La rappresentazione estetica e mimesica della parola

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze Pedagogiche TESI DI LAUREA La rappresentazione estetica e mimesica della parola Relatore: Prof.re Gilberto Scaramuzzo Correlatrice: Prof.ssa Fabrizia Abbate Candidata: Caterina Martocchia Anno Accademico 2013/2014

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE

Facoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze Pedagogiche

TESI DI LAUREA

La rappresentazione estetica e mimesica della

parola

Relatore: Prof.re Gilberto Scaramuzzo

Correlatrice: Prof.ssa Fabrizia Abbate

Candidata: Caterina Martocchia

Anno Accademico 2013/2014

1

Indice

Introduzione .......................................................................................... 3

Appello alla pedagogia ...................................................................... 5

Le fasi di lavoro ................................................................................. 9

Capitolo primo .................................................................................... 13

Aristotele e l‟azione espressiva ........................................................... 13

1.1 Una partenza costretta ............................................................ 15

1.1.1 Il fine dell‟azione ............................................................. 17

1.2 Agire con virtù ........................................................................ 22

1.3 L‟uomo agente ........................................................................ 25

1.4 L‟esistenza esiste nell‟azione ..................................................... 29

1.4.1 L‟intensificazione del vivere ............................................... 32

1.5 Educare all‟azione ...................................................................... 34

Capitolo secondo ................................................................................. 38

L‟origine del linguaggio secondo Platone .......................................... 38

2.1 L‟azione espressiva della parola ................................................ 43

2.1.1 L‟essenza della parola .......................................................... 46

2.2 La rappresentazione della parola ............................................... 49

2.2 La relazione con il mimema ....................................................... 54

Capitolo terzo ...................................................................................... 60

L‟espressione dell‟umano secondo Ferdinand Ebner ......................... 60

3.1 La parola dello spirito ................................................................ 63

3.2 La parola nella relazione ............................................................ 70

3.3. Come parlare bene .................................................................... 76

Conclusione ......................................................................................... 85

Bibliografia ......................................................................................... 89

Sitografia ............................................................................................. 94

2

Ringraziamenti .................................................................................... 95

3

Introduzione

Questo mio lavoro nasce dal desiderio di indagare nella sua più intima

profondità la relazione educativa. Un incontro che già nel mio

precedente lavoro1 avevo avuto la timida ambizione di definire

estetico2, proprio per riassegnarli il valore a lui di merito.

E mossa interiormente da questo sentire, ho cominciato a interrogarmi

su quale potesse essere la sua forma perfetta. Ho iniziato, cioè, a

domandarmi quale azione, quale espressione potesse rendere un

incontro qualitativamente estetico. Quale fosse la modalità più nobile

per incontrarsi, e quale fosse l‟atto da agire per permettere a un Io di

aprirsi a un Tu, per essere ascoltato3 – accolto – nella reciprocità.

È partendo da questo desiderio – perché solo così potrei definirlo: una

passione – che mi sono posta allora l‟obiettivo di riscoprire una delle

forme espressive più utilizzate dall‟uomo: una rappresentazione che

1 “Verso una pedagogia dell‟incontro estetico”, Relatore: Gilberto Scaramuzzo,

Correlatrice: Fabrizia Abbate, Corso di laurea in Scienze dell‟Educazione, Facoltà di

Scienze della Formazione, luglio 2012. 2 Per estetico non intendo il sinonimo di esteriorità, ma una visibilità che richiama a sé

uno sguardo esterno (cfr. Desideri, Fabrizio, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del

bello al problema dell’arte, Laterza, Roma-Bari, 2009, p.19) e stimola il soggetto ad

avvicinarsi non superficialmente, ma all‟interno dell‟oggetto. In questa prospettiva

incontrarsi non significa sfiorarsi, ma compenetrarsi l‟uno nell‟altro cogliendo, attraverso

l‟immagine percepita, l‟intimità di ciascuno. 3 «L‟atto dell‟ascolto è, da una parte, salvaguardia dell‟alterità dell‟oggetto e, dall‟altra,

inziale passività del soggetto. La difficoltà dell‟ascolto si riscontra nel momento in cui la

parola, estranea al proprio sé, spezza la chiusura dell‟Io, trasferendolo verso un senso che

realizza la nascita di una vita nuova. L‟ascoltatore è un lasciarsi espropriare, un esodo da

sé verso una terra cui non sempre si appartiene. Chi ascolta con competenza giova a sé

che ascolta e gioca all‟altro che parla, colui che ascolta con competenza invoglia l‟altro a

parlare.». (Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in Epitteto, in Scaramuzzo,

Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermenuesi di un mistero, Anicia,

Roma, 2009, pp. 144-145).

4

forse è una delle più autentiche – ma anche sciupate4 – della

comunicazione umana.

Mi sto riferendo alla parola, il veicolo oggettivo che serve per

«sostenere l‟esserci di un‟interiorità nell‟uomo e dirne la natura

singolare»5; un mezzo che, come vedremo alla fine di questa ricerca,

assumerà con decisione la definizione di essere espressione dello

spirito6. Un‟espressività strettamente personale – in quanto in essa si

afferma l‟essenza dell‟Io – ma che, tuttavia, non rinchiude l‟uomo

nella sua individualità, anzi; come scopriremo infatti nelle pagine di

Ferdinand Ebner7, la parola nasce precisamente dal – nel – rapporto

con l‟altro. È un‟entità dell‟uomo che agisce, prende forma, e acquista

significato, proprio quando il soggetto incontra un altro individuo8.

Vedremo, infatti, che è nella relazione tra l‟io e il tu che la parola

assume valore, autenticità, perché è in questo luogo che svolge il

compito connaturale a lei affidatogli: quello di far dialogare –

comunicare – gli uomini esteticamente. Un movimento che non tutti

sono capaci di attuare, e per il quale la pedagogia è voluta – e deve –

intervenire non solo per permettere l‟edificazione di tale esperienza,

4 Questo poiché «nella cosiddetta società delle comunicazioni, stiamo disimparando a

comunicare. La proliferazione dei media ci dà l‟impressione di essere coinvolti in uno

scambio continuo di messaggi, e, dunque, in un‟incessante attività comunicativa. Ma si

tratta di un‟impressione largamente illusoria, poiché la maggior parte delle sollecitazioni

a cui siamo sottoposti finisce per confondersi in un brusio indistinto dal quale fatichiamo

a ritagliare esperienze autenticamente comunicative.». (Ivi, p. 133). 5 Ducci, Edda, L’uomo umano, Anicia, Roma, 2008, p. 41.

6 Ebner, Ferdinand, Parola e amore, Rusconi, Milano, 1998, p. 128. Perché «la parola è

stata generata dallo spirito». (Ivi, p.58). 7 Cfr. terzo capitolo.

8 «[…] ogni parola che viene alla vita dallo spirito dell‟uomo ha un rapporto con un tu,

essa parla a un tu […]». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, p.103). Questo ci permette

allora di affermare che se lo spirito si esprime nella parola, e la parola è essenzialmente

dialogica, «l‟uomo in quanto natura parlante [corsivo mio] esiste solo in rapporto a

qualcosa di spirituale fuori di lui.». (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 44).

5

ma per ridonare spessore e consapevolezza al linguaggio, visto che è

tramite esso che si attua la relazione. Mi è doveroso quindi aprire una

parentesi sul ruolo della pedagogia, al fine di giustificare non solo

questa ricerca all‟interno degli studi della facoltà di Scienze della

Formazione, ma per specificare quanto tutto questo lavoro ha in sé la

responsabilità di dover intervenire per attuare la vera relazione

educativa attraverso la scoperta della parola.

Appello alla pedagogia

La pedagogia, nella sua origine etimologica9, vediamo fin da subito

che è una disciplina che rappresenta in sé una propria autorità.

Autorità in quanto custodisce uno dei compiti più delicati e nobili che

hanno a cuore tutte quelle arti che intendono allevare l‟uomo. Essa,

infatti, intende formare l‟uomo di umano10

; intende, cioè, nutrire11

9 L‟etimologia di tale vocabolo risale al termine greco paidagogia: un lemma che è

composto da paidos, ou (che significa bambino, schiavo), e da ago il quale, come accade

per molti verbi greci, ha innumerevoli significati tra cui guidare, accompagnare o

condurre. Un‟associazione di vocaboli che, ovviamente, rende evidente lo spessore di tale

parola in quanto esprime una vera e propria azione: quella di guidare il fanciullo vergine

di conoscenza verso la scoperta della verità. Un viaggio che si configura come una

liberazione: la libertà dello schiavo a-paideusico dalla caverna dell‟ignoranza. (cfr.

Platone, La Repubblica, VII capitolo, Rizzoli, Milano, 1986). Si veda in riferimento al

mito della caverna anche Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, Anicia, Roma, 2010. 10

Uso il termine “umano” per riuscire a distinguere un‟educazione che intende nutrire

l‟educando di “umanante” (ossia di ciò che rende l‟uomo degno di essere un uomo) il

quale, non a caso, «dipende dall‟urto con una realtà capace di produrre un‟esperienza

efficace» (Ducci, Edda, L’uomo umano, Anicia, Roma, 2008, p. 87). Azione che rimanda

all‟ anthropine sophia socratica, «una sapienza che ha l‟uomo per soggetto, l‟uomo per

oggetto, e che rende umano chi la persegue. […] Un filosofare che nasce dal vivere, un

pensare amoroso che costruisce nello spirito, prima di tutto nel proprio poi in quello di

tutti quelli che giungono ad incontrarlo.». (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere. L’umana

sophia di Luigi Pirandello, Anicia, Roma, 2005, p. 9). Una pedagogia che, se donata

all‟educando, «[…] innesca nell‟uomo un effettivo processo di umanizzazione così che il

coltivarla, rispettando la natura dell‟oggetto che la specifica –tutto ciò che c‟è di

squisitamente umano –, e seguendo le forme appropriate – l‟osmosi tra il conoscere e il

vivere, tra il sapere e il volere –, è la strada giusta perché quel singolo uomo vada verso la

6

l‟uomo mediante delle azioni, delle espressioni cariche di spirituale –

di umanità – al fine di accendere in ciascun individuo il desiderio di

vivere secondo tale principio.

Oggi, però, siamo spettatori a uno degli scempi più amari dell‟uomo.

Siamo abitanti inerti dell‟atrofizzazione che sta subendo l‟educazione:

quello di essere limitata a svolgere il compito di una vuota e superflua

trasmissione di sapere – l‟istruzione – senza più dar valore al compito

essenziale della Bildung12

.

Siamo di fronte – se così possiamo osare – all‟omicidio dell‟umanità,

perché senza un nutrimento interiore dell‟umano13

, senza la cura dello

piena realizzazione della propria umanità». (Ducci, Edda, Approdi dell’umano, Anicia,

Roma, 1997, p. 45). 11

Vocabolo derivante dal verbo greco trefo che significa nutrire, allevare, far crescere,

generare, dar da vivere, educare. 12

«Bildung dice infatti costruire, dare forma, innalzare. Traduce un senso di pienezza

umana da realizzare, una interezza potenziale da portare a compimento, perché Bild è

immagine – l‟anima come immago Dei […]». (Mattei, Francesco, Sfibrata paideia,

Anicia, Roma, 2009, p. 27). 13

Per umano intendo l‟essenza dell‟uomo, la sua più profonda spiritualità. Un‟interiorità

che necessita di vivere attraverso la vita stessa, e di nutrirsi di una realtà che gli permetta

di umanarsi. (Cfr. nota n. 10). Purtroppo però, «[…] il pensiero occidentale è stato

catturato dal quel che Husserl chiama “obiettivismo”, che si traduce nel culto del fatto,

nella perdita del motivo trascendentale, nella convinzione ingenua – psicologica,

vitalistica, ontometafisica o esistenziale – che il senso delle cose sia indipendente

dall‟operatività intenzionale dei soggetti. Questi sono i sintomi teorici di una grave “crisi”

che avvolge il pensiero filosofico, che dunque viene meno al suo compito, quello di porsi

come momento di fondativa autoconoscenza razionale della riflessione epistemologica e

scientifica. Nella Crisi questa convinzione è il punto di partenza: l‟obiettivismo moderno

può essere superato ricostruendo quel motivo trascendentale che la filosofica […] ha

disvelato e occupato al tempo stesso.» (Costa, Vincenzo (et alii), La fenomenologia,

Einaudi, Torino, 2002, pp.59-60). È evidente che tutto questo passaggio possiamo

leggerlo in chiave educativa, ossia, che la filosofia di cui parla Costa altro non è che la

pedagogia a cui spetta il compito in questa crisi umana di risvelare il senso trascendentale

perduto. Un senso smarrito nell‟attuale società razionale dove vige «il modello di

“esasperata” autonomia soggettiva […] che inibisce la manifestazione qualitativa della

singola identità […]» (cfr. Costa, Cecilia, La società post razionale, Armando, Roma,

2012). La soggettività, infatti, è travolta dall‟invadenza e prepotenza della tecnologia che

ha innescato quel processo di disincantamento (cfr. Weber, Max, La scienza come

professione, Bompiani, Milano, 2008) così devastante per l‟umanità (cfr. Russo, Maria

Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p. 156).

7

spirito, non è possibile che gli uomini abbiano un comportamento che

sia manifestazione – dimostrazione! – di umanità. Non basta infatti

che i bambini imparino definizioni eccellenti di uomo per divenire

tale, ma è necessario che facciano – vivano – esperienze mirabili

appartenenti alla loro umanità14

.

La pedagogia si configura per questo come un legante che avvolge di

umanante la comunità sociale, perché attraverso il suo agire non

esprime solo la téchne15

, ma trasmette – dona16

– l‟essenza di valori

umani che, una volta assorbiti, stimolano gli uomini ad agire come

tali. È per questo che il pedagogista porta con sé uno dei ruoli più

prestigiosi per garantire il buon funzionamento della società in quanto,

attraverso la sua comunic-azione17

, nutre l‟individuo fin nelle fibre più

Per questo la pedagogia deve intervenire per riuscire non solo a risvegliare (Cfr. Ducci,

Edda, La parola nell’uomo, cit., p. 83) l‟individuo dalla iper-razionalità, ma a indicare la

strada di una vita significante (ossia, trascendente). 14

Dopo esser entrati in contatto con la propria umanità, «ognuno ha acquisito ai suoi

occhi un valore massino non in forza del sistema o dell‟ideologia, ma per quell‟esperire

interiore sostanziato di verità. Tutti hanno una propria significanza e lo responsabilizzano

a tal punto che questa tensione assume la forza di un comando divino che per nessun

motivo può essere disatteso.» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.105). 15

Aristotele stesso distingue le azioni poetiche e pratiche (cfr. Aristotele, Etica

Nicomachea, Laterza, Bari, 2010, VI capitolo, 4) differenziandole nel fine della loro

azione. La poiesis, infatti, è intesa come un processo produttivo in cui il fine è il prodotto;

mentre la prassis, è il compimento dell‟agente che non è mezzo dell‟azione, ma fine

stesso dell‟opera (cfr. Petagine, Antonio, Profili dell’umano. Lineamenti di Antropologia

Filosofica, FrancoAngeli, Milano, 2011, pp. 25- 33). Una precisazione che ci permette di

distinguere l‟agire dal fare, cioè ci consente di riconoscere quando l‟uomo agisce

responsabile delle proprie scelte deliberate, o esegue solamente una téchne (cfr. Desideri,

Fabrizio, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del bello al problema dell’arte, Laterza,

Bari, 2009, p.87).Per questo vedremo nel primo capitolo quanto per Aristotele siano più

importanti le virtù pratiche (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., IV capitolo), perché in

esse l‟uomo impara ad agire. 16

«Colui che dona spezza, in altri termini, l‟illusione cartesiana della propria

autosufficienza e riconosce il proprio costitutivo stato di mancanza; riconosce cioè, […]

la propria “bisognosità” […], percependosi come anello di un circuito infinito di

appartenenze e di legami, che ha inizio dal momento stesso della nascita.». Brezzi,

Francesca e Russo, Maria Teresa (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed

etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp.92-93). 17

Un azione che agisce, esprime, rappresenta, solo entrando in relazione all‟altro. Senza

questo incontro, senza l‟esistenza di un‟alterità, infatti, non avrebbe significato agire.

8

intime della sua soggettività. Coltiva premurosamente18

l‟umanità del

singolo e della collettività per consentirgli di raggiungere una

pienezza di vita che solo vivendo con abitudine19

la propria interiorità,

potrà davvero vivere.

L‟educ-azione20

merita quindi un ruolo predominante nella società,

perché attraverso il suo intervento, l‟umanità può attuarsi21

, e in

particolar modo, consente all‟uomo di identificarsi con la propria

cultura22

, perché permette di far esperienza – e quindi assorbire – un

insieme di valori che, una volta riconosciuti, possono costituire un

legame interiore.

La pedagogia svolge allora il compito di edificare le basi fini alla

creazione di una comunità che, in una com-unione di individui,

condivide eguali principi. È proprio infatti grazie a questo

18

«Non si può morire per voi [rose]. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la

mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho

innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho

riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo e due o tre per le farfalle).

Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è

lei la mia rosa». (De Saint-Exupéry, Antoine, Il piccolo principe, Tascabili Bompiani,

Milano, 2009, p. 96). 19

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II capitolo. 20

Educare non è insegnare solo alla parte razionale, ma è toccare la sensibilità interiore di

ciascuno di noi. È unire testa e mano (cfr. Mattei, Francesco, Sfibrata Paideia, cit., p. 82)

in un unico agire: un agire che è espressione di valori, realizzazione di vita,

manifestazione concreta di essenza in sostanza. È un‟azione che crea un cambiamento

esterno e interno nel mondo e nell‟uomo; e questo è possibile solo mediante l‟attuazione

di interventi pratici che considerano la responsabilità del proprio ruolo. 21

«Infatti, se l’umanarsi rappresenta, e lo rappresenta realmente, uno stato qualitativo,

quasi un passaggio ad altro genere per una creatività insita nello specifico unificarsi delle

dimensioni, esso dipende dall’urto con una realtà capace di produrre un’esperienza

efficace.». Il corsivo è mio. (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.87) 22

«La cultura risulta essere qualcosa di specificamente umano, che distingue l‟essere

umano dagli animali» (Sciolla, Loredana, Sociologia dei processi culturali, Il Mulino,

Bologna, 2012, p.18), che «[…] comprende sia aspetti materiali (si parla spesso, infatti, di

cultura materiale per indicare l‟insieme degli artefatti prodotti da una società), sia aspetti

immateriali come il linguaggio e, in particolare, valori e norme.» (Giddens, Anthony,

Fondamenti di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 29-30). Uno dei suoi tratti

principali è di essere un fenomeno condiviso (cfr. Sciolla, Loredana, Op. cit., ) il che

richiama l‟esigenza di un monitoraggio sia del suo apprendimento, sia dei suoi valori.

9

rispecchiarsi – ri-trovarsi – nella comunità che permette all‟uomo di

vivere e di agire bene non solo per se stesso, ma anche per gli altri, in

quanto si trova a essere di fronte non solo a degli estranei, ma a dei

compagni di vita legati l‟un l‟altro dalla condivisione di un‟etica

umana.

Ma come si attua questa connessione? Qual è la modalità attraverso

cui la pedagogia può comunicare tali principi? E soprattutto: come

possono gli uomini riconoscersi appartenenti a una stessa comunità?

Ecco qui il legame con la mia ricerca che, finalizzata a scoprire come

gli uomini possano incontrarsi intimamente, individua nella parola il

mezzo per eccellenza per poter creare un rapporto estetico tra l‟Io e il

Tu23

.

Le fasi di lavoro

L‟indagine parte infatti dalla necessità di svelare non solo il contenuto

ontologico e significante della parola, ma di cogliere nella sua

profondità la sua forma e il suo agire per intendere veramente quale

sia il movimento che attuano coloro che si incontrano nel dialogo.

Mi sono quindi trovata costretta a iniziare a riflettere su quale sia la

postura appropriata per parlare, e soprattutto, che modalità di azione

sia quella che caratterizza la parola.

23

«[…] la funzione primaria della parola [è] di essere veicolo-legame tra due soggettività,

con un movimento tutto diverso dal convergere associato sull‟oggettività […]». (Ducci,

Edda, L’uomo umano, cit., p. 93).

10

Per questo il mio lavoro è dovuto nascere nel primo capitolo dalle

parole di un preciso auctor24

: Aristotele, l‟autore che mi ha permesso

di indagare nella sua profondità l‟agire umano e di coglierne la sua

esistenza. Il promotore, se così si può osare, della mia indagine che,

dalla scoperta dell‟azione intesa come pura espressione dell‟uomo, ha

voluto analizzare l‟entità della parola, intesa proprio come rappresent-

azione. Perché parlare non è un prodotto finito, ma è un‟azione in

perenne movimento, che assume giustamente la qualifica di atto

espressivo in cui l‟uomo dà vita al proprio sentire più intimo,

permettendo all‟io di manifestarsi al tu.

Ma come riesce l‟uomo a trasformarsi in parola? Come riesce a creare

un linguaggio che sia davvero corrispondente alla sua natura?

Di rispondere a queste domande, si occupa il secondo capitolo, in cui,

attraverso il pensiero di Platone, propone la definizione di parola

come: mimema25

. Il prodotto del dinamismo interiore e tipicamente

umano della mimesis26

: quell‟energia che permette all‟uomo di creare

tramite sé, l‟essenza di un qualsiasi ente da lui percepito, divenendo

intimamente simile ad esso27

. Il mimema, così, corrisponde a un‟opera

creatrice che, nelle sembianze di una forma riconoscibile – il

vocabolo, in questo caso –, esprime e comunica un‟essenza soggettiva.

Per questo arriverò a definire la parola come rappresentazione estetica

e mimesica, perché proprio grazie all‟oggettività (vocale, testuale,

24

Cfr. Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p.67. Si veda anche Tommaso D‟Aquino,

De magistro, (a cura di Edda Ducci), Anicia, Roma, 2009, p.12. 25

Traduzione riportata in Sulla natura mimesica del discorso. Una lettura filosofica-

educativa di pagine del Cratilo”, di Gilberto Scaramuzzo, in Educazione. Giornale di

pedagogia critica, Vol. I, N.2, 2012. 26

Si veda per approfondire questo movimento in chiave educativa l‟opera di Gilberto

Scaramuzzo, Paideia Mimesis, Anicia, Roma, 2010. 27

Cfr. Platone, La Repubblica, cit., III, 393c.

11

corporea) di cui si veste, riesce a essere percepita e a entrare in

contatto con il mondo. E parallelamente, nella sua forma percepibile,

rappresenta – comunica – quell‟intima essenza spirituale che, senza

corpo, non sarebbe riuscita a parlare – ad agire28

–.

La parola è quindi un atto che consente di entrare in relazione con se

stessi e il mondo perché, intesa come apertura intersoggettiva,

permette all‟uomo di viversi e di manifestarsi. Come infatti vedremo

nel terzo capitolo, mediante l‟aiuto delle parole di Ferdinand Ebner29

,

la parola rappresenta la forma primordiale dell‟uomo; è l‟espressione

dello spirito che ontologicamente ha il bisogno di vivere nel corpo,

plasmando, così, ogni atto espressivo. È la testimonianza più

educativa che l‟uomo ha, per dimostrare il suo bisogno di incontrarsi,

perché se nasce con questa parola, nasce anche con l‟esigenza di

comunicarla; e questa comunicazione non può che avvenire nella

relazione.

Se quindi tramite il linguaggio autentico le persone si incontrano, vien

da sé capire l‟importanza pedagogica che assume l‟educazione fine a

insegnare come parlare. Ma attenzione: non a parlare sintatticamente

correttamente, ma a parlare con personalità – cioè con spirito –.

Perché solo essendo le parole dette è possibile attuare l‟incontro.

Bisogna allora ridonare qualità estetica al linguaggio riscoprendo il

suo valore intenzionale30

nella sua forma visibile, perché solo

28

E come vedremo con le pagine di Aristotele, esistere è agire. (cfr. cap. 1, paragrafo 1.4) 29

«[…] Ebner riflette sulla lingua al fine di meglio conoscere l‟uomo e trovare strade più

sicure perché si realizzi, perché viva la vita che è sua». (Ducci, Edda, La parola

nell’uomo, cit., p.84) 30

Utilizzo questo aggettivo per rimandare volontariamente alla fenomenologia

husserliana, in quanto uno dei primi presupposti di tale conoscenza è, per l‟appunto,

l‟intenzionalità. Parola in cui è racchiusa “l‟idea di un tendere” (cfr. Costa, Vincenzo (et

12

riassegnandoli eticità si potrà educare non solo a riconoscere il

linguaggio autentico da quello mediatico, ma a divenire la propria

parola, ossia il proprio spirito.

Questa sarà la modalità per attuare la vera espressione31

dell‟Io, e

realizzare la relazione interumana32

.

alii), La fenomenologia, cit., p.94) sia nella postura del soggetto che incontra l‟oggetto,

sia nello sguardo fenomenologico che studia la realtà. Perché «non ci possono bastare i

significati ravvivati da intuizione lontane e confuse, da intuizioni indirette – quando sono

almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle cose stesse […]» (Husserl, Ricerche logiche,

p. 271, in Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., p.47), e questo è lo l‟obiettivo della

pedagogia dell‟espressione, una disciplina che oserei paragonare alla fenomenologia

trascendentale (Ivi, p.48) perché osserva i fenomeni espressivi e disvela la trascendenza

immanente dell‟io, grazie alla capacità di addentrarsi attraverso la forma, nei vissuti

interiori. 31

«L‟esperire dell‟uomo è posto nella parola. La vita dell‟uomo è un torrente che

mediante la parola è preservata dallo scorrere senza fine, dallo scorrere nel nulla

dell‟amorfia e dell‟inesistenza. Di questo mistero nella parola – ed è un mistero – sanno, a

modo loro, i poeti.». (Ebenr, Ferdinand, La parola è la via, Anicia, Roma, 1991, p.163.

«C‟è una vita che non porti in sé, come qualcosa di essenziale, almeno la predisposizione

a contenere in sé un esperire? Ma una vita che contiene in sé un esperire è

consapevolezza. Cos‟è cosa significa “esperire”? Che vuol dire questa parola? Esperire: è

proprio insondabile come il vivere, e forse racchiude nella sua insondabilità la ragione del

vivere […]» (Ivi, p.152) 32

Cfr. Buber, Martin, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano, 2012.

13

Capitolo primo

Aristotele e l’azione espressiva

“La lingua è

l’azione spirituale dell’io

che pone il tu”.

(Ferdinand Ebner)

Questo mio lavoro nasce da un‟esigenza. Un‟esigenza che è scaturita

non solo dalla vacuità e frenesia del quotidiano33

, ma dal desiderio

nostalgico di riscoprire e riudire il valore est-etico34

di una forma

espressiva che palpita in ogni esperienza umana, in quanto non solo

accompagna ogni esperire e incontro umano, ma perché nella sua

veste mutevole35

vi è custodito l‟essere in vita.

Mi riferisco al linguaggio, inteso come la rappresentazione, l‟attuarsi

espressivo dell‟uomo perché in esso non vi si trasmette solo un‟idea,

ma vi dimora l‟essenza intima di ciascun soggetto. Quell‟invisibilità36

che ontologicamente pulsa sotto la nostra pelle, ma essenzialmente

plasma37

ogni nostro esperire al fine del suo volere – il suo bisogno –

di rivelarsi al mondo.

E il linguaggio altro non è che questa rivelazione: un‟apertura

relazionale tra l‟io e il tu, uno spazio corporeo e trascendentale in cui

33

Il che richiede il desiderio di un nuovo ritmo, di un nuovo tempo, di un nuovo incontro. 34

Rimando per l‟utilizzo di questo aggettivo all‟opera di Abbate, Fabrizia, Est-etiche del

grigio, Editori Riuniti, Roma, 2012. 35

In quanto per linguaggio non intendo solo quello verbale, ma anche corporeo. 36

Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2009. 37

Oserei qui aggiungere: manovra, non nel senso di comandare, ma nel significato di

coordinare, guidare la sostanza del proprio corpo secondo il proprio sentire.

14

l‟intimità del soggetto si manifesta nella realtà – diventa evento38

– e

prende vita quell‟incontro tanto caro a noi educatori: l‟espressione.

Dinamismo che mi preme definire “incontro” perché è in questo moto

apparentemente esteriore che si racchiude quel delicato e umano

movimento di scoperta interiore, in cui l‟io penetra dentro di sé, si

vive, e riesce a rappresentare in una forma riconoscibile dagli altri il

suo sentire.

Vien da sé capire quanto sia stato allora scoraggiante per uno sguardo

pedagogico che mira, invece, a nutrire di vita l‟esperire dell‟uomo,

vedere questa attività linguistica come un ambiente di passaggio39

,

dove le persone si scontrano, si sfiorano, ma non si incontrano

autenticamente.

Un luogo che amaramente definisco abusato40

in quanto viene

inaccuratamente adoperato come strumento per fini estrinseci al suo

vero significato – esperire l‟essere – e oppresso dalle chiacchiere che

38

«[…] il discorso si dà come evento: allorchè qualcuno parla qualcosa succede.»

(Ricoeur, Paul, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 1994,

p.99). «[…] l‟evento consiste nel fatto che qualcuno parli, che qualcuno si esprima

prendendo parola» (Ivi, p.100) perché «[…] ogni parola che viene alla vita dallo spirito

dell‟uomo ha un rapporto con un tu, essa parla a un tu […]» (Ebner, Ferdinand, La parola

è la via, Anicia, Roma, 1991, p.103). La parola non è evento solo perché è calata in un

corpo (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, Rubbettino,

Soveria Mannelli, 2008, p.67) ma perché nell‟atto di esprimersi e di essere riconosciuta,

diventa esistenza. 39

Cfr. Marc, Augè, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,

Eleuthera, Milano, 2009. 40

«Il compito della parola è di esser leva, sollevatrice della nostra vita psichica e

spirituale. Ma che cos‟è la parola di un pensatore o di un poeta che non eleva niente, che

non muove niente in noi, ma piuttosto condanna alla “solitarietà dell‟io”, e perciò

pretende soltanto che ammiriamo la sua perfezione estetica? Nient‟altro che abuso della

lingua – anche se si pretende che “serva” ad essa e al suo miracolo. Utilizzare in

un‟espressione sintattica e mettere in scena le segrete e spesso meravigliose possibilità

significative di una parola, non lo si può fare per un fine puramente estetico. Si finisce

degenerando in un gioco di parole e in un passatempo verbale.» (Ebner, Ferdinand,

Parola e amore, Rusconi, Milano, 1998, p.138)

15

inquinano di superficialità l‟essenza del dialogo41

: ossia quel incontro

tra due logos che nel – attraverso – il linguaggio si aprono l‟uno verso

l‟altro.

Ed è per questo suo sopruso che la mia ricerca si è prefissata di

riscoprire il suo valore, partendo dalle sue origini più intime al fine di

creare un percorso che possa far dialogare esteticamente42

i cittadini.

1.1 Una partenza costretta

Per intraprendere questo studio, però, è stato necessario prendere

coscienza non solo sulla forma del linguaggio, ovvero capire cosa

rappresenta il linguaggio per l‟uomo, ma in cosa consiste

sostanzialmente questo spazio.

Sono ossia dovuta partire non solo dall‟indagine ermeneutica di tale

rappresentazione – ovvero intendere il senso del fenomeno –, ma dallo

svelamento ontologico delle sue origini più profonde, cioè dal suo

movimento.

41

Interessante è vedere come Platone veste le sue opere di una tipica forma letteraria – i

dialoghi – da cui viene spontaneo domandarci: nella lettura cerca di farci incontrare i

personaggi? Mirela Oliva in La differenza linguistica tra etica e ontologia, non a caso

afferma che la parola ha in sé un «”dia-”, ”un attraverso”, un‟”apertura”» (Oliva, Mirela,

La differenza linguistica tra etica e ontologia, in Ricoeur, Paul, Tradurre l’intraducibile.

Sulla traduzione, Urbania University Press, Città del Vaticano, 2008, p. 110), proprio per

sottolineare quanto la parola – ossia il dialogo – sia un ponte comunicativo tra l‟io e il tu,

dove ognuno si apre e dona all‟altro (cfr. terzo capitolo). 42

La postura estetica sarà un approccio portante di questo lavoro, perché ci guida a

intendere la realtà, nella sua profondità, partendo dal suo incontro (cfr. Desideri, Fabrizio,

Op. cit., p.19). In questa ottica, dialogare esteticamente significa allora tendere nella

comunicazione l‟uno verso – dentro – l‟altro, per viversi e rispettarsi autenticamente

perché «ogni incontro vero e profondo tra persone è dialogo, ma ogni dialogo è incontro»

(Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p.87).

16

Ho dovuto domandarmi, cioè, non solo cosa esprimesse la parola, ma

in cosa consistesse l’atto del parlare. Cosa significa l‟affermazione:

“l‟uomo parla”43

, e da quale motore nasce questo dinamismo?

Ecco quindi il motivo per cui la mia riflessione è dovuta nascere dalle

pagine di un autore che ha davvero reso palpabile44

un concetto che

compenetra45

la nostra esistenza, ma è al quanto ineffabile, ovvero:

l’azione. L‟archè da cui questa ricerca ha timidamente cercato di

svelare il linguaggio come attuarsi dell’uomo, perché se l‟uomo è

principio delle sue azioni46

, è altrettanto possibile affermare che

l‟uomo è principio del sul linguaggio.

E giunge proprio qui il mio incontro con Aristotele, e in particolare

con uno dei suoi capolavori: l‟Etica Nicomachea, a cui voglio

interamente dedicare questo capitolo47

in quanto, oltre a essere l‟opera

che ha verbalizzato l‟esistenza dell‟uomo48

, è un‟opera che racchiude

in sé dei veri e propri principi di vita che possono contribuire a nutrire

43

Come vedremo nel terzo capitolo, ma merita comunque già citarlo, Ferdinand Ebner

ritiene che «Parlare del problema della lingua e rispondere al quesito perché l’uomo ha la

parola è parlare del tu in maniera concreta e attuale, ma anche accettare il trascendimento

perché “la tuità della coscienza umana non è una conseguenza del rapporto da uomo a

uomo (non è un momento di sviluppo sociale) ma piuttosto è alla base di ogni relazione

umana all‟uomo. Indica non soltanto al di là dell‟io, ma al di là dell‟uomo semplicemente.

Da essa deve essere compreso il significato profondo della lingua, il fatto che l‟uomo ha

la parola”». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.177) 44

Utilizzo questo aggettivo per precisare la sensazione di percepire, toccare con l‟animo

in questa lettura, un‟entità che ha mutevole forma: l‟azione. Mutevole perché è

espressione dell‟essere, della singola soggettività di ciascuno, e per questo è di volubile

aspetto. L‟azione rappresenta e manifesta l‟esperire concreto dell‟uomo nel mondo:

perciò è solo dall‟atto che è possibile distinguere l‟essenza. 45

Com-penetra nel senso che comprende e penetra la vita dell‟uomo. 46

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. di C. Natali, Laterza, Bari, 1999, 1110a, 17. 47

Mi soffermerò infatti in un‟analisi piuttosto specifica, ma fin sempre superficiale per la

sua vastità, di tale opera. Non solo per riflettere sui concetti fondanti della mia ricerca, ma

per mostrare l‟attualità e importanza di tale contributo filosofico nella prassi educativa

contemporanea. 48

Come approfondirò e affermerò nel paragrafo 1.4, esistere per l‟uomo è agire (cfr.

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10).

17

il pensiero pratico49

della politica: quella disciplina che ha come fine

la costruzione di una polis est-etica, ovvero una società composta da

cittadini che convivono mediante un agire etico – quindi secondo virtù

– ed estetico – ossia vivere e percepire secondo la pienezza più

autentica del proprio essere.

1.1.1 Il fine dell‟azione

Aristotele chiarisce subito infatti il fine che ci permette di attingere

fin nelle sue pieghe più profonde la delicatezza e rilevanza pedagogica

di tale discorso. Mi riferisco alla premessa che l‟autore espone nel I

libro, quando dichiara esplicitamente che la questione di tale scritto

49

Creo questo termine prendendo spunto dalle parole di Ferdinand Ebner quando

definisce «la parola non [come] cosa del conoscere ma del vivere, e questo è pensare

concreto [corsivo mio]». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, La Scuola, Brescia, 2005,

pp. 88-89). Il pensiero pratico allora è un pensiero che oltre a essere agibile, si forma

dalla vita stessa. Nasce dall‟uomo, e soprattutto, tende a un bene morale che lo costringe

(cfr. Scaramuzzo, Gilberto, A colloquio d’esame con Edda Ducci, in Scaramuzzo,

Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermeneusi di un mistero, Anicia,

Roma, 2009, p. 30) ad agire secondo virtù. Pensiero che non richiama solo l‟affermazione

della filosofia dell’azione ricoeuriana (cfr. Ricoeur, Paul, La semantica dell’azione, Jaca

Book, Milano, 1998, pp.35-37) ma la presentazione introduttiva che fa Aristotele fin dalle

prime righe dell‟Etica Nicomachea, proprio per definire che «ogni arte e ogni indagine,

come pure ogni azione e scelta […] persegue un qualche bene, e per questo il bene è [...]

ciò cui tutto tende. Ma appare evidente che vi è una certa differenza tra i fini: alcuni sono

attività, altri sono opere che stanno al di là di quelle, e, quando si danno dei fini al di là

dell‟azione, in questo caso le opere sono migliori delle attività.». (Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1094a, 5) È fondamentale, cioè, agire non solo per l‟azione stessa (es:

corro per correre) ma per un fine, un principio che è al di fuori di essa, perché se vi è un

telos in «ciò che facciamo, che desideriamo a causa di esso stesso, e desideriamo le altre

cose a causa di questo, e non scegliamo ogni cosa a causa di altro […] è chiaro che quello

[il fine ultimo ] viene a essere il bene la cosa migliore.». (Ivi, 1094a, 20). Conoscere

allora cosa e come sia questo bene, «sembrerebbe essere oggetto della più autorevole e

architettonica [scienza, che è] la politica» (Aristotele, Ivi, cit., 1094a, 25), perché è essa a

«stabilire di quali scienze c‟è bisogno nelle città» (Ivi). Vien da se capire allora quanto sia

affine questa opera al sapere politico, e soprattutto, quanto la politica e la pedagogia

dovrebbero dialogare l‟un l‟altra per garantire, da una parte, la costruzione e

funzionamento della società; e dall‟altra, formare cittadini che siano attivi e utili alla

polis.

18

non è tanto finalizzata alla scoperta della conoscenza dell‟etica.. ma

dell‟agire50

, perché è proprio dalle azioni, dalle espressioni, dalle

abitudini51

di un uomo che possiamo distinguerlo dagli altri enti, e

possiamo soprattutto definirlo un cittadino buono, bello e giusto52

.

Questo perché, come vedremo nel corso del capitolo, l‟uomo non può

essere giudicato dalle sue conoscenze.. ma deve essere distinto dalle

sue azioni, in quanto sono quest‟ultime a dimostrare l’attuazione del

suo carattere53

.

È allora facile capire quanto sia essenziale e vitale il contributo di

questa opera, perché oltre a permetterci di scoprire54

il senso autentico

dell‟azione nella vita umana, oltre a ridonare spessore significante

all‟agire, mi supporta verso la scoperta di quel nutrimento paideutico

tanto caro e necessario alla società: quello di un agire che attraverso

50

(Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1095a, 5). Ma ovviamente Aristotele non si

ferma solo a questa spiegazione. Nel II libro, con estrema eleganza, dichiara che «[…]

non stiamo indagando per sapere che cos‟è la virtù, ma per diventare buoni, perché

altrimenti non vi sarebbe nulla di utile in questa trattazione [;per questo] è necessario

esaminare il campo delle azioni, come le si debba compiere, dato che sono esse a

determinare la qualità del carattere […]».(Aristotele, Op. cit., 1103 b, 26-30). Il corsivo è

mio. 51

Dico abitudini perché è in esse che ritroviamo le esperienze che sono state assorbite

nell‟interiorità del soggetto, fino a diventare proprie. (cfr. paragrafo 1.3) 52

Mi riferisco al principio della kalocagathia: il paradigma greco che prende origine dai

concetti kalos (che significa bello) e agathos (che significa buono), fondamenti preziosi

per la costruzione di una polis che vive di armonia estetica. Una misura che spesso

troviamo nel pensiero aristotelico, il quale aspira sempre alla medietà, come giusto

mezzo. Un giusto mezzo che non equivale a un uguale matematico, ma a relativismo per

noi (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., II, 1106 b, 5). Cfr.

http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf p. 33. 53

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1143b, 28-30). Ma attenzione: non si deve

giudicare l‟uomo da una singola azione. Non solo è umano sbagliare e non è facile

perseguire sempre la retta ragione, ma è attitudine dell‟uomo virtuoso saper agire con

abitudine. Dopo tutto, «non è una rondine che fa primavera». (cfr. Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1098a 18). 54

Nel senso più sensibile della parola, in quanto si tratta letteralmente di privare dal

manto visibile consumistico, il significato dell‟azione per coglierla “nuda”, nella sua più

autentica origine.

19

la sua energia55

, forma – nutre – l‟uomo agente fino a farlo divenire

lui stesso l‟azione medesima, perché è agendo che l’uomo diventa

interiormente il suo movimento esteriore56

. Affermazione che

possiamo intendere solo ricordando l‟entità dell‟uomo: uno spirito in-

carnato57

che non plasma unicamente la propria voce secondo il suo

sentire, ma viene a sua volta modellato dall‟ambiente circostante.

Dobbiamo quindi capire come l‟uomo riesce a estendersi all‟azione, e

soprattutto, da quale motore parte il suo movimento desiderante di

agire. Dico desiderante perché ogni azione è smossa da una scelta58

,

che a sua volta, deriva non solo da una deliberazione59

, ma da un

55

Intendo qui per energia l‟accezione coniata da Aristotele (cfr. Aristotele, Metafisica,

Laterza, Bari, 1998, 1050a, 22) che permette di cogliere quanto ogni atto sia mosso da un

movimento che indirizza l‟azione ad agire verso un fine (cfr. Malo, Antonio, Il senso

antropologico dell’azione: paradigmi e prospettive, Armando, Roma, 2004, p.16). 56

Attraverso l‟atto corporeo l‟uomo si immedesima, prende le sembianze, interiormente

dell‟azione o dell‟oggetto di cui cerca fare la mimesis. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto,

Paideia Mimesis, cit.). Per approfondire questo concetto si rimanda al secondo capitolo. 57

«[…] l‟essere corpo è per l‟uomo la condizione del suo inserimento nel mondo e della

sua possibilità di rapportarsi agli altri.» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra

medicina e estetica, cit., p.25). «Il corso […] è sensibile per sé […] è sensibile esemplare,

che offre a chi l‟abita e lo sente quanto occorre per sentire tutto ciò che all‟esterno gli

somiglia, cosicché, preso nel tessuto delle cose, egli lo trae tutto a sé, lo incorpora e, con

lo stesso movimento, comunica le cose sulle quali egli si chiude quella identità senza

sovrapposizione, quella differenza senza contraddizione, quello scarto dell‟interno e

dell‟esterno che costituiscono il suo segreto natale [corsivo mio]». (Merleau-Ponty,

Maurice, Il visibile e l’invisibile, cit, p. 152). 58

«[...] la scelta è un che di volontario, ma non è identica al volontario […] ancor meno la

scelta è impulso […] non è nemmeno volere [perché] il volere è soprattutto relativo al

fine, mentre la scelta è di ciò che porta la fine; per esempio: vogliamo essere sani, e

scegliamo le cose per mezzo delle quali saremo sani […]» (Aristotele, Etica Nicomachea,

cit., 1111b, 5-27). Il che significa che per diventare buoni non basta volerlo, ma si deve

scegliere, ossia agire attraverso azioni che portano al fine. 59

Come afferma Aristotele a 1112a, 15 «la scelta è unita a ragionamento e pensiero»; ma

non deliberiamo su tutto. Infatti come le scelte riguardano ciò che porta ai fini, così anche

i ragionamenti deliberano sui mezzi (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1112b, 13)

che dipendono da noi e possono essere realizzati (cfr. Ivi, 1112a, 31). Infatti «poiché

oggetto della scelta è, tra quanto dipende da noi, quello che è deliberato e desiderato,

anche la scelta viene a essere un desiderio deliberato di ciò che dipende da noi: infatti

giudicando a partire dalla deliberazione, proviamo desiderio secondo la deliberazione»

(Ivi, 1113a, 10-14).

20

desiderio60

interiore che è attratto da un fine esteriore. Ma da dove

nasce questo desiderio? Tutti lo provano? E soprattutto: a cosa

corrisponde fenomenologicamente questo telos?

Per rispondere a queste domande è necessario seguire l‟ordine di

pensiero di Aristotele il quale, dopo esser partito dalla premessa che

ogni azione tende a un fine, e che per tale motivo la politica deve

occuparsi dell‟agire – in quanto è la scienza per eccellenza per

scegliere i beni da seguire – si avvicina alla risposta proseguendo a

spiegare che ogni atto tende a un bene pratico61

.

Pratico perché è un bene reale, che per viverlo deve essere agito; un

bene perfetto e autosufficiente in quanto «è sempre scelto per sé e mai

a causa di altro»62

e viene sì perseguito per se stesso, ma da esso

dipendono tutti gli altri fini a cui tendono le nostre azioni. Un bene,

quindi, unico, che racchiude in sé ogni nostra deliberazione, scelta,

azione e che viene percepito e raggiunto proprio tramite l‟azione63

.

60

Un desiderio che «[…] non equivale a dare spazio alla spontaneità delle emozioni o

all‟esercizio di una libertà autoreferenziale, che risponde solo di fronte a essa, quanto

piuttosto alla tensione vero un oltre posto fuori di me, che mi appare meritevole

d‟impegno» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo, cit., p.12). Cfr. Ricoeur, Paul, La

semantica dell’azione, cit., p.73 61

«Diciamo, ricominciando da capo, e dato che ogni conoscenza e scelta tende a un

qualche tipo di bene, qual è quel bene che noi sosteniamo essere ciò che la politica

persegue, cioè qual è il bene pratico più alto.». (Aristotele, Op.cit., 1095 a, 13). Questo è

l‟obiettivo principale di tale discorso: capire quale sia il bene pratico (agevole) che merita

più valore e più interesse da parte dell‟uomo, affinché impegni la sua azione a

raggiungere tale bene. 62

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1097a, 35. 63

È per questo suo legame intrinseco con l‟agire che questo “sommo bene” non è

seguibile solo dai politici, ma anche da tutti i cittadini, in quanto ognuno può agire, e in

particolare, può agire in una maniera tale da vivere bene. Soprattutto perché, come riflette

Ricoeur, Aristotele ha creato la condizione – e un principio per la filosofia morale – per

cui ogni nostro bene dipende dall‟azione dell‟uomo. È dall‟individuo stesso che deriva

infatti il bene, perché esso è racchiuso nell‟azione umana. (cfr.

http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=327).

21

Un bene universale, vivibile da ogni individuo, che Aristotele

individua non a caso nella felicità, intesa come “sommo bene”64

che

l‟uomo può vivere solo agendo, perché l‟eudaimonia è di preciso un

«un certo modo di vivere bene e agire bene»65

.

Certo – nel senso di particolare – in quanto è un agire caratterizzato

non solo dal bene, ma anche dal bello66

, ed è per questo che più avanti

Aristotele definisce la felicità come «attività dell‟anima secondo

virtù»67

. Perché sapendo che per virtù68

si intende proprio una

“perfezione abituale”69

che plasma l‟agire dell‟uomo dandogli una

forma perfetta, ci fa cogliere che l‟anima non agisce solo bene, ma

anche con bellezza. Ci fa intendere, cioè, che l‟uomo virtuoso è il

modello a cui tutti i cittadini dovrebbero aspirare non perché agisce al

migliore dei modi, ma perché segue i principi dell‟est-etica. Segue

ovvero la volontà di vivere interiormente – e quindi agire – per il bene

e per il bello: due qualità che compongono l’eudamonia e che ci

64

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1097b, 23. 65

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1098 b, 22. 66

Questo perché «[…] quelli che agiscono correttamente risultano essere vincitori delle

cose belle e buone nella vita.» (Ivi, 1099 a, 5) Non si costruiscono, cioè, solo una vita

buona, eticamente giusta, ma anche bella! E per tale intensificazione estetica «Il loro

modo di vivere è inoltre piacevole di per sé» (Ibidem) perché vivono una vita che trova

beltà non al di fuori, ma in se stessa. E questo appagamento autotelico vissuto dall‟uomo

agente, genera un piacere profondo – intimo – che vive non solo il corpo, ma l‟anima

stessa, perché «il provare piacere è cosa che avviene nell‟anima, e per ciascuno è

piacevole quello di cui lo si dice “appassionato”[…].»(Ivi, 1099 a, 10). Appassionato

perché corrisponde alla natura dell‟anima e del corpo, e risponde al bisogno dello spirito

umano di vivere e percepire in sé, e fuori da sé, la sua natura segreta (Cfr. Merleau-

Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p.152). 67

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1099b, 26. 68

Ci sono due tipi di virtù: intellettuali (dianoetiche) e morali (etiche). Quelle dianoetiche

(da dianoia che significa intelligenza) sono le virtù del pensiero, ergo, della parte

razionale dell‟anima (cfr. Aristotele, De Anima, tr. di G. Movia, Bompiani, Bologna,

2001, 432a-b) in cui il logos coincide con l‟intelletto (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea,

libro VI). Le virtù morali, invece, solo quelle pratiche, dell‟agire, che fanno parte della

parte irrazionale desiderativa dell‟anima, quindi quella che riflette il logos (cfr. Aristotele,

Etica Nicomachea, libro IV). 69

http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php

22

portano quindi a intendere ogni azione etica come un‟azione perfetta,

in quanto conduce l‟individuo ad agire per il bene e per il piacere –

ossia per la felicità.

Vivere felici significa allora agire est-eticamente; significa vivere

desiderando70

e scegliendo quel bene che permette di rendere

meritevole l‟azione – ossia la vita – come prodotto dell‟«attività

dell‟anima e agire razionale [dell‟uomo] secondo virtù»71

. Altresì,

significa dare responsabilità all‟uomo della sua felicità, perché se

questa consiste in un modo di vivere e agire non per un singolo

giorno, ma per l‟intero arco della vita, all‟uomo stesso è assegnata la

responsabilità del suo raggiungimento.

Dipende allora dall‟agire umano la sua felicità; dal modo di vivere che

non è più ristretto in un‟idea trascendentale o in un traguardo da

conseguire, ma in un percorso da attuare e da perfezionare

virtuosamente giorno per giorno.

1.2 Agire con virtù

Non ci addentriamo ora, però, nella riflessione di come vivere una vita

perfetta, perché è su un concetto che è necessario soffermare la nostra

attenzione educativa: ossia la modalità attraverso cui si possono

accogliere ed esercitare le virtù72

, quelle “eccellenze” che possono

70

Si veda in riferimento al desiderio, il paragrafo 1.3 71

Aristotele, Etica Nicomachea, 1098 a, 15. 72

«[…] ogni virtù si genera e si distrugge a partire e per mezzo delle stesse cose, […]

infatti derivano buoni costruttori a partire dal ben costruire, e cattivi dal costruire male»

(Aristotele, Etica Nicomachea, 1103b, 7-11). Le virtù quindi si generano dalle azioni

stesse: atti che tendono a un preciso bene.

23

perfezionare l‟azione ed elevare, così, colui che le attua. Stiamo

parlando dell‟habitus73

intesa come la disposizione, la postura che

accompagna l‟uomo nell‟azione e che va educata ad agire bene.

Un‟abitudine che necessita di fare esperienza per diventare una

consuetudine, un abito – inteso proprio come rivestimento – che deve

essere fatto proprio come carne, perché solo attraverso questa

incorporazione (che viene plasmata dalla pratica continua di

determinate azioni74

) è possibile che l‟uomo possa assorbire una virtù.

Possa, cioè, diventare nell‟anima quell‟eccellenza che gli consente di

agire bene e bello per essere felice, in quanto «[…]gli stati abituali

derivano dall‟agire in ogni caso particolare: se uno compie, non per

ignoranza, cose che lo fanno diventare ingiusto, verrà a essere ingiusto

volontariamente.»75

È assegnato quindi all‟uomo un‟enorme responsabilità perché anche

se non siamo padroni di «ciò che si aggiunge in ogni singolo caso» 76

,

in quanto non possiamo controllare le mutevoli realtà che ci

73

«[…] gli stati abituali derivano da attività dello stesso tipo. È per questo che si devono

esprimere azioni di una certa qualità, poiché i nostri stati abituali sono diretta

conseguenza delle loro differenze. Non è quindi una differenza da poco, se fin dalla

nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro […]». (Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1103 b, 20-25). È facile capire quanto questa ultima affermazione sia

decisiva per la pedagogia in quanto Aristotele, forse non molto consapevole di questo

significato, assegna all‟educazione il compito di abituare l‟uomo ad azioni di qualità,

ossia ad azioni buone e belle che, compiendole, permettono di formare uomini buoni. «Se

non fosse così, non si avrebbe bisogno per nulla di un maestro, ma tutti si generebbero o

buoni o cattivi». (Aristotele, Ivi, 1103b, 12-13). «se ci sono più stati dell‟anima che non

sono necessariamente virtuosi (per esempio, la disposizione a distrarsi durante le

lezioni), bisognerà specificare lo stato virtuoso. Poiché l’exis virtuosa si ottiene a partire

dall‟esercizio della virtù, la virtù è determinata dalle azioni (vedi EN II, 2, 1103b30-31,

da comparare con 1103a30-32). Per fare un esempio, io acquisisco la virtù del coraggio

attraverso azioni coraggiose. Dopo più azioni coraggiose, divento coraggioso, acquisendo

così lo stato del coraggio.» (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf

p. 31). 74

«[…] le attività compiute di volta in volta li rendono tali.» (Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1114a, 7). 75

Ivi, 1114a, 9-12. 76

Ivi, 1115a, 1-3.

24

circondano e in cui siamo sotto la loro influenza77

, «[…] dipende da

noi farne uso o no»78

di tali stati abituali, perché è dalle nostre azioni

che essi si generano; e da essi dipendono l‟esercitazione di

determinate virtù.79

La virtù viene così a configurarsi come «uno stato abituale che

produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato

razionalmente»80

. Il che significa che la virtù, intesa come perfezione

77

Questa passività (cfr. Ricoeur, Paul, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1994,

p.432) è data non da una disposizione di carattere dell‟uomo, ma dalla sua sostanza

corporea. Perché è essa che ci permette di conoscere il mondo (cfr. Merleau-Ponty,

Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.195) ma nello stesso tempo ci

condiziona l‟esperienza. «Senza corpo non potremmo abitare il mondo, esprimerci e

comunicare, ma questo corpo connota il nostro agire in una certa direzione: siamo nati

con determinate caratteristiche fisiche e temperamentali e siamo collocati in una

situazione corporea già definita […]». (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo, cit., p.19).

Il nostro corpo “abita lo spazio e il tempo” (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia

della percezione, cit., p. 194), perché «è ciò che mi apre al mondo e mi mette in

situazione» (Ivi, p. 232) e di conseguenza aderisce ai suoi mutamenti. 78

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1115a 1-3. 79

Lampante è l‟esempio della saggezza, in cui capiamo che non basta conoscere le

usanze di tale virtù per essere saggio, ma bisogna agirle! Perché è diventando l’habitus

che si diventa la virtù. E questo è possibile solo agendo; praticando, cioè, tale

disposizione. Infatti «Se è vero che la saggezza riguarda ciò che è giusto, nobile e buono

per una persona, e tali sono le azioni che a un uomo dabbene spetta di compiere, non

diverremo per nulla più capaci di agire per il fatto di conoscere tali cose, se è vero che le

virtù sono stati abituali […]» (Aristotele, Etica Nicomachea, cit, 1143b, 21-25). 80

(Ivi, 1107 a). Per “razionalmente” si intende «[…] come verrebbe a determinarlo

l‟uomo saggio» (Ivi) in quanto, per Aristotele, l‟uomo saggio è colui che sa usare la

phronesis (cfr. http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php), ossia

colui che agisce secondo intelletto e virtù; perché non basta conoscere la virtù, non basta

avere la ragione. Bisogna agire per essere! Infatti, come sintetizza magnificamente a

1114b, 26 le virtù sono «medietà [e] stati abituali, che di per sé sono produttrici di quelle

stesse azioni da cui derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che sono così,

come prescrive la retta ragione.».

L‟uomo saggio, il phrónimos quindi, è colui che sa riconoscere «il suo gusto, il suo tatto

morale che gli permette in una data situazione di riconoscere in che senso si può agire

bene o male.» (http://www.culturanuova.net/filosofia/testi/aristotele2_emsf.php). È,

ovvero, colui che quotidianamente agisce con e per il giusto mezzo perché egli sarà una

«persona equilibrata [che è giunto] ad uno sviluppo corretto delle sue capacità di provare

emozioni e passioni. Tale sviluppo consiste [però] nell‟acquisire uno stato (cioè una

disposizione durevole) a provare passioni sempre uguali per oggetti simili, in modo tale

da giungere ad agire in modo coerente. Quando l’exis è buona, si identifica con la

capacità ad allontanarsi dagli eccessi e dai difetti, che distruggono il benessere sia del

corpo che dello spirito, e nella capacità di restare in uno stato medio di emozioni e

25

dell‟azione – in quanto tende al bene e al bello81

– è indicata dal logos

che, tendo a ricordare, esprime l‟essere – la parola – del soggetto. Ma

ovviamente, in questo caso, per logos82

si intende la ragione, perché è

essa a essere regolata dal nous, la parte dell‟uomo che più lo distingue

dagli altri animali, e più lo caratterizza a vivere una vita perfetta.83

La virtù – azione perfetta in quanto tende a un fine intrinseco e

autosufficiente – viene quindi scelta dall‟intelletto che individua il

giusto mezzo attraverso cui raggiungerla, e viene assorbita

nell‟intimità dell‟uomo divenendo, di conseguenza, la disposizione

necessaria per poter poi agire nello stesso modo da lei predisposto.

1.3 L’uomo agente

Definire però che le virtù sono habitus che l‟uomo acquisisce

agendole, ci porta ad affrontare un concetto che troviamo ancora più

avanti, nel VI libro. Un passo in cui Aristotele dà, a mio parere, una

delle definizioni più emozionanti e inattese dell‟uomo, in quanto,

passioni. Cfr. EN, II 2, 1104a11-26». (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-

Arist%20EN.pdf, p. 35). 81

E tendendo a un fine fa sì che l‟azione diventi piacevole per se stessa, perché tutte le

virtù sono piacevoli «nella misura in cui pervengono al loro fine». (Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1117b, 15). 82

Non a caso scrive Schopenhaure: «il linguaggio è la prima creazione e lo strumento

necessario della ragione; così, in greco e in italiano, linguaggio e ragione sono due

concetti espressi da un‟unica parola: o logos discorso».(Schopenhaure, Il mondo come

volontà e rappresentazione, cit., p..74, in Bastianelli, Marco, Oltre i limiti del linguaggio:

il Kantismo nel Tractatus di Wittgenstein, Mimesis, Milano, 2008, p.18 ) 83

Perché «se si ritiene che l‟attività dell‟intelletto, che è teoretica, spicchi per eccellenza,

non persegua alcun fine al di là di se stessa, possieda un suo proprio piacere completo, il

quale intensifica l‟attività, e abbia anche la caratteristica dell‟autosufficienza […], per

quanto si addice agli esseri umani, e tutte le altre caratteristiche che si attribuiscono

all‟uomo beato e che chiaramente dipendono da tale attività, allora quest‟ultima verrà a

essere la felicità umana completa, quando copra lo spazio di un‟intera vita.» (Aristotele,

Etica Nicomachea, cit., 1177b, 19-25).

26

proprio mentre introduce le virtù dianoetiche, apre una breve parentesi

riguardo gli elementi che compongono l‟anima e dispongono le

condizioni per determinare un‟azione autentica84

. Un agire che

coinvolge l‟integrità dell‟uomo in quanto richiede la partecipazione

sia della scelta che del desiderio85

. Infatti a 1139b, Aristotele afferma

che «di per sé il pensiero non muove nulla, ma lo fa il pensiero che

tende a qualcosa», cioè una razionalità che non pensa solamente, ma

desidera. E proprio per questo, poco più avanti, arriviamo allo

svelamento di una nozione estremamente pedagogica, in quanto

sostiene che «la scelta è pensiero desiderante o desiderio pensante e

l’uomo è questo principio [corsivo mio]»86

. Una frase complessa e

concisa che necessita la calma di uno sguardo ermeneutico per

sciogliere – quasi a districare – l‟essenza di questo pensiero.

Questo poiché in esso troviamo racchiuso un concetto che non si

manifesta in una limpida forma palpabile, ma rispecchia un‟idea così

intensa e latente che richiede l‟attenzione e la riflessione di questa

ricerca. Una nozione che ci definisce la modalità attraverso cui si può

avverare uno dei movimenti più delicati e preziosi dell‟uomo, ossia

l‟umanizzazione. Il dinamismo che, mediante questo principio

aristotelico, comprendiamo essere immobile – inespressivo – se non

promuove l‟attuarsi del pensiero nel desiderio87

; ovvero, se non

84

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1139a, 18-19. 85

Cfr. Ivi, 1139a, 32-35. 86

Ivi, 1139b, 4-6. 87

È necessario qui ricordare come Aristotele intenda l‟anima. Secondo tale autore,

l‟uomo ha tre anime: una puramente sensibile, comune a tutti gli esseri animali; una

razionale, che corrisponde quindi alla ragione; l‟ultima irrazionale, ossia l‟anima

desiderativa (cfr. Aristotele, De anima, cit., 432a-b). Per Aristotele, quindi, il desiderio fa

parte ontologicamente dell‟anima umana «[…] anzi, è un elemento indispensabile

dell‟anima umana, perché esso produce la capacità di muovere il corpo, cosa che la

ragione non fa, almeno essenzialmente.» (http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-

Arist%20EN.pdf, p. 35). Ci stiamo avvicinando a un concetto che ne La Repubblica

27

sostiene l‟entità umana come unione di ragione e passione. Per questo

è decisiva la consapevolezza – e cura – dell‟esistenza dell‟anima nel

proprio corpo88

, perché se esso resta inabitato, non solo si espone

l‟uomo al pericolo di agire senza pensiero, ma di restare muto, senza

espressione!

Collocare quindi l‟essenza dell‟uomo in questo principio, significa

affermare che ogni sua azione – ossia ogni sua scelta deliberata89

non sia semplicemente la rappresentazione della ragione e del

desiderio, ma l’espressione viva dell‟uomo. Implica cioè svelare

l‟uomo come sintesi dell‟attuarsi dell‟anima desiderante nel corpo,

perché attraverso il suo agire l‟uomo esprime il proprio desiderio. Per

questo possiamo sostenere che nell‟azione, l‟essere umano dà forma –

vita! – a quell‟interiorità che Pirandello definisce punto vivo90

, e che

Platone rivela come dinamismo tipicamente umano (cfr. Aristotele, Poetica, Laterza,

Bari, 2009, 1448b, 5-7, p.7), un‟energia che l‟autore individua nella mimesis. Un

movimento coinvolto nell‟ascolto della poesia ateniese, ma intrinsecamente presente

nell‟azione pedagogica e vita quotidiana. Per approfondire tale dinamismo in chiave

educativa si veda Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit e cfr. secondo capitolo.

«Aristotele [però] non prende l‟atteggiamento platonico (né quello che sarà stoico) di

ritenere che le passioni costituiscano il male morale. Piuttosto, egli crede che le passioni

costituiscano delle reazioni naturali (cioè, psicologicamente spontanee) all‟ambiente

circostante, cioè alle situazioni proposte dalla rete dei rapporti interpersonali e sociali. Si

tratta delle reazioni dell‟orexis, della parte desiderativa dell‟anima, cioè della funzione

psichica non razionale, che però non è negativa, piuttosto moralmente neutra.»

(http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf, p. 45) 88

«Il mio corpo è il luogo, o meglio l‟attualità stessa del fenomeno d‟espressione»

(Mereleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit, p.314). Come è infatti

riscontrabile nel metodo educativo montessoriano, il corpo è organo sensibile del

soggetto che dall‟ambiente viene stimolato a muoversi. Movimento che non consiste in

una reazione meccanica di stimolo-risposta, ma nell‟intenzionalità dello spirito di

evolversi, di vivere. (cfr. Montessori, Maria, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano,

2012, p. 104). 89

Per intendere l‟accostamento di queste parole, si rimanda alle note n. 58 e 59. 90

Merita qui aprire una parentesi che ci permetta di chiarire un concetto che è stato

coniugato in chiave educativa da Gilberto Scaramuzzo, in “In-intendere. L‟umana sophia

di Luigi Pirandello” e che adotto come uno dei punti cardine della mia ricerca. Mi

riferisco al punto vivo (definito così da Pirandello in Non parlo di me), inteso come un

sentire unico, personale in ogni individuo, che si plasma in forma umana come una

parola segreta, il «frutto dell‟impatto del proprio sentire soggettivo con tutte le cose della

28

io preferirei qualificare espressamente come parola segreta91

:

quell‟entità che ognuno di noi possiede invisibile nell‟intimità, e si

necessita esprimere, attuare.

Nell‟agire umano si fondano quindi quei due principi platonici –

l‟aloghistòn e loghistikòn92

– che nell‟essere stesso dialogano – si in-

vita attorno nell‟intimità del mistero» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.85). «Il

senso segreto che le cose hanno per lui, il loro fuoco abbagliante o l‟abisso di tenebra che

portano in sé [sono] il punto vivo. [...] il primo linguaggio creativo, il primo frutto

dell‟amore verso la vita, amore disinteressato, attività pura dello spirito che concentra

tutte le sue facoltà, volontà, sentimento, intelletto e fantasia nell‟esprimersi, solo per il

bisogno di farlo e per null‟altro». (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p. 1474). Una

segreta parola che «ci ha condotti a “vedere” la vita proprio secondo il senso che ne

abbiamo, che ne avemmo alle origini e che abbiamo salvato, e “vedere” non

passivamente, non come uno che contempla da lontano, ma come uno che può toccare ciò

che vede e non sa bene se tocca perché vede o non piuttosto le cose si facciano al suo

tocco quali egli le vede, e il suo tocco non è che una parola, una parola sua, del suo

linguaggio». (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, in Saggi e interventi, Mondadori,

Milano, 2006, p. 1478). 91

«[…]quella che agli inizi della vita cii consente di cogliere e di esprimere il senso

segreto che le cose hanno per noi, per ciascuno di noi, e contattare così, attraverso di essa,

il senso del misteri che pervade il creato, che è quello stesso della vita, e che già cogliamo

in noi, e verso il quale nascendo siamo orientati.» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit.,

pp.149-150) 92

Questi termini sono ripresi da La Repubblica di Platone, e precisamente nel VII libro:

capitolo in cui l‟autore scrive la condizione dell‟uomo educato e non, attraverso

l‟allegoria del Mito della Caverna. Allegorico in quanto l‟intero scenario e azioni del

racconto rimandano a un significato metaforico. Come infatti possiamo vedere dalle

descrizione della caverna scopriamo che il buio, le catene e le ombre, altro non sono che

la rappresentazione metaforica dell‟ignoranza – ossia l‟a-paudeusia –; mentre il

movimento di voltarsi verso la luce, di alzarsi e uscire dalla caverna per guardare la realtà

illuminata da sole, simboleggiano i movimenti educativi – quindi l‟intervento paideutico

–. Altresì, la luce irradiata dal sole rappresenta l‟aletheia, perché la visione del sole/bene

permetterà all‟uomo di divenire un essere educato, ovvero un individuo consapevole

dell‟intreccio relazionale che unisce ogni singola realtà al bene.

Un‟allegoria pedagogica che mi scuso per essermi dilungata a descrivere, ma essendo uno

dei passi più noti della filosofia dell‟educazione, era necessario ricordarla perché solo da

qui è possibile inquadrare il significato dei due termini sopra enunciati. Poiché arrivati al

passo di 518b, Platone spiega un movimento decisivo che permette al prigioniero – non

educato – di guardare la realtà illuminata dal sole. Egli, infatti, dichiara che «[…] il

discorso fatto fin qui ci dimostra che questo potere che c‟è nell‟anima di ciascuno e il

[relativo] organo con cui ciascuno apprende ‹conosce› debbono volgersi insieme con tutta

l‟anima dal divenire, finché diventino capaci di sopportare la vista dell‟essere e della

parte più splendente dell‟essere. ‹sic› che noi chiamiamo il bene, - così come se l’occhio

non fosse capace di girarsi dalle tenebre alla luce altrimenti che insieme con tutto il

corpo [corsivo aggiunto]». (Traduzione riportata in Paideia Mimesis, cit., p. 87). Cosa

intende? Innanzitutto che l‟anima è composta da due parti: una dall‟occhio (che sarebbe

29

contrano – e manifestano l‟essenza del soggetto. Danno voce e corpo

alla parola segreta, al sentire tipicamente individuale e strettamente

relazionale. Individuale, in quanto è custodito nell‟intimità più

profonda di ciascuno; e relazionale, perché ha il bisogno connaturale

di esprimersi, e questo è possibile solo grazie alla presenza di un altro

che lo ascolta e lo accoglie.

Aristotele ci tramanda quindi una definizione di uomo decisamente

contemporanea perché rivela la sua essenza astorica – in quanto

rimanda alla sua infinitudine spirituale – e la sua esistenza temporale –

in quanto è intrinsecamente legata al corpo. E soprattutto ci trasmette

la concezione di un‟entità umana complessa, perché è l‟unione reale

del desiderio – intesa come la parte sensibile e fragile dell‟uomo – e

del pensiero – corrispondente alla ragione razionale.

1.4 L’esistenza esiste nell’azione

In questo modo ci si avvicina sempre più a uno dei passi più

affascinanti e inaspettati dell‟Etica Nicomachea, in quanto, inserito

la parte razionale, e in greco si traduce per l'appunto loghistikòn) e l‟altra dal corpo (la

parte a-razionale – in greco: alòghiston). Ma soprattutto ci rivela un concetto che ha

grande spessore nell‟azione educativa: ossia che il movimento di apprendimento è

attuabile solo coinvolgendo la totalità dell‟anima. Anima che abbiamo appena definito

formata non solo da una parte razionale, ma anche da un‟altra irrazionale, e come

quest‟ultima sia fondamentale per realizzare un vero coinvolgimento dell‟essere nella

conoscenza. Perché se «l‟alòghiston non si direziona all‟oggetto che si vuole presentare al

loghistikòn, non abbiamo il volgersi con tutta l’anima e non abbiamo azione paideutica».

(Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit., p. 92). Diviene allora predominante nella

ideazione di un progetto educativo individuare le strategie didattiche ed educative per

«costringere la parte a-razionale dell‟anima (l‟alòghiston) al voltarsi, cioè come

provocarla, affinché si giri e si direzioni liberamente verso il vero oggetto del vedere del

loghistikòn, ovvero come far giungere al sentire in sé la necessità del direzionarsi in

pienezza verso l‟essere: a volerlo, cioè, realizzare, questo muoversi verso, tanto da

sceglierlo per sé». (Ivi, p. 93).

30

nel IX capitolo dove Aristotele riflette sull‟amicizia – intesa come una

delle forme più alte di vita sociale93

–, all‟improvviso si giunge a una

conclusione stupefacente per la pedagogia dell‟espressione. Mi sto

riferendo al passo 1168a 5-10, quando l‟autore passa dall‟analisi

sull‟amicizia all‟amore per la vita.. una vita intesa, però, come

esistenza.

«Causa di ciò è il fatto che per tutti l‟esistere è preferito e amato, e noi

esistiamo in atto, dato che esistiamo per il fatto di vivere e agire, ma,

in atto, l‟opera è in qualche modo identica al produttore, e quindi egli

ama la sua opera perché ama la sua stessa esistenza. Questo è naturale,

dato che, in atto, l‟opera esprime ciò che noi siamo in potenza»94

.

Un susseguirsi di parole che necessitano un attimo di silenzio – di

distacco95

– per poter guardare da lontano la meraviglia di così tale

passaggio in quanto, in poche righe, Aristotele costruisce una

definizione della vita umana che per noi pedagogisti è estremamente

rivoluzionaria. Questo perché siamo difronte a un principio che non è

solo cardine, ma fondamenta di un‟educazione socraticamente

93

Questo è dovuto al fatto che «nel bisogno degli altri, messo in rilievo dall‟amicizia, si

manifesta nel modo più elevato che l‟uomo è un “animale politico”» (Malo, Antonio, Il

senso antropologico dell’azione: paradigmi e progetti, Armando, Roma, 2004, p.32). Si

manifesta, ovvero, il bisogno ontologico e primordiale dell‟uomo di relazionarsi al tu,

perché è grazie al riconoscimento di questo soggetto che l‟Io si percepisce – ossia si vive!

– (cfr. Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p. 56). 94

[il corsivo è mio]. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10. 95

È importante che la prossimità necessaria per incontrare – accogliere – le parole

dell‟altro non si trasformi in invadenza, in quanto «proprio ciò che avvicina di più ha

bisogno di discrezione, di una giusta gestione della prossimità, che messa a nudo rischia

di essere distrutta. La discrezione preserva la distanza nella prossimità, fa sì che la

prossimità non degeneri in possesso […]» (Oliva, Mirela, Op. cit., p. 93). Infatti lo stesso

Merleau-Ponty specifica come nell‟incontro con un‟opera d‟arte, ossia nell‟incontro

estetico – la relazione a cui tende educare la pedagogia dell‟espressione – sia necessario

vedere l‟oggetto percepito come un “avere a distanza” (Merleau-Ponty, L’occhio e lo

spirito, SE, Milano, 1989, p.23), perché solo in questo modo è possibile vedere e vivere

l‟altro nella sua essenza più vera.

31

maiuetica96

, ossia di una bildung97

che intende partorire la potenza di

ciascun individuo in atto. E questo è possibile avendo come guida

dell‟intervento educativo proprio la precedente affermazione

aristotelica. Una definizione che permette di raccogliere e cogliere

l‟essenza dell‟uomo nella sua espressione: un vissuto che prende vita

– esiste! – ontologicamente solo in atto. Un agire creativo che non va

inteso semplicemente come prodotto artistico, ma proprio come

manifestazione – l‟esperire – del punto vivo98

. Di quella parola

segreta che ha bisogno di gridare, di parlare99

, di prendere vita nella

voce e nel corpo. Di quel sentire propriamente connaturale umano che

necessita di esistere nel mondo visibile. Un vivere che ora, grazie alle

parole di Aristotele, possiamo definire un agire; un esperire della

propria anima, secondo logos, nel corpo.

Stiamo quindi definendo che l‟uomo, per agire davvero pienamente,

necessita di un coinvolgimento del proprio pensiero e delle proprie

sensazioni100

perché attraverso questa postura101

, non si permette all‟io

96

Questa definizione deriva dal greco maieutiké che significa "arte della levatrice", una

tèchne che nel Teeteto (cfr. Platone, Teeteto, tr. di M. Valgimigli, Laterza, Bari, 2006,

149a) viene paragonata da Socrate all‟arte della dialettica, disciplina capace di dar vita –

come l‟ostetrica – all‟intimità dell‟allievo. 97

Cfr. nota n. 12. 98

Cfr. nota n. 90. 99

Dico “bisogno” perché purtroppo nella vita attuale questa parola segreta rischia spesso

di restare muta, soffocata dalle voci degli altri, tanto da provocare un dolore immenso

nell‟uomo: la frustrazione di non essere sentito, di non vivere, di non esprimersi proprio

come il proprio sentire vorrebbe. Esempio percettivamente cruente, infatti, è

l‟invocazione che grida Qualcuno (indicato nel testo con tre ***) al figlio: «Spaccami

dietro, e allogami nello stomaco il grammofono. Così parlo. E voi tutti mi state a sentire».

(Pirandello, Luigi, Quando si è qualcuno, Mondadori, Milano, 2005, p. 58). 100

«[…] il vivere […] per gli uomini è definito dalla capacità di avere sensazioni e

pensiero; la capacità si riporta all‟atto, e l‟elemento principale consiste nell‟atto: sembra

quindi che vivere sia principalmente percepire o pensare». (Aristotele, Etica Nicomachea,

cit., 1170 a, 16-20). L‟esserci dell‟uomo è quindi la possibilità di percepirsi e di pensare;

«[…] ma se il percepire di vivere è cosa piacevole di sé – dato che la vita è un bene

naturale ed è piacevole percepire che possediamo in noi stessi il bene – [è chiaro capire

quanto] per i buoni […] l‟esserci è bene per loro, e anche piacevole, dato che godono del

32

solo di manifestarsi – di rilevarsi – ma di viversi! E vivere

rispondendo alla propria natura più intrinseca vien da sé capire quanto

possa essere piacevole102

.

1.4.1 L‟intensificazione del vivere

Si necessita allora qui una breve parentesi che indaghi il legame e

l‟influenza del piacere103

sulle attività. Aristotele nel decimo (e non a

caso ultimo) capitolo si sofferma infatti a riflettere sul piacere inteso

come forma «compiuta in sé e perfetta»104

perché esso si genera in

ogni sensazione105

, e «[…] perfeziona l‟atto, non come uno stato

abituale immanente, ma come una perfezione sopraggiungente

[…]»106

. Affermazione che porta a ritenere il piacere non come una

forma esterna.. ma una caratteristica congenita dell‟agire107

, perché

ogni tipo di attività ha in sé un tipo di piacere che differisce a seconda

fatto di percepire insieme il bene in sé […]». (Ivi, 1170b, 1-5). Vien da sé pensare che la

vita perfetta sia allora di coloro che agiscono bene, perché in questo modo possono

percepirsi come coloro che hanno in sé il bene. Per questo ritengo questa opera una delle

più eccezionali apologie sul vivere. Un vivere vero, giusto, pensante.. piacevole. Una vita

che può giungere alla perfezione se potrà percepire non solo il bene in sé stessi, ma anche

nell‟ «[…]esistenza dell‟amico; ciò potrà verificarsi per mezzo della vita in comune, e

della comunità di ragionamenti e pensiero.». (Ivi, 1170b, 11-13). 101

Utilizzo il termine postura per specificare la corporeità del dinamismo che coinvolge

l‟attuarsi dell‟io. Un‟attività che, come abbiamo detto, richiede la complicità del pensiero

con le sensazioni, in quanto l‟io stesso per esistere necessita della presenza del corpo (cfr.

Merleau-Ponty, Maurice, La Fenomenologia della percezione, cit., p.232). 102

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1099 a, 5-10. 103

«[…] il piacere [è] profondamente connaturato alla stirpe umana […]». (Ivi, 1172 a,

19). 104

Ivi, 1174 b, 8. 105

«Ogni sensazione è in atto in relazione all‟oggetto sensibile, e lo è in modo perfetto

quella che si trova nella condizione migliore in rapporto con il più bello degli

oggetti[…]». (Ivi, 1174b, 15-18). 106

Ivi, 1174b, 33-34. 107

Cfr. Ivi, 1175b, 32.

33

della sua specie108

. Ma l‟assunto più considerevole (e significativo

educativamente) è che «i piaceri provocano un intensificazione e ciò

che provoca un‟intensificazione è qualcosa di appropriato […]»109

.

Appropriato nel senso che è giusto – è doveroso – che il piacere che

sopraggiunge dall‟attuarsi di un‟azione etica – ossia virtuosa110

provochi un’elevazione dell‟azione che le permetta di assumere

l‟aggettivo “perfetta”. Perfetta perché oltre a essere realizzata per il

bene, tende anche al bello, ed è questa l‟unione che procura piacere.

Come infatti procede più avanti, Aristotele ribadisce che «per ogni

attività c‟è un piacere a lei proprio»111

al fine di sottolineare quanto sia

appagante per l‟uomo vivere un‟azione non solo buona e bella, ma

fedele alla natura che le è propria. Che voglio dire? Che agire secondo

la propria natura – ossia conformarsi all‟intenzionalità dell‟anima –

genera in sé un piacere così alto che rende perfetto quell‟atto112

.

Affermazione che giustamente ha un notevole spessore nella

riflessione pedagogica perché ci permette di definire che ogni azione

che corrisponde all‟attuazione espressiva dell‟intimità, è un‟azione

estetica. Il che significa, in parole più pirandelliane, che dar vita al

proprio punto vivo, ossia permettergli di aver voce e corpo e

manifestarsi nel mondo dell‟alterità così come lui stesso si vuole113

,

consiste vivere esteticamente. Un vivere che coinvolge ogni fibra più

108

Cfr. Ivi, 1175 a, 22. 109

Ivi, 1175 a, 36-37 [il corsivo è mio] 110

E qui ricordo: svolta dall‟anima attraverso il logos. (cfr. Ivi, 1107 a) 111

Ivi, 1175b, 27 112

«[…] ciò che a ciascuno è appropriato per natura è per lui la cosa più importante e

piacevole, e quindi per l‟uomo lo è la vita secondo l‟intelletto, dato che questo è

principalmente l‟uomo. E questa vita sarà, per conseguenza, la più felice.». (Ivi, 1178 a,

5-8). 113

Si tratta di arrivare a volere «l‟altro in noi con la forma che ha in sé come questa per se

stessa in noi si vuole» (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.116).

34

intima del proprio essere e che attua attraverso l‟esistenza stessa,

l‟espressione dello spirito114

. Un agire che rende felici.

1.5 Educare all’azione

Esistere – agire! – così pienamente è possibile però solo se cerchiamo

di vivere attraverso la parte migliore115

che è in noi (ossia vivere

secondo il proprio io). È per questo che alla fine di questo capitolo

Aristotele fa corrispondere il vivere ad agire bene116

. Un

comandamento di vita che nella seguente ricerca si configura come un

un principio, un dovere che l‟intervento educativo dovrebbe attuare in

primis, e non solo promuovere. Questo perché la pedagogia, essendo

una disciplina essenzialmente pratica, non può limitarsi a conoscere

114

La nostra azione avviene sempre e solo per mezzo del nostro corpo, che è

fondamentale ridefinire come «spazio espressivo […] l‟origine di tutti gli altri [atti

espressivi], il movimento stesso d‟espressione, ciò che proietta all‟esterno i significati»

(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.202). 115

È importante però specificare come per Aristotele vivere secondo la propria natura sia

agire secondo l‟intelletto (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1178 a, 5-8). Seguire il

logos – inteso come parte più eccellente dell‟uomo – è infatti esistere. Ma se il logos lo

intendiamo anche come parola – ovvero l‟essenza più intima e personale di ciascuno di

noi – possiamo dire che vivere autenticamente corrisponde a una vita che cerca di dar

voce e corpo alla propria parola. Un‟esistenza che si esprime a se stessa e agli altri,

perché solo vivendo secondo il proprio sentire e in relazione al mondo, è possibile essere

felici. Un vivere che ci rimanda all‟esperienza che vive il Leib, ossia quel “corpo proprio

animato” (Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., p.188) che è organo di percezione,

ma soprattutto di apertura dell‟io al mondo; quindi attua l‟espressione della parola in una

carne vissuta (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina e estetica, cit., p.

31). 116

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1179b «[…] riguardo alle virtù, non è

sufficiente conoscerle, ma dobbiamo sforzarci di possederle, e di farne uso […]».

Concetto che possiamo ritrovare ancora più pragmatico nell‟affermazione seguente: solo

«compiendo atti giusti si diventa giusti» (Ivi, 1103 b). «[…] infatti è compiendo le azioni

[…] che alcuni di noi diventano giusti e altri ingiusti, ed è agendo nei casi di pericolo,

cioè abituandoci a provare paura o coraggio, che alcuni di noi diventano coraggiosi, altri

vigliacchi.». (Ivi, 1103b, 13-17). Che voglio dire? Che possiamo definire coraggiosi gli

uomini che non solo possiedono il coraggio, ma lo praticano! Questo significa essere

virtuosi: avere un‟eccellenza che perfeziona l‟atto e che si assorbe solo nell‟esperienza.

(cfr. http://www.unibg.it/dati/corsi/68058/62912-Arist%20EN.pdf, p.9)

35

solo le teorie didattiche; non può definire unicamente gli obiettivi

formativi più funzionali alla società e ai singoli. Essa deve

innanzitutto agire! Deve dimostrare alla politica che attraverso le sue

azioni la comunità riesce a con-vivere117

; riesce cioè, ad agire bene,

muovendosi – vivendo – verso il bene e il bello.

È quindi fondamentale per le scienze dell‟educ-azione approfondire,

fin nelle fibre più profonde, l‟agire umano, per individuare

innanzitutto la modalità attraverso cui l‟uomo possa vivere

intensamente – e quindi autenticamente – le sue azioni, e soprattutto,

117

Vivere con sé e gli altri; vivere – ossia esistere – attraverso sé, nel mondo. Questo è un

insegnamento che Aristotele lascia non solo a noi pedagogisti, ma anche agli psicologici,

ai sociologi, a tutti coloro che si occupano dell‟essere umano e cercano di costruire una

società funzionante e appagante. Perché se l‟uomo prova piacere a vivere con gli altri,

significa che sarà invogliato a comportarsi in un modo tale da mantenere piacevole

quell‟esistenza. Capire che l‟uomo può vivere in modo armonioso – felice – con gli altri

se agisce secondo la propria essenza, permette di rivoluzionare non solo l‟approccio

educativo, ma l‟intera struttura politica e sociale di una comunità. Ritenere che l‟uomo

possa agire positivamente in favore della società, se interiormente sente di corrispondere

al proprio sentire, cambia notevolmente la didattica di educazione civica. Non si tratta più

di insegnare ai bambini, ai cittadini, di rispettare il mondo in cui vivono.. ma di rispettare

– di far vivere – il proprio mondo! In questa ottica, la società non è più un‟entità esterna,

agglomerante, ma l‟espressione istantanea dell‟azione – e quindi vita – dei suoi abitanti.

Una convivenza che mi richiama alla mente l‟educazione cosmica montessoriana, in cui il

fine principale era, per l‟appunto, rendere l‟uomo consapevole del legame che intercorre

tra lui e il mondo. Renderlo ovvero cosciente dell‟unione connaturale che possiede con il

proprio mondo e da cui dipende l‟interdipendenza (e di conseguenza responsabilità!) tra

ogni essere vivente, e che a sua volta genera la solidarietà più autentica, quella che

permette di acclamare «esiste una sola patria: il mondo» (Montessori, Maria, Come

educare il potenziale umano, Milano, Garzanti, 1970, p. 167). Un obiettivo che risuona

molto attuale visto l‟affermato fenomeno della globalizzazione che ci pone di fronte a una

realtà aperta, senza limiti, né di spazio e né di tempo, che ha sì ampliato le nostre

conoscenze, ma al contempo ha provocato la disgregazione della nozione di identità (cfr.

Pompeo, Francesco, Elementi di antropologia critica, Meti, Roma, 2011, p.53). E

richiama per questo un progetto che richiede necessariamente l‟educazione

dell‟integralità della persona, nella «pienezza di libertà e vitalità [perché] chi è veramente

libero rispetta e valorizza la libertà dell‟altro»(Providenti, G., L’educazione come

progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Centro di studi montessoriani,

Annuario 2003. Attualità di Maria Montessori, Milano, FrancoAngeli, 2004, p 85). Una

visione che la pedagogia dovrebbe promuovere nella società affinché i cittadini si sentano

partecipanti attivi, e non generino ostilità nei confronti della civiltà (cfr. Freud, Sigmund,

L’avvenire di un’illusione, Newton Compton, Roma, 2010, p.47).

36

imparare a cogliere le azioni come espressioni dell‟essere. Ma come è

possibile educare i cittadini a questo sguardo?

Come ci ha insegnato Aristotele, bisognerà partire dall‟abituare –

ossia educare118

– l‟uomo ad agire bene, buono e giusto, perché non si

diventa esperti sui libri, ma attraverso le esperienze.119

«Colui che si

prepara a essere buono [,infatti], deve essere educato bene e fornito di

buone abitudini»120

. Deve ossia essere nutrito di esperienze che lo

aiutino a ri-volgersi con tutto il corpo verso la verità. Verità intesa

come consapevolezza del bene – e del suo intreccio relazionale con la

realtà –, e coscienza del proprio sentire segreto.

Per far entrambi i movimenti, però, è necessario che l‟uomo si abitui a

guardare; impari cioè ad assumere quella postura, quello sguardo121

che anche nell‟oscurità della a-paudesia122

, gli permetta di in-tendere e

vivere il bene. È necessario, ovvero, che impari a prendere confidenza

con l‟umanità propria e altrui; ad ascoltare il proprio punto vivo, e a

comprendere le espressioni attuate dagli altri uomini, perché solo così

potrà essere coinvolto – presente – nell‟azione.

Ecco allora la valenza dell‟Etica Nicomachea: un‟opera che

finalizzata a conoscere l‟agire – da cui poi dipende la realizzazione 118

Interessante è vedere come Aristotele affermi in 1179b, 24-26 che «l‟anima del

discepolo deve essere esercitata attraverso i propri costumi a provare godimento e

disgusto in modo corretto […]». Frase che potremmo interpretare – in quanto non è l‟idea

dell‟autore – al fine di dare all‟educazione il ruolo di esercitare una certa forza coercitiva

sul discepolo per imparare a godere delle cose belle. Un costringere (cfr. Scaramuzzo,

Gilberto, A colloquio d’esame con Edda Ducci, cit., p.30) che non equivale a obbligare,

ma a un guidare con sicurezza il discepolo nell‟esplorazione del mondo, insegnandoli a

riconoscere ciò che merita di essere vissuto. 119

Divertente l‟ironica frase a 1181 b, 2: «[…] non si diventa medici sui manuali […]». 120

(Aristotele, Etica Nicomachea, cit. 1180 a, 15). 121

Come afferma Aristotele «si deve essere dotati per natura di un „occhio‟ con cui

giudicare correttamente e scegliere il vero bene». ( Aristotele, Etica Nicomachea, cit.,

1114b, 8-9). 122

Si veda qui il mito della caverna in La Repubblica, VII libro (cfr. secondo capitolo).

37

della felicità –, stimola la filosofia dell‟educazione non solo a

indagare l‟origine dell‟azione, ma a comprendere il suo significato

espressivo.

Poiché educare all‟azione, abituare, cioè, ad agire e a percepire

l‟azione, consiste nello sviluppare la capacità dell‟uomo di esprimersi

e di incontrarsi.

38

Capitolo secondo

L’origine del linguaggio secondo Platone

“La parola

è l'ombra

dell'azione”.

(Democrito)

Dal contributo dell‟Etica Nicomachea abbiamo quindi guadagnato una

scoperta decisiva per la seguente ricerca in quanto, rivelando l‟origine

significante dell‟agire umano, siamo riusciti a intendere il valore

intrinseco dell‟azione, e in particolare, l‟esteticità racchiusa in ogni

atto.

Mi sto riferendo all‟enunciato che ci offre Aristotele nel IX libro (Cfr.

1168a 5-10), quando definisce l‟uomo come un ente che esiste

agendo: ossia, un ente che vive attraverso la sua azione, che attua –

formalizza – la volontà del suo spirito in un fenomeno riconoscibile.

Un‟affermazione impegnativa in quanto non solo ci consente di

considerare ogni atto un’espressione umana, ma che l’uomo esiste

esprimendosi. Una conclusione autorevole per l‟obiettivo di questo

lavoro123

e per la pedagogia dell‟espressione, in quanto affermare che

ogni azione è attuazione espressiva dell‟essenza dell‟individuo,

significa dire che ogni atto dell‟uomo è fenomeno vissuto del proprio

123

Ricordo che il fine di questa ricerca è riscoprire il valore est-etico del linguaggio,

inteso proprio come ponte comunicativo attraverso cui gli uomini agiscono, si esprimono

e si incontrano.

39

punto vivo124

. “Fenomeno125

” in quanto è forma vivente che, per

rendersi visibile e percepibile – ossia per esprimersi – al mondo,

adopera come mezzo il proprio corpo126

, il quale «può simbolizzare

l‟esistenza proprio perché la realizza e ne è l‟attualità»127

.

Un‟esteriorità che è poeticamente intesa come “il “nascondiglio della

vita”128

che custodisce e manifesta un sentire che ha invece

intrinsecamente bisogno di essere in-carnato, di essere, ovvero,

visibile.

Bisogno perché è l‟esistenza stessa129

a chiedere un corpo – una

sostanza – attraverso cui può agire – dar vita – alla propria essenza,

124

Vedi cap. I, nota n. 90. 125

Riprendo il termine secondo l‟accezione di Husserl, per specificare che per fenomeno

non intendo un fatto, ma un evento, che racchiude ed esprime in una forma oggettiva – in

quanto definita nel tempo – l‟intenzionalità del soggetto. Per questo «l‟esigenza

husserliana è ancora […] non fermarsi alla fattualità empirica della natura e della storia

[ma] inserire la descrizione delle loro essenze costitutive nel contesto specifico di un

processo intenzionale organico e coordinato […]» (Costa, Vincenzo, La fenomenologia,

cit., p.53) 126

«Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell‟organismo: mantiene continuamente

in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta interamente, forma con esso un

sistema». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano,

2009, p. 279). Incantevole l‟utilizzo dei verbi “anima” e “alimenta”: due azioni che vanno

proprio a esprimere la contingenza del proprio corpo nello spazio e nel tempo, in cui

viene riconosciuto non solo come «un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso di

qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i

suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale in

virtù del modo in cui le coglie». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della

percezione, cit., p. 315.). Il corpo non può essere «inteso come organismo, nel senso

“somatico”,[ma] uomo, che esprime se stesso per mezzo di quel corpo e in tal senso “è”,

direi, quel corpo». (Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, Catechesi sull‟amore

umano, LEV, Città del Vaticano, 2001, p.222, in Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra

medicina ed estetica, cit, p. 14). 127

Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 232. 128

Ibidem. 129

Per Aristotele abbiamo detto che avviene quando l‟uomo pensa e si percepisce (cfr.

Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1170 a, 16-20.), e come fa ad attuare questi movimenti

se non tramite il corpo? «Si può dire [infatti] che il corpo è “la forma nascosta dell‟essere

se stessi” o, reciprocamente, che l‟esistenza personale è la ripresa e la manifestazione di

un dato essere in situazione. Se dunque diciamo che in ogni momento il corpo esprime

l’esistenza, lo diciamo nel senso in cui la parola esprime il pensiero [il corsivo è mio]».

(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.234)

40

per rendersi viva e percepibile agli altri. Una corporeità intesa come

«veicolo dell‟essere al mondo»130

, ovvero un‟apertura esperienziale,

che permetta all‟uomo non solo di esplorare il mondo, ma soprattutto,

di viversi e di esprimersi nel mondo circostante131

. Perché è attraverso

il corpo che la propria soggettività prende vita e diviene

oggettivamente comunicabile proprio per il fatto essenziale che

assume un corpo, una forma che attualizza lo spirito e lo rende

conoscibile.

«L‟essere corpo è [allora] per l‟uomo la condizione del suo

inserimento nel mondo e della sua possibilità di rapportarsi agli

130

Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della Percezione, cit., p. 130 131

Quel che sto affermando è che l‟uomo ha bisogno di un ambiente sociale in cui possa

avere con-tatto con il suo corpo e quello degli altri. Uno spazio che offra la possibilità di

palpare intimamente se stesso, di trovarsi vivo così come ha chiesto l‟attrice Donata

Genzi (protagonista di un‟opera teatrale di Pirandello), perché «Non si finge più, quando

ci siamo appropriata questa espressione fino a farla diventare febbre dei nostri polsi..

lagrima dei nostri occhi, o riso della nostra bocca.. […]». (Pirandello, Luigi, Trovarsi,

Mondadori, Milano, 2006, p. 124). Viversi è un‟emozione – un‟esperienza – esistenziale,

in quanto «nel diventare parola della mia vita interiore, non soltanto di fronte agli uomini

ma anche nella solitarietà del mio diario, ho un regolatore segreto del mio pensare: non

soltanto dal punto di vista formalmente estetico o logico, ma soprattutto riguardo al

contenuto»(Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.128).

L‟uomo ha bisogno di conoscersi attraverso la sua sensazione perché da questa

percezione – da questa azione sensibile – così apparentemente superficiale, è possibile

addentrarsi nel proprio invisibile. È possibile viverlo, e divenire capace di rappresentarlo

nel mondo. Ma per attuare questo movimento è necessario che la pedagogia crei una

società che educhi gli uomini a incontrarsi con calma, ovvero una temporaneità che nella

quotidianità moderna sembra ormai essere sconosciuta. È necessario che abitui ad

avvicinarsi con corporeità, intesa come una forma che nel commercio virtuale, sta

divenendo sempre più un oggetto svuotato. E soprattutto educhi a saper toccarsi con

sguardo. Cosa intendo? Che i pedagogisti devono esercitare l‟uomo a vedere più a fondo

il mondo per «scoprire l‟intersezione dei corpi, delle forme, dei colori, al di fuori della

banalità dell‟abitudine». (Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma,

2006, p. 139). Devono abituare lo sguardo a penetrare nel mondo, e a vivere i suoi

mutevoli cambiamenti perché «[lo spazio] non lo vedo secondo il suo involucro esteriore,

lo vivo dall‟interno, vi sono inglobato. Dopotutto, il mondo è intorno a me, non di fronte

a me». ((Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della Percezione, cit., p. 42). Saper

guardare così la realtà circostante, rende possibile l‟esperienza di incontrare se stessi e gli

altri. Rende reale e autentica la relazione estetica: un incontro tra soggettività e

oggettività (cfr. Matassi, Elio, Il giovane Lukàcs. Saggio e sistema, Mimesis, Milano,

2012).

41

altri»132

, perché attraverso questa estensione corporale animata, l‟Io

riesce a plasmare la propria azione. Attualizza, ovvero, la potenzialità

di sentirsi vivo, non solo perché coglie intrinsecamente presente la

volontà della sua essenza, ma poiché si permette di appagare uno dei

desideri primordiali dell‟uomo: quello di sentirsi ascoltato da

qualcuno133

, in quanto, divenuto carne visibile, è ormai oggetto del

campo percettivo dell‟altro. Attraverso questa in-corporazione può

quindi essere riconosciuto da un Tu che si configura non solo come

cassa di risonanza dell‟essere, ma come luogo necessario di vita per il

soggetto.

Questo poiché senza la possibilità di rivolgersi al Tu – il quale

accoglie l‟Io nella sua interiorità134

– il punto vivo rimane un punto

immobile, senza vita. Per vivere esso deve – vuole – essere

132

Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.25 133

Si veda il terzo capitolo per approfondire il desiderio relazionale dell‟espressione. 134

Emozionanti e visibili sono le parole di Pirandello che descrive, nella novella I due

giganti, l‟incontro – rivelazione – dell‟io. «Ebbene, fu qua che i due giganti m‟apparvero,

una notte di quest‟inverno. Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge

come una grande O accanto a quel cipresso dritto come una grande I, che alti la notte nel

cielo stellato possono, oh beati!, scrivere un IO in due». (Pirandello, Luigi, I due giganti,

in Appendice, in Novelle per un anno, cit., p. 1426). Come infatti ci rivela Martin Buber,

filosofo ebreo che concentra la sua riflessione sul rapporto dialogico Io-Tu (cfr. terzo

capitolo), decisivo è il bisogno dell‟uomo di relazionarsi. Perché «l‟uomo vuole essere

confermato nel suo essere tramite l‟uomo e vuole acquistare una presenza nell‟essere

dell‟altro. La persona umana ha bisogno di essere confermata, perché l‟uomo in quanto

tale ne ha bisogno. All‟animale la conferma non occorre, perché è ciò che è, in modo

aproblematico. Per l‟uomo è diverso: destinato, dal regno delle specie naturali, al rischio

della categoria isolata, minacciato da un caos nato insieme a lui, furtivamente e

timidamente volge lo sguardo alla ricerca di un sì che renda possibile il suo essere, che

può venirgli solo da una persona umana che a una persona umana si rivolga; gli uomini si

porgono reciprocamente il pane celeste dell‟essere un io». (Buber, Martin, Il rendere

presenza, in Distanza originaria e relazione, cit., p..292). L‟uomo che non ha la

possibilità e capacità di soddisfare questo suo bisogno primordiale, rischia che «si

frantuma spiritualmente perché in lui l‟io non può aprirsi al suo tu. Poiché, nell‟uomo,

ogni vera vita spirituale ha luogo, per così dire, tra l‟io e il tu. L‟io che si apre al suo tu è

ricolmo di una forza di vita spirituale a cui il mondo non può opporre niente. Ma l‟uomo

il cui io si chiude o si isola davanti al suo tu si mette quasi sempre, nel suo rapporto

interiore all‟altro, in una lotta tra l‟io e l‟io» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,

p.181)

42

riconosciuto! Vuole mostrarsi, rendersi visibile135

, e per questo

necessita dell‟altro: un Tu soggetto che con la sua percezione, rende

oggetto della sua visione l‟Io, il quale, a sua volta, diventerà un altro

Tu che con la sua corporeità renderà qualche altro Io oggetto della

propria percezione. Una reciprocità che pone le fondamenta per

costruire l‟incontro estetico: una relazione circolare136

in cui l‟Io e il

Tu si in-contrano, rivelandosi l‟un l‟altro, e soprattutto, prendendo vita

dentro di sé attraverso l’altro.

Un incontro che, inteso come ri-conoscimento137

di sé nell‟altro ,

diviene luogo palpitante non solo di vita, ma di espressione dell‟uomo.

135

Questo aggettivo, che riprendo dal pensiero di Merleau-Ponty, rimanda a un binomio

che in questo lavoro viene spesso adoperato. Mi riferisco agli aggettivi visibile/invisibile i

quali corrispondono all‟espressione di corporeità/sentire segreto. Tutta questa ricerca

ruota infatti a un concetto cardine del pensiero della pedagogia dell‟espressione, ossia che

l‟uomo sia l‟esistenza di uno spirito intimo, senza forme, che necessita per vivere di una

corporeità che gli permetta di esprimersi – manifestarsi –, perché attraverso di essa

l‟uomo diviene sostanza. E grazie a tale forma, gli uomini possono riconoscere in sé e

nell‟altro quell‟in-visibile – ovvero l‟essenza interiore – che spesso rimane – senza un

vero incontro – nascosto nella corporeità. Stiamo dicendo allora che la pedagogia deve

aiutare l‟uomo non solo a entrare in contatto – conoscere – il proprio essere in modo tale

da saper poi renderlo vivo come lui stesso si vuole, ma anche ad accogliere le espressioni

degli altri, perché in quelle forme così apparenti si cela, invece, quel sentire segreto che

desidera solo di essere ascoltato e percepito da qualcuno. 136

Circolare perché solo partendo dall‟incontro con l‟altro, l‟Io prende consapevolezza

del proprio sentire, e una volta addentratovi, necessita di comunicarlo al Tu. Non c‟è

quindi espressione senza coinvolgimento dell‟Io che si ri-conosce solo di fronte allo

sguardo avvolgente del Tu. 137

Per ri-conoscimento intendo un dinamismo che non va solo verso - e dentro - l‟altro,

ma ritorna verso se stessi. Questo significa che nella relazione estetica – la relazione

educativa per eccellenza – , non scopriamo e accogliamo solo l‟alterità.. ma viviamo la

nostra invisibilità. Concetto che posso rendere comprensibile al lettore attraverso le

parole di Merleau-Ponty: «Non appena vediamo altri vedenti, noi non abbiamo più

solamente davanti a noi lo sguardo senza pupilla, il cristallo trasparente delle cose, quel

debole riflesso, quel fantasma di noi stessi che le cose evocano designando un posto fra di

esse dal quale noi le vediamo: ormai, grazie ad altri occhi, siamo pienamente visibili a

noi stessi [il corsivo è mio]».(Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, Bompiani,

Milano, 2009, .p. 159). Un riconoscimento che somiglia a un rapporto d‟amore, in cui l‟Io

si mostra e rispecchia nel Tu, il quale guarda – accoglie – nella propria anima nuda,

l‟anima nuda dell‟altro. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-Tendere, cit., p. 151). Questo però

comporta la completa rivalutazione del ruolo del altro. «Il portare l‟incidenza dell‟altro

sul piano dell‟amore è far scattare la molla della dialettica totale che coinvolge, in modo

compiuto, l‟intera soggettività, perché ha il poter di stimolare e sollecitare l‟intera

43

Perché se nel movimento che attua l‟io verso il tu vi si rispecchia la

tensione dell‟io di esprimersi a qualcuno, vien da sé intendere come

l‟incontro tra io e tu sia il luogo per eccellenza per far vivere

l‟espressione, ossia l‟uomo.

Il che risveglia nella pedagogia il dovere non solo di educare –

abituare – l‟uomo a esprimersi e agire autenticamente – ossia secondo

il suo sentire più intimo – ma di abituare gli uomini a incontrarsi.

Deve ovvero offrire ambienti ed esperienze che permettano agli

educandi di assumere una postura di ascolto che gli permetta di

entrare in relazione agli altri, e di vivere così l‟uno nell‟altro.

2.1 L’azione espressiva della parola

Per questo ora la seguente ricerca sposta la sua direzione di analisi

verso una specifica espressione. Perché se fin qui abbiamo detto che

l’uomo è azione, e ogni suo atto è espressione di sé, è necessario allora

indagare una delle sue espressioni per eccellenza138

, al fine di

soggettività» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 147). Ciò significa assegnare al

Tu il valore di soggetto che, con la sua presenza, non solo riceve l‟espressione dell‟Io, ma

lo risveglia a viversi. Questo poiché permettere all‟uomo di pronunciare una parola giusta

– ossia autentica – «verso lo spirituale distinto da lui, [consente di] operare il risveglio, e

quindi avviare il vivere reale, dissolto il vivere sognato» (Ducci, Edda, La parola

nell’uomo, cit., p.20) 138

Eccellenza in quanto, come vedremo nel terzo capitolo, è una delle azioni più

connaturale e caratteristica dell‟esistenza umana. Come infatti riflette Heidegger, il

linguaggio è la “casa dell‟essere” (cfr. Heidegger, Martin, L’epoca dell’immagine del

mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp.89-90) «il luogo dove

l‟essere si rivela a chi gli si abbandona e verso cui da sempre “siamo in cammino”, il

rapporto di tutti i rapporti che non è solo comunicazione: “Il linguaggio è il recinto

(templum), cioè la casa dell‟essere. L‟essenza del linguaggio non si esaurisce nel

significare, né è qualcosa di connesso esclusivamente a segni e a cifre. Essendo il

linguaggio la casa dell‟essere, possiamo accedere all‟ente passando costantemente per

questa casa[…]”» (Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., pp. 120-121). In

particolar modo, «ogni parola nella vitalità del suo venir pronunciata è un‟espressione

44

comprendere come è possibile che l‟uomo manifesti se stesso in

un‟azione, e in che modo possa entrare in relazione attraverso il suo

agire.

E il fenomeno espressivo che ho individuato più sensibilmente

rilevabile è stata la parola, intesa nella sua profondità come una

manifestazione visibile – ascoltabile! – della soggettività umana. Un

atto universale, oggettivo, che attraverso una forma – verbale e non –

riesce a divenire comunicabile, condivisibile dall‟io al tu.

Un evento fondamentale per l‟esistenza umana perché, come abbiamo

fin qui detto, ogni individuo ha un proprio sentire, una propria essenza

da voler comunicare all‟altro. Ha cioè un punto vivo che per vivere ha

bisogno di incontrarsi e di essere percepito da un Tu che, con la sua

oggettività, costringe139

l‟Io a vestirsi di forme riconoscibili dal

mondo, al fine di entrare davvero in rel-azione mediante la propria

corporeità.

nell‟uomo della vita spirituale. Cioè, ogni vivente parola espressa allaccia, in certo modo,

l‟io nell‟uomo con il suo tu, ma tra l‟io e il tu ha luogo nell‟uomo tutta la vita spirituale».

(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.238). La parola quindi è luogo in cui prende

vita e forma l‟intimo incontro tra l‟io e il tu, dove la lingua non è solo un «mezzo comune

con cui rompere l‟individualismo» (Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in

Epitteto, in Scaramuzzo, Gilberto (a cura di), La comunicazione Umanante, cit., p.138),

ma l‟attualità, «manifestazione oggettiva dello spirituale che è nell‟uomo» (Ducci, Edda,

Approdi dell’umano, cit., p.114). Per questo è necessario riscoprire il suo valore est-etico,

per ridonare spessore e tempo all‟atto di parlare. 139

Dico costringe perché lo sguardo del Tu impone all‟essenza dell‟Io di assumere una

veste che non sia invisibile, ma sensibile. Una richiesta che non va vista in ottica negativa

come troviamo invece in Sartre (cfr. Sartre, Jean Paul, L’essere e il nulla, Il Saggiatore,

Milano, 1965, p.235) che vede lo sguardo dell‟altro come un obbligo che limita la propria

libertà (cfr. Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., p.131); ma deve essere intesa

come un richiamo del Tu che desidera incontrare fisicamente e spiritualmente un Io. Per

questo l‟altro cerca sensibilmente un‟oggettività significante da guardare – da ascoltare –

perché solo essa corrisponde alla manifestazione autentica dell‟io. «Il tu è [allora]

l‟ambiente della libertà dell‟io, solo perché a sua volta è l‟ambiente della libertà del tu. In

questo scambio le due soggettività si sentono un io per la mutua esperienza dell‟essere

presente.» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, Anicia, Roma, 2003, p.169).

45

Un‟affermazione che ho voluto specificare per dire quanto le parole,

come quelle che sto adoperando per scrivere questo capitolo, celano in

sé un‟essenza, un significato che ha bisogno di manifestarsi, di vivere,

di essere compreso. E come abbiamo capito con Aristotele, per vivere

è necessario agire; e per questo la parola si configura come un‟azione

intrinsecamente espressiva140

.

«La parola [infatti] non traduce un pensiero già fatto, ma lo

compie»141

. Attua e rivela l‟essenza spirituale dell‟uomo in una forma

che è connaturale dell‟umanità. Non trasforma in una immagine

verbale il senso, ma fa “esistere il significato”142

in un gesto

comunicabile, conosciuto, anche quantificabile, per tutti143

.

«[…] si potrebbe dire [infatti] che i linguaggi, cioè i sistemi di

vocabolario e di sintassi costituiti, i “mezzi di espressione” che

esistono empiricamente, sono il deposito e la sedimentazione degli atti

di parola nei quali il senso inespresso non solo ha modo di tradursi

140

Espressiva perché tramite essa «il senso inespresso non solo ha modo di tradursi

all‟esterno, ma pure acquista l‟esistenza per se stesso, ed è autenticamente creato come

senso». (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 269). Quindi

le parole – intese come autentiche espressioni dell‟essere, di cui fanno parte gesti,

comportamenti, pensieri– permettono l‟attuarsi di una comunicazione intersoggettiva, in

cui diviene fondamentale saper «conoscere il proprio modo di comunicare, saperlo

comprendere e migliorare, diventa essenziale per l‟evoluzione personale, ma è anche il

primo passo da compiere per attivare una comunicazione interpersonale, che possa

consentire a noi e agli altri di creare rapporti soddisfacenti e positivi. […] La

comunicazione è lo strumento che ci consente di conoscere e farci conoscere: proprio per

questo dobbiamo riuscire a esprimerci in modo chiaro, assertivo e positivo». (De Rossi,

Marina, Didattica dell’animazione, Carocci, Roma, 2009, p. 163). 141

Il corsivo è mio. (Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia dell’espressione, cit.,

p.249) 142

Cfr.Ivi, p.253 143

È questo «che rende possibile la comunicazione. Perché io comprenda le parole

dell‟altro, è necessario, evidentemente, che il suo vocabolario e la sua sintassi mi siano

“già noti”»(Ivi, p. 254)

46

all‟esterno, ma pure acquista l’esistenza per se stesso, ed è

autenticamente creato come senso.»144

È per questa autocre-azione che il linguaggio si configura sempre più

come un atto: un atto che attualizza l‟esistenza stessa dell‟uomo e la

esprime in una forma che anche gli altri uomini possiedono – anzi,

sono145

–. Un‟azione espressiva che testimonia il pulsare dell‟essere in

una rappresent-azione vivibile.

2.1.1 L‟essenza della parola

Ma come prendono forma le parole? Che tipo di azioni invisibili

sono? E soprattutto: cosa esprimono?

Per rispondere a queste domande a dir poco esistenziali, adopero come

strumento che mi funge da chiave di lettura, il Cratilo di Platone146

,

l‟opera in cui è riportato il dialogo che avviene tra Ermogene, Cratilo

e Socrate. Un dibattito che ragiona sulla correttezza (orthòtes) dei

nomi, secondo convenzione o natura, e che alla fine della

144

Il corsivo è mio. (Ivi, p.269). 145

La parola, intesa come corporeità che permette all‟uomo di instaurare una relazione

con il mondo, (cfr. Ivi, p.270) va considerata con la stessa delicatezza con cui si cerca,

nella riflessione bioetica, di riqualificare il corpo dalla aggressiva oggettivizzazione

ricevuta dall‟attuale processo di vetrinizzazione (cfr. Codeluppi, Vincenzo, La

vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società,

Bollati Borignghieri, Torino, 2007). Come bisogna riscoprire il significato umano della

corporeità «per cui si possiede un corpo e, allo stesso tempo, si è il proprio corpo»

(Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.15), è necessario

ridonare alla parola il suo spessore est-etico, attraverso il rispetto della sua essenza e il

riconoscimento della sua forma. 146

Si rimanda questa riflessione in chiave pedagogica all‟articolo “Sulla natura mimesica

del discorso. Una lettura filosofica-educativa di pagine del Cratilo”, di Gilberto

Scaramuzzo, in Educazione. Giornale di pedagogia critica, Vol. I, N.2, 2012)

47

discussione147

, vedremo richiamerà sempre più la forma della verità

(alètheia) in quanto l‟esattezza si vive solo a stretto contatto148

con le

cose. Socrate/Platone, infatti, controbattendo la tesi di Ermogene

(secondo cui l‟esattezza del nome sta nel suo uso, quindi nella

convenzione utilizzata dall‟uomo149

), afferma che, come le azioni si

compiono per loro natura e non per nostra opinione, anche le cose

«sono esse da se stesse in possesso di una qualche stabile essenza, non

relative a noi […] ma in se stesse in relazione alla loro essenza in

possesso di un loro proprio modo di essere già predisposte»150

.

Un concetto che permette di giungere a due punti di analisi: il primo,

che ogni cosa ha una propria essenza, un essere che va rispettato –

inteso – come lui stesso si vuole, e compreso nella forma visibile con

147

«Il dibattito sociologico natura-convenzione [che] si trasforma nel dibattito ontologico

essere-apparire.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele,

Mimesis Edizioni, Milano, 2014, p.36), 148

Un con-tatto che in questa ricerca si configurerà come un rapporto di

immedesimazione, di amore, di mimesis (cfr. Scaramuzzo, Paideia mimesis, Anicia,

Roma, 2010) e che alla fine di questo capitolo vedremo come dia-logo (cfr. Oliva, Mirela,

Op.,cit., p. 110). Un incontro che, attenzione, non deve essere ridotto a scambio verbale,

ma condivisione – apertura! – di due logos – ossia essenze! – in cui si potrà riconoscere e

coltivare la propria umanità. Infatti «solamente l‟attualità di rapporto all‟altro consente di

sapere il già e il non ancora del proprio umanarsi, e di purificare cotesto sapere da ogni

traccia di narcisismo, perché il conoscimento non avviene nell‟autocontemplazione ma

nell‟apertura voluta dall‟io e provocata dalla valenza dell‟altro.» (Ducci, Edda, Essere e

comunicare, cit., p.81). 149

Posizione che, come riflette Ricoeur, Platone critica poiché «se è convenzione, il

linguaggio ha una storia in quanto opera degli uomini. Ma non possiamo rinchiuderlo

nella storia […]» (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, cit.,

p.36); non possiamo ridurlo a uno strumento creato a piacimento dell‟uomo, perché

significherebbe svuotarlo di significato, e soprattutto di universalità. Quel che intendo è

che dobbiamo vivere aderenti alla realtà, la quale ci permette di percepirci enti, ma non

possiamo annullarci in un relativismo storico, in cui ogni segno ha significato solo se

contestualizzato nel suo uso. Questo procedimento provocherebbe un materialismo

conoscitivo, a mio parere, gravissimo in quanto limiterebbe la filosofia a una

comprensione del suo utilizzo umano, e non di valore per l’uomo. «[…] Per questo, nella

prima parte, il Cratilo attacca […] la tesi di Protagora dell‟ <uomo-misura di tutte le

cose> e gli oppone l‟ousia, misura del linguaggio.» (Ibidem) ribadendo l‟importanza

dell‟essenza che è «[…] proprio quel che impedisce che tutto nel linguaggio si riduca a

una convenzione». (Ibidem). 150

Platone, Cratilo, cit., Cap. V, 386d, 8 – 386e, 4.

48

cui esso si mostra. Il secondo, invece, è che ogni agente deve saper

cogliere il principio – il senso – che ogni azione ha in sé, perché se

così è tale posizione, quando il maestro/Socrate poco più avanti151

dichiara che anche il dire è un’azione152

, ci permette di capire perché a

388 b-c afferma che «il nome è uno strumento atto a insegnare

qualcosa e a distinguere l’essenza [corsivo mio], così come la spola e

il tessuto», e che «allora chi è atto a tessere userà bene la spola, dove

bene vuol dire in modo atto a tessere, mentre chi è atto a insegnare

userà bene il nome, dove bene vuol dire in modo atto a insegnare»153

.

Un passo un po‟ intrecciato, ma che se districato mediante la profonda

azione ermeneutica, ci rivela un concetto assai caro all‟educazione:

ossia che l‟insegnante non è colui che ha l‟arte di dare i nomi154

, ma

colui che sa usarli nel modo che più gli è proprio. Sa trasmetterli,

cioè, rispettando e mantenendo viva l‟essenza di ciascuno. Perché se a

ogni cosa corrisponde un nome, e quindi a ogni parola corrisponde

una propria natura, è necessario che, per comunicare autenticamente

secondo verità, si intenda l‟essenza della cosa/nome155

.

151

«Ma allora, qualcuno dirà correttamente se lo farà nel modo in cui a lui paia si debba

dire, oppure, nel caso in cui dica nel modo in cui è già predisposto il dire le cose e l‟esser

detto e il mezzo, approderà a qualcosa di buono e parlerà, mentre, nel caso contrario,

sbaglierà e non approderà a nulla?». (Ivi, 387b, 11 – 387c, 4). 152

(Cfr. Ivi, cap. VI, 387b, 8-9). Ed è una tesi che rimanda profondamente all‟analisi fatta

precedentemente con Aristotele. 153

Ivi., 388c, 5-7. 154

«[…] non è cosa da ogni uomo, Ermogene, porre nomi, ma di un qualche artigiano del

nome. E costui è com‟è verosimile, il legislatore, che invero è il più raro degli artigiani

fra gli uomini.». (Ivi, cap. VIII, 389a). 155

È necessario, cioè, che dalle parole dette e ascoltate si giunga a « “vedere” i

significati (Cratilo 389d); è quel che fa il legislatore del vero linguaggio, “gli occhi fissi

su quel che è il nome in sé” (Ibid.). Questo legislatore ideale sarebbe precisamente il

dialettico.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, Mimesis

Edizioni, Milano, 2014, p. 37).

49

Per parlare davvero secondo la natura delle cose, è quindi necessario

che l‟insegnate in primis abbia colto in sé l‟essenza del nome, affinché

educhi il discente a distinguere – riconoscere – le cose attraverso i loro

nomi, ossia attraverso le loro essenze.

Una modalità di comunic-azione che si configura proprio come una

relazione dialettica in cui le parole vivono attraverso i soggetti, i quali

entrano in con-tatto autentico con la realtà, e curano– rispettano – le

parole utilizzate.

Un incontro dove gli uomini si scambiano parole non come fossero

oggetti, ma come custodi di anime. E dove si intende il linguaggio

come un ponte di contatto tra gli uomini, in quanto esprime ed agisce

l‟essenza degli individui.

2.2 La rappresentazione della parola

Ma per entrare davvero in relazione vuol dire che le parole

rappresentano esteticamente un‟essenza. Esprimono, ovvero,

un‟unicità ontica che per vivere ha bisogno di una forma visibile

universale, la quale permette la comunicabilità, e di conseguenza, la

sua relazione.

Ma questa rivelazione a sé e al mondo è possibile solo grazie a un

dinamismo che è prettamente connaturale dell‟uomo: ossia la mimesis.

Quel movimento interiore che attraverso il corpo ci permette di

50

renderci simili nella voce o nel gesto a qualcosa, o qualcuno156

. Quel

dinamismo che permette ad Aristotele di definire l‟uomo l‟essere

mimesico157

per eccellenza, e che nel Cratilo, emerge in tutta la sua

energia quando Socrate/Platone cerca di definire in che modo l‟uomo

riesce a comunicare e a esprimere; non tanto nella relazione tra

docente-discente – che ne La Repubblica è tra poeta e pubblico158

–,

quanto nell‟atto stesso di denominare159

. Vediamo infatti come il

nome venga esplicitamente definito da Socrate un mimema160

, ossia un

156

Platone parla per la prima volta di mimesis ne La Repubblica, precisamente nel libro

III, 393c, quando Socrate dialoga con Adimanto riguardo le forme poetiche e

l‟interpretazione attoriale, e individua questo dinamismo definito : «Ora, il rendere sé

simile a un altro, per quel che concerne sia (o) la voce sia (o) il gesto, non è fare la

mimesis di quello a cui ci si rende simili? - Sicuramente» . (traduzione riportata in

Paideia Mimesis, libro da cui verrà tratto ogni brano de La Repubblica). Un rendersi

simile – homoìosis – che non va confuso con imitazione, ma con immedesimazione, in

quanto è un atto creativo, che non riproduce l‟ente di cui ne fa la mimesis, ma ricrea

dentro di sé l‟altro. Questo perché «si diventa uguali a ciò di cui si fa la mimesis, ma non

superficialmente, sì nelle nostre fibre più intime.». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia

mimesis, cit., p. 57) 157

«[…] l‟imitare è congenito fin dall‟infanzia nell‟uomo, che si differenzia dagli altri

animali proprio perché è il più portato a imitare, e attraverso l‟imitazione si procura le

prime conoscenze […]». (Aristotele, Poetica, Laterza, Bari, 2009, 1448b, 5-7)

Come afferma Gilberto Scaramuzzo, infatti «Platone fa (e chi la legge la sua pagina con

lui) […] questa semplice scoperta: tutti gli uomini possono fare quella mimesis che

concerne il conformarsi nei gesti e/o nella voce, anzi, questa mimesis è qualcosa di molto

presente nella vita di ciascun uomo fin dall‟infanzia». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia

mimesis, cit., p. 54). 158

«[…] la poesia, nell‟Atene in cui vive Platone, è la paideia più diffusa e autorevole per

la formazione dei cittadini […]; è dunque necessario stabilire di cosa dovrà parlare, e

come dovrà essere – la poesia – per ottemperare alla funzione di essere retta paideia in

grado di formare cittadini, e, soprattutto, governanti e guardiani giusti». (Scaramuzzo,

Gilberto, Paideia Mimesis, cit., p. 37). 159

«Per Platone, l‟atto fondamentale della parola non è la messa in relazione, bensì la

denominazione, la discriminazione della realtà, che consiste nel fissare un contorno

verbale alle cose. […] [questa forma] fa sì che ogni essenza abbia un contorno che

giustifica il suo titolo di eidos.» (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone e

Aristotele, cit., pp. 38-39) 160

Si riporta per chiarezza tutto il passo in cui Platone riflette sulla connessione tra

mimesis e comunicazione, ossia come il nome riflette in sé l‟essenza della cosa.

«SOCR. Bene. Ma allora i primi nomi, ai quali non fanno da supporto ancora altri, in

quale modo, per quanto è possibile, ci renderanno massimamente evidenti le cose che

sono, se hanno proprio da essere nomi? Ma rispondimi a questo: se non avessimo voce né

lingua, ma volessimo mostrare l‟un l‟altro le cose, non cercheremmo forse di significare,

come ora i muti, con le mani e la testa e il resto del corpo?

51

atto imitativo – mimesico161

–, che racchiude in sé proprio il

movimento creativo della mimesis. Quell‟energia umana che permette

all‟individuo di divenire la propria essenza e di ricrearsi ina una forma

riconoscibile. Una corporeità che in questa ricerca corrisponde

unicamente alla parola che, in questa prospettica, viene a configurarsi

come una rappresentazione mimesica162

. Il prodotto – se così

possiamo limitativamente definirlo – del movimento che attua colui

che cerca di in-tendere163

l‟entità che vuole comunicare, e di

ERM. E in effetti come altrimenti, Socrate?

SOCR. Se, almeno credo, volessimo mostrare ciò che è in alto e leggero, alzeremo verso

il cielo la mano, imitando la natura stessa della cosa; se, invece, le cose che sono in basso

e pesanti, verso la terra. E se volessimo mostrare un cavallo che corre o un qualche altro

animale, sai che renderemmo i nostri corpi e le nostre movenze quanto più simili a quelli

loro.

ERM. Mi sembra che sia necessariamente come dici.

SOCR. Così infatti, credo, ci sarebbe atto ostensivo di qualcosa: quando il corpo, com‟è

verosimile, imita quella cosa che vuole mostrare.

ERM. Si.

SOCR. Ma poiché vogliamo mostrare con la voce e con la lingua e con la bocca, ciò che

viene da queste non darà luogo forse ad un atto ostensivo di ciascuna cosa allorché per

mezzo di queste sia atto imitativo di qualche cosa?

ERM. Necessariamente, mi sembra.

SOCR. Allora il nome è, com‟è verosimile, atto imitativo con la voce di quel che si imita

e colui che con la voce imita nomina ciò che imita.». [Il corsivo è mio]

(Platone, Cratilo, cit., Cap. XXXIV, 422e – 423c). 161

Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Sulla natura mimesica del discorso, cit.) 162

«La mimesis non è dunque l‟imitazione, ma è la rappresentazione di un mondo e di

una possibilità di vita. Tale rappresentazione è mimetica in quanto è in grado di

coinvolgere lo spettatore inducendo immedesimazione. La nozione di emulazione non

esprime allora la mimesis in quanto tale, ma i suoi effetti: la mimesis non è imitazione, ma

può generare imitazione in chi la osserva, in chi osserva la rappresentazione e né

coinvolto. In quanto arte figurativa o poetica, la rappresentazione mimetica non è

imitativa ma può essere imitata. Si tratta di una differenza sottile ma cruciale. È

confondendo il movimento produttivo della rappresentazione creativa che si è potuta

ridurre l‟intera sfera della mimesis ad imitazione. La mimesis (rappresentazione) non è

imitativa del mondo, è piuttosto il mondo che, rappresentato in un certo modo dalla

mimesis, può trasformarsi e somigliare alla sua immagine: può diventare come è stato

rappresentato. Le opere d‟arte non copiano affatto la realtà, ma la rappresentano, e per

effetto di tale rappresentazione la realtà può avviare una propria trasformazione in

direzione di quella possibilità formale che la mimesis ha suggerito, ha evocato, ha

creato.» (Palumbo Lidia, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di

Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo, Napoli, 2008, pp. 235-236). 163

Per una riflessione più profonda e specifica riguardo questo verbo, si rimanda all‟opera

di Gilberto Scaramuzzo “In-tendere. L’umana sophia di Luigi Pirandello”. È opportuno

52

esprimerne la sua natura in una forma percepibile. Una forma visibile,

ascoltabile, leggibile che cela in sé l‟essenza dell‟essere, ma rivela al –

nel – mondo la presenza della sua esistenza.

Una definizione che ovviamente è di notevole rilevanza per il nostro

lavoro, in quanto ci rivela come ogni segno comunicativo che gli

uomini si scambiano, sono forme mimesiche che rappresentano e

rivelano un significato invisibile. Atti che custodiscono in sé il senso,

e mostrano (anzi, realizzano) in un segno il significato. Perché non

rispecchiano passivamente l‟essenza, ma la manifestano – la vivono –.

I gesti, i vocaboli divengono allora espressioni che attraverso la loro

oggettività, permettono di creare una relazione intersoggettiva tra le

interiorità, le quali, senza un‟esteriorità universale, non sarebbero

riuscite a farsi sentire. Questo perché, come abbiamo

abbondantemente chiarito, la soggettività senza la sua temporalità e

materialità corporea, non avrebbe avuto la possibilità non solo di

percepirsi, ma soprattutto di esprimersi. Non avrebbe avuto cioè la

condizione fenomenica di dialogare con il mondo, perché senza il suo

corpo, non avrebbe avuto la potenzialità di parlare.

Le parole164

sono quindi ponti comunicativi tra gli uomini, e

soprattutto con se stessi, perché permettono di dare una voce al sentire

tuttavia aprire una piccola parentesi riguardo il suo significato per percepire il suo

intrinseco valore.. “Intendere” è infatti «un procedere per in-tentare un contatto nel punto

vivo: ri-volgersi con la propria parola nella parola dell‟altro, con il proprio punto vivo nel

punto vivo dell‟altro. In questo sforzo si ingenera l‟incontro – nel punto vivo –, che è il

frutto dell‟intendere di una soggettività nella capacità di intendere dell‟altra. Il massimo

dell‟incontro umano sarà, dunque, nella reciprocità dell‟intendere, quando […] lo

spirituale si muove […] non [per] giudicare, non conoscere, ma intendere […].»

(Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., pp. 115-116). 164

«Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose;

ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole

ch‟io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le

53

segreto di ciascun soggetto; permettono, cioè, di dare una visibilità

all‟intimità dell‟Io.

Per questo le definisco delle rappresentazioni estetiche in quanto

vestendo di una forma riconoscibile – per sé e gli altri – sono

percepibili. Sono ossia eventi nel mondo che, avendo una propria

spazialità e storicità – queste grazie alla loro corporeità165

–, sono

l‟attualizzazione più concreta e umana dell‟essenza.

ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo

come egli l‟ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!» (Pirandello,

Luigi, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., p. 52). Ho voluto citare questo passo per

prendere spunto su un argomento che mi preme approfondire. Mi riferisco al valore

estetico della parola, intesa come veicolo oggettivo che serve a «sostenere l‟esserci di

un‟interiorità nell‟uomo e dirne la natura singolarità» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit.,

p. 41). Un‟entità che se colta nella sua essenza permette di ridonare significanza alla

comunicazione.

«il riscoprire l‟appartenenza dell‟io alla parola e della parola all‟io [infatti] spalanca alla

riflessione due settori umani di grande fecondità per il discorso pedagogico: la funzione

primaria della parola di essere veicolo-legame tra due soggettività, con un movimento

tutto diverso dal convergere associato sull‟oggettività, evitato ogni tentativo di mutua

oggettivazione per l‟irrompere della chiara visione del senso che può avere e ha per l‟io

cotesta specifica possibilità di rapporto all‟altro essere umano. E in secondo nella

scoperta sacralità della parola avere la percezione della forza misteriosa che la parola

stessa ha in sé [corsivo mio]» (Ivi, p. 94).

La parola se gustata, sentita e capita (cfr. Costa, Cosimo, La dicotomia parola-ascolto in

Epitteto, cit., p.148) come espressione intima del sé, permette di attuare quella relazione

circolare che in questa ricerca mi preme definire dialogo: il «momento in cui si rende

manifesto l‟esserci della relazione, ma è, nello stesso tempo, l‟ambiente e, quasi, l’humus

in cui e per cui la relazione si realizza» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.190).

Per questo è fondamentale saper ascoltare per non cadere nell‟abisso

dell‟incomprensione: una forma di scontro intersoggettivo in cui i soggetti invece di

penetrarsi, si allontano. E urgente diviene educare a parlare. Perché sempre più dilagante

si afferma il pericolo di comunicare senza soggettività: un linguaggio che, svuotato di

significato, tende a curare la sua forma esteriore, senza più coltivare la propria interiorità.

Un fenomeno che ritroviamo amaramente presente nella quotidiana estetica del corpo,

che non a caso è stato ridotto a un oggetto scarnato dalla propria soggettività e ristretto a

uno strumento di feticizzazione (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina

ed estetica, cit., p. 25). Per questo ho l‟urgenza di ridare significato est-etico alla parola:

non solo per cercare di impedire il delitto dell‟umanità – visto che nella parola si esprime

l‟umano (Cfr. Ducci, Edda, L’uomo umano, cit, p.93) –, ma per salvare dalle tenebre

dell‟individualismo il soggetto. 165

Corporeità che non dobbiamo confondere con apparenza, semplice contorno –

involucro – che ricopre la parola, ma dobbiamo intendere come la sua manifestazione

espressiva poiché grazie alla sua carnalità (di voce e di gesto) il soggetto vive il mondo.

54

E nulla di più significativo potrebbe essere l‟aggettivo estetico, il

quale mostra quanto la parola sia davvero l‟azione espressiva per

eccellenza dell‟uomo perché in essa viene contenuta e realizzata

l‟unione della soggettività e della oggettività166

.

La comunicazione attraverso le parole si configura così come luogo

ideale per la costruzione dell‟incontro estetico, relazione in cui due

soggetti diventano oggetti reciproci della propria percezione, si

accolgono, e si vivono l‟uno nell‟altro.

2.2 La relazione con il mimema

Se ritorniamo però alla definizione del nome come mimema subentra

l‟esigenza di approfondire non solo cosa significa rapportarsi

mimesicamente a qualcuno, ma cosa si genera nell‟uomo quando

incontra un mimema – ossia la parola –.

166

Autore che ci permette di intendere la dicotomia soggetto-oggetto, è Georg Lukàcs,

filosofo ungherese che nella sua giovinezza si interessa di costruire un sistema che dia

autonomia all‟esperienza estetica confrontando il pensiero di Kierkegaard contro Hegel;

un sistema che superi il totalitarismo trascendentale hegeliano attraverso il contributo

dell‟immanente unicità del soggetto kierkegaardiano (cfr. Matassi, Elio, Il giovane

Lukàcs. Saggio e sistema, Mimesis, Milano, 2011, p.163). Il binomio soggetto-oggetto

emerge nella riflessione riguardo l‟opera d‟arte intesa come sintesi del dialogo tra saggio-

sistema. Una dialettica che ritroviamo sintetizzata nell‟opera d‟arte poiché essa racchiude

in sé la soggettività dell‟autore, ma al contempo, si copre di una forma che solo il sistema

storico può dargli. Per questo esprime la dicotomia tra soggetto e oggetto perché in essa

ritroviamo il saggio – ossia la particolarità – che si incarna in un‟universalità oggettiva.

Sintesi senza cui non sarebbe possibile l‟attuarsi di un‟esperienza estetica, ovvero un

vissuto in cui l‟oggetto non prevarica sul soggetto e il soggetto non rimane dipendente

dall‟oggetto (cfr. Matassi, Elio, Op., cit., p. 172). Questa è la relazione estetica: un

incontro in cui c‟è circolarità perché il soggetto per vivere questa esperienza deve poter

percepire l‟oggetto; e questo, per essere riconosciuto, necessita dello sguardo del soggetto

che rende personale – visto la sua unicità – la relazione. Per questo la relazione estetica,

ossia l‟autentica relazione tra soggetto e oggetto, è una rivelazione di valore (cfr. Matassi,

Elio, Op., cit., p.174): perché in questa percezione assumono valore sia l‟oggetto che il

soggetto. Acquistano, ovvero, la consapevolezza di essere enti trascendenti immanenti

(cfr. Matassi, Elio, Op., cit., p. 184).

55

Un interrogativo a cui, per rispondere, è necessario partire da un

argomento che ne La Repubblica Platone affronta a 401b, ossia

quando rivela che «gli stessi effetti sull‟interiorità del soggetto

provocati dalla mimesis poetica ci si presentano provocati, suscitati,

accesi, nel cittadino da qualcosa che non è la poesia»167

. Cosa intende?

Che il movimento della mimesis – il dinamismo del divenire

esteriormente e interiormente simile a qualcuno o qualcosa – non

avviene solo a contatto con la poesia, ma con ogni creazione umana.

Creazioni che, dopo aver chiarito cosa sia un mimema, posso

intenderle espressamente con le parole, affermando chiaramente che

«quando queste creazioni si fanno presenti a qualcuno, esse provocano

nel soggetto quegli stessi effetti che avevamo visto in precedenza

procurati dalla mimesis […]»168

. Stimolano, ovvero, l‟uomo a

conformare inconsapevolmente la propria intimità all‟oggetto esterno

percepito, e di conseguenza, a generare le medesime azioni che sono

state assorbite. Lo formano, lo nutrono, non solo nell‟esteriorità, ma

fin nelle fibre più intime del suo spirito

Un‟affermazione affascinante ma nello stesso tempo inquietante,

perché significa dire che l‟uomo – essere mimesico per eccellenza –

attraverso l‟incontro corporeo con l‟altro, plasma a sua somiglianza

non solo la corporeità.. ma anche la propria interiorità. Il che

comporta, di conseguenza, un‟urgente rivalutazione della relazione

sociale. Perché se l‟uomo diventa mimesicamente tutto ciò che lo

circonda, è necessario che la pedagogia controlli cosa l‟uomo assorba,

e soprattutto, educhi l‟individuo a discernere ciò che può nutrirlo di

167

Scaramuzzo, Gilberto, Paideia mimesis, cit., p.68. 168

Ivi, p.69.

56

bene, o di falsa apparenza169

. È necessario cioè che l‟educazione non

solo tenga sotto osservazione – supervisioni – le parole che

circondano e toccano l‟uomo, ma abitui il soggetto a saper ascoltare

solo il linguaggio che merita di essere accolto nell‟intimità. In

particolar modo, l‟indagine diventa urgente se ricordiamo la

pericolosità della mimesis, in quanto se «[essa] accade nell‟uomo

anche se questi non ne è ha piena coscienza»170

, dimostra nell‟uomo

una forte – eccessiva – malleabilità nei confronti degli enti che

percepisce. Espone, cioè, l‟uomo «al rischio di essere artatamente

manovrato dall‟esterno, con il rischio ulteriore e gravissimo di potersi

ritrovare interiormente manomesso […]»171

.

Pericolosità che nel Cratilo viene dibattuta riguardo la correttezza del

nome, in quanto se il nome è imitazione della cosa, si rischia di

ricreare un‟immagine – un doppione – che se «talora tralasci o

aggiunga anche poco, nascerà, sì, un‟immagine, ma non bella»172

.

Immagine che, ricordiamo, in questo lavoro consiste nella parola: il

riflesso espressivo dell‟interiorità che, in un atto comunicativo,

manifesta il suo segreto sentire.

169

Questo perché «se si fa la mimesis di qualcosa di bello di diviene belli, se si fa la

mimesis di qualcosa di brutto si diviene brutti: l‟uomo diviene ciò di cui fa la mimesis

[…]. Allora, se si vuole rendere bello l‟uomo e la convivenza, sarà necessario circondare

l‟uomo di creazioni belle; e impedire, così, alla radice, l‟eventualità perniciosa, per il

cittadino e per la polis, che qualcuno possa entrare in contatto con creazioni brutte, e che,

perciò, si formi interiormente a immagine e somiglianza del brutto anche senza

accorgersene» (Ivi, p.76). 170

Ibidem. 171

Ivi, p.64. 172

(Platone, Cratilo, cit., cap. XXXVIII, 431d). E sorge quindi la domanda :«non ci sarà

forse allora il buon artigiano dei nomi e il cattivo?» (Ivi), così come i poeti e insegnanti?

E i discepoli cosa apprenderanno? La risposta ovviamente la conosciamo perché come

abbiamo detto poco sopra (cfr. nota n. 169) l‟incontro con il bene, rende l‟uomo buono,

mentre il male lo rende malvagio. Quindi vien da se capire cosa diventi l‟educando che

incontra insegnanti che propongono nomi che non corrispondono alla cosa, e soprattutto:

insegnanti che non sanno come entrare davvero in contatto con la verità dei nomi.

57

La questione, però, continua a dibattersi perché tra i tre interlocutori

permane l‟interrogativo riguardo l‟origine da cui il nome prenda la sua

correttezza, e se sia migliore insegnamento conoscere dai nomi (intese

come immagini) o dalle cose stesse (che è verità stessa) 173

. A noi, per

intenderci, non interessa comprendere la posizione di Platone perché,

come abbiamo appreso dalla critica174

opposta alla mimesis dei poeti,

l‟autore dispregia la conoscenza tramite l‟arte in quanto, se non fosse

accompagnata dal farmaco della paideia, rischierebbe di provocare

l‟apprendimento – imitazione175

– di immagini, e non di verità. Quindi

la posizione di Socrate, contraria all‟apprendimento attraverso i nomi

– ossia mimemi –, cerchiamo di non seguirla; ma stretta teniamo la

consapevolezza di un esigente accompagnamento paideutico

173

Infatti Socrate dichiara a Cratilo: «Se dunque da un lato c‟è modo di imparare quanto

più possibile le cose tramite i nomi, ma dall‟altro c‟è anche modo di farlo per mezzo di

loro stesse, quale dei due sarà l‟apprendimento migliore e più chiaro? Apprendere

dall‟immagine l‟adeguatezza dell‟immagine stessa e la verità della quale è immagine,

oppure apprendere dalla verità la verità stessa e la sua immagine, se sia stata realizzata in

modo adeguato?». (Platone, Cratilo, cit., cap. XLIII, 439b). Questa posizione è però

«[…] una delle debolezze del platonismo quella di presentare i segni del linguaggio come

se fossero dei dipinti, delle imitazione di realtà in sé che bisogna cercare di cogliere

superando le “ombre”, delle quali le parole sono una specie. Questa strada è il percorso

della caverna: la prima ombra è la parola.». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in

Platone e Aristotele, cit., p. 37). 174

Mi riferisco all‟accusa che sferra Platone contro i facitori di mimesis (cfr. Platone, La

Repubblica, cit., 597e), ossia i poeti accusati di proporre al pubblico una mimesis

superficiale. Superficiale non perché è fatta male – in modo sciatto – ma perché non si

rapporta al bene; non coglie, cioè, l‟intreccio relazione che lega ogni entità alla verità e

propone quindi una mimesis dell‟apparenza, che per gli spettatori senza farmaco – ossia

senza paideia – confondono per la realtà. Ecco quindi la pericolosità della mimesis che, se

non accompagnata da uno sguardo educato, rischia di plasmare colui che ne fa mimesis a

sua volta, in un movimento apparente, non vero. Perciò è necessario che accanto al

dinamismo interiore che ne scaturisce dalla mimesis, ci sia la paideia che abitui a una

postura e sguardo ermeneutico. E soprattutto renda consapevoli gli spettatori – gli

educandi – dell‟intreccio relazione che ogni cosa rapporta al bene. Poiché solo così è

possibile evitare di nutrirsi di una mimesis superficiale; il che equiparerebbe a esimersi

dal far divenire la propria intimità superficiale. (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Paideia

Mimesis, cit., p. 81) 175

«Il problema dell‟imitazione si è posto dapprima a proposito del linguaggio. [per

Platone] Bisognerebbe quindi andare alle cose stesse evitando le parole, passare dalla

copia “verbale” al modello “reale”». (Paul Ricouer, Essere, essenza e sostanza in Platone

e Aristotele, cit., p. 37).

58

nell‟incontro dialettico tra gli uomini. Non solo perché dà spessore al

ruolo della pedagogia, ma in quanto rivela l‟importanza di educare gli

uomini ad ascoltare ogni tipo di parola sapendo quali accogliere

interiormente.

La chiave di risposta ovviamente è il farmaco che, nel X libro de La

Repubblica176

, Platone rivela come un‟entità necessaria per non cadere

nella mimesis delle ombre. Un habitus – in quanto abitua l‟uomo ad

assumere una certa postura – che consente di conoscere – vedere177

! –

l‟intreccio relazionale che unisce la realtà al bene/sole. Una cura che

corrisponde ovviamente alla paideia: il nutrimento che abitua l‟uomo

non solo a vedere la verità, ma a riconoscerla178

. E come possiamo ben

intendere, questo farmaco corrisponde ovviamente all‟insegnante che

è stato capace di entrare in contatto con l‟essenza del nome179

; a colui

che ha vissuto – è divenuto – con rispetto l‟essere che comunica.

Questo perché, come abbiamo accennato all‟inizio del capitolo180

,

l‟insegnante buono non è colui che ha l‟arte di dare i nomi, ma colui

176

«Tutte le opere di questo genere [quelle prodotte da chi non rivolge lo sguardo verso la

verità] costituiscono, sembra, un grave danno per lo spirito degli ascoltatori che non

dispongono del farmaco, ossia che non le conoscono quali sono effettivamente» (Platone,

La Repubblica, cit., X, 595b). 177

«Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si

mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me. In

altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le

cose secondo la faccia che gli rivolgono». [corsivo aggiunto] (Merleau-Ponty, Maurice,

Fenomenologia della percezione, cit., pp. 114-115). 178

Si veda per una riflessione filosofica educativa sul mito della caverna (cfr. Platone, La

Repubblica, VII, cit.) Scaramuzzo Gilberto, Paideia Mimesis, cit. 179

«SOCR. E che dici di questo? Non ti pare che ciascuna cosa abbia anche un‟essenza,

così come un colore […]? E per primi il colore e la voce, non hanno una essenza ciascuna

di queste e di tutte quelle altre cose che sono considerate degne di questo appellativo,

l‟essere?

ERM. A me pare.

SOCR. E allora, se qualcuno potesse di ciascuna cosa imitare con lettere e con sillabe

proprio questo, l‟essenza, non mostrerebbe per ciascuna cosa ciò che è? […]». (Platone,

Cratilo, cit.., cap. XXXIV, 423e). 180

Cfr. Ivi, 388c, 5-7.

59

che li sa usare; ovvero, colui che non usa le parole come fossero

strumenti.. ma come fossero mediatori che aiutano gli uomini a entrare

in relazione non superficialmente.

Il vero magister si andrebbe a configurare, così, proprio con

l‟uomo/prigioniero181

che, attraverso la guida della paideia, è riuscito a

vedere la realtà secondo la luce della verità. È riuscito cioè a fare la

mimesis dell‟essenza, cogliendo in questo modo l‟intreccio relazionale

che unisce ogni cosa al bene. È l‟uomo che è stato capace di vivere

mimesicamente ed esteticamente i nomi, intendendoli non come

immagini, riflessi.. ma segni significanti.

Una caratteristica che non dovrebbe possedere solo l‟insegnante ma

dovrebbe qualificare l’azione stessa dell‟arte di insegnare. Un arte che

attraverso dei segni – in questo caso i vocaboli – non trasmette solo

conoscenze, ma imprime dei significati, delle essenze con cui,

entratoci in contatto, rendono autentica la conoscenza della realtà.

Infatti se i bambini fossero abituati fin da piccoli a penetrare nei nomi

– ossia mimemi –, e fossero accompagnati dalla cura della paideia,

crescerebbero con la capacità di cogliere autenticamente la realtà,

perché vivendo mimesicamente il linguaggio, giungerebbero a cogliere

l‟essenza delle cose, e soprattutto: comunicherebbero seguendo la

natura del proprio essere182

.

181

Cfr. Platone, La Repubblica, cit., VII. 182

Questo perché se il linguaggio è «uno strumento che al contempo istruisce e

discrimina; [in quanto] attraverso il linguaggio “apprendiamo gli uni dagli altri e

distinguiamo le cose seguendo la loro natura”, si dice in 388b […] può essere indirizzato

ad altri soltanto per il fatto che anzitutto si rapporta alle cose.» (Paul Ricouer, Essere,

essenza e sostanza in Platone e Aristotele, cit., p. 38).

60

Capitolo terzo

L’espressione dell’umano secondo Ferdinand Ebner

“I corpi umani

sono parole,

miriadi di parole”.

(Walt Whitman)

Dal capitolo precedente abbiamo quindi accertato che la parola è un

mimema, ossia un‟opera creativa183

specificamente umana che

attraverso una corporeità verbale, rappresenta in una forma universale,

oggettiva, un senso invisibile. Questo perché il prendere forma (nella

voce o nel gesto) equivale all‟attuarsi di un‟espressione che prende

vita nel mondo; concretizza, ovvero, un‟invisibilità184

in un‟immagine

183

Creativa in quanto essendo un atto generato dall‟energia umana della mimesis, è

un‟entità che l‟uomo ha precedentemente vissuto prima di poterla comunicare. Il soggetto

ha dovuto, cioè, immedesimarsi – vivere in sé – l‟essenza dell‟oggetto, per poter solo

allora esprimere esso. Questo poiché «la mimesis, così come qui ce la descrive Platone, è

infatti quella capacità che consente all‟uomo di ricreare una qualsiasi realtà [….]

attraverso un processo di trasfigurazione in una forma umana che si assume in proprio. La

mimesis segnala un poter crearsi esteriore e […] interiore […] a immagine e somiglianza

di un qualunque ente […] ». (Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis. cit., p. 62). Per

questo è lecita l‟affermazione di Edda Ducci che dichiara la parola l‟ «attuarsi della

capacità di svelamento creativo [corsivo mio] che sonnecchia come forza

incommensurabile nell‟io e che spiccia solo nel rapporto al u, cassa viva di risonanza in

cui le possibilità diventano realtà-parola. In tal modo l‟io scopre nella parola la parte più

umana di sé perché vive l‟atteggiamento che lo distingue dagli altri viventi: la capacità di

voler rompere la crosta individualistica e poter demolire la muraglia cinese del

solipsismo» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.94). La parola è insomma «una forma di

produttività che è divenuta imperiosamente „pura‟, rivolta verso l‟interno, a tal punto che

la direzione attiva (soggettiva) del processo cessa di essere una semplice creazione di

contenuti […] di essere attività di qualche cosa, come nella prospettiva husserliana, per

diventare una sorta di creare „eterno‟ in cui l‟energia produttiva e ciò che viene prodotto

coincidono nel soggetto e nell‟oggetto raggiungendo la completa identità […]» (Matassi,

Elio, Il giovane Lukàcs, cit., p. 175). 184

Dico invisibilità perché la soggettività non è percepibile materialmente senza un

corpo. In questo modo la lingua – intesa come carne verbale – rappresenta l‟essere intimo

di ciascuno di noi perché «La parola non è un accessorio umano all‟essere. Anzi essa è,

61

oggettiva che non resta riflesso opaco del senso.. ma diviene apertura

– riconoscibile – verso l‟indicibile

La parola è infatti un‟entità comunicante che trasmette, attraverso la

sua rappresentazione, un‟essenza. Non è un involucro che contiene

passivamente un‟idea, ma un vissuto che vive nella sua sostanza

l‟essere che vuole comunicare. Non va confusa quindi con «un

fenomeno psichico, fisiologico, o addirittura fisico»185

privo di senso,

ma come un‟estensione, un attuarsi del pensiero significante, in una

forma oggettivabile.

Per questo è necessario definirla azione espressiva perché, tramite

questo agire, il significato può esistere in “un organismo di parole”186

;

può ossia divenire presenza187

, grazie alla possibilità di abitare –

nella sfera del vivere ed esperire umano, il fondamento divino di tutto l‟essere in genere».

(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.67). Senza di essa, l‟uomo non avrebbe quella

particolarità espressiva, e soprattutto quel bisogno interiore di comunicare, che lo

distingue dagli altri esseri animali. Infatti «il fatto che l‟uomo ha la parola denota dunque

l‟esserci in lui di un‟interiorità, distinta dal naturale e dal sociale, non chiusa né

solipsistica, perché sostanziata di parla che è relazione personale, e costantemente

arricchita e stimolata mediante la parola che lascia entrare nell‟interiore della vita tutto

ciò che è esteriore all‟esperienza» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.45) 185

Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p. 247. Questi

aggettivi rimandano alle teorie dell‟intellettualismo, ossia a quelle teorie empiriche che

tendono a studiare – oserei dire: ridurre – la fenomenologia della realtà come oggetti privi

di coscienza e che Husserl accusa colpevoli della crisi del disincantamento (cfr. Weber,

Max, La scienza come professione, Bompiani, Milano, 2008). La “conoscenza

trascendentale” (cfr. Costa, Vittorio, La fenomenologia, cit., p.48) della fenomenologia,

una volta applicata, consente infatti all‟uomo di «lasciarsi impregnare dal mondo,

sospendendo il giudizio, dando nuovamente voce all‟oggetto, riscoprendo il senso e

l‟ordine delle cose, che il modificarsi il continuo dei sistemi di riferimento e di appoggio

ha reso incerti e problematici. […] Il metodo fenomenologico si presenta così come una

continua donazione di senso ad un‟esperienza muta, o che tende a diventar tale nella

coscienza comune» (Bodei, Remo, La filosofia del novecento, cit., p. 110). 186

Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.253 187

Cfr. Ibidem. «Anch‟essa [la parola] è corpo, in un certo senso, perché è inseparabile

dalla voce e partecipa delle molteplici possibilità comunicative che il corpo possiede»

(Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.68)

62

“frequentare”188

– un tempo e uno spazio per mezzo del proprio corpo.

La parola va infatti interpretata come un gesto sensibile – percepibile

– che distingue la fisionomia espressiva di ciascun individuo, proprio

perché va a coincidere con l‟azione espressiva creatrice dell‟essere.

Essendo quindi una delle abilità corporee adoperate dall‟uomo per

manifestarsi, la parola va intesa come il mezzo umano più nobile «per

rendersi presenti [; lo] strumento privilegiato di ogni rivelazione, [il]

dono di sé all‟altro.»189

. Una definizione autorevole in quanto

permette di riassegnarle il valore est-etico che le spetta, e a

contraddistinguerla dalle altre azioni linguistiche più consumate nella

vita quotidiana.

La parola che intendo infatti indagare, non rappresenta

superficialmente un grafema grammaticale, ma attua uno dei più fini e

delicati dinamismi esistenziali dell‟uomo: cioè la comunicazione.

Quel movimento che si distingue per l‟emittente, in una tensione verso

dentro – perché cerca di com-prendere la propria interiorità190

–;

188

«[…]il corpo, in quanto ha dei “comportamenti” è quello strano oggetto che utilizza le

sue proprie parti come simbolica generale del mondo e attraverso il quale, perciò, noi

possiamo “frequentare” questo mondo, “comprenderlo” e trovargli un significato.».

(Merleau-Ponty, Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., p.316). Non dobbiamo

intendere il corpo come «semplice materialità, come evidenzia massiccia: il nostro è un

corpo capace di orientarsi all‟altro, di interloquire con lui, di esprimere col suo

atteggiamento: “eccomi sono qui!”». (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medica ed

estetica, cit., p.67). Interagisce con il mondo, e soprattutto, permette all‟uomo di

partecipare come ente nella vita. 189

Ivi, p. 68. (Cfr. Barbotin, E., Humanité de l‟homme, Aubier, Paris, 1970, pp. 131-132) 190

Come afferma Ebner, «L‟esigenza [dell‟uomo] è vivere in sé non fuori di sé. Viversi

interiormente nella propria vita.» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.50). Parole

che emozionano ogni volta che si rileggono perché con una splendida sinteticità e

poeticità ci trasmettono l‟essenza dell‟espressione: ossia l’attuarsi dell’uomo in sé, al

mondo. Un‟azione che ha un doppio movimento – che corrisponde a sua volta anche a

una doppia esigenza umana -: uno che protende all‟indentro, per giungere a cogliere e

stringere con mano la propria interiorità segreta; l‟altro che si dirige verso l‟esterno – il

mondo, lo spazio che rende contingente ogni vissuto dell‟uomo – per dar forma visibile al

proprio sentire.

Un bisogno umano che Pirandello riesce a trascrivere in queste righe: «Io sono nato per

esprimere. Chi ha un senso schietto della vita del resto non può far altro. Ha provato:

63

mentre per il ricevente, consiste in un gesto di accoglimento, di

apertura, in quanto pro-tende verso l‟ascolto dell‟altro.

3.1 La parola dello spirito

Ma a cosa corrisponde ontologicamente questa espressione linguistica

ancora non l‟abbiamo definito.

Ebbene, per rispondere a questa indagine prenderò in prestito le

pagine di un autore poco conosciuto (e purtroppo poco studiato) che

dedica la sua vita alla scoperta dell‟espressione umana. Espressione

non nel senso artistico – intesa come performance –, ma come un

esperire191

, ossia un esistere interiore. Mi sto riferendo a Ferdinand

non può. […] esprimere, dunque. Esprimere tutto. Per meno uno non ci si mette.

Nell‟esprimere, la nostra vita avrà la sua vera, piena giustificazione, in se stessa, ma non

basta: bisogna che il suo valore sia grande, bisogna esprimere <tutto>. Non abbiamo forse

in noi il senso della vita? […] Esprimere è dire agli uomini com‟è la vita, come uno

spirito umano fatalmente disinteressato la sente in sé per tutti […] si tratta […] di

comunicare altrui […] le forme che lo spirito umano crea, quasi continuando su altro

piano l‟opera stessa della natura narrante, forme in cui si stringe e s‟addensa, assunto,

cioè fermo nel moto stesso per cui si svela, un genuino senso umano di questa misteriosa

vita che tutti viviamo». [il corsivo è mio] (Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p.10). 191

Sottolineo questo idioma, perché voglio indagare nella sua profondità, il movimento e

il valore intrinseco che possiede questa azione, in quanto è urgente riscoprirne il suo

significato, «dal momento che non ho dubbi sulla funzione catalizzatrice che esso può

svolgere nella realtà educativa, funzione che a mio parere non può mai esse svolta da

nient‟altro» (Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p.79). Di fronte infatti a un tempo sempre

più accelerato e a-spaziale, l‟agire espressivo sta subendo tristemente un processo di

materializzazione che equivale a una vera e propria bulimia (cfr. Mattei, Francesco,

Sfibrata Paideia, Anicia, Roma, 2009) dell‟interiorità. Sempre più congiunto alla

limitante definizione di “tirare fuori”, questo dinamismo espressivo sta perdendo il suo

valore di rappresentare la relazione che vive il soggetto con se stesso e con il mondo.

Esperire, infatti, altro non è che un vivere di dentro nel mondo, nel senso che colui che

esprime è un soggetto che ha percepito e vissuto la propria interiorità, ma al contempo è

presente nella realtà in cui vive. È un uomo che vive, con un profondo senso di

coinvolgimento e reciprocità, perché «esperire l‟umano comporta indubbiamente la

64

Ebner192

, un filosofo spiritualista che identifica – non a caso – la

parola come espressione dello spirito umano. Come possiamo infatti

leggere in una sua raccolta di aforismi193

, lui la definisce come un

«segno che lo contraddistingue [l‟uomo] su tutte le creature»194

perché

non tutti gli esseri viventi sono capaci di comunicare e soprattutto,

vivono l‟esigenza di comunicare195

.

sensazione viva dell‟esserci e dell‟attuarsi di tali dimensioni […]» (Ducci, Edda, L’uomo

umano, cit., p.80). Un vissuto che R. M. Rilke trascrive confidenzialmente nello scambio

epistolare avvenuto con un giovane aspirante poeta. Una modalità di vivere che lo stesso

Rilke trova impossibile consigliare, perché «non v‟è che un mezzo. Guardi dentro di sé.

Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel

punto più profondo del suo cuore […] costruisca la sua vita secondo questa necessità. La

sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di

questa urgenza. […] Lasciare che ogni impressione e ogni germe di un sentimento si

compia tutto dentro, nell‟ombra, nell‟indicibile e inconscio e inattingibile alla propria

ragione, e con profonda umiltà e pazienza attendere l‟ora della nascita di una nuova

chiarezza: questo solo significa vivere da artista: nel comprendere come nel creare.»

(Rilke, Rainer Maria, Lettere a un giovane poeta, Mondadori, Milano, 2009, pp.38, 49). 192

Per la riflessione del suo pensiero utilizzerò, principalmente, l‟opera La parola

nell’uomo di Edda Ducci, guida per eccellenza in questo capitolo, in quanto mi ha

permesso di cogliere nella sua unicità questo autore. Nei suoi studi ci permette, infatti, di

rivelare come il filosofo abbia «di mira la parola nell‟uomo. Intende [cioè] esplicitare

l‟umano e indicare la strada per diventare, nella concretezza e quotidianità del vivere,

uomo con gli uomini.» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.25). 193

La forma letteraria più adoperata da Ebner al fine «di tener saldo un principio: ciò che

si scrive è scritto per essere vissuto.» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.11). 194

Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p. 148. 195

«L‟albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l‟aria, la luce, il vento, la pioggia,

non sono cose che esso non sia. All‟uomo, invece, nascendo è toccato questo triste

privilegio di sentirsi vivere». (Pirandello, Luigi, L’umorismo, in Saggi e interventi,

Mondadori, Milano, 2006, p. 942). Ho citato questo passo per evidenziare quanto l‟uomo

sia uno dei rari esseri animali in cui è custodito il “triste privilegio” di sentirsi – di

viversi! – e di conseguenza, l‟urgenza interiore di comunicare. Un dono e fardello, al

contempo, che contraddistingue l‟esistenza dell‟uomo non solo dagli altri enti, ma anche

fra gli uomini stessi, perché non tutti sono capaci di ascoltarsi (e chissà, magari è

un‟incapacità ricercata e voluta visto che per molti, è più facile vivere in modo

superficiale). «Deve essere comodo [infatti] vivere alla “superficie” della vita. (Non

significa forse vivere “senza peso”, vivere senza mai fare esperienza del peso interiore

della vita?) L‟uomo che vive così può mai sapere qualcosa del mistero della vita? Può

mai arrivare a rispettare [il corsivo è mio] questo mistero?» (Ebner, Ferdinand, La parola

è la via,cit., p.116). Ho voluto sottolineare questo verbo perché da questa frase possiamo

capire quanto questo filosofo sia prettamente pedagogico, e in particolare, sia affine alla

nostra ricerca, poiché, quello che ci sta retoricamente domando Ebner, è uno degli

obiettivi che, a mio parere, l‟educazione dovrebbe più contribuire a mantenere nella sua

collaborazione – futurista – con la politica. Perché formare l‟uomo, abituarlo a viversi,

65

La parola, secondo Ebner, deriva infatti «dallo spirito, [che] accoglie

nel suo corpo la forma della lingua e parla per il movimento

dell‟anima o muove l‟anima»196

. Deriva, ovvero, da quel luogo che

Pirandello chiama punto vivo197

: un punto dove viene custodito il

nostro senso della vita198

, dove respira quel sentimento – strettamente

personale – che nasce dalla vita stessa e ha bisogno di restar legata a

essa per poter vivere. Un dinamismo interiore che protende

perennemente verso l‟esterno, perché necessita di vivere attraverso la

realtà, e di mostrarsi al mondo come lui stesso si vuole perché mai

potrebbe vivere autenticamente senza il corrispondere alla propria

essenza.

Esso «ci ha condotti a “vedere” la vita proprio secondo il senso che ne

abbiamo, che ne avemmo alle origini e che abbiamo salvato, e

“vedere” non passivamente, non come uno che contempla da lontano,

ma come uno che può toccare ciò che vede e non sa bene se tocca

perché vede o non piuttosto le cose si facciano al suo tocco quali egli

non significa solo imparare ad amare il proprio sentire, ma si intende spronare l‟uomo a

volere ascoltare l‟altro! Perché se la capacità di sentirsi avviene proprio tramite l‟incontro

con l‟altro, e quindi l‟io diviene riconoscente al Tu, vien da se capire quanto possa essere

da legante questo viversi! Vorrebbe dire che avremo società composte da cittadini che

amano sentirsi, che vogliono esprimersi, che desiderano rispettarsi l‟uno con gli altri. 196

Ibidem. 197

Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit. 198

«Ogni essere che nasce alla vita è portatore di un senso della vita. In cotesto senso

della vira c‟è la possibilità di cogliere sé come vivente, ma anche la necessità di

domandarlo fuori di sé, nel mondo. […] Il senso di sé e il senso della vita confluiscono

nel senso del mistero. Avere un senso schietto della vita comporta, di necessità, che ci si

orienti nel suo mistero. […] La categoria del mistero assume una particolare forza. Il

primo movimento che sembra caratterizzare il dinamismo umano coincide con il cogliere

il senso di sé e il senso della vita come mistero, fino a far coincidere senso di sé, senso

della vita e senso del mistero. È proprio questo senso del mistero ad orientare e a fornire

l‟energia movente all‟agire umano qualificato. Ed è per esso che l‟esistenza umana

raggiunge pienezza […]» (Scaramuzzo, Gilberto, Non parlo di me. Una riflessione

sull’umanazione firmata Luigi Pirandello, in Ducci, Edda (a cura di), Aprire su paideia,

Anicia, Roma, 2004, pp.43-44.)

66

le vede, e il suo tocco non è che una parola, una parola sua, del suo

linguaggio»199

.

Che significa? Che ogni nostra espressione è l’attuarsi visibile di

questo sentire proprio, un “evento reale”200

in cui il senso dell‟essere

poggia la sua esistenza in un segno oggettivo201

: il corpo. E

soprattutto, che ogni suo rappresentarsi avviene tramite un linguaggio

specifico202

– propriamente nostro – che plasma secondo il proprio

sentire il suo corpo, la sua voce, il suo volto203

.. ogni carne del

visibile.

199

[il corsivo è mio] Pirandello, Luigi, Non parlo di me, cit., p. 1478. 200

(Cfr. Costa, Vincenzo, La Fenomenologia, cit., p.82). Ma attenzione. Non è evento

perché diventa oggetto permanente (cfr. Ricoeur, Paul, Dal testo all’azione, cit., p.134),

ma perché è l‟io che, nel qui e nell‟ora, diviene presenza. (cfr. Marcel, Gabriel, Homo

viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma, 1967, p.23). Prende

ovvero le sembianze del Da-sein heideggeriano, «il luogo in cui l‟apertura si manifesta»

(Costa, Vittorio, La fenomenologia, cit., p.275), l’esser-ci espressivo dell‟ente. 201

«Ora, tra l‟intenzione significante e la voce sensibile che la sorregge esiste un nesso di

fondazione ben preciso: il significato poggia sulla presenza sensibile del segno che

proprio per questo si anima di un senso» (Costa, Vincenzo, La Fenomenologia, cit., p.

84). 202

«[…]ogni singolo ha il suo modo proprio di parlare la propria lingua, nel senso

spirituale e in quello puramente fisiologico. Se non fosse così come saremo capaci di

riconoscere un uomo soltanto dal suo particolare modo di parlare, se lo sentissimo, senza

vederlo? Quanto più un individuo è significativo, tanto più caratteristico è il suo parlare;

in senso spirituale.» (Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.29). 203

Delicata e interessante l‟affermazione di Ebner, il quale ritiene che «nel viso – viso è,

per vero non in senso etimologico, frontiera e risposta – si concentra tutto l‟uomo.»

(Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.129). Riguardo il ruolo del volto, c‟è un

filosofo in particolare che ha edificato in esso il suo pensiero. Mi sto riferendo a

Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo, che concentra la sua riflessione nella critica della

categoria della totalità – la quale ingabbia la diversità dell‟individuo – e

nell‟affermazione dell‟uomo come apertura dell‟Altro. Un tu che manifesta la propria

esistenza nel volto: una “nudità”, una “presenza viva” che si auto-impone “di per sé”(cfr.

Lévinas, Emmanuel, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, 1983, pp.

110, 124, 116) in quanto «gli Altri sono presenti in un complesso culturale dal quale

hanno lume, come un testo dal suo contesto […] Ma l‟epifania degli Altri comporta una

significanza sua propria, indipendente da questo significato ricevuto dal mondo. Gli Altri

non ci vengono soltanto incontro dal contesto, ma […] significano per se stessi» (Lévinas,

Emmanuel, Umanesimo dell’altro uomo, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1985, pp. 69-70).

Questo per significarci che il tu che ci guarda esiste prima di ogni nostra percezione; ha,

cioè, una sua spiritualità, una sua trascendenza che mette a disposizione per l‟io a cui va

incontro. Questo fa sì che nel momento in cui due volti si guardano, ci sono due

67

Le parole quindi non sono contenitori passivi della realtà, non

rappresentano come specchi l‟immagine di una cosa; ma la

esprimono! Esprimono – comunicano – una soggettività che, senza

questa forma parlante, non riuscirebbe a sentirsi viva. Danno

significato sensibile a una forma – la voce – che non avrebbe senso

umano senza interiorità. Non sono quindi né trascendenze, né pragmi,

ma rivel-azioni dell‟essere204

, il quale, dopo esser assorbito fin nel

fibre più intime dalla carne, prende forma, e diviene espressione per

poter esistere!

Un‟esperienza che l‟essere205

può percepire solo quando riesce a

permanere aderente al suo punto vivo (riesce cioè ad attuare il

dinamismo della mimesis – immedesimazione creatrice –) e ad

esperire per sé e per gli altri la sua unicità. Quella parte più intima, più

vera dell‟uomo, che ha bisogno di esprimersi per prendere

autocoscienza206

, e soprattutto, di toccare l‟altro pur rischiando di

restarne ferito207

.

soggettività infinite e immanenti che si schiudono vicendevolmente e richiamano un

senso di responsabilità l‟un l‟altro. 204

«La parola è parte totale delle significazioni come la carne del visibile, come essa è

rapporto all‟Essere attraverso un essere […]» (Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e

l’invisibile, cit., p.137). È “patrimonio ontologico” dell‟uomo (cfr. Scaramuzzo, Gilberto,

In-tendere, cit., p.109) che lo distingue dagli altri enti, non solo perché sente il bisogno di

parlare, ma perché è capace «di essere facitore della parola, creatore del senso» (Ivi, p.

109). 205

Essere in greco si può tradurre anche con logos, che non a caso significa anche parola.

Vuol dire che l‟essere per vivere come tale necessita di esprimersi nella forma

primordiale affidatagli all‟uomo, ossia la parola. La prima forma espressiva, la prima

azione che intende comunicare e soprattutto creare una relazione con il mondo esterno. 206

Secondo Ebner «l‟autocoscienza è identica all‟avere la parola; l‟uomo ha cioè la

possibilità, per la spiritualità del suo essere, di affermare la propria personalità mediante

l‟espressione “io sono”» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.78). Quindi «[…] per

l‟uomo principiare a parlare e affermare il proprio “io sono” la medesima cosa, ma

l‟affermazione dell‟io non c‟è senza l‟affermazione del tu. Questo filo sottile e tenace è

ciò che fa umano il linguaggio».(Ivi, p.148) E questo è anche il filo conduttore che mi

permetterà di giungere alla conclusione di questa ricerca: ossia l‟affermazione che nel

68

La parola diviene quindi la “possibilità ontologica dell‟in-tendere”208

:

la potenzialità e attitudine dell‟essere che permette all‟uomo non solo

di assumere una forma esteriormente oggettiva – in quanto divenuto

comprensibile a tutti – ma di agire, di affermarsi – di esistere! –

attraverso il suo esperire, creando così un legame inscindibile con

l‟essere209

di ciascuno.

Questo perché «la parola [è] fondamento dell‟essere e rivelatrice

dell‟essere»210

; è la forma parlante tramite cui l‟uomo si appropria

della sua essenza – della sua intimità segreta – e vi si ri-conosce211

.

La rende viva212

proprio attraverso il suo corpo che parla – esprime –

linguaggio avviene l‟attuarsi dell‟incontro tra l‟io e il tu (cfr. Buber, Martin, Io e tu, in Il

principio dialogico, cit.). 207

Dico ferita perché l‟incontro con l‟altro è ontologicamente rischioso, in quanto mette

entrambi i soggetti a disposizione dell‟altro (cfr. Lévinas, Emmanuel, Altrimenti che

essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 77-81). A riguardo, si veda Bruni, Luigino, La

ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007. 208

Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.100 209

«L‟unione che si stabilisce tra parola ed essere fa si che la parola sia rivelatrice [il

corsivo è mio] di essere poiché fonda l‟essere; pertanto se l‟uomo ha la parola questo

connota che ha una specifica modalità di essere». (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,

p.72). Sottolineando l‟aggettivo “rivelatrice” ho voluto evidenziare uno dei ruoli primari

della parola. Un compito che è possibile attuare solo grazie alla sua forma ri-conoscibile

(cfr. Desideri, Fabrizio, Forme dell’estetica, cit., p.58), la quale, non a caso, le permette

di acquisire la definizione di espressione estetica. Essendo infatti tale rappresentazione,

possiamo vedere quanto «il linguaggio opera e diviene se stesso sempre ed ogni volta

come potenza che scopre, che manifesta, che porta alla luce » (Ricoeur, Paul, Il conflitto

delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p.82) l‟essenza dell‟io. È “portatrice di

senso” (Ricoeur, Paul, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio

della rivelazione, Jaca Book, Milano, 1994, p.148) del soggetto parlante, che va saputa

ascoltata, ma soprattutto, comunicata (cfr. Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra

medicina ed estetica, cit., p 68). 210

Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.73 211

Per l‟uomo è fondamentale formarsi per riconoscersi. Non conoscersi come un oggetto

– in quanto questo movimento equiparerebbe a morire (Cfr, Pirandello, Luigi, La

carriola, in Novelle per un anno, cit.) – ma ritrovarsi. Perché ogni uomo ha il desiderio di

«costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara» (Pirandello,

Luigi, Uno nessuno e centomila, cit., p.98) ma non tutti hanno la volontà di scoprirsi.

Solo l‟uomo che ha l‟intenzionalità muoversi mimesicamente potrà allora vivere la gioia

di vivere la sua essenza, perché è stato capace di sentirla e agirla. 212

«[…] prima era- era- una voce nuova, “mia”, che tutti avevano ascoltata- a cui tutti si

erano voltati- voce “viva”- “viva”- “ANCORA VIVA”- mia!»(Pirandello, Luigi, Qando

si è qualcuno, cit., p.43). Emozionanti come sempre le parole di Pirandello che,

straordinariamente, riesce a mostrare nei suoi personaggi «La peculiarità della parola

69

in una miriade di lingue, quel sentimento che sente l‟urgenza213

di

agire per diventare vita vera – non solo astratta – tra gli altri.

La parola, infatti, non è fine a se stessa, non si esprime solo per

sentirsi. Il suo telos ultimo è quello di comunicarsi214

, di essere

ascoltata da qualcuno, di prendere valore nel mondo. È questa

intenzione di protendersi verso l‟altro, che dà senso alla parola, perché

«essa è data realmente e in maniera efficace solo in quanto uno parla a

un altro»215

. Se ci si pensa, infatti, che significato avrebbe la parola

senza questa relazione?

[che] non si dimostra né si misura – in tal caso parlare di mistero sarebbe stato parlare per

immagini –, [ma] la si vive, e vivendola se ne colgono gli effetti reali, percepibili, o

meglio esperibili distintamente ma sempre interiormente». (Ducci, Edda, La parola

nell’uomo, cit., p.90) 213

«[…] Ebner rimarca che la parola originaria deve essere stata una proposizione alla

prima persona venuta fuori da un grido di dolore. Questo io nel mentre diventò parola da

un grido di dolore e in questo affermò la propria esistenza e la espresse, disse, non con

una conoscenza tranquilla ma con una eccitazione appassionata: “Io sono e soffro”.

Questo il senso della parola originaria. Ma nella sofferenza della sua esistenza l‟uomo

diventò cosciente di sé, rifletté sul fatto di avere parola, in cioè lo spirituale diventò

cosciente di sé, cercò il tu, ossia lo spirituale distinto da lui, e così divento parola.»

(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.79). Un‟esigenza che per Etty Hillesum diventa

un‟esigenza di vita. Come infatti ci riporta Maria Gabriella Nocita: «Riuscire a far

emergere “dal fondo dell cose” il senso del proprio essere diventa per lei [Hillesum]

urgenza vitale». ( Maria Gabriella Nocita, Sentire la vita. Etty Hillesum si fa parola, in

Scaramuzzo, Gilberto (a cura di), La comunicazione umanante. Ermeneusi di un mistero,

Anicia, 2009, p. 40). 214

Per l‟uomo è fondamentale comunicare, farsi capire dall‟altro. Lampante l‟esempio

della novella L’uomo solo «Poi si alzò; prese il figlio per un braccio; glielo strinse con

tutta la forza, come se volesse comunicargli con quella stretta qualcosa che non poteva o

non sapeva dire».(Pirandello, Luigi, L’uomo solo, in Novelle per un anno, cit., p.1236).

Anche Edda Ducci ci rivela il bisogno intrinseco dell‟uomo di esprimersi, di farsi sentire,

di definirsi evento vivo nella realtà, e lo troviamo nelle seguenti parole: «L‟io ha però in

sé l‟urgenza sì di conoscersi, ma soprattutto di essere conosciuto per emergere sia

dall‟oggettività sia dalla massa, e cogliersi in quella irrepetibilità che lo nobilita; e questo

avviene essenzialmente per l‟essere percepita, la sua parola, nel campo interumano; così

come il percepire, l‟essere in grado di percepire la parola dell‟altro lo consolida nella sua

stessa irrepetibilità.» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.112). 215

Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.79 .

70

3.2 La parola nella relazione

Per rispondere a questa domanda è necessario, però, interpellare un

altro autore che in maniera analoga a Ferdinand Ebner, anch‟esso

colloca la parola come espressione dello spirito umano216

. Mi sto

riferendo al filosofo ebreo Martin Buber217

il quale dedica proprio la

sua vita da studioso e uomo, ad indagare fin nella sua profondità,

l‟esperienza della relazione, in particolare: l‟incontro tra l‟Io e il Tu.

Come infatti afferma nell‟omonima opera, «ogni vita reale è

incontro»218

: ossia, ogni esistenza si attua nella relazione tra l‟io e il

tu, perché è proprio nel luogo dell‟incontro, che l‟io si ri-conosce e

diventa presenza per un tu. Attua ovvero la sua esistenza, permettendo

al suo spirito di vivere. Perché, come ci riporta l‟autore, «lo spirito

non è l‟io, ma tra l‟io e il tu»219

. Lo spirito dell‟uomo non è cioè

ridotto a un io individualistico, ma intersoggettivo. La sua

attualizzazione non sarà quindi manifestazione egoistica, ma apertura,

disponibilità, ascolto verso l‟altro.

E solo tenendo ben presente questo principio dialogico220

, potremo

allora capire la differenza che ci si prospetta nel momento in cui

216

«Lo spirito è parola. E come il discorso parlato prima si struttura in parola nel cervello

dell‟uomo, e poi può farsi suono nella sua gola […] così è per ogni parola, per ogni

spirito». (Martin Buber, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo,

Cinisello Balsamo, 2012, p.85). 217

Martin Buber, filosofo ebreo-tedesco, condizionato dal dramma storico in cui visse,

individua come via della salvezza umana la relazione. Un incontro che, avvenendo

nell‟intimità dell‟io e del tu, produce un‟esperienza capace di umanizzare gli uomini (cfr.

Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 87). 218

Martin Buber, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p.67. 219

Ibidem. 220

Il principio dialogico è il cuore pulsante del pensiero filosofico di Martin Buber; il

motore di ogni relazione autentica perché, per attuarsi, essa necessita il movimento

essenziale di due soggetti che si incontrano. Un‟azione che Buber definisce «rivolgersi [il

corsivo è mio]. Apparentemente si tratta di qualcosa di quotidiano e di insignificante:

quando si guarda qualcuno, gli si rivolge la parola, ci si volge proprio a lui, naturalmente

71

definiamo la parola come espressione dello spirito. Perché se lo

spirito vive e agisce solo nell‟incontro tra l‟io e il tu, la parola –

quella vera – dovrà vivere necessariamente solo incontrando un tu.

Una precisazione ontologica che permette di individuare l‟origine del

significato intersoggettivo della parola e il suo valore est-etico. Questo

perché non essendo un segno apparente, ma un’espressione

significante dello spirito che assume una forma , ci fa capire quanto la

parola sia essenzialmente percettiva e pregnante di essere. Quanto sia,

ovvero, una rappresentazione estetica che mostra, in una forma

percettibile l‟interiorità dello spirito, e dà voce e corpo sensibile a

un‟intimità che, senza esperire, sarebbe muta. Diventa, ovvero,

presenza, perché attraverso la carne della voce e del corpo (a seconda

del linguaggio utilizzato) l‟Io prende vita nel mondo. Ed è questa

esteticità – ossia interiorità visibile – che ci porta a rilevare il carattere

dialogico della parola, perché se assumendo la veste del suo

linguaggio, lo spirito diventa presente, significa che l‟io-parola

richiede necessariamente la percezione di un Tu, affinché possa

esistere. Richiede cioè l‟incontro con l‟altro, che funge non solo da

ci si volge a lui fisicamente, ma anche, nella misura necessaria, spiritualmente, dal

momento che a lui si rivolge l‟attenzione. Ma, di tutto ciò, che cos‟è un‟azione essenziale

compiuta con il proprio essere? È quella per cui, dall‟inafferrabilità di ciò che è a

disposizione avanza quest‟unica persona e diventa presenza; ora, nella percezione che ne

abbiamo, il mondo non è più un‟indifferente molteplicità di punti, a uno dei quali

prestiamo forse momentanea considerazione, ma un illimitato ondeggiare illimitato,

eppure limitato dalla diga e, per quanto non circoscritto, divenuto tuttavia finito nel suo

punto centrale, divenuto immagine, liberato dalla sua indifferenza!» (Buber, Martin,

Dialogo, cit., p.208). Il linguaggio, il dialogo tra l‟io e il tu, «inteso nella pregnanza di

una relazione intersoggettiva attuale» (Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 206)

permette così la realizzazione di uno contatto spirituale. Ma non «un rapporto idilliaco,

trascendente, ma un rapporto spirituale, concreto e di conseguenza reale!» (Ebner,

Ferdinand, Parola e amore, cit., p.141).

72

luogo espressivo per le voci di dentro221

dell‟Io, ma dà la possibile

esperienza di sentirsi presente.

Lo spirito quindi non diviene espressione – vita – solo vivendosi, ma

essendo vissuto da qualcuno222

.

Ed è per questo che è necessario che l‟Io assuma la forma della parola:

l‟unica azione – l‟unica espressione – che intrinsecamente richiama la

presenza dell‟altro per esistere. Questo perché «essa è data realmente

e in maniera efficace solo in quanto uno parla a un altro. “La prima e

la più antica espressione di un organo linguistico individuale

originario fu già, nel primo suono emesso, non più soltanto lingua

individuale, ma lingua, ossia qualcosa che passa fra un uomo che parla

e uno che ascolta”».223

Ritengo allora necessario aprire qui una piccola parentesi riguardo la

questione della lingua, ossia quell‟insieme di vocaboli224

che

permettono all‟Io di prendere coscienza di sé e manifestarsi. Questo

perché se il linguaggio si configura come abito della parola – ossia

dello spirito – ci dobbiamo domandare non più «come l’io giunge al

tu e il tu all’io» ma «come giunge la lingua all’io e l’io alla

221

Titolo di un‟opera teatrale di Eduardo De Filippo. 222

Cfr. Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.80. «Nell‟attualità del suo essere

pronunciata [la parola] presuppone che tra l‟io e il tu ci sia un rapporto personale. Ma

questo a sua volta non è pensabile senza il rapporto alla parola; in esso è resa oggettiva la

possibilità, data all‟uomo dall‟avere la parola, di poter cioè affermare la propria esistenza,

dunque la possibilità di parlare, ma anche, dato che ha il senso per la parola, di udire, di

accogliere in sé l‟interpellanza che gli viene dal di fuori». (Ivi, pp.148-149). Nel

linguaggio è quindi reso possibile l‟attuarsi dell‟incontro tra l‟io e il tu, e soprattutto, è

realizzata la rappresentazione del soggetto in una forma visibile (cfr. Merleau-Ponty,

Merleau-Ponty, Maurice, Il visibile e l’invisibile, cit.). 223

Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.148. 224

Vocabolo – attenzione – non per ridurre questa interiorità espressa in un oggetto, ma

per sottolineare quanto sia una composizione di lettere che nella voce, nel corpo, nella

musica o nei colori esprime il proprio sentire.

73

lingua»225

. Ci dobbiamo indirizzare, ovvero, verso la questione di

comprendere come l‟uomo si appropri della lingua e riesca a plasmare

la propria parola in linguaggio. Problema che è facilmente risolvibile

ricordando il movimento che attua l‟uomo per creare un mimema.

Come ho infatti cercato di approfondire nel secondo capitolo, l‟uomo

impara ad usare i nomi solo dopo essere riuscito a intendere la loro

natura, ovvero: solo dopo esser riuscito a vivere nelle fibre più intime

l‟essenza della cosa da dire226

.

Riflettere quindi sulla modalità attraverso cui l‟uomo diviene

linguaggio, richiama necessariamente l‟intervento della ricerca rivolta

a indagare il movimento originario che permette all‟uomo di

esprimersi, ossia di attuare il proprio sentire in una forma vivente –

parlante227

–. Mi riferisco alla mimesis228

, ossia a quel il dinamismo

interiore che abbiamo precedentemente affrontato con Platone, e che

caratterizza l‟uomo come ente capace di divenire la sua soggettività,

nella propria profondità. Quell‟energia che vibra nell‟agire creativo

espressivo della parola (o anche detto mimema) e che consente

all‟uomo di dar forma – presenza – all‟io.

È essenziale aver rispecificato questo movimento in quanto ci

permette non solo di intendere la modalità attraverso cui l‟uomo si

225

Ducci, Edda, La parola nell’uomo,cit., p.149. «perché nel caso che si pronunci

effettivamente io sono questo diventa la fondazione della realtà ultima dell‟io, ma

significa anche che l‟io ha di fronte un qualcosa di simile a sé, che tale si rivela perché gli

può essere indirizzata la parola e può riceverla, accoglierla, comprenderla.» (Ibidem). 226

Cfr. Platone, Cratilo, cit., 389d. 227

Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, La Fenomenologia della percezione, cit., p. 269. «Lo

spirituale nell’uomo, creato dalla parola, per il fatto che questa è entrata in lui, che egli

perciò ha la parola, è una natura parlante, esiste soltanto in rapporto a qualcosa di

spirituale distinto da lui, l‟io esiste soltanto in rapporto al tu – esso esiste nella parola,

nell‟attualità della parola e sul fondamento di questa attualità». Il corsivo è mio. (Ducci,

Edda, La parola nell’uomo, cit., p.93). 228

Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, Paideia Mimesis, cit.

74

appropri del linguaggio, ma ci consente di penetrare fin al di dentro la

capacità ontologica che permette all‟uomo di trasformarsi in parola –

ossia nella rappresentazione mimesica per eccellenza – e divenire così

un ente dialogico229

.

Perché è nella sua «attualità del suo esserci e nella divinità della sua

origine [che la parola diviene] manifestazione oggettiva dello

spirituale che è nell‟uomo, [e genera sicché] di conseguenza,

[l‟affermazione che] senza la relazione dell‟io al tu, intesa non in

senso psicologico ma in senso pneumatologico230

, non solo non ci

sarebbe la lingua, ma neppure l‟io.»231

.

229

Perché la vita con gli uomini si configura «In forma di parola […] nel discorso rivolto

e ricevuto. Solo qui la parola fatta di linguaggio [corsivo mio] incontra la sua risposta.

Solo qui va e viene, sempre con la medesima forma, la parola fondamentale; in una sola

lingua vivono la parola fondamentale dell‟appello e quella della risposta, l‟io e il tu non

sono semplicemente nella relazione, sono anche nella salda “integrità”. Qui, e solo qui, i

momenti della relazione sono uniti dall‟elemento del linguaggio in cui sono immersi».

(Buber, Martin, Io e tu, in Principio dialogico, cit, pp.133-134) 230

Sottile qui la critica alla psicologia ancora in fasce, accusata di pretendere di

scandagliare e classificare il mistero dell‟uomo. Come infatti afferma Buber, nella nostra

epoca «[…] predomina, tra uomo e uomo, uno sguardo analitico, riduttivo deviante. È

analitico, o piuttosto pseudoanalitico, perché tratta l‟intero essere corporeo-spirituale

come composito, e quindi scomponibile; e non solo il cosiddetto inconscio, accessibile a

una relativa obiettivazione, ma anche la corrente psichica stessa, che, per la verità, non è

mai comprensibile come qualcosa di oggettivamente consistente. Lo sguardo è riduttivo,

perché vuole ridurre la molteplicità della persona, nutrita dalla microcosmica ricchezza

del possibile, a strutture schematicamente dominabili dallo sguardo, ovunque ripetibili.

Ed è deviante, perché presume di poter comprendere l‟essere divenuto di un uomo,

persino il suo divenire, in formule genetiche e addirittura di poter rappresentare con un

concetto generale il principio centrale dinamico individuale di questo divenire. Oggi non

si tende solo a un semplice “disincanto” tra uomo e uomo […] ma anche a una radicale

soppressione del mistero». (Buber, Martin, Il farsi presenza della persona, in Elementi

dell’interumano, in Il principio dialogico, cit., p.305). Per questo Ebner propone che la

sua filosofia sull‟umano prenda origine da una riflessione pneumatologica, ossia da un

indagare che resti fedele allo spiritualità umana (cfr. Ducci, Edda, La parola nell’uomo,

cit., p.129), a quel mistero che prende voce e vita nella parola – ossia l‟attuazione e

svelamento dell‟io (cfr. Ducci, Edda, L’uomo umano, cit., p. 95) –, al fine di non

disperdere e oggettivizzare nella caotica mercificazione del corpo (cfr. Russo, Maria

Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p. 25) l‟intima individualità del

soggetto. 231

Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.176

75

Dalla parola quindi, intesa come ponte ontologico tra l‟io e il tu, non

prende vita solo l‟esperire del soggetto, ma vi ha origine la relazione.

Concetto fondamentale per riallacciarsi alla questione centrale di

questo paragrafo: capire come l‟io e il tu si incontrano –

compenetrandosi e intendendosi – nel dialogo232

: il luogo per

eccellenza dell‟unione, in cui le essenze degli uomini si attraversano

per giungere ad accogliere, in una storicità senza tempo233

, il sentire

segreto di ciascuno.

Per vivere questo incontro è necessario però che gli uomini vivano un

con-tatto, uno scambio di presenze. È necessario, cioè, che

comunichino attraverso la loro corporeità: una carne che in questa

ricerca è prettamente la parola. L‟entità, l‟azione che permette agli

uomini di confermarsi e intendersi “attraverso la grande muraglia

232

Cfr. Oliva, Mirela, Op., cit., p. 110. «Nell‟esperienza del dialogo, si costituisce un

terreno comune fra l‟altro e me, il mio pensiero e il suo formano un tessuto unico, le mie

parole e quelle dell‟interlocutore sono sollecitate dalla situazione della discussione, si

inseriscono in una operazione comune di cui nessuno di noi è il creatore. C‟è qui un

essere a due, e me l‟altro non è più un semplice comportamento nel mio campo

trascendentale, né d‟altra parte io lo sono nel suo, ma siamo l’uno per l’altro collaboratori

in una reciprocità perfetta, le nostre prospettive scivolano l‟una nell‟altra, coesistiamo

attraverso un medesimo mondo [: il linguaggio]». Il corsivo è mio. (Merleau-Ponty,

Maurice, Fenomenologia della percezione, cit., pp.459-460). Proprio per questa valenza,

Martin Buber oltre a ritenere il dialogo luogo autentico di incontro, distinguerà «tre

specie di dialogo: quello autentico – non importa se parlato o silenzioso – in cui ciascuno

dei partecipanti intende l‟altro o gli altri nella loro esistenza e particolarità e si rivolge

loro con l0intenzione di far nascere tra loro una vivente reciprocità; quello tecnico,

proposto solo dal bisogno dell‟intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui

due o più uomini riuniti in un luogo, in modo stranamente contorto e indiretto, parlano

solo con se stessi e tuttavia si credono sottratti alla pena del dover contare solo su di sé».

(Buber, Martin, Dialogo, in Principio dialogico, cit., p.205) 233

Ho voluto accostare questi termini per sottolineare quanto l‟essere dell‟uomo ha in sé

una sua trascendenza – essendo spirito, un sentimento che non ha un suo periodo preciso

–ma anche storicità – perché si manifesta qui ed ora. È un ente trascendente immanente

(Matassi, Elio, Op., cit., p. 184) che rimanda sottilmente all‟esser-ci nel mondo, il Da-

sein heideggeriano, che vive l‟esistenza in cui è stato” gettato” non automaticamente, ma

con progettualità (cfr. Bodei, Remo, La filosofia del Novecento, cit., p.121).

76

cinese”234

, ossia nel muro invisibile che separa e segrega ogni soggetto

nella singola individualità, per intuirsi235

e realizzarsi.

La parola diviene quindi lo svelamento del desiderio nostalgico236

dell‟Io di dialogare con il Tu. Perché grazie alla sua presenza (quella

dell‟altro), la parola prende significato e realizza la misteriosa rivel-

azione del soggetto.

Ma come attuare questa conversa-zione?

3.3. Come parlare bene

Il primo passo da compiere è capire come risvegliare237

l’uomo a

vivere con pienezza il proprio spirito; ad abituarlo, cioè, a parlare

nelle parole affinché sia capace di mostrarsi – di esprimersi – nella

234

Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p.22. «ognuno di noi è chiuso in una

corazza che presto per via dell‟abitudine non avvertiamo più. Solo rari istanti riescono a

penetrarla e a risvegliare l‟anima alla ricettività» (Buber, Martin, Dialogo, in Il principio

dialogico, cit., p. 195) 235

«[…] intuire un uomo significa quindi percepire la sua totalità come persona

determinata dallo spirito, percepire il centro dinamico che imprime a ogni sua

manifestazione, azione e comportamento, il segno comprensibile dell‟unicità. Ma tale

intuire è impossibile, quando e fino a che l‟altro è per me l‟oggetto staccato della mia

contemplazione, o addirittura della mia osservazione, perché allora questa totalità e il suo

centro non si fanno riconoscere all‟osservazione; è possibile solo quando entro in

relazione con l‟altro in modo elementare, cioè quando egli per me diventa presenza.

Perciò definisco l‟intuire in questo senso speciale come il farsi presenza della persona».

(Buber, Martin, Il farsi presenza della persona, in Elementi dell’interumano, in Il

principio dialogico, cit., pp. 304-305). 236

«In ogni esperire l‟uomo crede di poter fuggire dalla prigione del suo io, ma rimane

sempre nuovamente chiuso dietro le sue mura. Nostalgico l’io cerca il suo tu, [corsivo

mio] perché senza questo tu lui stesso non può costituirsi, lo sento bene, e nella sua

ricerca però non si accorge che questo tu non vive fuori di lui stesso, dell‟io, ma in lui,

nell‟io stesso.» (Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit., p. 60). 237

«La strada del risveglio è la strada del linguaggio, data la reciproca appartenenza di

spiritualità e lingua; ma la capacità di risveglio è proprietà del linguaggio adeguato, fatto

non di parole, ma inverantesi nella parola. Quel linguaggio in cui lo spirituale che è

nell‟uomo si rivolge allo spirituale che sonnecchia nell‟altro e lo sveglia, perché l‟altro ha

il potere di svegliarsi e può captare quella specifica lunghezza d‟onda.» (Ducci, Edda, La

parola nell’uomo, cit., p.83).

77

voce del corpo, in quanto «[…] la parola nell‟uomo pone le basi per la

effettuabilità dell‟Erwachen [risveglio], ma la parola esige l‟Erwachen

per palesare tutta la densità l‟inerenza alle realtà spirituali. L‟uomo

cioè per superare il circolo del convenzionale, il vuoto formalistico e

l‟alienazione della chiacchiera deve risvegliarsi e approntare gli

strumenti per la rilevazione del valore della parola.»238

Infatti «il bersaglio [del filosofare di Ebner] non è la padronanza dei

problemi concernenti il linguaggio ma lo svelamento di come la parola

diventa vivente.»239

. Uno scopo che appartiene anche alla mia

indagine pedagogica, la quale, per l‟appunto, si è posta l‟obiettivo di

indagare come la nostra essenza possa agire, esprimersi240

incontrarsi –, al fine di viversi e diventare autenticamente

comunicabile. Viversi nel senso di percepirsi, di rispettarsi, e

soprattutto di attuarsi. E quale azione, se non il parlare, potrebbe al

meglio corrispondere al bisogno dell‟uomo di realizzarsi? Un atto che

richiede necessariamente la comprensione di se stesso – in quanto, per

parlare con pienezza, bisogna precedentemente vivere cosa dire; è

un‟azione che coinvolge la relazione con l‟altro poiché, senza un

interlocutore che ascolta, resterebbe un monologo241

–.

La parola, quindi, non esisterebbe senza il movimento mimesico che

l‟Io deve attuare dentro si sé per riconoscersi, e non si vivrebbe senza

238

Ivi, p.87 239

Ivi, p.84 240

Perché questo significa esistere! Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10. 241

Cfr. Buber, Martin, Dialogo, cit., p.205.

«Il monologo […] è l‟ambiente in cui l‟io si atrofizza, perché il non aprirsi ad una vera

comunicazione con l‟altro vuol dire impedire l‟attuazione del proprio statuto di

relazione.»(Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.215).

78

l‟incontro con il Tu: un‟anima nuda242

che accoglie – ascolta – dentro

di sé la voce dell‟Io il quale, a sua volta, necessita ontologicamente di

dirsi per percepirsi243

. Attenzione, però; non mi sto riferendo alla

confusione verbale che satura il nostro udito nelle vie stradali. Il

bisogno di comunicare nell‟uomo non corrisponde all‟esigenza

materiale di inserire in ogni angolo della città apparecchi elettronici

che trasmettono rumorosi dialoghi composti da parole vuote e

sciatte244

; vocaboli puramente formali che riempiono il silenzio

242

Un Tu che il Principe (protagonista dell‟opera di Pirandello “La favola del figlio

cambiato”) richiede come ogni uomo desiderante di comunicarsi e viversi con qualcuno.

«[…] E tutti dietro uno scudo.

E mai un viso nudo,

fino all‟anima nudo,

come vorrei vederlo;

un sorriso, ma vostro;

e non fatto per me;

e come parlate

dentro di voi; ma questo

forse non lo sapete

nemmeno voi stessi»

(Pirandello, Luigi, La favola del figlio cambiato, Mondadori, Milano, 1993, p.141).

Una richiesta esistenziale per l‟Io, perché è grazie all‟incontro con un Tu disponibile ad

accogliere in sé l‟altro, che avviene l‟attuarsi di quella relazione giusta (cfr. Ebner,

Ferdinand, Parola e amore, cit., p.43): la relazione attraverso cui l‟Io spirituale diviene

un essere dialogante (cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 210), ossia, in vita. 243

Tengo qui a ripetere il significato dell‟uomo, inteso come un essere parlante – ovvero,

essere che necessita entrare in relazione con l‟altro per attuarsi –, e utilizzo le parole di

Ebner per spiegare la profondità di tale concetto.

«La parola, nell‟attualità del suo essere pronunciata (concetto che esprime la tendenza

opposta a quella della sostanzializzazione propria del pensare scientifico che è pensare

alla terza persona), ha come presupposto la personalità del rapporto dell‟io al tu. La

personalità, però, è impensabile senza il rapporto alla parola, perché questa oggettiva la

possibilità insita nell‟uomo di affermare la propria esistenza nella parola “io” della frase

“io sono”; vi si attua, dunque, l‟autocoscienza, ma anche la possibilità dell‟uomo, in

quanto parlante perché persona a cui è stata rivolta la parola, di essere un tu. La

personalità è così intesa come possibilità di esprimersi e come possibilità di essere

interpellato a mo’ di io-tu. L‟io e il tu, intesi non come pronomi ma come l‟esserci

immediato della persona stessa, esistono sempre nella reciproca relazione, e la parola è

ciò mediante cui l‟affermazione dell‟esistenza e il rapporto scambievole vengono “posti”

oggettivamente [il corsivo è mio]» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.175). 244

«L‟uomo abusa continuamente del dono della parola per discorsi futili.» (Ebenr,

Ferdinand, Parola e amore,cit., p.58). «L‟abuso della parola, radicato nella chiusura

dell‟io al tu prima che nella mercificazione di questa straordinaria dimensione umana, ha

condotto, direi quasi, a una profanazione del mistero della parola; l‟effetto più eclatante

79

necessario per incontrarsi245

. Il desiderio dell‟uomo di dirsi equivale al

bisogno di trovarsi246

, di viversi, di ascoltarsi!

Per questo Ebner arriva a definire la necessità di un‟educazione che

formi l‟uomo interiormente. Una pedagogia che aiuti l‟individuo ad

ascoltare il suo spirito, a intenderlo, e soprattutto a esprimerlo. Una

paideia che arriva a essere chiamata logoterapia247

, un neologismo

ebneriano che ha in sé intrinseco il significato del suo agire: quello di

nutrire l‟uomo nella sua complessità, al fine di risvegliare il logos –

ritengo sia il fraintendimento della forza insita in essa.» (Ducci, Edda, L’uomo umano,

cit., p. 98).

Inoltre «Se, anziché dire quel che ho da dire, mi accingo a dar voce a un io che vuol farsi

valere. Ho irreparabilmente fallito ciò che avrei avuto da dire; la mia parola entra nella

conversazione in modo falso e la conversazione diventa falsa. Ogni irruzione

dell‟apparenza può danneggiare la conversazione autentica, poiché essa è una sfera

ontologica che si costituisce mediante l‟autenticità dell‟essere.» (Buber, Martin, La

conversazione autentica, in Elementi dell’interumano, cit., p.312) 245

Necessario in quanto «il silenzio rappresenta l‟orizzonte irrinunciabile senza la quale

le parole non troverebbero spazio. Non è assenza di comunicazione; anzi, è il ritmo parola

– silenzio ad assicurare il significato di ogni discorso. Il silenzio è una forma di

linguaggio ed è condizione indispensabile perché ogni parlare abbia senso […] urge [per

questo ] recuperare il significato autentico del silenzio proprio per restituire spessore a

una parola spesso divenuta logora o banale» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra

medicina ed estetica, cit., p.66).

Con questa introduzione è possibile capire l‟affermazione di Ebner, il quale ritiene

l‟esserci «nell‟uomo un silenzio che è silenzio della parola: ogni vera parola del poeta

scaturisce da questo silenzio e vive di esso» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit.,

p.89). Questo perché il silenzio è una vera disposizione fondamentale per l‟ascolto del sé;

esso, infatti, funge «da cassa di risonanza per invitare strategicamente chi parla ad

ascoltarsi per riflettere». (De Rossi, Marina, Didattica dell’animazione, Carocci, Roma,

2009, p. 119). L‟«opacità del linguaggio, […] corrisponde [infatti] a un‟opacità del nostro

io a noi stessi» (Russo, Maria Teresa, Etica del corpo tra medicina ed estetica, cit., p.72)

ed è per questo che è necessario educare l‟uomo ad ascoltarsi, e soprattutto a prestare

attenzione all‟altro perché solo così potrà vivere la magica emozione di relazionarsi. «C‟è

[infatti] qualcosa di meraviglioso nell‟incontro degli uomini nella vita. L‟incontro in cui

gli uomini non passano semplicemente gli uni accanto agli altri o fanno soltanto un breve

tratto di strada insieme, non è mai un puro caso. Possono venire in mente buoni pensieri,

ai quali non si sarebbe mai pensato; si possono compiere azioni, e non le peggiori, che

non si compierebbero mai se non si fosse incontrata una data persona, sperimentando la

sua amicizia e il suo amore». (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.190). 246

Titolo omonimo di un‟opera teatrale di Pirandello. 247

«Viene spontaneo a questo punto parlare di logoterapia, ma meglio di educazione in

senso totale. La cultura fatta di parole non ha questo potere di risvegliare lo spirituale

nell‟uomo anche se può dargli un dominio sempre maggiore sul cosmo e su tutto quanto è

naturale.»(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.84).

80

ossia il proprio essere – che va esercitato a manifestarsi nella propria

parola248

.

Per questo la pedagogia dell‟espressione deve intervenire e riflettere

sul modo migliore per educare – ed abituare – gli uomini a vivere il

proprio punto vivo249

, perché solo con questo con-tatto intimo

riuscirebbero a parlare autenticamente. Sarebbero, ovvero, capaci di

viversi, e di agire secondo il proprio spirito, divenendo solo allora

disponibili ad aprirsi verso l‟altro250

.

Vien da se capire quanto applicare questa modalità di educazione – la

logoterapia – potrebbe rivoluzionare non solo la prassi della

pedagogia dell‟espressione ma la relazione stessa. Non solo perché i

bambini imparerebbero a incontrarsi autenticamente – in quanto

saprebbero esprimersi come il proprio sentire vuole –, ma perché

imparerebbero a vivere le parole. Imparerebbero, cioè, a intendere le

parole che ascoltano secondo l‟intreccio relazionale che le unisce al

bene. Distinguerebbero la realtà, riconoscerebbero la verità, si

nutrirebbero di umano! Perché, dopo essere entrati in contatto con il

vero bene, dopo aver vissuto l‟appagamento spirituale che dona la

248

Non a caso la parola in greco si traduce con il vocabolo logos, che significa anche

essere. Cfr. nota n. 111. 249

Cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit. 250

Questo è un argomento che la pedagogia interculturale, in particolare, dovrebbe essere

capace di trasmettere. Perché questo tipo di relazione – e di conseguenza di vivere –

sarebbe rivoluzionaria per la relazione con lo straniero. Bisogna infatti vedere e vivere la

diversità non come uno ostacolo, una minaccia alla propria identità (cfr. Cotesta, Vittorio,

Sociologia dello straniero, Carocci, Roma, 2012, p.25), ma come un accrescimento al

proprio vissuto, perché grazie alla vita dell‟altro possiamo imparare a guardare la realtà

da nuovi punti di vista. Un pensiero che ritroviamo anche in Ricoeur in riferimento alla

traduzione delle lingue, in quanto ogni nostra parola ha di per sé un senso che è

condizionato dal contesto (cfr. Ricoeur, Paul, Tradurre l’intraducibile, cit., p. 45), ma nel

momento in cui viene ascoltata da un Tu, essa richiama nell‟Io la capacità di tradursi e di

essere compresa dall‟altro come lei stessa si vuole (cfr. Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere,

cit.); e questo fa sì che due soggetti possano incontrarsi autenticamente, e soprattutto,

intrinsecamente.

81

vista del mondo illuminato dall‟aletheia – in questo caso, lo spirito –,

gli uomini sarebbero spronati di agire altrettanto, in quanto

consapevoli che, attraverso le loro azioni, sia se stessi sia il mondo,

diventerebbero autentici.

Concetto che necessariamente ci rimanda al dinamismo interiore della

mimesis non solo per l‟immedesimazione che gli uomini hanno con il

bene, ma per la creazione di azioni – di espressioni – che nascono da

questo incontro251

. Relazione che l‟uomo intraprende quando passa

«dall‟ignoranza dell‟esserci della dualità della realtà spirituali al

vivere nelle realtà spirituali»252

; quando vive, cioè, una pienezza di

vita spirituale dentro di sé, e nel mondo. Una pienezza che può sentire

solo quando tenta di plasmare davvero la lingua (la parola oggettiva,

riconosciuta da tutti) secondo la sua parola.

Ci tengo per questo a precisare la forma vera della parola, non solo

perché Ebner stesso scinde il linguaggio nelle parole con quello fatto

di parole253

, ma perché attraverso questa distinzione possiamo aprire

una parentesi sulla capacità dell‟uomo di oggi di parlare. Come infatti

afferma Ebner, l‟uomo contemporaneo utilizza un linguaggio che

nella nostra quotidianità potremmo definire tecnologico. Un

linguaggio che si distacca totalmente dal contatto con l‟altro – in

quanto parla in terza persona254

–; usa le parole come strumenti utili ai

251

Incontro che avviene «soltanto [quando] la parola che l‟uomo ode interiormente e

pronuncia rivolgendo all‟altro rompe il terribile silenzio circoscritto dalla muraglia

cinese» (Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p.146) 252

Ivi, p.147 253

Cfr. Ebner, Ferdinand, La parola è la via, cit. p. 83. 254

«[…] c‟è il linguaggio che corre tra la prima e la seconda persona, e senza la relazione

dell‟io al tu non ci può essere nessun linguaggio vero, e c‟è il linguaggio che si fonda e si

snoda sulla terza persona. Ebner è totalmente preso dal primo, sente estraneo a sé il

secondo, e se lo affronta lo fa per compiutezza di analisi a guisa di una riflessione sul non

essere che facilita la comprensione delle misteriose categorie dell‟essere.» ( Ducci, Edda,

82

suoi scopi255

, e rende ogni concetto come un oggetto esterno

impalpabile. Un linguaggio che , ahimè, trovo dilagante nella nostra

società in quanto corrisponde all‟intento scientifico (e psicologico) di

indagare il problema dell‟uomo riducendo il mistero dello spirito

umano a un‟entità esterna, rilevabile e schematizzabile

quantitativamente. Questo perché «quello della lingua è un problema

inesauribile perché in esso c‟è il mistero della vita spirituale»256

, e non

è possibile allora pensare di studiare il linguaggio come una materia

scientifica, perché vorrebbe dire analizzare l‟esistenza dell‟uomo

come se fosse un oggetto. Perché se l‟uomo è un essere parlante – nel

senso che ha in sé il bisogno e potenzialità di parlare all‟altro – e la

parola è espressione primaria della sua essenza, l‟intento di codificare

le sue azioni linguistiche come eventi statistici, sarebbe la morte

spirituale dell‟esistenza umana.

La parola nell’uomo, cit., p.80). Riporto qui di seguito l‟intero passaggio in cui Ebner

riflette e distingue i due linguaggi.

«C‟è dunque il linguaggio tra l‟io e il tu, e c‟è il linguaggio in cui il vero io non entra

come tale e che si svolge tutto alla terza persona. I due linguaggi, pur identici nella

costituzione formale, sono eterogenei, accumunati dal solo suono dei vocaboli. Ben

distinguibili in astratto, ma non altrettanto in concreto, nel vissuto effettivo. Il dire che il

linguaggio umano e umanante in senso emergente è il rivolgersi dello spirituale nell‟io a

qualcosa di spirituale distinto da lui è di facile dizione ma non di facile comprensione

vera. D‟altra parte il linguaggio oggettivo contro la impalpabilità di quello soggettivo ha

la massiccia imponenza della cultura intesa nel senso più amplificato del termine; e

indubbiamente non è per sé disumanante. Non ha però la possibilità di dare all‟io sono la

risonanza che solo il tu sei può dargli, perché è un linguaggio in cui l‟io entra come

semplice particella grammaticale, o con la verità sempre incompiuta del suo essere la sola

metà di un intero. Il linguaggio tra l‟io e il tu è ben flebile rispetto al linguaggio alla terza

persona.» (Ivi, p.81) 255

Approccio che mi rimanda molto al pensiero sofistico: una corrente filosofica

contemporanea ad Aristotele che, non a caso, critica ferreamente (cfr. Aristotele,

Retorica, Mondadori, Milano, 1996, I, 1354a – 1355b) poiché è una corrente che tende a

considerare la retorica come arte della persuasione basata non su ragionamenti (entimemi

– cfr. Ivi, 1356b) ma sulle opinioni. 256

Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., p. 84

83

«Nella conversazione autentica [invece] il rivolgersi al compagno

avviene in tutta verità, come rivolgersi dell‟essere»257

, perché

nell‟incontro autentico l‟Io e il Tu parlano con un linguaggio che

rappresenta mimesicamente l‟essenza del proprio spirito, e soprattutto,

accolgono l‟altro come individuo258

. C‟è reciprocità, rispetto

dell‟azione interiore percepita, e in particolare desiderio di esprimersi,

di “entrare in contatto con qualcuno”259

.

Per questo l‟incontro perfetto per Ebner consiste nell‟amore260

, perché

qui non troviamo due soggetti che tendono a oggettivizzare l‟altro –

ossia a classificare la sua essenza come un prodotto privo di vita – ma

si avvicinano, si compenetrano, ascoltandosi per ciò che sono. Si

257

Buber, Martin, La conversazione autentica, in Elementi dell’interumano, cit., p.310. 258

«Ma colui che parla non percepisce solo colui che gli si è fatto presenza, lo assume

come suo interlocutore, e ciò significa che egli conferma, per quanto è in suo potere,

quest‟altro essere. Il vero rivolgersi del suo essere all‟altro implica questa conferma,

questa accettazione». (Buber, Martin, La conversazione autentica, cit., p.311) 259

Cfr. Buber, Martin, Dialogo, cit., p. 206. 260

Non a caso afferma Ebner che «la parola nell‟uomo deve nascere dall‟amore, l‟amore

deve portare la parola sulla strada dall‟io al tu, soltanto nell‟amore, nel quale l‟io esce

dalla chiusura interiore e si apre al tu, la parola può essere feconda e può generare vita

spirituale nell‟uomo al quale essa viene indirizzata». (Ebner, Ferdinand, La parola è la

via, cit., p. 100). Solo parlando con profondità si potrà ovvero dar vita a una «vita

dialogica [che] non è quella in cui si ha a che fare con molti uomini, ma quella in cui si ha

davvero a che fare con gli uomini con cui si ha a che fare». (Buber, Martin, Dialogo, cit.,

p.206). Per vivere questa relazione, però, «si deve capire la parola partendo dall‟amore,

altrimenti non la si capisce nella sua natura profonda. Quelli che riflettono sulla parola

devono essere filologi, devono amare la parola. Ma si deve anche illuminare l‟amore con

il significato essenziale della parola – altrimenti alla fine lo si intende, o lo si fraintende,

soltanto come amor proprio, autofilia, cupidigia, avidità, e quando va bene, come l‟eros

della filosofia di Platone. Il vero amore invece è di più, è qualcosa di assolutamente

diverso dall‟amore platonico. Esso è – come la parola – la realizzazione del rapporto al tu

[…]» (Ebner, Ferdinand, Parola e amore, cit., p.137). Non a caso troviamo in Essere e

comunicare questo meraviglioso passaggio, che proprio per la sua bellezza, mi preme

riportare integro: «Ed è in forza di questa partecipazione che l‟amore pronuncia

nell‟uomo la parola giusta, ma, a sua volta, la parola giusta accende nell‟uomo l‟amore, sì

che la parola si può indicare, per questo suo identificarsi con l‟amore, con il potere offerto

all‟uomo di uscire dall‟alienazione e dall‟isolamento. Nella parola l‟io è, dunque, in

cammino verso il tu, non come un viandante che brancola privo di orientamento, ma

come colui che si incammina a mo‟ di risposta, perché un Tu gli ha rivolto una parola-

creante, offrendogli il potere di spezzare “la muraglia cinese dell‟io”» (Ducci, Edda,

Essere e comunicare, cit., p.77).

84

donano delle parole che aprono l‟io verso l‟essenza del tu, costruendo

così una relazione edificante261

. Non una comunicazione vuota, ma

ricca di umano in quanto racchiude e dischiude la nuda espressione

dello spirito in una forma vivente.

Per questo, «dove invece la conversazione si realizza nella sua

essenza, tra interlocutori che si sono rivolti l’uno all’altro nella verità,

si esprimono senza riserve e sono liberi dal voler apparire, si realizza

una memorabile fecondità comunitaria, che non si trova in nessun

altro luogo. Di volta in volta la parola si costituisce in moda

sostanziale tra gli uomini che vengono toccati e dischiusi in

profondità dalla dinamica di una comunicazione elementare.

L‟interumano apre l‟accesso a ciò che altrimenti resta inaccessibile.»

262.

261

Cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit. 262

Il corsivo è mio. (Buber, Martin, La conversazione autentica, in Elementi

dell’interumano, cit., p. 312).

85

Conclusione

A seguito delle conclusioni riportate nel capitolo precedente,

possiamo quindi giungere ad affermare che «la parola, identificandosi

con l‟amore e permeando tutte le possibili valenze e virtualità del

linguaggio, consente al soggetto di protendersi alla relazione più vera

e profonda con chi già è inserito nella comunione per la

partecipazione […]»263

. Possiamo ossia confermare che la parola,

essendo rappresentazione mimesica del proprio spirito, permette, per

coloro che la agiscono, di entrare autenticamente in relazione.

Questo in quanto, grazie alla sua forma percepibile, riesce a essere

presente corporeamente tra gli altri; riesce ovvero a creare un rapporto

in cui i soggetti che parlano e si ascoltano, non si sfiorano

superficialmente, ma si compenetrano fin nell‟interiorità. Questo

perché, per merito della sua esteticità, disvela nell‟incontro con l‟altro,

la verità dell‟Io. Crea, cioè, le condizioni per legare intimamente gli

individui gli uni dentro gli altri.

E proprio per questo suo valore intrinsecamente umano, la mia

ricerca ha voluto indagare il suo agire, la sua forma, la sua essenza, al

fine di possedere le vere basi con le quali l‟azione educativa possa

costruire un incontro dialettico autentico.

Un «incontro [che], in quanto momento mutamente costruttivo,

relazione intrinseca e dialettica tra la dinamica di due volontà, indica

263

(Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p.111). «Ogni parola nella vitalità del suo

essere pronunciata è una manifestazione della vita spirituale nell‟uomo. Cioè ogni parola

pronunciata vitalmente in certo modo lega l‟io nell‟uomo al suo tu, ma tra l‟io e il tu ha

luogo tutta la vita spirituale nell‟uomo» (Ducci, Edda, Approdi dell’umano, cit., p. 135).

86

la presenza di una scelta264

[corsivo mio] – si incontra l‟altro solo

nella misura in cui si sceglie d‟incontrarlo.»265

.

Se ripercorriamo il viaggio di questa ricerca, possiamo infatti

trovare inizialmente il contributo di Aristotele il quale ha offerto, non

solo alla riflessione pedagogica ma all‟intera umanità, l‟eccellente

definizione che ogni azione è espressione dell‟esistenza umana266

. E se

consideriamo la parola come azione espressiva, una modalità

attraverso cui l‟uomo comunica il suo pensiero, possiamo ben

intendere la nobiltà di questo atto nella vita umana. In quanto non

consente all‟uomo solo di comunicarsi, di confermarsi, di sentirsi, ma

essenzialmente di esistere! E questo è possibile solo se la sua essenza

264

Ho voluto evidenziare questa parola per rimandare a un concetto che abbiamo

affrontato nel primo capitolo con Aristotele, ossia la volontà di scegliere (cfr. Aristotele,

Etica Nicomachea, cit., 1111b, 5-27). Ritrovarlo qui è decisamente impegnativo in quanto

ci porta a riflettere quanto la presenza dell‟Io nell‟incontro autentico non è casuale, ma

sentita. È deliberata dalla ragione, è desiderata dall‟anima. Coinvolge l‟intera complessità

dell‟uomo, ed è per questo che Edda Ducci nel suo discorso filo-educativo

sull‟intenzionalità del rapporto intersoggettivo (cfr. Ducci, Edda, Essere e comunicare,

cit., p.139) cita l‟VIII libro dell‟Etica Nicomachea in quanto le permette di sottolineare

quanto la relazione con l‟altro sia essenzialmente un‟azione, un atto che coinvolge ogni

fibra dell‟essere dell‟uomo sia nell‟agire che nel ricevere, e nutre – educa – l‟uomo di

umanità. Infatti, «stabilire un rapporto intersoggettivo diviene l‟ambiente adeguato per un

vicendevole sollecitarsi all‟agire virtuoso, mentre l‟agire virtuoso rinsalda e facilita il

rapporto intersoggettivo, conferendogli una stabilità quasi assoluta». (Ducci, Edda, Essere

e comunicare, cit., p. 141). Come infatti afferma Aristotele, il voler bene dell‟altro non è

una passione, ma una scelta che nasce da una deliberazione (cfr. Aristotele, Etica

Nicomachea, cit., 1157b, 31-34). È uno stato abituale (cfr. Ibidem) che va coltivato e che

può perfezionarsi fino all‟amore (cfr. Ivi, 1159a, 33-35). Luogo in cui la parola “nella

reciprocità dell‟intendere” (Scaramuzzo, Gilberto, In-tendere, cit., p.164) sprigiona la sua

unicità abbracciando la lingua dell‟altro. 265

Ducci, Edda, Essere e comunicare, cit., p. 137. «L‟umano e l‟umanità si realizzano in

incontri veri. Qui l‟uomo non fa esperienza di sé solo come limitato dall‟altro uomo,

come rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di completamento, ma il

rapporto che egli ha con la verità si innalza per lui alla verità stessa, mediante un rapporto

che, dal punto di vista dell‟individuazione, è diverso dall‟altro e che è destinato a

germogliare e a crescere sempre diversamente. È necessario agli uomini, ed è loro

concesso, di confermarsi a vicenda, nel loro essere individuale, negli incontri veri […]»

(Buber, Martin, Il rendere presenza, in Distanza originaria e relazione, cit., p.290). 266

Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., 1168a, 5-10.

87

più segreta sia calata nel corpo che più le è proprio (in questo caso la

voce) e diviene presenza, apertura nella relazione.

Il movimento attraverso cui però l‟uomo riesce a dare una forma

percepibile, vivente, significante267

alla parola, lo abbiamo analizzato

nel secondo capitolo, in cui, grazie alle parole di Platone, riscopriamo

un dinamismo estremamente presente, ma per lo più inconsapevole.

Mi sto riferendo alla mimesis268

, l‟energia che permette all‟uomo di

divenire la propria essenza al fine di trasformarla in una

rappresentazione mimesica. Una rappresentazione che racchiude il

movimento creatore della mimesis, e pone le condizioni per un

soggetto Tu, di accogliere e penetrare a sua volta nell‟essenza dell‟Io

percepita.

Questo affinché sia possibile attuare quel dialogo autentico che ha

spinto questa ricerca ad indagare nella sua profondità l‟agire più

umano, ma anche più abusato: la parola. La rappresentazione estetica

e mimesica per eccellenza che, come abbiamo appreso nelle pagine di

Ferdinand Ebner, non rivela solo la natura dialogica dell‟uomo269

, ma

pone lei stessa le basi per edificare un rapporto intersoggettivo

267

Cfr. Costa, Vincenzo, La fenomenologia, cit., pp.83-84. «Il significare è appunto un

atto intenzionale, e i vissuti intenzionali sono gli atti in virtù dei quali qualcosa diviene

oggetto per noi: l‟aver senso delle espressioni linguistiche si accompagna così

necessariamente al loro essere riferite a un oggetto.» (Ivi, p. 85). 268

(Platone, La Repubblica, cit., III, 393c) 269

«Che cosa è la parola come conversazione? Si svolge tra colui che parla e colui a cui

il discorso è rivolto. Colui che parla “ha la parola” e perciò parla. Non parlerebbe però se

non presupponesse in colui a cui il discorso è rivolto “il senso della parola”. Avere il

“senso per la parola” non è niente altro che la “passività” nell‟aver la parola, come il

discorso ne è l‟”attività”. La conversazione si svolge sempre tra due che hanno la parola,

l‟uno attivamente l‟altro passivamente. Così nella conversazione l‟attività di chi ha la

parola come anche la passività, in quanto se ne fa uso ascoltando il discorso, pone i due in

quella relazione tutta particolare che già è data nell‟essenza della parola come

conversazione».(Ducci, Edda, La parola nell’uomo, cit., pp.69-70)

88

autentico: un dialogo-vita270

. Idioma utilizzato da Edda Ducci che

esprime e racchiude, a mio parere, l‟intensità e sintesi della mia

ricerca. Una tesi che ha avuto la timida ambizione di ridonare valore

est-etico alla parola attraverso lo svelamento della sua interiorità e

corporeità, al fine di affermare il suo compito paideutico: quello di

costruire un legame interumano in cui l‟Io e il Tu sappiano parlare

secondo la propria autenticità, e siano capaci – desideranti – di vivere

l‟altro come lui stesso si vuole.

Solo così sarà possibile edificare una società che sia comunitaria:

una collettività271

che ama se stesso e rispetta l‟altro, proprio perché sa

parlare – agire – bene.

270

Infatti «per la filosofia dell‟educazione il dialogo-vita è fine a cui tende l‟azione

educativa in quanto la capacità di dialogare a livello vissuto rivela che il soggetto ha

superato la soglia per una vera maturità umana, ma è, nello stesso tempo, mezzo, e mezzo

insostituibile per quel rapporto che, in quanto attinge la massima profondità di livelli, è

chiamata consona per le dimensioni qualificanti del soggetto.». (Ducci, Edda, Essere e

comunicare, cit., p.208). 271

«La collettività non è solidarietà, è affastellamento: impacchettati insieme, individuo

vicino a individuo, insieme armati, insieme allineati; fra uomo e uomo tanta vita quanto

basta a infiammare il passo di marcia. Ma la comunità, la comunità in divenire (solo

questa finora conosciamo) consiste nel non essere più semplicemente uno vicino all‟altro,

ma nell‟essere uno presso l‟altro di una molteplicità di persone che, anche se si muove

insieme verso un fine comune, ovunque fa esperienza di una reciprocità, di un dinamico

essere di fronte, di un flusso dall‟io al tu: comunità è là ove la comunità avviene.» (Buber,

Martin, Dialogo, cit., p.218)

89

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Ringraziamenti

Ringrazio la mia famiglia, per avermi supportato – e sopportato – in

questi anni di studio, perché senza il loro esempio e la loro pazienza,

non sarei riuscita a essere così determinata.

Ringrazio le mie amiche, per avermi accompagnato in questo viaggio,

perché è assieme a loro che sono maturata.

Ringrazio i miei professori, senza i quali questo lavoro non sarebbe

potuto nascere. Perché è grazie ai loro insegnamenti che ho sentito

l‟esigenza di riflettere.