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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze Pedagogiche
TESI DI LAUREA
La rappresentazione estetica e mimesica della
parola
Relatore: Prof.re Gilberto Scaramuzzo
Correlatrice: Prof.ssa Fabrizia Abbate
Candidata: Caterina Martocchia
Anno Accademico 2013/2014
1
Indice
Introduzione .......................................................................................... 3
Appello alla pedagogia ...................................................................... 5
Le fasi di lavoro ................................................................................. 9
Capitolo primo .................................................................................... 13
Aristotele e l‟azione espressiva ........................................................... 13
1.1 Una partenza costretta ............................................................ 15
1.1.1 Il fine dell‟azione ............................................................. 17
1.2 Agire con virtù ........................................................................ 22
1.3 L‟uomo agente ........................................................................ 25
1.4 L‟esistenza esiste nell‟azione ..................................................... 29
1.4.1 L‟intensificazione del vivere ............................................... 32
1.5 Educare all‟azione ...................................................................... 34
Capitolo secondo ................................................................................. 38
L‟origine del linguaggio secondo Platone .......................................... 38
2.1 L‟azione espressiva della parola ................................................ 43
2.1.1 L‟essenza della parola .......................................................... 46
2.2 La rappresentazione della parola ............................................... 49
2.2 La relazione con il mimema ....................................................... 54
Capitolo terzo ...................................................................................... 60
L‟espressione dell‟umano secondo Ferdinand Ebner ......................... 60
3.1 La parola dello spirito ................................................................ 63
3.2 La parola nella relazione ............................................................ 70
3.3. Come parlare bene .................................................................... 76
Conclusione ......................................................................................... 85
Bibliografia ......................................................................................... 89
Sitografia ............................................................................................. 94
2
Ringraziamenti .................................................................................... 95
3
Introduzione
Questo mio lavoro nasce dal desiderio di indagare nella sua più intima
profondità la relazione educativa. Un incontro che già nel mio
precedente lavoro1 avevo avuto la timida ambizione di definire
estetico2, proprio per riassegnarli il valore a lui di merito.
E mossa interiormente da questo sentire, ho cominciato a interrogarmi
su quale potesse essere la sua forma perfetta. Ho iniziato, cioè, a
domandarmi quale azione, quale espressione potesse rendere un
incontro qualitativamente estetico. Quale fosse la modalità più nobile
per incontrarsi, e quale fosse l‟atto da agire per permettere a un Io di
aprirsi a un Tu, per essere ascoltato3 – accolto – nella reciprocità.
È partendo da questo desiderio – perché solo così potrei definirlo: una
passione – che mi sono posta allora l‟obiettivo di riscoprire una delle
forme espressive più utilizzate dall‟uomo: una rappresentazione che
1 “Verso una pedagogia dell‟incontro estetico”, Relatore: Gilberto Scaramuzzo,
Correlatrice: Fabrizia Abbate, Corso di laurea in Scienze dell‟Educazione, Facoltà di
Scienze della Formazione, luglio 2012. 2 Per estetico non intendo il sinonimo di esteriorità, ma una visibilità che richiama a sé
uno sguardo esterno (cfr. Desideri, Fabrizio, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del
bello al problema dell’arte, Laterza, Roma-Bari, 2009, p.19) e stimola il soggetto ad
avvicinarsi non superficialmente, ma all‟interno dell‟oggetto. In questa prospettiva
incontrarsi non significa sfiorarsi, ma compenetrarsi l‟uno nell‟altro cogliendo, attraverso
l‟immagine percepita, l‟intimità di ciascuno. 3 «L‟atto dell‟ascolto è, da una parte, salvaguardia dell‟alterità dell‟oggetto e, dall‟altra,
inziale passività del soggetto. La difficoltà dell‟ascolto si riscontra nel momento in cui la
parola, estranea al proprio sé, spezza la chiusura dell‟Io, trasferendolo verso un senso che
realizza la nascita di una vita nuova. L‟ascoltatore è un lasciarsi espropriare, un esodo da
sé verso una terra cui non sempre si appartiene. Chi ascolta con competenza giova a sé
che ascolta e gioca all‟altro che parla, colui che ascolta con competenza invoglia l‟altro a
parlare.». (Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in Epitteto, in Scaramuzzo,
Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermenuesi di un mistero, Anicia,
Roma, 2009, pp. 144-145).
4
forse è una delle più autentiche – ma anche sciupate4 – della
comunicazione umana.
Mi sto riferendo alla parola, il veicolo oggettivo che serve per
«sostenere l‟esserci di un‟interiorità nell‟uomo e dirne la natura
singolare»5; un mezzo che, come vedremo alla fine di questa ricerca,
assumerà con decisione la definizione di essere espressione dello
spirito6. Un‟espressività strettamente personale – in quanto in essa si
afferma l‟essenza dell‟Io – ma che, tuttavia, non rinchiude l‟uomo
nella sua individualità, anzi; come scopriremo infatti nelle pagine di
Ferdinand Ebner7, la parola nasce precisamente dal – nel – rapporto
con l‟altro. È un‟entità dell‟uomo che agisce, prende forma, e acquista
significato, proprio quando il soggetto incontra un altro individuo8.
Vedremo, infatti, che è nella relazione tra l‟io e il tu che la parola
assume valore, autenticità, perché è in questo luogo che svolge il
compito connaturale a lei affidatogli: quello di far dialogare –
comunicare – gli uomini esteticamente. Un movimento che non tutti
sono capaci di attuare, e per il quale la pedagogia è voluta – e deve –
intervenire non solo per permettere l‟edificazione di tale esperienza,
4 Questo poiché «nella cosiddetta società delle comunicazioni, stiamo disimparando a
comunicare. La proliferazione dei media ci dà l‟impressione di essere coinvolti in uno
scambio continuo di messaggi, e, dunque, in un‟incessante attività comunicativa. Ma si
tratta di un‟impressione largamente illusoria, poiché la maggior parte delle sollecitazioni
a cui siamo sottoposti finisce per confondersi in un brusio indistinto dal quale fatichiamo
a ritagliare esperienze autenticamente comunicative.». (Ivi, p. 133). 5 Ducci, Edda, L’uomo umano, Anicia, Roma, 2008, p. 41.
6 Ebner, Ferdinand, Parola e amore, Rusconi, Milano, 1998, p. 128. Perché «la parola è
stata generata dallo spirito». (Ivi, p.58). 7 Cfr. terzo capitolo.
8 «[…] ogni parola che viene alla vita dallo spirito dell‟uomo ha un rapporto con un tu,
essa parla a un tu […]». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, p.103). Questo ci permette
allora di affermare che se lo spirito si esprime nella parola, e la parola è essenzialmente
dialogica, «l‟uomo in quanto natura parlante [corsivo mio] esiste solo in rapporto a
qualcosa di spirituale fuori di lui.». (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 44).
5
ma per ridonare spessore e consapevolezza al linguaggio, visto che è
tramite esso che si attua la relazione. Mi è doveroso quindi aprire una
parentesi sul ruolo della pedagogia, al fine di giustificare non solo
questa ricerca all‟interno degli studi della facoltà di Scienze della
Formazione, ma per specificare quanto tutto questo lavoro ha in sé la
responsabilità di dover intervenire per attuare la vera relazione
educativa attraverso la scoperta della parola.
Appello alla pedagogia
La pedagogia, nella sua origine etimologica9, vediamo fin da subito
che è una disciplina che rappresenta in sé una propria autorità.
Autorità in quanto custodisce uno dei compiti più delicati e nobili che
hanno a cuore tutte quelle arti che intendono allevare l‟uomo. Essa,
infatti, intende formare l‟uomo di umano10
; intende, cioè, nutrire11
9 L‟etimologia di tale vocabolo risale al termine greco paidagogia: un lemma che è
composto da paidos, ou (che significa bambino, schiavo), e da ago il quale, come accade
per molti verbi greci, ha innumerevoli significati tra cui guidare, accompagnare o
condurre. Un‟associazione di vocaboli che, ovviamente, rende evidente lo spessore di tale
parola in quanto esprime una vera e propria azione: quella di guidare il fanciullo vergine
di conoscenza verso la scoperta della verità. Un viaggio che si configura come una
liberazione: la libertà dello schiavo a-paideusico dalla caverna dell‟ignoranza. (cfr.
Platone, La Repubblica, VII capitolo, Rizzoli, Milano, 1986). Si veda in riferimento al
mito della caverna anche Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, Anicia, Roma, 2010. 10
Uso il termine “umano” per riuscire a distinguere un‟educazione che intende nutrire
l‟educando di “umanante” (ossia di ciò che rende l‟uomo degno di essere un uomo) il
quale, non a caso, «dipende dall‟urto con una realtà capace di produrre un‟esperienza
efficace» (Ducci, Edda, L’uomo umano, Anicia, Roma, 2008, p. 87). Azione che rimanda
all‟ anthropine sophia socratica, «una sapienza che ha l‟uomo per soggetto, l‟uomo per
oggetto, e che rende umano chi la persegue. […] Un filosofare che nasce dal vivere, un
pensare amoroso che costruisce nello spirito, prima di tutto nel proprio poi in quello di
tutti quelli che giungono ad incontrarlo.». (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere. L’umana
sophia di Luigi Pirandello, Anicia, Roma, 2005, p. 9). Una pedagogia che, se donata
all‟educando, «[…] innesca nell‟uomo un effettivo processo di umanizzazione così che il
coltivarla, rispettando la natura dell‟oggetto che la specifica –tutto ciò che c‟è di
squisitamente umano –, e seguendo le forme appropriate – l‟osmosi tra il conoscere e il
vivere, tra il sapere e il volere –, è la strada giusta perché quel singolo uomo vada verso la
6
l‟uomo mediante delle azioni, delle espressioni cariche di spirituale –
di umanità – al fine di accendere in ciascun individuo il desiderio di
vivere secondo tale principio.
Oggi, però, siamo spettatori a uno degli scempi più amari dell‟uomo.
Siamo abitanti inerti dell‟atrofizzazione che sta subendo l‟educazione:
quello di essere limitata a svolgere il compito di una vuota e superflua
trasmissione di sapere – l‟istruzione – senza più dar valore al compito
essenziale della Bildung12
.
Siamo di fronte – se così possiamo osare – all‟omicidio dell‟umanità,
perché senza un nutrimento interiore dell‟umano13
, senza la cura dello
piena realizzazione della propria umanità». (Ducci, Edda, Approdi dell’umano, Anicia,
Roma, 1997, p. 45). 11
Vocabolo derivante dal verbo greco trefo che significa nutrire, allevare, far crescere,
generare, dar da vivere, educare. 12
«Bildung dice infatti costruire, dare forma, innalzare. Traduce un senso di pienezza
umana da realizzare, una interezza potenziale da portare a compimento, perché Bild è
immagine – l‟anima come immago Dei […]». (Mattei, Francesco, Sfibrata paideia,
Anicia, Roma, 2009, p. 27). 13
Per umano intendo l‟essenza dell‟uomo, la sua più profonda spiritualità. Un‟interiorità
che necessita di vivere attraverso la vita stessa, e di nutrirsi di una realtà che gli permetta
di umanarsi. (Cfr. nota n. 10). Purtroppo però, «[…] il pensiero occidentale è stato
catturato dal quel che Husserl chiama “obiettivismo”, che si traduce nel culto del fatto,
nella perdita del motivo trascendentale, nella convinzione ingenua – psicologica,
vitalistica, ontometafisica o esistenziale – che il senso delle cose sia indipendente
dall‟operatività intenzionale dei soggetti. Questi sono i sintomi teorici di una grave “crisi”
che avvolge il pensiero filosofico, che dunque viene meno al suo compito, quello di porsi
come momento di fondativa autoconoscenza razionale della riflessione epistemologica e
scientifica. Nella Crisi questa convinzione è il punto di partenza: l‟obiettivismo moderno
può essere superato ricostruendo quel motivo trascendentale che la filosofica […] ha
disvelato e occupato al tempo stesso.» (Costa, Vincenzo (et alii), La fenomenologia,
Einaudi, Torino, 2002, pp.59-60). È evidente che tutto questo passaggio possiamo
leggerlo in chiave educativa, ossia, che la filosofia di cui parla Costa altro non è che la
pedagogia a cui spetta il compito in questa crisi umana di risvelare il senso trascendentale
perduto. Un senso smarrito nell‟attuale società razionale dove vige «il modello di
“esasperata” autonomia soggettiva […] che inibisce la manifestazione qualitativa della
singola identità […]» (cfr. Costa, Cecilia, La società post razionale, Armando, Roma,
2012). La soggettività, infatti, è travolta dall‟invadenza e prepotenza della tecnologia che
ha innescato quel processo di disincantamento (cfr. Weber, Max, La scienza come
professione, Bompiani, Milano, 2008) così devastante per l‟umanità (cfr. Russo, Maria
Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p. 156).
7
spirito, non è possibile che gli uomini abbiano un comportamento che
sia manifestazione – dimostrazione! – di umanità. Non basta infatti
che i bambini imparino definizioni eccellenti di uomo per divenire
tale, ma è necessario che facciano – vivano – esperienze mirabili
appartenenti alla loro umanità14
.
La pedagogia si configura per questo come un legante che avvolge di
umanante la comunità sociale, perché attraverso il suo agire non
esprime solo la téchne15
, ma trasmette – dona16
– l‟essenza di valori
umani che, una volta assorbiti, stimolano gli uomini ad agire come
tali. È per questo che il pedagogista porta con sé uno dei ruoli più
prestigiosi per garantire il buon funzionamento della società in quanto,
attraverso la sua comunic-azione17
, nutre l‟individuo fin nelle fibre più
Per questo la pedagogia deve intervenire per riuscire non solo a risvegliare (Cfr. Ducci,
Edda, La parola nell’uomo, cit., p. 83) l‟individuo dalla iper-razionalità, ma a indicare la
strada di una vita significante (ossia, trascendente). 14
Dopo esser entrati in contatto con la propria umanità, «ognuno ha acquisito ai suoi
occhi un valore massino non in forza del sistema o dell‟ideologia, ma per quell‟esperire
interiore sostanziato di verità. Tutti hanno una propria significanza e lo responsabilizzano
a tal punto che questa tensione assume la forza di un comando divino che per nessun
motivo può essere disatteso.» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.105). 15
Aristotele stesso distingue le azioni poetiche e pratiche (cfr. Aristotele, Etica
Nicomachea, Laterza, Bari, 2010, VI capitolo, 4) differenziandole nel fine della loro
azione. La poiesis, infatti, è intesa come un processo produttivo in cui il fine è il prodotto;
mentre la prassis, è il compimento dell‟agente che non è mezzo dell‟azione, ma fine
stesso dell‟opera (cfr. Petagine, Antonio, Profili dell’umano. Lineamenti di Antropologia
Filosofica, FrancoAngeli, Milano, 2011, pp. 25- 33). Una precisazione che ci permette di
distinguere l‟agire dal fare, cioè ci consente di riconoscere quando l‟uomo agisce
responsabile delle proprie scelte deliberate, o esegue solamente una téchne (cfr. Desideri,
Fabrizio, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del bello al problema dell’arte, Laterza,
Bari, 2009, p.87).Per questo vedremo nel primo capitolo quanto per Aristotele siano più
importanti le virtù pratiche (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., IV capitolo), perché in
esse l‟uomo impara ad agire. 16
«Colui che dona spezza, in altri termini, l‟illusione cartesiana della propria
autosufficienza e riconosce il proprio costitutivo stato di mancanza; riconosce cioè, […]
la propria “bisognosità” […], percependosi come anello di un circuito infinito di
appartenenze e di legami, che ha inizio dal momento stesso della nascita.». Brezzi,
Francesca e Russo, Maria Teresa (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed
etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp.92-93). 17
Un azione che agisce, esprime, rappresenta, solo entrando in relazione all‟altro. Senza
questo incontro, senza l‟esistenza di un‟alterità, infatti, non avrebbe significato agire.
8
intime della sua soggettività. Coltiva premurosamente18
l‟umanità del
singolo e della collettività per consentirgli di raggiungere una
pienezza di vita che solo vivendo con abitudine19
la propria interiorità,
potrà davvero vivere.
L‟educ-azione20
merita quindi un ruolo predominante nella società,
perché attraverso il suo intervento, l‟umanità può attuarsi21
, e in
particolar modo, consente all‟uomo di identificarsi con la propria
cultura22
, perché permette di far esperienza – e quindi assorbire – un
insieme di valori che, una volta riconosciuti, possono costituire un
legame interiore.
La pedagogia svolge allora il compito di edificare le basi fini alla
creazione di una comunità che, in una com-unione di individui,
condivide eguali principi. È proprio infatti grazie a questo
18
«Non si può morire per voi [rose]. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la
mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho
innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho
riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo e due o tre per le farfalle).
Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è
lei la mia rosa». (De Saint-Exupéry, Antoine, Il piccolo principe, Tascabili Bompiani,
Milano, 2009, p. 96). 19
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II capitolo. 20
Educare non è insegnare solo alla parte razionale, ma è toccare la sensibilità interiore di
ciascuno di noi. È unire testa e mano (cfr. Mattei, Francesco, Sfibrata Paideia, cit., p. 82)
in un unico agire: un agire che è espressione di valori, realizzazione di vita,
manifestazione concreta di essenza in sostanza. È un‟azione che crea un cambiamento
esterno e interno nel mondo e nell‟uomo; e questo è possibile solo mediante l‟attuazione
di interventi pratici che considerano la responsabilità del proprio ruolo. 21
«Infatti, se l’umanarsi rappresenta, e lo rappresenta realmente, uno stato qualitativo,
quasi un passaggio ad altro genere per una creatività insita nello specifico unificarsi delle
dimensioni, esso dipende dall’urto con una realtà capace di produrre un’esperienza
efficace.». Il corsivo è mio. (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.87) 22
«La cultura risulta essere qualcosa di specificamente umano, che distingue l‟essere
umano dagli animali» (Sciolla, Loredana, Sociologia dei processi culturali, Il Mulino,
Bologna, 2012, p.18), che «[…] comprende sia aspetti materiali (si parla spesso, infatti, di
cultura materiale per indicare l‟insieme degli artefatti prodotti da una società), sia aspetti
immateriali come il linguaggio e, in particolare, valori e norme.» (Giddens, Anthony,
Fondamenti di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 29-30). Uno dei suoi tratti
principali è di essere un fenomeno condiviso (cfr. Sciolla, Loredana, Op. cit., ) il che
richiama l‟esigenza di un monitoraggio sia del suo apprendimento, sia dei suoi valori.
9
rispecchiarsi – ri-trovarsi – nella comunità che permette all‟uomo di
vivere e di agire bene non solo per se stesso, ma anche per gli altri, in
quanto si trova a essere di fronte non solo a degli estranei, ma a dei
compagni di vita legati l‟un l‟altro dalla condivisione di un‟etica
umana.
Ma come si attua questa connessione? Qual è la modalità attraverso
cui la pedagogia può comunicare tali principi? E soprattutto: come
possono gli uomini riconoscersi appartenenti a una stessa comunità?
Ecco qui il legame con la mia ricerca che, finalizzata a scoprire come
gli uomini possano incontrarsi intimamente, individua nella parola il
mezzo per eccellenza per poter creare un rapporto estetico tra l‟Io e il
Tu23
.
Le fasi di lavoro
L‟indagine parte infatti dalla necessità di svelare non solo il contenuto
ontologico e significante della parola, ma di cogliere nella sua
profondità la sua forma e il suo agire per intendere veramente quale
sia il movimento che attuano coloro che si incontrano nel dialogo.
Mi sono quindi trovata costretta a iniziare a riflettere su quale sia la
postura appropriata per parlare, e soprattutto, che modalità di azione
sia quella che caratterizza la parola.
23
«[…] la funzione primaria della parola [è] di essere veicolo-legame tra due soggettività,
con un movimento tutto diverso dal convergere associato sull‟oggettività […]». (Ducci,
Edda, L’uomo umano, cit., p. 93).
10
Per questo il mio lavoro è dovuto nascere nel primo capitolo dalle
parole di un preciso auctor24
: Aristotele, l‟autore che mi ha permesso
di indagare nella sua profondità l‟agire umano e di coglierne la sua
esistenza. Il promotore, se così si può osare, della mia indagine che,
dalla scoperta dell‟azione intesa come pura espressione dell‟uomo, ha
voluto analizzare l‟entità della parola, intesa proprio come rappresent-
azione. Perché parlare non è un prodotto finito, ma è un‟azione in
perenne movimento, che assume giustamente la qualifica di atto
espressivo in cui l‟uomo dà vita al proprio sentire più intimo,
permettendo all‟io di manifestarsi al tu.
Ma come riesce l‟uomo a trasformarsi in parola? Come riesce a creare
un linguaggio che sia davvero corrispondente alla sua natura?
Di rispondere a queste domande, si occupa il secondo capitolo, in cui,
attraverso il pensiero di Platone, propone la definizione di parola
come: mimema25
. Il prodotto del dinamismo interiore e tipicamente
umano della mimesis26
: quell‟energia che permette all‟uomo di creare
tramite sé, l‟essenza di un qualsiasi ente da lui percepito, divenendo
intimamente simile ad esso27
. Il mimema, così, corrisponde a un‟opera
creatrice che, nelle sembianze di una forma riconoscibile – il
vocabolo, in questo caso –, esprime e comunica un‟essenza soggettiva.
Per questo arriverò a definire la parola come rappresentazione estetica
e mimesica, perché proprio grazie all‟oggettività (vocale, testuale,
24
Cfr. Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p.67. Si veda anche Tommaso D‟Aquino,
De magistro, (a cura di Edda Ducci), Anicia, Roma, 2009, p.12. 25
Traduzione riportata in Sulla natura mimesica del discorso. Una lettura filosofica-
educativa di pagine del Cratilo”, di Gilberto Scaramuzzo, in Educazione. Giornale di
pedagogia critica, Vol. I, N.2, 2012. 26
Si veda per approfondire questo movimento in chiave educativa l‟opera di Gilberto
Scaramuzzo, Paideia Mimesis, Anicia, Roma, 2010. 27
Cfr. Platone, La Repubblica, cit., III, 393c.
11
corporea) di cui si veste, riesce a essere percepita e a entrare in
contatto con il mondo. E parallelamente, nella sua forma percepibile,
rappresenta – comunica – quell‟intima essenza spirituale che, senza
corpo, non sarebbe riuscita a parlare – ad agire28
–.
La parola è quindi un atto che consente di entrare in relazione con se
stessi e il mondo perché, intesa come apertura intersoggettiva,
permette all‟uomo di viversi e di manifestarsi. Come infatti vedremo
nel terzo capitolo, mediante l‟aiuto delle parole di Ferdinand Ebner29
,
la parola rappresenta la forma primordiale dell‟uomo; è l‟espressione
dello spirito che ontologicamente ha il bisogno di vivere nel corpo,
plasmando, così, ogni atto espressivo. È la testimonianza più
educativa che l‟uomo ha, per dimostrare il suo bisogno di incontrarsi,
perché se nasce con questa parola, nasce anche con l‟esigenza di
comunicarla; e questa comunicazione non può che avvenire nella
relazione.
Se quindi tramite il linguaggio autentico le persone si incontrano, vien
da sé capire l‟importanza pedagogica che assume l‟educazione fine a
insegnare come parlare. Ma attenzione: non a parlare sintatticamente
correttamente, ma a parlare con personalità – cioè con spirito –.
Perché solo essendo le parole dette è possibile attuare l‟incontro.
Bisogna allora ridonare qualità estetica al linguaggio riscoprendo il
suo valore intenzionale30
nella sua forma visibile, perché solo
28
E come vedremo con le pagine di Aristotele, esistere è agire. (cfr. cap. 1, paragrafo 1.4) 29
«[…] Ebner riflette sulla lingua al fine di meglio conoscere l‟uomo e trovare strade più
sicure perché si realizzi, perché viva la vita che è sua». (Ducci, Edda, La parola
nell’uomo, cit., p.84) 30
Utilizzo questo aggettivo per rimandare volontariamente alla fenomenologia
husserliana, in quanto uno dei primi presupposti di tale conoscenza è, per l‟appunto,
l‟intenzionalità. Parola in cui è racchiusa “l‟idea di un tendere” (cfr. Costa, Vincenzo (et
12
riassegnandoli eticità si potrà educare non solo a riconoscere il
linguaggio autentico da quello mediatico, ma a divenire la propria
parola, ossia il proprio spirito.
Questa sarà la modalità per attuare la vera espressione31
dell‟Io, e
realizzare la relazione interumana32
.
alii), La fenomenologia, cit., p.94) sia nella postura del soggetto che incontra l‟oggetto,
sia nello sguardo fenomenologico che studia la realtà. Perché «non ci possono bastare i
significati ravvivati da intuizione lontane e confuse, da intuizioni indirette – quando sono
almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle cose stesse […]» (Husserl, Ricerche logiche,
p. 271, in Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., p.47), e questo è lo l‟obiettivo della
pedagogia dell‟espressione, una disciplina che oserei paragonare alla fenomenologia
trascendentale (Ivi, p.48) perché osserva i fenomeni espressivi e disvela la trascendenza
immanente dell‟io, grazie alla capacità di addentrarsi attraverso la forma, nei vissuti
interiori. 31
«L‟esperire dell‟uomo è posto nella parola. La vita dell‟uomo è un torrente che
mediante la parola è preservata dallo scorrere senza fine, dallo scorrere nel nulla
dell‟amorfia e dell‟inesistenza. Di questo mistero nella parola – ed è un mistero – sanno, a
modo loro, i poeti.». (Ebenr, Ferdinand, La parola è la via, Anicia, Roma, 1991, p.163.
«C‟è una vita che non porti in sé, come qualcosa di essenziale, almeno la predisposizione
a contenere in sé un esperire? Ma una vita che contiene in sé un esperire è
consapevolezza. Cos‟è cosa significa “esperire”? Che vuol dire questa parola? Esperire: è
proprio insondabile come il vivere, e forse racchiude nella sua insondabilità la ragione del
vivere […]» (Ivi, p.152) 32
Cfr. Buber, Martin, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano, 2012.
13
Capitolo primo
Aristotele e l’azione espressiva
“La lingua è
l’azione spirituale dell’io
che pone il tu”.
(Ferdinand Ebner)
Questo mio lavoro nasce da un‟esigenza. Un‟esigenza che è scaturita
non solo dalla vacuità e frenesia del quotidiano33
, ma dal desiderio
nostalgico di riscoprire e riudire il valore est-etico34
di una forma
espressiva che palpita in ogni esperienza umana, in quanto non solo
accompagna ogni esperire e incontro umano, ma perché nella sua
veste mutevole35
vi è custodito l‟essere in vita.
Mi riferisco al linguaggio, inteso come la rappresentazione, l‟attuarsi
espressivo dell‟uomo perché in esso non vi si trasmette solo un‟idea,
ma vi dimora l‟essenza intima di ciascun soggetto. Quell‟invisibilità36
che ontologicamente pulsa sotto la nostra pelle, ma essenzialmente
plasma37
ogni nostro esperire al fine del suo volere – il suo bisogno –
di rivelarsi al mondo.
E il linguaggio altro non è che questa rivelazione: un‟apertura
relazionale tra l‟io e il tu, uno spazio corporeo e trascendentale in cui
33
Il che richiede il desiderio di un nuovo ritmo, di un nuovo tempo, di un nuovo incontro. 34
Rimando per l‟utilizzo di questo aggettivo all‟opera di Abbate, Fabrizia, Est-etiche del
grigio, Editori Riuniti, Roma, 2012. 35
In quanto per linguaggio non intendo solo quello verbale, ma anche corporeo. 36
Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2009. 37
Oserei qui aggiungere: manovra, non nel senso di comandare, ma nel significato di
coordinare, guidare la sostanza del proprio corpo secondo il proprio sentire.
14
l‟intimità del soggetto si manifesta nella realtà – diventa evento38
– e
prende vita quell‟incontro tanto caro a noi educatori: l‟espressione.
Dinamismo che mi preme definire “incontro” perché è in questo moto
apparentemente esteriore che si racchiude quel delicato e umano
movimento di scoperta interiore, in cui l‟io penetra dentro di sé, si
vive, e riesce a rappresentare in una forma riconoscibile dagli altri il
suo sentire.
Vien da sé capire quanto sia stato allora scoraggiante per uno sguardo
pedagogico che mira, invece, a nutrire di vita l‟esperire dell‟uomo,
vedere questa attività linguistica come un ambiente di passaggio39
,
dove le persone si scontrano, si sfiorano, ma non si incontrano
autenticamente.
Un luogo che amaramente definisco abusato40
in quanto viene
inaccuratamente adoperato come strumento per fini estrinseci al suo
vero significato – esperire l‟essere – e oppresso dalle chiacchiere che
38
«[…] il discorso si dà come evento: allorchè qualcuno parla qualcosa succede.»
(Ricoeur, Paul, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1994,
p.99). «[…] l‟evento consiste nel fatto che qualcuno parli, che qualcuno si esprima
prendendo parola» (Ivi, p.100) perché «[…] ogni parola che viene alla vita dallo spirito
dell‟uomo ha un rapporto con un tu, essa parla a un tu […]» (Ebner, Ferdinand, La parola
è la via, Anicia, Roma, 1991, p.103). La parola non è evento solo perché è calata in un
corpo (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2008, p.67) ma perché nell‟atto di esprimersi e di essere riconosciuta,
diventa esistenza. 39
Cfr. Marc, Augè, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,
Eleuthera, Milano, 2009. 40
«Il compito della parola è di esser leva, sollevatrice della nostra vita psichica e
spirituale. Ma che cos‟è la parola di un pensatore o di un poeta che non eleva niente, che
non muove niente in noi, ma piuttosto condanna alla “solitarietà dell‟io”, e perciò
pretende soltanto che ammiriamo la sua perfezione estetica? Nient‟altro che abuso della
lingua – anche se si pretende che “serva” ad essa e al suo miracolo. Utilizzare in
un‟espressione sintattica e mettere in scena le segrete e spesso meravigliose possibilità
significative di una parola, non lo si può fare per un fine puramente estetico. Si finisce
degenerando in un gioco di parole e in un passatempo verbale.» (Ebner, Ferdinand,
Parola e amore, Rusconi, Milano, 1998, p.138)
15
inquinano di superficialità l‟essenza del dialogo41
: ossia quel incontro
tra due logos che nel – attraverso – il linguaggio si aprono l‟uno verso
l‟altro.
Ed è per questo suo sopruso che la mia ricerca si è prefissata di
riscoprire il suo valore, partendo dalle sue origini più intime al fine di
creare un percorso che possa far dialogare esteticamente42
i cittadini.
1.1 Una partenza costretta
Per intraprendere questo studio, però, è stato necessario prendere
coscienza non solo sulla forma del linguaggio, ovvero capire cosa
rappresenta il linguaggio per l‟uomo, ma in cosa consiste
sostanzialmente questo spazio.
Sono ossia dovuta partire non solo dall‟indagine ermeneutica di tale
rappresentazione – ovvero intendere il senso del fenomeno –, ma dallo
svelamento ontologico delle sue origini più profonde, cioè dal suo
movimento.
41
Interessante è vedere come Platone veste le sue opere di una tipica forma letteraria – i
dialoghi – da cui viene spontaneo domandarci: nella lettura cerca di farci incontrare i
personaggi? Mirela Oliva in La differenza linguistica tra etica e ontologia, non a caso
afferma che la parola ha in sé un «”dia-”, ”un attraverso”, un‟”apertura”» (Oliva, Mirela,
La differenza linguistica tra etica e ontologia, in Ricoeur, Paul, Tradurre l’intraducibile.
Sulla traduzione, Urbania University Press, Città del Vaticano, 2008, p. 110), proprio per
sottolineare quanto la parola – ossia il dialogo – sia un ponte comunicativo tra l‟io e il tu,
dove ognuno si apre e dona all‟altro (cfr. terzo capitolo). 42
La postura estetica sarà un approccio portante di questo lavoro, perché ci guida a
intendere la realtà, nella sua profondità, partendo dal suo incontro (cfr. Desideri, Fabrizio,
Op. cit., p.19). In questa ottica, dialogare esteticamente significa allora tendere nella
comunicazione l‟uno verso – dentro – l‟altro, per viversi e rispettarsi autenticamente
perché «ogni incontro vero e profondo tra persone è dialogo, ma ogni dialogo è incontro»
(Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p.87).
16
Ho dovuto domandarmi, cioè, non solo cosa esprimesse la parola, ma
in cosa consistesse l’atto del parlare. Cosa significa l‟affermazione:
“l‟uomo parla”43
, e da quale motore nasce questo dinamismo?
Ecco quindi il motivo per cui la mia riflessione è dovuta nascere dalle
pagine di un autore che ha davvero reso palpabile44
un concetto che
compenetra45
la nostra esistenza, ma è al quanto ineffabile, ovvero:
l’azione. L‟archè da cui questa ricerca ha timidamente cercato di
svelare il linguaggio come attuarsi dell’uomo, perché se l‟uomo è
principio delle sue azioni46
, è altrettanto possibile affermare che
l‟uomo è principio del sul linguaggio.
E giunge proprio qui il mio incontro con Aristotele, e in particolare
con uno dei suoi capolavori: l‟Etica Nicomachea, a cui voglio
interamente dedicare questo capitolo47
in quanto, oltre a essere l‟opera
che ha verbalizzato l‟esistenza dell‟uomo48
, è un‟opera che racchiude
in sé dei veri e propri principi di vita che possono contribuire a nutrire
43
Come vedremo nel terzo capitolo, ma merita comunque già citarlo, Ferdinand Ebner
ritiene che «Parlare del problema della lingua e rispondere al quesito perché l’uomo ha la
parola è parlare del tu in maniera concreta e attuale, ma anche accettare il trascendimento
perché “la tuità della coscienza umana non è una conseguenza del rapporto da uomo a
uomo (non è un momento di sviluppo sociale) ma piuttosto è alla base di ogni relazione
umana all‟uomo. Indica non soltanto al di là dell‟io, ma al di là dell‟uomo semplicemente.
Da essa deve essere compreso il significato profondo della lingua, il fatto che l‟uomo ha
la parola”». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.177) 44
Utilizzo questo aggettivo per precisare la sensazione di percepire, toccare con l‟animo
in questa lettura, un‟entità che ha mutevole forma: l‟azione. Mutevole perché è
espressione dell‟essere, della singola soggettività di ciascuno, e per questo è di volubile
aspetto. L‟azione rappresenta e manifesta l‟esperire concreto dell‟uomo nel mondo:
perciò è solo dall‟atto che è possibile distinguere l‟essenza. 45
Com-penetra nel senso che comprende e penetra la vita dell‟uomo. 46
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. di C. Natali, Laterza, Bari, 1999, 1110a, 17. 47
Mi soffermerò infatti in un‟analisi piuttosto specifica, ma fin sempre superficiale per la
sua vastità, di tale opera. Non solo per riflettere sui concetti fondanti della mia ricerca, ma
per mostrare l‟attualità e importanza di tale contributo filosofico nella prassi educativa
contemporanea. 48
Come approfondirò e affermerò nel paragrafo 1.4, esistere per l‟uomo è agire (cfr.
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10).
17
il pensiero pratico49
della politica: quella disciplina che ha come fine
la costruzione di una polis est-etica, ovvero una società composta da
cittadini che convivono mediante un agire etico – quindi secondo virtù
– ed estetico – ossia vivere e percepire secondo la pienezza più
autentica del proprio essere.
1.1.1 Il fine dell‟azione
Aristotele chiarisce subito infatti il fine che ci permette di attingere
fin nelle sue pieghe più profonde la delicatezza e rilevanza pedagogica
di tale discorso. Mi riferisco alla premessa che l‟autore espone nel I
libro, quando dichiara esplicitamente che la questione di tale scritto
49
Creo questo termine prendendo spunto dalle parole di Ferdinand Ebner quando
definisce «la parola non [come] cosa del conoscere ma del vivere, e questo è pensare
concreto [corsivo mio]». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, La Scuola, Brescia, 2005,
pp. 88-89). Il pensiero pratico allora è un pensiero che oltre a essere agibile, si forma
dalla vita stessa. Nasce dall‟uomo, e soprattutto, tende a un bene morale che lo costringe
(cfr. Scaramuzzo, Gilberto, A colloquio d’esame con Edda Ducci, in Scaramuzzo,
Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermeneusi di un mistero, Anicia,
Roma, 2009, p. 30) ad agire secondo virtù. Pensiero che non richiama solo l‟affermazione
della filosofia dell’azione ricoeuriana (cfr. Ricoeur, Paul, La semantica dell’azione, Jaca
Book, Milano, 1998, pp.35-37) ma la presentazione introduttiva che fa Aristotele fin dalle
prime righe dell‟Etica Nicomachea, proprio per definire che «ogni arte e ogni indagine,
come pure ogni azione e scelta […] persegue un qualche bene, e per questo il bene è [...]
ciò cui tutto tende. Ma appare evidente che vi è una certa differenza tra i fini: alcuni sono
attività, altri sono opere che stanno al di là di quelle, e, quando si danno dei fini al di là
dell‟azione, in questo caso le opere sono migliori delle attività.». (Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1094a, 5) È fondamentale, cioè, agire non solo per l‟azione stessa (es:
corro per correre) ma per un fine, un principio che è al di fuori di essa, perché se vi è un
telos in «ciò che facciamo, che desideriamo a causa di esso stesso, e desideriamo le altre
cose a causa di questo, e non scegliamo ogni cosa a causa di altro […] è chiaro che quello
[il fine ultimo ] viene a essere il bene la cosa migliore.». (Ivi, 1094a, 20). Conoscere
allora cosa e come sia questo bene, «sembrerebbe essere oggetto della più autorevole e
architettonica [scienza, che è] la politica» (Aristotele, Ivi, cit., 1094a, 25), perché è essa a
«stabilire di quali scienze c‟è bisogno nelle città» (Ivi). Vien da se capire allora quanto sia
affine questa opera al sapere politico, e soprattutto, quanto la politica e la pedagogia
dovrebbero dialogare l‟un l‟altra per garantire, da una parte, la costruzione e
funzionamento della società; e dall‟altra, formare cittadini che siano attivi e utili alla
polis.
18
non è tanto finalizzata alla scoperta della conoscenza dell‟etica.. ma
dell‟agire50
, perché è proprio dalle azioni, dalle espressioni, dalle
abitudini51
di un uomo che possiamo distinguerlo dagli altri enti, e
possiamo soprattutto definirlo un cittadino buono, bello e giusto52
.
Questo perché, come vedremo nel corso del capitolo, l‟uomo non può
essere giudicato dalle sue conoscenze.. ma deve essere distinto dalle
sue azioni, in quanto sono quest‟ultime a dimostrare l’attuazione del
suo carattere53
.
È allora facile capire quanto sia essenziale e vitale il contributo di
questa opera, perché oltre a permetterci di scoprire54
il senso autentico
dell‟azione nella vita umana, oltre a ridonare spessore significante
all‟agire, mi supporta verso la scoperta di quel nutrimento paideutico
tanto caro e necessario alla società: quello di un agire che attraverso
50
(Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1095a, 5). Ma ovviamente Aristotele non si
ferma solo a questa spiegazione. Nel II libro, con estrema eleganza, dichiara che «[…]
non stiamo indagando per sapere che cos‟è la virtù, ma per diventare buoni, perché
altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione [;per questo] è necessario
esaminare il campo delle azioni, come le si debba compiere, dato che sono esse a
determinare la qualità del carattere […]».(Aristotele, Op. cit., 1103 b, 26-30). Il corsivo è
mio. 51
Dico abitudini perché è in esse che ritroviamo le esperienze che sono state assorbite
nell‟interiorità del soggetto, fino a diventare proprie. (cfr. paragrafo 1.3) 52
Mi riferisco al principio della kalocagathia: il paradigma greco che prende origine dai
concetti kalos (che significa bello) e agathos (che significa buono), fondamenti preziosi
per la costruzione di una polis che vive di armonia estetica. Una misura che spesso
troviamo nel pensiero aristotelico, il quale aspira sempre alla medietà, come giusto
mezzo. Un giusto mezzo che non equivale a un uguale matematico, ma a relativismo per
noi (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II, 1106 b, 5). Cfr.
http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf p. 33. 53
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1143b, 28-30). Ma attenzione: non si deve
giudicare l‟uomo da una singola azione. Non solo è umano sbagliare e non è facile
perseguire sempre la retta ragione, ma è attitudine dell‟uomo virtuoso saper agire con
abitudine. Dopo tutto, «non è una rondine che fa primavera». (cfr. Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1098a 18). 54
Nel senso più sensibile della parola, in quanto si tratta letteralmente di privare dal
manto visibile consumistico, il significato dell‟azione per coglierla “nuda”, nella sua più
autentica origine.
19
la sua energia55
, forma – nutre – l‟uomo agente fino a farlo divenire
lui stesso l‟azione medesima, perché è agendo che l’uomo diventa
interiormente il suo movimento esteriore56
. Affermazione che
possiamo intendere solo ricordando l‟entità dell‟uomo: uno spirito in-
carnato57
che non plasma unicamente la propria voce secondo il suo
sentire, ma viene a sua volta modellato dall‟ambiente circostante.
Dobbiamo quindi capire come l‟uomo riesce a estendersi all‟azione, e
soprattutto, da quale motore parte il suo movimento desiderante di
agire. Dico desiderante perché ogni azione è smossa da una scelta58
,
che a sua volta, deriva non solo da una deliberazione59
, ma da un
55
Intendo qui per energia l‟accezione coniata da Aristotele (cfr. Aristotele, Metafisica,
Laterza, Bari, 1998, 1050a, 22) che permette di cogliere quanto ogni atto sia mosso da un
movimento che indirizza l‟azione ad agire verso un fine (cfr. Malo, Antonio, Il senso
antropologico dell’azione: paradigmi e prospettive, Armando, Roma, 2004, p.16). 56
Attraverso l‟atto corporeo l‟uomo si immedesima, prende le sembianze, interiormente
dell‟azione o dell‟oggetto di cui cerca fare la mimesis. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto,
Paideia Mimesis, cit.). Per approfondire questo concetto si rimanda al secondo capitolo. 57
«[…] l‟essere corpo è per l‟uomo la condizione del suo inserimento nel mondo e della
sua possibilità di rapportarsi agli altri.» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra
medicina e estetica, cit., p.25). «Il corso […] è sensibile per sé […] è sensibile esemplare,
che offre a chi l‟abita e lo sente quanto occorre per sentire tutto ciò che all‟esterno gli
somiglia, cosicché, preso nel tessuto delle cose, egli lo trae tutto a sé, lo incorpora e, con
lo stesso movimento, comunica le cose sulle quali egli si chiude quella identità senza
sovrapposizione, quella differenza senza contraddizione, quello scarto dell‟interno e
dell‟esterno che costituiscono il suo segreto natale [corsivo mio]». (Merleau-Ponty,
Maurice, Il visibile e l’invisibile, cit, p. 152). 58
«[...] la scelta è un che di volontario, ma non è identica al volontario […] ancor meno la
scelta è impulso […] non è nemmeno volere [perché] il volere è soprattutto relativo al
fine, mentre la scelta è di ciò che porta la fine; per esempio: vogliamo essere sani, e
scegliamo le cose per mezzo delle quali saremo sani […]» (Aristotele, Etica Nicomachea,
cit., 1111b, 5-27). Il che significa che per diventare buoni non basta volerlo, ma si deve
scegliere, ossia agire attraverso azioni che portano al fine. 59
Come afferma Aristotele a 1112a, 15 «la scelta è unita a ragionamento e pensiero»; ma
non deliberiamo su tutto. Infatti come le scelte riguardano ciò che porta ai fini, così anche
i ragionamenti deliberano sui mezzi (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1112b, 13)
che dipendono da noi e possono essere realizzati (cfr. Ivi, 1112a, 31). Infatti «poiché
oggetto della scelta è, tra quanto dipende da noi, quello che è deliberato e desiderato,
anche la scelta viene a essere un desiderio deliberato di ciò che dipende da noi: infatti
giudicando a partire dalla deliberazione, proviamo desiderio secondo la deliberazione»
(Ivi, 1113a, 10-14).
20
desiderio60
interiore che è attratto da un fine esteriore. Ma da dove
nasce questo desiderio? Tutti lo provano? E soprattutto: a cosa
corrisponde fenomenologicamente questo telos?
Per rispondere a queste domande è necessario seguire l‟ordine di
pensiero di Aristotele il quale, dopo esser partito dalla premessa che
ogni azione tende a un fine, e che per tale motivo la politica deve
occuparsi dell‟agire – in quanto è la scienza per eccellenza per
scegliere i beni da seguire – si avvicina alla risposta proseguendo a
spiegare che ogni atto tende a un bene pratico61
.
Pratico perché è un bene reale, che per viverlo deve essere agito; un
bene perfetto e autosufficiente in quanto «è sempre scelto per sé e mai
a causa di altro»62
e viene sì perseguito per se stesso, ma da esso
dipendono tutti gli altri fini a cui tendono le nostre azioni. Un bene,
quindi, unico, che racchiude in sé ogni nostra deliberazione, scelta,
azione e che viene percepito e raggiunto proprio tramite l‟azione63
.
60
Un desiderio che «[…] non equivale a dare spazio alla spontaneità delle emozioni o
all‟esercizio di una libertà autoreferenziale, che risponde solo di fronte a essa, quanto
piuttosto alla tensione vero un oltre posto fuori di me, che mi appare meritevole
d‟impegno» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo, cit., p.12). Cfr. Ricoeur, Paul, La
semantica dell’azione, cit., p.73 61
«Diciamo, ricominciando da capo, e dato che ogni conoscenza e scelta tende a un
qualche tipo di bene, qual è quel bene che noi sosteniamo essere ciò che la politica
persegue, cioè qual è il bene pratico più alto.». (Aristotele, Op.cit., 1095 a, 13). Questo è
l‟obiettivo principale di tale discorso: capire quale sia il bene pratico (agevole) che merita
più valore e più interesse da parte dell‟uomo, affinché impegni la sua azione a
raggiungere tale bene. 62
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1097a, 35. 63
È per questo suo legame intrinseco con l‟agire che questo “sommo bene” non è
seguibile solo dai politici, ma anche da tutti i cittadini, in quanto ognuno può agire, e in
particolare, può agire in una maniera tale da vivere bene. Soprattutto perché, come riflette
Ricoeur, Aristotele ha creato la condizione – e un principio per la filosofia morale – per
cui ogni nostro bene dipende dall‟azione dell‟uomo. È dall‟individuo stesso che deriva
infatti il bene, perché esso è racchiuso nell‟azione umana. (cfr.
http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=327).
21
Un bene universale, vivibile da ogni individuo, che Aristotele
individua non a caso nella felicità, intesa come “sommo bene”64
che
l‟uomo può vivere solo agendo, perché l‟eudaimonia è di preciso un
«un certo modo di vivere bene e agire bene»65
.
Certo – nel senso di particolare – in quanto è un agire caratterizzato
non solo dal bene, ma anche dal bello66
, ed è per questo che più avanti
Aristotele definisce la felicità come «attività dell‟anima secondo
virtù»67
. Perché sapendo che per virtù68
si intende proprio una
“perfezione abituale”69
che plasma l‟agire dell‟uomo dandogli una
forma perfetta, ci fa cogliere che l‟anima non agisce solo bene, ma
anche con bellezza. Ci fa intendere, cioè, che l‟uomo virtuoso è il
modello a cui tutti i cittadini dovrebbero aspirare non perché agisce al
migliore dei modi, ma perché segue i principi dell‟est-etica. Segue
ovvero la volontà di vivere interiormente – e quindi agire – per il bene
e per il bello: due qualità che compongono l’eudamonia e che ci
64
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1097b, 23. 65
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1098 b, 22. 66
Questo perché «[…] quelli che agiscono correttamente risultano essere vincitori delle
cose belle e buone nella vita.» (Ivi, 1099 a, 5) Non si costruiscono, cioè, solo una vita
buona, eticamente giusta, ma anche bella! E per tale intensificazione estetica «Il loro
modo di vivere è inoltre piacevole di per sé» (Ibidem) perché vivono una vita che trova
beltà non al di fuori, ma in se stessa. E questo appagamento autotelico vissuto dall‟uomo
agente, genera un piacere profondo – intimo – che vive non solo il corpo, ma l‟anima
stessa, perché «il provare piacere è cosa che avviene nell‟anima, e per ciascuno è
piacevole quello di cui lo si dice “appassionato”[…].»(Ivi, 1099 a, 10). Appassionato
perché corrisponde alla natura dell‟anima e del corpo, e risponde al bisogno dello spirito
umano di vivere e percepire in sé, e fuori da sé, la sua natura segreta (Cfr. Merleau-
Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p.152). 67
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1099b, 26. 68
Ci sono due tipi di virtù: intellettuali (dianoetiche) e morali (etiche). Quelle dianoetiche
(da dianoia che significa intelligenza) sono le virtù del pensiero, ergo, della parte
razionale dell‟anima (cfr. Aristotele, De Anima, tr. di G. Movia, Bompiani, Bologna,
2001, 432a-b) in cui il logos coincide con l‟intelletto (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea,
libro VI). Le virtù morali, invece, solo quelle pratiche, dell‟agire, che fanno parte della
parte irrazionale desiderativa dell‟anima, quindi quella che riflette il logos (cfr. Aristotele,
Etica Nicomachea, libro IV). 69
http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php
22
portano quindi a intendere ogni azione etica come un‟azione perfetta,
in quanto conduce l‟individuo ad agire per il bene e per il piacere –
ossia per la felicità.
Vivere felici significa allora agire est-eticamente; significa vivere
desiderando70
e scegliendo quel bene che permette di rendere
meritevole l‟azione – ossia la vita – come prodotto dell‟«attività
dell‟anima e agire razionale [dell‟uomo] secondo virtù»71
. Altresì,
significa dare responsabilità all‟uomo della sua felicità, perché se
questa consiste in un modo di vivere e agire non per un singolo
giorno, ma per l‟intero arco della vita, all‟uomo stesso è assegnata la
responsabilità del suo raggiungimento.
Dipende allora dall‟agire umano la sua felicità; dal modo di vivere che
non è più ristretto in un‟idea trascendentale o in un traguardo da
conseguire, ma in un percorso da attuare e da perfezionare
virtuosamente giorno per giorno.
1.2 Agire con virtù
Non ci addentriamo ora, però, nella riflessione di come vivere una vita
perfetta, perché è su un concetto che è necessario soffermare la nostra
attenzione educativa: ossia la modalità attraverso cui si possono
accogliere ed esercitare le virtù72
, quelle “eccellenze” che possono
70
Si veda in riferimento al desiderio, il paragrafo 1.3 71
Aristotele, Etica Nicomachea, 1098 a, 15. 72
«[…] ogni virtù si genera e si distrugge a partire e per mezzo delle stesse cose, […]
infatti derivano buoni costruttori a partire dal ben costruire, e cattivi dal costruire male»
(Aristotele, Etica Nicomachea, 1103b, 7-11). Le virtù quindi si generano dalle azioni
stesse: atti che tendono a un preciso bene.
23
perfezionare l‟azione ed elevare, così, colui che le attua. Stiamo
parlando dell‟habitus73
intesa come la disposizione, la postura che
accompagna l‟uomo nell‟azione e che va educata ad agire bene.
Un‟abitudine che necessita di fare esperienza per diventare una
consuetudine, un abito – inteso proprio come rivestimento – che deve
essere fatto proprio come carne, perché solo attraverso questa
incorporazione (che viene plasmata dalla pratica continua di
determinate azioni74
) è possibile che l‟uomo possa assorbire una virtù.
Possa, cioè, diventare nell‟anima quell‟eccellenza che gli consente di
agire bene e bello per essere felice, in quanto «[…]gli stati abituali
derivano dall‟agire in ogni caso particolare: se uno compie, non per
ignoranza, cose che lo fanno diventare ingiusto, verrà a essere ingiusto
volontariamente.»75
È assegnato quindi all‟uomo un‟enorme responsabilità perché anche
se non siamo padroni di «ciò che si aggiunge in ogni singolo caso» 76
,
in quanto non possiamo controllare le mutevoli realtà che ci
73
«[…] gli stati abituali derivano da attività dello stesso tipo. È per questo che si devono
esprimere azioni di una certa qualità, poiché i nostri stati abituali sono diretta
conseguenza delle loro differenze. Non è quindi una differenza da poco, se fin dalla
nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro […]». (Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1103 b, 20-25). È facile capire quanto questa ultima affermazione sia
decisiva per la pedagogia in quanto Aristotele, forse non molto consapevole di questo
significato, assegna all‟educazione il compito di abituare l‟uomo ad azioni di qualità,
ossia ad azioni buone e belle che, compiendole, permettono di formare uomini buoni. «Se
non fosse così, non si avrebbe bisogno per nulla di un maestro, ma tutti si generebbero o
buoni o cattivi». (Aristotele, Ivi, 1103b, 12-13). «se ci sono più stati dell‟anima che non
sono necessariamente virtuosi (per esempio, la disposizione a distrarsi durante le
lezioni), bisognerà specificare lo stato virtuoso. Poiché l’exis virtuosa si ottiene a partire
dall‟esercizio della virtù, la virtù è determinata dalle azioni (vedi EN II, 2, 1103b30-31,
da comparare con 1103a30-32). Per fare un esempio, io acquisisco la virtù del coraggio
attraverso azioni coraggiose. Dopo più azioni coraggiose, divento coraggioso, acquisendo
così lo stato del coraggio.» (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf
p. 31). 74
«[…] le attività compiute di volta in volta li rendono tali.» (Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1114a, 7). 75
Ivi, 1114a, 9-12. 76
Ivi, 1115a, 1-3.
24
circondano e in cui siamo sotto la loro influenza77
, «[…] dipende da
noi farne uso o no»78
di tali stati abituali, perché è dalle nostre azioni
che essi si generano; e da essi dipendono l‟esercitazione di
determinate virtù.79
La virtù viene così a configurarsi come «uno stato abituale che
produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato
razionalmente»80
. Il che significa che la virtù, intesa come perfezione
77
Questa passività (cfr. Ricoeur, Paul, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1994,
p.432) è data non da una disposizione di carattere dell‟uomo, ma dalla sua sostanza
corporea. Perché è essa che ci permette di conoscere il mondo (cfr. Merleau-Ponty,
Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.195) ma nello stesso tempo ci
condiziona l‟esperienza. «Senza corpo non potremmo abitare il mondo, esprimerci e
comunicare, ma questo corpo connota il nostro agire in una certa direzione: siamo nati
con determinate caratteristiche fisiche e temperamentali e siamo collocati in una
situazione corporea già definita […]». (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo, cit., p.19).
Il nostro corpo “abita lo spazio e il tempo” (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia
della percezione, cit., p. 194), perché «è ciò che mi apre al mondo e mi mette in
situazione» (Ivi, p. 232) e di conseguenza aderisce ai suoi mutamenti. 78
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1115a 1-3. 79
Lampante è l‟esempio della saggezza, in cui capiamo che non basta conoscere le
usanze di tale virtù per essere saggio, ma bisogna agirle! Perché è diventando l’habitus
che si diventa la virtù. E questo è possibile solo agendo; praticando, cioè, tale
disposizione. Infatti «Se è vero che la saggezza riguarda ciò che è giusto, nobile e buono
per una persona, e tali sono le azioni che a un uomo dabbene spetta di compiere, non
diverremo per nulla più capaci di agire per il fatto di conoscere tali cose, se è vero che le
virtù sono stati abituali […]» (Aristotele, Etica Nicomachea, cit, 1143b, 21-25). 80
(Ivi, 1107 a). Per “razionalmente” si intende «[…] come verrebbe a determinarlo
l‟uomo saggio» (Ivi) in quanto, per Aristotele, l‟uomo saggio è colui che sa usare la
phronesis (cfr. http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php), ossia
colui che agisce secondo intelletto e virtù; perché non basta conoscere la virtù, non basta
avere la ragione. Bisogna agire per essere! Infatti, come sintetizza magnificamente a
1114b, 26 le virtù sono «medietà [e] stati abituali, che di per sé sono produttrici di quelle
stesse azioni da cui derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che sono così,
come prescrive la retta ragione.».
L‟uomo saggio, il phrónimos quindi, è colui che sa riconoscere «il suo gusto, il suo tatto
morale che gli permette in una data situazione di riconoscere in che senso si può agire
bene o male.» (http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php). È,
ovvero, colui che quotidianamente agisce con e per il giusto mezzo perché egli sarà una
«persona equilibrata [che è giunto] ad uno sviluppo corretto delle sue capacità di provare
emozioni e passioni. Tale sviluppo consiste [però] nell‟acquisire uno stato (cioè una
disposizione durevole) a provare passioni sempre uguali per oggetti simili, in modo tale
da giungere ad agire in modo coerente. Quando l’exis è buona, si identifica con la
capacità ad allontanarsi dagli eccessi e dai difetti, che distruggono il benessere sia del
corpo che dello spirito, e nella capacità di restare in uno stato medio di emozioni e
25
dell‟azione – in quanto tende al bene e al bello81
– è indicata dal logos
che, tendo a ricordare, esprime l‟essere – la parola – del soggetto. Ma
ovviamente, in questo caso, per logos82
si intende la ragione, perché è
essa a essere regolata dal nous, la parte dell‟uomo che più lo distingue
dagli altri animali, e più lo caratterizza a vivere una vita perfetta.83
La virtù – azione perfetta in quanto tende a un fine intrinseco e
autosufficiente – viene quindi scelta dall‟intelletto che individua il
giusto mezzo attraverso cui raggiungerla, e viene assorbita
nell‟intimità dell‟uomo divenendo, di conseguenza, la disposizione
necessaria per poter poi agire nello stesso modo da lei predisposto.
1.3 L’uomo agente
Definire però che le virtù sono habitus che l‟uomo acquisisce
agendole, ci porta ad affrontare un concetto che troviamo ancora più
avanti, nel VI libro. Un passo in cui Aristotele dà, a mio parere, una
delle definizioni più emozionanti e inattese dell‟uomo, in quanto,
passioni. Cfr. EN, II 2, 1104a11-26». (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-
Arist%20EN.pdf, p. 35). 81
E tendendo a un fine fa sì che l‟azione diventi piacevole per se stessa, perché tutte le
virtù sono piacevoli «nella misura in cui pervengono al loro fine». (Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1117b, 15). 82
Non a caso scrive Schopenhaure: «il linguaggio è la prima creazione e lo strumento
necessario della ragione; così, in greco e in italiano, linguaggio e ragione sono due
concetti espressi da un‟unica parola: o logos discorso».(Schopenhaure, Il mondo come
volontà e rappresentazione, cit., p..74, in Bastianelli, Marco, Oltre i limiti del linguaggio:
il Kantismo nel Tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2008, p.18 ) 83
Perché «se si ritiene che l‟attività dell‟intelletto, che è teoretica, spicchi per eccellenza,
non persegua alcun fine al di là di se stessa, possieda un suo proprio piacere completo, il
quale intensifica l‟attività, e abbia anche la caratteristica dell‟autosufficienza […], per
quanto si addice agli esseri umani, e tutte le altre caratteristiche che si attribuiscono
all‟uomo beato e che chiaramente dipendono da tale attività, allora quest‟ultima verrà a
essere la felicità umana completa, quando copra lo spazio di un‟intera vita.» (Aristotele,
Etica Nicomachea, cit., 1177b, 19-25).
26
proprio mentre introduce le virtù dianoetiche, apre una breve parentesi
riguardo gli elementi che compongono l‟anima e dispongono le
condizioni per determinare un‟azione autentica84
. Un agire che
coinvolge l‟integrità dell‟uomo in quanto richiede la partecipazione
sia della scelta che del desiderio85
. Infatti a 1139b, Aristotele afferma
che «di per sé il pensiero non muove nulla, ma lo fa il pensiero che
tende a qualcosa», cioè una razionalità che non pensa solamente, ma
desidera. E proprio per questo, poco più avanti, arriviamo allo
svelamento di una nozione estremamente pedagogica, in quanto
sostiene che «la scelta è pensiero desiderante o desiderio pensante e
l’uomo è questo principio [corsivo mio]»86
. Una frase complessa e
concisa che necessita la calma di uno sguardo ermeneutico per
sciogliere – quasi a districare – l‟essenza di questo pensiero.
Questo poiché in esso troviamo racchiuso un concetto che non si
manifesta in una limpida forma palpabile, ma rispecchia un‟idea così
intensa e latente che richiede l‟attenzione e la riflessione di questa
ricerca. Una nozione che ci definisce la modalità attraverso cui si può
avverare uno dei movimenti più delicati e preziosi dell‟uomo, ossia
l‟umanizzazione. Il dinamismo che, mediante questo principio
aristotelico, comprendiamo essere immobile – inespressivo – se non
promuove l‟attuarsi del pensiero nel desiderio87
; ovvero, se non
84
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1139a, 18-19. 85
Cfr. Ivi, 1139a, 32-35. 86
Ivi, 1139b, 4-6. 87
È necessario qui ricordare come Aristotele intenda l‟anima. Secondo tale autore,
l‟uomo ha tre anime: una puramente sensibile, comune a tutti gli esseri animali; una
razionale, che corrisponde quindi alla ragione; l‟ultima irrazionale, ossia l‟anima
desiderativa (cfr. Aristotele, De anima, cit., 432a-b). Per Aristotele, quindi, il desiderio fa
parte ontologicamente dell‟anima umana «[…] anzi, è un elemento indispensabile
dell‟anima umana, perché esso produce la capacità di muovere il corpo, cosa che la
ragione non fa, almeno essenzialmente.» (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-
Arist%20EN.pdf, p. 35). Ci stiamo avvicinando a un concetto che ne La Repubblica
27
sostiene l‟entità umana come unione di ragione e passione. Per questo
è decisiva la consapevolezza – e cura – dell‟esistenza dell‟anima nel
proprio corpo88
, perché se esso resta inabitato, non solo si espone
l‟uomo al pericolo di agire senza pensiero, ma di restare muto, senza
espressione!
Collocare quindi l‟essenza dell‟uomo in questo principio, significa
affermare che ogni sua azione – ossia ogni sua scelta deliberata89
–
non sia semplicemente la rappresentazione della ragione e del
desiderio, ma l’espressione viva dell‟uomo. Implica cioè svelare
l‟uomo come sintesi dell‟attuarsi dell‟anima desiderante nel corpo,
perché attraverso il suo agire l‟uomo esprime il proprio desiderio. Per
questo possiamo sostenere che nell‟azione, l‟essere umano dà forma –
vita! – a quell‟interiorità che Pirandello definisce punto vivo90
, e che
Platone rivela come dinamismo tipicamente umano (cfr. Aristotele, Poetica, Laterza,
Bari, 2009, 1448b, 5-7, p.7), un‟energia che l‟autore individua nella mimesis. Un
movimento coinvolto nell‟ascolto della poesia ateniese, ma intrinsecamente presente
nell‟azione pedagogica e vita quotidiana. Per approfondire tale dinamismo in chiave
educativa si veda Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit e cfr. secondo capitolo.
«Aristotele [però] non prende l‟atteggiamento platonico (né quello che sarà stoico) di
ritenere che le passioni costituiscano il male morale. Piuttosto, egli crede che le passioni
costituiscano delle reazioni naturali (cioè, psicologicamente spontanee) all‟ambiente
circostante, cioè alle situazioni proposte dalla rete dei rapporti interpersonali e sociali. Si
tratta delle reazioni dell‟orexis, della parte desiderativa dell‟anima, cioè della funzione
psichica non razionale, che però non è negativa, piuttosto moralmente neutra.»
(http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf, p. 45) 88
«Il mio corpo è il luogo, o meglio l‟attualità stessa del fenomeno d‟espressione»
(Mereleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit, p.314). Come è infatti
riscontrabile nel metodo educativo montessoriano, il corpo è organo sensibile del
soggetto che dall‟ambiente viene stimolato a muoversi. Movimento che non consiste in
una reazione meccanica di stimolo-risposta, ma nell‟intenzionalità dello spirito di
evolversi, di vivere. (cfr. Montessori, Maria, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano,
2012, p. 104). 89
Per intendere l‟accostamento di queste parole, si rimanda alle note n. 58 e 59. 90
Merita qui aprire una parentesi che ci permetta di chiarire un concetto che è stato
coniugato in chiave educativa da Gilberto Scaramuzzo, in “In-intendere. L‟umana sophia
di Luigi Pirandello” e che adotto come uno dei punti cardine della mia ricerca. Mi
riferisco al punto vivo (definito così da Pirandello in Non parlo di me), inteso come un
sentire unico, personale in ogni individuo, che si plasma in forma umana come una
parola segreta, il «frutto dell‟impatto del proprio sentire soggettivo con tutte le cose della
28
io preferirei qualificare espressamente come parola segreta91
:
quell‟entità che ognuno di noi possiede invisibile nell‟intimità, e si
necessita esprimere, attuare.
Nell‟agire umano si fondano quindi quei due principi platonici –
l‟aloghistòn e loghistikòn92
– che nell‟essere stesso dialogano – si in-
vita attorno nell‟intimità del mistero» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.85). «Il
senso segreto che le cose hanno per lui, il loro fuoco abbagliante o l‟abisso di tenebra che
portano in sé [sono] il punto vivo. [...] il primo linguaggio creativo, il primo frutto
dell‟amore verso la vita, amore disinteressato, attività pura dello spirito che concentra
tutte le sue facoltà, volontà, sentimento, intelletto e fantasia nell‟esprimersi, solo per il
bisogno di farlo e per null‟altro». (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p. 1474). Una
segreta parola che «ci ha condotti a “vedere” la vita proprio secondo il senso che ne
abbiamo, che ne avemmo alle origini e che abbiamo salvato, e “vedere” non
passivamente, non come uno che contempla da lontano, ma come uno che può toccare ciò
che vede e non sa bene se tocca perché vede o non piuttosto le cose si facciano al suo
tocco quali egli le vede, e il suo tocco non è che una parola, una parola sua, del suo
linguaggio». (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, in Saggi e interventi, Mondadori,
Milano, 2006, p. 1478). 91
«[…]quella che agli inizi della vita cii consente di cogliere e di esprimere il senso
segreto che le cose hanno per noi, per ciascuno di noi, e contattare così, attraverso di essa,
il senso del misteri che pervade il creato, che è quello stesso della vita, e che già cogliamo
in noi, e verso il quale nascendo siamo orientati.» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit.,
pp.149-150) 92
Questi termini sono ripresi da La Repubblica di Platone, e precisamente nel VII libro:
capitolo in cui l‟autore scrive la condizione dell‟uomo educato e non, attraverso
l‟allegoria del Mito della Caverna. Allegorico in quanto l‟intero scenario e azioni del
racconto rimandano a un significato metaforico. Come infatti possiamo vedere dalle
descrizione della caverna scopriamo che il buio, le catene e le ombre, altro non sono che
la rappresentazione metaforica dell‟ignoranza – ossia l‟a-paudeusia –; mentre il
movimento di voltarsi verso la luce, di alzarsi e uscire dalla caverna per guardare la realtà
illuminata da sole, simboleggiano i movimenti educativi – quindi l‟intervento paideutico
–. Altresì, la luce irradiata dal sole rappresenta l‟aletheia, perché la visione del sole/bene
permetterà all‟uomo di divenire un essere educato, ovvero un individuo consapevole
dell‟intreccio relazionale che unisce ogni singola realtà al bene.
Un‟allegoria pedagogica che mi scuso per essermi dilungata a descrivere, ma essendo uno
dei passi più noti della filosofia dell‟educazione, era necessario ricordarla perché solo da
qui è possibile inquadrare il significato dei due termini sopra enunciati. Poiché arrivati al
passo di 518b, Platone spiega un movimento decisivo che permette al prigioniero – non
educato – di guardare la realtà illuminata dal sole. Egli, infatti, dichiara che «[…] il
discorso fatto fin qui ci dimostra che questo potere che c‟è nell‟anima di ciascuno e il
[relativo] organo con cui ciascuno apprende ‹conosce› debbono volgersi insieme con tutta
l‟anima dal divenire, finché diventino capaci di sopportare la vista dell‟essere e della
parte più splendente dell‟essere. ‹sic› che noi chiamiamo il bene, - così come se l’occhio
non fosse capace di girarsi dalle tenebre alla luce altrimenti che insieme con tutto il
corpo [corsivo aggiunto]». (Traduzione riportata in Paideia Mimesis, cit., p. 87). Cosa
intende? Innanzitutto che l‟anima è composta da due parti: una dall‟occhio (che sarebbe
29
contrano – e manifestano l‟essenza del soggetto. Danno voce e corpo
alla parola segreta, al sentire tipicamente individuale e strettamente
relazionale. Individuale, in quanto è custodito nell‟intimità più
profonda di ciascuno; e relazionale, perché ha il bisogno connaturale
di esprimersi, e questo è possibile solo grazie alla presenza di un altro
che lo ascolta e lo accoglie.
Aristotele ci tramanda quindi una definizione di uomo decisamente
contemporanea perché rivela la sua essenza astorica – in quanto
rimanda alla sua infinitudine spirituale – e la sua esistenza temporale –
in quanto è intrinsecamente legata al corpo. E soprattutto ci trasmette
la concezione di un‟entità umana complessa, perché è l‟unione reale
del desiderio – intesa come la parte sensibile e fragile dell‟uomo – e
del pensiero – corrispondente alla ragione razionale.
1.4 L’esistenza esiste nell’azione
In questo modo ci si avvicina sempre più a uno dei passi più
affascinanti e inaspettati dell‟Etica Nicomachea, in quanto, inserito
la parte razionale, e in greco si traduce per l'appunto loghistikòn) e l‟altra dal corpo (la
parte a-razionale – in greco: alòghiston). Ma soprattutto ci rivela un concetto che ha
grande spessore nell‟azione educativa: ossia che il movimento di apprendimento è
attuabile solo coinvolgendo la totalità dell‟anima. Anima che abbiamo appena definito
formata non solo da una parte razionale, ma anche da un‟altra irrazionale, e come
quest‟ultima sia fondamentale per realizzare un vero coinvolgimento dell‟essere nella
conoscenza. Perché se «l‟alòghiston non si direziona all‟oggetto che si vuole presentare al
loghistikòn, non abbiamo il volgersi con tutta l’anima e non abbiamo azione paideutica».
(Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit., p. 92). Diviene allora predominante nella
ideazione di un progetto educativo individuare le strategie didattiche ed educative per
«costringere la parte a-razionale dell‟anima (l‟alòghiston) al voltarsi, cioè come
provocarla, affinché si giri e si direzioni liberamente verso il vero oggetto del vedere del
loghistikòn, ovvero come far giungere al sentire in sé la necessità del direzionarsi in
pienezza verso l‟essere: a volerlo, cioè, realizzare, questo muoversi verso, tanto da
sceglierlo per sé». (Ivi, p. 93).
30
nel IX capitolo dove Aristotele riflette sull‟amicizia – intesa come una
delle forme più alte di vita sociale93
–, all‟improvviso si giunge a una
conclusione stupefacente per la pedagogia dell‟espressione. Mi sto
riferendo al passo 1168a 5-10, quando l‟autore passa dall‟analisi
sull‟amicizia all‟amore per la vita.. una vita intesa, però, come
esistenza.
«Causa di ciò è il fatto che per tutti l‟esistere è preferito e amato, e noi
esistiamo in atto, dato che esistiamo per il fatto di vivere e agire, ma,
in atto, l‟opera è in qualche modo identica al produttore, e quindi egli
ama la sua opera perché ama la sua stessa esistenza. Questo è naturale,
dato che, in atto, l‟opera esprime ciò che noi siamo in potenza»94
.
Un susseguirsi di parole che necessitano un attimo di silenzio – di
distacco95
– per poter guardare da lontano la meraviglia di così tale
passaggio in quanto, in poche righe, Aristotele costruisce una
definizione della vita umana che per noi pedagogisti è estremamente
rivoluzionaria. Questo perché siamo difronte a un principio che non è
solo cardine, ma fondamenta di un‟educazione socraticamente
93
Questo è dovuto al fatto che «nel bisogno degli altri, messo in rilievo dall‟amicizia, si
manifesta nel modo più elevato che l‟uomo è un “animale politico”» (Malo, Antonio, Il
senso antropologico dell’azione: paradigmi e progetti, Armando, Roma, 2004, p.32). Si
manifesta, ovvero, il bisogno ontologico e primordiale dell‟uomo di relazionarsi al tu,
perché è grazie al riconoscimento di questo soggetto che l‟Io si percepisce – ossia si vive!
– (cfr. Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p. 56). 94
[il corsivo è mio]. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10. 95
È importante che la prossimità necessaria per incontrare – accogliere – le parole
dell‟altro non si trasformi in invadenza, in quanto «proprio ciò che avvicina di più ha
bisogno di discrezione, di una giusta gestione della prossimità, che messa a nudo rischia
di essere distrutta. La discrezione preserva la distanza nella prossimità, fa sì che la
prossimità non degeneri in possesso […]» (Oliva, Mirela, Op. cit., p. 93). Infatti lo stesso
Merleau-Ponty specifica come nell‟incontro con un‟opera d‟arte, ossia nell‟incontro
estetico – la relazione a cui tende educare la pedagogia dell‟espressione – sia necessario
vedere l‟oggetto percepito come un “avere a distanza” (Merleau-Ponty, L’occhio e lo
spirito, SE, Milano, 1989, p.23), perché solo in questo modo è possibile vedere e vivere
l‟altro nella sua essenza più vera.
31
maiuetica96
, ossia di una bildung97
che intende partorire la potenza di
ciascun individuo in atto. E questo è possibile avendo come guida
dell‟intervento educativo proprio la precedente affermazione
aristotelica. Una definizione che permette di raccogliere e cogliere
l‟essenza dell‟uomo nella sua espressione: un vissuto che prende vita
– esiste! – ontologicamente solo in atto. Un agire creativo che non va
inteso semplicemente come prodotto artistico, ma proprio come
manifestazione – l‟esperire – del punto vivo98
. Di quella parola
segreta che ha bisogno di gridare, di parlare99
, di prendere vita nella
voce e nel corpo. Di quel sentire propriamente connaturale umano che
necessita di esistere nel mondo visibile. Un vivere che ora, grazie alle
parole di Aristotele, possiamo definire un agire; un esperire della
propria anima, secondo logos, nel corpo.
Stiamo quindi definendo che l‟uomo, per agire davvero pienamente,
necessita di un coinvolgimento del proprio pensiero e delle proprie
sensazioni100
perché attraverso questa postura101
, non si permette all‟io
96
Questa definizione deriva dal greco maieutiké che significa "arte della levatrice", una
tèchne che nel Teeteto (cfr. Platone, Teeteto, tr. di M. Valgimigli, Laterza, Bari, 2006,
149a) viene paragonata da Socrate all‟arte della dialettica, disciplina capace di dar vita –
come l‟ostetrica – all‟intimità dell‟allievo. 97
Cfr. nota n. 12. 98
Cfr. nota n. 90. 99
Dico “bisogno” perché purtroppo nella vita attuale questa parola segreta rischia spesso
di restare muta, soffocata dalle voci degli altri, tanto da provocare un dolore immenso
nell‟uomo: la frustrazione di non essere sentito, di non vivere, di non esprimersi proprio
come il proprio sentire vorrebbe. Esempio percettivamente cruente, infatti, è
l‟invocazione che grida Qualcuno (indicato nel testo con tre ***) al figlio: «Spaccami
dietro, e allogami nello stomaco il grammofono. Così parlo. E voi tutti mi state a sentire».
(Pirandello, Luigi, Quando si è qualcuno, Mondadori, Milano, 2005, p. 58). 100
«[…] il vivere […] per gli uomini è definito dalla capacità di avere sensazioni e
pensiero; la capacità si riporta all‟atto, e l‟elemento principale consiste nell‟atto: sembra
quindi che vivere sia principalmente percepire o pensare». (Aristotele, Etica Nicomachea,
cit., 1170 a, 16-20). L‟esserci dell‟uomo è quindi la possibilità di percepirsi e di pensare;
«[…] ma se il percepire di vivere è cosa piacevole di sé – dato che la vita è un bene
naturale ed è piacevole percepire che possediamo in noi stessi il bene – [è chiaro capire
quanto] per i buoni […] l‟esserci è bene per loro, e anche piacevole, dato che godono del
32
solo di manifestarsi – di rilevarsi – ma di viversi! E vivere
rispondendo alla propria natura più intrinseca vien da sé capire quanto
possa essere piacevole102
.
1.4.1 L‟intensificazione del vivere
Si necessita allora qui una breve parentesi che indaghi il legame e
l‟influenza del piacere103
sulle attività. Aristotele nel decimo (e non a
caso ultimo) capitolo si sofferma infatti a riflettere sul piacere inteso
come forma «compiuta in sé e perfetta»104
perché esso si genera in
ogni sensazione105
, e «[…] perfeziona l‟atto, non come uno stato
abituale immanente, ma come una perfezione sopraggiungente
[…]»106
. Affermazione che porta a ritenere il piacere non come una
forma esterna.. ma una caratteristica congenita dell‟agire107
, perché
ogni tipo di attività ha in sé un tipo di piacere che differisce a seconda
fatto di percepire insieme il bene in sé […]». (Ivi, 1170b, 1-5). Vien da sé pensare che la
vita perfetta sia allora di coloro che agiscono bene, perché in questo modo possono
percepirsi come coloro che hanno in sé il bene. Per questo ritengo questa opera una delle
più eccezionali apologie sul vivere. Un vivere vero, giusto, pensante.. piacevole. Una vita
che può giungere alla perfezione se potrà percepire non solo il bene in sé stessi, ma anche
nell‟ «[…]esistenza dell‟amico; ciò potrà verificarsi per mezzo della vita in comune, e
della comunità di ragionamenti e pensiero.». (Ivi, 1170b, 11-13). 101
Utilizzo il termine postura per specificare la corporeità del dinamismo che coinvolge
l‟attuarsi dell‟io. Un‟attività che, come abbiamo detto, richiede la complicità del pensiero
con le sensazioni, in quanto l‟io stesso per esistere necessita della presenza del corpo (cfr.
Merleau-Ponty, Maurice, La Fenomenologia della percezione, cit., p.232). 102
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1099 a, 5-10. 103
«[…] il piacere [è] profondamente connaturato alla stirpe umana […]». (Ivi, 1172 a,
19). 104
Ivi, 1174 b, 8. 105
«Ogni sensazione è in atto in relazione all‟oggetto sensibile, e lo è in modo perfetto
quella che si trova nella condizione migliore in rapporto con il più bello degli
oggetti[…]». (Ivi, 1174b, 15-18). 106
Ivi, 1174b, 33-34. 107
Cfr. Ivi, 1175b, 32.
33
della sua specie108
. Ma l‟assunto più considerevole (e significativo
educativamente) è che «i piaceri provocano un intensificazione e ciò
che provoca un‟intensificazione è qualcosa di appropriato […]»109
.
Appropriato nel senso che è giusto – è doveroso – che il piacere che
sopraggiunge dall‟attuarsi di un‟azione etica – ossia virtuosa110
–
provochi un’elevazione dell‟azione che le permetta di assumere
l‟aggettivo “perfetta”. Perfetta perché oltre a essere realizzata per il
bene, tende anche al bello, ed è questa l‟unione che procura piacere.
Come infatti procede più avanti, Aristotele ribadisce che «per ogni
attività c‟è un piacere a lei proprio»111
al fine di sottolineare quanto sia
appagante per l‟uomo vivere un‟azione non solo buona e bella, ma
fedele alla natura che le è propria. Che voglio dire? Che agire secondo
la propria natura – ossia conformarsi all‟intenzionalità dell‟anima –
genera in sé un piacere così alto che rende perfetto quell‟atto112
.
Affermazione che giustamente ha un notevole spessore nella
riflessione pedagogica perché ci permette di definire che ogni azione
che corrisponde all‟attuazione espressiva dell‟intimità, è un‟azione
estetica. Il che significa, in parole più pirandelliane, che dar vita al
proprio punto vivo, ossia permettergli di aver voce e corpo e
manifestarsi nel mondo dell‟alterità così come lui stesso si vuole113
,
consiste vivere esteticamente. Un vivere che coinvolge ogni fibra più
108
Cfr. Ivi, 1175 a, 22. 109
Ivi, 1175 a, 36-37 [il corsivo è mio] 110
E qui ricordo: svolta dall‟anima attraverso il logos. (cfr. Ivi, 1107 a) 111
Ivi, 1175b, 27 112
«[…] ciò che a ciascuno è appropriato per natura è per lui la cosa più importante e
piacevole, e quindi per l‟uomo lo è la vita secondo l‟intelletto, dato che questo è
principalmente l‟uomo. E questa vita sarà, per conseguenza, la più felice.». (Ivi, 1178 a,
5-8). 113
Si tratta di arrivare a volere «l‟altro in noi con la forma che ha in sé come questa per se
stessa in noi si vuole» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.116).
34
intima del proprio essere e che attua attraverso l‟esistenza stessa,
l‟espressione dello spirito114
. Un agire che rende felici.
1.5 Educare all’azione
Esistere – agire! – così pienamente è possibile però solo se cerchiamo
di vivere attraverso la parte migliore115
che è in noi (ossia vivere
secondo il proprio io). È per questo che alla fine di questo capitolo
Aristotele fa corrispondere il vivere ad agire bene116
. Un
comandamento di vita che nella seguente ricerca si configura come un
un principio, un dovere che l‟intervento educativo dovrebbe attuare in
primis, e non solo promuovere. Questo perché la pedagogia, essendo
una disciplina essenzialmente pratica, non può limitarsi a conoscere
114
La nostra azione avviene sempre e solo per mezzo del nostro corpo, che è
fondamentale ridefinire come «spazio espressivo […] l‟origine di tutti gli altri [atti
espressivi], il movimento stesso d‟espressione, ciò che proietta all‟esterno i significati»
(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.202). 115
È importante però specificare come per Aristotele vivere secondo la propria natura sia
agire secondo l‟intelletto (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1178 a, 5-8). Seguire il
logos – inteso come parte più eccellente dell‟uomo – è infatti esistere. Ma se il logos lo
intendiamo anche come parola – ovvero l‟essenza più intima e personale di ciascuno di
noi – possiamo dire che vivere autenticamente corrisponde a una vita che cerca di dar
voce e corpo alla propria parola. Un‟esistenza che si esprime a se stessa e agli altri,
perché solo vivendo secondo il proprio sentire e in relazione al mondo, è possibile essere
felici. Un vivere che ci rimanda all‟esperienza che vive il Leib, ossia quel “corpo proprio
animato” (Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., p.188) che è organo di percezione,
ma soprattutto di apertura dell‟io al mondo; quindi attua l‟espressione della parola in una
carne vissuta (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina e estetica, cit., p.
31). 116
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1179b «[…] riguardo alle virtù, non è
sufficiente conoscerle, ma dobbiamo sforzarci di possederle, e di farne uso […]».
Concetto che possiamo ritrovare ancora più pragmatico nell‟affermazione seguente: solo
«compiendo atti giusti si diventa giusti» (Ivi, 1103 b). «[…] infatti è compiendo le azioni
[…] che alcuni di noi diventano giusti e altri ingiusti, ed è agendo nei casi di pericolo,
cioè abituandoci a provare paura o coraggio, che alcuni di noi diventano coraggiosi, altri
vigliacchi.». (Ivi, 1103b, 13-17). Che voglio dire? Che possiamo definire coraggiosi gli
uomini che non solo possiedono il coraggio, ma lo praticano! Questo significa essere
virtuosi: avere un‟eccellenza che perfeziona l‟atto e che si assorbe solo nell‟esperienza.
(cfr. http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf, p.9)
35
solo le teorie didattiche; non può definire unicamente gli obiettivi
formativi più funzionali alla società e ai singoli. Essa deve
innanzitutto agire! Deve dimostrare alla politica che attraverso le sue
azioni la comunità riesce a con-vivere117
; riesce cioè, ad agire bene,
muovendosi – vivendo – verso il bene e il bello.
È quindi fondamentale per le scienze dell‟educ-azione approfondire,
fin nelle fibre più profonde, l‟agire umano, per individuare
innanzitutto la modalità attraverso cui l‟uomo possa vivere
intensamente – e quindi autenticamente – le sue azioni, e soprattutto,
117
Vivere con sé e gli altri; vivere – ossia esistere – attraverso sé, nel mondo. Questo è un
insegnamento che Aristotele lascia non solo a noi pedagogisti, ma anche agli psicologici,
ai sociologi, a tutti coloro che si occupano dell‟essere umano e cercano di costruire una
società funzionante e appagante. Perché se l‟uomo prova piacere a vivere con gli altri,
significa che sarà invogliato a comportarsi in un modo tale da mantenere piacevole
quell‟esistenza. Capire che l‟uomo può vivere in modo armonioso – felice – con gli altri
se agisce secondo la propria essenza, permette di rivoluzionare non solo l‟approccio
educativo, ma l‟intera struttura politica e sociale di una comunità. Ritenere che l‟uomo
possa agire positivamente in favore della società, se interiormente sente di corrispondere
al proprio sentire, cambia notevolmente la didattica di educazione civica. Non si tratta più
di insegnare ai bambini, ai cittadini, di rispettare il mondo in cui vivono.. ma di rispettare
– di far vivere – il proprio mondo! In questa ottica, la società non è più un‟entità esterna,
agglomerante, ma l‟espressione istantanea dell‟azione – e quindi vita – dei suoi abitanti.
Una convivenza che mi richiama alla mente l‟educazione cosmica montessoriana, in cui il
fine principale era, per l‟appunto, rendere l‟uomo consapevole del legame che intercorre
tra lui e il mondo. Renderlo ovvero cosciente dell‟unione connaturale che possiede con il
proprio mondo e da cui dipende l‟interdipendenza (e di conseguenza responsabilità!) tra
ogni essere vivente, e che a sua volta genera la solidarietà più autentica, quella che
permette di acclamare «esiste una sola patria: il mondo» (Montessori, Maria, Come
educare il potenziale umano, Milano, Garzanti, 1970, p. 167). Un obiettivo che risuona
molto attuale visto l‟affermato fenomeno della globalizzazione che ci pone di fronte a una
realtà aperta, senza limiti, né di spazio e né di tempo, che ha sì ampliato le nostre
conoscenze, ma al contempo ha provocato la disgregazione della nozione di identità (cfr.
Pompeo, Francesco, Elementi di antropologia critica, Meti, Roma, 2011, p.53). E
richiama per questo un progetto che richiede necessariamente l‟educazione
dell‟integralità della persona, nella «pienezza di libertà e vitalità [perché] chi è veramente
libero rispetta e valorizza la libertà dell‟altro»(Providenti, G., L’educazione come
progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Centro di studi montessoriani,
Annuario 2003. Attualità di Maria Montessori, Milano, FrancoAngeli, 2004, p 85). Una
visione che la pedagogia dovrebbe promuovere nella società affinché i cittadini si sentano
partecipanti attivi, e non generino ostilità nei confronti della civiltà (cfr. Freud, Sigmund,
L’avvenire di un’illusione, Newton Compton, Roma, 2010, p.47).
36
imparare a cogliere le azioni come espressioni dell‟essere. Ma come è
possibile educare i cittadini a questo sguardo?
Come ci ha insegnato Aristotele, bisognerà partire dall‟abituare –
ossia educare118
– l‟uomo ad agire bene, buono e giusto, perché non si
diventa esperti sui libri, ma attraverso le esperienze.119
«Colui che si
prepara a essere buono [,infatti], deve essere educato bene e fornito di
buone abitudini»120
. Deve ossia essere nutrito di esperienze che lo
aiutino a ri-volgersi con tutto il corpo verso la verità. Verità intesa
come consapevolezza del bene – e del suo intreccio relazionale con la
realtà –, e coscienza del proprio sentire segreto.
Per far entrambi i movimenti, però, è necessario che l‟uomo si abitui a
guardare; impari cioè ad assumere quella postura, quello sguardo121
che anche nell‟oscurità della a-paudesia122
, gli permetta di in-tendere e
vivere il bene. È necessario, ovvero, che impari a prendere confidenza
con l‟umanità propria e altrui; ad ascoltare il proprio punto vivo, e a
comprendere le espressioni attuate dagli altri uomini, perché solo così
potrà essere coinvolto – presente – nell‟azione.
Ecco allora la valenza dell‟Etica Nicomachea: un‟opera che
finalizzata a conoscere l‟agire – da cui poi dipende la realizzazione 118
Interessante è vedere come Aristotele affermi in 1179b, 24-26 che «l‟anima del
discepolo deve essere esercitata attraverso i propri costumi a provare godimento e
disgusto in modo corretto […]». Frase che potremmo interpretare – in quanto non è l‟idea
dell‟autore – al fine di dare all‟educazione il ruolo di esercitare una certa forza coercitiva
sul discepolo per imparare a godere delle cose belle. Un costringere (cfr. Scaramuzzo,
Gilberto, A colloquio d’esame con Edda Ducci, cit., p.30) che non equivale a obbligare,
ma a un guidare con sicurezza il discepolo nell‟esplorazione del mondo, insegnandoli a
riconoscere ciò che merita di essere vissuto. 119
Divertente l‟ironica frase a 1181 b, 2: «[…] non si diventa medici sui manuali […]». 120
(Aristotele, Etica Nicomachea, cit. 1180 a, 15). 121
Come afferma Aristotele «si deve essere dotati per natura di un „occhio‟ con cui
giudicare correttamente e scegliere il vero bene». ( Aristotele, Etica Nicomachea, cit.,
1114b, 8-9). 122
Si veda qui il mito della caverna in La Repubblica, VII libro (cfr. secondo capitolo).
37
della felicità –, stimola la filosofia dell‟educazione non solo a
indagare l‟origine dell‟azione, ma a comprendere il suo significato
espressivo.
Poiché educare all‟azione, abituare, cioè, ad agire e a percepire
l‟azione, consiste nello sviluppare la capacità dell‟uomo di esprimersi
e di incontrarsi.
38
Capitolo secondo
L’origine del linguaggio secondo Platone
“La parola
è l'ombra
dell'azione”.
(Democrito)
Dal contributo dell‟Etica Nicomachea abbiamo quindi guadagnato una
scoperta decisiva per la seguente ricerca in quanto, rivelando l‟origine
significante dell‟agire umano, siamo riusciti a intendere il valore
intrinseco dell‟azione, e in particolare, l‟esteticità racchiusa in ogni
atto.
Mi sto riferendo all‟enunciato che ci offre Aristotele nel IX libro (Cfr.
1168a 5-10), quando definisce l‟uomo come un ente che esiste
agendo: ossia, un ente che vive attraverso la sua azione, che attua –
formalizza – la volontà del suo spirito in un fenomeno riconoscibile.
Un‟affermazione impegnativa in quanto non solo ci consente di
considerare ogni atto un’espressione umana, ma che l’uomo esiste
esprimendosi. Una conclusione autorevole per l‟obiettivo di questo
lavoro123
e per la pedagogia dell‟espressione, in quanto affermare che
ogni azione è attuazione espressiva dell‟essenza dell‟individuo,
significa dire che ogni atto dell‟uomo è fenomeno vissuto del proprio
123
Ricordo che il fine di questa ricerca è riscoprire il valore est-etico del linguaggio,
inteso proprio come ponte comunicativo attraverso cui gli uomini agiscono, si esprimono
e si incontrano.
39
punto vivo124
. “Fenomeno125
” in quanto è forma vivente che, per
rendersi visibile e percepibile – ossia per esprimersi – al mondo,
adopera come mezzo il proprio corpo126
, il quale «può simbolizzare
l‟esistenza proprio perché la realizza e ne è l‟attualità»127
.
Un‟esteriorità che è poeticamente intesa come “il “nascondiglio della
vita”128
che custodisce e manifesta un sentire che ha invece
intrinsecamente bisogno di essere in-carnato, di essere, ovvero,
visibile.
Bisogno perché è l‟esistenza stessa129
a chiedere un corpo – una
sostanza – attraverso cui può agire – dar vita – alla propria essenza,
124
Vedi cap. I, nota n. 90. 125
Riprendo il termine secondo l‟accezione di Husserl, per specificare che per fenomeno
non intendo un fatto, ma un evento, che racchiude ed esprime in una forma oggettiva – in
quanto definita nel tempo – l‟intenzionalità del soggetto. Per questo «l‟esigenza
husserliana è ancora […] non fermarsi alla fattualità empirica della natura e della storia
[ma] inserire la descrizione delle loro essenze costitutive nel contesto specifico di un
processo intenzionale organico e coordinato […]» (Costa, Vincenzo, La fenomenologia,
cit., p.53) 126
«Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell‟organismo: mantiene continuamente
in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta interamente, forma con esso un
sistema». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano,
2009, p. 279). Incantevole l‟utilizzo dei verbi “anima” e “alimenta”: due azioni che vanno
proprio a esprimere la contingenza del proprio corpo nello spazio e nel tempo, in cui
viene riconosciuto non solo come «un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso di
qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i
suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale in
virtù del modo in cui le coglie». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della
percezione, cit., p. 315.). Il corpo non può essere «inteso come organismo, nel senso
“somatico”,[ma] uomo, che esprime se stesso per mezzo di quel corpo e in tal senso “è”,
direi, quel corpo». (Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, Catechesi sull‟amore
umano, LEV, Città del Vaticano, 2001, p.222, in Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra
medicina ed estetica, cit, p. 14). 127
Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 232. 128
Ibidem. 129
Per Aristotele abbiamo detto che avviene quando l‟uomo pensa e si percepisce (cfr.
Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1170 a, 16-20.), e come fa ad attuare questi movimenti
se non tramite il corpo? «Si può dire [infatti] che il corpo è “la forma nascosta dell‟essere
se stessi” o, reciprocamente, che l‟esistenza personale è la ripresa e la manifestazione di
un dato essere in situazione. Se dunque diciamo che in ogni momento il corpo esprime
l’esistenza, lo diciamo nel senso in cui la parola esprime il pensiero [il corsivo è mio]».
(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.234)
40
per rendersi viva e percepibile agli altri. Una corporeità intesa come
«veicolo dell‟essere al mondo»130
, ovvero un‟apertura esperienziale,
che permetta all‟uomo non solo di esplorare il mondo, ma soprattutto,
di viversi e di esprimersi nel mondo circostante131
. Perché è attraverso
il corpo che la propria soggettività prende vita e diviene
oggettivamente comunicabile proprio per il fatto essenziale che
assume un corpo, una forma che attualizza lo spirito e lo rende
conoscibile.
«L‟essere corpo è [allora] per l‟uomo la condizione del suo
inserimento nel mondo e della sua possibilità di rapportarsi agli
130
Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della Percezione, cit., p. 130 131
Quel che sto affermando è che l‟uomo ha bisogno di un ambiente sociale in cui possa
avere con-tatto con il suo corpo e quello degli altri. Uno spazio che offra la possibilità di
palpare intimamente se stesso, di trovarsi vivo così come ha chiesto l‟attrice Donata
Genzi (protagonista di un‟opera teatrale di Pirandello), perché «Non si finge più, quando
ci siamo appropriata questa espressione fino a farla diventare febbre dei nostri polsi..
lagrima dei nostri occhi, o riso della nostra bocca.. […]». (Pirandello, Luigi, Trovarsi,
Mondadori, Milano, 2006, p. 124). Viversi è un‟emozione – un‟esperienza – esistenziale,
in quanto «nel diventare parola della mia vita interiore, non soltanto di fronte agli uomini
ma anche nella solitarietà del mio diario, ho un regolatore segreto del mio pensare: non
soltanto dal punto di vista formalmente estetico o logico, ma soprattutto riguardo al
contenuto»(Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.128).
L‟uomo ha bisogno di conoscersi attraverso la sua sensazione perché da questa
percezione – da questa azione sensibile – così apparentemente superficiale, è possibile
addentrarsi nel proprio invisibile. È possibile viverlo, e divenire capace di rappresentarlo
nel mondo. Ma per attuare questo movimento è necessario che la pedagogia crei una
società che educhi gli uomini a incontrarsi con calma, ovvero una temporaneità che nella
quotidianità moderna sembra ormai essere sconosciuta. È necessario che abitui ad
avvicinarsi con corporeità, intesa come una forma che nel commercio virtuale, sta
divenendo sempre più un oggetto svuotato. E soprattutto educhi a saper toccarsi con
sguardo. Cosa intendo? Che i pedagogisti devono esercitare l‟uomo a vedere più a fondo
il mondo per «scoprire l‟intersezione dei corpi, delle forme, dei colori, al di fuori della
banalità dell‟abitudine». (Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma,
2006, p. 139). Devono abituare lo sguardo a penetrare nel mondo, e a vivere i suoi
mutevoli cambiamenti perché «[lo spazio] non lo vedo secondo il suo involucro esteriore,
lo vivo dall‟interno, vi sono inglobato. Dopotutto, il mondo è intorno a me, non di fronte
a me». ((Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della Percezione, cit., p. 42). Saper
guardare così la realtà circostante, rende possibile l‟esperienza di incontrare se stessi e gli
altri. Rende reale e autentica la relazione estetica: un incontro tra soggettività e
oggettività (cfr. Matassi, Elio, Il giovane Lukàcs. Saggio e sistema, Mimesis, Milano,
2012).
41
altri»132
, perché attraverso questa estensione corporale animata, l‟Io
riesce a plasmare la propria azione. Attualizza, ovvero, la potenzialità
di sentirsi vivo, non solo perché coglie intrinsecamente presente la
volontà della sua essenza, ma poiché si permette di appagare uno dei
desideri primordiali dell‟uomo: quello di sentirsi ascoltato da
qualcuno133
, in quanto, divenuto carne visibile, è ormai oggetto del
campo percettivo dell‟altro. Attraverso questa in-corporazione può
quindi essere riconosciuto da un Tu che si configura non solo come
cassa di risonanza dell‟essere, ma come luogo necessario di vita per il
soggetto.
Questo poiché senza la possibilità di rivolgersi al Tu – il quale
accoglie l‟Io nella sua interiorità134
– il punto vivo rimane un punto
immobile, senza vita. Per vivere esso deve – vuole – essere
132
Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.25 133
Si veda il terzo capitolo per approfondire il desiderio relazionale dell‟espressione. 134
Emozionanti e visibili sono le parole di Pirandello che descrive, nella novella I due
giganti, l‟incontro – rivelazione – dell‟io. «Ebbene, fu qua che i due giganti m‟apparvero,
una notte di quest‟inverno. Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge
come una grande O accanto a quel cipresso dritto come una grande I, che alti la notte nel
cielo stellato possono, oh beati!, scrivere un IO in due». (Pirandello, Luigi, I due giganti,
in Appendice, in Novelle per un anno, cit., p. 1426). Come infatti ci rivela Martin Buber,
filosofo ebreo che concentra la sua riflessione sul rapporto dialogico Io-Tu (cfr. terzo
capitolo), decisivo è il bisogno dell‟uomo di relazionarsi. Perché «l‟uomo vuole essere
confermato nel suo essere tramite l‟uomo e vuole acquistare una presenza nell‟essere
dell‟altro. La persona umana ha bisogno di essere confermata, perché l‟uomo in quanto
tale ne ha bisogno. All‟animale la conferma non occorre, perché è ciò che è, in modo
aproblematico. Per l‟uomo è diverso: destinato, dal regno delle specie naturali, al rischio
della categoria isolata, minacciato da un caos nato insieme a lui, furtivamente e
timidamente volge lo sguardo alla ricerca di un sì che renda possibile il suo essere, che
può venirgli solo da una persona umana che a una persona umana si rivolga; gli uomini si
porgono reciprocamente il pane celeste dell‟essere un io». (Buber, Martin, Il rendere
presenza, in Distanza originaria e relazione, cit., p..292). L‟uomo che non ha la
possibilità e capacità di soddisfare questo suo bisogno primordiale, rischia che «si
frantuma spiritualmente perché in lui l‟io non può aprirsi al suo tu. Poiché, nell‟uomo,
ogni vera vita spirituale ha luogo, per così dire, tra l‟io e il tu. L‟io che si apre al suo tu è
ricolmo di una forza di vita spirituale a cui il mondo non può opporre niente. Ma l‟uomo
il cui io si chiude o si isola davanti al suo tu si mette quasi sempre, nel suo rapporto
interiore all‟altro, in una lotta tra l‟io e l‟io» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,
p.181)
42
riconosciuto! Vuole mostrarsi, rendersi visibile135
, e per questo
necessita dell‟altro: un Tu soggetto che con la sua percezione, rende
oggetto della sua visione l‟Io, il quale, a sua volta, diventerà un altro
Tu che con la sua corporeità renderà qualche altro Io oggetto della
propria percezione. Una reciprocità che pone le fondamenta per
costruire l‟incontro estetico: una relazione circolare136
in cui l‟Io e il
Tu si in-contrano, rivelandosi l‟un l‟altro, e soprattutto, prendendo vita
dentro di sé attraverso l’altro.
Un incontro che, inteso come ri-conoscimento137
di sé nell‟altro ,
diviene luogo palpitante non solo di vita, ma di espressione dell‟uomo.
135
Questo aggettivo, che riprendo dal pensiero di Merleau-Ponty, rimanda a un binomio
che in questo lavoro viene spesso adoperato. Mi riferisco agli aggettivi visibile/invisibile i
quali corrispondono all‟espressione di corporeità/sentire segreto. Tutta questa ricerca
ruota infatti a un concetto cardine del pensiero della pedagogia dell‟espressione, ossia che
l‟uomo sia l‟esistenza di uno spirito intimo, senza forme, che necessita per vivere di una
corporeità che gli permetta di esprimersi – manifestarsi –, perché attraverso di essa
l‟uomo diviene sostanza. E grazie a tale forma, gli uomini possono riconoscere in sé e
nell‟altro quell‟in-visibile – ovvero l‟essenza interiore – che spesso rimane – senza un
vero incontro – nascosto nella corporeità. Stiamo dicendo allora che la pedagogia deve
aiutare l‟uomo non solo a entrare in contatto – conoscere – il proprio essere in modo tale
da saper poi renderlo vivo come lui stesso si vuole, ma anche ad accogliere le espressioni
degli altri, perché in quelle forme così apparenti si cela, invece, quel sentire segreto che
desidera solo di essere ascoltato e percepito da qualcuno. 136
Circolare perché solo partendo dall‟incontro con l‟altro, l‟Io prende consapevolezza
del proprio sentire, e una volta addentratovi, necessita di comunicarlo al Tu. Non c‟è
quindi espressione senza coinvolgimento dell‟Io che si ri-conosce solo di fronte allo
sguardo avvolgente del Tu. 137
Per ri-conoscimento intendo un dinamismo che non va solo verso - e dentro - l‟altro,
ma ritorna verso se stessi. Questo significa che nella relazione estetica – la relazione
educativa per eccellenza – , non scopriamo e accogliamo solo l‟alterità.. ma viviamo la
nostra invisibilità. Concetto che posso rendere comprensibile al lettore attraverso le
parole di Merleau-Ponty: «Non appena vediamo altri vedenti, noi non abbiamo più
solamente davanti a noi lo sguardo senza pupilla, il cristallo trasparente delle cose, quel
debole riflesso, quel fantasma di noi stessi che le cose evocano designando un posto fra di
esse dal quale noi le vediamo: ormai, grazie ad altri occhi, siamo pienamente visibili a
noi stessi [il corsivo è mio]».(Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, Bompiani,
Milano, 2009, .p. 159). Un riconoscimento che somiglia a un rapporto d‟amore, in cui l‟Io
si mostra e rispecchia nel Tu, il quale guarda – accoglie – nella propria anima nuda,
l‟anima nuda dell‟altro. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-Tendere, cit., p. 151). Questo però
comporta la completa rivalutazione del ruolo del altro. «Il portare l‟incidenza dell‟altro
sul piano dell‟amore è far scattare la molla della dialettica totale che coinvolge, in modo
compiuto, l‟intera soggettività, perché ha il poter di stimolare e sollecitare l‟intera
43
Perché se nel movimento che attua l‟io verso il tu vi si rispecchia la
tensione dell‟io di esprimersi a qualcuno, vien da sé intendere come
l‟incontro tra io e tu sia il luogo per eccellenza per far vivere
l‟espressione, ossia l‟uomo.
Il che risveglia nella pedagogia il dovere non solo di educare –
abituare – l‟uomo a esprimersi e agire autenticamente – ossia secondo
il suo sentire più intimo – ma di abituare gli uomini a incontrarsi.
Deve ovvero offrire ambienti ed esperienze che permettano agli
educandi di assumere una postura di ascolto che gli permetta di
entrare in relazione agli altri, e di vivere così l‟uno nell‟altro.
2.1 L’azione espressiva della parola
Per questo ora la seguente ricerca sposta la sua direzione di analisi
verso una specifica espressione. Perché se fin qui abbiamo detto che
l’uomo è azione, e ogni suo atto è espressione di sé, è necessario allora
indagare una delle sue espressioni per eccellenza138
, al fine di
soggettività» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 147). Ciò significa assegnare al
Tu il valore di soggetto che, con la sua presenza, non solo riceve l‟espressione dell‟Io, ma
lo risveglia a viversi. Questo poiché permettere all‟uomo di pronunciare una parola giusta
– ossia autentica – «verso lo spirituale distinto da lui, [consente di] operare il risveglio, e
quindi avviare il vivere reale, dissolto il vivere sognato» (Ducci, Edda, La parola
nell’uomo, cit., p.20) 138
Eccellenza in quanto, come vedremo nel terzo capitolo, è una delle azioni più
connaturale e caratteristica dell‟esistenza umana. Come infatti riflette Heidegger, il
linguaggio è la “casa dell‟essere” (cfr. Heidegger, Martin, L’epoca dell’immagine del
mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp.89-90) «il luogo dove
l‟essere si rivela a chi gli si abbandona e verso cui da sempre “siamo in cammino”, il
rapporto di tutti i rapporti che non è solo comunicazione: “Il linguaggio è il recinto
(templum), cioè la casa dell‟essere. L‟essenza del linguaggio non si esaurisce nel
significare, né è qualcosa di connesso esclusivamente a segni e a cifre. Essendo il
linguaggio la casa dell‟essere, possiamo accedere all‟ente passando costantemente per
questa casa[…]”» (Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., pp. 120-121). In
particolar modo, «ogni parola nella vitalità del suo venir pronunciata è un‟espressione
44
comprendere come è possibile che l‟uomo manifesti se stesso in
un‟azione, e in che modo possa entrare in relazione attraverso il suo
agire.
E il fenomeno espressivo che ho individuato più sensibilmente
rilevabile è stata la parola, intesa nella sua profondità come una
manifestazione visibile – ascoltabile! – della soggettività umana. Un
atto universale, oggettivo, che attraverso una forma – verbale e non –
riesce a divenire comunicabile, condivisibile dall‟io al tu.
Un evento fondamentale per l‟esistenza umana perché, come abbiamo
fin qui detto, ogni individuo ha un proprio sentire, una propria essenza
da voler comunicare all‟altro. Ha cioè un punto vivo che per vivere ha
bisogno di incontrarsi e di essere percepito da un Tu che, con la sua
oggettività, costringe139
l‟Io a vestirsi di forme riconoscibili dal
mondo, al fine di entrare davvero in rel-azione mediante la propria
corporeità.
nell‟uomo della vita spirituale. Cioè, ogni vivente parola espressa allaccia, in certo modo,
l‟io nell‟uomo con il suo tu, ma tra l‟io e il tu ha luogo nell‟uomo tutta la vita spirituale».
(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.238). La parola quindi è luogo in cui prende
vita e forma l‟intimo incontro tra l‟io e il tu, dove la lingua non è solo un «mezzo comune
con cui rompere l‟individualismo» (Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in
Epitteto, in Scaramuzzo, Gilberto (a cura di), La comunicazione Umanante, cit., p.138),
ma l‟attualità, «manifestazione oggettiva dello spirituale che è nell‟uomo» (Ducci, Edda,
Approdi dell’umano, cit., p.114). Per questo è necessario riscoprire il suo valore est-etico,
per ridonare spessore e tempo all‟atto di parlare. 139
Dico costringe perché lo sguardo del Tu impone all‟essenza dell‟Io di assumere una
veste che non sia invisibile, ma sensibile. Una richiesta che non va vista in ottica negativa
come troviamo invece in Sartre (cfr. Sartre, Jean Paul, L’essere e il nulla, Il Saggiatore,
Milano, 1965, p.235) che vede lo sguardo dell‟altro come un obbligo che limita la propria
libertà (cfr. Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., p.131); ma deve essere intesa
come un richiamo del Tu che desidera incontrare fisicamente e spiritualmente un Io. Per
questo l‟altro cerca sensibilmente un‟oggettività significante da guardare – da ascoltare –
perché solo essa corrisponde alla manifestazione autentica dell‟io. «Il tu è [allora]
l‟ambiente della libertà dell‟io, solo perché a sua volta è l‟ambiente della libertà del tu. In
questo scambio le due soggettività si sentono un io per la mutua esperienza dell‟essere
presente.» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, Anicia, Roma, 2003, p.169).
45
Un‟affermazione che ho voluto specificare per dire quanto le parole,
come quelle che sto adoperando per scrivere questo capitolo, celano in
sé un‟essenza, un significato che ha bisogno di manifestarsi, di vivere,
di essere compreso. E come abbiamo capito con Aristotele, per vivere
è necessario agire; e per questo la parola si configura come un‟azione
intrinsecamente espressiva140
.
«La parola [infatti] non traduce un pensiero già fatto, ma lo
compie»141
. Attua e rivela l‟essenza spirituale dell‟uomo in una forma
che è connaturale dell‟umanità. Non trasforma in una immagine
verbale il senso, ma fa “esistere il significato”142
in un gesto
comunicabile, conosciuto, anche quantificabile, per tutti143
.
«[…] si potrebbe dire [infatti] che i linguaggi, cioè i sistemi di
vocabolario e di sintassi costituiti, i “mezzi di espressione” che
esistono empiricamente, sono il deposito e la sedimentazione degli atti
di parola nei quali il senso inespresso non solo ha modo di tradursi
140
Espressiva perché tramite essa «il senso inespresso non solo ha modo di tradursi
all‟esterno, ma pure acquista l‟esistenza per se stesso, ed è autenticamente creato come
senso». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 269). Quindi
le parole – intese come autentiche espressioni dell‟essere, di cui fanno parte gesti,
comportamenti, pensieri– permettono l‟attuarsi di una comunicazione intersoggettiva, in
cui diviene fondamentale saper «conoscere il proprio modo di comunicare, saperlo
comprendere e migliorare, diventa essenziale per l‟evoluzione personale, ma è anche il
primo passo da compiere per attivare una comunicazione interpersonale, che possa
consentire a noi e agli altri di creare rapporti soddisfacenti e positivi. […] La
comunicazione è lo strumento che ci consente di conoscere e farci conoscere: proprio per
questo dobbiamo riuscire a esprimerci in modo chiaro, assertivo e positivo». (De Rossi,
Marina, Didattica dell’animazione, Carocci, Roma, 2009, p. 163). 141
Il corsivo è mio. (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia dell’espressione, cit.,
p.249) 142
Cfr.Ivi, p.253 143
È questo «che rende possibile la comunicazione. Perché io comprenda le parole
dell‟altro, è necessario, evidentemente, che il suo vocabolario e la sua sintassi mi siano
“già noti”»(Ivi, p. 254)
46
all‟esterno, ma pure acquista l’esistenza per se stesso, ed è
autenticamente creato come senso.»144
È per questa autocre-azione che il linguaggio si configura sempre più
come un atto: un atto che attualizza l‟esistenza stessa dell‟uomo e la
esprime in una forma che anche gli altri uomini possiedono – anzi,
sono145
–. Un‟azione espressiva che testimonia il pulsare dell‟essere in
una rappresent-azione vivibile.
2.1.1 L‟essenza della parola
Ma come prendono forma le parole? Che tipo di azioni invisibili
sono? E soprattutto: cosa esprimono?
Per rispondere a queste domande a dir poco esistenziali, adopero come
strumento che mi funge da chiave di lettura, il Cratilo di Platone146
,
l‟opera in cui è riportato il dialogo che avviene tra Ermogene, Cratilo
e Socrate. Un dibattito che ragiona sulla correttezza (orthòtes) dei
nomi, secondo convenzione o natura, e che alla fine della
144
Il corsivo è mio. (Ivi, p.269). 145
La parola, intesa come corporeità che permette all‟uomo di instaurare una relazione
con il mondo, (cfr. Ivi, p.270) va considerata con la stessa delicatezza con cui si cerca,
nella riflessione bioetica, di riqualificare il corpo dalla aggressiva oggettivizzazione
ricevuta dall‟attuale processo di vetrinizzazione (cfr. Codeluppi, Vincenzo, La
vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società,
Bollati Borignghieri, Torino, 2007). Come bisogna riscoprire il significato umano della
corporeità «per cui si possiede un corpo e, allo stesso tempo, si è il proprio corpo»
(Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.15), è necessario
ridonare alla parola il suo spessore est-etico, attraverso il rispetto della sua essenza e il
riconoscimento della sua forma. 146
Si rimanda questa riflessione in chiave pedagogica all‟articolo “Sulla natura mimesica
del discorso. Una lettura filosofica-educativa di pagine del Cratilo”, di Gilberto
Scaramuzzo, in Educazione. Giornale di pedagogia critica, Vol. I, N.2, 2012)
47
discussione147
, vedremo richiamerà sempre più la forma della verità
(alètheia) in quanto l‟esattezza si vive solo a stretto contatto148
con le
cose. Socrate/Platone, infatti, controbattendo la tesi di Ermogene
(secondo cui l‟esattezza del nome sta nel suo uso, quindi nella
convenzione utilizzata dall‟uomo149
), afferma che, come le azioni si
compiono per loro natura e non per nostra opinione, anche le cose
«sono esse da se stesse in possesso di una qualche stabile essenza, non
relative a noi […] ma in se stesse in relazione alla loro essenza in
possesso di un loro proprio modo di essere già predisposte»150
.
Un concetto che permette di giungere a due punti di analisi: il primo,
che ogni cosa ha una propria essenza, un essere che va rispettato –
inteso – come lui stesso si vuole, e compreso nella forma visibile con
147
«Il dibattito sociologico natura-convenzione [che] si trasforma nel dibattito ontologico
essere-apparire.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele,
Mimesis Edizioni, Milano, 2014, p.36), 148
Un con-tatto che in questa ricerca si configurerà come un rapporto di
immedesimazione, di amore, di mimesis (cfr. Scaramuzzo, Paideia mimesis, Anicia,
Roma, 2010) e che alla fine di questo capitolo vedremo come dia-logo (cfr. Oliva, Mirela,
Op.,cit., p. 110). Un incontro che, attenzione, non deve essere ridotto a scambio verbale,
ma condivisione – apertura! – di due logos – ossia essenze! – in cui si potrà riconoscere e
coltivare la propria umanità. Infatti «solamente l‟attualità di rapporto all‟altro consente di
sapere il già e il non ancora del proprio umanarsi, e di purificare cotesto sapere da ogni
traccia di narcisismo, perché il conoscimento non avviene nell‟autocontemplazione ma
nell‟apertura voluta dall‟io e provocata dalla valenza dell‟altro.» (Ducci, Edda, Essere e
comunicare, cit., p.81). 149
Posizione che, come riflette Ricoeur, Platone critica poiché «se è convenzione, il
linguaggio ha una storia in quanto opera degli uomini. Ma non possiamo rinchiuderlo
nella storia […]» (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, cit.,
p.36); non possiamo ridurlo a uno strumento creato a piacimento dell‟uomo, perché
significherebbe svuotarlo di significato, e soprattutto di universalità. Quel che intendo è
che dobbiamo vivere aderenti alla realtà, la quale ci permette di percepirci enti, ma non
possiamo annullarci in un relativismo storico, in cui ogni segno ha significato solo se
contestualizzato nel suo uso. Questo procedimento provocherebbe un materialismo
conoscitivo, a mio parere, gravissimo in quanto limiterebbe la filosofia a una
comprensione del suo utilizzo umano, e non di valore per l’uomo. «[…] Per questo, nella
prima parte, il Cratilo attacca […] la tesi di Protagora dell‟ <uomo-misura di tutte le
cose> e gli oppone l‟ousia, misura del linguaggio.» (Ibidem) ribadendo l‟importanza
dell‟essenza che è «[…] proprio quel che impedisce che tutto nel linguaggio si riduca a
una convenzione». (Ibidem). 150
Platone, Cratilo, cit., Cap. V, 386d, 8 – 386e, 4.
48
cui esso si mostra. Il secondo, invece, è che ogni agente deve saper
cogliere il principio – il senso – che ogni azione ha in sé, perché se
così è tale posizione, quando il maestro/Socrate poco più avanti151
dichiara che anche il dire è un’azione152
, ci permette di capire perché a
388 b-c afferma che «il nome è uno strumento atto a insegnare
qualcosa e a distinguere l’essenza [corsivo mio], così come la spola e
il tessuto», e che «allora chi è atto a tessere userà bene la spola, dove
bene vuol dire in modo atto a tessere, mentre chi è atto a insegnare
userà bene il nome, dove bene vuol dire in modo atto a insegnare»153
.
Un passo un po‟ intrecciato, ma che se districato mediante la profonda
azione ermeneutica, ci rivela un concetto assai caro all‟educazione:
ossia che l‟insegnante non è colui che ha l‟arte di dare i nomi154
, ma
colui che sa usarli nel modo che più gli è proprio. Sa trasmetterli,
cioè, rispettando e mantenendo viva l‟essenza di ciascuno. Perché se a
ogni cosa corrisponde un nome, e quindi a ogni parola corrisponde
una propria natura, è necessario che, per comunicare autenticamente
secondo verità, si intenda l‟essenza della cosa/nome155
.
151
«Ma allora, qualcuno dirà correttamente se lo farà nel modo in cui a lui paia si debba
dire, oppure, nel caso in cui dica nel modo in cui è già predisposto il dire le cose e l‟esser
detto e il mezzo, approderà a qualcosa di buono e parlerà, mentre, nel caso contrario,
sbaglierà e non approderà a nulla?». (Ivi, 387b, 11 – 387c, 4). 152
(Cfr. Ivi, cap. VI, 387b, 8-9). Ed è una tesi che rimanda profondamente all‟analisi fatta
precedentemente con Aristotele. 153
Ivi., 388c, 5-7. 154
«[…] non è cosa da ogni uomo, Ermogene, porre nomi, ma di un qualche artigiano del
nome. E costui è com‟è verosimile, il legislatore, che invero è il più raro degli artigiani
fra gli uomini.». (Ivi, cap. VIII, 389a). 155
È necessario, cioè, che dalle parole dette e ascoltate si giunga a « “vedere” i
significati (Cratilo 389d); è quel che fa il legislatore del vero linguaggio, “gli occhi fissi
su quel che è il nome in sé” (Ibid.). Questo legislatore ideale sarebbe precisamente il
dialettico.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, Mimesis
Edizioni, Milano, 2014, p. 37).
49
Per parlare davvero secondo la natura delle cose, è quindi necessario
che l‟insegnate in primis abbia colto in sé l‟essenza del nome, affinché
educhi il discente a distinguere – riconoscere – le cose attraverso i loro
nomi, ossia attraverso le loro essenze.
Una modalità di comunic-azione che si configura proprio come una
relazione dialettica in cui le parole vivono attraverso i soggetti, i quali
entrano in con-tatto autentico con la realtà, e curano– rispettano – le
parole utilizzate.
Un incontro dove gli uomini si scambiano parole non come fossero
oggetti, ma come custodi di anime. E dove si intende il linguaggio
come un ponte di contatto tra gli uomini, in quanto esprime ed agisce
l‟essenza degli individui.
2.2 La rappresentazione della parola
Ma per entrare davvero in relazione vuol dire che le parole
rappresentano esteticamente un‟essenza. Esprimono, ovvero,
un‟unicità ontica che per vivere ha bisogno di una forma visibile
universale, la quale permette la comunicabilità, e di conseguenza, la
sua relazione.
Ma questa rivelazione a sé e al mondo è possibile solo grazie a un
dinamismo che è prettamente connaturale dell‟uomo: ossia la mimesis.
Quel movimento interiore che attraverso il corpo ci permette di
50
renderci simili nella voce o nel gesto a qualcosa, o qualcuno156
. Quel
dinamismo che permette ad Aristotele di definire l‟uomo l‟essere
mimesico157
per eccellenza, e che nel Cratilo, emerge in tutta la sua
energia quando Socrate/Platone cerca di definire in che modo l‟uomo
riesce a comunicare e a esprimere; non tanto nella relazione tra
docente-discente – che ne La Repubblica è tra poeta e pubblico158
–,
quanto nell‟atto stesso di denominare159
. Vediamo infatti come il
nome venga esplicitamente definito da Socrate un mimema160
, ossia un
156
Platone parla per la prima volta di mimesis ne La Repubblica, precisamente nel libro
III, 393c, quando Socrate dialoga con Adimanto riguardo le forme poetiche e
l‟interpretazione attoriale, e individua questo dinamismo definito : «Ora, il rendere sé
simile a un altro, per quel che concerne sia (o) la voce sia (o) il gesto, non è fare la
mimesis di quello a cui ci si rende simili? - Sicuramente» . (traduzione riportata in
Paideia Mimesis, libro da cui verrà tratto ogni brano de La Repubblica). Un rendersi
simile – homoìosis – che non va confuso con imitazione, ma con immedesimazione, in
quanto è un atto creativo, che non riproduce l‟ente di cui ne fa la mimesis, ma ricrea
dentro di sé l‟altro. Questo perché «si diventa uguali a ciò di cui si fa la mimesis, ma non
superficialmente, sì nelle nostre fibre più intime.». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia
mimesis, cit., p. 57) 157
«[…] l‟imitare è congenito fin dall‟infanzia nell‟uomo, che si differenzia dagli altri
animali proprio perché è il più portato a imitare, e attraverso l‟imitazione si procura le
prime conoscenze […]». (Aristotele, Poetica, Laterza, Bari, 2009, 1448b, 5-7)
Come afferma Gilberto Scaramuzzo, infatti «Platone fa (e chi la legge la sua pagina con
lui) […] questa semplice scoperta: tutti gli uomini possono fare quella mimesis che
concerne il conformarsi nei gesti e/o nella voce, anzi, questa mimesis è qualcosa di molto
presente nella vita di ciascun uomo fin dall‟infanzia». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia
mimesis, cit., p. 54). 158
«[…] la poesia, nell‟Atene in cui vive Platone, è la paideia più diffusa e autorevole per
la formazione dei cittadini […]; è dunque necessario stabilire di cosa dovrà parlare, e
come dovrà essere – la poesia – per ottemperare alla funzione di essere retta paideia in
grado di formare cittadini, e, soprattutto, governanti e guardiani giusti». (Scaramuzzo,
Gilberto, Paideia Mimesis, cit., p. 37). 159
«Per Platone, l‟atto fondamentale della parola non è la messa in relazione, bensì la
denominazione, la discriminazione della realtà, che consiste nel fissare un contorno
verbale alle cose. […] [questa forma] fa sì che ogni essenza abbia un contorno che
giustifica il suo titolo di eidos.» (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e
Aristotele, cit., pp. 38-39) 160
Si riporta per chiarezza tutto il passo in cui Platone riflette sulla connessione tra
mimesis e comunicazione, ossia come il nome riflette in sé l‟essenza della cosa.
«SOCR. Bene. Ma allora i primi nomi, ai quali non fanno da supporto ancora altri, in
quale modo, per quanto è possibile, ci renderanno massimamente evidenti le cose che
sono, se hanno proprio da essere nomi? Ma rispondimi a questo: se non avessimo voce né
lingua, ma volessimo mostrare l‟un l‟altro le cose, non cercheremmo forse di significare,
come ora i muti, con le mani e la testa e il resto del corpo?
51
atto imitativo – mimesico161
–, che racchiude in sé proprio il
movimento creativo della mimesis. Quell‟energia umana che permette
all‟individuo di divenire la propria essenza e di ricrearsi ina una forma
riconoscibile. Una corporeità che in questa ricerca corrisponde
unicamente alla parola che, in questa prospettica, viene a configurarsi
come una rappresentazione mimesica162
. Il prodotto – se così
possiamo limitativamente definirlo – del movimento che attua colui
che cerca di in-tendere163
l‟entità che vuole comunicare, e di
ERM. E in effetti come altrimenti, Socrate?
SOCR. Se, almeno credo, volessimo mostrare ciò che è in alto e leggero, alzeremo verso
il cielo la mano, imitando la natura stessa della cosa; se, invece, le cose che sono in basso
e pesanti, verso la terra. E se volessimo mostrare un cavallo che corre o un qualche altro
animale, sai che renderemmo i nostri corpi e le nostre movenze quanto più simili a quelli
loro.
ERM. Mi sembra che sia necessariamente come dici.
SOCR. Così infatti, credo, ci sarebbe atto ostensivo di qualcosa: quando il corpo, com‟è
verosimile, imita quella cosa che vuole mostrare.
ERM. Si.
SOCR. Ma poiché vogliamo mostrare con la voce e con la lingua e con la bocca, ciò che
viene da queste non darà luogo forse ad un atto ostensivo di ciascuna cosa allorché per
mezzo di queste sia atto imitativo di qualche cosa?
ERM. Necessariamente, mi sembra.
SOCR. Allora il nome è, com‟è verosimile, atto imitativo con la voce di quel che si imita
e colui che con la voce imita nomina ciò che imita.». [Il corsivo è mio]
(Platone, Cratilo, cit., Cap. XXXIV, 422e – 423c). 161
Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Sulla natura mimesica del discorso, cit.) 162
«La mimesis non è dunque l‟imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di
una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di
coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non
esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma
può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e né
coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è
imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È
confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta
ridurre l‟intera sfera della mimesis ad imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è
imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla
mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato
rappresentato. Le opere d‟arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per
effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in
direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha
creato.» (Palumbo Lidia, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di
Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli, 2008, pp. 235-236). 163
Per una riflessione più profonda e specifica riguardo questo verbo, si rimanda all‟opera
di Gilberto Scaramuzzo “In-tendere. L’umana sophia di Luigi Pirandello”. È opportuno
52
esprimerne la sua natura in una forma percepibile. Una forma visibile,
ascoltabile, leggibile che cela in sé l‟essenza dell‟essere, ma rivela al –
nel – mondo la presenza della sua esistenza.
Una definizione che ovviamente è di notevole rilevanza per il nostro
lavoro, in quanto ci rivela come ogni segno comunicativo che gli
uomini si scambiano, sono forme mimesiche che rappresentano e
rivelano un significato invisibile. Atti che custodiscono in sé il senso,
e mostrano (anzi, realizzano) in un segno il significato. Perché non
rispecchiano passivamente l‟essenza, ma la manifestano – la vivono –.
I gesti, i vocaboli divengono allora espressioni che attraverso la loro
oggettività, permettono di creare una relazione intersoggettiva tra le
interiorità, le quali, senza un‟esteriorità universale, non sarebbero
riuscite a farsi sentire. Questo perché, come abbiamo
abbondantemente chiarito, la soggettività senza la sua temporalità e
materialità corporea, non avrebbe avuto la possibilità non solo di
percepirsi, ma soprattutto di esprimersi. Non avrebbe avuto cioè la
condizione fenomenica di dialogare con il mondo, perché senza il suo
corpo, non avrebbe avuto la potenzialità di parlare.
Le parole164
sono quindi ponti comunicativi tra gli uomini, e
soprattutto con se stessi, perché permettono di dare una voce al sentire
tuttavia aprire una piccola parentesi riguardo il suo significato per percepire il suo
intrinseco valore.. “Intendere” è infatti «un procedere per in-tentare un contatto nel punto
vivo: ri-volgersi con la propria parola nella parola dell‟altro, con il proprio punto vivo nel
punto vivo dell‟altro. In questo sforzo si ingenera l‟incontro – nel punto vivo –, che è il
frutto dell‟intendere di una soggettività nella capacità di intendere dell‟altra. Il massimo
dell‟incontro umano sarà, dunque, nella reciprocità dell‟intendere, quando […] lo
spirituale si muove […] non [per] giudicare, non conoscere, ma intendere […].»
(Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., pp. 115-116). 164
«Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose;
ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole
ch‟io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le
53
segreto di ciascun soggetto; permettono, cioè, di dare una visibilità
all‟intimità dell‟Io.
Per questo le definisco delle rappresentazioni estetiche in quanto
vestendo di una forma riconoscibile – per sé e gli altri – sono
percepibili. Sono ossia eventi nel mondo che, avendo una propria
spazialità e storicità – queste grazie alla loro corporeità165
–, sono
l‟attualizzazione più concreta e umana dell‟essenza.
ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo
come egli l‟ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!» (Pirandello,
Luigi, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 52). Ho voluto citare questo passo per
prendere spunto su un argomento che mi preme approfondire. Mi riferisco al valore
estetico della parola, intesa come veicolo oggettivo che serve a «sostenere l‟esserci di
un‟interiorità nell‟uomo e dirne la natura singolarità» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit.,
p. 41). Un‟entità che se colta nella sua essenza permette di ridonare significanza alla
comunicazione.
«il riscoprire l‟appartenenza dell‟io alla parola e della parola all‟io [infatti] spalanca alla
riflessione due settori umani di grande fecondità per il discorso pedagogico: la funzione
primaria della parola di essere veicolo-legame tra due soggettività, con un movimento
tutto diverso dal convergere associato sull‟oggettività, evitato ogni tentativo di mutua
oggettivazione per l‟irrompere della chiara visione del senso che può avere e ha per l‟io
cotesta specifica possibilità di rapporto all‟altro essere umano. E in secondo nella
scoperta sacralità della parola avere la percezione della forza misteriosa che la parola
stessa ha in sé [corsivo mio]» (Ivi, p. 94).
La parola se gustata, sentita e capita (cfr. Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in
Epitteto, cit., p.148) come espressione intima del sé, permette di attuare quella relazione
circolare che in questa ricerca mi preme definire dialogo: il «momento in cui si rende
manifesto l‟esserci della relazione, ma è, nello stesso tempo, l‟ambiente e, quasi, l’humus
in cui e per cui la relazione si realizza» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.190).
Per questo è fondamentale saper ascoltare per non cadere nell‟abisso
dell‟incomprensione: una forma di scontro intersoggettivo in cui i soggetti invece di
penetrarsi, si allontano. E urgente diviene educare a parlare. Perché sempre più dilagante
si afferma il pericolo di comunicare senza soggettività: un linguaggio che, svuotato di
significato, tende a curare la sua forma esteriore, senza più coltivare la propria interiorità.
Un fenomeno che ritroviamo amaramente presente nella quotidiana estetica del corpo,
che non a caso è stato ridotto a un oggetto scarnato dalla propria soggettività e ristretto a
uno strumento di feticizzazione (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina
ed estetica, cit., p. 25). Per questo ho l‟urgenza di ridare significato est-etico alla parola:
non solo per cercare di impedire il delitto dell‟umanità – visto che nella parola si esprime
l‟umano (Cfr. Ducci, Edda, L’uomo umano, cit, p.93) –, ma per salvare dalle tenebre
dell‟individualismo il soggetto. 165
Corporeità che non dobbiamo confondere con apparenza, semplice contorno –
involucro – che ricopre la parola, ma dobbiamo intendere come la sua manifestazione
espressiva poiché grazie alla sua carnalità (di voce e di gesto) il soggetto vive il mondo.
54
E nulla di più significativo potrebbe essere l‟aggettivo estetico, il
quale mostra quanto la parola sia davvero l‟azione espressiva per
eccellenza dell‟uomo perché in essa viene contenuta e realizzata
l‟unione della soggettività e della oggettività166
.
La comunicazione attraverso le parole si configura così come luogo
ideale per la costruzione dell‟incontro estetico, relazione in cui due
soggetti diventano oggetti reciproci della propria percezione, si
accolgono, e si vivono l‟uno nell‟altro.
2.2 La relazione con il mimema
Se ritorniamo però alla definizione del nome come mimema subentra
l‟esigenza di approfondire non solo cosa significa rapportarsi
mimesicamente a qualcuno, ma cosa si genera nell‟uomo quando
incontra un mimema – ossia la parola –.
166
Autore che ci permette di intendere la dicotomia soggetto-oggetto, è Georg Lukàcs,
filosofo ungherese che nella sua giovinezza si interessa di costruire un sistema che dia
autonomia all‟esperienza estetica confrontando il pensiero di Kierkegaard contro Hegel;
un sistema che superi il totalitarismo trascendentale hegeliano attraverso il contributo
dell‟immanente unicità del soggetto kierkegaardiano (cfr. Matassi, Elio, Il giovane
Lukàcs. Saggio e sistema, Mimesis, Milano, 2011, p.163). Il binomio soggetto-oggetto
emerge nella riflessione riguardo l‟opera d‟arte intesa come sintesi del dialogo tra saggio-
sistema. Una dialettica che ritroviamo sintetizzata nell‟opera d‟arte poiché essa racchiude
in sé la soggettività dell‟autore, ma al contempo, si copre di una forma che solo il sistema
storico può dargli. Per questo esprime la dicotomia tra soggetto e oggetto perché in essa
ritroviamo il saggio – ossia la particolarità – che si incarna in un‟universalità oggettiva.
Sintesi senza cui non sarebbe possibile l‟attuarsi di un‟esperienza estetica, ovvero un
vissuto in cui l‟oggetto non prevarica sul soggetto e il soggetto non rimane dipendente
dall‟oggetto (cfr. Matassi, Elio, Op., cit., p. 172). Questa è la relazione estetica: un
incontro in cui c‟è circolarità perché il soggetto per vivere questa esperienza deve poter
percepire l‟oggetto; e questo, per essere riconosciuto, necessita dello sguardo del soggetto
che rende personale – visto la sua unicità – la relazione. Per questo la relazione estetica,
ossia l‟autentica relazione tra soggetto e oggetto, è una rivelazione di valore (cfr. Matassi,
Elio, Op., cit., p.174): perché in questa percezione assumono valore sia l‟oggetto che il
soggetto. Acquistano, ovvero, la consapevolezza di essere enti trascendenti immanenti
(cfr. Matassi, Elio, Op., cit., p. 184).
55
Un interrogativo a cui, per rispondere, è necessario partire da un
argomento che ne La Repubblica Platone affronta a 401b, ossia
quando rivela che «gli stessi effetti sull‟interiorità del soggetto
provocati dalla mimesis poetica ci si presentano provocati, suscitati,
accesi, nel cittadino da qualcosa che non è la poesia»167
. Cosa intende?
Che il movimento della mimesis – il dinamismo del divenire
esteriormente e interiormente simile a qualcuno o qualcosa – non
avviene solo a contatto con la poesia, ma con ogni creazione umana.
Creazioni che, dopo aver chiarito cosa sia un mimema, posso
intenderle espressamente con le parole, affermando chiaramente che
«quando queste creazioni si fanno presenti a qualcuno, esse provocano
nel soggetto quegli stessi effetti che avevamo visto in precedenza
procurati dalla mimesis […]»168
. Stimolano, ovvero, l‟uomo a
conformare inconsapevolmente la propria intimità all‟oggetto esterno
percepito, e di conseguenza, a generare le medesime azioni che sono
state assorbite. Lo formano, lo nutrono, non solo nell‟esteriorità, ma
fin nelle fibre più intime del suo spirito
Un‟affermazione affascinante ma nello stesso tempo inquietante,
perché significa dire che l‟uomo – essere mimesico per eccellenza –
attraverso l‟incontro corporeo con l‟altro, plasma a sua somiglianza
non solo la corporeità.. ma anche la propria interiorità. Il che
comporta, di conseguenza, un‟urgente rivalutazione della relazione
sociale. Perché se l‟uomo diventa mimesicamente tutto ciò che lo
circonda, è necessario che la pedagogia controlli cosa l‟uomo assorba,
e soprattutto, educhi l‟individuo a discernere ciò che può nutrirlo di
167
Scaramuzzo, Gilberto, Paideia mimesis, cit., p.68. 168
Ivi, p.69.
56
bene, o di falsa apparenza169
. È necessario cioè che l‟educazione non
solo tenga sotto osservazione – supervisioni – le parole che
circondano e toccano l‟uomo, ma abitui il soggetto a saper ascoltare
solo il linguaggio che merita di essere accolto nell‟intimità. In
particolar modo, l‟indagine diventa urgente se ricordiamo la
pericolosità della mimesis, in quanto se «[essa] accade nell‟uomo
anche se questi non ne è ha piena coscienza»170
, dimostra nell‟uomo
una forte – eccessiva – malleabilità nei confronti degli enti che
percepisce. Espone, cioè, l‟uomo «al rischio di essere artatamente
manovrato dall‟esterno, con il rischio ulteriore e gravissimo di potersi
ritrovare interiormente manomesso […]»171
.
Pericolosità che nel Cratilo viene dibattuta riguardo la correttezza del
nome, in quanto se il nome è imitazione della cosa, si rischia di
ricreare un‟immagine – un doppione – che se «talora tralasci o
aggiunga anche poco, nascerà, sì, un‟immagine, ma non bella»172
.
Immagine che, ricordiamo, in questo lavoro consiste nella parola: il
riflesso espressivo dell‟interiorità che, in un atto comunicativo,
manifesta il suo segreto sentire.
169
Questo perché «se si fa la mimesis di qualcosa di bello di diviene belli, se si fa la
mimesis di qualcosa di brutto si diviene brutti: l‟uomo diviene ciò di cui fa la mimesis
[…]. Allora, se si vuole rendere bello l‟uomo e la convivenza, sarà necessario circondare
l‟uomo di creazioni belle; e impedire, così, alla radice, l‟eventualità perniciosa, per il
cittadino e per la polis, che qualcuno possa entrare in contatto con creazioni brutte, e che,
perciò, si formi interiormente a immagine e somiglianza del brutto anche senza
accorgersene» (Ivi, p.76). 170
Ibidem. 171
Ivi, p.64. 172
(Platone, Cratilo, cit., cap. XXXVIII, 431d). E sorge quindi la domanda :«non ci sarà
forse allora il buon artigiano dei nomi e il cattivo?» (Ivi), così come i poeti e insegnanti?
E i discepoli cosa apprenderanno? La risposta ovviamente la conosciamo perché come
abbiamo detto poco sopra (cfr. nota n. 169) l‟incontro con il bene, rende l‟uomo buono,
mentre il male lo rende malvagio. Quindi vien da se capire cosa diventi l‟educando che
incontra insegnanti che propongono nomi che non corrispondono alla cosa, e soprattutto:
insegnanti che non sanno come entrare davvero in contatto con la verità dei nomi.
57
La questione, però, continua a dibattersi perché tra i tre interlocutori
permane l‟interrogativo riguardo l‟origine da cui il nome prenda la sua
correttezza, e se sia migliore insegnamento conoscere dai nomi (intese
come immagini) o dalle cose stesse (che è verità stessa) 173
. A noi, per
intenderci, non interessa comprendere la posizione di Platone perché,
come abbiamo appreso dalla critica174
opposta alla mimesis dei poeti,
l‟autore dispregia la conoscenza tramite l‟arte in quanto, se non fosse
accompagnata dal farmaco della paideia, rischierebbe di provocare
l‟apprendimento – imitazione175
– di immagini, e non di verità. Quindi
la posizione di Socrate, contraria all‟apprendimento attraverso i nomi
– ossia mimemi –, cerchiamo di non seguirla; ma stretta teniamo la
consapevolezza di un esigente accompagnamento paideutico
173
Infatti Socrate dichiara a Cratilo: «Se dunque da un lato c‟è modo di imparare quanto
più possibile le cose tramite i nomi, ma dall‟altro c‟è anche modo di farlo per mezzo di
loro stesse, quale dei due sarà l‟apprendimento migliore e più chiaro? Apprendere
dall‟immagine l‟adeguatezza dell‟immagine stessa e la verità della quale è immagine,
oppure apprendere dalla verità la verità stessa e la sua immagine, se sia stata realizzata in
modo adeguato?». (Platone, Cratilo, cit., cap. XLIII, 439b). Questa posizione è però
«[…] una delle debolezze del platonismo quella di presentare i segni del linguaggio come
se fossero dei dipinti, delle imitazione di realtà in sé che bisogna cercare di cogliere
superando le “ombre”, delle quali le parole sono una specie. Questa strada è il percorso
della caverna: la prima ombra è la parola.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in
Platone e Aristotele, cit., p. 37). 174
Mi riferisco all‟accusa che sferra Platone contro i facitori di mimesis (cfr. Platone, La
Repubblica, cit., 597e), ossia i poeti accusati di proporre al pubblico una mimesis
superficiale. Superficiale non perché è fatta male – in modo sciatto – ma perché non si
rapporta al bene; non coglie, cioè, l‟intreccio relazione che lega ogni entità alla verità e
propone quindi una mimesis dell‟apparenza, che per gli spettatori senza farmaco – ossia
senza paideia – confondono per la realtà. Ecco quindi la pericolosità della mimesis che, se
non accompagnata da uno sguardo educato, rischia di plasmare colui che ne fa mimesis a
sua volta, in un movimento apparente, non vero. Perciò è necessario che accanto al
dinamismo interiore che ne scaturisce dalla mimesis, ci sia la paideia che abitui a una
postura e sguardo ermeneutico. E soprattutto renda consapevoli gli spettatori – gli
educandi – dell‟intreccio relazione che ogni cosa rapporta al bene. Poiché solo così è
possibile evitare di nutrirsi di una mimesis superficiale; il che equiparerebbe a esimersi
dal far divenire la propria intimità superficiale. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Paideia
Mimesis, cit., p. 81) 175
«Il problema dell‟imitazione si è posto dapprima a proposito del linguaggio. [per
Platone] Bisognerebbe quindi andare alle cose stesse evitando le parole, passare dalla
copia “verbale” al modello “reale”». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone
e Aristotele, cit., p. 37).
58
nell‟incontro dialettico tra gli uomini. Non solo perché dà spessore al
ruolo della pedagogia, ma in quanto rivela l‟importanza di educare gli
uomini ad ascoltare ogni tipo di parola sapendo quali accogliere
interiormente.
La chiave di risposta ovviamente è il farmaco che, nel X libro de La
Repubblica176
, Platone rivela come un‟entità necessaria per non cadere
nella mimesis delle ombre. Un habitus – in quanto abitua l‟uomo ad
assumere una certa postura – che consente di conoscere – vedere177
! –
l‟intreccio relazionale che unisce la realtà al bene/sole. Una cura che
corrisponde ovviamente alla paideia: il nutrimento che abitua l‟uomo
non solo a vedere la verità, ma a riconoscerla178
. E come possiamo ben
intendere, questo farmaco corrisponde ovviamente all‟insegnante che
è stato capace di entrare in contatto con l‟essenza del nome179
; a colui
che ha vissuto – è divenuto – con rispetto l‟essere che comunica.
Questo perché, come abbiamo accennato all‟inizio del capitolo180
,
l‟insegnante buono non è colui che ha l‟arte di dare i nomi, ma colui
176
«Tutte le opere di questo genere [quelle prodotte da chi non rivolge lo sguardo verso la
verità] costituiscono, sembra, un grave danno per lo spirito degli ascoltatori che non
dispongono del farmaco, ossia che non le conoscono quali sono effettivamente» (Platone,
La Repubblica, cit., X, 595b). 177
«Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si
mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me. In
altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le
cose secondo la faccia che gli rivolgono». [corsivo aggiunto] (Merleau-Ponty, Maurice,
Fenomenologia della percezione, cit., pp. 114-115). 178
Si veda per una riflessione filosofica educativa sul mito della caverna (cfr. Platone, La
Repubblica, VII, cit.) Scaramuzzo Gilberto, Paideia Mimesis, cit. 179
«SOCR. E che dici di questo? Non ti pare che ciascuna cosa abbia anche un‟essenza,
così come un colore […]? E per primi il colore e la voce, non hanno una essenza ciascuna
di queste e di tutte quelle altre cose che sono considerate degne di questo appellativo,
l‟essere?
ERM. A me pare.
SOCR. E allora, se qualcuno potesse di ciascuna cosa imitare con lettere e con sillabe
proprio questo, l‟essenza, non mostrerebbe per ciascuna cosa ciò che è? […]». (Platone,
Cratilo, cit.., cap. XXXIV, 423e). 180
Cfr. Ivi, 388c, 5-7.
59
che li sa usare; ovvero, colui che non usa le parole come fossero
strumenti.. ma come fossero mediatori che aiutano gli uomini a entrare
in relazione non superficialmente.
Il vero magister si andrebbe a configurare, così, proprio con
l‟uomo/prigioniero181
che, attraverso la guida della paideia, è riuscito a
vedere la realtà secondo la luce della verità. È riuscito cioè a fare la
mimesis dell‟essenza, cogliendo in questo modo l‟intreccio relazionale
che unisce ogni cosa al bene. È l‟uomo che è stato capace di vivere
mimesicamente ed esteticamente i nomi, intendendoli non come
immagini, riflessi.. ma segni significanti.
Una caratteristica che non dovrebbe possedere solo l‟insegnante ma
dovrebbe qualificare l’azione stessa dell‟arte di insegnare. Un arte che
attraverso dei segni – in questo caso i vocaboli – non trasmette solo
conoscenze, ma imprime dei significati, delle essenze con cui,
entratoci in contatto, rendono autentica la conoscenza della realtà.
Infatti se i bambini fossero abituati fin da piccoli a penetrare nei nomi
– ossia mimemi –, e fossero accompagnati dalla cura della paideia,
crescerebbero con la capacità di cogliere autenticamente la realtà,
perché vivendo mimesicamente il linguaggio, giungerebbero a cogliere
l‟essenza delle cose, e soprattutto: comunicherebbero seguendo la
natura del proprio essere182
.
181
Cfr. Platone, La Repubblica, cit., VII. 182
Questo perché se il linguaggio è «uno strumento che al contempo istruisce e
discrimina; [in quanto] attraverso il linguaggio “apprendiamo gli uni dagli altri e
distinguiamo le cose seguendo la loro natura”, si dice in 388b […] può essere indirizzato
ad altri soltanto per il fatto che anzitutto si rapporta alle cose.» (Paul Ricouer, Essere,
essenza e sostanza in Platone e Aristotele, cit., p. 38).
60
Capitolo terzo
L’espressione dell’umano secondo Ferdinand Ebner
“I corpi umani
sono parole,
miriadi di parole”.
(Walt Whitman)
Dal capitolo precedente abbiamo quindi accertato che la parola è un
mimema, ossia un‟opera creativa183
specificamente umana che
attraverso una corporeità verbale, rappresenta in una forma universale,
oggettiva, un senso invisibile. Questo perché il prendere forma (nella
voce o nel gesto) equivale all‟attuarsi di un‟espressione che prende
vita nel mondo; concretizza, ovvero, un‟invisibilità184
in un‟immagine
183
Creativa in quanto essendo un atto generato dall‟energia umana della mimesis, è
un‟entità che l‟uomo ha precedentemente vissuto prima di poterla comunicare. Il soggetto
ha dovuto, cioè, immedesimarsi – vivere in sé – l‟essenza dell‟oggetto, per poter solo
allora esprimere esso. Questo poiché «la mimesis, così come qui ce la descrive Platone, è
infatti quella capacità che consente all‟uomo di ricreare una qualsiasi realtà [….]
attraverso un processo di trasfigurazione in una forma umana che si assume in proprio. La
mimesis segnala un poter crearsi esteriore e […] interiore […] a immagine e somiglianza
di un qualunque ente […] ». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis. cit., p. 62). Per
questo è lecita l‟affermazione di Edda Ducci che dichiara la parola l‟ «attuarsi della
capacità di svelamento creativo [corsivo mio] che sonnecchia come forza
incommensurabile nell‟io e che spiccia solo nel rapporto al u, cassa viva di risonanza in
cui le possibilità diventano realtà-parola. In tal modo l‟io scopre nella parola la parte più
umana di sé perché vive l‟atteggiamento che lo distingue dagli altri viventi: la capacità di
voler rompere la crosta individualistica e poter demolire la muraglia cinese del
solipsismo» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.94). La parola è insomma «una forma di
produttività che è divenuta imperiosamente „pura‟, rivolta verso l‟interno, a tal punto che
la direzione attiva (soggettiva) del processo cessa di essere una semplice creazione di
contenuti […] di essere attività di qualche cosa, come nella prospettiva husserliana, per
diventare una sorta di creare „eterno‟ in cui l‟energia produttiva e ciò che viene prodotto
coincidono nel soggetto e nell‟oggetto raggiungendo la completa identità […]» (Matassi,
Elio, Il giovane Lukàcs, cit., p. 175). 184
Dico invisibilità perché la soggettività non è percepibile materialmente senza un
corpo. In questo modo la lingua – intesa come carne verbale – rappresenta l‟essere intimo
di ciascuno di noi perché «La parola non è un accessorio umano all‟essere. Anzi essa è,
61
oggettiva che non resta riflesso opaco del senso.. ma diviene apertura
– riconoscibile – verso l‟indicibile
La parola è infatti un‟entità comunicante che trasmette, attraverso la
sua rappresentazione, un‟essenza. Non è un involucro che contiene
passivamente un‟idea, ma un vissuto che vive nella sua sostanza
l‟essere che vuole comunicare. Non va confusa quindi con «un
fenomeno psichico, fisiologico, o addirittura fisico»185
privo di senso,
ma come un‟estensione, un attuarsi del pensiero significante, in una
forma oggettivabile.
Per questo è necessario definirla azione espressiva perché, tramite
questo agire, il significato può esistere in “un organismo di parole”186
;
può ossia divenire presenza187
, grazie alla possibilità di abitare –
nella sfera del vivere ed esperire umano, il fondamento divino di tutto l‟essere in genere».
(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.67). Senza di essa, l‟uomo non avrebbe quella
particolarità espressiva, e soprattutto quel bisogno interiore di comunicare, che lo
distingue dagli altri esseri animali. Infatti «il fatto che l‟uomo ha la parola denota dunque
l‟esserci in lui di un‟interiorità, distinta dal naturale e dal sociale, non chiusa né
solipsistica, perché sostanziata di parla che è relazione personale, e costantemente
arricchita e stimolata mediante la parola che lascia entrare nell‟interiore della vita tutto
ciò che è esteriore all‟esperienza» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.45) 185
Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 247. Questi
aggettivi rimandano alle teorie dell‟intellettualismo, ossia a quelle teorie empiriche che
tendono a studiare – oserei dire: ridurre – la fenomenologia della realtà come oggetti privi
di coscienza e che Husserl accusa colpevoli della crisi del disincantamento (cfr. Weber,
Max, La scienza come professione, Bompiani, Milano, 2008). La “conoscenza
trascendentale” (cfr. Costa, Vittorio, La fenomenologia, cit., p.48) della fenomenologia,
una volta applicata, consente infatti all‟uomo di «lasciarsi impregnare dal mondo,
sospendendo il giudizio, dando nuovamente voce all‟oggetto, riscoprendo il senso e
l‟ordine delle cose, che il modificarsi il continuo dei sistemi di riferimento e di appoggio
ha reso incerti e problematici. […] Il metodo fenomenologico si presenta così come una
continua donazione di senso ad un‟esperienza muta, o che tende a diventar tale nella
coscienza comune» (Bodei, Remo, La filosofia del novecento, cit., p. 110). 186
Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.253 187
Cfr. Ibidem. «Anch‟essa [la parola] è corpo, in un certo senso, perché è inseparabile
dalla voce e partecipa delle molteplici possibilità comunicative che il corpo possiede»
(Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.68)
62
“frequentare”188
– un tempo e uno spazio per mezzo del proprio corpo.
La parola va infatti interpretata come un gesto sensibile – percepibile
– che distingue la fisionomia espressiva di ciascun individuo, proprio
perché va a coincidere con l‟azione espressiva creatrice dell‟essere.
Essendo quindi una delle abilità corporee adoperate dall‟uomo per
manifestarsi, la parola va intesa come il mezzo umano più nobile «per
rendersi presenti [; lo] strumento privilegiato di ogni rivelazione, [il]
dono di sé all‟altro.»189
. Una definizione autorevole in quanto
permette di riassegnarle il valore est-etico che le spetta, e a
contraddistinguerla dalle altre azioni linguistiche più consumate nella
vita quotidiana.
La parola che intendo infatti indagare, non rappresenta
superficialmente un grafema grammaticale, ma attua uno dei più fini e
delicati dinamismi esistenziali dell‟uomo: cioè la comunicazione.
Quel movimento che si distingue per l‟emittente, in una tensione verso
dentro – perché cerca di com-prendere la propria interiorità190
–;
188
«[…]il corpo, in quanto ha dei “comportamenti” è quello strano oggetto che utilizza le
sue proprie parti come simbolica generale del mondo e attraverso il quale, perciò, noi
possiamo “frequentare” questo mondo, “comprenderlo” e trovargli un significato.».
(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.316). Non dobbiamo
intendere il corpo come «semplice materialità, come evidenzia massiccia: il nostro è un
corpo capace di orientarsi all‟altro, di interloquire con lui, di esprimere col suo
atteggiamento: “eccomi sono qui!”». (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medica ed
estetica, cit., p.67). Interagisce con il mondo, e soprattutto, permette all‟uomo di
partecipare come ente nella vita. 189
Ivi, p. 68. (Cfr. Barbotin, E., Humanité de l‟homme, Aubier, Paris, 1970, pp. 131-132) 190
Come afferma Ebner, «L‟esigenza [dell‟uomo] è vivere in sé non fuori di sé. Viversi
interiormente nella propria vita.» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.50). Parole
che emozionano ogni volta che si rileggono perché con una splendida sinteticità e
poeticità ci trasmettono l‟essenza dell‟espressione: ossia l’attuarsi dell’uomo in sé, al
mondo. Un‟azione che ha un doppio movimento – che corrisponde a sua volta anche a
una doppia esigenza umana -: uno che protende all‟indentro, per giungere a cogliere e
stringere con mano la propria interiorità segreta; l‟altro che si dirige verso l‟esterno – il
mondo, lo spazio che rende contingente ogni vissuto dell‟uomo – per dar forma visibile al
proprio sentire.
Un bisogno umano che Pirandello riesce a trascrivere in queste righe: «Io sono nato per
esprimere. Chi ha un senso schietto della vita del resto non può far altro. Ha provato:
63
mentre per il ricevente, consiste in un gesto di accoglimento, di
apertura, in quanto pro-tende verso l‟ascolto dell‟altro.
3.1 La parola dello spirito
Ma a cosa corrisponde ontologicamente questa espressione linguistica
ancora non l‟abbiamo definito.
Ebbene, per rispondere a questa indagine prenderò in prestito le
pagine di un autore poco conosciuto (e purtroppo poco studiato) che
dedica la sua vita alla scoperta dell‟espressione umana. Espressione
non nel senso artistico – intesa come performance –, ma come un
esperire191
, ossia un esistere interiore. Mi sto riferendo a Ferdinand
non può. […] esprimere, dunque. Esprimere tutto. Per meno uno non ci si mette.
Nell‟esprimere, la nostra vita avrà la sua vera, piena giustificazione, in se stessa, ma non
basta: bisogna che il suo valore sia grande, bisogna esprimere <tutto>. Non abbiamo forse
in noi il senso della vita? […] Esprimere è dire agli uomini com‟è la vita, come uno
spirito umano fatalmente disinteressato la sente in sé per tutti […] si tratta […] di
comunicare altrui […] le forme che lo spirito umano crea, quasi continuando su altro
piano l‟opera stessa della natura narrante, forme in cui si stringe e s‟addensa, assunto,
cioè fermo nel moto stesso per cui si svela, un genuino senso umano di questa misteriosa
vita che tutti viviamo». [il corsivo è mio] (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p.10). 191
Sottolineo questo idioma, perché voglio indagare nella sua profondità, il movimento e
il valore intrinseco che possiede questa azione, in quanto è urgente riscoprirne il suo
significato, «dal momento che non ho dubbi sulla funzione catalizzatrice che esso può
svolgere nella realtà educativa, funzione che a mio parere non può mai esse svolta da
nient‟altro» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.79). Di fronte infatti a un tempo sempre
più accelerato e a-spaziale, l‟agire espressivo sta subendo tristemente un processo di
materializzazione che equivale a una vera e propria bulimia (cfr. Mattei, Francesco,
Sfibrata Paideia, Anicia, Roma, 2009) dell‟interiorità. Sempre più congiunto alla
limitante definizione di “tirare fuori”, questo dinamismo espressivo sta perdendo il suo
valore di rappresentare la relazione che vive il soggetto con se stesso e con il mondo.
Esperire, infatti, altro non è che un vivere di dentro nel mondo, nel senso che colui che
esprime è un soggetto che ha percepito e vissuto la propria interiorità, ma al contempo è
presente nella realtà in cui vive. È un uomo che vive, con un profondo senso di
coinvolgimento e reciprocità, perché «esperire l‟umano comporta indubbiamente la
64
Ebner192
, un filosofo spiritualista che identifica – non a caso – la
parola come espressione dello spirito umano. Come possiamo infatti
leggere in una sua raccolta di aforismi193
, lui la definisce come un
«segno che lo contraddistingue [l‟uomo] su tutte le creature»194
perché
non tutti gli esseri viventi sono capaci di comunicare e soprattutto,
vivono l‟esigenza di comunicare195
.
sensazione viva dell‟esserci e dell‟attuarsi di tali dimensioni […]» (Ducci, Edda, L’uomo
umano, cit., p.80). Un vissuto che R. M. Rilke trascrive confidenzialmente nello scambio
epistolare avvenuto con un giovane aspirante poeta. Una modalità di vivere che lo stesso
Rilke trova impossibile consigliare, perché «non v‟è che un mezzo. Guardi dentro di sé.
Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel
punto più profondo del suo cuore […] costruisca la sua vita secondo questa necessità. La
sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di
questa urgenza. […] Lasciare che ogni impressione e ogni germe di un sentimento si
compia tutto dentro, nell‟ombra, nell‟indicibile e inconscio e inattingibile alla propria
ragione, e con profonda umiltà e pazienza attendere l‟ora della nascita di una nuova
chiarezza: questo solo significa vivere da artista: nel comprendere come nel creare.»
(Rilke, Rainer Maria, Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano, 2009, pp.38, 49). 192
Per la riflessione del suo pensiero utilizzerò, principalmente, l‟opera La parola
nell’uomo di Edda Ducci, guida per eccellenza in questo capitolo, in quanto mi ha
permesso di cogliere nella sua unicità questo autore. Nei suoi studi ci permette, infatti, di
rivelare come il filosofo abbia «di mira la parola nell‟uomo. Intende [cioè] esplicitare
l‟umano e indicare la strada per diventare, nella concretezza e quotidianità del vivere,
uomo con gli uomini.» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.25). 193
La forma letteraria più adoperata da Ebner al fine «di tener saldo un principio: ciò che
si scrive è scritto per essere vissuto.» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.11). 194
Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p. 148. 195
«L‟albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l‟aria, la luce, il vento, la pioggia,
non sono cose che esso non sia. All‟uomo, invece, nascendo è toccato questo triste
privilegio di sentirsi vivere». (Pirandello, Luigi, L’umorismo, in Saggi e interventi,
Mondadori, Milano, 2006, p. 942). Ho citato questo passo per evidenziare quanto l‟uomo
sia uno dei rari esseri animali in cui è custodito il “triste privilegio” di sentirsi – di
viversi! – e di conseguenza, l‟urgenza interiore di comunicare. Un dono e fardello, al
contempo, che contraddistingue l‟esistenza dell‟uomo non solo dagli altri enti, ma anche
fra gli uomini stessi, perché non tutti sono capaci di ascoltarsi (e chissà, magari è
un‟incapacità ricercata e voluta visto che per molti, è più facile vivere in modo
superficiale). «Deve essere comodo [infatti] vivere alla “superficie” della vita. (Non
significa forse vivere “senza peso”, vivere senza mai fare esperienza del peso interiore
della vita?) L‟uomo che vive così può mai sapere qualcosa del mistero della vita? Può
mai arrivare a rispettare [il corsivo è mio] questo mistero?» (Ebner, Ferdinand, La parola
è la via,cit., p.116). Ho voluto sottolineare questo verbo perché da questa frase possiamo
capire quanto questo filosofo sia prettamente pedagogico, e in particolare, sia affine alla
nostra ricerca, poiché, quello che ci sta retoricamente domando Ebner, è uno degli
obiettivi che, a mio parere, l‟educazione dovrebbe più contribuire a mantenere nella sua
collaborazione – futurista – con la politica. Perché formare l‟uomo, abituarlo a viversi,
65
La parola, secondo Ebner, deriva infatti «dallo spirito, [che] accoglie
nel suo corpo la forma della lingua e parla per il movimento
dell‟anima o muove l‟anima»196
. Deriva, ovvero, da quel luogo che
Pirandello chiama punto vivo197
: un punto dove viene custodito il
nostro senso della vita198
, dove respira quel sentimento – strettamente
personale – che nasce dalla vita stessa e ha bisogno di restar legata a
essa per poter vivere. Un dinamismo interiore che protende
perennemente verso l‟esterno, perché necessita di vivere attraverso la
realtà, e di mostrarsi al mondo come lui stesso si vuole perché mai
potrebbe vivere autenticamente senza il corrispondere alla propria
essenza.
Esso «ci ha condotti a “vedere” la vita proprio secondo il senso che ne
abbiamo, che ne avemmo alle origini e che abbiamo salvato, e
“vedere” non passivamente, non come uno che contempla da lontano,
ma come uno che può toccare ciò che vede e non sa bene se tocca
perché vede o non piuttosto le cose si facciano al suo tocco quali egli
non significa solo imparare ad amare il proprio sentire, ma si intende spronare l‟uomo a
volere ascoltare l‟altro! Perché se la capacità di sentirsi avviene proprio tramite l‟incontro
con l‟altro, e quindi l‟io diviene riconoscente al Tu, vien da se capire quanto possa essere
da legante questo viversi! Vorrebbe dire che avremo società composte da cittadini che
amano sentirsi, che vogliono esprimersi, che desiderano rispettarsi l‟uno con gli altri. 196
Ibidem. 197
Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit. 198
«Ogni essere che nasce alla vita è portatore di un senso della vita. In cotesto senso
della vira c‟è la possibilità di cogliere sé come vivente, ma anche la necessità di
domandarlo fuori di sé, nel mondo. […] Il senso di sé e il senso della vita confluiscono
nel senso del mistero. Avere un senso schietto della vita comporta, di necessità, che ci si
orienti nel suo mistero. […] La categoria del mistero assume una particolare forza. Il
primo movimento che sembra caratterizzare il dinamismo umano coincide con il cogliere
il senso di sé e il senso della vita come mistero, fino a far coincidere senso di sé, senso
della vita e senso del mistero. È proprio questo senso del mistero ad orientare e a fornire
l‟energia movente all‟agire umano qualificato. Ed è per esso che l‟esistenza umana
raggiunge pienezza […]» (Scaramuzzo, Gilberto, Non parlo di me. Una riflessione
sull’umanazione firmata Luigi Pirandello, in Ducci, Edda (a cura di), Aprire su paideia,
Anicia, Roma, 2004, pp.43-44.)
66
le vede, e il suo tocco non è che una parola, una parola sua, del suo
linguaggio»199
.
Che significa? Che ogni nostra espressione è l’attuarsi visibile di
questo sentire proprio, un “evento reale”200
in cui il senso dell‟essere
poggia la sua esistenza in un segno oggettivo201
: il corpo. E
soprattutto, che ogni suo rappresentarsi avviene tramite un linguaggio
specifico202
– propriamente nostro – che plasma secondo il proprio
sentire il suo corpo, la sua voce, il suo volto203
.. ogni carne del
visibile.
199
[il corsivo è mio] Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p. 1478. 200
(Cfr. Costa, Vincenzo, La Fenomenologia, cit., p.82). Ma attenzione. Non è evento
perché diventa oggetto permanente (cfr. Ricoeur, Paul, Dal testo all’azione, cit., p.134),
ma perché è l‟io che, nel qui e nell‟ora, diviene presenza. (cfr. Marcel, Gabriel, Homo
viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma, 1967, p.23). Prende
ovvero le sembianze del Da-sein heideggeriano, «il luogo in cui l‟apertura si manifesta»
(Costa, Vittorio, La fenomenologia, cit., p.275), l’esser-ci espressivo dell‟ente. 201
«Ora, tra l‟intenzione significante e la voce sensibile che la sorregge esiste un nesso di
fondazione ben preciso: il significato poggia sulla presenza sensibile del segno che
proprio per questo si anima di un senso» (Costa, Vincenzo, La Fenomenologia, cit., p.
84). 202
«[…]ogni singolo ha il suo modo proprio di parlare la propria lingua, nel senso
spirituale e in quello puramente fisiologico. Se non fosse così come saremo capaci di
riconoscere un uomo soltanto dal suo particolare modo di parlare, se lo sentissimo, senza
vederlo? Quanto più un individuo è significativo, tanto più caratteristico è il suo parlare;
in senso spirituale.» (Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.29). 203
Delicata e interessante l‟affermazione di Ebner, il quale ritiene che «nel viso – viso è,
per vero non in senso etimologico, frontiera e risposta – si concentra tutto l‟uomo.»
(Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.129). Riguardo il ruolo del volto, c‟è un
filosofo in particolare che ha edificato in esso il suo pensiero. Mi sto riferendo a
Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo, che concentra la sua riflessione nella critica della
categoria della totalità – la quale ingabbia la diversità dell‟individuo – e
nell‟affermazione dell‟uomo come apertura dell‟Altro. Un tu che manifesta la propria
esistenza nel volto: una “nudità”, una “presenza viva” che si auto-impone “di per sé”(cfr.
Lévinas, Emmanuel, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, 1983, pp.
110, 124, 116) in quanto «gli Altri sono presenti in un complesso culturale dal quale
hanno lume, come un testo dal suo contesto […] Ma l‟epifania degli Altri comporta una
significanza sua propria, indipendente da questo significato ricevuto dal mondo. Gli Altri
non ci vengono soltanto incontro dal contesto, ma […] significano per se stessi» (Lévinas,
Emmanuel, Umanesimo dell’altro uomo, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1985, pp. 69-70).
Questo per significarci che il tu che ci guarda esiste prima di ogni nostra percezione; ha,
cioè, una sua spiritualità, una sua trascendenza che mette a disposizione per l‟io a cui va
incontro. Questo fa sì che nel momento in cui due volti si guardano, ci sono due
67
Le parole quindi non sono contenitori passivi della realtà, non
rappresentano come specchi l‟immagine di una cosa; ma la
esprimono! Esprimono – comunicano – una soggettività che, senza
questa forma parlante, non riuscirebbe a sentirsi viva. Danno
significato sensibile a una forma – la voce – che non avrebbe senso
umano senza interiorità. Non sono quindi né trascendenze, né pragmi,
ma rivel-azioni dell‟essere204
, il quale, dopo esser assorbito fin nel
fibre più intime dalla carne, prende forma, e diviene espressione per
poter esistere!
Un‟esperienza che l‟essere205
può percepire solo quando riesce a
permanere aderente al suo punto vivo (riesce cioè ad attuare il
dinamismo della mimesis – immedesimazione creatrice –) e ad
esperire per sé e per gli altri la sua unicità. Quella parte più intima, più
vera dell‟uomo, che ha bisogno di esprimersi per prendere
autocoscienza206
, e soprattutto, di toccare l‟altro pur rischiando di
restarne ferito207
.
soggettività infinite e immanenti che si schiudono vicendevolmente e richiamano un
senso di responsabilità l‟un l‟altro. 204
«La parola è parte totale delle significazioni come la carne del visibile, come essa è
rapporto all‟Essere attraverso un essere […]» (Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e
l’invisibile, cit., p.137). È “patrimonio ontologico” dell‟uomo (cfr. Scaramuzzo, Gilberto,
In-tendere, cit., p.109) che lo distingue dagli altri enti, non solo perché sente il bisogno di
parlare, ma perché è capace «di essere facitore della parola, creatore del senso» (Ivi, p.
109). 205
Essere in greco si può tradurre anche con logos, che non a caso significa anche parola.
Vuol dire che l‟essere per vivere come tale necessita di esprimersi nella forma
primordiale affidatagli all‟uomo, ossia la parola. La prima forma espressiva, la prima
azione che intende comunicare e soprattutto creare una relazione con il mondo esterno. 206
Secondo Ebner «l‟autocoscienza è identica all‟avere la parola; l‟uomo ha cioè la
possibilità, per la spiritualità del suo essere, di affermare la propria personalità mediante
l‟espressione “io sono”» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.78). Quindi «[…] per
l‟uomo principiare a parlare e affermare il proprio “io sono” la medesima cosa, ma
l‟affermazione dell‟io non c‟è senza l‟affermazione del tu. Questo filo sottile e tenace è
ciò che fa umano il linguaggio».(Ivi, p.148) E questo è anche il filo conduttore che mi
permetterà di giungere alla conclusione di questa ricerca: ossia l‟affermazione che nel
68
La parola diviene quindi la “possibilità ontologica dell‟in-tendere”208
:
la potenzialità e attitudine dell‟essere che permette all‟uomo non solo
di assumere una forma esteriormente oggettiva – in quanto divenuto
comprensibile a tutti – ma di agire, di affermarsi – di esistere! –
attraverso il suo esperire, creando così un legame inscindibile con
l‟essere209
di ciascuno.
Questo perché «la parola [è] fondamento dell‟essere e rivelatrice
dell‟essere»210
; è la forma parlante tramite cui l‟uomo si appropria
della sua essenza – della sua intimità segreta – e vi si ri-conosce211
.
La rende viva212
proprio attraverso il suo corpo che parla – esprime –
linguaggio avviene l‟attuarsi dell‟incontro tra l‟io e il tu (cfr. Buber, Martin, Io e tu, in Il
principio dialogico, cit.). 207
Dico ferita perché l‟incontro con l‟altro è ontologicamente rischioso, in quanto mette
entrambi i soggetti a disposizione dell‟altro (cfr. Lévinas, Emmanuel, Altrimenti che
essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 77-81). A riguardo, si veda Bruni, Luigino, La
ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007. 208
Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.100 209
«L‟unione che si stabilisce tra parola ed essere fa si che la parola sia rivelatrice [il
corsivo è mio] di essere poiché fonda l‟essere; pertanto se l‟uomo ha la parola questo
connota che ha una specifica modalità di essere». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,
p.72). Sottolineando l‟aggettivo “rivelatrice” ho voluto evidenziare uno dei ruoli primari
della parola. Un compito che è possibile attuare solo grazie alla sua forma ri-conoscibile
(cfr. Desideri, Fabrizio, Forme dell’estetica, cit., p.58), la quale, non a caso, le permette
di acquisire la definizione di espressione estetica. Essendo infatti tale rappresentazione,
possiamo vedere quanto «il linguaggio opera e diviene se stesso sempre ed ogni volta
come potenza che scopre, che manifesta, che porta alla luce » (Ricoeur, Paul, Il conflitto
delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p.82) l‟essenza dell‟io. È “portatrice di
senso” (Ricoeur, Paul, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio
della rivelazione, Jaca Book, Milano, 1994, p.148) del soggetto parlante, che va saputa
ascoltata, ma soprattutto, comunicata (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra
medicina ed estetica, cit., p 68). 210
Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.73 211
Per l‟uomo è fondamentale formarsi per riconoscersi. Non conoscersi come un oggetto
– in quanto questo movimento equiparerebbe a morire (Cfr, Pirandello, Luigi, La
carriola, in Novelle per un anno, cit.) – ma ritrovarsi. Perché ogni uomo ha il desiderio di
«costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara» (Pirandello,
Luigi, Uno nessuno e centomila, cit., p.98) ma non tutti hanno la volontà di scoprirsi.
Solo l‟uomo che ha l‟intenzionalità muoversi mimesicamente potrà allora vivere la gioia
di vivere la sua essenza, perché è stato capace di sentirla e agirla. 212
«[…] prima era- era- una voce nuova, “mia”, che tutti avevano ascoltata- a cui tutti si
erano voltati- voce “viva”- “viva”- “ANCORA VIVA”- mia!»(Pirandello, Luigi, Qando
si è qualcuno, cit., p.43). Emozionanti come sempre le parole di Pirandello che,
straordinariamente, riesce a mostrare nei suoi personaggi «La peculiarità della parola
69
in una miriade di lingue, quel sentimento che sente l‟urgenza213
di
agire per diventare vita vera – non solo astratta – tra gli altri.
La parola, infatti, non è fine a se stessa, non si esprime solo per
sentirsi. Il suo telos ultimo è quello di comunicarsi214
, di essere
ascoltata da qualcuno, di prendere valore nel mondo. È questa
intenzione di protendersi verso l‟altro, che dà senso alla parola, perché
«essa è data realmente e in maniera efficace solo in quanto uno parla a
un altro»215
. Se ci si pensa, infatti, che significato avrebbe la parola
senza questa relazione?
[che] non si dimostra né si misura – in tal caso parlare di mistero sarebbe stato parlare per
immagini –, [ma] la si vive, e vivendola se ne colgono gli effetti reali, percepibili, o
meglio esperibili distintamente ma sempre interiormente». (Ducci, Edda, La parola
nell’uomo, cit., p.90) 213
«[…] Ebner rimarca che la parola originaria deve essere stata una proposizione alla
prima persona venuta fuori da un grido di dolore. Questo io nel mentre diventò parola da
un grido di dolore e in questo affermò la propria esistenza e la espresse, disse, non con
una conoscenza tranquilla ma con una eccitazione appassionata: “Io sono e soffro”.
Questo il senso della parola originaria. Ma nella sofferenza della sua esistenza l‟uomo
diventò cosciente di sé, rifletté sul fatto di avere parola, in cioè lo spirituale diventò
cosciente di sé, cercò il tu, ossia lo spirituale distinto da lui, e così divento parola.»
(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.79). Un‟esigenza che per Etty Hillesum diventa
un‟esigenza di vita. Come infatti ci riporta Maria Gabriella Nocita: «Riuscire a far
emergere “dal fondo dell cose” il senso del proprio essere diventa per lei [Hillesum]
urgenza vitale». ( Maria Gabriella Nocita, Sentire la vita. Etty Hillesum si fa parola, in
Scaramuzzo, Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermeneusi di un mistero,
Anicia, 2009, p. 40). 214
Per l‟uomo è fondamentale comunicare, farsi capire dall‟altro. Lampante l‟esempio
della novella L’uomo solo «Poi si alzò; prese il figlio per un braccio; glielo strinse con
tutta la forza, come se volesse comunicargli con quella stretta qualcosa che non poteva o
non sapeva dire».(Pirandello, Luigi, L’uomo solo, in Novelle per un anno, cit., p.1236).
Anche Edda Ducci ci rivela il bisogno intrinseco dell‟uomo di esprimersi, di farsi sentire,
di definirsi evento vivo nella realtà, e lo troviamo nelle seguenti parole: «L‟io ha però in
sé l‟urgenza sì di conoscersi, ma soprattutto di essere conosciuto per emergere sia
dall‟oggettività sia dalla massa, e cogliersi in quella irrepetibilità che lo nobilita; e questo
avviene essenzialmente per l‟essere percepita, la sua parola, nel campo interumano; così
come il percepire, l‟essere in grado di percepire la parola dell‟altro lo consolida nella sua
stessa irrepetibilità.» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.112). 215
Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.79 .
70
3.2 La parola nella relazione
Per rispondere a questa domanda è necessario, però, interpellare un
altro autore che in maniera analoga a Ferdinand Ebner, anch‟esso
colloca la parola come espressione dello spirito umano216
. Mi sto
riferendo al filosofo ebreo Martin Buber217
il quale dedica proprio la
sua vita da studioso e uomo, ad indagare fin nella sua profondità,
l‟esperienza della relazione, in particolare: l‟incontro tra l‟Io e il Tu.
Come infatti afferma nell‟omonima opera, «ogni vita reale è
incontro»218
: ossia, ogni esistenza si attua nella relazione tra l‟io e il
tu, perché è proprio nel luogo dell‟incontro, che l‟io si ri-conosce e
diventa presenza per un tu. Attua ovvero la sua esistenza, permettendo
al suo spirito di vivere. Perché, come ci riporta l‟autore, «lo spirito
non è l‟io, ma tra l‟io e il tu»219
. Lo spirito dell‟uomo non è cioè
ridotto a un io individualistico, ma intersoggettivo. La sua
attualizzazione non sarà quindi manifestazione egoistica, ma apertura,
disponibilità, ascolto verso l‟altro.
E solo tenendo ben presente questo principio dialogico220
, potremo
allora capire la differenza che ci si prospetta nel momento in cui
216
«Lo spirito è parola. E come il discorso parlato prima si struttura in parola nel cervello
dell‟uomo, e poi può farsi suono nella sua gola […] così è per ogni parola, per ogni
spirito». (Martin Buber, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo,
Cinisello Balsamo, 2012, p.85). 217
Martin Buber, filosofo ebreo-tedesco, condizionato dal dramma storico in cui visse,
individua come via della salvezza umana la relazione. Un incontro che, avvenendo
nell‟intimità dell‟io e del tu, produce un‟esperienza capace di umanizzare gli uomini (cfr.
Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 87). 218
Martin Buber, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p.67. 219
Ibidem. 220
Il principio dialogico è il cuore pulsante del pensiero filosofico di Martin Buber; il
motore di ogni relazione autentica perché, per attuarsi, essa necessita il movimento
essenziale di due soggetti che si incontrano. Un‟azione che Buber definisce «rivolgersi [il
corsivo è mio]. Apparentemente si tratta di qualcosa di quotidiano e di insignificante:
quando si guarda qualcuno, gli si rivolge la parola, ci si volge proprio a lui, naturalmente
71
definiamo la parola come espressione dello spirito. Perché se lo
spirito vive e agisce solo nell‟incontro tra l‟io e il tu, la parola –
quella vera – dovrà vivere necessariamente solo incontrando un tu.
Una precisazione ontologica che permette di individuare l‟origine del
significato intersoggettivo della parola e il suo valore est-etico. Questo
perché non essendo un segno apparente, ma un’espressione
significante dello spirito che assume una forma , ci fa capire quanto la
parola sia essenzialmente percettiva e pregnante di essere. Quanto sia,
ovvero, una rappresentazione estetica che mostra, in una forma
percettibile l‟interiorità dello spirito, e dà voce e corpo sensibile a
un‟intimità che, senza esperire, sarebbe muta. Diventa, ovvero,
presenza, perché attraverso la carne della voce e del corpo (a seconda
del linguaggio utilizzato) l‟Io prende vita nel mondo. Ed è questa
esteticità – ossia interiorità visibile – che ci porta a rilevare il carattere
dialogico della parola, perché se assumendo la veste del suo
linguaggio, lo spirito diventa presente, significa che l‟io-parola
richiede necessariamente la percezione di un Tu, affinché possa
esistere. Richiede cioè l‟incontro con l‟altro, che funge non solo da
ci si volge a lui fisicamente, ma anche, nella misura necessaria, spiritualmente, dal
momento che a lui si rivolge l‟attenzione. Ma, di tutto ciò, che cos‟è un‟azione essenziale
compiuta con il proprio essere? È quella per cui, dall‟inafferrabilità di ciò che è a
disposizione avanza quest‟unica persona e diventa presenza; ora, nella percezione che ne
abbiamo, il mondo non è più un‟indifferente molteplicità di punti, a uno dei quali
prestiamo forse momentanea considerazione, ma un illimitato ondeggiare illimitato,
eppure limitato dalla diga e, per quanto non circoscritto, divenuto tuttavia finito nel suo
punto centrale, divenuto immagine, liberato dalla sua indifferenza!» (Buber, Martin,
Dialogo, cit., p.208). Il linguaggio, il dialogo tra l‟io e il tu, «inteso nella pregnanza di
una relazione intersoggettiva attuale» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 206)
permette così la realizzazione di uno contatto spirituale. Ma non «un rapporto idilliaco,
trascendente, ma un rapporto spirituale, concreto e di conseguenza reale!» (Ebner,
Ferdinand, Parola e amore, cit., p.141).
72
luogo espressivo per le voci di dentro221
dell‟Io, ma dà la possibile
esperienza di sentirsi presente.
Lo spirito quindi non diviene espressione – vita – solo vivendosi, ma
essendo vissuto da qualcuno222
.
Ed è per questo che è necessario che l‟Io assuma la forma della parola:
l‟unica azione – l‟unica espressione – che intrinsecamente richiama la
presenza dell‟altro per esistere. Questo perché «essa è data realmente
e in maniera efficace solo in quanto uno parla a un altro. “La prima e
la più antica espressione di un organo linguistico individuale
originario fu già, nel primo suono emesso, non più soltanto lingua
individuale, ma lingua, ossia qualcosa che passa fra un uomo che parla
e uno che ascolta”».223
Ritengo allora necessario aprire qui una piccola parentesi riguardo la
questione della lingua, ossia quell‟insieme di vocaboli224
che
permettono all‟Io di prendere coscienza di sé e manifestarsi. Questo
perché se il linguaggio si configura come abito della parola – ossia
dello spirito – ci dobbiamo domandare non più «come l’io giunge al
tu e il tu all’io» ma «come giunge la lingua all’io e l’io alla
221
Titolo di un‟opera teatrale di Eduardo De Filippo. 222
Cfr. Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.80. «Nell‟attualità del suo essere
pronunciata [la parola] presuppone che tra l‟io e il tu ci sia un rapporto personale. Ma
questo a sua volta non è pensabile senza il rapporto alla parola; in esso è resa oggettiva la
possibilità, data all‟uomo dall‟avere la parola, di poter cioè affermare la propria esistenza,
dunque la possibilità di parlare, ma anche, dato che ha il senso per la parola, di udire, di
accogliere in sé l‟interpellanza che gli viene dal di fuori». (Ivi, pp.148-149). Nel
linguaggio è quindi reso possibile l‟attuarsi dell‟incontro tra l‟io e il tu, e soprattutto, è
realizzata la rappresentazione del soggetto in una forma visibile (cfr. Merleau-Ponty,
Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, cit.). 223
Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.148. 224
Vocabolo – attenzione – non per ridurre questa interiorità espressa in un oggetto, ma
per sottolineare quanto sia una composizione di lettere che nella voce, nel corpo, nella
musica o nei colori esprime il proprio sentire.
73
lingua»225
. Ci dobbiamo indirizzare, ovvero, verso la questione di
comprendere come l‟uomo si appropri della lingua e riesca a plasmare
la propria parola in linguaggio. Problema che è facilmente risolvibile
ricordando il movimento che attua l‟uomo per creare un mimema.
Come ho infatti cercato di approfondire nel secondo capitolo, l‟uomo
impara ad usare i nomi solo dopo essere riuscito a intendere la loro
natura, ovvero: solo dopo esser riuscito a vivere nelle fibre più intime
l‟essenza della cosa da dire226
.
Riflettere quindi sulla modalità attraverso cui l‟uomo diviene
linguaggio, richiama necessariamente l‟intervento della ricerca rivolta
a indagare il movimento originario che permette all‟uomo di
esprimersi, ossia di attuare il proprio sentire in una forma vivente –
parlante227
–. Mi riferisco alla mimesis228
, ossia a quel il dinamismo
interiore che abbiamo precedentemente affrontato con Platone, e che
caratterizza l‟uomo come ente capace di divenire la sua soggettività,
nella propria profondità. Quell‟energia che vibra nell‟agire creativo
espressivo della parola (o anche detto mimema) e che consente
all‟uomo di dar forma – presenza – all‟io.
È essenziale aver rispecificato questo movimento in quanto ci
permette non solo di intendere la modalità attraverso cui l‟uomo si
225
Ducci, Edda, La parola nell’uomo,cit., p.149. «perché nel caso che si pronunci
effettivamente io sono questo diventa la fondazione della realtà ultima dell‟io, ma
significa anche che l‟io ha di fronte un qualcosa di simile a sé, che tale si rivela perché gli
può essere indirizzata la parola e può riceverla, accoglierla, comprenderla.» (Ibidem). 226
Cfr. Platone, Cratilo, cit., 389d. 227
Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, La Fenomenologia della percezione, cit., p. 269. «Lo
spirituale nell’uomo, creato dalla parola, per il fatto che questa è entrata in lui, che egli
perciò ha la parola, è una natura parlante, esiste soltanto in rapporto a qualcosa di
spirituale distinto da lui, l‟io esiste soltanto in rapporto al tu – esso esiste nella parola,
nell‟attualità della parola e sul fondamento di questa attualità». Il corsivo è mio. (Ducci,
Edda, La parola nell’uomo, cit., p.93). 228
Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit.
74
appropri del linguaggio, ma ci consente di penetrare fin al di dentro la
capacità ontologica che permette all‟uomo di trasformarsi in parola –
ossia nella rappresentazione mimesica per eccellenza – e divenire così
un ente dialogico229
.
Perché è nella sua «attualità del suo esserci e nella divinità della sua
origine [che la parola diviene] manifestazione oggettiva dello
spirituale che è nell‟uomo, [e genera sicché] di conseguenza,
[l‟affermazione che] senza la relazione dell‟io al tu, intesa non in
senso psicologico ma in senso pneumatologico230
, non solo non ci
sarebbe la lingua, ma neppure l‟io.»231
.
229
Perché la vita con gli uomini si configura «In forma di parola […] nel discorso rivolto
e ricevuto. Solo qui la parola fatta di linguaggio [corsivo mio] incontra la sua risposta.
Solo qui va e viene, sempre con la medesima forma, la parola fondamentale; in una sola
lingua vivono la parola fondamentale dell‟appello e quella della risposta, l‟io e il tu non
sono semplicemente nella relazione, sono anche nella salda “integrità”. Qui, e solo qui, i
momenti della relazione sono uniti dall‟elemento del linguaggio in cui sono immersi».
(Buber, Martin, Io e tu, in Principio dialogico, cit, pp.133-134) 230
Sottile qui la critica alla psicologia ancora in fasce, accusata di pretendere di
scandagliare e classificare il mistero dell‟uomo. Come infatti afferma Buber, nella nostra
epoca «[…] predomina, tra uomo e uomo, uno sguardo analitico, riduttivo deviante. È
analitico, o piuttosto pseudoanalitico, perché tratta l‟intero essere corporeo-spirituale
come composito, e quindi scomponibile; e non solo il cosiddetto inconscio, accessibile a
una relativa obiettivazione, ma anche la corrente psichica stessa, che, per la verità, non è
mai comprensibile come qualcosa di oggettivamente consistente. Lo sguardo è riduttivo,
perché vuole ridurre la molteplicità della persona, nutrita dalla microcosmica ricchezza
del possibile, a strutture schematicamente dominabili dallo sguardo, ovunque ripetibili.
Ed è deviante, perché presume di poter comprendere l‟essere divenuto di un uomo,
persino il suo divenire, in formule genetiche e addirittura di poter rappresentare con un
concetto generale il principio centrale dinamico individuale di questo divenire. Oggi non
si tende solo a un semplice “disincanto” tra uomo e uomo […] ma anche a una radicale
soppressione del mistero». (Buber, Martin, Il farsi presenza della persona, in Elementi
dell’interumano, in Il principio dialogico, cit., p.305). Per questo Ebner propone che la
sua filosofia sull‟umano prenda origine da una riflessione pneumatologica, ossia da un
indagare che resti fedele allo spiritualità umana (cfr. Ducci, Edda, La parola nell’uomo,
cit., p.129), a quel mistero che prende voce e vita nella parola – ossia l‟attuazione e
svelamento dell‟io (cfr. Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 95) –, al fine di non
disperdere e oggettivizzare nella caotica mercificazione del corpo (cfr. Russo, Maria
Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p. 25) l‟intima individualità del
soggetto. 231
Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.176
75
Dalla parola quindi, intesa come ponte ontologico tra l‟io e il tu, non
prende vita solo l‟esperire del soggetto, ma vi ha origine la relazione.
Concetto fondamentale per riallacciarsi alla questione centrale di
questo paragrafo: capire come l‟io e il tu si incontrano –
compenetrandosi e intendendosi – nel dialogo232
: il luogo per
eccellenza dell‟unione, in cui le essenze degli uomini si attraversano
per giungere ad accogliere, in una storicità senza tempo233
, il sentire
segreto di ciascuno.
Per vivere questo incontro è necessario però che gli uomini vivano un
con-tatto, uno scambio di presenze. È necessario, cioè, che
comunichino attraverso la loro corporeità: una carne che in questa
ricerca è prettamente la parola. L‟entità, l‟azione che permette agli
uomini di confermarsi e intendersi “attraverso la grande muraglia
232
Cfr. Oliva, Mirela, Op., cit., p. 110. «Nell‟esperienza del dialogo, si costituisce un
terreno comune fra l‟altro e me, il mio pensiero e il suo formano un tessuto unico, le mie
parole e quelle dell‟interlocutore sono sollecitate dalla situazione della discussione, si
inseriscono in una operazione comune di cui nessuno di noi è il creatore. C‟è qui un
essere a due, e me l‟altro non è più un semplice comportamento nel mio campo
trascendentale, né d‟altra parte io lo sono nel suo, ma siamo l’uno per l’altro collaboratori
in una reciprocità perfetta, le nostre prospettive scivolano l‟una nell‟altra, coesistiamo
attraverso un medesimo mondo [: il linguaggio]». Il corsivo è mio. (Merleau-Ponty,
Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., pp.459-460). Proprio per questa valenza,
Martin Buber oltre a ritenere il dialogo luogo autentico di incontro, distinguerà «tre
specie di dialogo: quello autentico – non importa se parlato o silenzioso – in cui ciascuno
dei partecipanti intende l‟altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge
loro con l0intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico,
proposto solo dal bisogno dell‟intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui
due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano
solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contare solo su di sé».
(Buber, Martin, Dialogo, in Principio dialogico, cit., p.205) 233
Ho voluto accostare questi termini per sottolineare quanto l‟essere dell‟uomo ha in sé
una sua trascendenza – essendo spirito, un sentimento che non ha un suo periodo preciso
–ma anche storicità – perché si manifesta qui ed ora. È un ente trascendente immanente
(Matassi, Elio, Op., cit., p. 184) che rimanda sottilmente all‟esser-ci nel mondo, il Da-
sein heideggeriano, che vive l‟esistenza in cui è stato” gettato” non automaticamente, ma
con progettualità (cfr. Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., p.121).
76
cinese”234
, ossia nel muro invisibile che separa e segrega ogni soggetto
nella singola individualità, per intuirsi235
e realizzarsi.
La parola diviene quindi lo svelamento del desiderio nostalgico236
dell‟Io di dialogare con il Tu. Perché grazie alla sua presenza (quella
dell‟altro), la parola prende significato e realizza la misteriosa rivel-
azione del soggetto.
Ma come attuare questa conversa-zione?
3.3. Come parlare bene
Il primo passo da compiere è capire come risvegliare237
l’uomo a
vivere con pienezza il proprio spirito; ad abituarlo, cioè, a parlare
nelle parole affinché sia capace di mostrarsi – di esprimersi – nella
234
Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.22. «ognuno di noi è chiuso in una
corazza che presto per via dell‟abitudine non avvertiamo più. Solo rari istanti riescono a
penetrarla e a risvegliare l‟anima alla ricettività» (Buber, Martin, Dialogo, in Il principio
dialogico, cit., p. 195) 235
«[…] intuire un uomo significa quindi percepire la sua totalità come persona
determinata dallo spirito, percepire il centro dinamico che imprime a ogni sua
manifestazione, azione e comportamento, il segno comprensibile dell‟unicità. Ma tale
intuire è impossibile, quando e fino a che l‟altro è per me l‟oggetto staccato della mia
contemplazione, o addirittura della mia osservazione, perché allora questa totalità e il suo
centro non si fanno riconoscere all‟osservazione; è possibile solo quando entro in
relazione con l‟altro in modo elementare, cioè quando egli per me diventa presenza.
Perciò definisco l‟intuire in questo senso speciale come il farsi presenza della persona».
(Buber, Martin, Il farsi presenza della persona, in Elementi dell’interumano, in Il
principio dialogico, cit., pp. 304-305). 236
«In ogni esperire l‟uomo crede di poter fuggire dalla prigione del suo io, ma rimane
sempre nuovamente chiuso dietro le sue mura. Nostalgico l’io cerca il suo tu, [corsivo
mio] perché senza questo tu lui stesso non può costituirsi, lo sento bene, e nella sua
ricerca però non si accorge che questo tu non vive fuori di lui stesso, dell‟io, ma in lui,
nell‟io stesso.» (Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p. 60). 237
«La strada del risveglio è la strada del linguaggio, data la reciproca appartenenza di
spiritualità e lingua; ma la capacità di risveglio è proprietà del linguaggio adeguato, fatto
non di parole, ma inverantesi nella parola. Quel linguaggio in cui lo spirituale che è
nell‟uomo si rivolge allo spirituale che sonnecchia nell‟altro e lo sveglia, perché l‟altro ha
il potere di svegliarsi e può captare quella specifica lunghezza d‟onda.» (Ducci, Edda, La
parola nell’uomo, cit., p.83).
77
voce del corpo, in quanto «[…] la parola nell‟uomo pone le basi per la
effettuabilità dell‟Erwachen [risveglio], ma la parola esige l‟Erwachen
per palesare tutta la densità l‟inerenza alle realtà spirituali. L‟uomo
cioè per superare il circolo del convenzionale, il vuoto formalistico e
l‟alienazione della chiacchiera deve risvegliarsi e approntare gli
strumenti per la rilevazione del valore della parola.»238
Infatti «il bersaglio [del filosofare di Ebner] non è la padronanza dei
problemi concernenti il linguaggio ma lo svelamento di come la parola
diventa vivente.»239
. Uno scopo che appartiene anche alla mia
indagine pedagogica, la quale, per l‟appunto, si è posta l‟obiettivo di
indagare come la nostra essenza possa agire, esprimersi240
–
incontrarsi –, al fine di viversi e diventare autenticamente
comunicabile. Viversi nel senso di percepirsi, di rispettarsi, e
soprattutto di attuarsi. E quale azione, se non il parlare, potrebbe al
meglio corrispondere al bisogno dell‟uomo di realizzarsi? Un atto che
richiede necessariamente la comprensione di se stesso – in quanto, per
parlare con pienezza, bisogna precedentemente vivere cosa dire; è
un‟azione che coinvolge la relazione con l‟altro poiché, senza un
interlocutore che ascolta, resterebbe un monologo241
–.
La parola, quindi, non esisterebbe senza il movimento mimesico che
l‟Io deve attuare dentro si sé per riconoscersi, e non si vivrebbe senza
238
Ivi, p.87 239
Ivi, p.84 240
Perché questo significa esistere! Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10. 241
Cfr. Buber, Martin, Dialogo, cit., p.205.
«Il monologo […] è l‟ambiente in cui l‟io si atrofizza, perché il non aprirsi ad una vera
comunicazione con l‟altro vuol dire impedire l‟attuazione del proprio statuto di
relazione.»(Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.215).
78
l‟incontro con il Tu: un‟anima nuda242
che accoglie – ascolta – dentro
di sé la voce dell‟Io il quale, a sua volta, necessita ontologicamente di
dirsi per percepirsi243
. Attenzione, però; non mi sto riferendo alla
confusione verbale che satura il nostro udito nelle vie stradali. Il
bisogno di comunicare nell‟uomo non corrisponde all‟esigenza
materiale di inserire in ogni angolo della città apparecchi elettronici
che trasmettono rumorosi dialoghi composti da parole vuote e
sciatte244
; vocaboli puramente formali che riempiono il silenzio
242
Un Tu che il Principe (protagonista dell‟opera di Pirandello “La favola del figlio
cambiato”) richiede come ogni uomo desiderante di comunicarsi e viversi con qualcuno.
«[…] E tutti dietro uno scudo.
E mai un viso nudo,
fino all‟anima nudo,
come vorrei vederlo;
un sorriso, ma vostro;
e non fatto per me;
e come parlate
dentro di voi; ma questo
forse non lo sapete
nemmeno voi stessi»
(Pirandello, Luigi, La favola del figlio cambiato, Mondadori, Milano, 1993, p.141).
Una richiesta esistenziale per l‟Io, perché è grazie all‟incontro con un Tu disponibile ad
accogliere in sé l‟altro, che avviene l‟attuarsi di quella relazione giusta (cfr. Ebner,
Ferdinand, Parola e amore, cit., p.43): la relazione attraverso cui l‟Io spirituale diviene
un essere dialogante (cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 210), ossia, in vita. 243
Tengo qui a ripetere il significato dell‟uomo, inteso come un essere parlante – ovvero,
essere che necessita entrare in relazione con l‟altro per attuarsi –, e utilizzo le parole di
Ebner per spiegare la profondità di tale concetto.
«La parola, nell‟attualità del suo essere pronunciata (concetto che esprime la tendenza
opposta a quella della sostanzializzazione propria del pensare scientifico che è pensare
alla terza persona), ha come presupposto la personalità del rapporto dell‟io al tu. La
personalità, però, è impensabile senza il rapporto alla parola, perché questa oggettiva la
possibilità insita nell‟uomo di affermare la propria esistenza nella parola “io” della frase
“io sono”; vi si attua, dunque, l‟autocoscienza, ma anche la possibilità dell‟uomo, in
quanto parlante perché persona a cui è stata rivolta la parola, di essere un tu. La
personalità è così intesa come possibilità di esprimersi e come possibilità di essere
interpellato a mo’ di io-tu. L‟io e il tu, intesi non come pronomi ma come l‟esserci
immediato della persona stessa, esistono sempre nella reciproca relazione, e la parola è
ciò mediante cui l‟affermazione dell‟esistenza e il rapporto scambievole vengono “posti”
oggettivamente [il corsivo è mio]» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.175). 244
«L‟uomo abusa continuamente del dono della parola per discorsi futili.» (Ebenr,
Ferdinand, Parola e amore,cit., p.58). «L‟abuso della parola, radicato nella chiusura
dell‟io al tu prima che nella mercificazione di questa straordinaria dimensione umana, ha
condotto, direi quasi, a una profanazione del mistero della parola; l‟effetto più eclatante
79
necessario per incontrarsi245
. Il desiderio dell‟uomo di dirsi equivale al
bisogno di trovarsi246
, di viversi, di ascoltarsi!
Per questo Ebner arriva a definire la necessità di un‟educazione che
formi l‟uomo interiormente. Una pedagogia che aiuti l‟individuo ad
ascoltare il suo spirito, a intenderlo, e soprattutto a esprimerlo. Una
paideia che arriva a essere chiamata logoterapia247
, un neologismo
ebneriano che ha in sé intrinseco il significato del suo agire: quello di
nutrire l‟uomo nella sua complessità, al fine di risvegliare il logos –
ritengo sia il fraintendimento della forza insita in essa.» (Ducci, Edda, L’uomo umano,
cit., p. 98).
Inoltre «Se, anziché dire quel che ho da dire, mi accingo a dar voce a un io che vuol farsi
valere. Ho irreparabilmente fallito ciò che avrei avuto da dire; la mia parola entra nella
conversazione in modo falso e la conversazione diventa falsa. Ogni irruzione
dell‟apparenza può danneggiare la conversazione autentica, poiché essa è una sfera
ontologica che si costituisce mediante l‟autenticità dell‟essere.» (Buber, Martin, La
conversazione autentica, in Elementi dell’interumano, cit., p.312) 245
Necessario in quanto «il silenzio rappresenta l‟orizzonte irrinunciabile senza la quale
le parole non troverebbero spazio. Non è assenza di comunicazione; anzi, è il ritmo parola
– silenzio ad assicurare il significato di ogni discorso. Il silenzio è una forma di
linguaggio ed è condizione indispensabile perché ogni parlare abbia senso […] urge [per
questo ] recuperare il significato autentico del silenzio proprio per restituire spessore a
una parola spesso divenuta logora o banale» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra
medicina ed estetica, cit., p.66).
Con questa introduzione è possibile capire l‟affermazione di Ebner, il quale ritiene
l‟esserci «nell‟uomo un silenzio che è silenzio della parola: ogni vera parola del poeta
scaturisce da questo silenzio e vive di esso» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,
p.89). Questo perché il silenzio è una vera disposizione fondamentale per l‟ascolto del sé;
esso, infatti, funge «da cassa di risonanza per invitare strategicamente chi parla ad
ascoltarsi per riflettere». (De Rossi, Marina, Didattica dell’animazione, Carocci, Roma,
2009, p. 119). L‟«opacità del linguaggio, […] corrisponde [infatti] a un‟opacità del nostro
io a noi stessi» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.72)
ed è per questo che è necessario educare l‟uomo ad ascoltarsi, e soprattutto a prestare
attenzione all‟altro perché solo così potrà vivere la magica emozione di relazionarsi. «C‟è
[infatti] qualcosa di meraviglioso nell‟incontro degli uomini nella vita. L‟incontro in cui
gli uomini non passano semplicemente gli uni accanto agli altri o fanno soltanto un breve
tratto di strada insieme, non è mai un puro caso. Possono venire in mente buoni pensieri,
ai quali non si sarebbe mai pensato; si possono compiere azioni, e non le peggiori, che
non si compierebbero mai se non si fosse incontrata una data persona, sperimentando la
sua amicizia e il suo amore». (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.190). 246
Titolo omonimo di un‟opera teatrale di Pirandello. 247
«Viene spontaneo a questo punto parlare di logoterapia, ma meglio di educazione in
senso totale. La cultura fatta di parole non ha questo potere di risvegliare lo spirituale
nell‟uomo anche se può dargli un dominio sempre maggiore sul cosmo e su tutto quanto è
naturale.»(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.84).
80
ossia il proprio essere – che va esercitato a manifestarsi nella propria
parola248
.
Per questo la pedagogia dell‟espressione deve intervenire e riflettere
sul modo migliore per educare – ed abituare – gli uomini a vivere il
proprio punto vivo249
, perché solo con questo con-tatto intimo
riuscirebbero a parlare autenticamente. Sarebbero, ovvero, capaci di
viversi, e di agire secondo il proprio spirito, divenendo solo allora
disponibili ad aprirsi verso l‟altro250
.
Vien da se capire quanto applicare questa modalità di educazione – la
logoterapia – potrebbe rivoluzionare non solo la prassi della
pedagogia dell‟espressione ma la relazione stessa. Non solo perché i
bambini imparerebbero a incontrarsi autenticamente – in quanto
saprebbero esprimersi come il proprio sentire vuole –, ma perché
imparerebbero a vivere le parole. Imparerebbero, cioè, a intendere le
parole che ascoltano secondo l‟intreccio relazionale che le unisce al
bene. Distinguerebbero la realtà, riconoscerebbero la verità, si
nutrirebbero di umano! Perché, dopo essere entrati in contatto con il
vero bene, dopo aver vissuto l‟appagamento spirituale che dona la
248
Non a caso la parola in greco si traduce con il vocabolo logos, che significa anche
essere. Cfr. nota n. 111. 249
Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit. 250
Questo è un argomento che la pedagogia interculturale, in particolare, dovrebbe essere
capace di trasmettere. Perché questo tipo di relazione – e di conseguenza di vivere –
sarebbe rivoluzionaria per la relazione con lo straniero. Bisogna infatti vedere e vivere la
diversità non come uno ostacolo, una minaccia alla propria identità (cfr. Cotesta, Vittorio,
Sociologia dello straniero, Carocci, Roma, 2012, p.25), ma come un accrescimento al
proprio vissuto, perché grazie alla vita dell‟altro possiamo imparare a guardare la realtà
da nuovi punti di vista. Un pensiero che ritroviamo anche in Ricoeur in riferimento alla
traduzione delle lingue, in quanto ogni nostra parola ha di per sé un senso che è
condizionato dal contesto (cfr. Ricoeur, Paul, Tradurre l’intraducibile, cit., p. 45), ma nel
momento in cui viene ascoltata da un Tu, essa richiama nell‟Io la capacità di tradursi e di
essere compresa dall‟altro come lei stessa si vuole (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere,
cit.); e questo fa sì che due soggetti possano incontrarsi autenticamente, e soprattutto,
intrinsecamente.
81
vista del mondo illuminato dall‟aletheia – in questo caso, lo spirito –,
gli uomini sarebbero spronati di agire altrettanto, in quanto
consapevoli che, attraverso le loro azioni, sia se stessi sia il mondo,
diventerebbero autentici.
Concetto che necessariamente ci rimanda al dinamismo interiore della
mimesis non solo per l‟immedesimazione che gli uomini hanno con il
bene, ma per la creazione di azioni – di espressioni – che nascono da
questo incontro251
. Relazione che l‟uomo intraprende quando passa
«dall‟ignoranza dell‟esserci della dualità della realtà spirituali al
vivere nelle realtà spirituali»252
; quando vive, cioè, una pienezza di
vita spirituale dentro di sé, e nel mondo. Una pienezza che può sentire
solo quando tenta di plasmare davvero la lingua (la parola oggettiva,
riconosciuta da tutti) secondo la sua parola.
Ci tengo per questo a precisare la forma vera della parola, non solo
perché Ebner stesso scinde il linguaggio nelle parole con quello fatto
di parole253
, ma perché attraverso questa distinzione possiamo aprire
una parentesi sulla capacità dell‟uomo di oggi di parlare. Come infatti
afferma Ebner, l‟uomo contemporaneo utilizza un linguaggio che
nella nostra quotidianità potremmo definire tecnologico. Un
linguaggio che si distacca totalmente dal contatto con l‟altro – in
quanto parla in terza persona254
–; usa le parole come strumenti utili ai
251
Incontro che avviene «soltanto [quando] la parola che l‟uomo ode interiormente e
pronuncia rivolgendo all‟altro rompe il terribile silenzio circoscritto dalla muraglia
cinese» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.146) 252
Ivi, p.147 253
Cfr. Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit. p. 83. 254
«[…] c‟è il linguaggio che corre tra la prima e la seconda persona, e senza la relazione
dell‟io al tu non ci può essere nessun linguaggio vero, e c‟è il linguaggio che si fonda e si
snoda sulla terza persona. Ebner è totalmente preso dal primo, sente estraneo a sé il
secondo, e se lo affronta lo fa per compiutezza di analisi a guisa di una riflessione sul non
essere che facilita la comprensione delle misteriose categorie dell‟essere.» ( Ducci, Edda,
82
suoi scopi255
, e rende ogni concetto come un oggetto esterno
impalpabile. Un linguaggio che , ahimè, trovo dilagante nella nostra
società in quanto corrisponde all‟intento scientifico (e psicologico) di
indagare il problema dell‟uomo riducendo il mistero dello spirito
umano a un‟entità esterna, rilevabile e schematizzabile
quantitativamente. Questo perché «quello della lingua è un problema
inesauribile perché in esso c‟è il mistero della vita spirituale»256
, e non
è possibile allora pensare di studiare il linguaggio come una materia
scientifica, perché vorrebbe dire analizzare l‟esistenza dell‟uomo
come se fosse un oggetto. Perché se l‟uomo è un essere parlante – nel
senso che ha in sé il bisogno e potenzialità di parlare all‟altro – e la
parola è espressione primaria della sua essenza, l‟intento di codificare
le sue azioni linguistiche come eventi statistici, sarebbe la morte
spirituale dell‟esistenza umana.
La parola nell’uomo, cit., p.80). Riporto qui di seguito l‟intero passaggio in cui Ebner
riflette e distingue i due linguaggi.
«C‟è dunque il linguaggio tra l‟io e il tu, e c‟è il linguaggio in cui il vero io non entra
come tale e che si svolge tutto alla terza persona. I due linguaggi, pur identici nella
costituzione formale, sono eterogenei, accumunati dal solo suono dei vocaboli. Ben
distinguibili in astratto, ma non altrettanto in concreto, nel vissuto effettivo. Il dire che il
linguaggio umano e umanante in senso emergente è il rivolgersi dello spirituale nell‟io a
qualcosa di spirituale distinto da lui è di facile dizione ma non di facile comprensione
vera. D‟altra parte il linguaggio oggettivo contro la impalpabilità di quello soggettivo ha
la massiccia imponenza della cultura intesa nel senso più amplificato del termine; e
indubbiamente non è per sé disumanante. Non ha però la possibilità di dare all‟io sono la
risonanza che solo il tu sei può dargli, perché è un linguaggio in cui l‟io entra come
semplice particella grammaticale, o con la verità sempre incompiuta del suo essere la sola
metà di un intero. Il linguaggio tra l‟io e il tu è ben flebile rispetto al linguaggio alla terza
persona.» (Ivi, p.81) 255
Approccio che mi rimanda molto al pensiero sofistico: una corrente filosofica
contemporanea ad Aristotele che, non a caso, critica ferreamente (cfr. Aristotele,
Retorica, Mondadori, Milano, 1996, I, 1354a – 1355b) poiché è una corrente che tende a
considerare la retorica come arte della persuasione basata non su ragionamenti (entimemi
– cfr. Ivi, 1356b) ma sulle opinioni. 256
Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p. 84
83
«Nella conversazione autentica [invece] il rivolgersi al compagno
avviene in tutta verità, come rivolgersi dell‟essere»257
, perché
nell‟incontro autentico l‟Io e il Tu parlano con un linguaggio che
rappresenta mimesicamente l‟essenza del proprio spirito, e soprattutto,
accolgono l‟altro come individuo258
. C‟è reciprocità, rispetto
dell‟azione interiore percepita, e in particolare desiderio di esprimersi,
di “entrare in contatto con qualcuno”259
.
Per questo l‟incontro perfetto per Ebner consiste nell‟amore260
, perché
qui non troviamo due soggetti che tendono a oggettivizzare l‟altro –
ossia a classificare la sua essenza come un prodotto privo di vita – ma
si avvicinano, si compenetrano, ascoltandosi per ciò che sono. Si
257
Buber, Martin, La conversazione autentica, in Elementi dell’interumano, cit., p.310. 258
«Ma colui che parla non percepisce solo colui che gli si è fatto presenza, lo assume
come suo interlocutore, e ciò significa che egli conferma, per quanto è in suo potere,
quest‟altro essere. Il vero rivolgersi del suo essere all‟altro implica questa conferma,
questa accettazione». (Buber, Martin, La conversazione autentica, cit., p.311) 259
Cfr. Buber, Martin, Dialogo, cit., p. 206. 260
Non a caso afferma Ebner che «la parola nell‟uomo deve nascere dall‟amore, l‟amore
deve portare la parola sulla strada dall‟io al tu, soltanto nell‟amore, nel quale l‟io esce
dalla chiusura interiore e si apre al tu, la parola può essere feconda e può generare vita
spirituale nell‟uomo al quale essa viene indirizzata». (Ebner, Ferdinand, La parola è la
via, cit., p. 100). Solo parlando con profondità si potrà ovvero dar vita a una «vita
dialogica [che] non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini, ma quella in cui si ha
davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare». (Buber, Martin, Dialogo, cit.,
p.206). Per vivere questa relazione, però, «si deve capire la parola partendo dall‟amore,
altrimenti non la si capisce nella sua natura profonda. Quelli che riflettono sulla parola
devono essere filologi, devono amare la parola. Ma si deve anche illuminare l‟amore con
il significato essenziale della parola – altrimenti alla fine lo si intende, o lo si fraintende,
soltanto come amor proprio, autofilia, cupidigia, avidità, e quando va bene, come l‟eros
della filosofia di Platone. Il vero amore invece è di più, è qualcosa di assolutamente
diverso dall‟amore platonico. Esso è – come la parola – la realizzazione del rapporto al tu
[…]» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.137). Non a caso troviamo in Essere e
comunicare questo meraviglioso passaggio, che proprio per la sua bellezza, mi preme
riportare integro: «Ed è in forza di questa partecipazione che l‟amore pronuncia
nell‟uomo la parola giusta, ma, a sua volta, la parola giusta accende nell‟uomo l‟amore, sì
che la parola si può indicare, per questo suo identificarsi con l‟amore, con il potere offerto
all‟uomo di uscire dall‟alienazione e dall‟isolamento. Nella parola l‟io è, dunque, in
cammino verso il tu, non come un viandante che brancola privo di orientamento, ma
come colui che si incammina a mo‟ di risposta, perché un Tu gli ha rivolto una parola-
creante, offrendogli il potere di spezzare “la muraglia cinese dell‟io”» (Ducci, Edda,
Essere e comunicare, cit., p.77).
84
donano delle parole che aprono l‟io verso l‟essenza del tu, costruendo
così una relazione edificante261
. Non una comunicazione vuota, ma
ricca di umano in quanto racchiude e dischiude la nuda espressione
dello spirito in una forma vivente.
Per questo, «dove invece la conversazione si realizza nella sua
essenza, tra interlocutori che si sono rivolti l’uno all’altro nella verità,
si esprimono senza riserve e sono liberi dal voler apparire, si realizza
una memorabile fecondità comunitaria, che non si trova in nessun
altro luogo. Di volta in volta la parola si costituisce in moda
sostanziale tra gli uomini che vengono toccati e dischiusi in
profondità dalla dinamica di una comunicazione elementare.
L‟interumano apre l‟accesso a ciò che altrimenti resta inaccessibile.»
262.
261
Cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit. 262
Il corsivo è mio. (Buber, Martin, La conversazione autentica, in Elementi
dell’interumano, cit., p. 312).
85
Conclusione
A seguito delle conclusioni riportate nel capitolo precedente,
possiamo quindi giungere ad affermare che «la parola, identificandosi
con l‟amore e permeando tutte le possibili valenze e virtualità del
linguaggio, consente al soggetto di protendersi alla relazione più vera
e profonda con chi già è inserito nella comunione per la
partecipazione […]»263
. Possiamo ossia confermare che la parola,
essendo rappresentazione mimesica del proprio spirito, permette, per
coloro che la agiscono, di entrare autenticamente in relazione.
Questo in quanto, grazie alla sua forma percepibile, riesce a essere
presente corporeamente tra gli altri; riesce ovvero a creare un rapporto
in cui i soggetti che parlano e si ascoltano, non si sfiorano
superficialmente, ma si compenetrano fin nell‟interiorità. Questo
perché, per merito della sua esteticità, disvela nell‟incontro con l‟altro,
la verità dell‟Io. Crea, cioè, le condizioni per legare intimamente gli
individui gli uni dentro gli altri.
E proprio per questo suo valore intrinsecamente umano, la mia
ricerca ha voluto indagare il suo agire, la sua forma, la sua essenza, al
fine di possedere le vere basi con le quali l‟azione educativa possa
costruire un incontro dialettico autentico.
Un «incontro [che], in quanto momento mutamente costruttivo,
relazione intrinseca e dialettica tra la dinamica di due volontà, indica
263
(Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.111). «Ogni parola nella vitalità del suo
essere pronunciata è una manifestazione della vita spirituale nell‟uomo. Cioè ogni parola
pronunciata vitalmente in certo modo lega l‟io nell‟uomo al suo tu, ma tra l‟io e il tu ha
luogo tutta la vita spirituale nell‟uomo» (Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p. 135).
86
la presenza di una scelta264
[corsivo mio] – si incontra l‟altro solo
nella misura in cui si sceglie d‟incontrarlo.»265
.
Se ripercorriamo il viaggio di questa ricerca, possiamo infatti
trovare inizialmente il contributo di Aristotele il quale ha offerto, non
solo alla riflessione pedagogica ma all‟intera umanità, l‟eccellente
definizione che ogni azione è espressione dell‟esistenza umana266
. E se
consideriamo la parola come azione espressiva, una modalità
attraverso cui l‟uomo comunica il suo pensiero, possiamo ben
intendere la nobiltà di questo atto nella vita umana. In quanto non
consente all‟uomo solo di comunicarsi, di confermarsi, di sentirsi, ma
essenzialmente di esistere! E questo è possibile solo se la sua essenza
264
Ho voluto evidenziare questa parola per rimandare a un concetto che abbiamo
affrontato nel primo capitolo con Aristotele, ossia la volontà di scegliere (cfr. Aristotele,
Etica Nicomachea, cit., 1111b, 5-27). Ritrovarlo qui è decisamente impegnativo in quanto
ci porta a riflettere quanto la presenza dell‟Io nell‟incontro autentico non è casuale, ma
sentita. È deliberata dalla ragione, è desiderata dall‟anima. Coinvolge l‟intera complessità
dell‟uomo, ed è per questo che Edda Ducci nel suo discorso filo-educativo
sull‟intenzionalità del rapporto intersoggettivo (cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare,
cit., p.139) cita l‟VIII libro dell‟Etica Nicomachea in quanto le permette di sottolineare
quanto la relazione con l‟altro sia essenzialmente un‟azione, un atto che coinvolge ogni
fibra dell‟essere dell‟uomo sia nell‟agire che nel ricevere, e nutre – educa – l‟uomo di
umanità. Infatti, «stabilire un rapporto intersoggettivo diviene l‟ambiente adeguato per un
vicendevole sollecitarsi all‟agire virtuoso, mentre l‟agire virtuoso rinsalda e facilita il
rapporto intersoggettivo, conferendogli una stabilità quasi assoluta». (Ducci, Edda, Essere
e comunicare, cit., p. 141). Come infatti afferma Aristotele, il voler bene dell‟altro non è
una passione, ma una scelta che nasce da una deliberazione (cfr. Aristotele, Etica
Nicomachea, cit., 1157b, 31-34). È uno stato abituale (cfr. Ibidem) che va coltivato e che
può perfezionarsi fino all‟amore (cfr. Ivi, 1159a, 33-35). Luogo in cui la parola “nella
reciprocità dell‟intendere” (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.164) sprigiona la sua
unicità abbracciando la lingua dell‟altro. 265
Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 137. «L‟umano e l‟umanità si realizzano in
incontri veri. Qui l‟uomo non fa esperienza di sé solo come limitato dall‟altro uomo,
come rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di completamento, ma il
rapporto che egli ha con la verità si innalza per lui alla verità stessa, mediante un rapporto
che, dal punto di vista dell‟individuazione, è diverso dall‟altro e che è destinato a
germogliare e a crescere sempre diversamente. È necessario agli uomini, ed è loro
concesso, di confermarsi a vicenda, nel loro essere individuale, negli incontri veri […]»
(Buber, Martin, Il rendere presenza, in Distanza originaria e relazione, cit., p.290). 266
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10.
87
più segreta sia calata nel corpo che più le è proprio (in questo caso la
voce) e diviene presenza, apertura nella relazione.
Il movimento attraverso cui però l‟uomo riesce a dare una forma
percepibile, vivente, significante267
alla parola, lo abbiamo analizzato
nel secondo capitolo, in cui, grazie alle parole di Platone, riscopriamo
un dinamismo estremamente presente, ma per lo più inconsapevole.
Mi sto riferendo alla mimesis268
, l‟energia che permette all‟uomo di
divenire la propria essenza al fine di trasformarla in una
rappresentazione mimesica. Una rappresentazione che racchiude il
movimento creatore della mimesis, e pone le condizioni per un
soggetto Tu, di accogliere e penetrare a sua volta nell‟essenza dell‟Io
percepita.
Questo affinché sia possibile attuare quel dialogo autentico che ha
spinto questa ricerca ad indagare nella sua profondità l‟agire più
umano, ma anche più abusato: la parola. La rappresentazione estetica
e mimesica per eccellenza che, come abbiamo appreso nelle pagine di
Ferdinand Ebner, non rivela solo la natura dialogica dell‟uomo269
, ma
pone lei stessa le basi per edificare un rapporto intersoggettivo
267
Cfr. Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., pp.83-84. «Il significare è appunto un
atto intenzionale, e i vissuti intenzionali sono gli atti in virtù dei quali qualcosa diviene
oggetto per noi: l‟aver senso delle espressioni linguistiche si accompagna così
necessariamente al loro essere riferite a un oggetto.» (Ivi, p. 85). 268
(Platone, La Repubblica, cit., III, 393c) 269
«Che cosa è la parola come conversazione? Si svolge tra colui che parla e colui a cui
il discorso è rivolto. Colui che parla “ha la parola” e perciò parla. Non parlerebbe però se
non presupponesse in colui a cui il discorso è rivolto “il senso della parola”. Avere il
“senso per la parola” non è niente altro che la “passività” nell‟aver la parola, come il
discorso ne è l‟”attività”. La conversazione si svolge sempre tra due che hanno la parola,
l‟uno attivamente l‟altro passivamente. Così nella conversazione l‟attività di chi ha la
parola come anche la passività, in quanto se ne fa uso ascoltando il discorso, pone i due in
quella relazione tutta particolare che già è data nell‟essenza della parola come
conversazione».(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., pp.69-70)
88
autentico: un dialogo-vita270
. Idioma utilizzato da Edda Ducci che
esprime e racchiude, a mio parere, l‟intensità e sintesi della mia
ricerca. Una tesi che ha avuto la timida ambizione di ridonare valore
est-etico alla parola attraverso lo svelamento della sua interiorità e
corporeità, al fine di affermare il suo compito paideutico: quello di
costruire un legame interumano in cui l‟Io e il Tu sappiano parlare
secondo la propria autenticità, e siano capaci – desideranti – di vivere
l‟altro come lui stesso si vuole.
Solo così sarà possibile edificare una società che sia comunitaria:
una collettività271
che ama se stesso e rispetta l‟altro, proprio perché sa
parlare – agire – bene.
270
Infatti «per la filosofia dell‟educazione il dialogo-vita è fine a cui tende l‟azione
educativa in quanto la capacità di dialogare a livello vissuto rivela che il soggetto ha
superato la soglia per una vera maturità umana, ma è, nello stesso tempo, mezzo, e mezzo
insostituibile per quel rapporto che, in quanto attinge la massima profondità di livelli, è
chiamata consona per le dimensioni qualificanti del soggetto.». (Ducci, Edda, Essere e
comunicare, cit., p.208). 271
«La collettività non è solidarietà, è affastellamento: impacchettati insieme, individuo
vicino a individuo, insieme armati, insieme allineati; fra uomo e uomo tanta vita quanto
basta a infiammare il passo di marcia. Ma la comunità, la comunità in divenire (solo
questa finora conosciamo) consiste nel non essere più semplicemente uno vicino all‟altro,
ma nell‟essere uno presso l‟altro di una molteplicità di persone che, anche se si muove
insieme verso un fine comune, ovunque fa esperienza di una reciprocità, di un dinamico
essere di fronte, di un flusso dall‟io al tu: comunità è là ove la comunità avviene.» (Buber,
Martin, Dialogo, cit., p.218)
89
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Ringraziamenti
Ringrazio la mia famiglia, per avermi supportato – e sopportato – in
questi anni di studio, perché senza il loro esempio e la loro pazienza,
non sarei riuscita a essere così determinata.
Ringrazio le mie amiche, per avermi accompagnato in questo viaggio,
perché è assieme a loro che sono maturata.
Ringrazio i miei professori, senza i quali questo lavoro non sarebbe
potuto nascere. Perché è grazie ai loro insegnamenti che ho sentito
l‟esigenza di riflettere.