ragazza con me in Sardegna e non chiedopiù niente alla vita, giuro.

Mi ero fermato a Rekken perché dovevo per forzafermarmi in qualche posto, scappavo dalla Germaniadove un tizio argentino mi cercava perché gli avevovinto troppi marchi a poker, e qualcuno maledetto loaveva convinto che usavo carte truccate, e quel cre-tino ci aveva creduto, e meno male che me l’avevanodetto che mi cercava, avevo messo le mie maglie dilana e i jeans in una borsa di plastica e avevo lasciatoHannover così, in un secondo, tanto quella stanzettascrostata puzzolente di umido mi aveva già uccisoabbastanza, ormai passavo le giornate a dormire e fu-mare erbaccia da due soldi, e la notte a bere e vincerea carte, e allora via per Enschede a raggiungere gli al-tri diavoli di Nuraiò, mi ero detto, col cazzo che mi

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tutta l’Italia della Dolce Vita, forse mi vedeva correreper i viali di Rimini su una Vespa rossa, forse sogna-va noi due che ci baciavamo all’Harri’s Bar di via Ve-neto, o su una terrazza di Capri in una tarda seratad’agosto.

Non avevo mai lavorato la terra, io che venivo daNuraiò dove tutti sono contadini ho imparato a pian-tare i pomodori in quel punto sperduto d’Olanda, misvegliavo e correvo a dar da mangiare alle mucche, lasera cenavamo alle cinque dopo aver tagliato un po’di legna, lei tirava fuori un quaderno con la copertinadi cartone rigido e mi faceva coniugare i verbi forti,e declinare l’articolo indeterminativo, poi quando erostanco mi alzavo dalla sedia e mi mettevo dietro di lei,le baciavo il collo e i capelli, facevamo l’amore davantial camino, il pavimento di legno cigolava coprendo ilrumore della pioggia, io ero in paradiso.

Era come se non avessimo avuto passato, nessun rim-pianto, ogni tanto mi diceva che potevamo aprire unapizzeria a Enschede, o anche ad Harlingen, sul mare,io guardavo quel viso da ventenne che vive per qual-che bel sogno e non chiedevo niente di più che amarequegli occhi, e baciare quei seni.

Una mattina mi sveglio più presto del solito perseminare non so quale verdura, man mano che facevaluce mi rendevo conto che era una bella giornata, nonpioveva e non avrebbe piovuto, anzi c’era un sole chesembrava quasi vero, non di plastica fredda come alsolito.

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sembra mi vogliano frugare proprio dentro dentro,voglio dire, che vogliano scoprire i pensieri, quelloche stavo pensando di lei… Ho mangiato caffellatte epane fino a non poterne più, mi ha chiesto se avevosonno o volevo fare un bagno, mi ha riempito una va-sca di ferro battuto che sembrava del secolo prima, miha dato un sapone grezzo che odorava di varechina,mi sono sdraiato lì dentro e quasi mi ci addormen-tavo, dentro l’acqua tiepida.

Al mattino abbiamo mangiato uova, prosciutto, car-ne arrosto e pane burro e marmellata, io la guardavomangiare e pensavo che non volevo più andarmeneda lì, non senza di lei comunque, mi sorrideva e par-lava di film che aveva visto nelle domeniche pome-riggio che in quel paesino dovevano essere le più lun-ghe del mondo, parlava di film italiani che aveva vi-sto a Enschede l’anno prima, quando ancora studiavalingue straniere, quando ancora il padre stava bene epensava lui alla fattoria. Diceva nomi italiani che ioconoscevo appena, Fellini Mastroianni Pasolini… iocercavo di spiegarle che non ero stato molto tempo inItalia, in quegli anni, ma soprattutto l’ascoltavo, emo-zionato zitto, fissando quegli occhi azzurrissimi, ognitanto abbassavo lo sguardo e speravo di vedere al-meno un po’ dei suoi seni bianchi e grandi, mi sem-brava impossibile tutto quanto, nel camino bruciava-no grosse radici di piante che non conoscevo, io pen-savo a cosa potevo dire per conquistarla, lei si stavainnamorando di un personaggio di quei film, forse di

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dietro la casa, attorno a noi campagna a perdita d’oc-chio, siamo soli, due poveri latini separati da tre assisospetti, vorrei continuare il mio sogno olandese, vor-rei essere fuggito ieri per la Sardinia.

Non ti darò nada, gli dico piano, quel che è persoè perso, io sono un galantuomo e non ho mai imbro-gliato a carte, mai nella vita.

– Cabrón – mi dice, mi schizza il viso di saliva.– Cosa vuoi fare? – gli chiedo. – Ti ammazzo – mi

risponde serio, tira fuori un coltello a serramanico,mi dice che è l’ultima occasione, che gli devo dare isoldi adesso o mi mata subito e poi entra dentro eprende quello che trova, ghigna e gli vedo i dentistorti, i pochi rimasti, penso che forse doveva restarea Mar de la Plata a servire ai tavolini di uno schifosocaffè per camionisti, e io a Nuraiò a zappare la terraalla giornata, invece di venire qui a prendere unalama in pancia davanti ad una donna splendida. Vor-rei essere nato ad Orune o ad Arzana e saper usare uncoltello, non so cosa fare.

Lo colpisco in faccia con un pugno, traballa tenen-do il coltello teso davanti a sé ma non mi vede più, èstordito, dev’essere molto debole, urla bestemmie emi chiama continuamente figlio di puta, aspetto chesi raddrizzi, che torni in posizione d’attacco, ora soche vincerò io, ma non voglio, non posso ammazzar-lo, penso a lei lì dentro e cerco di immaginare cosastia pensando ora, mentre io schivo un affondo cheporta il suo coltello a un centimetro dal mio fegato,

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A metà mattina eravamo lì sdraiati per terra spallealla stalla a storpiare le parole tedesche che ci sem-bravano più buffe, lei rideva scoprendo i denti bian-chi e gli occhi, come sempre, le luccicavano, e la ma-gliettina stretta, come sempre, mi faceva impazzire divoglia.

Non era giornata, lo sapevo. Non ci può essere unsole vero dove piove sempre, non si può cambiare ciòche è già deciso.

A mezzogiorno abbiamo sentito i cani di tutta lazona abbaiare furiosamente, il cielo era sempre giallo,poche le nuvole, perché abbaiano le bestie? Dal fondodel viale vediamo una sagoma che avanza, penso chea Nuraiò non ne nasce, gente di buona sorte, che tuttii Cristi finiscono in croce, che c’è una croce per ognimisura, ad aspettarci in qualche angolo di vita, i senidi lei gonfiano la maglietta rosa andando su e giù peril respiro che si è fatto affrettato, io ho smesso di sor-ridere.

È l’argentino. Mi hanno detto che mi hai fregato,mi dice senza salutarmi. Lei ha capito, forse, comun-que è entrata in cucina. Mi sento in un brutto filmspaghetti-western, immagino una colonna sonora ba-nale e stridula.

Lasciami perdere, gli dico, quel che è perso è perso.Ha una brutta faccia piena di cicatrici da rasatura, for-se si è fatto la barba questa stessa mattina, odora di deo-dorante a buon mercato per immigrati turchi, è moltopiù magro dell’ultima volta che l’ho visto. Andiamo

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Uno blu, ogni tanto vado a Nigeriane, non spero piùniente. Le pizze mi vengono buone.

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la prossima volta potrebbe cavarmi fuori tutte le in-teriora, mi colpisce con un calcio sul ginocchio, cadoa terra, mi pesta le mani e mi colpisce la testa, san-guino, sento il sapore dolce sul labbro, un occhio nonvede più, sento colpi piovere sullo stomaco, sul pet-to, le spalle, vedo la lama che splende sopra di me,scende, dò un calcio alla cieca e mi rialzo, sono sopral’argentino e gli ho preso il coltello di mano, sanguinodappertutto, penso di nuovo a lei lì dentro, al pranzoche non faremo insieme, la lama è entrata per metà,nel suo fegato, lui ha gli occhi socchiusi e ha smessodi urlare, non capisco più niente, non voglio sapere,mi alzo ed entro in casa di corsa, chiama l’ambulan-za, urlo, non so neppure se lei c’è e dov’è, mi lavo ilviso in bagno con l’acqua ghiacciata, cerco una cami-cia pulita e il mio portafogli, non trovo la sacca conla mia roba, ti amo, urlo come un pazzo per la primavolta mentre sbatto la porta e corro, corro, senza gi-rarmi, i cani non abbaiano più, il sole è sempre gial-lissimo, come a Pula, come a Nuraiò, il confine è vi-cino e io sarò di nuovo un diavolo senza pace che corresenza arrivare, la mia croce non mi avrà ancora.

Adesso sorrido alle belle ragazze che vengono a chie-dermi una marinara senza aglio, zavorrato a terra daichili invidio chi ha forza per amare, non cerco più nien-te, ho una figlia ventenne e una moglie più grassa di meche porta zoccoli di legno e calzettoni di cotone sempresporchi, i pantaloni non mi si chiudono, la notte sognoil camino di una fattoria da cartolina, guido una vecchia

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Due

Ogni notte quel cavallo senza fantino corre accantoal mio, sudato e veloce come una scintilla galoppaverso il trionfo di una città impazzita, stipata tuttanella piazza afosa d’agosto

galoppa come una scheggia verso il traguardo dipoco in vantaggio su me e Galindez

senza fantino e senza briglie, libero, ubriaco d’a-drenalina, quel cavallo corre a vincere il palio e con-quistare la gloria

ma non ci arriva, ogni notte che Dio manda in terrarivedo il cavallo sudato cadere e spaccarsi la gambapoco prima dell’ultima curva, a pochi centimetri dame e Galindez che non ci sogniamo neppure di fer-marci e vinciamo all’ultimo il palio dell’Assunta re-galando un’estate magica alla nostra contrada digiu-na di vittoria da molti anni

sarei dovuto morire allora, di infarto magari, tra lafolla che mi assordava ritmando il mio cognome sar-dissimo CU-BE-DDU, CU-BE-DDU, e ogni tanto ilmio nomignolo VI-NA-ZZO, VI-NA-ZZO, e io chesento le lacrime infuocate scendere a tradimento e

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mia madre che piangeva per la gioia più grande dellasua misera vita di vedova da un’eternità, di grassamatrona che a malapena dice due parole d’italianoma che seduta in quel ristorante da signori guardavatutti con occhi orgogliosi e luccicanti, cupa maestosasignora coperta del suo scialle nero che era una di-chiarazione di fede, credo nel mio marito morto la-vorando come un mulo e nell’amore di mio figlio cheha trionfato su tutti i nobili cavallerizzi del conti-nente, credo nell’umiltà della mia vita e della miaprossima morte, ignoro i vostri pensieri difficili e ivostri gusti complicati, sicura che la vita e il mondoe gli uomini sono sempre gli stessi dappertutto intutti i tempi, e che a Nuraiò non ci manca niente eniente dobbiamo chiedere

sarei dovuto morire quel pomeriggio in cui non eropiù il sardo, il paesano, l’isolano, il piccoletto, l’igno-rante, ma solo Vinazzo re di Siena, nobile fantino prin-cipe dei cavalli furbo gentile dongiovanni, orgogliodella contrada, occhi veloci e riso sprezzante, i difettidiventati pregi i pregi moltiplicati per cento, la follaai miei piedi le mie mani trofei da stringere per un se-condo almeno, la mia bocca regalo per poche

invece ho vissuto ancora e sono tornato nell’isolaquel Natale, ho ritrovato i miei amici di una volta,come sempre ci siamo buttati a bere birra da Nandoda Gianni da Tziu Antoi Crabittu, in tutti i bar delpaese e dei paesi vicini, ero tornato solo per pochigiorni giusto per controllare come andavano i lavori

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ringrazio il cielo di essere nato a Nuraiò e mio padrebuonanima di avermi buttato in groppa a Frorixedduche ero ancora bambino e non sapevo neppure scri-vere le lettere dell’alfabeto, e non è che poi abbia im-parato benissimo, la penna non è il mestiere mio, mapoco male, che il pane l’ho saputo guadagnare lo stes-so, da sempre, con le braccia ferme che ho e con i ca-valli, magari non fossero miei, e gioie ne ho avute, emolte, girando l’Italia e l’Europa trattato come un prin-cipe, piccolo e nero che sono, chiamato signore e vi-ziato dalle donne meglio che se sapessi scrivere cantia muttettus di quelli che fanno gonfiare il cuore epiangere, meglio che se avessi scritto il più bel ro-manzo del mondo

sarei dovuto morire quel pomeriggio d’agosto quandoil sindaco della città coi suoi due cognomi e la cra-vatta più elegante che avessi mai visto mi è venutoincontro e mi ha stretto la mano quasi piangendo an-che lui, che gareggiavo per la sua contrada

sarei dovuto morire d’infarto quella sera quandoVannina mi ha abbracciato e baciato come non avevamai fatto, e chiesto scusa per le brutte parole delgiorno prima, e io l’ho perdonata senz’altro perché infondo in fondo sapevo che avevo vinto anche grazie alei e alla sua lingua che con quegli insulti mi avevamesso in corpo rabbia e forza e voglia di spaccare ilmondo più di qualunque droga, e se avevo corso comemorsicato dal diavolo era stato anche per quello

sarei dovuto morire quel giorno tra le braccia di

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importa se so benissimo che come mi volto vomitanoveleno contro di me e invidia per i miei due soldi,per il mio poter viaggiare, per le dieci parole d’in-glese che ho imparato, e dicono che questi continen-tali non capiscono niente di cavalli se trovano che iosia un campione, che se non avessero dovuto portarele pecore sin da bambini sarebbero diventati davverobravi, loro, che di talento ne avevano il doppio di me

mi aveva preso la voglia di ritardare ancora un pocoil rientro in continente, e di ritardo in ritardo il car-nevale si è fatto vicino, e allora ho deciso: parto dopogiovedì grasso, e ho fatto il biglietto

la notte quel cavallo senza fantino continuava a cor-rere affianco a me, e a cadere a pochi metri dall’arrivospezzandosi una gamba e regalandomi la gloria, l’ul-tima gloria di Vinazzo fantino e di Cubeddu bravo gio-vane

mia cugina grande Marietta felice come tutti i pa-renti che prolungassi le mie vacanze in paese viene acasa qualche giorno prima che inizino le feste in giroper i paesi e mi regala questo bel vestito da moschet-tiere e mi dice sorridente Beppe guarda che con que-sto ne fai innamorare più del solito, eh! mettiti lamaschera in viso se no i fratelli ti sparano alla schienacome ti giri, e mica basta la sciabola a difenderti!

e io ho riso e anche mia cugina piccola Nina e an-che il mio amico Francesco che era lì con noi e bevevaun bicchierino di mirto, ma mia madre no che nonha riso, e anzi ha fatto la faccia più seria che le avessi

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nella casetta che stavo facendo costruire per quandosarei tornato definitivamente nell’isola mia, su a Olie-na dove avevo comprato due belle tanche da piantarea viti, appena possibile, a Oliena dove i visi delle ra-gazze sono più gentili che in paese e mani incantatepreparano i dolci più buoni della Sardegna intera,dove prima o poi dovevo pur tornare, a fine carrieramagari, magari con qualche bambino biondo mio edi Vannina, o di qualche tedesca alta e tettona, per-ché no? Me lo ha detto tante volte mia nonna, spo-sati con una tedesca che quelle sono alte e grosse, cosìarratzáisi, fate razza, migliorate il DNA della stirpe,proprio così diceva mia nonna digiuna di ingegneriagenetica e altre imposture simili, arratzáisi, come peri cavalli e le piante

insomma tornato per pochi giorni mi ha preso unamaledetta voglia di restare ancora un po’, di stare conla mia mamma e le mie cugine brave ragazze e conti-nuare a svegliarmi a mezzogiorno senza nessun pen-siero senza nessun impegno, di continuare i giri peri bar e le gare non dichiarate a chi regge più vino, piùbirra, a chi mischia più alcool e fumo senza star male,mi ha preso la solita maledetta voglia di restare an-cora qualche giorno, ancora una settimana o due trale strade che conosco a memoria, tra i visi che vedoda sempre, tra gente che parla con la mia stessa ca-denza e con cui non devo ripetere tre volte le frasiperché capiscano, con ragazzi che dicono di stimarmiperché mi sono fatto una carriera e un futuro, e poco

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vamo pranzato nella tanca di Remigio Crisponi, miovecchio commilitone alla base di Teulada e adesso al-levatore di maialini da latte cresciuti a ghiande eniente mangime, e una di queste bestie ce la siamomangiata appunto per pranzo quel giorno nella ca-setta che ha in campagna, e il vino lo avevo portatoio, Nepente di Oliena forte nero più che rosso, densopiù che pastoso, e anche se i miei amici sono genteche non beve vino di cantina sociale ma solo di pro-prietà fecero un’eccezione e si ubriacarono anche lorocon le mie bottiglie

il pomeriggio c’era stata la sfilata dei mammutonesin paese e c’erano turisti cagliaritani e persino qual-che tedesco ricco bianco come mozzarella che riem-piva gli zaini di cartoline e maschere in legno e cor-petti di fustagno e spalancava la bocca davanti ai mu-rales, a quei dipinti e quelle poesie sui muri vecchi,così fuori posto in un paese di bestie

e poi c’erano ragazze carine di Belvì e di Lanusei edi Bitti e di Arzana, e tra queste Cristina, arzanese ap-punto

eravamo stati nella stessa classe in quarta geometria Lanusei, lei nel banco di fronte al mio e io l’avevoguardata per tutto l’anno come un indemoniato, i suoiseni possenti e gli occhi marroni castagne mature chemi avevano mangiato il cervello, maledetti occhi sfug-genti che non si posavano mai su di me più di un se-condo

non voglio dire che fosse poesia la mia, mi piaceva

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mai visto e ha puntato occhi neri e accesi come bracisu Marietta e le ha detto: non dire tonterie, non si di-cono queste cose neanche per scherzo che a chiamarlele disgrazie vengono per davvero

eh, oh mamma! ho detto io che mi dispiaceva cherompesse la festa con una frase così, ma la festa erarotta e anche se abbiamo continuato a ridere e scher-zare l’aria era cambiata

ma bisogna dire che ce la siamo goduta in quei gior-ni, come non mai, girando per le sfilate e le feste inpiazza di tutti i paesi e villaggi vicini, da Aritzo aDesulo a Ottana a Oliena non c’era posto in cui unamico non ci invitasse a bere qualcosa nella sua casaconciata a festa, e ubriachi ridendo cantando e scoc-ciando ragazze abbiamo passato il carnevale a urlarciinsulti scherzosi e fare buffonate sotto le finestre del-le amiche più carine, e nei bar si pagava un giro a te-sta e non c’era mai sete, beveva tutto il paese al no-stro passaggio dovunque ci trovassimo, io e i mieiamici e i miei cugini e i loro amici e altra gente an-cora che si univa a noi lavoratori sfaccendati ladrun-coli accoltellatori bravi mariti torronai importatorid’aschisch noleggiatori di kalashnikov, e insomma,tutta l’umanità varia dei nostri paesi montanari eisolatissimi, tutto questo bestiario da sociologi e an-tropologi che tutti conoscono e nessuno capisce

ma io non devo spiegare niente e comunque non nesarei capace, così arrivo al giovedì grasso che aveva-mo deciso di passare a Orgosolo l’intero giorno e ave-

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con lei nei miei pensieri e succhiavo i suoi capezzolisenza stancarmi mai, ma in realtà non avrei dovutofare la proposta, e meno ancora chiedere con un bi-sbiglio a Remigio e gli altri di lasciarmi solo appenapotevano

non è stata mica colpa di nessuno, sia chiaro, i pen-sieri non contano e fino a quel momento avevamo solochiacchierato come vecchi amici e anche se ero ubriaconon avevo detto niente di sconveniente o fatto propo-ste precise, c’era una certa malizia tra di noi forse, maquesto lo potevamo sapere solo io e lei e nessun altro,certo non quel ragazzo dalle spalle larghe che è entratocon due amici e ha salutato il barista e mi ha guardatogridando

e allora al signor fantino ci piacciono le ragazze deglialtri, così funziona? e a te ti sembra il modo di com-portarti, bagassa?

è il tuo ragazzo? feci a Cristina, ma era domanda inu-tile, già tutto chiaro, gente cretina ne cresce sempree non c’è nulla che puoi fare, non lo conoscevo e nonavevo idea di dove venisse, cosa facesse, che armaavesse in tasca, cosa volesse fare esattamente

ma ero lì, e avevo un coltello nei pantaloni da mo-schettiere, e certe cose non te le deve spiegare nessuno,non c’è scampo e non ci sono dubbi, gli ho detto: eh,calmati, che stavamo solo parlando, eravamo a scuolaassieme e non ci vedevamo da molti anni

e decidete di rivedervi nel bar della piazza che tuttivi possono vedere e prendermi in giro? me l’avevano

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da morire e mi incazzavo perché lei, dopo scuola, scen-deva in pineta sempre con un ragazzo diverso, e maicon me

non voglio esagerare ma ci pensavo sempre, quel-l’anno, perché io no? perché io no? e lo sapevo benis-simo perché: ero piccoletto che sembravo ancora unbambino e brutto e più scuro di tutti e lei era donnafatta e aveva la lingua veloce a baciare e anche a par-lare e con una battuta ti faceva stare a posto e vergo-gnare di certi pensieri, se ne facevi su di lei e non neeri autorizzato

adesso era lì, in un vicoletto di Orgosolo di fronte ame, due passi ancora e avremmo incontrato gli sguar-di, non c’era scampo

Giuseppe! mi fa subito, e il mio cuore stava già cor-rendo più di qualunque baio avessi mai montato,Giuseppe Cubeddu! e allora, siamo diventati famosieh? ti vedo sempre in televisione sai? e le mie ami-che nemmeno mi credono che eri in classe con me

era lei, e gli occhi le castagne brucianti di sempre, ei seni possenti come allora e i fianchi stretti nei jeansmi facevano risalire il vino alla testa, come ubriacar-mi di nuovo e non capivo nulla e le dissi Cristina, seibella come quell’anno lì! Ci vieni a bere qualcosa connoi?

eccome no, fece lei, e zittì le amiche che obbietta-vano qualcosa, tipo che era tardi o non stava bene, maio non le sentivo certo, che mi ero già messo a spe-rare e fantasticare, e anzi a dirla tutta ero già a letto

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me e Galindez che trionfiamo nell’afa di una città im-pazzita, me e Galindez prìncipi di Siena osannati dallafolla

vedo la gamba spezzata del cavallo caduto, vedo gliocchi dell’animale sofferente che morirà presto, occhidi chi implora la fine, di chi ha fatto un giro troppoveloce

i miei stessi occhi di adesso

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detto che eri un coglione che si credeva chissà cosa, eavevano ragione

chissà chi era più ubriaco, chissà cosa mi è saltato inmente di tirare fuori il coltello troppo presto, quandonon era il momento, chissà se era davvero incazzatoper la ragazza o aveva solo voglia di usare la pistolanuova e l’avrebbe fatto con qualunque scusa, chissà sesbagliò davvero la mira o voleva proprio prendermi lagamba per sfregio, perché era quello che mi dava davivere, chissà se in quei pochi giorni da latitante si èpentito, o se si è sentito un Dio possente che castigaa capriccio

chissenefrega comunque

non ho bisogno di stare a letto per sognare adesso,in questa sedia che mi porta in giro a volte riesco achiudere gli occhi all’improvviso, e anche se non dor-mo proprio, faccio dei sogni, soprattutto se mi por-tano davanti al mare e respiro l’aria salata e sento gi-rare la testa,

vedo i capezzoli di Cristina che ho baciato per ore neimiei pensieri

vedo il vino rosato che avrei voluto cavare dalla miatanca di Oliena

vedo gli occhi di cenere infuocata di mia madre chezittisce mia cugina Marietta

vedo il cavallo senza fantino scheggia veloce sudatoubriaco che vola verso il traguardo e non ci arriva, vedo

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Tre

Sono in piedi davanti alla stazione e tra poco passe-rà il treno.

Sono in piedi davanti alla stazione e il cielo grigiodi settembre fa il disfattista.

Ho imparato questa parola da poco, e mi piace molto.Io faccio il contadino, non capisco tanto di parole e

suoni ma disfattista mi piace, fa capire, io conosco unsacco di disfattisti, di gente che non fa niente e rompele scatole a tutti, che ha sempre qualcosa da dire suogni questione, che vorrebbe essere interrogata sututto: la politica, s’economia, le colonie, lo sport. Efi-sio Carta, per esempio, è lì al bar che beve a scrocco ein vita sua non ha mai preso in mano una zappa, e tiraavanti con i due soldi del padre e della nonna e soloper aver letto due libri vorrebbe che il Duce in per-sona mandasse qualcuno a casa sua, il più spesso pos-sibile, e gli chiedesse: signor Carta, è contento diquello che ha fatto ieri il Governo, o avrebbe dei sug-gerimenti? Eh, se ne avrei! risponderebbe quel pre-suntuoso, praticamente non va bene niente! E farebbesedere quel poveretto mandato da Mussolini in una

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verno è una cosa, e magari anche volergli bene perchéci salva da quelle bestie di comunisti, ma andare lì inpellegrinaggio è fare idolatria, cioè peccato mortale.

Ma Don Cogodi è un pazzo a dire queste cose, anziun pazzo no, le dice perché le può dire, perché sisente intoccabile, perché è figlio di chi è figlio, e sea suo padre gli gira manda un telegramma al Re inpersona e quello gli risponde di non preoccuparsi,che il Re protegge i suoi devoti. Don Cogodi è un fi-glio di papà, ed è geloso del Duce, è per questo cheva in giro a fare il disfattista, ecco la verità, anche senon ho avuto il coraggio di dirlo a mia sorella, ché leiè capace di andare a riferirglielo, magari in confes-sionale, quando rimane ore a fare la vocina dolce alprete, a raccontargli i fatti di tutti i suoi parenti e vi-cini e di chiunque sappia qualcosa. La verità è che so-no tutte innamorate di lui, quelle stregacce mangia-incenso, prima prima mia sorella, che un giorno vadoanche a dirlo a mio cognato, e vediamo cosa succede.

Il cielo fa il disfattista, minaccia di mandar giù ac-qua, ma a me non importa, io di certo non mi muovo,ho sessantacinque anni ma so tenere la schiena dritta eil petto in fuori, anche tutto il giorno se necessario, esotto la pioggia e il temporale, nessun problema. Iome ne frego di Don Cogodi rompiballe, di mia sorellabaciapreti e del cielo disfattista. Io voglio urlare viva ilDuce, e sarà la mia festa, una domenica in più che cadedi venerdì, un giorno da ricordare anche per me.

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delle sue vecchie sedie scrostate, che non ha neancheun mobile sano, e gli spiegherebbe per filo e per se-gno come stanno le cose, come va il mondo. Secondolui, almeno, perché in realtà quello è uno che non ca-pisce niente ma proprio niente di nessun argomento,e parla solo perché non sa star zitto, che se gli dai unorto già seminato e pronto per il raccolto riesce a fardanni lo stesso e rovinare tutto, chissà come.

Sono in piedi davanti alla stazione che è piena digente, come me aspettano il treno, aspettano di ve-dere passare il treno e poter urlare con tutta la voceche hanno, fino a sentir male alla gola: Viva il Duce!E anche: Viva l’Italia! Viva Tripoli italiana!

Il cielo grigio non ha capito che è un giorno di fe-sta, fa il difficile, rompe le scatole. Vorrei urlare alDuce di raddrizzargli la schiena, a questo cielo che fail difficile, ma mi prenderebbe per pazzo, non si puòraddrizzare la schiena al cielo, lo so bene, altrimentilo farei volentieri per tutte le volte che manda giùpioggia quando ci vorrebbe bel tempo, e grandinequando ci vorrebbe pioggia, e siccità per settimane emesi, e noi qui a spaccarci le ossa per niente.

Mia sorella voleva convincermi a non venire, allastazione, perché Don Cogodi le ha detto, nel confes-sionale, che non sta bene idolatrare le persone, e leimi ha spiegato che idolatrare vuole dire adorare qual-cuno come se fosse un Dio, e il prete dice che vale an-che per Mussolini, che rispettarlo come capo del go-

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Quattro

Mai più ho potuto indossare una camicia di quelcolore, mai più.

I miei nipoti le portano, le camicie così scure, e miprendono in giro quando mi arrabbio e urlo che do-vrebbero vietare di venderle, di fabbricarle addirittu-ra. Ridono, ridono, mi guardano e so bene che mi chia-mano pazzo o, peggio, scemo; credono che sia isterico,dicono che è solo moda. Ma io ho i miei ricordi, e an-che se non annoio nessuno cercando di raccontarli mifanno visita, spesso, per esempio la notte, e allora miagito e mi sveglio e non posso più prendere sonno.

Era maggio e in campagna faceva luce prima, ci sivestiva più leggeri, si incominciava a sudare. Arriva-rono in otto dalla città, su una camionetta grigia, fe-cero la via Stazione cantando e bevendo grappa, chis-sà dove la trovavano, roba che vendevano solo in cit-tà. Arrivarono alla prima casa di Nuraiò, da Alliccasa Scrutza, le chiesero dove si trovava la Casa del Fa-scio, si fecero ripetere bene la strada, le dissero qual-cosa sul suo bel culo, ripartirono sgommando e ur-lando che il Duce ce l’ha sempre duro.

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vettura, toccando le gomme ancora calde e la vernicescura e ogni cosa.

Era domenica pomeriggio e a quell’ora di dopo-pranzo nelle cinque stanzette umide c’erano giustoun paio di vecchi che giocavano a carte felici di po-ter bestemmiare, non come in Oratorio dove il pretevegliava sempre, anche se non c’era.

Un paio di vecchi reduci, due ragazzine di bassa fa-miglia, e nessuna camicia nera. Questa fu la mia sfor-tuna, ché se avessero trovato qualcun altro di quellaventina di ragazzi che si erano fatti miliziani, o chesi vantano di esserlo, se avessero trovato qualcun al-tro non avrebbero certo cercato me, che però abitavoproprio lì di fronte, a cinque metri dalla Casa. Lorolo sapevano, avevano un elenco di ragazzi da avvici-nare perché li aiutassero nella spedizione, io ero nellalista, non il primo, no, ma il più vicino.

Su pottabi, il portone che dava sulla strada, eraaperto, e così quelli entrarono nel giardino esterno, emia madre già gli si faceva incontro, col grembiule eil velo nero di lutto, grassa e lenta, gli occhi grandidi stupore. Padre non ne avevo, ci aveva lasciati quandoio ero meno di un bambino, caduto nel fiume in unadomenica pomeriggio in cui si divertiva cercando lu-mache, caduto nel fiume in piena, lui che sapeva amalapena nuotare nella bratza, nella vasca dell’ortodove si raccoglie l’acqua per le verdure.

Buonasera signora, è in casa il camerata Antonio?

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Forse erano ubriachi, ma forse no. Erano ragazzoniforti, non signorini che si intendevano di politica,non erano di quelli che si mettevano la camicia pernoia, perché i genitori non gli facevano fare nulla perpaura che combinassero danni al patrimonio, nonerano ragazzini viziati cresciuti col cameriere e l’in-segnante di francese, no, erano pescatori e accoltella-tori e venditori di vino e figli di nuoresi senza ortoné gregge, era gente con le palle, come si dice adesso.

Secondo me li pagavano, che lo facessero per fedenon ci crederò mai. Ce n’era di quelli, non crediate,c’era chi ci credeva o si divertiva o si eccitava e cor-reva dovunque lo mandassero a picchiare e fare ca-sino, e furono ad esempio i primi a partire per l’A-frica, più tardi. Ma quegli otto no, quelli erano gentecresciuta in strade buie, al Porto, in posti tristi dovese non morivi di malaria nel tuo letto finivi a Buon-cammino, e nessuno piangeva per te. Gente che seera arrivata a vent’anni era perché sapeva muoversi,sapeva farsi rispettare. Gli unici cittadini che face-vano paura a noi di paese, a parte i giudici gli sbirrigli esattori, ma questi non come uomini, ma per ladivisa o la mantellina che portavano.

Insomma erano in otto, arrivarono alla Casa del Fa-scio e fermarono la camionetta con una lunga sgom-mata che fu peggio di una sirena: in meno di nientetutto il vicinato era volato fuori di casa e spiava labanda, tutti accucciati al muro del proprio cortile,tranne i ragazzini che saltellavano festanti attorno alla

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le gambe molli e la voce che non sembrava la sua.Risero tutti, quei ragazzoni, che col petto gonfio e

la camicia stretta sembravano ancora più grossi diquanto non fossero, immensi e invincibili agli occhidi una vedova grassa e povera, risero e il più basso de-gli otto, un tipo con le mani e le unghie nere e i ca-pelli attaccati sulla fronte, questo bel tipo disse: si vaa dare lo sciroppo ai figli del sindaco, sciroppo deli-cato, roba buona… E tutti risero di nuovo, più forteancora. I figli del sindaco erano monarchici fino alleossa, come il padre, che era fattore del Conte e moltevolte aveva detto in piazza che questo Mussolini sa-rebbe presto tornato ad essere il maestro disoccupatoche meritava di essere, e che il Re non l’avrebbe tol-lerata a lungo, questa continua mostra di volgarità eviolenza. A molti erano sembrate parole troppo ele-ganti per il signor sindaco, che dopo tutto aveva laquinta elementare appena, e si mormorò fossero idee,se non proprio parole, del Conte, che ad ogni mododa un po’ di tempo non si faceva vedere a Nuraiò, re-stava rintanato nel suo palazzo di Castello.

I figli del sindaco erano ragazzi lunghi e magri, ilpiù grande era segretario dell’Azione Cattolica gio-vanile e Bacelliere, uno studiava all’università e inpaese non c’era quasi mai, altri due, più piccolini, la-voravano negli orti e nei frutteti del Conte.

Rientravo da una mattinata nell’orto di AntiocoSpiga, mio amico da sempre, che aveva una vasca

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Chiese il capobanda, o capomanipolo come si chia-mava. Mia madre non mi aveva mai sentito chiamarecosì, sapeva che mi ero messo fascista, le dispiaceva macontinuava a credere fosse poco più di uno scherzo,bravate di ragazzi irrequieti, con poco senno. Tantevolte mi aveva detto: non perdere tempo con questecose, la politica è per i ricchi, per i figli dei commer-cianti, per chi ci ha i servi a lavorare nell’orto, noi ab-biamo un palmo di terra e da sola non si coltiva, lasciastare la camicia e infila gli stivali. Non è che avessimolto da rispondere in quelle occasioni, la lasciavoparlare e in fondo le davo anche ragione, e per lavorarelavoravo, ma poi ogni tanto la domenica la camicia mela mettevo, e magari andavo a Cagliari ai raduni sullamacchina di Virgilio Melis, ed era bello cantare e can-tare per tutta la strada e arrivare a Cagliari in così pocotempo, salire su un’auto era cosa da non credersi, e ioero contadino e povero, e quelli erano solo ragazzi checome me si volevano divertire alzando il braccio e can-tando e facendo i pallérisi, gli spacconi, come si erasempre fatto in paese, e cosa centrava la politica? Micami ero messo la cravatta, mica andavo a chiedere votio a parlare di colonie o del Re, noi si cantava e si ur-lava, e fino a quel pomeriggio questo era stato tutto.

Mia madre disse che ero andato in campagna conqualcuno, che non avevo lasciato detto con chi ero néa che ora tornavo. Lo cercate per qualcosa di partico-lare? Chiese, sorpresa di riuscire a parlare, nonostante

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devi portarli dai figli di Bastiano Sanna a dargli l’o-lio di ricino, forse a bastonarli.

Cagarono per due giorni, così seppi. Il più piccoloaveva sedici anni ma era già alto quanto gli altri, bellarazza i Sanna, gente di origine barbaricina, grande ebella di viso. Il padre si ammalò dal dispiacere, maiaveva creduto si potessero fare cose così in un paese,tra ragazzi che ancora non hanno testa da uomini. Ca-garono per due giorni, e si chiusero in casa per unasettimana, ma tutto sommato gli andò bene, perchénessuno fu picchiato, nessuno ebbe ossa spezzate.

Io tornai a casa, quella notte, rosso come un incen-dio, non dissi niente a mia madre che mi guardavapiangendo, mentre mangiavamo la minestra.

Non le dissi niente neanche la mattina dopo, quan-do partii per Cagliari a cercare lavoro. Lo trovai, comeguardia di carcere, le scrissi di raggiungermi, venne avivere con me a Quartu. Non parlammo più di quelladomenica, mai più negli anni che vivemmo assieme,pochi anni comunque, morì presto, forse anche lei siera ammalata, come il sindaco.

Io ho avuto figli che mi hanno rispettato, nipotiche mi vogliono bene.

Solo ogni tanto mi prendono in giro: divento iste-rico e urlo contro un colore, scemo che sono.

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molto grande affianco alla costruzione per gli attrez-zi, avevamo nuotato e mangiato fichi d’india e panebianco che avevo comprato io dalla mia vicina. Arri-vato al ponte già mi avevano avvisato, la figlia diBeppe Spanu mi venne incontro e mi disse: oh An-tonio guarda che ci sono le camice nere per te, tistanno aspettando a casa tua, mi’ che tua madre hadetto a tutti di cercarti, che per l’amor del Cielo titrovassero e ti riportassero in paese.

Io pensavo fossero venuti a prendermi per un ra-duno, una parata, ma un po’ la cosa mi sembravastrana. Feci ancora un po’ di strada e incontrai il vec-chio Francesco Pili, mio zio da lontano, bestemmia-tore e nullatenente, e mi disse: complimenti, l’haifatto bello l’imbroglio, e mi diede una pacca sullespalle, ma non sembrava un colpo da amico, né occhidi chi ti vuol bene.

Pensai a cosa poteva succedere, a cosa potevo averfatto per farli arrabbiare, perché non avevo dubbi chese qualcosa di brutto doveva succedere riguardavame. Invece, arrivato al palazzo del Comune, incontroPeppeddu, l’operaio-bidello-becchino, alto e seccocome una scopa, tutto vestito di grigio, camicia epantaloni e giacca grigi e lisi e bucati, pelle nera daafricano, e anche lui ha qualcosa da dirmi: AntonioAntonio, dovevi darle retta a tua madre, chi non hababbo non ha testa, povero te adesso.

E io: Peppeddu, ma sai cosa vogliono queste camice?E lui, pulito pulito come aveva sempre parlato:

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Cinque

È notte, guardo la cera della candela che gocciolagiù.

Mi piacciono le candele, mi piace fissare la cera chescende, lenta, dal contorno della fiamma verso il pic-colo pezzo di legno su cui è poggiata.

È il tempo che passa, è la prova che sono vivo, il miocuore pulsa e il rivolo violastro si ingrossa, gocciadopo goccia la mia candela colorata si consuma e si av-vicina il momento benedetto, una particella di cera inmeno che deve ancora colare giù dallo stoppino.

L’ideale sarebbe: una candela nera profumata che sidisfa in tutta calma, delle casse potenti che soffianofuori note tranquille (Nat King Cole o Frank Sinatra,Fred Buscaglione), un bel panorama fuori dalla finestra,dei pasticcini al rum da mangiare con una brunetta.

In realtà: musica non ne ascolto, ché la radiolina re-galo di zio Mariano va bene per novantesimo minu-to, ma la tromba di Paolo Fresu non dà il massimocon un aggeggio del genere, ammesso mai che si tro-vi una stazione che trasmetta roba simile.

Di pasticcini me ne porta ogni tanto mia zia, ma li

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di me di due o tre anni, tutte belle tettone come mipiacevano in quel momento, perso nell’oscurità mipermettevo frasi che loro non riuscivano a crederci, pa-roline romantiche, poetiche voglio dire.

Ché grazie a Dio su quest’argomento ho sempre ca-pito come andavano le cose, che il duro lo fai con i ra-gazzi, e loro, le ragazze, ti vedono che sei bello mas-siccio davanti agli altri e sentono brividini piacevolilungo la schiena a pensare a quanto male possono farei tuoi pugni, e dare sicurezza a una ragazzina che pog-gia la sua spalla sulla tua, a sedici anni in un paesecome il mio è proprio questo: essere belli massicci guar-dare torvo quasi tutti, saper dire sempre l’ultima pa-rola quando si è in gruppo bere un mucchio di birresenza vomitare, essere rispettati, come dice qualcuno.

Queste cose le sapevo, e per rispettare mi facevo ri-spettare, da tutti da tutte, ma poi dietro la chiesa do-po che avevamo liberato ogni istinto, in quel momen-to capivo che potevo prendere i loro visini tra le miemani e inventare parole che potessero sembrar loropoetiche, per quel poco che capivano di poesia.

A volte tolgo la candela dalla sua base di legno e latengo stretta tra due dita, la inclino un poco lascio ca-dere le gocce bollenti sull’incavo dell’altra mano. Èun caldo che sento piacevole, quasi eccitante. Non èche in questa camera ci sia granché da eccitarsi, in ge-nere. Il bestione del letto di sotto ascolta il televisore

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faccio fuori in un paio d’ore, alla sera quando accendola candela non ne rimangono quasi mai.

Le ragazze, bionde rosse o brune o come volete, so-no lontane da qui come Hitler dal paradiso.

Mi chiamo Vincenzo Mallus, ho ventiquattro anni,tra sei mesi uscirò da Buoncammino, se Dio vuole e seil ciccione del letto qui sotto non prende a fare stron-zate così grosse da costringermi a riempirlo di colpi.

Non c’è molto da spiegare, credo succeda lo stessodappertutto, in queste cose. Si inizia così, ché si è altie grossi e gli altri si aspettano che siccome sembri fat-to di marmo e usi frasi da Rambo e dici più bestem-mie che parole sensate, beh allora prima o poi da Ram-bo ti comporterai davvero per un motivo o per l’altro,e tu vedi i loro occhi cretini e sai che è una cazzata, chesono cose da idioti, scoprire chi è più duro chi ha fe-gato chi non ha mai paura, lo sai che sono cose daidioti ma ti fa piacere che quelli ti adorino, e poi ma-gari le ragazze in paese ti corrono dietro, non solo peri pettorali e la camminata da scimmione, non solo, maa te sembra che sia proprio per questo e poi le cosevanno da sole hanno preso la direzione e non le fermipiù, va così dappertutto credo, da Orgosolo a Los An-geles a Tijuana a Crotone, credo.

Io ad esempio a sedici anni ogni due giorni mi por-tavo una tipa diversa dietro la chiesa, anche più grandi

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di qualche tipo di lucentezza, non ho avuto il corag-gio di dirgli di no.

È questo, adesso, il nostro unico argomento di di-scussione: quanto peperoncino va aggiunto ai broc-coli per le orecchiette, se le foglie del mirto rovinanoo no il maialetto, che tipo di formaggio fresco va me-glio per il ripieno delle sebadas. Di solito ne parlia-mo all’ora di pranzo, mentre fissiamo il nostro pastoinsapore con occhi di lutto e rimpianto, prima dibruciarci le labbra con il caffè denso che preparo nelfornelletto da campo che tengo nascosto nello stan-zino che ci serve da bagno.

Guarda che vengo a pranzo da te appena apri il ri-storante, gli dico ogni volta alla fine della discus-sione, lui non mi risponde ma sorride, poi si corica simette a pensare a qualche nuova ricetta, aspetta chearrivi il sonno che lo trascini fino a sera.

Io a scuola andavo con mio padre, la mattina, mapoi al ritorno dovevo prendere il treno perché il vec-chio si fermava in città per lo straordinario, i recu-peri, per sue commissioni che non mi spiegava.

In treno, ogni sera, tra noi ragazzi di tutti i paesi eracome la festa del patrono: urla spinte insulti colpi, fu-ghe inseguimenti per le carrozze, vecchiette scanda-lizzate controllori impazziti, le ragazzine che si scam-biavano segreti lettere sorrisi da grandi, i più duri ditutti nell’ultimo vagone a spararle grosse e sfogliare epassarsi di mano fumetti porno rubati alla stazione.

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fino alle due le tre del mattino: programmi di chiac-chiere rumorose, pubblicità dei telefoni erotici. An-tonio Soro, si chiama, viene da Cabras e fino a tre annifa pescava di frodo allo stagno, ti sa dire che vento tirafuori in qualunque momento, scirocco maestrale li-beccio, in un secondo anche se qui dentro ristagna sem-pre la stessa aria acidula immota.

Impazzisce a stare chiuso, il grassone, molto più dime, lui che prima di finire qui non aveva mai passatopiù di un’ora davanti alla TV, che non segue nessunosport, che non legge niente che ama cani e gatti piùdei cristiani. Se lo lasciano ingabbiato troppo temposarà irrecuperabile, uno zombie incattivito e scemo,questo diventerà. Di solito comunque non mi crea pro-blemi, non fa rumori non tenta quasi mai di attaccarebottone, non si può dire che sia gentile ma non èdote richiesta, qui, la gentilezza. Credo abbia una tren-tina d’anni e una ragazza innamorata di lui che qualchevolta gli manda delle torte.

L’autunno scorso, un pomeriggio in cui la luce chefiltrava da fuori era più opaca e triste del solito, miha confidato di avere un sogno per la sua vecchiaia:di aprire una trattoria in Continente, servire aragostaalla catalana e linguine alla bottarga fatte come sideve, olio di olive vere e pesce appena pescato, chécerti posti di Alghero o della Costa Smeralda per tu-risti imbottiti di soldi se li sognano, dei piatti così.

Sai cucinare? Mi ha chiesto alla fine di quella confi-denza, ho visto i suoi occhi accendersi, per una volta,

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andato quasi a vuoto, ne ho approfittato gli ho datouna buona spinta l’ho fatto cadere, ho iniziato a pren-derlo a calci in testa con la punta rinforzata degli an-fibi, ho continuato con gli occhi chiusi la bocca ser-rata, senza nemmeno respirare con tuta la forza cheavevo finché non ha iniziato a sanguinare.

Allora l’ho fatto voltare, ché volevo vederlo in viso,gli ho chiesto come stava ma non ha risposto. Gli hodato cinque dieci venti pugni, in mano stringevo unapietra dura che sembrava acciaio. Non cercava più didifendersi, non doveva capire più molto.

Gli ho sputato in faccia, mi sono girato e ho rag-giunto il binario Tre.

Pochi secondi e avrei perso anche quel treno, giu-sto in tempo.

Al liceo ho preso sempre buoni voti, avevo amici intutte le sezioni, un sacco di ragazze che volevano ap-partarsi con me nei bagni negli angoli bui.

Non avevo molto tempo per queste cose però, ognimomento libero giravo per gli anditi i corridoi il giar-dino, aspettavo che qualcuno mi fermasse per chie-dermi erba e haschisch. Facevo ottimi affari, avevo laroba migliore eppoi ai ragazzi perbenino della miascuola comprare da me non creava problemi, ché ve-stivo camice stirate bene e jeans non troppo attillati,ché non gli davo l’idea di trattare con uno spacciatore,solo un compagno che aveva qualche conoscenza buo-na in quel campo.

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Un giorno un tipo con la pancia straripante, panta-loni stretti magliettina bianca capelli a spazzola, ungiorno questo tipo mi si para davanti mentre sfoglioun giornaletto appena preso, scuro in volto mi puntaun dito contro, la faccia durissima: Mi stai sul cazzo,mi dice, ti credi Dio in terra, per due libri che leggi.

Non lo conoscevo bene ma sapevo chi era e perchévoleva spaccarmi il culo: voleva farmi quel che ioavevo fatto alla sorella, ché però con lei non era suc-cesso in senso metaforico. Chi cazzo poteva averglielodetto, a quel pugilastro?

Noi eravamo in quattro, non grossi come lui maquattro, e lui era solo, ma con spalle grosse come duedi noi e mani che sembravano aver spaccato pietre pertutta la vita, e in ogni caso non c’era molto da sce-gliere, dovevo scendere con lui alla prossima stazionee accertare se le lezioni di guardia e attacco erano ser-vite a quel cretino a picchiare meglio di tutti o se gliautodidatti restavano i migliori. Se non avessi incas-sato troppo sarei stato un vincente, perché ero piùpiccolo di lui e non avevo cercato io il confronto, cosìstavano le cose, lo sapevamo tutti e due.

Siamo scesi ad Assemini, l’ho seguito verso un pic-colo spiazzo in mezzo al campo attorno ai binari, hopoggiato lo zaino sull’erba, abbiamo aspettato che lagente lì attorno si fosse allontanata del tutto. Non cisiamo studiati neanche per un secondo, ho subito ri-cevuto un sinistro forte, sul labbro, ma abbastanza distriscio, l’ho visto sbilanciarsi in avanti per il colpo

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Ognuno si ammazza come può, secondo me AldoCaboi si ammazzava con quelle lettere, aveva preso acredere alla natura semidivina del fratello e ogni vol-ta che usciva dal carcere si sentiva più coglione e in-capace della volta prima, e si dava da fare con quel-lo che poteva. Ricettava pezzi di automobili, li com-prava dai tossici della sua zona, li sistemava e ripu-liva, li montava sulla macchina di chi glieli ordinava.Era un buon meccanico, secondo me, solo che nes-suno lo voleva in un’officina vera, un po’ perché nonfaceva che parlarti del fratello e delle sue avventure,un po’ perché spendeva troppo in pasticche e forseogni tanto si bucava, anche se questo non me l’ha maidetto.

Sei un coglione, gli dicevo io, fatti mandare un po’di soldi da tuo fratello, che dici sempre che lui gua-dagna più di un giudice, fatti mandare un po’ di sol-di e apriti una carrozzeria tua.

Hai ragione, mi rispondeva, dovrei fare così, poiperò si dimenticava dell’idea e il giorno dopo tornavaa chiedermi se conoscevo qualcuno a Nuraiò che avessebisogno di un carburatore di Alfa33, ché ne aveva giu-sto uno pronto a casa e tra qualche settimana sarebbeuscito e poteva darlo per un buon prezzo.

Sei un coglione, gli ripetevo senza rispondergliquando attaccava con queste storie di sportelli radia-tori e cilindri, lui non si offendeva, tornava a lettoiniziava a criticare i costumi sessuali della Madonnadi Cristo in croce e di tutti i santi, ma a voce bassa,

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In questa stanza ci sono da un anno e sette mesi.Forse tra qualche settimana mi mettono in una piùlarga. In questo posto ci si muove molto, i compagnivanno e vengono, di qualcuno ti ricordi, altri non ve-di l’ora di dimenticarli.

Prima del grassone di Cabras nel letto sotto il mioc’era Aldo Caboi di Giba.

Mingherlino, occhi spenti, non si lavava molto be-stemmiava di continuo. Aveva la mia età, faceva den-tro e fuori da buchi come questo da quand’era un ra-gazzino. Parlava continuamente di suo fratello piùgrande: è in gamba, diceva, fa il pilota in aviazione,a Pratica di Mare, è davvero in gamba. Sa giocare atennis, aggiungeva, con l’aria di farti una rivelazione,come avesse detto che tramutava le pietre in oro.

Questo fratello gli mandava continuamente lunghelettere in un italiano tutto suo, gli raccontava storie in-credibili di sconfinamenti aerei suoi e dei colleghi pi-loti in cieli stranieri, di tempestivi avvistamenti di por-taerei libiche, di testate radioattive incustodite scovateda loro in depositi abbandonati, puttanate così.

Lunghe lettere scritte con una macchina dall’in-chiostro scolorito, intere righe in grassetto rosso, unaquantità di doppi e tripli punti esclamativi.

Mentre me le leggeva faceva continuamente di sìcon la testa, ogni tanto si interrompeva per urlare un“cazzo!” di meraviglia e ammirazione, non dubitavadi una sola parola, continuava a ripetermi che era ingamba, il fratello, davvero in gamba.

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spetto, soprattutto perché lui non riusciva a finire unafrase in italiano neanche sforzandosi. Gli dissi che an-dava bene andare a Cagliari a far colazione, ma che erotroppo stanco per pensare di farmelo venir duro.

Rise di gusto, spalancando la bocca a mostrare i dentistorti e gialli, rideva battendo le mani contro il cru-scotto, affacciato al finestrino, mentre prendeva l’ariagelida sul viso, disse che ero proprio un frocetto mo-scio come dicevano tutti. Portami tua sorella, gli ri-sposi sorridendo, e di nuovo scoppiò a ridere con la suavocina acuta da topo. La sorella pesava sì e no centochili, una delle donne più brutte del paese.

Da Lilliu avevano appena sfornato le bombe con lacrema, Tonio ne prese due, e un paio di bicchierini diVodka alla pesca, per digerire, mi disse, io volevo re-stare lucido, avevo come l’impressione che non era se-rata, presi un caffè lungo.

Mi stavo avvicinando alla cassa per pagare e sce-gliermi del cioccolato da mangiare in viaggio, quandoli vidi, che chiudevano la macchina e si avvicinavanoal locale.

Mario Cao e il fratello Girone, due dei peggio cretinidi Macomer, magri e alti come due piante di cardo,convinti di poter prendere per culo il mondo intero.

Ricettatori di poco conto, ogni tanto coltivatori dicanapa nelle serre del nonno, gambe lunghe cervellolento.

Non c’era possibilità che riuscissimo a uscire senzaincrociarli, ormai.

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per non disturbarmi nelle mie letture, ché tanto inCielo lo sentivano lo stesso.

Una notte io e Tonino Suella eravamo di turno al-l’entrata dell’Open Sky, a Sanluri, ché in quei mesi cieravamo organizzati con i turni, noi cinque o sei chefornivamo coca: un fine settimana a testa, si evitava-no un sacco di problemi, funzionava bene.

Quella notte io e Tonino l’avevamo passata davantialla discoteca, seduti su un blocchetto spaccato a me-tà, con addosso niente polvere per essere tranquilli:come arrivava un cliente coi soldi in mano uno di noidue correva a prendere la quantità giusta dal sacchet-to, che tenevamo nascosto nella carcassa di una Ci-troën lì vicino, proprio ai margini di un fiumiciat-tolo quasi asciutto.

Quella notte avevamo venduto bene, ci era rimastogiusto qualche grammo, ci rimaneva in tasca più diun milione a testa. Alle quattro abbiamo chiuso bot-tega, eravamo pronti a tornare in paese, Tonio peròsu di giri, con una gran voglia di fare cazzate, prendea dire che dovevamo festeggiare, voleva guidare finoa Cagliari, fermarsi in via Roma a bere qualcosa e poipassare in Viale Monastir a prendere su due negre.

Aveva sniffato, non mi piaceva quando gli prendevacosì, tutta quell’allegria quella voglia di correre fare,ma non potevo mandarlo affanculo con troppa forza,ché mi dava venti centimetri e sapeva picchiare me-glio di chiunque, anche se di me aveva un certo ri-

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anche lui da qualche discoteca, chissà perché si era por-tato dietro le manette. Mi guardò mi disse di non muo-vermi, che doveva dire due paroline anche a me. Usciidal locale, mi sedetti su una fioriera vuota di fronte allaporta d’ingresso mi accesi una sigaretta.

Faceva freddo.Il tipo arrivò con uno sguardo soddisfatto, affianco

a lui un piccoletto con il suo stesso accento mi disseche erano carabinieri e che dovevo seguire in casermala volante che stava per arrivare, per la deposizionedel caso. Gli risposi sorridendo che non c’era proble-ma, ma che forse potevo aiutarli a fare qualcosa dipiù utile che arrestare un cretino per aggressione. Ilpiccoletto socchiuse gli occhi, fece cenno all’altro distare zitto e mi chiese una sigaretta. Cioè? Domandò.Lasciate andare quel coglione del mio amico, gli dis-si, e date una controllata alla macchina di Cao, chequalcosa lì c’è di sicuro.

Non mi risposero neanche, si precipitarono sui duefratelli che avevano appena chiuso le portiere e giàmettevano in moto.

Dopo la perquisizione il piccoletto mi si avvicinò,mi disse che Tonio dovevano comunque portarlo incaserma, ché la volante stava per arrivare e i colleghisapevano già della rissa. Non importa, gli risposi,trattatelo bene.

Mi disse di non preoccuparmi, che in poche ore sa-rebbe tornato a casa.

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Uno dei due doveva circa mezzo milione al mio so-cio, da sei mesi almeno, Tonio aveva giurato che ap-pena possibile gli avrebbe spaccato la faccia.

Lo guardai, nella luce al neon del locale: sorridevacome uno scemo a una tipa sulla quarantina con l’a-ria da tisica o da eroinomane, fuseau neri e camicettacremisi sbottonata su un petto che non aveva moltoda offrire.

Tonio, lo chiamai, si voltò verso di me mi sorrisecon uno sguardo complice, mi fece l’occhiolino, conla mano destra mimò uno stantuffo che andava e ve-niva, doveva essere ancora su di giri per la sniffata,infoiato e forse un po’ ubriaco.

Come vide i Cao avvicinarsi al bancone, però, dimen-ticò la tossica le paste la vodka e anche me, si piazzò da-vanti al suo debitore gli mollò un destro sul fegato chequello rotolò a terra senza neanche aprir bocca. Io bloc-cai il fratello da dietro tenendogli le braccia incrociatesulle spalle, lo spinsi fuori dal locale gli urlai di non es-sere stupido, di tornare in macchina e aspettare lì, chealtrimenti quel pazzo li avrebbe ammazzati tutti e due.Tornato dentro trovai Tonio pancia in terra sul pavi-mento, un paio di manette ai polsi: sopra di lui un ro-mano dalle spalle quadrate gli stava urlando di starefermo, che si trovava in arresto e che gli era andata ma-le, malissimo, non faceva che ripetere questo concetto,che gli era andata male e che lui era un pubblico uffi-ciale e frasi così. Aveva gli occhi lucidi e le pupille lar-ghe come le nostre, il pubblico ufficiale, doveva venire

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glia del solito di cercare di scoprire cosa succede fuoridi qui, d’inverno, quando sin dal pomeriggio facciobruciare le mie candele colorate, a volte d’invernosento il bisogno di parlare con una ragazza, di averevicino una persona profumata e con degli occhi cheguardandoti in silenzio ti facciano sentire qualcosadentro. A volte, d’inverno soprattutto, mi sento maleperché so che la sera non porterà nessuna eccitazione,nessun mistero, nessuna scoperta. Certi pomeriggifreddi resto sdraiato per una due tre ore e fisso il muroe immagino di essere sul mio letto a Nuraiò e che trapoco dovrò alzarmi entrare in bagno e farmi una doc-cia calda lunghissima, che sentirò il getto bollentesul collo mentre il mio sguardo sarà fisso sui piedisulle gambe sugli schizzi d’acqua e di luce delle pia-strelle, sogno che tra poco dovrò alzarmi fare la doc-cia scegliere una camicia comoda e uscire a cena conla ragazza dagli occhi verdi, una qualunque ragazzadagli occhi verdi che fissandomi e parlando piano esorridendo mi faccia star male dalla voglia di ba-ciarla, dal bisogno di sentire il profumo del suo collo,delle sue braccia, delle sue gambe, che mi faccia guar-dare in alto e gridare che se c’è giustizia quella nottedovrò passarla accarezzando quel corpo caldo e liscioe sentendo quella vocina che mi dice le più belle dol-ci scontate parole che riesce a immaginare.

Certe volte, a pensare che nella branda sotto la miac’è la stessa desolazione che mi sta uccidendo, la stessanoia la stessa rabbia la stessa acidità nella pancia la

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Non ero preoccupato, in effetti. Lo salutai e tornaialla macchina.

Mentre tornavo a Nuraiò piano piano fece luce.Guidavo ascoltando Glenn Miller e Lou Reed, pen-savo che dovevo comprarmi qualche nuovo CD e chela domenica è un gran giorno per dormire.

A volte mi arrivano delle lettere degli amici del li-ceo, di qualche ragazza di allora, di mia zia e di mianonna, di mia madre.

Mia madre non viene molto a trovarmi, la capisco:ogni volta mi trova tranquillo pulito e sorridente, enon le scoppio a piangere davanti come lei si aspettae non le grido che ho bisogno di aiuto e che sto im-pazzendo, e solo le chiedo come stanno i parenti e mifaccio raccontare le ultime novità delle mie cugine odi qualche zio, e non succede mai quello che lei so-gna, qualcosa che non sa bene cos’è ma che saprebbericonoscere, un gesto uno sguardo una frase che lefaccia capire che come uscirò di qui tornerò quelbambino con le camicette in ordine che scriveva rimestrampalate su un quaderno che teneva nascosto atutti tranne che a lei. Lo aspetta ancora, lei, il ritornodi quel bambino che non c’è più.

D’inverno, quando non arriva quasi luce dal fine-strone qua in alto e chissà perché mi viene meno vo-

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Sei…

– Nuraiò in fiamme! Nuraiò in fiamme! – gridaFranchino, correndo mezzo nudo per le strade del paese.

– Nuraiò in fiamme! Nuraiò in fiamme! Tutti bru-ciati sarete, maledetti peccatori, figli e amici di Sa-tana, impuri e manigoldi, nelle fiamme brucerete maialischifosi!

Urla e corre veloce, Franchino, veloce veloce perchéha il fisico ancora buono, Franchixeddu, anche se èdimagrito da far paura. Fino a qualche anno fa avevale spalle larghe come un armadio, e le mani grasse egigantesche, forti e sicure. In paese si dice che unavolta che girava in campagna di sera un cane rabbio-so ha cercato di azzannarlo, gli è proprio saltato ad-dosso verso la faccia, con i dentoni di fuori pronto amorderlo, e lui tranquillo gli ha dato uno schiaffocon tutta la forza che aveva e quello ha rinculato aterra sbattendo la testa, e quando è ripartito cercandodi azzannargli le gambe Franchino lo ha lasciato fareper qualche secondo e poi come se niente fosse ha por-tato le mani intorno al collo dell’animale e ha stretto,fortissimo, strozzandolo in pochi secondi.

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stessa tensione nella testa la stessa voglia di spaccareil soffitto a forza di bestemmie gratuite, certe volteho dei maledetti pensieri banali come che vorrei nonessere nato o che quando uscirò da qui sarà tutto di-verso o che almeno dovrei iniziare a pungermi levene che voglio sciogliermi come la cera picchiare ilmio compagno di stanza uccidere una guardia bu-carmi il fegato farmi tante seghe da non aver piùforza per star male imparare a pregare davvero scri-vere poesie bellissime calmarmi, calmarmi almenoun pochino, ritrovare la calma ed essere di nuovo io,calmo, calmo, di nuovo calmo.

Mi succede così, a volte, qui dentro, soprattuttod’inverno.

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in effetti era così. Tonio Cabras aveva smesso di fareil muratore e faceva solo qualche lavoretto di legnoin garage, sempre quasi al buio, tanto che dicevanofosse diventato cieco dal dolore, o che avesse qualchemalattia strana, Franchixeddu era morto davvero,morto appresso all’alcol e a un sacco di droghe stra-ne, ci buttava tutta la pensione di malato pazzo nelleschifezze che gli procuravano un paio di simpaticivolontari, sniffava fumava bucava, di tutto, ed era al-legro come una pasqua assurda o incazzato come unbue. Poi ha smesso, qualcuno dice che è un miracolo,o una magia, che non è possibile che uno ridotto cosìe senza cervello riesca a smettere, che la madre dopoaver pregato tutti i santi ha chiesto la grazia a su di-moniu, o forse che gli ha fatto una fattura bianca,quelle buone. Qualcuno ha anche detto che Fran-chixeddu è guarito perché si è innamorato, ma non cicrede nessuno.

Adesso comunque ha un tumore, e morirà presto.

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– Nuraiò brucia, Nuraiò immonda in fiamme persempreeeeee! Ignoranti caproni figli del male, nonsapete quel che fate e chiamate pazzi i vostri figli mi-gliori, non ci sarà perdono per voooooi.

Esce sempre di casa sua così all’improvviso, al po-meriggio, di corsa verso il parco dove a quell’ora cisono un paio di ragazzini disperati che rollano merdada due lire. Il padre sente le urla dal suo vecchio lettonero cigolante, infila i calzoni marroni e la camicia ascacchi e si butta in strada anche lui.

Sa che Franchixeddu si fermerà proprio affianco a ca-sa mia, dove c’è una statuetta della Madonna che mianonna aveva fatto mettere qualche anno fa.

Il padre di Franchino è più alto di lui di un brac-cio, nonostante ne abbia più di sessanta, e solleva an-cora due sacchi di cemento alla volta, se vuole. Arri-vato dal figlio gli dà uno schiaffo per guancia, abba-stanza forte da lasciargliele tutt’e due rosse, e gli diceTorra a dommu, torna a casa, e quello zitto zitto ini-zia a piangere e ubbidisce.

Fino a pochi anni fa Franchino Cabras non si facevapicchiare o sgridare da nessuno, e anche i Carabinieriavevano paura di lui, perché forte com’era ci vole-vano cinque militari per bloccarlo. Anche il padre,picchiava, e infatti non si era più fatto vedere inpaese da quando era iniziata la pazzia del figlio, di-moniu malladittu, diceva la madre che anche leiusciva sempre di meno, e con il lutto stretto, come selo avesse perso, il figlio, o il marito, o tutti e due, e

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Seduta davanti al municipio Comare Vita magra e tet-tona dà le carte ai poveri diavoli, e tutti i Re li tiene lei enelle mani degli altri mette due di denari cambiando su-bito la briscola a cuori,

ma ugualmente si sbattono e disperano, i paesani piccoli diNuraiò, ché il destino segnato non lo è mai fino in fondo, pen-sano, e qualche mano la si può anche vincere, passando unanotte da re o cent’anni tranquilli senza neppure un dolore

Sorella Vita gioca a carte con Franchino il matto e a metàdella gara già sorride cattiva, chissà se almeno un po’ avràpena per lui o se davvero non ha cuore e non le importa,

e che si pianga e si sanguini per lei non cambia nulla esempre guarda con indifferenza, ché le carte le conosce giàtutte e il gioco è uno scherzo per passare il tempo e niente dipiù.

Mamma Vita seduta su una bolla di sogni sogghigna si-lenziosa seguendo le corse di chi vuole scappare e non ce lafa, di cinque ragazzi che giocano a poker cercando con tuttele forze di salvarsi fottendo, rinfacciandosi l’un l’altro unpassato di colpe e un presente opprimente di peccati e rimorsi

Signora Vita puttana ridente osserva i diavoli del pas-

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…Sei

– Non ti muovere.Cristo, no.Ha parlato, alla fine ci è caduto, ha fatto la stronzata.

Lo sapevo, lo sapevo, pensa Ettore, l’avevo detto io chenon potevamo fidarci di un pazzo. Di uno scemo.

Franchixeddu forse aveva in testa un film, chissàquale, con chissà quale attore.

Non ti muovere, come un gangster nordamericano,senza neppure provare a mascherare la voce. Ricono-sciuto, subito. Da tutti e tre gli impiegati che adessoli stanno fissando con la bocca spalancata, ancora in-creduli: Franchixeddu, non è possibile, gli occhi at-taccati alla grossa pistola che il ragazzo tiene in pu-gno, puntata ferma contro il direttore dell’ufficio po-stale, il ragioner Melis, che intanto sta cominciandoa riprendersi: occhi di nuovo attenti, si passa la lin-gua sulle labbra, allarga le braccia, le fa ricadere suifianchi, sospira forte.

– Franco, che cazzo fai? Cosa combini? – gli dice.– Non ti muovere che ti ammazzo – ripete lui, la

voce non trema di un millimetro, non è voce di matto

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sato che hanno lasciato almeno un ricordo, che vivono gliultimi giorni guardando tutto il tempo a quel che è stato,alle carte giocate e ai punti sprecati

Comare Vita bacia le gambe inutili del ragazzo fantinoche l’accusa ogni momento di non volergli dar pace, cala unre di bastoni in faccia ai dannati del carcere bianco spu-tando sul tavolo e intascando la posta,

fa un ultimo giro con i bari ubriaconi che non si rasse-gnano e sperano sempre che la prossima mano sia quellabuona che li rimetterà in gioco,

che finché lei è lì accanto, per brutti che siano i giorni ele notti che gli tocca di vivere lo stesso non riescono a smet-tere di agitarsi rabbiosi facendo casino, stringendo le cartecercando la briscola,

che prima o poi dovrà saltar fuori anche per noi, pensano.

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ci credeva che sono un poeta e un pittore. Ho pensatodi uccidere lui, così, per finire, poi uccidere me.

C’è un medico nuovo a Nuraiò, giovane, simpatico,quando gli parli abbassa lo sguardo e arrossisce, sem-bra che si vergogni sempre, con tutto che è laureato.Lavora poco però, mi hanno spiegato, in paese ci sonotroppi medici. Potevo ucciderne uno, e liberare un po-sto. Questo ho pensato, perché il ragazzo è simpatico,mi chiama signor Cabras, mi chiama signore, cazzo.Ma poi non l’ho fatto, certo che no. C’era già un mortoin quella stanza di ambulatorio, c’era già un morto edero io, anche se ancora parlavo e mi muovevo.

Sono morto anche adesso, in mezzo a questi coglio-ni con la bocca aperta, sono morto ma vi cagate ad-dosso, avete terrore di un morto con la pancia pienadi merda, non siete folli anche voi?

Sono Franchino il re di Nuraiò, urla adesso il ra-gazzo, urla con voce ferma al direttore di chinarsi etoglierli una scarpa e baciargli il piede, e chiederglipietà per i peccati commessi e per l’infedeltà al tronodi Franchino.

Infedeli! Urla adesso, infedeli schifosi! Ettore nonriesce a crederci, lo sente ma non ci crede, lo vede lìdavanti a lui con la pistola ancora puntata dritta sulragioniere e le spalle ferme e la voce tuonante e vedegli impiegati che incominciano a muovere internesperanze di finirla in fretta, interne elaborazioni dipossibili interventi risolutori, sente il culo stringereall’improvviso, Ettore, e la paura salire dalla pancia,

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che agisce senza coscienza, non è voce confusa di chifa senza sapere, è suono di fucile di notte, lampo inuna notte di luna piena, non svirgola e non tentenna,risuona nella stanza.

Non sembra nemmeno matto, adesso, Franchino,chissà perché lo fa, chissà come ci è finito con queidue strángiusu, sicuramente di Sant’Elia o Is Mirrio-nis, sicuramente con le braccia colabrodo, sarà questala benzina che ha in corpo il matto? Sarà per qualchemerda da bucarsi dentro che si è suicidato in questomodo, ché di sicuro non ha speranza di cavarsela, così,alla luce del sole e nel suo stesso paese?

Mi credete scemo, pensa Franchino, mi dite lo sce-mo e il pazzo, mi regalate le diecimila di elemosina macredete non valga una lira, non abbia fegato e non mifunzioni il cervello, ed è vero, ma non sempre. Vogliosoldi, tutto qui. Sto per morire, tutto qui. Morire traun’ora, adesso stesso, morire fra sei mesi come ha det-to il medico, cambia qualcosa? Morire aiutando que-sti due schifosi amici che me l’hanno chiesto, almeno.È stupido. Io sono pazzo, io non vedo il giusto, io nonposso giudicare.

Il medico mi ha detto: Franco ho il risultato di que-gli esami, vieni che te li do di persona. Sto morendo,mi sono detto, subito. Quando mai il medico perdetempo col pazzo? Ho pensato di ucciderlo, non l’homai sopportato Dottor Casu, tutte le prediche che miha fatto, le stronzate che ha raccontato a mio padre, lestronzate che inventava, le stronzate che ripeteva. Non

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Sette

Visto dall’alto zio Giovanni potrebbe sembrare unascultura di pietra abbandonata tra i rovi, lì da sempre,tra gli alberelli di ginepro e di cisto, una piccola lungascultura di pietra argentata che scintilla al sole caldodi giugno, perfettamente a suo agio in quell’angolo dicollina che domina la baia, una sottile rugosa statua dipietra che guarda il mare in silenzio, con un occhioben aperto e luminoso e uno chiuso quasi per intero,lacrimante, cisposo

c’è chi dice che gli occhi di zio Giovanni non si chiu-dano mai, neppure la notte, che quando dorme zioGiovanni socchiuda anche quello buono ma tenendouna piccola fessura puntata sul buio, sulla notte chenon si sa mai cosa porta, si dice che stia così, più inveglia che in sonno, per la paura di non svegliarsi, peril terrore che la notte scura ingoi il suo corpo magrodi vecchio scheletrico e sputi via un piccolo cadaverepuzzolente

si dice anche che l’occhio destro di zio Giovanni,quello che lacrima di continuo, soffra di uno stranodisturbo al bulbo oculare e per questo è un rubinetto

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forse è la coca che sta svanendo e in due secondi glisbirri saranno qui e qualcuno può averli avvisati e an-cora Sono Dio mandato a Nuraiò a purificare il malee Melis che potrebbe aver toccato qualche pulsante ei soldi sono lì davanti a Franchino in un attimo possoprenderli e scappare da Marta lì fuori, Oddio Martasperiamo stia calma almeno lei non faccia cazzatetenga acceso e mi aspetti cazzo cazzo non c’è più tem-po neanche un secondo... PAM! Franchino si accasciain un secondo, prosciugato il fiume impazzito di de-liri estatici, trenta chili di tumori e follia accasciaticon uno squarcio di Beretta lucida sulla testa, bellosquarcio sgorgante rosso denso, Ettore ha già arraf-fato qualcosa, non molto, è già un’ombra che superala porta, è già una sgommata e una Lancia cromatis-sima che ha fatto la curva, che magari adesso è già al-la stazione, e dopodomani a Buoncammino.

Sono Dio, ha pensato Franchino prima di finire daqualche parte, a ballare con gli angeli o bestemmiarecon s’aramigu.

Sono Dio e vi salverò, pazzi.

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zarsi, quando si sono accorti che l’ultimo scoglio sardostava scomparendo all’orizzonte, che la loro terra eter-na e immobile in mezzo al mare non c’era più, che perloro diventava ricordo e basta

si dice che il loro cuore si sia fermato per qualchesecondo per lo spavento, per la paura del nulla, e cheil cuore di Maria non si sia più ripreso, prendendo aballare un ritmo strano, sempre più strano e irrego-lare in tutti quegli anni di esilio, fino a fermarsi deltutto in un sudicio letto di immigrata in una grandecittà straniera, ventisette anni fa

zio Giovanni passa le giornate della primavera tie-pida e dell’estate infuocata a cercare more e cogliere fi-chi d’india nelle siepi intorno alla sua capanna, fruttispinosi che le sue mani tremanti riescono a pulire diogni piccolo aculeo sino a stringere la polpa zucche-rina e portarla alla bocca con nel viso la soddisfazionedi chi ha fatto un lavoro pericoloso, e l’ha fatto bene

soprattutto zio Giovanni guarda il mare, recuperail tempo, dice ai pochissimi che lo vanno a trovare, eai turisti che ogni tanto si arrampicano fino alla suatana, curiosi di scoprire se quella figura umana è dav-vero una statua o un vecchio che beve il sole

recupero il tempo, ha detto l’anno scorso ad un ra-gazzo alto alto che lo voleva intervistare per la sua te-si sull’emigrazione sarda, perché sta qui tutto il gior-no? gli chiese il giovane

recupero il tempo, ho passato troppi anni ad agitarmie viaggiare senza cavarne più del pane per vivere, senza

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sempre aperto, e che non siano affatto lacrime verema se chiedete al vecchio se è davvero così, vedrete

la sua faccia rugosa tirarsi in una smorfia indecifra-bile che secondo lui dovrebbe essere un sorriso, unsorriso sferzante: ma chi le dice queste cose? poi tornasubito serio a raccontarvi che quell’occhio piange sen-za sosta da quando la sua bella moglie Maria lo ha la-sciato solo, ventisette anni fa in Argentina

zio Giovanni arriva sulla collina qualche minutoprima che il sole sorga, senza bisogno di sentire allaTV a che ora succederà, da aprile a ottobre inoltratoil vecchio si sveglia giusto in tempo per mangiare ilsuo pane duro inzuppato nel latte, arrivare piano pia-no alla sua baracca di assi malferme e stuoie di cannelà sulla collina, sedersi sulla sedia di legno dipinto eguardare il sole che sale, lento e maestoso, sull’acqualimpida della spiaggia del Giunco

si dicono tante cose sul vecchio Giuanni, chissàquante vere, chissà

si dice che quando zio Giovanni e la moglie hannolasciato l’isola in cui erano nati tirasse un vento maivisto, che non si capiva da dove venisse e dove pun-tasse, un vento carico di odori forti che non si eranomai sentiti, un vento che non scaldava e non infred-doliva, un vento nuovo di malasorte, dissero i pochiparenti che li avevano accompagnati al porto di Ter-ranova, da dove si partiva per scappare alla malaria,alla fame, al pane troppo nero

c’è chi dice che i due abbiano sentito il cuore spez-

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schiaffeggiato don Luigino, il figlio del padrone, per-ché questi gli aveva offerto un mucchio di pesos peruna sola notte con Maria e i suoi seni da sogno, si di-ce che abbiano corso per tre giorni e tre notti in unapianura più grande di tutto il Campidano, finché nonhanno trovato i binari di una ferrovia e li hanno seguitifino alla prima stazione, e da lì hanno preso un lungotreno che portava alla capitale, lontano dalla Pampache non gli aveva portato bene

ma può anche darsi che sia stato zio Giovanni, chein gioventù era bello e con dei grandi mustacchi rossi,a importunare qualche serva della fattoria, o che suamoglie Maria abbia risposto con un sorriso troppogentile ad un ordine di don Luigino o di qualche al-tro signore

dicono che una bruscia, una strega con le caviglieimmense e le unghie nere laccate, dicono che una bru-scia dagli occhi immoti color del cielo abbia preso perun braccio zio Giovanni, una domenica pomeriggiodi luglio di chissà quanti anni fa, poco prima dellasua partenza per oltremare e gli abbia detto in un dia-letto barocco: Giovanni Marras quella che per te èstata dolore e fatica, la guerra che hai fatto contro vo-lontà uccidendo e rovinando e sentendo dolore e fa-cendone sentire, la guerra schifosa che ti ha fatto pian-gere il cuore e gli occhi per rabbia e dolore, per penae spavento, la guerra maledetta che hai combattutonell’Isola e tra i deserti infuocati d’Africa, quella guerra

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riposo e senza gusto, lontano da qui, adesso è tempo diodorare il vento salato che viene dal mare, in silenzio

zio Giovanni sa parlare, nel suo paese dicono che aBuenos Aires abbia lavorato in un teatro dove vole-vano gente normale che recitasse come gli attori veri,chissà perché, dicono che zio Giovanni si sia presen-tato con un panama preso a prestito dal capomafia delsuo quartiere e si sia proposto, con tutto che sbagliavauna parola ogni due anche in italiano, e figurarsi inspagnolo! eppure dicono che lo presero, che per un po’apparve sul palcoscenico recitando la parte di un emi-grato siciliano che usciva pazzo per una donna chenon lo voleva e per questo uccideva un nobile col dop-pio cognome castigliano, dicono che piacesse, che zioGiovanni abbia avuto qualche anno di successi

ma chissà se è vero, si dicono le favole più stranesugli anni argentini di zio Giovanni

alcuni ad esempio dicono che andare in Argentinasia stato uno sbaglio terribile, per i due giovani spo-si, che non si erano informati bene, che si erano fidatitroppo di un loro lontano cugino partito molti anniprima e che non gli aveva trovato il lavoro promesso,di capomandria nella fattoria dove lavorava lui, chezio Giovanni (altro che attore!) si sia dovuto umiliarea servire a tavola nella casa di un siciliano arricchitosienormemente con le vacche e col formaggio

dicono che siano fuggiti di notte, da quella casa dipoveri arricchiti presuntuosi e maleducati, che sianofuggiti inseguiti dai cani, dopo che zio Giovanni aveva

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fabbriche stavano dando lavoro a mezzo SudItalia, efiguriamoci se non c’era un posto per zio Giovanni emagari per tutta la sua famiglia o per tutta Nuraiò,persino

ma zio Giovanni era in Argentina, e l’ex ufficiale pro-prietario di industrie per molti anni non riuscì a rin-tracciarlo

eppure la bruscia aveva ragione, perché rientrato dal-l’Argentina per il dolore di averci perso la bella mo-glie, Giovanni Marras ricevette una telefonata da To-rino, una voce educata di segretaria lo informò dellericerche andate a vuoto, in tutti quegli anni, e gli ri-ferì che il Dottore era a sua disposizione per qualun-que cosa, prima fra tutte, non c’era nemmeno da dirloeppure lo disse, prima cosa fra tutte un lavoro e unacasa su al nord, nel caso zio Giovanni o un suo paren-te, magari un fratello, ne avessero necessità

e anche se si era nel ’71 e zio Giovanni aveva ormaiquarantacinque anni e stava abituandosi all’idea ab-bastanza dolce di passare il resto della sua vita a Nu-raiò a raccogliere funghi e fasci di legna, asparagi espinaci, e la carità delle cugine e gli inviti a pranzodi qualche vecchissima zia, anche se il sole di Nuraiòtoglieva la voglia di salire sulla nave per quella buiacittà lontana, anche se zio Giovanni era stanco di navie di viaggi e di gente che parla strano e non ti capi-sce, stanco di ripetere una frase mille volte e di giu-rare che ce l’ha, la terza media, stanco di cercare con-terranei che uniscano la loro nostalgia alla sua,

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schifosa che hai odiato con tutto te stesso sarà dopomolti anni una benedizione, ti darà casa e lavoro, tran-quillità e nuova voglia di vivere, quando avrai ormaicreduto di non poterne più avere

questo dicono abbia mormorato la bruscia, la stre-ga, ma non c’è da crederci troppo perché non si capi-sce come potesse saperle, certe cose; ad esempio chezio Giovanni a un certo punto della guerra chiese diandare in Africa a combattere per le terre d’oltremaree che arrivato in mezzo alla sabbia sia stato messo adaiutare e più che altro servire come attendente un uf-ficiale del regio esercito avvocato e proprietario di fab-briche, uomo ricco e gentile che non si sarebbe piùdimenticato di quel giovane militare isolano dai mo-di incredibilmente educati e dagli occhi sinceri e or-gogliosi, un proprietario di fabbriche tra i più ricchie potenti d’Italia, in quel momento semplice colon-nello del regio esercito, un tipo dalla erre arrotata chesi permetteva frasi sul Duce che finivano in un sorri-setto furbo, frasi che zio Giovanni nemmeno si pro-vava a decifrare, per la paura che gli mettevano, an-che così, un poco oscure; un giovane ufficiale del re-gio esercito che aveva portato con sé in mezzo al de-serto un grammofono scintillante, un ufficiale del re-gio esercito che ascoltava il Parsifal tra le dune deldeserto, e che a guerra finita cercò quel ragazzo perchiedergli in che modo potesse dargli una mano, comegli aveva promesso là in Africa

e una mano gliela poteva dare davvero, ché le sue

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mille volte che mentre aspettava la morte in mezzo almare i suoi occhi si sono fatti bui, non hanno visto piùniente, e niente sentivano le braccia e le gambe, in-torpidite e senza forza, e niente sentiva neppure ilcuore, ormai troppo stanco anche per disperarsi. Poiarrivò un’altra nave inglese, non la stessa che li avevaabbattuti, di questo Giovanni Marras è sicuro, arrivòquest’altra nave e lo salvò, quand’era più di là che diqua ormai

lo salvò per modo di dire, lo portò indietro verso ildeserto, ma non più per sparare e combattere, o ser-vire un ricco signore col grammofono, no, a marcirein una prigione di guerra, questa volta, con tedeschie altri italiani, prigioniero di quegli animali di in-glesi, che si sa, in queste cose non hanno cuore

di quei giorni di prigionia comunque nessuno saniente, zio Giovanni non ha voluto dire una sola pa-rola, dice che solo pensarci gli fa attorcigliare quelloche ci ha dentro la pancia, e bastano i sogni che ognitanto fa dei suoi aguzzini e delle loro torture, bastanoquei sogni a fargli male, meglio non parlarne

uscito dalla fabbrica, al termine del suo turno, Gio-vanni Marras tornava a casa e si cambiava: cappotto dilana buona, sciarpa, profumo e Borsalino, si dice an-dasse a passeggio per Piazza Carlo Alberto trassatocome un signore, di quelli che non sanno come far pas-sare le serate. Faceva innamorare le donne? Lui nonrisponde, guarda dritto davanti a sé, forse sorride, ma

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nonostante tutte queste cose zio Giovanni partì

dicono che mentre dall’Africa faceva rotta verso l’I-talia la nave militare che trasportava zio Giovanni siastata attaccata e abbattuta dagli inglesi, e che l’uomosi sia trovato di colpo in mezzo ad un inferno di fuocofumo urla e corpi squarciati, che si sia attaccato adun grosso tronco di legno e che abbia continuato astringerlo per un giorno e una notte, con tutta la forzache aveva, alternando bestemmie a invocazioni di-sperate al cielo, ricordi di quand’era bambino e cor-reva scalzo per le strade polverose di Nuraiò a gridad’amore per la giovane Maria che gli aveva promessodi sposarlo, al suo rientro dalla guerra, e che chissà sein quel momento stava pensando a lui, piccolo puntovivo in un calmo mare nero che presto lo avrebbe in-ghiottito, senza neanche ucciderlo prima, lo avrebbeinghiottito ancora urlante, pensante, capace di averfame e sete e incazzato come un cinghiale, capace direspirare la puzza dei morti che gli galleggiavano vi-cino e di sentire la pancia chiudersi per il terrore, perla certezza che presto avrebbe sentito il sapore nauseantedel mare dentro la sua bocca, il sapore di morte liquidariempirgli la gola, le viscere, la pancia, morte liquidae lenta, il mare che ti inghiotte ridendo e cantandocoi pesci e i gabbiani a fare il coro, coro di morte

dicono che zio Giovanni abbia raccontato mille volte,a chi lo voleva ascoltare, nella piazza del paese cottadal sole e battuta dallo scirocco, che abbia raccontato

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ha sorriso, al ragazzo alto che lo ha intervistato perla sua tesi sull’immigrazione sarda, ha sorriso quandogli ha chiesto se aveva dei rimpianti, ha sorriso e harisposto, masticando piano le parole come fa la mat-tina col pane bagnato nel caffellatte: certo che ne ho,tutti ne hanno

quali? ha insistito subito quello, perché i ragazzi dioggi non si accontentano mai, vorrebbero capire tuttocon le parole, tutto e in fretta

non ho figli, disse il vecchio, e smise di sorridere, eanzi si alzò dalla sua seggiola e si diresse verso la stra-dina che scendeva fino al mare, e voleva dire che l’in-tervista era finita

anche in questo pomeriggio in cui settembre sem-bra voler finire male, con lampi che spaccano il cieloe l’aria umida che si aggruma sopra la sua testa, an-che in questo pomeriggio in cui zio Giovanni si don-dola sulla sua seggiola sorseggiando lentamente unbicchiere di vino leggero, la bottiglia sottile poggiatalì accanto, col mare che già sembra invernale, conneanche l’ombra di un turista, coi melograni che siaprono e mostrano i chicchi colorati, neanche adessoil vecchio vuole parlare con precisione del suo passato,meno che mai dei giorni torinesi

sorride da solo, muove la testa avanti e indietro co-me a far segno di sì, che è proprio vero, ma chissàquali ricordi sta inseguendo, quali personaggi vannoa far visita ai suoi pensieri, personaggi buoni o cattivi,

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è difficile capirlo in quel viso che è un tappeto di ru-ghe. Ho lavorato tanto, sospira, e non aggiunge altro

un tale Antoneddu Prunas di Cossoine, che adessovive a Nuraiò con la moglie, dice di averlo frequentato,in quegli anni: dice che lo vedeva sempre elegante esorridente, non solo nella Piazza, ma anche in giro percaffè e ristoranti, persino davanti alle librerie. Dice chedavvero aveva sempre delle donne affianco, belle don-ne eleganti, con cui parlava in un italiano aggraziato,se non proprio corretto. Dice di aver passato dei lun-ghi pomeriggi con zio Giovanni, che si faceva chiama-re Giovannino e portava dei bei baffetti all’insù, chenon si capisce come non gli si rovinassero in fabbrica,dei lunghi baffetti alla moda del secolo scorso, un’ariasicura e belle spalle forti, pelle abbronzata tutto l’anno,un’aria da uomo che non ha complessi, forse perché hafortuna, forse perché ne ha passate tante

non è facile crederci, a questo zio Giovanni mon-dano in terra non sua, non è facile immaginarlo comeEmilio Lussu, che quando passeggiava per Parigi coisuoi amici intellettuali sembrava cittadino nato e cre-sciuto, ma tornato nella sua Armungia ridiventava ilpastore umile di sempre, colla giacca in velluto a co-ste e tutto. Non è facile perché zio Giovanni oggi èun tronco di ossa e poca pelle rinsecchita e bruciac-chiata, parla poco, persino con i parenti, non ride mai.Sorride però, questo sì, sorride se gli si chiede se harimpianti, se ha ricordi del passato che lo tormen-tano, lui che ha vissuto tanto

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sto una donna arrampicarsi su per questa collina e, ar-rivata su in cima, fissare due grandi occhi coperti ditrucco discreto su quelli malati e stanchi di Giovanni,ho visto quella donna che sussurrava il suo nome, checercava di abbracciarlo. Naturalmente, dopo, quandola signora profumata è ripartita, ho chiesto al vecchiochi fosse, ma lui ha sputacchiato una frase qualunque,tipo che non se la ricordava neppure, una turista forse,qualcuno che aveva sbagliato strada. Eppure mi è sem-brato che piangessi, ho insistito

non piango, scemo, lacrimo, mi ha risposto. Lacri-mo come sempre, è tutto normale. Poi si è di nuovogirato verso il mare, ha respirato forte, ha socchiusoancora un po’ l’occhio buono

forse sorrideva, anche, ma chissà.

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vivi o morti, italiani o stranieri, personaggi che prestose ne andranno con lui, ingoiati da una notte che nonavrà mattino. Anche in questo pomeriggio umido ilvecchio quasi cieco sigilla dentro di sé piccole veritàche comunque non interessano a nessuno, il ragazzo altoche voleva capire tutto con le parole è lontano, magaridirige un ufficio in Continente, sardo rispettato e ub-bidito

un giorno, forse, qualcuno farà davvero delle ricer-che, andrà in giro a chiedere di zio Giovanni, per sco-prire se è vero che è scappato anche da Torino dopoaver messo incinta una donna che non poteva sposa-re, se è vero che faceva da segretario ad un onorevole,se davvero aveva iniziato a commerciare formaggiodi Macomer

ma per adesso, guardando in alto dalla spiaggia delgiunco, in questo umido pomeriggio di fine estate sipuò scorgere una piccola figura che si dondola avantie indietro, e salendo verso la collina si possono sen-tire le note di un triste tango di Gardel che miracolo-samente escono da un vecchissimo mangianastri cheè l’unica cosa che il vecchio possiede, e che forse mo-rirà prima di lui

io, che ho più o meno l’età di Giovanni ma lo cono-sco poco perché non sono di Nuraiò, io ogni tanto vadoa trovarlo, a confrontare la mia vecchiaia dolorante conla sua, che sembra serena. Qualche anno fa, mentre co-me sempre respiravamo in silenzio l’aria salata, ho vi-

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Otto

E diri-dì diri-dò, la danza comincia e chi ha forzasaltella, tutti qui davanti a contarmi le balle, mio fi-glio avvocato e mia moglie buonanima, sono Bastia-no Lilliu politico e puttaniere, e ne ho fatte e ne hodette

e diri-dì diri-dà, la signora mi guarda e sogghignadi già, la signora bagassa vestita di nero, che il mo-mento è vicino e il mio cuore sincero, ho bevuto e can-tato per settanta estati in montagna, per Santa Luciaaccampati in locanda coi miei cento fratelli, e chi ridee chi piange ci siamo baciati e lanciati coltelli, quandoil sole era caldo e il lardo colava dai maiali sul fuoco, eadesso nulla mi manca da fare e vedere e tranquillo mipreparo al viaggio

e diri-lì diri-lì tra pochi giorni non sarò più qui,tante ne ho fatte di buone e cattive, a mio nonno be-stemmiatore gli è preso un infarto, una mattina d’a-prile finita la guerra, che sono arrivato in camera suamentre stava dormendo e gli ho urlato che venivanoi comunisti a portarselo via, e per poco non ci la-sciava sa peddi, e intanto l’ho fatto cagare sotto, così

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più grassa del paese sperando che in un giorno comequesto mi sarei sentito tranquillo ma mancu po nud-da, ho paura come l’ultimo dei poveri diavoli adesso,mi sto fottendo dalla paura in questa stanzetta can-dida, zeppa di gente che mi vuole far visita a tutti icosti, perché l’onorevole Lilliu ancora oggi ti sistemaun figlio, se vuole, ché la Regione è la Regione, pag’’e fai, tutti gli artefici del girotondo attorno al lettod’un moribondo, mi viene in mente, per quello chefunziona in questi momenti la mia mente, e non ve-do l’ora di andar tra i dannati per rivelarveli tuttisbagliati

e diri-lì diri-lò, crovu’ séisi e dinai non di lassu, fi-glio mio si è messo avvocato ma non ha fatto mai ungiorno di lavoro, che il benessere in famiglia non man-cava e dannarsi l’anima quando ce n’è è da cretini, etutte le sere tornava all’alba, e le migliori cravatte ele estati a Londra, e nell’orto non c’è manco mai pas-sato per sbaglio, manine delicate, ma l’ha voluto in-vece l’appartamento in città da quando ne aveva di-ciotto, e le camice firmate, i concerti, i libri, il ten-nis club, gli amici a cena da lui sei giorni su sette, eio già ti capisco, che di lavoro meno ne fai e megliostai, ti capisco fillu miu, ma adesso mancai mi cástisie ti póngasa a prangi, soldi per voi non ce ne sono,giusto giusto quello che sono costretto, tutto il restoai frati di Sant’Ignazio,

e diri-di-dèru diri-di-dè, filla mia neanche per te cen’è, stesso come prima, che tanto qualcuno lo trovi

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per gioco, perché era un vecchio pancione e non vo-leva morire, e io chiedevo la mia parte di orticello persposarmi con Lauredda e stare bene e figliare, cometutti

e diri-diri-diri-diri, chi muore felice bene è voluto,e tutta bianca questa stanza mi fa girare la testa, Ma-riuccia cugina cara non dire cazzate che non si mi-gliora con la pancia bucata, mia figlia è una brusciacon gli occhi infuocati e ne ha visti più lei di molteputtane, precisi alla zia quegli occhi brucianti, guaia tui se glieli guardi, ché quella ti strega e rapisce, emorirai senza scampo tra le sue cosce odorose o ap-peso al cappio di parole colorate che inventa, ma for-se non più, forse mi confondo e anche lei è una vec-chia malata e mi seguirà presto, dovunque si vada

diri-lì diri-la-leri-la-rè, che arrivi presto il riposoper me, che di morire non ho paura ma sporcare illenzuolo e rantolare come un scrofa scuoiata prima diserrai is ógusu questo sì, sono sempre Bastiano Lilliupolitico e puttaniere, e i meglio signori di Cagliari sonovenuti per anni a comprare i miei voti, e Dio sem-presanto che mi accechi, poca gente a Nuraiò è statamaledetta e lecchinata come me, e se tutto qui lascioche almeno sia chiaro che verrò a morsicarvi il culoogni notte tra poco, a voi che il demonio mi aveteaugurato, pecore ingrate

e diri diri-li-lero, se devo dirla tutta, che a un certopunto due conti dobbiamo pur farli, a Don Mulasmolte volte ho baciato la sottana, e fatto la questua

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so già che non vedrò un cazzo di niente, che chiusigli occhi finita la festa

e avanti col ballo che sta per finire, larallero larìl-lelà, gli ultimi passi di nuovo per voi:

figlio mio che ti vergogni delle mie camicie a scac-chi, e figlia mia che ogni Natale mi regali quel buonprofumo che non metterò mai, e nipoti belli che ve-nite dallo zio puzzolente giusto quando vi serve qual-cosa, e per il resto si impicchi pure, brontolone mal-vestito,

figli miei e progenie mia io vi dico, e non è il mo-mento di mentire, che non avete capito un cazzo conla vostra schifosa supponenza, col vostro delizioso stilecittadino e il fastidio per la mia casetta scomoda e fuo-rimano; voi, splendidi frequentatori di spiagge giuste,di ritrovi blindati, voi miei (miei!) parenti scappati coimiei (miei!) soldi da questo paese perso nel passato chenon passa, nell’ignoranza spessa,

liro-lari-lilà, gli ultimi passi le ultime forze, carepatetiche sanguisughe ingrate che non vedete l’ora diappendere il mio ritratto in salone e fissare i miei oc-chi finalmente spenti, finalmente zitti, che aspettateil momento che grazie al Cielo starò muto e più nonfrugherò nelle vostre miserie da aspiranti cosmopo-liti, carissimi, io so tutto di voi perché tutto ho giàpassato e visto, perché in questo paese non c’è nienteche si può inventare e nessuna rivoluzione da fare, evi dico che povero e inelegante e biddúncolo fino allapunta dei piedi ho vissuto felice e placido e voi invece

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sempre per pagarti quello che vuoi, e non dico altroe diri-lì diri-lì di posti ne ho promesso e di soldi ne

ho regalati, autisti uscieri bidelli impiegati operai, lafesta delle elezioni, tutti in fila da me, domande ri-chieste consigli ordini grandi manovre, sono solo unpovero furbo che sa fare le trasse, questo devo dire,imbrogli ne ho fatto, come gli altri, come tutti, chél’importante è non guardare, non vedere, non dire enon far parlare, e finché c’è una zietta con un nipoteda sistemare pronta a mettere via orgoglio e decenza,pronta a prometterti devozione eterna vassallaggioincondizionato per un’illusione qualunque, per uninganno da tre soldi, finché le pecore voteranno connel cuore la paura che finisca la povera erba che gliserve da vivere, finché andrà così (e andrà così all’in-finito) sempre ci sarà un Bastiano Lilliu pronto a bat-tersi per loro, coraggioso sfrontato arrogante viscidoimplorante come sempre son stato, che ho giusto ildiploma da ragioniere ma non abbassavo gli occhinemmeno davanti al segretario nazionale, quando loandavo a trovare al Panorama, in certe vigilie infuo-cate che un voto sembrava poter cambiare la storia,

e giro-giro-tondo, il buco in pancia si allarga e lasignora mi abbraccia, tra poco vedremo chi aveva ra-gione, se pagherò le bestemmie rabbiose, se Gesù-Cristo è alto e magro e assomiglia a un arabo, se miguarderà con gli occhi buoni di zio Perdosu o conquelli cattivi senza scampo di nonno Ena, e chissà selo incontro, tra poco, vedremo, ma in fondo in fondo

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bastata, e se tra qualche giorno verrete a trovarmi, incampusantu, non piangete e non pregate

ma guardate la fotografia, puntando i vostri occhicontro i miei, e casomai vedremo se riuscirò a com-muovermi, o se davvero, come si dice,

chi è nato lupo neanche la morte lo fa agnello.

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laureati e viaggianti e quasi cittadini non smettereteun momento di dannarvi e sbattervi e sbavare, perchénon volete accettare, perché vi illudete di fuggire, diseppellire i secoli di fango e merda che vi inseguono,che avrete sempre alle spalle, ombre scure che vi se-gnano indelebili

e liri-liri-liri-lero, forse mi confondo e dico cose in-comprensibili, e lo so che non faccio che brontolareanche adesso, e invece secondo voi dovrei dire in fret-ta quel poco che ancora importa di dire e poi creparelanciando bacini e benedizioni, e augurarvi ogni be-ne e lasciar stare il vostro futuro che non è affare mio,che non ho fatto che rimestare il torbido per cavarnesoldi e rispetto di cartone e non posso fare la predicaa nessuno

lo so, lo so, carissimi, ma soffro e mi confondo, miripeto, sragiono, non viaggio bene tra le onde di ri-cordi e rimpianti, mi impantano, vi ingiurio, mi in-giurio, lo so, lo so, è il freddo degli ultimi momentiche mi blocca le parole dolci che dovrei dire, forse,

forse, ma mi chiamo Bastianu per qualcosa, e pe-savo novantasei chili fino a poche settimane fa e senon fossi bloccato a questo letto malladittu sarei an-cora un metro e ottantacinque e la barba mi cresce is-pida e incazzata come fil di ferro, e ho occhi di lupoa digiuno e proprio non ci riesco a dirvi che mi pentodi tutto e che spero preghiate per me,

no, sono stato brigante e puttaniere come tutti iLilliu e muoio incazzato, che una vita sola non mi è

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Nove

bianco e nero sullo sfondo il porto in un pomeriggio non molto

luminoso, forse marzo, la città ferita dai bombarda-menti, un ragazzino piccolo e nero, ricci capelli casta-ni, occhi ben aperti e sorriso poco convinto, al suo fian-co un grosso signore albino, capelli biondicci e occhislavati, indossa una divisa della Marina coperta da unlungo cappottone blu. Sorride, si chiama Henry.

Avevo dodici anni quando sono arrivati gli ameri-cani a Cagliari.

Facevo piccole commissioni per i commercianti dipaese, venivo col carrettino di mio padre che in quelperiodo era nella borsa nera, caricavo un po’ di merceche mi avevano chiesto e tornavo a Nuraiò.

Quasi tutti i giorni.Un venerdì incontro il colonnello Chatwork, e trovo

l’America.Mi ha chiesto di portarlo in una trattoria allegra,

così mi ha detto, con quelle due parole di italianoche aveva imparato, allegra, ripetuto due volte, e ioho capito in un attimo, e subito l’ho portato al casino

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– Quindici – gli ho urlato subito, ed era una ballacosì cretina che l’uomo non rise neppure, gli feci pena.

– Io ti do radiolina – disse – molte radioline chevuoi, e insegno te a riparare quando guastano, eh?

Io feci di sì con la testa, soffocai un sorriso soddi-sfatto, mi pulii la mano destra sfregandola sui panta-loni di fustagno e la porsi allo straniero per stringerela sua, come vedevo sempre fare a mio padre quandochiudeva un affare. Henry si abbassò piegandosi inavanti, le manone poggiate sulle ginocchia, mi baciòla fronte e poi, sollevandosi di nuovo, mi mollò unapacca forte sulla spalla che risuonò per la strada pienadi buche grandi come crateri.

– Tu diventerai ricco, sicuro – urlò al pomeriggiomorente mentre fissava l’orizzonte.

Sette mesi rimase a Cagliari, e ogni volta che po-teva mi portava aggeggi elettronici di tutti i tipi dicui faceva incetta in sala macchine, o tra i colleghi, oche si faceva spedire direttamente dalla moglie cheaveva lasciato in un qualche angolo di noiosa campa-gna americana.

Per pomeriggi interi stavamo seduti silenziosi adun tavolino del Caffè Torino, proprio di fronte allenavi, che in quei giorni portavano quasi soltanto mi-litari neri come l’asfalto e aiuti dalle nazioni grasse cheavevano pena per noi. Guardavamo le navi e nei nostribicchieri ballottavano ricordi, speranze e Coca Cola.Henry fumava i suoi lunghi sigari da quattro soldi eaveva occhi bianchi e placidi come la ricchezza che io

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che c’era in via Millelire, sopra la bottega di vino diun tale di Seulo, riposi in pace.

Il colonnello entra tutto contento, siede e incomin-cia a mangiare un piatto di agnolotti che saranno sta-ti mezzo chilo, io dalla porta lo guardo e per poco micola la bava, quello sorride mi dice di accomodarmiaffianco a lui e di prendere quello che volevo.

Spaghetti, volevo, che a casa mia solo pasta corta, equasi sempre in bianco che quel maiale di mio padrebuonanima per il cibo aveva la pancia delicata. Man-giamo, in silenzio, poi Henry si accende un sigarone,chiede se c’è una ragazza che gli possa fare compagniae quando torna giù in sala, chissà quanto tempo dopo,mi trova ancora lì, mezzo addormentato su uno sga-bello minuscolo, in mezzo al fumo denso di mille si-garette, rannicchiato come un cagnolino.

– Eh – mi fa l’ufficiale – cosa posso fare per te, bellobambino sveglio?

E io subito: – Una radiolina.– Cosa te ne fai tu? Ascoltare musica? Jazz? – E apre

la faccia in un sorrisone, l’americano, mentre mi riac-compagna al carretto tenendo il suo braccio enormesulla mia spalla.

– La voglio vendere – così gli ho risposto – vogliodiventare ricco.

Quello ha smesso di camminare, e di sorridere, e miha puntato contro gli occhi acquosi socchiudendoliappena:

– Quanti anni ha, bambino?

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un regalino a zia Arega: il resto lo lasciavo ammuf-fire nel nascondiglio, in attesa di poter prendere inaffitto un magazzino e iniziare a lavorare sul serio,tra qualche anno.

a colori giardinetto di casa indipendente a due piani, rin-

ghiera bianca di legno, cassetta per la posta come se nevedono solo nei film statunitensi; in piedi, abbarbicataa uno scialletto nero, una donna che diresti felice, sor-riso dolce, non bella ma florida, viso largo ma non sen-za fascino, occhi blu e denti banchi, capelli decisamen-te biondi, la testa inclinata sulla spalla sinistra. Foto ditranquillità, in apparenza, in realtà foto d’addio, o al-meno arrivederci, con la guerra sa solo il Cielo, gli oc-chi riflettono speranze e angosce, in effetti.

Vieni con me Gigi, mi disse Henry il pomeriggiogrigio in cui dovette partire, ché non ce la faceva alasciarmi lì coi miei pantaloni consumati e le scarpeche ridevano. A fare cosa? Gli ho chiesto io, e la do-manda risuonò sotto i portici inutile e fastidiosa co-me il vento africano. A fare mio figlio, rispose, e perla prima volta mi sembrò di vedere dell’umido traquegli occhi slavati, mia moglie è brava, aggiunse,ma non credo stesse più parlando con me.

Era brutto, Henry, me ne accorsi solo in quel mo-mento, coi tratti confusi e la pancia già larga, cosìpiù brutto dei grossi, alti negri che giravano per la

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gli accreditavo, smontava e rimontava le radio e gli al-tri apparecchi spiegandomi il perché e il per come diogni passaggio, agitando le mani in fretta, sempre piùin fretta, sporcando la tovaglia del tavolino, semprepiù in fretta perché temeva di dover partire presto, evoleva lasciarmi nelle mani un mestiere, che sapeva misarebbe servito in quegli anni amarognoli che ci aspet-tavano.

Io ero un ragazzino, mio padre non faceva nessunconto su di me e madre non ne avevo, ormai tornavoa Nuraiò una volta la settimana e gli altri giorni dor-mivo nel retrobottega della merceria di Arega Pram-mas, in via Baylle, che a lei faceva comodo qualcunoche controllasse il magazzino, soprattutto visto che nonle costavo nulla, una stuoia e due coperte lerce.

Ancora non ero ricco, ma già giravo la città per ri-parare radioline e frigoriferi, compravo vecchi aggeg-gi e li rimettevo in funzione, diventavo bravo. Ognitanto, la sera, venivano alla merceria brutti musi diragazzi col viso macchiato di cicatrici e fame, e mioffrivano cavi transistor e casse che avevano trovatoin giro, tutte col marchio dell’esercito italiano o in-glese. Io limavo, smontavo, rimontavo e vendevo dinascosto, soprattutto a certi intrallazzoni che porta-vano gli apparecchi nei paesi, dove di certo nessunoli avrebbe mai controllati. I soldi che mi facevo li met-tevo in una bottiglia vuota di spuma, che nascondevotra le mutande sporche sotto il letto.

Ogni tanto portavo qualcosa a mio padre, o facevo

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beige, al collo la sciarpa del Cagliari, abbracciato aun amico, due visi qualunque, due persone normali,primi piani sorridenti.

La vita continua, si dice, ed è vero.La mia per un lungo periodo è continuata tranquil-

lamente: lavoro, lavoro, lavoro, la domenica le partitedel Cagliari, ogni tanto a pesca con qualche amico,magari il sabato a cena fuori.

Un giorno, quando ormai avevo trentacinque annie accettavo la noia placida della mia vita, la man-canza di ambizioni, l’immancabilità dei fine setti-mana dai parenti a Nuraiò, delle estati nella villettadi qualche amico, di qualche fidanzata incolore ognitanto, un giorno in cui tranquillo scivolavo verso lafutura vecchiaia che un tempo mi sarebbe sembratainvidiabile, un giorno, un giorno qualunque, mi sonofatto trascinare ad un concerto.

Un concerto jazz: due negroni grassi e tozzi che siagitavano dietro una tromba e un contrabbasso, su-dando come cavalli. Per tutto lo spettacolo non hofatto altro che maledire Giovanni, l’amico che mi ciaveva portato.

Mentre uscivamo dal teatro lui incontra un’amica, eme la presenta: Kate, inglese, dieci centimetri più al-ta di me, culo sodo, tratti orientali e pelle scura, ere-dità della madre pakistana. Ti è piaciuto? Mi chiede.Molto, rispondo, e accetto il suo invito per il prossi-mo concerto, la settimana seguente.

Un mese dopo mi ero trasferito a casa sua, un bilo-

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città in quei giorni con le loro schiene massicce e lebraccia lunghe.

Partire, partire, non aveva senso quella parola, perme che non avevo visto niente e avevo ancora pauradella fame, no, feci con la testa, resto qui e faccio ilmestiere che mi hai insegnato, aggiunsi per consolar-lo e renderlo orgoglioso.

Henry mi rispose in silenzio di sì, agitando la testa,e dalla tasca della giacca tirò fuori un sigarone e unmazzo di banconote arrotolate con del filo rosso. Que-ste sono per te, mi disse, e aprendole e lisciandole lemise, assieme ad una foto della moglie, in una bustagialla, sul retro della quale scrisse il suo indirizzo e ilsuo numero di telefono. Chiamami, mi disse, e io feciun deciso segno di assenso, e lo abbracciai, respirandoper l’ultima volta il suo strano odore, di tela ammuf-fita e colonia al mughetto, forse anche sudore ameri-cano.

Non l’ho mai chiamato, neanche per dirgli che erodiventato ricco, molto ricco.

Henry, mio padre, i miei parenti emigrati un po’dappertutto: ho imparato presto a dimenticare le per-sone che mi stanno lontano. Non credo di essere cat-tivo, è un modo per non impazzire, per accettare lestrane mosse del caso.

terza fototranquillo trentenne in pantaloni di fustagno e giacca

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La memoria si affaccia dove vuole, e riemerge al-l’improvviso con immagini sbiadite che fanno male,o sorrisi dimenticati di qualcuno che era così impor-tante, un secolo fa, e oggi chissà dove brucia le sueore, chissà con chi.

La memoria si fa guidare da un odore, un sapore,un vestito grigio di buona lana dimenticato in sof-fitta. Da delle foto ingiallite.

ingranditacarta gialla anticata, velleità artistiche: viso inquieto

in primissimo piano; dietro, lo sfondo azzurro fuori-fuoco è colore di mare …viso inquieto, bocca aperta adire qualcosa, foto non in posa, ragazza scura di stranarazza, occhi brucianti color caffè, labbra tumide ros-setto forte, capelli lunghi chiusi in una crocchia, sguar-do che buca.

Io non avevo mai avuto diciassettanni, furono quellii miei giorni da liceale, da ragazzino innamorato e di-vertito, leggerissimo e dagli occhi trasparenti, senzaombre. Kate, che dal primo giorno mi aveva letto den-tro, mi assecondava senza fare pose, naturale e saporitasempre, senza sforzo. Assecondava la mia finzione, miaiutava a renderla vera.

Cambiavo pelle, mi sembrava, e quella nuova latrovavo più vera, sinuosa, luccicante e dubbiosa, si-curamente migliore.

Erano giorni da diciassettenni in giri infiniti da

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cale in castello, vista sulla città e sul porto, sull’insi-pienza della mia vita fino a quel punto.

Io, non avevo mai toccato una sigaretta, mai lettouna poesia, ascoltavo Claudio Villa e Mina. Ero riccoe avevo un enorme appartamento in via della Pineta,gestivo due negozi e potevo permettermi l’aragostaogni settimana, ma in fondo continuavo a portarmiNuraiò dentro la testa, nei maglioni che sceglievo,nella mancanza di curiosità, nel perbenismo che ave-vo sempre coltivato, nella mia assoluta ineleganza.

Lei, Kate, stava vivendo un suo sessantotto silen-zioso e solitario in anticipo di qualche anno rispettoa quello collettivo e fracassone del resto del mondo:aveva letto Kerouac, ne era rimasta fulminata, era par-tita per gli USA lasciando gli studi, aveva conosciutoFerlinghetti e qualche altro poeta Beat, odiava il pa-dre che pure la manteneva, sognava di fare la foto-grafa, parlava tranquilla dei tramonti di Parigi e del-la dolcezza dei balli andalusi. Io non mi innamoro, midisse la prima notte in cui facemmo l’amore, perchéera abbastanza infantile, dopotutto, e si sopravvalu-tava. Non ti illudere, aggiunse, ma io non le risposi,non avevo niente di intelligente da dire, la feci giraree la presi di nuovo, perché era davvero bella e quandoscopava muoveva i fianchi seguendo un ritmo a cuinon potevo resistere.

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in questa città abbiamo tutti paura di perdere qualco-sa anche se tutto va perfettamente bene. Perché voletesempre rovinare tutto? Mi chiedeva con gli occhi ve-lati da qualche ansia, e non capivo bene se parlasse dime, di Cagliari, di tutta l’isola o di tutti gli uominidel mondo.

Mio zio, mia nonna, qualche cugino: in paese c’eraancora chi si preoccupava di me, e si aspettava di ve-dermi arrivare, ogni tanto.

Una domenica superai il pottabi a braccetto conKate, dimagrito, vestito di jeans sdrucito, silenzioso econ occhi lucidi. L’opinione fu unanime: sarebbe statoun disastro, la strega d’oltremare aveva banchettatocol mio senno e io presto avrei perso tutto appresso alsuo culo oggettivamente fantastico: chi cambia pelleper una donna prima o poi perde l’anima e, neanche adirlo, i soldi.

Io ascoltavo, capivo, credevo di essere più forte ditutto, come sempre capita. Progettavo di vendere ilmio appartamento troppo grande e spazioso per unaqualche tana fascinosa; leggevo, scrivevo brutti versicacofonici, scattavo foto che trovavo stupende, impa-ravo la dolcezza dell’haschisch. Non ho mai avuto di-ciassette anni, dopotutto, mi dicevo.

Gli occhi. Quelli non li puoi cambiare. Arrivano isoldi, cambi tessuto dei pantaloni, vesti buona lanadi sartoria, vai dal parrucchiere più abile della città e

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una festa all’altra, da un locale all’altro, birrette soli-tarie col culo a prendere umido nella spiaggetta de-serta di Calamosca, e poi di corsa, così, scamiciati esdruciti, a casa del signor console inglese per un par-ty in terrazza, e pizze bruciacchiate da addentare alletre di mattina, affamati e stanchi, da Titina la stecca,in via Ospedale, un minuto prima che tirasse giù lasaracinesca.

Erano ore da film francese nel suo rifugio, a leggerea voce alta i dolori di Neruda, le visioni di Ginsberg,le paranoie di cento poeti che non sapevamo se amareo deridere, ore di whisky con ghiaccio e lezioni di in-glese, ore di stordimento da mancanza di sonno, conle finestre aperte a fare entrare l’umido salato del ma-re, e cazzo se ero innamorato, se mi sembrava di aversprecato tempo fino a quel momento, cazzo se misembravano nottate perfette. Kate, le dicevo, cosa citrovi in me? E quelle erano già domande che rovina-vano tutto, anche se lei rideva, se mi prendeva ilmento tra l’indice e il pollice e avvicinava la sua boccaalle mie labbra dicendomi: stupido, anche se rispon-deva salendomi di nuovo sopra, facendomi di nuovoentrare in lei. La fissavo troppo, le parlavo troppo diquello che sentivo sbagliato dentro di me, di certeombre, lei si girava verso la finestra e sussurrava unastrofa qualunque, Billie Holiday soprattutto, e miraccontava di quale infanzia infelice avesse passatoquella nera cantante incantatrice, e mi chiedeva dinon aver mai paura che qualcosa finisca, mi diceva che

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E tante cose ancora, perché guidavo piano e il ven-to sulla faccia mi faceva pensare in fretta.

Poi, arrivo alla porta del suo appartamento, busso,non ho risposta. Giro la maniglia, è aperta, la stanzaspoglia di tutto, solo un biglietto sul tavolino in vimini:

Io davvero non m’innamoroe non posso stare troppo tempocon chi mi guarda come fai tula tristezza mi fa paura.DEVO partire subito, cerca di capirmi.Buona fortuna, addio.Banale, facile da dimenticare, calcolai subito. Natu-

ralmente non era così, solo un nuovo passo della danzache non sapevo di ballare: l’illusione. Poi ci fu il tor-mento, l’apatia, il vuoto. Vuoto per giorni e giorni,settimane, mesi di nuovo solo col mio lavoro, col cal-cio, con quattro amici di nessuna importanza. Con lefoto maledette.

A ottobre decido: parto in Messico, on the road, per-ché ero un neofita, dei libri e dei viaggi, e quindi fa-natico incompetente e illuso, convinto davvero di po-ter scappare da un’ombra.

Molte immagini: città caotiche marchiate dal sotto-sviluppo e dall’anarchia urbanistica, vecchi camion-cini e grasse signore in vestiti colorati e ariosi: Lima,Mexico City, Guadalupe, Santiago, San Juan de Por-torico.

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ti fai costruire un aspetto diverso, pulito, forse inte-ressante. Lavi via lo sporco dei secoli di miseria che tihanno preceduto, cancelli dal tuo viso le rughe che tidànno gli incubi di povertà che continuano a cammi-narti affianco, visibili solo a te, sempre meno visibili,quasi trasparenti.

Ti costruisci una buona pelle, un bel colorito col vinopregiato e il pesce fresco, impari a sorridere come sideve e a mostrare i denti bianchi quando senti una bat-tuta divertente, nessuno direbbe che covi tristezza, tuche hai imparato a parlare così bene del niente, comegli altri. Però, gli occhi, quelli ti fottono, se trovi qual-cuno capace di guardarti, di fissarti fino in fondo.

In maggio, una domenica in cui il Cagliari giocavain casa una partita importante e la città respirava cal-do e sale marino, io al volante della mia seicento sudoe ho paura, ma non so perché. I miei amici hanno si-curamente orecchie incollate alle radioline, e io inveceguardo le strade deserte e il bar del Mediterraneo vuo-to e penso che se sono scappato da Nuraiò posso scap-pare anche da questa città, dall’isola, almeno per unpo’, forse. Che non si deve mai dipendere troppo daqualcuno, che chi non viaggia non vive, che ho giàvissuto forse metà della mia vita, che ho lavorato tan-to e posso fare quello che voglio, che non mi devosentire legato da niente e da nessuno, che chissà cosasta facendo Henry in questo momento, se è ancoravivo

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Decisi che sarei tornato in Sardegna dopo due setti-mane, e nel frattempo avrei girato il Texas, per cer-care di scoprire se tutti quegli scrittori sudisti mi ave-vano preso per il culo, con le loro storie irresistibili.

La memoria si affaccia dove vuole, senza logica, equel lunedì a San Antonio la mia si affacciò a tradi-mento in anni molto lontani, quelli in cui via Romaaveva un cratere ogni dieci metri e il teatro civiconon c’era più, quando mangiare era una scommessa,io non avevo nulla e viaggiavo ogni giorno su un car-retto trainato da un cavallo denutrito verso una cittàche mi sembrava enorme e nemica mortale.

La memoria, quel lunedì americano in cui davantiagli occhi si alternavano deserto e piccole case di im-migrati latini, si volse senza preavviso verso pome-riggi lontani in cui imparavo un mestiere che miavrebbe permesso di non patire mai più fame, e di di-menticare quei giorni neorealisti, di dimenticare dadove venivo, come ero riuscito a costruire qualcosa.

Quel giorno, seduto al bancone di un piccolo cafèpoco meno che squallido, ingoiando una fetta sottiledi torta all’arancia, guardando con aria istupidita illiquido nero e acquoso che mi si raffreddava davanti,quel tiepido pomeriggio texano la mia memoria miriportò davanti il ricordo, sbiadito e chissà perché fa-stidioso, di Henry.

Presi l’elenco, e cercai il suo cognome tra la moltitu-dine di suoni ispanici che affollavano quelle colonne.

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E anche campagne, boschi, altipiani, spiagge, fiumi:il Mato Grosso, il confine, il passaggio della frontiera:gli Stati Uniti, l’America grassa e bianca, deserto e bi-stecche, banjo, trombe jazz e rangers dall’aria di bam-bini golosi e stupidi.

L’America in tutte le foto possibili, l’America, ilTexas.

Ho viaggiato senza sosta per tre mesi, ho seguitosolo i ricordi (gli inganni) dei libri divorati sul lettodi Kate, ho cercato i villaggi e i boschi e le strade car-raie delle poesie di Ginsberg, dei deliri di Kerouac,delle suggestioni brucianti di Garcìa Marquez, dellecanzoni degli Intillimani e di altri cento poeti incon-trati negli scaffali della mia incantatrice anglofona.

Non cercavo me stesso, non era una stronzata esi-stenzialista o cose simili, non avevo neanche smanieda scopritore di mondi “diversi”, da ritorno all’au-tenticità eccetera, no, sono solo stati tre mesi di solee polvere che stordivano, mesi per soffrire e speraredi guarire, prima o poi.

Un lunedì caldo di quasi primavera ho passato il con-fine: avevo la pelle bruciata, i capelli lunghi e in disor-dine, gli occhi segnati da occhiaie infinite, la mentepiena di insulti spagnoli e ritmi imbastarditi di moltipaesi; ero stanco, ma non più arrabbiato, avevo amatouna puttana di ventidue anni, in qualcuna delle città incui ero stato, ma già non ricordavo come si chiamava edove viveva, ero stanco e debole e solo, ma non soffrivo.

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Dieci

Adesso, mentre corro a centoquaranta e la lunga li-nea continua che divide la corsia è solo la coda sbia-dita di un animale rabbioso, e i miei occhi appenariescono a vedere i confini di questa strada infinita,adesso che ho deciso che ne ho masticato abbastanzadi vetro appuntito, adesso che sono le quattro delmattino ma non ho orologio e il tempo è trasparente,ormai, adesso che in fin dei conti è arrivato il mo-mento, che faccio le curve senza scalare di marcia, chesento il cuore del motore battere un ritmo impossi-bile, adesso,

che cazzo volete da me?non sto per morire, sono morto da un secolo e sono

fatti miei, questo è chiaro, non c’eravate voi quandole gocce disperanti di merda mi arrivavano in boccasoffocandomi, quando i dottori mi davano del tuguardandomi come un bambino capriccioso, quandomi nascondevano i risultati, quando mi prendevanoallegramente per culo come se la terza media fosse unpatentino inconfutabile di cretineria, non c’eravatevoi ogni volta che guardavo Chiara e vedevo lacrime

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C’era: Chatwork Henry, Summer Sun Buolevard, 1140.Magari era morto. Magari aveva lasciato la moglie

e viveva con un uomo, con un ragazzino che si facevamantenere, perché no? Magari svaligiava banche, opicchiava la moglie di cui un giorno mi aveva rega-lato la foto.

Nella mia memoria, Henry era ancora un placidoadulto di un’età qualunque con due occhi slavati sen-za ombre, e mi guardava pensando qualcosa in unalingua che io non potevo capire. Era sereno, l’ameri-cano che mi portavo appresso nel ricordo in bianco enero, e mi voleva bene, come a un figlio possibile edesiderato, era ricco e non poteva morire.

Quel numero di telefono, davanti a me, poteva dir-mi se il ricordo era traditore, e chi era oggi Henry, seancora viveva.

Ma era quello che volevo? Un giorno, avrei volutoincontrare anche Kate?

Le foto, dovevo almeno bruciare le foto, tornato aCagliari.

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prediche dei professori, le sgridate dei parenti ingamba, le occhiate puzzolenti di chi si stufava dei mieidiscorsi, di chi non poteva sopportare, cazzo, tutta lamia tristezza, adesso che spingo sempre più il pedaleverso il buio, come potete dirmi che sbaglio? Comepotete pensare di avere qualcosa da dirmi, come seventi anni passati così non mi avessero già insegnatotutto, come se non avessi già vissuto dieci vite e capitoogni cosa, da molto tempo, perché non serve altrodopo che l’ultimo amore eterno di colpo ti dice Ciaobello, sei troppo nervoso e scuro per i miei begli occhi,che devono brillare senza ombre e ne ho già abba-stanza di problemi, e casomai ci sentiamo ogni tanto edopo che mi hanno detto che ero un gran viziato, per-ché volevo un letto silenzioso e una radio vicino a me,almeno per ubriacarmi di chitarre e bassi,

come potete darmi ancora consigli se io ho già ca-pito tutto e so meglio di voi che ogni minuto è statoun minuto di troppo, che il Signore e i suoi disegninon c’entrano nulla, che ogni volta che ho massacratole mie vene era solo colpa mia, certo, ma lo stesso erocompletamente innocente,

e comunque,cristo santo del cielo io non ho nessuna voglia or-

mai di sentire le cornacchie starnazzare attorno a mee il grigio mi soffoca e non ce l’ho con nessuno ma la-sciatemi schiantare in pace,

cazzo.

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asciutte dietro i suoi specchi azzurri che mi si spezza-vano davanti tagliandomi le vene del ventre, quandole budella facevano capriole per la paura fottuta, nonc’eravate voi quando mio padre non trovava parolecui aggrapparsi per non scivolare nel solito silenzioche mi puntava contro, chiedendomi solo come an-dava, perché tra i cento proverbi che aveva ereditatoe che erano la sua bibbia, la sua scialuppa per nonaffogare nella vita, non ce n’era neanche uno che lopotesse aiutare quando mi vedeva increspare le labbraper il dolore solido, non c’era nessuno quando mi man-cavano le parole per rispondere a certe domande, maqual è esattamente la tua malattia? E come lo potevospiegare, chi mi ha mai aiutato tra i cari dottori dellamente a guardare gli altri senza morire di vergognaper quel buco nero che mi faceva danzare la tarantelladella paura, in ogni momento con chiunque fossi?Certo, finta tranquillità ogni tanto, polvere di feli-cità aggrappata ai miei sorrisi, ma poi, quando la seraguardavo il muro bianco davanti al mio letto, cosa nesapete voi delle faccine demoniache che mi fissavanosghignazzando, degli incubi colorati che zampetta-vano attorno alle lenzuola, nel bianco asfissiante dellamia stanza, tra i mille tubicini minacciosi?

adesso che il confine si fa più sottile e la doppia li-nea bianca in mezzo alla strada sbiadisce a poco a pocoe corro come il raglio di un somaro verso il primo al-bero che mi sembri abbastanza forte, adesso, in questosecondo infinito nel cuore della notte, ricordando le

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Undici

Veleno per ricchi, direbbe Don Mulas, se ne lasciatedue bottiglie nel Market di Claretta Pintus potete ri-passare a prenderle fra cent’anni, nessuno ne compreràmai a Nuraiò, di roba simile, Krug millesimato di unbuon autunno fa ricordo dell’ultima gita a Monte-carlo, da bere con le fette sottili di ananas che sul vas-soio aspettano le pause tra una mano e l’altra per es-sere mangiate.

Veleno per ricchi, direbbe Don Mulas, ma loro ride-rebbero a quelle parole, loro sono cinque ragazzi stra-ni, loro hanno viaggiato, e senza bisogno. Loro nonbruciano i pomeriggi e le serate davanti a un birron-cino, loro sono cinque ragazzi che hanno viaggiato,senza bisogno, gente che vuole più del pane di grano,gente che va a fottersi i soldi lontano dal paese asfis-siante, anche se poi sempre lì torna, a vantarsi delledonne e delle cene di pesci mangiati davanti ad unmare straniero.

L’antenna parabolica porta sul megaschermo im-magini pornografiche di un canale tedesco, un’orgiastatunitense in lingua originale, glutei e seni yankee

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telli Manca piace essere certi di capire bene, quando sigiocano i milioni cavati dall’orto, e Sabino non fumaquasi mai, dice che gli sembra cosa da ragazzini chenon hanno un cazzo da fare, e così Marcello tira tran-quillo, da solo, lunghe boccate di roba buona presa aVillasor dal cugino che non lo cogliona, che gli dà ilmeglio che si può trovare.

Sabino si sta proprio incazzando adesso, non havinto ancora un giro e sono già due volte che cambiasoldi, le fiches volano tutte verso Franchino che oggiha davvero il culo più rotto che mai.

Il quinto è Davide, si ruota a turni di due ore nel ta-volo da quattro e uno rimane fuori a fare quello chevuole, a guardare il paese addormentato e prenderefresco dal balcone di questo terzo piano con vista sulcentro, con vista su tutta Nuraiò fino alle campagneoltre il fiume, oltre il Riu Arresu che scorre silen-zioso, dimentico delle piene e delle secche rovinose diun tempo, oggi che tiene lo stesso livello tutto l’annograzie alla diga più larga d’Europa.

Ha mille pensieri appuntiti, stasera, non riesce a te-nere il culo fermo da nessuna parte, si aggiusta conti-nuamente gli occhialini mentre cerca di leggere IlManifesto che si è portato da casa, ché certamente daifratelli Manca di giornali non ne trovi, se non qual-cosa di macchine e fighe americane. Legge della guer-ra che non vuole finire, là ad est, poco lontano dai ca-sinó dove loro cinque hanno scorrazzato per alcuneestati costruendo e cementando una strana amicizia.

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in frenetica attività. Nessuno guarda il video, comun-que, tutt’al più ogni tanto Franco Manca canticchiaassieme allo stereo,

Franco e Giuseppe Manca sono fratelli, gemelli.Hanno due serre grandi quanto metà del loro orto, eil loro orto è molto grande, e sempre in fiore. Nel-l’orto dei fratelli Manca c’è ogni verdura che Nuraiòconosca, nelle serre le fragole nascono per prime, ipomodori e i carciofi sono sempre grandi e belli, comedi plastica.

Tre assi e due re buttati, è il terzo giro che spreca unbuon punto, già si sta incazzando, Sabino Mandas.Oggi a Franchino gli va tutto bene, non è cosa. Havinto una mano grassa come una scrofa, poco fa, fot-tendosi la sua scala all’asso con un full di sette, eadesso questi tre assi e due re buttati per un pokerinodi nove, e sul piatto ci saranno state seicentomila, vaf-fanculo a quel culo rotto, pensa Sabino Mandas mar-mista e ceramista, un conto in banca a molti zeri allaCommerciale di Largo Carlo Felice, uno dei primi ascoprire il gusto della pallina che gira e dei numerettiche t’incantano, su in Croazia, qualche anno fa, du-rante una vacanza da solo, prima che i cinque diven-tassero così uniti e cominciassero a partire insieme incerca di adrenalina da roulette e Chemin de fer.

Seduto di fronte a Sabino, Marcello Murtas preparauna canna morbida morbida che fumerà da solo, pas-sarsi il fumo giocando a poker è cosa da film ameri-cano, loro sono fumatori e giocatori seri, eppoi ai fra-

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basterebbe, troppi i milioni persi nei mesi, troppogrande il debito per chiuderlo come è stato aperto,con le carte maledette che non gli fanno più passareuna notte tranquilla, perché chi è figlio di onesti im-piegati dallo stipendio sicuro, non è fatto per il ri-schio, forse per dei contadini come i Manca è cosa di-versa, abituati a fare i soldi o passare la fame a secondadi come gli girano i coglioni alla pioggia e al sole,forse loro dormirebbero bene anche con quel debitosul cuore, ma lui no, non è cosa per lui.

Davide si tocca gli occhialini di continuo, li mettee rimette su, accende una Camel dopo l’altra, sente ilcaldo soffocante di luglio che non dà tregua neppurea quell’ora di notte, che fa aggrumare i pensieri cat-tivi facendoti impazzire. Dal balcone sente le urla diincazzo di Sabino, di là nel salone, e le risate e leprese per culo di Giuseppe Manca che dice all’amicosfigato di calmarsi, che se gli prende la sangia a quelmodo andrà sempre più male, non vincerà una manonemmeno se ne scende il cielo.

Davide ha smesso di tentare di leggere e di pensarealla guerra, Porco Dio porco Dio, pensa, adesso entrolì e faccio un casino, porca troia, la scenata, il casino,la tempesta, urlare tutto, e vediamo se quel coglionecontinua a cannarsi in silenzio mentre tutti gli fannola festa, stronzo senza palle che è.

Davide ha il viso piccolino e tondo e l’aria da stu-dioso, per unanime decisione del paese è, anzi, l’In-tellettuale, e non solo perché ha fatto le Magistrali,

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Cerca di concentrarsi ma tornano quelle immagini diloro cinque a Dubrovnik, a Zagabria davanti a monu-menti, ristoranti, caffè, bionde formose strette a Fran-chino, Sabino che paga da bere a tutto il locale e si al-lontana in bagno con una rumena che gli dà venti cen-timetri, i portafogli che fanno a gara per svuotarsi, luiche parla con uno studente ventenne dagli occhi accesied orgogliosi, uno studente intelligente che guardaDavide e non sorride mai, si esprime in un franceseperfetto e non sputa un solo luogo comune sull’Italiao l’Italianità, ma non riesce a nascondere il fastidio,forse l’odio, per i connazionali di Davide chiassosi estupidi, per gli stessi amici del maestro di Nuraiò ar-rivati lassù a comprarsi serate di sesso slavo e birra te-desca con pochi marchi schifosi.

Una mano la vince anche Marcello, il suo giovaneviso magro e tirato non sorride, troppe diecimila sonogià volate stasera per pareggiare con una sola mano, ese anche fosse un pareggio, o un guadagno magarigrosso, cambierebbe qualcosa?

Marcello fuma l’erba buona e batte con le dita ilritmo delle ballate che gli arrivano alle orecchie dalwalkman che si è portato, una cantante nera cantaquestioni di cuore con voce forte da maschio, Mar-cello Murtas fumando spinello tiene il ritmo dellacanzone tamburellando le dita sul bicchiere di Porto:non sarà questa sera a far pareggiare il conto, se anchevincesse lui tutte le mani e si dovesse giocare fino al-l’alba, fino a domani, fino alla festa dell’Assunta non

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a sbranarti, col suo accento pesante di figlio di nuo-rese, lui e il fratello gemello due bravi ragazzi che tifottono senza accorgertene, due cinghiali analfabetiche ci hanno fottuti per bene, noi tre, e soprattuttoMarcello, il mio Marcello troppo giovane e insicuroper decidere, in questi mesi, per darmi retta e smet-tere, magari scappare lontano, chissenefrega, e cosaabbiamo da perdere? Gli ha chiesto mille volte Da-vide sdraiato con lui nel monolocale di Castello cheil maestro ha comprato, di nascosto da tutti, con i ri-sparmi suoi e dei genitori, cosa abbiamo da perdere?Tu non hai un lavoro e io non me ne curo, di questecose, qualcosa da fare la trovo dovunque, ripetizioni,traduzioni, scappiamo a Parigi, o almeno in NordI-talia a fare gli operai, perché no? Ma lui no, lui i de-biti li paga, dovesse metterci cento anni, ormai ci so-no entrato e devo uscirne, gli pagherò tutto a questicazzo di Manca, tutto…

Davide ha le gambe magre come fusti di canna,guarda le dita della mano destra che tremano tenendola Camel, respira l’aria calda che arriva dal fiume, ariaumida e afosa che non dà ristoro. Pensa a come treme-ranno dopodomani, le sue mani, quando stringerà ilnodo della cravatta e si darà l’ultima sistemata ai ca-pelli, eppoi guidare verso la chiesa, nel primo bancoassieme ai vecchi genitori di Marcello che piangerannofelici, ché di meglio non si poteva sperare, per il figliodisoccupato ma tanto buono, così pronto a capire edimparare, che di certo adesso un lavoro lo trova, visto

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scuola da donne e da gente che perde tempo sui libri,è l’intellettuale perché parla in italiano, quasi sempre,e non lo fa per darsi arie o credersi cagliaritano, no,parla l’italiano perché gli è naturale, e anche quandoimpreca e bestemmia in dialetto sembra più un con-tinentale che ha imparato il sardo che uno nato e cre-sciuto a Nuraiò.

Cresciuto non proprio, visto che gli anni delle supe-riori li ha passati ospite di una zia a Cagliari Sant’A-vendrace, tornando a casa solo la domenica, e nemmenosempre, ché preferiva starsene lì, dove poteva vederechi voleva e fare i fatti suoi senza che ogni lampione,ogni macchina, ogni pietra avesse occhi per vedere e ri-ferire agli anziani genitori, agli amici, a tottu sa biddache gente frequentava, cosa faceva Davide Sulis, futuromaestro elementare a Nuraiò e lettore di libri.

Marcello ha vinto un’altra mano, Davide sente ifratelli Manca che gli fanno i complimenti per ilbluff riuscito, per il suo gioco coraggioso che ognitanto gli permette di coglionare tutti e vincere dellebelle poste, con rilanci e controrilanci che riempionoil piatto di fiches azzurre da centomila. Dal balconenon può vedere la faccia barbuta di Franchino Mancama la immagina, adesso, che si scioglie in lodi per ilragazzino ma in testa pensa che è un coglione, che contutto il cervello che crede di avere non riesce a capireche non è per lui, che doveva ritirarsi da molto tempodal gruppo, Franchino Manca che a malapena sa usaredue congiuntivi e ha gli occhi accesi del lupo pronto

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vide al suo amore senza coraggio. Davide intellettualefrocio di essere chiamato frocio non ha mai avutopaura, o forse sì, ne ha avuta paura, in paese, a Caglia-ri no. Ma lì è quasi una città, non è impossibile esserelasciati in pace, uscire con chi si vuole senza che perstrada ti urlino dietro caghineri, cu’ scioddau, caghi-neri burdu, lì a Cagliari chi ti conosce se passeggi perle strade delle compere? Forse ha ragione Marcello,Marcellino bello e asciutto nel corpo lungo e affilato,Marcello ventenne divorato dalla paura, dal rimorsodopo ogni sera di sesso dolce col maestro, Marcelloche glielo ha detto tante volte, è facile per te che faiquello che vuoi, che hai il bancomat e se ti serve qual-cosa o vuoi scappare per due giorni, ritiri mezzo mi-lione e parti dove ti pare, voli a Milano, vai nei localiche sai e ti dimentichi di me, degli amici, del paeseintero nelle braccia di qualche padano, io devo chie-dere le diecimila a babbo, e non è sempre che me lepuò dare, e di andare a cavare da terra fagiolini o po-modori non ne ho proprio voglia, e lavori veri non cen’è, per me, e tutti quei soldi che devo a questi qua,fai presto a dire di fregarmene, di essere sincero…

Porco Dio porco Dio, però, però… qualcosa ci deveessere, qualcosa da urlargli, a quei vecchi schifosi digenitori ciechi, qualcosa da sputargli in faccia, chénon è possibile non sappiano non vedano, che la ma-dre non abbia capito, e che madre sei che non sai leg-gere negli occhi di tuo figlio un segreto come quello?E non lo vedevi come correva felice ogni volta che lo

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il nome e la posizione del suocero, che anzi ha già par-lato di un posto da autista al Consiglio, o magari inclinica, volesse Domineddio, nell’amministrazione afare conti, che il diploma da ragioniere dopotutto l’hapreso, questo figlio benedetto che ci ha fatto prenderetanta paura, per certe voci che c’erano in giro, male-detti invidiosi e bugiardi, che per poco non ci facevanomorire di rabbia e paura, e invece per fortuna eranotutte fábasa, e il nostro Marcellino si prende la più bel-la sposa del paese, forse non proprio bella, ma la mi-gliore che noi potessimo sognare, sì.

Pensieri appuntiti. Immagini degli anni trascorsivicino a quel ventenne senza coraggio, geloso di luima terrorizzato dalle rime degli straccioni che bivac-cano da Benvenuto, pieno di amici pronti a fiutarequalunque indizio e crocifiggerlo di cattiverie e bat-tutacce, senza il minimo scrupolo, scopriti solo unpochino e vedi che fine fai, questo dicono i loro occhiogni momento, e Marcello non è Davide, non riesce anon guardare quegli occhi e ha paura, lui che ai ra-mini al bar dei socialisti non può proprio rinunciare,e a fare lo scemo con le diciassettenni che scendonodalla corriera e se lo mangiano con gli occhi, e ridonoalle poesie che recita per loro, appoggiato all’edicoladi Rodolfo in compagnia di qualche altro perdi-tempo, ridono ma cercano di imparare al volo quelleparole per scriverle sui diari, e far vedere alle amicheche Marcello ha pensato a loro, ha inventato per loroquelle rime, quei pensieri, in realtà quei regali di Da-

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– Tu non ti sposi, dopodomani – e silenzio teso etutti gli sguardi su di lui.

E Davide che trema di già, il bicchiere di Chivasgocciola particelle microscopiche di whisky sullepiastrelle bianche da ricchi dei fratelli Manca, il suoviso tirato è una nuvola nerissima, potendo esplode-rebbe in bestemmie e lacrime rabbiose, il tremito ar-riva fino alle labbra, sembra che preghi Davide Sulische forse ha persino paura, perché adesso si fanno iconti e si vede chi paga e chi prende.

– Eh, o Davide, non fare il minchione che lo faispaventare questo ragazzo! Siediti e prendi le carte,che tocca a te.

Sabino non sembra preoccupato, calmo guarda ilmaestro in piedi proprio davanti a lui e gli sorride,gli tende la mano destra porgendogli il mazzo, nes-sun nervosismo.

Marcello, gelato, ha la bocca aperta e gli occhi spa-lancati. Abbassa lo sguardo verso il bicchiere, si to-glie le cuffie del walkman.

– Non sto scherzando, ragazzi, lui non si sposa do-podomani.

Franchino mangia arachidi da un piattino ricolmodavanti a se, Franchino ha guardato il fratello solo unsecondo, ma già lo sapeva, lo sentiva, che era aria dipioggia, che ci poteva scappare il temporale, Fran-chino ha guardato il fratello solo un secondo e poi hapuntato gli occhietti su Marcellino, adesso si caga

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invitavo a cena, e non lo vedi come torna a casa dopouna sera con quella, non gliela leggi la rabbia quandotorna dopo essersi fottuto la figlia dello squalo, e nonlo sai che lo squalo non sorride mai se non ha fatto unbuon affare? E che madre sei se non capisci che è soloun affare, che tuo figlio è come un carico di grano,come un pacchetto di voti sicuri, come un nuovo ter-reno fatto edificabile, come uno qualunque dei traf-fici di quell’affamato, un investimento alla voce fi-glia, un ottimo affare visto che costa poco e rende lafelicità della bambina purtroppo bruttina, bruttis-sima diciamo, e tu non sei sua madre per capire tuttoquesto, e non stai forse inghiottendo amaro per pau-ra, o davvero cerchi di illuderti che tutto tornerà ap-posto, eh! Quando mai?

– Tu non ti sposi, dopodomani.

Perché qualcosa c’era, dopotutto, lo sa Davide, losapeva infondo cosa doveva fare, adesso che lo ave-vano chiamato per giocare al posto di Franchino, ur-larlo, così, senza giri senza storie, urlare in quella fra-se tutto quello che aveva dentro: che no, che non sipuò fare finta di niente, che loro sanno, come lui, estanno zitti solo perché vogliono i soldi del debito esperano che vengano fuori da quel matrimonio, spe-rano di azzannare lo squalo per mezzo di quel cretinoche si sta facendo inculare anche ora, tranquillo conla canna in bocca e il Porto in mano.

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Franchino ha detto che basta così, che abbiamo ca-pito, di stare zitto lui adesso.

– Siediti e cerca di calmarti.Marcello non ha detto una parola, non ha ancora al-

zato gli occhi– La gelosia è una bestia cattiva e ti fa il cervello ad

acqua, dovresti saperlo tu che hai studiato e di cosene sai più di tutti noi messi assieme.

Marcello forse sta piangendo, ma nessuna lacrima èancora scesa.

– Ti ha morsicato questa bestia e non hai capito piùnulla, e io ti capisco anche se mi credi ignorante e ot-tuso, solo perché mi spezzo la schiena tutto il giornosui pomodori e ci ho le mani nere di terra e del grassodel trattore, ma non è così, non si è minchioni soloperché si è contadini, Davide Sulis.

– Lui non si sposa dopodomani, o ti sputtano da-vanti a tutto il paese, te e tuo fratello.

– Eh, ma non vuoi neanche ragionare, proprio tu checavi i soldi dalle parole che dici. Non avrai paura di ra-gionare con un ignorante che s’imbroglia con tutti iverbi, dì? Se il Signore ha detto a Marcellino che ladonna giusta per lui è quella ragazza, non c’è gelosiache si può mettere di mezzo. Le benedizioni non scen-dono ogni giorno, e quella ragazza è una benedizione.E non dire più che ci sputtani o cose del genere, signormaestro, sennò capita che te ne devi andare davverodal paese, ma da solo, e magari con qualche ossa a pez-zettini, capito?

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addosso, ha pensato, questo qui è ragazzo che si cagaaddosso, ha pensato prima di fissare dritto negli oc-chi Davide Sulis, con gli occhi piccolini freddi e duricome la quercia che si ritrova, Franchino, occhiettiduri sopra il naso schiacciato e largo da cinghiale pe-loso, gli ha puntato gli occhi negli occhi e gli ha det-to, piano piano:

– Non fare il minchione e siediti, che ti fai male.Non è cosa per te, di fare l’eroe. È cosa che sbrunchi,che ti rompi le labbra.

– Dopodomani non si sposa, parte con me, andiamovia dal paese e dalla Sardegna, e non ci torniamo più.

Sabino si è girato e sta per dire qualcosa, sta per in-terrompere Davide che non ha finito, anche se qual-che lacrima gli sta incominciando a scendere, tradi-trice puttana, Sabino sta per interrompere Davide maFranchino gli fa segno di no:

– Aspetta, fallo finire. Sentiamo quante cazzate rie-sce a dire in una volta sola.

– Partiamo assieme e non ci vediamo mai più, e senzadire niente a nessuno, neppure alla sposa. E voi zitti, seno scrivo un paio di lettere anche ai vostri genitori, o aqualche amico, e racconto di certe serate che sappiamonoi, di quel brasiliano che ci siamo affittati a Dubrov-nik, e divisi come fratelli, di quella quindicenne che visiete presi in Polonia, e di qualche altra cosa ancora.

Adesso le lacrime sono molte, e parlare è difficile,le mani strette a pugno e la schiena scossa da sussultinervosi, gli occhi fatti minuscoli dalla rabbia, adesso

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un parrucchiere estetista famoso di città che chissàquanto ha preso, per non parlare del vestito che la sar-toria del Largo ha confezionato con la più grande curaper l’illustrissimo suo cliente affezionato il faccen-diere ragioniere Melis noto Lo Squalo feudatario rive-rito e ricercato che bassotto e grassoccio stringe manisudaticce e riceve inchini e congratulazioni a due pas-si dal portone della chiesa.

– Congratulazioni, bastardo.

È tutto quello che può sfogare Davide in questo po-meriggio asfissiante, pesti gli occhi insonni sotto gliocchiali scuri, tremanti le labbra e le mani che haporto allo squalo come tutti gli altri, non c’è niente daaggiungere ormai, congratulazioni bastardo mentregli stringe le mani, inutile sfogo un po’ da bambino,niente altro da fare Davide Sulis, la storia è finita.

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Non sembrano rabbiosi, gli occhi di Franchino, nonsembrano occhi di tempesta e di incazzo ma tranquil-li, quelli di sempre, quelli di un buon giocatore.

– Lui dopodomani non si sposa, e basta. Non c’èminaccia che mi puoi fare per farmi cambiare idea,Franchino Manca.

– Facciamo così: adesso Marcellino alza quel belfaccino dal bicchiere, che già l’ha fissato abbastanza,e ti guarda negli occhi, e ti dice che cosa vuol faredavvero lui: se scappa con te chissà dove o se si sposala figlia dello squalo e si prende tutti quei soldini.Facciamo che lo dice prima a te, poi a noi tre, sem-pre guardandoci negli occhi, eh? senza cagarti ad-dosso, ragazzino.

Questo sì che lo ha detto con la rabbia negli occhi,con una voce dura da bandito che dice le cose una voltasola:

– Va bene Marcellino?

Ragazzine saltellanti indossano scarpe buone orec-chini d’oro della comunione, signore sfatte grasseamorfe lottano col vento caldo di luglio che le fa in-zuppare di sudore, bagnano i vestiti di seta nera o co-lorati di fiori, gambe elefantiache piedi enormi in-gabbiati in scarpette lucide minacciano d’esploderefuori dalle fasciature vanitose, signore sudate amorfesorridenti si sciolgono in complimenti barocchi sullemille bellezze e virtù della sposa, la più brutta ra-gazza del paese bruttissima anche adesso, conciata da

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Dodici

Tango argentino questa sera in paese, signore e si-gnori, per palco i gradini del Comune, pista da ballo ilparco d’ulivi, signori e signori si suona e si balla, se viva, la luna è alta e illumina la notte, l’allegria vi accom-pagni che l’estate è bella anche qui, che gli animatoriromani a noi proprio non servono, ché la Costa Smeral-da neppure è sicuro che esista davvero, comare Lillinaha già preso il tempo e stringe Tore Marras passeggian-do per la pista, tango argentino nelle orecchie, contanoi passi si muovono svelti, se non proprio leggeri almenoaggraziati, s’è messo la camicia buona Salvatore e nondiresti mai che salda tubi otto ore al giorno, così sorri-dente capelli lucidi cravatta a fiori, e le gambe della suadonna sono ancora elisir che fa mischiare il sangue eballare con voglia, stanotte non sai cosa ti combino, lesussurra all’orecchio, e se anche è una frase così, ché do-po un’ora d’amore il sonno lo vince e il fuoco è di pa-glia, se anche è una frase così, ché il sabato si è più stan-chi che mai, lo stesso Lillina arrossa le guance e lo ba-cia sul collo, Ohi amore mio, e si sente scema e felicecome le belle donne di Canale Cinque.

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voglia scappare dall’Isola, dicono suoni le trumpas escriva nei giornali, dicano sia di stirpe del Logudoro,infidi e assassini ma chissà, forse è cagliaritano amicodi qualcuno, forse figlio d’emigrato tornato per l’esta-te, chissà, ma se davvero si chiama Ruggero e suona letrumpas magari si unirà ai quattro musici a fine sera-ta, a inventare suoni d’Africa e d’Oriente, a scriverestrofe di pirati e vergini more, di vini alla cannella elabbra avvelenate, o solo a fumare piano dietro la chie-sa in campagna, a fare l’amore con la solista, a contarestorie di città lontane del Continente, magari.

Signori e signori spettacolo d’eccezione, serata dan-zante davanti alla casa di tutti, il Comune dove si cor-re a far questua e gridare ingiustizie e parti inique,ballate ballate sul parco d’ulivi un tempo perla ed or-goglio tra le tanche del conte, quanti anni son corsi,eh? si dice Peppi Loi che una volta l’ha visto, il contepadre feudatario benigno, prodigo di regali e racco-mandazioni in cambio di poco, di nulla! cos’è unacroce su una scheda per chi nemmeno sa scrivere? an-che il signor conte probabilmente ballerebbe con noi,questa notte ché fa così caldo da non poter star fermi,anche il signor conte qui con noi il tango argentino equesti quattro musici bravi figlioli, bravi ragazzi, ilparco del Comune che non sembra vero sia quello disempre.

Ombre confuse non si capisce chi sia, sarà la luce

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Tango argentino stasera signori, si fa tardi in com-pagnia e i ragazzi schiamazzano e fanno fischi e per-nacchie, va bene così ché oggi è come una festa, Ma-riano Pintus ha vent’anni e un diploma sbagliato daperito meccanico, sotto la pelle note ribelli che lo fan-no tremare, stringe il clarino balla con le dita saltellasulle gambe, ha capelli lunghi riccioli scuri, si dice cheuna mora sia stata l’inizio, bella come il peccato, lab-bra rosse gambe lisce pelle dorata, si dice, adesso sof-fia la tromba tiene il tempo col piede, sorride ognitanto sente il suono degli altri non gli sfugge una no-ta, punta gli occhi sul viso tirato di Nicola Tanda bra-vo ragazzo, buon chitarrista poeta delle corde, NicolaNicola, pensa Mariano, Nicola Nicola se questo fosseun palco di Parigi, se questa gente avesse altri nomi ecognomi, se una mattina non avessi fatto l’amore conquella strega incantevole, se la spiaggia del Poetto nonfosse così buia la notte, per amarsi ed uccidersi conuna punta d’ago dentro l’anima, Nicola Nicola chegruppo che siamo, noi quattro, tango e blues, jazz eballu tundu, che estate quest’estate.

Serata d’estate luna piena aria umida spessa, può ac-cadere di tutto, si sa, tra gli ulivi e le querce si vedonoombre che nessuno conosce, può essere la vista ingan-natrice del vecchio Ferminio, o forse davvero è riu-nione di spiriti erranti d’altri luoghi e d’altri tempi,chissà, quel ragazzo magro come uno stecco Supergasporche tabacco arrotolato, dicono si chiami Gunale e

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girare anche i morti, ché belle così non ce ne sono,tutti la vogliono lei non guarda nessuno, aspetta ilsuo Fabio partito alla guerra, ché sembra la strofa diuna vecchia poesia ma è proprio così, partito allaguerra per cambiarsi la macchina appena ritorna, pa-racadute mostrine fucile, che Dio lo protegga e lepreghiere di Rossana, ché di questi slavi si sa solo chesparano e poco gli importa di chi ci passa, chi ha uc-ciso centomila nulla si cura d’un Fabio qualunque.

Suonano i suonatori ballano i ballerini fumano i fu-matori, c’è gioia e lavoro per tutti, dietro la quercia piùgrande Ulisse Contu prepara il grammo allunga l’erbasguardo di sasso denti marroni mani gialle, nella testaconti e brillantina, capelli unti pensieri svelti di vendi-tore d’oblio, quanto costa stasera scordarsi di tutto,Ulissixeddu? fuggire la noia bruciare il fastidio di nonsaper far niente, avessi almeno le mani dei quattro ra-gazzi sul palco, avessi almeno l’ombra di un sogno, unoqualsiasi va bene anche il tuo, puoi vendermi quello in-vece dell’erba? di fare soldi abbastanza per volare inOlanda, di smettere tutto nella città dei canali, chestrano sogno eh? arrivare ad Amsterdam e non farsimai più, neppure una volta, bel sogno questo d’Ulisseche una volta è stato anche a Parigi con due tipi di Ser-ramanna, ha pianto e cantato sulla tomba di Morrison,recitato le sue canzoni al pomeriggio che stava in si-lenzio, ché dove c’è un poeta ci vuole rispetto, lo capi-sce Ulisse, per questo stasera ha portato roba leggera,

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dei lampioni che gioca coi riflessi sull’erba del prato,qualcuno dice che può giurare, che c’era un uomosenza una mano uscito da un film in costume, un con-tadino guerriero di trecento anni fa, chissà, anche unadonna, si dice, una ragazza di Lusitania che vede den-tro i corpi e cerca nuvole chiuse che sono volontà, chestrana donna chissà se è una strega, chissà se c’è dav-vero o l’ha inventata Franco il matto che legge tantilibri e dice solo fesserie, Blimunda dicono si chiami e,se vuole, può vedere dentro la testa dei quattro ra-gazzi sul palco e dei mille signori d’intorno che bal-lano e parlano e criticano e bestemmiano, svelarci isegreti di Franchino della sua testa dipinta di giallo,chissà se è vero che è pazzo come dicono, chissà se hasmesso di sperare e volere e aspetta come i vecchi chequalcosa di brutto lo porti via, bella Blimunda se tusei qui questa sera col tuo soldato monco e gli occhicangianti che vedono l’uomo come fosse nudo dellapelle, se i tuoi occhi sono qui potresti dire a ClarinaPiras se è cosa brutta quella che sente al seno, ché persé non si preoccupa ma ha anche lei un soldato in fa-miglia, un figlio di nome Fabio granatiere in Kossovoche tornerà a casa per Natale, e sarebbe bello riab-bracciarlo felice senza pensieri pesanti, senza paureangosce terrore.

Ballo di note tristi, malinconia argentina, passi dipassione e ricordi, qualcuna ha messo i tacchi, Ros-sana Mei per esempio e quel suo rossetto forte che fa

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quattro pensionati mezzo avvelenati a un tavolino,delle maledizioni al tempo le donne ed il governo,canterà le gioie le pene la pesantezza dell’anima ditutti i diavoli danzanti di questa notte d’estate, dicome è bello il tango se Lillina ti abbraccia, di com’èbello l’amore se saldi tubi tutto il giorno, di comepuò esser facile passare le notti felici con due accordie un cielo di stelle, anche in quest’angolo scordato datutti, tra questa gente che non conta niente, chesiamo tutti figli del Cielo, dirà il Poeta, se è sua quel-l’ombra che fuma in silenzio, e sorride.

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niente di grave, in onore delle note e le strofe dei ra-gazzi sul palco, di questa notte allegra.

Notte di desideri eccitazione poesia, i portoni sullastrada sorridono di passiflore e rampicanti, le stellecadendo si voltano e ci vedono, buona serata signori!sussurrano allegre, fosse così tutta l’estate non c’im-porterebbe delle vacanze passate qui per i pochi soldi,della lontananza delle spiagge dei falò, delle discote-che dei pubs, notte stellata, ombre confuse a ballarecon noi, sembra il Poeta quella figura accanto a EfisioLai, sembra proprio il Poeta genovese, che impres-sione vederli così, magri tutt’e due, capelli lunghistessa faccia scavata dal fumo dagli anni dal vino,stesso fascino stessa voce arrochita, glielo dicono tuttia Efisietto che assomiglia al Poeta, solo che lui non sacantare né mettere in fila parole frementi sulla guerrae l’amore, se davvero è del Poeta quell’ombra laggiù,abbraccerà forse il suo sosia e schiarendo la gola, ru-bata una chitarra a qualcuno, griderà la rabbia delleguerre degli altri, dei generali cretini e dei poveri dia-voli partiti davvero, giovani e forti per una macchinanuova al ritorno, per una gita al mare con le loro ra-gazze, tra un anno, per qualche milione messo daparte alle Poste, griderà che Fabio ha una moglie chel’aspetta nell’Isola e se nessun prete li ha mai sposatiè sua moglie lo stesso, canterà del suonatore Jonesdella bella Angiolina del carabiniere che l’innamorò,

canterà di una ragazza scivolata su una stella, di

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Tredici

Era arrivato con la corriera delle sette da Cagliari,nessuno l’aveva mai visto prima, un viso così non sidimentica, soprattutto da noi dove non arrivano fo-restieri, nessun turista, neppure di passaggio.

era bello, bellissimo.

Come Dio in terra, come un angelo del Paradiso, tan-to che quando Mariano Deiana appena svegliato lo videpassare, dalla finestra del suo soggiorno, pensò fosse ar-rivato il momento, che il Signore l’avesse mandato aprendere, e si toccò ancora il fegato, come faceva sem-pre in quei giorni, e vide che c’era il sole in strada e pen-sò che tra un mese al massimo le ragazze avrebbero ini-ziato a spogliarsi nelle spiagge e quando la moglie en-trò nella stanza con il caffè appena fatto lo trovò in la-crime, singhiozzante, in bocca parole troppo pesanti pervenir fuori, sul viso uno sguardo che voleva dire non cela faccio, è primavera e la mia donna è ancora bellis-sima, Marianna mia non ce la faccio e aiutami tu a dirloal Signore, che proprio non ce la faccio a morire col sole,che magari in autunno, o il prossimo inverno…

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chi scuri, mani che lei lo sa, lei lo ricorda, mani cosìci puoi svenire, per il solo toccarti

zia Rosaria quand’aveva vent’anni come bambinas’innamorò, ma fu solo il giro d’un’estate ad amoreg-giare davanti al fiume, costruire promesse forti comeil grano ai piedi dell’argine, finisce la notte e già nonc’è più, passa la piena e resti col fango, il suo amanteocchi d’inganno parole di creta cotta nel sole, un’e-state e poi ripartì,

e Rosaria restata in paese a sentir dire che c’era unbambino, che l’aveva dato alle suore, che era donnadel diavolo e nessuno l’avrebbe più presa per mogliee per madre

e di nuovo sola conobbe il frutto amaro delle paroleinvidiose, ed ogni giorno che Dio manda in terra se-duta in cucina intrecciava i pensieri con dubbi e paure,si guardava allo specchio e piangeva e piangeva, sof-frendo di cento di mille bugie

ma sono storie di un secolo fa, zia Rosaria oggi pas-seggia inghirlandata nei suoi duecento anni per ilcorridoio del bar e dentro la carne ancora le brucia,femmina mala dice a sé stessa per certi pensieri e ri-cordi di un luglio fuggito di un agosto benedetto diun settembre che le ha rotto il cuore.

Sono storie di un secolo fa, e oggi zia Rosaria cheha fatto l’amore con mille ubriaconi e un solo signoredagli occhi d’inganno, oggi zia Rosaria che ha sof-ferto tanto non ha imparato niente, e ricomincerebbe

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Ma il ragazzo non andò verso casa di Mariano Deiana,camminò in silenzio fino al bar centrale, prese un tavo-lino fuori, proprio di fronte al Municipio nuovo e alpiccolo parco di ulivi ben curati e ordinò un cappuc-cino e un cornetto, di quelli alla marmellata che Rosa-ria stava tirando fuori dal forno.

Continentale, aveva pensato subito la donna, mapoi dalla parlata capì che no, che addirittura da fuoriItalia veniva.

Tedesco, si disse, e restava lì affianco al suo tavolinoa fissarlo, incantata; mentre lui non la guardava ne-anche di sbieco: gli occhi puntati contro qualcosa da-vanti a sé, oltre il palazzone comunale, qualcosa dilontano.

E zia Rosaria pensò che l’avrebbe fatto, ah quanto!magari nello sgabuzzino del bar, magari in piedi,peggio che gli animali, come voleva lui, in qualunquemodo perché i seni appassiti e i fianchi ingrossati lanotte si agitavano, dopotutto, in cerca di quel che untempo tutti volevano e oggi nessuno le dava più,nemmeno per una sera, neppure il vecchio Brandiccuche alle nove era già nel suo mondo opaco sdraiato sulbanco abbracciato al bicchiere di vino di Oliena

zia Rosaria occhi segnati da borse profonde, zia Ro-saria butterebbe via senza dubbi né pena quel che re-sta da vivere, dieci venti trent’anni, fossero pure centoper quella creatura che ha spalle disegnate da un mae-stro di tela, gli occhi che riflettono lucidi come spec-

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l’orto, dalla caccia di frodo o dalla pesca nel fiume.Domenica di primavera caldissima, prete Mulas bene-dice le vecchine sante della prima messa, prepara lacarne e il sangue di Nostro Signore per il resto delgregge.

Prete Mulas sente il vociare delle anziane fedeli chelasciano la chiesa biascicando salmi e domande: machi è lo straniero? viene dal Logudoro? dall’isola diSan Pietro, terra di tirchi meticci mezzo tunisini? èun bandito di Barbagia venuto a rapire zio Clementeil tombarolo? Nessuna ha risposta certa, il prete nonne ha parlato nella predica e quindi di certo non nesa niente.

E anche nel bar di compare Bastiano si parla tuttidel giovane strángiu, il sindaco con la cravatta giallabeve un Campari con Titino Demurtas e gli chiede sepuò essere davvero così, che alla fine i bolognesi sisiano decisi a comprare: metà della campagna col fiu-me dentro da farci ville e villette per le vacanze deglialtri, e tante giornate di lavoro per tutti i manovalidel paese, volesse il Cielo! ma ci avrebbero avvisato daCagliari, dice Titino, e quello non sembra tipo chevuole chiudere affari, e che modo sarebbe poi? di an-darsene in giro a far parlare di sé, invece di cercarcisubito e discutere tra noi.

Chissà, dice il sindaco, e guarda i vecchi che perdonoe vincono i ramini e le scale e ancora ha una speranza dipotercela fare, a farsi una grande villa dove invecchiare

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daccapo con quella creatura, anche subito, chiunqueegli sia.

Ma il ragazzo non restò con zia Rosaria ad ucciderladi nuovo, se n’andò per il paese a passi lunghi con gliocchi brillanti di angelo biondo, a far sbavare le vec-chie e imprecare i mariti e i giovani diavoli che glisfrecciavano accanto, brutti e morti nei loro vent’annidi maschilisti e prepotenti, biondo e bello che era unoscandalo camminò per la strada grande costeggiandoi muri e i portoni e le finestre e gli scialli neri e i fu-stagni pesanti e i jeans attillati e le invidie e le male-dizioni.

E la bruttezza di Raimonda, che è dietro la finestrae ha più di vent’anni e non ha mai conosciuto il sapo-re dei baci d’amore, dei pomeriggi d’aprile a guar-darsi negli occhi e sentirsi morire, e vede il ragazzo esi segna il petto, perché gliel’hanno spiegato bene, alei che non capisce tutto, che i brutti son casti e glispetta il paradiso, e invece tanto splendore, è chiaro,non può che essere un’offesa a Gesù Nostro

e Raimonda, consolata da questo pensiero e dallamamma che le accarezza le spalle, riprende a cammi-nare avanti e indietro, di là dal vetro della sua fine-stra, davanti all’angelo che non si cura, che passa e va.

Domenica di maggio piena di sole e di voglia dimare, profumo di terra negli scarponi di chi torna dal-

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muoversi, e risparmiarti le fiamme e il demonio co-dino

ma corse in camera, il vecchio professore, e si toccòcon furia per cinque volte, e cinque volte si sentì unverme e si augurò di morire, ma ugualmente non riu-scì a fermarsi fino a che non gli sembrò di vedere delsangue in mezzo al suo sperma, e allora smise e si ad-dormentò sul suo letto sudato, sognando angeli biondie facce di mori che lo uccidevano nelle calate di Mari-na che erano state il loro regno, ed erano oggi la suaprigione.

E prete Mulas solo in sacrestia scosta la tendina erespira forte. Chi diavolo sei? chiede al vetro da cuivede la piazza, e sudano più del solito i suoi novantachili di campagnolo panciuto, sudano per il timoreconfuso di qualcosa di torbido che torni a galla, an-che se non è che abbia grossi pesi sulla coscienza Car-letto Mulas figlio ultimo di famiglia povera di pe-scatori di stagno

giusto qualche amore in seminario, tanti anni prima,quando moriva di noia bisticciando serate intere col la-tino e i filosofi, qualche amore che poi non era amore,sesso senza colpa perché è il diavolo, si sa, che con i gio-vani preti si impegna più che con gli altri a cacciarlidalla strada buona, tentandoli con tanta forza che nontutti ce la possono fare, a resistere, e i più deboli anzi èquasi certo che ci cadono

e prete Mulas un debole si sente, senza vergogna,

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davanti al mare, lontano dalle carte tentatrici e dallelingue avvelenate come la sua, lontano, almeno la do-menica.

E anche il professor Pili lo vide passare dalla sua fi-nestra e si toccò la fronte calda e sudata e nel giornodel Signore guardò il cielo e si maledisse un’altra vol-ta e maledisse la notte che non gli dava più riposo masolo incubi umidi e voglie e ricordi untuosi e sentì legambe deboli e si dovette sedere facendo di nuovo iconti di quanto mancava alla fine del mese, e del di-giuno, e pregò forte che la prossima volta potesse es-sere uno così, con la stessa pelle, né chiara né scura,dorata e liscia, a scherzarlo per un’ora: amore bellomio grassone; che la prossima volta nei vicoli scuri diMarina pregni di odore di pesce fritto e di merda dicane, il suo sposo di una notte potesse avere quellelabbra, potesse assomigliare almeno un po’ all’angeloche aveva appena visto, perché altrimenti a cosa ser-viva quella vita dannata che non voleva finire, checontinuava a stringerlo tra rimorsi e desiderio e a nondargli tregua neppure la domenica?

e si guardò nello specchio e rivide la faccia tonda eun po’ gonfia e le borse sotto gli occhi e i cinquant’an-ni che si affacciavano ed ebbe voglia di scendere instrada e rincorrerlo e catturarlo tra le sue braccia echiedergli di farlo, per pietà, di fargli l’amore unavolta sola, e poi se poteva di ammazzarlo, ché se tiammazza un angelo magari lassù possono pure com-

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tutti e quando mi racconta i peccati se le accarezza conla scusa di tirar giù la minigonna, sarà lui? che magariqualche malalingua gli ha detto che esagero con le oc-chiate e le domande e s’è girato male…

e va avanti così per dubbi ed ipotesi il pastore dianime che non si dà pace, ché qualcosa di nuovo è qual-cosa di brutto, si sa, e da fuori vengono solo a portarcisciagure, si sa, e almeno la Domenica potrebbero star-sene tranquilli nelle loro città e lasciar stare chi pregae riposa come è scritto di fare. Almeno la domenica,che gliene rimarrebbero abbastanza di giorni per pec-care e portare disturbo, per togliere la pace a chi nientegli ha fatto, ai poveri Cristi che vanno a messa, al buonpastore che li benedice.

C’era qualcosa che non funzionava, Mauro lo senti-va, qualcosa di storto, che non andava

anche se aveva comprato le paste alla crema e il gior-nale economico e sul tavolo di marmo poggiavanomarmellate di Francia e d’Inghilterra e l’estate sarebbearrivata presto abbronzandogli la faccia ancora magrae piacevole e due boxer col pedigree facevano la guar-dia dietro il cancello e Fra Nicola vegliava tranquillodalla cornice accanto alla porta e le rose in giardinosplendevano di molti colori e la sua amante di città glibaciava le guance con labbra calde e saporite e lo chia-mava principe azzurro dolcezza mia e il bambino nel-l’altra camera dormiva sereno e biondo aggrappato adun sogno di fate e castelli,

ugualmente qualcosa non andava.

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che anche se non frequenta tanto i libri se la ricorda,quella frase del Manzoni, quelle pagine che lo riguar-dano, eh, si dice davanti allo specchio, tutto è ugualedappertutto, tutto si ripete, cosa posso farci io se sonocosì? e alle signore sciancate senza conforto per la carneche chiama e non trova risposta, ché i mariti piuttostoche toccarle se ne vanno per i viali dannati della città,alle signore sciancate sgraziate gonfiate dagli annidalle merendine, dai panni da sbattere e lavare, allesignore che nel silenzio della sacrestia gli chiedonoconsigli, aiuto, pietà, può forse prete Mulas dire distare zitte e tenersi tutto dentro, che ascoltare quellestorie per lui è peccato? eh, ascolta prete Mulas, ascoltafa domande, chiede conto di atti e pensieri, pover’uomoche non sa dire di no

sarà l’amante di Francesca Nieddu? si interroga fis-sando la piazza, quello di cui mi ha parlato comarePeppina, il finanziere di Trento che la ragazza ha co-nosciuto in discoteca, che vuole portarla al peccatomortale, che non fa che chiederle quello? e perché sene sta lì a fissare il portone, allora, continua a tortu-rarsi don Mulas, cosa vuole dalla casa di Domineddio?vorrà chiedermi dispensa per quell’atto orrendo? (e ilsacerdote si asciuga la fronte, blocca i pensieri che vor-rebbero prender forma di immagini, Francesca Niedduche pecca col ragazzo biondo che siede nella piazza aldi là del vetro, che non si decide ad andar via)

oppure il fidanzato di Fabiana Spina che ha vent’an-ni e le cosce più sode di tutto il paese e le fa vedere a

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Adesso no, non più. Adesso aspettava l’estate, e qual-cosa non andava.

È una domenica calda di inizio estate e le anime diNuraiò non sanno stare tranquille e zio Luigino so-prattutto ha sudato tre ore sul campo di grano, in-curvato le spalle magre appresso alla zappa più pe-sante di lui, e ora varcato l’argine, torna in paese esente nel cuore quel che sarà, perché è figlio e nipotee pronipote di veggenti e un suo avo ha servito unconte d’Aragona predicendogli morte gloriosa inbattaglia come poi fu, e una sua zia cieca è bruciataa Toledo dopo mesi di pene in una segreta di Castelloe anche lui, zio Luigino, maestro intagliatore e con-tadino e allevatore vedovo di solitudini e amarezze,anche lui sente le ossa che gli dicono quel che sarà enon può non essere, e quella mattina sente che la fi-glia gli ha mentito, che non gli ha detto tutto tuttodal fondo del cuore, come avrebbe dovuto.

Cristina Rosas figlia di zio Luigino è ragazza che havoluto studiare e ancora studia e non si accontenta,solo questo le rimprovera l’uomo, ché per il resto laama più che se stesso, ché belle così di ragazze non sene trovano molte, belle di gambe di viso e di cuore eocchi grandi che ci vedi dentro, ci leggi l’amore chevuole al padre e l’uomo lo sa, e lo vede che anche senon va più a messa da tanto tempo, lo stesso è inca-pace di far del male, ma tutti quei sabato sera in giroper Cagliari chissà con chi, a dormire chissà con chi,

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La figlia nella sua stanza provava scarpe nuove ap-pena comprate per la cresima della cugina e sorridevaperché tra poco le avrebbe mostrate alle amiche, la fi-glia sorrideva e gli voleva bene e non si faceva troppecanne, eppure qualcosa non andava, da un po’ ditempo

la moglie, per esempio, prima di addormentarsi gliparlava dell’automobile che non dava problemi e dicome la sua amica Cristiana se la tirasse per la bam-bina che faceva violino a Cagliari e poi finiva di par-lare e gli dava un bacio leggerissimo sulla bocca e sigirava e chiudeva gli occhi di colpo, per non riaprirlifino al giorno dopo

e lui la guardava, ed era sempre bella, e qualcosa nonfunzionava

e quella mattina l’aveva sentito molto bene, che c’eraqualcosa che non andava, che erano secoli che non sivergognava di niente e che i dischi di Bob Dylan eranosempre più muti e lontani nel loro scaffale e che il cap-potto di cammello e il cellulare nuovo e la cravatta diGucci e tutto il resto, due ore appena e l’emozione fi-niva, e restava l’idea che gli anni passavano e tutto erafinalmente perfetto, ma qualcosa non funzionava, chenon si incazzava e sudava più da un secolo almeno.

Forse era stato quel ragazzo, quel suo visobello come un angelo, solo le ali gli mancavano.Si era aspettato di vederlo alzare da terra da un mo-

mento all’altro, su, verso il cielo, in volo.Anche Mauro un tempo lo sapeva fare, sapeva volare.

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mia ti voglio bene come a me stesso, e se anche haitradito rubato figliato offeso ucciso in terra straniera,per me non fa nulla, ché lontano da qui siamo altrepersone e perdiamo il senno, si sa.

– Io lo so chi è, l’ho visto in sogno stanotte che vo-lava sul fiume come una strega o un demonio, io loso che non è un angelo del Cielo, io so chi è.

Il vecchio ha un soprannome che è già un’ingiuria,Sa Bregúngia si chiama, zio Priamo Piras Sa Bregún-gia, la vergogna: morta la moglie ha preso a portarei calzoni senza niente sotto, ché a lavare le mutandeproprio non gli riesce, e un giorno d’aprile al fiumeun compagno di pesca seduto di fronte ha scoperto ilsegreto, ha visto le vergogne e il nomíngiu fu pronto.

Zio Priamo, rincoglionito dagli anni e dalla solitu-dine, dai soldi così pochi che ha sempre la stessagiacca di lana leggera, estate e inverno, e un odore divecchio e di povero che fa stare lontani, e ogni tantosceglie una panchina nel parco, ci sale sopra scatarraforte schiarisce la voce, prende ad urlare sproloqui emaledizioni, che tutti sentono fin dentro il bar, nes-suno risponde pochi commentano molti sorridono, iragazzi gli urlano minchione, scemo tonto, tziuPriamu rincoglioniu e altre cose così, lui non ci badae continua lo show, qualcuno in fondo in fondo gli dàragione, anche, ma non molto spesso.

– Io lo so chi sei ragazzo biondo che tutti ti guar-dano e nessuno ti parla. Sei l’anima offesa del mare e

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e sempre con un libro in mano e quel ritornello chelei non ci vuole morire, in quel paese che la fa soffo-care, che lei piuttosto si rovina le mani e le renisciacquando piatti in un ristorante o pulendo le scaledi qualche signore, in Continente magari, ma lì no,in quel buco di mondo di Nuraiò a inacidire estate einverno, lì lei non ci rimane

e infatti è partita lo scorso anno, sei mesi in unaterra così lontana che il vecchio all’inizio non ci po-teva pensare, gli mancava il respiro, Norvegia sichiama, terra di folletti e fiumi ghiacciati gli hannospiegato, terra di molto freddo e molti soldi, terra dicase di legno e di sole che scompare alle tre del po-meriggio, le ha scritto la figlia, terra così bella danon voler tornare, lui l’ha capito, e quasi si era rasse-gnato a non vederla più, Cristina che parla l’inglesee sorride come le ragazze di città, si era quasi rasse-gnato ad invecchiare solo del tutto, nel suo orto sem-pre più grande per le sue ossa che invecchiano.

E adesso che ha saputo del ragazzo, dell’angelobiondo che si è fermato in piazza di chiesa e fissa leanime del paese che vanno a prendere la comunionee tutti si chiedono chi sia e cosa voglia, adesso zioLuigino è sicuro di sapere, anche se lui è solo un pic-colo contadino senza scienza che non parla mai connessuno, è sicuro di poter sciogliere quel mistero cheneanche il sindaco c’è riuscito, neanche prete Mulasche pure sa tutto, o così dice lui.

Figlia mia, dice Luigino guardando il cielo, figlia

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poi, vinta dal rimorso, gli ha raccontato tutto e lui hagiurato di fargliela pagare prima o poi. Ma perché pro-prio oggi? con questo sole? perché non è andato a cer-carla direttamente a casa sua? cosa fa lì davanti a tutti?

ognuno si agita e prepara la sua, canto di voci agi-tate per nulla, schiamazzo di fantasmi destati dalsonno, ballo festoso per l’angelo biondo

è domenica a Nuraiò e l’estate è vicina e i pomodorison rossi e Sant’Isidoro protegge i campi e le case, enessuno sa la verità, tutti la cercano e nessuno la tro-va, chi è lo straniero e cosa cerca cosa aspetta in piaz-zetta di chiesa?

E l’unica che conosce il segreto non è in paese, que-sta domenica agitata, ha passato il sabato notte daCarlino Ferrer e ancora sta dormendo nel letto bian-chissimo di lino fresco, in una stanza che dalla fine-stra vedi tutta Castello, le torri medievali la cittàbassa il porto, ha una bottiglia di birra al malto sulcomodino e occhi macchiati dal trucco disfatto

ha un padre che sente il futuro e forse lei stessa haqualche senso speciale, lascito delle streghe sue ave,ché questa notte ha sentito brividi tiepidi su per legambe, e ricordi di una città lontana hanno bussato aisuoi sogni e lei li ha fatti entrare e il ragazzo biondoè stato con lei come un tempo, glabro lungo sinuosoe femmineo come solo lui.

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del vento venuta a dirci di non illuderci, che anchese il mare non c’è a Nuraiò lo stesso dobbiamo te-merti e portarti rispetto, ché di vento e di mare sivive tutti nell’isola, e chi dice il contrario è un pazzoe un cretino

sei l’anima offesa del mare e dei boschi venuta amaledirci per il cemento e gli incendi, perché ti to-gliamo il sonno d’estate colle feste di notte e i risto-ranti sul mare

o forse sei l’anima del cielo azzurro che ci vuol por-tare all’inferno per le ciminiere che ti abbiamo pun-tato contro senza rispetto né logica, perché ingordi ecretini ed illusi e malvagi…

Parlava senza senno Sa Bregúngia, rompicoglionibrontolone che viveva in un mondo tutto suo.

Mario il ciabattino sbuccia i piselli seduto in sog-giorno guarda i gol del Cagliari alla televizione, parlacon la moglie che sistema i dolcetti nel vassoio buono,di là in cucina:

– È un agente dei servizi americani che lavora allabase di Decimo e deve arrestare Luisa Demurtas chel’ultima volta che ha pulito l’ufficio del generale harubato foto segrete e lo vuol ricattare, è così, sicuro.

– Ha un’arma nella tasca – dicono Benedetta e Sil-via al telefono – deve uccidere quella bagassa di Cri-stina Rosas che è rimasta incinta lì in Norvegia equando è tornata ha abortito senza chiedergli niente,

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Si chiama Cristina Rosas, e dopo l’amore con quelbastardo di Carlino ieri notte ha sentito come un ri-morso forte e definitivo, un dolore da qualche parte,chissà, come l’idea che qualcosa era finito e non si po-teva tornare indietro, qualcosa così, confusa.

Si chiama Cristina Rosas, lo scorso anno ha studiatoin Norvegia e se adesso fosse sveglia e sapesse che unangelo biondo fissa la gente che entra ed esce di chiesa,a Nuraiò, forse potrebbe dire chi è il ragazzo e che cosatiene in tasca (un’arma, un biglietto per l’America, unassegno potente, un libro da rendere, un diario d’a-more, una proposta di lavoro, un’offesa da urlare a qual-cuno)

e forse potrebbe dire quanto aspetterà lì fermo comeun pazzo a inquietare il prete e le vecchie, quando tor-nerà da dove è venuto, perché non dice niente,

se negli occhi porta tristezza o allegria.

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Ringraziamenti

Grazie di cuore, per avermi aiutato e incoraggiato, a Ste-fano Salis, Alberto Pattono, Benedetta e Luigi, Luca Pes,Marcello, Peppe, Raffaele, Giancarlo e Salvatore.

Grazie a Costantino per la fiducia; a Stefano, Mara, Ni-cola per l’amicizia.

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INDICE

Diavoli di Nuraiò

07 Prefazione

13 Uno

27 Due

39 Tre

43 Quattro

51 Cinque

67 Sei…

73 …Sei

77 Sette

91 Otto

99 Nove

115 Dieci

119 Undici

135 Dodici

143 Tredici

Volumi pubblicati:

Tascabili . Narrativa

Grazia Deledda, ChiaroscuroGrazia Deledda, Il fanciullo nascostoGrazia Deledda, Ferro e fuocoFrancesco Masala, Quelli dalle labbra biancheEmilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo (2a ristampa)Maria Giacobbe, Il mare (ristampa)Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addioSergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeriGiulio Angioni, L’oro di FrausAntonio Cossu, Il riscattoBachisio Zizi, Greggi d’iraErnst Jünger, Terra sardaSalvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2a edizione)Luciano Marrocu, Fáulas (2a edizione)Gianluca Floris, I maestri cantoriD.H. Lawrence, Mare e SardegnaSalvatore Niffoi, Il postino di PiracherfaFlavio Soriga, Diavoli di NuraiòGiorgio Todde, Lo stato delle animeFrancesco Masala, Il parroco di ArasolèMaria Giacobbe, Gli arcipelaghi (ristampa)Salvatore Niffoi, Cristolu Giulio Angioni, Millant’anniLuciano Marrocu, Debrà LibanòsGiorgio Todde, La matta bestialitàSergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»Marcello Fois, Materiali

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I Menhir

Salvatore Cambosu, Miele amaroAntonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbari-

cinaGiovanni Lilliu, La civiltà dei sardiGiulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna

In coedizione con Edizioni Frassinelli

Marcello Fois, Sempre caroMarcello Fois, Sangue dal cieloGiorgio Todde, Lo stato delle animeMarcello Fois, L’altro mondoGiorgio Todde, Paura e carne

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Maria Giacobbe, Diario di una maestrinaGiuseppe Dessì, Paese d’ombreFrancesco Abate, Il cattivo cronista

Narrativa

Salvatore Cambosu, Lo sposo pentitoMarcello Fois, Nulla (2a edizione)Francesco Cucca, Muni rosa del SufPaolo Maccioni, Insonnie newyorkesiBachisio Zizi, Lettere da OruneMaria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanziaGiulio Angioni, Il gioco del mondoAldo Tanchis, Pesi leggeriMaria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici paraboleGiulia Clarkson, La città d’acqua

Poesia

Giovanni Dettori, AmaranteSergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondoGigi Dessì, Il disegnoRoberto Concu Serra, Esercizi di salvezzaSerge Pey, Nierika o le memorie del quinto sole

Saggistica

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitarioGiancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in Pa-

scale Dessanai

FuoriCollana

Salvatore Cambosu, I raccontiAntonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padreAlberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea

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